Il petrarchismo. Un modello di poesia per l'Europa [Vol. 1] 8878701815, 9788878701816

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Il petrarchismo. Un modello di poesia per l'Europa [Vol. 1]
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«Europa delle Corti» Centro studi sulle società di antico regime Biblioteca del Cinquecento

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– 128 –

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Ministero per i Beni e le Attività Culturali Direzione generale per i Beni librari e gli Istituti culturali Comitato nazionale per il settimo centenario della nascita di Francesco Petrarca

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Università di Roma La Sapienza Dipartimento di Italianistica e Spettacolo

Petrarca, Petrarchismi. Modelli di poesia per l’Europa a cura di

Floriana Calitti, Roberto Gigliucci, Amedeo Quondam

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Il Petrarchismo. Un modello di poesia per l’Europa VOLUME I

a cura di

Loredana Chines

BULZONI EDITORE

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ALMA MATER STUDIORUM UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BOLOGNA

FONDAZIONE CASSA DI RISPARMIO IN BOLOGNA

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Dipartimento di Italianistica

Volume pubblicato con i contributi dell’Ateneo di Bologna – Alma Mater Studiorum, della Fondazione Carisbo di Bologna, e del Comitato Nazionale per le celebrazioni del VII centenario della nascita di Petrarca (2004)

TUTTI I DIRITTI RISERVATI È vietata la traduzione, la memorizzazione elettronica, la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22/04/1941

ISBN 978-88-7870-181-6

© 2006 by Bulzoni Editore 00185 Roma, via dei Liburni, 14 http://www.bulzoni.it e-mail: [email protected]

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INDICE

IN APERTURA

GIAN MARIO ANSELMI, L’eredità di Petrarca ....................................

pag. 13

AMEDEO QUONDAM, Sul Petrarchismo ...............................................

»

27

WALTHER DÜRR, Il sonetto di Petrarca fra madrigale e lied: Marenzio, Schlegel e Schubert ..................................................................

»

93

PETRARCHISTI

DAVID QUINT, Schiavi del tempo: Petrarca e Ronsard .....................

» 113

IAIN FENLON, Petrarch, Petrarchism and the Origins of the Italian Madrigal ..........................................................................................

» 129

RITA MARNOTO, Laura Bianca, Bárbora nera. Le letture di Camões come riconversione al canone .........................................................

» 145

FRANCO PIPERNO, Petrarchismo, editoria, musica: la ‘raccolta di diversi’ e le edizioni collettive di madrigali .......................................

» 161

7

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Indice

PAOLA VECCHI GALLI, Donna e poeta. Metamorfosi cinquecentesche .................................................................................................

pag. 189

TOBIA R. TOSCANO, I petrarchisti napoletani e il Siglo de oro ..........

» 217

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LIBRI

WILLIAM J. KENNEDY, Petrarca come “Homo Economicus”: il Petrarchismo in Ronsard e Shakespeare ............................................

» 241

CRISTINA MONTAGNANI, Geografia e storia di un «fragmentario poetico»: il codice Isoldiano .................................................................

» 255

STEFANO CARRAI, Un petrarchista veneziano prebembesco .............

» 275

H. WAYNE STOREY, Canzoniere e Petrarchismo: un paradigma di orientamento formale e materiale ....................................................

» 291

SIMONE ALBONICO, Rasta. Raccolte a stampa antologiche del petrarchismo e della poesia italiana dal Cinque al Settecento ..................

» 311

MARIA GIOIA TAVONI, Elementi del paratesto nelle edizioni dei Trionfi con il commento dell’Ilicino (secoli XV e XVI) ..........................

» 349

LINGUE, TOPICHE: ITALIA, EUROPA

JEAN BALSAMO, Petrarca nei trattati francesi d’arte poetica del Cinquecento ..........................................................................................

» 375

TIM CARTER, Tutto ’l dí piango...: Petrarch and the «New Music» in Early Seventeenth-Century Italy..................................................

» 391

8

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Indice

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MARIO DOMENICHELLI, La lingua della percezione di sé. Il Petrarchismo inglese ................................................................................

pag. 405

LUCA MANINI, Dal caos al cosmos: il canzoniere di Edmund Spenser ..

»

427

RINALDO RINALDI, «O petrarchisti, che vi venga il cancaro». Nicolò Franco e la parte del vero nel codice lirico cinquecentesco ............

» 443

BOJAN BUJIC, Stilemi petrarcheschi nei libretti delle prime opere in musica .............................................................................................

» 465

MARCELLO CICCUTO, Petrarchisti al servizio dell’arte, perplessi ....

» 485

ANTONIO GARGANO, Il lugar di Garcilaso .......................................

» 495

JOSÉ MARÍA MICÓ, Il canzoniere di Quevedo ..................................

» 511

FRANK LESTRINGANT, Le pétrarquisme d’Agrippa d’Aubigné .........

» 531

FRANCESCO TATEO, Petrarchismo spirituale. La poesia sacra di Muzio Sforza .........................................................................................

»

DONATELLA PALLOTTI, Dal salmo al sonetto: la meditazione penitenziale di Anne Vaughan Lock ............................................................

» 559

547

IN CHIUSURA GUGLIELMO GORNI, Perché non possiamo non dirci petrarchisti. Abbozzo di un bilancio di vita e opere ...........................................

» 581

INDICE DEI NOMI ...............................................................................

» 591

INDICE DEI MANOSCRITTI....................................................................

» 615

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IN APERTURA

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Gian Mario Anselmi

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L’EREDITÀ DI PETRARCA

È tutt’altro che una formula di rito quella che vuole Petrarca come autentico maestro del sapere europeo, padre di quell’umanesimo che trovò nell’intreccio tra saperi, “humanae litterae” ed impegno civile di impronta etica una delle sue più originali peculiarità. C’è già in Petrarca, in effetti, come ben ebbe a sottolineare Francisco Rico, tutto quello slancio (“sogno”) di una rifondazione dell’Italia e di Roma da un’ottica non angusta, europea: come pochi egli ebbe il merito di collocarsi e dislocarsi da un “altrove” (concretamente tangibile nel suo incessante peregrinare tra Italia, Francia, Nord Europa) mai municipale1. La sua stessa formazione, la sua cultura, la sua produzione è come se incrociassero per un verso la grande tradizione classica mediterranea e dall’altro le molteplici linfe di tutta una letteratura medievale europea (nelle decisive esperienze di Avignone e del costante rapporto con tanti amici e corrispondenti dell’Europa settentrionale, fiamminga e tedesca in particolare)2. La sua formazione filosofica ambisce di misurarsi coi modelli greci (pur non conoscendo la lingua) tanto che, com’è stato anche di recente notato, egli svolse un ruolo tutt’altro che secondario nella riscoperta del modello platonico come contraltare all’egemonia scolastico – aristotelica e come viatico 1

F. Rico, Il sogno dell’Umanesimo, Torino, Einaudi, 1998. Cfr. ora, per una importante messa a punto dell’intera produzione di Petrarca nei nessi con la sua biografia, M. Feo (a cura di), Petrarca nel tempo. Tradizione, lettori e immagini delle opere, Catalogo della Mostra a cura del Comitato Nazionale per il VII Centenario della nascita di F. Petrarca, Arezzo, 2003. 2

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Gian Mario Anselmi

di una visione dialogica e tollerante tra vari percorsi filosofici (auspice il suo amato Cicerone ovviamente), visione poi affermatasi come decisiva tra umanesimo e rinascimento3. Questo dialogo incessante di Petrarca con le ragioni della classicità greco-romana e con le tradizioni nordiche dell’Europa (anche quando in polemica con esse) è di fatto la messa in campo di un “tragitto”del pensiero europeo moderno tutto e che tornerà decisivo con Goethe e con la cultura tedesca fra Sette e Ottocento: ci troviamo in altre parole di fronte a un paradigma petrarchesco fondativo di un paradigma moderno per eccellenza, quello che del resto porterà la cultura germanica a “reinventare” mediterraneo e rinascimento mescolando le carte di più culture4. Ovvero il mito rinascimentale che ancora oggi ci intriga è frutto di una “invenzione” tedesca a sua volta maturata tra le suggestioni di Petrarca e di Tasso! La funzione della memoria e della scrittura allora assume in Petrarca una valenza dirompente (la macerazione del lavoro postillatorio sui libri e la macerazione nella creazione del “libro”, dei “libri” come auctor in perenne dialogo con altri auctores): nella memoria e nella scrittura si pongono le fondamenta, infatti, per ciò che prima si diceva, di una identità al tempo stesso individuale e plurale, storica5. Laddove si è giustamente insistito sul Petrarca fondatore del moderno esistenzialismo, dell’inquietudine psicologica e religiosa, dell’interiorità occorre anche dare rilievo primario a questo “altro” Petrarca, a colui che, mentre costruisce il tessuto letterario del suo apprendistato interiore e sentimentale, in realtà gioca ugualmente memoria (e oblio) e scrittura sul terreno di una identità etica e civile primaria per definire il tessuto connettivo di quella che, “ante litteram”, potremmo chiamare una sorta di nuova cittadinanza europea6. E non a caso Coluccio Salutati e Leonardo Bruni, i cancellieri aretini della Repubblica fiorentina e del suo umanesimo civile, evocano direttamente Petrarca come maestro imprescindibile per tali valori più ancora che per la sua ormai già canonica lezione lirica e poetica. Se abbiamo piena consapevolezza di questi ulteriori picchetti posti da Petrarca nel suo itinerario molteplice e rigoroso allora anche per la sua rice3 Importane oggi di C. Vasoli (a cura di), La filosofia del Rinascimento, Milano, B. Mondadori, 2003. 4 Cfr. G. M. Anselmi (a cura di), Mappe della letteratura europea e mediterranea, 3 volumi, Milano, Bruno Mondadori, 2000-2001. 5 Si veda di C. Berra (a cura di), Motivi e forme delle “Familiari” di F. Petrarca, Milano, Cisalpino, 2003. 6 U. Dotti, La città dell’uomo, Roma, Editori Riuniti, 1992; AA.VV., Il Petrarca latino e le origini dell’umanesimo, “Quaderni petrarcheschi”, IX-X (1992-93), Firenze, Le Lettere.

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L’eredità di Petrarca

zione (che va molto di là dalla consueta accezione del “petrarchismo” in poesia) ci è utile partire da testi noti ma non tutti così scontati nell’accezione che qui vogliamo sottolineare. E, inaspettatamente, ci viene innanzi Machiavelli. La chiusa del più celebre e più spregiudicato trattato di politica di tutti i tempi, il Principe, è occupata, com’è noto, da una memorabile citazione della Canzone all’Italia di Petrarca. Episodio tanto eclatante quanto finora inevaso nella sua reale portata e dalla critica petrarchesca e da quella machiavelliana: Machiavelli non ama le citazioni letterali, nel suo trattato tutto appare distante dall’umanesimo petrarchesco eppure egli, con un atto volontario forte e per nulla ascrivibile a una semplice esigenza retorica ed enfatica (come si è invece sempre detto), decide di apporre la sigla finale delle sue pagine più intense e rivoluzionarie con le parole del Petrarca etico – politico. Ovvero, all’altezza del 1513, tutto ciò significa che l’ immagine del Petrarca maestro di una nuova identità italiana si era così consolidata da costringere Machiavelli a misurarsi con quella lezione come a una lezione fondante e decisiva. Ogni renovatio politica, ogni percorso etico e civile nuovo doveva ricominciare da Petrarca, anche per il “luciferino” Machiavelli. Qui sta in un certo senso l’inizio dell’altro petrarchismo; il Principe è come l’atto costitutivo che ci rende esplicito quanto quel Petrarca abbia segnato la storia culturale e civile europea: insomma una citazione che è al tempo stesso un segno di una intera episteme culturale. Solo così, e proprio partendo dall’insospettabile Machiavelli, ci appare chiaro quanto tanti studiosi da sempre ci dicono, ovvero dell’immensa fortuna del Petrarca trattatista, politico, storico, per lo più in latino ma anche in memorabili versi volgari, in tutta la cultura europea per secoli. Anche perché le “spie” machiavelliane non si riducono solo a questa celebre citazione. Due citazioni sono contenute in lettere del 1513 e del 1514. La rappresentazione della “condizione umana” con gli accenti del II libro del Secretum ha fortissime contiguità (mai segnalate) col III libro delle Istorie fiorentine e in particolare col memorabile discorso del Ciompo anonimo. Ma soprattutto, in Istorie, VI, 29, a proposito della congiura a sfondo libertario tentata a Roma nel Quattrocento da Stefano Porcari in un clima di utopico anelito alla renovatio, Machiavelli cita “Spirto gentil” e aggiunge: “Sapeva messer Stefano i poeti molte volte essere di spirito divino e profetico ripieni, tal che giudicava dover … intervenire quella cosa che il Petrarca profetizzava in quella canzone, ed essere egli quello che doveva essere di si gloriosa impresa esecutore …. superiore per eloquenza, dottrina, grazia, amici ad ogni altro romano”. La renovatio, nel Principe, come nelle più tarde Istorie, passa per un protagonista calcato sui testi politici in versi più noti di Petrarca, le due grandi canzoni: ed è da notare come le doti di superiorità che il Porcari, nell’interpretazione di Machiavelli, si attribuisce si collochino

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Gian Mario Anselmi

ormai nella trafila che, di li a poco, approderà al Castiglione e già, tra Pontano e Bembo, si era delineata sulla scorta di quel petrarchismo etico e politico che tanto segnerà il Cinquecento europeo (la “saggezza” del politico con eloquenza, dottrina, grazia, amici, tutti termini essenziali in tal senso). Non solo, ma la testimonianza di Machiavelli, vera o falsa che sia, ci attesta col Porcari una precoce, quattrocentesca e ormai consolidata immagine del Petrarca maestro di etica e politica7. Ancora: la procedura di accostare l’esempio storico antico, per lo più classico, a quello più recente o contemporaneo che Machiavelli rende celebre con la formula della lezione delle cose antiche e dell’esperienza delle cose moderne è la riproposizione di un metodo storico – interpretativo avviato da Petrarca coi Rerum memorandarum libri ma in vario modo operante, come fertile paradigma, nel De viris illustribus, nel De remediis, nel Triumphus Fame II. Ovvero il circuito in grado di leggere la realtà presente in un andirivieni ermeneutico, fronte a fronte, con l’esemplarità del passato, specie romano e specie liviano (il Livio riveicolato definitivamente e filologicamente da Petrarca) gioca, attraverso il crocevia fiorentino quattrocentesco e poi machiavelliano (e nei Discorsi del Segretario é proprio Livio a campeggiare), un ruolo importantissimo sui percorsi della trattatistica politica e storiografica moderna. Del resto, come gli studi di Paolo Cherchi hanno ampiamente mostrato, ci troviamo di fronte a quel fenomeno di lunga durata, nella tradizione classica e poi moderna, che è dato dalla “concordanza delle storie”: tra Valerio Massimo e Petrarca e poi fino a Machiavelli (ma anche tramite il Boccaccio del De casibus virorum illustrium) si va delineando, con l’uso dell’esempio storico comparato, una morale mondana europea anche media e quotidiana che permea tanti testi a vastissima diffusione europea (da quelli di Ravisio Testore, del Lando fino a quelli del Garzoni, del Guevara o di Pedro Mexias). E non a caso una particolare ricezione del Petrarca filosofo è ancora significativa e rilevante per il Bruno de Gli heroici furori 8. E in questo contesto va anche letta la peculiare capacità di Petrarca di misurarsi con la letteratura medievale esemplaristica: il Petrarca si rivela non solo, in tale ambito, e in tutte le opere latine in prosa e in versi, eccellente narratore ma attento scrutatore dell’esemplarità (anche tratta dall’anedottica quotidiana e sermocinale) come paradigma ermeneutico della storia e del suo uso moderno. Un percorso medievale che, ancora una volta, tra Petrarca e 7 Cfr. A. Montevecchi, Biografia e storia nel Rinascimento italiano, Bologna, Gedit, 2004; A. Quondam, Cavallo e cavaliere, Roma, Donzelli, 2003. 8 Cfr. P. Cherchi, Ministorie di microgeneri, Ravenna, Longo, 2003; Id. Polimatia di riuso. Mezzo secolo di plagio (1539-89), Roma, Bulzoni, 1998.

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L’eredità di Petrarca

Machiavelli va rompendo gli schemi originari per delineare nuove potenzialità storiografiche9. Sicché, anche a voler solo parzialmente accogliere le suggestive indicazioni di un Pocock o di uno Skinner o già di un Baron sulla fondazione fiorentina dell’ideologia libertaria e repubblicana moderna come si dispiega nella storia inglese e americana (la romanitas come fondamento), dobbiamo persuaderci che i picchetti di un paradigma così fertile vanno certamente spostati (le “spie” dei testi machiavelliani ce lo mostrano senza ombra di dubbio ancor più degli scontati riferimenti a un Bruni o a un Salutati) verso Petrarca10. Che del resto gli interessi di Petrarca per la vita civile e l’esempio romano siano continui e che finiscano con il penetrare nei testi costitutivi stessi della modernità lo ricaviamo certo dalle memorabili pagine che egli, in più opere, dedica a Scipione, l’eroe magnanimo per eccellenza della respublica, exemplum per chiunque voglia governare la città e dare un segno alla propria vocazione di leader e civis al tempo stesso: Sallustio, Cicerone, Livio, mediati da Agostino gli consentono una lettura magistrale di quell’eroe e di quell’ideologia repubblicana che trascorrerà in tutto il pensiero successivo. La questione stessa della giusta ambizione politica e della giusta gloria come indispensabili alla vita dello Stato se si sa stare ancorati alla propria magnanimità e non si cede alle lusinghe della gloria come sete di potere e di fama personali attraversano parte cospicua della riflessione petrarchesca, dal Secretum al De viris illustribus all’Africa al De remediis a tante epistole11. Problema scottante che investe un nodo decisivo delle moderne democrazie: come forgiare un ceto dirigente le cui legittime ambizioni collimino con gli interessi dello Stato e non con pratiche privatistiche di accumulo di poteri e di insane tentazioni per la tirannide. È tema centrale in Bruni, è tema che inquieterà Alberti, Erasmo, Machiavelli, Guicciardini e avrà lunga permanenza, con modalità varie e disparate, fino a Montaigne e Pascal. Il rovello di Petrarca sulla gloria perciò va ascritto non solo a un rovello personale sul senso della sua personale gloria ma a una questione dirimente per deter-

9 Cfr. C. Delcorno, Exemplum e letteratura. Tra Medioevo e Rinascimento, Bologna, Il Mulino, 1989. 10 Cfr. J. G. A. Pocock, Il momento machiavelliano, 2 voll., Bologna, il Mulino, 1980; Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, 2 voll., Bologna, Il Mulino, 1989; G. M. Anselmi, Un itinerario machiavelliano in N. Machiavelli, Le grandi opere politiche a cura di G. M. Anselmi e C. Varotti, vol. II, Torino, Bollati Boringhieri, 1993, pp. 543-574. 11 Per un primo avvio verso queste problematiche v. C. Varotti, Gloria e ambizione politica nel Rinascimento, Milano, Bruno Mondadori, 1998.

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Gian Mario Anselmi

minare le caratteristiche di leaderships adeguate alle nuove identità cittadine: se si parla di petrarchismo e di eredità di Petrarca bisogna esplorare tutte queste latitudini; ben di là da ciò che è riconducibile a inquietudini personali che in realtà erano avvertite da Petrarca stesso così drammatiche proprio perché ne coglieva appieno la contiguità con il destino pubblico e con l’etica civile degli uomini postmedievali. Qui si innesta tutta la rilevante interpretazione di Cesare messa in campo da Petrarca e di recente anche ben sondata da Enrico Fenzi. Petrarca non aveva certo eluso i problemi connessi alle vicende degli “uomini grandi” e alla loro ambizione nonché all’interpretazione storica che ne conseguiva: Scipione, Annibale, Alessandro portano in luce una eccellenza dignitosa nel dominio messa in campo da Petrarca per mostrare infine la superiorità di Scipione e dell’imperium romano. Cesare viene perciò letto come più autentico interprete di una romanitas che aveva avuto come archetipo Scipione. Ma il mutamento tra Repubblica e impero viene giustificato e spiegato da Petrarca come inevitabile nella situazione storica di emergenza data, in cui il raffronto non poteva più istituirsi con un ordinamento repubblicano ormai in irreversibile crisi, ma con gli altri possibili esiti imperiali: “lettore di quanto pensi che la causa di Pompeo fosse più giusta di quella di Cesare?”. C’è un momento, in altre parole, in cui forza e violenza (Fenzi suggerisce “alla Schmitt”) possono rifondare il diritto e le leggi. Occorre chi sappia decidere quando la legge non ha più forza e la forza agisce fuori dalla legge (la “necessità di Cesare”). Siamo di fronte a quella figura di “straordinario datore di leggi” che, ancora una volta, sarà essenziale nel percorso del Principe machiavelliano. E che infatti Petrarca individuava in Cesare piuttosto che nei suoi contendenti: Cesare era l’unico in quei tempi e in quella temperie in grado di rilegittimare nel mondo la romanitas e la sua eccellenza. Petrarca sceglie Cesare senza tradire Scipione. La durezza, l’acribia storiografica, il realismo politico (del resto già evidenti in una lettera al Nelli su Cola del 1352, quando affermava che Cola avrebbe dovuto eliminare in un solo colpo i nemici suoi e della libertà) che Petrarca esibisce ci fanno ragionare sulla sua ineludibile eredità anche all’interno della tradizione politica e storiografica moderna (il che, come si diceva, non sempre è stato sottolineato a dovere), vista per altro l’altissima diffusione e la continua ricezione dei suoi testi. Perciò, anche attraverso Cesare nei suoi tempi e prima ancora Scipione nei suoi tempi, si definiscono e la superiorità del modello romano su quello “asiatico” di Alessandro e la moderna fondazione, tutt’altra da quella medievale di Dante (ancora una frattura di Petrarca con l’epoca che lo ha preceduto), della necessità civile e politica della romanitas comunque intesa. Ma questo quasi inedito e spregiudicato (“machiavellico”) Petrarca non deve

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L’eredità di Petrarca

farci dimenticare la sua attenzione, di grande scrittore etico, alla psicologia e ai turbamenti dei grandi eroi, ai conflitti tra potenza esteriore e labilità del destino individuale, con le sue miserie e le sue lacerazioni (ben evidente tutto ciò nel De remediis): è il grande percorso, insieme etico e letterario, che tra Alberti, Machiavelli, Erasmo giunge, attraverso i decisivi testi secenteschi, ad Alfieri o a Manzoni, tanto per definire dei picchetti emblematici di riferimento12. Del resto Petrarca nella Posteritati si definisce innanzitutto, guarda caso, “filosofo morale e poeta”, quasi a suggellare le impronte con cui i posteri avrebbero dovuto cogliere la sua eredità, ovvero sul fronte etico e civile non meno che letterario. E nella Fam., III, 7, 1, quasi a smentire la fama di troppo distratto studente di diritto a Bologna, mostra di padroneggiare pienamente tematiche care a Bartolo da Sassoferrato e a Marsilio con echi puntuali nei molti scritti, suggerimenti di vere e proprie note costituzionali e giuridiche, che dedicherà a Cola di Rienzo e alla sua esperienza13. E infine, nel De vita solitaria, quella lacerante contraddizione tra otia e negotia, quel parallelo confrontarsi delle giornate dell’affannato ricco e dell’uomo semplice e frugale (topos che ritroverà in Parini ancora un grande cantore) sono ben lontane dal configurare una resa, un recedere, ma sembrano piuttosto venarsi, sempre mediate dall’amato Agostino chiosatore dei Salmi, del secedere senecano, della responsabilità del saggio che non confonde l’impegno etico e civile con l’affaristico interesse personale14. Giova qui rammentare la straordinaria latitudine europea della fortuna di questo Petrarca, ben di là dalle sponde italiche. E senza voler richiamare i notissimi, eclatanti casi di Francia, Spagna, Inghilterra dove la fortuna del poeta volgare corre per secoli parallela a quella dello scrittore latino, basti citare il non sempre ovvio caso tedesco: fino al Barocco in quella cultura la fortuna di Petrarca é soprattutto fortuna del Petrarca latino e morale, da Monetarius, a Zeller, a Pirchkeimer fino a un Opitz. Ma anche in seguito,

12 Per tutto quanto qui argomentato cfr. E. Fenzi, Saggi petrarcheschi, Fiesole, Cadmo, 2003. Ma fondamentale per tutto il Petrarca latino: G. Martellotti, Scritti petrarcheschi, a cura di M. Feo e S. Rizzo, Padova, Antenore, 1983. 13 Cfr. studi citati alle note (2) e (6). 14 Così, citando questo Agostino, ci dice il Salutati: “… trovo ora il cittadino di Gerusalemme, il cittadino del Regno dei cieli che opera in terra, che porta la porpora, che è magistrato, che è edile, proconsole, imperatore; che regge lo stato terreno, ma ha il cuore nel cielo; se è cristiano, fedele, pio, continente nelle cose che sono, per la speranza di quelle fra cui non è” in E. Garin, Il rinascimento italiano, Bologna, Cappelli, 1980, pag. 144.

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Gian Mario Anselmi

quando con Meinhard, Lessing e poi Limmermann, è tutto il Petrarca e sempre più il poeta, a essere amato, la complessità della sua opera non è mai scordata, se solo si pensi alle riflessioni di Herder, Schlegel e di Goethe ovviamente. Sicché il tormentato cammino della tradizione protestante tedesca e del rovello religioso, etico e politico che l’accompagna fino nel cuore del Romanticismo (Hamann, Herder, Novalis) va forse inserito, per alcune prospettive, in una certa temperie europea di ascendenza petrarchesca15. Ma si torni al Mediterraneo per appuntare lo sguardo all’area croata, solo in apparenza più discosta dai grandi centri europei, in realtà collocata, nel rinascimento, lungo un crinale delicatissimo e una dolente frontiera, tra la opulenta e raffinata civiltà veneziana e la aggressiva potenza imperiale ottomana. L’età rinascimentale croata conosce, fra vari protagonisti, quel celebre Marko Marulic (Marcus Marulus, 1450-1524), raffinato umanista in contatto con i più avanzati cenacoli veneziani ed europei (Manuzio, Erasmo e tanti altri), autore in volgare croato e in latino di opere a molteplice ispirazione e su più spartiti letterari, dall’epica a impronta biblica (Giuditta, Davidias) e antiottomana a testi di edificazione religiosa ma soprattutto autore di un De institutione bene vivendi (1496-99 e pubblicato nel 1506) che è perfetta ritrascrizione del De remediis16. L’immensa fortuna del testo petrarchesco si rifrange così nel cuore dell’umanesimo croato e del suo più significativo rappresentante: il testo del Marulic avrà larga diffusione in Europa e diverrà esso stesso referente non secondario, a partire dal vasto bacino adriatico, di un’etica del comportamento, di una riflessione morale, contigue, in quegli anni, al formarsi di testi decisivi per la storia del moderno disciplinamento, della moderna filosofia morale, del genere stesso della trattatistica sul comportamento (gli anni che dal Cortesi del De cardinalatu e dal Pontano del De sermone vanno al Bembo, al Castiglione fino giù giù al Casa e al Guazzo). Allora, alla luce di quel poco solo che qui abbiamo suggerito, ha davvero ragione Amedeo Quondam quando lamenta la carenza di adeguate storie della filosofia morale per l’età rinascimentale e in generale di adeguati studi

15 Sempre fondamentale la recensione-saggio che E. Raimondi dedicò a L. Pacini, Petrarca in der deutschen Dichtungslehre vom Barock bis zur Romantik, Petrarca – Haus, Koeln, 1936 in “Studi petrarcheschi”, 2° (1949), pp. 286-316 e, più recente, A. Sottili, Il Petrarca e l’umanesimo tedesco, ne Il Petrarca latino …, cit., vol. I, pp. 239-291. Di I. Berlin si veda poi Le radici del Romanticismo, Milano, Adelphi, 2001. 16 Per un primo inquadramento, anche bibliografico, vedi l’edizione della Giuditta, con testo croato a fronte, del Marulic curata da L. Borsetto, Milano, Auxilia, 2001.

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L’eredità di Petrarca

di filosofia morale atti a cogliere i grandi rivolgimenti e gli impressionanti dispositivi che portano al costituirsi, in Europa, di una moderna etica mondana, apprendistato imprescindibile del cittadino, del suddito, del cortigiano ma anche del governante17. Si afferma in sostanza un’etica del saggio, altra dal disciplinamento monastico, fortemente improntata ad alcune delle riflessioni petrarchesche e umanistiche (e che benissimo Berlin ha declinato per Machiavelli): un’etica prekantiana in cui più che la questione della responsabilità individuale hanno corso l’onore, l’amore per la giusta gloria, la virtus romana, il controllo di sé, l’esercizio del valore, cementati dall’essenziale apprendistato letterario (le “humanae litterae”) proprio della grande cultura umanistica e rinascimentale italiana e della sua pratica storiografica. Con esiti fondamentali per la formazione dei gruppi dirigenti moderni e del moderno gentleman ma tali da intricarsi profondamente nei programmi formativi della stessa Ratio studiorum gesuita18. Da quel disciplinamento laico è possibile cogliere in filigrana il senso di una precettistica dialogica e teoreticamente tollerante tale da conciliare più che radicalizzare le strettoie aporetiche del pensiero (con gli Academica priora et posteriora di Cicerone appunto veicolati da Petrarca) e che ebbe nel petrarchesco De remediis il viatico diffusissimo su scala europea (come già notammo)19. E quel disciplinamento si materiò per secoli ovviamente anche sull’esercizio poetico e sentimentale, cui proprio il Canzoniere diede forma, lessico, dizionario universali: nella coscienza europea così Petrarca “morale” e Petrarca “poeta”, scrittore latino e autore volgare, procedettero a braccetto e nessuna storia autentica del petrarchismo può credibilmente ormai scindere questi due aspetti20. Non a caso la somma di questi due filoni si innerva nel

17 Fra i tanti saggi che A. Quondam ha dedicato a queste tematiche e a cui rinviamo anche per spunti successivi cfr.: Virtù e Knowledge of the world: l’etica mondana di Lord Chesterfield, in A. Prosperi (a cura di), Il piacere del testo. Saggi e studi per Albano Biondi, Roma, Bulzoni, pp. 813-944; Magna et minima moralia. Qualche ricognizione intorno all’etica del classicismo, in “Filologia e critica”, XXV, maggio – dicembre 2000, pp. 179221; introduzione a L’arte della conversazione nelle corti del rinascimento, a cura di F. Calitti, Roma, Istituto Poligrafico dello stato, 2003. 18 Mi permetto di rinviare a quanto già sostenevo ne Le frontiere degli umanisti, Bologna, Clueb, 1988 e ne La saggezza della letteratura, Milano, B. Mondadori, 1998. Di I. Berlin v. Controcorrente, Milano, Adelphi, 2000. Rimando inoltre agli studi già citati di Cherchi e Quondam. 19 Vedi nota (3) e più in generale i molti saggi di E. Garin con particolare riferimento a Il ritorno dei filosofi antichi, Il Rinascimento italiano, Rinascite e rivoluzioni. 20 Per il Petrarca volgare è necessario sempre partire dall’edizione a cura di M. Santagata, V. Pacca e L. Paolino, 2 voll., Milano, Mondadori, 1996. Sulla ricezione di

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farsi delle pratiche scrittorie e nella consapevolezza della centralità del libro e della biblioteca (accentuati dall’invenzione e sviluppo della stampa, che corrono paralleli al petrarchismo alimentandosi reciprocamente in modo straordinario): ed è la “biblioteca” del poeta ad Arquà, è l’insieme delle sue postille, è la sua volontà costante di cimentarsi col “libro” (anche col “libro” della sua vita e della sua memoria dislocato tra rime volgari e lettere) che sono alla radice di quelle identità cinquecentesche, con varie stazioni intermedie in cui ruolo primario certo assume il Poliziano del Panepistemon. È una tavola dei saperi propria dell’umanesimo e fortemente ancorata al primato petrarchesco della letterarietà, della dialogicità, della filosofia come relativismo e pragmatica (e il catalogo della “biblioteca dei classici” di riferimento è certo ampio, da Cicerone a Orazio a Virgilio a Seneca agli elegiaci col fondamentale Ovidio, ai greci riscoperti, a Livio e agli storici con particolare attenzione, come si è visto, a Valerio Massimo, ai grammatici, ai retori, ai filosofi fino ai grandi testi mediolatini, con al centro Agostino e Boezio, fino a costituire una tabella disciplinare e una gerarchia formativa-pedagogica ormai altre rispetto alla scolastica)21. In questa “biblioteca” la fama perenne di poeta “lirico” per eccellenza ha fatto dimenticare talora l’inesausta vena narrativa e storica di Petrarca: non è tanto la traduzione latina della boccacciana Griselda (col suo incredibile successo europeo!) a confermarcelo o la lettura oggi sempre più frequente del Canzoniere in una chiave narrativa di “storia di un’anima”, di biografia poetica a certificarlo (Marco Santagata primo fra tutti nei suoi studi) ma è soprattutto l’insieme impressionante delle sue lettere, delle sue “descrizioni”, della sua capacità di narrare in prosa latina eventi ora in chiave esemplare e dimostrativa ora in chiave storica a parlarcene: anzi non v’è dubbio che molta storiografia umanistica, sia politica sia erudita-antiquaria, debba molto, da Bracciolini a Biondo, a questo Petrarca e al suo rovello filologico ad esempio intorno a un testo esemplare come Livio.

Petrarca poeta e sul petrarchismo da vedersi, anche per il punto bibliografico, i saggi di P. Vecchi Galli nel vol. XI della Storia della letteratura italiana a cura di E. Malato, Roma, Salerno Editore, 2003 nonché le rassegne di studi sulla lirica del Cinquecento a cura di G. Forni in “Lettere italiane” del 1/2000 e del 3/2001. Così si dica per le edizioni e gli studi sulla tradizione di Canzoniere e canzonieri di G. Gorni. Di L. Chines si veda poi I veli del poeta, Roma, Carocci, 2000 nonché il saggio presente in Motivi e forme delle “Familiari” …, cit. 21 Vedi ancora gli studi ricordati alle note (2), (3), (6), (14). E C. Dionisotti, Aldo Manuzio umanista e editore, Milano, Il Polifilo, 1995 nonché Gli umanisti e il volgare fra Quattro e Cinquecento, Milano, 5Continents, 2003.

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L’eredità di Petrarca

Del resto, nella stessa poetica petrarchesca, lo snodo della memoria e dell’oblio, del vero come credibile/verosimile proprio dell’invenzione letteraria è cruccio costante con ricadute sul dibattito quattrocentesco da Bruni a Valla a Pontano22. C’è un’etica della scrittura (il tema è caro da sempre a George Steiner): ovvero la voluntas dell’autore (ma anche Agostino, quell’Agostino memorabile doppio petrarchesco che è nel Secretum, lo rammenta) deve consentire sempre all’interprete di giungere al vero, sapendosi spogliare dell’io empirico, un integumentum che non può però rendere inaccessibile la verità e deve invece consentire un ruolo attivo e forte al lettore/interprete, al suo “conoscere” (si guardi ai testi storiografici, allo stesso Secretum, al De ignorantia)23. Ma il “narrare” petrarchesco si nutre per altro anche della linfa del più grande affabulatore latino, già cruciale per Dante e proprio per il Dante del Paradiso, ovvero l’Ovidio delle Metamorfosi: ne consegue una mitopoiesi come esibizione del trasmutarsi degli uomini e delle cose, la metamorfosi come segno stesso del reale e della sua narrabilità, anzi come segno del mutare e trasmutarsi dello stesso animo umano e dell’uomo come singolo nel processo storico e cosmico degli eventi. Ancora una lettura petrarchesca che si imporrà nella cultura moderna, se finalmente ci decidiamo a dare al paradigma ovidiano quel ruolo decisivo che gli compete da sempre e su cui già, in altra sede, richiamai l’attenzione24. La geniale originalità di Petrarca è di aver contaminato le sconvolgenti riflessioni agostiniane sul tempo e sul mutarsi della coscienza come temporalità interiore con il paradigma metamorfico ovidiano ottenendo esiti di alta pregnanza letteraria non meno che concettuale. Ciò produce sia le memorabili partiture del mito “dafneo” proprie del Canzoniere sia la grande lucidità nell’esibizione senza pudori delle contraddizioni spesso inconciliabili in cui si muove, nel suo costante trasmutarsi drammatico, l’uomo col fardello dei suoi sentimenti (sicché l’implicito attacco alle roccaforti della filosofia medievale e aristotelica è di esito cruciale per la storia del pensiero moderno), propria del Secretum, di molte lettere, del De otio, del De vita solitaria, del De suis ipsius…25.

22 Rinvio al primo capitolo di G. M. Anselmi, Ricerche sul Machiavelli storico, Pisa, Pacini, 1979. Per gli studi di Santagata v. nota (23). Il De Sermone del Pontano è ora curato e tradotto da A. Mantovani, Roma, Carocci, 2002. 23 Rinvio ancora ai già citati Saggi petrarcheschi di E. Fenzi. 24 G. M. Anselmi, Gli universi paralleli della letteratura, Roma, Carocci, 2003. 25 Del Secretum e del De suis ipsius … vedi le recenti edizioni e traduzioni a cura di E. Fenzi per l’editore Mursia, Milano, 1992 e 1999.

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Ma questo crogiuolo dialogico (impensabile prima di Petrarca) tra, potremmo dire pur schematizzando, Ovidio e Agostino è forse alla radice di un’opera tanto straordinaria quanto controversa nelle storia degli studi critici petrarcheschi, I Trionfi, che anch’essi, praticamente al pari dei più celebri testi del nostro poeta, godettero di una costante ricezione europea 26. Influenzarono apparati figurativi, narrazioni allegoriche e iniziatiche, generi i più disparati, veicolarono una eccezionale visione del nesso tra destini dell’uomo e destini del tempo e del cosmo, che a tale altezza concettuale sarà possibile ritrovare solo poi col Leopardi della maturità (decisiva in questo senso l’ultima parte dei Trionfi). Quest’opera, troppo a lungo confinata e schiacciata nel confronto con la Commedia dantesca, è tutt’altra e si propone ben altro: è contigua e distantissima al tempo stesso da Dante. La sua vocazione narrativa (a forte valenza ovidiana e agostiniana, appunto), il suo apparato figurale, il suo metro non possono non evocare Dante ma la strada di Petrarca procede altrove e con assoluta originalità: egli infatti veicola, disloca e risemantizza un intero apparato immaginario medievale e dantesco quasi per traghettare quel mondo verso il nuovo mondo della ricerca dubbiosa e inquietante che va esplorando. Ridisloca e risemantizza un codice allegorico e un lessico metrico danteschi al punto da trasformarli in un’intrapresa epistemica e letteraria poi nuovissima (e che non a caso segnerà profondamente interi codici comunicativi fino alle soglie del Romanticismo e ancora in parte nel Romanticismo, se si pensa ad esempio ad un grande visionario come Shelley esplicitamente in attenta lettura dei Trionfi)27. È tutto sommato un’operazione analoga a quella che Marco Santagata ha ben descritto per il Canzoniere rispetto alla tradizione lirica precedente, provenzale, trobadorica ma anche del Dante “petroso”28. Non dimentichiamo che il crogiuolo dei Trionfi sta in un asse narrativo che si disloca tra la visione e il doppio sogno, ovvero una sorta di narrazione

26 Cfr. ora C. Berra (a cura di), I Triumphi di F. Petrarca, Milano, Cisalpino, 1999. In quel volume, fra l’altro, E. Pasquini da conto del grande cantiere filologico da lui aperto per giungere all’edizione critica del testo. Nuova e fertile prospettiva di studi in M. C. Bertolani, Il corpo glorioso. Studi sui Triumphi del Petrarca, Roma, Carocci, 2001. 27 Cfr. il mio La saggezza della letteratura, cit. Suggestioni novecentesche sul genere del sogno-visione è possibile rintracciare in vari filoni letterari dallo Schnitzler di Doppio sogno al Pasolini di Petrolio. 28 M. Santagata, Per moderne carte, Bologna, Il Mulino, 1998 e soprattutto Frammenti dell’anima. Storia e racconto nel Canzoniere, Bologna, Il Mulino, 1992.

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L’eredità di Petrarca

di secondo grado, padroneggiata in modo sofisticato (e se l’opera avesse conosciuto una revisione definitiva da parte del poeta forse aporie per noi oggi inesplicabili si sarebbero risolte). Suggestionato anche da quel Platone che non conosce direttamente ma che egli non esita, in tanti testi, a mettere in campo per ampliare lo spartito ormai ossificato di certi saperi medievali, la narrazione dell’amore terreno si fa viaggio simbolico, metaforico e profetico fino al compimento nell’eternità con stazioni decisive nel doloroso passo della Morte, nella riflessione inquietante della Fama (e della sete di giusta gloria di cui già si disse) la cui fine o morte nel trionfo del Tempo diviene quasi una sorta di “seconda morte” (TT I, vv. 141-145). Sicché l’approdo all’Eternità e al suo trionfo sul Tempo ha fatto parlare di approdo a una eliottiana “landa desolata”, un’Eternità in cui tutto si perde e non sembra esserci consolazione vera (di qui il nostro precedente richiamo a Leopardi)29. Un viaggio allora ben diverso da quello dantesco: un doloroso e grandioso interrogarsi sul trasmutarsi dell’uomo e delle cose in chiave classica e agostiniana al tempo stesso fino alle domande decisive sul tempo e sull’eterno e in definitiva sul nulla che incombe sull’uomo come singolo o come sodale di comunità e civiltà intere. Si capisce allora come questo testo abbia profondamente segnato la civiltà occidentale e turbato i suoi sonni, tanto da costringere schiere di letterati, filosofi, musici, pittori, creatori di arazzi e di serie decorative (si pensi all’età di Luigi XIV in Francia per quest’ultimo aspetto, ad esempio, come mi ha suggerito Marc Fumaroli) a ritornare con infinite variazioni sulla partitura dei Trionfi. E così il Triumphus Cupidinis II, nel “catalogo” di amori tragici di marca biblica, classica, storica (con forte suggestione delle Heroides ovidiane) che lo caratterizza è probabilmente alla base dei “cataloghi” della grande produzione teatrale tragica tra Cinque e Seicento, in Francia (Corneille e l’ideale del magnanimo), in Spagna (Calderon de la Barca de El Magico prodigioso), nello Shakespeare delle tragedie “romane”, in tanto melodramma italiano fino al Settecento almeno. La suggestione dei Trionfi si mescola con gli altri temi morali, sentimentali, filosofici petrarcheschi e crea una tavolozza di riferimenti ricchissima per autori e testi della statura di quelli che prima abbiamo richiamato. Per tutto ciò Petrarca è davvero autenticamente europeo tanto più quando si procede nella storia della sua ricezione, anche dei suoi testi per noi oggi 29 M. Santagata, Introduzione ai Trionfi, a cura di V. Pacca e L. Paolino, cit., pag. LI. Ma si vedano anche le dense pagine di G. Barberi Squarotti in C. Berra (a cura di), I Triumphi…, cit., pp. 47-66.

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più ostici, difficili, meno frequentati ma che, al pari dei più noti, hanno segnato la nostra identità appunto, come sarebbe piaciuto al Petrarca, insieme “morale” e “poetica”.

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SUL PETRARCHISMO*

Ancora qualche decennio fa – tanto per portare una testimonianza diretta: all’altezza del Petrarchismo mediato 1 – sarebbe stato impensabile, e persino, per molti, provocatorio, progettare non un solo convegno ma addirittura una fitta e organica sequenza di incontri di studio (a geometria variabile) dedicati alla tradizione lirica del Petrarchismo. In questo anno 2004 e nei suoi immediati dintorni, invece, tra le tante manifestazioni promosse per celebrare il settimo centenario della nascita di Francesco Petrarca, è stato possibile organizzare a Bologna il convegno di studi interdisciplinari e inter-

* Segnalo che questa vorrebbe proporsi come parte provvisoriamente conclusiva di un lavoro ancora incompiuto sul Petrarchismo, di cui ho potuto intanto produrre due segmenti, rielaborando gli interventi che ho avuto il piacere di portare a diversi convegni organizzati nel corso del 2004 (precisamente, a Coimbra, Varsavia, Duke University, Bologna): Petrarquistas e gentis-homens, in Petrarca 700 anos, coordenaçao de Rita Marnoto, Instituto de estudos italianos, Faculdade de Letras, Universidade de Coimbra, Coimbra 2005, pp. 187-248; e in Petrarca a jednosc kultury europejskiei. Petrarca e l’unità della cultura europea, pod red./a cura di Monica Febbo e Piotr Salwa, Wydawnictwo Naukowe Semper, Varsavia 2005, pp. 31-76; la seconda parte: Petrarchisti e gentiluomini. 2: Ladri di parolette: per non essere mai più Tebaldei, in Petrarca: canoni, esemplarità, a cura di Valeria Finucci, Bulzoni, Roma 2006, pp. 21-71. 1 Edito da Bulzoni, Roma 1974. A evitare ogni rischio di abusi personalistici, ma a conferma del fatto che la scelta di questo arco cronologico è tutt’altro che soggettiva o arbitraria, soccorre ora la bibliografia generale degli studi dedicati negli ultimi trenta anni, appunto, alla lirica petrarchistica, che significativamente arriva dal centro dell’Europa: Petrarkismus-Bibliographie 1972-2000, herausgegeben von Klaus W. Hempfer, Gerhard Regn, Sunita Scheffel, Franz Steiner Verlag, Stuttgart 2005.

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Amedeo Quondam

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nazionali di cui qui pubblichiamo gli atti, dedicato a un tema certamente improponibile allora: “Il Petrarchismo: un modello di poesia per l’Europa” 2. Perché? La domanda è tutt’altro che retorica e richiederebbe analisi approfondite, ben al di là della pertinenza sua propria, ma quello che intanto è immediatamente rilevabile può essere così condensato: nell’arco di un trentennio è mutato profondamente, anche se non del tutto, il nostro sguardo sulla tradizione lirica tra Petrarca e Marino (per usare subito una segnaletica al tempo stesso neutra e specifica). Come, più in generale, è mutato il nostro sguardo sulla poesia (e sulla letteratura) tutta, nonché sulle dinamiche culturali in senso largo, tra Quattrocento e Cinquecento: o tra Umanesimo e Rinascimento, volendo invece usare antiche e sempre valide categorie critiche e storiografiche (opportunamente ripensate, o da ripensare, nella loro pertinenza: rispetto sia a eccessi generalizzanti e universalizzanti, sia a troppo precipitose e incongrue liquidazioni) 3. Siamo in grado, oggi, di percepire (anzi, vedere) ciò che neppure si voleva vedere, allora: di riconoscere, cioè, e comprendere quanto vasta e articola-

2 I seminari che hanno fatto da preludio al convegno bolognese (che si è svolto tra il 6 e il 9 ottobre 2004), progettati e organizzati da Floriana Calitti e Roberto Gigliucci, oltre che da me, e sostenuti dal Comitato nazionale per il settimo centenario della nascita di Francesco Petrarca, sono stati dedicati a descrivere analiticamente la lunga tradizione petrarchesca nella letteratura italiana: «Edizioni di lirici petrarchisti del Quattrocento e del Cinquecento» (30 ottobre 2001), «Petrarca in Barocco» (23-25 ottobre 2002), raccolti entrambi nel volume Petrarca in Barocco. Cantieri petrarchistici. Due seminari romani, a cura di Amedeo Quondam, Bulzoni, Roma 2004; «I territori del Petrarchismo: frontiere e sconfinamenti» (5-6 giugno 2003), edito nel volume con lo stesso titolo, a cura di Cristina Montagnani, Bulzoni, Roma 2005; «Petrarca nel Settecento e nell’Ottocento» (20-22 novembre 2003), edito nel volume con lo stesso titolo, a cura di Sandro Gentili e Luigi Trenti, Bulzoni, Roma 2006; «Petrarca nel Novecento italiano» (4-6 ottobre 2001), edito nel volume Un’altra storia. Petrarca nel Novecento italiano, a cura di Andrea Cortellessa, Bulzoni, Roma 2004. 3 Per chiarire sia questo troppo ellittico riferimento che i tanti altri successivi (inevitabili in un saggio di sintesi, come questo vorrebbe essere), mi permetto di rinviare agli altri miei lavori dedicati a discutere i problemi che posso qui solo accennare, tra i quali: Rinascimento e Classicismo. Materiali per l’analisi del sistema culturale di Antico regime, Bulzoni, Roma 1999; Classicismi e Rinascimento: forme e metamorfosi di una tipologia culturale, in Il Rinascimento italiano e l’Europa, I: Storia e storiografia, a cura di Marcello Fantoni, Fondazione Cassamarca, Angelo Colla editore 2005, Treviso, pp. 71-102; Tre inglesi, l’Italia, il Rinascimento. Sondaggi sulla tradizione di un rapporto culturale e affettivo, Liguori Editore, Napoli 2006.

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Sul Petrarchismo

ta sia l’area della poesia, quanto numerosi siano gli oggetti testuali (la bibliografia) e i soggetti titolari di pratiche comunicative che la costituiscono (l’anagrafe). Gli uni e gli altri per troppo lungo tempo rimasti opachi o invisibili, distorti e stravolti4. Siamo in grado, oggi, di distinguere, persino in dettaglio, le pertinenze di ogni oggetto e di ogni soggetto, e di descriverne le singole dinamiche nella fitta trama relazionale che, già da metà Quattrocento, aggrega e correla testi e persone, entrambi sempre più, rispetto al passato prossimo, in mobilità continua e in reciproca interferenza. Siamo in grado, oggi, di discutere la congruità delle nostre stesse categorie interpretative, critiche e storiografiche: in primo luogo quella di Petrarchismo5. Anche se mancano tuttora, nell’esperienza della ricerca italiana, nuove e organiche ricostruzioni e interpretazioni (del tipo: il Petrarchismo in Italia6), omologhe a quanto da tempo avviene altrove in Europa (il Petrarchismo in Francia Spagna Portogallo Inghilterra, eccetera), è più che sufficientemente profilato l’insieme degli oggetti e dei soggetti che nel corso del Quattrocento e del Cinquecento hanno praticato, e in modi tanto diversi, una qualche forma di scrittura poetica per ammirazione e per imitazione di Petrarca. Possediamo insomma mappe più che affidabili dei territori del Petrarchismo, nelle loro particolareggiate storie prima locali e poi nazionali: territori e sto4 Ricordo che sono ben 5270 le unità (relative a libri stampati in Italia tra il 1470 e il 1600) descritte nel volume della bibliografia dei Libri di poesia, a cura di Italo Pantani, Editrice Bibliografica, Milano 1996. 5 La più acuta analisi delle diverse interpretazioni generali che ne sono state proposte (propedeutica a una nuova proposta interpretativa del Petrarchismo, certamente di grande rilievo e insolita rispetto al respiro descrittivo delle tante microanalisi dominanti) mi sembra quella di Klaus Hempfer, Per una definizione del Petrarchismo, in Testi e contesti. Saggi post-ermeneutici sul Cinquecento, Liguori Editore, Napoli 1998, pp. 147-176 (il saggio è apparso nel 1987: per le referenze dell’edizione originale, cfr. p. 271). 6 Nei cinquanta anni che seguono il grande libro di Luigi Baldacci, Il Petrarchismo italiano nel Cinquecento, Ricciardi, Milano-Napoli 1957 (in seconda edizione: Liviana, Padova 1974), la bibliografia di carattere generale, nel formato delle monografie organiche, si riduce a ben poco, fino a quasi esaurirsi: Petrarca e il Petrarchismo (atti di un convegno dell’Aislli), Bologna, Minerva 1959; Giovanni Santangelo, Il Petrarchismo del Bembo e di altri poeti del Cinquecento, Istituto editoriale della cultura europea, Palermo 1962; Giancarlo Mazzacurati, Il problema storico del Petrarchismo italiano, Liguori, Napoli 1963; Ezio Raimondi, Il Petrarchismo nell’Italia meridionale, Accademia nazionale dei Lincei, Roma 1973; Armando Balduino, Petrarchismo veneto e tradizione manoscritta, Olschki, Firenze 1976. Più forte, soprattutto in tempi più recenti (su queste tornerò più avanti), è la presenza delle antologie, variamente introdotte e commentate; a esempio, dopo quelle analizzate in Petrarchismo mediato: Giacinto Spagnoletti, Il Petrarchismo, Garzanti, Milano 1959; Marziano Guglielminetti, Petrarca e il Petrarchismo: un’ideologia della letteratura, Paravia, Torino 1982 (nuova edizione: Edizioni dell’Orso, Alessandria 1994).

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rie che sappiamo, oggi, distinguere come profondamente diverse, petrarchismi al plurale, persino petrarchismi di genere7. E continuiamo pigramente a parlare di petrarchismi prima del Petrarchismo, pensando che così ci spossa capire subito e meglio: senza però considerare che in questo modo corriamo il rischio di smarrire il senso di quella profonda discontinuità che fonda la poesia moderna (e la letteratura moderna e la cultura moderna), quando nulla potrà più essere come prima, quando insomma vince Bembo e il suo modello (che è e fa sistema) di moderna letteratura volgare 8. E questo mi pare il punto decisivo, nelle ricerche degli ultimi anni, che si sono fatte sicure e agguerrite, oltre che sempre più fitte: nel vasto e differenziato insieme delle pratiche di scrittura lirica si ricercano e si interpretano soprattutto le correlazioni, anche per variazione e differenza, con il più generale processo di costituzione di quella complessiva tipologia culturale che è protagonista, in Italia (e dall’Italia in Europa), della modernità letteraria e culturale (la indico subito, con una sola parola: il Classicismo, nelle sue continue e sempre vitali metamorfosi attraverso i secoli). La nascita della poesia dei petrarchisti, insomma, è del tutto in sincronia con la nascita del sistema letterario e culturale classicistico, e i protagonisti di queste due storie, impropriamente separate dalle nostre pigrizie, sono gli stessi: umanisti inquieti e lungimiranti. Ma non solo: la nuova poesia lirica petrarchistica che connota le traiettorie, presto in fittissima trama, delle lette-

7 Su questo tema l’esplodere dei women’s e gender studies (con il miraggio della scoperta di other voices quando l’alterità non poteva neppure essere pensata) ha prodotto tante cose buffe e ben poche egregie cose: come il volume di saggi (derivati da un altro convegno nell’anno petrarchesco) «L’una et l’altra chiave». Figure e momenti del petrarchismo femminile europeo, a cura di Tatiana Crivelli, Giovanni Nicoli e Mara Santi, Salerno Editrice, Roma 2005. 8 Dico subito che, a mio avviso, il Petrarchismo (e per questo uso l’iniziale maiuscola) è soltanto quello che consapevolmente e progettualmente si autodefinisce (tra le Prose della volgar lingua di Pietro Bembo, nel 1525, e le sue Rime, nel 1530: ma non solo con queste opere) in quanto organica grammatica del volgare letterario esemplata sul modello unico di Petrarca, in quanto moderno sistema della poesia che concorre alla costruzione della letteratura moderna e della moderna tipologia culturale classicistica. Il Petrarchismo di cui è protagonista, insomma, quel nuovo soggetto (attivo e passivo: autore e lettore) di cui parla Nicolò Franco nel suo dialogo Il petrarchista, in prima edizione nel 1539. Quanto, invece, è pienamente riconoscibile nella scrittura lirica di tanti poeti dalla metà del Quattrocento in poi (a partire dalla Bella mano di Giusto de’ Conti) è un’esperienza che certo ragiona intorno a Petrarca come punto di riferimento primario, ma senza alcuna istanza sistemica (senza grammatica e senza teoria dell’imitazione) e senza alcuna istanza modellizzante (o egemonica) nei confronti delle dominanti pratiche di quella poesia che ancora si conviene di connotare come “cortigiana”.

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rature e delle culture europee assumerà ovunque, e progettualmente, le proporzioni di forma genetica, globalmente rappresentativa, di questa nuova cultura classicistica: in primo luogo perché si costituisce come langue metalinguistica, determinata a rappresentare quella cultura nel suo stesso senso e nel suo stesso valore (sempre coerenti e condivisi) in ogni singolo atto comunicativo. Una forma dinamicamente ipermodellizzante: imitazione da imitare, in ogni singolo atto comunicativo. Una lingua, dunque, una poesia lirica, una cultura: cioè, una seconda natura. Ma per chi? Per cosa? Se per ora non posso che rinviare a quanto più avanti dirò sul soggetto protagonista attivo e passivo di questa nascita della modernità (in forma di Petrarchismo/Classicismo), vorrei intanto proporre una considerazione ulteriore sulle vicende dell’ultimo trentennio di studi sulla poesia del QuattroCinquecento, per cercare di caratterizzare il quadro (e il contesto) in cui oggi si collocano. Come ho già accennato, si tratta di un quadro/contesto che risulta immediatamente nelle sue proporzioni metanazionali e transnazionali (petrarchismi d’Europa: nella nascita delle sue moderne letterature nazionali), ma soprattutto si tratta di un contesto che ha trovato la sua spinta più forte nelle procedure della ricerca, necessariamente interdisciplinare, che è stata prodotta con perspicace intelligenza dagli studi musicologici nel campo della poesia in/per musica, con al centro l’invenzione, prima, e la straordinaria fortuna, poi, del madrigale. Credo di poter dire che proprio sulla base di questa trama relazionale tra approcci disciplinarmente diversi siamo oggi in grado di indagare tanto più a fondo nelle economie e nelle dinamiche proprie del modello linguistico poetico culturale (post-petrarchesco pre-petrarchistico petrarchistico), che dall’Italia, dai tempi di Petrarca ai tempi di Marino, si proietta sull’intera area dell’Europa di Antico regime e delle sue corti, in un processo tanto più complesso di quella topica metafora che per tanto tempo ha narrato la migrazione delle Muse mediterranee nel gelido e barbaro Nord. 1. A questo punto vorrei tornare su alcune considerazioni prima proposte in termini troppo scorciati e apodittici, per ragionare ancora sul lungo processo che ha mutato il panorama degli studi sulla lirica petrarchistica. In questo processo, di tipo cognitivo (tramite la ricognizione documentaria: vedere) prima ancora che storiografico o critico (descrivere e analizzare), mi sembra infatti risolutivo tornare a evidenziare quella che a mio avviso è

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stato la sua caratteristica fondamentale: rispetto a quanto ha riguardato, nello stesso arco di tempo, gli altri generi e le altre forme della dinamicissima esperienza letteraria tra Quattrocento e Cinquecento, non c’è dubbio alcuno che sono stati proprio gli studi sulla poesia lirica petrarchistica (anche nei suoi rapporti con la musica) a rendere possibili le proiezioni generalizzanti (di storia culturale) più persuasive e in grado di andare ben oltre lo specifico ambito della loro originaria pertinenza 9. O meglio: le tante e tanto produttive prospezioni archeologiche nel vasto campo della poesia lirica (nelle sue terrae incognitae), tra Quattrocento e Cinquecento, hanno messo in evidenza che proprio qui, prima e meglio che altrove, sono attive, e in termini decisivi, le dinamiche vettoriali di elaborazione della modernità. E non soltanto di quella letteraria: bensì, modernità di una lingua referenziale (uniforme e stabile) di tutti perché di nessuno, una lingua fuori dal tempo e dallo spazio, fatta di parole-pietre e quindi “fabbrica del mondo”; modernità di una poesia introspettiva e relazionale, dei singoli soggetti e dei loro gruppi sociali; modernità di una tipologia culturale che si autodefinisce e si autoconnota a partire dalle nuova gamma di competenze integrate (per forma e norma) che sollecita e richiede: saper scrivere, saper conversare, saper governare il proprio corpo nello spazio rispetto agli altri corpi, saper danzare, saper cantare, sapere d’arte, eccetera; modernità di un bisogno di cose belle, ben fatte e ben praticate nello scambio delle pubbliche relazioni; modernità dell’intreccio biunivoco tra il dominio dell’estetica e il dominio dell’etica, anche nelle loro estensioni verso l’economica e la politica. Modernità, insomma, di un sistema che prima non c’era e poi diventa indispensabile: il Classicismo. Seconda natura, appunto. Ma non si dà per caso, questa funzione primaria e fondativa della poesia, se è proprio la poesia, quando inizia a riflettere sui propri statuti (cioè, quando avvia la consapevole e necessaria sua metamorfosi in lirica petrarchistica), a discutere ed esemplarmente risolvere le questioni più importanti, quelle che urgono: quale lingua e quale grammatica per la letteratura volgare e per i gentiluomini che vogliono farsi letterati? quale modello di imitazione?

9 Ne è esempio la raccolta di saggi di Stefano Carrai (non ancora un organico libro strutturato come tale), dedicati alle diverse tipologie della poesia cinquecentesca e quindi all’affermazione del primato della lirica classicistica: L’usignolo di Bembo. Un’idea della lirica italiana del Rinascimento, Carocci, Roma 2006. L’occasione centenaria petrarchesca ha prodotto, anche in Italia, riflessioni sulla presenza di Petrarca nella tradizione letteraria; a esempio: Ruolo e mito del Petrarca nelle lettere italiane, a cura di Fabio Cossutta, Carabba, Lanciano 2006; Sentimento del tempo. Petrarchismo e antipetrarchismo nella lirica del Novecento, a cura di Giuseppe Savoca, Olschki, Firenze 2005.

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quale canone di antichi volgari? quale gerarchia tra i generi? quali forme di poesia (e in linea subordinata: di prosa)? perché la poesia e per chi? per fare e dire cosa? e quando e come e dove? Al centro del processo di nascita della moderna letteratura classicistica, nel cuore stesso della sua grammatica e del suo voler fare e voler essere sistema, c’è dunque la nuova poesia lirica, il suo stesso desiderio del Padre. Di riconoscersi nel suo nome, di essergli somigliante non per caso o per curiosità, bensì per progetto genetico: in quanto figli consapevoli10. Queste asserzioni che pretendono di cogliere il senso di una stagione di studi, potranno risultare sin troppo apodittiche e generalizzanti, ma certo sono tutt’altro che arbitrarie. Non solo perché possono e debbono fare riferimento a quanto ci hanno insegnato Carlo Dionisotti e Giancarlo Mazzacurati su quella data (il 1530) in cui nasce la moderna letteratura volgare, con un imprinting tutto lirico (nei due fatidici libri di rime pubblicati in quello stesso anno: di Bembo e di Sannazzaro) 11. Ma soprattutto perché, oggi, la centralità

10 Nei termini, insomma, che Petrarca stesso aveva elaborato, a futura memoria, nella famosa lettera a Boccaccio (il primo nella discendenza patrilineare, anche se non nel fare poesia) del 28 ottobre 1365 (Familiares XXIII 19): «Curandum imitatori ut quod scribit simile non idem sit, eamque similitudinem talem esse oportere, non qualis est imaginis ad eum cuius imago est, que quo similior eo maior laus artificis, sed qualis filii ad patrum. In quibus cum magna sepe diversitas sit membrorum, umbra quedam et quem pictores nostri aerem vocant, qui in vultu inque oculis maxime cernitur, similitudinem illam facit, que statim viso filio, patris in memoriam nos reducat, cum tamen si res ad mensuram redeat, omnia sint diversa; sed est ibi nescio quid occultum quod hanc habet vim. Sic est nobis providendum ut cum simile aliquid sit, multa sint dissimilia, et id ipsum simile lateat ne deprehendi possit nisi tacita mentis indagine, ut intellegi simile queat potiusquam dici. Utendum igitur ingenio alieno utendumque coloribus, abstinendum verbis; illa enim similitudo latet, hec eminet; illa poetas facit, hec simias. Standum denique Senece consilio, quod ante Senecam Flacci erat, ut scribam scilicet sicut apes mellificant, non servatis floribus ses in favos versis, ut ex multis et variis unum fiat, idque aliud et melius». 11 Cfr. almeno: Carlo Dionisotti, Appunti sulle rime del Sannazaro, in «Giornale storico della letteratura italiana», 1962, pp. 161-211; Introduzione a Pietro Bembo, Prose e rime, Utet, Torino 1960, p. 49 (ora in Carlo Dionisotti Scritti sul Bembo, a cura di Claudio Vela, Einaudi, Torino 2002); Geografia e storia della letteratura italiana, Einaudi, Torino 1967; Giancarlo Mazzacurati, Il Rinascimento dei moderni. La crisi culturale del XVI secolo e la negazione delle origini, Il Mulino, Bologna 1985. Di particolare rilievo sono ora le analisi, in questa linea interpretativa, di Marco Santagata a proposito della poesia volgare che torna a nascere per la seconda volta in forma classicistica, nel saggio Nascere due volte, raccolto nel volume I due cominciamenti della lirica italiana, Edizioni ETS, Pisa 2006, pp. 7-34. La metafora dell’autostrada, proposta nel mio Il naso di Laura. Lingua e poesia lirica nella tradizione del Classicismo, Panini, Modena 1991, vorrebbe essere solidale con queste proposte.

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della lirica nel sistema letterario dell’età moderna è quasi un truismo. Che sollecita però una riflessione: se la ricerca di forma e di norma (e di una eloquenza volgare) da parte dei poeti petrarchisti è stata all’origine dell’idea stessa di letteratura moderna, se ne ha marcato geneticamente gerarchie valori senso (il primato della poesia nel nome di Petrarca destinato a durare per tanti secoli), concorrendo da protagonista alla fondazione del sistema culturale classicistico (longevo quanto quel primato), proprio per questo, e solo per questo, ha attirato su di sé, nel corso dei secoli, prima quelle severe critiche e poi quella radicale e feroce damnatio memoriae con cui abbiamo dovuto, ancora ieri, fare i conti. Petrarchismo e antipetrarchismo: ma non si tratta di una contrapposizione polarizzata in tempo reale, sulla scena, cioè, di un conflitto tra contemporanei, bensì si configura come un regolamento di conti differito nel tempo (con un respiro lento, secolare, delle sue emergenze) tra fasi diverse della nostra tradizione culturale. Anche questo singolare dettaglio concorre a definire le dinamiche di una storia che sembra essere stata solo nostra: se la prima rivolta contro Petrarca (dopo Tasso e con Marino) fa scandalo perché non esita a proclamare, dopo tante liturgie da buona famiglia, l’antagonismo radicale che finalmente oppone i Moderni agli Antichi, un secolo dopo, tra Gravina e Muratori, il restauro di un petrarchismo ben temperato (tramite il recupero del buon Padre, ma anche dei suoi emuli più rappresentativi per gravità e decoro: da Giusto de’ Conti a Giovanni Della Casa) è lo strumento per l’indifferibile restauro del buon gusto dopo le oltranze barocche. Il ritmo del pendolo classicistico (tra primato degli Antichi e primato dei Moderni: tra bona imitatio e querelle) si spezza, e questa volta per sempre, ancora un secolo dopo, quando fa irruzione in Italia, dall’Europa, una idea di letteratura (e cultura) moderna radicalmente nuova, cioè un nuovo sistema. Per essere compiutamente tale, deve però effettuare un rito di passaggio, obbligato come tutti i riti di questo tipo. Deve recidere ogni legame con la tradizione e disconoscerne l’antica famiglia di antenati. Deve insomma uccidere il Padre di sempre. Per riconoscerne un altro. Ora che la svolta storiografica e critica nei confronti dell’esperienza dei petrarchisti, almeno rispetto a trenta anni fa, sembra essersi stabilizzata ben oltre il punto di non ritorno, potrebbe risultare pedante insistere nella descrizione di come eravamo (o di dove veniamo). Vorrei però proporre soltanto una considerazione, non per puntiglio personale, ma proprio per non trascurare la ratio (o il movente) di quella svalutazione della poesia dei petrarchisti come vergogna nazionale (senza peraltro trascurare i fantasmi del “secolo senza poesia”), per cercare di cogliere il senso di quella damnatio.

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Ed è questa: per potersi configurare persuasivamente, la damnatio ha dovuto necessariamente assumere il Petrarchismo come protagonista e come snodo primario della tradizione letteraria nazionale, e quindi come titolare di un organico e forte canone. Al di là di ogni feroce suo stravolgimento, ha insomma attribuito al nemico (al mostro) le proporzioni di ciò che storicamente è stato: in negativo, ovviamente, perché se il Petrarchismo ha conservato la funzione di icona simbolica, si è trattato però dell’icona di quanto deve essere deriso, sfregiato, abbattuto, distrutto, eliminato. Icona ideologica del nemico. A questo dato di immediata evidenza deve essere – a mio avviso – correlato un altro dato, che pertiene alla ratio complessiva della svalutazione ottocentesca dei poeti petrarchisti: il suo saper trasformare una tradizione teorico-critica preesistente (e che pertanto era estetica e formale) in pregiudiziale ideologica (e quindi anche etico-politica). Questo riposizionamento nei rapporti con la tradizione lirica variamente praticato nel corso dell’Ottocento è stato però più strategico che tattico: ha saputo opportunamente, e abilmente, riciclare materiali e argomenti desunti dalle tante critiche verso le scimmie di Petrarca che erano state espresse, in tanti e tanto diversi modi, nei secoli precedenti da posizioni classicistiche, con l’obiettivo di procedere alla destituzione di Petrarca dal pantheon delle patrie lettere, in quanto giudicato colpevole, senza possibilità di appello o grazia, di comportamenti (etici politici intellettuali) certamente ambigui, se non indegni. Poeta formalista, poeta senza anima politica. Ma se Petrarca non può essere tra i padri fondatori della nuova identità nazionale per la sua collusione con i tiranni e per la sua poesia ipernarcisistica di sole forme, tanto più non può esserlo per la troppo folta e scandalosa discendenza di poeti inutili che da lui direttamente ha preso il nome. Cosicché, quando il processo di svalutazione dei petrarchisti (e di Petrarca) sarà concluso e avrà ormai la forza tranquilla dei paradigmi, la condanna della tradizione lirica che aveva voluto seguire le orme di Petrarca potrà assumere la forma di certificazione clinica: il Petrarchismo come «malattia cronica della letteratura italiana»12, endemica nei territori e nei tempi delle patrie lettere. A partire da questo momento di definisce un trionfante stereotipo paradigmatico: tutti garrule scimmie di Petrarca, tutti portatori malati di una malattia, i letterati italiani della tradizione classicistica. Perché cultori di una poesia

12 È questo l’incipit citatissimo (fino a smarrire l’identità del suo autore) del saggio di Arturo Graf, Petrarchismo ed antipetrarchismo, in Attraverso il Cinquecento, Chiantore, Torino 1926, p. 3.

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senza storia e senza popolo, fatta solo di ignobili fronzoli autoreferenziali. Perché servi imbelli dello straniero attraverso la lunga durata della decadenza italiana, dei suoi tre secoli senza storia. Con un dettaglio importante, però, nella diversità del trattamento riservato a Petrarca e ai suoi seguaci. Se da parte di molti (da Ugo Foscolo a Francesco De Sanctis) non si può non manifestare attenzione e pietas nei confronti del Padre destituito (ed è spia di un disagio nei confronti della feroce forza dell’ideologia che si abbatte su una poesia che pur sempre affascina con la sua bellezza), nei confronti della folta discendenza petrarchesca tutti, invece, si sentono autorizzati a procedere a mani basse, facendone strame. Così, insomma, nasce il mostro del Petrarchismo: diventa il protagonista tanto cattivo (presto in buona compagnia: con il Barocco) quanto necessario, anzi indispensabile, per poter costruire quel paradigma storiografico (una favola triste e paranoica l’ho spesso definita) che per oltre un secolo ha predicato, nella nostra cultura (e non solo letteraria), la decadenza e la crisi d’Italia nei secoli senza libertà dell’età moderna, e quindi il disvalore di tutta la sua letteratura (ma non solo). Che poi qui sia possibile cogliere il costituirsi di un ulteriore e tutt’altro che marginale fattore dell’anomalia italiana (che è questione ancora tutta aperta, e non solo in ambito culturale o letterario) non è osservazione peregrina, se proprio gli sguardi degli altri che da tutta Europa hanno guardato ai nostri e ai loro poeti petrarchisti (e non solo: anche ai nostri e ai loro poeti o artisti barocchi, a esempio) si sono prodotti in valutazioni critiche e ricostruzioni storiche del tutto diversi: allora e ora. Senza insistere oltre su queste notazioni (anche perché ho avuto modo di svolgerle altrove in termini tanto più diffusi), mi sembra comunque necessario riconoscere che, se nella ricorrenza centenaria petrarchesca è stato possibile progettare occasioni di studio e di confronto tanto numerose e qualificate, dedicate a quella tradizione che nel suo nome si è per secoli variamente e sempre consapevolmente riconosciuta (fino a Giacomo Leopardi), non è solo perché tutto (o quasi) da allora è cambiato o può definitivamente cambiare in questo campo specifico (e parziale). Ma anche, e soprattutto, perché le nuove modalità di approccio alla tradizione lirica (in quanto Petrarchismo) hanno subito coinvolto l’assetto complessivo della tipologia culturale (il Classicismo, appunto) che non solo è costitutiva e propria dell’età moderna e del suo Antico regime, ma che ne connota geneticamente la stessa modernità, riaprendo così la questione del suo stesso senso (e valore). Petrarchismo e Classicismo. Petrarchismo è Classicismo. Vorrei sospendere (non certo concludere) queste riflessioni che rischiano di portarmi troppo lontano con una ultima osservazione, che vorrebbe guar-

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dare in avanti ed essere construens, più che essere ancora retrospettiva e destruens. Mi sembra infatti di poter cogliere nelle lente mutazioni di questo trentennio (un bradisismo, non un terremoto) la progressiva maturazione di una consapevolezza: che sia, cioè, condizione indispensabile e primaria (sine qua non), per ogni indagine ulteriore sugli statuti costitutivi e propri della letteratura (e della cultura) di Antico regime, non tanto la definitiva liquidazione di atavici furori ideologici (che immagino, o spero, del tutto, o quasi, spenti: ma qualche mattacchione che sogna di essere l’ultimo dei giacobini o l’ultimo degli storicisti si trova sempre), quanto soprattutto l’elaborazione di un’idea organica sia della nostra storia complessiva (o, se si vuole, della nostra identità), sia di quella letteraria in particolare, che sia capace di affrontare e sciogliere persuasivamente tutti quei nodi che il paradigma otto-novecentesco si illuse di recidere con la sua brutale spada. Dalla questione dell’autonomia del sistema della poesia e delle arti, e quindi della sua specifica eticità (il bello è il buono, e viceversa), alla questione delle modalità di funzionamento teorico e pratico di questo sistema nella sua reale (e iuxta propria principia: quasi un’archeologia) fenomenologia letteraria: in quanto autonomo sistema polimorfo e metamorfico (per modelli generi modi forme consuetudini: grandi e piccole tradizioni comunicative e relazionali), che si distende fluido e vario, mutando pelle e muscoli ma non scheletro, attraverso i secoli del nostro Antico regime, nei suoi tanti e tanto diversi microstati regionali e nelle sue tante e tanto diverse città-capitali. La questione, soprattutto, del senso e del valore che allora e lì ebbe la letteratura nel suo essere e voler essere parte, anzi principio fondativo, di una organica e forte tipologia culturale (il Classicismo, appunto) nelle sue straordinarie e replicate metamorfosi, diatopiche e diacroniche. E soprattutto la questione del soggetto protagonista assoluto di questa storia (attore e spettatore, autore e pubblico, creatore e destinatario). È tempo, ora, di nominarlo almeno: quel nobile cavaliere guerriero che volle farsi gentiluomo classicista assumendo consapevolmente una seconda natura. Per conformità culturale. Guardando all’Europa, confrontandosi con l’Europa, rientrando davvero in Europa dalle nostre automarginalità troppo a lungo coltivate (con quel piacere, tutto italiano, di farsi del male): in materia di poeti petrarchisti e d’altro. Riscontrandoci con l’Europa degli âges classiques, dei siglos de oro. Assumere questa prospettiva, rispetto a quanto prima ho osservato, comporta saper riconoscere che nel comune, ma anche fortemente differenziato, processo di nascita delle moderne letterature volgari in Europa, è stato proprio il modello dei poeti petrarchisti (nel suo imprinting italiano ovunque e sempre riconosciuto: dalla Spagna di Carlo V alla Francia di Francesco I, al-

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l’Inghilterra di Elisabetta I) il vettore primario e decisivo di una nuova idea, forte e coerente, di letteratura e di cultura. Nuova in primo luogo per autonomia di forme e di funzioni, cioè per la formidabile produttività della sua economia comunicativa, in quanto progetto e pratica di un modello generale e universale di testo e di lingua (nuovi perché antichi: o, se si vuole, anticati), di autore e di lettore. Un’economia subito globalizzata. Senza neppure accennare, qui e ora, a una qualche ricognizione bibliografica di questo lungo e articolato processo di mutazione dell’approccio critico, e dei suoi risultati, alla poesia dei petrarchisti e più in generale alla tradizione lirica tra Petrarca e Marino (anche per discrezione, avendovi preso parte in prima persona, e in modo tutt’altro che rapsodico), ritengo di potermi limitare a riconoscere quanto e come l’esperienza dei poeti petrarchisti, e complessivamente la tradizione lirica, non siano più, oggi, mediati da un canone ristretto e ripetitivo (più o meno la stessa troupe di autori che migrava con i suoi testi, e con il gioco rappresentativo delle loro proporzioni di quantità/valore, da un’antologia all’altra), che convalidava nel tempo l’inesorabilità del paradigma storico e critico. Come ho avuto modo di argomentare già trenta anni fa, il canone della ripetitiva microtradizione delle antologie risulta persino artificiosamente drammatizzato: con i suoi giudizi ad excludendum correlati alla posizione di eccellenza (direi, anzi, di simpatia) dei presunti non petrarchisti o dei presunti “antipetrarchisti”13, o addirittura all’esaltazione di poeti titolari di smilze raccoltine (i petrarchisti anoressici) rispetto agli autori di valanghe di versi (i petrarchisti bulimici) 14. Per non dimenticare l’ancor più singolare posizione di eccellenza (pur sempre per simpatia) attribuita a forme e generi presuntivamente repertoriati e descritti nel loro primato solo perché considerati e valutati come altri rispetto alla dominanza lirica. Come se nel sistema dei generi e delle forme della moderna letteratura volgare (geneticamente classicistica nelle sue macroinvarianti strutturali) fossero ravvisabili dinamiche 13 Mi limito solo ad accennare a quanto diffusamente ho esposto nei due saggi sul Petrarchismo citati in apertura, anche ricordando quanto poco sopra ho detto sull’antipetrarchismo come dinamica interna alla tradizione: gli antipetrarchisti sono una categoria metafisica delle patrie lettere, fantasmi prodotti dalla proiezione settoriale di quella tanto più ampia, e ancor più metafisica, degli “anticlassicisti”. 14 A voler essere maliziosi queste preferenze hanno finito per governare anche le scelte dei filologi, che ben di rado si sono dedicati a pubblicare e commentare libri di rime di cospicua mole: insomma, meno male che c’è Della Casa (titolare di un numero di edizioni “critiche” spropositato rispetto all’esiguità dei testimoni più ancora che del corpus), per evitare ogni rischio di avventurarsi in eccessive fatiche editoriali.

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consapevolmente antagonistiche e non, invece, un organico e giudizioso gioco delle parti che progetta e ricerca sempre l’assetto più conveniente come sistema integrato della comunicazione. Nell’età del libro tipografico, poi, che i poeti (e gli editori) di allora sanno immediatamente sfruttare come nuovo medium dinamico e flessibile, globale e locale, duraturo ed effimero. Ma tutto ciò non è certo avvenuto per caso, né tanto meno per la disinvolta cattiveria di qualcuno. Il fatto è che quella che mi è sembrata, e mi sembra, la radicale distorsione di tutta una letteratura (la distorsione, insomma, con cui in tanti abbiamo dovuto fare i conti nel corso di questi trenta anni, e con cui purtroppo ancora ci confrontiamo: per la forza inerziale di tutti i grandi paradigmi), non è stata altro che una parte, certamente ragguardevole, di una coerente costruzione di senso. Il senso della nostra storia nazionale edificato e proiettato retrospettivamente: per marcare la più profonda discontinuità possibile con quanto proprio la tradizione classicistica aveva trasmesso. Per ragionare allora delle rilevazioni diagnostiche che hanno poi prodotto la certificazione del Petrarchismo come malattia cronica, con la scia di distorsioni e fraintendimenti che ho più volte indicato, è certamente opportuno soffermarsi su questa radicale, aggressiva, discontinuità, che descrivo qui in termini molto scorciati: sono state le istanze rifondative avviate dal nuovo sistema romantico (definito in quanto tale, presso di noi – come è noto –, da Alessandro Manzoni e sodali15) a connotare, dopo la Rivoluzione e dopo Napoleone, la nuova costruzione della storia italiana, con l’obiettivo strategico di perseguire la costruzione identitaria nazionale, in primo luogo attraverso la letteratura16. Ridefinendone non solo il sistema dei generi, con la loro

15 Non solo per debito personale di memoria rinvio ai due libri di Pino Fasano: L’Europa romantica, Le Monnier, Firenze 2004; Il Romanticismo, Istituto poligrafico e zecca dello Stato, Roma 2003. Nel rimpianto di appassionate e per me sempre feconde discussioni durate decenni. 16 D’obbligo il rinvio, su questo tema sin troppo investigato e dibattuto negli ultimi anni, ad Alberto M. Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Einaudi, Torino 2000; e ora: Stefano Jossa, L’Italia letteraria, Il Mulino, Bologna 2006. Per un riscontro meno allusivo di quanto ho altrove discusso, rinvio ai miei: Petrarca, l’italiano dimenticato, Rizzoli, Milano 2004; L’identità (rin)negata, l’identità vicaria. L’Italia e gli Italiani nel paradigma culturale dell’età moderna, in L’identità nazionale nella cultura letteraria italiana. Atti del 3° Congresso nazionale dell’ADI, a cura di Gino Rizzo, Congedo, Lecce, pp. 127-149; Per un’archeologia del Canone e della Biblioteca del Classicismo di Antico regime, in Il Canone e la Biblioteca, in Il Canone e la Biblioteca. Costruzioni e decostruzioni della tradizione letteraria italiana, a

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nuova gerarchia, ma soprattutto le sue funzioni: fortemente, necessariamente, eteronome ora, militanti, polemiche, persino aggressive, tra fazioni di intellettuali (la nuova parola che s’impone, degradando l’antica: mai più letterati, termine subito dispregiativo). Con un singolare paradosso, che così sintetizzo: il sistema romantico vuole riportare l’Italia in Europa (con un primo viaggio a Chiasso: già allora per aprire le frontiere all’importazione culturale, per dare una scossa alle provinciali patrie lettere), ma nel perseguire questo obiettivo relega in una vergognosa zona d’ombra l’esperienza letteraria e culturale dei tanti secoli dell’aborrito Antico regime della decadenza (politica ed etica) nazionale. I secoli, cioè, di quando l’Italia era stata in Europa maestra di civiltà: esportatrice di poesia e di galateo, di arti e di conversazione. Una contraddizione tanto vistosa quanto abnorme: possibile solo mediante una colossale, proterva, denegazione. Tutta ideologica. Non è però solo il sistema romantico della nuova letteratura, e della sua missione (con l’ideologia che la permea e la struttura, necessariamente), a rendere opaco il nostro rapporto con la tradizione lirica (e più in generale con tutta la letteratura) d’Antico regime. Nell’esperienza italiana è stato decisivo, poi, il magistero di Benedetto Croce: con l’impianto stesso del suo lavoro storiografico (mai però di “storia letteraria”: teoricamente rifiutata), come pure, in dettaglio, con l’invenzione del “secolo senza poesia”. Uno slogan, questo, dalla singolare fortuna, trascritto persino alla lettera da alcuni improvvidi seguaci o nipotini del grande maestro, che ne hanno così dissolto la funzione e il valore di giudizio estetico che intendeva connotare tutto un secolo, il Quattrocento, per marcare come nella sua alluvione di rime d’ogni genere e tipo non raggiunga mai la Poesia, in senso ovviamente crociano. Come dicevo, siamo ormai ben oltre il punto di non ritorno da queste distorsioni che hanno a lungo pregiudicato, se non reso impraticabile, il rapporto storico e critico con la tradizione letteraria dell’Antico regime classicistico. Per quanto riguarda in particolare l’esperienza dei poeti petrarchisti, la congiuntura degli studi si prospetta, anzi, particolarmente felice, e non solo nei termini attestati dalla bibliografia allestita in Germania17: una congiuntura

cura di Amedeo Quondam, Bulzoni, Roma 2002, pp. 39-63; Il Barocco e la Letteratura. Genealogie del mito della decadenza italiana, in I capricci di Proteo. Percorsi e linguaggi del Barocco. Atti del Convegno di Lecce 23-26 ottobre 2000, Salerno Editrice, Roma 2002, pp. 111-175. 17 Il quadro prodotto dalle informazioni contenute nella bibliografia degli studi sul Petrarchismo (e più in generale sulla tradizione petrarchesca: anche in quanto ricezione o fortuna) dell’ultimo trentennio è certo molto rilevante, già nel suo insieme: complessivamente descrive 2036 unità bibliografiche, che nella loro distribuzione per aree linguistiche

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feconda sia in Italia, sia (ma tanto più) su scala europea, dove non ha mai subito – come ricordavo – ostracismi traumatici. La poesia lirica dei petrarchisti, insomma, è tornata ad abitare la geografia e la storia delle nostre patrie lettere anche per effetto delle relazioni internazionali (propriamente comparatistiche): a forza di prendere atto, con invidia e stupore, di quanto fosse più verde l’erba lirica dei nostri vicini francesi, spagnoli, portoghesi, inglesi. Tutti cultori, da tempo e senza infamia e senza vergogna, dei propri poeti petrarchisti. 2. Frequentare, anche episodicamente, queste geografie europee è certo sempre e comunque salutare, non foss’altro perché si configura subito come esperienza di una letteratura globale non tanto, o non soltanto, per relazioni comparatistiche (nel loro dare e nel loro avere), quanto per dinamiche propriamente genetiche: una nuova letteratura che parla, intende parlare, nei moderni volgari (o meglio: nelle moderne eloquenze volgari) in primo luogo

e culturali forniscono subito qualche significativa indicazione. Dopo una prima sezione dedicata agli studi generali (con ben 189 unità bibliografiche, in misura cospicua di autori stranieri: ed è un primo dato rilevante), la sezione “romanistica” (come ancora si conviene di dire in terra di Germania) domina largamente. Di per sé il dato è scontato, anche nelle proporzioni distributive tra le diversi lingue neolatine europee: l’«italienischer Petrarkismus» è ovviamente preponderante (522 unità), ma non molto diverse sono le dimensioni degli studi su quello französischer (337 unità) e su quello «spanisher und katalinischer» (202 unità); mentre marginale è la parte di quello portugiesischer (25 unità) e più ancora di quello rumänischer (4 unità). Per quanto riguarda le altre lingue e culture europee, la bibliografia fornisce informazioni su vicende e aspetti pertinenti più alla ricezione (o alla varia fortuna) di Petrarca che a esperienze di poesia petrarchistica, pur sempre indicative dell’attrattività universale del modello petrarchesco: se di poco rilievo sono le sezioni che raccolgono gli studi sul «neulateinischer Petrarkismus» (27 unità) e su tante altre delle lingue e culture non romanze europee (olandese e fiammingo 18 unità; svedese 4; slavo 2 in generale più sottosezioni analitiche: croato 43, sloveno 2, bulgaro 4, polacco 14, ceco e slovacco 9, russo 10, ucraino 3; ungherese 11), rilevanti sono le sezioni dedicate alla tradizione petrarchistica in lingua tedesca (109 unità) e soprattutto in lingua inglese (419 unità). Non sfuggono, poi, in questa rassegna bibliografica i rapporti del Petrarchismo (e della tradizione petrarchesca) con le arti (36 unità) e con la musica (46 unità). Solo a sfogliare questi dati bibliografici, insomma, trova immediato e ampio riscontro – sempre che ce ne fosse bisogno – il senso della scelta compiuta nel progettare l’impianto del convegno di Bologna: il Petrarchismo, un modello di poesia per l’Europa. Una storia culturale che fecondamente attraversa e unisce, connota e distingue, Italia, Francia, Spagna, Inghilterra, Germania: nella tormentatissima loro storia attraverso un secolo lunghissimo, dall’età di Carlo V all’età di Elisabetta I, e oltre.

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attraverso la voce della poesia lirica progettualmente moderna perché consapevolmente petrarchistica; una nuova letteratura che aspira a essere conforme nelle pur diverse eloquenze volgari: perché condivide l’istanza primaria della ricerca di una nuova forma e di una nuova norma in un nuovo sistema comunicativo ed estetico (ed etico: in quanto forma e norma del vivere). E in queste dinamiche europee, lo ripeto, è pur sempre la poesia lirica a costituirsi in vettore forte e connotativo: nel nome di Petrarca costruisce il sistema della comunicazione, non solo letteraria, e fornisce una metaidentità conforme al gentiluomo delle corti d’Europa18. Prima ancora di insistere su questo accertamento, peraltro obbligato, mi sembra particolarmente istruttivo dare uno sguardo alla geografia (prima ancora che alla storia) europea della poesia dei petrarchisti, proprio per riflettere su queste sue carte sempre più nitidamente delineate, anche a scala molto ravvicinata, in tutti i dettagli che contano: comode e utili, anche perché tracciate da navigatori esperti. Ebbene, più che distenderle una accanto all’altra, quasi a ricostruire il puzzle dell’Europa di Antico regime, vorrei sovrap-

18 Per un quadro d’assieme della geografia e della storia petrarchistica europea (ricco anche di informazioni sulla sua fortuna critica e interpretativa) rinvio, oltre che a questi Atti, all’equilibrato e informato saggio di Antonio Gargano, Il Petrarchismo, originariamente apparso in una sede piuttosto, ma significativamente, strabica (uno sguardo che riesce a guardare al Petrarchismo non dall’età moderna, bensì dal Medioevo: Lo spazio letterario del Medioevo, 2: Il Medioevo volgare, III: La ricezione del testo, Salerno Editrice, Roma 2003, pp. 559-594) e poi ripubblicato nel volume dello stesso autore, Con accordato canto. Studi sulla poesia tra Italia e Spagna nei secoli XV e XVII, Liguori, Napoli 2005, pp. 45-76, con il titolo Modelli e stagioni del Petrarchismo europeo. Ma resta esenziale il volume miscellaneo di studi Dinamique d’un expansion culturelle. Pétrarque en Europe (XIVe-XXe siècle), a cura di Pierre Blanc, Champion, Paris 2001; nonché Petrarquisme et poésie en Europe, a cura di Adua Bidi Piccardi, Biblioteca Città di Arezzo, Arezzo 2002; Eve Duperay, L’or des mots. Une lecture de Pétrarque et du mithe littéraire de Vaucluse des origines à l’orée du XXe siècle. Histoire du Pétrarquisme en France, Publications de la Sorbonne, Paris 1997. Nell’occasione del centenario petrarchesco del 2004 sono ovviamente fiorite molte iniziative europee e internazionali, di cui intanto si stanno pubblicando gli atti. Ricordo: Les poètes français de la Renaissance et Pétrarque, a cura di Jean Balsamo, Librairie Droz, Genève 2004; Nel libro di Laura. Petrarcas Liebesgedichte in der Renaissance, a cura di Luigi Collarile e Daniele Maira, Schwabe, Basel 2004; Petrarca a Jednosc kultury europejskiej. Petrarca e l’unità della cultura europea, a cura di Monica Febbo e Piotr Salwa, Semper, Warszawa 2005; Petrarca in Deutschland, Ausstellung zum 700. Geburstag (20. Juli 2004), a cura di Achim Aurnhammer, Manutius Verlag, Heidelberg 2004; Petrarca y el petrarquismo en Europa y América, a cura di Mariapia Lamberti, Facultad de Filosofía y Letras UNAM, Ciudad de México 2006; Fritz Wagner, Sulla fortuna di Petrarca in Germania e altri studi, a cura di I Deug-Su, Edizioni del Galluzzo per la Fondazione Ezio Franceschini, Firenze 2005.

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porle: per metterne in evidenza la trama omogenea e condivisa. Non mi pare che il gesto possa essere considerato arbitrario o frivolo: perché queste mappe sono tutte “nazionali”, né potrebbero essere altrimenti misurate e descritte, e sono “nazionali” nel senso otto-novecentesco di Nazione-Stato (e delle storiografie che allora inventarono i miti identitari propri di ciascuna 19), non certo nel senso antico di “nazione”, relativo all’appartenenza, per nascita e per radicamento di tradizioni culturali, a una comunità, che è tale in termini indipendenti dalla sua dimensione e potere (nazioni anche municipali, dunque). E allora – questo è lo spunto di riflessione che vorrei proporre – che cosa può dirci il fatto che in tutte queste mappe nazionali l’esperienza dei poeti petrarchisti sia riconosciuta e descritta, oggi, come uno degli eventi primari che ha connotato, o comunque ha fatto parte, del processo di nascita delle rispettive nazioni? Cosa può dirci, insomma, il fatto che nei discorsi relativi alla storia letteraria e culturale di Spagna Francia Inghilterra risultino tanto esaltate quanto necessariamente correlate le pur distinte vie nazionali al Petrarchismo? Sarebbe di immediata evidenza, oggi, l’anacronismo del punto di vista che considerasse queste vie nazionali verso la lingua letteraria e verso la forma della poesia come processi fondativi ed elaborativi di autonome identità già proiettate (naturaliter: filosofia e teleologia della Storia) sulla strada degli assetti costituzionali e politici otto-novecenteschi, sui loro stati-nazione. E l’anacronismo non richiederebbe, come tale, ulteriori riflessioni. Eppure, per quanto risulti oggi sfumata e persino residuale, questa distorsione è ancora riconoscibile in qualche suo effetto: tramite la forza inerziale di quello strabismo costitutivo e proprio di ogni discorso identitario nazionale ottocentesco e post-ottocentesco, e più ancora tramite il radicamento paradigmatico dei tanti dettagli, più ancora che dell’insieme, prodotti da quello sguardo retrospettivo che ha riconosciuto nominato legittimato radici remote e prossime, costruendo un percorso lineare e progressivo, con il suo canone e con il suo pantheon dei padri e degli eroi. Rispetto a queste considerazioni e alla loro opportuna proiezione sulle nostre storie, ritengo che il riferimento alla più recente esperienza critica e storiografica sui petrarchismi europei possa assumere un rilievo davvero decisivo, per poter finalmente fare i conti con i nostri poeti petrarchisti e con

19 D’obbligo il rinvio a Anne-Marie Thiesse, La creazione delle identità nazionali in Europa, Il Mulino, Bologna 2001 (edizione originale: La Création des identités nationales. Europe XVIIIe-XXe siècle, Éditions du Seuil, Paris 1999).

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le distorsioni retrospettive e teleologiche delle nostre tanto più mediocri storie che li hanno persino trasformati in malati cronici di una cattiva Italia. Cominciando, a esempio, dalla macroscopica evidenza del dato che emerge dalla sovrapposizione delle geografie e delle storie degli altri petrarchismi nazionali in Europa: esperienze di “nazioni” mobilissime nella ricerca e definizione della propria identità culturale (inesistente in sé e di per sé, bensì riconoscibile solo in rapporto, per differenza e per relazione, a quella delle altre nazioni), curiose e disponibili al contatto e alle interferenze, agli scambi e ai meticciati. Con un fattore strategicamente decisivo: la ricerca e la definizione di una identità moderna si compie tutta intera sul campo della nuova tipologia culturale del Classicismo, sulla base dei suoi principi e dei suoi valori elaborati (nella loro migliore forma e norma) dagli umanisti italiani. Cosicché queste geografie e queste storie dei petrarchismi nazionali (in termini particolarissimi quelle relative a Francia e Spagna) hanno tutte a che fare sempre con l’Italia, parlano dell’Italia, delle sue città capitali, delle sue corti, dei suoi letterati e poeti, dei suoi editori; e tutte fanno riferimento a una fittissima trama di relazioni interpersonali dirette (in presenza) prima ancora che intertestuali mediate tramite carte e libri (in assenza). Ricostruiscono insomma una simbiosi di soggetti e oggetti in comunità: una res publica propriamente metanazionale, cioè umanistica per codice genetico e per statuto, oltre che per cronache. Sono metageografie e metastorie: di metaletterature, di metalingue 20. Non potrebbe essere diversamente, perché l’esperienza dei poeti petrarchisti nasce e si compie all’interno di una res publica costituzionalmente litteraria che corrisponde ancora, negli assetti e nei protagonisti – come ho accennato –, a quella che caratterizza la storia e la geografia dell’internazionale umanistica tra la fine del Quattrocento e il primo Cinquecento: come intanto documentano i curricula dei due fondatori prima citati, Bembo e Sannazzaro. Questa res publica, che pure è il fondamento necessario (di pratiche e consuetudini, e più ancora di persuasioni teoriche e di strategie culturali) della modernità culturale europea diversamente declinata nel tempo e nello spazio delle singole “nazioni”, è un fondamento ben presto invisibile. Sia perché si riorganizza con altre modalità relazionali, ma pur sempre in continuità e sviluppo con l’archetipica res publica umanistica, che nel suo farsi volgare deve proclamare e praticare la propria autonomia (in quanto 20 Ma non solo la Spagna e la Francia, da sempre coprotagoniste della storia italiana dell’età moderna, e proprio nei secoli del Petrarchismo, bensì anche la Gran Bretagna, come ora torna a documentare il libro di Michael Wyatt, The Italian Encounter with Tudor England. A Cultural Politics of Translation, Cambridge University Press, Cambridge 2006.

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accademia, in quanto salotto di conversazione): la repubblica europea delle lettere continuerà invece a parlare e a scrivere in latino21. Sia perché viene la res publica litteraria degli umanisti viene, per così dire, cannibalizzata, più che occultata, dai moderni (a cominciare da Bembo e Sannazzaro) che hanno optato, una volta per sempre, per il volgare, anche se continueranno (almeno i protagonisti di questa generazione che inventa la modernità letteraria volgare), a pensare in latino e quindi a scrivere in un volgare che conquista la sua grammatica per analogia con il latino, si fa sistema linguistico come se fosse il latino. Un ultimo rilievo, riferito in modo specifico agli studi sulla poesia petrarchistica iberica (più quella castigliana, che quella catalana e lusitana), particolarmente intensi in questi ultimi anni22. Il loro indubbio merito non è soltanto nell’avere ricostruito la fitta e feconda trama di relazioni culturali e personali che è alla base della nascita e al radicamento dei modelli petrarchistici in quella penisola (relazioni di catalani portoghesi castigliani con italiani: in particolare tra Napoli e Roma), ma soprattutto è nell’avere contribuito a dissolvere definitivamente quella devastante leggenda nera della Spagna come fattore primario della decadenza italiana nella lunga stagione del suo predominio sulla nostra penisola. Anzi, proprio la rivalutazione della simbiosi culturale che connota produttivamente i rapporti tra i poeti di queste tanto diverse quanto contigue nazioni, consente di mettere a fuoco senza distorsioni le dinamiche costitutive e proprie della nostra storia culturale, tra Quattrocento e Seicento, a partire dalla drammatica congiuntura delle guerre d’Italia che modifica per sempre l’assetto geopolitico degli stati regionali delle nostre signorie, come pure del loro fare cultura. E soprattutto consente di confermare il senso di quella contraddizione (scandalosa solo ai nostri occhi, o meglio: a quelli dei nostri nonni e padri) tra la sconfitta militare e l’asservimento politico, da una parte, e la conquista del primato culturale, dall’altra. 21 Fondamentale il rinvio al libro di Hans Bots e Françoise Waquet, La repubblica delle lettere, Il Mulino, Bologna 2005 (edizione originale: Belin-De Boeck, Paris 1997); nonché a Françoise Waquet, Latino. L’impero di un segno (XVI-XX secolo), Feltrinelli, Milano 2004 (edizione originale: Le latin ou l’empire d’un signe, Albin Michel, Paris 1998). 22 Per la Spagna mi limito a citare gli studi più recenti e prodotti in Italia, oltre al già citato volume di Antonio Gargano, rinvio a María Dolores García Sánchez, La Spagna letteraria: la poesia dei secoli d’oro, Carocci, Roma 2005; Matteo Lefèvre, Una poesia per l’Impero. Lingua, editoria e tipologie del Petrarchismo tra Spagna e Italia nell’epoca di Carlo V, Vecchiarelli, Manziana 2006. Per il Portogallo Rita Marnoto, O Petrarquismo português do Rinascimento e do Manierismo, Universidade, Coimbra 1997.

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Non è insomma per microtattiche autoconsolatorie, e quindi illusorie, che tanti letterati italiani, tutti umanisti per formazione e attività, predicano l’autonomia della forma (cioè, della cultura) rispetto alle soverchianti forze messe in campo dalla storia (cioè, al potere dei loro eserciti e delle loro politiche). Se questi letterati umanisti concorrono, seppure in modi diversi, all’elaborazione di una via di uscita dalla ineluttabilità della sconfitta militare e politica, è perché intendono impegnarsi in un consapevole progetto di sopravvivenza almeno dei valori culturali in cui hanno creduto: per trasmettere il patrimonio del loro stesso senso. Per questo scommettono tutti, seppure in termini molto diversi, nel possibile futuro di quello che per loro è, in termini ormai irreversibili, il «supremo ornamento» delle moderne società degli uomini (e propriamente delle società dei nobili guerrieri in armi), cioè le lettere e gli studia humanitatis. Così facendo, mettono in gioco le ragioni profonde del loro essere umanisti (la loro stessa metaidentità: per seconda natura): perseguono, insomma, il sogno di poter essere loro i moderni, coltissimi, greci che soggiogano culturalmente i moderni, barbarissimi, romani 23. Graecia capta ferum victorem coepit, appunto: l’Italia delle fragili città-stato e delle loro piccole corti, sconfitte depredate umiliate, e la potentissima Spagna di Carlo V. Perché la rivendicazione della migliore forma culturale degli italiani si può praticare anche lungo le strade della poesia che imita Petrarca: soggiogando gli spagnoli con la forza modellizzante del sonetto 24.

23 Per queste ragioni mi sembrano da discutere (ma ovviamente altrove) le conclusioni del pur fondamentale libro di Francisco Rico, Il sogno dell’Umanesimo. Da Petrarca a Erasmo, Einaudi, Torino 1998 (edizione originale: Alianza Editorial, Madrid 1993): con una acutissima metamorfica capacità di adattamento alle congiunture del presente, gli umanisti rilanciano il loro sogno di sempre di un mondo ordinato e formato dalle humanae litterae. 24 Questa strategia è direttamente enunciata nella battuta incipitaria dell’ampio trattato del napoletano Giovanni Pontano, De sermone (“la conversazione”, appunto), scritto tra il 1499 e il 1502 e pubblicato postumo nel 1509, che fa diretto riferimento alla catastrofe aragonese: «Itaque vagantibus per Italiam Gallicis, ne dicam eam vastantibus, copiis regnumque Neapolitanum hinc Gallis ipsis, illinc Hispanis occupantibus, a maximis doloribus nos merito labefacientibus animum ac mentem nostram omnino avertimus, quodque mirum fortasse videri possit, convertimus ad scribendas eas sive virtutes sive vicia quae in sermone versantur; non autem aut oratorio aut poetico sed qui ad relaxationem animorum pertinet atque ad eas quae facetias dicuntur, id est ad civilem quandam urbanamque consuetudinem domesticosque conventus hominum inter ipsos, non utilitatis tantum gratia convenientium, sed iucunditatis refocillationisque a labore ac molestiis» (cito dall’edizione a cura di Alessandra Mantovani, Carocci, Roma 2002, p. 70). Ma è soprattutto Castiglione a farsi carico di rappresentare questa consapevolezza nell’impianto argomentativo del suo Libro del Cortegiano (in prima edizione nel 1528 e subito tradotto in spagnolo da Juan de Boscán nel 1533): rinvio al mio «Questo povero Cortegiano». Castiglione, il Libro, la Storia, Bulzoni, Roma 2000.

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Questa è dunque la prima ragione dell’impianto del nostro convegno: aprire lo sguardo alla prospettiva europea, anche per meglio intendere (e liquidare: entrando davvero in Europa) l’assoluta singolarità della nostra anomalia, troppo a lungo durata, con esiti persino paradossali (i nostri poeti, i nostri libri di rime tanto più apprezzati fuori d’Italia). Per quanto riguarda l’erba del nostro giardino (più verde agli sguardi dei vicini), basterà riconoscere come e quanto, nel suo complesso, la fitta serie delle indagini filologiche e critiche che si sono progressivamente intensificate negli ultimi tempi (anche per la crescita impetuosa del numero degli addetti ai lavori nei cantieri dell’italianistica: in cerca di specializzazione, se non di identità) abbia concorso a restituire al panorama della poesia lirica da Petrarca a Marino non soltanto una ricchissima galleria di ritratti d’autore, spesso con accurate edizioni dei loro libri di rime e talvolta con una approfondita rimeditazione critica e valutativa del loro possibile costituirsi in canone, ma soprattutto il suo dinamico contesto referenziale su scala europea25. Per dare un riscontro immediato di quanto profonda si sia fatta la differenza del nostro sguardo sull’esperienza della lirica petrarchistica rispetto a quello di trenta anni fa, mi sembra risolutivo il rinvio alle nuove antologie di lirica del Cinquecento: numerose e agguerrite proprie in questi ultimi anni, dopo tanto deserto, seguito alla serialità pleonastica di quelle che analizzai nel Petrarchismo mediato 26. E, in termini più direttamente critici e interpre-

A riscontro, una sola battuta, dal citato libro di Antonio Gargano: «Nell’arco di tre decenni scarsi, dal 1526 al 1554, la poesia spagnola conobbe una vera e propria rivoluzione, che ebbe l’effetto non solo di sconvolgere forme e generi poetici di una tradizione consolidata e – per così dire – ad alto tasso di codificazione, ma anche d’instaurare un nuovo ordine poetico» (p. 141). Una rivoluzione petrarchistica, direttamente esemplata sui modelli italiani, per opera di poeti spagnoli che soggiornano a lungo in Italia. 25 Per una analisi ravvicinata degli studi italiani sulla poesia del Quattrocento e del Cinquecento segnalo, oltre a quanto proposto in questi Atti, in particolare le rassegne di Paola Vecchi Galli: La poesia cortigiana tra XV e XVI secolo. Rassegna di testi e studi (1969-1981), in «Lettere italiane», 1982, pp. 95-141; Il «secolo senza poesia». Rassegna di testi e studi (19731985), in «Lettere italiane», 1986, pp. 395-427; In margine ad alcune recenti pubblicazioni sulla poesia di corte nel Quattrocento. Linee per una rassegna, in «Lettere italiane», 1991, pp. 105115; e quindi quelle di Giorgio Forni: Rassegna di studi sulla lirica del Cinquecento (19891999). Dal Bembo al Casa, in «Lettere italiane», 2000, pp. 100-140; Rassegna di studi sulla lirica del Cinquecento (1989-2000). Dal Tansillo al Tasso, in «Lettere italiane», 2001, pp. 422-461. 26 Mi riferisco a queste recenti antologie, tutte di ampie proporzioni, ma di profonda diversità nell’impostazione: Antologia della poesia italiana: Cinquecento, a cura di Cesare Segre e Carlo Ossola, Einaudi, Torino 1997; La lirica rinascimentale, a cura di Roberto Gigliucci, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2000; Poeti del Cinquecento, I: Poeti lirici, burleschi, satirici e didascalici, a cura di Guglielmo Gorni, Massimo Danzi e

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tativi, mi sembra altrettanto risolutivo il nuovo assetto, ormai ben strutturato nei ricchi suoi dettagli, del quadro complessivo della poesia tra Petrarca e Marino: per geografia e per storia27. Sia perché un lirico “napoletano” risulta ormai pienamente distinguibile e riconoscibile rispetto a un lirico “milanese”, sia perché l’Italia tra Quattrocento e Cinquecento ha assunto una ben diversa visibilità complessiva: non più il luogo della catastrofe (la finis Italiae, l’uscita dalla Storia), bensì il laboratorio della modernità, nel diffuso e dinamicissimo sistema delle corti e delle loro proiezioni culturali, in quanto laboratori della «migliore forma degli italiani». Tanto che – per restare nell’ambito della tradizione lirica – la stessa etichetta di “poesia cortigiana” non è più, ormai, un cartiglio da inferno delle patrie lettere o da museo degli orrori28. Mentre sembrano dissolversi i fantasmi, in folto e depresso corteo, dei poeti colpiti dall’epidemia di petrarchite acuta. In questo rinnovato contesto è possibile, insomma, riconoscere i segni di ulteriori prospettive che si dischiudono dalle tante prospezioni archeologiche di questi ultimi anni: non si sono infatti limitate al disseppellimento di soggetti e di oggetti di vario valore, ma hanno sollecitato l’apertura di una riflessione sugli statuti generali della poesia nell’età moderna, sulle sue funzioni comunicative (estetiche e relazionali, di status e di occasione performativa), sulle sue mediazioni materiali (il libro di poesia), e quindi sulle dinamiche

Silvia Longhi, Ricciardi, Milano-Napoli 2001; Lirici europei del Cinquecento. Ripensando la poesia del Petrarca, a cura di Gian Mario Anselmi, Keir Elam, Giorgio Forni, Davide Monda, BUR Rizzoli, Milano 2004. Ma molto prima di queste: Poesia italiana del Cinquecento, a cura di Giulio Ferroni, Garzanti, Milano 1978. 27 Rinvio all’esemplare studio di Italo Pantani, «La fonte d’ogni eloquenza». Il canzoniere petrarchesco nella cultura poetica del Quattrocento ferrarese, Bulzoni, Roma 2002, che indaga le dinamiche geoculturali con cui viene affermandosi il rapporto modellizzante con Petrarca prima del Petrarchismo, senza peraltro mai impiegare in termini metaforici e anacronistici questa categoria. 28 Oltre alle citate rassegne di Paola Vecchi Galli, rinvio in particolare agli studi di Antonio Rossi, Serafino Aquilano e la poesia cortigiana, Morcelliana, Milano 1980; Marco Santagata, La lirica aragonese. Studi sulla poesia napoletana del secondo Quattrocento, Antenore, Padova 1979; Marco Santagata e Stefano Carrai, la lirica di corte nell’Italia del Quattrocento, Angeli, Milano 1993. Non è una banalità rituale ricordarlo, anche se, per discrezione, in questa zona marginale: nel settore degli studi sulla letteratura quattro-cinquecentesca, molti di noi italianisti, anche se non tutti, siamo stati e siamo ancora, direttamente o indirettamente, debitori del magistero di Carlo Dionisotti. Per quanto mi riguarda, tornare a leggere il suo grande libro del 1967 è, ancora oggi, un’esperienza che mi rende sempre più consapevole di quanto forte sia il debito nei confronti di quelle pagine, tanto assimilate in profondità, da avere funzionato talvolta in modo che direi subliminale.

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del suo canone. Tanto che oggi sappiamo anche distinguere – come dicevo – tante forme diverse, e tra loro anche tanto diverse, di pratiche di scrittura poetica sul modello petrarchesco, in quanto scelte personale e in quanto tradizioni locali: petrarchismi al plurale, insomma29. 3. Non solo per questo, però, è stato possibile progettare un convegno intitolato: “Il Petrarchismo: un modello di poesia per l’Europa”. Se il fattore decisivo è stato – come ho argomentato – l’apertura al confronto con l’esperienza letteraria e culturale europea (dove il Petrarchismo – come ho appena detto – è di casa, da tempo, senza particolari traumi: anzi, con rilevantissime acquisizioni critiche ed ermeneutiche), ancora più importante è stato il confronto con l’esperienza del fare musica nell’Italia tra Quattrocento e Cinquecento, che si risolve in gran parte nella straordinaria storia del madrigale. Senza però trascurare il contesto delle nuove competenze e funzioni musicali, che pervadono il tempo ordinario e i luoghi domestici del moderno gentiluomo, dalla sua camera privata alla tavola larga dei conviti, dai saloni delle danze alle cappelle di corte, fino a quel nuovo spazio che nasce per essere dedicato alla poesia rappresentativa in musica, e più in generale a quella esondazione di musica all’aperto, in apparati festivi e in una gamma infinita di intrattenimenti, che connota la storia culturale delle società europee di Antico regime. Se fin qui ho solo accennato a questo ulteriore e decisivo aspetto che ha connotato la più recente congiuntura degli studi sulla tradizione lirica, vorrei ora approfondirne l’impatto sugli studi letterari, non fosse altro perché la storia del madrigale polifonico è sostanzialmente in sincronia e in sintonia con la storia della poesia lirica petrarchistica, come da sempre gli studi musicologi, in splendida autonomia, hanno argomentato, supplendo anche alle nostre latitanze30. Tanto più se si considera come, purtroppo, questo confronto con 29 Mi riferisco alle stimolanti note di Roberto Gigliucci, Appunti sul Petrarchismo plurale, in «Italianistica. Rivista di letteratura italiana», 2005, 2, pp. 71-75. Con il rilievo che, forse, la sua raffinata nomenclatura di ben tredici petrarchismi al plurale rischia di disperdere quanto pertiene al “genere” (il sistema linguistico e culturale) rispetto a quanto invece pertiene a ogni singola esperienza individuale, di autore e di singolo atto di scrittura: tutti diversi tra loro i petrarchisti, ma anche tutti conformi; tutti, cioè, geneticamente membri di una stessa famiglia (nei termini della citata lettera di Petrarca a Boccaccio). 30 Che oggi l’intreccio tra studi letterari e studi musicologici si sia fatto tanto più intenso che in passato, per quanto non ancora biunivoco o simmetrico (per difetto di noi operatori sul testo poetico), è documentato, con ampiezza di punti di vista, proprio questo volume di atti.

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l’esperienza musicologica – peraltro indispensabile per ogni discorso sulla poesia nell’età moderna, e tanto più per quella rappresentativa: i “libretti” del melodramma31 – è stato, ancora nel recente passato, ben poco praticato in campo letterario, e con grave danno, perché si sarebbe potuto, da tempo e per tempo, ragionare con profitto su alcuni fattori comuni alla lirica dei petrarchisti e al madrigale polifonico (considerato, e non tanto per analogie esteriori, anche come tipologia di “petrarchismo musicale”) 32.

Per dare un riscontro emblematico dei nostri ritardi, ricordo che la prima edizione del testo fondativo degli studi sul madrigale musicale (nei suoi rapporti con la poesia, ovviamente), cioè il ponderoso The Italian madrigal di Alfred Einstein, risale al 1949 (quando per noi il Petrarchismo era soltanto una malattia cronica), e che il repertorio di riferimento (poi aggiornato e rifatto) di Emil Vogel, Bibliothek der gedruckten weltlichen Vocalmusik Italiens aus den Jahren 1500-1700, risale addirittura al 1892 (quando nelle nostre “biblioteche” non c’era spazio per i poeti lirici). Per un primo orientamento nella ingens sylva dei rapporti tra poesia e musica, dal madrigale al melodramma, e in particolare su questo ultimo, mi limito a citare (rinviando a quanto è qui agli Atti) gli studi che mi sono stati essenziali: Lorenzo Bianconi, Parole e musica. Il Cinquecento e il Seicento, in Letteratura italiana, VI: Teatro, musica e tradizione dei classici, Einaudi, Torino 1986, pp. 319-363; Giulio Cattin, Il madrigale italiano del Cinquecento, Cleup, Bologna 1986; l’ampia raccolta di saggi: Il madrigale tra Cinque e Seicento, a cura di Paolo Fabbri, Il Mulino, Bologna 1988. Per l’analisi delle dinamiche della frattura prodotta dal moderno madrigale (geneticamente petrarchistico) rispetto alla tradizione della poesia in musica (frottola e quant’altro) è fondamentale lo studio di Jan Fenlon e James Haar, L’invenzione del madrigale italiano, Einaudi, Torino 1992 (edizione originale: The Italian madrigal in the early sixteenth century. Sources and interpretation, Cambridge University Press, Cambridge 1988). Per quanto riguarda la mia personale esperienza, ricordo con affetto gli anni ormai remoti che portarono alla costituzione dell’Archivio del madrigale (sodale di quello dedicato alla Tradizione lirica) presso l’Istituto di studi rinascimentali di Ferrara, allora tutt’altro che arroccato nell’orizzonte municipale, ma benemerito promotore di molteplici e fervide occasioni d’incontro multidisciplinari e internazionali. In particolare ricordo con tenerezza e gratitudine l’appassionato magistero di Thomas Walker e dei suoi sodali americani e inglesi, come pure italiani, e ripenso ora alla mia sorpresa nel sentirli discettare con allegria dell’importanza capitale (negli anni Ottanta) delle raccolte di rime di diversi, da scomporre e studiare una per una, sognando, già allora, acquisizioni digitali e banche dati di testo lirico. 31 I “libretti” d’opera sono entrati finalmente e stabilmente a far parte, e a pieno titolo, del quadro dei generi e delle forme letterarie e culturali, tanto da essere canonizzati nel “Meridiano” dei Libretti d’opera italiani dal Seicento al Novecento, a cura di Giovanna Gronda e Paolo Fabbri, Mondadori, Milano 1997. 32 Forse avremmo potuto evitare certe ingenue disavventure: a esempio, trattando di madrigale come se fosse soltanto una autonoma e irrelata forma metrica, da descrivere e analizzare senza curiosità verso i suoi eventuali destini musicali, anche quando il testo chiamato madrigale è ormai geneticamente in simbiosi con la sua intonazione musicale chiamata anch’essa madrigale.

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In sintonia e in sincronia: per data di nascita (quel fatidico 1530, o immediati suoi dintorni: la nuova poesia lirica e la musica nova 33) e per data di morte (sul crinale tra i due secoli, con la vittoria dei nuovi Moderni: Giovan Battista Marino, Claudio Monteverdi), come pure, e soprattutto, per le dinamiche e le modalità costitutive e proprie di queste gemine storie. A esempio, la lirica dei petrarchisti e il madrigale polifonico, nel loro nascere, sono entrambi geneticamente caratterizzati dalla stessa determinazione a marcare una profonda discontinuità con le rispettive pratiche immediatamente precedenti o contemporanee: cioè, con la poesia cortigiana e con la musica vocale profana anch’essa cortigiana (a voce sola accompagnata) e con le loro forme primarie (strambotti barzellette capitoli frottole eccetera: tutte eliminate). A esempio, entrambi sono connotati da una omologa ricerca di nuove forme e di uno stile moderno, rispetto all’ibridismo dei rispettivi contesti di origine (veterocortigiani, appunto: di un passato che si deve rinnegare per fondare la modernità cortigiana34): per rigorosa selezione, secondo ordine e misura; fino all’invenzione del moderno madrigale che è anch’essa una consapevole e progettata rinascita sui modelli antichi (Petrarca in primis)35. A esempio, entrambi adottano senza esitazioni il nuovo medium tipografico (radicandosi entrambi in Venezia36), dopo avere fatto riconoscere al 33 In questo anno 1530 è pubblicata la Roma, da Antonio Blado la raccolta di Madrigali novi di diversi excellentissimi autori (questo è il titolo più esteso della ristampa Dorico del 1533): è il famoso libro primo de la Serena. Ricordo che Musica nova è il titolo della raccolta di Adrian Willaert: pubblicata nel 1559 (Venezia, Antonio Gardane), ma composta la fine degli anni Trenta e l’inizio dei Quaranta. 34 Ricordo che il manifesto dell’orgoglio della nuova cultura cortigiana rispetto alle mediocri (perché prive di forma e di norma) pratiche delle corti del passato (persino prossimo) è nel prologo del secondo libro del Cortegiano. 35 Cfr. i saggi raccolti nel citato volume curato da Paolo Fabbri: l’ibridismo originario (frottole, ballate, stanze di canzone, madrigali: ma pochi sonetti) è abbandonato con l’autonoma elaborazione di un nuovo assetto testuale madrigalistico, tanto più funzionale alla sua intonazione. 36 Sulla nascita del libro musicale tipografico soccorre ora l’imponente volume degli atti di un convegno veneziano del 2001, essenziale anche per un inquadramento complessivo (a esempio, del problema, fondamentale, per le fonti musicali a stampa, della loro deperibilità e rarità: libri per pratiche performative, senza destino di biblioteca): Venezia 1501: Petrucci e la stampa musicale, a cura di Giulio Cattin e Patrizia Dalla Vecchia, Edizioni Fondazione Levi, Venezia 2005. Il testo di riferimento resta il libro di Iain Fenlon, Musica e stampa nell’Italia del Rinascimento, Edizioni Silvestre Bonnard, Milano 2001 (edizione originale: Music, Print and Culture in early Sixteenth-Century Italy, The British Library, London 1995). Venezia è capitale del libro musicale (come pure letterario) anche per ragioni culturali e stilistiche: cfr. Martha Feldman, City Culture and the Madrigal at Venice, University of California Press, Berkeley 1995.

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pubblico dei praticanti la novità delle loro forme tramite il tradizionale manoscritto (per il madrigale l’epicentro è più a Firenze che a Roma: e già negli anni Venti) 37. Questa piena omologia tra la nuova lirica e la nuova musica vocale profana (mutatis ovviamente mutandis) non è però solo nella scansione dei tempi del loro costituirsi affermarsi declinare e nelle modalità (e tipologie) formali e materiali del loro comunicare: è anche, e soprattutto, nelle loro nuove funzioni, che si rivolgono a un nuovo soggetto (lo progettano e lo costruiscono: sul nuovo mercato culturale), che non è in alcun modo un consumatore passivo, bensì è titolare di nuove competenze che lo sollecitano a farsi protagonista attivo, come autore e come performer. Il rapporto tra poesia e musica (quella profana, è ovvio: ma poi, dopo Trento ...38) non può certo risolversi nell’individuazione di queste pur fondamentali simmetrie analogiche, tutt’altro che casuali, come ci insegnano i musicologi39. Il fatto, poi, che tra di loro abbiano tanto discusso e ancora Nel campo degli studi musicologi è un forte luogo comune il riferimento alla parte che Anton Francesco Doni assegna nella sua Libraria (in prima edizione nel 1550: a Venezia, presso il grande Giolito, protagonista del Petrarchismo) alla «musica stampata: madrigali, mottetti, messe e canzoni»: cfr. l’edizione a cura di Vanni Bramanti, Longanesi, Milano 1972, pp. 233-242. Faccio autocritica, anche se purtroppo solo retrospettivamente: non diedi il rilievo che invece ora mi sembra necessario a questa sezione della Libraria, quando me ne occupai (La letteratura in tipografia, in Letteratura italiana, II: Produzione e consumo, Einaudi, Torino, pp. 555-696). 37 Per la nascita del madrigale, oltre che al citato libro di Fenlon e Haar, rinvio al saggio dello stesso James Haar, Ripercorrendo gli esordi del madrigale, nella citata silloge curata da Fabbri, pp. 39-69; per le dinamiche del rapporto tra libro manoscritto e libro a stampa nella tradizione lirica, rinvio al volume di saggi Il libro di poesia dal copista al tipografo, a cura di Amedeo Quondam e Marco Santagata, Panini, Modena 1989; per la parte della tipografia rinvio al mio libro già citato, Il naso di Laura, oltre che ai due saggi citati in esordio. 38 Rinvio ai fondamentali studi di Giancarlo Rostirolla, Danilo Zardin e Oscar Mischiati, La lauda spirituale tra Cinque e Seicento. Poesie e canti devozionali nell’Italia della Controriforma, Ibimus, Roma 2001: è il testo di riferimento obbligato per l’analisi della poesia spirituale in musica, nelle sue autonomie e correlazioni con il madrigale. Ho descritto il territorio più largo di questa poesia in Note sulla tradizione della poesia spirituale e religiosa (parte prima), in Paradigmi e tradizioni, a cura di Amedeo Quondam, in «Studi (e testi) italiani» 16, Bulzoni, Roma 2005, pp. 127-282. 39 Paolo Fabbri, nell’introduzione alla citata raccolta di saggi da lui curata, segnala, a esempio, come il nome stesso di “madrigale” sia scelta consapevole dalla tradizione lirica, rafforzata dalla grande quantità di intonazioni dei quattro madrigali petrarcheschi. Ma è proprio la centralità di Bembo a essere essenziale anche per la formazione del nuovo madrigale: cfr. Dean Mace, Pietro Bembo e le origini letterarie del madrigale italiano,

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discutano della possibilità di riconoscere, e in quali termini, un “petrarchismo musicale” dimostra che non possono bastare né facili simmetrie né generiche analogie, per quanto siano state suggestive e in qualche modo persino efficaci in passato. A cominciare dalla più vistosa, anche in senso simbolico: quella che marca la straordinaria presenza di Petrarca nel madrigale cinquecentesco. Come non correlare subito la macroscopica evidenza del dato che misura nell’impressionante numero di 1525 le volte 40 che i suoi testi sono stati intonati da musicisti diversi (i suoi quattro madrigali, ma non solo: anche stanze di canzoni e sonetti), alle circa centocinquanta edizioni del Canzoniere registrate dalla bibliografia dei libri di poesia nell’arco del solo Cinquecento (con in frontespizio, quasi un vessillo: Il Petrarca)? Eppure la forza e l’evidenza di questi macrodati, da sole, non possono bastare per descrivere analiticamente e interpretare le proporzioni e il senso della tradizione dei testi dei Rerum vulgarium fragmenta nella ricchissima esperienza sia della poesia lirica sia della musica polifonica (sempre e ovunque tramite imitazione citazione riuso, ma anche parodia41): tanto più se in quest’ultima (di nuovo in immediata simmetria con la letteratura) si registra

pp. 71-91 della raccolta curata da Fabbri; con i rilievi critici, però, di Stefano La Via, Madrigale e rapporto fra poesia e musica nella critica letteraria del Cinquecento, in «Studi musicali», 1999,pp. 33-70. 40 Desumo questo dato dalla consultazione in rete del Repim (Repertorio della poesia italiana in musica), che dovrebbe entrare nelle consuetudine ordinarie di noi letterati: http://repim.muspe.unibo.it. Per una descrizione del progetto rinvio alle ultime informazioni sullo stato di avanzamento dei suoi lavori prodotte da Angelo Pompilio in questi atti e nel saggio: Il repertorio della poesia italiana in musica (1550-1700): un aggiornamento, in Petrarca in musica. Atti del Convegno internazionale di studi. Arezzo 18-20 marzo 2004, a cura di Andrea Chegai e Cecilia Luzzi, Libreria musicale italiana, 2005, pp. 391-396. Vorrei però segnalare complessivamente questo volume, davvero essenziale per cogliere la profondità e complessità degli intrecci biunivoci tra poesia e musica, attraverso Petrarca, nella cultura italiana ed europea fino al Novecento. Per dare un rapido ragguaglio delle proporzioni del fenomeno della poesia intonata, mi limito a citare i dati complessivi del Repim: al momento l’archivio comprende (cito i dati prodotti nel sito) (a) una bibliografia di fonti letterarie (ca. 1500 titoli); (b) un incipitario di ca. 10.000 componimenti messi in musica e riscontrati nelle fonti letterarie consultate; (c) una bibliografia di circa 3500 fonti musicali di musica profana e spirituale dei secoli XVI-XVII, sia raccolte collettive, sia edizioni uninonimali; (d) un incipitario di ca. 43.000 componimenti messi in musica (per un totale di ca. 66.000 intonazioni); (e) un elenco anagrafico di circa 1400 musicisti e 3200 poeti; (f) la riproduzione digitale di circa 7500 pagine di fonti musicali e 3000 pagine di fonti letterarie. 41 A esempio, per un riuso parodico di Petrarca, rinvio al saggio di James Haar, «Pace non trovo»: una parodia letteraria e musicale, nella raccolta curata da Paolo Fabbri, pp. 231-244.

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– per unanime convincimento – un «fenomeno davvero unico nella storia universale del rapporto fra poesia e musica», perché solo questo libro di rime (anzi, il Libro) diventa «oggetto di una devozione» senza possibilità alcuna di paragoni (né prima né dopo), per «quantità e varietà di compositori», e proprio a partire dagli anni Quaranta, con un picco massimo negli anni Sessanta42. Se questo persiste come solido paradigma negli studi musicologici43, è però tutt’altro che inerziale assioma, proprio perché non cessa di prospettare dinamicamente almeno un fattore connotativo e distintivo di grandissimo rilievo (anche per noi operatori sul testo poetico): in questi anni cruciali per la formazione della nuova cultura classicistica (e per noi: del sistema della moderna letteratura volgare), Petrarca, prima che un oggetto di culto, è il luogo privilegiato della sperimentazione linguistica e formale non soltanto nella ricerca dei letterati, ma anche in quella dei musicisti, che nella prima fase sono soprattutto (ma non solo) fiamminghi attivi in Italia44. E questa 42 Stefano La Via, Petrarca secondo Verdelot. Una rilettura di “Non po’ far Morte il dolce viso amaro”, in Petrarca in musica cit., p. 131. La tabella prodotta da Paolo Cecchi, La fortuna musicale della “Canzone alla Vergine” petrarchesca e il primo madrigale spirituale, p. 248 dello stesso volume di atti (relative alle stampe madrigalistiche del Cinquecento contenenti almeno una intonazione di testi petrarcheschi: per un totale di 511 stampe e di 2466 intonazioni), consente di riscontrare la progressione nel corso del Cinquecento del culto di Petrarca in musica: una simmetria con quanto avviene nell’editoria lirica, ma con una significativa diversità di ritmi. Mi limito a citare i soli dati delle intonazioni: passano dalle 10 del decennio 1520-1529 alle 30 del decennio successivo, per esplodere a 367 nel 1540-1549. Questo dato resta stabile nel decennio 1550-1559, ma raddoppia in quello successivo: passa da 368 a 746 intonazioni. Fa riflettere il dato che rileva poi il dimezzamento (anche in dati percentuali) nel periodo 1570-1579: scendono a 379; risalgono poi a 438, ma crollano a 128 nell’ultimo decennio del secolo: quando irrompe la forza dei Moderni, ed è tutta un’altra musica e un’altra poesia e un’altra poesia in musica. L’instabilità dei dati, rispetto a quelli di Repim, consegue dalle differenti metodologie impiegate: ma questo riscontro quantitativo, come tutti gli altri che poi produrrò, intende avere un valore in primo luogo indicativo. 43 Lo ribadisce, sulla scorta dei rilievi fondativi di Lorenzo Bianconi, anche Franco Piperno in apertura del suo saggio «Sì alte, dolce e musical parole». Petrarca, il Petrarchismo musicale e la committenza madrigalistica nel Cinquecento, nel citato volume Petrarca in musica, pp. 321-346: «Il primato della lirica petrarchesca fra le scelte poetiche dei musicisti del Cinquecento, almeno entro i primi due terzi, è un dato certo e pienamente acquisito dalla storiografia sulla polifonia profana italiana di quel periodo». 44 Cfr. Cecilia Luzzi, Petrarca, Monte, i Fiamminghi e la “questione dello stile” nel madrigale cinquecentesco, nel citato volume Petrarca in musica, pp. 293-317: se è Filippo di Monte a intonare più testi di Petrarca (in tutto 74, tra 1554 e 1597), la svolta si compie con Adrian Willaert (nella Musica nova, del 1559 ma con opere che risalgono ai primi anni Quaranta, ne intona 24, e tutti – si badi bene – sonetti, di cui ben 22 mai intonati prima); e

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sperimentazione condivide anche il fatto che non si riferisce in termini esclusivi al Petrarca maestro assoluto del discorso amoroso, al Petrarca nei suoi testi più facilmente memorizzabili: come i letterati, anche i musicisti lavorano sui testi che prospettano altri modelli tematici, di introspezione e di esercizio spirituale. Tanto che è proprio un testo complesso come la canzone conclusiva dei Rerum vulgarium fragmenta a impegnare costantemente i compositori, che intonano Vergine bella sia integralmente, malgrado la sua cospicua estensione (almeno 15 intonazioni pubblicate, con 20 ristampe), sia in parafrasi integrali (due intonazioni edite), sia in singole stanze o gruppi di stanze (poco meno di una trentina di intonazioni) 45. Se Petrarca è lo snodo decisivo della moderna poesia e della moderna musica vocale profana, se ne è parametro primario e obbligato di riferimento (per ragioni di lingua e stile, in primo luogo), ne consegue che è Petrarca a marcare geneticamente, in quanto forma produttiva, le loro rispettive ma integrate esperienze di ricerca della modernità: di una poesia nuova e di una musica nuova. In questa economia generale del riuso petrarchesco è facilmente riconoscibile, insomma, il modo ordinario di funzionamento del Classicismo, che proprio sulla definizione della bona imitatio di Petrarca fonda ed elabora la sua articolazione di quel sistema integrato di norma e di forma destinato a durare nei secoli, con tutte le metamorfosi e con tutti gli adattamenti necessari e opportuni: anche come fondazione ed elaborazione delle convenienti dinamiche di rapporto, in questo sistema, tra Antichi e Moderni. Tanto più che questo rapporto, in quanto tale, istituisce una cultura propriamente tradizionale: e infatti non si risolve mai in una mera enunciazione di principi generali, bensì predica se stesso, si realizza e si convalida, nel tempo e nello spazio, sempre attraverso quella serie sterminata di pratiche di scrittura (di testo poetico e di musica) e di lettura (e di canto) profilata dall’insieme, impressionante, dei dati bibliografici finalmente disponibili in serie complete, o quasi. Un rapporto in tempo reale, come in tutte le culture tradizionali: loro, gli Antichi, i nostri padri, sono presenti e vivi, in tempo e luogo reale, di noi Moderni, loro figli per discendenza diretta e consapevole. Sono i nostri contemporanei.

poi con Orlando di Lasso (60 testi petrarcheschi intonati), Cipriano de Rore (49 testi), Giaches de Wert (34). 45 Desumo questi dati dal citato saggio di Paolo Cecchi, pp. 288-291. Una loro attenta valutazione dovrebbe contribuire a una più equilibrata analisi delle funzioni che il Libro assolve nei circuiti della comunicazione (e non solo letteraria) lungo il lunghissimo Cinquecento: non è solo un alfabeto d’amore.

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Ma non solo: queste continue e diffuse pratiche performative (leggere e cantare) mettono infatti in gioco l’economia stessa della memoria della poesia come fattore produttivo e riproduttivo di nuova testualità nella tipologia culturale del Classicismo46. Faccio un esempio, che mi auguro non sia considerato azzardato dagli amici musicologi, anche se – lo confesso – la sua scelta è partigiana: nel 1585 è pubblicato in Roma il primo libro dei Madrigali a quattro voci di Luca Marenzio, un grandissimo protagonista del madrigale cinquecentesco. Questa è la sequenza dei testi intonati pubblicati nel volume:

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• Non vidi mai dopo notturna pioggia: Francesco Petrarca (RVF 127: quinta stanza della canzone In quella parte dove Amor mi sprona); • Dissi a l’amata mia lucida stella: Anonimo; • Veggo, dolce mio bene: Anonimo; • O bella man, che mi ristringi ‘l core: Francesco Petrarca (RVF 199: sonetto); • Non al suo amante più Dïana piacque: Francesco Petrarca (RVF 52: madrigale); • Hor vedi, Amor, che giovinetta donna: Francesco Petrarca (RVF 121: madrigale); • Apollo, s’ancor vive il bel desio: Francesco Petrarca (RVF 34: sonetto); • Nova angeletta sovra l’ale accorta: Francesco Petrarca (RVF 196: madrigale); • Vedi le valli e i campi che si smaltano: Iacopo Sannazzaro (Arcadia, egloga VIII, vv. 142-147; terzine di endecasillabi sdruccioli a rima incatenata); • Chi vòl udir i miei sospiri in rime: Iacopo Sannazzaro (Arcadia, egloga IV, vv. 1-6; prima stanza di sestina doppia); • Madonna, sua mercè, pur una sera: Iacopo Sannazzaro (Arcadia, egloga VII, vv. 25-30; quinta stanza di sestina); • Vezzosi augelli in fra le verdi fronde: Torquato Tasso (Gerusalemme liberata, XVI, vv. 89-96: ottava 12); • Ahi dispietata morte, ahi crudel vita: Francesco Petrarca (RVF 324, vv. 4-12: ballata); • Dolci son le quadrella ond’Amor punge: Giovanni Della Casa (Rime 10: sonetto); • Menando un giorno gli agni presso un fiume: Iacopo Sannazzaro (Arcadia, egloga I, vv. 61-67; frottola di endecasillabi); • I lieti amanti e le fanciulle tenere: Iacopo Sannazzaro (Arcadia, egloga VI, vv. 103-109; terzine di endecasillabi sdruccioli a rima incatenata); 46 Rinvio al libro di Roberto Fedi, La memoria della poesia. Canzonieri, lirici e libri di rime nel Rinascimento, Salerno editrice, Roma 1990.

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• Tutto ‘l dì piango; e poi la notte, quando: Francesco Petrarca (RVF 216: sonetto); • Zefiro torna e ‘l nel tempo rimena: Francesco Petrarca (RVF 310: sonetto); • Sul carro de la mente auriga siedi: Torquato Tasso (Rime 553: sonetto); • Lasso, dicea: “perché venisti, Amore: Anonimo (stanza in ottava rima); • Vienne Montan, mentre le nostre tormora: Iacopo Sannazzaro (Arcadia, egloga IV, vv. 37-75)47.

Certo, le scelte di Marenzio possono risultare, nel 1585, sin troppo parziali, e lo sono, nel loro guardare così intensamente all’indietro48. Ma la dominanza di Petrarca e di Sannazzaro come “parolieri” resta comunque significativa anche a questa data, dopo esserlo stata nella fase di rinascita del madrigale musicale: perché si correla alla presenza (tanto scarsa quanto iperselettiva) di testi di poeti contemporanei, sia di un passato prossimo (Giovanni Della Casa) che di un innovativo presente (Torquato Tasso), oltre che a testi anonimi (come spesso accade nella fenomenologia del madrigale in musica); perché si propone come esperienza (tanto più rilevante, per la caratura del musicista) di quella economia della memoria poetica che connota produttivamente la possibilità stessa di comunicare (nel rapporto in tempo reale tra Antichi e Moderni) da parte della lirica petrarchistica e classicistica. Una memoria (ancora nel 1585) viva e che dà vita – giorno dopo giorno, performance (di lettura e di canto) dopo performance – a testi di poeti che non sono lontani, né possono essere percepiti come lontani, bensì sono presenti e vivi, e come tali sono letti e intonati. Insieme agli altri; e qui, più degli altri. Testi contemporanei, dunque, anche quando vengono da lontano. Testi cui dare suono conveniente: con voce intonata. Trasformando in altro, con

47 Una ricognizione tra i dati di Repim consente agevolmente di riconoscere le altre presenze di questi testi nel lavoro dei madrigalisti. A esempio, RVF 52 aveva avuto una dozzina di intonazioni prima di Marenzio, RVF 121 una trentina, RVF 196 una quindicina: madrigali già in Petrarca, appunto; ma anche il sonetto Zefiro torna è più volte e continuamente intonato; come pure il segmento I lieti amanti e le fanciulle tenere di Sannazzaro presenta diverse altre intonazioni dopo Marenzio. Ma i moderni incalzano: il segmento tassiano dalla Liberata è destinato a un grande futuro dopo Marenzio, con almeno altre cinque intonazioni; ma il sonetto Sul carro de la mente ha solo questa. 48 Ma anche in questo è la sua cifra di autore: a esempio, nel nono e ultimo suo libro di madrigali, a cinque voci (edito nel 1599: l’anno della sua morte), non ha esitazioni ad aprire con il Dante “petroso” Così nel mio parlar voglio esser aspro e chiudere con la star del momento, Battista Guarini (di cui intona tre testi): dopo avere ancora una volta dato ampio spazio a Petrarca (con sette intonazioni), ma anche ad altri contemporanei (ora Grillo e Ongaro). Tutt’altro è però l’assetto delle fonti poetiche in altri suoi libri di madrigali: a esempio, il sesto è tutto di moderni e contemporanei.

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vive voci, le tanto diverse originarie forme, anche metriche: stanza di canzone, madrigale, sonetto, terzine, eccetera (e questo è un altro elemento produttivo strutturale nella fenomenologia madrigalistica, anche quando sarà dominante la forma dei moderni scrittori di madrigali49). Non per disperderne il senso, ma per rinnovarlo e attualizzarlo, risemantizzandolo attraverso i codici della musica e delle sue voci intonate. So bene, però, che non sono più tanto di moda i percorsi di ricerca interdisciplinari (come si diceva una volta), anche se le migrazioni frontaliere tra territori sempre più statutariamente instabili, o dinamicamente fluidi (per effetto Schengen, e non solo: globalizzati), sono ormai talmente diffuse che siamo tutti contaminati, siamo tutti più o meno meticci, per quanto alto possa levarsi il grido di chi rivendica il recupero di perdute, o dismesse, identità virginali (povera e nuda vai, filologia!). Per riferire subito questo metaforico apologo ai nostri poeti petrarchisti, credo che possa essere davvero produttivo, anche e soprattutto per noi addetti al testo letterario, assumerne (dopo questi primi sondaggi) la simbiosi con il madrigale in musica come dato strutturale e connotativo dell’economia generale della poesia nell’età moderna (o, se si vuole, nei secoli del Classicismo, in quanto tipologia culturale di Antico regime). Prendendo atto, intanto, della fittissima presenza di testi della biblioteca lirica, e non solo petrarchistica in senso stretto, nel repertorio del madrigale italiano: voci vive, come ho detto, non reliquie residuali, voci vive da intonare, anche se resta aperto il problema della consapevolezza, da parte dei musicisti dell’identità d’autore dei testi adottati per le loro intonazioni. A un primo, molto veloce, spoglio dei repertori specialistici i risultati sono infatti di assoluta evidenza. Nei libri di madrigali pubblicati nel corso del Cinquecento e nel primo Seicento si ritrovano, e in grande abbondanza, i testi di pressoché tutti i poeti della tradizione lirica: a cominciare dai padri fondatori. Ma quello che più mi sembra rivelante è che la loro presenza è riscontrabile esattamente nei termini e nelle proporzioni in cui sono stati riconosciuti e proclamati come padri fondatori dal sistema della moderna letteratura nella sua fase fondativa. Pur con qualche opportuno e selettivo adat-

49 A questo ordine di problemi è dedicata tutta la seconda sezione della citata raccolta di saggi curata da Paolo Fabbri: Fondamenti letterari. Ricordo che è Bembo stesso a definire come «rima libera» la forma metrica del madrigale, che in quanto tale esplode, anche come libro autonomo (o sezione autonoma di libro di rime) proprio in sincronia con l’esplosione del madrigale in musica (da Luigi Cassola in poi: la prima edizione dei suoi Madrigali è del 1544).

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Sul Petrarchismo

tamento: se infatti – come ho detto – è assoluto il dominio di Petrarca (con 1525 testi intonati), questo suo dominio risalta tanto di più se riferito alle presenze dell’altro padre, Giovanni Boccaccio (con soli 46 testi: modello, peraltro, della prosa volgare classicistica, e fino a un certo punto, non certo della poesia lirica); oppure a quelle di un padre allora fortemente criticato e quindi disconosciuto, Dante Alighieri (con soli 10 testi: anche segmenti della Commedia). Ma il dominio di Petrarca risulta ancora più netto, se riscontrato con la scomparsa pressoché totale degli altri poeti della tradizione antica: tra i madrigalisti è rappresentata soltanto da Cino da Pistoia (con 19 testi) e da Franco Sacchetti (7) 50. L’assoluta esemplarità di Petrarca non riguarda, però, tanto o soltanto il canone degli antichi poeti volgari, la loro scomparsa nel cono d’ombra prodotto dall’eccesso di luce petrarchesca: si proietta sul presente, attraversa tutte le dinamiche dell’esperienza poetica di un secolo lunghissimo e dinamicissimo proprio nella sua ricerca della poesia (e della sua forma archetipica), e tutte le connota, per riscontro e per differenza. Petrarca è, nel presente e in tempo reale, il punto obbligato di riferimento per tutti gli autori della moderna biblioteca lirica, che è tale perché discende geneticamente (per progetto e consapevolezza) dal suo modello. Petrarca è il Padre per tutti i poeti lirici, indipendentemente dalle scelte di ciascuno: almeno fino a quando l’agonismo dei Moderni, la loro oltranza sperimentale, non cercherà di modificare ampliare rovesciare la sua supremazia in questo canone che all’improvviso sembra troppo breve e troppo totalitario. Petrarca: il Padre. Generoso, seminale, dissipatore. Di una lingua e delle sue forme poetiche. Di tutti i libri possibili: nelle storie, nei temi, nei protagonisti. Petrarca, ma non solo Petrarca: Petrarca nel Petrarchismo con i petrarchisti. Oltre il Petrarchismo, oltre i petrarchisti. Questo è il dato più importante che emerge nettamente dalla ricognizione attraverso i dati del repertorio della poesia in musica. Nello specchio del madrigale è possibile dunque riscontrare l’immagine, ad altissima definizione, della poesia lirica che si fa imitatrice consapevole e progettante del Padre. Un’immagine ricca di dettagli ma soprattutto dinamica: di un folto gruppo in movimento continuo, dalla sua prima formazione alle sue metamorfosi. Nel repertorio ci sono infatti pressoché tutti i moderni 50 Avverto che tutti i dati che qui produco (desunti dalla consultazione il rete del Repim) intendono avere solo valore indicativo, tanto più perché il repertorio richiederebbe adeguate rilevazioni delle diverse forme delle sue intestazioni (sia dei nomi dei poeti, che degli incipit dei loro versi, spesso replicati per varianti testuali).

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lirici, nelle loro integrate e solidali differenze di status e di posizione gerarchica: i grandi inventori della nuova poesia e della nuova letteratura in volgare, i maestri contemporanei, come pure i volenterosi autodidatti vogliosi di dimostrare le proprie competenze, acquisite con studio e fatica, tramite adeguata e conveniente institutio; ci sono i petrarchisti anoressici e i petrarchisti bulimici. Petrarca nel Petrarchismo: l’antico ottimo Padre e i poeti moderni che ne seguono le orme. La dominante riconoscibilità del loro mutuo intrecciarsi abbaglia, producendo quel devastante effetto (strategico più che collaterale) che porta alla messa in ombra di tutto il passato prossimo, persino contiguo e addirittura contemporaneo, della poesia. Rende obsoleti i testi dei protagonisti della poesia veterocortigiana del Quattrocento, li sopprime dal circuito dell’esemplarità, anche agli occhi dei musicisti: nei libri di madrigali Antonio Tebaldeo sopravvive con un solo testo intonato, Panfilo Sasso con due; ma Serafino Aquilano resiste con 17. E ancora, a ulteriore riscontro di come nel corso del Cinquecento sia cancellata la memoria anche di quelle recentissime esperienze quattrocentesche che pure erano di tutt’altro segno rispetto a quelle cortigiane: i madrigalisti cinquecenteschi intonano solo due testi di Giusto de’ Conti, dodici di Matteo Maria Boiardo, dieci di Angelo Poliziano, quattro di Lorenzo de’ Medici. Se questo oscuramento è prodotto dall’eccesso di luce sui protagonisti, per effetto immediato delle strategie fondative del Classicismo, allo specchio del madrigale riconosciamo, nitidissima in tutti dettagli, la loro cospicua esemplare presenza. A cominciare dai fondatori, nel 1530, della moderna letteratura volgare classicistica (sub specie lirica): nel repertorio si contano infatti ben 415 testi di Iacopo Sannazzaro intonati dai musicisti, mentre sono 262 quelli di Pietro Bembo. Questo dato è enfatizzato da un ulteriore riscontro: Lodovico Ariosto e il suo Furioso (segmentato nei suoi loci memorabili) assume, anche nell’esperienza madrigalistica, la parte di primo classico moderno, con 494 testi intonati51. Allo specchio del madrigale trova conferma anche la rapidissima costituzione del nuovo canone dei moderni, che rispetta le dinamiche proprie di ogni processo di canonizzazione, cioè la loro selettività: cosicché Ariosto, Sannazzaro, Bembo (tutti all’ombra di Petrarca, ovviamente) finiscono per fare il deserto anche nei loro immediati dintorni, tra i loro stessi coetanei e 51 Il dato conferma l’analisi di Daniel Javitch, Ariosto classico. La canonizzazione dell’“Orlando furioso”, Bruno Mondadori, Milano 1999 (edizione originale: Proclaiming a Classic. The Canonization of “Orlando furioso”, Princeton University Press, Princeton, 1991).

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sodali. Per restare agli altri protagonisti della scena culturale dei primi decenni del Cinquecento, è facile riscontrare come trovino modesta attenzione da parte dei musicisti, ancorché non siano propriamente poeti lirici di professione: Baldassarre Castiglione (con 7 testi intonati), Nicolò Machiavelli (9), Giovan Giorgio Trissino (17), Pietro Aretino (10). Senza troppo appesantire di minuti dati questa sommaria ricognizione, mi limito a un complessivo ragguaglio sugli autori (e autrici, per carità) di libri di rime del Cinquecento (o pubblicati nei volumi delle rime di diversi), senza distinguere, in questa sede almeno, il loro modo di essere petrarchisti in senso più o meno stretto. Anche perché il ragguaglio d’assieme, per quanto a grana grossa, mi sembra davvero impressionante. Basterà dare un’occhiata alla classifica di poeti del Cinquecento utilizzati dai musicisti per la composizione dei loro madrigali, che è questa (limitatamente, intanto, agli autori con più di 30 testi intonati): il leader assoluto è Torquato Tasso (660 testi), che distacca nettamente tutti gli altri. Il secondo, che è suo padre Bernardo, lo segue infatti a quota 223 testi. E quindi: Luigi Cassola (204), Luigi Tansillo (193), Giovan Battista Strozzi (146), Gabriele Fiamma (132), Girolamo Parabosco (109), Giuliano Goselini (68), Vittoria Colonna (67), Giovanni Della Casa (59), Anton Francesco Rainerio (59), Lodovico Martelli (56), Girolamo Molino (53), Francesco Beccuti (53), Benedetto Varchi (51), Luigi Groto (46), Domenico Venier (45), Maffio Venier (44), Orazio Guarguante (42), Remigio Nannini (38), Giovanni Maria Bonardo (39), Veronica Gambara (39), Muzio Manfredi (33), Francesco Maria Molza (33), Petronio Barbati (31), Giulio Camillo (30), Annibale Caro (30), Pietro Gradenigo (30). La classifica è subito imponente per quantità (e qualità) di nomi, anche se dovrebbe essere raffinata nei dati, e quindi disaggregata e analizzata minutamente: a esempio, ragionando sulle presenze di poeti che si impegnano, e non solo sulla scia di una moda travolgente, in modo mirato e funzionale nella scrittura di testi-madrigali (Cassola, Parabosco, Strozzi, eccetera); oppure sulle dinamiche interne al mare magnum petrarchistico, differenziandone le esperienze nella sincronia e nella diacronia: quelle più o meno regolari da quelle più o meno sperimentali e innovative, pur sempre facendo i conti con l’altra faccia della scrittura lirica dei petrarchisti, rappresentata dalla tanto negletta quanto imponente tradizione delle rime “spirituali” (pur sempre allo specchio dei madrigali altrettanto “spirituali”52).

52 Rinvio alle mie citate Note sulla tradizione della poesia spirituale (parte prima), in Paradigmi e tradizioni.

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La mancanza di queste pur necessarie indagini non mi sembra però in grado di inficiare il valore complessivo dei dati che sto citando, che prospettano comunque la loro immediata rilevanza, almeno rispetto al dato più vistoso che emerge solo a scorrere le liste del repertorio: e cioè, che il moderno madrigale in musica si appropria di ogni forma metrica codificata dalla selezione classicistica (sonetto, stanza di canzone, stanza in ottava rima, terzine, eccetera: oltre ai testi già madrigali, ovviamente), la seleziona, segmenta, trasforma e metabolizza, con procedure del tutto autonome. Niente di particolarmente rilevante, è ovvio, nella storia della poesia che si fa voce in musica, ma, per quanto riguarda in modo proprio l’economia cinquecentesca di questa storia, non si può non cogliere la forte tensione polarizzata che perimetra e connota dinamicamente il campo delle permutazioni di un testo poetico che coesiste con la sua intonazione madrigalistica, che ha una doppia vita (e una doppia tradizione testuale, sempre che possa contare qualcosa ai nostri occhiuti criteri filologici). La questione mi sembra di capitale importanza, ma non soltanto dal punto di vista delle diverse modalità in cui si compie la ricezione dei nostri testi: soprattutto dal punto di vista delle loro funzioni linguistiche e pertanto semantiche. Le intonazioni musicali sono infatti sempre un’interpretazione del senso del testo originario mediante gli strumenti propri della musica e della voce: ritmi, timbri, marcature, pause, ripetizioni, riprese, coloriture, eccetera; tutte modalità di trattamento che metamorfizzano sia gli aspetti fonetici della lingua poetica (in particolare il vocalismo), sia la linearità dell’enunciato nella sequenza dei versi. Insomma, credo che potrebbe essere di una qualche utilità, sempre per approssimare l’economia complessiva di quella cultura dal punto di vista dei tanti soggetti che ne praticano le forme e gli strumenti, porsi il problema delle possibili correlazioni tra queste interpretazioni musicali (del musicista che lo intona e del performer che lo canta) e gli autonomi assetti del testo poetico (del suo autore e del suo lettore): a esempio, nel caso di Vergine bella, tanto per restare a una presenza testuale certamente forte e nitida nella memoria di tutti. La questione necessita ovviamente di adeguate analisi (pur sempre dal nostro punto di vista di studiosi del testo, perché i musicologi l’hanno da tempo affrontata in vari modi53), da svolgere in sede appropriata e con competenze adeguate (che personalmente non posseggo). Ma intanto prospetta

53 Cfr., a esempio, il già citato saggio Stefano La Via, Petrarca secondo Verdelot; e ora i materiali dell’archivio digitale “Petrarca in musica”, a cura di Cecilia Luzzi (in diretto rapporto con Repim): www.unisi.it/tdtc/petrarca/.

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un’altra significativa traiettoria di ricerca su queste tradizioni incrociate: a esempio, il riscontro della classifica degli autori di testi intonati (un canone, pur sempre), che prima ho proposto, con l’autoritratto della poesia cinquecentesca prodotto dalle diverse antologie che fioriscono in tempo reale (non parlo delle raccolte di diversi, che sono tutt’altra tipologia), per disegnare mappe e prospettare canoni (per il riuso dei lettori sollecitati a diventare autori: imitando, pur sempre), a cominciare da quella di Girolamo Ruscelli, del 1558 54. A questo scopo conviene allargare la classifica degli autori di testi intonati, tenendo conto di tutti coloro che nel repertorio della poesia in musica risultano titolari di una quota di testi oscillante tra meno di 30 e più di 10. Si tratta di un insieme altrettanto significativo (lo elenco in ordine alfabetico, ora: altrettanto a grana grossa), per quanto tanto più schiacciato nella sua pur rilevante disposizione diacronica e soprattutto nella gamma molto estese delle variabili, proprie delle opzioni di ciascuno, ma anche ricco di tante new entry, rispetto al ripetitivo canone della vulgata petrarchistica: Luigi Alamanni (13), Giovan Battista Amalteo (27), Nicola Amanio (17), Isabella Andreini (27), Giovanni Andrea dell’Anguillara (14), Pietro Barignano (31), Giulio Bidelli (16), Dragonetto Bonifacio (22), Gherardo Borgogni (14), Andrea Calmo (13), Lelio Capilupi (19), Francesco Cristiani (13), Angelo Di Costanzo (13), Marco Antonio Epicuro (13), Giovan Battista Giraldi Cinzio (21), Orsatto Giustiniani (10), Curzio Gonzaga (13), Stefano Guazzo (16), Giovanni Guidiccioni (29), Francesco Ippoliti (16), Giovanni Battista Leoni (23), Celio Magno (10), Muzio Manfredi (33), Antonio Minturno (27), Girolamo Muzio (12), Giovanni Muzzarelli (17), Pompeo Pace (12), Alberto Parma (22), Bartolomeo Carlo Piccolomini (16), Vincenzo Quirino (24), Fulvio Rorario (21), Berardino Rota (23), Cosimo Rucellai (13), Virginia Martina de’ Salvi (16), Fortunio Spira (12), Bernardino Tomitano (16), Girolamo Troiano (10). Se poi estendiamo il quadro a tutti gli autori attestati nel repertorio, si prospetta un insieme che corrisponde alla mappa pressoché completa dei poeti petrarchisti in servizio, ricca di moltissimi nomi nuovi, pur sempre rispetto al canone paradigmatico della poesia del Cinquecento, e alle sue stesse pigrizie. Una mappa a scala talmente ravvicinata (ma certo non completa in tutti i suoi dettagli), da rendere impossibile, al momento, ogni possi-

54 Per i Fiori delle rime de’ poeti illustri rinvio al citato mio Il naso di Laura. Lingua e poesia lirica nella tradizione del Classicismo, Panini, Modena 1991, pp. 108-110.

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bilità distributiva nella diacronia del secolo e ogni necessaria differenziazione delle scelte formali e delle economie comunicative proprie di ciascun poeta, professionista o dilettante che sia, e del musicista che ne intona i versi (per caso o per scelta?). E precisamente (sempre in ordine alfabetico): Bartolomeo Arnigio (8), Dionigi Atanagi (2), Giovan Battista Attendolo (1), Matteo Bandello (2), Bartolomeo Barbati (9), Laura Battiferri (2), Pietro Bonfadio (2), Giovanni Brevio (7), Girolamo Britonio (2), Antonio Brocardo (6), Michelangelo Buonarroti (5), Giovanni Agostino Caccia (5), Ferrante Carafa (1), Cristoforo Castelletti (9), Ascanio Centorio (4), Luca Contile (4), Anton Giacomo Corso (3), Girolamo Fenaruolo (9), Agnolo Firenzuola (4), Fabio Galeota (5), Giovan Battista Gelli (8), Bartolomeo Gottifredi (9), Bernardino Martirano (3), Chiara Matraini (6), Antonio Mezzabarba (4), Pomponio Montanaro (8), Andrea Navagero (6), Antonio Pagani (7), Francesco Panigarola (9), Orazio Parma (9), Lodovico Pascale (6), Marco Antonio Passero (2), Lodovico Paterno (5), Cesare Pavesi (8), Camillo Pellegrino (2), Ascanio Piccolomini (2), Giovan Battista Pigna (9), Bernardino Pino (2), Gandolfo Porrino (9), Antonio Querenghi (7), Diego Sandoval di Castro (1), Sperone Speroni (4), Gaspara Stampa (3), Galeazzo di Tarsia (7), Laura Terracina (6), Luca Valenziano (9), Giacomo Zane (8). Nel corso del Cinquecento, dunque, il repertorio della poesia in musica si sovrappone alla biblioteca lirica in termini tanto vistosi quanto precisi: a profilare un’economia bipartita della comunicazione, dove il testo è dinamicamente anfibio e mobile, tra scrittura e voce (anzi, a più voci). Questa economia polifonica si rafforza e si espande quando, sulla scia di Torquato Tasso, esplode l’oltranza dei Moderni: a cominciare dal loro leader, Giovan Battista Marino, titolare di ben 551 testi intonati. Ma in realtà non sono soltanto Tasso e Marino gli autori prediletti dai musicisti tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento: il dominatore assoluto è Battista Guarini, con 905 testi intonati (ricordo che la prima edizione delle sue Rime è del 1598, mentre quella del Pastor fido è del 1602). E poi: Angelo Grillo, alias Livio Celiano, con 360 testi. Ma tutta la squadra, solidalmente intrecciata, dei Moderni si allarga ulteriormente con: Gabriello Chiabrera (161), Cesare Rinaldi (146), Guido Casoni (70), Girolamo Preti (52), Girolamo Casoni (46), Gaspare Murtola (43), Antonio Ongaro (34), Tommaso Stigliani (27), Fulvio Testi (26), Claudio Achillini (17). Prende, intanto, il via un’altra storia, destinata a un futuro straordinario: il melodramma, i suoi libretti. I 193 testi intonati di Ottavio Rinuccini ne sono l’indicatore simbolico più forte. Ma questa è davvero un’altra storia.

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Di questo percorso dei Moderni, della loro ricerca sperimentale e ambiziosamente, per oltranza, innovativa, è paradigmatico emblema la traiettoria madrigalistica di Claudio Monteverdi, tra il 1587 (Il primo libro de’ madrigali a cinque voci) e il 1638 (Madrigali guerrieri e amorosi). Ne registro le dinamiche interne attraverso il repertorio degli autori dei testi intonati: • Libro primo (21 madrigali: 1587): Battista Guarini (5), Antonio Allegretti (3), Giovanni Maria Bonardo (3), Luigi Groto (1), Alberto Parma (1), Giovan Battista Strozzi (1), Anonimi (7); • Libro secondo (21 madrigali: 1590): Torquato Tasso (10), Girolamo Casoni (4), Filippo Alberti (2), Pietro Bembo (1), Ercole Bentivoglio (1), Bartolomeo Gottifredi (1), Battista Guarini (1), Anonimo (1); • Libro terzo (20 madrigali: 1592): Battista Guarini (8), Torquato Tasso (6), Angelo Grillo (2), Pietro Bembo (1), Anonimi (3); • Libro quarto (20 madrigali: 1603): Battista Guarini (11), Ottavio Rinuccini (1), Ridolfo Arlotti (1), Alessandro Gatti (1), Maurizio Moro (1), Torquato Tasso (1), Anonimi (4); • Libro quinto (19 madrigali: 1605): Battista Guarini (16), Anonimi (3); • Libro sesto (18 madrigali: 1614): Giovan Battista Marino (5), Ottavio Rinuccini (le quattro parti del Lamento di Arianna), Francesco Petrarca (2), Anonimo (7: di cui sei stanze di una sestina); • Libro settimo (intitolato Concerto: 29 madrigali; 1619): Giovan Battista Marino (6), Battista Guarini (6), Claudio Achillini (2), Gabriello Chiabrera (2), Bernardo Tasso (1), Torquato Tasso (1), Anonimi (11).

Senza troppo insistere su minuti dettagli, che metterebbero in serie difficoltà le mie modeste competenze in questa materia, dovrebbe risultare evidente come il percorso di Monteverdi si alimenti delle scritture dei moderni: tra i 148 madrigali dei suoi sette libri, infatti, spicca nettamente la scelta di Guarini (per 47 volte: è tutto suo il quinto libro, ma è presente in posizione di primato pure nel terzo, quarto e settimo libro), anche rispetto a Marino (11 volte: ma solo nel sesto e settimo libro) e a Tasso (18: la sua presenza è forte nel secondo e terzo libro), con il corteo dei vari Casoni, Grillo, Achillini, Chiabrera (in particolare nel settimo libro). Da Guarini a Rinuccini, dal madrigale alla poesia rappresentativa, dunque; con una traiettoria in costante crescita: dopo la prima presenza nel quarto libro, le quattro parti del Lamento di Arianna nel sesto libro, il Lamento (rappresentativo) Ninfa e il ballo delle ingrate nell’ottavo (con il Combattimento di Tancredi e Clorinda dalla Liberata). Ma è proprio l’assetto delle fonti poetiche dell’ottavo libro a risultare emblematico, tanto più ora che i madrigali si fanno «guerrieri e amorosi, con

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alcuni opuscoli in genere rappresentativo, che saranno per brevi epicedii tra i canti senza gesto», come indica il frontespizio della raccolta del 1638. Nel momento della più radicale sperimentazione di forme ormai rappresentative (il melodramma che nasce), Monteverdi seleziona e intona, infatti, non solo testi di Marino e Guarini, ma anche due sonetti di Petrarca di lunga e costante tradizione madrigalistica: Vago augelletto che cantando vai (RVF 353: solo le due quartine), Or che ‘l ciel e la terra e ‘l vento tace (RVF 164: completo, in due parti). Ancora una volta, dunque, nel 1638, Moderni e Antichi solidalmente congiunti. Ma non è certo una tardiva e stravagante esibizione, se lo stesso Monteverdi aveva già dato segni eloquenti di quanto costante potesse essere la forza della tradizione: adottando (nel sesto libro: nel 1614) il celeberrimo, anche tra i madrigalisti, sonetto Zefiro torna e ‘l bel tempo rimena (RVF 310), e un altro sonetto petrarchesco, più volte anch’esso intonato, Oimè il bel viso, oimè il soave sguardo (RVF 267). Per dare prova di sé su di un terreno praticato da tanti, per spirito agonistico con i suoi colleghi musicisti, non c’è dubbio: ma perché allora intonare, nel secondo e terzo libro dei suoi Madrigali, anche due testi di Pietro Bembo (precisamente il sonetto XLV Cantai un tempo e se fu dolce il canto, e la prima stanza della canzone LVI O rossignol che ‘n queste verdi fronde)? Senza indulgere a forzature o distorsioni, credo che questi siano segni, tanto più intensi perché rari, di come la tradizione lirica (anche nella sua simbiosi con la musica) sperimenti le sue nuove forme e le sue nuove funzioni, anche in termini aggressivi, senza perdere o disperdere il senso della sua continuità, di quanto, cioè, la costituisce in tradizione. Per questo nei primi decenni del Seicento ha ancora senso, per un musicista della grandezza di Monteverdi, confrontarsi con i testi dei grandi poeti antichi proprio mentre esplora le terre incognite della modernità: con i testi (e i metri) di un tempo remoto ma ancora connesso in tempo reale, con gli antichi autori che continuano a fondare e legittimare il senso di una tradizione, che per quanto ora dinamicamente proiettata al futuro, non cessa di coltivare la memoria dei suoi autorevoli antenati (Petrarca e Bembo), ma sa pure giocare con le trouvailles di autori svaniti (Bernardo Tasso e Bartolomeo Gottifredi). A conferma di questa simbiotica (sempre emulativa e agonistica) dinamica Antichi/Moderni vorrei proporre un altro tipo di classifica: la hit parade dei testi più intonati lungo tutta la tradizione madrigalistica, limitata ai primi dieci posti55. Eccola:

55 Ringrazio Angelo Pompilio per avermi fornito i dati analitici di questa hit parade, che posso solo proporre in estrema sintesi.

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1. Guarini, Ardo sì ma non t’amo (madrigale): 59 intonazioni tra 1583 e 1628 (e ancora una nel 1678)56; 2. Petrarca, Io vo piangendo i miei passati tempi (sonetto, RVF 365): 46 intonazioni tra 1542 e 1623; 3. Petrarca, Sì che s’io vissi in guerra et in tempesta (sonetto, RVF 365): 34 intonazioni tra 1542 e 1623; 4. Guarini, Ah, dolente partita (Pastor fido, III 3): 32 intonazioni tra 1593 e 1629; 5. Marino, Se la doglia e ‘l martire (madrigale): 32 intonazioni tra 1603 e 1652; 6. Petrarca, Or vedi, Amor, che giovinetta donna (madrigale): 31 intonazioni tra 1517 e 1619; 7. Guarini, Ch’io non t’ami, cor mio? (madrigale): 31 intonazioni tra 1591 e 1656; 8. Guarini, Cor mio, deh, non languire (madrigale): 31 intonazioni tra 1600 e 1678; 9. Guarini, Tirsi morir volea (madrigale): 28 intonazioni tra 1578 e 1633; 10. Guarini, Felice chi vi mira (madrigale): 28 intonazioni tra 1595 e 1636; 11. Petrarca, Vergine bella che di sol vestita (stanza di canzone): 26 intonazioni tra 1510 e 1655; 12. Petrarca, Con lei foss’io da che si parte ‘l sole (stanza di sestina, RVF 22): 25 intonazioni tra 1530 e 1605; 13. Marino, Ch’io mora, ohimè, ch’io mora (madrigale): 25 intonazioni tra 1603 e 1647; 14. Marino, O chiome erranti, o chiome (madrigale): 25 intonazioni tra 1604 e 1656; 15. Guarini, O com’è gran martire (madrigale): 24 intonazioni tra 1582 e 1622; 16. Grillo, Care lagrime mie (madrigale): 24 intonazioni tra 1587 e 1678; 17. Tasso: Non è questa la mano (madrigale, Rime 47): 23 intonazioni tra 1579 e 1640; 18. Tasso, Ardi e gela a tua voglia (madrigale, Rime 418): 23 intonazioni tra 1583 e 1617.

La sequenza è immediatamente, emblematicamente, rappresentativa di quanto sono venuto dicendo intorno alla continuità della presenza di Petrarca, e soltanto di Petrarca, nell’esperienza madrigalistica cinque-seicentesca: iperselettiva, di contro alla pluralità dei Moderni, da Tasso a Grillo, a Guarini a Marino. Ma certo non può non colpire il fatto che, se si tiene conto dell’ex-

56 Pompilio mi suggerisce di tenere conto del fatto che il madrigaletto guariniano è intonato da ben trentuno musicisti diversi in una sola raccolta musicale: Sdegnosi ardori (a cura di Giulio Gigli: München, Adamus Berg, 1585): un exploit che celebra il trionfo di uno dei più rappresentativi poeti moderni.

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ploit guariniano del 1585 (le contestuali 31 intonazioni di Ardo sì ma non t’amo), nella classifica ora proposta i primi due posti siano occupati dalle due parti (autonomamente intonate) del sonetto conclusivo dei Rerum vulgarium fragmenta. Petrarca è dunque il leader indiscusso di questa classifica, tanto più che la sua posizione è poi rafforzata da altre significative presenze di suoi testi: il madrigale Or vedi, Amor, che giovinetta donna si confronta pressoché alla pari con i madrigali di Marino e Guarini; e ancora con i madrigali di questi campioni della poesia moderna si confrontano gli altri due testi petrarcheschi in classifica: la stanza iniziale della canzone Vergine bella che di sol vestita e l’ultima stanza della sestina A qualunque animale alberga in terra. Senza insistere troppo in questi giochini quantitativi, vorrei evidenziare come la presenza di Petrarca nella storia secolare del madrigale polifonico risulti diversamente connotata e non assimilabile a quella dei tanti poeti moderni: mi sembra, anzi, che con la sua costante e uniforme distribuzione lungo tutto l’arco cronologico della storia del madrigale, assuma la funzione di marcare la differenza incomparabile tra chi è all’origine di tutti i testi lirici possibili e chi pratica questa infinita possibilità, e proprio rispetto agli exploits dei quattro campioni della modernità (per Guarini Marino Tasso Grillo si registra infatti un picco intensissimo tra fine Cinquecento e primo Seicento). La distanza e la differenza della maestà. Nella classifica emerge anche un’altra significativa differenza tra gli impieghi di Petrarca e dei campioni della modernità poetica: mentre per i moderni sono intonati soltanto, o quasi, testi già in forma di madrigale, per Petrarca il lavoro dei musicisti si confronta con testi tanto più complessi per metrica, e non solo. Il padre della tradizione lirica è riconosciuto, insomma, nella proprietà formale dei suoi corpi testuali (fondatori delle risorse metriche primarie nella tradizione lirica moderna), anche quando furoreggia la nuova forma metrica del madrigale contemporaneo, tanto più duttile e funzionale (anzi, predisposta) a essere intonata. 4. Senza enfatizzarle, mi pare che le risultanze della ricognizione tra gli autori dei testi dei madrigali intonati tra Cinquecento e Seicento (i parolieri di allora, insomma) possano essere considerate di un certo rilievo nella prospettiva di un’analisi dell’economia generale della poesia in età moderna: più che per i loro dati specifici (ancora da calibrare), per le questioni d’ordine metodologico che prospettano, e che qui posso solo abbozzare, di nuovo a grandi linee. Mi sembra infatti che prospettino, in primo luogo, l’esigenza di considerare in termini diversi le dinamiche dei rapporti tra poeti (e testi) antichi e

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Sul Petrarchismo

poeti (e testi) moderni nella fase più intensa della tradizione lirica classicistica: o meglio, di considerarle in termini che non possono essere tutti e subito risolti con le consuete e paradigmatiche modalità dei nostri discorsi storiografici e critici, quelle della staffetta (senza gioco di squadra, però) o del rimpiazzamento automatico, con i vecchi autori/testi che sempre cedono il testimone o il posto ai nuovi, per scomparire dal campo o dalla scena di quei discorsi e del loro spazio referenziale. Le prime risultanze della ricognizione, insomma, sollecitano riflessioni più attente e problematiche: da una parte – come dicevo –, sull’economia generale della tradizione lirica classicistica (vettore strategico e iperconnotante – tanto più nel suo intreccio con la musica – della tipologia culturale del Classicismo) in quanto, geneticamente e strutturalmente, economia primaria della memoria, titolare, quindi, di una specifica esperienza del tempo (passato/antichi, presente/moderni); dall’altra, sulle modalità rituali dei nostri racconti storiografici dedicati ai fenomeni letterari e culturali. Provo a sviluppare questi troppo ellittici rilievi iniziando da questo ultimo, non senza avere riconosciuto che la sua pertinenza va ovviamente ben oltre la nicchia (poesia dei petrarchisti e tradizione lirica) da cui prende spunto. Tutto ciò premesso, penso che generalizzare non solo oportet ma persino decet: se infatti le dinamiche tra Antichi e Moderni (sub specie lirica e madrigalistica) risultano tanto più aggrovigliate nel tempo e nello spazio, come possiamo descriverle e raccontarle nelle nostre pagine di storia e di critica, se è lo stesso impianto narrativo e argomentativo di queste nostre pagine, in quanto tale, ad avere bisogno di una scansione lineare continua, bidimensionale e progressiva, per poter stare in piedi come racconto e come ragionamento, prima ancora che per poter definire e comunicare senso e valore? Certo, si potrebbe osservare che queste sono le caratteristiche obbligate, e i limiti, del linguaggio verbale, orale e scritto, ma non credo che siano di per sé, caratteristiche e limiti, in grado di dare ragione di quella linearità narrativa: non foss’altro perché è l’intera esperienza della letteratura europea a costituirsi come ricerca oltre e contro quel limite, oltre e contro le barriere naturali dei linguaggi verbali. Per restare, dunque, alle nostre più modeste e terrene dimore, dove abita la discorsività storiografica e critica, vorrei provare a descrivere gli ingredienti essenziali, e specifici, della progressione lineare necessaria alla nostre storie perché possano esistere: seppure diversamente segmentate (per unità monosecolari o plurisecolari, per frazioni, ma anche per l’intera loro durata), sono storie che raccontano tutte come i Moderni (nel senso più denotativo: gli ultimi arrivati) rimpiazzino sempre gli Antichi (ancora nel senso più denotativo: chi c’era prima), per essere a loro volta sempre rimpiazzati dai

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contemporanei (cioè: gli ultimi tra gli ultimi arrivati), e questo più o meno all’infinito. Per evitare però il rischio della inevitabile monotonia e della banalizzante prevedibilità, il racconto delle nostre storie mette in gioco un dispositivo fondamentale: segmenta la sua monolinearità progressiva in tante tappe o stazioni, e le connota come aspri conflitti e come risolutive svolte; soprattutto le popola di vincitori che fanno sparire i vinti, di vivi che seppelliscono i morti. Una congiura del silenzio, una damnatio memoriae: solo che, a ben guardare, questa retorica della variatio drammatizzata e drammatizzante si organizza piuttosto come sequenza formulare che rinvia necessariamente a qualcosa d’altro che è più avanti: al nostro sguardo dal presente. Certo, questo impianto narrativo è antico quanto il mondo e quanto le scritture delle sue storie, e riguarda – come ho osservato – più che altro le caratteristiche proprie del linguaggio verbale, rispetto a quelle del linguaggio visivo e del linguaggio musicale, ma in questa retorica del racconto storiografico possiamo riconoscere l’effetto, ancora tutt’altro che residuale, di quella filosofia della storia che ha ridefinito e riconnotato le strategie e le funzioni del discorso storiografico. Una filosofia storicistica, nelle sue tante anime tra Settecento e Novecento: la sua linearità è teleologicamente progressiva, e in termini connotativi, perché dà voce al respiro profondo dell’epica storia di un’umanità lanciata verso magnifiche sorti e, appunto, progressive. Eppure queste nostre antiche radici discorsive mostrano di essere in difficoltà nel dare ragguaglio dei piccoli e semplici dati emersi dalla ricognizione attraverso il madrigale. Non voglio esagerare: si tratta di piccoli granelli di sabbia, non c’è dubbio, di contro alle superbe montagne della grande storiografia e rispetto all’ancor più veneranda sua filosofia della storia. Ma queste microstorie minime, questi granelli, fanno stridere, se non inceppano, la presunzione di quella inesorabile linearità progressiva: rendono evidente quanto le sia difficile (anzi, estraneo) descrivere la complessità e la contestualità dei processi culturali, la strutturale polifonia (tanto per restare, non metaforicamente, al nostro madrigale) di compresenze non solo contigue ma correlate, talmente, anzi, intrecciate nella sincronia (e quel che più conta: nella diacronia) da rendere precario ogni riconoscimento di tappe o stazioni, di guerre vinte (e perse) o di svolte. Irriducibili, comunque, queste microstorie e le dinamiche contestuali che evidenziano, a quella buffa pantomima (pure vorticosa, a tratti) che continua a replicare i finti movimenti su una scena discorsiva ritmata solo da simultanee uscite e simultanei ingressi dalla comune di personaggi nuovi e vecchi. Simulacri, automi, marionette: ignoti, indifferenti, estranei gli uni agli altri, piuttosto che armati gli uni contro gli altri.

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Sul Petrarchismo

Fuori di metafora: le risultanze della ricognizione non fanno altro – a mio avviso – che mettere in primo piano, con forza, la questione del Classicismo. Intendo dire: le modalità del suo costituirsi, prima, e funzionare, poi, come tradizione culturale, in senso propriamente antropologico, in quanto, cioè, cultura tradizionale. E se anche questa tradizione, come tutte le tradizioni, si costituisce sulla base di una invenzione di sé, in primo luogo come patrimonio condiviso di memoria e quindi come culto codificato di un canone di antenati, è dinamicamente tradizione perché convalida, generazione dopo generazione, la memoria viva e presente dei padri. Ed è tradizione perché non si inventa e non si costituisce in termini neutrali o naturali: ha bensì bisogno assoluto, e condizionante, di cancellare tutte le altre memorie e tutti gli altri antenati possibili, per fondare e perimetrare selettivamente e funzionalmente il proprio territorio identitario57. Senza insistere oltre in notazioni generalizzanti, anche se, a mio avviso, indispensabili per ogni discorso non stereotipato sulla tradizione lirica dei petrarchisti, mi limito a ricordare quanto e come questo imprinting segni i secoli della lunghissima durata della tradizione culturale classicistica, la sua diffusa e stabile egemonia: una continuità fondata su quella discontinuità primaria, una conservazione della memoria fondata su quella cancellazione primaria della memoria. Possibili, questa continuità e questa conservazione, solo perché una tradizione è tale se sa conservare, al di là di ogni sua metamorfosi o di ogni sua torsione, il filo continuo della propria impronta genetica, anche svolgendolo (stravolgendolo) in capricciose spirali o in inquieti ghiribizzi, ma anche, senza contraddizione alcuna, in rassicuranti patterns, in gratificanti santini. E per tornare al Classicismo e al suo Petrarchismo, si deve riconoscere che la loro continuità e la loro conservazione si protraggono almeno fino alla radicale (ma quanto?) nuova discontinuità e nuova cancella-

57 In realtà questo rilievo potrebbe risultare quasi tautologico, se solo si tenesse conto del modo costitutivo e proprio con cui funzionano tutte le culture tradizionali, come il Petrarchismo nel Classicismo: una piccola e una grande tradizione, biunivocamente coerenti e organiche, sempre vitali e quindi fluide e metamorfiche. Un modo – è forse conveniente ricordarlo – del tutto diverso dalle nostre società della comunicazione e dei consumi. Nel Petrarchismo e nel Classicismo, come in tutte le culture tradizionali, per quanto possa diventare esile, per quanto – soprattutto – possa essere diversamente filato annodato tessuto (in forma di testo), il filo che connota l’assetto produttivo e riproduttivo (di sistema: cioè, di tradizione) non si rompe mai, non può rompersi. Altrimenti si dissolverebbe il senso stesso del suo essere tradizione, altrimenti smarrirebbe la memoria della sua profondità e durata, altrimenti perderebbe la funzione di legittimare, anche ritualmente, il patto convenzionale fondativo e identitario di una società o di un gruppo sociale.

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zione di memoria: con il terremoto culturale del primo Ottocento, con l’irrompere del nuovo sistema culturale e letterario. E delle sue nuove società. Tutto questo può e deve essere detto perché Petrarca non esce mai, nel corso del Cinquecento e del primo Seicento, dalla comune, non diventa mai un arnese residuale d’altri tempi, non è mai liquidato e rimpiazzato da baldanzosi e spietati giovani: continuano, con ritmi certamente diversi nel tempo e nello spazio, a leggerlo memorizzarlo intonarlo. Tutto questo può e deve essere detto perché Petrarca resta, fino al primo Seicento e ben oltre, praticamente sempre, l’autore principe (e non solo nel canone dei poeti da intonare e nella conseguente loro hit parade), anzi, il solo, tra tutti i protagonisti del passato remoto e prossimo, a essere accolto stabilmente accanto ai sempre novi e ai sempre novissimi. Da Petrarca a Marino: non è un percorso da un prima a un dopo, tra terminali distanti e distribuiti nel tempo e nello spazio (un percorso peraltro praticabile, a ritroso, solo con l’autostrada inventata e costruita dalla tradizione classicistica). È anche e soprattutto un viaggio oltre il tempo e oltre lo spazio: il viaggio della memoria nella memoria, nelle sue stanze. Anche questa è una forma costitutiva e propria della tipologia culturale classicistica (e di ogni tradizione), ma ci consente, in particolare, di cogliere le dinamiche e il senso del rapporto continuo con Petrarca da parte dei poeti nuovi e nuovissimi, nonché da parte del pubblico dei lettori e dei performer: è insomma la memoria attiva e riproduttiva di Petrarca a operare sempre e comunque in tutti i soggetti impegnati in pratiche comunicative (la poesia e la poesia in musica) non solo iperformalizzate (ciascuna nei codici suoi propri), ma anche ad altissimo indice di referenzialità culturale complessiva. Anche quando non è riusato direttamente (le sue parole in musica, le sue parole citate o evocate nel lavoro dell’intertestualità classicistica), anche quando non è evocato, Petrarca resta comunque il referente primario di ogni atto comunicativo: perché è il garante di ogni possibilità di comunicare senso denotativo e connotativo; perché è il collante identitario e unitario dell’infinita serie di pratiche che marcano il vastissimo territorio di una cultura iperattiva; perché, in quanto metro unico di paragone, rende possibile la percezione e la misurazione dell’indice di varietà o innovazione (di lingua stile forma) di ogni esperienza dei nuovi e nuovissimi; perché, infine, assume la funzione di mediatore generale della comunicazione, correlando l’esperienza individuale di ciascuno dei nuovi protagonisti all’esperienza di tutti gli altri. Perché Petrarca è il fuoco prospettico, adorato o mal sopportato, di tutte le pratiche della poesia dei Moderni (del loro volere essere petrarchisti, in vario modo ma sempre con bona imitatio, come pure del loro volere non essere più petrarchisti). Un luogo identitario unitario, mai però uniforme.

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Sul Petrarchismo

Molto più concisamente vorrei ora proporre una seconda questione: emerge anch’essa dalle prime risultanze della ricognizione tra i testi dei poeti intonati dai madrigalisti, e riprende le troppo cursorie allusioni ai limiti della comunicazione verbale, subito evidenti nella rigidità monolineare della scrittura (e del suo narrare) che non può, a sua volta, prescindere dalla ineluttabile linearità del discorso verbale. Senza divagare su questioni generalissime, torno al madrigale, ai suoi poeti e ai suoi musicisti, per osservare che la peculiarità della scrittura lineare sconta uno strutturale deficit di funzionalità comunicativa, subito evidente rispetto all’economia della descrizione iconica e della comunicazione musicale. È tanto più difficile, insomma, forse pressoché impossibile, produrre un quadro d’insieme (o un vasto affresco o una polifonia o una sinfonia) tramite la discorsività lineare della scrittura, e anche se non possiamo fare a meno, e non solo in senso metaforico, di parole proprie della comunicazione iconica (“quadro” e “affresco”) e musicale (“polifonia” e “sinfonia”), è del tutto evidente che i “quadri” verbali e gli “affreschi” narrativi (il «ritratto di pittura» del nostro Castiglione, tanto per fare un esempio) restano comunque e sempre privi di ogni effetto di contestualità e di simultaneità, non possono che essere monofonici e monolineari: anche quando eseguono dialoghi a più voci (certo, fa riflettere che la forma del dialogo sia contestuale all’esplosione delle forme figurative e musicali). Un deficit subito evidente: se ci limitiamo a leggere i testi poetici della tradizione petrarchistica come se fossero irrelati nella loro autonomia. In particolare, se leggiamo così quei testi che nascono pensandosi già predisposti e funzionali a essere intonati. Quando invece potrebbe essere fruttuoso accostarsi alla testualità lirica moderna assumendone sempre, metodologicamente intanto, il carattere anfibio: tra poesia e musica. Riprendendo un’osservazione che ho prima prodotto, ritengo che se provassimo ad ascoltare (o a leggere in partitura) nella sua intonazione musicale uno qualsiasi dei testi lirici degli autori prima citati, ci renderemmo immediatamente conto della profonda metamorfosi del corpo testuale originario: l’intonazione polifonica non è mai una sopravveste o una coloritura d’accompagnamento, bensì è la nuova forma organica e dinamica del testo, che ne ridefinisce senso e funzioni. Solo che l’innesto poesia/musica è geneticamente biunivoco: se da una parte la musica metamorfizza la linearità verbale del testo di partenza scomponendola e rimodulandola nelle sue unità fonetiche anche minime, dall’altra, è, a sua volta, marcata dalle parole originarie, anche nelle loro singole unità fonetiche. Non insisto oltre su queste notazioni, sia perché rinviano a una consolidata e autorevole tradizione di studi e di riflessioni teoriche non riducibile a poche improvvisate battute, sia perché corrispondono a una percezione

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immediata e di pubblico dominio: basta, insomma, una qualsiasi esperienza di confronto tra testo scritto e testo cantato nella millenaria esperienza della musica vocale, con o senza accompagnamento (dall’opera alle nostre canzonette, per restare al campo della musica vocale profana: ma analogo rilievo vale per la quella sacra). Per chiudere mi limito a un solo riscontro, ovviamente sul testo di un madrigale. Questo: O chiome erranti, o chiome dorate, innanellate, o come belle, o come e volate e scherzate: ben voi scherzando errate e son dolci gli errori, ma non errate in allacciando i cori.

È un madrigaletto di Giovan Battista Marino (persino dotato di titolo nel volume delle Rime edito nel 1602: Errori di bella chioma). Come tanti, come tutti, i madrigali scritti dai poeti di questa stagione è un testo fatto di niente: eppure è stato intonato venticinque volte, ovviamente da musicisti diversi, tra il 1604 e il 1656. È possibile dunque stimare che in questo arco di tempo siano stati certamente molti i performer (dilettanti più che professionisti) che lo hanno cantato, pur sempre in compagnia, a più voci: anzi, considerando il replicato lavoro dei musicisti, si può ben dire che sia stato un madrigale (nel mirabile composto di poesia e musica) di grande successo. Ebbene, basta ascoltarne una qualsiasi intonazione (o leggerne la partitura) per avere un immediato riscontro di come quei versi fatti di niente possano trasformarsi in altro: che poi il risultato somigli molto a un soufflé vaporoso e leggiadro, alle volute di una parrucca incipriata e galante, non può certo sorprenderci (o meglio, può scandalizzare solo le ultime anime belle), perché questa, signori, è la poesia (anche nella sua metamorfosi in musica) di quegli anni, solo questa. Non vorrei però proporre un apologo, bensì prospettare l’esigenza di tener conto anche di questo nei nostri attraversamenti del territorio testuale della poesia nell’età dei poeti petrarchisti e del madrigale polifonico. Assumendo, a esempio, il punto di vista del lettore di allora, delle sue competenze, potrebbe essere produttivo considerare il fatto che ogni suo atto di lettura non potesse mai essere irrelato e concluso in sé. Da questo punto di vista non c’è dubbio che gli studi degli ultimi anni sulla tradizione lirica da Petrarca a Marino abbiano ormai acclarato le pro-

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porzioni strutturali della memoria della poesia e della sua genetica intertestualità. Pertanto il profilo del lettore colto di allora (il gentiluomo letterato e i suoi emuli) è più o meno delineato almeno in questo: ogni suo atto di lettura di un nuovo o vecchio libro di rime attiva, automaticamente o quasi, il lavoro della memoria intertestuale, profilando trame dirette o remote con altri libri e con altri testi, a cominciare dall’arcilibro e architesto petrarchesco (a esempio, per restare al madrigaletto mariniano, in materia di chiome, errori, cori). Ma perché possa davvero essere adeguato e completo, il nostro profilo del lettore colto di allora deve saper acquisire anche le altre possibilità performative praticabili dalle sue competenze (tanto più articolate, e meno settoriali, delle nostre), le altre economie del suo lavoro tra memoria e intertestualità: quando legge un libro di rime, questo lettore non lo riferisce soltanto agli altri omologhi libri che ha letto e memorizzato (compresi i suoi), ma può riferirlo anche a una o più intonazioni dei testi lirici che ha ascoltato e che molto probabilmente ha praticato, in compagnia di altre voci. Leggere i nostri madrigali allo specchio dei madrigali dei musicologi serve, insomma, a ribadire il dato fondamentale dell’esperienza della poesia lirica moderna: il fatto, cioè, che le sue dinamiche sono sempre (per ragioni propriamente genetiche, come più volte ho detto) anche interdiscorsive intersemiotiche diasistemiche, perché si intrecciano e si innestano con altri linguaggi, in primo luogo con quelli musicali, e non solo con quelli iconici (terreno, questo, tanto più sondato: basti pensare alle tante e cospicue analisi del codice figurativo pertinente alle immagini poetiche della donna bella, nelle sue stesse trasformazioni diacroniche). Questa economia dell’intreccio e dell’innesto è possibile perché la competenza dell’autore e del lettore di testo poetico e letterario corrisponde, nella stessa persona e con le stesse regole, alla competenza dell’intenditore d’arte (sia committente che collezionista) e alla competenza del performer di musica vocale. E non per caso, o per eccezione, solo in soggetti molto dotati: sono invece pratiche culturali ordinarie, modularmente distinte nei rispettivi linguaggi codici generi forme, ma tutte coerentemente e organicamente integrate nel grande sistema del Classicismo. La poesia: ut musica …, ben più che ut pictura. Vorrei concludere questa digressione attraverso il territorio della poesia in musica con un riscontro, citando la testimonianza, peraltro ben nota ai musicologi, di uno dei grandi libri protagonisti della fondazione della moderna cultura classicistica. Nel Cortegiano di Baldassarre Castiglione (siamo nel 1528: data di per sé eloquente rispetto alla fondazione della moderna letteratura volgare e alla nascita del madrigale musicale) si trova ampia e positiva

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trattazione, alla fine del primo libro, della nuova parte che la musica è chiamata ad assolvere nella conversazione delle moderne corti («non solamente ornamento, ma necessaria»58: allo stesso titolo, insomma delle lettere e delle arti), e in particolare, nel secondo libro, si discorre delle «molte sorti di musica», «così di voci vive, come di instrumenti»59; in questi termini, straordinariamente esperti e genialmente precoci: «Bella musica – rispose messer Federico – parmi il cantare bene a libro sicuramente e con bella maniera, ma ancora molto più il cantare alla viola: perché tutta la dolcezza consiste quasi in un solo, e con molto maggiore attenzione si nota e intende il bel modo e l’aria, non essendo occupate le orecchie in più che in una sola voce, e meglio ancora vi si discerne ogni piccolo errore. Il che non accade cantando in compagnia, perché l’uno aiuta l’altro. Ma sopra tutto parmi gratissimo il cantare alla viola per recitare: il che tanto di venustà ed efficacia aggiunge alle parole, che è gran meraviglia. Sono ancora armoniosi tutti gli instrumenti da tasti, perché hanno le consonanze molto perfette, e con facilità vi si possono fare molte cose che empiono l’animo della musicale dolcezza. E non meno diletta la musica delle quattro viole da arco, la quale è soavissima e artificiosa. Dà ornamento e grazia assai la voce umana a tutti questi instrumenti, dei quali voglio che al nostro cortigiano basti avere notizia»60.

Certamente non è ancora il madrigale che verrà, bensì ancora la tradizione frottolistica del canto accompagnato da strumenti, ma se «fin dagli inizi il madrigale si cantò in ristretti circoli dediti alle arti – quelle della conversazione, della poesia e della musica fra le altre – in un contesto sociale improntato a grande urbanità: il contesto delle accademie»61, anche da questo punto di vista il gruppo di cortigiani che si riunisce nelle sale del palazzo di Urbino fa accademia: conversando e cantando, declamando sonetti e danzando. La competenza (attiva e passiva) delle lettere si correla organicamente, dunque, alla competenza (attiva e passiva) della musica, sia strumentale che polifonica: ut musica poesis, dunque. E non per un gioco verbale: ma proprio perché la competenza attiva delle arti (per lungo tempo considerate “mecca-

58 Cfr. Baldassarre Castiglione, Il cortigiano, a cura di Amedeo Quondam, Oscar Mondadori, Milano 2003, I, p. 86 (I 8.15 = I 48). 59 Ibidem, p. 115 (II 3.32 = II 13). 60 Ibidem, p. 115 (II 3.33-35 = II 13). 61 Così Fenlon e Haar nel citato loro libro sul madrigale, p. 126.

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niche”) resterà interdetta alle mani del gentiluomo moderno, mentre la “scrittura” (pur sempre) musicale e più ancora l’uso appropriato della voce che canta poesia (di autore più o meno celebrato, come pure di anonimo), costituiranno le forme di un ornamento acquisito per sempre alle sue distintive condizioni e qualità, in quanto pratiche connotative del suo saper essere in civile conversazione.

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5. A questo punto è tempo di concludere con qualche ragionamento sul Petrarchismo in quanto categoria storiografica ed ermeneutica, cercando soprattutto di evitare ripetizioni con quanto ho altrove già avuto modo di argomentare. Cominciando dal nome, che non mi sembra questione accessoria: se “petrarchismo”, come tutti gli “-ismi”, è un’invenzione recente, “petrarchista” è invece una parola non solo antica ma soprattutto forgiata (per analogia con gli altri termini dal suffisso in “-ista”) specificamente per connotare i comportamenti di chi nei primi anni del Cinquecento faceva professione di seguace di Petrarca. Che poi la sua invenzione (intanto nel titolo del dialogo di Nicolò Franco, Il Petrarchista, in prima edizione nel 1539) sia funzionale a una parodia, non modifica certo la precisione pertinenziale del termine, tanto più se si considera come entri a far parte di una vera e propria strategia editoriale (rappresentandola dinamicamente: come vettore promozionale), finalizzata a promuovere il mercato del moderno libro di rime. Il mercato dei nuovi poeti petrarchisti, appunto: che sono definiti tali perché intendono consapevolmente e progettualmente praticare, e praticano, una radicale discontinuità nei confronti del dominante Tebaldeo, alfiere di una poesia da liquidare, anche perché veterocortigiana, impresentabile e irricevibile al vaglio dei letterati umanisti impegnati nella costruzione di una letteratura che parli in volgare come se fosse il latino. Assumendo, dunque, questa pertinenza semantica di “petrarchista” è possibile prospettare un impiego di “petrarchismo” in termini tanto più economici: questa categoria può, insomma, essere utile non solo per mettere insieme, nei nostri discorsi critici e storiografici, le tantissime (troppe) esperienze di scrittura dei tantissimi (troppi) poeti che fanno professione di imitatori di Petrarca, ma soprattutto può essere utile per connotarne la strategia referenziale, cioè la più o meno consapevole (poi automatica) convalida e ripetizione di un modello organico (lingua forma stile topica funzioni). In questo senso la categoria di Petrarchismo si prospetta come programma genetico e al tempo stesso come risultante di uno sterminato universo di pratiche comunicative nei territori della moderna poesia lirica: per duplicazione

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continua, per rifrazione all’infinito, dell’Architesto che è ovunque 62, popolando e animando la memoria e i testi di tutti con la voce e la lingua del Padre. Questo rilievo lessicale e semantico è per più aspetti pregiudiziale, perché riconduce le nostre analisi alle complesse e conflittuali dinamiche che connotano la nascita della moderna letteratura volgare (e proprio negli immediati dintorni di quel fatidico 1530), confermando come la parte fondamentale sia giocata proprio dalla ricerca dello statuto della nuova poesia lirica da parte dei tanti protagonisti di quella nascita, letterati ed editori. Che poi i nuovi poeti siano definiti “petrarchisti” da qualcuno molto informato e molto attento a quanto sta accadendo, anzi profondamente coinvolto e persino partigiano, non è un dettaglio che riguardi soltanto la lessicografia, bensì pertiene alle proporzioni di un fenomeno subito tanto vasto e dirompente da poter essere descritto (e sbeffeggiato) come una moda: in grado, però, come tutte le mode, di avere e produrre senso solo in quanto “sistema” che fonda le sue spumeggianti superfici comunicative in un livello tanto più profondo e intenso, fatto di elaborazioni teoriche e metodologiche che vengono da lontano (dal cuore dell’esperienza umanistica) e sono destinate ad andare ancora più lontano, proprio perché – come ho già ricordato – il sistema della moda dei petrarchisti concorre a costruire il sistema letterario e culturale dei classicismi volgari (in quanto lingua, generi, forme, topica, canone). Nel nome di Petrarca, dunque: soprattutto, se non solo, di Petrarca. Questo semplice accertamento lessicografico dovrebbe sgomberare il campo dalle replicate discussioni in merito a un possibile petrarchismo prima del Petrarchismo, con Petrarca o senza Petrarca, tràdito o tradìto, eccetera: che hanno sin troppo occupato il confronto tra studiosi della poesia postpetrarchesca quattrocentesca cinquecentesca63. Potranno pur servire come allu-

62 Se le edizioni del Canzoniere sono circa quaranta nei due segmenti cronologici trentennali prima del 1530 (cioè, tra il 1470 e il 1500, e tra 1501 e 1530), salgono a più di centoventi nei settanta anni successivi (tra 1531 e 1600). 63 Mi riferisco alle ben note interpretazioni di Maria Corti (nell’introduzione a Pietro Jacopo de Jennaro, Rime e lettere, Commissione per i testi di lingua, Bologna 1956) e di Gianfranco Contini (Preliminari sulla lingua del Petrarca, in Varianti e altra linguistica, Einaudi, Torino 1970; la prima edizione del saggio risale al 1951). Per una attenta e del tutto condivisibile discussione di questa microtradizione critica, rinvio al citato libro di Santagata, I due cominciamenti della lirica italiana; di particolare rilievo sono anche le sue osservazioni su quelle esperienze di secondo Quattrocento che avviano la ricerca di un rapporto consapevole con il modello di Petrarca: ma la definizione di Giusto de’ Conti come «Pietro Bembo del Quattrocento» (p. 109) certamente acuta per le prospettive che apre sul percorso che perviene poi a Bembo, resta pur sempre metaforica;

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sioni metaforiche (omologhe agli impieghi tanto generici quanto anacronistici di “barocco” o “romantico”), ma quello che mi sembra invalicabile è la precisa e non estendibile pertinenza semantica di “petrarchista”, già nel 1539. Ribadisco, insomma, che a mio parere, sulla base delle tante argomentazioni che ho sin qui prodotto e di quelle che ancora produrrò, non esiste possibilità alcuna di Petrarchismo al di fuori, né tanto meno prima, del Classicismo: come pure non esiste “antipetrarchismo” o “anticlassicismo”, se non in forma di consapevoli pratiche parodiche o comiche. Pigrizie lessicali, le prime, fantasmi letterari o culturali, i secondi. Ciò premesso, vorrei osservare che il percorso sin qui tracciato ha inteso prospettare una serie di osservazioni e di esempi che mi auguro possano risultare congrui per ribadire l’esigenza di affrontare qualsiasi segmento, anche settoriale, della grande officina classicistica nel contesto del suo essere sempre e comunque parte integrata, in tempo reale e con assoluta consapevolezza progettante, di un sistema (etico estetico) organico, e quindi del suo fare, sempre e comunque, sistema64. Tanto più quando ci occupiamo di qualcosa che, se certo è ormai marginale nel nostro attuale sistema della comunicazione (e non più della letteratura: e la trasformazione lessicale è di per sé significativa), cioè la poesia lirica, è stato invece per secoli l’architrave del Classicismo europeo: il luogo primario di formazione e di saggio delle stesse lingue referenziali (le eloquenze volgari), nonché il campo elettivo delle pratiche e delle teorie della moderna letteratura (o, se si vuole, della moderna comunicazione letteraria) che fonda e regola il corpo complessivo delle sue forme e delle sue norme. Il Petrarchismo, dunque. A partire dagli anni Trenta del Cinquecento, attraverso tutto il secolo e ben oltre. Per la straordinaria sua rilevanza e per la sua stessa storia nel tempo e nello spazio italiano ed europeo, consente – tra l’altro, ma in primo luogo – di mettere a fuoco le categorie più idonee per l’analisi e l’interpretazione del rapporto, da allora in poi strutturale nelle let-

anche a Giusto, insomma, manca l’intenzione di collocare la sua esperienza di poeta lirico entro un sistema integrato e forte di lingua retorica letteratura. 64 Il contributo più importante sul Petrarchismo come sistema è quello, già citato, di Klaus Hempfer, Per una definizione del Petrarchismo. Non posso qui discutere, come pure sarebbe opportuno, questo denso studio: mi limito a rilevare che da quanto sono venuto argomentando dovrebbero risultare convergenze e divergenze con le sempre acute analisi teoriche di Hempfer; in particolare l’impiego della nozione di sistema che preferisco riservare al Classicismo, di cui il Petrarchismo è, se mai, un metasistema, ancorché strategicamente decisivo per l’elaborazione e affermazione del sistema classicistico volgare.

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terature classicistiche di tutta Europa, tra l’istanza normativa costitutiva e propria del campo letterario nella lunga stagione del Classicismo (che con le sue metamorfosi si estende ben oltre il campo e il tempo del Petrarchismo) e la serie infinita delle pratiche che lo percorrono. È questo rapporto a definire e connotare le dinamiche della modernità, e non solo di quella letteraria: se infatti si esprime con una gamma molto ampia di posizioni, dal grado zero della ripetizione formulare allo sperimentalismo più audace, in tutte le varie posizioni è possibile riconoscere come e quanto questo rapporto istituisca un campo di tensioni, talvolta molto intense e persino drammatiche (emblematico è il caso di Torquato Tasso). Anche perché questa polarizzazione normativa, che di per sé non è altro che il Classicismo, ha una forza attrattiva e omologante (anche in campo etico: il dover essere) mai registrata in precedenza nella storia culturale europea: e se può essere persino spietata nell’evidenziare le inadeguatezze o le sconvenienze di ogni pratica comunicativa (scrivere un sonetto piuttosto che narrare una facezia) è solo perché appartiene alla condivisa competenza di tutti, che ne sono al tempo stesso performer e giudici. Eppure nel rapporto tra l’istanza normativa e l’universo delle pratiche si può cogliere anche un altro fattore, pur sempre connotativo del sistema classicistico e particolarmente significativo nell’esperienza dei tantissimi poeti, anche dilettanti, che si cimentano con la scrittura petrarchistica: proprio perché ogni singolo atto di scrittura (ogni sonetto, insomma) è governato dall’istanza di norma e di forma, la sua efficacia di senso è certificata e garantita dal suo voler essere (e sapere di essere) parte semanticamente e formalmente integrata di quel sistema. Ed è, questa istanza normativa, condivisa da tutte le pur diverse tipologie che è possibile riconoscere nella selva dei poeti del Petrarchismo, debole o forte che sia65. Con ogni evidenza questo è l’aspetto, per noi, più remoto e ostico dell’esperienza petrarchistica, eppure è il solo a rappresentarne compiutamente la diffusione capillare, la sua stessa ratio comunicativa: e per l’insieme e per ciascuna delle 5270 unità bibliografiche che perimetrano e connotano il campo dei libri di poesia tra il 1470 e il 1600. Potrà sembrare ostico e difficile, ma credo che occorra intanto prendere atto che se ciascuna di queste unità bibliografiche è titolare di un’autonoma esperienza, e pertanto è portatrice di una differenziata carica di senso e di valore (anche effimero, destinato a presto disperdersi, ma che allora e nella specifica sua situazione comunicativa

65 L’analisi di questa doppia tipologia petrarchistica si deve a Marco Santagata, nell’introduzione alla nuova edizione del suo Dal sonetto al Canzoniere. Ricerche sulla preistoria e la costituzione di un genere, Liviana, Padova 1989.

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originaria ebbe comunque senso e valore), questo è possibile proprio perché ciascuna unità bibliografica (come pure ciascun sonetto: e non solo quelli variamente pubblicati) sperimenta, consapevolmente o perché così fanno tutti, il rapporto con il modello. Quanto al nostro occhio educato ad altre forme e valori (non solo in poesia e in letteratura) risulta, insomma, una massa indistinta e indistinguibile di oggetti testuali forti e deboli, variamente ripetitivi e stereotipi, una stucchevole poltiglia di sonetti madrigali canzoni canzonette odi, fu allora ben altro: la convalida, testo dopo testo, del valore e della funzione della conformità; la convalida, testo dopo testo, di una tradizione che così continua a fare sistema e quindi a garantire a tutti l’accesso a una comunicazione universale perché ordinata e condivisa. Per dare riscontro di come solo accedendo al rapporto consapevole con l’istanza normativa ogni singolo atto/evento di scrittura e di lettura conquisti senso e possibilità di comunicare, e al tempo stesso di quanto complessa fluida dinamica, cioè ricca, possa essere l’economia generale della poesia, e di quella lirica in modo tutto particolare, basterà riferirsi al suo ben noto assetto primario: quello che costituisce geneticamente la comunicazione lirica, e pressoché tutta la risolve, attraverso la scansione dei modi in cui si compie la relazione archetipica tra un io e un tu, rivolta necessariamente a voi e/o, quindi, a noi 66. O, per dirla in altri termini: la questione del soggetto che nei testi lirici parla, nella costitutiva ambiguità tra soggetto dell’enunciato e soggetto dell’enunciazione. Nihil sub sole novi, si potrebbe obiettare: perché questa è la posizione ambigua del soggetto di tutti i testi lirici (e non solo) occidentali, dal tempo dei poeti greci. Eppure, per cogliere le proporzioni e il senso della svolta che, a partire dagli anni Trenta del Cinquecento, si compie nel campo della poesia lirica italiana ed europea, conviene partire da qui, anche perché il dato fondamentale che occorre sempre ricordare è la dominante presenza dell’io/tu/voi petrarchesco, del libro che è l’ipotesto di tutti i testi possibili. Per subito complicarne, però, le funzioni polarizzanti, facendo riferimento a quanto sin qui ho argomentato intorno alla nuova lirica che si autodefinisce petrarchista come esperienza socializzata (o mondanizzata) di una competenza (un habitus: una virtù, sempre scandita al plurale, però) che si inscrive, modellizzandola e connotandola, nell’etica moderna della rappresentazione di sé, e fun-

66 Per questo aspetto archetipico della poesia lirica rinvio alle osservazioni di Marco Santagata nel citato I due cominciamenti della lirica italiana; nonché al già citato mio Naso di Laura.

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ziona come istanza del dover essere uniforme e conforme, negli universi correlati dei modelli e delle pratiche che definiscono il bello e il buono. Se la ratio del Petrarchismo, cioè le ragioni del suo immediato trionfo universale, sono tutte qui, il valore comunicativo di quel soggetto dell’enunciato autorizzato a dire io dalla tradizione lirica degli Antichi è radicalmente e dinamicamente risemantizzato: Petrarca è al tempo stesso tràdito e tradìto. Perché la voce singola di quell’io che parlava da un luogo remoto e solitario, è metamorfizzata scomposta rifratta, perché diventa una voce socializzata in più voci: quelle dei tanti tantissimi lettori che sanno, occorrendo, farsi autori e persino cantanti. Per poter essere petrarchesco e petrarchistico, il madrigale (per restare alla forma metrica più dinamica, trainante, nel corso del Cinquecento) deve, insomma, segmentare rifrangere replicare e dissolvere quella voce originariamente sola e solitaria: nel suo farsi necessariamente polifonico, per statuto e per funzioni. La fedeltà a Petrarca, dunque, è praticabile solo tramite un primo spiazzamento del soggetto: dalla solitudine alla socialità. A più voci: dal monolinguismo (altra famosa definizione critica 67) del monologo petrarchesco alla polifonia petrarchistica. Una polifonia che, peraltro, non coinvolge soltanto lo statuto del madrigale, ma anche quello della poesia fissata in testo: sarebbe sin troppo facile ricorrere subito a quella tipologia libraria di rime di diversi che domina il mercato del moderno libro di poesia petrarchistica, a partire da metà Cinquecento, ma non intendo limitarmi a questo riscontro sin troppo banale, per quanto essenziale 68. Se questa è infatti una sorta di polifonia di servizio, persino materiale, tanto più opportuno mi sembra il riferimento alle diffuse pratiche del fare poesia a più mani, tramite la cooperazione solidale dei tanti letterati, e gentiluomini, conformi per seconda natura, con la mediazione degli esperti. Mi riferisco all’istituto antico della censura, che connota l’attività propria delle accademie e ne è la legittimazione al tempo stesso culturale e sociale: purtroppo banalizzato, da troppo tempo e in termini ormai insopportabili, dalla soverchiante immagine

67 Anche il monolinguismo petrarchesco è celebre categoria critica continiana: si legge nel citato saggio Preliminari sulla lingua del Petrarca. 68 Il denso campo delle raccolte di rime di diversi si è finalmente imposto all’attenzione degli studiosi di poesia lirica cinquecentesca: rinvio al volume «I più soavi e vaghi fiori». Studi sulle antologie di lirica del Cinquecento, a cura di Monica Bianco ed Elena Strada, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2001; nonché all’edizione del primo volume delle Rime diverse, pubblicato a Venezia da Giolito nel 1545, a cura di Franco Tomasi e Paolo Zaja, Edizioni Res, Torino 2001); e quindi al sito web curato da Simone Albonico: http://rasta.unipv.it/.

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del feroce inquisitore. La censura, appunto: come istituto di cooperazione e di mediazione per l’accesso attivo al testo, come effetto pratico della polarizzazione normativa. Non solo la censura, però: il fattore distintivo primario della polifonia del Petrarchismo è da riconoscere – a mio avviso – nella costruzione di un pubblico di lettori che si sovrappone in gran parte al pubblico degli autori. Un pubblico che non pratica soltanto la lettura (e la scrittura) individuale, in silenzio. Un pubblico che non frequenta soltanto le librerie e il mercato del libro tipografico di rime, nelle sue diverse tipologie anche merceologiche. Perché questo pubblico di poeti e di lettori di poesia, questo pubblico di autori e di performer di madrigali, è lo stesso che si impegna nelle pratiche della civile conversazione: l’altra grande istituzione culturale classicistica che si forma esattamente in questi stessi anni, in piena sincronia e sintonia con il Petrarchismo, e che è in grado di dare spazio conveniente per forma e norma anche alle pratiche di lettura (o declamazione) di testi poetici o di esecuzione di madrigali. Lettori perché poeti, poeti perché lettori. Letterati perché intendenti di musica, musicisti o musicofili perché intendenti di poesia. Una mescidanza continua e reversibile di competenze e di pratiche. In conversazione. Anch’essa un’arte polifonica: del dialogo. Non per esibire qui un testo che a me è molto caro, ma per porre una questione che potrà a qualcuno risultare di lana caprina: la scelta del numero delle voci per praticare questa polifonia (per cantare come per conversare) nei modi armonici e ben regolati richiesti dall’istanza classicistica della norma e della forma, è una variabile indifferente, oppure è anch’essa in qualche modo normata e formalizzata, almeno nella sua istanza di base? Propongo intanto la citazione, da Stefano Guazzo, ovviamente: Non hanno mancato alcuni valorosi scrittori di proporre molte utili maniere, appartenenti alla conversazione de’ conviti. Ma questi sono i principali: che ‘l convito dee cominciare dalla Grazie e finire nelle Muse, cioè che ‘l numero de’ convitati non sia minore di tre né maggiore di nove; che i convitati non mostrino né copia né inopia di parole, percioché si suol dire che l’eloquenza è da piazza e ‘l silenzio da camera69.

69 Stefano Guazzo, La civil conversazione, a cura di Amedeo Quondam, Panini, Modena 1993, I, p. 175 (2 A248a): parla Annibale. La battuta riprende un antico topos: si legge in Aulo Gellio (è attribuito a Varrone); di diffusa circolazione nel Cinquecento: negli Adagia di Erasmo da Rotterdam e nelle Ore di ricreazione di Ludovico Guicciardini.

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La giusta misura, pur sempre, temperata e regolata: per istanza di ordine e di forma, per evitare ogni rischio di babeliche confusioni. Perché ogni voce, a turno, risulti distinta e chiara nell’insieme: per raggiungere l’armonia polifonica, appunto, cantando a più voci. A questo punto dovrebbero risultare chiare le ragioni del Convegno, affidate ora alla verifica e valutazione di quanto è agli atti, nelle diverse, e autonome, elaborazioni di ciascun contributo. L’obiettivo del progetto ha mirato alla descrizione analitica delle proporzioni e delle dinamiche con cui il Petrarchismo nasce e si diffonde nelle diverse lingue e culture di Europa, in quanto forma storica della poesia lirica almeno nella fase iniziale dell’età moderna (o dell’Antico regime), variante esecutiva, prima e primaria, della sua tipologia culturale, il Classicismo; e in quanto attributo distintivo e proprio della nuova identità del moderno gentiluomo, della sua seconda natura acquisibile tramite conveniente institutio. Con questa scansione di problemi, tutti, più o meno, sin qui attraversati e discussi, e che ora così riordino, per enunciati: a. Petrarchismo e Classicismo. La fondazione della moderna letteratura volgare si compie (intorno al fatidico 1530) sulla base di una rinnovata e selettiva teoria della bona imitatio e di un canone di soli ottimi autori (diversamente modulabile nelle esperienze “nazionali”, ma pur sempre con Petrarca in posizione di assoluto primato). Da questo punto di vista si tratta di un evento del tutto eccezionale nella storia europea, prima e dopo il Petrarchismo: un genere letterario vasto e duraturo, una tipologia culturale altrettanto vasta e duratura, che assumono un referente unico e si dispongono consapevolmente e progettualmente a imitarlo ripeterlo variarlo, anche contestualizzandolo o innestandolo su altre tradizioni (quella della poesia neolatina, a esempio). Nel suo assetto originario, il Petrarchismo concorre da protagonista alla messa a punto dei dispositivi del Classicismo volgare, per diretta analogia con il Classicismo umanistico, a cominciare dall’archetipico rapporto tra Antichi e Moderni. Con un tratto distintivo che fa però la differenza: l’economia della memoria degli antichi ottimi volgari, pur sempre praticabile e da praticare tramite conveniente riuso e adeguata citazione (oppure parodia), deve superare il problema della loro prossimità cronologica e della loro contiguità linguistica: per questo non può non accentuare la loro distanza ed eccellenza inventando, tra loro e i moderni seguaci, un vasto deserto di forme e di lingua, prodotto dalla cancellazione primaria della memoria di quanto è contiguo e contemporaneo, ma incompatibile.

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Sulla base di queste macroconsiderazioni, non può esservi Petrarchismo (debole o forte che sia) senza Classicismo, né tanto meno prima del Classicismo. b. Petrarchismo e lingue “nazionali”. La necessità della bona imitatio di un solo autore ottimo nei diversi generi e nelle diverse forme della rinnovata letteratura volgare (nei nuovi volgari in costruzione) si proietta anche sugli statuti della lingua per le pratiche della moderna conversazione (civile perché titolare della responsabilità di una forma e di una norma universali: entrambe classicistiche). Pur con forti e specifiche differenziazioni, questo processo presenta aspetti convergenti e persino uniformi nelle diverse nazioni d’Europa, almeno per quanto riguarda la lingua con cui scrivono e parlano le società colte e le società di corte: lingue e langue, pratiche e modello, Petrarca e Petrarchismo come sistema linguistico della ripetizione. In questo processo che non è solo di grammaticalizzazione per analogia (i volgari come il latino: con una propria grammatica), bensì anche e soprattutto di forma culturale (con la scoperta del nuovo valore distintivo: quello estetico), è decisiva la collaborazione dell’industria tipografica, che infatti scommette molto, anche imprenditorialmente, sul libro di rime del petrarchista. c. Petrarchismo e gentiluomo. Non per produrre un rilievo meramente sociologico70, bensì per puntare su di un fattore complessivamente antropologico, che pertiene alla formazione di una nuova tipologia culturale distintiva (il Classicismo) e propria di un nuovo soggetto culturale: il gentiluomo appunto, con la sua seconda natura (fatta di una ricca gamma di nuove competenze e di nuovi saperi, al tempo stesso etici ed estetici), che può essere acquisita al termine di un curriculum di formazione, che deriva dall’institutio umanistica e pertanto richiede fatica e studio. Il nobile guerriero che si trasforma nel moderno gentiluomo: nell’equilibrata sintesi di armi e lettere; l’antico contrassegno identitario distintivo, e il

70 Sarebbe da discutere attentamente quanto Santagata scrive auspicando «una storia sociale del Petrarchismo»: intesa però nel senso di «una storia attenta ai dati linguistici e formali e sociologici, ma, soprattutto, capace di individuare gli intrecci fra strutture politico-istituzionali, apparati ideologici e formalizzazione letteraria» (dal citato I due cominciamenti, pp. 90-91). A mio parere, il rilievo sociologico di partenza (il petrarchista è il moderno gentiluomo) risulta tanto più funzionale se riesce a riscontrarsi con i processi propriamente antropologici di una cultura tradizionale (il Classicismo).

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nuovo supremo ornamento di nobiltà. Gentiluomini si diventa: a scuola di Classicismo. Il Petrarchismo, da questo punto di vista, è la vittoria postuma, a futura memoria, degli umanisti che sanno rinunciare alla titolarità delle lingue classiche, per tanto tempo esclusiva (e lo resta ancora, purtroppo, per Erasmo da Rotterdam: privo peraltro di una lingua veicolare o materna trasformabile in lingua referenziale). Ma soprattutto, il Petrarchismo, nel sistema integrato dei diversi e correlati nuovi saperi delle arti e della musica, della conversazione e del galateo, rappresenta il trionfo della competenza estetica: ed è tutta qui la svolta decisiva della modernità. Una svolta tutta antropologica: riconnota infatti le identità dei corpi e i loro rapporti e movimenti in uno spazio (prioritariamente urbano: gentiluomini e patrizi) sempre più segnato dalla vistosa presenza di oggetti belli (per il valore estetico aggiunto, del tutto indipendente dai materiali impiegati), a cominciare dal luogo di residenza (palazzo o villa che sia) e dai suoi interni, che diventano il luogo delle nuove istituzioni culturali (la biblioteca, il museo, l’accademia, il salotto). Per quanto possa risultare difficilmente comprensibile, e tanto meno condivisibile, per la nostra cultura individualistica fondata sull’autonomia di ogni soggetto, l’istanza classicistica dell’uniforme e della ripetizione ha per secoli garantito – come ho accennato – non solo la comunicabilità verbale e non verbale, ma la sua stessa esteticità ed eticità: come tratto peculiare e distintivo di quel buon governo di sé, secondo il principio generale della conformità, che struttura l’etica dell’età moderna prima di Kant e Rousseau71. L’etica del gentiluomo, l’estetica del gentiluomo. d. Petrarchismo come saper fare poesia. La competenza estetica, in quanto valore aggiunto distintivo della modernità, è attiva nei diversi domini dell’arte che proprio nell’età del Petrarchismo dispiegano la loro diffusiva capacità di ridisegnare i corpi e i luo-

71 Per una adeguata discussione di questi problemi, rinvio al mio Magna et Minima moralia. Qualche ricognizione intorno all’etica del Classicismo, in «Filologica e critica», XXV (2000), II-III, pp. 179-221. In termini analoghi si esprime Santagata a conclusione del suo citato libro I due cominciamenti, p. 113: «D’altra parte, le prevedibili combinazioni dell’immaginario petrarchista costituivano un formidabile strumento di ordine e di regolazione dell’universo sociale che ne era oggetto e destinatario. E così il principio di ordine e di ripetitività poteva trasformarsi in una istanza ideologica, se non proprio suggerendo e codificando i comportamenti, suggerendo e codificando le forme del pensare e del parlare “nobilmente”».

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ghi. Ma è sempre una competenza che si compie in pubblico: per quanto concerne, in particolare, la nuova arte del discorso lirico sub specie petrarchistica, si realizza in primo luogo tramite il libro tipografico di rime, anche di diversi autori; nonché tramite esecuzioni performative: leggendo ad alta voce o cantando a più voci il testo intonato. In quanto pratica di un’arte (in senso proprio: di un saper fare), o almeno aspirazione all’arte e alla sua necessaria perfezione, la scrittura lirica non può certo risolversi comunque o in un qualsiasi modo, bensì non può non proporsi come impegnativo (anche perché agonistico ed emulativo: nell’imitazione del modello) esercizio della competenza acquisita con studio e fatica, ma che per essere vera arte non deve mai essere esibita72. Una competenza che è pubblica anche perché sa di essere sottoposta al giudizio altrettanto competente di chi ascolta o legge: nelle pratiche della conversazione, come in accademia. Questa competenza è perlopiù performativa, perché si compie come esecuzione replicabile, la sola abilitata a certificare, pur sempre in pubblico (come giudizio), il grado di qualità acquisito dal performer, valutabile e valutato rispetto all’istanza della perfezione (di forma e norma) che è il nuovo fattore genetico della tipologia culturale classicistica. Il giudizio non è prodotto però in termini assoluti, bensì sempre in riferimento alle situazioni esecutive, alle occasioni relazionali: secondo circostanze e differenze. Anche questa competenza performativa è, insomma, una delle tante esperienze del buon governo di sé attraverso la pericolosa selva delle circostanze e differenze che connotano l’ambiente in cui si trovano a operare i soggetti impegnati nella performance poetica o madrigalistica (come scrittori o lettori, come cantanti o ascoltatori), un ambiente che può anche mutare nel tempo e nello spazio (in primo luogo è la corte; poi l’accademia; in seguito il salotto), ma sempre luoghi della stessa civile conversazione, che sa rinnovare i propri codici e riti. L’officina classicistica dei moderni generi della discorsività letteraria mette a disposizione di chi intenda praticarli una gamma molto varia integrata di strumenti, che fanno corteo alla serie infinita dei libri di rime di poetae novi e novissimi, oltre che del solito Petrarca. In primo luogo quelli che soccorrono alla memoria della poesia (e non solo): rimari e topiche (del genere

72 Per una densa ricognizione di questo fondamentale assioma dell’estetica classicistica (e non solo), rinvio al libro di Paolo D’Angelo, Ars est celare artem. Da Aristotele a Duchamp, Quodlibet, Macerata 2006.

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Polyanthea 73), fin troppo comode protesi per le pratiche del prelievo (o furto) e dell’innesto intertestuale; e poi commenti e supporti retorici e teorici; eccetera. Per chi voglia cimentarsi nell’agone della scrittura, c’è, insomma, solo l’imbarazzo della scelta: collaudata e tranquilla, ordinata e sicura. e. Petrarchismo e comunicazione moderna. La malattia cronica, l’epidemia, la pandemia: a posteriori possiamo capire le ragioni di questo giudizio, che certamente nasce anche dallo sconcerto di fronte alle proporzioni materiali del Petrarchismo, nel tempo e nello spazio. L’esperienza moderna della poesia, la sua strutturale biunivoca mescidanza polifonica tra il pubblico dei poeti e il pubblico dei lettori, ha infatti lasciato, in Italia come in Europa, imponenti repository (uso intenzionalmente questo termine del lessico informatico) di documenti: basterebbe sviluppare il già citato dato delle 5270 unità bibliografiche (record), relative ai soli libri di poesia stampati in Italia tra 1470 e 1600, sulla base di un moltiplicatore anche casuale o convenzionale dei testi contenuti in media (a esempio: 100), per avere una proiezione attendibile degli atti comunicativi formalizzati che ebbero, almeno lì e allora, una qualche portata di senso74. Non è una misurazione d’ordine sociologico, bensì ancora d’ordine soprattutto antropologico: per individuare l’economia generale di una cultura fondata sulla centralità di pratiche comunicative formalizzate, connotata pertanto da una competenza diffusa, sia attiva che passiva, e persino interattiva. Perché leggere e scrivere sono pratiche reversibili, tipologie solidali della stessa economia della memoria, della sua istanza comunque normativa. Il Petrarchismo, da questo punto di vista, concorre a costituire l’assetto della comunicazione moderna, nei suoi requisiti fondamentali (alla lettera): come basic lingua, come basic grammatica, come basic linguaggio della poesia (nelle sue forme e funzioni), come basic topica, come basic identità relazionale, eccetera. Fornisce insomma i materiali e gli strumenti della basic 73 Per questo repertorio, rinvio al mio Strumenti dell’officina classicistica: “Polyanthea” & Co., in «Modern Philology», 101/2, pp. 316-336; per il problema generale del riuso classicistico e dei suoi strumenti: rinvio alla miscellanea, a cura di Paolo Cherchi, Sondaggi sulla riscrittura del Cinquecento, Longo, Ravenna 1998; e a quella a cura di Roberto Gigliucci, Furto e plagio nella letteratura del Classicismo, Bulzoni, Roma 1998; nonché a Paolo Cherchi, Polimatia di riuso. Mezzo secolo di plagi (1539-1589), Bulzoni, Roma 1998. 74 Scomponendo il macrodato in fasce cronologiche si può ottenere un’informazione che ancora una volta marca la svolta del 1530: nei sessanta anni precedenti è infatti stampato un terzo del totale dei libri, mentre nei settanta anni successivi se ne affollano i due terzi.

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cultura del Classicismo, anche, e soprattutto, nella nuova economia tra l’istanza dei modelli e l’universo delle pratiche comunicative. f. Petrarchismo e soggetto. La modernità del Petrarchismo è anche nell’espansione e drammatizzazione dell’economia del soggetto, nell’ambigua correlazione/interferenza (peculiare alla comunicazione lirica) tra il soggetto dell’enunciato e il soggetto dell’enunciazione: e infatti proprio su questo tema insistono, significativamente, gli studi internazionali, in particolar modo quelli angloamericani75. Purché questo soggetto abbia le competenze necessarie per l’accesso ai circuiti della nuova comunicazione lirica governata (più che ogni altro genere letterario) dalla tipologia culturale classicistica, con i suoi istituti e i suoi strumenti, e soprattutto con quella polarizzazione normativa che vincola ogni singolo atto di scrittura e di parola. Il peculiare rapporto tra Petrarchismo e Classicismo accentua l’impatto sul soggetto di quel campo di forti tensioni che connotano le dinamiche, tutt’altro che pacifiche o stereotipe, tra l’istanza del modello perfetto e le sue pratiche imitative per approssimazione: cioè, tra i vincoli di un sistema che è e fa sistema e la pulsione a comunicare qualcosa di autenticamente personale da parte di quel qualcuno che si registra a testo come io. Questa espansione dell’economia (spesso conflittuale e persino drammatica) del soggetto petrarchistico corrisponde anche a un’espansione della memoria della poesia, che si confronta consapevolmente (almeno nei grandi protagonisti) con quanto è stato sperimentato dai lirici antichi e dai poeti provenzali e dai primi moderni (il club degli stilnovisti), e non solo con la mediazione primaria di Petrarca (che pure rumina e assimila tutta la poesia lirica del passato remoto o prossimo che fosse). Dal crogiolo di tutte queste istanze pulsioni memorie il Petrarchismo si costituisce come esperienza diffusa e differenziatissima di una generale grammatica primaria dell’anima, che fornisce gli strumenti di base per

75 Rinvio almeno a: Leonard Forster, The Icy Fire. Five studies in European Petrarchism, Cambridge University Press, Cambridge 1969; Stephen Greenblatt, Renaissance self-fashioning: from More to Shakespeare, Chicago University Press, Chicago 1980; Thomas M. Green, Light in Troy. Imitation and Discovery in Renaissance Poetry, Yale University Press, New Haven-London 1982; William J. Kennedy, The site of Petrarchism. Early modern national sentiment in Italy, France and England, Johns Hopkins University, Baltimore 2003; ma sarebbe da ricordare con attenzione lo sviluppo, proprio sui problemi del soggetto femminile, degli studi di gender: rinvio al citato volume di saggi «L’una et l’altra chiave» e al saggio di Paola Vecchi Galli in questi Atti.

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descrivere inversi le sue passioni e le sue pene, con il repertorio correlato di sospiri lacrime errori pentimenti conversioni. L’economia primaria del soggetto petrarchista è ovviamente quella amorosa, scandita, seppure in termini molto differenziati, a partire dal doppio riconoscimento primario: “io (soggetto dell’enunciazione) sono Petrarca”, “io (soggetto dell’enunciato) sono Francesco”. È insomma la fondazione di quel rapporto di ambiguità e di interferenza che fonda e connota la modernità letteraria, e che potrebbe, per analogia non metaforica, essere trascritto come “Francesco/Petrarca c’est moi”. Con quanto topicamente ne consegue: io sono innamorato, io soffro per amore, io contemplo la bellezza (a distanza) della mia donna (crudele), io ricordo gli sguardi dei suoi occhi belli, io sono dominato dal pensiero innamorato (risemantizzato, nel corso del Cinquecento, dalla filosofia d’Amore coeva all’esplosione petrarchistica, come desiderio infinito di bellezza), io rifletto sulle passioni della mia anima, io riconosco i miei errori giovanili (e non solo), io aspiro alla conversione, io prego perché possa compiersi. Tutto questo comporta l’acquisizione di una consapevolezza di sé come soggetto titolare e responsabile di una storia interiore, che può non seguire la linearità progressiva del tempo (passato presente futuro), per costruire invece un percorso labirintico fitto di andirivieni esitazioni contraddizioni, che si fissa perlopiù in singoli fotogrammi situazionali (spesso per effetto di flashback o di zoom su dettagli anche feticistici: la bella mano, i capelli d’oro, gli occhi belli, eccetera), soprattutto quando la scrittura non vuole o non riesce a trovare le proporzioni di organico racconto (canzoniere o non canzoniere). Una grammatica, generale, basic, modulabile e variabile all’infinito, delle passioni dell’anima come passioni d’Amore, ma non solo. Se infatti il Petrarchismo profila, nel suo vastissimo e diversissimo insieme, una grande e forte topica (e lingua) del soggetto innamorato, è al tempo stesso una topica (e una lingua) del soggetto interiore (di quanto riguarda l’uomo nella sua interiorità: in interiore homine), di ciò che è propriamente “spirituale”, nel dinamico lessico cinquecentesco. Una topica già configurata in questi termini, a futura memoria, nell’assetto macrotestuale del Canzoniere petrarchesco. Anche senza il tracciato di un itinerarium, anche senza il racconto di una storia interiore delle passioni dell’anima, il Petrarchismo configura la scrittura di sé come ordinario esercizio spirituale: e questa funzione comunicativa è destinata a crescere, quando le pratiche degli “esercizi spirituali”, a metà Cinquecento, saranno istituzionalizzate nella loro autonomia pertinente ora, in termini specifici, all’esperienza religiosa; e comunque è destinata a produrre un campo di strutturali interferenze tra “amoroso” e “spirituale” quan-

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Sul Petrarchismo

do esploderà, sempre a metà secolo, il segmento delle rime che si autodefiniranno “spirituali” (con relativi madrigali). Per quanto l’esercizio personale di questa basic grammatica amorosa/spirituale dissemini tracce perlopiù incoerenti, che non raggiungono mai la forma organica e coerente, anche sotto il profilo narrativo, del Libro archetipico (il Canzoniere, appunto), è tuttavia in grado di rappresentare, in ogni singolo atto testuale, la tensione a comunicare questo tipo di esperienza da parte di ogni soggetto che sia (o pensi di essere) titolare della competenza convenzionalmente necessaria per la poesia, o che aspiri a possederla. E questo perché nella modernità classicistica agisce dinamicamente e produttivamente l’istanza di conformità, sollecitata e garantita dalla fascinazione di quella seconda natura che può e deve essere acquisita: per poter essere parte di una tradizione culturale egemone, e che fa moda o tendenza, nonché per ottenere un giudizio positivo (la grazia, nel lessico di allora) da parte del gruppo sociale che convenzionalmente vi si riconosce. Il Petrarchismo è dunque, in primo luogo, la pratica comunicativa, mediante istituti di alta formalizzazione (linguistica retorica metrica), del soggetto innamorato, della sua memoria innamorata, delle loro topiche situazioni e condizioni: perlopiù tramite frammenti di un discorso amoroso che intende comunque e sempre essere connotato e riconosciuto nell’identità personale di chi se ne fa soggetto, ma che per arrivare al destinatario non può che essere consapevolmente grammaticalizzato e omologato (nella lingua, nella metrica, nella stessa topica e semantica d’amore). Il Petrarchismo, però, non è solo la grammatica del soggetto innamorato e del soggetto spirituale: è anche la grammatica del soggetto in relazione, che scrive sonetti (o quant’altro) per comunicare con suoi conformi sodali, sollecitando spesso la loro risposta per le rime. Questa sterminata poesia di occasione (in morte, per nozze, e per quant’altro scandisca i ritmi quotidiani dell’esistenza pubblica e privata) e di relazione (rime di corrispondenza: lettere in versi), pur sempre fondata e legittimata nell’architesto petrarchesco, scandisce il tempo ordinario del gentiluomo letterato, connettendo organicamente le sue passioni dell’anima alla sua civile conversazione, i frammenti del suo discorso amoroso ai modi convenienti per il buon governo di sé nelle situazioni relazionali in società, tra i suoi conformi per seconda natura. Petrarchismo e Galateo, dunque: poesia lirica e poesia d’occasione, per i diversi scenari (secondo circostanze e e secondo differenze di status) in cui è possibile e doveroso comunicare la propria competenza, ora, in buone maniere, negli intertenimenti cortigiani come nella conversazione mondana. Petrarchismo e Galateo: modulari, organiche, esperienze comunicative della stessa organica e condivisa forma del vivere. Economie integrate della seconda natura: per conformità dei soggetti in relazione e scambio.

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Nella ingens sylva della testualità petrarchistica è possibile dunque riconoscere il dinamico rapporto tra alcune macroinvarianti strutturali e la diversissima gamma delle esecuzioni: Petrarchismo e petrarchismi, insomma, il sistema generale e le sue singole esecuzioni, sia quelle banalizzate sia quelle metamorficamente sperimentali e innovative. In termini del tutto omologhi con quanto si registra nella comunicazione verbale (testualizzata o non) e in quella non verbale del sistema culturale classicistico: Classicismo e classicismi. Ma è possibile anche e soprattutto riconoscere modalità diverse di rapporto tra il soggetto petrarchista e la scrittura: le propongo, senza darne riscontri nominativi, con le icone metaforiche del petrarchista bulimico (titolare di una scrittura compulsiva e debordante: eteroreferenziale) e del petrarchista anoressico (titolare di una scrittura che si avvita su se stessa, si imbussola: autoreferenziale). Per concludere, un esempio di soggetto petrarchista, in forma di apologo. Il 21 febbraio 1594 sono celebrate, in Ferrara, le nozze di Eleonora d’Este, cugina del duca Alfonso II: come dono di nozze offre al suo sposo una splendida armatura realizzata da uno dei più famosi armaioli dell’epoca, il milanese Pompeo della Cesa (ora è nel castello di Konopiste, presso Praga). Un manufatto di notevole valore estetico. Lo sposo è il principe Gesualdo da Venosa, il grande protagonista della musica polifonica tra Cinquecento e Seicento, intonatore, tra l’altro, di sette libri di madrigali, anche su testi di Torquato Tasso e Battista Guarini. Alla data di queste nozze, sono passati poco più di tre anni da quella notte (tra il 16 e il 17 ottobre 1590) in cui, scoperto in flagrante il tradimento della sua prima moglie, Maria d’Avalos, con l’amante Fabrizio Carafa, duca d’Andria e principe di Ruvo, li aveva entrambi uccisi. Una tanto tragica quanto famosa storia di cronaca nera che ha però moltissimo a che fare con questo ragionamento sul Petrarchismo, e sui suoi soggetti. Il principe Gesualdo: moderno gentiluomo, impegnato attivamente a dispiegare la sua competenza nelle humanae litterae, tra poesia e musica, ma al tempo stesso antico cavaliere in armi, fiero del suo brutale codice d’onore. Gentiluomo e cavaliere. Il principe Gesualdo: un emblema della complessità e delle tensioni, anche drammatiche, che connotano l’economia produttiva della seconda natura classicistica nel soggetto che se ne appropria per istanza di conformità (il gentiluomo musicista che lavora sulla poesia lirica), ma al tempo stesso connotano la sua economia rappresentativa sulla scena del mondo. Cavaliere in armi e in armatura, per utile e per onore. Come sempre.

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IL SONETTO DI PETRARCA FRA MADRIGALE E LIED: MARENZIO, SCHLEGEL E SCHUBERT

Per i tre nomi uniti nel titolo del mio contributo non è facile, penso, trovare un “tertium paragonis”. Marenzio, il grande madrigalista della fine del Cinquecento, Schubert, il compositore di lieder all’inizio dell’Ottocento e Schlegel, un nome che qui sta per tutti e due i fratelli, August Wilhelm e Friedrich, hanno poco in comune, se non che ognuno di loro ha dedicato una parte della propria arte all’opera di Petrarca. Il poeta trecentista era divenuto – intorno al 1800 – uno scrittore importante per il primo romanticismo tedesco, rappresentato in prima linea dai due fratelli Schlegel e dai loro amici, Novalis e Tieck. Sono autori ai quali si pensa quando in Germania si parla del cosiddetto “secondo petrarchismo”1. Petrarca infatti viene giudicato un poeta eminentemente “romantico”, perché l’epoca stessa nella quale viveva, per gli Schlegel era “romantica” 2. In una recensione dei primi quattro volumi delle opere di Goethe, Friedrich Schlegel annota che Boccaccio e soprattutto Petrarca (in seguito anche Ariosto e Cervantes) nelle 1 Cfr. K. Korch, Der zweite Petrarkismus. Francesco Petrarca in der deutschen Dichtung des 18. und 19. Jahrhunderts, Aquisgrana, Verlag Mainz, 2000. 2 Cfr. E. Höltenschmidt, Die Mittelalterrezeption der Brüder Schlegel, Paderborn, Ferdinand Schöningh, 2000, p. 254 (cap.: “Die Charakteristik der mittelalterlichen Literatur als romantische Poesie”). August Wilhelm Schlegel chiama Dante, Petrarca e Boccaccio i “drei Stifter der romantischen Kunst”, le cui opere segnano “aufs stärkste die ursprüngliche Eigentümlichkeit der neueren Poesie”, cf. August Wilhelm Schlegel, Kritische Briefe und Schriften, vol. 4, a cura di E. Lohner, Stoccarda 1965, p. 210, citato da Höltenschmidt, p. 455. L’elemento romantico per A. W. Schlegel consiste già nell’uso della lingua volgare (K. Korch, cit., p. 210).

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loro opere – pure imitando gli antichi – attingevano “contenuto e forma” esclusivamente dalla propria vita e dal mondo circostante, “e ciò fin agli ultimi dettagli dell’espressione”. Al massimo, aggiungeva Schlegel3, “apprendevano dagli antichi l’idea generale di uno stile nobile ed elaborato e di una forma modellata, di un’opera del tutto organica e perfetta”. Schlegel oppone questa poesia “romantica, medioevale” alla poesia moderna dei suoi contemporanei, la poesia del secolo “illuminato” e quella dello “Sturm und Drang”, caratterizzata da “rohe Formlosigkeit”, da cruda mancanza di forma. Con lo studio dei maestri del medioevo, invece, si potrebbe trovare la via verso una poesia internamente vera eppure formalmente “modellata”. In tale maniera forse si potrebbe ristabilire l’equilibrio fra forma e contenuto, fra “teoria” e “vita”, quell’equilibrio che nella poesia “moderna” sarebbe andato perso. Lo studio di Petrarca, insomma, serve a superare il classicismo. Per mantenere il desiderato equilibrio, i poeti del gruppo intorno agli Schlegel si servono di forme tradizionali che essi stessi considerano ancora “romantiche”. Nei generi poetici dei quali ci occuperemo, quelli adatti alla musica (e qui è da tener presente che i poeti romantici tedeschi del cerchio degli Schlegel non si interessavano del teatro musicale), queste forme sono in prima linea quelle della canzone e del sonetto4, fra cui il sonetto rappresenta “den Gipfel der Reim-Verskunst”5. L’opera liederistica di Schubert negli anni 1818/1819 si rivolge – quasi di colpo – a questa poesia romantica (mentre prima era dedicata soprattutto a poeti già canonizzati, come quelli del tardo Settecento; dominavano nomi quali Hölty, Kosegarten, Claudius e naturalmente Goethe e Schiller, autori 3 Cfr. Friedrich Schlegel, Kritische Schriften, a cura di W. Rasch, Monaco, Hanser, 1970, p. 316s.: “Ein unterscheidendes Merkmal der modernen Dichtung ist ihr genaues Verhältnis zur Kritik und Theorie, und der bestimmende Einfluß der letzteren. Zwar kannten auch wohl die romantischen Dichter die großen Autoren des Altertums, und schon von Boccaccio und Petrarca kann man einzelne Beispiele verfehlter Nachbildungen und irriger Kombinationsversuche anführen. Aber in denjenigen Werken, wodurch die beiden genannten eigentlich ihre Stelle in der Geschichte der Poesie behaupten, nahmen sie Inhalt und Form des Werkes bis auf das Einzelne des Ausdrucks ganz aus ihrem eignen und dem sie umgebenden Leben, auf das auch sie wieder lebendig einwirkten. Höchstens die allgemeine Idee eines edeln und gediegenen Stils und der gebildeten Form eines durchaus organischen und vollendeten Werkes entlehnten sie von den Alten, oder bestätigten sich darin durch das Studium derselben”. 4 Höltenschmidt (cit., p. 324) sottolinea che August Wilhelm Schlegel, “dessen Auge an der hohen Formkunst Petrarcas geschult ist” vedeva nei sonetti, nelle canzoni e sestine del Petrarca la perfezione della lirica romantica. Nel giudizio su Petrarca i due fratelli Schlegel sono largamente concordi, cfr. K. Korch, cit., p. 207. 5 K. Korch, cit., p. 213.

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Il sonetto di Petrarca fra madrigale e lied: Marenzio, Schlegel e Schubert

che rappresentavano quella poesia “moderna” che Schlegel cercava di superare)6. Il compositore allora metteva in musica alcune poesie romanticizzanti di Alois Schreiber7, poi nel novembre 1818 – prima di occuparsi del ciclo Abendröte di Friedrich Schlegel, che sarà l’opera romantica centrale di Schubert8 – compone tre sonetti di Petrarca nella traduzione di August Wilhelm Schlegel, forse per prepararsi alla poesia romantica in quella stessa maniera che gli Schlegel consigliavano ai loro allievi. Schubert da parte sua era probabilmente consigliato dal suo amico, il poeta Johann Mayrhofer, col quale conviveva proprio dal novembre 1818. Scegliamo il primo dei tre sonetti: Allein, nachdenklich, cioè: Solo e pensoso. Alla composizione Schubert – diversamente dalle sue abitudini9 – dà il titolo Sonett, seguendo l’esempio del traduttore, che nell’edizione che Schubert aveva usato10, segnava la poesia con l’indicazione Sonett. XI. Penso però che con questo titolo Schubert non soltanto abbia riportato l’indicazione di Schlegel ma abbia anche voluto sottolineare che il genere della poesia – il fatto che si trattasse di un sonetto – era per lui di una certa importanza. Il sonetto infatti mette il compositore di fronte a notevoli problemi formali; ciò valeva soprattutto per un compositore che fino al 1816, secondo l’estetica del lied dominante allora, aveva preferito la composizione strofica, alla quale il sonetto naturalmente non si presta. Sono quindi prima di tutto problemi di “forma” che un compositore deve superare. Guardiamo perciò più da vicino il sonetto di Petrarca11 e la traduzione di Schlegel.

6 Cfr. W. Dürr e A. Feil, Franz Schubert. Musikführer, 2Lipsia, Reclam, 2002, p. 75ss., e la mia prefazione a Franz Schubert, Neue Ausgabe sämtlicher Werke, serie IV, vol. 12, Kassel, Bärenreiter, 1996, p. XIIss. Il volume citato contiene una gran parte dei lieder propriamente romantici del compositore, fra cui anche quello di cui questo contributo si occupa: Sonett (“Allein, nachdenklich”), D 629. 7 An den Mond in einer Herbstnacht (D 614), Der Blumenbrief (D 622), Das Marienbild (D 623) e Das Abendrot (D 627). 8 Cfr. R. Kramer, Distant Cycles. Schubert and the Conceiving of Song, Chicago e Londra, Chicago Press, 1994, pp. 195ss., e W. Dürr, Schuberts “romantische” Lieder am Beispiel von Friedrich Schlegels “Abendröte”-Zyklus, in: “Schubert-Jahrbuch” 1997, Duisburg 1999, pp. 47-60. 9 Generalmente Schubert per i suoi lieder rispetta il titolo del poeta; se una poesia non ha titolo (come in questo caso) spesso ne inventa uno, aggiunge un titolo generico come “Lied” o lo lascia anche senza titolo. 10 Blumensträusse italiänischer, spanischer und portugiesischer Poesie von August Wilhelm Schlegel, Berlin, Realschulbuchhandlung, 1804, p. 22. Sull’importanza di questa raccolta cfr. anche K. Korch, cit., pp. 236ss. 11 Il testo di Petrarca segue: Luca Marenzio, Il Nono Libro de Madrigali a Cinque Voci (1599), a cura di P. Fabbri, Milano, Edizioni Suvini Zerboni, [2000], p. XX.

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Francesco Petrarca: Solo e pensoso

August Wilhelm Schlegel: Sonett IX

Solo e pensoso i più deserti campi (5+6)

Allein, nachdenklich, wie gelähmt vom Krampfe, (5+6) Durchmess’ ich öde Felder, schleichend, träge, (7+4) Und wend’ umher den Blick, zu fliehn die Stege12, (6+5) Wo eine Menschenspur den Sand nur stampfe. (6+5) Nicht andre Schutzwehr find’ ich mir im Kampfe (5+6) Vor dem Erspähn des Volks in alle Wege, (7+4) Weil man im Thun, wo keine Freude rege, (4+7) Von außen lieset, wie ich innen dampfe. (5+6) So daß ich glaube jetzt, Berg und Gefilde, (6+5) Und Fluß und Waldung weiß, aus welchen Stoffen (6+5) Mein Leben sey, das sich verhehlt jedweden. (4+7) Doch find’ ich nicht so rauhe Weg’ und wilde, (4+7) Daß nicht der Liebesgott mich stets getroffen, (4+7) Und führt mit mir, und ich mit ihm dann Reden. (4+7)

Vo misurando a passi tardi e lenti, (7+4) E gl’occhi porto per fuggir intenti (5+6) Dove vestiggio human l’arena stampi. (6+5) Altro schermo non trovo che mi scampi (7+4)

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Dal manifesto accorger de le genti, (7+4) Perché negli atti d’allegrezza spenti (5+6) Di fuor si legge com’io dentr’avampi. (5+6) Sì ch’io mi cred’homai che monti e piagge (6+5) E fiumi e selve sappian di che tempre (7+4) Sia la mia vita, ch’è celata altrui, (5+6) Ma pur sì aspre vie né sì selvagge (6+5) Cercar non so ch’Amor non venga sempre (4+7) Ragionando con meco, ed io con lui. (7+4)

La traduzione di Schlegel conserva tutte le caratteristiche formali dell’originale: non solo la divisione del sonetto in quartine e terzine, ma anche lo schema delle rime (nelle quartine perfino nel loro valore sonoro); conserva pure gli endecasillabi (che in tedesco vengono resi spesso da pentametri giambici con cadenze piane13 il che comporta una regolare alternazione di

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Schubert scrive “Wege” invece di “Stege”. Si tratta del cosiddetto “blank verse”, già usato da Shakespeare nell’imitazione dell’endecasillabo; Schlegel evita però la regolare alternanza di cadenze piane e cadenze tronche, altrimenti frequente in poesie tedesche in pentametri giambici. Alla fine di ogni verso ho indicato la sua struttura interna, il numero delle sillabe prima e dopo la cesura (non tenendo conto che il primo e l’ultimo dei versi italiani non ammettono cesura a causa della 13

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Il sonetto di Petrarca fra madrigale e lied: Marenzio, Schlegel e Schubert

sillabe toniche ed atone: ciò che rende ancor più difficile il lavoro del compositore). Tutti i versi inoltre sono strutturati con una cesura interna, variabile come nel sonetto di Petrarca, ed è interessante che – ancora come da Petrarca – gli endecasillabi si dividano nelle quartine di solito in 5+6 o 7+4 sillabe. Infine, e lo si nota con sorpresa, la posizione delle cesure nella traduzione è spesso analoga al testo originale: in 5 dei versi delle quartine ed in due delle terzine è identica, nelle altre (con l’eccezione dell’ultimo verso) differisce per non più di una sillaba. Sembra quasi che il poeta traduttore avesse pensato alla possibilità di una composizione cantabile non solo in tedesco ma anche nella versione originale italiana14. Schlegel ha rispettato non solo la forma del sonetto, ma anche il contenuto e perfino il valore semantico di quasi ogni verso15. Alcuni versi si leggono quasi come una traduzione parola per parola, l’ultimo verso delle quartine per esempio e tutta la successiva prima terzina. Solo i primi versi delle due terzine si distaccano un po’ dall’originale: di crampi paralizzanti non vi si parla, e neanche di combattimenti. Non da spade e frecce deve proteggere lo schermo, ma dall’ “accorger de le genti”. Sembra che Schlegel abbia cercato equivalenti sonori a “campi” e “scampi”, trovandoli soltanto in “Krampfe” e “Kampfe”, parole che nel contesto dato irritano anche il lettore tedesco. La fedeltà della traduzione mi sembra comunque riflettere direttamente il rispetto che Schlegel porta verso il poeta “romantico”, e particolarmente anche verso questo specifico sonetto, perfetto in forma e contenuto, riflessivo come tante poesie dello stesso Schlegel, lasciando trapelare alla fine, nella conclusione dell’ultima terzina, almeno agli occhi di Schlegel, ciò che i romantici cercavano: il riferimento alla vita dell’autore, di Petrarca. Perché poi Schubert ha scelto questa poesia per la composizione di un lied? E ciò in un periodo nel quale cominciava ad occuparsi dell’estetica della scuola romantica? Nel dare una risposta a queste domande è importante ricordare che Schubert, componendo, spesso desiderava non solo produrre una nuova opera musicale fine a se stessa (o per incarico di un cliente), ma contrazione delle vocali, dato che i musicisti nel comporre i versi di solito non tengono conto di tali contrazioni: il primo e l’ultimo verso per loro contano infatti dodici sillabe: 5+7 e 7+5). 14 Molti lieder di Schubert sono in questo senso bilingui; che lui stesso ne fosse cosciente è dimostrato dall’edizione dei suoi canti di Walter Scott (da The Lady of the Lake), op. 52, preparata, come scrive ai genitori il 23 o 28 luglio 1825, “perché l’aggiunta del testo inglese potrebbe farmi conoscere meglio anche in Inghilterra”, cf. O. E. Deutsch, Schubert. Die Dokumente seines Lebens, Kassel, Bärenreiter, 1964, p. 299. 15 Cfr. con la sua traduzione per esempio quella di Gottfried August Bürger, vedi K. Korch, cit., p. 229ss.

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intendeva anche studiare nuovi metodi di composizione. É caratteristico che una volta – forse nel 1823 – rifiutasse all’amico Leopold von Sonnleithner di comporre un quartetto vocale perché gli riusciva difficile “inventare una forma nuova”16. Circa un anno più tardi, nella famosa lettera a Leopold Kupelwieser, elencava una serie di opere di musica da camera che stava scrivendo per “spianare la strada verso la grande sinfonia”17. È quindi senz’altro possibile che cercasse di avvicinarsi alla poesia della cerchia degli Schlegel (soprattutto di Novalis) nonché dei romantici Viennesi suoi amici (a Collin per esempio, ma anche a Mayrhofer e Schober), studiando opere di quel massimo poeta “romantico” medioevale che secondo gli Schlegel poteva servire d’insegnamento agli autori moderni. Schubert scelse perciò un sonetto nella traduzione di August Wilhelm Schlegel. É da tener presente che finallora la forma poetica di una poesia non gli aveva dato grandi problemi: se era possibile, la metteva in musica in pura forma strofica, secondo l’estetica allora dominante nel campo del lied; variava invece le strofe, se il contenuto, o le irregolarità metriche, lo richiedevano. Oppure seguiva l’andamento poetico verso per verso e strofa per strofa, facendo derivare la forma musicale dalla forma e dal contenuto della poesia, ogni volta che la metteva in musica (“Durchkomposition”). Il sonetto però lo metteva davanti ad un problema nuovo: si trattava di una forma strofica, regolata sì, ma non regolare nel senso del canto strofico; non era possibile procedere nell’abituale maniera, e ciò né per ragioni formali (le terzine non potevano essere cantate nella melodia delle quartine, perché più corte di un verso), né per il contenuto: la conclusione finale richiedeva una specie di “stretta” musicale. Un’unica volta Schubert aveva composto un sonetto intero, nell’aprile 1815: Die erste Liebe (D 182)18, di Johann Georg Fellinger.

16 “Es könnte mir freylich vielleicht gelingen, eine neue Form zu erfinden”, cfr. O. E. Deutsch, Schubert. Die Dokumente, cit., p. 182. 17 “überhaupt will ich mir auf diese Art den Weg zur großen Sinfonie bahnen”, lettera del 31 marzo 1824, cfr. O. E. Deutsch, Schubert. Die Dokumente, cit., p. 235; le opere con le quali Schubert “si esercita” in tale maniera sono il grande ottetto D 803, il quartetto in la minore (“Rosamunde”) D 804 ed il quartetto in re minore (“La morte e la ragazza”) D 810. Non sembrano certamente queste opere di studio. 18 Cfr. W. Litschauer, Kärntner Textvorlagen in Schuberts Liedschaffen, in “Carinthia” 1, vol. 179 (Klagenfurt 1989), p. 287s. Nello stesso anno Schubert aveva messo in musica un sonetto di Johann Nepomuk von Kalchberg (Die Macht der Liebe, D 308, dell’ottobre 1815); l’aveva però trattato come un semplice canto strofico, tralasciando le due terzine. Aveva inoltre composto un sonetto del suo amico Franz von Schober (Augenblicke des Elysiums, D 990 B). Purtroppo ne è conservato però solo il testo; la musica è andata persa,

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Il sonetto di Petrarca fra madrigale e lied: Marenzio, Schlegel e Schubert

Schubert qui segue il testo passo per passo (“Durchkomposition”) senza ogni ambizione di trovare una specifica forma, indonea al genere di sonetto – come invece sembra che cerchi fare ora von il primo sonetto di Petrarca19. Il fatto però che Schubert avesse scelto proprio il sonetto Solo e pensoso, quale primo per il suo piccolo ciclo, ha certamente anche a che fare col contenuto della poesia: il concetto della solitudine ha sempre affascinato il compositore che, nello stesso anno, nel luglio 1818, aveva scritto – su versi di Mayrhofer – la sua grande elegia Einsamkeit, D 620. Era un’opera che allora giudicava “il meglio che ho fatto”20, giudizio che per Schubert include quasi sempre anche un giudizio sul valore poetico. Da quando aveva cominciato a comporre testi romantici cercava però frequentemente anche quelli di carattere meditativo o riflessivo – “Gedankenlyrik” – che li trovava in Schiller e in Mayrhofer, ed anche negli Schlegel e nelle monodie di Goethe. Se i romantici – e Schubert con loro – chiedevano agli autori riferimenti alla vita, non intendevano con ciò, principalmente, avvenimenti concreti, ma sentimenti e concetti personali. Penso quindi che le due parole all’inizio della poesia – “Allein, nachdenklich”, cioè “Solo, pensoso” – per Schubert potessero essere un sufficiente motivo di scelta. Come viene poi trattato questo testo dal compositore? Anzitutto sceglie una tonalità adatta, corrispondente all’“affetto” della poesia intera, e sceglie perciò il sol minore. Secondo il poeta e compositore svevo Daniel Schubart, che molto spesso descrive proprio quelle caratteristiche che si manifestano nelle composizioni di Schubert, questa tonalità esprime noia e rabbia nascosta, insuccesso21, e, non per ultimo, anche rassegnazione. Ciò che Daniel Schubart descrive, evidentemente, è vicino all’affetto della poesia, lo è però solo parzialmente, il teorico infatti doveva coprire un largo fascio di affetti musicali; era poi il movimento, il ritmo, il carattere della musica a definire quello specifico di una singola composizione.

e non si sa neppure, quando é stata scritta. Cfr. Franz Schubert, Neue Ausgabe, cit., vol. 14, 1988, p. XXIX e 307. 19 Gli altri due sonetti composti nello stesso mese sono: Apollo, s’ancor vive il bel desio (sonetto XXXIV: Apollo, lebet noch dein hold Verlangen, D 628, traduttore A. W. Schlegel) e Or che ’l ciel e la terra e ’l vento tace (sonetto CLXIV: Nunmehr, da Himmel, Erde schweigt, D 630, traduttore Johann Diederich Gries). Sui tre sonetti vedi anche Christine Martin, Schuberts Auseinandersetzung mit dem Sonett: die drei Petrarca-Vertonungen D 628-630, in: Petrarca in Deutschland, a cura di Achim Aurnhammer, Tübingen, Niemeyer, 2006 (in preparazione). 20 “Mayrhofers ‚Einsamkeit’ ist fertig, und wie ich glaube, so ist’s mein Bestes, was ich gemacht habe”, cfr. O. E. Deutsch, Schubert. Die Dokumente, cit., p. 63. 21 C. F. D. Schubart, Ideen zu einer Ästhetik der Tonkunst, Vienna, J. V. Degen, 1806 (ristampa Hildesheim, Georg Olms, 1990), p. 377: “Mißvergnügen, Unbehaglichkeit, Zerren an einem verunglückten Plane […]; mit einem Worte, Groll und Unlust”.

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Il piano della composizione segue poi l’ordine delle strofe:

La prima quartina e l’ultima terzina sono decisive, sia per la poesia che per la composizione. La quartina definisce l’affetto fondamentale: con le linee dell’accompagnamento Schubert descrive lo “Schleichen”, lo strisciare dell’io lirico (batt. 1)22, con la successione di “sospiri”, con i tritoni iniziali 22 Accoglie così una delle poche immagini nelle quali Schlegel intensifica ancora quelle di Petrarca: I passi dell’io lirico non soltanto sono lenti, ma “striscianti”.

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Il sonetto di Petrarca fra madrigale e lied: Marenzio, Schlegel e Schubert

sol+do diesis, con la ripetuta sesta minore (mi-bemolle), introdotta come nota cambiata, rende i lamenti (batt. 1-2), con l’irritante do diesis all’inizio che destabilizza la tonalità – del resto chiara – del lied, introduce una certa irrequietudine, non espressa chiaramente né dal sonetto petrarchesco, né dalla traduzione di Schlegel23, che si manifesta anche nel continuo cambiamento delle figure di accompagnamento. L’irrequietudine nasce, del resto, anche dal metro stesso della poesia tradotta: abbiamo già accennato al fatto che il pentametro giambico – all’epoca di Schubert – metteva il compositore davanti a notevoli problemi24. Si cercava di suddividere i suoi periodi in 2+2 battute, il pentametro invece suggerisce un ordine di 2+3 o 3+2. Perciò all’inizio Schubert declama in modo lento (ritmo di semiminime, batt. 3), poi è più veloce (ritmo di crome, batt. 4) e procede in maniera analoga per tutta la strofa. Così ottiene come risultato le desiderate coppie di battute, formate tuttavia in un modo del tutto irregolare. L’irritazione tonale persiste, del resto, durante tutta la prima strofa – nonostante la disposizione generale che è semplice: Alla tonica dell’inizio (batt. 1-4) segue la sottodominante (batt. 6-10)25 e la dominante (batt. 11-12), formando una cadenza sospesa con fine aperta, che richiede la continuazione della seconda strofa. Ma all’interno delle cinque battute in do minore – alle parole ripetute “schleichend träge” – introduce un passo cromatico del basso, una tipica quarta da “basso di lamento”: sol – fa diesis – fa naturale – mi naturale – mi be molle – re (batt. 6-8). La figura suggerisce che “i passi tardi e lenti” alla fine possano portare alla morte e, inoltre, fa venire dei dubbi all’ascoltatore: le armonie che sente si devono veramente ancora attribuire alla funzione di sottodominante? 26 Se la prima strofa – nonostante i vari elementi che la costituiscono – si presentava comunque relativamente unita, l’ultima invece è divisa in due parti: Schubert aveva finito la terzina precedente in una tonalità assai lontana dalla fondamentale, in sol-bemolle maggiore. La seconda terzina inizia poi con una specie di recitativo che in poche battute ci riporta di nuovo al sol

23 Il “träge” all’inizio sembra piuttosto escludere l’affetto di irriquietudine; altri versi (“wie ich innen dampfe” o “rauhe Weg’ und wilde”) invece ammettono una tale interpretazione. 24 Cfr. – con riferimento al sonetto di Goethe, Die Liebende schreibt (D 673), Rufus Hallmark e Ann Clark Fehn, Text Declamation in Schubert’s Settings of Pentametre Poetry, in “Zeitschrift für Literaturwissenschaft und Linguistik” 9 (1979), p. 82s. 25 È caratteristico per Schubert l’ampio spazio che lascia alla sottodominante, che acutizza l’affetto lamentoso della strofa. 26 Il fa diesis infatti fa pensare alla dominante, il fa naturale alla doppia sottodominante, il mi naturale alla sua dominante, e solo il mi be-molle ristabilisce il do minore.

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minore dell’inizio. Poi seguono gli ultimi due versi, la vera conclusione, il “climax” della poesia.

Schubert separa i versi dal resto del lied con un cambiamento del tempo (“Etwas langsamer” prescrive il compositore) e del metro: subentra un ritmo di 6/8, caratterizzato da figure ondeggianti, tipiche di una ninna-nanna. La

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Il sonetto di Petrarca fra madrigale e lied: Marenzio, Schlegel e Schubert

parola “Liebesgott” – “Amor” nell’originale italiano27 – induce il compositore al cambiamento d’affetto. Crediamo di trovarci in una scena idilliaca, alla quale contribuisce il passaggio da sol minore alla tonalità maggiore parallela, a si-be-molle maggiore, che Schubert sostiene finché canta la voce; solo il corto postludio, non più lungo di due battute, ci riporta nella tonalità tragica dell’inizio. L’idillio – è caratteristico che inizi ancora con la sottodominante della nuova tonalità, cioè con accordi di mi-bemolle maggiore – è però ingannevole, lo sentiamo chiaramente: Schubert all’inizio (batt. 35-36) ripete la quarta cromatica della prima strofa, un’ottava più alta, ma sugli stessi gradi: sol – sol-be-molle – fa – mi – mi-be-molle – re. Il basso di lamento richiama l’idea della morte e ricollega la nuova tonalità alla vecchia, la caratterizza come passeggera. Mentre Schubert all’inizio ed alla fine della composizione segue così la forma poetica, abbandona invece nelle strofe interne lo schema metrico: le compone recitando, quasi come in prosa. È indotto a ciò, forse, dai pentametri giambici che, trattati come prosa, più facilmente si rendono in musica. Avvicinandosi al genere recitativo il compositore non é costretto a seguire i modelli dei periodi ritmici musicali, ma è invece libero di seguire il ritmo del testo. Schubert aveva così messo in musica una specifica poesia di Petrarca. Forse, però, non era ancora del tutto soddisfatto della soluzione trovata per il “sonetto” come genere poetico: nei due sonetti seguenti del ciclo di Petrarca, infatti, varia lo schema. Il secondo (Apollo, s’ancor vive il bel desio / Apollo, lebet noch dein hold Verlangen, D 62828) prende come esempio quello di scena ed aria: le due quartine e la prima terzina formano una grande scena, estesi recitativi secchi si alternano con passaggi ariosi; la conclusione poi è l’aria – seppure molto breve – introdotta da un recitativo come nel precedente sonetto. Il terzo sonetto (Or che ’l ciel e la terra e ’l vento tace / Nunmehr, da Himmel, Erde schweigt, D 630) si avvicina ancor di più al modello dell’aria, ora a quello di un’aria bipartita (ad una parte lenta – “Sehr langsam” – segue una più veloce – “Etwas bewegt”); la seconda parte questa volta comprende tutte e due le terzine, con un “Da Capo” (la prima terzina è ripetuta

27 “Amor” (Petrarca) e “der Liebesgott” (Schlegel); “Amor” (come spesso nel Canzoniere) potrebbe essere letto come evocazione del Dio dell’Amore, ma anche semplicemente come sentimento umano, “der Liebesgott” invece è solo un dio. 28 La vecchia edizione delle opere di Schubert (Franz Schubert’s Werke. Kritisch durchgesehene Gesammtausgabe der Werke, serie XX, Lipsia, Breitkopf & Härtel, 1894, vol. 5, a cura di E. Mandyczewski, no. 345-47) aveva invertito l’ordine fra il primo ed il secondo sonetto; O. E. Deutsch seguiva questo ordine; nel manoscritto però l’ordine successivo dei tre sonetti è chiaro.

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dopo la seconda), la struttura del sonetto in questione lo permette, perché la seconda terzina questa volta non ha funzione di “climax”, è piuttosto una variazione ed intensificazione della prima. Schubert nei tre sonetti di Petrarca si allontana così da forme che sarebbero proprie del lied, avvicinandosi a quelle del melodramma, dell’opera lirica – pur mantenendo un atteggiamento liederistico. Nel successivo sonetto che mette in musica, che è il penultimo nella sua carriera di compositore29, Die Liebende schreibt (D 673) su versi di Goethe30. Schubert invece è di nuovo un compositore di lied, perfino di lied strofico. Siccome la forma di sonetto però non permette una pura forma strofica, scrive invece “due” lieder strofici, il primo comprendente le due quartine, il secondo le due terzine. E le strofe dei due lieder inoltre sono variate, per seguire le caratteristiche metriche di Goethe (nel primo verso della prima quartina – “Ein Blick von deinen Augen in die meinen” [= Uno sguardo degli occhi tuoi nei miei] – l’accento principale sta sulla seconda sillaba, nel primo verso della seconda quartina invece – “Entfernt von dir, entfremdet von den Meinen” [= Lontan da te, allontanato dai miei] – Schubert pone l’accento principale sulla quarta sillaba, “dir”, per far risaltare l’antitesi “dir” e “Meinen”; nella prima strofa comincia quindi con un’anacrusi di una sillaba, nella seconda con una di tre sillabe)31. Le due parti si distinguono: la prima in tempo di 3/4 con la prescrizione “Mäßig, zart” sorprende con inaspettate modulazioni, la seconda, in tempo di 2/4, “Etwas bewegter”, è estremamente leggera. In tal modo rendono perfettamente la forma del sonetto e sono comunque legate fra di loro. La prima infatti finisce aperta, sulla dominante, solo la seconda guida ad un vero finale nella tonica. Schubert inoltre sottolinea il “climax” con ripetizioni varie degli ultimi due versi. Tutto ciò ricorda la soluzione che i compositori del Cinquecento avevano trovato per la composizione dei sonetti. È comunque poco probabile che Schubert conoscesse i madrigali dell’epoca, anche se, nel cerchio di Kiesewetter che Schubert frequentava, ci si sarà occupato delle opere di Palestrina e forse di

29 Quando Schubert compone il suo primo ciclo veramente “romantico”, la Abendröte di Friedrich Schlegel, un ciclo, composto negli anni 1819-1823, che rimane frammento, non mette più in musica i due sonetti che concludono ognuna delle due parti del ciclo, cfr. W. Dürr, Schuberts “romantische” Lieder, cit., e Richard Kramer, Distant Cycles, cit., pp. 195ss. Nel novembre del 1822 compone ancora un sonetto del suo amico Franz von Schober, Schatzgräbers Begehr (D 763), questa volta seguendo più la sintattica delle frasi che la forma poetica, distaccando comunque chiaramente le terzine dalle quartine. 30 Cfr. Astrid Tschense, Goethe-Gedichte in Schuberts Vertonungen, Amburgo, von Bockel Verlag, 2004, pp. 251ss. 31 Sui problemi metrici di questo sonetto cfr. W. Dürr, Das deutsche Sololied im 19. Jahrhundert, 2Wilhelmshaven, Florian Noetzel, 2002, pp. 147ss.

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altre musiche – solamente da chiesa però – di quel secolo32. Se Schubert e i compositori del Cinquecento arrivano a soluzioni formali simili, è forse dovuto al genere poetico del sonetto stesso. Torniamo perciò al “primo petrarchismo”, e cioè ad un madrigale famoso di Luca Marenzio sullo stesso testo di Petrarca – Solo e pensoso – pubblicato nel 1599 nel nono libro dei madrigali a cinque voci, nell’anno della morte del compositore, e composto probabilmente non molto prima. Questo nono libro dei madrigali a cinque voci, chiamato “il testamento” del compositore, in un’edizione rappresentativa apparsa dieci anni più tardi ad Anversa33, è per se stesso già un documento del petrarchismo. Il “libro” infatti contiene 14 madrigali, dei quali sette su testi di Petrarca. E se, come scrive Paolo Fabbri, “la fortuna di Petrarca” è “schiacciante nel pieno Cinquecento tra il 1540 e il 1590”34, è da notare che non era assolutamente d’uso aprire un volume di madrigali con una stanza di Dante, come fece Marenzio35: sembra che l’autore volesse dimostrare che le sue intenzioni erano di studio, un ritorno a quei grandi maestri ai quali si sono riferiti anche i poeti contemporanei, dominanti in altri libri di madrigali di Marenzio. Penso soprattutto a Battista Guarini36 e Torquato Tasso37, che ambedue Marenzio ha conosciuto personalmente. Se Marenzio – come Guarini e Tasso – vede in Petrarca il maestro al quale riferirsi, la sua posizione non è fondamentalmente diversa da quella presa più tardi da Schubert. Non sorprenderà perciò come sia facile vedere paralleli fra i due compositori nel modo di mettere in musica la poesia, anche se si tiene conto del fatto che non soltanto la lingua musicale di Marenzio è formata da un sistema grammaticale del tutto differente da quello di Schubert38 (e naturalmente ne nasce una differenza di tono che rende difficile accettare ogni paragone), ma che anche il “primo petrarchismo” si distingue dal 32 Su Schubert ed il cerchio di Kiesewetter cf. Schubert Handbuch, a cura di W. Dürr e A. Krause, Kassel ecc., Bärenreiter, 1997, p. 64s. 33 Pierre Phalèse, 1609. Si tratta di un’edizione dei madrigali, dal sesto al nono libro a cinque voci, “in un corpo ridotti”, cfr. la prefazione all’edizione del nono libro (nota 11), p. I. 34 Nella prefazione all’edizione del “nono libro” (nota 11), p. III. 35 Si tratta della prima stanza della canzone “Così nel mio parlar voglio esser aspro”. 36 Dopo Petrarca, Guarini è l’autore più rappresentato nel nono libro dei madrigali (con tre composizioni). 37 Tasso domina l’ottavo libro dei madrigali a cinque voci, apparso un anno prima del nono, con cinque composizioni su 16, fra cui quattro madrigali tolti dal Convitto; cfr. Marco Bizzarini, L’ultimo Marenzio: tipologie di committenza e di recezione, in Studi Marenziani, a cura di Ian Fenlon e Franco Piperno, Venezia, Edizioni Fondazione Levi, 2003, pp. 67-87, qui: la tavola a p. 87. 38 Facili paralleli, che denota ancora Hans Engel e proprio fra il nostro madrigale ed il “tema della Magia del Sonno nella Tetralogia” di Richard Wagner, oggi non si tentano più, cfr. H. Engel, Luca Marenzio, Firenze, Leo S. Olschki, 1956, p. 111s.

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“secondo” in maniera fondamentale. Il primo infatti si sviluppava come risultato di una tradizione in fondo ininterrotta, mentre il secondo si riferiva ad una tradizione che ormai sembrava spenta. È proprio quel fenomeno della bipartizione del sonetto nell’ultima composizione di Schubert ed in tutti i madrigali di Marenzio basati su sonetti che fa notare questa differenza. Schubert, come abbiamo visto, doveva riconquistare la fattura idonea alla forma poetica, Marenzio invece si collegava ad una tradizione a suo tempo indiscussa. Se il madrigalista divide il sonetto in due parti, comprendendo nella prima le due quartine e nella seconda le due terzine, chiudendo la prima parte con una cadenza sul quinto grado, segue una tradizione ormai quasi secolare, una tradizione che del resto non aveva più niente a che fare con la composizione strofica39. Guardiamo perciò se fra i due compositori possiamo trovare altri paralleli nell’accesso alla poesia, paralleli che si riferiscono non alla forma generale ma a momenti specifici di questa poesia. Come Schubert anche Marenzio prima di tutto cerca un tono, un modo musicale idoneo all’affetto della poesia. Guardando l’ambito delle voci40 del madrigale Solo e pensoso e il finale della seconda parte (nonché il finale della prima, considerando il fatto che per tradizione finisce sul quinto grado del tono fondamentale, qui identico alla “repercussa”) si tratta del settimo modo (misolidio autentico), nella numerazione tradizionale dei toni di chiesa, che corrisponde al nono modo nella numerazione di Gioseffo Zarlino. Secondo Zarlino a questo modo “si conuiene Parole, o materie, che siano lasciue: o che trattino di lasciuia; le quali siano allegre, dette con modestia; & quelle che significano minaccie, perturbationi & ira”41. Pensando all’affetto del sonetto di Petrarca, la caratterizzazione di Zarlino – già in sé contradittoria: cose “lascive” e allegre si combinano male con “minaccie, perturbationi & ira” – potrebbe sorprenderci. Ci si aspettava forse piuttosto rassegnazione, perturbazione sì, ma al massimo con un’ira nascosta. I teorici del Cinquecento d’altra parte sostengono che i “moderni Contrappuntisti” com39 Nei sonetti messi in musica nello stile della frottola della fine del Quattro- e dell’inizio del Cinquecento il compositore era costretto alla bipartizione per ragioni simili a quelle, che hanno indotto Schubert; i madrigali del Cinquecento invece erano a forma aperta; la differenza fra quartine e terzine non costringeva più i compositori a seguire un determinato modello formale. 40 Canto: (fa1)sol1 – sol2 (la2) con un’unica estensione a re1 (misura 49 della seconda parte); Tenore: re-la1. Considerando il fatto che non è il tenore ma il Quinto a cantare la clausola di tenore nella cadenza finale, si potrebbe tenere conto anche del Quinto (ambito: mi-sib1). 41 G. Zarlino, Istitutioni Harmoniche, Venezia, Francesco dei Franceschi Senese, 1573, p. 407.

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pongono ogni “concetto” in ogni modo42, perché sono troppo attratti dalle singole immagini, espresse dalle singole parole (o anche dai singoli versi), per poter osservare un affetto generale. Può darsi quindi che Marenzio volesse alterare l’affetto della poesia, trasformando la rassegnazione in ira, può darsi però anche che il modo scelto non gli servisse ad altro che come cornice ad una composizione libera. La maniera con la quale tratta il modo musicale scelto sembra confermare la seconda ipotesi. Generalmente è l’esordio del madrigale che – oltre al finale – determina il suo modo; perciò in genere presenta le cadenze regolari di un un certo modo, nella stessa maniera in cui l’inizio di una composizione dell’epoca classica, secondo le regole, dovrebbe definire e confermare la propria tonalità. Ricordiamoci che Schubert, anche se non l’aveva messa in dubbio, l’aveva adombrata, introducendo la figura del passo cromatico. Marenzio invece va contro ogni aspettativa. Comincia nel canto con una lunga scala cromatica che ascende dal sol1 al la2 e poi discende di nuovo fin al re2, offrendo poi – e solo a misura 12-13, dopo aver pronunciato i primi due endecasillabi – l’attesa perfetta cadenza sul primo grado. Una scala cromatica talmente estesa ancor oggi mette in difficoltà un’ascoltatore che desidera afferrare una precisa tonalità, tanto più l’avrebbe dovuto metterlo all’epoca di Marenzio, ed è proprio questo l’effetto che Marenzio cercava: Produrre disorientamento. Certo, passi cromatici si trovavano frequentemente nei madrigali ed anche in alcuni motetti della fine del Cinquecento; non disturbavano veramente il profilo di un tono, perché, per l’analisi tonale, si potevano tranquillamente omettere gli accidenti cromatici. Quando però non si sente altro che passi cromatici, e quando forse non si è neanche più sicuri se un tono sentito (non letto) é alterato o naturale, la cosa cambia. Il cantante, andando a passi misurati, tardi e lenti (una successione di sole semibrevi), li porta davvero nel deserto, in un paesaggio senza possibilità di orientamento. Lo confermano anche le prime cadenze perfette, ambedue in la, nel settimo modo una “cadenza per transito”43. Il paesaggio nel quale si muove il cantante (probabilmente rappresentato dalla melodia del Canto) è definito dalla seconda parte del sonetto, dalle vie aspre e selvaggie – e questo paesaggio Marenzio lo dipinge già all’inizio con

42 Cfr. B. Meier, Die Tonarten der klassischen Vokalpolyphonie, Utrecht, Oosthoek, Scheltema & Holkema, 1974, p. 373, qui riferito a Vincenzo Galilei, il quale però condanna tale maniera. 43 Meier, cit., p. 91 si riferisce qui a Pietro Pontio; G. Zarlino, cit., la definisce come cadenza irregolare.

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le parti di contrappunto. Si muovono, ad imitazione, in terze discendenti44 (con variazioni melodiche alla fine) per una decima (nell’Alto e Basso), e per 44 Le terze discendenti non sorprendono: risultano dal fatto che il contrappunto di una voce ad un passo cromatico tradizionalmente è formato da una terza in movimento contrario (vedi in misura 1: sol-sol# nel Canto e sol-mi nell’Alto, in misura 4/5 re-re# nel Canto e re-si nel Basso), a meno che non ci si limiti al puro passo cromatico sopra un accordo inva-

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Il sonetto di Petrarca fra madrigale e lied: Marenzio, Schlegel e Schubert

una nona (nel Tenore e nel Quinto), contro ogni regola di buon canto, che richiede di evitare salti congiunti nella stessa direzione, soprattutto se l’inizio e la fine formano delle dissonanze, come nel Tenore e nel Quinto. Il movimento melodico, con il quale il Basso raggiunge la cadenza finale dell’esordio, conferma l’osservazione: do1 – Si [salto d’una nona!] – re – Sol. Il carattere aspro della composizione infine si nota anche nella frequenza con la quale si incontrano tritoni (inoltre nella formazione di accordi di triadi diminuite, vedi l’inizio di misura 4 e la seconda semibreve di misura 6) che – come si sa – hanno un carattere diabolico. Avevamo notato che Schubert aveva trattato i versi di Schlegel come prosa e che era costretto a farlo per il metro insolito. Anche Marenzio li declamava in maniera simile, ma ancora una volta – come avevamo osservato riguardo alla disposizione dell’opera – non lo faceva per decisione propria, bensì perché la tradizione madrigalesca lo richiedeva45. C’è però un aspetto che sorprende, studiando la maniera con laquale Marenzio risolve i problemi metrici in questo sonetto: cerca di mantenere “interi” gli endecasillabi, non dividendoli in soggetti più corti, come era abitudine. Vi è forse indotto dal primo verso, che non permette una cesura dopo la quinta sillaba, estende però il concetto su quasi tutto il madrigale; forse per rispettare questo famoso sonetto di Petrarca? Rimane da chiedersi come Marenzio, nella seconda parte, tratti la conclusione. I compositori di madrigali – ed anche Marenzio – tengono conto frequentemente del “climax” finale di una poesia, ripetendo gli ultimi versi46; contrariamente invece in questo sonetto, dove la conclusione arriva di sorpresa ed è particolarmente accentuata, Marenzio rinuncia alla prassi d’uso. Procede così come più tardi procederà anche Schubert: distacca dal resto della composizione la terzina finale, introducendo il “Ma pur”, le prime due parole, con una declamazione che non procede in semiminime e crome, che dominano il resto del madrigale, bensì in semibrevi, finendo con una cadenza semplice sulla repercussa, con l’effetto di un segno di “due punti” (Schubert riato (vedi in misura 2/3 si-be-molle – si-quadro nel Canto contro il sol nell’Alto e nel Tenore); cfr. W. Dürr, Zur mehrstimmigen Behandlung des chromatischen Schrittes in der Polyphonie des 16. Jahrhunderts, in Kongreßbericht Kassel 1962, Kassel ecc., Bärenreiter, 1963, p. 136-38. 45 Per la declamazione nel madrigale cinquecentesco cfr. W. Dürr, Lingua e musica: Considerazioni sul madrigale di Luca Marenzio “O dolce anima mia”, in “Ricerche musicali” 4 (Bologna 1980), p. 46-70. 46 In Amatemi, ben mio dal quinto libro dei madrigali a 5 voci (1591, testo di Tasso), la parte finale perciò occupa metà della composizione, cfr. W. Dürr, Sprache und Musik. Geschichte – Gattungen – Analysemodelle, Kassel ecc., Bärenreiter, 1994, p. 77ss.

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Walther Dürr

aveva raggiunto un simile effetto col recitativo). Conclude poi in maniera contrappuntistica, ricordando la fattura dell’inizio del madrigale: c’è un soggetto principale, una scala discendente per tutta un’ottava, non cromatica però, questa volta, imitata in forma di canone, prima nella quinta inferiore (precisamente nella duodecima inferiore), poi nella quarta superiore, pronunciando le parole chiave: “ch’Amor non venga sempre ragionando con meco”. A questo “soggetto” oppone brevi esclamazioni “cercar non so”, che conducono infine al “soggetto” finale “et io con lui”. Rimane così nell’orecchio la constatazione: anche se non lo cerco, Amor è presente, ed io con lui. Siamo passati dal “secondo petrarchismo” al primo. I due compositori rappresentano un differente approccio alla poesia di Petrarca. Marenzio, come dicevamo, si trova in una diretta linea di tradizione47 che all’epoca di Schubert si è interrotta in duplice maniera: per l’interferenza di ciò che Schlegel chiama la poesia moderna e per il passaggio dalla lingua italiana a quella tedesca. Inoltre Schubert, quando componeva il suo sonetto, si trovava ancora nella posizione di un apprendista; cercava di trovare una maniera di composizione adatta al genere poetico tanto caro ai poeti del romanticismo tedesco. Marenzio invece, nella sua ultima raccolta di madrigali, era all’apice della sua arte e, fieramente, lo dimostrava. Nonostante ciò, i due compositori interpretano la poesia in maniera simile: accentuano la solitudine dell’io lirico, il disorientamento in un paesaggio deserto e ostile (e Marenzio lo fa in maniera forse più radicale ancora di Schubert) e tutti e due sottolineano alla fine – l’uno con un cambiamento di tono, l’altro con mezzi di contrappunto – la presenza di un compagno nel deserto, dell’Amore, che però non sa veramente guidare il cantante, perché in fondo è identico al suo io. L’Amore sa dare una visione illuminante, ma non vera speranza. Le frasi melodiche di Marenzio formano perciò una triste discesa; il si-be-molle raggiante del finale di Schubert nelle ultime battute, incupendosi, ritorna al sol minore iniziale.

47 Leggendo il Bembo sembra, che la sua relazione verso Dante rassomigli, in un certo senso, a quella del secondo petrarchismo verso Petrarca, mentre Petrarca stesso da Bembo sembra considerato quasi un diretto antecessore, anzi maestro; cfr. per.es. ne Le Prose … nelle quali si ragiona della volgar lingua alla fine del secondo libro il capitolino Il Petrarca diuino ne la uarietà (Venezia, Jacomo Vidali, 1575, p. 102).

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PETRARCHISTI

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David Quint

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SCHIAVI DEL TEMPO: PETRARCA E RONSARD

La trentesima poesia del Canzoniere, la sestina, “Giovene donna sotto un verde lauro”, è la prima poesia di anniversario nella raccolta lirica. Il settimo anno è arrivato, dichiara il Petrarca, da quando lui, per la prima volta, incontrò Laura il venerdi santo, il sesto di Aprile 1327, e se ne innamorò: “che s’al contar non erro, oggi à sett’anni/ che sospirando vo di riva in riva” (28-29)1. Robert Durling ha mostrato il rapporto della liturgia e dell’immaginario del venerdì santo con questa poesia, cioè che il lauro esaltato nella sestina costituisce un’alternativa alla Croce. Ha inoltre notato che il Petrarca celebrò questo settimo anniversario perché lo aveva portato nel 1334 all’età di trent’anni, l’età tradizionalmente ascritta al Cristo al tempo della Passione – e questo numero corrisponde al numero del poema nel Canzoniere2. Vorrei suggerire che un secondo testo e catena di simbolismo biblico informano la poesia e la sua giustapposizione del settimo anniversario dell’amore di Petrarca rispetto allo schema del sei-volte-sei disegno della sestina. Questa lettura, che mette a fuoco il rapporto tra l’istante lirico e il tempo, è autorizzata, retrospettivamente, dalla poesia di Ronsard, uno dei più forti lettori del Petrarca. Il suo trattamento diverso dello stesso motivo può aiutarci a distinguere un petrarchismo più tardo dal modello originale di Petrarca.

1 Le citazioni del Canzoniere sono tratte dall’edizione curata da Marco Santagata (Milano, 2004). 2 “Petrarch’s “Giovene donna sotto un verde lauro”, Modern Language Notes 86 (1971): 1-20.

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David Quint

Nel capitolo 21 di Esodo e poi di nuovo nel capitolo 15 di Deuteronomio, la legge mosaica prescrive gli obblighi dei padroni ebraici verso gli schiavi del proprio popolo. Lo schiavo servirà per sei anni, ma nel settimo anno il padrone lo restituirà gratuitamente alla libertà. Però, lo schiavo, che ormai può essere sposato e padre di figli che non vuole abbandonare, potrebbe scegliere di rimanere per sempre in servitù, soggetto al padrone. In questo caso, il padrone lo offrirà a Dio, conducendolo a uno stipite della sua casa e forandogli l’orecchio.

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Si emeris servum hebraeum, sex annis serviet tibi; in septimo egredietur liber gratis… Quod si dixerit servus: Diligo dominum meum et uxorem ac liberos, non egrediar liber, offeret eum dominus diis, et applicabitur ad ostium et postes, perforabitque aurem eius subula, et erit ei servus in saeculum. (Exodus 21:2, 5)

Il passo produsse interpretazioni opposte tra i padri della chiesa. Forse influenzato dalla analogia che la versione di Deuteronomio trae con la liberazione degli Ebrei dalla servitù egiziana (Deut. 15:15), Rabano Mauro lo lesse in senso anagogico: “Questo è detto non dell’età presente, ma del futuro; perché servendo nelle sei età di quest’era, saremo liberati nel settimo giorno del sabbath eterno, salvo che non vogliamo essere liberi in quest’età di peccato. Ma se non lo vogliamo, il nostro orecchio sarà forato come segno della nostra disubbidienza, e insieme con la nostra moglie e i nostri figli, cioé con la carne e le sue opere, saremo schiavi del peccato in perpetuum per tutta l’eternità”3. Per Rabano, i sei anni della schiavitù rappresentano l’esistenza umana in questo mondo, sotto il giogo della carne e del peccato, opposta a un settimo anno di liberazione spirituale. Ma Rabano prende atto d’un diverso e contrastante modo di intendere il passo avanzato da Gregorio Magno, che leggeva in bono l’offerta del suo servo fatta dal padrone a Dio – “offeret eum dominus diis”. Gregorio interpretava i sei anni di servitù come la vita attiva in confronto alla vita contemplativa, quest’ultima lo stato di libertà rappresentato dal settimo anno. Chi ha scelto di perseverare nella vita attiva è presentato agli dei, quando il predicatore dal quale lui dipende gli inculca le parole dei padri antichi, che sono stati per noi i preti sulla via verso il Dio onnipotente. E stato portato alla porta e agli stipiti del tabernacolo, acciocché possa udire dell’entrata dell’abitazione celeste e conoscere chiaramente il giorno terribile del giudizio, affinché non

3 Ennaratio super Deuteronomium. Patrologiae cursus completus. Series Latina, a cura di J. P. Migne (Paris: 1844-1864), T. 108, 891A.

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Schiavi del tempo: Petrarca e Ronsard

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cerchi di piacere agli uomini attraverso le sue buone opere. E cosi il suo orecchio è forato con un punteruolo, quando l’anima sua riceve la ferita penetrante del timore di Dio, così che, trapassato dalla punta aguzza della parola, saprà, in tutte le sue azioni, di attendere all’entrata del Regno4.

Nella autorevole lettura di Gregorio, lo schiavo volontario di Esodo e Deuteronomio sarebbe il laico che si dedica di nuovo a Dio e alle buone opere. Lo fa, beninteso, sotto la guida spirituale del suo maestro clericale, che gli fa ricordare che la vita in questo mondo è solamente un prologo alla vita futura nel Regno di Dio. Tutte le due interpretazioni di questi passi biblici suggeriscono la natura spiritualmente sospetta dell’amore dal quale Petrarca non riesce a liberarsi dopo sette anni in Canzoniere 30. La poesia rappresenta o il suo assoggettarsi ad un desiderio carnale o la sua scelta di dedicarsi ad un dio, ma in questo caso il falso dio di Amore. Il parallelo con Esodo e Deuteronomio suggerisce che lui è consapevole del suo errore, come ben mostrano i modelli cristologici della sestina, e i tre versi del suo congedo nel quale il poeta asserisce ambiguamente che i capelli biondi e gli occhi di Laura superano l’oro e i topazii – o sono da loro superati – un’allusione a sua volta al Salmo 119; 127: “Ideo dilexi mandata tua/ super aurum et topazion”. Al posto dei comandamenti di Dio, Petrarca ha amato Laura più dell’oro e dei topazii – o forse ha amato gli idoli dorati e di topazio, gli idoli della sua poesia stessa, più della donna e del suo Dio. La sestina dipinge il dilemma spirituale agostiniano più volte messo in scena nel Canzoniere: “et veggio il meglio, e al peggior m’appiglio” (264.136). Invece d’una liberazione dall’amore nel biblico settimo anno, la poesia ipotizza la servitù perpetua dell’amante. Nelle prima, terza, e sesta stanza, il poeta asserisce ripetutamente attraverso l’uso del tempo futuro la sua devozione senza fine per Laura: “avrò sempre” (6), “seguirò l’ombra” (16), “sempre piangendo andrò” (33). Malgrado la sua paura, espressa nelle stanze seconda e quinta, che Laura non ricambierà mai il suo amore per lei, lui è pronto a persistere e aspettare. non ò tanti capelli in queste chiome quanti vorrei quel giorno attender anni. (11-12)

Questo numero quasi infinito di anni nei quali il poeta s’impegna a amare e soffrire, divengono nell’ultima stanza i mille anni che il poema stes4

Omelie in Ezechiele. Patrologiae, T., 811D.

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so perdurerà, quando – “forse” – produrrà pietà, se non nella sua donna, almeno in un futuro lettore. Gli ultimi due versi della prima stanza confondono passato, presente, e futuro – “mi piacquen sì ch’i’l’ ò dianzi agli occhi,/ ed avrò sempre ov’io sia, in poggio o’n riva” – al fine di sottolineare una condizione continua e invariata. La persistenza di quest’amore dentro nel suo settimo anno è giustapposta alla forma, dominata dal sei, della sestina stessa. La ripetizione delle rime – particolarmente la parola-rima “anni” – suggerisce la natura inalterata dell’amore del poeta attraverso il tempo, e le sei stanze di sei versi potrebbero loro stesse rappresentare i sei anni di servitù amorosa che sono trascorsi prima dell’arrivo del settimo anno potenzialmente liberatore che interromperebbe questo disegno dei sei. Lo spostamento delle posizioni delle parolerime in ogni stanza della sestina chiude un circolo, se vogliamo un circolo vizioso, e indica la possibilità d’un nuovo inizio o distacco. Poiché l’amante non annuncia un tale inizio, dobbiamo dedurre che il ciclo ricomincerà di nuovo, e questo in conformità con la sua dichiarazione nella terza stanza dove dice che lui seguirà l’ombra del lauro, girando – come John Freccero ha accennato – “in un circolo, andando dietro l’ombra gettata dall’albero lungo le ore del giorno e le stagioni dell’anno” 5. I 36 più tre versi della sestina paiono riassumere, infatti, in una versione miniaturizzata, la raccolta intera del Canzoniere con i suoi 366 – 365 più 1 – poesie che corrispondono a un calendario d’amore, oppure a una litania che si ripete seguendo il ciclo dell’anno. Benché il poeta-amante prenda atto del suo invecchiamento e della morte – “vola il tempo et fuggon gli anni” – ogni anno del suo amore è molto simile a quello che lo segue – e il settimo anno non porta nessuna liberazione dai sei anni di servitù che lo procedono. Al contrario, quest’amante sceglie la sua soggezione e la forma della sestina che la descrive. Il Canzoniere ricorda, significativamente, due altri anniversarii di sette anni dell’amore del protagonista, il quattordicesimo, “sette e sette anni” (79;101), e il ventunesimo (271;364). Laura muore nella seconda di queste date, ventun’anni dopo il primo incontro del poeta con la donna amata. Ma non cambia niente: lui continua ad amarla per un’altro diec’anni. Tuttavia, Sebastiano Fausto da Longiano, un commentatore del Canzoniere del primo cinquecento, insisté, contrariamente alle proteste del poeta, che la poesia 30 annuncia la cessazione, per allora non definitiva, dell’amore di Petrarca per la sua Laura.

5 Freccero, “The Fig Tree and the Laurel: Petrarch’s Poetics”, Diacritics 5 (1975): 3440, p. 38.

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Schiavi del tempo: Petrarca e Ronsard

Questa canz. fu fata nel settimo anno dello amore, come si vede che s’al contar non erro, hoggi ha sett’anni che sospirando vo di riva in riva, & in quest’anno partì dallo amore di L. come più diffusamente io dissi, perch’al viso d’amor. Ancor que qui dica volere essere costante nello amare come sia L. nella castitate, nondimeno queste sono le cagioni che si ritiro dallo amor di lei conciosia che nel settimo anno, ella era più bianca e più fredda che neve che dimostra la bellezza e sua crudeltate6.

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Come promette, Fausto da Longiano offre nel suo commento sulla poesia 54, il madrigale “Perch’al viso d’Amor portava insegna”, un resoconto esteso della biografia amatoria del Petrarca, nella quale il poeta più volte si disamorò di Laura. Per meglio intendere, e da sapere chel. P. di L. s’innamoro l’anno M.cccxxvij. a sei d’Aprile e. L. a sei d’Aprile morì l’anno M.cccxlviij. Tra questo tempo ci correno anni, xxi. In quest’uno e vent’anni tento piu volte di fuggir dallo amor di L. Tre volte solamente se ne distolse del tutto. La prima volta fu nel settimo anno dell’amore e stette disamorato tutto l’ottavo e ’l nono. La seconda volta fu la, chi e fermato di menar sua vita e stette il xii & xiij, la terza nel xix. ivi mai non vo piu cantar com’io soleva, di tutti gl’altr’anni comenciando dal settimo, se ne ritrova fatto particular mentione…7

Secondo una logica impeccabile, tutta sua, Fausto da Longiano ipotizza che, visto che Petrarca sottolineava nel Canzoniere gli anniversarii di tutti gli altri anni del suo amore, quegli anni che non celebrò – l’ottavo, nono, dodicesimo, tredicesimo, e diciannovesimo – dovessero corrispondere ai periodi nei quali il poeta usciva dall’amore e raffreddava la sua passione. Così deduce che durante i ventun’anni dell’amore del poeta per la Laura vivente, lui cessò di amarla ben tre volte. Nonostante tutto quello che il Petrarca possa dichiarare nella poesia 30 – “Ancor che qui dica volere costante nello amare come sia L. nella castitate” – la durezza di Laura lo costringeva a desistere dal suo amore e a riguadagnare la sua libertà, solo per ricadere e tornare sotto il giogo amoroso di nuovo – e di nuovo, e di nuovo. È possible che Fausto da Longiano sia stato influenzato da Esodo 21 quando individua la prima di queste interruzioni nel settimo anno dell’amore di Petrarca; il suo commento, a sua volta, avrebbe potuto influenzare Ronsard, quando il poeta francese esplicitamente invoca il passo biblico in 6 Il Petrarcha col commento di M. Sebastiano Fausto da Longiano (Venezia, 1532), pp. 149-50. 7 Ibid., p. 158.

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un sonetto, proprio la settima poesia del secondo libro dei Sonnets pour Helene. Il primo libro dei Sonnets si chiude con l’accenno del poeta a “Mes larmes de six ans” (59.3). Ora lui esprime il suo desiderio per la libertà. Hà, que ta Loy fut bonne, & digne d’estre apprise, Grand Moise, grand Prophete, & grand Minos de Dieu, Qui sage commandas au vague peuple Hebrieu, Que la liberté fust apres sept ans remise! Je voudrois, grand Guerrier, que celle que j’ay prise Pour Dame, & qui s’assied de mon coeur au milieu, Voulust qu’en mon endroit ton ordonnance eust lieu, Et qu’au bout de sept ans m’eust remis en franchise. Sept ans sont ja passez qu’en servage je suis: Servir encor sept ans de bon coeur je la puis Pourveu qu’au bout du temps de son coeur je jouysse. Mais ceste Grecque Helene, ayant peu de soucy Des statuts des Hebrieux, d’un courage endurcy Contre les Lois de Dieu n’affranchit mon service8.

L’arte e la malia di questo sonetto in alessandrini consistono nel modo nel quale il poema si avvicina al tono scherzoso. Quel “Ha!” che lo comincia e i “grand” reiterati nel secondo verso suggeriscono un entusiasmo esagerato, come se il poeta apprezzasse Mosè soprattutto o solamente per la sua saggezza nelle questioni amatorie. C’è un arguto rovesciamento nel verso quinto, dove Mosè è lodato una volta ancora come un “grand Guerrier”, e dove Ronsard si riferisce a Helene come a “celle que j’ay prise”, come se anche lui fosse un soldato nelle guerre di amore e lei la sua prigioniera conquistata, un’impressione rovesciata dall’ enjambement che rivela che lei è la sua “Dame” che invece lo tiene, lui Ronsard, in servitù. Nei versi 9-11, Ronsard evoca una seconda storia biblica, i quattordici anni nei quali Giacobbe lavorò per Laban prima di ottenere Rachele, una storia alla quale il Petrarca accennò nel Trionfo d’Amore, dove la sfilata dietro il carro di Amore comprende Giacobbe, il “gran padre schernito,/ che non si muta, e d’aver non gli ‘ncresce/ sette e sette anni per Rachel servito”. Avendo dichiarato il suo desiderio di essere liberato dal suo amore nelle quartine del sonetto, il poeta sembra contraddirsi nelle terzine,

8 Cito il testo di 1578 in Ronsard, Les Amours, a cura di Henri e Catherine Weber (Paris, 1963), pp. 422-423. Nel testo di 1584, “de son corps” nel verso 11 è sostituito da “de son Coeur”; vedi Ronsard, Oeuvres complètes, a cura di Jean Céard, Daniel Menager, e Michel Simonin (Paris, 1993), I:382.

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Schiavi del tempo: Petrarca e Ronsard

affermando la sua volontà di servire altri setti anni, come fece Giacobbe dopo che Laban lo aveva ingannato e gli aveva dato Leah per sposa dopo i primi setti anni di lavoro. Ma Ronsard francamente elenca le sue condizioni: “Pourveu qu’au bout du temps de son corps je jouysse”. “Son corps” sembra rimare col “bon coeur” del verso precedente, e senza la garanzia d’un’eventuale fruizione, il poeta non è disposto ad impegnare il suo cuore9. Ma questa Helene greca non ricompensa né vuole rilasciare suo “serviteur”. Ronsard scherzosamente trasforma l’angoscia spirituale d’un Petrarca, diviso tra la sua servitù ad un amore idolatrico e il suo desiderio d’una liberazione cristiana, in un fallimento qui di sincretizzare miti greci e biblici. Il poeta tenta di allineare i due sistemi quando, nel secondo verso, chiama il legislatore Mosè il “grand Minos de Dieu”. Nella conclusione del sonetto, però, la sua Helene Francese asserisce la sua grecità. Mentre il Petrarca scelse la sua propria servitù erotica e preferì quell’oro e quei topazi – che rapprensentano Laura – ai comandamenti divini, qui è la donna che si rifiuta di ubbidire a “Les Loix de Dieu”. Nel contesto Mosaico del poema, la durezza convenzionale – “courage endurcy” – della donna del poeta sembra richiamare il Faraone egiziano, il cui cuore era più volte indurito – “Induratum est cor Pharonis (Es. 7:13; s.v.. 7:3, 7:22, 8:19, 9:12, 9:35, 10:27, 14:8) – e che rifiutava di liberare gli ebrei assoggettati – “Et induravit Dominus cor Pharaonis, nec dimisit filios Israel” (10:20). Il Ronsard vuole nondimeno essere liberato, e setti anni sembrano essere più o meno il limite della sua devozione amorosa. Nella edizione di 1584 dei Sonnets, il poeta inserì un’ Elegie pour Helene quattro poesie dalla conclusione della raccolta e subito dopo un sonetto che annuncia il suo addio all’amore: “C’est trop chanté d’amour sans nulle recompense” (74.2), lui dichiara in quel poema. All’inizio dell’Elegie, Ronsard invoca la fine del settimo anno e la sua prossima emancipazione dall’amore. Six ans estoient coulez, et la septiesme annee Estoit presque entiere en ses pas retournee Quand loin d’affection, de desir et d’amour, En pure liberté je passois tout le jour 10. (1-4) 9 Ronsard esprèsse il suo scetticismo verso il casto amore di Petrarca nell’Elegie à son livre al inizio del secondo libro degli Amours: “Ou bien il jouyssoit de sa Laurette, ou bien / Il estoit un grand fat d’aimer sans avoir rien” (49-50). Per una discussione del rapporto fra i due poeti, si veda Gordon Braden, Petrarchan Love and the Continental Renaissance (New Haven e Londra, 1999), pp. 106-119. 10 Ronsard, Oeuvres completes, I:420. Includo il testo intero della poesia in appendice a questo saggio.

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In un rovesciamento della poesia petrarchesca di innamoramento, la grande poesia che segue descrive il disamoramento del poeta protagonista, un processo che accompagna il suo ritiro pastorale nella vecchiaia dagli affari della vita. Nei versi 22-23, l’apostrofe del poeta – “Celuy est presque Dieu, qui cognoist toutes choses/ Esloigné du vulgaire, et loin des courtizans,/ De fraude et de malice impudens artizans” – echeggia e riduce il famoso elogio virgiliano del agricoltore/ filosofo di Georgiche 2.490f., liberato dalla paura della morte, dalla ambizione, dalla guerra, come dalla vita di corte – “aulas e limina regum” (504). Sembra che Ronsard stia chiudendo la sua carriera, scappando e dalle faccende private dell’amore e dal suo ruolo pubblico: i Sonnets, infatti, si concludono con la morte metaforica del suo amore per Helene e la morte reale del suo re e mecenate, Carlo IX. L’Elegie descrive la vita di ritiro condotta ora dal poeta, mentre ci guida attraverso un tipico giorno di ozio. Alzandosi all’alba, lui prende come compagni quegli autori favoriti che ha sempre voluto rileggere – “Aristote ou Platon, ou le docte Euripide” (10); guarda i fiori e le bellezze della natura (15s.); va a pescare sul fiume (29-39). Di notte, alterna le sue letture diurne con la contemplazione di quello che Dio ha scritto nelle stelle “en desdaignant (comme font les humains)/ D’avoir encre & papier & plume entre les mains” (47-48). La poesia evoca con garbo la quiete e la solitudine di quest’esistenza: i “bon hostes muets” dei suoi libri sono contrastati dalle chiacchiere sgradite dei suoi simili (11-14); la “chasse muette” della pesca è opposta alla strenua caccia al cervo condotto dal principe (33-38). Leggere, ammirare, contemplare: la passività di questa vita suggerisce anche l’abolizione del tempo, e la successione degli oggetti che sfilano davanti agli occhi del poeta mutano dai fiori transitorii alle stelle eterne, la cui scrittura divina corrisponde a quelle scritture perenni degli autori classici che porta seco. Il termine nel medio di questa progressione è il fiume che gli piace guardare quando gli scorre accanto. E voir onde sur onde allonger sa carriere, Et flot à l’autre flot en roulant s’attacher. (30-31)

La ripetizione in ciascun verso – e si può notare la ripetizione ulteriore nella assonanza “onde/ allonger” nel primo di questi – dipinge l’uniformità invariabille insita nel flusso del fiume. Il passo richiama la descrizione ovidiana, con simili ripetizioni, del tempo come fiume – “sed ut unda impellitur unda/ urgueturque eadem veniens urguetque priorem,/ tempora sic fugiunt

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Schiavi del tempo: Petrarca e Ronsard

pariter pariterque sequuntur/ et nova sunt semper” (15.181-184) – nel quindicesimo libro delle Metamorfosi e insiste sull’identità delle onde che si succedono, una dopo l’altra. Quest’uniformità potrebbe descrivere l’esistenza più ampia del poeta dipinta nell’Elegie, l’abitudine quotidiana atemporale d’una vita senza cura, l’atarassia epicurea che è stata individuata come l’ethos che informa la poesia pastorale11. Eppure la cura persiste, e la tensione del poema si trova nel contrasto tra la nuova tranquillità di Ronsard e i suoi rimanenti rammarichi amorosi. Nella sezione finale del poema, questa cura è contrastata e consolata da un’altra sorta di vittoria sopra il tempo, la fama – per Ronsard – della propria poesia. Pure mentre sta pacatamente pescando, lui lamenta il fatto che lui solo – e non Helene insieme con lui – aveva ingoiato l’esca metaforica dell’amore (39-42). Ora inganna il proprio dolore bevendo dalla fontana che tre poesie prima nella raccolta lui dedicava a Helene – “Qui de votre beau nom se brave (55) – e che è un’emblema della raccolta stessa, siccome il tempio che lui consacrò nella grande Elegie à Marie (“Marie a celle fin que le siecle advenir”) era l’emblema delle poesie amorose a lei indirizzate e delle loro capacità di durare per “l’espace d’un long age”. (107) L’uniformità perenne del precedente fiume senza nome ora diviene l’attributo del ruscello che va sempre mormorando la lode di Helene, non tanto un vero corso d’acqua quanto il figurato corso dei versi ronsardiani. Nel bere di questa fonte, suo Ippocrene personale, prende consolazione e forse ulteriore ispirazione. Paragonati agli scritti degli autori classici che sta leggendo e all’”ecrit” divino nel cielo stellato, le sue poesie, concede Ronsard, forse non dureranno “pour tout jamais”, ma “au moins pour un longs temps” (60). Quest’asserzione del potere immortalizzante della sua “Muse sacrée” si raddoppia e s’umanizza in una ripresa del suo famoso sonetto 43 che precede nel libro (“Quand vous serez bien vieille, au soir à la chandelle”). Immagina una decrepita Helene nella sua vecchiaia: “vous aurez, si quelque soin vous touche,/ En l’esprit mes escrits, mon nom en vostre bouche” (69-70). La sua poesia sopravvivrà doppiamente nel libro che celebra la donna amata e nella propria voce di Helene che terrà vivo il nome del suo poeta. Sia la fama visualizzata nella fonte di Helene che la visione di Helene nella vecchiaia rendono più facile e inevitabile la rinuncia del poeta al suo amore per lei alla fine dell’Elegie. Quest’amore ha fatto il suo corso ed ha

11 Thomas Rosenmeyer, The Green Cabinet: Theocritus and the European pastoral lyric (Berkeley, 1969).

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svolto la sua funzione poetica nel produrre i due libri dei Sonnets; lui stesso riconosce l’avvicinare della propria senilità.

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Maintenant que voicy l’an septiéme venir, Ne pensez plus Helene en vos laqs me tenir. La raison m’en delivre, et vostre rigueur dure, Puis il fault que mon age obeysse à Nature.

L’ambiguità nel penultimo verso – se “dure” è un aggettivo che modifica “rigueur”, che in questo caso sarebbe un secondo soggetto del verbo “delivre”, o se “dure” è un verbo del quale “rigueur” è il soggetto – esprime bene e ricapitola i temi del tempo proposti dal poema e, possiamo aggiungere, dalla poesia petrarchesca in generale. La crudeltà della donna, la sua irraggiungibilità, hanno fatto durare la passione del poeta e hanno prodotto la poesia che durerà alla sua volta. Ma la ripresa di Ronsard del motivo del settimo anno, indica i limiti di quest’esperienza amatoria e letteraria. Nulla dura per sempre, lui suggerisce – neppure la fama della sua poesia – e l’arrivo del settimo anno che per legge lo libera dalla servitù diviene parte d’una più estesa, più inesorabile legge di Natura, d’una durata più profonda e inalterabile, non marcata da transitorie passioni e significati umani. La fontana di Helene recede dentro il corso senza fine del fiume del tempo, ai ritmi quotidiani della Natura ai quali il poeta ora s’adatta nel suo ritiro. Quest’ultimo dei tre grandi amori poetici di Ronsard finì nel suo settimo anno. Così finirono gli altri due. La sua prima raccolta di poesia amorosa, i duecento e venti poesie degli Amours per Cassandre di 1553, chiude cinque sonntti dopo quello che annuncia il settimo anniversario della sua passione e che esplicitamente si richiama al Petrarca. Depuis le jour que mal sain je soupire L’an dedan soi s’est roüé par set fois (Sous astre tel je pris l’hain) toutesfois Plus qu’au premier ma fievre me martire. Quand je soulois en ma jeunesse lire Du Florentin les lamentables vois, Comme incredule alors je ne pouvois En le mocquant, me contenir de rire12. (Amours 216)

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Ronsard, Les Amours, p.137.

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Schiavi del tempo: Petrarca e Ronsard

Ronsard poteva che sorridere dell’esperienza di Petrarca, ma solo prima di avere sperimentato lui stesso, cioè prima di avere scritto anche lui una raccolta poetica. Ma, a differenza del Petrarca, che raggiunse il settimo anno del suo amore presto nel suo libro, Ronsard terminò il suo libro proprio nel settimo anno. L’Elegie à Marie, che Ronsard scrisse nel 1560 finisce col dichiarare alla sua seconda donna poetica: “ce livre apres mille ans dira/ Aux hommes, & au tems, & la renommée/ Que je vous ay six ans plus que mon coeur aimée” (118-120)13. I numeri sembrano così normativi per Ronsard che quando parla nella persona del suo collega poeta Antoine de Baif in Le voiage de Tours, Les amoureus Thoinet et Perrot, pubblicato nella stessa raccolta del 1560, Thoinet rivela anche lui che “Il ya bien six ans” (81) che lui ha amato la sua Francine14. Ronsard pare avere modellato i suoi rapporti amorosi e le raccolte di poesie che ne derivarono sui ventun’anni nei quali il Petrarca aveva amato Laura in vita: aveva tre principali donne poetiche, ciascuna delle quali cessò di amare nel settimo anno. Ricordiamo che Fausto da Longiano aveva dedotto che anche Petrarca si era disamorato tre volte di Laura nel corso dei ventun’anni del suo amore. Ma se il disegno della carriera del Ronsard come poeta d’amore sembra basarsi su una buona autorità petrarchesca, prende poi un consapevole sviamento anti-petrarchesco. Il patto implicito della poesia di Petrarca uguaglia il desiderio immutabile e inappagabile dell’amante attraverso il tempo con la poesia che del pari sopravvive per commemorarlo. Quest’equazione fa parte d’una meditazione più estesa sulla natura della poesia lirica in rapporto al tempo. La lirica esprime un istante di sentimento e un’eperienza intensa che sembra, nella formulazione di Northrop Frye, “allontanarsi dalla nostra esperienza consueta e continua nello spazio e nel tempo”15. Questo suggerisce anche l’entrare dentro una coscienza interiore che sembra stare fuori dalla sequenza del tempo e di contrastarla con la memoria – “dolce nella memoria” come il Petrarca lo chiama nel suo poema forse più famoso, la dolcezza o sentimento persistente che serba l’esperienza nella memoria o che può sostituirla. Quest emozione ricordata nella tranquillità – la frase è di Wordsworth (“emotion recollected in tranquillity) – è anche caratterizzata come la ferita insanabile dell’amore, e la sua persistenza può essere difficile

13

Ibid., p. 293. Ibid., p. 281. 15 Frye, ‘Approaching the Lyric,” in Lyric Poetry: Beyond New Criticism, a cura di Chavica Hosek e Patricia Parke (Ithaca e Londra, 1985), p. 31. 14

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da distinguere da una nachträglichkeit freudiana – forse non così dolce, ne così volontaria – d’un avvenimento traumatico16. Tali sentimenti serbati nella memoria forniscono all’individuo una interiore continuità psichica lungo il processo biologico dell’invecchiare. Danno un’estensione all’istante lirico – la cui natura momentanea e passeggiera è già riflessa nella forma breve del genere. La sequenza lirica petrarchesca mappa questa continuità attraverso i trentun’anni della fittizia vita del protagonista – dandole una forma narrativa – mentre lui ritorna ossessivamente a, o è costretto a ripetere, la sua passione per Laura e per il lauro immortale. In questo contesto, il desiderio del poeta petrarchesco per la fama diviene una proiezione nel futuro della continuità che l’amante trova o vuole trovare nel se stesso mentre si rende conto simultaneamente della contingenza e della labilità dell’esperienza umana nel tempo: quell’irrequietezza che è un tema caratteristico nelle poesie di Petrarca17. Questa pretesa della fama è inoltre una sorte di scommessa che è già vinta quando leggiamo la poesia – il Petrarca voleva mill’anni di lettori e ha ormai ottenuto settecento – e questa sopravvivenza della poesia attraverso il tempo sembra retrospettivamente autenticare la sopravvivenza che quella poesia descrive d’un nodo di sentimento e d’emozione individuale lungo il corso d’una vita. L’espansione dell’istante lirico di un sentimento intenso finché divenga la storia dell’intera vita del poeta è la conquista particolare del Canzoniere. I più forti successori del Petrarca – Ronsard, il Sidney di Astrophil and Stella, il Shakespeare dei Sonnetti – possono disamorarsi, e le loro raccolte narrano solo una parte delle storie dei loro protagonisti. Come misura, forse, del distacco umanistico e secolarizzante del rinascimento dalla cultura ancora medievale di Petrarca – questi poeti suggeriscono una discontinuità della coscienza interiore, la successione e sostituzione degli oggetti amati, la capacità di sanarsi delle ferite psichiche, nostra abilità di dimenticare oppure la nostra incapacità di riscoprire emozioni dopo un certo periodo del tempo: quindi, il ritorno dell’esperienza al quotidiano e all’abitudinario. Gli amori di Ronsard durano sei anni prima che lui cominci a sentire il bisogno d’un sabbatico, che lui caratterizza come il desiderio per la libertà. La sua Elegie pour Helene dipinge questa libertà in fin dei conti come un ritorno ai ritmi della Natura che esistono sotto il radar della coscienza umana, e come un’anticipo 16 Wiliam Wordsworth,“Preface to Lyrical Ballads,” in Selected Poems and Prefaces, a cura di Jack Stillinger (Boston, 1965), p. 460. 17 Tema magistralmente esplorato da Thomas M. Greene in The Light in Troy (New Haven e Londra, 1982), pp. 104-46 e “Petrarch viator,” Yearbook of English Studies 12 (1982): 35-57.

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Schiavi del tempo: Petrarca e Ronsard

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della estinzione stessa di quella coscienza nella morte. È questa forse la libertà alla quale il poeta della poesia 30 del Canzoniere rinuncia, riconoscendo e rifiutando allo stesso tempo di riconoscere il passaggio del tempo che ha dato occasione alla prima poesia di anniversario della raccolta, preferendo di rientrare nel ciclo di assoggettamento erotico descritto nella forma della sestina. Alcune cose, il Petrarca ostinatamente insiste, non cambiano mai nel cuore umano, e in questa asserzione può consistere il durevole potere immaginativo del suo progetto lirico.

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David Quint

Appendice

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Pierre de Ronsard, Elegie [à Helene]

Six ans estoient coulez, et la septiesme annee Estoit presque entiere en ses pas retournee, Quand loin d’affection, de desire et d’amour, En pure liberté je passois tout le jour, Et franc de tout soucy qui les ames devore, Je dormois dés le soir jusqu’au point de l’aurore. Car seul maistre de moy j’allois plein de loisir, Où le pied me portoit, conduit de mon desir, Ayant tousjours és mains pour me servir de guide Aristote ou Platon, ou le docte Euripide, Mes bons hostes muets, qui ne faschent jamais: Ainsi que je les prens, ainsi je les remais. Ô douce compagnie et utile et honneste! Un autre en caquetant m’estourdiroit la teste. Puis du livre ennuyé, je regardois les fleurs, Fueilles tiges rameaux especes et couleurs, Et l’entrecoupement de leurs formes diverses, Peintes de cent façons, jaunes rouges et perses, Ne me pouvant saouler, ainsi qu’en un tableau, D’admirer la Nature, e ce qu’elle a de beau: Et dire en parlant aux fleurettes escloses: “Celuy est presque Dieu qui cognois toutes choses, Esloigné du vulgaire, et loin des courtizans, De fraude et de malice impudens artizans”. Tantost j’errois seulet par les forests sauvages Sur les bords enjonchez des peinturez rivages, Tantost par les rochers reculez et deserts, Tantost par les taillis, verte maison des cerfs. J’aimois le cour suivy d’une longue riviere, Et voir onde sur onde allonger sa carriere, Et flot à l’autre flot en roulant s’attacher, Et pendu sur le bord me plaisoit d’y pescher, Estant plus resjouy d’une chasse muette Troubler des escaillez la demeure secrette, Tirer avecq la ligne en tremblant emporté Le credule poisson prins a l’haim apasté, Qu’un grand Prince n’est aise ayant prins à la chasse

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Schiavi del tempo: Petrarca e Ronsard

Un cerf qu’en haletant tout un jour il pourchasse. Heureux, si vous eussiez d’un mutuel esmoy Prins l’apast amoureux aussi bien comme moy, Que tout seul j’avallay, quand par trop desireuse Mon ame en vos yeux beut la poison amoureuse. Puis alors que Vesper vient embrunir nos yeux, Attaché dans le ciel je contemple les cieux, En qui Dieu nous escrit en notes non obscures Les sorts et les destins de toute creatures. Car luy, en desdaignant (comme font les humains) D’avoir encre e papier et plume entre les mains, Par les astres du ciel qui sont ses characteres, Les choses nous predit et bonnes et contraires: Mais les hommes chargez de terre et du trespas Mesprisent tel escrit, et ne le lisent pas. Or le plus de mon bien pour decevoir ma peine, C’est de boire à long traits les eaux de la fontaine Qui de vostre beau nom se brave, et en courant Par les prez vos honneurs va tousjours murmurant, Et la Royne se dit des eaux de la contree: Tant vault le gentil soin d’une Muse sacree, Qui peult vaincre la mort, et les sorts inconstans, Sinon pour tout jamais, au moins pour un long temps. Là couché dessus l’herbe en mes discours je pense Que pour aimer beaucoup j’ay peu de recompense, Et que mettre son coeur aux Dames si avant, C’est vouloir peindre en l’onde et arrester le vent: M’asseurant toutefois qu’alors que le vieil âge Aura comme un sorcier changé vostre visage, Et lors que vos cheveux deviendront argentez, Et que vos yeux d’amour ne seront plus hantez, Que tousjours vous aurez, si quelque soin vous touche, En l’esprit mes escrits, mon nom en vostre bouche. Maintenant que voicy l’an septiéme venir, Ne pensez plus Helene en vos laqs me tenir. La raison m’en delivre, et vostre rigueur dure, Puis il fault que mon age obeysse à Nature.

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PETRARCH, PETRARCHISM AND THE ORIGINS OF THE ITALIAN MADRIGAL1

From its tentative beginnings at the beginning of the sixteenth century, the Italian madrigal, in the sense of musical settings of vernacular poetry, much of it contemporary, gradually evolved into the most widely-disseminated, international domestic repertory of the entire century. The social practices that made this possible were encouraged by courtesy books, above all Baldassare Castiglione’s Il cortegiano which advocates that musical amateurs be able to sing, play the lute or viol, and be musically literate2. Portraits of the educated classes, which cast their subjects in the role of such amateurs, are testimony to the more elevated social status that music gradually came to enjoy3. The publication, by Ottaviano Petrucci, the most accomplished, prolific, and influential of the early printers of music, of the first book entirely devoted to music, the Odhecaton A4, inaugurated a process which led to the

1 I am grateful to Giuseppe Gerbino who read and commented upon an earlier version of this article, and Angelo Pompilio who kindly made available the resources of REPEM. 2 J. Haar: ‘The Courtier as Musician: Castiglione’s View of the Science and Art of Music’, in R. W. Hanning and D. Rosand (eds.): Castiglione. The Ideal and the Real in Renaissance Culture (New Haven, 1983), pp. 165-89. Reprinted with additions in P. Corneilson (ed.): James Haar. The Science and Art of Renaissance Music (Princeton, 1998), pp. 20-37. 3 I. Fenlon: ‘The Status of Music and Musicians in the Early Italian Renaissance’, in J.-M. Vaccaro (ed.): Le concert des voix et des instruments à la Renaissance (Paris, 1995), pp. 57-70. 4 For which see S. Boorman: ‘The “First” Edition of the Odhecaton A’, Journal of the American Musicological Society XXX (1977), pp. 183-207.

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gradual creation of an enormous international market for Italian song. Henceforward there was a considerable, growing and widening (in a social sense) market for music which is reflected in the proliferation of amateur repertories both vocal and instrumental, and above all in the vogue, beginning in the 1520s, for the new form5. For a variety of reasons, of which these are among the more significant, a sort of musical embourgeoisement seems to have taken place in Italy during the following decades, that brought with it a vogue for the Italian madrigal that spread throughout the peninsular and beyond-to Germany, Flanders, Poland, Denmark, and even to England. Nevertheless, the impact of the press on the circulation of the early madrigal was gradual rather than immediate. There is no evidence that printed music circulated widely before Antonio Gardano and Girolamo Scotto set up their separate businesses in Venice at the end of the 1530’s. One of the crucial elements in this development was a technological shift from multiple- to singleimpression printing, which made possible a new era of prolific and economically viable music publishing. Gardano produced his first music book, an edition of Jacques Arcadelt’s Primo libro, of which no copies are known, in 15386; Scotto, his main competitor in the trade, began publishing madrigals in the following year7. In the meantime, individual pieces continued to circulate informally, often enclosed in letters, while manuscript anthologies continued to be the principal means of transmission of the new madrigal, just as it had been of earlier repertories. The importance of a phenomenon that was so central to musical life and experience both in Italy and elsewhere inevitably prompts the questions of how and why, in the comparatively infertile soil of late quattrocento Italy, where ‘song’ meant the imported French chanson together with the shortlived frottola and a number of other local repertories, the early madrigal could have thrived. Musical scholarship has traditionally given two interrelated answers to this question, one to do with perceived continuities of musical style, the other with changing fashions in poetic taste. The first involves inserting the early

5 I. Fenlon: Music, Print and Culture in Early Sixteenth-Century Italy (London, 1995). Revised and amplified version in Italian as Musica e stampa nell’Italia del Rinascimento (Milan, 2001). 6 The standard bibliography is M. S. Lewis: Antonio Gardano, Venetian Music Printer 1538-1569, 3 vols. to date (New York and London), 1988-. 7 For Scotto’s output see J. Bernstein: Music Printing in Renaissance Venice. The Scotto Press (1539-1572 (New York and Oxford, 1998).

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Petrarch, Petrarchism and the Origins of the Italian Madrigal

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madrigal into a self sufficient history of Italian renaissance music written, with one or two ‘aberrations’, by native composers. The second relies on the assumption that madrigalists, in the sense of those who were setting vernacular poetry to music, were constantly striving after the highest musico-literary ideals. By way of illustration here are two quotes from writings that were fundamental in shaping what until comparatively recently has been accepted as the standard view of the process. First Alfred Einstein, writing in his magisterial three-volume study of the genre: ‘The genesis of the madrigal…is known: the transformation of the frottola, from an accompanied song with supporting bass and two inner voices serving as ‘fillers’ into a motet-like polyphonic construction with four parts of equal importance, can be followed as easily as the transformation of a chrysalis into a butterfly’8.

That was in 1949. A few years earlier, the American musicologist Walter Rubsamen had written: ‘The literary trend in secular music…grew in strength during the 1520s until classical verses of distinction and elegance became the norm. An already active and vigorous cult of Petrarca was to achieve such influence that in subsequent decades each of the master’s lyrics was set to music once but many times…This heightened artistry of text…was but one of the stylistic elements necessary to make up the balanced euphony of the madrigal’9.

It is, of course, quite easy to find fault with these opinions, written more than half a century ago, which in turn were foreshadowed by Gaetano Cesari’s densely informative essay of fifty years earlier10. Few would now accept that the early madrigal is ‘motet-like’ in character, or that its voiceparts (normally four) are inevitably of equal importance. Equally debatable is the notion that either the poetry of Petrarch, or the impact of petrarchismo or even the more confined phenomenon known as bembismo, is responsible for a change in poetic taste that is in turn reflected in the choices of patrons and composers. Rubsamen’s view, was substantially shaped by his evaluation of the contents of Bernardo Pisano’s Musica…sopra le canzone di petrarcha, 8

A. Einstein: The Italian Madrigal, 3 vols. (Princeton, 1949), I, p. 121. W. Rubsamen: Literary Sources of Secular Music in Italy (ca. 1500) (Berkeley and Los Angeles, 1943), p. 35. 10 G. Cesari: ‘Le origini del madrigale cinquecentesco’, Rivista musicale italiana XIX (1912), pp. 1-34 and 380-428. 9

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printed by Petrucci, in Fossombrone in the Papal States, in 152011. By contemporary standards this does indeed contain a high proportion of Petrarch settings, and it was easy to see how it might have been considered as an important juncture in a literary trend which had been evident as early as 1507, when the first settings of Petrarch’s canzoni appeared in Petrucci’s seventh frottola book. This growing interest in Petrarch’s poetry on the part of composers, a phenomenon which is then certainly discernible, was seen as arriving at an important plateau with Arcadelt’s five-sectioned setting of the Petrarch cycle ‘Chiare fresch’ e dolce acqua’, (published in 1555 but written much earlier), and Willaert’s weighty settings of Petrarch sonnets composed in the 1540s and published in the Musica nova of 1559. Other scholars have attributed even greater significance to the Pisano collection beyond its poetic choices, claiming that many features of the early madrigal style are present in its contents12. That, of course, is a matter of opinion. What is clearly a matter of fact, is that the few printed music books that followed in the 1520s do not consolidate the move towards a taste for Petrarchan poetry, and of a new style to clothe it, that some writers have detected in Pisano’s work. There are few songs by Italian composers in these editions, and it is only with the undated Libro primo de la Fortuna of about 1526 that the first true madrigals reached print. Clearly this interpretation, based on a suspect evolutionary model of musical developments, must be questioned in two fundamental respects: the relation of the early madrigal to the frottola repertory on the one hand, and the related question of changing literary taste on the other. It must be doubted how much of the early madrigal repertory was really influenced by frottola forms, a courtly art principally associated with a number of North Italian courtly centres, in particular Mantua and Ferrara13. Equally, the extent to 11 For descriptions of this and other Petrucci titles see the relevant entries in C. Sartori: Bibliografia delle opere stampate da Ottaviano Petrucci (Florence, 1948), and I. Fenlon and J. Haar: The Italian Madrigal in the Early Sixteenth Century: Sources and Interpretation (Cambridge, 1988). 12 F. A. D’Accone: ‘Bernardo Pisano: An Introduction to his Life and Works’, Musica Disciplina XVII (1963), pp. 134-5; F. A. D’Accone: ‘Bernardo Pisano and the Early Madrigal’, inj D. Cvetko (ed.): Internationale Gesellschaft für Musikwissenschaft: Report of the Tenth Congress, Ljubljana, 1967 (Kassel, 1970), pp. 105-6. 13 W. F. Prizer: Courtly Pastimes. The Frottole of Marchetto Cara (Ann Arbor, 1980); W. F. Prizer: ‘Isabella d’Este and Lucrezia Borgia as Patrons of Music: The Frottola at Mantua and Ferrara’, Journal of the American Musicological Society XXXVIII (1985), pp. 1-33.

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Petrarch, Petrarchism and the Origins of the Italian Madrigal

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which there was a widespread and growing taste for Petrarch’s poetry needs to be assessed. Pisano’s Musica, an untypical publication in many ways, is not characteristic of general poetic fashion, and the extent to which its contents influenced other composers has been exaggerated. Despite its eyecatching title, unprecedented in the early history of the printed music book, only a few pieces actually set Petrarch’s verse. The twin structural supports of the traditional account, one to do with literary taste, the other with musical style, are in turn largely derived from a particular view of the character and chronology of the sources, a view which severely miscalculates the nature of the manuscript evidence. It is easy to see how the standard interpretation was produced, since it is almost entirely based upon the printed sources only. Certainly the overall picture is a little different from what it used to be: new volumes have been discovered, and crucial evidence from the catalogues of the Biblioteca Columbina in Seville, has helped to determine some of the titles that have been lost. Fernando Colon’s enthusiasm for books, already well ingrained by his twenties, encouraged him to devote much of his time to the accumulation and cataloguing of an extensive library which he bequeathed to the Cathedral Chapter on his death14. By then it contained some 15, 370 volumes, making it the largest library of its time15; had it been preserved intact it would be without doubt the most important repository of early sixteenth-century music to have survived16. The Columbina is now depleted of most of its books, including most of its music, but enough survives of Colon’s meticulously-kept records to provide a good deal of information for bibliographers which supplements what can be deduced from the surviving books themselves. A good example is that of Colon’s reference to the Canzoni strambote ode frotole

14 For the catalogues of the collection see H. Harisse: Fernand Columb. Sa vie, ses oeuvres (Paris, 1872), pp. 165-72, and the same author’s Excerpta Columbiniana (Paris, 1887), pp. 259-65. A. M. Huntingdon (ed.): Catalogue of the Library of Ferdinand Columbus. Reproduced in Facsimile from the Unique Manuscript in the Columbina Library of Seville (New York, 1905), reproduces Registrum B. 15 The printed books that survive in the library are listed in Biblioteca Columbina. Catalogo de sus libros impresos, 7 vols. (Seville, 1888-Madrid, 1948). For the Italian books that remain see K. Wagner and M. Carrera: Catalogo dei libri a stampa in lingua italiana della Biblioteca Columbina di Siviglia (Modena, 1991), and for the engravings and woodcuts The Print Collection of Ferdinand Columbus 1488-1539, 3 vols. (London, 2005). 16 For the music books see C. W. Chapman: ‘Printed Collections of Polyphonic Music Owned by Ferdinand Columbus’, Journal of the American Musicological Society XXI (1968), pp. 34-84.

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soneti…libro 3 de la croce. Not only are no copies of the work known, but the existence of a 1524 edition of the third book in the Croce series implies earlier editions of the first and second books which also do not survive. This is not only a matter of earlier editions of otherwise unknown titles, but also possibly of contents which often varied in such cases. Nevertheless, while the conventional impression of inactivity on the part of both printers and composers during the 1520s is somewhat modified by such information, the overall picture, in itself rather incoherent, remains much as historians have always seen it17. During the next decade or so, Italian music printing in general was technologically backward, financially insecure, and was unable to achieve either a steady output or a large circulation, in part because a stable market had not been created by the first music printers. The uncertainly of the trade is perhaps reflected in a falling off in technical quality in the editions that Petrucci produced in Fossombrone, after his move there in 1511, in comparison to his earlier Venetian titles, though other factors may also have been at work. Political and economic conditions during the 1520s, which witnessed both the Sack of Rome and the fall of the last Republic in Florence, were also unfavourable to any kind of sustained development of the market. In terms of content, the music books of the 1520s were rather miscellaneous collections, most of it rather old, to which were added a handful of more recent locally-produced work including a number of madrigals by Sebastiano Festa, some Petrarch settings by Carpentras, and a few pieces by Costanzo Festa. This stylistic variety may have been a deliberate commercial choice, designed to assemble a good selection of music with a wide appeal. What is absent from these publications, significantly enough, is the new madrigal of Verdelot and other Florentine composers. The one exception is provided by two detached leaves, most probably proofs for a volume that was never printed, now in the Biblioteca Comunale in Fossombrone, retrieved from bindings where they had been used as printers’ waste. Although they are untitled and undated, it is clear on typographical grounds that these fragments were printed by Petrucci, possibly in about 1522-3 if not later, after the Pisano volume. They contain four complete pieces, of which one is Verdelot’s setting of Petrarch’s ‘Non puo far morte ’l dolce viso amaro’, and as such it is the earliest source for

17 Fenlon and Haar: The Italian Madrigal in the Early Sixteenth Century, pp. 15-46 and the summary table on p. 17.

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Petrarch, Petrarchism and the Origins of the Italian Madrigal

any of the composer’s madrigals18. This is obviously of some importance. Even so there is not enough material, in terms of either quantity or stylistic uniformity, in this short sequence of books printed during the 1520s, to postulate a Roman group of early madrigalists. Nonetheless, given the size of the repertory, the number of Petrarch settings is notable, and is most probably a reflection of the literary tastes of the circles around Leo X, who is known to have been interested in music to the extent of employing musicians in his private household19. Prominent in this group was Pietro Bembo, resident in Rome from 1513 until1519 as a papal secretary, who was completing the Prose della volgar lingua for publication in precisely these years. It is surely suggestive that Petrarch’s poetry, the fundamental model for Bembo’s theories, should have been so substantially embraced by composers associated with Leo X, when those working elsewhere were showing little interest. The case of Pisano provides the most obvious example, but the trend is also reflected in the work of Sebastiano Festa whose most enduring piece, ‘O passi sparsi’, is a setting of Petrarch’s verse, and Carpentras, maestro di cappella of the Papal Chapel between 1514 and Leo’s death, three of whose four surviving vernacular compositions set words by the Trecento master. Yet while Bembo may have had some influence on composers working in Leo X’s Rome, and later on those working in Venice and the Veneto in the 1530s20, it must be doubted that he had any importance for the Florentine circles in which the early madrigal was shaped. If anything, the more important theorist there was Giangiorgio Trissino, whose ideas about vernacular poetry are known to have been discussed in the Rucellai circle that met in the Orti Oricellari. The argument that Bembo’s importance for the cultivation of Petrarchismo in the precise context of the circles in which the musical language of the early madrigal was forged, has now lost much of its credibility21, in large part because of its avoidance of

18 G. Ceccarelli and M. Spaccazocchi: Tre carte musicali a stampa inedite di Ottaviano Petrucci (Fossombrone, 1976); Fenlon and Haar: The Italian Madrigal in the Early Sixteenth Century, pp. 201-2. 19 H.-W. Frey: ‘Regesten zur päpstlichen Kapelle unter Leo X. und seiner Privatkapelle’, published in instalments in Die Musik forschung 8 (1955) and 9 (1956). See also A. Pirro: ‘Leo X and Music’, Musical Quarterly XXI (1935), pp. 1-16, A.-M. Bragard: ‘Les musiciens ultramontains des chapelles du pape Médicis Léon X (1513-1521)’, Bulletin de L’Institut Historique Belge de Rome 1 (1980), pp. 187-215, and B. J. Blackburn: ‘Music and Festivities at the Court of Leo X: A Venetian View’, Early Music History 11 (1992), pp. 1-37. For Leo’s musical interests as a cardinal see A. Cummings: ‘Tre ‘gigli’: Medici Musical Patronage in the Early Cinquecento’, Recercare XV (2003), pp. 39-72. 20 For the argument see D. T. Mace: ‘Pietro Bembo and the Literary Origins of the Italian Madrigal’, Musical Quarterly LV (1969), pp. 65-86.

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the music of Verdelot and Arcadelt in favour of that of Willaert, and the even later madrigals of Giaches de Wert. In other words, the case for the significance of Bembo’ theories has been convincingly made for the Venetian madrigal of the 1540s and afterwards22, but this has little to do with the question of the origins of the form and its initial Florentine-Roman ambience. The new music of the 1520s is to be found not in printed books which, in the few that have survived, continue to rely upon older, well-established repertory, but in manuscripts. Moreover, these were written, for the most part, not in Venice, nor in Rome, but in Florence. The geographical distinctions here are not so dramatic as first appears, since Rome and Florence should properly be regarded as twin poles of a powerful axis with important cultural consequences, though the direction was more frequently southwards, created by the election of two Medici popes, Leo X and Clement VII, along which music and musicians travelled in both directions. As has been convincingly argued, the general cultural effect of of Leo X’s election was to drain Florence of its resources; in comparison to Rome the city was provincial, old-fashioned, and relatively poor in economic terms, and Leo’s own interest was not in Florence in itself, but rather with it as an accessory of papal policy in Rome23. The phenomenon is illustrated by the careers of Bernardo Pisano and Philippe Verdelot. Pisano, who became maestro di cappella at Florence Cathedral shortly after the Medici restoration, evidently through the protection of Cardinal Giovanni de’ Medici, effectively migrated to Rome in 151424, and it was there that the contents of the Musica…sopra le canzone di petrarcha were probably composed and assembled for publication. Verdelot moved in the opposite direction, from Rome (where he probably spent a good deal of time in the second decade of the century), to Florence, where he had arrived by May of 152125. The continuing exchange of repertories and personnel between the two centres of Medici power is 21 J. Haar: ‘The Early Madrigal: A Re-Appraisal of Its Sources and Character’, in I. Fenlon (ed.): Music in Medieval and Early Modern Europe: Patronage, Sources and Texts (Cambridge, 1981), pp. 163-92, at pp. 175-77; G. Gerbino: ‘Florentine Petrarchismo and the Early Madrigal: Reflections on the Theory of Origins’, Journal of Medieval and Early Modern Studies 35 (2005), pp. 607-28, particularly pp. 608-12. 22 M. Feldman: City Culture and the Madrigal in Venice (Berkeley, 1995). 23 H. Butters: Governors and Government in Early Sixteenth-Century Florence 15021519 (Oxford, 1985), pp. 211-17. 24 D’Accone: ‘Bernardo Pisano: An Introduction’, pp. 122-3. 25 R. Sherr: ‘Verdelot in Florence, Coppini in Rome, and the Singer “La Fiore”’, Journal of the American Musicological Society XXXVII (1984), pp. 402-11.

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Petrarch, Petrarchism and the Origins of the Italian Madrigal

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reflected in Florentine manuscripts of the decade, which sometimes contain a strong Roman element. To speak of the general circulation of the early madrigal in this initial phase is to create a false impression. The historical reality was more to do with patterns of exchange, and as such was merely a continuation of fifteenth-century practices. The Rome-Florence connection was certainly important for the dissemination of the early repertory, as was the commercial network which linked members of the Strozzi family living in Florence, Rome, Venice, and Lyons26. This range of engagement, stretching in social terms from princes to merchants, is reflected in the character and appearance of the sources, which range from illuminated manuscripts, to more domestic books, and also includes the occasional and fortuitous survival of the single sheets of paper which transmitted new pieces from one place to another. A number of these manuscripts pre-date printed editions containing the same music, readings often vary considerably, and a sizeable number of pieces survive uniquely in manuscript. This is true for both the central and more peripheral sources, suggesting that the repertory itself is much larger than was traditionally thought, and that the destruction of manuscripts, like that of printed sources, has been considerable. Although none of these manuscripts are dated, a number of them can be given approximate dates on the basis of combinations of internal and external evidence. In short, circulation in manuscript was, for the early madrigal, the main method of dissemination; it remained of importance throughout the 1520s, and beyond. The implications of this are considerable, and affect not only the dating and textual criticism of individual pieces, but also the chronology of the major madrigalists and the development of the early history of the genre27. These early manuscript sources fall into three groups: one from the early 1520s, a second one dating from the middle of the decade, and a third made up of manuscripts compiled in the 1530s. With the exception of one set of manuscript partbooks now in the Biblioteca Marciana partbooks copied about 1520, which are thought to have come from the Veneto or possibly Venice itself, most of these sources can be shown to be Florentine. A number 26 R. Agee: ‘Ruberto Strozzi and the Early Madrigal’, Journal of the American Musicological Society XXXVI (1983), pp. 1-17; R. Agee: ‘Filippo Strozzi and the Early Madrigal’, Journal of the American Musicological Society XXXVIII (1985), pp. 227-37. 27 Fenlon and Haar: The Italian Madrigal in the Early Sixteenth Century, especially pp. 42-6.

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of them were written by Florentine scribes for one of whom there is a decent amount of biographical information, and in a few cases they can be securely linked to Florentine owners and readers28. Equally Florentine is the repertory that they contain. Pieces by Pisano and Layolle are found in the first group, the middle group is dominated by Verdelot, and the third group gives prominence to Arcadelt. Significantly, the music of Willaert and Rore, both of whom were composing madrigals in this period, does not appear in these manuscripts. It is substantially present, however, in a somewhat later source, a set of partbooks copied in North-East Italy, mostly probably in either Ferrara or Venice29. By this time manuscript transmission of the repertory had largely given way to print; the few manuscripts containing madrigals that survive from the second half of the sixteenth century are idiosyncratic compilations, copied in unusual, specialized, and untypical contexts30. In short, re-examination of the early manuscripts confirms the commonplace that, during this initial phase, Verdelot was the most important composer in the new style, and Florence the principal place where it was cultivated. It is noteworthy that none of these sources that are primarily devoted to madrigals also contain examples of the later frottola repertory, as might be expected if there were a genuine continuity between the two. Some of the earlier madrigal manuscripts contain a few villotte, the same pieces that found their way into editions printed in Rome in the 1520s and, as has recently been shown, Rome was occasionally the distribution point for frottole to other centres such as Florence31. Such exceptions apart, the appear-

28 For the arguments in detail see Fenlon and Haar: The Italian Madrigal in the Early Sixteeth Century. 29 Wolfenbüttel, Herzog August Bibliothek MS. Guelf. 293, dated to about the middle of the century in E. Vogel: Die Handschrift nabst Alteren Druckweken der MusikAbtheilung (Wolfenbüttel, 1890), pp. 58-60. For scattered remarks on this sources see M. S. Lewis: ‘Rore’s Setting of “Vergine Bella”’, Journal of Musicology 4 (1985-6),pp. 365-409, at pp. 366-67, 371-77, 381-91, and 401-3, and the same author’s ‘Twins, Cousins, and Heirs: Relationships among Editions of Music Printed in Sixteenth-Century Venice’, in J. Knowles (ed.): Critica Musica. Essays in Honor of Paul Brainard (Amsterdam, 1996), pp. 193-224, at p. 212. 30 As in the case of the two sets of Civitanova Marche partbooks, now divided between the Biblioteca Comunale in Civitanova, the Newberry Library in Chicago, and the Bibliothèque Nationale in Paris (the Paris books were identified by Philippe Canguilhem who is to publish an article about both sets). See Fenlon and Haar: The Italian Madrigal in the Early Sixteenth Century, p. 91 31 W. Prizer: ‘Wives and Courtesans: The Frottola in Florence’, in C. Reardon and S. Parisi (eds.): Music Observed. Studies in Memory of William C. Holmes (Warren,

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Petrarch, Petrarchism and the Origins of the Italian Madrigal

ance of pre-existent Italian forms is very scattered. If it is to be seriously argued that the first composers of the madrigal knew the frottola repertory well, and drew from it important elements of style, then it would be reasonable to expect to find mixed manuscripts containing frottole, Florentine ballate, and carnival songs alongside the new form. This does not happen to any appreciable extent; few of the manuscript sources of sound Florentine provenance contain any frottole at all. The reverse is also true. None of the main manuscript collections of the frottola, most of which are North Italian in origin, include Florentine music. What seems to have happened historiographically is that the urge to construct a separate, distinct, and self-reliant Italian tradition of polyphonic song stretching from the late fifteenth century into the early madrigal and beyond has tended to obscure the extent to which regional traditions were separate and self-contained. To put it rather baldly: the frottola was largely a North Italian courtly song form, composed by native composers such as Marchetto Cara and Ippolito Tromboncino, and principally cultivated in Ferrara, Mantua, Milan, and parts of the Veneto. On the other hand, with the exception of a few pieces by Costanzo Festa and others, the early madrigal is a largely the work of Philippe Verdelot and later Jacques Arcadelt, both of whom were French by birth and training, and Florentine by adoption. Otherwise, the music written in Florence to Italian texts falls into two distinctly local traditions: the canti carnascialeschi on the one hand, and the ballata as revived by Heinrich Isaac and his local followers on the other32. In other words, the pattern of the surviving sources confirms a distinction that is both geographically and culturally determined. It would be a gross overstatement to insist on a complete separation of textual and musical idioms between the madrigal and the frottola, to deny that poets and musicians assimilated and adapted details of language that appealed to them no matter where it came from. Similarly, it would be absurd to claim that the early madrigalists were not open to influences from the older repertory of French chanson which, as the corpus of international song par excellence, had enjoyed a considerable vogue in the city since the second half of the fifteenth century. Nonetheless, without being

Michigan, 2004), pp. 401-15, a discussion of Florence, Medicea-Laurenziana MS. Antinori 158, an anthology of 96 texts, mostly poesia per musica, of which 13 are frottole (9 of which are also known in musical settings, some in Florentine sources). Manuscripts of poesia per musica are comparatively rare. 32 F. D’Accone: ‘Alessandro Coppini and Bartolomeo degli Organi-Two Florentine Composers of the Renaissance’, Analecta musicologica IV (1967), pp. 54-63.

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inflexibly schematic, it is clear that while the frottola and madrigal overlapped in the 1520s, they did so chronologically rather than in terms of poetic or musical style. This is a basic dichotomy between North Italy on the one hand, and Florence on the other. The gentle Darwinian curve described by Einstein and Rubsamen, and endlessly repeated in the standard literature, is severely undermined both by the separate musical characters of the late frottola and early madrigal repertories respectively, and by the character and provenance of the surviving manuscripts that contain them. Pisano’s importance in the evolution of the early madrigal has also been much exaggerated, and is substantially based on the presence of a number of Petrarch settings in the Musica. That, as I have already suggested, is more to do with Leo X’s Rome than with Medicean Florence. And in practice, Pisano’s commitment to Petrarch’s poetry is more apparent than real, since the promise extended by the title, (Musica…sopra le canzone del Petrarcha), is not really honoured. Of the seventeen poems set in the book, seven are by Petrarch, four by Lorenzo Strozzi, (the brother of Filippo), and the rest are anonymous, while the Petrarch texts themselves are notably corrupt, throwing the precise nature of Bembo’s possible influence upon Pisano and other composers working in Rome into considerable doubt33. It may well be that Bembo was a successful advocate of Petrarch’s poetry as a body of texts to be set to music, but that he did not actually provide them himself. Rome was certainly a source of some of the poetry drawn on by Verdelot and the other early madrigalists during the 1520s; settings of verse by Luigi Cassola, Claudio Tolomei and a number of others appear in the earliest sources. But it is not a surprise to find that most of the identifiable verse is of local Florentine origin, being the work of Niccolò Machiavelli, Lodovico Martelli, and Lorenzo and Filippo Strozzi. Even so, it is essential to realize that most of the madrigal poetry set to music in this period is both anonymous and is of rather poor quality. Identifiable verse by known poets is comparatively rare. The truth of the matter is that most of the poetry set by the early madrigalists, even when cast in sonnet form, is not of a similar standard to its assumed Petrarchan model. Nor was it intended to be. This is not ‘high art’ but decent craftsmanship, designed to be easy on the ear, poesia per musica rather than

33 See M. G. Miggiani:’Bernardo Pisano tra musica e filologia’, in L. Zoppelli (ed.): Le origini del madrigale: Atti dell’ incontro di studio (Asolo, 23 maggio 1987) (Asolo, 1990), pp. 65-81, which shows that the texts set by Pisano do not follow the readings established by Bembo in the 1501 edition of his Rerum volgarium fragmenta.

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poesia in musica. As a quite distinct genre with a specific purpose, this type of verse did not generally find its way into print, nor did it circulate in manuscript; once it had been set to music it had fulfilled its purpose. That both music and words are often unattributed in the manuscript sources is indicative of the atmosphere and circumstances in which much of this essentially artisanal activity took place. Verdelot and others, (chiefly Corteccia in Florence, and Layolle, a fuoroscito in Lyons but with close contacts in Florence), wrote the first pieces in the new madrigal style. Its essential feature was that of fully-texted polyphony most usually for four, sometimes for five, and occasionally for six voices. Fully-texted implies fully vocal. Madrigals may, of course, have been sung by soloists with accompaniment; a few descriptions of such performances have survived, and the madrigals of both Verdelot and Arcadelt were published in versions for voice and lute, just one of the many possible combinations of voices and instruments, at an early point in their reception history34. But the more common model of performance was by an ensemble of singers alone, one to a part, all men in some cases, a women taking the canto part in others. That this was the norm is clear, not just from the character of the music itself, but by the fact that it survives almost exclusively, whether in print or manuscript, in fully-texted versions presented in part-book form. For Verdelot, who held prestigious official appointments at both the baptistery of S. Maria del Fiore, and at the cathedral itself in the years immediately before the last Republic, the composition of madrigals was in addition to his normal duties, and was presumably a convenient way of supplementing his income. The mechanisms of patronage are not fully understood, but it seems likely from such evidence as survives, that a patron, typically a member of the literate upper class, would be responsible for commissioning both the poetry and its musical setting, paying for them by the piece. Some of these were designed as intermedi to accompany the local performance of plays; in functional terms this is a continuation of an existing practice. Others were meant for private performance in groups, such as those which met in the Rucellai Gardens (better known as the Orti Oricellari), for literary (and sometimes political discussions), as well as social diversion.

34 See the relevant entries in H. M. Brown: Instrumental Music Printed before 1600: A Bibliography (Cambridge, MA, 1965) via appendix IV.

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It must be emphasized that there is little evidence that the madrigal of the 1520s is to any substantial extent the result of Medici interest. Only one of surviving musical chansonniers of the period, (the Cappella Giulia Chansonnier of circa.1493-94)35, can be shown to have been Medici property, and only one of the early madrigals sources is a candidate for Medici ownership, and even here the case is not strong; while references to Duke Alessandro de’ Medici and to Florence are scattered throughout the manuscript, andone complete page in the bass partbook is given over to a penwork elaboration of the old Medici rallying-cry ‘Palle W [Viva] Palle’, these can only be taken as indicative of Medici sympathies rather than secure provenance36. Recently a good deal of circumstantial evidence of varying degrees of proximity to the central focus has been assembled in an attempt to assert the importance of Medici patronage for the emergence of the early madrigal37, but this must ultimately fail in the absence of direct documentation and sources. It is not Pisano and the handful of other composers gathered in Leo X’s Rome who set the pace, but Verdelot, whose earliest settings are found in the manuscripts of the mid-1520s. In his case, there is no suggestion of a Medici connection beyond the circumstances of his initial appointment in Florence. On the contrary, such evidence that does exist places Verdelot in pro-Republican circles in Florence, and this is supported by the texts of a number of his motets which point to sympathies of that kind. In his dialogue I Marmi, Antonfrancesco Doni places the composer in the Orti Oricellari as one of the speakers, together with La Zinzera (a Florentine singer, and Plebei (a personification of the Florentine man-in-the-street). Early in their conversation, La Zinzera remarks that, a few evenings previously, she had sung in the Rucellai gardens, ‘where, among those learned men, there arose a great discussion about Petrarch’38. The gardens, which lay to the north-west of the Dominican monastery of Santa Maria Novella, and were later described by the Florentine historian Jacopo Nardi as ‘a general meeting-place and a refuge for people with intellectual interests, whether foreigners or Florentines’39, were closed in 1522 following the discovery of a

35 See A. Atlas: The Cappella Giulia Chansonnier (Rome, Biblioteca Apostolica Vaticana, C. G. XIII. 27), 2 vols. (New York, 1975). 36 See Fenlon and Haar: The Italian Madrigal in the Early Sixteenth Century, pp. 16972. 37 A. M. Cummings: The Maecenas and the Madrigalist. Patrons, Patronage, and the Origins of the Italian Madrigal (Philadelphia, 2004). 38 A. Doni: I Marmi (Venice, 1552), p. 37. 39 J. Nardi: Le storie della citta di Firenze sino all’anno 1531 (Florence, 1584), p. 283.

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conspiracy to assassinate Giulio de’ Medici which had apparently originated there. They were re-opened only after Machiavelli’s death and the expulsion of the Medici40. Doni’s dialogue implies that Verdelot was a visitor to the gardens, and whether or not this is true, there is no doubt that he knew Machiavelli, a prominent anti-Medicean. Among the composer’s madrigals are four canzoni written as intermedi for two of Machiavelli’s plays, La Clizia and La Mandragola, the first of which is known to have been given in the mid-1520s with music performed by Barbara Salutati, Machiavelli’s mistress from 1523 until his death in 1527. A well-known actress, famed for her beauty, she is shown in a portrait painted by Domenico Puligo which was seen by Giorgio Vasari who described it in the second edition of his Lives of the Artists. This painting shows her holding a music book, open to reveal both a motet (‘on the text;’Quam pulcra es’ from the Song of Songs) and a French chanson (‘J’ayme bien mon amy’), and two other books, one closed the other open to reveal the last four lines of sonnet 213 from Petrarch’s Canzoniere41: ‘Grazie ch’a poch’il ciel largo destina: Rara vertù, non già d’umana gente, Sotto biondi capei canuta menuta, Èn umil donna altà beltà divina.’

In this way, by combining an Old Testament quotation with a recent chanson text and a quotation from Petrarch, Puligo’s portrait commemorates both Barbara’s relationship to Machiavelli and her musical interests 42. Barbara was also the recipient of Machiavelli’s text ‘Amor, io sento l’alma’, written at her request, and also set to music by Verdelot43. All this places the composer in a very specific intellectual and social context, and a similar atmosphere surrounds the most elaborate of all early madrigal manuscripts; copied in Florence and illuminated in the shop of Giovanni Boccardi, this is a major source of Verdelot’s music, known to have been prepared during the 40

R. Ridolfi: The Life of Niccolo Machiavelli (Chicago, 1963), pp. 202-4. H. C. Slim: ‘A Motet for Machiavelli’s Mistress and a Chanson for a Courtesan’, in S. Bertelli and G. Ramakus (eds.): Essays Presented to Myron P. Gilmore, 2 vols. (Florence, 1978), II, pp. 457-72 42 For the most recent account of the painting (now at Firle Place, Sussex), see E. Capretti and S. Padovani (eds.): Domenico Puligo (1492-1527): Un protaganista dimenticato della pittura fiorentina (Livorno, 2002), pp. 122-3. 43 H. C. Slim: A Gift of Madrigals and Motets, 2 vols. (Chicago and London, 1972), I, pp. 92ff. 41

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last Republic, possibly as a diplomatic gift for Henry VIII of England in an attempt to enlist his support for the Florentine cause44. In short, the social conditions in which Verdelot’s madrigals of the 1520s prospered does not seem to have been the direct result of Medici interest, but if anything was stimulated by the cultural tastes of other prominent Florentine families, some of whom adopted a distinctly anti-Medicean posture. Their poetic taste, in the critical years before the expulsion of the Medici, the years in which the new madrigal style was forged, was not for the poetry of Petrarch, even less for that of Bembo, who was largely regarded with suspicion in Florence, but for the work of local writers of modest talents, many of whom remain anonymous. There were no doubt exceptions, as with the celebrated case of Michelangelo whose poetry was set to music by Arcadelt45 (he also set verses by Petrarch, Bembo, Sannazaro, and the Florentines Benedetto Varchi, Filippo Strozzi, and Lorenzino de’ Medici), but this was not the norm. Historiographically speaking, musicologists have been misled into the quest for fine verse as the motor of stylistic change. Workaday poetry, not the ‘high art’ of the petrachisti, is the stuff of which the early Italian madrigal is made.

44 Slim: A Gift of Madrigals and Motets, the second volume of which is an edition of the music. See also H. C. Slim: Ten Altus Parts at Oscott College, Sutton Coldfield (n.p., n.d. [1978]), which supplies the altus parts for ten pieces unique to the source, missing at the time that the edition was published 45 H.-W. Frey: ‘Michelangiolo und die Komponisten seiner Madrigale’, Acta Musicologica XXIV (1952), pp. 147-97

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LAURA BIANCA, BÁRBORA NERA. LE LETTURE DI CAMÕES COME RICONVERSIONE AL CANONE

“Parece impossível que sujeito tão escuro inspirasse tão linda poesia. Chateaubriand traduziu para francês estes versos” Visconde de Juromenha. (“Sembra impossibile che un soggetto talmente scuro avesse ispirato una poesia talmente bella. Chateaubriand tradusse in francese questi versi”)

Fu questo il breve commentario del Visconte di Juromenha alle strofe che Camões dedicò, come si legge nel loro incipit, “a uma escrava com quem andava d’amores na Índia, chamada Bárbora”, “a una schiava con chi andava d’amori in India, chiamata Bárbora” 1, nella celebre edizione che il critico camoniano pubblicò tra il 1860 e il 1869 2. Tanto sintetico quanto sottile e inquietante.

1 La composizione fu pubblicata nelle due prime edizioni della lirica di Camões, del 1595 e del 1598, ed è trascritta nel Cancioneiro de Cristóvão Borges, sebbene senza segnalazione sulla sua paternità. La metrica è la redondilha, con versi di cinque sillabe che si contano fino all’ultima tonica, a seconda del sistema dominante nella poesia portoghese del secondo Quattrocento e dell’inizio del Cinquecento, che continuò a essere ampiamente coltivato anche dopo l’introduzione dei modelli italiani. La cito da, Rimas, texto estabelecido e prefaciado por Álvaro J. da Costa Pimpão, apresentação de Aníbal Pinto de Castro, Coimbra, Almedina, 1994, pp. 89-90. Conformemente al testo di questa edizione, mantengo la dissimilazione di “Bárbara” in “Bárbora”. 2 Obras de Luís de Camões, Precedidas de um ensaio biográfico no qual se relatam alguns factos não conhecidos da sua vida, aumentadas com algumas composições inéditas do

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Camões seguì da vicino quel modello petrarchista dotato di una portata e estetica e antropologica che prescrive l’esaltazione di una figura femminile la cui bellezza fisica corrisponde alla sua perfezione spirituale, e che descrisse rigorosamente a partire dalle consacrate serie di topoi codificati. Comunque, l’universo lirico del poeta portoghese è caratterizzato dalla tensione con cui si proiettano, sulle sue pagine, le ombre di un’epoca che cammina verso il tramonto, tradotte in quell’intensificazione, tipicamente manierista, del sentimento del dissidio3. Se già in Petrarca la presenza di Laura si affermava come un’eterna assenza, perché simbolo dell’impossibilità di una esperienza gratificante, gli effetti della frammentazione intima, nella lirica di Camões, risultano ingranditi, in virtù della profondità dei clivaggi che si approntano nell’intimità dell’amante. Amore diventa un’esperienza tormentata. In questo contesto, le strofe che Camões dedica alla “Bárbora escrava” occupano una posizione molto particolare, e non soltanto nell’ambito dell’opera stessa del poeta, ma anche nel quadro delle letterature europee dell’epoca4, ciò che sollevò, da un momento pristino e lungo i tempi, delicati problemi interpretativi. Le valenze del petrarchismo-autostrada, a seconda della

poeta pelo Visconde de Juromenha, vol. 4, Lisboa, Imprensa Nacional, 1863, p. 464. Nel 1924 la Imprensa Nacional pubblicò ancora un frammento di un settimo volume. João António de Lemos Pereira de Lacerda (Lisbona, 1807-1887), secondo Visconte di Juromenha, fervoroso ammiratore e studioso dell’opera di Camões, fu membro della commissione che il re Fernando II, nel 1835 e, di nuovo, di fronte all’inconcludenza delle ricerche, nel 1854, incaricò di identificare l’ossame di Camões nella chiesa del convento di Santa Ana, considerevolmente distrutta dal terremoto del 1755 (il rapporto della commissione si può leggere apud Teófilo Braga, História de Camões. Parte 1. Vida de Luís de Camões, Porto, Imprensa Portuguesa, 1873, pp. 431-41). Nella sua edizione, il Juromenha inserì una vastissima mole di materiali, tra cui importanti documenti di archivio sulla biografia di Luís Vaz de Camões, che riscattò dall’oblio ma che non fu in grado di esaminare con l’adeguata metodologia critica, benché un ingente numero di composizioni, che raccolse nelle più svariate fonti, accomunando testi sicuramente dell’autore con altri di dubbia attribuzione e con apocrifi. Include nelle sue pagine l’anonima traduzione cinquecentesca dei Triumphi di Petrarca, accompagnata da un commento, che si ferma al verso 33 del terzo capitolo del Triumphus famæ (vol. 5, 1864), aleatoriamente ascritta a Camões. L’impianto di simili prospettive domina vasti settori della critica camoniana fino a un momento che va avanti nel tempo. 3 Tema che svolsi in O petrarquismo português do Renascimento e do Maneirismo, Coimbra, Acta Universitatis, 1997, cap. 4. 4 Mi è capitato di scrivere di tutto questo in Camões, Laura e a Bárbora escrava [1997], Estudos de literatura portuguesa, Viseu, Universidade Católica, 1999, pp. 75102; e O sol como lume dos olhos. Shakespeare e António Ferreira, in Actas do I Congresso Internacional de Estudos Anglo-Portugueses, Lisboa, Centro de Estudos Anglo-Portugueses, Faculdade de Ciências Sociais e Humanas, 2003, pp. 689-703 .

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Laura Bianca, Bárbora nera. Le letture di Camões come riconversione al canone

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fortunata formulazione di Amedeo Quondam5, trovano riscontro, a contrario, nelle loro letture. Infatti, Camões sovverte non soltanto un canone letterario dominante, di incidenza transsecolare, ma anche strutture culturali profondamente sedimentate. Nel poema di Bárbora, è esplicitamente contestata la superiorità della donna petrarchista: Pretos os cabelos, onde o povo vão perde opinião que os louros são belos. Pretidão de Amor, tão doce a figura, que a neve lhe jura que trocara a cor.

Neri i capelli dove il popol vano sbaglia opinione che i biondi son belli. Nerezza d’Amore, così dolce figura, che la neve le giura cambiare colore.

Il fatto di che Camões riconosca il canone petrarchista poiché punto di riferimento conferirà un significato molto particolare al suo distacco. Ma questo atteggiamento è indissociabile dalla deroga di una gerarchia di valori di ordine storico, sociale e antropologico che svolgeva una funzione strutturante. Al discorso sul discorso del petrarchismo cinquecentesco, si sovrappone il discorso con il discorso e un nuovo rapporto di alterità. Camões prende le distanze dal presupposto secondo il quale il colore, la condizione di classe e il genere relegano la schiava a una posizione marginale o subalterna. La bellezza di Bárbora è superiore a quella di una Laura. Inoltre, l’ideale di una alleanza tra perfezione fisica e perfezione spirituale, per via neoplatonica, offre al poeta l’armonia di una esperienza amorosa alla quale Petrarca tanto aspirò, senza che mai l’avesse potuta raggiungere. Al tempo stesso, si disfà la barriera tra schiava e padrone: Presença serena que a tormenta amansa; nela enfim descansa toda a minha pena. Esta é a cativa que me tem cativo, e, pois nella vivo, é força que viva.

Presenza serena la tormenta calma; in lei si riposa tutta la mia pena. Questa è la cattiva che mi tien cattivo, e, poiché in lei vivo, è forza che viva

5 Evoco i saggi riuniti da Amedeo Quondam, Il naso di Laura. Lingua e poesia lirica nella tradizione del Classicismo, Modena, Ferrara, Panini, Istituto di Studi Rinascimentali, 1991.

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Rita Marnoto

La rappresentazione di questo ideale di bellezza e di felicità attraverso la sovversione di un canone letterario istituito, partendo da un’apertura alla differenza e alla diversità che supera frontiere di colore, di genere e di condizione sociale, fu considerata dai lettori di Camões una contraddizione estremamente imbarazzante, come lo mostra, in breve, il commentario di Juromenha inizialmente citato. Talmente imbarazzante che, lungo i secoli, le grandi questioni interpretative sollevate dalle strofe dedicate “a uma escrava com quem andava d’amores na Índia” condussero a insistenti tentativi di rinventare Bárbora. È il significato di queste letture che mi propongo di analizzare. Il primo critico che conferì particolare rilievo alla schiava di Camões fu Manuel de Faria e Sousa, nel commento alle Rimas várias pubblicato postumo tra il 1685 e il 1689 6. A proposito del verso della decima canzone, “A piedade humana me faltava”, lo studioso osserva che Camões si dibatteva con tante privazioni di ordine economico che dovette chiedere l’elemosina. Non la ricevette dalla gente benestante, ma da persone umili, quattro soldi, due soldi, e anche uno o, addirittura, “il piatto del disgustoso cibo che si va a vendere alle porte dei miserabili a Lisbona” 7. È allora che irrompe Bárbora, di persona, una mulatta che dava al poeta un piatto col cibo che vendeva e qualche moneta. La carica simbolica che attribuisce alla sua figura funge, al tempo stesso, da sprone politico, quando fa un gioco di parole con il suo nome: “O Barbara politica, che insegnavi a diventare politiche quelle barbarissime Deità Portoghesi!” 8.

6 Manuel de Faria e Sousa (Pombeiro, 1590-Madrid, 1649), che scrisse anche un commento a Os Lusíadas di Camões, edito nel 1659, si annovera, ancor oggi, tra i più eruditi lettori della sua opera. Autore poligrafo, visse tra il Portogallo e la Spagna e fece un soggiorno a Roma come diplomatico, sempre coinvolto nelle conturbate polemiche dottrinali e politiche dell’epoca. Il suo ardore camoniano gli ispirò fantasiose congetture sulla biografia del poeta (mi poeta, era come Faria e Sousa designava Camões), strettamente intrecciate con le prospettive ideologiche che diffendeva, e, inoltre, lo indusse a attribuirgli numerose composizioni che non sono sicuramente di sua autoria e a introdurre modifiche nei testi. 7 “Fue tanto assi esto, que llegó a pedir limosna, y a no hallarla, a lo menos en los Portugueses grandes, que estos son los grandes Portugueses. Vióse reduzido un Hombre que solo fue mayor que todos ellos juntos, a acetar de personas comunes los quatro reales, y los dós, y aun el real para no morirse de hambre. Que digo el real de personas comunes? Acetava el plato de asqueroso mantenimiento que se anda a vender por las puertas de los miserables en Lisboa”, Rimas várias de Luís de Camões, comentadas por Manuel de Faria e Sousa, segunda parte, to. 3, Lisboa, Imprensa Nacional, Casa da Moeda, 1972 [ristampa anastatica dell’edizione princeps], p. 90. 8 “O Barbara politica, que enseñavas a ser politicas aquellas barbarissimas Deidades Portuguesas!”, ibid.

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Laura Bianca, Bárbora nera. Le letture di Camões come riconversione al canone

A sua volta, nel commento alla decima ode, “Aquele moço fero”, Bárbora diventa ancora motivo di riflessione. Secondo Faria e Sousa, la composizione fu scritta quando Camões, in India, si innamorò da una sua schiava, “e non soltanto schiava, ma addirittura nera, che, infine, era di carne il mio poeta”9. Il critico secentista la identifica con il destinatario delle strofe, precisando che non viaggiò mai fino a Lisbona. È con entusiasmo che difende due cause, la sua nerezza e la dignità di una tradizione che loda la bellezza di donne che non sono affatto bionde. Per giustificare che, effettivamente, “era nera come la notte”, osserva che Camões “si dimentica, accuratissimo, di parlare di colori, e si trattiene sulla forma e sulla leggiadria del corpo, dando a intendere, tacitamente, che il fatto di che la sua schiava fosse nera non escludeva che fosse bella”10. Quando poi elabora un elenco di testi e autori dove vengono sviluppati temi di questo stampo, fa diventare Andromeda e la regina di Saba illustrissime nere. Spinto dal desiderio di comprendere e giustificare l’amore di su poeta, approda alla relativizzazione del concetto di bellezza, considerando che, se “tra i neri il più apprezzato per la sua bellezza è il più nero, […], tra i bianchi lo è la donna più bianca”11. Per questo insieme di ragioni, Camões scappa dalla condanna morale di Faria e Sousa. Ma solo in parte: “e così non può essere incolpato per questi amori, se non che dal fatto che fossero con una sua schiava”12. Invano cercheremo una logica conseguente nelle lunghe considerazioni di Faria e Sousa. Una schiava o due dallo stesso nome? In India o a Lisbona? Nera o mulatta? Amante o cuoca solidaria? Se la pluralità di punti di vista affascina l’uomo del Barocco, una tale esuberanza viene messa in rilievo, in questo caso, dalla vera devozione che il critico dedicava a su poeta. E, comunque, il suo commento alle strofe della “Bárbora escrava” non fu mai editato13. Non ostante, Faria e Sousa incise, di modo indelebile, sulle letture che i secoli successivi ne fecero.

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“[…] Y no solo esclava, mas aun negra: que, alfin, era de carne mi Poeta”, ivi, p. 179. “[…] Se olvida cuydadosissimo de hablar en colores, y vase á asir de la forma, y del ayre deste cuerpo y tacitamente dá á entender que el ser negra su esclava no la excluía de hermosa”, ivi, p. 183. 11 “[…] Se entre los negros es más preciado de hermoso el que es más negro, […] entre los blancos la muger más blanca”, ivi, p. 184. 12 “[…] Y assi no puede ser culpado en estos amores màs de en quanto eran con esclava suya”, ibid. Nel commento a altre composizioni, come, ad esempio, il sonetto, “Em prisões baixas fui um tempo atado” (ivi, primeira parte, to. 1, p. 15), Faria e Sousa torna al problema morale, con riferimento al castigo che il poeta dovette subire per avere amato una schiava. 13 Il commento si ripartiva in otto tomi, che erano già pronti nel 1646. Faria e Sousa morì tre anni più tardi, e soltanto i primi cinque furono editati, postumi. Parte delle ecloghe, le redondilhas, il teatro e i testi in prosa rimasero dunque inediti. 10

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È mia convinzione che il discorso che la civiltà del post-Illuminismo dedicò alle strofe di Camões è profondamente marcato dal processo di rappresentazione dell’altro che Homi Bhabha designò come mimicry, attraverso il quale “the presentation of a difference […] is itself a process of disavowal”14. Si tratta, dunque, di un discorso doppio e ambiguo, che ammette la differenza, operando al tempo stesso distinzioni che coinvolgono uno slittamento. Da una parte, Bárbora viene appropriata, per modo di dire, attraverso la sua integrazione in un sistema che disciplina potere e conoscenza. Dall’altra, è differenziata in virtù del suo colore, del suo genere e del suo statuto sociale, segni di che in lei risiede qualcosa di non appropriato, “as a subject of a difference that is almost the same, but not quite”15. Per cui la visibilità di Bárbora sorge in uno spazio di interdizione, diventando al tempo stesso incompleta e virtuale, somiglianza e minaccia. Il contrappunto tra fattivo e fittizio risulta palese, peraltro, nel compromesso ambivalente e ironico che si crea tra il rinvio a fatti storici e la ripetizione e la riarticolazione dei luoghi topici della mitobiografia di Camões. Questo discorso si organizza intorno a due fondamentali linee interpretative. La prima normalizza Bárbora giacché elemento del mondo di lavoro. Evita riferimenti espliciti a un incanto amoroso che l’abbia legata al poeta, prendendo spunto, in questo senso, dal commento di Faria e Sousa alla decima canzone. La bella donna nera che ispirò a Camões il poema della felicità amorosa continua a sembrare non appropriata, in modo tale che viene evitata la focalizzazione delle contraddizioni implicate dalla sua bellezza e dalla felicità che offre all’amante. Come donna, Bárbora è confinata allo spazio che la società dell’Ottocento assegnava al femminile, quello del lavoro domestico. E ecco la Bárbora che fa la cuoca. Wilhelm Storck, che sostiene che era una mulatta ma battezzata con nome di Luísa Bárbara, racconta che lei era governante in India e una cuoca dotata da eccellenti pregi16. A seconda della biografia di Camões che scrisse,

14 Homi Bhabha, Of Mimicry and Man. The Ambivalence of Colonial Discourse [1984], in Tensions of Empire. Colonial Cultures in a Bourgeois World, edited by Frederick Cooper / Ann Laura Stoler, Berkeley / Los Angeles / London, University of California Press, 1997, p. 153. 15 Ibid. 16 Il nome di Luísa Bárbara le era stato assegnato da Juromenha, a partire da qualche composizione satirica dei tempi di Camões che canzonava l’amore di un nero per una nera, con un gioco di parole con il femminile del suo nome, tra Luís e Luísa (Obras, vol. 1, 1860, pp. 156-57 e 506). Wilhelm Storck (1829-1905) fu uno dei primi specialisti di letteratura

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quando il poeta invitò i suoi amici a cena e li offrì il suo famoso poema, Convite, come cibo17, fu Bárbora a preparare, per loro, il vero pasto che poi assaporarono. I motteggi dei convitati sono finiti, continua Storck, con la sua entrata in sala, “a servire il primo piatto dell’allegre cena e a riempire di buon vino portoghese i bicchieri dei commensali”18. Talmente forte fu l’empatia che la scena destò nell’illustre traduttrice di Storck in portoghese, Carolina Michaëlis de Vasconcelos, che la studiosa aggiunse una nota a piedi di pagina, nella quale fa un appello alla complicità del lettore, per poi tematizzare quello stesso eccesso che caratterizza la mimicry19: Il lettore dirà se eccedo, aggiungendo ancora un particolare, da ampliare il quadro che Storck descrisse. Alla fine della cena, gli amici allegri festeggiarono l’arte culinaria di Luísa Bárbara, che si schivò, modesta, alle laude degli invitati… Ma il Poeta e Anfitrione, levando il calice, fece un brindisi, proruppe in evviva a Luísa Bárbara, i cui occhi quieti e la cui presenza avevano conquistato il suo cuore, e presentandola agli amici, cantò in un accesso di impeto giovanile: Esta é a cativa, que me tem cativo, e pois nela vivo, é força que viva!

L’allusione al senso cosmico di amore in quanto forza vitale, presente negli ultimi versi delle strofe di Camões, diventa esaltazione interiettiva, con portoghese delle università tedesche, che insegnò all’Università di Münster dal 1868, e intraprese lunghe ricerche su Camões e la sua biografia. Tradusse e commentò tutta la sua opera, un lavoro in sei volumi (Luis’ de Camoens Sämmtliche, Paderborn, Ferdinand Schöningh, 1880-1885), e stese, inoltre, la biografia alla quale si fa riferimento di seguito. 17 Si tratta di un invito a una cena dove non c’è propriamente da mangiare, ma vengono consegnati agli ospiti brani di un poema concepito dal contrappunto tra il lavoro letterario e l’assenza di pietanze. Si trova alle pp. 95-97 dell’edizione delle Rimas utilizzata. 18 “[…] A servir o primeiro prato da alegre ceia e a encher de bom vinho português os copos dos comensais”, Wilhelm Storck, Vida e obras de Luís de Camões. Primeira parte, versão do original alemão anotada por Carolina Michaëlis de Vasconcelos, Lisboa, Academia Real das Ciências, 1897, pp. 618-19 (Luis’ de Camoens Leben. Nebst Geschichtlicher Einleitung, Paderborn, Ferdinand Schöningh, 1890). Benché non ammetta che Camões si sia lasciato influenzare dalla dissoluzione della vita orientale (ivi, pp. 500-1), Storck interpreta il sonetto, “Em prisões baixas fui um tempo atado”, nella linea di Faria e Sousa, in quanto atto di pentimento in virtù dell’“afeição sensual, sem elevação nem carácter, que o enleara” (ivi, p. 623). 19 “O leitor dirá, se me excedo, acrescentando mais um pormenor, ampliando o quadro traçado por Storck: No fim do jantar, os amigos alegres festejaram a arte culinária de Luísa

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il correlato cambiamento della fisionomia del testo in tale guisa che “viva”, da forma verbale, passa a interiezione. Bárbora è integrata per metonimia. Lavora con interesse e onore, e viene chiamata alla sala, nonostante Carolina suggerisca che il cuore di Camões non le sia indifferente. Si sviluppa dunque una crisi, che riguarda la precedenza culturale concessa al metaforico e che richiede, a seconda di Homi Bhabha, la riarticolazione dell’asse della metonimia. La differenza non è repressa, ma trattata in funzione della metonimia, in modo da creare un effetto di identità fantasioso e elusivo20. Il desiderio di integrare Bárbora passa anche dalla rappresentazione del suo rapporto con Camões nel contesto di una situazione gerarchica subalterna, in virtù della quale la sua alterità viene ammessa, ma nel quadro di un ideale di carità filantropica. Nella prima biografia di Camões, pubblicata nelle pagine iniziali dell’edizione di Os Lusíadas del 1613, Pedro Mariz racconta che il poeta tornò dall’India talmente impoverito che il suo schiavo giavanese gli chiedeva due monete per comperare del carbone e lui non le aveva21. Ne nasce la leggenda dello schiavo che chiede l’elemosina dalle vie di Lisbona per saziare la fame del suo padrone. La Bárbora che mitiga la penuria di Camões, nell’ultima fase della sua vita, si può interpretare in quanto corrispondente femminile dello schiavo giavanese. António Feliciano de Castilho, nel dramma Camões, le attribuisce “mãos largas”, “mani bucate”, e una sensibilità raffinatissima22:

Bárbara, que se esquivou, modesta, aos louvores dos convidados… Mas o Poeta e Anfitrião, erguendo o cálix, levantou, brindando, vivas à Luísa Bárbara, cujos olhos sossegados e cuja presença tinham cativado o seu coração, e apresentando-a aos amigos, cantou em um acesso de ímpeto juvenil […]”, ivi, p. 619. Carolina Michaëlis de Vasconcelos (Berlino, 1851-Oporto, 1925) studiò in Germania (dove non si concepiva l’accesso di donne agli studi superiori) lingue classiche, romaniche, semitiche e slave. Stabilì contatti epistolari con famosi romanisti e con spiccate personalità del suo tempo, tra cui il portoghese Joaquim de Vasconcelos, storico e critico di arte, con chi si sposò. Fu la prima donna a insegnare nell’Università di Coimbra, dove assume l’incarico di professore nel 1911. Fece numerose edizioni critiche di testi e di autori portoghesi, in particolare del Medioevo e del Cinquecento, e intraprese vari lavori di critica camoniana, fungendo da tramite tra i ricercatori portoghesi e la scuola tedesca, come lo illustra la storia della letteratura portoghese che scrisse in collaborazione con Teófilo Braga, edita nel Grundriss der Romanischen Philologie da Gustav Gröber. 20 Homi Bhabha, Of Mimicry and Man. The Ambivalence of Colonial Discourse, p. 157. 21 Lisboa, Pedro Crasbeeck, p. s. n. Il brano dell’edizione che contiene la biografia fu riprodotto anastaticamente, Lisboa, Imprensa Nacional, 1980. 22 “[Camões] Quantos dias, se não fora a sua caridade, não houvéramos passado sem comer, António! E mais, coitada, é uma pobre de Cristo. Sempre assim foi: mãos largas, mãos largas, e delicadeza para acudir, sem envergonhar os pobres. De noite, apregoa marisco

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[Camões] Quanti giorni, non fosse stata la sua carità, non avremmo passato senza mangiare, António! E di più, disgraziata, è un povero cristo. Sempre così: mani bucate, mani bucate, e delicatezza per accorrere, senza vergognare i poveri. La notte, grida frutti di mare per quelle vie; il mattino, vende mazzolini di fiori, ora alla tettoia di S. Domenico, ora, e il più delle volte, dove la trovammo noi quando sbarcammo nel Terreiro do Paço, accanto alla Casa dos Contos. È perché lì — me lo ha detto lei stessa — si vede il mare e le caravelle che vengono e che vanno, che tutto le fa tanta “saudade”. Povera Bárbara!

La “povera” mulatta è talmente delicata che sceglie i posti dove compie i suoi affari in funzione degli affetti. Non è soltanto cibo che dà a Camões. Anche il mazzolino, i cui fiori lo accompagneranno fino alla tomba, gli fu da lei offerto. Comunque, Bárbora non riesce a essere ammessa in quanto effettivo personaggio del dramma. Esiste perché i personaggi parlano su di lei, ma non arriva ad avere una voce. Consegna i doni, si informa sullo stato di salute del poeta e parte, senza che mai possa soddisfare il suo desiderio di vederlo. È una metonimia drammatica, un oggetto di discorso che mai prende corpo sulla ribalta — un desiderio interdittorio che corrisponde agli obiettivi strategici che Bhabha designa come metonimia di presenza23. A coronare il percorso di immagini legato alla nutrizione, si ricordi, infine, Costa e Silva. Con il reputato critico, dal piatto di cibo e dal grido di frutti di mare si passa alla vendita di mexilhão, le popolari cozze24, una consuetu-

por essas ruas; de manhã, vende ramilhetes, um’ora no alpendre de S. Domingos, outr’ora e as mais das vezes onde nós a achámos em desembarcando: no Terreiro do Paço, ao pé da Casa dos Contos. É porque de ali — me disse ela — se vê o mar, e as caravelas que vêm e vão, que tudo lhe faz muita saudade. Pobre Bárbara!”, António Feliciano de Castilho, Camões. Estudo histórico-poético liberramente fundado sobre um drama francês dos Snrs. Victor Perrot e Armand Dumesnil, vol. 1, Lisboa, Empresa da História de Portugal, 1906, p. 184 [1ª ed., 1849; 2ª ed., 1864]. António Feliciano de Castilho (Lisbona, 1800-1875), scrittore, traduttore, pedagogo e critico letterario, fu un personaggio molto influente della cultura portoghese dell’Ottocento, che si annovera tra i primi romantici. Tuttavia, negli anni sessanta fu eletto a bersaglio dalla reazione contro un accademismo esaurito, intrapresa da una generazione più giovane, in particolare da Antero de Quental e da Teófilo Braga, la cosiddetta “Questão coimbrã”. Cieco dall’età di sei anni, la sua poesia è sostenuta da una base melodica ma i suoi temi non superano lo stereotipo. 23 Homi Bhabha, Of Mimicry and Man. The Ambivalence of Colonial Discourse, p. 156. 24 José Maria da Costa e Silva, Ensaio biográfico-crítico sobre os melhores poetas portugueses, vol. 3, Lisboa, Imprensa Silviana, 1851, p. 211. Critico letterario, traduttore e scrittore che accompagnò, lungo il suo percorso intellettuale, tutta l’evoluzione dall’Arcadia al Romanticismo, Costa e Silva (Lisbona, 1788-1854) pubblicò, tra il 1850 e il 1855, una sintesi panoramica della letteratura portoghese, in dieci volumi, che ebbe grande diffusione, appunto, l’Ensaio biográfico-crítico sobre os melhores poetas portugueses.

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dine abbastanza diffusa nella Lisbona ottocentesca. Compiacente, Costa e Silva non esita affermare che “la bellezza è di tutti i colori”25, ma senza credere che Camões mai “fosse pazzo d’amore per la gentile negretta”, forte dei suoi argomenti26:

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[ricordo] la risposta data dalla governante del Dottore Swift a una Lady che la felicitava per essere amata da un uomo di tanto ingegno, e che tanto la celebrava nei suoi versi. “Ah, Signora, lo dite perché non sapete che il Decano è in grado di dire delle finezze più tenere e delle cose più galanti, in verso, alla scopa con la quale io spazzo la casa!”

Il secondo modo di rappresentazione, che dà per scontata l’esistenza di un rapporto amoroso tra Camões e Bárbora, accompagna quell’altra linea interpretativa del commento di Faria e Sousa che riguarda la sua lettura interpretativa della decima ode. Si trova strettamente collegato con quella parte della mitobiografia camoniana che ne fà un amante inveterato, il chiamato Trinca-fortes (piazzaiolo) che si coinvolse in zuffe e che conviveva con gente che non era della sua schiatta. La “vita” del Visconte di Juromenha mostra bene l’ampio successo che quest’immagine godette nell’Ottocento 27. L’armonia tra passione e amore spirituale, come è presentata nelle strofe, viene sottoposta a uno slittamento. Di conseguenza, la valorizzazione metonimica del primo dei due piani sbocca sulla rappresentazione di un’esperienza erotica. L’emersione di questo aspetto non era facilmente accettata, da un punto di vista morale. Quindi, ne consegue un’ansia giustificativa, tra colpevolizzazione, perdono e complicità, tradotta dalla stravaganza dei vari tentativi di disciplinare una Bárbora nera, schiava e amante, attraverso le scaltrezze del desiderio. Xavier da Cunha esprime chiaramente la minaccia contenuta da un’apparente somiglianza28:

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“[…] A beleza é de todas as cores”, ibid. “[lembro-me] da resposta dada pela Ama do Doutor Swift a uma Lady, que lhe dava os parabéns de ser amada por homem de tanto engenho, e que tanto a celebrava nos seus versos. ‘Ah, Senhora, dizéis isso, porque não sabéis que o Deão é capaz de dizer ainda finezas mais ternas, e cousas mais galantes em verso, à vasoura, com que eu varro a casa!”, ibid. 27 Vida de Luís de Camões, in Obras de Luís de Camões, vol. 1, p. 156 e passim. 28 “Amor… amor… aquilo que em linguagem de povos civilizados se entende por ‘amor’, não creio e não crê ninguém que seja sentimento atribuível a indivíduos que nascem, vivem, e se conservam numa situação de selvagens boçais; e nessas circunstâncias de animalidade está invariavelmente o preto de África.”, Xavier da Cunha, Pretidão de 26

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Amore… amore… ciò che nel linguaggio dei popoli civilizzati si intende per “amore”, non credo e nessuno crede sia sentimento che si possa attribuire a individui che nascono, vivono, e si conservano in una situazione di selvaggi rozzi, e in queste circostanze di animalità si trova sicuramente il nero di Africa.

Siamo debitori all’erudizione di Xavier da Cunha di uno dei più determinati e monumentali tentativi di fornire una versione autorizzata dell’alterità di Bárbora. Si tratta di un volume di 851 pagine, di grande eleganza plastica e tipografica29. Se Juromenha si era già confrontato con la bellezza della composizione, riconosciuta da quel Chateaubriand che la tradusse in francese, Xavier da Cunha raduna più di cento traduzioni del suo testo. Affin di risolvere una contraddizione talmente imbarazzante, il critico difende la tesi secondo la quale Bárbora non era nera, ma bruna, mora, bronzata, mulatta al massimo dei massimi30: “Neri i capelli”! – fate attenzione. Mai nessuno ha mai detto tale degli ingarbugliati capelli crespi di una africana! E sarebbe dunque lecito ammettere che un ammiratore del biondo, come Camões pregiava confessarsi a ogni momento, mettesse in rilievo, già, di fronte all’‘aureo crin’ del suo costante amore, l’orrido ciuffo di una orridissima etiope?

Inoltre, Bárbora mai potrebbe essere stata la schiava di Camões, giacché il poeta non possedeva le risorse economiche necessarie per comperarne una. Anzi, sarebbe la schiava del governatore Francisco Barreto. In questo modo,

amor. Endechas de Camões a Bárbara escrava seguidas da respectiva tradução em várias línguas e antecedidas de um preâmbulo, Lisboa, Imprensa Nacional, 1893, p. 156. Bibliofilo, critico letterario e traduttore, Xavier da Cunha (1840-1920) dedicò a Camões, oltre questo volume, altri scritti minori, curò un’edizione dei suoi Sonetos, Lisboa, Delta, 1921, e stese le prefazioni di Líricas com traduções francesas e castelhanas de José Bénoliel, Lisboa, Imprensa Nacional, 1898, e di O Gigante Adamastor com a tradução em verso italiano por Prospero Peragallo, Lisboa, s. e., 1898. Organizzò mostre su Cervantes e Petrarca alla Biblioteca Nacional, della quale fu direttore fino alla proclamazione della Repubblica, nel 1910. 29 Anche in termini economici l’impresa è significativa. Ne fu fatta una tiratura di appena 300 copie, numerate, stampate in sei qualità di carta diverse, esclusivamente destinate a offerte. Può consultarsi, tutt’oggi, per una relazione estensiva della bibliografia portoghese e straniera fino allora consacrata all’argomento. 30 “‘Pretos os cabelos’! — note-se bem. Nunca ninguém tal disse da emaranhada carapinha de uma africana! E seria então lícito admitir que um admirador do loiro, como Camões se prezava de confessar-se a cada passo, viesse pôr em relevo, ante o ‘aureo crino’ do seu constante amor, o horroroso topete de uma horrorosíssima etíope?”, ivi, p. 152.

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Xavier da Cunha risponde all’obiezione di Faria e Sousa, giustifica le persecuzioni di Camões in Oriente31 e, al tempo stesso, aggira le questioni relative a colore e condizione di classe, facendo del poeta vittima di punizioni. Da sapere, come mai si sarebbe il poeta innamorato di lei. Almost white, but not quite. E conclude, dunque, Xavier da Cunha, con la sua erudizione, “ciò che si prova… Ciò che si prova è che… Variatio delectat”32. Il suo vero amore, lo dedica Camões a delle donne che appartengono al suo stesso ceto. Proprio Teófilo Braga, per chi, Camões “in amore mai si mosse con un solo remo”33, gli riconosce tre grandi passioni, tutte le tre dedicate a donne di alta rilevanza sociale: Isabel Tavares, Francisca de Aragão e Catarina de Ataíde34. Bárbora è l’altra. Il Visconte di Juromenha, che è uno dei primi critici a fare esplicito riferimento all’erotismo della relazione, attribuisce quella “distrazione”, come la chiama, alla senilità di Camões, “che, siccome era rimasto in solitudine, e nelle tenebre del mondo, sembra che anche nelle tenebre avesse voluto vivere”35. Il bianchimento di Bárbora portò Xavier da Cunha a distinguere varie schiave nel testo del commento di Faria e Sousa. A seconda di quel critico, la bella e sensuale Bárbora delle strofe non fu quella che venne fino a Lisbona e gli lenì la vecchiaia. Diversa era l’opinione di Juromenha. Attraverso un discorso ambivalente, Juromenha sovrappone l’amante e il sostegno pecuniario del poeta. Ciò che poteva accadere unicamente giacché, scrive lui, “l’anima più candida” abitava “un corpo nero”. In questo modo, il rapporto viene normalizzato nel quadro di un ipotetico sistema di scambi attraverso il quale il sostegno con cui Bárbora gli placava “i tormenti della vita” sarebbe com31

Ivi, pp. 243-50. “E o que se prova… O que se prova é que… Variatio delectat”, ivi, p. 237. 33 “[…] Em amor nunca andou a um só remo”, Teófilo Braga, Camões. Época e vida, Porto, Chardron, 1907, p. 578. Uomo politico di grande rilievo, poeta e critico di letteratura, di giurisprudenza, di storia e di cultura estremamente produttivo, Teófilo Braga (Ponta Delgada, 1843-Lisboa, 1924) possedeva un temperamento energico e incorformista. Scrisse una storia della letteratura portoghese e consacrò innumerevoli volumi a temi specifici, tra cui spicca la vita e l’opera di Camões. Curò due edizioni del poeta, Parnaso, Porto, Imprensa Internacional, 1880, 3 voll., e Sonetos, Lisboa, A Educadora, 1913. Dal 1872, fu professore del primo Corso Superiore di Lettere della storia dell’insegnamento portoghese. Quando, nel 1910, è proclamata la Repubblica, diventa Presidente del Governo provvisorio, e poi, nel 1915, Presidente della Repubblica. 34 Nel saggio che dedica, specificamente, a Os amores de Camões, Porto, Renascença Portuguesa, 1917. 35 “[…] Que ficando solitário, e em trevas no mundo, parece que também nas trevas queria viver”, Visconde de Juromenha, Vida de Luís de Camões, in Obras de Luís de Camões, vol. 1, pp. 157-58. 32

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pensato da quella “gratitudine che superava i limiti dell’amicizia”36. Si stabiliscono, quindi, rapporti di reciprocità, da situare oltre quelle differenze di colore, genere e posizione di classe che Juromenha non trascura. Una simile articolazione di realtà e desiderio contiene, dentro di se, contraddizioni talmente forti, che il suo sviluppo non lascerà impune l’autorità rappresentativa. Teófilo Braga lo capì brillantemente. Teófilo scrisse innumerevoli lavori sulla vita e sull’opera di Luís de Camões, lungo un percorso critico che si svolge di forma evolutiva. L’approccio di Bárbora è progressivamente accompagnato da un crescendo, nella compilazione del parere autorizzato di celebri intenditori, per quanto riguarda il fascino di donne “indiane, malesi, giavanesi, dravide e malabariche, dal bianco eburneo al colore cupo, quasi metallico”: van Linschoten, François Pyrard, Anquetil du Perron, Chateaubriand, o Alberto Osório de Castro37. Le conoscenze di François Pyrard gli assicurano che, tra le schiave, “si trovano lì delle ragazze molto belle e graziose, da tutti i posti dell’India, le quali, nella loro maggior parte, sanno suonare degli strumenti musicali, orlare, cucire con molta delicatezza e fare ogni tipo di dolci, conserve e” — scrive sempre Teófilo — “altre cose”38. Bárbora diventa quindi una donna completa, padrona di tutte le doti. Ballerina, cantava per Camões “strofe dell’appassionata poesia popolare indù e indostana”39. Nel tentativo di risolvere le grandi questioni connesse al canone petrarchista e a strutture culturali profondamente sedimentate, Teófilo deduce, dalle sue ricerche, che40 È da supporre che sia stato Camões a essere sollecitato, da quanto si desume dalle abitudini descritte da Pyrard: “tutte queste donne dell’India, siano cristiane

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“[…] Gratidão que ultrapassava os limites da amizade”, ibid. “[…] Indianas, malaias, javanesas, drávidas e malabares, desde o branco ebúrneo à cor retinta, quase metálica”, Teófilo Braga, Camões. Época e vida, pp. 575-79. 38 “[…] Entre as escravas, encontram-se ali raparigas mui belas e lindas, de todas as partes da Índia, as quais pela maior parte sabem tanger instrumentos, bordar, coser mui delicadamente e fazer toda a sorte de doces, conservas e outras coisas”, Teófilo Braga, Camões e o sentimento nacional, Porto, Chardron / Lugan e Genelioux, 1891, p. 36. 39 “[…] Estrofes da apaixonada poesia popular indú e industânica”, Teófilo Braga, Camões. Época e vida, p. 577. 40 “É de supor ter sido Camões o requestado, pelo que se depreende dos costumes descritos por Pyrard: ‘todas estas mulheres da Índia, assim as cristãs ou mestiças, desejam mais ter trato com um homem da Europa, cristão velho, do que com os Índios, e ainda em cima lhe dariam dinheiro, havendo-se por mui honradas por isso, porque elas amam muito os homens brancos, e ainda que haja índios mui brancos, não gostam tanto deles’”, Teófilo Braga, Camões e o sentimento nacional, p. 37. 37

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o meticcie, desiderano di più essere in tratto con un uomo dell’Europa, cristiano vecchio, che con gli indiani, e ancora di più, gli darebbero del denaro, sentendosi molto onorate per quello, giacché loro amano molto gli uomini bianchi, e benché esistano degli indiani molto bianchi, non piacciono tanto loro.”

Lo slittamento, nel senso dell’eccessivo, che è caratteristico della mimicry, crea un effetto boomerang. Atteggiamenti occidentali maschili sono trasferiti verso la sfera del femminile orientale. L’uomo europeo stesso è sottoposto a una differenziazione di ordine storico-religioso che mette l’accento sulla superiorità dei cristiani vecchi. In quanto tale, l’incompletezza della rappresentazione femminile viene smentita. L’alterità di Bárbora è lo stesso. “It is then” — scrive Homi Bhabha — “that the body and the book lose their representational authority”41. Magari sia per questo motivo che quando Agostinho de Campos, nel 1923, commenta il poema di Bárbora, prenda le distanze da Teófilo, e “dall’esempio di guazzabuglio dell’ethos con altri ethos più o meno sporchi di fuliggine e inferiori”42. È sua opinione che il problema risieda nel fatto di che43:

41

Homi Bhabha, Of Mimicry and Man. The Ambivalence of Colonial Discourse,

p. 158. 42 “[…] Do caso de mixorofada do ethos com outros ethos mais ou menos enfarruscados e inferiores”, Camões lírico, edição organizada e anotada por Agostinho de Campos, Primeiro volume. Redondilhas, Paris / Lisboa / Porto / Rio de Janeiro, Aillaud e Bertrand / Chardron / Francisco Alves, 1923, p. 83. Agostinho de Campos (Porto, 1870-1944) fu giornalista, scrittore, pedagogo e critico letterario. Assunse vari incarichi governativi nell’area dell’educazione fino alla proclamazione della Repubblica, nel 1910, e fu poi professore di letteratura alle Università di Coimbra e di Lisbona. Curò una antologia della letteratura portoghese con testi spiegati e annotati, in 24 volumi, tra cui il citato. 43 “Portugal continua a fazer hoje em África, como ontem fez na Índia, na China, na Malásia e na América, uma colonização de cruzamento, da confusão e mistura com as raças locais, autóctones, ou por ele próprio transplantadas de umas Conquistas para outras. Assim colonizou sempre e coloniza ainda Portugal, não por princípio político, mas por bondade piegas, que inibe os homens de arriscarem a saúde e a vida das mulheres brancas na fereza dos climas tropicais; por deficiência de tino organizador, que impede o Português de preparar nas colónias a luta metódica e eficaz contra o ambiente físico, em ordem a estabelecer ao longe em condições vivedoiras, como sempre conseguem os Ingleses, o seu casal europeu; por falta de orgulho de raça e abundância de coração paternal, que leva os nossos colonizadores a guardar e educar o filho mestiço, tão ternamente como se fosse de sangue puro. E assim, quando tenhamos, como nos cumpre, deixado de esquecer tudo isto, facilmente concluieremos que o nosso Camões se revela bem nosso, quando nos conta em belos versos a beleza das Bárbaras ou a saudade das Dinamenes.”, ivi, pp. 76-77.

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Laura Bianca, Bárbora nera. Le letture di Camões come riconversione al canone

Il Portogallo continua a fare oggi in Africa, come ieri lo fece in India, Cina, Malesia e America, una colonizzazione di incrocio, di confusione e mescolanza con le razze locali, autoctone, o che il paese stesso ha trapiantato da un’area Conquistata a un’altra. Così colonizzò sempre e continua a colonizzare il Portogallo, non in virtù di un principio politico, ma per bontà sdolcinata, che inibisce gli uomini di rischiare la salute e la vita delle donne bianche tra la ferocia dei climi tropicali; per deficienza di senno organizzatore, ciò che impedisce il Portoghese di preparare nelle colonie la lotta metodica ed efficace contro l’ambiente fisico, in modo da stabilire a distanza in condizioni durature, come sempre riescono a farlo gli Inglesi, la sua copia europea; per mancanza di orgoglio nella razza e sovrabbondanza di cuore paterno, che porta i nostri colonizzatori a curare e educare un figlio meticcio così amorevolmente come se fosse di sangue puro. E così, quando avremo smesso di dimenticare tutto questo, come ci spetta, concluderemo che il nostro Camões si rivela veramente uno dei nostri, quando ci racconta nei suoi bei versi la bellezza delle Barbare o la saudade delle Dinameni.

Molto più imbarazzante della contraddizione tra canone, colore, bellezza e genere, sembra essere il processo medesimo di mimicry. Bárbora sfugge al canone*.

* Ringrazio il Collega Alberto Sismondini per la revisione del testo italiano.

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PETRARCHISMO, EDITORIA, MUSICA: LA “RACCOLTA DI DIVERSI” E LE EDIZIONI COLLETTIVE DI MADRIGALI

1. Il petrarchismo, si sa, è un fenomeno che, nel Cinquecento, attiene alla lingua, alla grammatica, alla letteratura, alla cultura, all’editoria, alla società1. Dato che, nel medesimo periodo, musica e musicisti si relazionarono variamente agli ambiti appena elencati, mi chiedo: esistette un ‘via musicale’ al petrarchismo? Una declinazione musicale del petrarchismo? Ovvero la musica (la polifonia vocale su testo lirico italiano) va aggiunta all’elenco d’apertura poiché intonare testi del Petrarca o ascrivibili al petrarchismo letterario fu di per sé una forma di petrarchismo? Per estensione: non lo fu l’operazione stessa del sottoporre un testo lirico purchessia alla variazione di “suono” e “numero”, di senso e di effetto propria dell’intonazione polifonica? In musica un fenomeno analogo al petrarchismo letterario non esiste; non almeno nel Cinquecento e, in ogni caso, non nelle forme in cui esso si è manifestato in letteratura. La musica non ha avuto il suo Petrarca, né il suo Bembo; non ha un modello classico e antico cui rifarsi, né un codificatore di forme, grammatica, stile o di altri strumenti della ‘comunicazione musicale’. Qualcosa di simile è individuabile nel palestrinianesimo o, più tecnicamente, nell’individuazione nello ‘stile palestriniano’ – avulso dal contesto geografico e cronologico dell’artista da cui prese il nome, Giovanni Pierluigi da

1 Per un inquadramento globale del fenomeno ‘petrarchismo’ nelle sue molteplici sfaccettature e ricadute vd. A. Quondam, Il naso di Laura. Lingua e poesia lirica nella tradizione del Classicismo, Modena, Panini, 1991.

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Franco Piperno

Palestrina – dello stile per eccellenza della polifonia ecclesiastica: questo sì, come il petrarchismo, fenomeno geograficamente e temporalmente non connotato, capace di sopravvivere di diversi secoli al musicista che quello stile incarnò e che a modello classico e normativo venne indicato da cultori e teorici a lui posteriori. Ma non è su Palestrina che intendo soffermarmi; ciò che ho detto serve a chiarire che se è lecito parlare di petrarchismo musicale (meglio: di petrarchismi musicali), lo si dovrà fare tenendo conto che dietro la locuzione scelta c’è una forma mentis, un procedimento operativo, un abito sociale mutuati dall’ambito della società letteraria, e non geneticamente endogeni agli usi, alle funzioni ed alle tecniche della musica. Questo, in particolare, relativamente alla polifonia vocale profana del Cinquecento – il madrigale a più voci, filone aureo della produzione musicale del tempo – le cui tecniche, natura e funzioni lo apparentano strettamente alla fortuna della coeva lirica petrarchistica2. In altra sede ho discusso di un particolare tipo di petrarchismo musicale, quello individuabile nell’operazione assai diffusa (e apparentemente assai banale) di intonare testi del Petrarca; operazione, tuttavia, che in certi autori e in certi ambienti non è solo abituale, ma si manifesta in forme addirittura pervasive, assolute: allestire un intero libro con madrigali tutti (o quasi) su testi del Petrarca. Proprio esaminando gli oltre centoquaranta casi più eclatanti di questo tipo di ‘scelta poetica’ e la committenza ad essi retrostante, è possibile contestualizzarne la genesi e le motivazioni in chiave di petrarchismo ‘sociale’ (o politico) non meno che latamente intellettuale, ben oltre l’ovvia constatazione che intonare Petrarca è scelta sicura, affidabile, coerente col clima culturale corrente3. Comune a quei casi da me esaminati, oltre

2 Della sterminata bibliografia sul madrigale musicale del Rinascimento va qui rammentato, ad informazione dei non musicologi, il testo ‘incunabolo’: A. Einstein, The Italian Madrigal, 3 voll., Princeton, Princeton University Press, 1949. Un approccio interdisciplinare al madrigale si trova in L. Bianconi, Il Cinquecento e il Seicento, in Letteratura italiana a cura di A. Asor Rosa, vol. 4: Teatro, Musica, Tradizione dei classici, pp. 319-55; utile, per una panoramica dei problemi e delle questioni poste dal madrigale e per le indicazioni bibliografiche, è Il madrigale tra Cinque e Seicento, a cura di P. Fabbri, Bologna, Il Mulino 1988. La produzione a stampa – mezzo privilegiato di diffusione del repertorio – del madrigale musicale del Cinque e Seicento è alfabeticamente descritta in E. Vogel, A. Einstein, F. Lesure, C. Sartori, Bibliografia della musica italiana vocale profana stampata dal 1500 al 1700, 3 voll., Pomezia, Staderini, 1977. 3 F. Piperno, “Sì alte, dolce e musical parole”. Petrarca, il petrarchismo musicale e la committenza madrigalistica nel Cinquecento, in Petrarca in musica, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Arezzo, 18-20 marzo 2004), a cura di A. Chegai e C. Luzzi, Lucca, Lim, 2005, pp. 321-46.

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Petrarchismo, editoria, musica: la “raccolta di diversi” e le edizioni collettive di madrigali

alla nozione di petrarchismo quale strumento di sociabilità, vettore di aggregazione intellettuale applicato alla musica, è il loro realizzarsi nel macrotesto della ‘forma libro’, strumento di mediazione e diffusione nella sua struttura editoriale mutuato dalla letteratura dal momento che la musica, come non ha un Petrarca o un Bembo, non possiede neanche una ‘forma libro’ connaturata alla propria tradizione, quale è il Canzoniere petrarchesco rispetto alla tradizione lirica4. Di qui un’altra domanda: sono inquadrabili nel ‘petrarchismo’ (sempre inteso nel senso ampio sopra rammentato) le strategie dell’editoria musicale del Cinquecento? È individuabile una corrispondenza tra le forme di committenza, ideazione, produzione e smercio del libro di musica (penso naturalmente al libro di madrigali a più voci) e quelle del libro di rime? Se la ‘forma libro’ è importante nella codificazione delle moderne forme di letteratura dopo il 1530 e decisiva, con la propria mediazione, per l’affermazione e l’espansione della tradizione lirica nata sotto il segno di Petrarca, può dirsi altrettanto per la coeva tradizione musicale petrarchisticamente orientata (intonazione di un testo lirico come forma di petrarchismo)? Mentre in letteratura convivono recupero degli antichi e promozione dei moderni, in musica, nel Cinquecento, l’antico è obsoleto e defunto e la stampa musicale, recente strumento di mediazione e diffusione, contribuisce in maniera decisiva al primato dei moderni dedicando solo ad essi le proprie energie produttive. Tenuto conto di ciò, in termini molto generali, un confronto fra i due settori, letterario e musicale, dal punto di osservazione della ‘forma libro’, può portare ad alcuni istruttivi risultati. Ma è giocoforza, qui, selezionare il campo d’indagine e pertanto rivolgerò la mia attenzione alla particolare forma di medium editoriale costituita dal volume collettivo, la ‘raccolta di diversi’ per intenderci, nelle sue multiformi sfaccettature produttive come fra poco si dirà; forma recentemente oggetto di attenta indagine da parte di studiosi di letteratura, sulla scorta sia delle pionieristiche intuizioni di Carlo Dionisotti5, sia, più specificamente, degli approfonditi scandagli di Amedeo Quondam6 e di gruppi 4 In proposito vd. R. Fedi, Canzonieri e lirici nel Cinquecento: I, in Id., La memoria della poesia. Canzonieri, lirici e libri di rime nel Rinascimento, Roma, Salerno, 1990, pp. 2351 e diversi dei contributi a Il libro a corte, a cura di A. Quondam, Roma, Bulzoni, 1994. 5 Mi riferisco alla sua idea che le raccolte di rime e di lettere ‘di diversi’ rappresentino l’esplicita manifestazione della “tendenza espansiva e associativa” dell’attività letteraria negli anni centrali del ’500; C. Dionisotti, La letteratura italiana nell’età del concilio di trento (1965), in Id., Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1967 (19844), pp. 227-54: 237. 6 A. Quondam, La letteratura in tipografia, in Letteratura italiana diretta da A. Asor Rosa, vol. II: Produzione e consumo, Torino, Einaudi, 1983, pp. 555-686: 676-81 e Id., Il libro di poesia tra scriptorium e tipografia, in Il naso di Laura cit., pp. 99-121: 100-16.

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di lavoro da lui coordinati7, e sulla quale, per quel che riguarda la sua applicazione in musica, già mi ero soffermato qualche tempo fa8. Proprio il recente fiorire di interventi di parte letteraria sulla ‘raccolta di diversi’9, mi offre lo spunto per riprendere e aggiornare alcune mie idee sull’argomento, per analizzare le raccolte collettive madrigalistiche alla luce del petrarchismo editoriale letterario e per tentare di conseguire qualche utile risultato critico e storiografico confrontando strategie, finalità ed esiti della raccolta musicale con quelli della raccolta letteraria (di rime e di lettere). 2. Innanzitutto perimetriamo il campo d’indagine: esaminerò il fenomeno ‘raccolta collettiva’ entro i limiti temporali compresi fra 1530 e 1570. Il 1530 è facilmente scelto sia perché da tempo acquisito alla periodizzazione della storia letteraria quale anno della ‘nascita della letteratura’ (Dionisotti), sia perché proprio in quell’anno viene dato fuori il Libro primo de la Serena a quatro voci. Madrigali de diversi musici, una miscellanea di polifonia profana – una delle non poche che vengono stampate in quel torno d’anni – che assume rilievo particolare per il fatto di esibire per la prima volta sul frontespizio, a descrivere il contenuto del volume, il lemma ‘madrigale’ destinato ad imporsi quale termine identificativo della vocalità profana d’arte (i.e. non popolare o vernacolare) del Cinquecento10. Il 1570 è un buon punto d’arrivo di questo mio excursus dal momento che da un lato entro quella data si esauriscono alcuni fra i più importanti epifenomeni del petrarchismo (edizioni del

7 Mi riferisco alla ricerca sui libri di lettere: Le “carte messaggere”. Retorica e modelli di comunicazione epistolare: per un indice dei libri di lettere del Cinquecento, a cura di Amedeo Quondam, Roma, Bulzoni 1981. 8 Gli “eccellentissimi musici della città di Bologna”. Con uno studio sull’antologia madrigalistica del Cinquecento, Firenze, Olschki 1985; Il madrigale italiano in Europa. Compilazioni antologiche allestite e pubblicate oltralpe: dati e appunti, in Il madrigale oltre il madrigale, Atti del IV convegno internazionale sulla musica italiana nel secolo XVII, Como, 28-30 giugno 1991, a cura di A. Colzani, A. Luppi e M. Padoan, Como, AMIS, 1994, pp. 19-48. Sulla raccolta collettiva di madrigali sono intervenuti anche altri musicologi: G. M. Ongaro, Venetian Printed Anthologies of Music on the 1560s and the Role of the Editor, in The Dissemination of Music. Studies in the History of Music Publishing, a cura di H. Lenneberg, s.l., Gordon & Breach, 1994, pp. 43-69; J. Haar, Some Sixteenth-Century “Thematic” Madrigal Anthologies, in Music in the Theater, Church and Villa. Essays in Honor of Robert L. Weaver and Norma Wright Weaver a cura di S. Parisi, Warren (Mich.), Harmonie Park Press, 2000, pp. 65-79. 9 “I più vaghi e i più soavi fiori”. Studi sulle antologie di lirica del Cinquecento, a cura di M. Bianco ed E. Strada, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2001. 10 Su questa importante raccolta vd. S. Campagnolo, Il ‘Libro primo della Serena’ e il madrigale a Roma, in “Musica Disciplina”, 50 (1996), pp. 95-133.

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Petrarchismo, editoria, musica: la “raccolta di diversi” e le edizioni collettive di madrigali

Canzoniere, fortuna musicale di Petrarca quale ‘scelta poetica’) e muoiono alcuni dei protagonisti di questa stagione produttiva di raccolte (gli stampatori musicali Antonio Gardano – 1569 – e Girolamo Scotto – 1572 –, i ‘curatori’ Dolce, Domenichi, Ruscelli, Atanagi e, per la musica, Giulio Buonagiunta, tutti deceduti fra il 1564 e 1569)11, dall’altro include il periodo di produzione e di più forte influenza delle miscellanee di lirica moderna edite da Giolito ed altri (le Rime di diversi libri I-IX)12, delle antologie di rime scelte curate da Dolce e Ruscelli (le rime raccolte da i libri da noi altre volte impressi e i Fiori delle rime di diversi)13 e delle grandi raccolte celebrative (il Tempio alla divina donna Giovanna d’Aragona e il Tempio della divina donna Geronima Colonna d’Aragona)14 – volumi tutti di densa natura petrarchistica – lasciando fuori le successive edizioni miscellanee a carattere sempre più settoriale, speciale, municipalistico e financo bizzarro che, esasperando l’idea di ‘scelta’ implicita nelle prime raccolte, ne snaturano l’originaria funzione esemplificativa e panoramica a largo raggio in favore di selezioni tematicamente circoscritte o di iniziative celebrative localistiche15. Se l’impiego di questo terminus ad quem penalizza la produzione musicale tagliando fuori importanti raccolte collettive degli anni ’70 e ’80 di cui occorrerà fare almeno menzione, l’ambito individuato consente di esaminare nel suo nascere, nel suo crescere e nel suo precisarsi il fenomeno ‘raccolta collettiva’ musicale ed in particolare le modalità di interrelazione e scambio con la coeva e parallela produzione delle raccolte di rime e di lettere. Il materiale, cronologicamente selezionato come appena detto, è sinotticamente disposto nella Tabella 1 in appendice dove è possibile esaminare la

11 Anche Gabriele Giolito e Paolo Manuzio moriranno entro breve tempo: rispettivamente nel 1578 e nel 1574. La data di morte di Dionigi Atanagi è convenzionalmente fissata al 1573 ma documenti da me rinvenuti consentono ora di fissarla alla fine del 1567; cfr. F. Piperno, L’immagine del Duca. Musica e spettacolo alla corte di Guidubaldo II Della Rovere duca di Urbino, Firenze, Olschki, 2001, p. 69 e nota 16. 12 Su cui vd. F. Tomasi, Alcuni aspetti delle antologie liriche del secondo Cinquecento, in “I più vaghi e i più soavi fiori” cit., pp. 77-111: 77-100. 13 Su cui vd. A. Quondam, Il libro di poesia tra scriptorium e tipografia cit., pp. 1089, Id., Il rimario e la raccolta. Strumenti e tipologie editoriali del petrarchismo, in Il naso di Laura cit., pp. 123-50: 136 e F. Tomasi, Alcuni aspetti delle antologie liriche del secondo Cinquecento cit., pp. 98-99. 14 Su cui vd. A. Quondam, Il rimario e la raccolta cit., pp. 132-46 e M. Bianco, Il ‘Tempio’ a Geronima Colonna D’Aragona, ovvero la conferma di un archetipo, in “I più vaghi e i più soavi fiori” cit., pp. 147-81. 15 Cfr. F. Tomasi, Alcuni aspetti delle antologie liriche del secondo Cinquecento cit., pp. 100-8.

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sequenza produttiva delle sole prime edizioni di raccolte madrigalistiche (in grassetto)16, di raccolte di rime (in corsivo)17 e di raccolte di lettere (in sottolineato)18. La tabella non si limita ad una mera elencazione cronologica delle varie uscite editoriali, bensì propone una grezza divisione in specie e generi contenutistici e funzionali del volume collettivo, identificati sulla base delle peculiarità tipologiche e delle strategie produttive che il filone musicale, quello lirico e quello di lettere a mio parere condividono; eccone una breve descrizione. Considero la produzione cinquecentesca di edizioni collettive generalmente divisibile in due grandi specie, quella delle miscellanee (in cui il materiale è raccolto senza apparente progettualità di tipo contenutistico, morfologico o ideologico) e quelle delle raccolte settoriali (in cui il libro si materializza attorno ad una scelta tematica o funzionale precisa). Alla prima specie (miscellanea) appartengono i seguenti generi: – la raccolta di “diversi” (accumulo di materiali nuovi di varia provenienza; colonna 1), – il ‘finto’ volume d’autore (una raccolta intitolata ad un singolo autore ed indicante la presenza anche di altri, ma di fatto costituita da “diversi”) o la raccolta di ‘alcuni’ (soli tre-quattro autori riuniti assieme: volume a mezza via fra la tipologia collettiva e quella d’autore; colonna 2) – la ‘antologia’ (scelta retrospettiva, esemplare; ristampe di materiale di “diversi”; colonna 3). Alla seconda specie (settoriale) appartengono: – le edizioni collettive che propongono la produzione di un singolo ambiente (città, accademia; colonna 4), – quelle che raccolgono materiale prodotto in relazione ad una occasione celebrativa (in lode, per nozze, in morte; colonna 5), – quelle che selezionano il materiale in base a criteri morfologico-stilistici o contenutistici (raccolte ‘a soggetto’; colonna 6). Si tratta evidentemente di una divisione grossolana, certamente perfettibile, non esente da occasionali incertezze (talune raccolte potrebbero essere incasellate simultaneamente sotto più generi; le stesse ‘antologie’, in quanto

16 Dati desunti da Alfred Einstein, Printed Collections in Chronological Order, appendice a Emil Vogel, Bibliothek der gedrückten weltlichen Vokalmusik Italiens, Olms, Hildesheim-New York 1972, pp. 624-77. 17 Dati desunti da La biblioteca volgare. 1: Libri di poesia, a cura di I. Pantani, Milano, Editrice bibliografica, 1996 («Biblia. Biblioteca del libro italiano antico»). 18 Dati desunti da Le “carte messaggere” cit., pp. 279-85.

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Petrarchismo, editoria, musica: la “raccolta di diversi” e le edizioni collettive di madrigali

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stilisticamente orientate, potrebbero essere considerate delle raccolte settoriali); tuttavia mi pare possa risultare momentaneamente utile allo scopo prefissato, che è quello di avere a disposizione un quadro sinottico adatto alla visione simultanea ed al confronto dei tre filoni editoriali (madrigali, rime, lettere) qui presi in esame. 3. Scorrendo la tabella si individuano, più che dei periodi, degli snodi caratterizzati da uscite librarie ravvicinate (entro un triennio o un quadriennio) e influenti, che segnano l’avvio di fasi nuove; agli snodi compartecipano sempre raccolte di rime, di lettere e di madrigali. La prima dozzina d’anni registrata dalla tabella (1530-1541) appare caratterizzata dal notevole rigoglio produttivo di raccolte collettive musicali, medium editoriale evidentemente congeniale a questo settore della produzione culturale anche a causa, ritengo, della predetta assenza di una propria, pertinente e canonica ‘forma libro’. Tale rigoglio si materializza frequentemente in produzioni strutturalmente ambigue, come le pseudo raccolte o i ‘finti’ libri d’autore: i numerosi titoli incasellati nella colonna 2 indicano la tendenza dell’editoria musicale verso il libro d’autore – largamente prodotto negli stessi anni sia in campo musicale sia, va da sé, in campo letterario – frenata da una controtendenza, certamente di natura commerciale, ad infarcire il manufatto con aggiunte miscellanee. Tali e tante, queste ultime, da rischiare, viste le titolazioni strillate sui frontespizi, l’incriminazione per pubblicità ingannevole: il Primo libro di madrigali a tre voci di Costanzo Festa (1541) contiene una manciata di madrigali dell’intestatario più ben quaranta madrigali di Ihan Gero; il Primo libro di madrigali di Maistre Ihan ed altri autori (1541) contiene cinque madrigali del titolare e venticinque madrigali di otto altri musicisti. D’altro canto il Secondo libro di madrigali a quattro voci a note negre del 1543 è una finta miscellanea: sfrutta una fortunatissima titolazione, come fra poco si dirà, per gettare sul mercato soprattutto madrigali del citato Maistre Ihan19. 19 La ‘finta miscellanea’ musicale non si esaurisce in questo periodo iniziale, incerto e sperimentale, ma conosce alcuni significativi casi anche tardivi: il Terzo libro di madrigali a quattro voci a note negre edito da Scotto nel 1549, come il caso appena rammentato sfrutta una fortunata titolazione per pubblicare tredici madrigali del veronese Vincenzo Ruffo, tutti posti all’inizio del volume, completandolo con quattordici brani di cinque altri autori più sei brani anonimi; ancor più clamorosamente il Secondo libro delle Muse a cinque voci edito da Barrè nel 1557 sfrutta questa nuova e fortunatissima titolazione per pubblicare diciannove madrigali del fiammingo Orlando di Lasso assieme a soli tre altri brani di altrettanti autori: quando l’anno successivo lo stampatore veneziano Antonio Gardano ne approntò una ristampa pirata, lo intitolò più correttamente Secondo libro di madrigali a cinque voci di Orlando Lasso.

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Questa prima fase dominata da un’editoria musicale ancora incerta sulle strategie da seguire – l’editoria di rime inanella i libri di Bembo, Sannazaro, Fregoso, Martelli, Bernardo Tasso, Aretino, Gambara e tanti altri, quella di lettere prende avvio nel 1538 con Aretino – presenta tuttavia il dato significativo di una raccolta come il ricordato Primo libro de la Serena a quatro voci. Madrigali de diversi musici che apre il decennio dei trenta con un volume miscellaneo intitolato alla nuova e moderna voga dei madrigali musicali mentre le coeve raccolte di lirica si attardano ancora su forme in via di estinzione (le Frottole e gli Strambotti dati fuori dal Vavassori nel 1530 e nel 1535). Questa fase sbocca nel cruciale quadriennio 1542-1545 nel quale si registrano l’esordio del libro miscellaneo di lettere (1542), l’apparizione di solide, innovative e fortunate raccolte musicali (1542-1543) e l’avvio della celebre serie di Rime di diversi inaugurata nel ’45 da Giolito. Le raccolte madrigalistiche del 1542-43 sono da indicare quale vero punto di partenza della tradizione editoriale collettiva, non solo relativamente al libro di polifonia profana: precedute dall’importante, sperimentale ma isolato (non ristampato) volume Le dotte et eccellente composizioni de i madrigali a cinque voci da diversi perfettissimi musici fatte (Venezia, Scotto 1540), i due volumi dati fuori a Venezia nel 1542 da Antonio Gardane, il Primo libro d’i madrigali de diversi a cinque voci e il Primo libro d’i madrigali de diversi a misura di breve, vanno considerati con speciale attenzione dal momento che, nel contesto di una produzione editoriale a carattere collettivo, sensibile nei confronti della produzione più attuale e mirante ad un franco successo commerciale, rappresentano l’antecedente più importante (un possibile modello?) delle raccolte giolitine di rime date fuori a partire dal 1545; più delle coeve raccolte di lettere, ritengo che le miscellanee di Gardano possano aver giocato questo ruolo sia perché le raccolte di lettere assunsero da subito la funzione pratica e didattica di exempla, di formulari per apprendere le tecniche e le convenzioni della scrittura epistolare – funzione che le raccolte madrigalistiche non ebbero mai e quelle di rime conobbero non prima delle antologie esemplari pubblicate a partire dal 1553 –, sia perché le raccolte madrigalistiche sono anche raccolte di rime, sia pur di rime sottoposte ad intonazione musicale. Inoltre una raccolta di Gardano, i Madrigali a quattro a misura di breve del 1542, fu caratterizzata da un notevolissimo successo commerciale, evidente sia nell’elevato numero di ristampe, sia nel fatto che essa diede avvio ad una serie di omologhi volumi (Secondo libro 1543, Terzo libro 1549, Quarto libro 1554) ciascuno più volte ristampato, sia infine nella circostanza che ristampe e nuove edizioni esaltarono la formidabile competitività concorrenziale fra le botteghe del Gardano e dello Scotto, registrabile non solo nella corsa alla ristampa del singolo volume (evidentemente un

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buon affare commerciale), ma anche nel tentativo di Scotto di strappare al rivale l’esclusiva della serie dei madrigali a note nere: nel 1549 Scotto dà fuori un suo Terzo libro, ma Gardano replica subito col proprio Vero terzo libro20. A questo quadriennio cruciale segue una seconda fase che dura fino al non meno cruciale triennio 1553-55, fase caratterizzata dall’improvvisa esplosione delle raccolte di lirica che da subito si materializzano in generi ben distinti, in grado di istituire un modello ed avviare una tradizione; non solo le Rime di diversi che, come detto, rilanciano in campo lirico una strategia editoriale già avviata nei campi del madrigale e delle lettere, o i libri di rime d’autore con aggiunta miscellanea (Tullia d’Aragona e altri, 1547; Burchiello e altri, 1552), ma soprattutto le rime di accademici (“academici novi di Latio”, 1545, Trasformati di Milano, 1548), le raccolte municipalistiche (gli aretini nel 1547, i napoletani nel 1552, i bresciani nel 1553), le rime in morte (Bembo, 1547), in onore (città di Bologna, 1549), le raccolte di specifici generi poetici (rime spirituali, 1550). Complementare a questa fase di rigoglio produttivo di raccolte di lirica è il momentaneo rallentamento nella produzione di nuove raccolte musicali (soprattutto cessano quasi del tutto i ‘finti’ libri d’autore; il filone musicale vive bene grazie alle ristampe dei fortunati madrigali a note negre) e il concentrarsi della raccolta di lettere in settori sempre più specifici: lettere di “valorose donne” (1548), lettere “consolatorie” (1550), lettere al signor Vitello Vitelli (1551); due fenomeni paralleli che sembrano raffigurare il ritrarsi dei filoni musicale ed epistolare di fronte alla subitanea invasione di raccolte liriche. Il nuovo snodo produttivo (1553-55) che segue la fase appena descritta è caratterizzato ancora da eventi ‘epocali’ almeno in relazione ai loro contesti

20 La storia e la fortuna di queste antologie sono ripercorse da J. Haar, The ‘note nere’ madrigal (1965), in Id., The Science and Art of Renaissance Music, a cura di P. Corneilson, Princeton, Princeton University Press, 1998, pp. 201-221 e sono attentamente indagate nell’edizione The Anthologies of Black-note Madrigals, a cura di D. Harrán, 4 voll., Nordhausen – Stuttgart, American Institute of Musicology – Hänssler Verlag 1978-1980 (“Corpus mensurabilis musicae” 73). Fornisce prova sia del successo delle raccolte di “madrigali a note nere” (o “a misura di breve”), sia del valore di modello acquisito dal Primo libro il particolarissimo madrigale Chi volesse saper che cosa è amore intonato da Giovan Tommaso Cimello: il testo è un centone di versi tratti dal predetto Primo libro di madrigali a misura di breve ed anche la musica è costituita, nella parte del canto, da citazioni di musiche per quei versi (se ne parla in J. Haar, Giovanthomaso Cimello as Madrigalist, “Studi musicali”, 22 (1993), pp. 23-59: 56; ripubbl. in The Science and Art of Renaissance Music cit., pp. 239-67: 248. Il brano si legge ora in G. Cimello, The Collected Secular Works, a cura di D. G. Cardamone e J. Haar, Middleton (Wisc.), A-R Editions 2001, pp. 136-38; a p. 179 un breve commento critico).

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produttivi e culturali di riferimento: nel 1553 nasce l’antologia esemplare di rime, le Rime di diversi… raccolte da i libri da noi altre volte impressi, la quale, allestita da un letterato di professione (Ludovico Dolce, seguito poi in analoghe iniziative dal Ruscelli) con una accurata selezione di cose già edite mira a farsi strumento per definire ed imporre un canone di qualità. Nel 1554 la medesima impostazione è assunta dal libro di lettere sia nella raccolta, ancora del Dolce, Lettere di diversi… raccolte da diversi libri, sia in quella in cui Dionigi Atanagi seleziona “tredici uomini illustri” (dunque ‘diversi’ ma scelti secondo un criterio di eccellenza simbolo di qualità); nello stesso anno si conclude la serie delle antologie di Gardano col Quarto libro (però “a note bianche”) e soprattutto esce il Tempio alla divina donna Giovanna d’Aragona, imponente, pivotale edificio petrarchistico di rime in lode. Nel 1555 esordisce sulla scena dell’editoria miscellanea il musico-stampatore romano Antonio Barrè il quale dà fuori due volumi musicali, il Primo libro delle muse a cinque voci (“primizie della mia stampa”) e il Primo libro delle muse a quattro voci. Madrigali ariosi, e una raccolta di rime in lode, i Sonetti e canzoni in vita e in morte della signora Livia Colonna; i due volumi musicali sono capostipiti di una nuova fortunata serie di raccolte madrigalistiche intitolata alle muse che annovererà complessivamente un libro a tre voci, tre libri a quattro voci e cinque libri a cinque voci. Il fatto che uno stesso editore, Barrè, dia fuori raccolte di madrigali e raccolte di rime e che lo stesso curatore, Dolce, allestisca col medesimo criterio selettivo miscellanee di rime e di lettere, mi pare renda esemplarmente visibile la sorellanza, la condivisione di intenti e strategie fra queste iniziative editoriali pur pertinenti a distinti ambiti della comunicazione (musica, lirica, epistolografia); ciò giustifica pienamente la mia proposta di vedere sotto la medesima luce e di accomunare nella medesima categoria di iniziative editoriali di segno petrarchistico le raccolte di madrigali e quelle di rime e di lettere. Oltre a ciò, le raccolte pubblicate nel triennio 1553-1555 condividono una nuova ‘filosofia’ produttiva: la ‘raccolta di diversi’ allestita senza progettualità di contenuti lascia il posto, anche nel caso di miscellanee non settoriali né antologiche, a raccolte assemblate con criteri volta a volta precisabili e sempre riconducibili alla volontà di un consapevole e professionale curatore (la fase che si apre nel 1553 è decisamente la fase dei curatori, che succede a quella degli stampatori-editori) ed all’ambiente sociale e intellettuale in cui si colloca la sua attività; il curatore immancabilmente si correla all’ambiente di riferimento mediante lettera dedicatoria indirizzata ad un aristocratico oculatamente scelto o addirittura rispondendo ad una precisa istanza di quest’ultimo ed esibendone le preferenze nella selezione di materiali. Ad esempio, per quanto riguarda le raccolte musicali, il Primo libro delle muse a cinque voci curato e stampato

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da Barrè, sotto il titolo generico nasconde una miscellanea non qualsiasi: raduna quattro musicisti ciascuno alle prese con una diversa canzone in più stanze che genera una collana di madrigali pluripartiti, esito di un intenzionale ed oculato petrarchismo metrico (la forma canzone prescelta) che ne ha guidato le scelte al posto di un accumulo indifferenziato di materiali di varia origine e natura. Del pari non qualsiasi è il Primo libro delle muse a quattro voci. Madrigali ariosi: al di là del suo concentrarsi su un nuovo e ben connotato stile madrigalistico, quello ‘arioso’, la raccolta presenta elementi di oculata selezione di nuovo sulla base di un criterio metrico (sono prevalentemente ottave i testi intonati dai musicisti qui sillogizzati) ed in più anche sulla base di criteri di tipo geografico; collegandosi palesemente ad ambienti romani e partenopei (il dedicatario è un Colonna), Barrè sceglie di proposito per lo più musicisti attivi fra Roma e Napoli21. La fase che segue il triennio 1553-1555 ne continua, precisa e perfeziona le novità. Si sente soprattutto l’influsso del Tempio encomiastico per Giovanna d’Aragona che non solo genera numerose altre, ancorché più contenute, raccolte di rime in lode, ma affetta anche la natura e la strategia compilativa di raccolte non a prima vista encomiastiche; penso soprattutto alle raccolte madrigalistiche degli anni ’60 (in particolare a quelle curate dal musico marciano Giulio Bonagiunta) il cui contenuto, eccellente per antonomasia, sempre più tende a rispecchiare le preferenze o le frequentazioni del dedicatario (di solito il committente finanziatore) e pertanto si propone di simboleggiarne il rango: il Primo libro… a quattro voci intitolato il Desiderio (1566) si collega alle attività del cenacolo musicale di Michele

21 Fra i numerosi studi musicologici dedicati ai Libri delle Muse toccano aspetti di strategia editoriale e compilativa J. Haar, The “Madrigale Arioso”: a Mid-Century Development in the Cinquecento Madrigal, “Studi musicali”, 12 (1983), pp. 203-19 (ripubblicato in The Science and Art of Renaissance Music cit., pp. 222-38), H. Mayer Brown, Verso una definizione dell’armonia nel sedicesimo secolo: sui “madrigali ariosi” di Antonio Barrè, “Rivista italiana di musicologia”, 25 (1990), pp. 18-60 (in part. pp. 29-35 e 57-60), John Steele, Antonio Barrè: madrigalist, anthologist and publisher in Rome – some preliminary findings, in Altro Polo. Essays on Italian music of the Cinquecento, a cura di R. Charteris, Sidney, Univ. of Sidney Press, 1990, pp. 83-112, S. Campagnolo, La ‘danza delle muse’: il Libro primo delle muse, madrigali ariosi di Antonio Barrè (1555), e il madrigale a Roma (1527-1559), tesi di dottorato in Filologia musicale, Università degli studi di Pavia (Scuola di paleografia e filologia musicale di Cremona) 1999 e F. Piperno, Ballate in musica, madrigali ‘a ballata’ e gli ariosi di Antonio Barrè: predilezioni metriche e formali del madrigale a Roma a metà Cinquecento, in “Et facciam dolçi canti”. Studi in onore di Agostino Ziino, a cura di B. M. Antolini, T. M. Gialdroni e A. Pugliese, Lucca, Libreria musicale italiana, 2003, pp. 459-85 (in part. 466-70).

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Tron, il Secondo libro delle fiamme a cinque e sei voci (1567) si apre con un testo encomiastico rivolto a Antonio Villabruna, la Musica di XIII autori illustri a cinque voci (1576; si noti la particolarità del titolo che riproduce quello di tre omologhe raccolte di lettere) raduna brani di autori che “sono stati e sono i più di loro creati” dal nobile dedicatario, il duca Alberto V di Baviera22. È in questo periodo che inizia ad allargarsi la tipologia delle raccolte musicali di tipo settoriale: del 1568 è la prima (e resterà l’unica) raccolta in morte (la Corona della morte dell’illustre… Anibal Caro, singolare iniziativa encomiastica simultaneamente letteraria e musicale, dal momento che per l’occasione vennero composti i quattordici sonetti su cui altrettanti musicisti stesero le loro note)23, del 1569 è la prima antologia di madrigali (la Eletta di tutta la musica, selezione retrospettiva di materiali già editi)24 ed allo stesso anno risale la prima raccolta collettiva d’ambiente (Musica de’ virtuosi della florida cappella del… duca di Baviera). In sostanza entro il 1570 i giochi sono fatti: la produzione degli anni successivi ribadirà scelte e strategie fatte fin qui, incrementerà i cataloghi con ulteriori volumi sempre più ambiziosi e prestigiosi e pian piano avvierà un processo di snaturamento dell’originaria ‘forma raccolta’ in cui l’intraprendenza dell’editore e la ricerca di settorialità sempre più nuove produrranno libri affatto diversi, nella concezione e nella destinazione, da quelli prodotti nelle fasi iniziali e sperimentali del fenomeno. 4. A queste considerazioni sulle fasi cronologiche delle uscite di raccolte di madrigali, rime e lettere aggiungo alcune osservazioni volte a precisare ulteriormente la sostanziale pertinenza di una lettura in chiave petrarchistica del fenomeno ‘raccolta di madrigali’ in stretta connessione con le raccolte di lettere e rime per le quali il concetto di petrarchismo è più naturalmente spendibile. 22 Su Giulio Bonagiunta compilatore ed editore di raccolte madrigalistiche collettive vd. il cit. G. M. Ongaro, Venetian Printed Anthologies of Music on the 1560s and the Role of the Editor. 23 Vedine l’edizione con introduzione critica a cura di Lucia Fava: Corona della morte di Annibal Caro. Poesia e musica per un letterato marchigiano del Cinquecento, Bologna, UT Orpheus Edizioni, 2001 (“Collezione Musicale Marchigiana”, 1). 24 Ma il volume doveva uscire dieci anni avanti e venne bloccato dal privilegio di stampa di un prestigioso volume di polifonia sacra e profana di Adrian Willaert (Musica nova, Venezia, Gardano, 1559) e dalla volontà del signore patrocinatore di quest’ultimo volume, Alfonso d’Este allora principe di Ferrara (la vicenda è ricostruita da J. A. Owens – R. J. Agee, La stampa della “Musica Nova” di Willaert, “Rivista Italiana di Musicologia”, 24 (1989), pp. 219-305).

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C’è innanzitutto l’aspetto della condivisione dei processi produttivi. Torniamo alle raccolte del primo cruciale snodo cronologico. Come le raccolte di rime di diversi del Giolito, anche le raccolte collettive del Gardano sono dei works in progress, nel senso che di ristampa in ristampa accolgono nuovo materiale, si allungano, si modificano, reagiscono all’attualità ed alla novità con pronta sensibilità25; anche le raccolte del Gardano (e non solo quelle, bensì tutte le raccolte madrigalistiche) sono aperte alla produzione di artisti appartati, lontani dal mercato editoriale, non in grado di accedervi, nella forma del volume d’autore, con le sole proprie forze26; non organizzano il proprio contenuto secondo un coerente rapporto tra quantità di brani di un autore e la sua qualità artistica, ma si lasciano guidare dall’esigenza di raccogliere quanto più materiale possibile; questo è pubblicato senza apparente coerenza tematica o modale27. Anche le raccolte del Gardano, come le giolitine, rappresentano la manifestazione esplicita dell’intraprendente attivismo del tipografo che si fa editore in senso moderno e che si assume pienamente la responsabilità dell’affermazione del repertorio attuale e alla moda: il madrigale ‘a misura di breve’ nel caso di Gardano, la lirica petrarchistica nel caso di Giolito. Gardano esplicita il proprio consapevole e protagonistico coinvolgimento nell’impresa editoriale firmando le dediche dei suoi due volumi del 1542 e trattasi dei primi due casi di lettera dedicatoria apposta a volumi musicali miscellanei. Lo sfondo culturale, sociale e commerciale su cui si stagliano le imprese editoriali di Giolito è, insomma, largamente condiviso dal concittadino Gardano e dalle sue raccolte collettive musicali; proprio la coincidenza di metodi e strate25 Il Primo libro d’i madrigali a misura di breve a quattro voci ebbe tredici edizioni fra il 1542 e il 1567; la prima edizione presentava trentasette brani, nelle successive ne sono stati progressivamente aggiunti altri diciassette, mentre alcuni non venivano più ristampati, per un totale complessivo di cinquantaquattro brani editi sotto la titolazione Primo libro; ventuno brani compaiono in tutte le tredici edizioni. Numerosi brani vengono diversamente attribuiti nelle varie edizioni. Vd. il quadro sinottico del contenuto delle diverse edizioni del Primo libro nella Tabella 2 in appendice. Uno studio di questa raccolta, con edizione dei testi e delle musiche, è fornito dal cit. The Anthologies of Black-note Madrigals, vol. I/1, Foreword to volume I, pp. xxi-xxx. 26 La situazione editoriale dei musicisti sillogizzati nel Primo libro a misura di breve è riassunta nella Tabella 3, in appendice. In proposito si possono richiamare le parole di Quondam per le raccolte giolitine, perfettamente adattabili alle raccolte del Gardano: “pervengono alla stampa i testi inediti di una quota rilevante di autori che non hanno una produzione in grado di conquistarsi lo statuto autonomo di libro” (Il rimario e la raccolta cit., p. 136). 27 Sulla variegata tavolozza modale offerta dalla sequenza dei brani della miscellanea di Gardano a note negre vd. la cit. prefaz. di Harrán, p. xxvii.

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gie, di intenti e modi operativi fa pensare ad un possibile ruolo del Gardano e delle sue raccolte del 1542 e 1543 nel fornire al Giolito lo spunto per le proprie iniziative editoriali petrarchistiche avviate nel ’45: col che non si intende rivendicare una sterile priorità cronologica dell’editore di madrigali su quello di rime, bensì avvalorare l’esistenza di una comune humus operativa e culturale, nel segno del petrarchismo quale sistema di valori e vettore di aggregazione sociale, che ha fornito linfa ad entrambi. Potrebbe portare altra acqua al mulino di questa interpretazione un confronto fra le concrete strategie stilistiche dell’uno e dell’altro: v’è coincidenza fra il petrarchismo delle ‘scelte poetiche’ esibite dai madrigalisti sillogizzati da Gardano e quello che informa le raccolte del Giolito? O v’è sostanziale indipendenza di scelte e preferenze, tanto che le raccolte giolitine potrebbero assumere l’inedita veste di una proposta correttiva all’immagine della lirica contemporanea fornita dalla selezione operata dagli intonatori confluiti nelle raccolte di Gardano? Un’indagine tutta da fare, ma una provvisoria risposta al quesito, sulla base di un sondaggio sommario, sembra essere questa: il petrarchismo delle raccolte di Giolito non è soltanto linguistico e grammaticale, bensì anche metrico, nel senso che la selezione delle testure corrisponde grosso modo al canone ed alle gerarchie imposti dal Canzoniere; nelle raccolte madrigalistiche del Gardano il quadro delle forme metriche è conseguente alla selezione dei brani musicali ed alle scelte poetiche degli intonatori: queste ultime, guidate da esigenze di agile musicabilità e di durate/lunghezze compatibili con la ridotta gittata del respiro musicale, vanno nella direzione, sul piano morfologico poco petrarchistica, della lirica moderna, irregolare e brevilinea (madrigale poetico, ballata, ottava, singola stanza di canzone o sestina). Raccolte madrigalistiche allestite anche sulla base di un consapevole petrarchismo metrico non si danno prima del ricordato Primo libro delle muse a cinque voci (1555) che sillogizza brani di quattro autori su altrettante canzoni pluripartite. Tuttavia, ad uno sguardo attento rivolto alla Tabella 2 in appendice, non sfuggono alcune scelte che rendono meno rigido il quadro appena delineato e individuano un latente, seppur flebile, petrarchismo anche nelle scelte metriche proposte dal Gardano, così sintetizzabile: è significativo, proprio per quanto appena detto sulle insopprimibili esigenze metriche degli intonatori, che il Primo libro d’i madrigali a misura di breve si apra con una sequenza di tre sonetti (musicati d’un fiato, senza la frequente bipartizione musicale fra fronte e sirma) ed una stanza di canzone, quasi che si sia voluto offrire al lettore l’opportunità di verificare, ad apertura di libro, la consentaneità di quel volume musicale al clima petrarchistico corrente (e sono complessivamente quattro i sonetti e otto le stanze di canzone – Petrarca e Bembo fra gli autori – inclusi nella raccolta); del pari significativo che, per forme meno canoniche, si sia ricorso all’auctoritas degli antichi (Petrarca per il madrigale

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Nov’angioletta, Boccaccio per la ballata Io mi son giovinetta) o addirittura si sia offerto un raro saggio di intonazione della sperimentale metrica barbara del Tolomei (Questi soavi fiori posto in musica dall’organista marciano Jacob Buus)28, segno di evidente attenzione al corrente dibattito sulla lingua e sulla lirica. Dunque la scelta di testure metriche più adatte all’intonazione musicale in questo Primo libro primeggia sì, ma senza nettamente soverchiare altre e più ‘letterarie’ scelte che risentono del canone petrarchistico in voga. Ci sono poi alcuni aspetti palesemente petrarchistici che affettano il contenuto di talune raccolte musicali. È noto che, a partire dagli anni ’50, la raccolta di rime tende volentieri ad ospitare rime di corrispondenza sia quale emblema della sociabilità dell’attività lirica del tempo, del carattere dialogico e comunicativo che le è proprio, sia perché coll’insistere sui rapporti che testi di diversi autori instaurano fra loro, la raccolta istituisce un proprio canone strutturale alternativo alla progressione narrativa tipica del canzoniere monografico29. Anche la raccolta madrigalistica, almeno prima degli anni ’80 quando qualcosa del genere venne tentato, deve rinunziare alla ‘forma canzoniere’ che non di rado viene adottata nei volumi d’autore e va occasionalmente presentando delle forme alternative di coerente aggregazione del materiale pubblicato, forme concettualmente non distanti dall’idea di dialogo, di discorso sviluppato a più voci, insita nel costume delle rime di corispondenza: penso ai non rari casi, proposti esclusivamente dalle raccolte, di testi poetici pluripartiti (canzoni in più stanze) in cui ogni parte è intonata da un diverso musicista (vedine qualche esempio in Tabella 4 in appendice). Qui si manifesta al più alto grado il senso collettivo, partecipativo della raccolta di madrigali ‘di diversi’, ove questi ultimi non sono a caso sillogizzati sulla base del materiale disponibile, bensì sono attivamente coinvolti nella progettazione e nella strutturazione del volume; questo, proprio in tali forme, acquisisce la massima originalità ed il più alto potenziale commerciale in qualità di proposta editoriale autonoma e alternativa rispetto al volume d’autore. Se petrarchismo è, anche, “sistema linguistico della ripetizione” (Quondam) che si manifesta nella condivisione dei modelli, nella competizione, 28 Il testo, titolato A Lice, si legge nella sezione di rime di Claudio Tolomei (p. non num.) che chiude i Versi e regole de la nuova poesia toscana da lui curati, Roma, Antonio Blado, 1539 (ora in ediz. anastatica con introduzione di M. Mancini, Manziana, Vecchierelli, 1997). 29 Cfr. F. Tomasi, Alcuni aspetti delle antologie liriche del secondo Cinquecento cit., pp. 92-93.

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nella citazione, che dire di raccolte come gli Sdegnosi ardori […] sopra un istesso soggetto di parole a cinque voci del 1585 (trentuno madrigali di ventotto autori, tutti sul testo Ardo si, ma non t’amo del Guarini) 30, come L’amorosa Ero rappresentata da più celebri musici d’Italia con l’istesse parole e nel medesimo tuono del 1588 (diciotto madrigali di altrettanti autori, tutti sul testo Ero così dicea ch’era il suo amor di Marco Antonio Martinengo, il dedicatario, promotore e committente della raccolta)31 o del Musicale esercizio di Ludovico Balbi a cinque voci del 1589 (silloge costituita da ventidue madrigali di altrettanti autori, originariamente a quattro voci, che il Balbi ha ricomposto aggiungendovi una quinta voce)? Sono raccolte tardive, apparse nel decennio che per le raccolte musicali è il più prolifico ed il più sperimentale; ma, in musica, soprattutto la ‘forma raccolta’ appare palestra adatta ad esercizi di petrarchismo musicale così sofisticati e pervasivi. Se forme analoghe di musicale petrarchismo affettano correntemente e insistentemente la grammatica della composizione madrigalistica del periodo (reintonazioni di uno stesso testo con riuso di materiali musicali del modello, citazioni melodiche da brani di conclamato successo e autorevolezza, imprestiti di materiale musicale sotto il segno dell’emulazione, centonizzazioni di brani noti), esse solo in raccolte come queste assurgono a ‘soggetto’ e progetto di una specifica iniziativa editoriale. Le affinità e le analogie fra raccolte letterarie e musicali fin qui rilevate non impediscono di riconoscere inevitabili differenze produttive, in particolare l’assenza di finalità didattiche ed esemplari nelle raccolte di madrigali, finalità da subito presenti nelle raccolte di lettere e presto anche in quelle di rime; allestire antologie “per comodo” o “ad uso” di discenti e dilettanti – antologie di modelli perfetti e di brani canonici su cui esercitare le pratiche di apprendimento per imitazione – fu rarissimamente proprio dell’editoria musicale italiana che, invece, puntò a dar fuori raccolte destinate all’esecuzione ed alla disseminazione del repertorio, soprattutto quello più nuovo ed attuale32. Questo spiega perché sia sostanzialmente poco il Petrarca presente 30 Se ne può vedere l’edizione in Settings of “Ardo sì” and its Related Texts, 2 voll., a cura di G. C. Schuetze, Madison (Wisc.), A-R Editions 1990 dove ai trentuno madrigali provenienti dalla raccolta Sdegnosi sono aggiunti trenta altri madrigali sullo stesso testo pubblicati in altri volumi madrigalistici nonché ulteriori trentaquattro brani su risposte e controrisposte al testo guariniano: un monumento alla citazione ed alla competizione madrigalistica del secondo Cinquecento. 31 Raccolta edita in The Madrigal Collection L’amorosa Ero, a cura di Harry B. Lincoln, Albany, State University of New York Press, 1968. 32 Due rari esempi: uno è il Quarto libro delle muse a cinque voci…[madrigali] intitolati Benigni spirti, Venezia, Gardano, 1574, silloge comprendente per lo più musici di

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nelle scelte poetiche delle raccolte madrigalistiche e perché sia del pari estraneo alla loro ‘filosofia’ produttiva il concetto di antologia retrospettiva ed esemplare: da questi tipi di ‘petrarchismo’ (scegliere Petrarca in quanto autore consacrato e modello riconosciuto e condiviso; proporre esempi recanti i connotati di un canone di perfezione stilistica e formale cui attenersi) sono aliene iniziative editoriali miranti prima di ogni altra cosa al successo commerciale e rispecchianti l’avvicendarsi delle mode, sia pur entro la cornice formale del libro miscellaneo i cui modi di committenza, ideazione e allestimento sono del tutto omologhi a quelli di coeve iniziative letterarie di esplicito contenuto petrarchistico33. Dunque alla domanda se l’editoria musicale del Cinquecento – in particolare il filone produttivo della raccolta ‘di diversi’ – sia inquadrabile nel generale contesto dell’editoria petrarchista ritengo si possa dare una risposta affermativa. Cosa comporta questo risultato sul piano storiografico e critico? Intanto lo sconfinamento da una prospettiva settoriale (univocamente musicologica) consente di mettere a fuoco, di quel fenomeno e di singoli esemplari, implicazioni culturali e commerciali più ampie e variegate; si danno intrecci significativi – sul piano produttivo non meno che estetico – con iniziative editoriali contenutisticamente altre ma idealmente affini, in grado di allertarci in merito all’imprevista tentacolarità di quel genere editoriale e di sollecitare approcci critici conseguentemente attrezzati. In secondo luogo omologare le raccolte musicali alla prospettiva critica correntemente usata per le raccolte liriche o epistolari può giovare allo studio proprio di queste ultime, fornendo un nuovo parametro di riferimento ed arricchendo di inedite

Roma dedicata a Tomaso Bartoli da Tomaso Benigni (da cui il titolo del volume) con queste parole: “madrigali da me per comune utilità raccolti” (ma non è chiaro il senso di questa “comune utilità” che ha generato l’iniziativa del Benigni). Sul frontespizio della Musica spirituale. Libro primo di canzon e madrigali… composti da diversi (Venezia, Scotto, 1563) – primo volume madrigalistico interamente intessuto di testi spirituali – si dice che la pubblicazione è stata allestita “dal reverendo messer Giovanni Dal Bene nobil veronese a utilità delle persone cristiane”; questa raccolta ora si legge nell’ediz. di K. Powers, Middleton (Wisc.), A-R Editions, 2001. 33 Lo stesso dicasi per le raccolte d’ambiente e quelle in onore cui l’editoria musicale si interessò tardi e poco; in ambito letterario esse sono spesso frutto di iniziative municipalistiche e prodotto di stamperie locali: l’editoria musicale è monopolio pressoché esclusivo delle botteghe veneziane cui corre l’obbligo, per evidenti ragioni commerciali, di tener conto delle esigenze e dei desiderata di un mercato più ampio possibile. Per uno sguardo sintetico sulle raccolte madrigalistiche dedicate a musici di singole città vd. il mio Musicisti e mercato editoriale nel ’500: le antologie d’ambiente di polifonia profana, in “Musica/Realtà”, 5 (1984), pp. 129-51.

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sfaccettature chiaroscurali il fenomeno ‘raccolta collettiva’ nel suo complesso. Infine se la raccolta in quanto originale ‘forma libro’ ed autonomo ‘macrotesto’ si lascia interpretare, sul versante letterario, quale via privilegiata di diffusione del petrarchismo, cioè della forma di comunicazione linguistica dominante nel Cinquecento34, ciò incoraggia, per analogia, ad intravedere nella raccolta musicale il medium più autorevole, il testimone più attendibile ed il prodotto più rappresentativo dell’attività musicale del periodo: una prospettiva critica, questa, che, adeguatamente applicata e verificata, potrebbe assestare uno scossone di non poca entità alle consolidate opinioni storiografiche sul madrigale musicale di quella florida e felice stagione.

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Cfr. A. Quondam, La letteratura in tipografia cit., pp. 115-116.

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I (II, III...) = Primo (Secondo, Terzo...) libro † = in morte di, in obitum, in funere Acc. = Accademia, accademico, accademici alc. = alcune, alcuni aut. = autore, autori Barz. = Barzellette Burl. = burlesche Canz. = canzoni

Abbreviazioni:

Comp. = componimenti, composizioni d. = del, della, dei, delle div. = diverse, diversi ep. = epigrammi eccell. = eccellente, eccellenti, eccellentissimi gr. = greci, greche ill. = illustri, illustrissimi ins. = insegna ist. = ad istanza ital. = italiano, italiana lett. = lettere

lat. = latini madr. = madrigali mis. = misura mus. = musica, musicale napol. = napoletane, napoletani past. = pastorale, pastorali racc. = raccolta spir. = spirituale, spirituali stz. = stanze tosc. = toscane, toscani virt. = virtuoso, virtuosi volg. = volgare, volgari

– per le raccolte di lettere: Le “carte messaggere”. Retorica e modelli di comunicazione epistolare: per un indice dei libri di lettere del Cinquecento, a cura di Amedeo Quondam, Roma, Bulzoni 1981, pp. 279-285

– per le raccolte di rime: La biblioteca volgare. 1: Libri di poesia, a cura di Italo Pantani, Milano, Editrice bibliografica, 1996 (“Biblia. Biblioteca del libro italiano antico”);

– per le raccolte di madrigali: Alfred Einstein, Printed Collections in Chronological Order, appendice a Emil Vogel, Bibliothek der gedrückten weltlichen Vokalmusik Italiens, Olms, Hildesheim-New York 1972, pp. 644-57

Fonti:

Tabella 1. Cronologia delle raccolte collettive, 1530-1570 (madrigali, rime, lettere; luogo di edizione Venezia, se non diversamente indicato)

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179

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1543

1542

1541

1540

1540?

1539

1538

1535 1537 [?] 1537

1530

I madr. a 5 (Gardane) Lett. de div.… a div. (Troiano; s.n.t.); I lett. volg. (Manuzio)

Dotte compos. de i madr. a 5 (Scotto)

Madr. a 3 e arie napol. (s.n.t.) Madr. a 3 (Scotto)

I serena (Roma, Dorico)

Ambiente (città, Accademia)

Madr. a 4 di Veggio + Arcadelt (Scotto) I madr. a 3 di Festa + 40 madr. di Gero (Gardane); I madr. di Maistre Jhan + altri (Gardane); Divina musica di madr. 6 voci. di Verdelot + altri (Gardane)

II madr. di Verdolot + altri di Adriano... (Scotto); III madr. di Verdolot + altri di Festa... (Venezia, Scotto) Verdelot compositioni + madr. di vari (Gardane) II madr. a 5 di Verdelot e altri (Scotto) Rime Brocardo e altri (s.ed.) III madr. a 4 di Arcadelt + Festa (Scotto); IV madr. a 4 di Arcadelt + altri (Gardane)

Encomio (lode, nozze, morte)

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II madr. a mis. di breve (Gardane)

I madr. a mis. di breve (Gardane)

Son. da indovinare (Venezia) Capitoli di Aretino, Dolce, Sansovino e altri (Venezia)

Strambotti (Vavassore)

Frottole nove (Vavassore)

Soggetto (forma, tema)

Franco Piperno

180

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1553

1552

1551

1550

1549

1548

VI rime di div. (Bonelli);

III rime di div. (Cesano) Rime di div. eccell. aut. (ist. del Fortunato) Rime div. di molti eccell. aut. (ist. di A. di Grazia) I madr. a 3 (Gardane) IV rime di div. (Bologna; Giaccarelli)

II lett. volg.(Manuzio) I rime div. (Giolito) I lett. div. (Mantova Ruffinelli) II rime di div. (Giolito)

1545

1547

Nuovo lett. rari aut. d. lingua volg. ital. (Gerardo)

1544

II madr. a 5 di Ruffo + alcuni madr. di Nasco (Gardane)

Son. del Burchiello e altri (Firenze, Giunti)

Madr. de la fama a 4 (Scotto) ; III madr. a 5 di Rore e altri (Scotto)

Rime di Tullia d’Aragona e di div. a lei (Giolito)

Rime di div. raccolte da i libri (Giolito)

Ambiente (città, Accademia)

Rime di div.... bresciani (Pietrasanta)

Rime di div. napoletani (Venezia, Giolito)

Son. d. acc. Trasformati di Milano (Milano, Borgi)

Barz. nuove bergamasca (Siena, di Simione)

II madr. a 5 di Rore + Adriano e altri a mis. comune (Gardane) Caprici over giripici (Verona)

Soggetto (forma, tema)

Lett. scritte a P. Aretino da molti, I e II Marcolini) III rime spir. (segno della Speranza) Concetti amor., cioè lett. giovanili... di Bembo e altri (Modena, Tagietti) Stz. di div. a commodo e utile de gli studiosi (Giolito); Stz. past. (Castiglione, Gonzaga, Corso) (Manuzio)

Lett. scritte al… signor Vitelli (Firenze, Torrentino)

Lett. valorose donne (Giolito) I burl. di Berni, Casa e altri (Firenze, Giunta) Comp. volg. lat. e gr. † Lucia dal III madr. a 4 a note negre (Scotto) Sole (Padova, Fabriano); Stz. bellissime in lode d. città di Vero III madr. a 4 a note negre (Gardane) Bologna (Bologna, Giaccarelli) Consolatorie de div. (Arrivabene) I rime spir. (segno della Speranza); II rime spir. (segno della Speranza)

Rime liggiadre acc. novi... di Latio (ins. di Apolline) Rime e ep. lat. di aretini † Cleopatra aretina Ep. lat. e son. † Bembo (s.n.t.) (Venezia)

Encomio (lode, nozze, morte)

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181

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I muse a 5 (Roma, Barrè) Rime div. di molti eccell. aut. (Pagano) Lett. di 13 uomini ill. (Comin da Trino) VII rime di div. (Giolito); I rime di div. eccell. (Lucca, Busdraghi) III lett. volg. di div. (Manuzio)

1555

IX rime di div. (Cremona, Conti) III muse a 5(Gardano) Lett. volg. di div. (Cremona, Conti)

I dolci e amor. concenti a 5 (Scotto); II dolci e amor. concenti a 5 (Scotto); I muse a 3 (Scotto)

1560

1562

1563

1561

II muse a 5 (Gardano)

1559

1558

1557

1556

Lett. di 13 uomini ill. (Valgrisi?)

1554

V madr. a 4 di Cipriano e Annibale + altri (Gardane)

II muse a 5. Madr. di Lasso [e altri] (Roma, Barrè)

II rime scelte da div. (Giolito)

Fiori delle rime de’ poeti ill. (Sessa)

Lett. … raccolte da div. libri (Giolito)

Canti 5 in lode di donne di Padova (Percaccino)

Rime di div.† duchessa di Fiorenza... (Ferrara, Panizza); Poesie tosc. e lat. di div.† d. Giovanni cardinale... (Firenze, Torrentino); Versi lat. e volg. per Iacomo Balamio (Pesaro, s. ed.)

Rime in lode di Girolama Palmuccia d. Ozzeri (Griffio)

Stz. di div. a Isabella Manfrona Pepoli (Bologna, Benazzio) Rime di div.... † Irene di Spilimbergo (Guerra)

Carmina varia, Patavii conscripta † Nicolai a Turri (Padova, Percaccino)

I mus. spir. a 5 (Scotto) II stz. di div. aut. (Giolito)

Canz. a ballo composte da div. (Firenze, presso al Vescovado) II muse a 4. Madr. ariosi (Roma, Barrè) Frottole nove (Firenze) Rime div. d’alc.... donne (Lucca, Busdrago) I lett. da div. a Bembo scritte (Sansovino) I lett. facete e piacevoli (Muschio) 7 libri di satire [di div.] (Bevilacqua) III muse a 4. Madr. ariosi (Roma, Barrè) I lett. di principi (Ziletti)

IV madr. a 4 a note bianche (Gardane) Versi morali e sentenziosi (contrada di s. Maria Formosa) I muse a 4. Madr. ariosi (Roma, Barrè) II burl. di altri (Firenze, Giunta) Stz. di div. ill. poeti (Giolito)

Tempio G. d’Aragona (Pietrasanta)

Son. e canz. in vita e † Livia Colonna (Roma, Barrè)

Soggetto (forma, tema)

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Franco Piperno

182

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1570

1569

Dolci frutti. I madr. a 5 (Scotto)

III Desiderio. Madr. a 4 di Lasso e altri (Scotto) Rime di tre de’ più ill. poeti dell’età nostra (Portonari)

Eletta di tutta Mus. de’ virt. d. cappella del duca di Baviera (Scotto) la mus. (Zorzi)

Rime d. acc. Occulti (Brescia, da Sabbio); Stz. in lode di belle donne di Padova (Padova, Pasquati)

Rime di div.† Lucrezia Cavalcanti (Giolito)

Rime di div. in lode di cavalieri di Malta (Roma, Accolto) Le lagr. degli Ill. acc. di Casale † Margherita Paleologa (Trino, Giolito); Rime di div.† Lelio Chieregato (Padova, Pasquati); Rime di div. in lode di Cinzia Tiene (Padova, Pasquati) Corona † Anibal Caro (Scotto) Il Sepolcro d....sig.ra Beatrice di Dorimberg (Brescia, de Sabbio) Rime di div. † Salome di Munsterberg (Valgrisi)

Rime spir. di 7 poeti ill. (Napoli, de Boy) Scelta di rime spir. (Napoli)

Stz. di div. ecc. poeti (Genova, Bellone)

III fiamme a 5 (Scotto); Amor. concenti. I madr. a 4 (Scotto)

1568

1567

Di Vidue, Striggio e altri Madr. a 5 e 6 voci (Rampazetto)

Rime d. Acc. Eterei [Padova]

Lett. volg. di div. del Monferrato (Brescia, Degli Antoni) Rime d. Acc. Affidati di Pavia (Pavia, Bartoli)

Lett. di 13 uomini ill. (Vidali) I rime div. nob. poeti tosc. (Avanzo) II rime div. nob. poeti tosc. (Avanzo) I madr. a 4 intitolato il Desiderio. (Scotto); Il Desiderio II madr. a 5 (Scotto) Rime di div. eccell. aut. (de’ Franceschi) II fiamme a 5 e 6 (Scotto) Il Gandio I madr. a 3 (Scotto)

1565

Comp. lat. e tosc. † B. Varchi (Firenze, Torrentino) Rime e versi di vari comp.... del Frioli, sopra la fontana Helice (segno della Salamandra)

Tempio Geronima Colonna d’Aragona (Padova, Pasquati) Rime di div.† Ippolita Gonzaga (Napoli, Scotto); Comp. volg. e lat. di div.† Ercole Gonzaga Poesie di div. lat. e volg. † Michelagnolo Buonarroti (Firenze, Sermartelli) Rime di div. in lode di Lucrezia 9 libri delle lett. amor. di Gonzaga (Bologna, Rossi) div. (Cavalli) Satire di 5 poeti ill. (Valvasori)

Stz. composte da alc.... dell’Acc. d. Invaghiti in lode di gentildonne mantovane (Mantova, Filiponi)

1564

1566

Encomio (lode, nozze, morte)

Ambiente (città, Accademia)

Soggetto (forma, tema)

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Sonetto X (anon.) (Martelli) Canzone X (Petrarca, 126)

S’io credessi per morte essere scarco Se la presenza vostra non affrenasse Tant’è l’ardor, la fe’ che meco porto Nasce bella sovente in ciascun loco X

X

X

X (Naich)

Stanza di canzone (Bembo, Asolani)

Reulx

Madr.-ball.

X

X

Yvo

Madrigale

Yvo

Naich (?)

Ottava

Ferabosco

X

Anon.

Stanza di canzone

Naich

X

X

Madrigale

Yvo

X

X

X

Madr.-ball. (Cassola)

Arcadelt

Ottava (Ariosto, O.f. 31/1) Sonetto (Petrarca, 36) Madr.-ball.

Madr.-ball.

Arcadelt

X

X

Madr.-ball.

Ottava

Naich

Benché la donna Naich mia non mostri aver Che dolce più, che Naich più giocondo stato

Sonetto

Willaert

Arcadelt

Festa

X (Nollet)

Sonetto

Berchem

1542

Qual anima ignorante over più saggia Per inospiti boschi ispiti ed ermi Da’ bei rami scendea, Dolce nella memoria Chi volesse saper che cos’è amore Il capo d’Hydra in me dipinge Amore Quel sì grave dolore ch’io sentirò Così mi guida Amore di pensier in pensiero Apri la porta ormai, Dolce mia pastorella Vezzosi fiori e vaghi, Dolci su le tue rive Dormend’un giorno a Baia Deh dolce pastorella, vaga, leggiadra e bella

Testo: forma (autore)

Intonatore

Incipit

X

X

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X (anon.)

X (Nollet)

1543

X

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X (Rampollino)

X (Nollet)

1547

X

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X (anon.) X

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X (anon.) X

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1546

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1550 Scotto

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1552a

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1552b

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1557

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1558 Scotto

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1560 Scotto

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!563 Rampazetto

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X (anon.) X

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X (anon.) X

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X (anon.) X

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X (anon.) X (anon.) X (anon.) X (anon.) X (anon.) X (anon.) X (anon.) X (anon.)

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X (anon.) X (anon.) X (anon.) X (anon.) X (anon.) X (anon.) X (anon.) X (anon.)

X

X

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1548

Tabella 2. Contenuto del Primo libro d’i madrigali de diversi… a misura di breve… quatuor vocum (Venezia, Gardano 1542 e succ. ristampe) in grassetto il contenuto della prima edizione

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1567 Scotto

Franco Piperno

184

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Madr. antico X (Petrarca, 106) Madr.-ball. X Ballata

Madrigale Stanza di canzone (Bembo, Asolani) Stanza di canzone (Petrarca, 36) Ballata

Berchem

Verdelot

Naich (?)

Con lei fuss’io da che si parte il sole

De Ponte

Io non so dir parole Ferabosco né tanto nimpheggiar

Vostra mercé, Arcadelt madonna, che cosa veramente Donna vostra beltà, Coteccia s’a dirlo lice Questi soavi fiori, Buus quest’erbe e queste novelle

Non ved’oggi il mio Bracharaio sole splender nel luogo usato Vivace fiamma che Corteccia con dubbia speme Perché la vita è Corteccia breve e l’ingegno paventa

Per Dio, tu se’ Naich cortese, Amore, se invece Io mi son giovinetta Ferabosco e volentieri

Novo piacer che Arcadelt negli uman’ingegni

Naich

Anon.

Sestina stanza X (Petrarca, 22) (Corteccia)

X

X

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X (Yvo)

X

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X (Arcadelt)

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X (Corteccia)

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X (anon.) X

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X (Arcadelt) X

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Ottava

X

X

Versi liberi (Tolomei, Versi e regole «A Lice» Madr.-ball-

Stanza di canzone (Petrarca, 71, incompleta) Ballata X

X X

Madr.-ball.

X

1547

X (anon.) X

1546

X (Corteccia) X

X

X

X

X

X

X (Yvo)

X

X

1543

X

X (Corteccia)

X

Ballata (Boccaccio, Decameron, IX) Stanza di canzone

X

X

X

X

X (Yvo)

X

Madr.-ball.

Naich

1542

Cesarea gentil, leggiadra e bella Nov’angioletta sopra l’ale accorta Qual fia ’l dolor nella crudel partita Troppo scarsa, madonna, sete degli occhi vostri Perché più acerba sete e più rubella Che giova saettar un che si more

Testo: forma (autore)

Intonatore

Incipit

1550 Scotto

1552a

1552b

X

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X

1557

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X (anon.)

1558 Scotto

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1560 Scotto

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!563 Rampazetto

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X (anon.) X (anon.) X (anon.) X (anon.) X (anon.) X (anon.) X (anon.) X (anon.)

X

X

X (anon.) X (anon.) X (anon.) X (anon.)

1548

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X (anon.)

X

X (anon.) X

1567 Scotto

Petrarchismo, editoria, musica: la “raccolta di diversi” e le edizioni collettive di madrigali

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Madrigale

Madrigale (Cassola) Madrigale Stanza di canzone (Petrarca 105, difettiva) Ottava (Ariosto, O.f., 19/1) Madr.-ball.

Berchem

Arcadelt

Naich

1

Anon.

Berchem

Berchem

Berchem

Naich

Madrigale (Cassola) Medrigale (Cassola) Stanza di canzone (Martelli)

Ballata (Grimaldi)1 Sonetto

Anon.

X

X (Yvo)

X

1542

X

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X

X

X

X

X (Anon.) X

X

X

X

X

X

X

X

X (Yvo)

1547

X

X

1546

X

X (Yvo)

1543

X

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X

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X (Anon.) X

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1548

X

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1550 Scotto

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X (Anon.) X

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1552a

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1552b

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1557

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1558 Scotto

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1560 Scotto

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X

!563 Rampazetto

Testo successivamente pubblicato nella miscellanea Rime diverse di molti eccellentissimi auttori nuovamente raccolte vol. IV, a cura di Ercole Bottrigari (1551)

Madonna io son un medico perfetto Donna gentil, i bei vostr’occhi ardenti Chi vuol veder crin d’oro crespo e biondo Amar un sol amante è vero amore Quell’ardente desir ch’Amor mi diede Temp’è da incominciar quel piant’omai

Festa

Nasce fra l’erbe un fiore ch’ama il Sol Solea lontan in sonno consolarme

Rossello

Anon.

Ottava di sonetto (Petrarca, 107, 1-8) Stanza di canzone (Bembo, Asolani) Stanza di canzone Ottava di sonetto (Petrarca, 250, 1-8) Madrigale

Rossello

Anon.

Là dove il sol più tardi a noi s’adombra

Qal vista sarà mai, occhi miei lassi Non veggio ove scampar mi possa omai

Alcun non può saper Ruffo da chi sia amato

Naich

Madrigale

Ferabosco

Niega tua luce omai gentil specchio Quando son più lontan de’ bei vostr’occhi Fu tempo già ch’io vissi Canti di voi le lode chi vostri sguardi Proverbio ama chi t’ama è fatto antico

Testo: forma (autore)

Intonatore

Incipit

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X

X

X

1567 Scotto

Franco Piperno

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Sestina stanza (Sannazaro) Stanza di canzone (Petrarca, 270) madrigale

Ruffo 2

Porta

Lasso, ch’io non so ben l’ora né ’l giorno Fammi sentir di quell’aura gentile

1543

1546

1547

1548

1550 Scotto

1552a

1552b

X

X

X (anon.)

1557

1558 Scotto

!563 Rampazetto

X

X

X

X

X (anon.) X (anon.)

1560 Scotto

1567 Scotto

Già presenti in raccolte collettive Berchem Corteccia Naich Willaert Yvo

Arcadelt Festa Verdelot Bracharaio Buus De Ponte Ferabosco Reulx

Esordienti Berchem Corteccia De Ponte Ferabosco Naich Reulx Willaert

Pubblicheranno un proprio volume

Bracharaio Buus Yvo

Saranno inclusi in altre raccolte

Tabella 3. Situazione editoriale dei tredici musicisti sillogizzati nel Primo libro d’i madrigali a misura di breve (prima edizione)

Ripreso dal III libro di madrigali a note negre (1546) dove è attribuito a Ruffo.

1542

Già autori di un proprio volume

2

Bianca e vezzosa Anon. sei, così fosti pietosa

Testo: forma (autore)

Intonatore

Incipit

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187

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Per questa princeps, a lungo creduta persa, vd. J. Bernstein, Music Printing in Renaissance Venice: the Scotto Press (1539-1572), New York, Oxford University Press, 1998, pp. 727-9.

2

Il Gaudio. Primo libro de madrigali de diversi… a tre voci, Venezia, Scotto 1567 1: canzone frottola in 6 stanze Mai non vo’ più cantar com’io soleva (F. Petrarca) 1. Mai non vo’ più Claudio Merulo cantar com’io soleva 2. I’ diè in guarda a san Andrea Gabrieli Pietro; or non più, no 3. Proverbio «ama chi Francesco Bonardo t’ama» è fatto antico Perissone 4. Forsi ch’ogni uom Antonio Greco che legge non intende 5. In silenzio parole Leando Mira accorte e sagge 6. Dei passati miei Daniele Grisonio Musica de’ virtuosi della florida capella del… Duca di Baviera, Venezia, Scotto 1569: canzone in 12 stanze Al dolce suon del mormorar de l'onda (A. Minturno) 1. Al dolce suon del Orlando di Lasso mormorar de l'onda 2. Mai non si vide più Gioseffo Guami sereno il cielo 3. Perché lontana da Simon Gatto fallaci scogli 4. Qual nave scorta da Fileno Cornazzani celeste lume 5. Et or veggio fortuna Francesco Guami in mezz'il porto 6. Di color mille variate Gio. Battista da Cremona piagge 7. Eolo crudel come Antonio Gosswin turbasti l'onda 8. Oscuro abisso mi s’è Ivo de Vento fatto il cielo 9. Né più riveggio per Gio. Battista Romano erbosi scogli 10. Duolsi Giunon di non Leonard Meldert aver piu lume 11. Lungi dal mio Massimo Troiano tranquillo e fido porto 12. Quando fia ch’io le Massimo Troiano verdi, amiche piagge

Canzone in lode di una vittoria militare dei veneziani.

2

I dolci frutti. Primo libro de vaghi e dilettevoli madrigali di diversi…, Venezia, Scotto 1570: canzone in 11 stanze Questo si ch’è felice e lieto giorno 2 1. Questo si ch’è felice e Baldassarre Donato lieto giorno 2. Vivea solo per voi Claudio Merulo lieta e beata 3. Si ch’ove prima i puri Gioseffo Zarlino incensi ardendo 4. Piangean e padri e Paolo Animuccia figli empi e crudeli 5. Quand’ecco, donna, il Gio. Pierluigi da vostro braccio invitto Palestrina 6. Quai divenner le Francesco Bonardo Perissone piagge e i colli allora 7. Ah forsennati, è forse Giovanni Contino oscura e umile 8. Gite ne gli antri e ne Giaches de Wert l’oscure selve 9. Ma da qual altro cor Andrea Gabrieli di valor cinto 10. Or ecco alme superbe Costanzo Porta il pro ch’il vostro 11. Del chiaro sangue di Gabriele Martinengo Filippo altero

Tabella 4. Testi poetici pluripartiti intonati da ‘diversi’.

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DONNA E POETA. METAMORFOSI CINQUECENTESCHE

E per replicare in parte in poche parole quello che già s’è detto, voglio che questa donna abbia notizia di lettere, di musica, di pittura, e sappia danzare e festeggiare, accompagnando con quella discreta modestia e col dare buona opinione di sé ancora le altre avvertenze che sono state insegnate al cortigiano. E così sarà nel conversare, nel ridere, nel giocare, nel motteggiare, insomma in ogni cosa, gratissima; e intertenerà accomodatamente e con motti e facezie convenienti a lei ogni persona che le occorrerà (Il Cortegiano, l. III).

Per quanto possa sembrare inverosimile, il primo pubblico di Petrarca, il Voi che apre il Canzoniere, non è, istituzionalmente, un pubblico femminile. In questo senso, il Canzoniere segna un passo indietro rispetto alla tradizione lirica a cui appartiene. Laura è pressoché sola in scena – come alter ego, doppio e specchio del soggetto lirico1 – a gestire il suo ruolo di donna e di deuteragonista, mentre il pubblico femminile – all’interno della fabula dei

1 In questo senso, per riprendere il titolo di un saggio che citerò ampiamente anche in seguito, tanto utile quanto, a me pare, non molto fortunato all’interno della bibliografia specifica sul petrarchismo femminile, Laura è appunto solo lo specchio di PetrarcaNarciso: cfr. L. Borsetto, Narciso ed Eco: figura e scrittura nella lirica femminile, in Ead., Il furto di Prometeo. Imitazione, scrittura e riscrittura nel Rinascimento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1991, pp.105-77. E ancora, un classico della letteratura sul petrarchismo riprende l’immagine dello specchio: cfr. L. Baldacci, Il Petrarca specchio di vita, in Id., Il petrarchismo italiano del Cinquecento (1957), nuova ed. ampliata, Padova, Liviana, 1974.

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Fragmenta, il gruppo di donne sullo sfondo – è ormai ridotto a poche, stereotipate presenze. Muovendo dal suo archetipo, il petrarchismo implica insomma un duplice fraitendimento, a seconda che a praticarlo siano stati gli uomini o, invece, le donne. Il petrarchismo maschile opera nella convinzione che Petrarca abbia istituito (sia) una norma (addirittura un alfabeto o una grammatica) e un’accademia (da cui appunto il paradigma del Classicismo); l’universo femminile mostra di credere che il Canzoniere abbia parlato alle/delle donne, e elaborato un modello di soggettività che anche alle donne fosse agevole praticare. È una doppia mistificazione che trova la sua verità – in entrambe le accezioni – nel Cinquecento. Pur senza intendere i due territori – del maschile e del femminile – come necessariamente conflittuali, è quindi senz’altro vero che la nozione di genere (e le relazioni di genere) connota il discorso storiografico anche nello spazio della poesia petrarchistica del Cinquecento2. 1. Gli spazi della storiografia Non c’è che da cominciare con Petrarca per percepire l’enorme distanza percorsa dalla donna-poeta3 dall’icona sfocata dei Rerum vulgarium fragmenta sino al petrarchismo italiano del Cinquecento4, dall’immagine virtuale

2 Per un primo approccio alla nozione storiografica di genere si può ricorrere a J. Scott, Il “genere”: un’utile categoria di analisi storica, «Rivista di storia contemporanea», XVI, 1987, e a Women in Italy: essays on gender, culture and history, ed. Z. Baránski and S. Vinall, London, Macmillan, 1991 (ma la bibliografia è ormai amplissima, come documentano i titoli allegati sul tema da Wiesner, Le donne nell’Europa moderna, in partic. pp.XXXIV-XXXV). 3 Preferisco servirmi della perifrasi donna-poeta (o poeta-donna), calco dell’inglese (e politicamente più corretto) woman poet, invece del più usuale poetessa, termine che, coniato già nel XIV secolo dal Semintendi (come attestano tutti i vocabolari storici della lingua italiana, a partire da Tommaseo-Bellini e GDLI), nel Cinquecento ha un impiego quasi esclusivamente dispregiativo, fino a degradarsi nel poetana di Caro. Del resto, poetessa non è neppure un lessema isolato dei dizionari italiani contemporanei, che lo considerano solo come deriv. di poeta. Una conferma dell’uso ‘neutro’ del vocabolo poeta viene, nel Cinquecento, dall’antologia delle Rime diverse d’alcune nobilissime e virtuosissime donne (cfr. ad es. la dedica a p. 43: Alla Signora Livia Pia Poeta). 4 Più avanti, preferisco restringere il mio campo di indagine alla poesia femminile in Italia, correndo i rischi che un taglio del genere comporta. Ogni situazione nazionale, del resto, è caratterizzata da troppi elementi specifici per permettere una sintesi in grado di contenerli tutti senza generalizzazioni e forzature insopportabili.

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Donna e poeta. Metamorfosi cinquecentesche

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alla voce autoriale. Che il «silenzio delle donne»5 per lunghi secoli della letteratura italiana sia stato, almeno in parte, sconfitto da una bibliografia oggi imponente per quantità e per qualità (la letteratura, particolamente attiva negli ultimi trent’anni e soprattutto oltreoceano, dei Women’s Studies) è un dato certo6. Delle donne nel Cinquecento (nobildonne, cortigiane, cantanti e

5 È un’espressione di M. Zancan, Il doppio itinerario della scrittura. La donna nella tradizione letteraria italiana, Torino, Einaudi, 1998, p.XII. 6 Sono innumerevoli le voci bibliografiche chiamate in causa sia dal tema, più generale, della letteratura femminile in Europa, sia da quello più specifico della poesia petrarchistica femminile del Cinquecento, soprattutto in Italia. Le prime sistemaziono storiografiche risalgono all’erudizione settecentesca, e comprendono, oltre ai soliti Crescimbeni e Quadrio, anche voci più peregrine, come L. Bergalli Gozzi, Componimenti poetici delle più illustri rimatrici d’ogni secolo, Venezia, Mora, 1726. Per la bibliografia contemporanea è invece solo questione di scelta, o di preferire certi scorci del paesaggio femminile, piuttosto che altri. A partire dal vecchio studio di G. Toffanin, Petrarchiste del Cinquecento, «La Rinascita», I, 1938, pp. 73-93, per l’Italia e l’Europa mi sono servita di alcuni classici e raccolte di saggi, come R. De Maio, Donna e Rinascimento, Milano, Il Saggiatore, 1987; A. R. Jones, The Currency of Eros: Women’s love Lyric in Europe (1540-1620), BloomingtonIndianapolis, Indiana University Press, 1990; M. L. King, Le donne nel Rinascimento, Roma-Bari, Laterza, 1991; Rinascimento al femminile, a cura di O. Niccoli, Roma-Bari, Laterza, 1991; O. Hufton, Destini femminili. Storia delle donne in Europa, 1500-1800, Milano, Mondadori, 1996; A History of Women’s Writing in Italy, ed. by L. Panizza e Sh. Wood, Cambridge, Cambridge University Press, 2000; G. Bock, Le donne nella storia europea: dal Medioevo ai nostri giorni, Roma-Bari, Laterza, 2001; Monaca, moglie, serva e cortigiana. Vita e immagine delle donne tra rinascimento e controriforma, a cura di S. Matthews Greco (con la collaborazione di S. Brevaglieri), Firenze, Morgana Editrice, 2001; e del panorama tracciato da G. Rabitti, La letteratura femminile e l’Europa, in Storia della letteratura italiana dir. da E. Malato, XII, La letteratura italiana fuori d’Italia, coord. da L. Formisano, Roma, Salerno Ed., 2002, pp. 399-433. Per altri acquisti recenti, con l’occhio rivolto soprattutto alla poesia italiana, è d’obbligo riferirsi a F. Erspamer, La lirica femminile, in Manuale di letteratura italiana. Storia per generi e problemi, a cura di F. Brioschi e C. Di Girolamo, 2, Dal Cinquecento alla metà del Settecento, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, pp. 201-5; a G. Masi, La lirica e i trattati d’amore, in Storia della letteratura italiana dir. da E. Malato, IV, Il primo Cinquecento, Roma, Salerno ed., 1996, pp. 595-679, in partic. pp.630-34 (per le cortigiane) e pp.634-42 (per le petrarchiste), e a G. Forni, Rassegna di studi sulla lirica del Cinquecento (1989-1999), «Lettere Italiane», LII, 2000, pp. 100-40, in partic. pp.130-34. Quando questo saggio era già in corso di stampa, è stato pubblicato il volume «L’una et l’altra chiave». Figure e momenti del petrarchismo femminile europeo, Atti del Convegno internazionale di Zurigo, 4-5 giugno 2004, a cura di T. Crivelli, G. Nicoli e M. Santi, Roma, Salerno Editrice, 2005. Qui alcuni saggi in particolare (voglio ricordare M. Picone, Petrarchiste del Cinquecento, pp.17-30, e M. L. Cerron Puga, Le voci delle donne e la voce al femminile: vie del petrarchismo in Italia e in Spagna, pp.103-31) integrano e approfondiscono alcuni dei temi toccati in queste pagine. Altra letteratura secondaria, anche di impianto generale, è disseminata nelle note che seguono.

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musiciste, accademiche, monache) crediamo di sapere molto, a partire dalle occasioni (di censo, di corte o di convento, socio-antropologiche e accademiche) che agevolarono il loro accesso alla poesia7. Fenomeno che a mio parere si avvantaggia anche, e parecchio, di un aspetto che forse sino a oggi non è stata tenuto in debita considerazione (anche per le scarse informazioni di cui disponiamo sulla formazione letteraria – la ratio studiorum – impartita alle donne)8: vale a dire che l’imitazione del Canzoniere consente una facile alfabetizzazione lirica, e ammette al palcoscenico della letteratura (addirittura europeo) senza che sia necessario conoscere il latino, con le sole forze dell’apprendimento di una grammatica della poesia volgare9. La forma della poesia è così speculare – ma di certo non analoga – a quella della prosa: tanto che molto spesso le scritture epistolari rivelano nelle medesime rimatrici una

7 Tali ragioni, divenute ormai senso comune, sono illustrate ad esempio nel III libro del Cortegiano, da cui è tratta la citazione che apre queste pagine. La bibliografia implicata è vastissima (a partire dai trattati del Cinquecento, per i quali potrà essere utile servirsi di A. Chemello, Donna di palazzo, moglie, cortogiana: ruoli e funzioni sociali della donna in alcuni trattati del Cinquecento, in La corte e il “Cortegiano”, II. Un modello europeo, a cura di A. Prosperi, Roma, Bulzoni, 1980, pp. 113-32), e può essere attinta da M. E. Wiesner, Le donne nell’Europa moderna. 1500-1750, Torino, Einaudi, 2003, da G. Zarri, Recinti. Donne, clausura e matrimonio nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 2000, da alcuni degli interventi del misc. Women in Italian Renaissance Culture and Society, a cura di L. Panizza, Oxford, European Humanities Research Centre, 2000, e dal saggio di Borsetto, Narciso ed Eco, in particolare pp. 113 ss. Sulle cortigiane, la cui condizione di poetesse era sì accolta da un pubblico vasto, ma non negli stessi termini di ricezione con cui si accoglieva la poesia delle donne ‘oneste’, si può ricorrere a P. Larivaille, La vita quotidiana delle cortigiane nell’Italia del Rinascimento, Milano, Rizzoli, 1983. 8 Come si evince da Zarri, Le istituzioni dell’educazione femminile, in Ead., Recinti, pp. 145-200. Posso aggiungere che il paradigma educativo delle donne era contrastante, improntato all’ideale pagano-cristiano della modestia (divenuta poi tutt’uno con la castità), e ibridato da modelli esemplari di virtù eroiche (sul tema, si vedano rispettivamente D. Knox, Civility, courtesy and Women in the Italian Renaissance, e M. Ajmar, Exemplary Women in Renaissance Italy: ambivalent models of behaviour?, in Women in Italian Renaissance Culture and Society, pp. 2-17, e 244-64). Qualche altra informazione generale, che però non tocca il cuore del nostro problema, e cioè con quali strumenti e con quanta frequenza si provvedesse all’educazione delle fanciulle, offre Wiesner, Istruzione e cultura, in Ead., Le donne nell’Europa moderna. 1500-1750, pp. 161-99. 9 Può sembrare sorprendente, ad esempio, che anche le intellettuali del Cinquecento (o le dame di rango più elevato, come Isabella d’Este) fossero praticamente digiune di latino, come nota, a proposito della donna-filosofo Laudomia Forteguerri, C. Fahy, Women and Italian Cinquecento literary Academies, in Women in Italian Renaissance Culture and Society, pp. 438-53, a p. 443.

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povertà e un impaccio espressivo a cui ovviava in poesia la stretta imitazione del Canzoniere10. Tuttavia, vuoti e fraintendimenti non impediscono di percepire i passi da gigante percorsi dalle donne per giungere a condividere con gli uomini la scena della lirica del Cinquecento. È una distanza colmata in apparenza con un unico scatto, nei primi sessant’anni del secolo XVI, con uno slancio e una ricchezza di personalità che hanno fatto parlare – a mio parere con qualche forzatura – della nascita di un vero e proprio gruppo11 di letterate (in realtà, di donne dedite quasi esclusivamente alla poesia), apparse per la prima volta, come «fenomeno collettivo»12, sulla scena culturale italiana. Dirò subito che la formula di gruppo (per quanto scaturita da un pulpito autorevolissimo, e ancora oggi molto praticata) non mi convince sino in fondo, a meno che non voglia semplicemente suggerire il presentarsi in folla delle rimatrici cinquecentesche all’occhio e alla prospettiva di noi lettori moderni. E del resto l’espressione (e il relativo concetto) non è passata indenne neppure al vaglio della critica del Novecento: per parte sua, ad esempio, Luigi Baldacci ha definito la «letteratura femminile del petrarchismo» un «denominatore […] fittizio»13. Questi i motivi della mia perplessità, che tengono conto di un tessuto noto nelle sue punte d’eccellenza, e invece, a me sembra, semisconosciuto nel suo disegno reale. A esaminare meglio il quadro complessivo, è ad esempio un fatto che non sempre sia possibile separare, distinguere, marcare la differenza delle donne all’interno di un immaginario e di una dimensione socio-culturale della poesia disegnati da una presenza maschile totalizzante. Per pensare a un caso tra i più ovvi, al di là di una Compiuta Donzella di Firenze e di Caterina da Siena, la voce delle donne, alle origini della nostra poesia, risulta sempre contraffatta, se non addirittura storpiata e messa in caricatura, da poeti di sesso maschile (così per i contrasti, le pastorelle, le albe, i lamenti, le canzoni a ballo, i carri carnascialeschi, ecc.): una consuetudine tanto dura a morire da avere largo seguito almeno sino al pieno Cinquecento, quando, a fianco dei

10 È una fatica che possiamo registrare ad esempio nel carteggio di Maria Savorgnan a Pietro Bembo. 11 La definizione di gruppo, divenuta rapidamente celebre e consolidata anche dalle storie letterarie, spetta a C. Dionisotti, La letteratura nell’età del Concilio di Trento (1965), in Id., Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1967, p. 238. 12 Di fenomeno collettivo parla, a proposito delle scrittrici italiane e europee nel XVI secolo, G. Rabitti, La letteratura femminile e l’Europa, a p. 399. 13 Cfr. Lirici del Cinquecento, commentati da L. Baldacci, Firenze, Salani, 1957, p. XXXVI.

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primi libri di rime firmati da donne, continua a stampa la tradizione, che ormai sfiora il grottesco delle figurine popolareggianti e dialettali (e anticipa certi lati popolareschi della pittura del manierismo e del barocco), del Lamento delle donne e d’una gentildonna padovana, dell’Ammaestramento di una vecchia, della Giovinetta tradita o malmaritata, della Canzonetta delle massarette (BIBLIA, 322, 1071, 2619, 2630, 2647) 14. Alla mistificazione del testo fa da contraltare la mistificazione della storia. È un fatto che dalle antologie e dalla critica del nostro tempo emerga un panorama convenzionale delle scritture femminili, in evoluzione lenta quanto ai dati interpretativi e alla connessioni critiche con la letteratura del contesto15. Per quanto il Cinquecento sia il secolo d’oro della poesia femminile, le donne non vi creano scuola o tradizione di poesia, se non in episodi isolati e mutuando istituzioni e forme maschili16. Uno spazio forse non imprevisto si apre all’esperienza della poesia femminile a Siena: ma la frammentarietà del discorso storiografico è, almeno nelle sue diramazioni capillari, tuttora percepibile. Il ruolo delle donne nelle Accademie17 è estemporaneo (se non addirittura inconsistente)18; la loro poesia – poesia delle donne – ricalca il linguaggio già grammaticalizzato dalla tradizione del petrarchismo19; e raramente, 14 Ho eseguito questo controllo (e molti altri che seguiranno) su BIBLIA, Biblioteca del libro italiano antico diretta da A. Quondam, La biblioteca volgare, 1, Libri di poesia, a cura di I. Pantani, Milano, Editrice Bibliografica, 1996 (d’ora innanzi BIBLIA). 15 Di questo panorama ha fornito ampio ragguaglio A. Quondam, Petrarchismo mediato. Per una critica della forma ‘antologia’, Roma, Bulzoni, 1977, rist. 1990 (con un capitolo specifico dedicato alle donne-poeti del Cinquecento, pp. 133-53). 16 Manca anche in questo settore un censimento (sia dei manoscritti sia delle stampe) che ci permetta di affrontare il discorso della intercolloquialità delle donne (ad esempio rapportando le poesie alle scritture epistolari) e di loro eventuali iniziative di ‘politica culturale’. Dal già noto sembra emergere molto poco, come i cinque sonetti di donne senesi scritti in risposta per le rime a un sonetto di Alessandro Piccolomini del 1540 (sull’episodio si veda Fahy, Women and Italian Cinquecento literary Academies, in Women in Italian Renaissance Culture and Society, a p. 443). 17 Sulle accademie letterarie italiane basti il rinvio (anche per la bibliografia d’uso) a A. Quondam, L’accademia, in Letteratura Italiana, I, Il letterato e le istituzioni, Torino, Einaudi, 1982, pp. 823-98. 18 Lo ha ripetuto con decisione Fahy, Women and Italian Cinquecento literary Academies, in Women in Italian Renaissance Culture and Society, pp. 438-53, a pp. 444 e 446: «Woman members remained a rarity»; «In the sixteenth-century Italy, women writers and intellectuals, even famous ones, operate outside, or at best in the margin of, the literary academy, which as an institution did little or enhance their intellectual status». 19 Non voglio negare l’originalità di certe scritture femminili rispetto al codice lirico maschile: ma mi sembra in ogni caso incontestabile che le donne pratichino la poesia con maggiore fedeltà al registro lirico (senza entrare, ad esempio, nel terreno della parodia).

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nel quadro più generale del libro di poesia contemporaneo, si pone al centro di iniziative strutturali importanti come la forma-Canzoniere20; men che meno si può pensare a un preciso e distinto pubblico femminile identificabile grazie al paratesto o a specifiche sezioni dei libri di rime21. Strette da una fortuna limitata ai decenni centrali del Cinquecento, le petrarchiste italiane sono poi – almeno per la breve durata del fenomeno – senza storia e senza canone22. Se la parola gruppo comporta non solo un affollarsi, ma un raggrupparsi, alle letterate del Cinquecento non spetta l’identità – o la visione – di un fenomeno collettivo. Una volta disegnato sommariamente il quadro, se ne può cogliere qualche altro particolare: chiarendo una volta per tutte che le donne che nel XVI secolo si dedicano alla poesia possono contare su un pubblico e su un circuito editoriale che sono i medesimi del petrarchismo maschile. Ad esempio, il sonetto 15 di Gaspara Stampa parla a destinatari precisi (forse il gruppo dei poeti veneziani del suo tempo). Solo a un pubblico di esperti di sesso maschile – e rovesciando l’antico topos stilnovistico della poesia rivolta alle donne promotrici del canto – è legittimo enunciare non la poetica, ma l’insufficienza poetica dell’autrice: Voi, che cercando ornar d’alloro il crine per via di stile, al bel monte poggiate con quante si fe’ mai salde pedate, anime sagge, dotte e pellegrine, in questo mar, che non ha fondo o fine, le larghe vele innanzi a me spiegate, e gli onori e le grazie ad un cantate del mio signor sì rare e sì divine: perché soggetto sì sublime e solo, senz’altra aita di felice ingegno, 20 Occorre però osservare come questa forma venisse messa in crisi dall’uso della stampa, che privilegia la raccolta (eteronoma) al libro di poesia d’autore, assimilabile alla forma-Canzoniere. 21 L’importanza dei paratesti per le antologie di rime di medio Cinquecento (quanto all’identificazione di un pubblico e di un circuito di ricezione) è stata dimostrata da P. Zaja, Intorno alle antologie. Testi e paratesti in alcune raccolte di lirica cinquecentesche, in «I più vaghi e i più soavi fiori». Studi sulle antologie di lirica del Cinquecento, a cura di M. Bianco ed E. Strada, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2001, pp. 113-45. 22 Sul tema del canone femminile basti il rinvio al misc. Italian women writers from the Renaissance to the present: revising the canon, University Park, The Pennsylvania State University, 1996, e a N. Cannata Salamone, Women and the making of the Italian literary canon, in Women in Italian Renaissance Culture and Society, pp. 498-512.

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può per se stesso al cielo alzarci a volo. Io per me sola a dimostrar ne vegno quanto l’amo ad ognun, quanto lo còlo; ma de le lode sue non giungo al segno.

Anche i testi danno conferma di un disegno che resta discontinuo, e ibridato da processi culturali e tipologie di produzione solo maschili. Per sintetizzare grossolanamente, quando un libro di donna entra in tipografia non siamo per nulla certi che ve l’abbia portato l’autrice; ma senza alcun dubbio esso ne uscirà, manipolato, in vesti maschili. Se lo statuto del classicismo implica «un sistema forte e integrato, modulare e omogeneo»23, le donne ne rappresentano un elemento singolare: non però, come vedremo, un elemento di disturbo. Esaminiamo da vicino qualche campione esemplare. Veronica Gambara è, per motivi cronologici, il capofila del cosiddetto gruppo. Le sue rime, inaugurate dalle Stanze bellissime (Genova, per Anthonio Bellono, 1537, e Perugia, per Luca Bina mantuano ad instantia del Faentino, 1537: cfr. BIBLIA 2233 e 2234)24, sono in realtà da rastrellare in manoscritti e in minime stampe antiche (fino a raggiungere il numero complessivo di più di ottanta). Apripista di una lettura collettiva della poesia femminile del Cinquecento25, la Gambara è anche la prima a prestarsi a certe forzature della critica moderna. Ho il sospetto che, venuta meno nei secoli la topica cinquecentesca della nobiltà e dell’eccellenza quasi virile, sia, e non solo da oggi, subentrata una diversa etichetta di comodo: che apre la strada a una valutazione tutta interna e psicologica ma poco attenta ai meccanismi storici e formali di questa poesia femminile. Se non altro, occorrerà valutare se freschezza e immediatezza non derivino alla donna-poeta da penuria di mezzi espressivi o dalla difficoltà obiettiva a condividere e a dominare una poetica e una strategia materiale di cui raramente è 23 Così A. Quondam nella sua Introduzione a Il libro di poesia dal copista al tipografo, a cura di A. Quondam e M. Santagata, Modena, Franco Cosimo Panini, 1989, p. 11. 24 Si ricordi poi che il corpus poetico della Gambara si confonde con quello di Vittoria Colonna, almeno a stare alle Stanze de la diva Vettoria Colonna di Pescara inclita marchesana. Con un capitolo in sdrucciolo essortatorio a lassar l’orcio, s.n.t. (BIBLIA, 1409): le Stanze sono in realtà di Veronica Gambara. 25 La Gambara è, per quel che so, la sola donna poeta del Cinquecento a cui sia stato dedicato un volume miscellaneo di studi: Veronica Gambara e la poesia del suo tempo nell’Italia settentrionale, a cura di C. Bozzetti, P. Gibellini, E. Sandal, Firenze, Olschki, 1989 (nel quale qui mi interessa citare in particolare il saggio di A. Bullock, Per una edizione critica delle Rime di Veronica Gambara, pp. 98-124, che cataloga 84 componimenti da restituire alla rimatrice). Aggiungo per dovere di completezza che alla Gambara è stata dedicata anche la biografia-romanzo di D. Pizzagalli, La signora della poesia. Vita e passioni di Veronica Gambara, artista del Rinascimento, Milano, Rizzoli, 2004.

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Donna e poeta. Metamorfosi cinquecentesche

parte in causa. Per non parlare dell’arbitrio grave, perpetrato quasi inconsapevolmente sino a tempi recentissimi, di mettere sullo stesso piano – e di leggere sintagmaticamente, senza scansioni – rime di tipografia e rime manoscritte, cioè private. A definire qualche altro aspetto di rapporti culturali e materiali ancora difficilissimi da interpretare (come ‘statuto’ e modellizzazione della poesia del Cinquecento e come tipologia dei suoi autori), è la princeps delle Rime della Divina / Vittoria Colonna / Marchesa di /Pescara, Nouamente stampate con privilegio, Parma, [s.n.t., ma Antonio Viotti], 1538 (BIBLIA, 1410)26, quasi inconsistente per la definizione del testo critico (solo 145 poesie attribuite a Vittoria, fra le quali nove apocrife). La lettera di dedica di Philippo Pirogallo27 Al dottissimo Messer Alessandro Vercelli illustra per parte sua la chiave ideologica dell’operazione, sottolineandone i caratteri occasionali e la clandestinità. Chi conosca la lirica cortigiana di tardo Quattrocento, sa che questo è un topos ben radicato nel motivo dell’estemporaneità (e già praticato a stampa, fra gli altri, dalla princeps del 1498 delle Rime del Tebaldeo): ma, sottoscritta o no dalle autrici o dagli editori, sia essa reale o non, piuttosto, un escamotage di tipografia, l’estemporaneità – assieme all’occasionalità – finisce per aderire perfettamente, come segno di riconoscimento, alla poesia femminile28. Tuttavia qui c’è di più, come la modalità esemplare del libro di rime presso il pubblico maschile a cui esso è indirizzato: ho preso ardire di mettergli in istampa, anchora che contradicessi al voler d’una sì gran Signora; stimando meno errore dispiacere a una sola Donna (benché 26 Traccia un iter interpretativo delle stampe delle Rime di Vittoria Colonna – e delle intenzioni diverse sottese alla volontà degli editori, Rabitti, La letteratura femminile e l’Europa, pp. 401-405. Oltre all’edizione delle Rime di Vittoria Colonna a cura di A. Bullock, Roma-Bari, Laterza, 1982, e all’intervento di C. Dionisotti, Appunti sul Bembo e su Vittoria Colonna, in Miscellanea Augusto Campana, Padova, Antenore, 1981, pp. 25786, studi recentissimi evidenziano l’eccezionalità del ‘caso Colonna’ all’interno del panorama della scrittura femminile cinquecentesca. Si vedano in particolare: Vittoria Colonna, Sonetti in morte di Francesco Ferrante d’Avalos marchese di Pescara. Edizione del ms. XIII G. 43 della Biblioteca Nazionale di Napoli, a cura di T. R. Toscano, Milano, ed. Giorgio Mondadori, 1998; T. R. Toscano, Letterati, corti, accademie: la letteratura a Napoli nella prima metà del Cinquecento, Napoli, Loffredo, 2000. 27 Sul Pirogallo, accademico padovano Trasformato e editore delle Rime di Vittoria Colonna, si può ricorrere alla scheda di aggiornamento critico di S. Albonico, Il ruginoso stile. Poeti e poesia in volgare a Milano nella prima metà del Cinquecento, Milano, Angeli, 1990, p. 228. 28 Lo conferma anche la raccolta femminile di poesie forse più estese del Cinquecento, le rime della poetessa alessandrina Ippolita Gambaruta Clara, che ammonta a 318 componimenti, tutti rigorosamente manoscritti e improntati a «alto grado di occasionalità»: così S. Albonico, Ippolita Clara, in Veronica Gambara e la poesia del suo tempo, pp. 323-83, a p. 337.

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rara, e grande) che a tanti huomini desiderosi di ciò. […] la qual, e da per sé gli potrà rivedere di nuovo, e mandargli in luce, più per giovare agli intelletti, che ne l’età nostra si trovano, che per acquistar fama (A ii r-v).

Il che ci autorizzerebbe a percepire una consapevolezza di fare scuola che, invece, non era nelle intenzioni dell’autrice praticare. Ne deriva che la gestione maschile del circuito di produzione-consumo della poesia delle donne attiva fenomeni di ricezione e di interpretazione indipendenti dalla volontà del poeta (e fuorvianti rispetto alla vera natura del prodotto letterario). Un manoscritto di rime privato può diventare, grazie alla tipografia e contro la volontà dell’autrice, libro di tutti29. Se nel Cinquecento la forma-libro (non diciamo la forma-‘canzoniere’) viene per lo più elusa dalle donne30, anche la raccolta a stampa risulta quasi sempre posticcia, eterodiretta. Non manca però qualche eccezione. Fra le più salienti, quella della lucchese Chiara Matraini, alla cui iniziativa risalgono tre edizioni di Rime distanti fra loro più di quarant’anni (1555, 1595, 1597), condotte con sconcertante consapevolezza di sé da parte di un’autrice che poteva affermare: «[…] io oltre il comune uso delle donne che si dilettano di comporre, e degli huomini che lodevolmente hanno composto e scritto vorrei comporre e scrivere»31. ‘Libro d’altri’ è invece, ancora una volta, l’edizione postuma delle Rime di Gaspara Stampa, almeno a considerare la lettera di dedica della sorella di Gaspara, Cassandra, a Monsignor Giovanni della Casa (datata Venezia, 13 ottobre 1554)32, che topicamente annuncia: E volendo, e dovendo far il medesimo di queste sue Rime, tessute da lei (cioè distruggerle), parte per essercizio dello ingegno suo, felice quanto a donna, se 29

Come mi sembra sintetizzi anche Rabitti, La letteratura femminile e l’Europa, p. 402. Sulla forma-canzoniere fra Quattro e Cinquecento il riferimento d’obbligo è a M. Santagata, Dal sonetto al Canzoniere. Ricerche sulla preistoria e la costituzione di un genere, Padova, Liviana, 19892, al misc. Il libro di poesia dal copista al tipografo, cit., e a R. Fedi, La memoria della poesia, Canzonieri lirici e libri di rime nel Rinascimento, Roma, Salerno Editrice, 1990. 31 La citazione è tratta dal carteggio di Chiara Matraini, così come è riportato da G. Rabitti, Linee per il ritratto di Chiara Matraini, “Studi e problemi di critica testuale”, 22, 1981, pp. 14165, a p. 152. A Giovanna Rabitti spetta anche l’edizione critica di Chiara Matraini, Rime e lettere, Bologna, Commissione per i Testi di Lingua, 1989. Va però detto che, nonostante la consapevolezza di sé della Matraini, il clima particolarmente ricettivo alla scrittura femminile di Lucca, e i contatti personali dell’autrice con il mondo dell’editoria (e in particolare con il Domenichi), la sua fortuna ebbe «limiti non molto più ampi della cerchia di mura della stessa Lucca» (Rabitti, Linee per il ritratto di Chiara Matraini, p.162). 32 La princeps, e unica edizione cinquecentesca di Rime di Gaspara Stampa, è pubblicata a Venezia, per Plinio Pietrasanta, 1554: cfr. BIBLIA, 4665. 30

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non m’inganna l’affezione fraterna; parte per esprimere alcun suo amoroso concetto, molti gentiluomini di chiaro spirito, che l’amarono, mentre visse, ed hanno potere sopra di me, m’hanno tolta, mal mio grado, da questo proponimento, e costretta a raccogliere insieme quelle che si sono potute trovare, mostrandomi ch’io non dovea né potea, per non turbar la mia pace, turbar la gloria della Sorella, celando le sue fatiche onorate. Questa adunque è stata la cagione ch’io le ho fatte pubblicare.

Fra i motivi ricorrenti del paratesto, la topica enunciazione dell’inadeguatezza femminile rispetto alla poesia («lo ingegno suo, felice quanto a donna, se non m’inganna l’affezione fraterna»), e l’ennesima discolpa quanto a un’iniziativa che si descrive come forzata – quella di stampare le rime della sorella morta – e dunque dichiarata, almeno pubblicamente, estranea alla volontà dell’autrice. Gaspara Stampa, figura di grande attrazione del paesaggio femminile del petrarchismo33, si caratterizza a sua volta per il «linguaggio sostanzialmente antiaccademico e privato, […] il tono da corrispondenza epistolare, da diario amoroso che le è riconosciuto»34. Singolarità che è confermata dal sonetto incipitario della sua raccolta, che, oltre a ricalcare ad litteram RVF 1, sembra sollevare il velo sul mondo femminile della lettura: Voi, ch’ascoltate in queste meste rime, in questi mesti, in questi oscuri accenti il suon degli amorosi miei lamenti e de le pene mie tra l’altre prime, ove fia chi valor apprezzi e stime gloria, non che perdon, de’ miei lamenti spero trovar fra le ben nate genti, poi che la lor cagione è sì sublime. E spero ancor che debba dir qualch’una: “Felicissima lei, da che sostenne per sì chiara cagion danno sì chiaro! Deh, perché tant’amor, tanta fortuna

33 È infatti ricchissima (in un quadro testuale e critico in evoluzione) anche la bibliografia che la riguarda, per la quale basti il rinvio a M. Danzi nella sua introduzione a Gaspara Stampa, in Poeti del Cinquecento, T. I, pp. 313-17, e a Zancan, Gaspara Stampa, in Ead., Il doppio itinerario della scrittura, pp. 155-90. 34 Così M. Danzi, nella sua introduzione a Gaspara Stampa, in Poeti del Cinquecento, T. I, p. 313.

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Per sì nobil Signor a me non venne, ch’anch’io n’andrei con tanta Donna a paro?”35

Forse nessun altro petrarchista ha mai osato aderire con tale «euforia da imitazione» al paradigma del caposcuola36. E qui entrano in gioco – a me pare – anche riflessioni di ordine diverso. La donna, col suo essere poeta (nel nome di Petrarca o perseguendo altre tradizioni di poesia, come quella religiosa), va alla ricerca di una voce, di un riconoscimento oltre il ruolo che è normalmente suo: in altre parole, cerca di imporsi come soggetto lirico (se non come soggetto culturale); mentre l’uomo – già dotato di ruolo intellettuale e sociale – è in grado di prescinderne. In questa chiave (nella ricerca di una auctoritas o di una presentazione forte sulla scena letteraria) potremmo giustificare un’imitazione a volte tanto perfetta da rasentare il plagio (o meglio, la riscrittura). La discontinuità di fondo tra i due generi di poesia – al maschile e al femminile – registra qui una nuova linea di demarcazione. La donna-poeta realizza nel nome di Petrarca un’aspirazione essenziale e superiore al semplice riconoscimento dell’autorialità: vale a dire quella di dare voce all’io, di volere riconosciuta un’identità che per la prima volta si affaccia alla ribalta europea. La generalizzazione non è priva di una sua importanza: e può spiegare la disomogenità e la lentezza con cui nel Quattrocento – un secolo che ancora non condivide questa aspirazione – prende piede la poesia delle donne, nei confronti del petrarchismo cinquecentesco femminile e maschile (che a sua volta, a suprema mistificazione o risarcimento di un ruolo da sempre subalterno, elabora un mondo virtuale popolato da donne, ispiratrici, destinatarie, dedicatarie palesi o occulte del libro di rime e di una iperbolica, soffocante, stereotipata trattatistica dell’elogio). Ma abbandoniamo ogni immagine di continuità fra i due secoli. Sono in realtà pochissime le donne che nel Quattrocento hanno praticato poesia di osservanza petrarchesca (è ancora una volta diverso il caso della poesia reli35 Il testo è ricavato, salva l’eliminazione delle maiuscole al principio di verso, da Poeti del Cinquecento, T. I, p. 318. Va detto però, quanto a possibili destinatarie femminili di questo sonetto, che il qualch’una del v. 9 è termine ambiguo, in quanto può sottintendere sia un pubblico femminile, sia la parola genti del v. 7. 36 L’espressione, che mi sembra perfettamente calzante al caso della Stampa, è tratta da A. Quondam, Note su imitazione e “plagio” nel Classicismo, in Sondaggi sulla riscrittura del Cinquecento, a cura di P. Cherchi, Ravenna, Longo, 1998, pp. 11-26, a p. 25. Del resto, fra i libri di poesia del Quattro-Cinquecento l’unico altro ‘calco’ deliberato del primo sonetto del Canzoniere spetta a uno strambotto di Serafino Aquilano, Voi che ascoltate mie iuste querele.

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giosa, che soprattutto in ambito fiorentino annovera alcuni nomi di prestigio, da Lucrezia Tornabuoni a Antonia Pulci37; e diverso il fenomeno delle scritture epistolari, che, percepite come estranee alla letteratura, registrano alcune vette di genere, come le lettere ai figli della fiorentina Alessandra Macinghi Strozzi). Se non ho visto male, le uniche firme muliebri – fra secolo senza poesia e lirica cortigiana – sono quelle di Battista Malatesti, Bartolomea Mattugliani, Medea Aleardi38; e poi di Girolama Corsi Ramos, di Isabella d’Este e di una semisconosciuta Laura Brenzoni Schioppo. Presenze esilissime39, che non mutano di molto un panorama tutto maschile, senza apparente futuro e senza destino di libro di poesia per le donne40. Mutato nel XVI secolo il quadro socio-culturale di riferimento, non ci stupiamo dell’improvvisa crescita del numero delle letterate, anche se, una volta di più, mi sembra azzardato parlare di un «circuito di produzione letteraria medio-basso» al femminile41. Va ad esempio letto come segnale inquietante il fatto che le donne risultano solo in minima percentuale autrici di una specifica trattatistica sulla condizione femminile, sull’amore o sulla poesia42; mentre su di loro – o intorno a loro – si riversa un universo maschile di trattati, dialoghi, dediche e rime che ne sottolineano la nobiltà o la femminilità

37 Sulle quali cfr. rispettivamente M. Martelli, Lucrezia Tornabuoni, e G. Ulysse, Una couple d’écrivains: Le “Sacre Rappresentazioni” de Bernardo et Antonia Pulci, in AA.VV., Les femmes écrivains en Italie au Moyen Âge et à la Renaissance, Aix-enProvence, Publications de l’Université de Provence, 1994, pp. 51-86, e 177-96. 38 Le prime tre afferiscono al gruppo dei rimatori di area bolognese e feltresco-romagnola del Quattrocento: qualche nota sulle loro rime è in B. Bentivogli, La poesia in volgare. Appunti sulla tradizione manoscritta, in Bentivolorum Magnificentia. Principe e cultura a Bologna nel Rinascimento, a cura di B. Basile, Roma, Bulzoni, 1984, pp. 177-222, ad indicem. 39 Se ne può ricomporre un profilo generale in P. Vecchi Galli, La poesia cortigiana tra XV e XVI secolo. Rassegna di testi e studi (1969-1981), «Lettere Italiane», XXXIV, 1982, pp. 95-147. Quanto alla veronese Laura Schioppo, Massimo Castoldi ha pubblicato di recente le Rime per Laura Brenzoni Schioppo (dal Codice Marciano it. cl. IX 163), ed. crit. a cura di M. Castoldi, Bologna, Commissione per i Testi di Lingua, 1994. 40 È poco rappresentativo anche il numero delle donne umaniste del Quattrocento, che comprende Laura Cereta, Cassandra Fedele, Isotta Nogarola e poco più: cfr. Wiesner, Istruzione e cultura, in Ead., Le donne nell’Europa moderna, pp. 174 ss., e M. L. King, Isotta Nogarola, umanista e devota (1418-1466), in Rinascimento al femminile, pp. 3-33. 41 Così Rabitti, La letteratura femminile e l’Europa, p. 399. 42 È molto povero anche l’ambito delle scritture femminili in prosa, che sono ancora oggi assai poco note. In particolare, sarebbe senz’altro il caso di consultare le scritture epistolari, dove a mio parere si riflettono meglio sia i termini di reale acculturazione delle donne scrittrici, sia i loro contatti culturali con i contemporanei.

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ideale, o le ammaestrano nelle seduzioni del loro sesso43. Le scarse eccezioni in materia restano, appunto, tali: e comprendono i nomi di Tullia d’Aragona, Laura Terracina, Moderata Fonte e Lucrezia Marinelli44. Una volta di più, sulla figura della donna converge una sorta di mistificazione culturale: personaggi nei dialoghi e nei trattati maschili, le donne si appagano di un ruolo riflesso, di venire descritte e raccontate, filtrate dall’occhio e dall’ideologia degli uomini. Se a loro tocca l’iniziativa della scrittura, a volte si spogliano dolorosamente della propria identità, rinunciano all’alterità per scrivere con voce maschile.

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2. Tempi, numeri, nomi (Forse) gruppo ma non canone, senza tradizione e senza statuto che non sia quello preso in prestito dall’universo maschile, le donne petrarchiste sopportano meglio la scansione cronologica, che ci permette di puntare al ventennio 1540-1560 circa come al periodo d’oro del petrarchismo femminile (con punte di eccellenza che vanno da Vittoria Colonna a Tullia d’Aragona, da Laura Terracina a Gaspara Stampa a Chiara Matraini a Laura Bat43 A partire da quel trattato sulla nobiltà delle donne che è nel III libro del Cortegiano. Anche l’immagine della donna, così come viene trasfigurata dalla letteratura dell’elogio e dall’ideologia maschile cinquecentesca, è oggetto di una specifica biblografia: cfr. Images de la femme dans la littérature italienne de la Renaissance, Paris, Université de la Sorbonne Nouvelle, 1980. 44 Cfr. Wiesner, Le donne nell’Europa moderna, p.16 ss. Per la trattatistica (d’amore e di poesia) a firma femminile (oltre al quadro d’insieme di G. Masi, La lirica e i trattati d’amore), si può ricorrere a pochi testi del Cinquecento (con il precedente quattrocentesco di Isotta Nogarola), da Tullia d’Aragona, Dialogo della infinità di amore, in Trattati d’amore del Cinquecento, a cura di G. Zonta, Bari, Laterza, 1912, pp. 185-243; a Lucrezia Marinella, La nobiltà et eccellenza delle donne co’ diffetti et mancamenti de gli huomini, che si legge ancora nella ed. antica, Venezia, Ciotti Sanese, 1600; Il merito delle donne di Moderata Fonte (pseudonimo di Modesta Pozzo de’ Zorzi), pubblicato anch’esso a Venezia nel 1600, è ora disponibile a cura di A. Chemello, Venezia, Eidos, 1988. A. Chemello è anche autrice di The rhetoric of eulogy in Lucrezia Marinella’s La nobiltà e l’eccellenza delle donne, in Women in Italian Renaissance Culture and Society, pp. 463-77; mentre su Lucrezia Marinelli si può ricorrere anche a G. Conti Odorisio, Donna e società nel Seicento: Lucrezia Marinelli e Arcangela Tarabotti, con una prefazione di I. Magli, Roma, Bulzoni, 1979. La trattastica sulle donne a firma maschile ha tutt’altra, e molto più ampia, estensione (e rimanda a modelli ormai topici, risalendo almeno al De mulieribus claris di Boccaccio): per un primo censimento basti qui il rinvio alle Appendici di M. Zancan in Nel cerchio della luna: figure di donna in alcuni testi del XVI secolo, Venezia, Marsilio, 1988, pp. 235-64, e al quadro storico d’insieme delineato da Zarri, Recinti, pp. 151 ss.

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tiferri). C’è, a carico di questa poesia, un altro dato bisognoso di verifica. Dal 1560, le edizioni di libri (o opuscoli) di rime di donne declinano drasticamente e rapidamente: la forbice cronologica è, come ha visto per primo Dionisotti45, ridottissima, e si chiude allo spirare del Concilio di Trento (le poche eccezioni concernendo soprattutto rime devote o exploits di professioniste, come le rime dell’Andreini comica Gelosa o le Terze rime della cortigiana onesta Veronica Franco). Resta da spiegare non tanto l’improvvisa apparizione della poesia delle donne (1530-1560) quanto il rapido tradursi del fenomeno in nuovi ruoli letterari46, nella cosiddetta «seconda generazione» di donne intellettuali 47, che deviano dalla poesia nel nome del Petrarca verso altri generi, epico, spirituale, epistolare, mondano-colloquiale, trattatistico: con una convergenza, mi sembra di capire, verso una professionalità della poesia femminile prima sconosciuta. Entra in gioco la specializzazione, che sancisce il lento esaurirsi dell’avventura della donna entro il genere lirico di derivazione petrarchesca (la sua alfabetizzazione). E ho quindi il sospetto che il declino sia radicato nelle ragioni di una letteratura non più identificata tout court con la poesia volgare e i suoi derivati, ma con un classicismo approdato a «sistema dogmatico rigido»48 e a forme accademiche e ideologiche chiuse. La storia del petrarchismo al femminile è più circoscritta nel tempo di quello maschile, più marcata, racchiusa com’è in un segmento cronologico ristretto. Ed è vero che il numero delle donne, poeti per «vocazione, gioco o disperazione» (secondo una formula, un po’ troppo liquidatoria e di certo politicamente scorretta, di Dionisotti), è ragguardevole se non altro nel confronto con il secolo precedente. Non è però altissimo, anche se viene descritto solitamente come pervasivo. Il catalogo dei libri femminili a stampa è, tutto sommato, semplice da approntare. Uno spoglio eseguito anni fa sullo Short Title Catalogue della British Library ha calcolato infatti non più di due dozzine di donne che a vario titolo (da Santa Caterina da Siena a Vittoria Colonna) raggiungono in Italia l’approdo alle stampe dall’età degli incunaboli alla fine del Cinque-

45

In La letteratura italiana nell’età del Concilio di Trento, pp. 191-92. È una curiosità di cui neppure Dionisotti sa dare una lettura: «Il fenomeno della rigogliosa letteratura femminile italiana a metà del Cinquecento anzitutto si spiega con l’improvvisa, larghissima apertura linguistica di quegli anni» (ivi, p. 192). 47 Secondo la definizione di Zancan, Quadri storiografici, p. 60. E anche Borsetto, Narciso ed Eco, pp. 122 ss., mette in evidenza la trasformazione di generi e di esperienze della donna intellettuale nella seconda metà del Cinquecento. 48 Così Dionisotti, La letteratura italiana nell’età del Concilio di Trento, p. 204. 46

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cento49. Ed emerge la necessità di qualche correzione cronologica del quadro. La prima donna-poeta a stampa dovrebbe essere infatti – come ha suggerito qualche anno fa Elisabetta Graziosi – una sconosciuta monaca bolognese, che dal convento del Corpus Domini di Bologna fa filtrare un piccolo volume di Deuotissime compositioni rhytmice, e parlamenti a Iesu Christo (Bologna, per li heredi de Hieronymo di Benedetti, 1536)50. In realtà le cose sembrano un po’ più complesse. Devotissime composizioni è un titolo ricorrente, la cui prima apparizione risale a un incunabolo del 1494 (Devotissime compositioni eremitiche di una suora del Monasterio del Corpo di Christo di Bologna, Venezia, Girolamo de Sanctis, 1494, BIBLIA 1812), poi modificato nel 1498 nelle Devotissime compositioni rhytmice & parlamenti a Iesu Christo nostro redemptore de una religiosa de l’Ordine de Sancta Clara de observantia (Bologna, s.n.t., circa 1498, BIBLIA 1813), ripreso nel 1525 nelle Devotissime compositioni di una suora del monastero del corpo di Cristo di Bologna (Bologna, Hieronymo de Beneditti, 1525, BIBLIA 1814), poi nelle Devotissime compositioni remithice & parlamenti a Jesu Christo nostro redentore de una sore del Monasterio del Corpo de Cristo di Bologna, Bologna, s.n.t., 1530 (BIBLIA 1815), e infine nel 1536 nelle Deuotissime compositioni rhytmice, e parlamenti a Iesu Christo nostro Redemptore da una religiosa de l’ordine de Sancta Clara de observantia (Bologna, per li heredi de Hieronymo di Benedetti, BIBLIA 1816)51. Arretrata così all’ultimo

49 Il calcolo è stato eseguito da O. Niccoli, Forme di cultura e condizioni di vita in due epistolari femminili del Rinascimento, in Les femmes écrivains en Italie au Moyen Âge et à la Renaissance, pp. 13-32, a p. 13. 50 Cita l’opuscolo come «best seller monacale» E. Graziosi, Poesia nei conventi femminili: qualche reperto e un testo esemplare, nel misc. Caterina Vigri la santa e la città, Atti del Convegno Bologna, 13-15 novembre 2002, a cura di C. Leonardi, Firenze, SismelEdizioni del Galluzzo, 2004, pp. 48-72, a pp. 57-58, attribuendo alla princeps la data del 1536. La stessa autrice ha posto l’accento sulla qualità insieme anomala (apetrarchesca) e perdurante di questa raccolta, «che attraversa il Cinquecento come un fiume sotterraneo», affiancandosi al petrarchismo spirituale ‘maschile’ inaugurato nello stesso 1536 dal Petrarca spirituale del Malipiero. La poesia dei conventi (questa sì poesia di gruppi, se non di gruppo) è stata da ultimo fatta oggetto dello studio di E. Graziosi, Scrivere in convento: devozione, encomio e persuasione nelle rime delle monache fra Cinque e Seicento, in Donna, disciplina, creanza cristiana dal XV al XVII secolo. Studi e testi a stampa, a cura di G. Zarri, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1996, pp. 303-31. 51 L’edizione, annota Graziosi, avrà altre ristampe nel 1558 e nel 1574 (cfr. BIBLIA, 1817 e 1818). Si veda anche, nel titolo della stampa, la progressiva corruzione dell’aggettivo eremitiche dell’incunabolo nel laico rhytmice, che è, a mio parere, il segno di una ricezione già leggermente modificata (in direzione petrarchistica) del libro.

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decennio del Quattrocento, la raccolta esorbita dall’ambito petrarchistico per afferire a una tipologia più arcaica, ben nota e praticata nel corso del Quattrocento, del manoscritto devoto di laude, sonetti religiosi e sacre rappresentazioni. A queste prime apparizioni occorrerà far seguire – in una temperie non più religiosa ma laica, e con caratteri ancora prossimi a quelli della poesia cortigiana – quella di una madonna Andronica Lodigiana, le cui Rime nove, con alcuni madrigali vengono pubblicate a Viterbo da una sconosciuta tipografia in quello stesso torno di anni (BIBLIA, 4006); e soprattutto la già ricordata Veronica Gambara le cui Stanze bellissime sono edite per due volte nel 1537 (Genova, per Anthonio Bellono, e Perugia, per Luca Bina mantuano ad instantia del Faentino: BIBLIA, 2233-2234). Seguono, in pieno petrarchismo: Vittoria Colonna (a partire dall’edizione ‘pirata’ del 1538)52; Tullia d’Aragona (dal 1547), Margherita Perna (1547); Laura Terracina (dal 1548 al 1566); Gaspara Stampa (1554); Chiara Matraini (1555); Laura Battiferri (1560); Virginia e Beatrice Salvi (Due sonetti 1571); Veronica Franco (1575); Silvia Bendinelli (1587); Isabella Andreini (1588), Maddalena Campiglia (1589); Isabella Cervoni (1592, 1597, 1600). In tutto, se non ho visto male, sedici nomi, al cui attivo stanno certamente molte edizioni a stampa, ma che altrettanto certamente rappresentano nel loro complesso una porzione irrisoria nel panorama della lirica del Cinquecento. A conferma della provvisorietà di questi bilanci, si può fare ricorso anche a altre liste, come a quella degli autori raccolti in antologie53. Penso anzitutto – a metà del Cinquecento – al volume archetipo di un’editoria che si apre a un pubblico di massa, le Rime diverse di molti eccellentissimi autori nuovamente raccolte, stampate da Giolito a Venezia nel 154554, o al Tempio

52 Se anche Vittoria Colonna non fu la prima, fu di certo la più emblematica delle petrarchiste. Il suo ruolo di modello è posto in luce da ultimo da G. Rabitti, Vittoria Colonna as role model for Cinquecento women poets, in Women in Italian Renaissance Culture and Society, pp. 478-97. 53 Inutile invece guardare alle più precoci Collectanee in morte di Serafino Aquilano, che, nei primissimi anni del Cinquecento (1504 e seguenti) non esibivano nessuna presenza femminile (forse come segno dei tempi, che non avevano ancora lanciato la moda della donna poeta, più che per una totale indisponibilità di reperti). 54 Sobriamente annotato da Quondam, Il rimario e la raccolta. Strumenti e tipologie editoriali del petrarchismo, in Id., Il naso di Laura, p. 136, e da Borsetto, Narciso ed Eco, p.118, il primo volume delle Rime diverse (1545, con nuova additione ristampato nel 1546) è stato nuovamente edito a cura di F. Tomasi e P. Zaja, Torino, RES, 2001. Le Rime sono poi state analizzate da R. Fedi, Bembo in antologia, in Id., La memoria della poesia, pp. 253-63, e fatte oggetto dell’analisi metrica di B. Bartolomeo, in “I più vaghi e i più soavi fiori”.

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alla divina signora donna Giovanna d’Aragona fabricato da tutti i più gentili spiriti e in tutte le lingue principali del mondo, Venezia, Plinio Pietrasanta, 1559, per parte sua modello esemplare della raccolta celebrativa 55 . Le Rime diverse del Domenichi (Venezia, Giolito, 1545-1546, con le sue ristampe, i suoi incrementi pressoché ‘annuali’ e la successiva pubblicazione in libri)56 annoverano soltanto Vittoria Colonna (con tre sonetti), Veronica Gambara (9 sonetti e due madrigali), Francesca Baffo (tre sonetti), Laura Terracina (otto ottave) sul totale di 92 autori. Le diciotto antologie curate dal Domenichi, dal Ruscelli e dall’Atanagi nei decenni centrali del secolo fino al 1586 sono ancora meno ospitali riguardo alla poesia delle donne57. Un controllo complessivo ratifica – per l’arco di quasi cinquant’anni – solo quattordici presenze: Vittoria Colonna, Veronica Gambara (le più attestate), e poi, in ordine alfabetico, Giulia e Tullia d’Aragona, Laura Battiferri, Lucia Bertani, Geronima Castellani, Chiara Matraini, Ippolita Mirtilla, Isabella di Morra, Margherita di Navarra, Caterina Pellegrini, Virginia Salvi, Faustina Valle. Il Tempio a Giovanna d’Aragona offre qualche altro riscontro. Coi suoi 473 testi per 289 autori (in italiano, latino, greco e spagnolo), l’impressione è che davvero ‘si gratti il fondo del barile’ dei poeti del Cinquecento. L’antologia è una chiamata a raccolta che il compilatore Ruscelli ha voluto specchio pressoché completo della lirica del suo tempo58. Ma non ci stupisce

55 La lista delle presenze degli autori del Tempio è stata resa disponibile da Quondam, Il rimario e la raccolta pp. 132-35. Del Tempio è tornata a occuparsi, in relazione al Tempio a Geronima Colonna d’Aragona, anche M. Bianco, Il ‘Tempio’ a Geronima Colonna d’Aragona ovvero la conferma di un archetipo, in “I più vaghi e i più soavi fiori”, pp. 14781, a pp. 159-64. Distingue invece fra raccolte ideologiche, editoriali, celebrative Borsetto, Narciso ed Eco, pp. 119-20. 56 Di cui ha dato notizia in sintesi Quondam, Il rimario e la raccolta, pp. 148-49, n. 50, mentre per ulteriori rinvii sulle antologie cinquecentesche si può accedere ai primi risultati del censimento di M. L. Cerrón Puga, Materiales para la construcción del canon petrarquista. Las antologías de Rime (libri I-IX), “Critica del testo”, II /1, 1999, pp. 25990. Sulla struttura e gli autori delle Rime diverse 1545 si veda infine l’Introduzione di F. Tomasi a Rime diverse 2001, pp.V-XLVIII. 57 Le diciannove antologie (compresa la prima delle Rime diverse 1545) sono oggi fruibili grazie al programma ALI RASTA dell’Università di Pavia coordinato da Simone Albonico e travasato nel sito http//rasta.unipv.it. Dal programma è possibile accedere, oltre che ad altri dati, all’elenco completo degli autori e delle rime di ciascuna raccolta a stampa. 58 Non a caso Quondam definisce il catalogo degli autori del Tempio «quasi un’anagrafe,[…] uno spaccato sincronico di straordinaria efficacia documentaria sulle proporzioni stesse dell’accesso al petrarchismo nella società cinquecentesca» (Il rimario e la raccolta, p. 135).

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più che tanto che le donne siano soltanto cinque per un totale di otto poesie a loro attribuite: Anna Golfarini, Isabella Pepoli, Gaspara Stampa, Fausta Tacita, Laura Terracina. Se davvero Ruscelli ha inteso rappresentare integralmente la società poetica contemporanea, dai dotti e intendenti ai mezani e novelli (Quondam), le donne ne costituiscono un segmento quasi insignificante. Non basta: un altro Tempio, il Tempio della divina Signora donna Geronima Colonna d’Aragona, Padova, Lorenzo Pasquati, 1568, consente solo un minimo accrescimento dei numeri: sono in tutto otto (e tutte in lingua italiana) le rimatrici rappresentate in un’antologia di 143 autori italiani, latini e greci, per un totale di 277 componimenti59. Su un tale abbrivo, nonostante i dati certi e le possibili declinazioni storiografiche, l’anagrafe/catalogo – non dirò il canone – dei nomi delle petrarchiste resta l’elemento più spinoso e aleatorio del quadro d’insieme60. Nella provvisorietà del censimento, credo che non si possa valutare, se non per approssimazione o per grave difetto, il fenomeno della lirica femminile cinquecentesca, e neppure il ruolo pubblico o privato che esso di volta in volta ha inteso assumere. Fra le numerosissime piste documentarie da seguire, meriterebbe ad esempio spazio maggiore il ricorso al libro manoscritto, la vera riserva di poesia delle donne. Se infatti allarghiamo il campo d’indagine attingendo a un elenco diverso (come quello delle donne presenti nella moderna Bibliografia della lirica italiana nei periodici)61, registriamo un piccolo ma significativo incremento di nomi: sono di nuovo sedici le donne presenti, in un arco cronologico compreso tra la fine del Quattrocento e l’età del Tasso. Ma le presenze mutano, con diverse accessioni rispetto alle già note. Esse sono (in ordine alfabetico) quelle di Franceschina Baffo, Ippolita Clara, Vittoria Colonna, Girolama Corsi, Lionora Della Genga, Suor Beatrice dal Sera, Veronica Franco, Veronica Gambara, Isabella Gonzaga, Chiara Matraini, Ippolita Roma, Dianora Sanseverino, Dalmasina Sclavo, Gaspara Stampa, Barbara Torelli, Lucrezia Tornabuoni. Un gruppo eterogeneo (quattro-cinquecentesco), in cui fanno apparizione estemporanea alcune firme sconosciute ai cataloghi delle stampe: ed è lecito pensare che si tratti in tal caso

59 I numeri e il censimento sono forniti da M. Bianco, Il ‘Tempio’ a Geronima Colonna d’Aragona ovvero la conferma di un archetipo, p. 158. 60 Come ha osservato a suo tempo anche Borsetto, Narciso ed Eco, che ha effettuato per parte sua alcuni sondaggi nelle raccolte a stampa, in partic. pp. 116-119. 61 I controlli sono stati effettuati sulla base dell’Incipitario unificato della poesia italiana, vol. IV, Bibliografia della lirica italiana nei periodici, a cura di S. Bigi e M.G. Miggiani, Modena, Franco Cosimo Panini, 1996.

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di figure predestinate all’ombra, confinate nei miscellanei a penna contemporanei. Non è facile tentare una sintesi sulla base di questi pochi dati: ma sembra di percepire che il catalogo delle petrarchiste è – così come si desume dai libri d’autore e dalle antologie del Cinquecento, dai manoscritti come dalle stampe – fondato su alcune costanti e insieme in movimento, seppure con scarti numerici modesti. Raccolta dopo raccolta, il numero delle rimatrici aumenta, come un drappello che via via si ingrossa, senza però superare il tetto complessivo di qualche decina di unità. Viene davvero da chiedersi se il gruppo, misurato nella quantità e nel tempo, sia un’invenzione moderna62 o non, piuttosto, un fenomeno strutturale, anche se frutto di un’iniziativa tutta maschile. 3. Il codice e l’icona Vi è più di una linea di demarcazione fra petrarchismo maschile e femminile. Mentre i poeti hanno partecipato alla formazione/fondazione del codice (appunto, la poetica del petrarchismo), le donne ne sono state fruitrici passive e tardive, in veste di lettrici piuttosto di che scrittrici63: e ciò potrebbe spiegare la propensione della donna petrarchista – come si è detto – a una testualità ipercanonica nel nome di Petrarca. Fruitrice, ma non corresponsabile, dell’ordine classicistico, non è raro che essa rafforzi il codice in un’imita62 Come si può evincere anche dal Petrarchismo mediato di Quondam. E a conferma che il catalogo delle poetesse è tutt’altro che definitivo, ma segue mode secolari aggregandosi al canone maschile, più stabile e molto più ampio, vale la pena di notare che il Tomo I dei Poeti del Cinquecento. Poeti lirici, burleschi, satirici e didascalici, a cura di G. Gorni, M. Danzi e S. Longhi, Milano-Napoli, Ricciardi, 2001, include soltanto due nomi di donna, e precisamente quelli di Veronica Gambara e Gaspara Stampa. Non molto diversa, anche se notevolmente più ampia, la situazione delineata nelle ultime antologie: La lirica rinascimentale, a cura di R. Gigliucci, introduzione di J. Risset, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2001, comprende Veronica Gambara, Vittoria Colonna, Tullia d’Aragona, Chiara Matraini, Laura Terracina, Isabella di Morra, Gaspara Stampa, Veronica Franco; mentre i Lirici europei del Cinquecento. Ripensando la poesia del Petrarca, a cura di G. M. Anselmi, K. Elam, G. Forni, D. Monda, Milano, Rizzoli, 2004, annoverano all’interno della Lirica femminile Veronica Gambara, Vittoria Colonna, Tullia d’Aragona, Laura Terracina, Chiara Matraini, Isabella di Morra, Gaspara Stampa, Laura Battiferri, Tarquinia Molza, Veronica Franco, Isabella Andreini. 63 Si ricordi che la funzione della lettura non era sempre, e soprattutto per le donne, connessa alla funzione della scrittura, molto più rara e ‘professionale’: cfr. Wiesner, Istruzione e cultura, p. 168.

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zione di secondo grado (non direttamente desunta da Petrarca, bensì dal petrarchismo maschile contemporaneo, rifondatore del codice e padrone del canone)64. Se il petrarchismo è per statuto il «sistema linguistico della ripetizione»65, le donne ne sono emblema perfetto: alla loro voce si adatta la poesia della poesia, fino al paradosso di risultare più naturale – più ingenua, diaristica e sentimentale – nel suo essere doppiamente artificiosa. In tal senso, e rischiando qualche forzatura o semplificazione, si potrebbe anche sostenere che la donna nel nome di Petrarca sia naturaliter manierista (di un manierismo inteso come «comportamento che è, e intende restare, all’interno del sistema classicistico, ma sottoponendo gli istituti formali al massimo di tensione»)66. In questa chiave credo si debbano decifrare l’originalità e la freschezza di cui dicevo all’inizio. È una condizione che a ben guardare coinvolge anche lo statuto delle petrarchiste, la loro qualità di personaggi sulla scena della letteratura, più che di poeti, o, più ancora, di autori. Se è possibile tirare le fila di un discorso programmaticamente disorganico, un’osservazione mi sembra legittima: non è casuale che il mercato dell’editoria guardi alle donne con ritardo, quando il quadro istituzionale di riferimento (il libro di poesia petrarchistico e il suo contesto di appartenenza) è ormai stabile, ed è anzi opportuno, per rinfocolare l’attenzione del pubblico, proporre qualche elemento di novità e di eclettismo, qualche situazione di tensione o di variazione, qualche programmata invenzione67. Voglio dire che le donne non fanno tanto gruppo, ma caso (una sorta di ballon d’essai dell’editoria di medio Cinquecento): come la tradizione prescrive, se ne mette in sordina la dimensione professionale e se ne enunciano invece l’eccezionalità e le virtù virili, «né di eloquentia né di dottrina agli uomini inferiori»68. Nella visione ‘eroica’ di 64 La modellizzazione del canone petrarchistico femminile è ben illustrata da Borsetto, Narciso ed Eco, in particolare pp. 121-22. Non a caso, il libro di poesia femminile sembra mutuare la propria forma dal modello di Bembo, e poi, in subordine, dal modello delle Rime di Vittoria Colonna. 65 Giusta la definizione ormai canonica di A. Quondam, Dall’abstinendum verbis alla “locuzione artificiosa”. Il petrarchismo come sistema linguistico della ripetizione (1973), poi in Id., Il naso di Laura. Lingua e poesia lirica nella tradizione del classicismo, Modena, Franco Cosimo Panini, 1991, pp. 181-99. 66 Mi servo della definizione di Quondam, Dall’abstinendum verbis alla “locuzione artificiosa”, p. 194. 67 Mi sembra che questa percezione sia in linea con quanto osserva Forni a proposito della «inventio che matura nel secondo Cinquecento, con una sfumatura vagamente eclettica che allarga la lezione del Bembo senza smentirla» (cfr. Forni, Le antologie, p. 140). 68 È una definizione di Ortensio Lando mutuata da O. Niccoli, Forme di cultura e condizioni di vita, p. 16. d’altra parte, però, esiste una fiorente letteratura dell’oltraggio che

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Ludovico Ariosto è già implicita la sigla di questa (mistificata e parziale) visibilità: Non restate però, donne, a cui giova il bene oprar, di seguir vostra via; né da vostra alta impresa vi rimuova tema che degno onor non vi si dia. che, come cosa buona non si trova che duri sempre, così ancor né ria. Se le carte sin qui state e gl’inchiostri per voi non sono, or sono a’ tempi nostri.

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[…] Se chi sian queste, e di ciascuna voglio render buon conto, e degno pregio darle, bisognerà ch’io verghi più d’un foglio, e ch’oggi il canto mio d’altro non parle: e s’a lodarne cinque o sei ne toglio, io potrei l’altre offendere e sdegnarle. Che farò dunque? Ho da tacer d’ognuna, o pur fra tante sceglierne sol una? Sceglieronne una: e sceglierolla tale, che superato avrà l’invidia in modo, che nessun’altra potrà avere a male, se l’altre taccio, e se lei sola lodo. Quest’una ha non pur sé fatta immortale col dolce stil di che il meglior non odo; ma può qualunque di cui parli o scriva, trar del sepolcro, e far ch’eterno viva. (Orlando Furioso, XXXVII, 7; 15-16)

Trasportate dalla dimensione privata a quella pubblica, dal manoscritto alla stampa, le rimatrici (e i loro libri) si conformano iperrealisticamente (o

sistematicamente denigra la donna letterata già a partire dai primi drappelli del Quattrocento. Certe parole scritte da un contemporaneo su Chiara Matraini offrono un ottimo punto d’avvio per valutare nel suo insieme il giudizio di alcuni sulla poesia delle donne: l’«accademia in casa della scelerata vedova, ridere, burlare, dir mille sporcitie, e fare infinite cose disoneste» (la cit. da Rabitti, Linee per il ritratto di Chiara Matraini, p. 142). Ma altri casi furono ancora più eloquenti: penso ai 21 sonetti infamanti contro Gaspara Stampa, di cui offre un esempio Borsetto, Narciso ed Eco, p. 176, n. 117.

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ipercanonicamente) alla langue petrarchesca e alla sua (calcolata) variazione, e non possono che camuffare la propria differenza su uno stereotipo maschile, inteso come modello egemone: è il modello, anche pittorico, dell’auctor alle prese con il libro, conformato sull’antico ritratto petrarchesco e ibridato con l’immagine esemplare delle clare donne quattrocentesche. Il petrarchista si presenta androgino e asessuato: ne è icona perfetta – come l’Orlando di Virginia Woolf – il dipinto di Laura Battiferri di Bronzino (Tutta dentro di ferro e fuor di ghiaccio, come la definì in sonetto lo stesso pittore), forse l’immagine più memorabile, tanto al maschile quanto al femminile, del petrarchismo in poesia69. 4. Un’antologia per le donne Dalle antologie a stampa ha inizio il processo di ‘democratizzazione’ e di consumo della poesia. Che nel corso del XVI secolo le donne compaiono sporadicamente anche in antologie maschili70 è noto: ma soltanto in un caso – l’archetipo di un genere destinato a incontrare una certa fortuna solo a partire dal tardo Seicento – esse simbolicamente e materialmente si uniscono in una raccolta tutta femminile71. Il gruppo finalmente si definisce (per iniziativa editoriale maschile) nelle Rime diverse d’alcune nobilissime, et virtuosissime donne, raccolte per

69 Dell’immagine si è occupata, nella bibliografia ormai emergente su Laura Battiferri, V. Kirkham, Dante’s Phantom, Petrarch’s Specter: Bronzino’s Portrait of Laura Battiferra, «Lectura Dantis», 22-23, 1998, pp. 63-139. Ma non deve sfuggire l’atteggiamento ‘esemplare’ e maestoso della Battiferri atteggiato su una forma che era già delle ‘donne illustri’ quattrocentesche (a loro volta conformate sull’icona trecentesca dell’auctor allo scrittoio). 70 Cfr., oltre ai dati da me forniti supra, le presenze registrate anche da Borsetto, Narciso ed Eco, pp. 117 ss., che prende in esame alcune delle più importanti raccolte di rime del medio Cinquecento. 71 Per nostra fortuna, la forma dell’antologia cinquecentesca non è più, soprattutto dopo le ricerche di Amedeo Quondam e della scuola padovana, sconosciuta. La sua filologia materiale si è straordinariamente arricchita di dati, in grado di illustrarne sia la forma e i contenuti sia i contesti di appartenenza, la distribuzione degli autori come le differenti finalità e le tipologie di ricezione delle numerose operazioni antologiche. Penso soprattutto a A. Quondam, Petrarchismo mediato; all’Introduzione di F. Tomasi a Rime diverse 2001; al saggio di G. Forni, Le antologie, in Id., Forme brevi della poesia. Tra Umanesimo e Rinascimento, Pisa, Pacini, 2001, pp. 137-91, e al misc. «I più vaghi e i più soavi fiori». Studi sulle antologie di lirica del Cinquecento, già più volte citato (con ulteriore bibl. sulla forma-antologia). Una visione sintetica è, infine, in Masi, La lirica e i trattati d’amore, pp. 657-62.

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M. Lodovico Domenichi, e intitolate al Signor Giannoto Castiglione gentil’huomo milanese, In Lucca, per Vincenzo Busdragho, 1559 (BIBLIA, 1864). La raccolta, non notissima ma oggi parecchio citata72, meriterebbe di essere esaminata a fondo almeno a riprova di una pratica di scrittura che in questo caso – lo percepiamo – abbandona la dimensione appartata del manoscritto per entrare in un circuito pubblico. Dalla lettera dedicatoria del curatore Domenichi: […] con l’aiuto d’alcuni amorevoli miei, e grandemente affezionati al valor donnesco, raccolsi da più parti assai ragionevole quantità di rime composte da donne. Le quali rime sono poi state infino a ora appresso di me in quel grado tenute, che le più care e preziose cose si soglion tenere. E benché infino allora, ch’io cominciai a raccorle, io fossi a fermo di volere in ogni modo publicarle al mondo col mezo delle stampe, per chiarir coloro, i quali stanno in dubbio della grandezza dell’ingegno feminile, nondimeno non ho potuto mai porre ad effetto tal mio pensiero […].

Le presenze registrate nella Tavola de nomi delle Donne descritte in questo libro (pp. 238-239) coprono perciò, sembra di capire, un’anagrafe varia, che spazia dalle nobildonne (Margherita di Navarra e Vittoria Colonna in testa) alle cortigiane alle monache, e rende ragione di un approdo alla poesia che questo elenco, finalmente, mostra nutrito. I nomi, in ordine di apparizione, sono73: 1. 2. 3. 4.

Aurelia Petrucci Anna Golfarini Athalanta Sanese Alda Torelli Lunati

5. 6. 7. 8.

Berenice G. Cassandra Petrucci Clarice de’ Medici degli Strozzi Claudia della Rovere

72 Dopo Quondam, Petrarchismo mediato, p. 134, l’antologia è stata brevemente illustrata da Borsetto, Narciso ed Eco, p. 117; e poi da P. Zaja, Intorno alle antologie, pp. 116 ss., che punta soprattutto sulla doppia lettera di introduzione della raccolta, e illustra l’importanza della sua localizzazione lucchese. Sull’editore Busdraghi si può rinviare a M. Paoli, Busdraghi, Vincenzo, in Dizionario dei tipografi e degli editori italiani, I, Il Cinquecento (A-F), diretto da M. Menato, E. Sandal, G. Zappella, Milano, Bibliografica, 1997, pp. 219-223. Quondam ricorda invece che il fenomeno ordinatore del canone femminile va visto soprattutto nelle molte edizioni tardo-seicentesche del napoletano Bulifon, che, dopo aver pubblicato libri di rime spicciolate, stampa nel 1695 le Rime di cinquanta illustri poetesse. 73 Introduco una sia pur minima modernizzazione nella grafia in uso nella Tavola delle autrici, rispettando però il più possibile i nomi, e soprattutto i cognomi delle donne. Conservo inoltre l’incerto ordine alfabetico dell’originale a stampa.

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9. Candida Gatteschi degli Alluminati 10. Cornelia Brunozzi dei Villani 11. Caterina Pellegrini 12. Diamante Dolfi 13. Ermellina Arringhieri de’ Cerretani 14. Egeria da Canossa 15. Fiorenza G. Piemontese 16. Fausta Tacita 17. Francesca B. Senese 18. Giulia Braccali dei Ricciardi 19. Gentile Dotta 20. Gaspara Stampa 21. Suor Girolama Castellani 22. Costanza D’Avalos 23. Onorata Pecci 24. Ortensia Scarpi 25. Ippolita Mirtilla 26. Isabella Riario de’ Pepoli 27. Isabella di Morra 28. Livia Tornielli Borromeo 29. Laudomia da Sangallo 30. Lucrezia Figliucci 31. Leonora Falletti da San Giorgio

32. Lucrezia di Raimondo 33. Laudomia Forteguerri 34. Lisabetta da Cepperello 35. Livia Poeta 36. Lucia Bertani 37. Maddalena Pallavicini 38. Maria Langoschi Soleri 39. Maria Martelli de’ Panciatichi 40. Maria da Sangallo 41. Maria Spinola 42. Narda N. Fiorentina 43. Olimpia Malipieri 44. P.S. M. 45. Pia Bichi 46. Margherita di Navarra 47. Silvia di Somma, Contessa di Bagno 48. Selvaggia Braccali de’ Bracciolini 49. Silvia Marchesa de’ Piccolomini 50. Virginia Gemma de’ Zuccheri 51. Veronica Gambara 52. Virginia Martini de’ Salvi 53. Vittoria Colonna.

È un’anagrafe suggestiva, di nomi noti e meno noti (oltre a certi fantasmi, si potrebbe ipotizzare la presenza di qualche componimento fittizio, costruito per l’occasione dal curatore dell’antologia), per un totale di 330 rime così suddivise secondo il genere metrico: 299 sonetti, di gran lunga la forma metrica prevalente; dieci serie di stanze in ottava rima; sette canzoni; otto madrigali74; due canzoni sestine; quattro capitoli ternari75. Tutte forme di osservanza petrarchesca, con l’eccezione del madrigale e dell’ottava, che perciò ampliano l’ambito metrico del modello. 74 La forma metrica del madrigale è varia, come ha a suo tempo osservato G. Capovilla, Materiali per la morfologia e la storia del madrigale ‘antico’, dal ms. Vaticano Rossi 215 al Novecento, “Metrica”, III, 1982, pp. 159-252. 75 Sul significato storico della metrica nel Quattro e nel Cinquecento i rilievi più interessanti restano quelli di G. Gorni, Per una storia del petrarchismo metrico, in Id., Metrica e analisi letteraria, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 183-92, e di A. Balduino, Appunti sul

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Chi si attendesse però dal compilatore, il poligrafo Domenichi,76 una violazione, sul piano della elocutio o dell’inventio, del paradigma del petrarchismo resterebbe deluso. La sua vantata attenzione – per dir così – alla figura della donna (non dimentichiamo che egli è autore di due trattati su La nobiltà delle donne, Venezia, Giolito, 1549, e La donna di corte, 1564), lo guida sulla via della conferma, verso l’accorto mosaico di tessere petrarchesche. In questo dialogo a più voci le donne non adottano perciò registri diversi da quello lirico (non sperimentano cioè avventure di tipo burlesco o dialettale); perseverano in un’imitatio che rasenta il plagio (come in Almo mio sol, pur da l’usata luce di Leonora Falletti, o in Mille fiate a Dio chiest’ho quell’ale di Livia Tornielli Borromeo); praticano insomma echi quasi perfetti e intercambiabili della poesia maschile contemporanea: Di Madonna Livia [Pia] Poeta (Rime donne) Alma beata, che già al mondo involta nel tuo bel, ma mortal, corporeo velo, mi fosti un tempo, or mi sei guida al cielo, del terren nodo innanzi tempo sciolta, mentre ch’al sommo sol tutta sei volta, piena d’ardente e di verace zelo, odi i sospir ch’io spargo; e ’l duol ch’io celo rimira in Lui, che ’l tutto vede e ascolta. Deh, il mio gran male, ora il tuo ben non sceme, ma ti muova a pietà, ché sol me sdegna morte, per non por fine a la mia guerra. E s’ancor m’ami in ciel, come già in terra, impetra dal Signor, bench’io sia indegna, ch’io goda l’uno e l’altro volto insieme. Di Giovanni Guidiccioni (Rime diverse) Anima eletta, il cui leggiadro velo diè lume e forza al mio debile ingegno mentre agli strali di pensier fu segno, che così casti ancor per tema celo, petrarchismo metrico nella lirica del Quattrocento e del primo Cinquecento, “Musica e storia”, 3, 1995, pp. 227-78. 76 Per un profilo del compilatore dell’antologia (1515-1564), cfr. la voce Ludovico Domenichi di A. Piscini nel DBI, XL, 1991, oltre alle pp. a lui espressamente dedicate da F. Tomasi nella Introduzione a Rime diverse 2001, pp. XII-XIV.

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scendi pietosa a consolar dal cielo le mie notti dolenti: ch’è ben degno, poi che sì amara libertà disdegno e ’l cor già sente de l’eterno gelo. So lei pur viva in sogno col bel volto, e con la voce angelica gradita partir da me le più noiose cure. Deh, perché poi che morte ha ’l nodo sciolto che strinse lo mio cor con la tua vita, non fai tu chiare le mie notti oscure?

Ma forse vi è di più. Le molte rime di corrispondenza dell’antologia (si badi, non parlo delle poesie indirizzate a quel tu generico che connota il codice petrarchesco) – nonché assecondare la propensione al colloquio che è della lirica del Cinquecento sin dai suoi esordi cortigiani77 – hanno lo scopo di armonizzare meglio il mosaico delle presenze con richiami a distanza nel corpo del libro. Le poesie esplicitamente indirizzate a un destinatario coprono circa il 30 % del totale con più di novanta occorrenze. Di fronte a una percentuale così rilevante, viene però anche da pensare che questa possa essere la via scelta dal compilatore per connotare la voce femminile contemporanea. In queste loro Rime diverse le donne intrecciano trame culturali o esistenziali, esprimono condoglianze e congratulazioni, pronunciano preghiere e voti d’amore più di quanto non accada nelle antologie a prevalenza maschile: in breve, parlano, agli uomini e fra di loro. È – a dispetto di una scelta, forse preterintenzionale, fatta da altri per loro – il segno della loro (nuova) nascita nella società e nella cultura che le accoglie: la cifra della socializzazione (la rete capillare dei rapporti che ancora oggi ci manca)78, se non della consapevolezza di sé, adottata dalle donne nel loro accesso alla letteratura. Della lirica femminile del Cinquecento potremmo fare agevolmente a meno: di certo non di questa uscita dal silenzio.

77 Come ha dimostrato, per tutti, G. Gorni, Veronica e le altre: emblemi e cifre onomastiche nelle Rime del Bembo, in Veronica Gambara e la poesia del suo tempo nell’Italia settentrionale, a cura di P. Bozzetti, P. Gibellini, E. Sandal, Firenze, Olschki, 1989, pp. 3757. Si ricorda qui che lo stesso Libro primo giolitino del 1545 ospitava molte rime di corrispondenza, e che il genere verrà consacrato dal Libro terzo del 1552, dove ogni autore vedrà riservarsi un’apposita sezione alle rime di scambio. Su questo aspetto delle antologie del Cinquecento, cfr. Tomasi, Introduzione a Rime diverse, p. XI. 78 Di qui, mi permetto di sottolineare l’importanza documentaria di questa rete di rime di corrispondenza, che potrebbe validamente costruire quel sistema di rapporti che ancora ignoriamo.

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Anche se l’affinità con le raccolte maschili è tanto forte da balzare agli occhi. Come per il libro I delle Rime diverse di molti eccellentissimi auttori nuovamente raccolte, la raccolta-archetipo stampata a Venezia dal Giolito nel 1545, la forma da bisaccia in 8°, l’impaginazione (in media due sonetti per pagina), l’impostazione del frontespizio – identica, anche se un po’ più dimessa per le Rime femminili –, la strategia dei paratesti, rinviano a uno statuto omogeneo, all’interno del quale a eccellentissimi auttori possono, senza discontinuità, affiancarsi alcune nobilissime, et virtuosissime donne. Nulla conferisce rilievo speciale a questo libro di poesia se non un titolo che assegna alle donne un’immagine stereotipata, nobile e virtuosa ma non professionale.

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Conclusioni Si può parlare di uno statuto femminile all’interno del petrarchismo? Categoria fluida, compartecipe del destino maschile ma appartata, seguace e epigonica anche nell’autorialità, per quanto oggi si guardi alle donne-poeti del Cinquecento senza parzialità e con fervore, stentiamo a percepirne un’identità collettiva e unitaria, frutto di un dialogo che in qualche modo, travalicando l’universo maschile, porti una sorella a parlare a un’altra sorella. Più praticato e, in fondo, rassicurante passare in rassegna casi singoli, sottolineandone la peculiarità piuttosto che un’improbabile intesa verso la modellizzazione femminile del canone. Se a prima vista le donne del Cinquecento possono apparire poeti della/nella diversità, altri dati svelano come tale diversità fosse ora programmata, ora neutralizzata all’interno di quadri di riferimento maschili (i paratesti, il libro di rime, l’antologia), ora esito di una nostra, non sempre accorta, lettura. Nello stesso nucleo convivono stravaganza e continuità, non la negazione ma qualche variazione nel mondo chiuso del petrarchismo: non padrone del registro espressivo, né dei mezzi materiali e ideologici per diffonderlo, le donne non possono che procedere a piccoli passi, analiticamente. Divenire visibili, scindersi dall’immagine maschile, parlare con voce propria, vincere l’invidia maschile, furono però obiettivi in quel secolo solo in parte conseguiti; e dunque solo in parte venne realizzato il vaticinio di Ariosto: Donne, io conchiudo in somma, ch’ogni etate molte ha di voi degne d’istoria avute; ma per invidia di scrittori state non sete dopo morte conosciute: il che più non sarà, poi che voi fate per voi stesse immortal vostra virtute (O.F., XXXVII, 23, 1-6)

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I PETRARCHISTI NAPOLETANI E IL SIGLO DE ORO

Se lo scenario geografico entro cui si muoverà il mio intervento appare sufficientemente delineato dal titolo indicato nel programma, converrà subito indicare anche le coordinate cronologiche su cui si possono scandire le tappe di un processo storico al cui sbocco si realizza una consonanza quasi perfetta per la naturalezza con la quale i poeti del siglo de oro assumono in proprio alcuni temi canonici dei petrarchisti napoletani, mutuandone nel contempo anche aspetti non secondari sotto il profilo dell’elaborazione formale degli istituti metrici, segnatamente per il sonetto e per il madrigale. Le date potrebbero essere molte e dislocate su tempi anche più lunghi, ma converrà trascegliere quelle che coincidono con gli snodi più significativi della vicenda. Ne proporrò quattro. Cominciando dalla data più bassa si potrebbe indicare il 1603. È l’anno in cui a Lima nel Perù Diego D’Avalos y Figueroa pubblica la Miscelanea Austral, in cui traduce, tra l’altro, quattordici sonetti di Vittoria Colonna1 e anche il sonetto di Luigi Tansillo Amor m’impenna l’ale, e tanto in alto 2

1 Su cui cfr. E. Mele, Di una sconosciuta traduzione in castigliano di quattordici sonetti di Vittoria Colonna, in «Giornale storico della letteratura italiana», LXVI (1915), pp. 467-70. 2 L. Tansillo, Il canzoniere edito ed inedito secondo una copia dell’autografo ed altri manoscritti e stampe [...], con introduzione e note di E. Pèrcopo, Napoli, Tipografia degli Artigianelli, 1926 [ristampa anastatica Napoli, Consorzio Editoriale Fridericiana - Liguori Editore, 1996], son. II, p. 4.

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(Alas me pone Amor, y tan en alto)3. Il tema del volo temerario di Icaro, la cui folle impresa ha comportato tuttavia il premio dell’eternità assicurato dal mare che ne tramanda il nome, costituisce uno dei nuclei forti del petrarchismo napoletano, rampollato dal sonetto LXXIX di Sannazaro4 (Icaro cadde qui: queste onde il sanno), e prima di passare a Tansillo declinato in contesto privo di immediati richiami mitologici da Vittoria Colonna nel sonetto Da sì degno excellente alto pensero (A1: 87)5, che, pur cosciente dell’impossibilità di attingere le impervie altitudini della lode adeguata alla memoria del defunto Ferrante Francesco d’Avalos si dichiara tuttavia pronta ad affrontare il naufragio come arra di immortalità. I ternari finali di Vittoria Colonna: Onde s’avien che per soverchio ardire io precipiti alfin e mi sommerga, però che da volar non mi trov’ale, assai mi basta che tant’alto s’erga il mio pensier; ch’alor giova il morire quando per morte l’uom si fa immortale

sono riecheggiati non solo tematicamente da Tansillo, che recupera in rima pensiero e spero (vv. 2-3) in fine di verso anche in Vittoria Colonna (vv. 1 e 4), ma presentano in rima, proprio nei ternari, ardire e morire, che, dato il contesto, sono da considerarsi parole-chiavi: Ché s’altri, cui disio simil compunse, dié nome eterno al mar col suo morire, ove l’ardite penne il sol disgiunse, ancor di me le genti potran dire: – Quest’aspirò a le stelle, e s’ei non giunse, la vita venne men, ma non l’ardire!

Ulteriore stazione di transito tra Sannazaro e Tansillo, con riarticolazione tematica che raddoppia i richiami mitologici, evocando insieme Icaro e Fetonte come emblemi del deseo / loco, imposible, vano, temeroso è il son. XII di Garcilaso6, la cui concentrazione si scioglie nel dittico tansilliano 3 Il testo è riportato da J.-G. González Miguel, Presencia napolitana en el siglo de oro español. Luigi Tansillo (1510-1568), Salamanca, Ediciones Universidad de Salamanca, 1979, p. 97. 4 Ed. a cura di A. Mauro, Bari, Laterza, 1961, p. 195. 5 Ed. a cura di A. Bullock, Roma-Bari, Laterza, 1982, p. 46. 6 Si para refrenar este deseo: Garcilaso de la Vega, Obra poetíca y textos en prosa, edición de B. Moros, estudio preliminar de R. Lapesa, Barcelona, Crítica, 1995, p. 27.

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(Amor m‘impenna l’ale e tanto in alto, già ricordato, e Poi che spiegate ho l’ale al bel desio, ed. Pèrcopo I III, p. 5), conquistando quella stabilizzazione formale che solleciterà i cimenti imitativi e traduttori di più di un poeta spagnolo tra Cinque e Seicento. La prima stesura conosciuta7 del sonetto di Tansillo del bel desio recava più evidenti tracce rielaborative dello spunto ricevuto da Garcilaso («¿qué me ha de aprovechar ver la pintura / d’aquel que con las alas derretidas, / cayendo, fama y nombre al mar ha dado, // y la del que su fuego y su locura / llora entre aquella plantas conocidas, / apenas en el agua resfrïado?»), laddove al v. 5 leggeva Né di Phetonte o d’Icaro il fin rio poi evolutosi nella lezione Né del figliuol di Dedalo il fin rio, assolutizzandosi sulla tematica icaria e come tale fu ricevuto dagli imitatori spagnoli che avevano letto i petrarchisti napoletani e segnatamente Tansillo nell’antologia giolitina dei signori napoletani del 1552. Siamo così risaliti alla seconda data: quasi mezzo secolo preciso. All’anagrafe della storia letteraria l’anno 1552 può essere assunto come la data di presentazione ufficiale in società dei petrarchisti napoletani. Tranne Tansillo, che l’anno precedente aveva stampato a Napoli la smilza plaquette dei Sonetti per la presa d’Africa, nessuno del gruppo aveva affrontato il giudizio del pubblico con autonome sortite tipografiche. Solo Alfonso d’Avalos, marchese del Vasto, l’unico già defunto del gruppo, aveva pubblicato in prestigiosa compagnia con Bembo8 e aveva fatto una fugace apparizione nel primo volume della serie giolitina del 1545 9.

7 Secondo il testo trasmesso dal cod. 888 della Biblioteca Geral da Universidade di Coimbra, idiografo calligrafico inviato nel 1546 in Spagna a Gonzalo Fernández de Córdoba, III duca di Sessa, nipote e omonimo del Gran Capitano: cfr. T. R. Toscano, Un “libro” di rime di Luigi Tansillo per don Gonzalo Fernández de Córdoba, III duca di Sessa, in Id., Letterati corti accademie. La letteratura a Napoli nella prima metà del Cinquecento, Napoli, Loffredo, 2000, pp. 145-82. 8 OPERA NOVA NELLA QVALE | si contiene uno Capitulo del signor | Marchese del Vasto. | Stanze del signor Aluise Gonzaga. | Sonetti di Monsignor Bembo, & del | diuino Pietro Aretino: Nuoua-|mente posti in luce. | [marca tipografica] | In Verona per Antonio Putelletto Portese. | Ad instantia de G. Antonio Dento detto | el Cremaschino, M D XLII: alle cc. B2r-v si legge il capitolo in terza rima Arsi nel mio bel foco un tempo queto, finora attribuito ad Ariosto: cfr. T. R. Toscano, Tra Ludovico Ariosto e Alfonso d’Avalos: sull’attribuzione del cap. XXVII, “Arsi nel mio bel foco un tempo quieto”, in Id., L’enigma di Galeazzo di Tarsia. Altri studi sulla letteratura a Napoli nel Cinquecento, Napoli, Loffredo, 2004, pp. 67-78. 9 Due sonetti indirizzati a Girolamo Muzio e a Paolo Giovio nelle Rime diverse di molti eccellentiss. auttori nuovamente raccolte. Libro primo. Con Gratia et Priuilegio. In Vinetia appresso Gabriel Giolito di Ferrarii MDXLV, p. 238 della ristampa a cura di F. Tomasi e P. Zaja, Torino, RES, 2001.

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I signori napoletani per la prima volta facevano blocco e signori si sentivano non in senso generico, ché allora usava meglio a tal proposito la parola gentiluomo, ma proprio con caratterizzazione aristocratica e neofeudale. Il meno nobile di prosapia era proprio Luigi Tansillo, rampollo di una famiglia della piccola nobiltà nolana, e poteva stare nei ranghi perché soldato e cavaliere della guardia personale di don Pedro de Toledo e in più stretta intimità con il figlio di lui don Garcia, per i cui tormenti amorosi aveva dovuto spesso rendere disponibile la sua musa. A quella data Tansillo era già ritenuto tra i napoletani quello più dotato di una voce sua, e perciò forse Ludovico Dolce, potendo stabilire a sua discrezione la successione delle presenze nella raccolta, gli riservò il rango di battistrada nella prima emissione di quello che impropriamente sul frontespizio veniva indicato come “libro terzo”. Ma chi erano questi signori? Uomini di antica nobiltà, spesso impegnati in campagne militari, o anche nobili di Seggio, adusi ai maneggi della politica, come garanti e vindici di quei privilegi della Città, riconosciuti dalle prammatiche regie e poi imperiali, di contro all’invadenza del potere vicereale soprattutto ai tempi del Toledo. Qui bastano i nomi di Angelo Di Costanzo e Berardino Rota. Uomini d’arme impegnati su vari fronti di guerra, oltre il ricordato Tansillo, che si lamentava di trascorrere il suo tempo «più in far polire armi, che in tinger carte»10, e Ferrante Carafa, marchese di san Lucido, la cui fedeltà alla Chiesa e all’Impero si sarebbe poi dichiarata nelle misure elefantiache dei poemi intitolati Austria (Napoli, G. Cacchi, 1573) e, con trasparente allusione onomastica, Carafé (Ibidem 1580). Unico non laico, ma solo in processo di tempo divenuto chierico e poi vescovo, il Minturno. Su tutti Alfonso d’Avalos, marchese del Vasto, che tra Napoli e Milano, fino all’anno della morte (1546) era stato personaggio centrale nella realizzazione della strategia politico-militare di Carlo V, fin da quando appena ventenne nel 1522 aveva avuto un ruolo di rilievo nella giornata della Bicocca, e poi a Pavia, sotto l’ala protettrice del cugino, Ferrante Francesco, il “gran Pescara”, partecipe della sortita in cui fu fatto prigioniero Francesco I. Il suo cursus honorum, dopo la partecipazione alla campagna d’Ungheria, raggiunse il culmine nel 1535 con il comando supremo delle truppe di terra nella campagna di Tunisi, che consolidò di lui l’immagine di invincibile e tale rimase fino alla infelice battaglia di Ceresole nel 1544, da cui uscì immalin10 Così nella dedica al III Duca di Sessa, datata Napoli 15 giugno 1551, che accompagna la stampa dei Sonetti […] per la presa d’Africa, c. A3r. L’opuscolo, privo di note tipografiche, è attribuibile all’officina di Mattia Cancer: cfr. T. R. Toscano, Contributo alla storia della tipografia a Napoli nella prima metà del Cinquecento (1503-1553), Napoli, E.DI.SU., 1992, pp. 64-65.

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conito e frustrato fino al sopravvenire della morte. All’altezza del 1536, subito dopo la campagna di Tunisi, il ritratto del Marchese del Vasto, all’insegna della virtù guerriera bilanciata e, si vorrebbe dire, addolcita dal commercio con le Muse, dopo avere avuto la prima prestigiosa officiatura nella terza edizione (1532) dell’Orlando furioso11, veniva consacrato da Bernardino Martirano, segretario del Regno di Napoli, nel Pianto d’Aretusa, nel contesto di un catalogo di eroi subito dopo Carlo V, come

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… il cristato Achille, il grande Alfonso, per cui tanto è famoso il Vasto Aimone, che rappresenta in un Marte e lo intonso Apollo, il forte Alcide e ’l bello Adone12.

Lo splendido Marchese beninteso non era uno che potesse accontentarsi solo di ritratti costruiti di parole, sicché è più che naturale che ottenesse di farsi ritrarre almeno due volte da Tiziano. Se il primo ritratto, di proprietà di AXA Assurance e al Louvre fino a poco tempo fa prima di essere venduto, risale ai primi anni Trenta del Cinquecento e lo ritrae da solo; il secondo, noto con il titolo di Allocuzione di Alfonso d’Avalos alle truppe, ora al museo del Prado, oltre ad essere uno dei capolavori dell’artista, può essere letto come «un doble manifesto de lealtad: de las tropas españolas en la Lombardia hacia Ávalos, y de éste y su familia hacia el emperador»13. Conta di più che nella scelta di un fatto che potesse meglio sintetizzare fedeltà all’impero e capacità di capitano, Alfonso abbia puntato sulla assolutizzazione delle sue doti oratorie, alla maniera dei grandi condottieri antichi, che al valore delle armi nei momenti cruciali sempre accoppiavano le risorse della persuasione 11 XXXVII XIV, 5-8, a chiusura del catalogo di poeti contemporanei che finalmente si dimostrano ben disposti a cantare le virtù più che i difetti delle donne: «C’è il mio signor del Vasto, a cui non solo / di dare a mille Atene e mille Rome / di sé materia basta, ch’anco accenna / volervi eterne far con la sua penna». In altro luogo del poema (XV XXVIII-IX) un solenne encomio nel catalogo dei «capitani invitti» che la Provvidenza ha posto al servizio della monarchia universale di Carlo V. 12 B. Martirano, Il pianto d’Aretusa, ed. a cura di T. R. Toscano, Napoli, Loffredo, 1993, p. 87. Sul tema specifico cfr. A. Gargano, La “doppia gloria” di Alfonso D’Avalos e i poeti-soldati spagnoli (Garcilaso, Cetina, Acuña), in La espada y la pluma. Il mondo militare nella Lombardia spagnola cinquecentesca. Atti del Convegno Internazionale di Pavia, 16, 17, 18 ottobre 1997, Viareggio-Lucca, Mauro Baroni Editore, 2000, pp. 347-60. 13 M. Falomir Faus, La alocución del Marqués del Vasto, in Carlos V. Las armas y las letras. Catalogo della mostra Hospital Real, Granada, 14 aprile-25 giugno 2000, Madrid, Sociedad Estatal para la Conmemoración de los Centenarios de Felipe II y Carlos V, 2000, p. 310.

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retorica. La sintesi di antico e moderno era stata sottolineata da Pietro Aretino in una lettera da Venezia del 20 dicembre 1540 descrivendo a un Alfonso ormai impaziente per la lunga attesa le bellezze del dipinto e soffermandosi in particolare sulla figura del figlio primogenito Ferrante Francesco, che regge in mano la celata del padre, «adorno di armadura destra e antica, la quale fregiata di perle e di gemme gli scopre le braccia e le gambe nel modo che ne gli archi vediamo averle a i romani eroi»14. Uomo di grandi curiosità culturali il Marchese non disdegnò fin dagli anni giovanili la pratica della versificazione nel saldo orizzonte del petrarchismo, dall’improvvisazione al centone15, come prova il capitolo Arsi nel mio bel fuoco un tempo queto, stampato a Verona nel 1542 e finora attribuito erroneamente, come credo di aver mostrato altrove, all’Ariosto (n. XXVII nell’edizione delle Rime)16. È evidente che il prestigio dell’uomo facesse aggio sulle sue reali qualità poetiche e ciò spiega perché nella seconda emissione della giolitina dei signori napoletani del 1552 egli (meglio, gli organizzatori dell’antologia) soppiantasse

14 P. Aretino, Lettere. Il primo e il secondo libro, a cura di F. Flora, con note storiche di A. Del Vita, Milano, Mondadori, 1960, p. 696. La lettera è del 20 novembre 1540, ma il 22 dicembre successivo la tela non era ancora finita e tramite l’Aretino Tiziano fa recapitare all’impaziente Marchese un «quadruzzo […], acciocché egli con la vaghezza sua intertenga gli occhi vostri fin che si fornisce la tavola grande; che veramente sarà di corto» (Ivi, p. 730). L’attesa fu ancora lunga: solo nell’agosto del ’41 Tiziano la consegnò personalmente a Milano, incontrando anche Carlo V, che il 25 di quello stesso mese gli assegnò una pensione di cento ducati (cfr. la cronologia in appendice a Tiziano, catalogo delle mostre di Venezia e Washington, Venezia, Marsilio, 1990, p. 409). Nel suo breve soggiorno milanese l’Imperatore, oltre a promulgare la nuova costituzione, tenne a battesimo Cesare d’Avalos, quinto figlio del Marchese, nel cui palazzo avrà potuto ammirare il capolavoro di Tiziano. 15 Per quanto amplificata, si veda la testimonianza di Filonico Alicarnasseo (= Costantino Castriota), che nella Vita del Vasto, ricorda: «[il Marchese del Vasto fu] habilissimo e pronto in far versi cosí latini come volgari dotti, pronti e sententiosi, de’ quali fe’ sí gran numero, che le Muse in Parnasso havrebbeno di mestieri gran spatio per gli cantare. [...] Era piacevole il Marchese in conversatione et accorto, acuto, arguto et habilissimo cosí nel latino come nell’italiano idioma, formando in pronto versi latini et volgari con mischianza di diversi authori, i quali posti da lui con buona gratia, l’orecchie tenea ingannate e balorde di coloro che di tal sorte l’odivan ragionare, né per questo rimase di scriver sceltamente in lingua latina, et far belle elegie et arguti et accorti epitaffi et epigrammi, sonetti sententiosi et heroici nella lingua volgare, canzone miracolose, stanze et satire degne di essempio et ammiratione». Il brano è citato in V. Colonna, Carteggio raccolto e pubblicato da E. Ferrero e G. Müller. Seconda edizione con Supplemento raccolto e annotato da D. Tordi, Torino, Loescher, 1892, pp. 498-99 in nota. 16 Cfr. la precedente nota 8.

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Tansillo nella prima posizione17, segnalandosi nel contempo un altro dato incontestabile e cioè che se a Napoli, pur divenuta spagnola negli usi e talora anche nella lingua, la poesia in volgare aveva potuto conservare e sviluppare una sua vitalità in buona parte si doveva al mecenatismo e alla pratica diretta che di quella letteratura si era continuato a fare, anche negli anni bui dei primi decenni susseguenti alla crisi dinastica, in quel cenacolo di Ischia, vero snodo di relazioni culturali reso vieppiù prestigioso dalla presenza di Vittoria Colonna18. Ma questo attiene all’inizio della nostra storia, e ci ritornerò in conclusione di queste note. Come e più di Garcilaso o Gutierre de Cetina, o Diego Hurtado de Mendoza, o Hernando de Acuña, i napoletani sono petrarchisti, mi si passi la definizione, di ‘cappa e spada’ che andavan tomando ora la espada, ora la pluma (Garcilaso Eg. III, v. 40)19, incarnando uno dei tratti essenziali della fisionomia del Cortegiano, che così larga e rapida e incondizionata accoglienza aveva ricevuto a Napoli e in Spagna. D’altra parte l’oscillazione cortegiano/cavaliere sembra autorizzata dall’elogio che si vuole Carlo V abbia pronunciato alla notizia della morte del Castiglione: «Yo os dico che es muerto unos de los mejores caballeros del mundo». Gli estri di Apollo perennemente insidiati dai richiami di Marte sono rievocati a più riprese nella sparsa produzione lirica di Alfonso d’Avalos. Basti un prelievo: Or che di ferro e di valore armate schiere mi mostra il sanguinoso Marte 17 Sulle varianti tra la prima e la seconda emissione dell’antologia, che da “terzo” diventa “quinto libro”, cfr. T. R. Toscano, Le Rime di diversi illustri signori napoletani: preliminari di indagine su una fortunata antologia, in Id., Letterati corti accademie, cit., pp. 183-200. 18 Sull’importanza del ‘circolo’ di Vittoria Colonna nei suoi anni napoletani (15091533) hanno dettato pagine esemplari sia C. Dionisotti, Appunti sulle rime del Sannazaro, in «Giornale storico della letteratura italiana», CXL (1963), 161-211, che E. Raimondi, Il petrarchismo nell’Italia meridionale, in Premarinismo e pregongorismo [1971], Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1973, pp. 95-123, poi in Id., Rinascimento inquieto, Torino, Einaudi, 1994, pp. 267-306. 19 L’icona di Garcilaso poeta-soldato è pienamente definita nel sonetto che gli dedica Tansillo: «Spirto gentil, che con la lira al collo / la spada al fianco ognor, la penna in mano, / per sentier gite, che non pur ispano / ma latin pié fra noi raro segnollo, // felice voi, ch’ora Marte ed ora Apollo / or Mercurio seguendo, fuor del piano / v’andate a por del volgo sì lontano, / che man d’invidia non vi può dar crollo» (L. Tansillo, Il canzoniere edito ed inedito secondo una copia dell’autografo ed altri manoscritti e stampe [...], vol. II. Poesie eroiche ed encomiastiche, edizione dalle carte autografe di E. Pèrcopo, a cura di T. R. Toscano, Napoli, Consorzio Editoriale Fridericiana - Liguori Editore, 1996, son. CCLXXXIII, p. 147. L’evocazione di Mercurio, accanto a Marte e ad Apollo, segnala le incombenze più specificamente diplomatico-politiche affidate da Carlo V a Garcilaso.

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e che bisogn’oprar la forza e l’arte, per vincer genti fiere in guerra nate, conviemmi, o Muse da me molto amate, restarmi addietro: ch’il vergar di carte faccia qui posa, in fin ch’arrivi in parte ch’altre vittorie giunga a le passate20.

Si potrà anche orazianamente dire che il Marchese componesse versi stans pede in uno, non credo che se lo sarebbe recato a offesa, se lui per primo nella corrispondenza con Girolamo Muzio ha lasciato traccia di questo suo scrivere magnis itineribus tenendo i piedi nelle staffe di un cavallo21. Tornando alla giolitina del ‘52, concluderei provvisoriamente il discorso, rilevando come la compatta, tematicamente e stilisticamente, silloge del Tansillo22, abbai esercitato un grande fascino sui poeti spagnoli. Un micro canzoniere23, un canzoniere-impresa, che concentrava una serie di temi e di complesse elaborazioni formali la cui nota di fondo è data dalla audacia (la osadìa per dirla come gli spagnoli) dell’amore temerario perché posto in

20 Rime di diversi illustri signori Napoletani e d’altri nobiliss. ingegni. Nuovamente raccolte Et con nova additione ristampate. Libro quinto. Allo Illus. S. Ferrante Carrafa. Con privilegio. In Vinegia appresso Gabriel Giolito de Ferrari et fratelli, MDLII, p. 3. 21 Oltre alle lettere al Muzio nelle quali il Marchese discute spesso di questioni di tecnica poetica, va segnalato il racconto di una sua performance affidato a una lettera del Muzio a Francesco Calvo, spedita da Mondovì il 31 ottobre 1543 (in una fase quindi di delicate incombenze militari): «Et acciò che voi meco ne possiate sentire consolatione, dovete sapere che, dal partir nostro di Vighieveno, infin che siamo arrivati qui al luogo delle faccende, il signor Marchese ha sempre havute le Muse in compagnia et ha fatto infino a dodici sonetti et una lettera di ben cento versi in rime sciolte per risposta di una mia et ha costretto me a fare ogni giorno alcuna cosa. In cavalcando facevamo come a gara, ché et egli et io ci rimovevamo dalla compagnia et, come io haveva fatto un sonetto, così andava alla volta sua a recitargliele et il medesimo faceva egli con me, facendomi chiamare; poi, come eravamo giunti la sera allo alloggiamento, io scriveva ciò che io havea composto il giorno et gliele portava et egli di sua mano scriveva le cose sue et o me le mandava o le mi dava come io andava da lui»: G. Muzio, Lettere (Venezia, Giolito, 1551), edizione e commento di A. M. Negri, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2000, p. 129. Si fa fatica a comprendere per quali motivi la curatrice di questa puntigliosa edizione, in nota al brano appena citato, ritenga «lecito sospettare che le paternità letterarie del D’Avalos siano alquanto adulterate da interventi del M[uzio]». 22 In tutto 23 componimenti, tra sonetti (18), canzoni (3) e capitoli in terza rima (2). 23 Cfr. E. Milburn, “Come scultor che scopra / grand’arte in picciol’opra”: Luigi Tansillo and a Miniature Canzoniere in the Rime di diversi of 1552, «Italian Studies», 56 (2001), pp. 4-29, poi in Ead., Luigi Tansillo and Lyric Poetry in Sixteenth-Century Naples, Leeds, Maney Publishing, 2003, pp. 84-107.

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troppo alto oggetto, benché, a norma del Cortegiano, dall’identità tenuta gelosamente nascosta. Accanto all’audacia, la gelosia: tema quant’altri mai elettivamente affine alla cultura cavalleresca: anche qui l’incunabolo sannazariano (Sannazaro XXVII, O gelosia, d’amanti orribil freno)24, tradotto da Garcilaso XXXIX ¡Oh celos, de amor terrible freno, benché di dubbia autenticità, viene ripetutamente variato da Tansillo (solo nella giolitina quattro sonetti). Qui importa che il son. O d’Invidia e d’Amor figlia sì ria sia stato tradotto (!Oh de envidia y de amor hijo maligno) da Jerónimo de Lomas Cantoral e stampato nelle sue Obras del 1578, notevoli perché contengono, oltre a una serie di spunti ripresi da Tansillo, anche la Traducción de las piscatorias del Thansillo (e si ricordi che la princeps a stampa delle canzoni piscatorie è del 1575) 25. Ancora nel 1603 Jerónimo de Heredia, nella sua Guirnalda de Venus Casta y Amor Enamorado, è interessato alle composizioni più complesse e artificiose del Tansillo: il son. Qual hombre que va al remo condenado è traduzione di Qual uom che trasse il grave remo e spinse di Tansillo (ed. Pèrcopo I LXXV), così come il son. Ni mar airado que las rocas hienda traduce Né mar ch’irato gli alti scogli fera (ed. Pèrcopo I L), che Raimondi ha esibito come «vigoroso esercizio di correlazione disseminativa»26, e più recentemente doviziosamente analizzato alla stregua di «pezzo simbolico al contempo della prassi epigrammatica e della combinazione delle fonti»27. Considerato che anche Cervantes nel Don Chisciotte (I XXXIII) ricorda “el famoso poeta” Luigi Tansillo, di cui traduce una ottava delle Lacrime di san Pietro, verrebbe fatto di isolare nella pratica in senso lato del petrarchismo napoletano e in senso specifico della declinazione che ne aveva dato il Tansillo una cifra da ingeniosos hidalgos, e se nel fare storia dell’evoluzione dei temi e delle forme metriche, più che il gioco degli anticipi (tipo Tansillo precursore del barocco, per intenderci) ci interessasse anche quello delle riprese e delle persistenze, si potrebbe dire che la mutua affinità tra petrarchismo spagnolo e petrarchismo napoletano sia anche, nella proiezione e nella pratica comune della locuzione artificiosa, il retaggio (almeno tematico) di

24 Sulla centralità di questo tema nell’universo lirico napoletano è d’obbligo il rinvio all’acuta analisi di E. Raimondi, Il petrarchismo nell’Italia meridionale, cit., pp. 280 ss. 25 Nella stampa veneziana delle Rime di diversi autori non più vedute, nuovamente raccolte e date in luce curata da Cristofaro Zabata (pp. 25v-35). 26 E. Raimondi, Il petrarchismo nell’Italia meridionale, cit., p. 288. 27 R. Pestarino, Poesia epigrammatica e sincretismo delle fonti in Luigi Tansillo: il sonetto Né mar ch’irato gli alti scogli fera, in «Critica letteraria», XXXII (2004), pp. 3-47 (= p. 22).

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certe complicazioni cerebrali, ai limiti della fredda loicità da causidici, di tanta poesia cancioneril che a Napoli ha continuato ad avere lettori ben oltre la data topica del 1530. Che poi Tansillo più di ogni altro poeta napoletano28 abbia avuto udienza in Spagna, con largo seguito di traduttori e imitatori, se si spiega nella seconda metà del Cinquecento come frutto della grande diffusione che ebbero i libri a stampa di poesia e segnatamente le antologie, diverso è il problema quando il processo di imitazione si consideri in poeti che imitano di Tansillo componimenti rimasti allora e poi inediti fino alle edizioni di Fiorentino (1882) e Pèrcopo-Toscano (1926-1996). Che è il caso esemplare di Gutierre de Cetina, una biografia umana e letteraria parallela a quella di Tansillo: entrambi dimidiati tra las armas y las letras, entrambi gratificati dall’amicizia e dall’ammirazione di Don Gonzalo Fernández de Córdoba (1520-1578), III Duca di Sessa, nipote del Gran Capitano e, come si vedrà, punto di snodo essenziale per la conoscenza precoce dell’esperienza lirica del Tansillo in Spagna. Begoña López Bueno opportunamente rileva che la tematica icaria e della osadía, che innerva tanta parte della lirica spagnola, non è solo debritrice a Tansillo, ma all’abbondante ripresa che ne aveva fatto Cetina, che nella sua tappa italiana ha modo di affinare la tecnica compositiva soprattutto del sonetto: Así en sus primeros años de estancia en Italia, Cetina se hace con los principales temas de su poética: y también –destaquémolo– con su configuración formal. En la poesía de Cetina, sobre todo en los sonetos, destaca una cuidadosa elaboración técnica […]. Es la diferencia que le separa de Garcilaso y le acerca a la poesía de la sigunda mitad del siglo. Se realza de esta manera la importancia de la imitación hacia los petrarquistas del Cinquecento, tan empeñados en una progresiva elaboración formal, y en este caso en Tansillo […]29.

Il soggiorno italiano di Cetina, con qualche interruzione sulla cui estensione i biografi non dispongono di elementi certi, comprende il decennio 28 La preminenza di Tansillo nell’ambito del petrarchismo spagnolo (e oltre) è un dato ormai consolidato nell’ultimo quarto del Cinquecento, stando al giudizio di Fernando de Herrera, commentatore di Garcilaso: «Fue uno de los más hermosos y excelentes y ingeniosos poetas de Italia; y de lo que yo puede juzgar, por lo que he visto, aventajado entre los napolitanos» (Obras de Garcilasso de la Vega con anotaciones de Fernando de Herrera, en Sevilla por Alonso de la Barrera, 1580, p. 378). 29 B. López Bueno, Introducción a Gutierre de Cetina, Sonetos y madrigales completos, Madrid, Catedra, 19902, p. 39.

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1538-1548: il poeta lasciò Milano il 12 aprile 1548, sbarcando a Barcellona e di lì prendendo la strada di Valladolid, latore di lettere al principe Filippo che si apparecchiava al viaggio in Italia e alla prima entrata in Milano30. Da Valladolid passò a Siviglia soggiornandovi qualche tempo, prima di passare in Messico dove fu ferito a morte nel 155431. Nel 1548 Tansillo non era ancora noto per le stampe e tuttavia si fa prima a dire, leggendo i componimenti di Cetina, quali siano quelli non debitori al poeta napoletano. Rimane indenne la domanda donde Cetina abbia potuto attingere in misura così abbondante l’inedito Tansillo. Si può rispondere, come finora si è fatto, che avendo i due frequentato gli stessi ambienti e gli stessi personaggi, abbiano avuto modo di conoscersi di persona e quindi lo spagnolo venire a conoscenza dei versi del napoletano. Amici non furono, se vogliamo interpretare l’assenza, nei versi di entrambi, di poesie di corrispondenza, anche se nulla vieta di immaginare che Ferrante Gonzaga, nel cui seguito troviamo Cetina a partire dal 1543, cui Tansillo indirizza anche dei capitoli in lode della galera, avesse manoscritti di lui, così come non deve sfuggire che un altro centro di sicura lettura di manoscritti tansilliani era Milano, dove Cetina fu tra il 1544 e il 1548, negli ultimi anni cioè della presenza di Alfonso d’Avalos e di Maria d’Aragona sua moglie (per tanti indizi oggetto dell’amore temerario di Tansillo, sicché a tal riguardo aveva il Fiorentino visto meglio del Pèrcopo), e anche qui la presenza di mss. tansilliani nonché probabile appare quasi obbligata. Ma credo si possa ora stabilire donde Cetina avesse potuto attingere largamente un Tansillo quasi completamente inedito32, partendo dal groviglio di traduzioni-riadattamenti dell’elegia tansilliana in terzine a rima concatenata Se quel dolor che va innanzi al morire (ed. Pèrcopo I, cap. V, pp. 179-183), stampata per la prima volta nella giolitina del 1552. Schematizzando, abbiamo tre versioni: 1. Gutierre de Cetina: Si aquel dolor que da á sentir la muerte (20 terzine)33;

30 Cfr. M. Bataillon, Gutierre de Cetina en Italia, in Studia hispanica in honorem R. Lapesa, Madrid, Editorial Gredos, 1972, pp. 153-172. 31 B. López Bueno, Introducción a Gutierre de Cetina, cit., pp. 29-30. 32 E. Pèrcopo (XXXIII, in nota) avendo notato in Cetina imitazioni di componimenti tansilliani inediti, aveva inappuntabilmente argomentato «che quel rimatore (1520-1560), vissuto anche in Italia ed a Napoli dal ’43 al ’45, dovette possedere un ms. delle poesie del T.». 33 Obras de Gutierre de Cetina con introducción y notas del doctor D. I. Hazañas y la Rua, Sevilla, Francisco de P. Díaz, 1895, t. II, pp. 145-52, con il titolo di Elegía.

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2. Diego Hurtado de Mendoza: Si el dolor del morir es tan crecido (traduzione quasi ad verbum, ma 23 terzine)34; 3. Hernando de Acuña: Si el dolor de la muerte es tan crecido (24 terzine)35. Esaminate le strette somiglianze tematiche e lessicali tra i tre componimenti, González Miguel36 rilevava la perfetta uguaglianza nei tre del verso Antes que parta el pie, parta la vida (21 in 1, 21 in 2, 24 in 3) corrispondente al verso 21 in Tansillo: Prima che parta il pié, parta la vita. Credo sia ora possibile spiegare la differenza del numero di terzine nei tre componimenti, in quanto Cetina rielabora, in qualche punto traducendo, il testo nella forma tràdita dal manoscritto di rime che Tansillo inviò nel gennaio del 1546 a Don Gonzalo Fernandez de Cordoba, III duca di Sessa, nipote del Gran Capitano, e ora alla Biblioteca dell’Università di Coimbra (= Cu), la cui estensione è appunto di 20 terzine e identica estensione presenta anche nel ms. della biblioteca dell’Instituto Valencia de don Juan di Madrid (= J), offerto anche questo allo stesso dedicatario nel 155137; Hurtado de Mendoza utilizza la giolitina del 1552 (= G), dove il testo si estende per 23 terzine, che diventano 24 in Acuña, che diluisce in qualche caso su più terzine il dettato del modello, e che da un confronto appare tuttavia dipendere inequivocabilmente da Cu piuttosto che da G. Prima di tornare a Cetina, osservo che la dipendenza del testo di Acuña da Cu, o da un testimone affine, si spiega con la lunga consuetudine che egli, in qualità di capitano dell’esercito imperiale in Italia, ebbe modo di maturare con Alfonso d’Avalos38 e anche, dopo la morte di questi, con il soggiorno per qualche tempo a Napoli, dove forse avrà avuto modo di salutare la Marchesa del Vasto e «allí también pudo conocer a Luigi Tansillo»39. L’inequivoca dipendenza di Hurtado de Mendoza dal testo

34 D. Hurtado de Mendoza, Poesía completa, edición, introducción y notas de J. I. Díez Fernández, Barcelona, Editorial, Planeta, 1989, pp. 255-57, con il titolo di Epístola a una partida. 35 H. de Acuña, Varias poesías, edición de L. F. Díaz Larios, Madrid, Cátedra, 1982, pp. 178-80, con il titolo di Elegía a una partida. 36 J.-G. González Miguel, Presencia napolitana en el siglo de de oro español, cit., p. 196. 37 Su questi due manoscritti offerti da Tansillo al III Duca di Sessa rinvio al mio studio citato nella nota 7. 38 Cfr. G. Morelli, Hernando de Acuña e Alfonso d’Avalos, governatore di Milano, in La espada y la pluma. Il mondo militare nella Lombardia spagnola cinquecentesca, cit., pp. 361-68. 39 Cfr. L. F. Díaz Larios, Introducción a Hernando de Acuña, Varias poesías, cit., p. 24. Abbia conosciuto o no Tansillo, Acuña poté giovarsi di una delle tante copie manoscritte che circolavano, come informa Girolamo Ruscelli (Le imprese illustri con espositioni et discorsi

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tràdito da G –non si dimentichi che egli è il dedicatario del “libro I” delle Rime diverse di molti eccellentissimi autori (Venezia, Giolito, 1545) curato da L. Domenichi– è denunciata non solo dalla identità di estensione dei due componimenti, ma soprattutto dalla circostanza che è l’unico a “tradurre” le tre terzine aggiunte nel passaggio dalla primitiva redazione attestata da Cu a quella successiva riprodotta da G. Basta leggere in parallelo i 9 versi aggiunti: Tansillo, vv. 31-40 (G, p. 14)40

Hurtado de Mendoza, vv. 31-40

Et se dal lungo pianto hora m’auanza Il sonno; in braccio per pietà mi prenda La bella, cara, angelica sembianza. Ma questo, oime, temo, che’n van s’attenda. Come il sonno amator delle fredde ombre Portar puo cosa che tanto arda et splenda? Ne fia c’human pensier dipinga et ombre Celeste lume, ond’è il bel uiso adorno si che dal tristo cor le nebbie sgombre.

y si del largo llanto algún momento quedare al sueño, en cuanto el bien se ofrece, mi luz en sí me haga acogimiento. Mas ¡ay! que este esperar vano parece, porque el sueño, amador de sombras frías, non traerá cosa que arde y resplandece. Ni hay pintar con humanas fantasías de suerte vestra luz que sea bastante a quitar de dolor las nieblas mías.

Di più, ponendo a confronto una terzina comune (vv. 10-12) a Cu e a G interessata a un cospicuo processo di rielaborazione si osserva come il testo di Cetina e di Acuña dipenda dalla lezione del manoscritto41, mentre Hurtado de Mendoza conferma la sua dipendenza dalla stampa: Tansillo, Cu, c. 75v

Tansillo, G, p. 13

Anzi la piu perfetta et miglior parte è42 quella che in poter de altri rimane che con le proprie mani amor la parte.

Anzi la piu perfetta et maggior parte Negli occhi altrui riposta si rimane che Amor di propria man la tronca et parte.

[…], Venezia, F. Rampazzetto, 1566, p. 265), che, dopo aver ricordato che il capitolo fu composto a nome di don Garcia de Toledo, figlio del Viceré, aggiunge che «fu publicato e sparso per Napoli, come fatto o composto dal detto Luigi, non per don Garzia, ma per se medesimo». 40 Riproduco la grafia senza interventi. 41 In cui i versi sono preceduti dal titolo Elegia non a caso conservato da entrambi. 42 Il ms. legge et.

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Acuña

Hurtado de Mendoza

Antes la más perfecta y mejor parte es la que en el poder ajeno queda, que con su propia mano Amor la parte.

La más perfecta de ella y mejor parte queda puesta en los ojos de lo amado, que de su mano Amor la corta y parte.

Semmai è proprio il testo di Cetina, per quanto dipendente da Cu, a evidenziare un maggiore sforzo di rielaborazione:

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La más sensible y la más blanda parte Es aquella que en otro poder dea, Como place al amor que la reparte.

E tuttavia, per tanti aspetti, sembra che Cu sia stato per Cetina una sorta di livre de chevet da cui ha attinto a piene mani sollecitazioni tematiche e stimoli a tentare forme metriche nuove per la Spagna come il madrigale43. Trascorro la lista dei sonetti, inediti fino a quando Cetina rimase in Italia44, e che si trovano nel “libro” per don Gonzalo, ricordando solo che anche Cetina non poteva non essere tentato dal tema dell’osadìa traducendo Tansillo di Amor m’impenna l’ale e tanto in alto (presente in Cu) in Amor mueve mis alas y tan alto (son. XI). Rimangono le imitazioni dei madrigali, tutti presenti nel libro per il Duca di Sessa, tra i quali va ricordato Yo diría de vos tan

43 Sul primato di Cetina nella pratica del madrigale in lingua castigliana gli studiosi sono concordi: cfr. B. López Bueno, Gutierre de Cetina poeta del Renacimiento español, Sevilla, Diputacion Provincial de Sevilla, 1978, pp. 240 e ss. e, più recentemente, M. López Suárez, La pratica del madrigale nel petrarchismo spagnolo, in «Esperienze letterarie», 2004, n. 4, pp. 3-34, che tuttavia focalizza nei madrigali di Girolamo Parabosco la fonte principale dell’ispirazione di Cetina. Ciò che va sottolineato è anche la presenza cospicua di questa forma metrica nel manoscritto offerto da Tansillo al Duca di Sessa nel 1546 (15 su un totale di 74 componimenti) e che la totalità di essi rimase inedita fino all’edizione Fiorentino del 1882, sebbene abbia avuto larga diffusione alla spicciolata nell’editoria musicale. 44 Su cui si cfr. J.-G. González Miguel, Presencia napolitana en el siglo de oro español, cit., pp. 169 e ss. Ulteriore riprova della conoscenza di Cu da parte di Cetina è il son. CV Por vos ardí, señora, y por vos ardo evidente ripresa del tansilliano Io arsi per voi, donna, et per voi ardo (Pèrcopo I, son. LXVII, p. 95), letto da Cu, ma rimasto inedito fino all’edizione Pèrcopo, perché tramandato solo dal codice Casella, fatto che per González Miguel (p. 182) non si sarebbe potuto altrimenti spiegare se non ricorrendo alla «hipótesis de que ambos se conocieran y vivieran algún tiempo juntos, durante el cual Cetina pudo conocer los sonetos que Tansillo llevaba consigo o que tal vez compusiera por aquellas fechas».

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altamente45, quasi traduzione del tansilliano Io canterei di voi sì lungamente (ed. Pèrcopo I, madr. XIII, pp. 169-70) per il quale González Miguel era costretto a dire: «No sabemos cómo llegó a manos de Cetina, pero ciertamente lo conoció manuscrito y lo tradujo»46. Probabile che Cetina, in corrispondenza poetica con il III Duca di Sessa già prima della partenza per l’Italia (1538)47, lo abbia incontrato proprio a Valladolid nella corte del principe Filippo48, allorché vi giunse nell’aprile-maggio 1548, latore di lettere relative ai preparativi dell’entrata in Milano e che, prima di ritornarsene a Siviglia, sia stato messo a parte da Don Gonzalo del prezioso canzoniere (= Cu), che nel gennaio del 1546 gli aveva mandato da Napoli Luigi Tansillo. Dei libri di rime tansilliane per il duca di Sessa ho parlato altrove, ma qui in estrema sintesi si vuol dire che proprio nella compattezza tematica di amore ed eroismo, che sigla quel progetto di canzoniere, poi abbandonato, con la corrispodenza poetica con Garcilaso, già defunto, ma ben vivo nel ritratto di poeta-soldato con la spada al fianco ognor, la penna in mano (Pèrcopo-Toscano II, son. CCLXXXIII, p. 147) e l’elogio di Boscán morto da poco, alla cui memoria si «sacran queste rime peregrine» (Ivi, son. CCXC, p. 153), quasi allargando l’orizzonte dell’offerta all’intero ms. inviato al Duca di Sessa, ricordando l’autore di essersi invaghito dei versi dello spagnolo quando era appena uscito di adolescenza («non ben fioría su le mie guancie il pelo, / quand’io del nome tuo divenni ardente»); o anche con i tre sonetti per i tremila fanti spagnoli trucidati dai turchi nell’eroica difesa di Castelnuovo di Bosnia (10 agosto 1539)49, Tansillo modellava di sé quell’im45

Ed. López Bueno, cit. p. 315. J.-G. González Miguel, Presencia napolitana en el siglo de oro español, cit., p. 178. 47 Come mostra il son. CCXX, «fechable en 1537 y en Valladolid» (B. López Bueno, nella cit. ed. dei Sonetos, p. 301), Sesenio, pues que vas do vengo agora; mentre il son. CCXIX (Ivi, p. 300), non datato (Como al salir del sol se muestra el cielo), sembra rimodulare l’incipit del tansilliano Come al venir del sol benché sia solo (Pèrcopo-Toscano II, son. CLII, p. 17, con la variante esca in luogo di sia), dedicato Al Duca d’Alba, ma in Cu adibito a chiudere la raccolta. 48 Il III Duca di Sessa ebbe, almeno a partire dal 1543, un ruolo di assoluto rilievo nella “casa” del principe Filippo, da cui in processo di tempo fu sovvenuto con una pensione di duemila scudi, essendosi ridotto in povertà (cfr. F. Nicolini, Su don Gonzalo Fernández de Córdoba, terzo duca di Sessa e di Andria (1520-1578), in «Iapigia», IV (1933), pp. 239-280; V (1934), pp. 69-102; e A. Álvarez-Ossorio Alvariño, «Far Cerimonie alla spagnola»: el duque de Sessa, gobernador del Estado de Milán (1558-1564), in Felipe II y el Mediterráneo, coordinador E. Belenguer Cebriá, vol. III, La monarquía y los reinos, I, pp. 393-514. 49 Anche questi sonetti (Pèrcopo-Toscano II, son. CCXIX-XXI, pp. 73-75, con le relative notizie sulla diffusione manoscritta e a stampa) sono tra i più imitati del Tansillo in 46

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magine del poeta-soldato e insieme fedele vassallo d’Amore, rivivendo il modello garcilasiano, arricchendolo semmai di nuove suggestioni alle quali i poeti spagnoli della generazione sua e di quella seguente trovarono naturale aderire. Resta che al di qua delle stampe, bisogna seguire i transiti dei poeti (e dei manoscritti di rime) quasi sempre vagando da una corte all’altra, dalla Sicilia di Ferrante Gonzaga, alla Milano di Alfonso d’Avalos, dalla Napoli di don Pedro de Toledo alla Siviglia del Duca di Sessa. Non si tratta di corti regali beninteso, ma di quel sistema di piccole corti in cui fedeli vassalli spesso vivevano con uno splendore di poco inferiore a quello dei monarchi. Questa società letteraria aristocratica dei petrarchisti napoletani non nasceva così all’improvviso nel 1552. Aveva vissuto una lunga veglia di formazione senza lasciare traccia dei riti di passagio. O, forse, poche tracce e disperse. Ma qualcosa rimane. Ancora una regressione cronologica e siamo alla terza data: 1535, un mese dopo l’ingresso trionfale di Carlo V a Napoli (25 novembre), reduce dall’impresa di Tunisi50, i nobili napoletani offrono all’Imperatore un convito-accademia nei giardini della villa di Poggio Reale per festeggiare Margherita d’Austria, che di lì poco sarebbe andata in sposa ad Alessandro de’ Medici51. L’evento è ricostruibile sulla scorta delle Cose volgare di messere Augostino Landulfo […] nelle quale se raggiona dell’una e l’altra fortuna […], stampate a Napoli da Mattia Cancer nel febbraio del 1536. Se non avesse altro merito, l’operetta meriterebbe comunque una lettura per il suo innegabile valore di testimonianza su un evento di grande rilevanza sociale. Storici e cronisti del tempo non ne serbano memoria, ma sembrerebbe del tutto improbabile pensare a un testo di pura invenzione e quanto meno inopportuna sarebbe stata l’esibizione dell’Imperatore52 come interlocutore di

Spagna e, sebbene presenti in J e non in Cu, ebbero una notevole circolazione, senza dimenticare che invii di componimenti spicciolati al Duca di Sessa sono resi plausibili dal tenore della didascalia che il poeta appone al son. Prendi quest’alma in grembo et portala hoggi (Cu, c. 90v = Pèrcopo I, son XLV, p. 62, con la variante menal’oggi nella clausola): Sonetto al Ill.mo Señor Ducha | Nel fine de Una littera de M. | L. Tansillo a sua S.ria. 50 Cfr. T. R. Toscano, Le Muse e i Colossi: apogeo e tramonto dell’umanesimo politico napoletano nel “trionfo” di Carlo V (1535) in una rara descrizione a stampa, in Id., L’enigma di Galeazzo di Tarsia, cit., pp. 103-45. 51 Su cui cfr. T. R. Toscano, Carlo V nelle delizie aragonesi di Poggio Reale. Un’“accademia” poetica di nobili napoletani in un raro opuscolo a stampa del 1536, in Id., Letterati corti accademie, cit., pp. 245-63. 52 Il quale, giova ricordare, all’uscita del libro era ancora a Napoli.

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un dibattito sulla tanto vexata quaestio dell’incidenza della fortuna sul destino degli uomini. Nelle Cose volgare viene ricostruito e agito lo spazio della corte al livello più alto: i nobili napoletani, l’aristocrazia feudale e quella dei seggi, al cospetto del loro sovrano, per una occasione solenne e nel contesto ambientale più ricco di memorie aragonesi, ripropongono modalità tipicamente cortigiane di creazione e fruizione della letteratura. La brigata, formata di uomini, «oltre di legnaggio illustre, di benigni e adveduti ingegni nelle bone lettre nudriti e allevati», è integrata con ruolo non passivo da «altrettante di sagge donne, e delle prime di bellezza e di sangue di Napoli» (cc. B2rv), la cui presenza nel contesto della festa appare complessivamente paritaria rispetto a quella maschile. Dopo l’esibizione di quattro gruppi alternati formati ciascuno di sette ‘paggi’53 e damigelle che eseguono componimenti poetici con accompagnamento musicale in lode di Margherita d’Austria, i dialoghi e i versi più strettamente legati al tema della fortuna occupano la parte finale del libro. Vi appaiono come partecipanti i maggiori esponenti dell’aristocrazia54 con la significativa presenza di Bernardino Martirano55, esponente piuttosto di una nobiltà di “toga” per la sua carica di segretario del Regno, per quanto discendente di nobile famiglia cosentina. L’importanza del tema trattato è segnalata anche dal prevalere della canzone sulle altre forme metriche, sette su dieci, ancora una volta con una presenza femminile paritaria (apre la serie Giulia Gonzaga, chiude Vittoria Colonna). La sceneggiatura in sé non è nuova, tanto che l’autore stesso non fa alcuno sforzo per celare i debiti contratti con gli Asolani 56; tuttavia apporti piú specificamente napoletani si addensano sul versante di una precoce tendenza a connotare in chiave di arguzia e sottigliezza d’ingegno le prove poetiche a mano a mano che si succedono, isolando un’area semantica, che denota quanto nel 1536 fosse in fase già abbastanza avanzata la ricerca sulla tecnica del sonetto, interpretato in chiave epigrammatica57, tenendo anche conto che la pratica delle “impre-

53 Fra i quali spicca Berardino Rota, esecutore di un madrigale lodato dalla Principessa di Sulmona come fattura degna dell’allievo di Marc’Antonio Epicuro (c. D4r). 54 In primis Alfonso d’Avalos e Ferrante Sanseverino, principe di Salerno. 55 Nella cui villa di Leucopetra (Pietrabianca) alle porte di Napoli aveva sostato per tre giorni Carlo V, prima di fare il suo ingresso in città. 56 Cfr. G. Dilemmi, Da Mantova a Napoli: i ‘pretesti’ asolani di Giovanni Muzzarelli e Agostino Landulfo, in Id., Dalle corti al Bembo, Bologna, CLUEB, 2000, pp. 273-301. 57 Lo stesso 1536 (ottobre) esce a Napoli dai torchi del Sultzbach il Vocabulario di cinquemila vocabuli toschi di Fabricio Luna, che sintetizza l’approccio napoletano al sonetto in maniera altrettanto efficace: «Epigramma cioè di versi latini, il qual è detto dal greco ‘epì’, cioè ‘sopre’, e ‘gramma’, cioè ‘inscrittione’: è simile al sonetto, non de’ eccedere più di versi 14. Vuol esser poco e buono, simile al pepere: arguto, sentencioso e nel fine sempre

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se” ha potuto influire non poco su tale evoluzione. Cosí il giovane Cardona viene lodato «del suo cantare di sottil et adveduto ingegno» (c. E4r), mentre al Pignatelli si riconoscono «il dir pomposo» e i «novi inusitati accenti» (ibidem). Del Piccolomini si loda «al fine l’arguto sonetto» (c. H3r), mentre Carlo V in persona, dopo aver ascoltato il sonetto della Pignatelli «sovra de l’altre l’estolse e comendò de arguto e sottile ingegno» (c. O4v). Nella pausa che segue il pranzo, è l’Imperatore stesso a riepilogare in termini elogiativi le esibizioni poetiche dei primi due gruppi: Et essendo con bellissimo e riposato ordine servito, sí come se gli conviene e di bone e dellicate vivande, venuto piú lieto sovra le recetate canzoni, con la sua segnoril brigata de lo piú e de lo meno raggionava, ora in comendare dei primi paggi l’arguta canzona con li loro madrigaletti nati d’un corpo et in un soggetto tutti appigliatisi –di non poter redir tanta beltate–, e venutosene tal volta con lodare le belle e dellicate voci e comandar l’aria del lor cantare e sonare. E tal volta alli secondi musici giovani se nne veniva e l’artificiosa lor canzone lodando con li sonetti, non se saziava di comendare et estollereli via piú che dir si possa […] (c. I1r-v).

Tra “arguzia” e “artificio” si chiude il perimetro di un rudimentale (per allora) lessico critico, fissando le direttrici di sviluppo e i poli di valutazione cui sarebbe approdata la produzione poetica napoletana negli anni maturi del Cinquecento. Ma qui preme di più chiedersi donde sortiva questa corte di nobili letterati senza re. Una corte in grado di eseguire con naturalezza complessi cerimoniali al cospetto dell’imperatore, in cui aristocratici uomini di spada e di negozi politici ristorano la mente maneggiando il fioretto della poesia e della disputa filosofica sul tema cruciale della fortuna; una corte, si sottolinea una volta di più, tutta regnicola, che rivela un livello di affinamento in cui il modello delineato da Castiglione appare già attualizzato. Si vorrebbe, anzi, dire, considerando il protagonismo delle donne, oltre Castiglione, che, per non escluderle, nel Cortegiano aveva annoverato la disputa “filosofica” come «esemplare di una conversazione da non tenere in Corte, nei momenti, soprattutto, di più forte socializzazione delle sue pratiche: una conversazione da bloccare, interrompere, sul nascere, perché sia sostituita da più piacevoli e socializzabili discorsi»58. ben chiudere; de’ esser chiaro senza interpretarci sopre, como son quelli del mio Gravina, e di moderni in questa città tutti le tengo per buoni (c. M2v). 58 A. Quondam, Intoduzione a Baldassar Castiglione, Il Libro del Cortegiano, Milano, Garzanti, 20009, p. XXIII.

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Si risale così alla quarta e ultima data dell’annunciato percorso a ritroso e alle linee di un progetto incompiuto, ma chiaramente delineato nel Dialogus de viris et foeminis aetate nostra florentibus di Paolo Giovio. Ischia, 1527: interlocutori, insieme all’autore, Giovanni Antonio Muscettola e Alfonso d’Avalos. L’opera rimase inedita, ma a rileggerla senza forzature sembra tradire la volontà di autore e committente59 di affiancare la corte di Ischia a quella di Urbino, alla vigilia della pubblicazione del Cortegiano (1528), con la differenza che nella declinazione napoletana spicca un’ambientazione vitalistica (nonostante la tragedia, da poco consumatasi, del sacco di Roma, l’assedio francese di Napoli e l’epidemia di peste) di contro alla malinconia della corte di Urbino che tesse i suoi colloqui all’ombra di un duca infermo e con la presenza in funzione protagonistica della donna, sia sotto il profilo letterario che politico: tra Vittoria Colonna e Costanza d’Avalos il giovane Alfonso (allora venticinquenne) dà prova del profitto conseguito sotto la guida sapiente delle due sibille di famiglia. In questa corte la poesia era di casa, quasi «in tutissimo portu ac iucundissimo Heroum et Musarum domicilio», e il Marchese del Vasto ne era cultore non sprovveduto. Si deve semmai rilevare l’esiguità delle truppe a quella data (1527) schierate sul fronte della poesia in volgare, capeggiate da Sannazaro, veterano ormai piú che in servizio effettivo, seguito a distanza da Marc’Antonio Epicuro, Antonio Minturno60, Baldassarre Marchese, Antonio Severino, con l’aggiunta, ma proprio perché «Davalíadem61 scripserit, et veteres vigilias Victoriae nostrae Columnae dedicarit», di Girolamo Britonio e di Berardino Rota, diciottenne appena ma «jam felix Epicuri praeceptoris imitator»62. Discorso a parte, e il catalogo si chiude, per Dragonetto Bonifacio «acerbissima morte surreptus»63. Nessuno dei poeti ricordati nel Dialogus rimase fuori dal ‘cenacolo’ di Ischia. Ma lo stesso Giovio non si era lasciata sfuggire l’occasione di tessere alto elogio alla musa del Marchese del Vasto, «ut quum

59 Nella dedica al Giberti, Giovio ricorda di aver scritto il Dialogus «cohortante Victoria»: Dialogus de viris et foeminis aetate nostra florentibus, a cura di E. Travi, in Pauli Iovii Opera ... Tomus IX. Dialogi et descriptiones curantibus E. Travi - M. Penco, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1984, p. 168, anche per la citazione che segue. 60 Ricordato comunque precipuamente come autore di poesia latina. 61 Il titolo latinizzato si riferisce alla Gelosia del Sole (Napoli, S. Mayr, 1519), lungo canzoniere di Girolamo Britonio dedicato a Vittoria Colonna. 62 Dal che si potrebbe desumere il sospetto che l’encomio di Rota sia stato aggiunto dal Giovio successivamente, tanto piú che, a me pare, gli esordi di questo poeta furono in latino e non anteriori al 1529, anno in cui fu pubblicato un epigramma nel De bello neapolitano di Camillo Querno (Napoli, Sultzbach e Cancer). 63 P. Giovio, Dialogus, cit., pp. 246, 238, 247.

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non modo peracer et strenuus Dux, sed poeta etiam mollis atque levissimus e castris rediisses, te hac apollinea simul et triumphali laurea dignum esse diceremus»64. Piú che naturale, a mente dei precetti del Cortegiano, la professione di modestia esibita dal lodato:

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Neque enim ita est, Jovi, uti de me benigne admodum dixisti, et nonnulli alii etiam praedicant adulantes: nam vim aetruscae linguae tantis involutam difficultatibus, quam longa observatione infinitisque praeceptis, ut Bembus docet, vix ociosi homines consecuntur, in castris agnoscere nequivi, neque carmina quae perfectis iudiciis placere possint, unquam conscripsi, quum mihi tantum uni et meis amoribus ludendum putarem.

Evidente dal contesto la volontà di Alfonso di circoscrivere la sua attività di poeta a semplice lusus amoroso65 cui dedicare il poco tempo libero tra donne, cavalier, arme, amori e audaci imprese, dal momento che le Prose bembiane66 costituivano la rivelazione piú lampante della specificità, professionalità si direbbe meglio oggi, sottesa all’esercizio della letteratura in volgare. Non pretendo di utilizzare il dialogo di Giovio come ‘documento’ fedele del pensiero di Alfonso d’Avalos in rapporto alla letteratura del tempo. Resta tuttavia che questo pensiero, pur filtrato attraverso la lente di Giovio, quanto meno è esposto in modo tale che l’interlocutore vi si potesse ad agio riconoscere, tanto piú accettando per vera l’ipotesi67 che l’autore avesse progettato una stampa della sua opera in anni immediatamente successivi alla composizione e quando i partecipanti al dibattito ivi sviluppato erano ancor vivi e vegeti. Ancora rimane, per fermarsi al Bembo, che lo stesso Giovioattore in altro luogo del Dialogus, pur ponendolo ai vertici del selezionatissimo canone dei poeti capaci di maneggiare latino e volgare con uguale perizia68 e unico capace di competere con Sannazaro, con un pizzico di uma64

Ivi, p. 243, anche per la citazione successiva. Cfr. Il Libro del Cortegiano, I XLIV: «Sia versato nei poeti e non meno negli oratori ed istorici ed ancor esercitato nel scriver versi e prosa, massimamente in questa nostra lingua vulgare; ché, oltre al contento che egli stesso pigliarà, per questo mezzo non gli mancheran mai piacevoli intertenimenti con donne, le quali per ordinario amano tali cose». 66 L’edizione del 1525 era arrivata a Napoli ancor fresca di stampa; delle due copie che Ludovico da Canossa aveva spedite da Venezia ad Antonio Seripando il 2 dicembre 1525 una era destinata al Sannazaro: C. Dionisotti, Machiavellerie, Torino, Einaudi, 1980, p. 316. 67 Cfr. E. Travi, La sosta a Napoli di Paolo Giovio, in «Quaderni dell’Istituto nazionale di studi sul rinascimento meridionale», 4, 1987, pp. 109-129. 68 «[Bembus] ambidexter utroque stilo feliciter pugnat» (P. Giovio, Dialogus, cit., p. 231, anche per la citazione successiva). 65

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I petrarchisti napoletani e il Siglo de oro

nistico veleno era costretto ad aggiungere che «ad Etrusca ingenium deflexit, quum certam ac summam ab his studiis dignitatem petere, quam a latinis dubio eventu speratam gloriam consectari mallet». Il che potrebbe significare che all’altezza cronologica del Dialogus e da punti di vista differentemente motivati gli interlocutori Giovio e Alfonso d’Avalos facessero gran conto della professionalità letteraria del Bembo senza per questo assumerlo (il discorso riguarda ora specificamente il Marchese del Vasto e i letterati della sua corte) tout court come modello unico e indiscutibile sul piano della proposta linguistica. O, almeno, non disponevano ancora degli strumenti per farlo. Se ci chiediamo quale influsso, per converso, abbia potuto esercitare la lezione del Castiglione non si farà fatica a immaginare che il modello di perfetto cortigiano delineato sullo sfondo della corte di Urbino potesse sembrare tagliato su misura anche per i protagonisti della ‘corte’ di Ischia, ancora una volta con Vittoria Colonna, figlia di Agnesina di Montefeltro, a garantire la plausibilità di rapporti e scambi tra i due centri. Basterà infatti ricordare che il Cortegiano ebbe circolazione precoce, ancora manoscritto, a Napoli: una vera “fuga” di notizie dal versante Colonna-d’Avalos che non mancò di indispettire il Nunzio, fin nella lontana Spagna69. Ma nel settembre del 1524 Vittoria Colonna aveva letto già il trattato, comprendendone e in certo senso condividendone la proposta, se non inganna il suo pregnante giudizio al riguardo: «il novo vostro vulgare porta una maestà con seco sí rara, che non deve cedere a niuna opera latina»70. E tornando al Dialogus di Giovio, si rammenterà lo splendido elogio di Baldassar Castiglione fatto pronunciare, e si vorrebbe dire pour cause, da Alfonso d’Avalos in una fase cruciale (per Giovio umanista, s’intende) dell’opera, nel punto cioè in cui si registra come definitiva l’inversione di tendenza a favore del volgare. Il volgare, sottintende Giovio per interposto Alfonso, si rivela capace di articolate potenzialità d’uso che implicano un allargamento del pubblico ben oltre la cerchia ristretta su cui potevano contare gli umanisti, Ita ut astute et sapienter agere credatur Balthasar Castellio vir honestissimorum studiorum cumulata laude conspicuus, qui nobilem suum equitem ab incunabulis omni bellica civilique virtute exornatum, ut regali aula sit dignus, vernaculo potius quam latino sermone perfecit 71. 69 La lettera in cui Baldassar Castiglione fa le sue garbate ma ferme rimostranze a Vittoria Colonna per la circolazione non autorizzata della sua opera è datata Burgos, 21 settembre 1527: V. Colonna, Carteggio, cit., p. 48. 70 Lettera del 20 settembre 1524, da Marino: Ivi, p. 23. 71 P. Giovio, Dialogus, cit., p. 231: tale giudizio segue di poco l’appena citata riflessione di Giovio sulla scelta a favore del volgare operata dal Bembo.

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Tobia R. Toscano

Vorrei rilevare che tale elogio, con quella pregnante variatio definitoria che distingue la aetrusca lingua del Bembo dal vernaculo sermone del Castiglione, costituisce, nel contesto del Dialogus, apporto specificamente “ischitano”, nel senso che Giovio appare completamente privo di informazioni sull’esistenza stessa del Cortegiano, edito solo nel 1528, e cioè in tempi successivi allo svolgimento della conversazione. Elemento anche questo da assumere ove si voglia valutare nelle sue esatte proporzioni il privilegio accordato a Vittoria Colonna, e di conseguenza ai lettori della corte di Ischia, di leggere l’opera ancora manoscritta 72. Conta che all’altezza del 1527 appaiono definite, nelle parole di Alfonso d’Avalos, una teoria e una pratica dell’esercizio lirico come lusus73 del cavaliere/cortegiano, che sarà tratto specifico e duraturo del petrarchismo napoletano. Nessuna meraviglia se i poeti/caballeros spagnoli del Cinquecento trovarono naturale indossare la stessa divisa.

72 E che di raro, se non unico, privilegio si trattasse conferma la prefazione del Cortegiano con l’esplicito riferimento dell’autore a Vittoria Colonna «alla quale io già feci copia del libro», ma «contro la promessa sua ne avea fatto transcrivere una gran parte». L’intera vicenda è ora ricostruita da A. Quondam, «Questo povero Cortegiano». Castiglione, il libro, la storia, Roma, Bulzoni, 2000, pp. 67-74. 73 Anche Tansillo, stando alla testimonianza del codice Casella, aveva scelto per le sue rime, o parte di esse, «il titolo de Giochi, che i latini dicono Lusus» (cfr. Pèrcopo I, p. LV).

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LIBRI

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William J. Kennedy

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PETRARCA COME “HOMO ECONOMICUS”: IL PETRARCHISMO IN RONSARD E SHAKESPEARE

Percorrendo i primi tre quarti del XIV secolo, si nota che la vita di Francesco Petrarca si sviluppa in un’era di cambiamenti economici senza precedenti1. La rivoluzione mercantile nell’Italia settentrionale determinò la nascita di sofisticati sistemi di contabilità, di commerci ramificati e di società per azioni, di procedure bancarie locali e internazionali, di agenti di assicurazioni, e di suddivisioni di lavoro totalmente nuove tra mercanti, mediatori, corrieri e operatori. In questo clima economico, la poesia vernacolare di Petrarca costituì un evento e il mio saggio concentrerà l’attenzione su quel clima, per meglio dire su quei climi abbastanza diversi che si respiravano in Francia e Inghilterra, dove i poeti del XVI secolo recepirono e imitarono avidamente i suoi Rerum vulgarium fragmenta. Questo clima diede vita alla figura dell’homo economicus nel nuovo mondo commerciale. Tale figura riassume quegli esseri umani isolati, egocentrici e razionali che si adattano al mercato commerciale in nome di un

1 Sono obbligato a ringraziare Anna Papparcone per la sua assistenza nella traduzione di questo articolo. Per una descrizione dei cambiamenti economici discussi vedi H. A. Miskimin, The Economy of Early Renaissance Europe, 1300-1460, Englewood Cliffs, Prentice-Hall, 1969, e Idem, The Economy of Later Renaissance Europe, 1460-1600, Cambridge, Cambridge University Press, 1977. Per la teoria economica nel periodo, vedi H. W. Spiegel, The Growth of Economic Thought, Durham, Duke University Press, 1991, pp. 47-118; e M. N. Rothbard, Economic Thought before Adam Smith, vol. I di An Austrian Perspective on the History of Economic Thought, Aldershot, Edward Elgar, 1995, pp. 65-210 and 275-306. Per un’indagine storiografica e relativa bibliografia, vedi P. Musgrave, The Early Modern European Economy, New York, St. Martin’s Press, 1999.

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William J. Kennedy

massimo incremento del loro profitto. A proprio vantaggio, tali individui controllano e manipolano i parametri dello scambio simbolico, del valore oscillante e del potenziale di crescita attraverso l’interesse maturato e agiscono coltivando abilità funzionali, tecniche imprenditoriali e un’ampia visione di capacità professionali. Nel suo impegno umanistico, Petrarca ha abbozzato intenzionalmente il profilo di un’impresa simile e di un programma letterario efficiente, come homo litterarum2. Petrarca si presenta come “un uomo nel mezzo”, che indirizza il senso di un’autonoma individualità contro una corrente tardo-medievale di alleanze corporative e affiliazioni congiunte. Nel mio saggio mi propongo di dimostrare che l’immagine di Petrarca come homo litterarum si sovrappone in molti modi a quella di homo economicus e che la loro convergenza ispira la sua concezione di poesia, il suo ruolo come poeta vernacolare, e il suo sviluppo di figurazioni di transazione e scambio economico nelle sue Rime sparse. Questa convergenza influisce anche sulle carriere di poeti quali Pierre de Ronsard e William Shakespeare, come argomenterò alla fine del mio saggio. Fin dall’inizio una tensione tra due concezioni di poesia anima le Rime sparse di Petrarca e ognuna si relaziona diversamente ai problemi economici impliciti nel testo. Una concezione associa la poesia con l’ispirazione, l’intuizione, e la rappresentazione di una realtà trascendente; l’altra l’associa alla tecnica retorica, al gioco verbale, e alla manipolazione fonica degli elementi materiali del linguaggio. Nella teoria retorica e letteraria dei due secoli successivi, queste concezioni avrebbero rappresentato i principi dominanti divergente di un’estetica platonica (focalizzata sul potere del furor visionario) e della poetica aristotelica (accentrata sull’arte o sull’abilità dello scrivere poesia). Al tempo di Petrarca, le loro implicazioni economiche sembrano ancora radicate nelle supposizioni teologiche medievali. La formulazione platonica corrisponderebbe a una precedente visione in gran parte agostiniana nella quale l’arte, come la ricchezza, riflette la pienezza e l’abbondanza di Dio come dono all’umanità, ed è perciò un bene, anche se non il più alto, ma di cui si dovrebbe godere come mezzo per amare Dio. Al contempo il furor visionario dell’artista riflette la naturale ineguaglianza degli esseri umani a cui Dio conferisce una varietà di doni economici e di talenti più sviluppati in

2 Vedi W. J. Kennedy, Versions of a Career: Petrarch and Early Modern Commentators, in European Literary Careers, a cura di P. Cheney e F. de Armas, Toronto, University of Toronto Press, 2002, pp. 146-64, e Idem Mercator inops litterarum: The Economy of Invective in “De sui ipsius et multorum ignorantia”, in The Complete Petrarch, a cura di V. Kirkham e A. Maggi, Chicago, University of Chicago Press, 2007.

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Petrarca come “Homo Economicus”: il Petrarchismo in Ronsard e Shakespeare

alcuni e meno in altri, imponendo sui loro destinatari l’obbligo morale di farne uso a scopi produttivi. La formulazione aristotelica corrisponderebbe a una visione successiva in gran misura scolastica nella quale l’arte consiste in una particolare abilità o in un lavoro manuale meccanico che potrebbe essere esercitato per profitto in proporzione alla quantità di lavoro impiegato per esso o ai diversi gradi di soddisfazione nel realizzarlo. L’abilità dell’artista riflette l’educazione, la specializzazione, e i risultati, rivelando abitudini di pensiero e di analisi razionale sviluppate per il conseguimento del guadagno nel pubblico mercato. Riguardo a Petrarca, intendo basare la mia tesi su un commentario particolarmente significativo del XVI secolo sui sonetti 77 e 78 dei suoi RVF3. Queste poesie sono tra le prime composizioni di Petrarca, che risalgono al 1336-37 o forse prima, alle sue carte manoscritte conosciute come Vat. Lat. 3196, dove esse appaiono sul f. 7r. Nel 1548 Giovan Battista Gelli tenne una lezione all’Accademia fiorentina su quelle poesie argomentando come esse fossero espressione sia di un’estetica platonica che aristotelica. I due componimenti delle lezioni di Gelli riguardano il ritratto in miniatura di Laura ad opera di Simone Martini. Nel sonetto 77 si dice come Simone debba essere asceso in paradiso quando ha cominciato il ritratto di Laura: “Ma certo il mio Simon fu in paradiso / onde questa gentil donna si parte”4. Secondo Gelli, questa poesia articola un’estetica platonica nella quale le immagini terrestri falsificano la forma della bellezza che esiste nella mente di Dio, “il proprio il vero loro essere” (256)5. Se lo scultore greco Policleto, legato, come tutti i mortali, alle cose terrene, avesse fissato i suoi occhi sul corpo di Laura come modello per una statua, avrebbe visto solo un’immagine terrena della donna. Ma Simone ne ha ritratto invece la sua divinità originaria che non ha imperfezioni. L’agente che incorpora tale percezione nell’arte è la fantasia, definita dal Gelli come una concreta, particolare intuizione della verità, della bontà, e della bellezza. Questa facoltà prende le immagini dal mondo sensoriale e materiale e le dirige verso l’intelletto in un momento di furor o di ispirata follia quando l’artista diventa un mezzo di divina illuminazione. Nello scenario economico del componimento, questa

3

Vedi W. J. Kennedy, Authorizing Petrarch, Ithaca, Cornell University Press, 1994. Le citazioni si riferiscono a Petrarca, Canzoniere, a cura di M. Santagata, Milano, Mondadori, 1996, 20042. 5 Le citazioni si riferiscono a G. B. Gelli, Lezioni Petrarchesche, a cura di C. Negroni, Bologna, G. Romagnoli, 1884, con la lezione sui sonetti 77 e 78, pp. 223-282, e la celebrazione della cultura Fiorentina, pp. 230-42. 4

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esperienza privilegia Simone e la sua arte come eccezionale, da essere valutata superiore a quella dei suoi pari. Una tale enfasi sulla forma e sulla funzione materiale dell’arte, e soprattutto sulla maestria, sull’abilità e sulla tecnica specializzata annuncia sia l’estetica aristotelica del XVI secolo che un analogo scenario economico basato sul lavoro quantificabile e sull’utile del lavoro dell’artista. Il sonetto 78 del Petrarca presagisce questa enfasi quando annuncia ciò che accadde dopo che Simone aveva preso il suo stile ‘penna, stilo’ per ritrarre Laura: “Quando giunse a Simon l’alto concetto / ch’a mio nome gli pose in man lo stile”. Per Gelli, questa poesia ricalca lo schema aristotelico delle quattro cause che trasformano un tipo di materia in un altro. Animare il tutto è la causa finale che definisce la struttura, la forma, il disegno e le proprietá compositive dell’opera d’arte, “perché ogni gente…opera per il fine” (p. 269). L’opera d’arte ha un valore economico nella misura in cui soddisfa questo proposito o obiettivo dell’artista. In assenza di tale soddisfazione, l’opera diventa solo altra merce standardizzata che non ha valore superiore al materiale che la costituisce e alla quantità di tempo che l’artista ha impiegato per realizzarla. Vuole il caso che Petrarca sia proprio uno dei primi poeti di cui abbiamo manoscritti databili nelle varie fasi della composizione della sua opera, manoscritti che forniscono, in alcuni casi, frammenti o abbozzi che il poeta non ha mai completato, in altri casi intere poesie che ha scartato o varianti che ha cancellato, aggiunto o altrimenti cambiato durante la sua lunga carriera6. Un buon numero di esempi deriva dalle tre poesie che rappresentano Laura come Medusa. Una di loro, il sonetto 179, fu corretta e fu inserita piut6 Uno studio classico in inglese è una collezione di saggi di E. H. Wilkins nel suo The Making of the “Canzoniere” and other Petrarchan Essays, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1951, le cui conclusioni sono state modificate da molti studiosi, in particolare da M. Santagata, I frammenti dell’anima: Storia e racconto nel Canzoniere del Petrarca, Bologna, Il Mulino, 1992, 20042. Le edizioni del Canzoniere di Petrarca superbamente annotate a cura di M. Santagata, cit., e i Trionfi, rime stravaganti, codice degli abbozzi, a cura di V. Pacca e L. Paolino, introd. di M. Santagata, Milano, Mondadori, 1996, offrono un commento dettagliato di questi manoscritti. Le stime circa il numero totale di frammenti e poesie escluse naturalmente variano. In Trionfi, rime estravaganti, codice degli abbozzi, a cura di V. Pacca e L. Paolino, una sezione di cinque frammenti (uno di loro fonde due parti separate di una poesia incompleta) e ventuno rime stravaganti è curata da Paolino, pp. 627754; quattro frammenti e sette rime estravaganti si ripresentano nel codice degli abbozzi (Vat. Lat. 3196) curato da Paolino, pp. 755-889. Un secolo fa, A. Solerti incluse due altri frammenti (successivamente mostrati come bozze dei versi della canzone 268) e tre altre poesie che si suppone siano di Petrarca nelle sue Rime disperse di Francesco Petrarca o a lui attribute, Firenze, Sansoni, 1909, nuova edizione, Firenze, Le Lettere, 1997.

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Petrarca come “Homo Economicus”: il Petrarchismo in Ronsard e Shakespeare

tosto tardi nel manoscritto originale e definitivo dei RVF conosciuto come Vat. Lat 3195, solo dopo maggio 1368. La seconda poesia, Rime estravaganti 5, non fu inclusa nella sequenza finale. È come se Petrarca tenesse entrambe le poesie in sospensione come variazioni l’una dell’altra per poi decidere quale si addicesse meglio all’arco del suo canzoniere. La terza poesia, il sonetto 197, fu composta al più tardi nel 13687. Le sue cancellature e aggiunte suggeriscono che Petrarca scrisse una bozza e corresse la poesia con grande intensità in un periodo di tempo limitato, come se lavorasse deliberatamente per conferirle un segno della sua speciale competenza. La decisione di Petrarca di usar il sonetto 179 al posto del RE 5 nella versione finale dei RVF sembra basato sull’ambiente competitivo del suo mondo economico. Il sonetto 179 incorpora uno riferimento specifico all’amico fiorentino del poeta, Geri Gianfigliazzi, che innalza la sua energia virile come vanto maschile. Da un lato, l’io poetico si allinea con un altro uomo, Geri, dalla parte che gli permette di usare una deliberata strategia contro lo sguardo femminile di Laura-Medusa. D’altro lato, si pone contro Geri appena questi trasforma la sua dichiarazione in una spavalda ostentazione della sua superiorità. L’io poetico si vanta di poter controllare l’indisciplinato comportamento di Laura sottomettendola con un contegno annunciato nel verso 7 come “pien’ d’umiltà sì vera”: Geri, quando talor meco s’adira la mia dolce nemica ch’è sì altera, … le mostro i miei pien’ d’umiltà sì vera ch’a forza ogni suo sdegno indietro tira.

Sebbene la poesia ponga Petrarca come possibile vittima del dominio di Laura-Medusa alla fine lo rappresenta come il vincitore in un contesto di volontà. Esso sfida anche Geri a misurarsi con il suo successo in una presunta risposta, incalzando quest’ultimo a replicare sul terreno poetico che Petrarca occupa con distinzione. In questo scambio l’“umiltà sì vera” del poeta funziona per tanto sminuire e perfino umiliare il talento poetico di Geri, quanto per criticare lo sguardo di Laura-Medusa. In tale predisposizione alla rivalità, il sonetto 179 si mostra tanto un’esibizione di competitività maschile in un ambiente androcentrico. Un altro tenore di queste poesie rivedute e più tardi incluse nei RVF è incli-

7 Le poesie appaiono come parte della quarta e dell’ultima aggiunta al Vat. Lat. 3196 sul f. 2r, databile tra il 1366 e il 1368.

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William J. Kennedy

ne alla manifestazione di rivalità e competizione poetica, di calcolo e misura, di utilità o valore soggettivo stimato per mezzo del piacere o della soddisfazione che ispira aldilà di qualsiasi valore strumentale diretto. Il sonetto 197 ne fornisce un esempio. Le sue più articolate redazioni, basate in ampia misura sullo sforzo di mantenere, malgrado i cambiamenti nel contenuto, le parole della stesura originale in rima, rappresentano un tour de force di abilità tecniche8. Con cancellature in quasi ogni verso (solo i versi 4, 9 e 14 rimangono intatti) e riscrivendo radicalmente i versi nella seconda quartina e in gran parte della sestina, le correzioni mostrano un Petrarca che lavora con grande intensità per conferire alla poesia un segno della sua speciale competenza. Il singolo esempio di una parola in rima completamente cambiata nella revisione della poesia ha luogo nel verso 13 con la sostituzione di depinge con tinge, e significativamente questa sostituzione influisce sulla rappresentazione della poesia del suo proprio valore estetico. Nella stesura originale, la paura trasforma il cuore del soggetto parlante in ghiaccio e ne offusca il viso: Pur a l’ombra da-llunge il cor fa un ghiaccio paura extrema, e ’l volto mi depinge, ma gli occhi ànno vertù di farlo un marmo9.

Derivato dal latino pingere, pictum, il verbo depingere originariamente significa ‘tessere insieme fili colorati per formare un disegno’dopo di che si fonde in questo senso con la mimesis aristotelica, ‘formazione, creazione, imitazione, rappresentazione’10. Il verbo tinge dall’altro lato implica un obiettivo differente: L’ombra sua sola fa ’l mio cor un ghiaccio et di bianca paura il viso tinge, ma gli occhi ànno vertù di farne un marmo.

Derivato dal latino tingere, la parola originariamente significava ‘gettare un solido nel liquido, temperare una sostanza calda e come risultato cambiare 8 Se così non fosse sarebbe come se la fissitá della rima nella poesia parodizzasse l’effetto marmoreo che il suo soggetto parlante attribuisce allo sguardo da Medusa di Laura. Quest’azione dimostra in una forma estrema l’enfasi di Petrarca sullo stile come un valore in sé. 9 Le citazioni si riferiscono ai Trionfi, rime stravaganti, codice degli abbozzi, a cura di V. Pacca e L. Paolino, cit. 10 A. Ernout e A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue Latine, Paris, Klincksieck, 1932, pp. 732-33.

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Petrarca come “Homo Economicus”: il Petrarchismo in Ronsard e Shakespeare

il suo colore’11. La confluena di gradazioni di suoni e colori definisce un nuovo terreno per l’arte di Petrarca. Il suo gioco di colori, luci, e ombre, di intensità, tinte, e toni, di un effetto orale-uditivo ora comunica una mediata espressione di umore e atteggiamento. L’impatto economico di questo obiettivo è di raffigurare l’artista come homo economicus salvaguardando e sfruttando le risorse della sua arte. Cosa potrebbe significare questo obiettivo estetico per i successori rinascimentali di Petrarca come Pierre de Ronsard in Francia e William Shakespeare in Inghilterra? Nessun poeta della sua generazione si sarebbe dimostrato più meticoloso di Ronsard nel perfezionamento della sua tecnica e nella revisione del suo lavoro, e nessun poeta del suo tempo impiegò più sueur e peine di lui. Questa presa di posizione ha implicazioni economiche. Ne è un esempio il sonetto 1 di Les Amours di cui il verso d’apertura e il tema, “Qui voudra voir comme un Dieu me surmonte”, echeggia il sonetto 248 di Petrarca (“Chi vuol veder quantunque pò Natura”)12. Il richiamo al sonetto di Petrarca da parte di Ronsard rivela semplicemente l’attenzione verso l’autore stesso: “Me vienne voir: il voirra ma douleur, / Et la rigueur de l’Arcer qui me donte.” A un certo livello il poeta emerge come un imperturbato homo economicus che si mette in mostra a suo vantaggio anche quando gli eventi lo hanno estremamente penalizzato. Che egli faccia questo per il piacere e l’intrattenimento dei suoi lettori emerge da un latente gioco di parole nel terzo vocabolo della poesia, voir ‘vedere’, pronunciato nel francese del XVI secolo come ve:r, derivato dal latino videre, ma omofonico con il francese vers, ‘verso, poesia’. Chiunque volesse una poesia nella più recente ed elegante maniera petrarchesca, la troverà in questi sonetti di Les Amours.

11

Ivi, p. 998. Le citazioni si riferiscono a Pierre de Ronsard, Oeuvres complètes, a cura di J. Céard, D. Ménager, e M. Simonin, 2 voll, Bibliothèque de la Pléiade, Paris, Gallimard, 1993. La poesia di Petrarca aveva generato in Francia una variegata serie di imitazioni prima che Ronsard si avvicinasse ad essa. Fu uno dei sei sonetti di Petrarca che Clément Marot tradusse per guadagnarsi il favore del re nel 1539 (“Qui voudra veoir tout ce que peult Nature”), ed essa presto trovò eco nelle poesie di Maurice Scève (“Qui veult scauoir par commune euidence”, Délie 278[1544]) e di Pontus de Tyard (“Qui veult savoir en quante et quelle sorte”, Erreurs amoureuses 2 [1549]). Du Bellay offre un’imitazione impressionante della poesia di Petrarca nel sonetto 61 delle sue accresciute Olive (1550), “Qui voudra voir le plus miracle arbre”. Qui, combinate con figurazioni di nomi di luogo derivati dal sonetto che precede nei RVF, “Parrà forse ad alcun che ’n lodar quella” (sonetto 247), Du Bellay articola un manifesto poetico dei suoi propositi letterari. Vedi W. Kennedy, Site of Petrarchism, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 2003, pp. 115-40. 12

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William J. Kennedy

Ronsard rivede radicalmente la sestina della poesia per la quinta edizione delle sue Oeuvres nel 1578. È ora opinione comune che la Regina Madre Caterina de’ Medici lo abbia persuaso a ritornare al Petrarca dopo un’interruzione di ventidue anni13. Il poeta rivela il proprio debito coi classici, alludendo, nei versi 12-14, all’ode 2.20 di Orazio, che evoca la figura del poeta come un cigno morente da cui sgorga la canzone più dolce ed elevata in grado di varcare i confini mortali:

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Et connoistra que je suis trop heureux, D’estre en mourant nouveau Cygne amoureux, Qui son obseque à soy mesme se chante.

L’io poetico rafforza il suo punto di vista con un latente gioco di parole sul termine Cygne ‘cigno’ che evoca l’omofonico signe ‘segno’. Questo gioco di parole trasmette un segno di ciò che il poeta sia diventato nell’arco del suo sviluppo poetico, invitandoci a vederlo sui generis come il prodotto della sua stessa distinta carriera. Ma nella revisione finale di 1584, il soggetto poetico si rappresenta ultimamente come un incauto cliente che ha assunto un ragazzo cieco come guida: “Quand plein d’erreur un aveugle il reçoit”. Ma nel cedere il supremazio a un minore, egli guadagna fama e riconoscimento. Sia prima che dopo, il modo petrarchesco ha reso capace Ronsard di raffigurarsi come un poeta sfortunato, un narratore di storie che intratterrà i lettori a proprie spese, un artista che si identifica con la sua poesia come segno del suo speciale merito, e uno che conferisce prestigio a quelli che lo sostengono. Nel 1587 Gabriel Buon a Parigi pubblicò la settima e ultima edizione delle Oeuvres de Ronsard peu avant son trepas. È probabile che almeno alcune copie raggiunsero l’Inghilterra, dove la reputazione politica di Ronsard come sostenitore dei cattolici e propagandista dei Valois fosse in competizione con la sua reputazione letteraria di “prince des poètes” e “poète des princes”14. In questo ambiente si avventurò William Shakespeare dopo il suo arri-

13 Tra il 1553 e il 1556 Ronsard aggiunse 162 sonetti ai 185 del primo Les Amours (1552). Dopo il 1556 egli limitó la sua composizione di sonetti a qualcosa come sessanta poesie occasionali in larga misura non relazionate a Les Amours. 14 Egli fu proclamato tale da Maclou de la Haye nel 1553 in seguito alla pubblicazione della seconda edizione di Les Amours; vedi F. Desonay, Ronsard, poète de l’amour, 3 voll., Bruxelles: Palais des Académies, 1952, 1.72; per la fama di Ronsard in Inghilterra, vedi A. L. Prescott, French Poets and the English Renaissance, New Haven, Yale University Press, 1978, pp. 76-131.

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Petrarca come “Homo Economicus”: il Petrarchismo in Ronsard e Shakespeare

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vo a Londra. Pochi studiosi del XXI secolo vogliono rivisitare la questione dell’accesso di Shakespeare ai testi continentali e ai loro vernacoli europei. Ma i fatti sono questi: tra le probabili fonti per le sue opere teatrali, almeno nove appaiono in resoconti italiani, francesi e spagnoli per cui non esiste alcuna traduzione inglese conosciuta15. Le edizioni in quarto e in folio delle opere mostrano un uso considerevole di queste lingue per l’effetto drammatico. Secondo il censimento del 1593, almeno 5.450 ugonotti profughi dalla Francia e dai Paesi Bassi e molte centinaia di mercanti dall’Italia e dalla Spagna vivevano e lavoravano come residenti stranieri nella Città di Londra, costituendo circa il 5% della popolazione, e, con un costante flusso di visitatori dall’estero, essi offrivano opportunità fortuite a poeti dilettanti e professionisti di ascoltare, imparare, leggere, e parlare vari dialetti europei16.

15 Questi includono Two Gentlemen of Verona da Diana Enamorada di Montemayor (tradotto da B. Yonge intorno al 1582 ma non pubblicato fino al 1598, piuttosto tardi perché Shakespeare potesse usarlo); Merchant of Venice dalla storia 4.1 de Il Pecorone (1558) di Giovanni Fiorentino o forse la storia 14 de Il Novellino (1476) di Masuccio di Salerno; Merry Wives of Windsor dalla storia 1.2 de Il Pecorone; Hamlet da Histories tragiques 5.3 di Belleforest; Twelfth Night dalla rappresentazione sienese Gl’ingannati (1538, tradotto in francese come Les Abusez da Charles Estienne nel 1548; vedi R. C. Melzi, “Gl’Ingannati” e La sua traduzione francese, in “Kentucky Foreign language Quarterly”, 12 [1965], pp. 180-90), usato per una novella di Bandello, quest’ultima tradotta in francese da Belleforest; Othello dalla storia 3.7 dell’ Hecatommithi (1566) di Giraldi Cinzio; e Cymbeline dalla storia 2.9 del Decamerone di Boccaccio (tradotto in francese da Antoine Le Maçon nel 1545). Il perduto Cardenio forse rievoca il Don Quixote di Cervantes (tradotto da Skelton nel 1612). Measure for Measure potrebbe riferirsi alla traduzione francese di Gabriel Chappuys della storia 8.5 dell’ Hecatommithi di Giraldi Cinzio. 16 Vedi I. Scouludi, Alien Immigration into and Alien Communities in London, 15581640, in “Proceedings of the Huguenot Society of London”, 16 (1937), pp. 27-50 e Eadem, The Stranger Community in London, in “Proceedings of the Huguenot Society of London”, 24 (1987): 434-42. Vedi T. Wyatt, Aliens in England before the Huguenots, “Proceedings of the Huguenot Society of London”, 19 (1953), pp. 74-94, che mette in evidenza che la maggioranza degli stranieri sono francesi. Le statistiche per questi studi derivano da Returns of Aliens Dwelling in the City and Suburbs of London from the Reign of Henry VIII to That of James I, a cura di R. E. G. Kirk e E. F. Kirk, in “The Publications of the Huguenot Society of London,” 10.2 (per gli anni 1571-97) e 10.3 (per gli anni 1598-1625), Aberdeen, Aberdeen University Press, 1902-07. Per modelli di immigrazioni, vedi L. H. Yungblut, Strangers Here Amongst Us: Policies, Perceptions, and the Presence of Aliens in Elizabethan England (London: Routledge, 1996), pp. 29-35 and 51-60. Per l’incremento del potere economico degli ugonotti e l’accresciuto prestigio sociale del loro lavoro nell’arte e nel commercio come l’artigianato tessile, la stampa e oreficeria, e in professioni come l’educazione, le arti e le scienze, vedi R. D. Gwynn, Huguenot Heritage: The History and Contribution of the Huguenots in Britain, seconda edizione, Brighton: Sussex Academic Press, 2001, pp. 74-117. Per il predominio fra loro di un’elite di mercanti e i loro contatti

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Infine, nell’autunno del 1604 Shakespeare alloggiò nella casa di un profugo ugonotto francese, M. Christophe Montjoy, vicino all’angolo nord-occidentale delle mura della città17. I Sonetti di Shakespeare presero forma in questo “ambiente mobile e culturalmente intenso”, dove i testi continentali trovavano l’attenzione dei lettori inglesi. Studiosi contemporanei suppongono che, nel comporre i suoi sonetti, Shakespeare ebbe momenti di stasi (qualche volta a lungo) e periodicamente corresse ciò che aveva scritto (come fecero altri poeti del suo tempo, per esempio Samuel Daniel, Henry Constable, e Michael Drayton) modificando il suo atteggiamento in diversi stadi del processo18. Una tale cronologia distribuirebbe i Sonetti in varie fasi della carriera del poeta cosicché le prime poesie non revisionate evocano un periodo fra il 1592 e il 1594 quando Shakespeare, non ancora trentenne, iniziò a mettere in gioco le sue fortune d’arrampicatore sociale nella Londra dominata dagli University Wits come Thomas Lodge, Thomas Nashe, Robert Greene, e Christopher Marlowe19. Le sue seguenti composizioni e revisioni (specialmente dei sonetti della Procreazione e dei sonetti Eternanti) corrispondono a un periodo che va dai sei agli otto anni più tardi (circa 1599-1601) quando il poeta-drammaturgo affrontava le sfide di una nuova generazione di scrittori satirici guidati da Ben Jonson20. L’onestà con il Calvinismo internazionale, vedi O. P. Grell, Calvinist Exiles in Tudor and Stuart England, Aldershot, Scolar Press, 1996, pp. 98-119. 17 Vedi il vivace resoconto di questa scoperta biografica in S. Schoenbaum, Shakespeare’s Lives, New Edition, Oxford, Clarendon Press, 1991, pp. 464-72, con l’analisi dei tentativi di Shakespeare di costituire una coppia reclutando il genero di Montjoy, in S. Schoenbaum, William Shakespeare: A Compact Documentary Life, New York, Oxford University Press, 1977, pp. 260-64. La completa documentazione appare in E.K. Chambers, William Shakespeare: A Study of Facts and Problems, 2 voll, Oxford, Clarendon Press, 1930, pp. 287-95. 18 Vedi A. K. Hieatt, C. W. Hieatt, and A. L. Prescott, When Did Shakespeare Write Sonnets 1609?, in “Studies in Philology”, 88 (1991), pp. 69-109. 19 Per la manierata formazione della carriera di Shakespeare in relazione a quella di Spenser come poeta e di Marlowe come drammaturgo, vedi P. Cheney, ’O Let My Books Be Dumb Presagers’: Poetry and Theater in Shakespeare’s Sonnets, in “Shakespeare Quarterly”, 52 (2001), 222-54. Come prova che Shakespeare scrisse rappresentazioni non solo per il teatro ma anche per la stampa e cercò fama come autore “letterario”, vedi L. Erne, Shakespeare as Literary Dramatist, Cambridge, Cambridge University Press, 2003, pp. 56-77. 20 Vedi J. P. Bednarz, Shakespeare and the Poets’ War, New York, Columbia University Press, 2001, specialmente pp. 105-33 sui Sonnets a proposito degli sforzi di Shakespeare di formare la sua reputazione letteraria rispondendo alla sfida di Jonson. Per la risposta di Jonson, come riportata nelle prefazioni, nei prologhi, nelle introduzioni e nella prosa critica, vedi J. Shapiro, Rival Playwrights: Marlowe, Jonson, Shakespeare, New York, Columbia University Press, 1991, pp. 133-90.

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Petrarca come “Homo Economicus”: il Petrarchismo in Ronsard e Shakespeare

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morale dei sonetti 104-26 potrebbe ben indirizzarsi alle esplorazioni critiche di Jonson sul comportamento sociale. Le motivazioni di Shakespeare nel ridefinire la sua poesia coincidono almeno fino a un certo punto con le sue prospettive commerciali. Le configurazioni economiche iscritte nei sonetti richiamano l’attenzione sulle dinamiche di misura e quantificazione che vi si trovano. Un esempio è il sonetto 17, l’ultimo dei sonetti sulla Procreazione. La poesia riecheggia i topoi del sonetto 248 di Petrarca, “Chi vuol veder quantunque pò Natura”, rielaborati, come si è visto da Ronsard nel sonetto 1 di Les Amours. Le prime parole della poesia evocano un incredulo spettatore che ha bisogno di un diretto contatto con l’oggetto di lode dell’io parlante per condividerne la sua valutazione: Who will believe my verse in time to come If it were filled with your most high deserts? Though yet, heaven knows, it is but as a tomb Which hides your life, and shows not half your parts21.

Come messaggera del suo valore, la poesia del soggetto parlante sembra non essere all’altezza dell’obiettivo. In termini quantitativi nel verso 4, essa “shows not half your parts”, ‘non mostra la metà delle tue parti’, rievocando non solo un gioco di parole potenzialmente osceno (ove parti eguale ‘parti sessuali’), ma anche il discorso metacritico delle parti letterarie intrapreso da Gelli nel suo commentario sui sonetti 76 e 77 del Petrarca. Nella seconda quartina egli dà prova di questa affermazione in versi ipermetrici: “And in fresh numbers number all your graces, … Such heavenly touches ne’er touched earthly faces”. Proprio quando mostra nel verso 6 la sua abilità nel “numerare” i numeri del suo metro, egli aggiunge un’altra sillaba al verso (“And in fresh numbers number all your graces”) e ripete il gesto nel verso rimato dove un lettorato critico potrebbe accusarlo di iperbole. Nel verso 12, “And stretchèd meter of an antique song”, egli aggiunge un’altra sillaba ponendo l’accento sul “stretchèd” per estendere la misura delle dieci sillabe. Qui cerca di evitare la critica dei lettori che potrebbero pensare che i “true rights” ‘veri diritti’ del Giovane non siano niente più che il risultato iperboli-

21 Le citazioni si riferiscono a William Shakespeare, Complete Sonnets and Poems, a cura di C. Burrow, Oxford, Oxford University Press, 2002; vedi anche le edizioni a cura di S. Booth, New Haven, Yale University Press, 1977; H. Vendler, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1997; e K. Duncan-Jones, The Arden Shakespeare, London, Thomson, 2002.

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co del “poet’s rage” ‘furore del poeta’ richiamando il concetto poetico di furor adombrato da Petrarca, delucidato da Gelli, e accettato da Ronsard. In questo preciso momento, quando l’io parlante vuole sminuire i suoi successi, egli in realtà dimostra la sua maestria artistica secondo la valutazione poetica di critici del continente. Questa poesia appartiene a un gruppo di sonetti forse revisionati nella prima decade del XVII secolo; anche altre poesie, tratte da un gruppo precedente e probabilmente non riviste, sviluppano il tema attraverso raffigurazioni di misura economica e di quantificazione22. Nei versi d’apertura del sonetto 64, per esempio, le immagini poetiche evocative di un passato dilapidato sono pervase da un senso di decadimento, metonimizzate dalla parola cost ‘costa’ in una raffigurazione di valore monetario: When I have seen by Time’s fell hand defacèd The rich proud cost of outworn buried age, When sometime lofty towers I see down razèd, And brass eternal slave to mortal rage.

Al verso 4 la parola in rima rage ‘furore’ suggerisce l’idea platonica di furor poetico, ma immediatamente la sovverte evocando una società degradata, infetta da una grossolana commercializzazione. Nella seconda quartina l’invasione della spiaggia da parte del mare rappresenta una naturale decadenza, prima in termini di una transazione commerciale dove una parte trae profitto ai danni dell’altra, poi in termini di un inventario dove il mercante guadagna nella misura in cui egli vende i prodotti del suo investimento e perde nella misura in cui invece li accumula: “Increasing store with loss, and loss with store”. Il sonetto 74 riprende queste raffigurazioni con la congiunzione But ‘ma’, misurando il valore della sua transazione in ulteriori configurazioni economiche: But be contented when that fell arrest Without all bail shall carry me away;

22 Nel 1601, un commerciante dell’immigrazione ugonotta chiamato Gerard de Malynes (1586-1641), nella sua Treatise of the Canker of England’s Common Wealth imputa la maggior parte della colpa della limitazione della velocità dei meccanismi economici, ai banchieri che limitano il flusso dei soldi: “Hereupon I say it is an easie matter for these bankers with the money to rule the same at their pleasure, from place to place, causing (as it were) ebbings and flowings” (p. 63). Il valore economico ammonta a gioco infinito della definizione e della dilazione che pospone continuamente la possibilità di dichiarare tutto il singolo riferimento centrale e stabile di valore. Le figurazione economiche dei Sonnets dello Shakespeare drammatizzano questa retorica del calcolo e dell’abbondanza.

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My life hath in this line some interest, Which for memorial still with thee shall stay.

Qui la parola bail ‘garanzia’, elemento di sicurezza dato (dal francese bailler ‘dare’) per garantire il credito di qualcuno o qualcosa, ha l’effetto di fornire stato legale al dono, il verso poetico, del soggetto parlante al Giovane. Tale verso è il frutto del suo lavoro, un prodotto della sua professione e gli fornisce il potere economico di comprare beni o scambiare servizi. In termini economici, la poesia ha guadagnato un interesse che matura tra i suoi componenti materiali (il suo linguaggio ornamentale) e la valutazione che acquisisce nella comprensione del Giovane (il suo significato intensificato)23. La sostanza corporea del poeta è due ‘dovuta’ alla terra al momento della sepoltura, ma il Giovane potrebbe accedere alla sua dote spirituale (spirit, ‘spirito’, con un gioco di parole sul nome di Shakespeare). Al momento di introdurre i sonetti del Poeta Rivale che cominciano col sonetto 79, l’io poetico afferma il suo valore professionale nel mercato competitivo della produzione letteraria. In conclusione, l’approccio di Petrarca al volgare mescola diverse tendenze di forma e materia, ispirazione e tecnica. Il poeta dichiara il suo scetticismo sul valore della poesia vernacolare, ossessionato dall’ansia che i suoi testi generassero semplici riflessioni superficiali senza nessun valore di genuina verità. Potrebbe sembrare che le proporzioni matematiche delle forme del sonetto, della sestina, e della canzone, e della sequenza finita delle “rime sparse” eludano il valore del profitto promesso dalla loro azione reciproca. Ma tuttavia, come riconobbero gli imitatori di Petrarca del XVI secolo, proprio quando la sua poesia appare più gratutitamente giocosa, più irregolarmente dispersiva, più tecnicamente brillante, essa penetra anche nelle complesse verità dell’umana coscienza, dell’identità personale, dell’interazione sociale e dello scambio economico. Per Ronsard e Shakespeare, le abilità investite nelle loro composizioni producono un impressionante valore di profitto assicurato dalla reciprocità tra i valori formali e quelli materiali. Come Petrarca, anche loro collocano la poesia all’intersezione tra materia e forma dove le forme diventano maggiormente materia quando di più negoziano i loro componenti materiali – i loro modelli di suono orali-auditivi e le loro strutture grammaticali, le loro combinazioni figurative, le loro svolte tropologiche – in espressioni poetiche di significato. 23 Recenti commentatori collocano la parola “interesse” in un contesto legale: S. Booth: “(1) azioni (2) diritto legale di possesso, titolo” (p. 261); H. Vendler: “corporazione” (p. 339); K. Duncan-Jones: “alcuni diritti di possesso e residenza continuata” (p. 258); C. Burrow: “alcuni diritti di proprietà o titolo” (p. 528).

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GEOGRAFIA E STORIA DI UN «FRAGMENTARIO POETICO»: IL CODICE ISOLDIANO

La verità è che i rimatori dell’Isoldiano, di una raccolta che si apre col Saviozzo e nella quale il Petrarca è rappresentato da poche estravaganti, celebrano senza clamori polemici ma anche senza riserve mentali una festa assolutamente profana agli occhi di un qualsiasi petrarchista ortodosso.

Parole famose, queste scritte nel 1947 da Carlo Dionisotti in Ragioni metriche del Quattrocento1, sulle quali ci sarebbe molto da riflettere: intanto su che cosa, esattamente, significasse petrarchista, cioè su quale fosse allora il tasso di eccentricità tollerato dal sistema storico-critico riguardo al petrarchismo (che intanto era, per paradigma, solo cinquecentesco e calibrato sulle esperienze più normative); oggi abbiamo di sicuro una visione diversa del fenomeno e soprattutto dell’esperienza poetica quattrocentesca, eterodossa in modo fondativo, e nella quale l’intreccio fra la lezione petrarchesca e quella dantesca è costituente primario. Non a caso, subito sotto il brano citato, Dionisotti puntualizza (ma si noti che il sistema è ancora oppositivo): «Quanto più a suo agio sta in quel cerchio la Commedia di Dante… La esattezza e la coesione metrica e linguistica del Canzoniere sono affatto estranee non soltanto alle possibilità ma alle ambizioni dei rimatori dell’Isoldiano».

1

“Giornale storico della letteratura italiana”, CXXIV, pp. 1-34.

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Si potrebbe riflettere, dicevo, e magari la riflessione avrebbe anche un suo senso; nella sostanza mi pare però che quanto stiamo ascoltando qui, in questi giorni, fornisca già tutte le possibili spiegazioni, e sono d’altro canto idee che maturano oggi, ma sono frutto di un lavoro almeno ventennale2: preferisco allora prendere le mosse dalle parole del grande maestro, dalla bellissima immagine della «festa profana» celebrata dai rimatori dell’Isoldiano, a mo’ di viatico per il mio viaggio, non so se fortunato, ma certo fortunoso, fra le carte del celebre codice. Intanto, una petizione di principio: e cioè la necessità di valutare un miscellaneo – questo nostro nello specifico – come portatore di un’idea della poesia. Un dato acquisito (e quanto!) per i manoscritti delle Origini (solo in parte per quelli del Trecento avanzato), molto meno per i fragmentari seriori3; disparità per la quale, forse, si potrebbero invocare ragioni ermeneutiche: la partitura del Vaticano, del Laurenziano e del Chigiano strutturano la nostra tradizione, la improntano e la condizionano (valga fra tutti l’esempio dantesco), mentre nel caso di un codice più tardo siamo di fronte a una tradizione già costituita, ma ancora assai fluida, che può essere incanalata, piegata a esprimere, appunto, un’idea soggettiva di valore poetico. È anche vero, però, che per la filologia italiana un codice miscellaneo è stato a lungo solo un serbatoio di lezioni buone e cattive, un sorta di deposito cui fare ricorso per approssimarsi all’unico “valore” riconosciuto: l’originale (più spesso un archetipo nella dura realtà), cioè l’incarnazione dell’ultima volontà d’autore. Un’interpretazione rigida della prospettiva lachmanniana, che si spiega bene negli anni ’30, con l’atteggiamento prudente di Barbi nei confronti dell’offensiva crociana, ma che ha finito con l’indebolire le posizioni teoriche della nostra disciplina, capace di elaborare raffinate metodologie scientifiche, ma quasi refrattaria a interrogarsi sui fondamenti epistemologici del proprio operare: perché si cominci a pensare a una «verità del testo», al «punto di vista» di un testimone (Avalle) passeranno parecchi anni; e il primo convegno sul «Libro di poesia», in fondo, è solo del 19874. 2 Se ne veda il resoconto tracciato da Quondam in apertura del volume che raccoglie gli atti dei primi seminari sul petrarchismo: Petrarca in Barocco. Cantieri petrarchistici, a cura di A. Quondam, Roma, Bulzoni, 2004. 3 Con tutte le eccezioni del caso, è chiaro; ma l’approccio ai due diversi segmenti cronologici non è mai paragonabile. E non mi sembra neanche un caso che la riflessione sull’antologia e sul canone tocchi di nuovo punti assai alti col Cinquecento; come sempre, è l’anarchia quattrocentesca a finire sotto censura. 4 Non che il problema non si ponesse: se Contini nel 1950 ammonisce a non perdere mai di vista – al di là dell’indagine sul singolo autore – il «criterio dei rapporti globali fra i

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Geografia e storia di un «fragmentario poetico»: il codice Isoldiano

Il codice Isoldiano5, per tornare a noi, ci dice ben poco sulla verità del singolo autore (e infatti nelle note alle edizioni critiche gode di pessima stampa); le sue lezioni singolari sono peggio che sospette: manifestano chiaramente una idea della poesia, della sua lingua, della sua prosodia, che si sovrappone a quella originaria – e nel caso di componimenti in attestazione unica le ricadute possono essere drammatiche6; forse, però, se gli rivolgessimo domande diverse da quelle consuete otterremmo risultati migliori. Intanto, quale storia e quale geografia sono sottese alla sua costituzione, per tornare a petizioni dionisottiane; la storia, o meglio la cronologia, è piuttosto semplice: se Ercole d’Este in un componimento del Testa Cillenio è detto «novo duce» di Ferrara, il terminus post quem è il 1471. L’annotazione a f. 378r: «1494 adi 28 di dixembre» ci offre anche graziosamente un ante quem. Il valore di questa seconda data, però, è relativo, giacché cade nella parte varî canzonieri» era a questo, evidentemente, che pensava. A differenza di quanto successe per la «critica degli scartafacci», il discorso rimase però sotteso agli studi, quasi mai esplicitato. 5 La descrizione del codice si deve a D. De Robertis, nel Censimento dei manoscritti delle rime di Dante, in “Studi danteschi”, XXXVII (1960), pp. 141-273 (sull’Isoldiano le pp. 164-66), e ora nell’edizione delle Rime dantesche: Firenze, Le Lettere, 2002, pp. 53-5 (manca, rispetto al primo censimento, la sezione dedicata ai possessori del codice); a questi due contributi rimando anche per una prima informazione bibliografica sul manoscritto. Imprescindibili gli interventi di B. Bentivogli: Tradizione delle rime di Nicolò Malpigli, in “Atti dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna”, classe di Scienze morali, Rendiconti, vol. LXVII (1978-79), pp. 119-42; La poesia volgare. Appunti sulla tradizione manoscritta, in Bentivolorum magnificentia. Principe e cultura a Bologna nel Rinascimento, a cura di B. Basile, Roma, Bulzoni, 1984, pp. 177-222; Il manoscritto Silvestriano 289 dell’Accademia dei Concordi di Rovigo, in “Studi e problemi di critica testuale”, XXXV (1987), pp. 27-90. Due, sino ad ora, le proposte avanzate per il compilatore: Sabadino degli Arienti e Gregorio Roverbella; la prima fu pugnacemente sostenuta da L. Frati: Per la storia del codice Isoldiano, in “Giornale storico della letteratura italiana”, XXV (1895), pp. 461-4; Una raccolta di rime offerta a Giovanni II Bentivoglio, in “Il libro e la stampa”, n.s., II (1908), pp. 176-9; e infine l’introduzione all’edizione del codice: Le rime del codice Isoldiano (Bologn. Universit. 1739), Bologna, Romagnoli-Dall’Acqua, 1913, voll. 2, pp. VII-IX. La proposta di Frati venne confutata (a vantaggio, appunto, del Roverbella) da S.B. Chandler, Appunti su Giovanni Sabadino degli Arienti, in “Giornale storico della letteratura italiana”, CXXX (1953), pp. 346-50 e Due raccolte di rime compilate nel Quattrocento, in “Rinascimento”, V (1954), pp. 113-6. Agnostico, al riguardo, Bentivogli, che si limita a segnalare come sostanzialmente decadute entrambe le ipotesi, avanzando, dal canto suo, solo la cauta candidatura del copista che De Robertis indica con b, cui si deve la trascrizione della lettera di dedica, dell’indice e del corpus delle rime di Giovanni Testa Cillenio. 6 Al problema delle varianti del manoscritto è dedicato il mio Un «buon» testimone? Il caso del codice Isoldiano, in “Nuova rivista di letteratura italiana”, VI (2003), pp. 27-48.

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finale del manoscritto, il blocco di carte successive alla 305, per lo più bianche, o scritte da mani diverse e più tarde rispetto a quelle che copiano il resto; un ante quem, quindi, ma solo materiale, forse non del tutto in sintonia con le scelte del codice, che parrebbero più orientate verso il primo estremo cronologico (e da lì a ritroso). E infatti nessun componimento in realtà è databile a dopo il 1471, ai primi anni Settanta è riconducibile il soggiorno a Bologna del Testa Cillenio (il dato, come si vedrà più avanti, a me pare significativo per l’allestimento del codice), agli anni 65-67 risale l’insegnamento bolognese di Guido Peppi e Antonio di Lerro (e anche questo potrebbe essere un “punto di coagulo” per l’antologia di là da venire). Un po’ di geografia adesso (sulla storia in quanto vicenda tornerò dopo): la dedica a un «Zohanne generoso», pur nella vaghezza della dimensione cortigiana, ci porta a Bologna e al suo Signore. Ma qui i conti cominciano subito a non tornare; della messe di componimenti prodotti per i Bentivogli7, l’ampia compagine dell’Isoldiano accoglie, a parte i frammenti della Nicolosa bella di cui poi dirò, solo due testi: il sonetto di Galeazzo Marescotti a Sante Bentivogli Se mai pietà per mi vi strinse ’l core 8 (f. 163v) per la morte (forse solo supposta) dell’«amanza soa»9 e la famosa canzone di

7 Non che il quadro, dopo l’articolo di Bentivogli nella Bentivolorum magnificentia, si sia nettamente precisato, e si lamenta ancora l’assenza di uno studio generale sulla poesia di corte bolognese. Ma i testi, comunque, riemergono dai manoscritti che li hanno a lungo e tenacemente custoditi: penso per esempio al bel saggio di P. Vecchi Galli dedicato alla Nicolosa, ma con un taglio storiografico di più ampio respiro: Per il prosimetro della Nicolosa bella, in Il prosimetro nella letteratura italiana, a cura di A. Comboni e A. Di Ricco, Trento, Dipartimento di scienze filologiche e storiche, 2000, pp. 143-61. 8 I componimenti saranno citati sempre secondo la lezione dell’Isoldiano, con i minimi interventi grafici usuali. 9 Il Marescotti paragona la propria dolorosa esperienza di perdita con quella sperimentata dal Bentivogli. Ma se l’amante del Marescotti, Camilla Malvezzi, morì effettivamente in giovane età (nel 1448 secondo il Frati), né Nicolosa Castellani né Ginevra Sforza (la moglie di Sante Bentivogli) conobbero un analogo destino. Il rebus non appare di agevole soluzione, anche perché il testo del Marescotti deve essere stato composto fra il 1448 e il 1453 (la data apposta sull’altro testimone che lo conserva, il ms. Italiano 1022 della Nationale di Parigi). L’ipotesi del tentato suicidio di Nicolosa Castellani, che pure è stata proposta, mi pare tanto romantica e tolstoiana quanto improbabile; piuttosto, si potrebbe magari riflettere sul lungo lasso di tempo intercorso fra il matrimonio per procura di Sante (8 marzo 1452) e l’arrivo della sposa a Bologna (19 maggio 1454). Che il ritardo sia stato dovuto a una grave malattia? («in ponto di morte» legge la didascalia del Parigino). Qualche lume avrebbe potuto venire da un’epistola citata – e trascritta – dalla Vecchi Galli nel contributo che ho appena citato (p. 156), tràdita dall’Estense a.N.6.4 (It. 1154) e indirizzata al «Magnifico miser Sancti di Bentevolii […] ritrovandosi la sua prestantissima donna in punto e casu di morte». La dimensione fortemente topica della missiva non con-

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Geografia e storia di un «fragmentario poetico»: il codice Isoldiano

Filippo Lapaccini per Giovanni Bentivogli L’excelsa fama toa pel mondo sparsa (f. 244v), collocata però in una zona periferica del manoscritto, lontana dalle sezioni in cui ci si aspetterebbe di trovarla, sia quella “bolognese” (ff. 31r-88v), sia quella in senso lato “politica” (ff. 155r-176v; per queste partizioni, che sono ovviamente mie, cfr. più avanti), quasi si trattasse di un recupero tardo e piuttosto casuale. E anche l’anagrafe dei bolognesi (sia per nascita degli autori che per collocazione dei testi) è alquanto sparuta: la sezione cui accennavo prima annovera difatti Alberto Orlandi (di Fabriano, ma nel 1446 è a Bologna come «refferendario» di Francesco Sforza: un po’ poco, forse, per una cittadinanza anche se d’adozione); il suo testo Uno splendor che ride (f. 71r), fra l’altro, è per Bianca Maria Visconti10. Segue un bolognese doc, cioè Bornio da Sala11, ma la canzone a lui attribuita Nel tempo che Saturno regnò in terra (f. 77r) è in realtà del toscano Rosello Roselli12, il che, come tratto di bolognesità, non è gran cosa. Più avanti, nella stessa sezione, ancora tre sonetti suoi: Amore io miro questo vivo sole, Impio reo e scognescente amore e O diva nympha del superno coro (ff. 87r-v; ma l’attestazione dell’Isoldiano è l’unica). A seguire, dopo un sirventese del Giustinian (la famosa presenza extravagante che non si nega a nessuna silloge, e men che meno all’Isoldiano), la canzone Amor ch’ogni gentil cuor nutre e sface, che la rubrica del codice assegna a un Alessandro Cattani «de Bononia», a tutt’oggi un fantasma. I pezzi di Giannotto Calogrosso (ff. 82v-84r) segnano un punto a conferma della volontà di localizzazione geografica del codice: due sestine della Nicolosa, Sacrate muse e donne mie dillecte e Splendida nympha e candida colomba13, e un sonetto sempre per Sante Bentivogli, Signor benegno e albergho de virtute, extravagante rispetto al testo del prosimetron14. In qualche modo bolosente però di dedurre alcunché sulle circostanze reali degli accadimenti, a conferma del fatto che letteratura e vita – fortunatamente – tutto fanno salvo che sovrapporsi. 10 E anche gli altri suoi testi presenti nella silloge rimandano al massimo allo stesso ambito signorile: O maligna tirampna o crudel serpe (f. 210r) è scritta per Francesco Sforza (appunto mentre l’autore si trovava per suo incarico a Bologna); più vago il contenuto del sonetto Ben pòi fiera tyramna homai secura (f. 230v), mentre quello che lo segue, Invictibil signor victorïoso (f. 231r), dedicato a Sigismondo Pandolfo Malatesti e dal Frati assegnato allo stesso Orlandi, in realtà nel manoscritto è adespoto (e quella dell’Isoldiano è l’unica attestazione). 11 Cfr. la voce di G. Ballistreri sul DBI. 12 È tràdita dall’autografo Riccardiano 1098; la si legge nell’antologia dei Lirici toscani del Lanza. 13 In una redazione diversa da quella nota (si cfr. ancora Un «buon testimone»?… citato prima). 14 Ma il manoscritto conservato alla Nazionale di Parigi (Ital. 1036) è mutilo; quindi anche il nostro sonetto potrebbe far parte dell’opera (cfr. ancora il già ricordato intervento

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gnese, pur se non all’anagrafe, anche Guido Peppi, il Guido Stella dell’articolo di Dionisotti citato in apertura, lettore di astronomia a Bologna nel 1466-67, di cui l’Isoldiano ci presenta, dopo i pezzi del Calogrosso, una canzone e sei sonetti15; l’ultimo dei quali, a conferma della non casualità della seriazione, è scherzosamente rivolto proprio alle «muse» dell’amico «Gianotto». Dopo i tre testi di Bornio da Sala di cui ho già detto, la sezione si chiude coi quattro sonetti di Pellegrino Zambeccari,16 bolognese noto anche lui, allievo del Salutati e quindi di un paio di generazioni precedente i rimatori isoldiani in senso stretto. Procedendo nell’esame della partizione del manoscritto, ci sono altre presenze bolognesi, anche importanti, mai più però con questa compattezza, da vera dichiarazione di intenti. Più frequenti nella zona che segue questa, dove troviamo un altro “lettore” bolognese (1440-1460), il vicentino Niccolò Volpi con il sonetto Hippocrito fallace, el collo torto (f. 89v)17; poco più in là (f. 91r), la prima epifania malatestiana, quella di Carlo Valturio, con un sirventese del 1445 dedicato a Sigismondo Pandolfo Malatesti: è una vena importante quella dei testi implicati in qualche modo con i signori di Rimini, ma non vorrei abbandonare per il momento il filo bolognese, giacché è tenue e, secondo il precetto antico, «per troppa sottiglianza il fil si rompe». Riemerge Guido Peppi, al f. 111r, con la canzone politica Gallo s’el te rimembra (la città di cui si depreca l’amaro destino è però Forlì, terra d’origine del Peppi come di Cornelio Gallo). Una attestazione bolognese importante sarebbe quella del “canzoniere” di Francesco Benedetti, 16 sonetti ai ff. 131r-

di P. Vecchi Galli, Per il prosimetro della Nicolosa bella, anche per la bibliografia pregressa, e L. Bellucci, Una tessera per il romanzo della Nicolosa bella, in Studi filologici, letterari e storici in memoria di Guido Favati, Padova, Antenore, 1977, pp. 115-123); il quarto componimento del Calogrosso tràdito dall’Isoldiano, cioè il sonetto Ecco il giulglello e la candida perla (f. 176v), dedicato a Margherita di Gianfrancesco Bevilacqua di Verona, moglie del conte ferrarese Iacopo Sacrati, si inserisce in un filone diverso da quello bolognese (e difatti è anche dislocato altrove nel codice). 15 Ff. 84v-86v: Era già fuor la rotulante Aurora, Vidi madonna con amore a l’ombra, Verde angioletta quando soe parole, Io son regina in l’amoroso regno, Inclyto Signor mio la terra vostra, O Rundinella che piangendo vai, Gianotto hora è infangato il chiaro fonte. 16 Ff. 87v-88v: O vir divine Cupidinis hostis, Se io credesse per diventar cieco, Qual Phidia nello schudo de Minerva e Vo’ con pensier più dubïoso e forte. 17 Importante (anche se non nella prospettiva di questo saggio) una sua lettera tràdita dal Vat. Lat. 3908 e indirizzata a Filippo Barbarigo, il misterioso rimatore che lo segue nella silloge isoldiana (e che la rubrica del codice dice veneziano); una communis opinio (Crescimbeni Quadrio e via via molti altri) lo voleva autore di fine Trecento inizio Quattrocento, ipotesi evidentemente infondata.

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Geografia e storia di un «fragmentario poetico»: il codice Isoldiano

134v; l’identità dell’autore (che il Frati riconduceva al tipografo bolognese Platone de’ Benedetti, al secolo, appunto, Francesco) è però rimasta solo un’ipotesi, e anche il dedicatario dei testi, Pietro «de Paveriis», è solo un nome. Le carte che seguono, come vedremo, sono più riminesi che bolognesi, più malatestiane che bentivogliesche, sino all’emergere di un altro nucleo autoriale forte, Antonio di Lerro, forlivese, amico del Peppi, lettore anche lui a Bologna nel 1465-66: ventidue testi, ai ff. 144v-152v, con uno scambio di sonetti con un altro sodale di cultura bolognese, il barbiere e rimatore Antonio de’ Bonandrei (nativo di Cento, sull’Appennino); una linea bolognese, quindi, ma in qualche modo “esterna”, giocata più da chi ha pratica della città pur senza esserne per forza nativo, voglia affermare una familiarità, ma risenta di altre suggestioni culturali. Al f. 163v il sonetto di Galeazzo Marescotti per Sante Bentivogli di cui s’è già detto, e al f. 176v un sonetto dedicato da Nicolò Malpigli alla sua Bologna, Bologna mia le toe divisione: primo testo di un autore presente nell’Isoldiano in modo diffuso, e qui inserito in una serie – tutta interessante – di testi incentrati sul tema delle città, spesso (Dante docet) in improperium delle medesime. Proprio la disastrata condizione delle rime del Malpigli, divise in cinque sezioni diverse, con gravissimi problemi attributivi (cfr. l’articolo di Bentivogli citato in una delle prime note) conferma una bolognesità dell’Isoldiano perseguita forse, però non sempre e non compiutamente realizzata (e questo ci porta dritti al problema del compilatore della silloge, ma di questo più avanti). Le rime del Malpigli si propagano nella sezione successiva, occupata da un nucleo di testi “femminili” (dedicati a donne o scritti in «persona di donna»): troviamo qui, di bolognese, il sonetto di Giannotto Calogrosso per Margherita Bevilacqua (la dedicataria, l’ho detto prima, è però di Verona; cfr. n. 14), e lo scambio di capitoli fra Niccolò Malpigli, Fleson, Cons; Pyrois et Ethon (f. 184v), dedicato a Amedea Aleardi «pro bononiensis studij oratione» e Girolamo Caffoni (un altro dei fantasmi allocati nell’Isoldiano) che risponde per conto della donna con S’el summo sceptro il qual Iove e Pluton (f. 184v). Di seguito, un nucleo compatto di testi attribuiti al Malpigli (almeno uno non è di certo suo): una canzone e sei sonetti, ai ff. 185r-187v del codice. Ancora a seguire due canzonieri, quello malatestiano di Lito da Carrara, e quello di Giovanni Testa Cillenio, più legato all’ambiente bolognese18. 18 Sulla – complessa – biografia del Testa Cillenio, toscano per nascita, ma con tutt’altre frequentazioni letterarie, almeno negli anni che ci interessano, cfr. S. Carrai, Una corrispondenza in sonetti: Felice Feliciano e Giovanni Testa Cillenio, in I precetti di Parnaso. Metrica e generi poetici nel Rinascimento italiano, Roma, Bulzoni, 2000, pp. 27-43 (e

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Ventuno sonetti più una sestina proemiale (ff. 193r-198v), tutti copiati da una stessa mano, che è quella (b nella descrizione di De Robertis) che stende la lettera di dedica, l’indice dei capoversi e un altro piccolo gruppo di rime dello stesso Testa Cillenio alla fine del codice (ff. 303r-305r)19; indizio di una condizione particolare dell’autore nel corpus antologico, cui si aggiungono altri elementi interessanti. Intanto il rapporto fra le rime isoldiane e le sillogi approntate da Felice Feliciano (amico, per conto suo, del Testa Cillenio): notevole la compresenza di alcuni poeti veneti, soprattutto il Romanello, attestato (oltre che ai ff. 259r-266r del nostro codice), nel codice Ottelio, nel ms. I 5 della Biblioteca Civica di Trieste e nel Rossiano 1117 della Vaticana, tutti autografi dell’Antiquario veronese – per l’ultimo l’attribuzione proposta da Comboni è ancora sub iudice 20 –; e si tratta con tutta evidenza di un interesse concorde per un autore non di ampia diffusione. Meno significative, forse, le attestazioni del Sanguinacci, con pochi testi, di tradizione ampia e solo in qualche caso presenti sia nell’Isoldiano che nelle antologie del Feliciano (il codice Ottelio nel caso, con cinque componimenti sui nove del Sanguinacci tràditi dall’Isoldiano). Altre coincidenze paiono più casuali: un sonetto del Petrarca con quello del suo corrispondente, un capitolo e un sonetto del Serdini, un sonetto anonimo sulla «natura dell’amore», una improbabile canzone che l’Isoldiano attribuisce all’Illicino. Più interessanti, forse, le copresenze bolognesi: lo scambio di testi Malpigli-Caffoni di cui si è appena detto e un sonetto di Gregorio Roverbella. Ma sono soprattutto due testi a segnare una stretta contiguità fra l’Isoldiano e le antologie del Feliciano: il capitolo Io non me satio mai, alta Regina (f. 294v) e la canzone Regina bella, del cui ventre pio (f. 298r); il primo è frutto di un montaggio (o forse di un innesto, viste le dimensioni delle due parti) fra Imperatrice somma, alta Regina di Malatesta Malatesti e Madre di Cristo glorïosa e pura del Saviozzo. L’autore del collage è Felice

prima negli Atti del Convegno sul Feliciano di cui alla nota 20). Riguardo a Bologna (a p. 40 del suo saggio) Carrai nota: «La documentazione disponibile suggerisce che il rapporto tra Cillenio e Feliciano si sia sviluppato durante il secondo soggiorno in Bologna di quest’ultimo, all’inizio degli anni Settanta»; è tornato sul Testa Cillenio, più di recente, I. Pantani nel suo volume «La fonte d’ogni eloquenzia». Il canzoniere petrarchesco nella cultura poetica del Quattrocento ferrarese, Roma, Bulzoni, 2002, soprattutto le pp. 372-403 passim. 19 Interviene in realtà altre due volte, per piccole integrazioni. Avevo anche, per qualche tempo, accarezzato l’idea che la mano b potesse essere quella del Testa Cillenio stesso; un controllo sugli epigrammi autografi custoditi presso la Biblioteca Nazionale di Firenze (ms. II. II. 62) è però bastato a escludere l’accattivante ipotesi. 20 Una nuova antologia poetica del Feliciano, in L’”antiquario” Felice Feliciano veronese. Tra epigrafia antica, letteratura e arti del libro. Atti del Convegno di Studi, Verona, 34 giugno 1993, a cura di A. Contò e L. Quaquarelli, Padova, Antenore, 1995, pp. 161-176.

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Geografia e storia di un «fragmentario poetico»: il codice Isoldiano

Feliciano e il suo autografo oggi alla Marciana (It. IX, 257, datato 1469) è l’unico altro testimone dell’esperimento; sarebbe semplice concluderne che dal codice veneziano, appunto, lo tragga l’Isoldiano21, ma la presenza di un paio di errori del Marciano non accolti nel manoscritto bolognese smentisce l’ipotesi più diretta; in ogni caso, un testo del genere non avrà avuto una tradizione sconfinata. Un ragionamento simile si può fare per la canzone del Malatesti, che si presenta nell’Isoldiano in una forma parecchio lontana da quella testimoniata dagli altri codici (iuxta la Trolli). Non sarebbe di per sé un fatto strano, data l’attitudine interventista dell’allestitore del manoscritto bolognese; più singolare, però, che sempre il Marciano autografo del Feliciano rechi la medesima versione del testo, compresa la bizzarra coda di quattro versi monorimi (due endecasillabi a incastonare due settenari) appiccicata all’ultima stanza. Chiudo questo lungo excursus per andare alle conclusioni: le tracce felicianesche presenti nell’Isoldiano non mi paiono sufficienti per ricondurne la paternità all’Antiquario veronese (divergenti le prospettive culturali, gli ambiti geografici, per non parlare dell’aspetto trascurato del nostro manoscritto, lontanissimo dalla cura maniacale riservata ai manufatti usciti dalla bottega del Feliciano), ma il Testa Cillenio potrebbe benissimo essere stato il tramite fra questa antologia e il mondo del Feliciano: una sua presenza attiva dietro l’allestimento del codice mi pare – con la prudenza d’obbligo in questi casi – piuttosto probabile22. Riprendo il filo bolognese, più che rotto oramai disperso, e che inanella ancora qualche nome: un nucleo del Malpigli ai ff. 200v-205v, con due canzoni inserite in una serie di testi politici; il testo di Alberto Orlandi per Francesco Sforza cui si è fatto cenno alla n. 10 (f. 210r; ma la tangenza con Bologna è minima). Un altro “lettore” allo studium bolognese (un po’ prima dei nostri anni, siamo nel 1440-1441) al f. 222v: Filippo da Massa con Che sia felicitate o in che consista, una canzone indirizzata al senese Ludovico Petronio; che qualche tangenza culturale con l’ambiente bolognese ci sia comunque lo conferma anche l’alta presenza di rime sue nello zibaldone autografo di Cesare Nappi (ff. 259-263 del manoscritto conservato presso l’Universitaria di Bologna)23. Prima della zona finale del codice, la più composita e anche la più ricca (secondo le consuetudini di tutti i manoscritti antologici) di testi anonimi, un’altra cospicua presenza del Malpigli, con ventinove componimenti ai ff. 21

L’inverso, oltre che improbabile, è impossibile per ragioni cronologiche. E suo, almeno a quanto consta, è anche il componimento con data più bassa fra quelli antologizzati. 23 Ms. 52, Busta II, n. 1. 22

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231r-238v e poi, nell’ultimo tratto, un sonetto di Benedetto Morandi: Un secretario, un conte palatino (f. 243v); un bolognese di un certo peso alla corte bentivogliesca24, ma collocato in una sezione ben poco qualificata del manoscritto, come pure, poche carte più in là (244v), accade al testo di Filippo Lapaccini per Giovanni Bentivogli ricordato all’inizio. Ancora qualche scheggia: un sonetto del Peppi per Francesco Sforza (O degno sol d’imperïal corona, f. 255r), poi la famosa canzone del Malpigli per Niccolò d’Este (Spirto [Sirpto legge in realtà l’Isoldiano, ma tutto l’incipit è un po’ di fantasia] gentile da quel gremio sciolto), al f. 255v, un vero répechage dell’ultima ora. Ancora una pausa d’autore, con i canzonieri del Romanello e dello Staccoli (ff. 259r-266r e 266r-276v, ma i componimenti del secondo sono adespoti). A seguire testi per lo più toscani, di prevalente contenuto gnomico o religioso, lontanissimi nel complesso dalla temperie dell’Isoldiano, tra i quali, forse, riemerge Filippo da Massa, ma con una canzone qui non attribuita (Maledictus homo ch’en homo se fida, al f. 281r); prima delle rime finali (del Testa Cillenio, come s’è detto), un altro bolognese all’apparenza disperso: Gregorio Roverbella, col suo sonetto Dove ne vai smarito e miser core, al f. 302r. L’altro filone geografico importante, lo accennavo prima, è quello malatestiano, o forse più esattamente riminese malatestiano, vista l’ampia declinazione geografica della dinastia: il filo comincia a dipanarsi con la cantilena del riminese – appunto – Carlo Valturio al f. 91r, il sirventese Alto Signor, dinanzi a cui non vale indirizzato nel 1445 a Sigismondo Pandolfo Malatesti: testo isotteo, secondo la definizione di Santagata25, che apre la via a una serie di componimenti di segno affine. Isotteo, allora, questo nostro manoscritto, da Isoldiano che era? Forse, o si potrebbe almeno dire segnato da una forte presenza dell’asse più orientale della poesia cortigiana del Nord; l’assenza di Giusto de’ Conti, però, stronca subito ogni tentativo di definire in questo esclusivo senso l’impronta culturale dell’antologia26.

24 Si vedano i contributi di Bruno Bentivogli già più volte ricordati, e soprattutto Un omaggio poetico bolognese a Ippolita Maria Sforza, in “Strenna storica bolognese”, XXXV (1985), pp. 35-45. 25 A p. 69 del volume suo e di S. Carrai, La lirica di corte nell’Italia del Quattrocento, Milano, Franco Angeli, 1993. 26 Un solo testo attribuito, la canzone Magnanimo Signor, per quello amore, che però non è sua, bensì di Niccolò Cieco. Sull’importanza della Bella mano nella definizione culturale della lirica «feltresco-romagnola», si cfr. quanto scritto da Santagata nel libro appena ricordato.

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Malatestiano di adozione, ma di parecchie generazioni prima, anche il senese Domenico da Monticchiello, il cui capitolo ternario Le vaghe rime e il dolce dir d’amore (f. 101r) precede nell’Isoldiano un personaggio di spicco della corte di Sigismondo Malatesti, quel Ludovico Cantelli27 cui il codice attribuisce Poi che fur gli ochij toi da’ mei divisi (f. 109v; il testo è mutilo, ma parrebbe un frammento di canzone) e il sonetto Misera, trista, vedoa e pupilla (f. 110v, che è in realtà dello stesso Malatesta Malatesti)28. La sezione di rime di corrispondenza dell’Isoldiano, ai ff. 135r-140v (nella quale si esaurisce anche la presenza di Petrarca), è una vera miniera di Riminesi: a partire da Cesare Agolanti, corrispondente anche di Malatesta Malatesti, qui in coppia con Pietro Gualdi, un altro dei poeti isottei; al f. 136r il primo scambio di testi: Poi che tu armigge sì col magno ardire dell’Agolanti e Al vostro poetar convien sequire del Gualdi. Al f. 137v la proposta spetta al Gualdi: Non so con chi me parta i sospir mei e la risposta all’Agolanti: Le treccie gratïose di colei; subito dopo (f. 138r) ancora una proposta del Gualdi, ma a Malatesta Malatesti: O Signor mio, convien che voscho parta e la risposta del medesimo: O di scïentia gran volume e carta. Sempre il Gualdi a proporre (al f. 138v con Sento ch’io ardo e non discerno il quia), ma il corrispondente è qui un tal Francesco Rigazzi (riminese anche lui, figlio di Bambo di Ceccolo), che gli risponde con Se la rason non t’ha chiusa la via; chiude, per ora, la serie una replica (f. 139r) del testo dell’Agolanti indirizzato al Gualdi, Poi che tu armigge sì col magno ardire. La sezione “polico-cittadina” e quella riservata alle presenze femminili non annoverano occorrenze malatestiane: il filo si riannoda col canzoniere di Lito da Carrara, ai ff. 188r-192v, e con i molti testi suoi dedicati a Malatesta Malatesti; l’autore è rimasto tenacemente un fantasma, ma l’ambito storicoculturale in cui opera è chiarissimo. E anche nelle carte che seguono le occorrenze di conterranei sono piuttosto fitte: due sonetti di Malatesta Malatesti ai ff. 199v-200r (e subito prima Il sole, l’oro lucido e splendente, dato come anonimo, è ancora suo). Al f. 207r la canzone «Dominae Baptistae de Pensauro contra Romam» Funesta patria, inexorabil plebe, anche se non è di Battista Malatesti, rimane in famiglia, giacché è di Malatesta Malatesti. E ancora un Malatesti, Sigismondo, è dedicatario della canzone Magnanimo Signor, per quello amore, che l’Isoldiano attribuisce a Giusto de’ Conti, men-

27

Cfr. la voce di M. Mallet sul DBI. La contiguità delle attestazioni manoscritte si traduce un’altra volta in intreccio di attribuzioni fra i due: cfr. O di scïentia gran volume e carta, che l’Isoldiano attribuisce al Malatesti e il Riccardiano 1154 al Cantelli (cfr. B. Bentivogli, La poesia volgare…, cit., p. 188). 28

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tre è in realtà di Niccolò Cieco, al pari di quella che segue, Premia costui del merto suo, Signore, che risponde alla precedente. Al f. 231r di nuovo un sonetto per Sigismondo Malatesti: Invincibil signor victorïoso, spesso attribuito a Alberto Orlandi (cfr. n. 10), autore del testo che precede questo, ma in realtà anonimo nel codice29. Nelle sezioni finali dell’Isoldiano le note malatestiane sono affidate solo a testi adespoti, quindi assai poco significativi (ma l’orientamento di questa ultima parte, come s’è già detto, è piuttosto casuale): un sonetto di Malatesta Malatesti (S’io fallai mai contra quel tuo bel viso, al f. 244v) e le due «laudi de nostra Donna», i testi implicati con l’intervento del Feliciano, che, nella loro versione di base, sono di Malatesta Malatesti: Io non me satio mai, alta Regina (f. 294v) e Regina bella del cui ventre pio (f. 298r). Il nome del Feliciano può fare da tramite verso il terzo nucleo geografico (meno importante dei primi due): i testi di autori veneti, in parte, come abbiamo visto, in comune con le antologie allestite dall’Antiquario. Oltre a Romanello e Iacopo Sanguinacci, l’Isoldiano presenta il veneziano Filippo Barbarigo (di cui ho già detto qualcosa a proposito di Niccolò Volpi; nella sostanza un fantasma, a parte le notizie offerte dalle didascalie), il padovano Francesco Capodilista (attestato anche fuori dall’Isoldiano, e un cui sonetto è presente in una antologia del Feliciano), il Giustinian (una voce decisamente consueta in una silloge di questo torno di anni). Presente anche «Cosmico padovano», cioè Niccolò Lelio Cosmico; il testo antologizzato (Se de’ sempre tacer, se de’ amuttirse, al f. 300v) è però fuori dalla tradizione canonica del nostro, una frottola attestata solo qui (me lo conferma gentilmente Beatrice Bartolomeo) e di attribuzione tutt’altro che certa. Veneto – anzi veneziano – sarebbe poi anche Marco Piacentini, ma dei cinque testi dell’Isoldiano che oggi sono ricondotti a lui, uno è adespoto, due sono attribuiti al Malpigli e due al Saviozzo: davvero poco per parlare di una effettiva rilevanza in quanto autore (ma si sa che la questione Piacentini è tutta complessa, fatta più di assenze che di presenze). Piuttosto, si potrebbe osservare che su cinque componimenti, quattro, adespoti, compaiono anche nel codice 627 ital. 259 della Biblioteca di Stato di Monaco copiato dal Feliciano: 114 testi senza indicazione d’autore, tutti oggi riferiti al Piacentini30.

29 Una qualche frequentazione malatestiana, comunque, l’Orlandi doveva averla, se il Riccardiano 1126 tramanda una canzone sua per la morte di Carlo Malatesti (cfr. E. Lamma, Rime inedite di Alberto Orlandi, in “Archivio storico per le Marche e per l’Umbria”, IV, 1889, pp. 494-517). 30 Sulla tormentata vicenda del canzoniere del Piacentini si cfr. da ultimo E.M. Duso, Il canzoniere di Marco Piacentini (anche per i rimandi alla bibliografia precedente), alle

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Geografia e storia di un «fragmentario poetico»: il codice Isoldiano

Se queste, a un dipresso, sono le coordinate geografiche dell’Isoldiano (ci sono anche i Toscani, è ovvio – e ne ricorderò qualcuno più avanti –, ma quel tanto che basta, un po’ come Petrarca), rimane scoperta l’altra metà del titolo, ovvero la storia, l’organizzazione contenutistica dell’antologia. L’apertura, senza dubbio, è sotto il segno del “mal d’amore”: lo dichiara l’accessus stesso del manoscritto, il volgarizzamento della vicenda ovidiana di Piramo e Tisbe, su cui tanto si è scritto a proposito del supposto ruolo di Sabadino degli Arienti (alla cui mano si deve la trascrizione del racconto in un codice di Dresda, oggi irreperibile) nella progettazione dell’impresa31. Ora, il capitolo Sabadino mi pare definitivamente archiviato: resta il grande interesse suscitato da un prologo in prosa a un «fragmentario poetico» (e mi piacerebbe anche sapere quanti sono gli esempi simili32), prologo niente affatto casuale, se per realizzarlo si è sentito il bisogno di aggiungere alcune carte al manoscritto già confezionato (ma la mano che copia è una di quelle che lavorano sul corpus delle rime, la a nella descrizione di De Robertis)33 e soprattutto per nulla casuale rispetto al primo dei testi antologizzati, la “novella nera” in versi del Saviozzo, cioè il sirventese Magnanime donne, in cui beltate, apoteosi dell’amore mal riposto. Esaurita l’ampia silloge di testi del Saviozzo34 (e qui, forse, la risposta a una ipotetica domanda «chi fur li maggior tui?»), e dopo una fugace comparsa di Dante e del misterioso Bartolomeo Monaldeschi35 (siamo arrivati così al pp. 391-407 del volume Petrarca in Barocco. Cantieri petrarchistici citato in una delle prime note. 31 I riferimenti bibliografici alla n. 5. 32 Qualche esempio di miscellaneo misto di versi e prosa, quindi di struttura avvicinabile al prosimetro, è ricordato da Paola Vecchi Galli nel suo contributo sulla Nicolosa, ma il caso dell’Isoldiano è diverso. 33 Tranne l’ultima pagina, finita da b. 34 Sul ruolo del Saviozzo come mediatore fra la lirica trecentesca e la cultura cortigiana quattrocentesca, dopo quanto autorevolmente scritto da Pasquini (Il Saviozzo e la poesia cortigiana nel Quattrocento, in Dizionario critico della letteratura italiana, Torino, UTET, 19862, IV, pp. 102-108), non vale la pena di dilungarsi, soprattutto in questa sede; più interessante, forse, ribadire come, nella strategia compositiva dell’Isoldiano, Giusto de’ Conti, così di frequente associato al Saviozzo nei codici collettori di rime, sia invece assente (è presente il nome, l’abbiamo visto, ma il testo non è suo; e si tratterebbe comunque di un solo componimento): un dittico che siamo abituati a considerare tradizionale si scioglie, a vantaggio di una posizione di caposcuola affidata al Serdini. E questa preferenza è già un segnale forte sulla natura delle scelte del nostro manoscritto: l’innovazione sperimentata da Giusto sulla linea del petrarchismo non passa attraverso il canone isoldiano, che mostra un orientamento piuttosto attardato, periferico sia sotto il profilo geografico che sotto quello culturale. 35 Cfr. G. Gorni, Metrica e filologia attributiva vent’anni dopo, in Carmina sempre et citharae cordi. Études de philologie et de métrique offertes à Aldo Menichetti, Genève,

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f. 66v), la prima sezione del codice, sino allo stacco costituito dal canzoniere di Francesco Benedetti (ff. 131r-134v), presenta una netta prevalenza di testi amorosi, che solo nella parte finale, a partire dai quattro testi gnomici attribuiti a Giovanni da Modena36, vira sul tema della deprecazione d’amore e dei suoi nefasti effetti sull’animo umano. È chiaro che in una struttura tanto complessa, sulla quale incidono, e molto, le coordinate geografiche dei testi e dei poeti, in cui si fa attenzione anche alla scansione dei canzonieri d’autore all’interno della silloge (e i canzonieri hanno leggi di funzionamento loro proprie), non tutto può tornare alla perfezione, e qualche testo è refrattario a trovare allocazione in una apposita casella; resta il fatto che dei ventisei pezzi che si distendono fra il f. 67r e il 95v della canzone di Giovanni da Modena (salto la prima serie di Guido Peppi, ai ff. 84v-86v, cfr. n. 15), solo sei si sottraggono al contenuto amoroso37. Una percentuale che, come vedremo, non si ripeterà più nella compagine dell’antologia; la petizione amorosa funziona un po’ come la bolognesità: il nesso amore/poesia non è di quelli che si possono mettere fra parentesi facilmente, e viene esplicitato in una posizione forte come quella di apertura, ma lo scopo del compilatore non era, secondo me, illustrare al colto pubblico come «cantando il duol si disacerba». Emerge piuttosto una funzione sociale, politica, gnomica del dire poetico, funzione che è poi la chiave di volta dell’esperienza quattrocentesca, la prospettiva sotto la quale il nuovo secolo rilegge la tradizione e sceglie i suoi auctores; e sarà questa funzione, pian piano, a prevalere. E lo si vede già dai dodici pezzi (qualcuno l’abbiamo già citato per altre ragioni) che stanno fra quelli attribuiti a Giovanni da Modena e il canzoniere Slatkine, 2000, pp. 1-11, e alle pp. 10-1: «E chi sarà mai quel Bartolomeo Monaldeschi che compose Hay lacrimosa mente che t’accendi […]. Ma Voglioso e vago nel Riccardiano 1091 si trova attribuita a un Bartolomeo Monaceschi. Chi erano tutti questi Bartolomei?». Come giustamente glossa De Robertis nell’edizione delle Rime dantesche: «curiosità pel momento insoddisfatta». 36 Solo la prima canzone, La mia gravosa e difformata vita, a f. 95v, è attribuita all’autore (peraltro ignoto) da una mano coeva alla stesura del manoscritto. Le due canzoni che seguono e il sonetto che chiude la serie recano una didascalia di mano più tarda, ma mostrano comunque una indubbia congruità a livello contenutistico. 37 La canzone Nel tempo che Saturno regnò in terra, al f. 77r, che l’Isoldiano attribuisce al bolognese Bornio da Sala (prevale la geografia sulla storia?), il sonetto latino per Coluccio Salutati di Pellegrino Zambeccari (bolognese anche lui), al f. 87v, O Vir divine Cupidinis hostis, il sonetto di Niccolò Cieco (che è toscano, quindi non fa sistema) Quantonque sia dinanzi a gli occhij tolta, al f. 89r, il sonetto di Niccolò Volpi (lettore a Bologna) Hippocrito fallace, el collo torto, al f. 89v, uno dei sonetti del Barbarigo, Prima che ’l schiffo errante a l’aspro scholglio, al f. 90v e il sirventese di Carlo Valturio per Sigismondo Malatesti già tante volte ricordato.

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Geografia e storia di un «fragmentario poetico»: il codice Isoldiano

del Benedetti (non considero gli scambi di testi di ambito petrarchesco che si insinuano nella serie, ad anticipare l’ampia zona di corrispondenza che segue38): la deprecazione contra Amorem di Domenico da Monticchiello (Le vaghe rime e il dolce dir d’amore, al f. 101r), il lamento per la morte dell’amata di Ludovico Cantelli (Poi che fur gli ochij toi da’ mei divisi, al f. 109v), cui seguono tre testi politici: il sonetto attribuito allo stesso Cantelli (in realtà di Malatesta Malatesti) Misera, trista, vedoa e pupilla (f. 110v), la canzone del Peppi sull’amaro destino della natia Forlì (Gallo s’el te rimembra, f. 111r) e il capitolo di Niccolò Cieco De nove cose se lamenta il mondo, a f. 112r. Poi due canzoni dantesche (Così nel mio parlar e Voi che intendendo), e ancora una politica, Se per canctar più alto anchor me lice (f. 116r), dedicata dal pisano Andrea Vettori a Filippo Maria Visconti. Gli ultimi quattro testi della serie presentano un’alternanza fra deprecazioni contro l’amore: Dhe muta stile hormai giovenil core (f. 118 v, attribuita a Fazio degli Uberti, in realtà di Iacopo Sanguinacci) e Perch’io non m’habbia sì de rime armato (f. 128r, del napoletano – qui alquanto spaesato – Guglielmo Maramauro) e testi amorosi in senso proprio: il sirventese del Giustinian Tacer non posso e temo meschinello (f. 125v) e la canzone dello sconosciuto Monaldo da Orvieto Io vorrei prima stare in meggio un fangho a f. 129v39. Dopo il canzoniere del Benedetti, si apre la sezione dedicata alle rime di corrispondenza, che declina in apertura la sua fedeltà al verbo petrarchesco (ben poca cosa, e in questo aveva senza dubbio ragione Dionisotti), per poi aprirsi su interessi evidentemente più prossimi ai gusti del compilatore: come abbiamo visto, si tratta soprattutto di autori riminesi legati alla corte e alla poetica di Malatesta Malatesti; la Ruffianella pseudoboccacciana del f. 141r funge da stacco fra questa zona e il canzoniere di Antonio di Lerro (ff. 144v152v), il forlivese amico di Guido Peppi cui abbiamo già fatto cenno, anche lui una presenza a mio avviso importante fra i protagonisti dell’Isoldiano. È ancora il Saviozzo ad aprire la zona successiva, di taglio soprattutto politico e con un ampio spazio dedicato alla dimensione “cittadina” (fatto che, in questa temperie cronologica, non può certo stupire): dopo il ternario del Serdini (Per gran forza d’amor commoso e spento, f. 153r), due testi di Iacopo Sanguinacci: il polimetro Fellice chi misura ogni suo passo (f. 155r) e la famosa canzone per Lionello d’Este Non perch’io sia bastante a dichia38 Va da sé che chi legge troverà qualche ripetizione fra questa parte e quella precedente, dove l’esame era condotto lungo l’asse geografico: diciamo che ho privilegiato la chiarezza. 39 Altrove attribuita anche a Fazio degli Uberti; ma assegnata dalla maggioranza degli studiosi al misterioso Monaldo, in virtù di una applicazione estensiva della lectio difficilior.

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rarte (f. 157r; ma nell’Isoldiano la dedica è a Borso), due sirventesi a lui attribuiti da una mano tarda (abbastanza diffusi nei manoscritti miscellanei, con attribuzione anche al Sacchetti e al Giustinian40) e infine la canzone Spegnasse homai la fiamegiante stella (f. 162r), con la quale si apre un breve spazio amoroso, occupato anche dal sonetto successivo, quello di Galeazzo Marescotti a Sante Bentivogli di cui ho parlato all’inizio: Se mai pietà per mi vi strinse ’l core (f. 163v). Un piccolo nucleo di testi di Filippo Barbarigo (quattro sonetti, ff. 164r-v), poi due componimenti del Sanguinacci (Iacopo, ancora, nonostante il «Ioannis» dell’Isoldiano) incentrati sulle dinamiche politiche cittadine: il sirventese tetrastico Vorei, principe excelso, inclyto e pio (f. 165r) dedicato a Francesco Foscari in difesa di Padova, sospettata di tradimento, e l’altro, O inchoronato regno sopra i regnj (f. 167r), in lode della città di Venezia. Segue subito l’improperium della medesima città, affidato al sonetto di Antonio da Ferrara «contra civitatem Venetiarum civesque Venetos»: Possa che Troya dal vigor di Gretia (f. 173v) e, poco più in là (f. 176v), il già menzionato sonetto del Malpigli a deprecare gli odi intestini di una «città partita», che qui è Bologna: Bologna mia le toe divisione. Il sonetto del Calogrosso in lode di Margherita Bevilacqua (Eccho el giulglello e la candida perla, f. 176v; cfr. n. 14) apre una microsezione femminile: la coppia di capitoli scambiati fra Carlo Cavalcabò, signore di Cremona, e Bartolomea Mattujani (Io te priegho per quel vivo sole, f. 177r; l’attribuzione, secondo Bentivogli41, nasce solo dalla volontà del compilatore dell’Isoldiano di non lasciare senza proposta il famoso testo attribuito all’amante del signore cremonese, cioè Inclyto, glorïoso e chiaro duce, al f. 179r) e la coppia bolognese costituita dal capitolo del Malpigli scritto per Amedea Aleardi, con la risposta a nome di lei del misterioso Geronimo Caffoni (anche di questi s’è già detto). I nuclei autoriali del Malpigli stesso, poi di Lito da Carrara e del Testa Cillenio ci traghettano verso una zona del codice di nuovo caratterizzata da prevalenti interessi politici, o gnomici: comunque non amorosi. Numerosi, qui, sono i toscani, direi genericamente “antichi”, non legati a una linea stilistica precisa, e nemmeno connessi da una comune appartenenza municipale: parrebbero presenze più che altro elative, attestati di una nobiltà letteraria piuttosto generica; in questa seconda parte del manoscritto, del resto, le parti-

40 Venuta è l’hora e ’l despietato punto e Qual nympha in fonte o qual in ciel mai dea, ff. 159v-160v. 41 La poesia volgare…, cit., p. 210.

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Geografia e storia di un «fragmentario poetico»: il codice Isoldiano

zioni sono più fragili, le ragioni di struttura meno individuate, come accade poi in gran parte dei canzonieri. Fra questi toscani extravaganti rispetto alle coordinate dell’Isoldiano, troviamo intanto il Bruni («Leonardus Aretinus» nella didascalia, con un sonetto al f. 199r, Spenta veggio mercé sopra la terra e poi con la canzone del f. 220r, Longha question fo già tra vechij saggi, due testi di impronta gnomica); la zona si colora progressivamente di interessi politici, se a due sonetti anonimi42 e a due di Malatesta Malatesti succedono le due canzoni del Malpigli, Alto stendardo e guida del mio core (f. 200v) e quella dedicata al Papa, O successor di Pietro, o gran monarcha di f. 202v. Analoga l’intonazione dei testi che seguono (e sono tutte canzoni, certo non per caso43): Funesta patria, inexorabil plebe, la deprecazione «contra Romam» di Malatesta Malatesti (al f. 207r, come abbiamo detto con l’attribuzione a Battista Malatesti), poi ancora un toscano, Anselmo da Firenze (cioè Anselmo Calderoni, «Messere Anselmo Buffon fiorentino» nel codice), con una canzone invero piuttosto padana, la celebre Principe glorïoso e terzo Duca dedicata a Filippo Maria Visconti (f. 208v); stesso ambito geografico di dedica (ma diversa cronologia) mostra il testo di Alberto Orlandi a «lo Illustrissimo conte Francesco duca de Milano»: O maligna tirampna, o crudel serpe (a f. 210r; composto «essendo in Bologna», come dicevo in una delle prime pagine). Si cambia ambito signorile (siamo in dominio malatestiano), ma non si muta tipologia stilistica con la coppia di canzoni di Niccolò Cieco (ancora un toscano, dunque, ma ricordiamo l’attribuzione del manoscritto è a Giusto dei Conti): Magnanimo Signor, per quello amore (un’esortazione al combattimento, al f. 213r) e la risposta ad opera dello stesso autore, Premia costui del merto suo, Signore (al f. 215r, dove vengono sviluppate le tesi opposte). In realtà l’indicazione dell’Isoldiano è doppiamente depistante, giacché anche l’indicazione del destinatario si piega alla logica globale del macrotesto, visto che non di Sigismondo Pandolfo Malatesti si tratta, bensì dell’imperatore Sigismondo di Lussemburgo. Toscana senza remore la canzone che Antonio Scapuccini dedica a Siena, La toa come sorella triumphante del f. 217r, cui si collega la successiva (attribuita allo Scapuccini da una mano più recente; in altro testimone, l’Ashb. 1378, è ano-

42 Anonimi, si intende, nel codice, giacché si tratta di Quello antiquo disio d’amore e fede del Saviozzo e Il sole, l’oro lucido e splendente del Malatesti. 43 Unica inserzione dissonante quella di Patre del cielo e re de gl’emisperi di Iacopo Sanguinacci, al f. 205v, di dimensione più privata che politica. Non ho scandito l’organizzazione metrica dell’Isoldiano perché, tranne che per questa serie, qualcuna di sonetti e una – breve – di capitoli, la successione dei metri non è significativa.

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nima), Seneca in epistulis suis scrive (f. 218v), di taglio fra il morale e il politico, come del resto le ultime due canzoni della serie – toscane anch’esse –: una del Bruni al f. 220r, Longha question fo già tra vechij saggi, e l’altra di Filippo da Massa (che fu però lettore a Bologna nel 1440-41), dedicata al cavaliere senese Ludovico Petronio: Che sia felicitate, o in che consista. Qualche testo di passaggio44, poi una serie compatta di sonetti attribuiti al Malpigli (ff. 231r-238v). La sezione seguente, e ci avviciniamo alla fine del codice, mostra segni evidenti di cedimento strutturale: intanto si affacciano le serie dei sonetti adespoti (ff. 244r-v, 246v-248r, 252r-254v45), intervallati da testi sparsi di autori o già presenti in altre zone del manoscritto, o attinti, sembrerebbe in maniera casuale, alle fonti manoscritte: una canzone e un sirventese dell’improvvisatore fiorentino Antonio di Guido46 (Antonio da Firenze nella didascalia, il che ha indotto qualche equivoco col fiorentino – in effetti – Antonio degli Alberti). Più avanti il sonetto di Benedetto Morandi Un secretario, un conte palatino (f. 243v) e la canzone di Filippo Lapaccini dedicata a Giovanni Bentivogli, L’excelsa fama toa pel mondo sparsa (f. 244v); testi anche importanti nella prospettiva di una lettura bolognese della silloge, ma – come dicevo all’inizio – piuttosto fuori luogo in questa zona dell’antologia. Ritornano anche nomi noti: il Peppi con un sonetto a Francesco Sforza47, due sonetti del Barbarigo48, ancora il Malpigli con la canzone per Niccolò III. I canzonieri del Romanello (con l’inserzione dell’altro padovano Francesco Capodilista) e dello Staccoli (le cui rime, lo ricordo ancora, sono adespote) occupano – dignitosamente direi – i ff. 259r-276v. Ma le ultime carte del codice sono analoghe a quelle che precedono il corpus del Romanello: una faticosa affastellatura di testi vari, in parte anonimi, in parte di autori estranei al canone-base della scelta antologica. Segnalo qualcosa (il resto nelle tavole del volume sull’Isoldiano, quando sarà finito), cercando di seguire un filo che è davvero tenue. Prevalgono ancora i testi toscani (e questo ci conferma che le fonti sono cambiate), spesso a carattere morale o reli-

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Giustinian e Arberto Orlandi. Da segnalare anche che, nonostante quel che si dice, nessuno fra copisti e postillatori si è fatto carico dell’indicazione di un autore, quindi la smania attribuzionistica di cui sempre si parla per l’Isoldiano forse è un po’ una fola. 46 Lasso che farò io poi che quel sole (f. 239r) e Nel verde tempo de la vita nostra (f. 240v). 47 O degno sol d’imperïal corona (f. 255r). 48 Quando de l’orïente i raggi divi (f. 255r) e Felice giorno, e veramente degno (f. 258v). 45

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gioso: due capitoli dell’aretino Giovanni di Antonio Roselli49, una canzone pistoiese trecentesca, piuttosto nota, e che ha goduto anche di un’attribuzione a Dante: Tu pòi senza speranza de conforto50 (f. 279v), il famosissimo capitolo del Serdini Cerbero invoco e ’l suo crudel latrare (f. 282v, ma con la curiosa attribuzione a Bernardo da Siena, cioè forse all’Illicino, e in una lezione davvero disastrosa, anche tenuto conto del livello medio di attendibilità del nostro codice). La serie dei capitoli prosegue con un ternario anonimo sul Giudizio universale: Nel dì che l’ira de chi tutto rege (f. 285r), poi i due componimenti sulla Trinità del fiorentino Antonio Barbadoro, fusi in uno solo sotto il titolo Quando contemplo quella potestate51 (f. 285v). Il Giustinian, con la lauda Maria Vergene bella (f. 293r, accompagnata dalla traduzione latina di Battista Paulacino) apre una microsezione mariana, che annovera i due rifacimenti di cui già parecchio abbiamo detto: Io non me satio mai, alta Regina e Regina bella del cui ventre pio (ff. 294v e 298r), testi che ci riportano a Feliciano, e quindi, qui, al Testa Cillenio. È infatti sotto il suo segno che si chiude l’Isoldiano52, con tre sestine e tre sonetti, estranei al canzoniere per «Verde», che trova collocazione, come abbiamo già visto, ai ff. 193r-198v. Proviamo ora a tirare le fila, per quanto possibile, riflettendo sulle motivazioni che hanno indotto l’organizzatore dell’antologia alla sua fatica. Non che io voglia attribuire a un letterato del Quattrocento una capacità di riflessione sullo statuto dei testi e sulle ragioni delle operazioni letterarie che – fortunatamente per lui – pertiene ai nostri tempi e non ai suoi, ma con tutta evidenza non è l’“omaggio cortigiano” lo scopo principe di questa impresa: i testi per i Bentivogli sono pochi, e poco significativi; oltretutto l’aspetto incondito del manufatto ne rende affatto improbabile una destinazione di dono (al massimo potrà essere stato il brogliaccio, l’exemplar per un eventuale codice di dedica). Un manoscritto come questo, ma in fondo una qualunque delle grandi sillogi miscellanee, vuole garantire innanzitutto che si conservi la memoria della poesia (per rubare il titolo di Fedi), nel nostro caso di una tradizione che si confronta col modello di Petrarca, cioè con la gram-

49 Se mai divo furor, famoso e degno (f. 276v) e Mosso da quel furor malegno e fiero (f. 278r; in realtà adespoto nel codice e privo di altre attestazioni note). 50 G. Savino, Nuovo recupero di una canzone morale trecentesca, in “Italianistica”, 1982, pp. 187-193. 51 Cfr. B. Toscani, Due capitoli sulla trinità di Antonio Barbadoro (1439), in “Rinascimento”, XXV n. s. (1985), pp. 83-100. 52 Quanto segue nel codice (sono parecchie le pagine rimaste bianche e in parte utilizzate in seguito) non ha più nulla a che fare con l’impianto orginale.

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matica espressiva offerta dal Canzoniere, ma non esaurisce le sue ragioni sotto il segno dei Rerum vulgarium fragmenta, ed è comunque interprete, nel suo complesso, di una diversa funzione del fare e del dire poesia, una funzione comunicativa e socializzante magari poco lirica, ma schiettamente quattrocentesca. Nel nostro caso specifico, è forse possibile individuare anche un obiettivo meno generico: secondo me è evidente, in tutto questo lavoro, la volontà di affidare, appunto, alla memoria non solo e non tanto l’esperienza poetica del passato, inquadrata in una prospettiva valutativa, ma soprattutto la propria, e intendo quella di un gruppo di letterati compartecipi di una medesima temperie culturale e in qualche modo coinvolti nell’allestimento del codice miscellaneo. Il discorso, me ne rendo conto, non brilla per chiarezza, ma può forse migliorare se si confronta la situazione della nostra antologia con quella prospettata da Giancarlo Savino53 per il Palatino 418. Nella costituzione di quella silloge è stato riconosciuto un ruolo importante, di coordinatore, al ser Pace, autore (e destinatario) di un cospicuo numero di sonetti, e legato dalle rime di corrispondenza ad altri letterati della stessa sezione, come lui attestati solo da questo canzoniere; se le canzoni, secondo la norma antica, tracciano la via, regolano i conti con la storia, la zona dei sonetti nella compagine palatina garantisce la sopravvivenza di autori più piccoli, sovente ignoti. In maniera analoga, anche se io penso che il ruolo del Testa Cillenio sia stato rilevante nell’organizzazione dell’Isoldiano, non trascurerei gli altri autori presenti con un alto numero di componimenti strutturati in maniera organica, specie se sono poeti altrimenti poco o per nulla noti: in primo luogo i due amici forlivesi (ma bolognesi di tangenza): Antonio di Lerro e Guido Peppi, e magari il misterioso Francesco Benedetti (bolognese presunto, almeno allo stato attuale delle conoscenze). Affidare il proprio nome, i propri testi alle stesse carte cui si affida il mantenimento o addirittura la definizione di una storia poetica è in fondo un buon modo, nel Duecento come nel Quattrocento, per garantirsi l’immortalità.

53 Il canzoniere Palatino: una raccolta ‘disordinata’?, alle pp. 301-15 del IV volume de I canzonieri della lirica italiana delle origini (a cura di L. Leonardi, Firenze, SISMEL, Galluzzo, 2001).

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UN PETRARCHISTA VENEZIANO PREBEMBESCO

1. Il manoscritto 277.4 Extravagantes della Herzog August Bibliothek di Wolfenbüttel è un codicetto del tardo Quattrocento noto agli storici dell’arte per la presenza di due grandi ed eleganti miniature di scuola italiana settentrionale, pressoché sconosciuto invece agli studiosi di poesia italiana del Rinascimento, con le eccezioni di alcuni illustri filologi che, come risulta dalle schede di consultazione della Biblioteca, lo hanno visionato: Paul Oskar Kristeller (1955), Michele Feo (1994) e Ottavio Besomi (2000)1. Nessuno risulta finora averlo studiato da questo punto di vista neppure dopo la segnalazione dell’Iter Italicum di Kristeller 2, ad eccezione di Maria Provvidenza La Valva, che lo ha esaminato più volte senza però darne notizia. Si tratta invece di un documento di un certo interesse nel quadro della lirica italiana della seconda metà del secolo XV, del quale occorre dare anzitutto un ragguaglio generale. 2. Il codice, pergamenaceo, consta di ventitré carte, numerate in arabi sul margine superiore destro a partire da c. 3, di mm. circa 160 x 105, scritte

1 Ringrazio la Herzog August Bibliothek di Wolfenbüttel nella persona del suo direttore Helwig Schmidt-Glintzer che – invitandomi liberalmente e ospitandomi, nell’estate del 2004, per svolgere ricerche – ha agevolato questo lavoro, così come il personale della biblioteca, esemplare per la disponibilità ad aiutare gli studiosi. Ringrazio anche, per indicazioni e suggerimenti preziosi, Beatrice Bartolomeo, Francesco Piovan e soprattutto l’affettuosa dottrina di Filippo Di Benedetto. 2 Cfr. P. O. Kristeller, Iter Italicum, III (Alia itinera I), Brill, Leiden, 1983, p. 736a.

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da un’unica mano in umanistica corsiva (ad eccezione di c. 2r, in capitali, e di c. 2v, vuota) con inchiostro alternativamente oro e argento. Alle cc. 2-22 la membrana è stata trattata con un bagno di colore in modo che si alternino regolarmente una carta verde oliva ed una porpora; la rigatura è a secco, lo specchio di scrittura mm. circa 90 x 70. Dopo il restauro risalente al gennaio 1962, la rispondenza dell’attuale fascicolazione (IV + 1 + 1 + un sesterno con una carta aggiunta nel mezzo + un ternione con una carta aggiunta all’inizio + 1 + VI) alla confezione originaria non è più accertabile su base meramente codicologica3, ma è resa certa dall’assenza di lacune testuali e dalla perfetta coerenza del contenuto. La legatura moderna in pelle bianca è frutto di detto restauro (sul dorso: CODEX GUELFERBYTANUS 277.4 EXTRAVAGANTIUM OCTAVO); la copertina antica in pelle marrone e cartone, modesta in rapporto alla fattura del manoscritto, con impressioni in oro in gran parte illeggibili e all’interno resti di fogli cartacei con frammenti di un testo di diritto canonico, si conserva nella stessa scatola che contiene oggi il codice. Il primo e l’ultimo foglio sono incollati ciascuno ad un sostegno cartaceo e recano – il primo sul verso, l’ultimo sul recto – due miniature che erano originariamente fissate all’interno dei piatti anteriore e posteriore, come risulta dal confronto con la copertina antica e conferma la nota relativa alle operazioni di restauro dattiloscritta in uno dei fogli di guardia posteriori, firmata da Adolf Flach, allora conservatore della Bibliotheca Augusta («Miniaturen, die auf Vorsatzbütten kaschiert waren, gelöst»). Anche in origine, dunque, le miniature costituivano una sorta di cornice figurativa del testo poetico che inglobano. A c. 1v si ha Apollo che, sulla riva del fiume Peneo frequentata da conigli, anatre e altri volatili, canta ai piedi di un alloro accompagnandosi con una viola a cinque corde, mentre anche le Muse, sullo sfondo, suonano insieme con lui, contornate da piante di bosso e da rocce tra le quali s’intravede una testina muliebre bionda, probabile ritratto della dedicataria. A c. 23r Apollo cacciatore che insegue Dafne si arresta di fronte alla ninfa la quale, sulla riva dello stesso fiume con i medesimi animali e con l’aggiunta di un pavone, si sta trasformando in alloro.

3 Cfr. Die Mittelalterlichen Handschriften der Gruppen Extravagantes, Novi und Novissimi, Beschrieben von H. Butzmann, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main 1972, p. 140.

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Un petrarchista veneziano prebembesco

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A rigore, la successione delle due scene dovrebbe essere contraria4, tuttavia è plausibile che la disposizione rispecchi una scelta consapevole da parte di chi confezionò il codice, dovuta sia al comprensibile intento di dare enfasi all’arte poetica rappresentata da Apollo sia all’affinità tra il motivo del canto di lui nell’illustrazione posta a c. 1v e l’esordio del primo sonetto sul tema del canto del poeta ispirato appunto da Apollo («L’arbor di Apol che le mie tempie honora / Con suo bei rami et aurate fronde / Me induce qui con rime alte e ioconde / Cantar le mie fatiche pria che mora»). Nella seconda carta si legge a mo’ di frontespizio, in capitali scritte alternando una riga in oro e una in inchiostro porporino: D[OMINAE] LAVR[AE] / CONTINENTISS[IMAE] / FOEM[INAE] /MART[INUS?] DAPHNIPH[I]LOS / EX OBSEQV[IO] / DICAVIT. A c. 3r, nel margine superiore destro, una mano forse diversa ha scritto con inchiostro color oro: «Canz dal Tasso»5. Le cc. 3-22 contengono un canzonierino altrimenti adespoto, per una donna di nome Laura, opera di un solo autore, linguisticamente localizzabile in area nordorientale in ragione di numerose forme non anafonetiche come benegno o longo; dei frequenti scempiamente consonantici e delle numerose geminate per ipercorrettismo; di sonorizzazioni come feride; di una resa palatale come quella riscontrabile in navigio; di forme con affricata del tipo zentile o treze oppure con fricativa nel tipo cason per ‘cagione’; del numerale do; del pronome i con valore di ‘ipsi’; del possessivo singolare so; di aferesi come scolta o ste; di troncamenti come sare’ per ‘sarete’, torna’ per ‘tornato’ e così via. Che tale patina linguistica sia quella dell’autore assicurano parecchie rime che implicano scempiamenti (in 11 percosa:atrosa:posa, ecc.) o raddoppiamenti da ipercorrettismo (in 12 manno:hanno:stanno:invanno; ecc.), sonorizzazioni (in 8 refuda:cruda, in 14 vade:fiade), forme non anafonetiche (in 21 benegno:tegno, in 25 inzegno:degno:benengno:pregno), palatalizzazioni di jod (in 23 noglia:soglia) e plurali maschili in – e (in 13 pente:stente). L’impiego della porpora e degli inchiostri oro e argento abbinati all’inserzione di figure a piena pagina richiama un uso tipico di Bartolomeo Sanvito6; anche la tintura verde oliva ricorre nel bifolio d’apertura dei Triumphi nel

4

Cfr. W. Milde, Apoll und Daphne, Verlag Müller & Schindler, Stuttgart 1978. La scheda di Butzmann attribuisce questa indicazione all’entusiasmo dei lettori italiani per la poesia di Torquato Tasso (Die Mittelalterlichen Handschriften…, p. 141: «Diese Zuschreibung ist wohl dem Tasso-Enthusiasmus der Italiener zu verdanken»). 6 Cfr. G. Mariani Canova, La porpora nei manoscritti rinascimentali e l’attività di Bartolomeo Sanvito, in La porpora. Realtà e immaginario di un colore simbolico, Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti, Venezia 1998, pp. 339-71. 5

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Petrarca già London-Abbey 7368 confezionato dallo stesso calligrafo 7. L’abbinamento del mito di Apollo e Dafne all’amore per una Laura era, del resto, facile e trova analogie in seno alla tradizione veneta di illustrazioni del canzoniere di Petrarca (ad esempio nel Marciano it. IX 43), compreso l’esemplare copiato dallo stesso Sanvito nel Vaticano Urbinate lat. 681, aperto da una miniatura con Apollo che rincorre Dafne mentre costei, fuggendo, comincia già la propria metamorfosi in alloro, oppure l’altro che sempre Sanvito consegnò all’attuale Bodmeriano it. 130, il quale reca in antiporta una miniatura con Apollo che canta di fronte alla pianta dell’alloro lungo la riva del fiume, alla presenza di Pegaso, Cupido e Petrarca stesso8. Lascio ai paleografi di mestiere dire se, nonostante qualche divergenza rispetto al ductus più con-

7 Cfr J. J. G. Alexander – A. C. De La Mare, The Italian Manuscripts in the Library of Major J. R. Abbey, London 1969, p. 109. 8 Cfr. S. Maddalo, Sanvito e Petrarca. Scrittura e immagine nel codice Bodmer, Centro Interdipartimentale di Studi Umanistici, Messina 2002, pp. 64-65 e pp. 74-79.

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sueto, si possa riconoscere qui la scrittura del celebre calligrafo; per parte mia mi limito a indicare la presenza ricorrente, come in codici da lui esemplati, di alcune maiuscole in capitale anche quando si trovano nel corpo della parola, quali la C, la L, la Q, la V, la Z e sporadicamente la T, come a c. 7r morTal. La fattura del codice, in ogni caso, è tale da doversi riportare, se non direttamente a Sanvito, certo al suo ambiente. Difficile dire invece se si tratti o meno di autografo dell’autore, anche se la presenza di alcuni errori di trascrizione potrebbe indurre, pur con tutte le cautele del caso, ad escluderlo (3r prîma>pria; 12r û quânquo>unquanco; 15r h>è). La confezione di questo libretto da mano (secondo la terminologia di Armando Petrucci9) configura un esemplare di dedica anzitutto per la presenza delle sfarzose miniature, ma anche per la preziosità dell’inchiostro e per la duplice tintura della pergamena, che potrebbe alludere ai colori di un emblema araldico, tanto più che la bicolore veste di Apollo nelle due miniature sembra riprenderli, e parrebbe accoglierli, sia pure aggiungendo il bianco, anche l’allusività di un inizio di sonetto di petrarchesca memoria («Verdi panni, vermigli e bianchi, donna, / Tanto vi adorna e piace, al veder mio…»). Un elemento importante per stabilire una datazione sia pure approssimativa è costituito proprio dalle miniature, le quali sono state attribuite a Liberale da Verona da Paolo D’Ancona10, che in un secondo momento ha preferito pensare alla mano dello Pseudo Antonio da Monza11; è stata segnalata, inoltre, la stretta vicinanza della seconda ad una miniatura di Giovanpietro Birago12. In effetti, un confronto dimostra che si tratta dello stesso miniatore che decorò per un membro della famiglia veneziana dei Barozzi, forse Pietro vescovo di Padova, un esemplare del Breviarium stampato a Venezia nel 1481 dal tipografo Nicolas Jenson e anche l’attuale manoscritto Additional 21463 della British Library contenente l’Oratio Panegyrica di Vittore Cappello ad Agostino Barbarigo, datata 1486: cioè di quel miniatore attivo a Venezia nel penultimo decennio del secolo XV il quale a sua volta è stato identificato proprio con Birago sulla base del confronto con opere da lui fir-

9 Cfr. A. Petrucci, Alle origini del libro moderno. Libri da banco, libri da bisaccia, libretti da mano, in “Italia medioevale e umanistica”, 12 (1969), pp. 296-313. 10 Cfr. P. D’Ancona, Di alcuni codici miniati conservati nelle biblioteche tedesche austriache, in “L’Arte”, 10 (1907), p. 30. 11 Cfr. P. D’Ancona, La miniature italienne du Xe au XVe siècle, Librairie Nationale d’Art e d’Histoire-Van Oest, Paris-Bruxelles 1925, p. 56 n. 1. 12 Cfr. B. Horodyski, Birago, miniaturiste des Sforza, in “Scriptorium”, 10 (1956), pp. 251-55.

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mate in ambito sforzesco13. L’identità della mano è dimostrata dalla perfetta somiglianza nella forma e nelle dimensioni degli alberelli di bosso, degli animaletti terrestri e acquatici, delle rocce, del fogliame, delle cime montuose e delle torri sullo sfondo. Tutto, in definitiva, induce a credere che il manoscritto sia stato confezionato in Veneto durante gli ultimi due decenni del secolo XV, se non da Sanvito (di stanza a Roma tra il 1471 e il 1501) da qualcuno che gli era vicino e ne imitava la maniera. Il codice, inoltre, doveva essere arrivato in Germania già nei primissimi anni del Cinquecento, come fa pensare il fatto che la miniatura finale con la metamorfosi di Dafne fece da modello ad una incisione di Hans Suess von Kulmbach per la stampa dei Quatuor libri amorum di Conrad Celtes impressa a Norimberga nel 1502, tanto più che lo stesso incisore tornò a ispirarsi all’altra miniatura con Apollo musico per un’illustrazione della stampa di Augsburg, datata 1507, del poema De gestis Imperatoris Caesaris Friderici Primi di Guntherus Cisterciensis detto Ligurinus14. Ignote sono peraltro le circostanze e le modalità dell’ingresso del manoscritto, durante il XVIII secolo, alla Bibliotheca Augusta15. 3. Il manoscritto contiene – come detto – un canzoniere inedito e sconosciuto per una donna di nome Laura, tutto di un solo autore, estremamente coerente e coordinato dal punto di vista narrativo. Si tratta complessivamente di trentadue rime: trenta sonetti, uno dei quali caudato, un capitolo ternario e un serventese o capitolo quaternario. La presenza di tale genere metrico, poco frequente in canzonieri di questa età, potrebbe spiegarsi anche con la sua appartenenza al repertorio di Leonardo Giustinian. Ecco la successione degli incipit: L’arbor di Apol che le mie tempie honora Vanne, libreto, indizio di el mio core Zeusi, se Laura mia ignuda avesti

13 Cfr. G. Mariani Canova, La miniatura veneta del Rinascimento. 1450-1500, Alfieri, Venezia 1969, pp. 136-40. 14 Cfr. F. Winkler, Die Holzschnitte des Hans Suess von Kulmbach, in “Jahrbuch der Preussischen Kunstsammlungen”, 62 (1941), pp. 15-16; H. Häuser, Apollo im Codex Vindobonensis 93 und in Werken von Konrad Celtis und J. M. Fehr, in “Codices manuscripti”, 3 (1977), pp. 125-29; L. Popp, Neue Erkenntnisse zur Biographie des Hans von Kulmbach, genannt Hans Suess, in “Archiv für Geschichte von Oberfranken”, 62 (1982), pp. 21-36; K. Adel, Die Ode des Konrad Celtis an Hieronimus Haller, in “Codices manuscripti”, 10 (1984), pp. 1-25. 15 Cfr. W. Milde, Apoll und Daphne…: «kam in 18. Jahrundert auf einem nicht näher bekannten Weg nach Wolfenbüttel».

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Chiunque mai vide un sì leggiadro viso Da Iove la natura hebbe virtute Io credo che Amor tolse al sol le chiome Che colpa ne ho se mi costrinze Amore Quando me advien che in voi gli ochi mei giri Vivea in libertà, sciolto dai laci Quel gratïoso e mansüeto sguardo Dolce principio de sì longi affanni (ternario) Che poss’io far se mi ha legato Amore Pensava un cor gentil, un’alma pura Lasso, che in parlar hormai son stanco Quel dolce tempo, mi fe’ dir madonna Quella che con un cenno puol mutarme Pianzi tu, cor, e voi, ochi, pianzete Dove è, madona, la promessa fedde Sia benedecto el zorno, o car madonna (quaternario) Prendi, del cor mio donna anzi regina Felice dono, in segno del mio amore Tal hora suol per dolce tenereza Sì poca fedde regna hormai nel mondo Neptuno, tu che regi le salse onde (son. caudato) Mancheria ogni prestante e divo inzegno Pensa el tuo viver, che ogni cosa passa Quando da voi me parto pianze il core In gemiti, affanni ed in suspiri Verdi panni, vermigli e bianchi, donna Più di me fortunato, o bel libreto Voi, che di Amor provasti le saete Apollo, se ancor vive nel tuo pecto.

Sul piano strutturale è da segnalare che il primo sonetto e l’ultimo sono entrambi rivolti ad Apollo. Il canzoniere si apre difatti con l’invocazione al dio della poesia affinché ispiri il poeta e gli conceda di esaltare adeguatamente le virtù dell’amata: L’arbor di Apol, che le mie tempie honora Con suo bei rami ed aurate fronde, Me induce qui con rime alte e ioconde Cantar le mie fatiche pria che mora. Vegio hor ne i monti rinovar l’aurora E l’anno si rinuova con più abonde E ardente voglie nel mio core, donde Rinoverà la famma a mia signora.

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Regiame dunque Apolo e mi conceda La lira e l’alte Muse il suo favore, Senza cui poco val mio basso inzegno A poter dir quanta virtù e vallore, Quanta belleza è in quel aspecto degno, Che da po’ noi ho dubio che altri el creda.

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Con ricercato effetto di simmetria, la raccolta si chiude tornando a pregare Apollo (e orecchiando l’inizio di Petrarca RVF 34) che salvaguardi l’alloro simbolo di Laura e lo mantenga nel suo attuale stato: Apollo, se ancor vive nel tuo pecto L’amor del tuo pulito e sacro aloro E per l’amato tuo caro thesoro, Ove arse ogni tuo pulso e ogni affecto, Ti prego che, se i’ ho tra gli altri ellecto L’arbor che tanto amasti e hor io honoro, Fa’ che la bela fronde e i crini d’oro Stiano meco in amor saldo e perfecto. E così come sempre i freschi rami Stanno verdi l’estate, autunno e ’l verno, Né temme ira del ciel se Iove tonna, Così el vago mio Lauro in sempiterno Non vesti altro voller né di altra gonna, Né esser piantato in meglior sito brami.

La duplice invocazione stabilisce nel manoscritto una evidente saldatura con le miniature a tutta pagina, entrambe raffiguranti scene del mito di Apollo e Dafne, che funzionalmente racchiudono, dunque, l’intero testo poetico. L’intreccio fra rime e corredo figurativo, con funzione anche narrativa o quanto meno di demarcazione dell’inizio e della fine della storia, richiama analoghe implicazioni presenti nel manoscritto Marciano It. IX 152, contenente una silloge di analoga entità (trentatré rime) di un influente poeta padovano dell’epoca, Nicolò Lelio Cosmico16. La ricerca di una certa circolarità fra esordio e conclusione fa sì anche che al secondo sonetto, rivolto dal poeta al proprio libello perché si rechi dalla donna cui è dedicato e interceda presso di lei (Vanne, libreto, inditio di el mio core) secondo un modulo classicheggiante diffuso nella poesia corti-

16 Cfr. B. Bartolomeo, Un manoscritto quattrocentesco di rime di Niccolò Lelio Cosmico. Il Ms. Marciano it. IX 152, in “Lettere italiane”, 49 (1997), pp. 600-23.

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giana, faccia eco precisamente il terzultimo, che riprende e sviluppa tale motivo (Più di me fortunato, o bel libreto). In base a questa ben studiata dispositio delle rime, il penultimo sonetto (Voi, che di Amor provasti le saete) è volto a raccogliere la comprensione degli altri soggetti all’amore prima del congedo vero e proprio con il ritorno all’invocazione ad Apollo. In mezzo a questa sorta di cornice si snoda una storia d’amore concisa quanto ben congegnata: dieci componimenti (3-13) che danno voce ai lamenti del poeta innamorato fino alla disperazione del finale del tredicesimo ove si affaccia l’eventualità della morte per amore; un sonetto (14) che accoglie l’esplicito proponimento del suicidio da parte dell’amante; una coppia di sonetti (15-16) che rende conto della disponibilità della donna a parlargli e dell’avvenuto colloquio; una nuova coppia in cui il poeta ripiomba nella desolazione per la partenza dell’amata (17-18); un lungo serventese (19) che esprime la gioia per l’apparente contraccambio del proprio sentimento amoroso da parte di lei; una coppia di sonetti sul dono fatto da lui a lei (20-21); poi la serie finale con la nuova disillusione e la rassegnazione al proprio disperato servizio amoroso (22-29). L’architettura del canzoniere priva dell’architrave costituita dalla morte dell’amata si inscrive perfettamente nella tradizione del petrarchismo quattrocentesco inaugurata dalla Bella mano di Giusto de’ Conti. La consistenza della raccoltina e la sua stessa articolazione non sono lontane da quelle del canzonierino in venticinque sonetti, grosso modo coevo, del veneto (forse padovano) Antonio Romanelli17. 4. L’unitarietà del canzoniere è data dal fatto di essere tutto dedicato ad una stessa dama, come dichiara esplicitamente il citato frontespizio (D[OMINAE] LAVR[AE] / CONTINENTISS[IMAE] / FOEM[INAE] /MART[INUS?] DAPHNIPH[I]LOS / EX OBSEQV[IO] / DICAVIT) e ribadiscono alcuni sonetti della serie iniziale che la chiamano, in effetti, Laura, a partire dal terzo: Zeusi, se Laura mia ignuda avesti Veduta come zà le agrigentine, Il corpo santo e le membra divine Mortale non ma angeliche diresti.

17 Cfr. B. Bentivogli, Appunti sui sonetti di Giovanni Antonio Romanello, in Il libro di poesia dal copista al tipografo, a cura di A. Quondam e M. Santagata, Panini, Modena 1989, pp. 117-22.

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Vaghe accoglientie, sguardi saggi e honesti Procedon da i begli ochi e le vicine Gotte spargono rose poi, al confine; Labri che ogni question sciolver son presti, Di bianco avorio è la pulita golla, Il pecto de cristallo, il sen de zigli, Diamanti le pupille che mi occide, Germina il ventre fior’ bianchi e vermigli, Il femur giovenil in tutto ride, Gli delicati piedi al fin me involla.

Il riferimento alla leggenda di Zeusi – che avrebbe ritratto Elena assemblando le parti del corpo di varie donne di Agrigento per ottenere una bellezza perfetta – fa il paio con quello di Petrarca a Policleto (RVF 77) nel circondare di un’aura mitica la raffigurazione dell’amata. Il nome della donna torna ad essere esplicitato nel sesto sonetto: Io credo che Amor tolse al sol le chiome Per far le treze a Laura mia più belle E dal ciel do più degne e chiare stelle Per ornar gli ochi ch’el cor zà impiagome; Ma l’altre membra non so pensar come Fosser create sì legiadre e isnelle, Perché al mondo non è simel a quelle Né da chi han scrito de cotal si sprome. Fu dunque in ciel creata questa dea, Ché tal’ belleze non sa far natura? Dica chi vuol pur di Elenna e Medea; Chi ben vedrà l’angelica figura So che dirà: – egli è el ver, e nol credea, Che mai fu al mondo sì zentil creatura.

Il fatto che l’amata del Dafnifilo sia chiamata genericamente e petrarchescamente Laura si allinea ad una precisa filiera di petrarchisti veneti quattrocenteschi che rivolgono le proprie rime d’amore ad una Laura appunto, dal veneziano Marco Piacentini al padovano Francesco Capodilista; mentre un casato preciso hanno la «novella Laura» dell’istriano Michele Della Vedova, che è la veneziana Laura Rimonda18, e la Laura Loredan cantata dal veronese Giorgio Sommariva. Dei primissimi del Cinquecento sono la sillo18

Cfr. A. Balduino, Rimatori veneti del Quattrocento, Clesp, Padova 1980, pp. 13

e 73.

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ge di rime di Antonio Tebaldeo, Panfilo Sasso e altri poeti per la bella e colta nobildonna veronese Laura Brenzoni Schioppo raccolta nel codice Marciano it. IX 163 e la brillante invenzione prosastica in cui il vicentino Giovanbattista Graziani Garzadori immaginava che Petrarca redivivo componesse un’elegia latina in onore della medesima dama19.

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5. Si trattasse di nome vero o di poetico senhal, nel nostro canzonierino la nominatio dell’amata risulta perfettamente coerente con il frequente petrarcheggiare dell’autore. Si legga, ad esempio, il sonetto 17: – Pianzi tu, cor, e voi, ochi, pianzete E di lacrime bagnate el viso e ’l pecto! Poi che madonna del suo dolce aspecto Ne priva né più vuol che lei vedete, Ochi mei tristi e tu, cor, che farete? – Di pianzer sempre noi habiamo ellecto. – Ed io ad un tempo suspirar l’affecto. Poi che nostro destin cusì permete, Cusì vo’ che fatiam, mixero lasso, E così aquista chi ama cui non credde. – Credder non puol un cor facto di sasso. – Di sasso non, ma ben di poca fedde, Ché mi ha conducto a sì extremmo passo Di pennar sempre e mai sperar mercedde.

Il dialogo fra il poeta e i propri occhi cui dà voce questo componimento imitava ostentatamente il sonetto 84 di Petrarca: – Occhi, piangete: accompagnate il core Che di vostro fallir morte sostene. – Così sempre facciamo; et ne convene Lamentar più l’altrui che ’l nostro errore. – Già prima ebbe per voi l’entrata Amore, Là onde anchor come in suo albergo vène.

19 Cfr. M. Castoldi, Laura Brenzoni Schioppo e il Codice Marciano it. cl. IX 163, in “Studi e problemi di critica testuale”, 46 (1993), pp. 69-101, e Rime per Laura Brenzoni Schioppo (dal Codice Marciano it. cl. IX 163), edizione critica a cura di M. Castoldi, Commissione per i testi di lingua, Bologna 1994; e M. Rodella, «Un libretino anticho nel quale si contengono li versi mandati dal Petrarcha a Madon[n]a Laura». Il ms. Ambrosiano S. P. 44, in “Studi petrarcheschi”, 10 (1993), pp. 229-50.

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– Noi gli aprimmo la via per quella spene Che mosse d’entro da colui che more. – Non son, come a voi par, le ragion’ pari: Ché pur voi foste ne la prima vista Del vostro et del suo mal cotanto avari. – Or questo è quel che più ch’alro n’atrista, ch’e perfetti giudicii son sì rari et d’altrui colpa altrui biasmo s’acquista.

Rispetto alla simmetrica segmentazione del dialogo petrarchesco, quello del quattrocentesco petrarchista, nella disuguaglianza delle battute, risulta meno elegante, ma è nondimeno palese che esso originasse da quel modello. Ancora più interessante, su questa linea, è il sonetto 29: Verdi panni, vermigli e bianchi, donna, Tanto vi adorna e piace, al veder mio, E tanto crese fiamma al bel desio Che più che prima amor non mi abandonna. L’andar legiadro e la zentil personna, L’acorto ragionar, che già vidi io, Fecero a l’alma mia sì dolce invio Di amarve, sì che altro il mio cor non spronna. Penso de vui ben mille volte a l’hora E dico fra me stesso: – questa è quella Che fra tute par donna e l’altre serve –. E però son le voglie mie proterve, Che quanto sete più tra l’altre bella Tanto crese l’ardor ch’el cor mi acora.

Nella fattispecie l’imitazione scaturiva inizialmente dalla celebre canzone petrarchesca che occupa nei Rerum vulgarium fragmenta la stessa posizione 29. Basti rileggere i primi sette versi: Verdi panni, sanguigni, oscuri o persi Non vestì donna unquancho Né d’or capelli in bionda treccia attorse, sì bella com’è questa che mi spoglia d’arbitrio, et dal camin de libertade seco mi tira, sì ch’io non sostegno alcun giogo men grave.

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Significativo della familiarità del poeta quattrocentesco con il Petrarca più divulgato è poi che ai vv. 10-11 dello stesso sonetto («questa è quella / Che fra tute par donna») si scorga sicura memoria dell’inizio della canzone 126 di Petrarca («Chiare, fresche et dolci acque / ove le belle membra pose / colei che sola a me par donna»).

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6. Preso atto del colorito linguistico non incompatibile con una localizzazione in Veneto e della congruenza della confezione con la cultura libraria e artistica veneta, l’origine del canzoniere del Dafnifilo può essere congetturalmente ristretta a Venezia sulla base dell’ambientazione manifestamente lagunare del sonetto 24: Neptuno, tu che regi le salse onde E gonfi e abasi el mar in questi rivi, Che te ho facto io e perché sì te schivi Di acrescer l’aque su per queste sponde? Dove mie voglie puonno esser ioconde, Me fai qui star dolente: ah perché privi Me di veder quei lummi santi e divi? Mandale, priego, pria ch’el sol si asconde. E se di me non curi, almeno ascolta Quanto spiacer che fai ala mia diva E quanto a lei fia grato quel ch’io impetro. Il tempo passa e l’aqua è basa, e indietro Tornando a forza e’ compieta sentiva, Onde a ben far per voi st’alma fu volta. In fine poi con molta Ira, da un canto, le aque biastemai, Da l’altro el ben ch’io feci a voi donai.

Come si vede, il sonetto caudato comincia con una invocazione rivolta al dio del mare, che ha facoltà di far alzare e abbassare il livello dell’acqua nei canali («questi rivi»), affinché mandi l’alta marea prima che faccia sera, in modo che l’innamorato possa, evidentemente, navigare e recarsi a vedere la propria amata. Poi il testo vira verso l’amara constatazione che l’acqua alta non viene («l’aqua è basa»), sicché al suonare di compieta, giungendo ormai l’imbrunire, l’innamorato stesso si vede costretto a tornarsene indietro deluso e arrabbiato, maledicendo le acque. Tale situazione è consona alla fenomenologia delle maree della laguna veneziana, anzi tipica, tanto più se riportata alla fine del Quattrocento e al progressivo interrarsi delle bocche d’ingresso in laguna causato dai detriti portati dal Piave e dal Bren-

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ta, che costrinse il Senato veneziano ad istituire persino un’apposita magistratura20. Per quante ricerche abbia fatto, allo pseudonimo umanistico Mart[inus?] Daphniph[i]los dichiarato dal frontespizio, scopertamente allusivo all’amore per Laura-Dafne, non è stato possibile per il momento fornire alcun riscontro anagrafico. Si potrà tuttavia sottolineare la sua congruità con il gusto di altro celebre antroponimo, Polifilo, protagonista del libro veneziano più celebre del Quattrocento: l’Hypnerotomachia. A parte ciò, l’ambientazione del canzoniere per questa non meglio nota Laura ci porta direttamente nella Venezia degli ultimi anni del secolo XV, sicché la centralità del motivo dafneo e le movenze petrarcheggianti acquistano un certo interesse dal punto di vista della storia della poesia, soprattutto per il fatto di appartenere alla stessa Venezia del giovane Bembo. Non c’è bisogno di dire che il petrarchismo grammaticalizzato del Bembo maturo sarà ben altra cosa, però è un fatto che esso si impiantava sulla pratica diffusa nel Quattrocento di un certo petrarchismo che – giocato più sugli aspetti psicologici e strutturali del canzoniere che su quelli minutamente linguistici e stilistici – era andato affermandosi a partire dalla metà del secolo21; ed è interessante allora poter documentare una tale pratica nello stesso ambiente in cui Bembo si era formato. Del resto, non è certo che egli o suo padre Bernardo abbiano avuto per le mani il più robusto canzoniere d’amore in sonetti, di anonimo veneto, ora manoscritto 159 della Biblioteca di Eton College22; ma è noto che Bernardo fu grande amico di Sanvito23 e allora il riaffiorare di un canzoniere di questa fatta, scritto da un veneziano e copiato nel gusto del raffinato calligrafo, rende più facile intravedere il giovinetto Pietro assimilare, all’ombra del suo primo maestro Giovanni Aurelio Augurelli, quel petrarchismo, per così dire, spontaneo che avrebbe riversato nelle rime giovanili e in quelle dei primi Asolani.

20 Cfr. G. Gullino, Il porto di Venezia, l’Istria e l’infelice fine del “Rivoli” (1812), in “Histria terra”, 5 (2003), pp. 64-65. 21 Si ricordino le osservazioni di Santagata in M. Santagata – S. Carrai, La lirica di corte nell’Italia del Quattrocento, Franco Angeli, Milano 1993, pp. 11-39. 22 Cfr. M. Danzi, La biblioteca del cardinal Pietro Bembo, Droz, Genève 2005, p. 355. 23 Cfr. N. Giannetto, Bernardo Bembo umanista e politico veneziano, Olschki, Firenze 1985, pp. 102-4.

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H. Wayne Storey

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CANZONIERE E PETRARCHISMO: UN PARADIGMA DI ORIENTAMENTO FORMALE E MATERIALE

Se lo sviluppo tematico-linguistico delle tendenze letterarie che chiamiamo Petrarchismo si considera ricco e variegato, il campo del petrarchismo “materiale” – ossia il sistema di rapporti che intercorrono e interconnettono la produzione, la distribuzione e il consumo dei materiali petrarcheschi e petrarchisti – può presentarsi, nel suo punto d’impatto culturale, tanto come un fenomeno tipologicamente circoscritto e cronologicamente condensato in un arco di tempo ridotto (si pensi, ad esempio, alla dispersione – coincidente con la realizzazione del codice Segniano 1 nella prima metà del Quattrocento – dell’eredità materiale petrarchesca tramandata ai suoi lettori dall’autografo dei Rerum vulgarium fragmenta), quanto come un fenomeno di straordinaria ed esponenziale complessità, produttivo a più livelli, e con scopi culturali diversificati, su tutti la concorrenza editoriale della prima metà del Cinquecento e la “critica delle forme”; quest’ultima, nata già fra i copisti del tardo Trecento, è più che mai vitale nelle edizioni di Bembo (1501) e di Vellutello (1525-1550), al punto tale da suggerire una sorta di separazione tra il Petrarca materialmente medievale o proto-umanista e il Petrarca poeta-icona del Petrarchismo, obiettivo e pretesto di un nuovo commentario più culturale che poetico. Sul piano pratico, questa bipartizione si manifesta, tuttavia, in chiave mescidata e imperfetta, con variazioni legate da una parte alle coordinate geografiche del fenomeno, dall’altra alle varie impostazioni della stampa (che è processo sempre idealmente vincolato dalla presenza ab origine di un oggetto manoscritto a cui rapportarsi fattivamente o da cui prendere le distanze), con traiettorie di espansione che vanno da Padova a Lione, da Firenze e Napoli a Basilea, e comunque sempre – benché secondo dinamiche

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non unidirezionali, né omogenee – a Venezia1. Non si tratta qui solo della storia della diffusione di Petrarca, quanto piuttosto del rapporto fra una rete di fattori poetico-editoriali e la ricezione di un modello, che si riflette nel variegato insieme di gusti personali e culto collettivo, idealismo artistico e pragmatismo editoriale, accomunati dall’identica matrice petrarchesca. Rintracciare i meccanismi del Petrarchismo materiale significa dunque studiare quei filtri estetici, storici e culturali che riflettono e determinano nuove impostazioni interpretative, estendendosi dalle più facilmente reperibili riprese grafico-strutturali dell’autografo dei Fragmenta nell’edizione Valdezoco (1472), alle ben più sotterranee implicazioni petrarchesche sottese alla traduzione della Vita Nuova da parte di Dante Gabriel Rossetti (1861)2, marcatore emblematico di un dantismo inglese inusitatamente petrarcheggiante. All’interno di precisi reticoli spazio-temporali, peraltro determinabili con una certa chiarezza cronotopica, emergono varie tendenze della cosiddetta “materializzazione” di Petrarca, in opere tra loro anche molto diverse, ma sempre e comunque testimonianze di un particolare stadio della metamorfosi ricettiva e rielaborativa sia della forma-canzoniere che del Canzoniere stesso. Il Canzoniere petrarchesco nella sua forma materiale di primo Quattrocento è un testo ben lontano dai Fragmenta «script[a] ipsa manu decti Poete» (cod. Laur. Segniano 1, c. 1r), frase chiave che assume con Aldo Romano risvolti materialmente ironici nella dichiarazione che «egli [= questo libro] è tolto dallo scritto di mano medesima del Poeta»3, ma allo stesso tempo è sempre più vicino al Testo (con T maiuscola) che leggiamo oggi. E si tratta di un Testo così integrato e assorbito nelle sue forme materiali dall’esperienza collettiva del lettore – rinascimentale, moderno e contemporaneo – da rendere ancora curiosi, se non addirittura anacronistici, gli sforzi grafico-poetici accanitamente perseguiti da Petrarca nel codice degli abbozzi e nell’autografo del Canzoniere, alla ricerca di un’integrazione di forme e contenuti 1 Si nota, con J. Balsamo (Pétrarque: un livre, un modèle, un mythe, in Les Poètes français de la Renaissance et Pétrarque, a cura di J. Balsamo, Genève, Droz, 2004, pp, 1332), l’importanza dell’editoria nella complessa figura culturale di Petrarca nel Rinascimento («La présence du poète et la place de son oeuvre dans la culture de la Renaissance se vérifient comme un phénomène éditorial […]», p. 15). 2 Sia negli Early Italian Poets from Ciullo d’Alcamo to Dante Alighieri (1100-12001300) in the original metres, together with Dante’s Vita nuova (Londra, Simpkin; New York: Charles Scribner’s Sons, 1861) sia nelle Notes on the Vita nuova and Minor poems of Dante: together with The new life, and many of the poems (New York, J. Miller, 1866), Rossetti dimostra tendenze petrarcheggianti nelle traduzioni di Dante. 3 La dichiarazione risale alle prime righe di “Aldo a gli lettori” (B1) dell’edizione del 1501 curata da Pietro Bembo, Le cose volgari di messer Francesco Petrarcha.

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perfetta e definitiva. In quest’ottica, il fatto che i petrarchisti francesi abbiano preso come punto di partenza il modello-canzoniere come libro glossato, rimanendovi fedeli nonostante tutte le trasformazioni del genere, suggerisce la vitalità non del modello petrarchesco globale, ma del modello petrarchesco locale, nel senso di localmente recepito e reinterpretato, una specie cioè di “recipiente materiale” aperto a sperimentazioni e cambiamenti, nel quale la presenza petrarchesca si riduce a tracce storicamente evanescenti, fino a diventare quasi un semplice palinsesto. Per evitare la ramificazione dispersiva di un’indagine panoramica generale e generalizzante sull’interpretazione grafica di Petrarca e del Petrarchismo, vorrei concentrare l’analisi su alcuni esempi paradigmatici di quella vera e propria esegesi formale sperimentata nei secoli dai Rerum vulgarium fragmenta, con qualche incursione nel problema delle modalità materiali di costituzione e trasmissione dei Triumphi, ben diverse ma – come sappiamo – spesso legate alla fortuna del Canzoniere4. Procedendo a ritroso dal dibattito cinquecentesco sulle strutture principali del Canzoniere (cioè la divisione fra le rime “in vita” e le rime “in morte” di Laura) alla tradizione manoscritta della fine del Trecento e della prima metà del Quattrocento, è possibile fissare il punto d’origine e, in certa misura, la traiettoria di un primo e consapevole Petrarchismo materiale, quello concernente i meccanismi di produzione preposti alla conservazione (o meno) del Canzoniere di Petrarca in quanto documento integro, da salvaguardare nelle sue forme materiali originali dagli usi sempre più standardizzanti dei copisti dell’epoca. Si risale, quindi, all’autografo stesso, il codice Vaticano Latino 3195, contenitore di strategie grafico-visive ben precise e di scelte non di rado innovative rispetto alla tradizione del repertorio lirico e alla mise en page dei generi, copia personale del poeta e da questi attentamente impostata in base ad una logica organizzativo-estetica che attribuisce valore funzionale a tutte le componenti dello “spazio-testo” e dello “spaziolibro”; sicché proprio la gestione dello spazio della carta e dello specchio di scrittura rappresentano due fattori di costruzione-ricezione-trasmissione del

4 Per un inquadramento della fortuna dei RVF e dei Trionfi si vedano in particolare i contributi di G. Guerrini, Per uno studio sulla diffusione manoscritta dei “Trionfi” di Petrarca nella Roma del XV secolo, in La Rassegna della Letteratura Italiana, 86 (1982), pp. 85-97; Id., Il sistema di comunicazione di un “corpus” di manoscritti quattrocenteschi: i “Trionfi” del Petrarca, in Scrittura e Civiltà 10 (1986), pp. 123-97; e Id., Per un’ipotesi di petrarchismo “popolare”: “vulgo errante” e codici dei ‘Trionfi” nel Quattrocento, in Accadmie e Biblioteche d’Italia, 54, num. 4 (1986), pp. 12-33.

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Testo petrarchesco particolarmente instabile perché soggetto all’interpretazione dei copisti5. Si consideri il caso della canz. CCLXIV I’ vo pensando e nel penser m’assale, o meglio, dello spazio frapposto, nell’autografo, tra il son. CCLXIII Arbor victoriosa triumphale e la sopracitata canzone. Le tracce di un richiamo indicante «I uo pensando», scoperte recentemente con l’ausilio della luce ultravioletta sul margine inferiore di c. 52v, sembrano rivelare la presenza di una mano – posteriore a quella di Petrarca, ma attiva prima della legatura del prezioso volume – impegnata a gestire lo spazio (pari ad un bifoglio e mezzo) lasciato in bianco fra i due componimenti6. Già nell’anteriore trascrizione del “fragmentorum liber” nel cod. Chigiano L. V. 176, il copista Boccaccio segnala il passaggio dal son. Passa la nave mia colma d’obblio (c. 72r) alla canzone I’ vo pensando (c. 73r), interponendo una facciata in bianco, cioè la c. 72v, senza tuttavia distinguere – come si dimostra abituato a fare a livello grafico nel caso, ad esempio, della Vita Nova – l’iniziale “I” della canzone come partizione programmatica fra i due componimenti7. Ora,

5 Si vedano particolarmente i saggi di F. Brugnolo, Libro d’autore e forma-canzoniere: implicazioni grafico visive nell’originale dei ‘Rerum vulgarium fragmenta’, e di H. Wayne Storey, All’interno della poetica grafico-visiva di Petrarca, in Commentario all’edizione in fac-simile, Rerum vulgarium fragmenta, Codice Vaticano Latino 3195, a cura di G. Belloni, F. Brugnolo, H.W. Storey e S. Zamponi, Roma-Padova, Antenore, 2004, rispettivamente alle pp. 105-29 e pp. 131-71. 6 Si veda H.W. Storey, L’edizione diplomatica di Ettore Modigliani, in Commentario all’edizione in fac-simile, cit., 2004, pp. 385-92, a p. 391. Che il responsabile del richiamo e della legatura originale del codice non abbia tolto il bifoglio inutile, cioè le cc. 50-51, suggerisce una conservazione materiale che mancava alla mano quattrocentesca dell’explicit, ormai abraso, a c. 49v («Francisci petrarce expliciu(n)t soneta de Vita amaxie sue. Amen et deo gratias Vn bel morir tuta la uita honora»), che avrebbe segnalato la chiusura definitiva della “prima parte”, in vita, del codice senza valutare le carte vuote (da c. 49v a c. 52v). 7 La “I” di I’ vo pensando a c. 73r della copia boccacciana riprende perfettamente le misure e l’uso di tutte le altre iniziali di capoverso (cfr. ad es. la “I” della canz. In quella parte dove Amor mi sprona, a c. 63v) tranne la “V” di Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono, a c. 44r, un incipit, fra l’altro, che segue subito – e senza spazi intermedi – l’explicit a c. 43v delle canzoni distese di Dante. Nel caso delle sue trascrizioni della Vita Nova, sia nel cod. Chigiano che nella redazione del cod. Toledano, Boccaccio non esita a mettere in risalto con l’iniziale “Q” ingrandita di “Quomodo sedet sola”, la propria interpretazione di una divisione testuale fra la canzone interrotta, Sì lungiamente, e la citazione delle Lamentazioni di Geremia (vd. H.W. Storey, Di libello in libro: problemi materiali nella poetica di Monte Andrea e Dante, in Da Guido Guinizzelli a Dante: Nuove prospettive sulla lirica del Duecento, a cura di F. Brugnolo e G. Peron, Padova, Il Poligrafo, 2004, pp. 271-90 [pp. 284-90]).

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il bifoglio e mezzo in bianco dell’autografo tra il son. Arbor victoriosa e la canz. I’ vo pensando, non scompare, ma si riduce ad una carta e tre quarti nel cod. Laurenziano 41.10 (ascrivibile al primo Quattrocento), rimpicciolendosi ancor più e finendo col corrispondere a sole quattro righe vuote nel posteriore cod. Laurenziano Segniano 1 (c. 36v)8; nell’edizione Valdezoco esso viene invece interpretativamente sostituito dalla transizione in titoli «FINIT VITA AMORIS» / «INCIPIT DE MORTE AMORIS», anche perché nello specifico di questa edizione lo spazio bianco sembra fungere meno da punteggiatura e più da strumento di estetica polifunzionale9. Che tale spazio editoriale dell’o8 Oltre alle recenti osservazioni di Gino Belloni (Nota sulla storia del Vat. Lat. 3195, in Commentario all’edizione in fac-simile, cit., 2004, pp. 73-104 [pp. 80-87]), si vedano i due pareri principali sull’importanza del cod. Laurenziano 41.10 negli studi di Marco Vattasso (Introduzione a L’originale del Canzoniere di Francesco Petrarca, codice Vaticano Latino 3195, Milano: Eliocromia Fumagalli and Co., 1905, pp. xxiv-xxv), che lo ritiene di fabricazione anteriore alla morte del poeta e «fatto probabilmente in casa dello stesso Petrarca» (xxiv), e in quelli di Albinia de la Mare (Cosimo and His Books, in Cosimo “il vecchio” de’ Medici, 1389-1464. Essays in Commemoratin of the 600th Anniversary of Cosimo de’ Medici’s Birth including Papers Delivered at the Society for Renaissance Studies Sexcentenary Symposium at the Warburg Institute, London, May 1989, a cura di F. Ames-Lewis, Oxford, Clarendon Press, 1992, pp. 115-56 [p. 150]), la quale, basandosi sulla mano prettamente umanistica, lo data fra la fine del Trecento e i primi del Quattrocento. Per Laurenziano Segniano 1, rimando a Vattasso, Introduzione, cit. 1905, pp. xxii-xxiii, e al mio All’interno, cit. 2004, pp. 143-50. 9 Risulta ancora da indagare sistematicamente l’uso dello spazio tipografico nel passaggio dall’autografo all’ed. Valdezoco. In breve, notiamo che il tipografo segue due regole fondamentali e piuttosto fisse. La prima riguarda la conversione di quella che possiamo chiamare l’estetica canonica e basilare della facciata petrarchesca, cioè la stesura di quattro sonetti in uno specchio di scrittura di trentuno righe, con ogni sonetto disposto su sette righe di trascrizione con una riga vuota di separazione fra un sonetto e il successivo (7+1+7+1+7+1+7). In questo caso, Valdezoco stabilisce un’estetica simile, sviluppata tra il verso di una carta e il recto della successiva, e ottenuta disponendo su ogni carta due sonetti, organizzati in quartine e terzine (eccezion fatta per c. 104r [In quel bel uiso chi sospiro & bramo, v. 5]) e trascritti ad un verso per riga, e due righe vuote di separazione fra i due sonetti della carta (14+2+14), allo scopo di creare uno specchio di scrittura di 30 righe (per cui si notino le tipiche cc. 26v–27r). Oltre a questa prima “regola” di 30 righe per pagina, una seconda “regola” prevede che il genere-sonetto venga stampato per intero e che il quattordicesimo verso combaci con l’ultima riga dello specchio di scrittura (che, di norma, è la trentesima); è per questo motivo che il tipografo lascia vuote 13 righe fra l’ultimo verso di Giouene donna sotto un uerde lauro e il capoverso di Questa anima gentile che si diparte a c. 22v (3+13+14). La regola viene applicata più volte con spazi diversi (si pensi, ad es., alle otto righe lasciate in bianco dopo Noua angeletta soura lale accorta per fare combaciare la fine del son. Non ueggio oue scampar mi possa omai e la trentesima riga di c. 52v; uso analogo anche alle cc. 71v, 90r e 99v). Questa norma editoriale è così ferrea che il tipografo aggiunge anche la trentunesima riga allo specchio di scrittura in modo da concludere un

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riginale sia trasformato in una rubrica piuttosto anomala del codice quattrocentesco Beinecke M 706 della Yale University, per cui il copista probabil-

genere breve in accordo con i confini materiali della pagina stessa, come nel caso delle cc. 57v–58r, dove riduce ad una riga vuota lo spazio fra i componimenti per riportare Dicesette anni a gia riuolto il cielo in testa a c. 58r (così anche a c. 141v, Dicemi spesso il mio fidato speglio), o per iniziare un nuovo sonetto sulla carta successiva (si vedano le cc. 107v–108r). È il genere metrico, infatti, a regolare lo specchio di scrittura; ne sono prova le carte che riportano anche meno di 30 righe totali, come c. 33r, con solo 28 righe stampate per ristabilire a c. 33v l’estetica di due sonetti su ogni facciata. Il caso limite è uno specchio di scrittura di 31 righe, come effettivamente risulta nella “trasgressione” messa in atto alle cc. 34r–34v, causata dai 17 vv. della ballata mezzana Perche che q(ue)l che mi trasse ad amar prima, i quali lasciano al tipografo solo 13 righe per soli 13 versi del son. Larbor gentil che forte a mai moltanni, costringendolo a riportare il quattordicesimo verso all’inizio della carta successiva (c. 34v), dove andranno poi stampati i consueti due sonetti, in questo caso, ovviamente, senza una riga di separazione (tra il v. 14 del primo: «Tal che si secchi ogni sua foglia uerde» e l’incipit del successivo: Beneditto sial giorno el mese & lanno). Ancora più spesso vengono lasciati spazi variabili per far collimare l’inizio del sonetto con l’inizio della carta (come per c. 69r, dove vengono lasciate vuote 8 righe dopo la conclusione di Qual piu diuersa & noua affinché si presenti intero a c. 69v il son. Fiamma dal ciel sulle tue trecce pioua [uso riscontrato anche a c. 132r–132v]; alle cc. 91v – 92v, con il passaggio dal son. Gratie cha pochi il ciel largo destina alla sestina Anzi tre di creata era Alma in parte, si ha invece uno spazio vuoto di 7 righe, in modo tale che la conclusione della sestina a c. 92r, cada sulla trentesima riga dello specchio di scrittura e la c. 92v cominci con il son. In nobil sangue. uita humile & queta [una conferma in questo senso viene dalle cc. 44r–45r]). Errori tipografici di impostazione dello specchio di scrittura risalgono generalmente ad uno spazio divisorio di tre righe e, nei casi delle cc. 100r, 100v, 102r, 102v e 105r (rispettivamente nelle zone di Fresco.ombroso.fiorito & uerde colle e Il mal mi preme & mi spauenta il peggio, Qual paura o quando mi torna a mente e Solea lontana in so(n)no consolarme, e O Misera & horribil uisione e In dubbio di mio stato. or piango or ca(n)to, e Qual donna attende a gloriosa fama e Cara la uita.& dopo lei mi pare), dipendono probabilmente dalla piegatura del fascicolo nella sua fase di preparazione. Resta ancora da chiarire la funzione dello spazio anomalo di tre righe vuote (e specchio di scrittura di 31 righe) fra Lasso ben so che dolorose prede e Cesare poi chel traditor degitto a c. 50r, in quanto il sonetto rappresenta, sia per l’autografo (Vat. Lat. 3195, c. 22r) che per diverse tradizioni manoscritte (compresi i codd. Vaticano Chigiano L. VIII. 305, c. 120r, Morgan Ms. M. 502, c. 18r, e Ambrosiano N. 95 sup., c. 239v [sonn. 102-103]), il primo di un raggruppamento di tre sonetti (i sonn. 102-104) intesi a mettere in risalto la canzone-manifesto Mai non vo’ più cantar com’io soleva [cfr. Storey, Transcription, cit. 1993, pp. 395-96]. Benché all’interno delle cc. 58v–66r l’aumento progressivo degli spazi divisorii nelle pagine delle canzoni num. 125–129 (con passaggio da una riga vuota fra l’explicit di Sel pensier che mi strugge e l’inizio di Chiare fresche & dolci acque, c. 60r, alle 3 righe divisorie fra le canz. 126 e 127 di c. 61r, alle 5 righe fra le canz. 127 e 128 di c. 63r, fino alle 6 righe vuote che separano le canz. 128 e 129 a c. 65r) non rispecchi nessun criterio grafico-visivo dell’esemplare ideografico, gli estremi della costellazione di canzoni (genere graficamente flessibile per quanto riguarda la sua stesura su più facciate) nell’ed.

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mente segnalava da un’annotazione del suo antigrafo anziché dall’osservazione diretta delle “quattro carte vuote” che precedono la canzone nell’autografo, riprende da un lato una delle dimensioni materiali più problematiche dell’autografo petrarchesco e della prima diffusione dei Fragmenta insieme con la tipica “garanzia” dell’autorità petrarchesca, cioè lo spazio-marcatore per la possibile aggiunta di poesie oltre al sonetto Arbor victoriosa et triumphale10; dall’altro, la rubrica reitera, sia nella sua riduzione materiale che nella forma-rubrica paratestuale, l’ossificazione quattrocentesca della divisio recepta fra le due parti, ignorando l’uso di Petrarca – rispecchiato, fra l’altro, nella pratica usuale di spazi bianchi vacanti da riempire successivamente con aggiunte (come nel caso del cod. Laurenziano 41.17, e pure nei rimandi dello spazio dell’autografo, a c. 36r, dove Petrarca stesso inserisce Geri, quando talor meco s’adira, e a c. 70r, le cui nove rettrici – ancora vuote dopo la stesura di Quel’antiquo mio dolce empio signore (cc. 69v-70r) e i quattro sonetti della c. 70v – vengono parzialmente riempite dalle sette righe di trascrizione del sonetto Dicemi spesso il mio fidato speglio, a cc. 49v-52v, che risultano rigate e ancora vuote)11. La traiettoria material-inter-

Valdezoco corrispondono alla “chiusura grafica” dell’originale, per cui Se ’l pensier inizia la facciata nuova di c. 26v del Vat. Lat. 3195 (con specchio di scrittura che, in questa sezione del codice, prevede con un certo rigore 31 righe), e Di pensier in pensier chiude la c. 29v dell’autografo (la quale consta solo di 28 righe di trascrizione, in modo da ricostituire, a c. 30r, l’estetica canonica di quattro sonetti interi per facciata). Del tutto particolare, invece, è la disposizione grafico-metrica delle stanze di Quando il soaue mio fido conforto, a c. 138r, un unicum grafico – se vedo bene – tra i Fragmenta di Valdezoco, della quale il tipografo rende la prima strofa in periodi sintattici di due quartine e una terzina, un sistema abbandonato già per la seconda strofa, strutturata in tre terzine e un raggruppamento di due versi nella solita rima baciata con cui si concludono le stanze di Quando il soaue mio fido conforto («Che piacer ti deuria.se tu mamasti // Quanto insembianti & ne tuoi dir mostrasti.»); poi figurano i primi otto versi della terza strofa in forma di due quartine, per riprendere infine la presentazione tipica della strofa intera di 11 versi solo sul verso di c. 138. 10 Ringrazio Dario Del Puppo per avermi segnalato la rubrica di questo codice, contenente i Rerum vulgarium fragmenta, i Trionfi e l’Africa, ascrivibile alla prima metà del Quattrocento e probabilmente copiato da un antigrafo esemplato a Verona, nel tardo Trecento (datato 1393): «Que sequuntur post mortem domine Lauree scripta sunt. Ita N. proprio codice domini francisci annotatum est et carte quatuor pretermisse uacue» (c. 107r). Viste le incertezze della descrizione eseguita in situ dalla Beinecke Library, si aspetta un accurato studio del codice da parte di D. Del Puppo. 11 Per nuove analisi dei materiali del cod. Laurenziano 41.17 e del Vaticano lat. 3195, rimando al saggio di H.W. Storey e R. Capelli, Modalità di ordinamento materiale tra Guittone e Petrarca, in Liber, fragmenta, libellus prima e dopo Petrarca. Atti del Seminario Internazionale di Bergamo (23-25 ottobre 2003), a cura di C. Villa e L.C. Rossi, i.c.s., e al mio All’interno della poetica grafico-visiva di Petrarca, cit., 2004, pp. 143-63.

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pretativa che si riscontra nel passaggio dall’autografo alle edizioni di Valdezoco e Bembo, mostra una tendenza alla stabilizzazione – se non addirittura alla “fissità” – dello status di icona-Testo e dell’autorità editoriale della copia/edizione rafforzata dal commento e da apparati biografico-critici (per cui si ricordi la rubrica del cod. Segniano 1: «Scripto ipsa manu decti Poete»), di un Testo sempre più definitivo e sempre più leggibile nella sua nuova veste culturale. Va detto che la stessa mise en page del genere-canzone nei Fragmenta soggiace a criteri diversi e diversamente orientati: la preferenza di Petrarca cade sulla disposizione del testo a due versi per riga, eventualmente tre versi per riga quando si tratti di mettere in rilievo sequenze metriche costituite principalmente da settenari (come nel caso della canz. CXXV Se ’l pensier che mi strugge e della canz. CXXVI Chiare fresche e dolci acque)12. Tale disposizione dei versi “incolonnati” e/o “accoppiati” su una stessa riga (peraltro debitrice dell’impostazione petrarchesca del genere-sonetto) si consolida in vari codici del Tre- e del Quattrocento, al punto da far perdere l’oscillazione tra righe di due o tre versi nella trascrizione di canzoni quali CCVI S’i’ ’l dissi mai, ch’i’ vegna in odio a quella e CCVII Ben mi credea passar mio tempo omai13. Unica e isolata s’impone, invece, la mise en page della sopracitata canz. CCCLVI Quel’antiquo mio dolce empio signore, copiata dallo stesso Petrarca a tre versi per riga, con l’evidente scopo di economizzare il poco spazio bianco rimastogli a disposizione alle cc. 69v-70r, entro cioè il binione destinato ad essere collocato fisicamente davanti all’ultimo componimento del libro, la canz. CCCLXVI Vergine bella, che di sol vestita, quest’ultima iniziante sul verso di c. 7114. Di fronte all’anomalia grafica di questa martellante disposizione ternaria dei versi su una riga di trascrizione, dettata dalla necessità materiale di compattare unitariamente la canzone e i cinque sonetti seguenti nei limiti fisici del binione-inserto15, la reazione della tradizione manoscritta successiva si biforca: i copisti dei codd. Laurenziano 41.17 e Laurenziano 41.10 si adeguano al modello, riportando

12

Storey, All’interno, cit., 2004, pp. 160-71. Vd. Storey, All’interno, cit., 2004, pp. 164-71. 14 Rimando ai miei studi sulla “materialità” delle cc. 67-70 dell’autografo in All’interno, cit. 2004, pp. 160-171 e in Transcription and Visual Poetics in the Early Italian Lyric, New York, Garland, 1993, pp. 377-89. 15 Uno scarto alla “regola” assai simile avviene nel caso dell’inserimento del madrigale Or, vedi Amor sulla rasura della ball. Donna mi vene a c. 26r dell’autografo, che costringe il poeta ad adoperare un componimento di genere breve (trascrivibile in sei anziché sette righe). 13

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fedelmente l’eccezionale mise en page16; diversamente, gli amanuensi dei codd. Segniano 1 e Morgan M. 502 – nel complesso predisposti se non dediti (come nel caso del copista del Morgan) alla standardizzazione della “regola” petrarchesca – re-impongono una disposizione binaria che, in un certo senso, “restaura” la poetica grafico-visiva del poeta, costretto alla reductio formae da ben precisi parametri materiali (l’unità-binione da usare come inserto) non più vincolanti nelle due copie laurenziane. Questa stessa temeraria ma, al tempo stesso, non azzardata applicazione – per esempio, da parte del copista di Segni 1 – di un’iconica regolarità di trascrizione estesa a tutti i generi del Canzoniere coinvolge pure le sestine, la cui mise en page prevede, anziché un solo verso, una coppia di versi per riga e la “lettura orizzontale” al contrario della strategia petrarchesca. L’iper-petrarchismo grafico di questo codice quattrocentesco rasenta il feticismo conservativo quando il copista registra con religiosa attenzione persino le sporadiche occorrenze, autenticamente petrarchesche, del maiuscolo a metà verso, come nel caso, ad esempio, di «I» maiuscola al v. 13 del son. 243 Fresco, ombroso, fiorito et verde colle: «Tu paradiso.I senza cor un sasso» (cod. Vat. Lat. 3195, c.46v ~ cod. Segni 1, c. 37r]), o della «A» di «Ai crudel» al v. 4 della ball. 324 Amor quando fioria: «Ai dispietata morte/ Ai crudel vita.» (cod. Vat. Lat. 3195, c. 63r ~ cod. Segniano 1, c. 50r). Di segno opposto sarà, invece, l’atteggiamento del copista del cod. Riccardiano 1088 che, in una nota che interrompe letteralmente lo spazio dello specchio di scrittura e divide il macrotesto in due disposizioni diverse, dichiara il proprio dissenso professionale verso gli usi grafici di Petrarca riprodotti dall’esemplare di copia in suo possesso, giustificando quindi la propria scelta a favore di un’impostazione più semplice e comprensibile [c. 27r]: Non mi piace di più seguire di scrivere nel modo che ò tenuto da quinci a dietro cioè di passare da l’uno colonnello a l’altro. Ançi intendo di seguire giù per lo cholonnello tanto che si copia la chançone o sonetto che sia.

16 Si nota però che la mano del cod. Laur. 41.17 che trascrive la canzone alle cc. 68r e 68v stenta a seguire la disposizione dell’antigrafo vicinissimo al modello graficamente compromesso dell’autografo (cc. 69v-70r). Mentre gli altri componimenti aggiunti dalla seconda mano, particolarmente le undici rime dal son. [L]i angeli electi (c. 66r) al son. [I] vo piangendo (c. 67r), mostrano un ductus molto più posato, la trascrizione della canz. [Q]uel antiquo palesa le difficoltà di una copia penalizzata dai limiti della mise en page prestabilita a cui il copista cerca di essere fedele.

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In maniera meno plateale, ma sulla stessa linea del collega di Segniano 1, lo scriba del cod. Laurenziano 41.10, manoscritto nel complesso singolarmente attento alle formule grafiche di Petrarca, traccia linee-guida extratestuali dalla fine della colonna sinistra in fondo alla carta all’inizio della colonna destra in modo da indicare, nel caso della sestina, la lettura verticale, e insolita nella disposizione del codice, anziché orizzontale17. Tali interventi paratestuali da parte dei copisti del Laurenziano 41.10 e del Segniano 1 suggeriscono sensibilità non alla disposizione orrizontale (forse culturalmente scomoda all’altezza del primo Quattrocento), bensì al cambiamento di impostazione all’interno del codice (che corrode una spiccata tendenza verso la standardizzazione di sistemi di trascrizione). Da questa fin troppo rapida e sommaria carellata di casi esemplari, mi sembra tuttavia che emergano le tendenze portanti di una diffusione del Canzoniere multiforme già nella prima metà del Quattrocento, ormai inestricabilmente legata alla variabile di copia e alle scelte “editoriali” dei vari copisti, siano esse frutto di adattamenti (o fraintendimenti) “di comodo” del singolo amanuense o il riflesso di una nuova esigenza socio-culturale dettata dalla committenza e, dunque, tesa al compromesso fra testo reale e materiale (quello di Petrarca) e Testo ideale (quello del lettore/collezionista delle “cose volgari” di Petrarca). D’altra parte, i cinquantacinque anni che vanno dall’edizione di Vindelino da Spira (1470) alle prime edizioni di Alessandro Vellutello (1525, 1528) e di Giovanni Andrea Gesualdo (1530) rappresentano una svolta definitiva nella costruzione di un “nuovo” Petrarca18, l’icona del Petrarchismo materiale e del Petrarchismo in senso stretto risultante da quell’apparato didattico al Testo petrarchesco ormai inseparabile dall’edizione del Canzoniere. Già il sempre più canonico accostamento nei codici quattrocenteschi di Canzoniere e Triumphi sottintende un disegno critico-culturale estraneo a quello petrarchesco, rafforzato esplicitamente dal crescente uso di corredi/commenti paratestuali (su tutti l’aggiunta della Vita del Poeta), che preludono agli esiti normalizzati dalle prime edizioni a stampa del Petrarca volgare: così, l’ed. Valdezoco del 1472, non solo include l’immancabile Vita

17 Vd. la Fig. 6.6, in Storey, Transcription, 1993, cit., p. 248, che riporta la riproduzione della c. 14r del cod. Laurenziano 41.10 (L’aere gravato). 18 Si vedano gli studi di G. Belloni in Laura tra Petrarca e Bembo, Padova, Antenore, 1992 (partic. la preparazione dell’ed. Gesualdo, pp. 197-200) e di Horatio F. Brown in The Venetian Printing Press 1469-1800, Londra, J.C. Nimmo, 1891 (rist. Amsterdam, Gérard Th. van Heusden, 1969), saggio ancora valido per l’analisi, ad es., del rapporto fra i caratteri di stampa di Aldo Romano e il formato dei libri aldini nell’ “economia editoriale” delle edizioni del Canzoniere da Vindelino da Spira all’aldina del 1501 (p. 33).

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e due sonetti dedicatorii, ma addirittura prevede pagine con ampi margini bianchi, atti ad ospitare registrazioni personali e osservazioni del lettore oltre che eventuali marcatori di (ri)ordinamento interno, spia eloquente di uno status del Testo percepito ancora come provvisorio e aperto ai cambiamenti. Questo vero e proprio invito all’allestimento personale tipico delle prime stampe dei Fragmenta produrrà, negli anni seguenti, edizioni con apparati sempre più ricchi e densi, segnando il trapasso dalla committenza d’élite del prodotto manoscritto, al più vasto pubblico di lettori/proprietari di un libro a stampa “standard”19, nel quale l’espressione del gusto personale non è più riflesso a livello macro-strutturale di allestimento preliminare di una raccolta personalmente orientata, ma relegato ad interventi micro-strutturali posteriori, sovrapposti al prodotto compiuto (come, ad esempio, la frequente censura tramite depennazione dei sonetti antiavignonesi). Bisogna comunque tenere presente che dal Petrarca di Valdezoco all’Aldina preparata da Bembo vige sempre una notevole fedeltà testuale al Testo petrarchesco, nella prima un’attenzione al recupero “filologicamente” corretto che nell’edizione del 1472 arriva persino a rispettare l’uso originale del maiuscoletto dopo il versale, e che in entrambe le edizioni testimonia dello sforzo editoriale sotteso al raggiungimento di un valido compromesso fra i meccanismi della stampa e le strategie originali del poeta, fra la lezione, per così dire, “autentica” e quella “elegante”, secondo i canoni linguistici del tardo Quattrocento. L’applicazione – progressivamente “aggiornata” ai mezzi di stampa e ai gusti del tempo – di questo criterio editoriale produce, ad esempio, semplici micro-variazioni interne al testo (come la resa di RVF, mad. 121, v. 1 con: «oR uedi amor» dell’ed. Valdezoco, ma: «Hor uedi amor» nell’ed. Bembo), oppure, macro-variazioni a livello di organizzazione dell’intera raccolta poetica (tra cui la standardizzazione della mise en page dei componimenti, e la reinterpretazione delle divisioni prosodiche all’interno dei generi). La spia forse più convincente di questa cercata fusione armonica fra lezione originale e testo personalizzato, si trova nel secondo sonetto dedicatorio alla fine dell’ed. Valdezoco, nel quale l’autore – tanto l’Augurello quanto il Cosmico20 – affida l’esperienza poetico-amorosa petrarchesca

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Brown, Venetian Printing Press, pp. 33-35. Gino Belloni (Francesco Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta, anastatica dell’edizione Valdezoco, Padova, 1472, Venezia, Marsilio, 2001, pp. xli-xlix) riprende la questione dell’attribuzione dei due sonetti che chiudono l’ed. Valdezoco a c. 187v (Si drento dil mio Cor depinto porto e O felice auctor secunda fama), proponendo – diversamente da G. Folena (Filologia testuale e storia linguistica in Studi e problemi di critica testuale. Convegno di Studi di Filologia italiana nel Centenario della Commissione per i Testi di 20

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(v. 3: «Vedesti il lume di quellochi adorni») all’eredità del pubblico dei secoli seguenti (v. 4: «Che ogni eta. dopo loro ueder brama»); in questo modo, l’edizione diventa una sorta di patto material-culturale fra due epoche e fra due testi, quello di Petrarca e quello dell’editore quattrocentesco (vv. 12-14, c.187r: «Che ben che lopra tua per molte parte / Hormai sia nota. pur chi la ristaura / Magior contento fie dambiduo noi»).

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*** Non è facile rintracciare un’univoca forma di manifestazione dell’impeto, se non proprio dell’esplosione dell’ “appropriazione” materiale cinquecentesca di una matrice petrarchesca, a volte anche molto rarefatta. Mi sembra però programmaticamente significativo l’esempio dello straordinario codicetto francese della British Library, ms. Stowe 955: databile al primo quarto del XVI sec., esso è un Petit livre d’Amour (‘piccolo’ anche in senso letterale per le sue dimensioni: cm 13 x 10), un canzonieretto personale del lionese Pierre Sala all’amata Marguerite Builloud, illustrato da Jean Perréal (m. 1528) e fabbricato nientemeno che con un cofanetto a forma di contenitore dotato di piccoli anelli metallici, attraverso i quali la lettrice-destinataria del libello avrebbe potuto appendere il dono alla cintura del proprio abito. Sia nell’impostazione di versi monumentalizzati che nell’interazione graficopoetica di glossa dipinta e testo, cioè scenette narrative con immagini, il piccolo libro di Sala rispecchia un Petrarchismo meno tematico e più materiale, filtrato attraverso l’esperienza dei miniatissimi codici d’ore aristocratici e delle elaboratissime stampe dell’epoca21, ed espressione di una cultura proLingua [7-9 aprile 1960], Bologna, Commissione per i Testi di Lingua, 1961, pp. 17-34, ora in Textus testis: lingua e cultura poetica delle origini, Torino, Bollati Boringhieri, 2002, pp. 59-77 [part. pp. 64-65]), che appoggia la candidatura di Giovanni Aurelio Augurello, e da A. Balduino (Le esperienze della cultura volgare, in Storia della Civiltà Veneta 3, tomo 1, pp. 265-367), che favorisce Niccolò Lelio Cosmico o un altro rappresentante della cerchia padovana – il profilo editorial-linguistico e, per ora anonimo, di «un menante poco noto» (p. xliii) e pur notando che «la lingua dei due sonetti è assolutamente compatibile con il Cosmico» (p. xlvi, n. 100), per la quale si vedano ulteriormente la nuova ediz. delle Cancion, a cura di S. Alga, Torino, Res, 2003, e la nota di Domenico Chiodo, L’amico, l’ancella e il petrarchismo (?) di Niccolò Lelio Cosmico, in GSLI 180 (2003), pp. 260-65. 21 Dalla c. 6v alla c. 15v, i raggruppamenti di quattro versi, sempre collocati sul verso, sono disposti in un quadro decorato da cordoni ornamentali in modo da replicare l’inquadratura delle scenette alternate sul recto, tranne a c. 13v (inc. «Au choysyr ne ferey long plet»), dove i versi sono raccolti su una banderuola o, come pare più probabile, su un papiro srotolato. Per il rapporto tardoquattrocentesco e cinquecentesco fra testo e immagine, soprattutto nella tradizione dei Triumphi, si vedano M. Ciccuto, Le figure di Petrarca,

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duttrice dell’icona del poeta ancor più che del poeta-icona. Nel caso del cod. Stowe 955, la trasformazione della formula-libro petrarchesca in vero e proprio oggetto di abbigliamento personale (memore, ancora una volta, delle modalità di trasporto dei minuti libri d’ore) testimonia l’impulso feticistico di una produzione oscillante fra culto letterario e ghiribizzo privato. La svolta definitiva di questo Petrarchismo “materiale” avrà, tuttavia, luogo con le edizioni del 1525 e del 1528 di Alessandro Vellutello, le quali avranno particolare influsso in àmbito francese22, là dove, cioè, già si riscontra una certa predilezione per realizzazioni editoriali portatrici di nuovi modelli interpretativi del Canzoniere petrarchesco, caratterizzati da una progettualità localisticamente connotata e spesso messa al servizio di dottrine poetiche e letterarie nazionalistiche23; siamo sempre e comunque lontani dalle formule materiali di Petrarca, e più vicini alla polemica concorrenziale fra la visione critica di Vellutello e la ripresa della lettura bembesca, pur con importantissime varianti e aggiornamenti, di cui l’edizione “tascabile”, cioè in 16o, di Guglielmo Rovilio (Lione 1550, 1551, 1558, 1564, e 1574, ristampata da Nicolò Bevilacqua a Venezia nel 1562 e nel 1568) rappresenta un episodio saliente24.

Napoli, Federico & Ardia, 1991, e L. Battaglia Ricci, Immaginario trionfale: Petrarca e la tradizione figurativa, in I Triumphi di Francesco Petrarca, a cura di C. Berra, Bologna, Cisalpino, 1999, pp. 255-98. Indispensabili per una contestualizzazione generale del fenomeno, gli studi di Paola Vecchi Galli, I Triumphi, Aspetti della tradizione quattrocentesca, sempre nei Triumphi di Francesco Petrarca, 1999, pp. 343-73, e il saggio introduttivo di Marcello Ciccuto, Guinizzelli e Guittone, Barberino e Petrarca: le origini del libro volgare illustrato, in Icone della parola: immagine e scrittura nella letteratura delle origini, Modena, Mucchi Editore, 1995, pp. 13-52. 22 Vd. Balsamo, Pétrarque en France, 2004, p. 18 («A partir de 1525, s’imposa durablement le modèle savante qui se distinguait de l’édition du texte seul […] Parmi ces éditions savantes, pourvues d’un abondant paratexte, d’index, d’études biographiques, de portraits et même de cartes permettant de suivre la géographie lyrique du recueil, les éditions qui offraient le commentaire de Vellutello sont les plus nombreuses: vingt-cinq au moins, entre rééditions, émissions et remises en vente, sont conservées en France, en plus de 100 exemplaires». Per le edizioni di Vellutello, vd. ancora G. Belloni, Laura tra Petrarca e Bembo, 1992, pp. 58-95. 23 Si pensi, ad es., alle rivendicazioni del Midi, in base alle quali Petrarca viene adottato sia come figura storicamente e genuinamente Provenzale, sia come come base e punto di partenza – con il Canzoniere per Laura, secondo le nuove divisioni di Vellutello – per una creatività poetica con implicazioni politiche fin oltre l’Ottocento occitanico (vd. R. Capelli, Petrarch, Instrument of Change in the “Renaissance Provençale”, Textual Cultures, n.s. I [2006], i.c.s.). 24 Vd. N. Bingen, Les Éditions lyonnaises de Pétrarque dues à Jean de Tournes et à Guillaume Rouillé, in Les Poètes français de la Renaissance et Pétrarque, a cura di J.

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Di sicuro, l’attrazione esercitata dall’approccio storico-interpretativo di Vellutello deve molto, soprattutto nella Francia meridionale (polarizzate attorno ai centri di Carpentras, Avignone e Valchiusa), al suo appassionato sviluppo di varianti locali, che finiranno per evolversi in episodi letterallibrari dotati di vita e circolazione autonoma e indipendente (come la Laure d’Avignon di Vasquin Philieul; cfr. oltre), accanto alla forma “integra” del libro petrarchesco su cui insisteranno i vari Bembo, Vellutello, Gesualdo, Rovilio, e Daniello25.

Balsamo, Genève, Droz, 2004, pp. 139-55 (part. 142-55). A parte l’aderenza di Rovilio all’ordine delle rime stabilito da Bembo, un appoggio dichiarato a livello del titolo dell’edizione del 1558 (Il Petrarca con dichiarazioni non piv stampate, Insieme alcune belle Annotazioni, tratte dalle dotissime Prose di Monsignor Bembo), si distingue sia dall’ed. Bembo che da quella di Vellutello prima di tutto nel piccolo e più “portatile” (16°) formato. Risulta, culturalmente parlando, ancora più notevole l’innovazione dalla prima alla seconda edizione dell’aggiunta del rimario del 1537 di Luca Antonio Ridolfi, la Tavola di tvtte le rime dei sonetti e canzoni del Petrarca; ridotte coi versi interi sotto le cinque lettere vocali, la quale viene stampata con frontespizio e numerazione nuova nelle edizioni del 1551 e del 1558. Tale rimario, mancante nella prima edizione del 1550, e la cura con cui si presenta, rappresenta un ausilio importante non solo per lo «studioso lettore» di Petrarca ma anche per un pubblico desideroso di imitare e praticare la poetica petrarchesca («Perche, come sapete, studiosi lettori, il Petrarca non tutte volte rinchiude in vn verso solo vna sententia perfetta; noi non risparmiando ne à fatiga, ne à spesa alcuna per vostro commodo, vi hauemo aggiunti tutti i numeri necessarij» [Ai lettori, c. 6]). 25 In particolare, non va dimenticato l’intervento di Giovanni Andrea Gesualdo, databile entro il 1530 [cfr. G. Belloni, Laura tra Petrarca e Bembo, 1992, pp. 194-97], con le relative implicazioni a livello non solo di ordinamento del Canzoniere, ma anche dello sviluppo di alcuni approcci metodologici fondamentali alla comprensione e definizione storica del Petrarchismo “materiale”: 1) l’autenticità dei materiali petrarcheschi consultati nella preparazione di edizioni; 2) la cronologia interna e esterna del Canzoniere (in quanto chiave interpretativa di un’autenticità restaurabile, da effettuare tramite lo studio e il recupero della geografia e della storia “reali”); 3) la riformulazione del concetto petrarchesco della selectio presso vari curatori, in nome della quale verrà messo in discussione l’inizio di una seconda parte, congetturata parzialmente in base all’interpretazione degli spazi lasciati in bianco in diversi codici tre- e quattrocenteschi dopo Arbor victoriosa triumphale, oscillante fra I’ vo pensando e Oimè il bel viso; 4) la “insopprimibile materialità” di certi raggruppamenti testuali dei Fragmenta, come Cesare poi che ’l traditor d’Egitto, Vinse Hanibal, e L’aspectata vertù (sonn. 102-104) o – per motivi tematico-formali – le cosiddette “canzoni degli occhi” (Perché la vita è breve, Gentil mia donna, e Poiché per mio destino [canz. 7173; si vd. Storey, All’interno, 2004, pp. 166-70]); andranno anche considerati i raggruppamenti che risalgono al codice degli abbozzi (Vat. Lat. 3196), come la sequenza di sonn. 156, 155, 152, 153, 154 da c. 3v a c. 4r (I’ vidi in terra, Non fur ma’ Giove, Questa humil fera, Ite, caldi sospiri, e Le stelle, il cielo), a cui potrebbero essere eventualmente aggiunti i sonn. 151 Non d’atra e tempestosa e 150 Che fai, alma?, a c. 5v (per il problema della solidarietà dei presunti bifogli cartacei del Lat. 3196, si vd. la descrizione del codice in

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Alla luce di queste considerazioni, vale dunque la pena soffermarsi sul “programma” editoriale di Alessandro Vellutello, focalizzato – e a più riprese ribadito, a seconda delle edizioni e della concorrenza di altre iniziative editoriali26 – non tanto sulla tripartizione del Canzoniere (di cui si legge ancora nell’ed. del 1528: «Resta solamente a uedere de la terza parte, che fuori de l’opera intendiamo deuer andare» (a c. 137), e così, ancora, nell’ediz. del 155027, dove figura all’interno del volume l’indicazione ben chiara, particolarmente nei confronti delle edizioni precedenti, della «Terza parte dei sonetti et delle canzoni di M. Francesco Petrarcha, colla espositione di messer Alessandro Vellutello», c. 136v), quanto piuttosto sulla sua bipartizione criticamente riaggiustata, richiesta dall’impostazione materialmente difettosa e, secondo Vellutello, tutt’altro che definitiva dell’originale petrarchesco, e affiancata da una distinta sezione di quei componimenti che Petrarca “sicuramente” avrebbe voluto isolare per ragioni di difformità tematica e storico-materiale rispetto al corpus principale della raccolta. Pertanto, sia nell’edizione del 1525 che in quella del 1528, Vellutello presenta – come parte di un ampio apparato, inclusivo della mappa dei luoghi geografici dell’amore per Laura, della Vita e costumi del poeta, dell’Origine di madonna Laura con la descrittione di Valclusa e del luogo ove il poeta a principio di lei s’innamorò, e della Divisione de’ sonetti e de le canz. del Petrarcha in tre parti – il suo programma critico-filologico nel Trattato de Francesco Petrarca, Il codice degli abbozzi: Edizione e storia del manoscritto Vaticano latino 3196, a cura L. Paolino, Milano-Napoli, Ricciardi, 2000, pp. 21-23). 26 Così, nell’ed. 1528, Vellutello mette in prima fila, prima degli altri ausilii, la Vita e i “costumi” del poeta, la spiegazione del suo ordinamento, sottolineandone la diversità rispetto a quello dell’ediz. aldina [il testo è riportato qui diplomaticamente con abbreviazioni sciolte in corsivo]; «[P]rima ch’ a la vita & a costumi del Poeta o che ad altra cosa pertinente a l’opera si venga, parmi molto necessario il deuerne alcune dire quanto a l’ordine de Sonetti e de le Canzoni mutato da quello ch’ esser soleua, per che assai chiaramente mi par uedere quanto ch’ esso mutat’ordine habbia da parer nel primo aspetto a tutto ’l mondo non solamente strano, ma forse anchor inconueniente, come de le cose anchora non intese quasi sempre suol auenire, Ma del tutto fuori d’ogni ragione penso deura parer a coloro, ch’a lor modo interpretando, credon hauer alcuna continuatione nel prim’ ordine trouato, Massimamente per esser affermato da Aldo Romano, che vltimamente fece la presente opera stampare, egli hauerla dal proprio originale e scritto di mano del Poeta. cauata, adducendo il testimonio de l’eccellentissimo Messer Pietro Bembo, dal qual dice hauerlo hauuto. […] Ma se io, per euidentissime ragioni prouero, in esso ordine non esser ordine alcuno, ragioneuolmente mi si concedera non esser vero, che Aldo de l’origine del Poeta habbia quest’opera cauata» (c. AA 5v). 27 Il Petrarcha con l’espositione d’Alessandro Vellvtello di novo ristampo con le figvre ai Triomphi, et con piv cose utili in varii luoghi aggivnte,Venezia, Gabriel Giolito de’ Ferrari e Fratelli, 1550. Visti i cambiamenti basilari all’apparato giustificatorio ritengo riduttivo parlare solo di ristampe.

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l’ordine de’ son. e de le canz. del Pet(rarca) mutato: Vellutello, convinto infatti che l’ordine autentico dei sonetti e delle canzoni del Canzoniere non risalisse alla forma pubblicata da Aldo Romano e che, anzi, non esistesse nemmeno un ordinamento definitivamente autorizzato dal poeta, ma soltanto una raccolta di componimenti dispersi in «diuersi separati fogli», propone un nuovo – e insolito – ordinamento fondato su criteri storico-interpretativi, attraverso i quali si sarebbe potuto distinguere fra cronologia degli eventi raccontati e cronologia dell’attività di composizione degli stessi, da un lato attraverso la ricostruzione del filo narrativo connesso alla ricerca storico-stilistica, dall’altro attraverso l’innovativo apparato esegetico di commento28. Questo apparato, più che disvelare il senso profondo del messaggio poetico petrarchesco, è in realtà funzionale all’esplicitazione dei meccanismi narrativi attivati dalla riorganizzazione dei componimenti operata dall’editore per creare una solida e logica (benché arbitraria) rete di intercorrelazione tra testo e supporto materiale. Così come edizioni del passato29 mettevano a disposizione spazi bianchi in cui il lettore avrebbe potuto trasportare i propri, personali commenti, note e magari illustrazioni, le edizioni di Vellutello sono concepite come volumi compiuti, come sistemi “chiusi”, dove gli unici “vuoti” sono gli spazi occupati dalle poche letterine-

28 In realtà, oltre alla metodologia di ricostruzione tematico-cronologica proposta da Vellutello, lo studioso lucchese si rifà proprio al discorso sull’autenticità dei materiali di Petrarca, già utilizato da Aldo Romano. Nell’ed. del 1528, Vellutello strumentalizza il curatore dell’Aldina (cioè nientemeno che Pietro Bembo) e la prima epistola delle Familiari per la propria causa editoriale, mettendo in dubbio sia l’autenticità dell’autografo petrarchesco visionato a Padova presso Daniele Santasofia, sia la forma definitiva del Canzoniere [riporto il testo diplomaticamente, sciogliendo le abbreviazioni in corsivo]: «Ma perche Messer Piero Bembo, col quale sopra di tal cosa ho alcuna volta parlato dice, non da l’originale del Poeta, come Aldo vuole, ma d’alcuni antichi testi, e specialmente i Sonetti e le Canzoni da vno che noi habbiamo veduto, et anchora hoggi è in Padoua appresso Messer Danielle da Santa Sophia, hauer quest’opera cauata, et anchora per hauerne veduto alcuni altri similmente antichi, e nondi meno in molte cose differenti. secondo ch’ è piaciuto a gli scrittori, senon de l’ordine, il quale di tutti è vno medesimo, noi habbiamo per cosa certa, che dal Poeta non ne sia stato lassato originale ordinato, ma fu diuersi separati fogli, e che poi l’ordine che parue di darli a colui che fu ’l primo a raccoglierla et metterla insieme, tutti gli altri habbiamo seguitato, e di questo ne fa fede quello, che ’l Poeta medesmo scriue in vna sua epistola ad Socratem suum ne la quale (essendo gia vecchio) narra, come stando al fuoco, e riuedendo queste sue compositioni, quelle che giudicaua esser degne di lui le lassaua viuere, l’altre le mandaua al fuoco, quantunque, come pietoso padre, ad alcune ne perdonaua, che non ben degne di viuere le giudicaua essere, il che se fossero state in vno medesimo volume ordinate, non haurebbe potuto fare, e questo basti hauer detto de l’ordine per dimostrar, che l’opera non è stata de l’originale del Poeta cauata, e che da noi a miglior ordine è stata ridotta» (cc. AA 6r-6v). 29 Per il caso dell’ed. Valdezoco, si veda la cit. a p. 295.

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guida che si riscontrano al posto dell’iniziale del capoverso del primo componimento di ogni Parte: la lettera «V» di Voi ch’ascoltate (componimento con funzione di introduzione all’intera opera, davanti al primo sonetto della «Prima Parte», secondo le nuove divisioni di Vellutello, Era ’l giorno, ch’al sol si scoloraro), e l’iniziale del commento alla prima poesia di ogni “Parte”. Il commento rappresenta spesso un blocco di testo che inquadra e incornicia lo spazio poetico, separando – nel caso delle canzoni e delle sestine – le strofe l’una dall’altra, e dunque disintegrando l’integrità materiale del componimento, che passa da prodotto poetico graficamente compatto e unitario, a prodotto editorialdidattico scomposto in sotto-unità strofiche fruibili solo in funzione della loro prosa esplicativa, al punto tale che in certuni casi della forma-canzone stessa si stenta a distinguere la fine di un testo dall’inizio del successivo. Il fatto che il sistema grafico originariamente pianificato da Vellutello – attento ad evidenziare l’incipit di ciascun testo tramite l’uso del maiuscolo per le prime due, tre o anche quattro lettere della parola di attacco – vada progressivamente perdendosi dalle prime edizioni dell’opera fino a quella del 1550, sembra confermare, nel quadro generale della diffusione di edizioni petrarchesche, la crescente importanza assunta dal Commento rispetto al Testo; nello specifico dell’edizione curata da Vellutello, poi, questa dinamica di scambio fra testo poetico e glossa in prosa sottolinea in modo emblematico il ruolo di legatura narrativa che il commento è deputato a svolgere per la giustificazione ed estrinsecazione dei criteri di riordinamento che portano alla “nuova” struttura del Canzoniere cinquecentesco. Si considerino i seguenti esempi: commentando la ballata 149 Di tempo in tempo (c. 83, dell’ed. 1528]), Vellutello salda questo componimento al precedente con la seguente spiegazione: Nel precedente Sonetto habbiamo veduto, come ’l Poeta nel suo ritorno d’Arezzo avicinandosi a Valclusa, sperava quel dì medesimo, passando a Cabrieres, poter Madonna Laura vedere.

E con analoga funzione di “collante narrativo”, il commento al son. 230 I piansi; hor canto (n. 243 nell’ordine di Vellutello; c. 99v, dell’ed. 1528) sintetizza armonicamente l’ideale progresso dallo “sdegno” alla “grazia” stabilito dal nuovo ordine consecutivo dei sonn. 230, 229 e 211 (I piansi; hor canto:che ’l celeste lume, Cantai: hor piango; e non men di dolcezza, Voglia mi sprona: amor mi guida, e scorge: Ha il Poeta di sopra in piu luoghi dimostrato, quanto Madonna Laura fosse verso di lui sdegnata, Hora nel presente Sonetto dimostra, che per esser ne la gratia sua tornato, il pianger, che prima, per tale sdegno, egli faceua [….]

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Da microstruttura (sequenza di un blocco di testi) a macrostruttura (partizione interna dell’intera raccolta), il commento auto-referenziale della prosa di Vellutello connette la «Seconda Parte» della propria edizione – aperta dal son. Oimè il bel viso, oimè il soave sguardo (c. 114r, dell’ed. 1528) – attraverso una fitta e ben calcolata rete di richiami a luoghi e temi (ad esempio, il ciclo di poesie “del presentimento”) della «Prima Parte»:

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{H}Abbiamo di sopra in piu luoghi veduto, che per alcune visioni, imaginationi e sogni, la mente del nostro Poeta essere stata de la morte di Madonna Laura indovina. Hora il presente Sonetto fu fatto da lui havuto c’hebbe [sic] di tal morte la certezza.

Questa integrazione, o meglio, ingerenza material-tematica dell’apparato esegetico sul Testo nelle edizioni di Vellutello diventa presto il modello principe della forma-canzoniere e/o del libro di poesia a stampa. Nel 1548 a Parigi, Vasquin Philieul di Carpentras pubblica, presso il torchio di Iaques Gazeau, il volume Laure d’Avignon30, che altro non è se non la traduzione in francese dei componimenti petrarcheschi secondo l’ordine della «Prima Parte» dell’ed. Vellutello; fatto di assoluta rilevanza, si assiste all’introduzione da parte di Philieul di un sistema paratestuale di «Arguments» (prose di commento) o comunque di rubriche introduttive esplicative aventi il duplice scopo di separare materialmente ma connettere narrativamente tra loro i vari componimenti della raccolta. Il contenuto di questi «Arguments» raccoglie informazioni storiche e geografiche assenti nel testo poetico ma, non per caso, presenti nel commento di Vellutello: così è, ad esempio, per il lungo «Argument» del son. LXX Ie veis un iour hors d’un bateau sortir (traduzione del son. Dodici donne honestamente lasse), ricco di indicazioni “turistiche” sulla città di Avignone e i suoi dintorni. Quello che, nel momento dell’appropriazione di un modello struttural-editoriale già sperimentato da altri, non passa nelle glosse di Philieul è la progettualità letteraria che invece sta alla base dell’edizione di Vellutello, sicché l’architettura finale del libro di Laure d’Avignon non mira tanto a creare una raccolta-racconto al suo interno organicamente concatenata, ma intende, più semplicisticamente, ancorare il più possibile la vicenda dell’amore di Petrarca per Laura ad un preciso e ben contestualizzato scenario del Sud della Francia. 30 Laure D’Avignon au nom et adveu de la Royne Catharine De Medicis, Royne de France. extraict du poete florentin Françoys Petrarque: et mis en françoys par Vaisquin Philieul de Carpentras, Paris, Iaques Gazeau, 1548 (rist. anastatica a cura di Christian Dupeyron, Paris, Actes du Sud – Papiers, 1987).

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Canzoniere e Petrarchismo: un paradigma di orientamento formale e materiale

La rivisitazione petrarchesca e riformulazione creativa del Petrarchismo “materiale” sembra dunque manifestarsi a due principali livelli strutturali più o meno canonizzati o canonizzabili: quello interno della gestione dei contenuti (come appunto nel caso della Laure d’Avignon di Vasquin Philieul), e quello esterno del formato librario, studiato per rispondere alle diverse esigenze suscitate dalla fortuna del Canzoniere (è il caso del già descritto codicetto Stowe 955). Una sintesi rappresentativa di queste due tendenze è, a mio avviso, realizzata dall’edizione petrarchesca di Guglielmo Rovilio, soprattutto nelle seconda e nella terza edizione (Lione 1551 e 1558) le quali, nella «picciola forma» [p. 5] di un formato in sestodecimo (e ricordiamo che le edizioni di Vellutello sono stampate in quarto), riesce a condensare intorno alla raccolta di componimenti – debitrice per il proprio ordinamento a quello dell’ed. Aldina del 1501 (pur con la variante di una seconda parte «in morte a Madonna Laura» [c. 98v; pure nello spazio lasciato in bianco sotto il son. 263, Arbor vittoriosa triomphale] aperta dal sonetto congetturato in questa posizione-chiave di inizio sezione da Vellutello, Oimè il bel viso… – un ampio apparato ausiliario di informazioni storiche, biografiche e linguistiche riprese dalle annotazioni del Bembo, il rendiconto delle commemorazioni poetiche per la morte e per la presunta scoperta (ad opera del poeta Maurice Scève nel 1533) della tomba di Laura, e, elemento di enorme importanze per le sue implicazioni teoriche e pratiche, un Rimario petrarchesco a cura di Luca Antonio Ridolfi. Lo scopo di questo Rimario (già stampato in veste autonoma nel 1537) è apertamente dichiarato nella Lettera dedicatoria dell’editore a Madamigella di Gagio [pp. 6-7]: …il quale Rimario nel vero è sommamente utile, a chi di rimare leggiadramente, & senza volere i segni del Petrarca trapassare, si prende cura […]& certo ne douerebbe sempre hauere in mano, chi brami essere rimator pregiato, essendo egli ottimo strumento ad insegnarci come delle leggiadre rime del Petrarca ageuolmente, & con prontezza valere ci possiamo. Gioua ancora senza fine à coloro, che di fare composizioni, che Centoni detti sono, si dilettano, la qual maniera com’è molto mal’ ageuole ad essere si ordinatamente tessuta, che dal suo lauoro rileui qualche ornata, & leggiadra figura: così certo quando è poi condotta bene, al fine rende merauiglioso piacere, & vaghezza.

La Tavola di tutte le rime dei sonetti e Canzoni del Petrarca. Ridotte coi versi interi sotto le cinque lettere vocali rispecchia, a suo modo, una sorta di sotto-categoria del Petrarchismo materiale espressione dell’interesse dilettantesco, e produce un sovvertimento/riordinamento non dei testi nel loro strut-

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turarsi consequenziale, ma di segmenti di testo, prelevati dal contesto petrarchesco originario e ricontestualizzati all’interno di un nuovo componimento petrarchista. Spiega infatti Luc’Antonio Ridolfi nell’Epistola introduttiva Al suo cariss[imo] Piero di M. Matteo Niccolini in Firenze [p. 4 del Rimario]:

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Perciò che terminando tutte le sue rime [= di Petrarca] in vocale, come sapete, che fanno, si può, copiandole co i versi interi tutte quante alla spartita, ridurle sotto le cinque lettere vocali: con la qual regola sia poi (per quanto io stimo) à ciascuno, che vorrà, facilissima cosa il comporne un Centone annestando i versi, che faranno al proposito suo quasi (come noi volgarmente diciamo) alla burchia».

L’ideazione, produzione e diffusione di questo vero e proprio “manualetto per il petrarchista rinascimentale” sono, certo, condizionate dal fervore commerciale della fiorente industria editoriale lionese dell’epoca; nondimeno, il taglio didattico dell’opera riflette una partecipazione culturale attiva di Guglielmo Rovilio nel dibattito letterario allora di moda. E non stupisce che questo “Petrarchino da borsetta” abbia pure goduto di un certo successo – come paiono dimostrare le sue ristampe italiane tra il 1562 e il 1568 (presso Bevilacqua, a Venezia) – perch’esso non sarà magari di primaria importanza filologico-critica nell’ottica della tradizione testuale di Petrarca volgare, ma rappresenta comunque un episodio emblematico del Petrarchismo “materiale” (ovvero del Petrarchismo cinquecentesco a grado zero), per il fatto di attivare una nuova dinamica di influenza mediata tra esemplare (non tanto l’autografo petrarchesco, quanto l’edizione-modello di riferimento) e copia (la nuova imitazione dell’edizione canonizzata dalla stampa), oltre che una nuova dinamica cultural-commerciale di irradiamento del Petrarchismo dalla Francia (Lione) all’Italia (Venezia), e non solo viceversa. In tale ottica materiale l’edizione lionese di Guglielmo Rovilio rappresenta quindi l’apogeo della traiettoria Vindelino da Spira – Bembo – Vellutello – Gesualdo, dall’edizione a stampa del Petrarca-modello-icona, al Petrarca stampato come strumento tecnico petrarchista.

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RACCOLTE A STAMPA ANTOLOGICHE DEL PETRARCHISMO E DELLA POESIA ITALIANA DAL CINQUE AL SETTECENTO. UN ARCHIVIO ()

Chi studia la lirica cinquecentesca conosce il fastidio per la difficoltà con cui si riesce ad accedere a molti dei testi trasmessi in edizione antiche, e spende a volte più energie e più tempo nei preliminari – indispensabili per individuare testimoni ed esemplari, chiederli in lettura, averne riproduzione – che nel rapporto diretto e prolungato col testo, e per molte ricerche sulla tradizione della lirica cinquecentesca la fase di preparazione e censimento finisce così per essere soverchiante. La ragione di tutto ciò sta essenzialmente nella mancanza di strumenti di base per l’accesso alla tradizione a stampa e manoscritta; e se è vero che confrontadosi con la dispersione e la collocazione decentrata del patrimonio librario si impara insieme alla storia dei libri quella della nostra cultura letteraria e istituzionale, va però rilevato come nella nostra attività di ricerca ci sia un’emorragia di tempo e di risorse causata da fatti scientificamente irrilevanti. Se per i manoscritti, nonostante alcune importantissime iniziative (come Codex, e Manus, ,), la situazione italiana resta poco confortante – almeno per il campo specifico della tradizione lirica –, per le stampe sono stati fatti passi enormi grazie ai cataloghi elettronici (in particolare Edit16, ). Resta però sempre un punto debole, quello che potremmo chiamare il problema dell’ultimo miglio librario. Edit16 o altri strumenti analoghi ci consentono di individuare abbastanza agevolmente esemplari dei libri che ci interessano, ma si tratta poi di raggiungerli, avere buone condizioni di lavoro nelle biblioteche, averne riproduzione. In questo – a meno di non disporre di raccolte ampie e quotidianamente ben accessibili come la British Library, alla quale, come sappiamo, Carlo

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Dionisotti non mancava mai di testimoniare la propria riconoscenza – studiosi giovani e vecchi spendono il meglio del proprio tempo. Ma si aggiunge un’altra difficoltà. Quand’anche ci si sia costruiti una piccola biblioteca di riproduzioni personali, o per i più fortunati di esemplari, i libri di lirica, antologici o non, richiedono un indispensabile corredo: in primo luogo incipitari (a volte già presenti nelle edizioni antiche, non sempre in quelle moderne), ma anche semplici tavole del contenuto, e tavole metriche, tavole degli autori. Solo arrivati a questo punto si sente di poter cominciare a pensare a un libro, a un autore, alla sua poesia: e il lavoro è ancora tutto da fare. Nel mondo degli studi si tende forse a considerare tutto il tempo e l’impegno spesi per arrivare fino a questo punto come fatica di servizio, e però, con solo apparente paradosso, da conservare gelosamente nel più prezioso patrimonio personale. Forse anche per questo l’allestimento di strumenti di consultazione dedicati alla tradizione del Petrarchismo è stato praticato molto limitatamente, ovvero, per quel molto che è stato praticato negli ultimi tempi è in sostanza quasi completamente riconducibile alle iniziative di uno degli organizzatori di questo incontro (IUPI, ATL, BIBLIA), verso il quale ci sentiamo tutti debitori riconoscenti1. In particolare, gli strumenti per l’accesso alle stampe originali della lirica cinquecentesca presuppongono ancora modalità di fruizione da antico regime: la raccolta privata nella quale siano disponibili copie dei libri, magari insieme ai solidi e sempre utilissimi tomi del Quadrio e agli altri repertori settecenteschi, ai quali pochi se ne possono aggiungere fra i moderni2. Sotto il motto Statim invenire, a cui tanti indici si ispirano, si può perciò iscrivere lo strumento che vi presento.

1 IUPI. Incipitario unificato della poesia italiana, voll. 1 e 2, a cura di Marco Santagata, Modena, Panini, 1988; vol. 3, Edizioni di lirica antica, a cura di Bruno Bentivogli e Paola Vecchi Galli, 1990; vol. 4, Bibliografia della lirica italiana nei periodici, a cura di Silvia Bigi e Maria Giovanna Miggiani, progetto informatico di Ugo Pincelli, 1996; Archivio della tradizione lirica da Petrarca a Marino, a cura di Amedeo Quondam, Roma, LEXIS Progetti editoriali, 1997 (CD-ROM); Biblia. Biblioteca del libro italiano antico, diretta da Amedeo Quondam, La biblioteca volgare, 1, Libri di poesia, a cura di Italo Pantani, Milano, Editrice bibliografica, 1996. 2 In particolare, Hugues Vaganay, Le sonnet en Italie et en France au XVIe siècle. Éssai de bibliographie comparée, Lyon 1903 (an. New York, Burt Franklin), in 2 voll.; o strumenti casualmente utili, come il catalogo delle cinquecentine della Mai di Bergamo, che indicizza gli autori dei testi editi nei volumi antologici (Le cinquecentine della Biblioteca Civica “A. Mai” di Bergamo, a cura di Luigi Chiodi, Bergamo, Tip. Vescovile Secomandi, 1974).

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L’intento che mi ha mosso è stato quello di predisporre un’affidabile ‘Descrizione del contenuto’ delle principali antologie della lirica cinquecentesca, cominciando da quelle uscite tra 1545 e 1565, in attesa di poter estendere le descrizioni al primo trentennio del secolo (in questo senso abbiamo preso contatto con Antonio Rossi) e alla fine XVI-inizio XVII. L’iniziativa fa parte di un progetto più ampio di descrizione e studio delle raccolte a stampa antologiche e della tradizione dei testi poetici, al quale accennerò in chiusura. Ciò di cui oggi vi parlo è stato realizzato all’Università di Pavia nel corso degli ultimi quattro anni, grazie alla collaborazione di tre persone: Gianantonio Nuvolone, che ha raccolto la quasi totalità delle informazioni sino ad ora disponibili, Cristiano Animosi, che ha allestito il database per la rilevazione dei dati e ha configurato le funzioni per la loro successiva elaborazione, anche in vista di future campagne, e chi vi parla, che ha ideato questa ricerca e ne ha coordinato lo sviluppo. Si è aggiunto Simone Merli per i passaggi informatici più delicati. Gran parte del lavoro è stato svolto da Nuvolone in servizio di una tesi di laurea, ed è proseguito poi grazie a un cofinanziamento ministeriale all’interno del progetto TLIoN coordinato da Claudio Ciociola. Per la realizzazione sono stati complessivamente spesi – a parte i costi fissi, l’ammortizzamento delle attrezzature e la mia parte di lavoro – circa 13000 euro, di cui meno della metà per spese strettamente informa-

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Simone Albonico

tiche. Il sistema realizzato è stato pensato per essere stabile nel tempo, non vincolato obbligatoriamente ad alcun software proprietario, liberamente consultabile sulla rete e messo a disposizione di quanti, come auspico, vorranno partecipare con altri progetti di descrizione di antologie liriche, utilizzando e collaborando a migliorare una risorsa esistente.

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All’interno dell’archivio RASTA sono stati sino ad ora schedati 19 libri di poesia, con 7042 rime di 495 autori, per un totale di 12595 attestazioni, come è possibile verificare in una pagina di statistiche generali.

Ecco un elenco sommario dei libri schedati, ciascuno dei quali compare preceduto dalla sigla adottata nel sistema (l’elenco è in ordine cronologico): 1-1545/1 1-1546/2 2-1547/1 2-1548/2

Rime diverse di molti eccellentiss. auttori […] Libro primo, Venezia, Giolito, 1545. Rime diverse di molti eccellentiss. auttori […] Libro primo, con nuova additione ristampato, Venezia, Giolito, 1546. Rime di diversi nobili huomini et eccellenti poeti […] Libro secondo, Venezia, Giolito, 1547. Delle rime di diversi nobil huomini et eccellenti poeti […] Nuovamente ristampate. Libro secondo, Venezia, Giolito, 1548.

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1-1549/3

Rime diverse di molti eccellentiss. auttori […] Libro primo, con nuova additione ristampato, Venezia, Giolito, 1549. 3-1550/1 Libro terzo delle rime di diversi nobilissimi et eccellentissimi autori […], Venezia, al segno del Pozzo, 1550. 4-1551/1 Libro quarto delle rime di diversi eccellentiss. autori […], Bologna, Giaccarello, 1551. 5 (3)-1552/1 Rime di diversi illustri signori napoletani, e d’altri nobiliss. intelletti […] Terzo libro, Venezia, Giolito e fratelli, 1552. 5-1552/2 Rime di diversi illustri signori napoletani, e d’altri nobiliss. ingegni […] con nuova additione ristampate. Libro quinto, Venezia, Giolito e fratelli, 1552. 6-1553/1 Il sesto libro delle rime di diversi eccellenti autori […] Con un discorso di Girolamo Ruscelli […], Venezia, al segno del Pozzo, 1553. 5-1555/3 Libro quinto delle rime di diversi illustri signori napoletani, e d’altri nobilissimi ingegni […] con nova additione ristampate, Venezia, Giolito e fratelli, 1555. 7-1556/1 Rime di diversi signori napolitani, e d’altri […] Libro settimo, Venezia, Giolito e fratelli, 1556. RsI-1556 Rime di diversi, et eccellenti autori. Raccolte da i libri da noi altre volte impressi, tra le quali, se ne leggono molte non più vedute, di nuovo ricorrette e ristampate, Venezia, Giolito e fratelli, 1556. Fiori-1558 I fiori delle rime de’ poeti illustri, nuovamente raccolti et ordinati da Girolamo Ruscelli […], Venezia, G.B. e M. Sessa, 1558. 9-1560/1 Rime di diversi autori eccellentiss. Libro nono, Cremona, Conti, 1560. RsII-1564 Il secondo volume delle rime scelte da diversi eccellenti autori, nuovamente mandato in luce […], Venezia, Giolito, 1564. L1-1565 De le rime di diuersi nobili poeti toscani, raccolte da m. Dionigi Atanagi, libro primo, Venezia, Avanzo, 1565. L2-1565 De le rime di diuersi nobili poeti toscani, raccolte da m. Dionigi Atanagi, libro secondo, Venezia, Avanzo, 1565. RsI-1586 Il primo volume delle rime scelte di diversi autori, di nuovo corrette e ristampate […], Venezia, G. e G. P. Giolito, 1586.

Per arrivare a completare questa prima fase di schedatura si è intanto ridotto al minimo (almeno per ora) l’impegno sul piano strettamente bibliografico: pur dando notizia delle principali varianti tra diverse emissioni di una stessa edizione, si offre solo una descrizione bibliografica dell’esemplare utilizzato (secondo le norme ISBD(A) rivisitate dall’ICCU). L’elenco, inoltre, è evidentemente non completo: si cercherà al più presto di dare continuità al disegno che lo sottende riempiendo alcuni ‘buchi’, come ad esempio quello della prima edizione delle Rime scelte del Dolce, del 1553, ancora assente.

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L’archivio mette a disposizione, per ciascun libro: – una descrizione bibliografica dell’esemplare utilizzato;

– un’illustrazione dettagliata del contenuto generale dell’intero libro, comprese le parti liminari di prologo ed epilogo, intitolata Soglie;

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– statistiche sul contenuto dei singoli libri;

– un’illustrazione puntuale del suo contenuto poetico, che vedremo tra poco; – la riproduzione fotografica dei libri (per ora 9 su 19). La raccolta dei dati avviene attraverso l’applicazione MicrosoftAccess. Delle molte tabelle di cui si compone l’archivio accenno alle principali riguardanti i testi poetici (altre servono per registrare l’edizione, i metri, i nomi). Si è creata in primo luogo una tabella ‘Poesie’ in cui a ogni record corrisponde un testo poetico, per il quale si indica l’autore (quando possibile offrendo riscontro con una fonte a conferma dell’attribuzione accolta), l’incipit in una forma radicalmente normalizzata – fatte salve le esigenze della prosodia – che consente ricerche sulle parole degli incipit e l’ordinamento alfabetico, la forma metrica e lo schema metrico, comprensivo di congedo o ripresa, numero delle stanze e, per endecasillabi sciolti e terze rime, numero dei versi. I record presenti in questa tabella valgono come identificatori dei testi indipendentemente dalle loro attestazioni (anche se solo col tempo e con successive verifiche bibliografiche e attributive potranno svolgere a pieno questo ruolo), anche se non è detto che nel corso del lavoro vengano registrati per primi.

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Si è poi creata una tabella ‘dettaglio libri’ che consente di compilare tavole di descrizione delle diverse antologie rilevando ogni singola attestazione dei testi poetici che contengono, e registrandone in particolare: la posizione nel libro (con notizia di tutti gli errori di numerazione e posizione degli explicit), il numero progressivo assoluto all’interno del libro e quello relativo alle rime di quell’autore, l’attribuzione attestata nel libro (tenendo conto anche degli errata e della tavola finale), la rubrica e l’incipit così come compaiono nel libro, le varianti dell’incipit nella tavola. Grazie alla struttura del database e alle funzioni di selezione, riordinamento e ripresentazione dei dati sul web, messe a punto sempre da Cristiano Animosi, diventa poi possibile offrire una tavola completa di ciascun libro (è qui visibile la parte iniziale).

Per ogni singola attestazione è possibile accedere a una scheda (Profilo poesia) nella quale si trova, insieme alle notizie fondamentali relative al testo (identificato con il nome dell’autore e l’incipit uniforme, dalla tabella ‘Poesie’) e a eventuali rinvii bibliografici a conferma dell’attribuzione (dalle tabelle ‘PoesieFonti’ e ‘Fonti’), un quadro sintetico delle altre attestazioni censite (dalla tabella ‘Dettaglio libri’).

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Alla riproduzione fotografica degli esemplari descritti si accede, tramite link, dal Profilo libro (dalla riproduzione del frontespizio in miniatura), dalla Tavola (link immagine) o dalle schede del Profilo poesia (link img.), ed è possibile anche sfogliare il libro da cima a fondo senza rapporto con le tavole o le schede dei Profili. È a questo punto, credo, che risulta finalmente superato l’ultimo miglio librario.

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L’accesso ai dati, oltre che attraverso la tavola di una singola raccolta e il Profilo poesia, avviene anche a partire dagli autori dei testi: una sezione dell’archivio presenta i nomi tutti gli autori in ordine alfabetico e offre una rapida funzione di ricerca che individua tanto le forme onomastiche della lista d’autorità quanto le varianti anche solo grafiche attestate nei libri.

Cercando la forma dressino si viene ricondotti alla voce di riferimento Trissino, Giovanni Giorgio, sotto la quale vengono elencate le forme varianti (oltre a quella cercata, anche Drissino). Cercando marchese si ha questo risultato:

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Cercando aretino si trova:

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– Unico Aretino > Accolti, Bernardo, detto l’Unico Aretino – Aretino, Pietro Selezionando il nome che interessa si è condotti a un incipitario dei testi di quell’autore. Quando si seleziona il nome che interessa, o quando la ricerca porta direttamente a un solo nome privo di varianti, vengono visualizzati gli incipit relativi a quell’autore, e cioè: 1) l’elenco delle poesie di quell’autore in ordine alfabetico di incipit; 2) di seguito l’elenco, libro per libro, di singole attestazioni delle rime attribuibili a quell’autore che presentano attribuzioni divergenti; 3) infine l’elenco delle rime che, attribuite a quell’autore, sono probabilmente da restituire ad altri (è questo, naturalmente, un punto delicato sul quale sarà possibile raffinare nel tempo l’attendibilità dei dati).

È possibile a questo punto, dal primo elenco, andare sul Profilo poesia di un singolo testo, oppure selezionarne più di uno, o selezionarli tutti,

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e vederne in successione i Profilo poesia espandendoli. Sarà prossimamente disponibile una funzione che consente di riordinare i risultati secondo l’ordine cronologico di comparsa e l’ordine dei testi all’interno dei singoli libri. Un ulteriore accesso ai dati avviene attraverso una maschera di ricerca. Si possono qui formulare richieste che incrociano diversi indicatori, in particolare: – libro e luogo del libro (pagina o carta); – autore; – incipit o parole dell’incipit, indicando se la stringa richiesta è in posizione iniziale, finale o libera; – forma metrica; – schema metrico (è possibile inserire come dato da cercare una parte di schema, ad esempio le quartine di un sonetto).

È per esempio possibile effettuare una ricerca combinata chiedendo di trovare le ballate con nell’incipit la stringa amor, e si ottiene questo risultato:

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I risultati compaiono in ordine alfabetico d’autore, ma possono essere ordinati per incipit o, quando è il caso, per metro. I testi trovati possono essere selezionati, tutti o in parte, ed espansi per vederne in successione i Profili poesia.

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Funzioni di ricerca avanzata consentiranno in futuro di utilizzare altri parametri: schema del congedo e della ripresa, numero delle stanze, numero dei versi per stanza; di avere, inoltre, risposte con i dati presentati secondo l’ordine topografico; e di compiere operazioni particolari come il confronto di raccolte a due a due. Avverto subito che si è preferito estendere la descrizione piuttosto che risolvere tutti i delicati problemi connessi all’attribuzione di alcuni testi o all’esatta definizione della loro forma metrica (che, in particolare per ballate e madrigali, è a volte incerta), nella convinzione che sia più urgente mettere a disposizione di tutti uno strumento utile ed esteso, che comunque (al di là delle possibili imprecisioni) può rendere un buon servizio, piuttosto che risolvere quelli che sono problemi non certo secondari ma di secondo grado rispetto allo scopo primo di RASTA. La differenza di RASTA rispetto agli strumenti di cui ci serviamo per accedere ai testi – repertori e incipitari (come lo IUPI, i repertori di Carboni, Girardi e altri)3 –, è che quelle opere, per ovvie ragioni legate al tipo di medium che utilizzano, si limitano alla raccolta e alla riproposizione di metadati o di dati funzionali (anche se a volte non sufficienti) all’identificazione, e non offrono l’accesso ai testi nella loro veste originale. Inoltre RASTA, in ragione della sua natura, potrà essere in futuro configurato per svolgere altre ricerche sui dati senza che i dati debbano essere a questo scopo ristrutturati, ed è perciò uno strumento aperto. Nel campo specifico delle antologie cinquecentesche a stampa RASTA consente finalmente di sapere subito cosa contengono questi fortunatissimi libri senza più dover ricorrere ai benemeriti spogli di Francesco Saverio Quadrio (che, peraltro, per quel sovrappiù storico-critico che conservano, non vengono certo soppiantati), o del Vaganay, e permette poi di leggere i testi. Per quanto riguarda gli aspetti squisitamente bibliografici RASTA è integrato dal contributo di Luisa Cerrón Puga4. La visualizzazione sinottica dei dati della tradizione nella forma di tavole che descrivono il contenuto di libri a stampa o manoscritti è però qualcosa di più 3 Incipitario della lirica italiana dei secoli XIII e XIV, in 2 voll., e Incipitario della lirica italiana dei secoli XV-XX, in 12 voll., pubblicati tra 1977 e 1994 dalla Biblioteca Apostolica Vaticana, a cui si aggiungono il volume uscito a Roma, Il bagatto, 1986 (Biblioteca Alessandrina), e quello L’Aquila, Japadre, s.d. (biblioteche e archivi dell’Aquila); Raffaele Girardi, Incipitario della lirica meridionale e repertorio generale degli autori di lirica nati nel Mezzogiorno d’Italia (secolo XVI), Firenze, Olschki, 1996. 4 M. L. Cerrón Puga, Materiales para la construcción del canon Petrarquista: las antologías de «Rime» («libri I-IX»), «Critica del testo», II (1999), pp. 275-83.

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di un semplice strumento di lavoro: è anche una chiave di comprensione e interpretazione. Importa certo meno la teoria, sulla quale pure sarebbe interessante dir qualcosa (nell’ambito dei processi di notazione e descrizione della realtà, e di riproposizione di immagini e schemi che la rispecchiano), che non la pratica, ma bisogna dire che negli ultimi anni non è mancata una doppia attenzione: per un verso alla storia delle “intabolature” e degli strumenti di corredo ai testi “dal manoscritto al testo elettronico”, come recita il sottotitolo del libro in cui sono raccolti gli atti di un importante convegno dedicato alla storia degli indici (libro a dire il vero privo di indici suoi)5; per l’altro, a concrete iniziative di descrizione sotto forma di tavola di materiali della tradizione, con intenti di sistematicità. Un esempio convincente è quello dei tre mss. della lirica delle origini riprodotti fotograficamente con strumenti di corredo e contributi di diversi studiosi a cura di Lino Leonardi, dove si può apprezzare l’efficacia euristica di una rappresentazione ‘intavolata’ dei testi e la loro relazione critica con particolari codicologici e paleografici. A questo esempio si può aggiungere quello delle Tavole di canzonieri romanzi “Intavulare”, che si richiama a un’antica pratica umanistica. Ma aggiungerei che una simile forma di rappresentazione svolge un ruolo particolare anche nei confronti dei materiali d’autore. Per quanto riguarda le antologie cinquecentesche si potrebbero citare i diversi casi di raccoltine originali o comunque estremamente significative riconosciute negli ultimi anni da diversi studiosi (Minturno, Veniero, Tansillo, Casa), certo senza disporre di tavole ma inseguendo piste specifiche; e in rapporto allo stesso Petrarca si pensi al diverso volto dell’autore volgare emerso dalle indagini degli ultimi decenni. Non so come i diversi studiosi abbiano lavorato nel tempo, ma se penso a una rappresentazione sintetica di molte delle conclusioni sulla struttura del canzoniere, la sua stratificazione storica e il rapporto con i modelli, la immagino sotto forma di una complessa e articolata tavola dei Rerum vulgarium fragmenta, e immagino che a molte conclusioni si sarebbe potuti arrivare, o forse proprio si è arrivati servendosi di uno strumento simile. La difficoltà nei secoli a comprendere il disegno petrarchesco, rimasto mal decifrato, se non – almeno in apparenza – addirittura inavvertito, può in parte spiegarsi anche con l’assenza di una rappresentazione schematica di quel tipo, o quanto meno con l’incapacità di rappresentarsela mentalmente, e con l’accanimento in una lettura quasi esclusivamente stilistica ‘locale’, limitata ai singoli testi.

5 Fabula in tabula. Una storia degli indici dal manoscritto al testo elettronico, atti del Convegno di studio della Fondazione Ezio Franceschini e della Fondazione IBM Italia, Certosa del Galluzzo, 21-22 ottobre 1994, a cura di Claudio Leonardi, Marcello Morelli e Francesco Santi, Spoleto, Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, 1995.

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A questo proposito credo che alcune delle nostre convinzioni sui testi fondamentali del Petrarchismo possano modificarsi. Stiamo al Cinquecento e consideriamo il caso di Bembo, cui in sostanza è toccata la stessa sorte di Petrarca, ma – si ritiene comunemente – a giusto titolo. Per studiare le sue rime ne ho recentemente predisposto una tavola, che per un verso offrisse il reale disegno dell’edizione romana del 1548, comprensiva perciò dei testi asolani non restituiti dalle edizioni moderne di Dionisotti e di Marti, per l’altro consentisse di avere una visione stratigrafica del disegno d’autore nel ms. Marciano e nelle redazioni a stampa precedenti quella ultima6. Attraverso questa particolare, anche se non particolarmente originale, forma di rappresentazione dello spazio testuale si percepisce un disegno complessivo (179 testi + le stanze, per un totale di 180) e una articolata strutturazione della raccolta, che contiene un vero e proprio canzoniere di 134 testi accuratamente proporzionato, nel quale si riconosce uno sviluppo se non narrativo, che sarebbe chieder troppo, certo progressivo, non solo rispetto alla vicenda d’amore ma anche in relazione a quella biografica dell’autore, con una data conclusiva della vicenda amorosa che si lega ad altri riferimenti interni presenti nella parte funebre: disegno normalmente ignorato a favore di una lettura esclusivamente e, diciamo pure, aridamente stilistica. Per questa struttura, che nella tradizione posteriore e in particolare sul Tasso ha lasciato tracce sorprendenti e, a me pare, indubbie, rinvio a quanto ho già scritto: ma insisto sull’importanza delle tavole intese non come mero strumento privato ma come forma di rappresentazione dello spazio testuale e delle proporzioni che lo regolano, insomma come strumento critico denotativo ed eminentemente antiretorico, e in quanto tale molto affidabile. Tornando alle raccolte antologiche cinquecentesche, e sempre a proposito di tavole, segnalo un’altra iniziativa sviluppata a Pavia a partire dal 2000 con un diverso gruppo di ricerca, e che, vittime e agenti della ormai dilagante acrònimo-mania da cui è per forza di cose afflitto il web, ho chiamato MAMIR, Manoscritti miscellanei rinascimentali. Insieme a RASTA, dedicata alle raccolte a stampa, rientra in ALI, una ricerca sulle Antologie della lirica italiana. A MAMIR si è lavorato molto, cadendo però nella trappola che fin dall’inizio ci si era proposti di evitare. Se infatti lo scopo di questa ricerca è la descrizione di manoscritti miscellanei di rime collocabili tra il 1460 e il 1560 circa, a grandi linee da Boiardo a Della Casa – e si è arrivati in effetti a predisporre le tavole di qualche decina di mss. –, la definizione del modello di descrizione, e soprattutto la messa a punto di un adeguato strumento informatico, hanno però assorbito sinora gran parte delle energie. Arriveremo, 6 Come leggere le «Rime» di Pietro Bembo, «Filologia italiana», I (2004), pp. 161-82, ora in Ordine e numero. Studi sul libro di poesia e le raccolte poetiche nel Cinquecento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2006, pp. 1-27.

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spero tra non molto, a un punto fermo, e non voglio ora descrivervi qualcosa che potrei illustrarvi ma non mostrarvi: cerco di evitare almeno un’altra trappola, quella che porta i progetti a forte componente informatica ad essere magnificati prima che concretamente realizzati. Sottolineo soltanto come la variabilità estrema della struttura dei miscellanei – e la volontà di allestire non un semplice strumento di descrizione o di ripresentazione dei dati sullo schermo, ma un database in grado di restituire informazioni sul contenuto di ogni singola carta e di ogni singolo fascicolo, cioè sui testi in rapporto alla struttura materiale del codice e alle particolarità paleografiche – abbiano reso abbastanza complessa questa fase del lavoro, che si è inoltre confrontata con gli specifici modelli di codifica per la msDescription in corso di elaborazione in ambito anglosassone (MASTER e ora TEI)7. Il primo passo della ricerca, per il quale si dispone già di una certa quantità di dati, consisterà comunque in un censimento generale che delimiti l’ampiezza del bacino di riferimento. In rapporto a RASTA, è importante insistere sulla necessità di affiancare lo studio delle antologie in libri a stampa con quello delle raccolte manoscritte, come è stato fatto anche nel bel libro pubblicato alcuni anni fa da giovani ricercatori di scuola padovana8. Non solo perché, come tutti sanno, per un ampio arco di tempo le due tradizioni procedono appaiate, in un lungo passaggio di testimone; ma anche perché sul piano della valutazione storica, che è quello che più importa e che sorregge e motiva entrambi i progetti, le due tradizioni sono strettamente implicate e si spiegano a vicenda. Modalità di rilevazione dei dati e di schedatura nel progetto RASTA 9 1. Si è innanzitutto ritenuto indispensabile offrire una descrizione bibliografica dell’esemplare delle diverse raccolte utilizzato per la schedatura (in 7 Il sito di MASTER (Manuscript Access through Standards for Electronic Records, ) non è più raggiungibile; per la TEI Manuscript Description Taskforce si veda ; per MAMIR rinvio a Simone Albonico, I manoscritti miscellanei di rime quattro-cinquecenteschi. Il progetto di ricerca ALI-MAMIR (Manoscritti miscellanei rinascimentali), in La lirica del Cinquecento. Seminario di studi in memoria di Cesare Bozzetti, a cura di Renzo Cremante, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2004, pp. 221-50, ora in Ordine e numero (cfr. nota 6), pp. 183-212. 8 “I più vaghi e i più soavi fiori”. Studi sulle antologie di lirica del Cinquecento, a cura di Monica Bianco ed Elena Strada, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2001, con studi di Beatrice Bartolomeo, Franco Tomasi e Paolo Zaja. 9 Alla stesura di questa parte ha collaborato Gianantonio Nuvolone (autore della quasi totalità della schedatura in dettaglio dei volumi: vedi qui a p. 313), che ha fornito gli esempi citati nelle note 10-11, 15-17 e 19. Come si è detto, il database, sulla base del progetto di schedatura, è stato disegnato e strutturato da Cristiano Animosi. I criteri generali qui illustrati e la descrizione bibliografica e delle soglie dei singoli voll. sono a cura mia.

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una prima fase, infatti, le descrizioni informeranno sul contenuto di singoli esemplari, in attesa di poter offrire informazioni più complete su eventuali varianti di stampa). La descrizione bibliografica segue le norme ISBD(A), con le modifiche apportate a partire dal 1995 nella Guida alla catalogazione in SBN. Libro antico e recepite dal Censimento nazionale delle edizioni italiane del XVI secolo EDIT16 (). RASTA adotta la divisione in aree di ISBD(A), relativamente all’area del titolo, della pubblicazione e della descrizione fisica. Non si distingue un’area dell’edizione, e le notizie relative eventualmente presenti in frontespizio vengono annesse al titolo. Le modifiche apportate da RASTA alla descrizione – rassegnandoci a una non perfetta coincidenza con gli standard in uso in ambiti strettamente bibliografici – hanno carattere integrativo, ai fini di una più precisa informazione sulla struttura dei libri e sul loro contenuto: – nella Descrizione fisica dell’esemplare vengono incluse nel computo le eventuali pagine o carte finali bianche, individuate e verificate in base alla struttura fascicolare; – per le opere pubblicate in più tomi/volumi si fornisce una Descrizione fisica dei singoli tomi/volumi del tutto analoga a quella delle opere in un solo tomo/volume; – nelle Note, in generale adibite a rilevare particolarità della fascicolazione e del contenuto, sono segnalati gli errori di numerazione delle pagine, così che le tavole possano poi far riferimento alla corretta successione numerica. Al di fuori delle norme descrittive si è inoltre realizzata una fedele trascrizione di tutti i dati presenti sul frontespizio (senza riferimenti a immagini e decorazioni), seguendone il decorso dal titolo sino alle indicazioni d’edizione. È in tal modo possibile una restituzione globale delle informazioni, inclusi gli elementi accessori che le regole ISBD(A) escludono dalla descrizione bibliografica: iniziali o forme estese delle cariche, invocazioni, motti, dediche, imprimatur, ecc. 2. Considerata la natura della ricerca si è ritenuto necessario, diversamente da quanto avviene in sedi bibliografiche e critiche, informare dettagliatamente su estensione e natura delle parti liminari di ciascun libro. Sono perciò considerate Soglie i blocchi che precedono e seguono i testi poetici, e nella descrizione (in cui il vero e proprio corpus delle rime è ridotto a un semplice lemma) si possono incontrare voci riconducibili ad alcuni tipi principali: – carte bianche; – lettera dedicatoria;

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– testo di presentazione e/o a carattere critico prologico; – rime proemiali10; – avvertenze ai lettori; – [testi delle rime]; – tavola-indice finale delle rime; – testo di raccomandazione e/o a carattere critico epilogico; – lettera di raccomandazione e impetrazione11; – errata corrige; – registro; – colophon; – marche in luoghi diversi dal frontespizio; – carte bianche.

Per ogni voce si indica luogo iniziale e finale, mentre la descrizione oscilla a seconda dei casi tra un minimo (per le carte bianche: la sola estensione) e un massimo di indicazioni (per la lettera dedicatoria: autore, destinatario, intestazione, incipit-frase d’esordio, explicit-data e sottoscrizione). 3. La registrazione delle informazioni relative ai testi poetici, in cui consiste il cuore dell’archivio, comporta innanzitutto la creazione di una scheda per ciascuna poesia (di cui si potranno poi incontrare occorrenze molteplici in libri diversi). In tale scheda (corrispondente nel database alla tabella ‘Poesie’) è registrata: a) l’attribuzione che alla luce degli studi e delle verifiche compiute viene ritenuta certa o più probabile per il testo (in generale è questo un dato che potrà essere sottoposto nel tempo a progressive verifiche); b) l’incipit del testo, in una versione radicalmente normalizzata dal punto di vista ortografico (Incipit uniforme), tale da assicurare un efficace ordinamento alfabetico, in cui incipit con avvii identici figurino effettivamente uno accanto all’altro; c) l’aspetto metrico del testo, e più in particolare la forma metrica, se è il caso il numero delle stanze e/o dei versi, lo schema metrico comprensivo degli eventuali annessi (ripresa e congedo) e altre particolarità

10 Ad esempio gli undici testi d’omaggio, di Traiano Dordoni e Cesare Donelli Lollio, che nel Libro nono seguono la dedicatoria a Guglielmo Gonzaga, o nel libro secondo De le rime di diversi nobili poeti toscani raccolte da M. Dionigi Atanagi (1565) il sonetto Re sacro e invitto, a cui con sì secondo di Benedetto Guidi Al Serenissimo Re Giovanni II. Eletto d’Ungheria. 11 Per esempio nel Libro quarto del 1551, nel quale compare una lettera non datata a firma di Orazio Diola (presente come poeta nello stesso volume) rivolta al dedicatario Giulio Grimani.

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riguardanti la misura (se diversa da quelle canoniche endecasillabica e settenaria) e la forma dei versi (se tronchi o sdruccioli)12. 4. Il contenuto dei libri e le singole attestazioni delle poesie vengono descritti nella tabella ‘Dettaglio libri’, dove si registra: a) la posizione del testo (sigla del libro, pagina o carta iniziale e finale13, numero progressivo assoluto all’interno del libro assegnato dallo schedatore, numero progressivo relativo alle rime di quell’autore, eventuale sezione di appartenenza); b) la rubrica e l’incipit del testo, trascritti con criteri semidiplomatici14 e collegati al corrispondente incipit uniforme, segnalando inoltre: l’eventuale discordanza tra l’attribuzione della rubrica, quella verificata nella tabella ‘Poesie’ e quella della Tavola finale del libro; le eventuali discordanze con l’incipit come compare nella Tavola finale del libro; i nomi degli eventuali corrispondenti, destinatari o dedicatari del testo. 5. In diversi casi i dati raccolti vengono riproposti in forma normalizzata e verificata. Questo avviene, oltre che con gli incipit uniformi (secondo i criteri esposti qui avanti), anche in quello dei nomi di persona, autori, destinatari o editori. L’attribuzione delle rime fornita dalle stampe viene verificata quando possibile su fonti moderne criticamente affidabili, senza peraltro impegnarsi in una sistematica ricerca della paternità di tutti i testi. In primo luogo si considerano le proposte di attribuzione ad autori celebri che possono trovare immediato riscontro in edizioni critiche moderne e in altri contributi, quali saggi in rivista, tesi di laurea o di dottorato15; in mancanza di questi strumenti

12 L’ambiguità di alcuni schemi di madrigale e di ballata ha influito sulla definizione stessa del metro, per componimenti di non più di una dozzina di versi nei quali la ripetizione delle rime iniziali nella parte finale rende insicura la classificazione (originalità dello schema di madrigale o ripresa-schema di ballata?). 13 Si restaura la corretta progressione numerica e si segnala in un apposito campo della tabella l’errato numero di pagina così come compare nel volume. 14 Vengono corretti solamente gli evidenti refusi tipografici, distinte le v dalle u e ridotte le maiuscole che, estranee all’uso moderno o motivate da abitudini tipografiche, non costituiscono nemmeno un’allusione o un senhal del nome del destinatario. Tutte le altre particolarità e la punteggiatura dell’originale (esclusa quella di fine verso) sono conservate. 15 Sono sempre possibili false attribuzioni non ancora recepite da edizioni critiche: le 47 poesie di Giovanni Alfonso Mantegna nelle tre edizioni delle Rime di diversi signori napoletani (1552-1555) sono in realtà da restituire a Luigi Borra (per il quale si veda L’amorose rime, a cura di C. Rabitti, Roma, La Fenice, 1993; la segnalazione nella scheda di S. Albonico relativa all’ed. originale del Borra in “sul Tesin piantàro i tuoi laureti”.

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la verifica è stata condotta su stampe antiche e prime edizioni, che possono quantomeno costituire una testimonianza coeva sulla fortuna e la cronologia dei componimenti. Quando non siano disponibili (o non siano state ancora consultate) edizioni critiche o altri contributi recenti, la rima si considera attribuibile (con procedimento forzatamente acritico) all’autore indicato nella rubrica, nella eventuale errata corrige, nella tavola delle rime compresa nella stampa16 o sulla base di attribuzioni divergenti fornite da ristampe o nuove edizioni. Nel caso frequente di una rima inizialmente data a un Autore incerto, ma che trova una paternità in un altro libro della serie, si presume l’attendibilità dell’indicazione seriore, considerando una proposta di attribuzione più utile di un generico anonimato17. Non si dimentichi che in generale, considerati gli scopi dello strumento che si è voluto allestire, alla ricerca di riscontri si è comunque preferito un accesso immediato ai dati raccolti, opportunamente regolati. Per la normalizzazione dei nomi degli autori si ricorre, se possibile, alle forme onomastiche attestate in una serie di repertori biografici e bibliografici, utilizzati secondo un ordine di preferenza18, mentre per i rimatori minori altrove non attestati il nome è regolato, preferendo la forma reperita nelle stampe antiche in esame affiancata, eventualmente dallo pseudonimo. In vista di una ricerca agevole e completa vengono registrati anche gli eventuali

Poesia e vita letteraria nella Lombardia spagnola (1535-1706), Catalogo della mostra, Pavia, Castello Visconteo, Pavia, Cardano, 2002, pp. 72-73). 16 Come accade nel Libro quarto per i due sonetti di Goro Dalla Pieve e nel Libro nono per le 77 rime di Giulio Nuvolone, attribuiti ai due autori dalle rispettive tavole delle rime, mentre nelle pagine ove compaiono non sono introdotti da indicazioni di paternità: in entrambi i casi si può ipotizzare, più che un tardivo intervento critico, una caduta meccanica della rubrica. 17 Esclusa una rubrica del Libro sesto curato da Girolamo Ruscelli, Risposta à le precedenti stanze. Dal s. S., cc. 112-114r: si tratta quasi certamente del marito di Virginia Salvi, la cui identificazione è incerta (Matteo Salvi o Achille Salvi? l’identità della stessa donna, da nubile, oscilla tra Virginia Martini di Matteo e Virginia Luti di Achille): la rima resta di autore incerto. 18 Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1960 ss.; Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 1929-2000; IBN. Index bio-bibliographicus notorum hominum, edidit J.-P. Lobies; poi ediderunt O. et W. Zeller, Osnabrück, Biblio Verlag, 1973 ss.; L. Ferrari, Onomasticon. Repertorio biobibliografico degli scrittori italiani dal 1501 al 1850, Milano, Hoepli, 1947 (e i repertori lì indicizzati); Indice biografico italiano, a cura di T. Nappo e P. Noto, München, K. G. Saur, 1993; G. Mazzuchelli, Gli scrittori d’Italia cioè notizie storiche e critiche intorno alle vite e agli scritti dei letterati italiani, Brescia, Bossini, 1753-1762; e altri minori.

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nomi umanistici e le varianti morfologiche, fonetiche e grafiche del nome, purché direttamente attestati nelle raccolte. In questa prima fase nelle schede non sono raccolte informazioni particolareggiate sulla vita e le opere degli autori, ma unicamente gli estremi cronologici rinvenuti nei repertori, nelle schede biobibliografiche o nelle edizioni già utilizzate per la verifica dell’autenticità dei componimenti. 6. La normalizzazione dell’incipit – che non solo, come già detto, è funzionale a un più attendibile ordinamento dei testi, ma è anche indispensabile per un’efficace ricerca dei testi tramite indicazione di una o più parole comprese nel primo verso – è fondata sulla lezione della prima occorrenza della poesia nelle raccolte, e di conseguenza può in alcuni casi non corrispondere in tutto alla lezione presente in altre edizioni19. In nessun caso l’incipit è stato formalizzato o rinnovato sulla base di studi o edizioni critiche moderne, se non a conferma e correzione di un errore di stampa, e tanto meno si è avuta mai l’intenzione di attribuire all’Incipit uniforme una valenza critica o compendiosa di successive fasi elaborative. Per stabilire la versione normalizzata dell’incipit si sono adottati i seguenti criteri di trascrizione, ponendosi come unico limite il mantenimento della misura sillabica del verso in termini di puro computo ‘teorico’, operando sinalefe laddove si sono eliminate elisioni: – distinzione di v da u; – modernizzazione della grafia y in i, di -j in -i e di -ij in -ii; – eliminazione di h etimologica e pseudoetimologica (tranne che nei casi in cui ha valore diacritico, nei quali se manca viene aggiunta), anche nei nomi propri di stampo classico; – riduzione delle grafie ph + vocale a f, di th a t; – regolazione delle nasali preconsonantiche secondo l’uso moderno; – riduzione di -ti- (-tti-) e -ci- + vocale a -zi- + vocale (e di -cti- + voc. a -zi- + voc.); – resa delle grafie -bs- con s semplice o -ss-; – resa di x latineggiante con s o ss;

19 Per esempio: nel Libro secondo del 1547 compare per la prima volta (su un totale di ben otto attestazioni), adespoto (così anche nella ristampa del 1548), il sonetto di Bernardo Cappello Ne per orgoglio mai, ne per vostr’ire: da questa forma deriva l’Incipit uniforme della poesia, Né per orgoglio mai, né per vostre ire, e a quest’ultimo è subordinata anche l’altra lezione della stessa rima offerta dal Libro quarto, ossia Ne per disdegni mai, ne per vostr’ire (qui attribuita ad Andrea Navagero).

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– eliminazione di i dopo c, g e sc e davanti a vocali palatali (tranne in sede di rima); – riduzione di et a e davanti a consonante, regolazione di et davanti a vocale secondo le esigenze prosodiche e generale passaggio di et a ed; – modernizzazione delle interiezioni con l’introduzione di h e dell’accentazione; es. oh per o (ò), ahi per ai, deh per de, ohimè per oime (oihme), ecc.; – introduzione dei segni diacritici e della punteggiatura moderni; – mantenimento delle parentesi dell’originale; – valutazione critica e contestuale delle maiuscole presenti nell’originale: le forme come Signore, Amore, Fortuna, Natura, ecc., sono mantenute se riferite a divinità o enti (nota bene: dio pagano, ma Dio cristiano); – ripristino delle vocali elise o cadute per aferesi laddove ciò sia possibile senza alterare il computo sillabico: si vedano, a titolo d’esempio, le forme c’, ch’, co’, d’ (per di o da); de’, l’ (per la, le, ecc.), ’l, m’, mentr’, n’, ne’, ond’, ov’, perch’, que’, quell’ (per quella, quelle, ecc.), s’ (per se, si), v’ (senza eccezioni, nemmeno per di onde e di intorno), nonché le parole tipo be’ per bei, ciel per cielo, cor per core, fulgid’ per fulgide, ’ncresce per incresce, pensier per pensiero, sol per sole o solo, veggi’ per veggio, ecc. – nelle preposizioni articolate accorpamento delle forme analitiche a/de/ne + lo/la/gli/i/le/l’ in allo, nello, dello, alla, nella, della, agli, negli, degli, ai, nei, dei, alle, nelle, delle, ecc., e di su ’l/su l’, su la in sul, sullo, sulla, ecc.; fanno eccezione con lo, con la, fra/tra i, fra/tra le, ecc., che restano separati o vengono così risolti dalle forme collo, colla ecc. – separazione delle parole secondo l’uso moderno; gli avverbi del tipo già mai, là su, ogni or, or/ora mai, tal or, ecc., vengono risolti in giammai, ognor, lassù, ormai/oramai, talor; ogn’un, altr’ier e simili passano a ognun, altrier. – adeguamento alla forma più vicina a quella corrente (di solito già prevalente) per forme concorrenti del tipo fust- fost-, penser- pensier-, simplic- semplic-.

ESEMPI Si riportano qui, a illustrazione delle modalità di registrazione dei dati, alcuni esempi di record pertinenti alle principali tabelle, indicando il nome dei campi in corsivo (quando conviene solo la prima volta che compaiono). Libri Nella tabella ‘Libri’ vengono rilevate le informazioni utili alla descrizione dei libri, anche in funzione di presentazioni differenziate (descrizione short-title, trascrizione completa del frontespizio). La descrizione di riferimento segue i cri-

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teri bibliografici sopra indicati (nei campi Area Titolo, Area Pubblicazione, Area Descrizione fisica). Non si riportano qui tutti i dati che vengono isolati in campi appositi ai fini della presentazione e dell’indicizzazione. Sigla 1-1545/1 Frontespizio completo Rime diverse di molti eccellentiss. auttori nuovamente raccolte. Libro primo. Con gratia & privilegio. In Vinetia appresso Gabriel Giolito di Ferrarii MDXLV.

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Descrizione bibliografica. Area Titolo Rime diuerse di molti eccellentiss. auttori nuouamente raccolte. Libro primo. Descrizione bibliografica. Area Pubblicazione In Vinetia : appresso Gabriel Giolito di Ferrarii, 1545. Registrazione indicizzata dei dati relativi alla Pubblicazione Luogo: Venezia; Editore/Tipografo: Giolito de’ Ferrari, Gabriele; Anno: 1545 Descrizione bibliografica. Area Descrizione fisica 370, [26] p. ; 8°. Curatore Domenichi, Ludovico Biblioteca e segnatura dell’esemplare utilizzato Pavia, Biblioteca Universitaria, 63.S.1. Note Errori di numerazione delle pagine: 75 per 85, 35 per 355. All’esemplare pavese mancano le ultime due carte dell’ultimo fascicolo (Bb78), che costituirebbero le pp. finali [27-30], e che quando presenti (ad es. Pavia, Collezione privata) sono bianche. Prima edizione Sì Serie Rime di diversi 1545-1560 Sigla 6-1553/1 Frontespizio completo Il sesto libro delle rime di diversi eccellenti autori, nuovamente raccolte, et mandate in luce. Con un discorso di Girolamo Ruscelli. Al molto reverendo, et

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honoratiss. monsignor Girolamo Artusio. Con gratia, et privilegio. In Vinegia al segno del Pozzo. M.D.LIII. Area Titolo Il sesto libro delle rime di diuersi eccellenti autori, nuouamente raccolte, et mandate in luce. Con un discorso di Girolamo Ruscelli.

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Area Pubblicazione In Vinegia : al segno del Pozzo, 1553 (In Vinegia : per Giovan Maria Bonelli, 1553). Registrazione indicizzata dei dati relativi alla Pubblicazione Luogo: Venezia; Editore: Al segno del Pozzo; Tipografo: Bonelli, Giovanni Maria; Anno: 1553 Area Descrizione fisica [4], 276, [14] c. ; 8°. Curatore Ruscelli, Girolamo Biblioteca e segnatura Pavia, Biblioteca Universitaria, 63.S.1. Note Errori di numerazione delle carte: 255 per 155, 160 per 158, 162 per 160, 230 per 234, 232 per 236, 134 per 238, 136 per 240; cc. 55 e 151 non numerate. Fascicoli finali segnati 1 e 2. All’esemplare pavese mancano le ultime carte dell’ultimo fascicolo (2.7-8), presenti in altre copie (ad es. in BNB XX.34), dove costituiscono le cc. [15-16] finali, bianche. In fine all’esemplare pavese, dopo il colophon, sono allegate alcune carte che testimoniano una variante di stato tipografico del libro (cc. 4, 5, 108, 109), con contenuto parzialmente diverso. Prima edizione Sì Serie Rime di diversi 1545-1560 Sigla Fiori-1558 Frontespizio completo I fiori delle rime de’ poeti illustri, nuovamente raccolti et ordinati da Girolamo Ruscelli. Con alcune annotationi del medesimo, sopra i luoghi, che le ricercano per l’intendimento delle sentenze ò per le regole & precetti della lingua, & dell’ornamento. Con privilegii. In Venetia per Gio. Battista & Melchior Sessa fratelli, 1558.

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Area Titolo I fiori delle rime de’ poeti illustri, nuouamente raccolti et ordinati da Girolamo Ruscelli. Con alcune annotationi del medesimo, sopra i luoghi, che le ricercano per l’intendimento delle sentenze o per le regole & precetti della lingua, & dell’ornamento. Area Pubblicazione In Venetia : per Gio. Battista & Melchior Sessa fratelli, 1558. (In Venetia : per Giouambatista & Marchio Sessa fratelli, 1558) Registrazione indicizzata dei dati relativi alla Pubblicazione Luogo: Venezia; Editore/Tipografo: Sessa, Giovanni Battista & Sessa, Melchiorre; Anno: 1558

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Area Descrizione fisica [40], 17-608 [ma 624], [56] p. ; 8°. Curatore Ruscelli, Girolamo Biblioteca e segnatura Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, XX.19 Note Prime pagine con registro: *8, **8, ***4. L’ultima carta con pagine non numerate ospita i primi testi poetici, ed è seguita dalla prima pagina numerata (17). Estendendo a ritroso la numerazione la p. 1 viene a coincidere con la c. **5r. L’edizione contiene un fascicolo 2L (pp. 193-208) con rime di Ferrante Carafa inizialmente non previsto (il richiamo su L8v, dopo tre sole rime del Carafa, annuncia la rubrica di M1r) ma regolarmente censito nella Tavola finale. Il fascicolo M riprende la numerazione da 193. Errori di numerazione: da 155 per 145 a 159 per 149; 162-163 per 152-153, 166-167 per 156-157; da 170 per 160 a 186 per 176; ripetute le pp. 193-208 (fascc. 2L e M); 336 per 335, 368 per 370, 369 per 371, 372 per 374, 373 per 375, 376 per 378, 377 per 379, 380 per 382, 381 per 383, 419 per 519, 345 per 543. Prima edizione Sì

Soglie Per ottenere un corretto ordinamento delle registrazioni in piena corrispondenza con la successione delle voci all’interno dei libri, si è stabilito che tutto ciò che precede i testi delle rime sia pertinente a una sezione 0, che le rime e il corpo del libro pertengano a una sezione 1 e che tutto ciò che segue

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nel finale afferisca a una sezione 2. All’interno delle sezioni 0, 1, 2 le singole voci si succedono con numerazione progressiva. Si esemplifica la registrazione delle Soglie su 9-1560/1, Rime di diversi autori eccellentiss. Libro nono, In Cremona per Vincenzo Conti MDLX.

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Identificatore della parte.Identificatore assoluto 0.1 PaginaInc(-PaginaExp) [2] Intestazione (o contenuto) [bianca] 0.2 [3]-[7] All’illustrissimo et eccellentiss. s. Guglielmo Gonzaga duca di Mantoa meritissimo. et s. mio sempre osservando Incipit Veramente vano, anzi di niun frutto sarebbe stato il desiderio mio, & l’esser’io nato sotto l’ali dell’Illustriss. casa Gonzaga [ecc.] Explicit Di Cremona il X. di maggio. MDLX. Di v. ecccell. [sic] minimo et affet.mo servitore Vincenzo Conti Data vincolata 10/05/1560 Autore Conti, Vincenzo Destinatario Gonzaga, Guglielmo 0.3 [8] Allo illustriss. et eccellentissimo sign. duca di Mantoa Traiano Dordoni Incipit Da ch’Ermete, e Traiano hoggi vincete IDPoesia (Incipit normalizzato) Da che Ermete e Traiano oggi vincete Autore Dordoni, Traiano Destinatario Gonzaga, Guglielmo

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0.4 [9] All’illustrissimo signor Vespasiano Gonzaga Colonna Puon ben Signor, perch’altri v’ami, e pregi Puon’ ben, signor, perché altri vi ami e pregi Dordoni, Traiano Gonzaga, Vespasiano

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0.5 [10] All’ill. s. conte Ottaviano Martinengo oratore meritiss. della magnifica città di Brescia, presso l’illustriss. signoria di Vineggia. Traiano Dordoni Almo Signor, cui la verace Dea Almo signor, cui la verace dea Dordoni, Traiano Martinengo, Ottaviano 0.6 [11] All’ill. s. conte Broccardo Persico. Cavalier di Rhodi. Traiano Dordoni Che dirò mai di voi, che non sia poco Che dirò mai di voi, che non sia poco Dordoni, Traiano Broccardo, Persico 0.7 [12] All’ill. s. Paolo Ali, r. d. senatore. Traiano Dordoni Dican le genti, che diranno ogn’hora Dican le genti, che diranno ognora Dordoni, Traiano Ali, Paolo 0.8 [13] All’eccellente s. Gio. Bat. Picenardo medico, et fisico eccellentiss. Traiano Dordoni Ceda pur Morte le sue glorie, e l’arco Ceda pur morte le sue glorie e lo arco Dordoni, Traiano Picenardi, Giovan Battista

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0.9 [14] Alla s. Sophonisba Anguisciola. Tariano Dordoni Sophonisba gentil, che di beltate Sofonisba gentil, che di beltate Dordoni, Traiano Anguissola, Sofonisba 0.10 [15] Di m. Cesare Donelli Lollio. Sopra la s. Lucretia Crotta Era l’aer sereno, e ’l mar senz’onde Era lo aer sereno, e il mar senza onde Donelli Lollio, Cesare Crotti, Lucrezia 0.11 [15] Entro le dolci labra Entro le dolci labra Donelli Lollio, Cesare Crotti, Lucrezia 0.12 [16] Vago hora di morir l’ultime note Vago ora di morir le ultime note Donelli Lollio, Cesare Crotti, Lucrezia 0.13 [16] Nasci picciol fanciul, gran Re del cielo Nasci, picciol fanciul, gran re del cielo Donelli Lollio, Cesare Crotti, Lucrezia 1.1 1-334 [=336] [Testi delle rime] Il fine.

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2.1 [1]-[21] Tavola delli autori, et delle rime Il fine. 2.2 [22] Registro.

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2.3 [22] [Colophon] In Cremona per Vincenzo Conti, MDLX.

Poesie Si riporta qui una scheda-tipo per la descrizione di singoli testi, seguita dalla documentazione dettagliata delle varie attestazioni (Dettaglio libri). Autore Tansillo, Luigi Incipit normalizzato Amor, che alberghi e vivi entro il mio petto Forma metrica canzone Numero delle stanze e numero complessivo dei versi 7 ; 98 Schema metrico ABCBACcDdEeFF Congedo cDdEeFF

Dettaglio Libri Nella tabella ‘Dettaglio libri’ vengono rilevate, nell’ordine, di seguito alla sigla del libro: Numero assoluto del testo all’interno del libro; Pagina/Carta dell’incipit; Pagina/Carta dell’explicit; Rubrica che precede direttamente il testo (quando presente); Nome dell’autore cui è attribuito il testo nel

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libro (in forma normalizzata); Numero relativo del testo (fra quelli attribuiti a quell’autore in quel libro); Attribuzione ‘falsa’; Incipit in forma semidiplomatica; Note. I dati raccolti per ciascuna occorrenza vengono poi riproposti nella scheda Profilo poesia visualizzata sul web.

3-1550/1

366

117r

118v

Del s. duca

Castriota, Antonio 1



Amor, ch’alberghi e vivi entro ’l mio petto

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di Ferrandina 5(3)-1552/1 9

9

12

Tansillo, Luigi

9

No

Amor, ch’alberghi e vivi entro ’l mio petto

5-1552/2

9

12

Tansillo, Luigi

9

No

Amor, ch’alberghi e vivi entro ’l mio petto

No

36

5-1555/3

36

25

28

Tansillo, Luigi

9

Fiori-1558

729

495

498

Tansillo, Luigi

41 No

Amor, ch’alberghi e vivi entro ’l mio petto

Fiori-1569

728

244r

245r

Tansillo, Luigi

41 No

Amor, ch’alberghi e vivi entro ’l mio petto

Fiori-1579

728

230v

231v

Tansillo, Luigi

41 No

Amor, ch’alberghi e vivi entro ’l mio petto

Fiori-1586

728

230v

231v

Tansillo, Luigi

41 No

Amor, ch’alberghi e vivi entro ’l mio petto

RsI-1556

856

585

588

Tansillo, Luigi

9

Amor, ch’alberghi e vivi entro ’l mio petto

No

Amor, ch’alberghi e vivi entro ’l mio petto

Elenco dei libri schedati I libri sino ad ora schedati sono brevemente descritti alle pp. 314-315. Si segnala qui, accanto alla sigla identificativa, la collocazione e la segnatura degli esemplari utilizzati (l’elenco è in ordine di libro e cronologico). 1-1545/1: Pavia, Biblioteca Universitaria, 63.S.1 1-1546/2: Milano, Biblioteca Trivulziana, Triv. L 1031.1 1-1549/3: Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, 25.16 A.21 2-1547/1: Milano, Biblioteca Trivulziana, Triv. L 1031.2 2-1548/2: Pavia, Biblioteca Universitaria, 63.S.1 3-1550/1: Milano, Biblioteca Trivulziana, Triv. L 1031.3 4-1551/1: Perugia, Biblioteca Augusta, I N 5134/3 5 (3)-1552/1: Milano, Biblioteca Trivulziana, Triv. L 1031.7 5-1552/2: Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, XX.33 5-1555/3: Pavia, Biblioteca Universitaria, 63.S.1 6-1553/1: Pavia, Biblioteca Universitaria, 63.S.1 7-1556/1: Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, XX.35 9-1560/1: Milano, Biblioteca Trivulziana, Triv. L 1031.9 Fiori-1558: Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, XX.19 L1-1565: Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, XX.188

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L2-1565: Biblioteca Nazionale Braidense, XX.189 RsI-1556: Pavia, Collezione privata RsI-1586: Pavia, Collezione privata RsII-1564: Pavia, Collezione privata

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Elenco dei libri censiti Elenco qui di seguito i libri censiti come pertinenti al progetto RASTA, una ventina dei quali sono attualmente in corso di schedatura a cura di Erika Bozzato, Massimo Castellozzi e Alessandro Peonia. La lista è stata compilata utilizzando il repertorio di Hugues Vaganay, Le sonnet en Italie et en France au XVIe siècle, cit.; quello di Italo Pantani, Il libro di poesia, cit.; la bibliografia di Lorenzo Carpané, Edizioni a stampa di Torquato Tasso 1561-1994, Catalogo breve, Bergamo, Centro di studi Tassiani, 1998, vol. II, pp. 767-92; gli studi di Antonio Rossi sulle antologie di lirica cortigiana di inizio secolo (si veda da ultimo Serafino Aquilano, Strambotti, a cura di A. R., Milano, Fondazione Pietro Bembo - Parma, Guanda, 2002, da cui si risale ai contributi precedenti); la banca dati Edit16, a cura dell’ICCU. In RASTA stanno per entrare, a cura di Cristiano Animosi, le descrizioni di 7 volumi della prima serie delle Rime de gli Arcadi. I novantasette libri (alcuni sono semplici opuscoli), che nell’elenco compaiono in ordine cronologico, possono essere ricondotti ad alcune tipologie fondamentali: raccolte generali, raccolte spirituali, raccolte accademiche, raccolte occasionali (celebrative, funebri o altro), raccolte minori, raccolte cortigiane. Come è ovvio, l’elenco non ambisce alla completezza, e per ora non include alcune raccolte occasionali caratterizzate in senso troppo locale o ritenute di minore rilevanza. Si elencano all’inizio alcune raccolte che completano la serie già disponibile sul web. Rime di diversi eccellenti autori raccolte da libri da noi altre volte impressi tra le quali se ne leggono molte non più vedute, In Vinegia, appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari et fratelli, 1553. Il primo volume delle rime scelte da diversi autori, di nuovo corrette, et ristampate, In Vinegia, appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari, 1563. I fiori delle rime de’ poeti illustri nuovamente raccolti et ordinati da Girolamo Ruscelli […], Venezia, eredi M. Sessa, 1569, 1579, 1586. Il secondo volume dlle [sic] rime scelte di diversi autori, di nuovo corrette, e ristampate, In Venetia, appresso i Gioliti, 1586.

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Opera nova composta per diversi auctori zoe sonetti capituli stramboti et barzelette, Stampato in Bologna, per Justiniano da Rubiera, 1502. Collettanee grece latine e vulgari per diversi auctori moderni nella morte de l’ardente Seraphino Aquilano. Per Gioanne Philoteo Achillino bolognese in uno corpo redutte. Et alla diva Helisabetta Feltria da Gonzaga duchessa di Urbino dicate, Bologna, per Caligula Bazaliero, 1504. Opera nuova de Vincentio Calmeta, Lorenzo Carbone, Orpheo mantuano et Venturino da Pesaro et altri auctori […], Stampada in Venetia, per Zorzi di Rusconi, 1507. Compendio de cose nove di Vicenzo Calmeta et altri auctori […], Stampato in Venetia, per Nicolò dicto Zopino, 1507. Fioretto de cose nove nobilissime & degne de diversi auctori noviter stampate […], Impressa in Venetia, per Nicolò detto el Zopino, 1508. Miscelanee nova del preclarissimo poeta maestro Marcho Rasilia da Foligno. Et altri auctori […], Stampata in Venetia, per Nicolò dicto Zopino, [post 8.IV.1508]. Collettanio de cose nove spirituali […] composte da diversi et preclarissimi poeti, In Venetia, per Nicolò ditto el Zopino, 1509. Fioretto de cose nove nobilissime & degne de diversi auctori noviter stampate […], Impressa in Venetia, per Georgio de Rusconi, 1510. Fioretto de cose nove nobilissime & degne de diversi auctori noviter stampate […], In Pesaro, per Pietro Capha a instantia de Nicolò Zopino, [1510?]. Opera nova de laude facte et composte da più persone spirituali o honore dello onnipotente Idio & della gloriosa virgine Maria, In Vinegia, per Georgio de Rusconi a instantia de Nicolò dicto Zopino, 1512. Rispetti d’amore di maestro Marco da Fuligno et di più auctori nuovamente stampati, Siena, Simone Nardi e Giovanni Landi, 1512. Sola virtus fior de cose nobilissime et degne de diversi auctori [...], impressa in Venetia, per Simone de Luere, 1514. Operetta nova di Francesco Senato Anconitano et altri auctori […], stampata nella inclita città di Venetia, 1515. Opera nova del preclarissimo poeta mastro Marcho Rosiglia da Foligno & altri auctori […], Impresso in Venetia, per Georgio de Ruschoni milanese, 1516. Opera moralissima de diversi auctori homini dignissimi et de eloquentia perspicaci […], Stampata in Venetia, per Georgio di Ruschoni ad instantia di Nicolò Zopino & Vicentio compagni, 1516 (e poi 1518 e 1524). Opera nuova chiamata Seraphina [...], Stampata in Roma, per Gabriele da Bologna ad instantia di Gioanni de Carminati da Lodi, 1517. Triomphi sonetti canzone stantie et laude de Dio et de la gloriosa Vergine Maria compsta [sic] da diversi autori, In Venetia, per Zorzi di Rusconi ad instantia de Nicolò dicto Zopino & Vincentio compagni, 1517. Strambotti d’amore bellissimi composti nuovamente per diversi autori, Impressi in Fiorenza, per Giovannistephano di Carlo da Pavia a petitione di Bartholomeo di Matheo Castelli, 1519.

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Versi et regole della nuova poesia toscana, In Roma, per Antonio Blado d’Asola, 1539. Opera nova nella quale si contiene uno capitulo del signor marchese del Vasto. Stanze del signor Alvise Gonzaga. Sonetti di monsignor Bembo, & del divino Pietro Aretino […], In Verona, per Antonio Putelletto Portese. Ad instantia de G. Antonio Dento detto el Cremaschino, 1542. Rime di molti eccellentissimi auttori con alcune stanze amorose […] nuovamente raccolte et stampate, In Vinegia, a instanza di Iacopo Modonese, 1545. Epigrammi latini, et sonetti volgari, et altre compositioni di diversi autori raccolte insieme. Fatte sopra la morte del cardinal Bembo, s. n. t. Rime toscane, et epigrammi latini in morte della diva Cleopatra aretina da diversi aretini composti, In Vinegia, ad instanza di Jacopo Coppa, 1547. Stantie de M. Vincentio Quirino belissime d’amore con alcuni sonetti mirabili sopra varii suggieti d’amore nuovamente venuti in luce, In Venetia, per Bernardin Bindino milanese ad instantia de Baldesara faentino detto il Tonante, 1547. Dialogi maritimi di M. Gioan Iacopo Bottazzo. Et alcune rime maritime di M. Nicolò Franco, et d’altri diversi spiriti dell’Accademia de gli Argonauti, In Mantova, per Iacopo Ruffinelli, 1547. Sonetti de gli Academici Trasformati di Milano, In Milano, per Antonio Borgi, 1548. Libro primo delle rime spirituali, parte nuovamente raccolta da più auttori, parte non più data in luce, In Venetia, al segno della Speranza, 1550. Libro secondo delle rime spirituali, parte non più stampata, parte novamente da diversi autori raccolte, In Venetia, al segno della Speranza, 1550. Rime di diversi eccellenti autori, [Venezia?], ad instantia del Fortunato, [1550?]. Rime diverse di molti eccell. auttori, In Venetia, ad instantia di Alberto di Gratia detto il Thoscano, [1550?]. Libro terzo delle rime spirituali, parte non più stampate, parte nuovamente da diversi autori raccolte, In Venetia, al segno de la Speranza, 1552. Rime di diversi eccellenti autori bresciani, nuovamente raccolte, et mandate in luce da Girolamo Ruscelli; tra le quali sono le rime della Signora Veronica Gambara, & di M. Pietro Barignano, ridotte alla vera sincerità loro, In Venetia, per Plinio Pietrasanta, 1553. G. Ruscelli, Del tempio alla divina signora donna Giovanna d’Aragona, fabricato da tutti i più gentili spiriti, & in tutte le lingue principali del mondo, In Venetia, per Plinio Pietrasanta, 1554. Versi morali et sententiosi di Dante, del Petrarca, di m. Lodovico Ariosto, e de molti altri autori, In Venezia, ne la contra’ di S. Maria Formosa, 1554. Rime diverse di molti eccel. auttori, In Venetia, per Mattio Pagano al segno della Fede, [circa 1555]. Rime [o Sonetti e canzoni] di diversi eccellenti autori, in vita e in morte del’ill. s. Livia Colonna, Roma, per Antonio Barrè, ad instantia di m. Francesco Christiani, 1555.

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De le rime di diversi eccellentissimi autori nuovamente raccolte. Libro primo, In Lucca, [Vincenzo Busdraghi], 1556. Rime diverse d’alcune nobilissime, et virtuosissime donne, raccolte per m. Lodovico Domenichi, Lucca, per Vincenzo Busdrago, 1559. Rime di diversi nobilissimi et eccellentissimi autori in morte della signora Irene delle signore di Spilimbergo [a cura di Dionigi Atanagi], In Venetia, appresso Domenico, & Gio. Battista Guerra fratelli, 1561. Poesie toscane, et latine di diversi eccel. ingegni, nella morte del s. d. Giovanni cardinale, del sig. don Grazia [sic] de Medici, & della s. donna Leonora di Toledo de Medici, duchessa di Fiorenza et di Siena, In Fiorenza, appresso Lorenzo Torrentino, 1563. Rime di diversi eccellentissimi autori. Fatte nella morte dell’illustriss. et eccell. duchessa di Fiorenza et Siena, et de gli illustriss. signori suoi figliuoli, In Ferrara, per Valente Panizza mantovano, 1563. Poesie di diversi authori latine e volgari, fatte nella morte di Michelangelo Buonarroti. Raccolte per Domenico Legati, In Fiorenza, appresso Bartolomeo Sermartelli, 1564. Componimenti volgari, et latini di diversi et eccellenti autori in morte di […] Hercole Gonzaga, cardinale di Mantova, con la vita del medesimo descritta dall’Asciutto Academico Invaghito, In Mantova, appresso Giacomo Ruffinelli, 1564. Rime di diversi eccel. autori in morte della illustriss. sig. d. Hippolita Gonzaga, In Napoli, appresso Io. Maria Scoto, 1564. Rime de gli Academici Affidati di Pavia, Nella inclita città di Pavia, appresso Girolamo Bartoli, 1565. G. Ruscelli, Del tempio alla divina signora donna Giovanna d’Aragona, fabricato da tutti i più gentili spirti, et in tutte le lingue principali del mondo, In Venetia, per Francesco Rocca, 1565. Rime di diversi nobilissimi et eccellentissimi auttori in lode dell’illustrissima signora, la signora donna Lucretia Gonzaga marchesana, In Bologna, per Giovanni Rossi, 1565. Rime di diversi eccelenti autori. Nuovamente stampate, Venezia, Domenico de’ Franceschi, 1566. Componimenti latini e toscani […] composti nella morte di Benedetto Varchi, In Firenze, per i figlioli di Lorenzo Torrentino, e Carlo Pettinari, 1566. Rime spirituali di sette poeti illustri, in Napoli, appresso Giovanni de Boy, 1567. Rime di diversi in lode de’ signori cavalieri di Malta, In Roma, appresso Giulio Accolto, 1567. Rime de gli Academici Eterei dedicate alla serenissima madama Margherita di Vallois duchessa di Savoia, [Padova, 1567]. Le lagrime de gl’Illustrati Academici di Casale in morte dell’illustrissima et eccellentissima madama Margherita Paleologa duchessa di Mantova, et

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marchesana di Monferrato, In Trino, appresso Gio. Francesco Giolito de’ Ferrari, 1567. Rime de gli Academici Occulti con le loro imprese et discorsi, In Brescia, appresso Vincenzo di Sabbio, 1568. Il tempio della divina signora donna Geronima Colonna d’Aragona, In Padoa, per Lorenzo Pasquati, 1568. Il sepolcro de la ill. signora Beatrice di Dorimbergo da gentiliss. et eccellentissimi ingegni ne la toscana, e ne la latina lingua eretto, et celebrato, In Brescia, appresso Vincenzo di Sabbio, 1568. Rime [degli accademici Accesi di Palermo], In Palermo, per Gio. Mattheo Mayda, 1571. Raccolta di varii poemi latini, e volgari, fatti da diversi bellissimi ingegni nella felice vittoria reportata da Christiani contra Turchi, In Venetia, appresso Giorgio Angelieri, a instantia di m. Lorenzo Parma, 1571. Raccolta di varii poemi latini, greci e volgari, fatti da diversi bellissimi ingegni nella felice vittoria riportata da Christiani contra Turchi […] [a cura di Gabriele Fiamma], In Venetia, per Sebastiano Ventura, 1572. Trofeo della vittoria sacra, ottenuta dalla christianiss. lega contra Turchi nell’anno MDLXXI […] Con diverse rime raccolte, e tutte insieme disposte da Luigi Groto cieco di Hadria, In Venetia, appresso Sigismondo Bordogna & Franc. Patriani, [1572]. Scelta nuova di rime de’ più illustri et eccellenti poeti dell’età nostra, del s. Girolamo Ruscelli, In Venetia, appresso Giacomo Simbeni, 1573 (In Vinegia, per Giovan Maria Bonelli, 1573). Nuova scelta di rime di diversi begli ingegni, fra le quali ne sono molte del Tansillo non più per l’adietro impresse, e pur’hora date in luce [a cura di Cristoforo Zabata], In Genova, appresso Christofforo Bellone, F. A., 1573. Delle rime de gli Academici Accesi di Palermo. Libro secondo, In Palermo, per Gio. Mattheo Mayda, 1573. Compositioni volgari e latine fatte da diversi, nella venuta in Venetia di Henrico III di Francia e di Polonia […], In Venetia, appresso Domenico Farri, [1574]. Per donne romane rime di diversi. Raccolte, et dedicate al signor Giacomo Boncompagni da Mutio Manfredi, In Bologna, per Alessandro Benacci, 1575. Scelta di laudi spirituali di diversi eccellentissimi, e divoti autori antichi, e moderni, In Firenze, nella stamperia de’ Giunti, 1578. Scelta di rime di diversi eccellenti poeti. Di nuovo raccolte, e date in luce. Parte seconda [a cura di Cristoforo Zabata], In Genova, [Antonio Roccatagliata], 1579. Della scelta di rime di diversi eccellenti auttori. Di nuovo data in luce. Parte prima [a cura di Cristoforo Zabata], In Genova, [Antonio Roccatagliata], 1582 (1589).

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Rasta

Sonetti et altre rime di diversi autori nuovamente raccolte, et date in luce, In Orvieto, appresso Rosato Tintinassi, 1582. Lagrime di diversi poeti volgari, et latini. Sparse per la morte dell’illustriss. et eccellentiss. madama Leonora di Este. Et raccolte da Gregorio Ducchi, In Vicenza nella stamperia nova, 1585 (1584). Rime et versi in lode della ill.ma et ecc.ma s.ra d.na Giovanna Castriota Carr. [...] scritti in lingua toscana, latina et spagnola da diversi huomini illust. in varii et diversi tempi. Et raccolti da don Scipione de Monti, in Vico Equense, Apresso Gioseppe Cacchi, 1585. Raccolta di diverse compositioni sopra le vittorie acquistate in Fiandra dal serenissimo Alessandro Farnese duca di Parma, et di Piacenza [a cura di Giovanni Savorgnan], In Parma, appresso Erasmo Viotto, 1586. Rime di vari autori nuovamente raccolte e date in luce, In Orvieto, per Baldo Salviani, 1586. Rime di diversi celebri poeti dell’eta nostra. Nuovamente raccolte e poste in luce [da Giovan Battista Licino], In Bergamo, per Comino Ventura, e compagni, 1587. Rime funerali di diversi illustri ingegni composte nella volgare e latina favella in morte della molto ill. sig. Isotta Brembata Grumella, In Bergamo, per Comino Ventura & compagni, 1587. Rime de gl’illustrissimi sig. Academici Eterei. All’illustriss. cardinale Scipione Gonzaga, In Ferrara, ad instanza d’Alfonso Caraffa (presso Vittorio Baldini stampator ducale), 1588. Raccolta d’orationi, et rime di diversi, col discorso, descrittione dell’essequie, et disegno del catafalco nella morte dell’illustriss. & reverendiss. cardinal Farnese, fatta da Francesco Coattini, In Roma, per Francesco Coattini, nelli Balestrari, 1589. Canzoni e rime spirituali in morte dell’illustriss. […] cardinal Farnese composte da diversi eccelenti autori, Milano, Leonardo da Ponte, 1589. Mausoleo di poesie volgari, et latine, in morte del sig. Giuliano Gosellini. Fabricato da diversi poeti de’ nostri tempi, In Milano, appresso Paolo Gottardo Pontio, 1589. Della nova scelta di rime di diversi eccellenti scrittori de l’età nostra, parte prima. Novamente raccolte, et mandate in luce, In Casalmaggiore, appresso Antonio Guerino, e compagno, 1590. Scelta di rime di diversi moderni autori. Non più stampate. Parte prima[-seconda], In Genova, appresso gli heredi di Gieronimo Bartoli, 1591 (In Pavia, per gli heredi di Girolamo Bartolo). Rime di Angelo Peregrino et altri moderni auttori scritte a diverse gentildonne […] nuovamente date in luce […], Pavia, appresso Andrea Viani, 1592. Nuova scielta di rime di diversi illustri poeti, In Bergamo, per Comino Ventura, 1592. Scelta di rime di diversi eccellenti poeti, Pavia, Bartoli, 1593.

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Simone Albonico

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Gioie poetiche di madrigali del sig. Hieronimo Casone, e d’altri celebri poeti de’ nostri tempi, dal signor Gherardo Borgogni, di nuovo raccolte, In Pavia, per gli heredi del Bartoli, 1593 (lo stesso volume anche: In Venetia, per Giulio Somascho, 1593) Rime di diversi autori, nelle quali si veggono molti concetti d’amore felicemente spiegati […], In Pavia, per gli heredi di Hieronimo Bartoli, 1593. Le muse toscane di diversi nobilissimi ingegni. Dal sig. Gherardo Borgogni di nuovo poste in luce, In Bergamo, per Comin Ventura, 1594, Le lagrime di Parma in morte del suo signore [...] Alessandro Farnese, In Parma, [Giovanni Francesco Avanzini], 1594. Rime degli Accademici Gelati, In Bologna, presso gli heredi di Giovanni Rossi, 1597. Rime di diversi illustri poeti de’ nostri tempi, di nuovo poste in luce da Gherardo Borgogni d’Alba Pompea, l’Errante academico inquieto di Milano, In Venetia, presso la Minima compagnia, 1599. Oratione e poemi de gli Affidati nella morte del catolico Filippo II re di Spagna, In Pavia, per gli eredi di Girolamo Bartoli, 1599. Orationi e poemi [...] per la venuta della sereniss. Margherita d’Austria a Pavia et per le nozze di essa con Filippo re di Spagna, In Pavia, per Andrea Viani, 1599.

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Maria Gioia Tavoni

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ELEMENTI DEL PARATESTO NELLE EDIZIONI DEI TRIONFI CON IL COMMENTO DELL’ILICINO (SECOLI XV E XVI)*

In un pionieristico studio di Amedeo Quondam, per molti aspetti ancora insuperato, si dà per certo che gli incunaboli delle opere volgari del Petrarca, a partire dal 1470 al 1500 – termine cronologico preso a discrimine per tradizione bibliografica, seppur inadatto all’attività di molte tipografie dell’Umanesimo, non solo in Italia – furono ben 481. Più recenti repertoriazioni hanno incrementato il loro numero a 60, ivi comprese stampe recanti traduzioni in tedesco, francese e persino in fiammingo2. Secondo solo a Dante, il Petrarca conobbe, sotto i torchi europei, picchi di produzione nel 1473 e nel 1494, anno che segna anche il culmine per i Trionfi con il commento dell’Ilicino, uscito in prima edizione a Bologna per Annibale Malpigli nel 14753. Si può

* Abbreviazioni usate: BANLC: Biblioteca dell’Accademia Nazionale dei Lincei e Corsiniana, Roma; BCAB: Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio, Bologna; BEU: Biblioteca Estense Universitaria, Modena; BL: The British Library, Londra; BLO: Bodleian Library, Oxford; BNF: Bibliothèque Nationale de France, Parigi; BNM: Biblioteca Nazionale Marciana, Venezia; BUB: Biblioteca Universitaria, Bologna; IGI: Indice generale degli incunaboli delle biblioteche d’Italia, Roma, Istituto poligrafico dello Stato, 19431981; IISTC: The Illustrated ISTC, general editor Martin Davies, 2. ed., ed. in cd-rom, London, The British Library, Primary Source Media, 1998. 1 Amedeo Quondam, La letteratura in tipografia, in Letteratura italiana, diretta da Alberto Asor Rosa, vol. 2: Produzione e consumo, pp. 555-686, part. p. 592. 2 Si vedano i dati offerti da IISTC. Il più completo repertorio di incunaboli, non sempre affidabile, assegna a Petrarca 92 edizioni nel XV secolo, 39 in italiano. 3 Francesco Petrarca, Trionfi, Bologna, [Annibale Malpigli], 27 IV 1475 (IGI 7543). Mi sia permesso rinviare a Maria Gioia Tavoni, Da un inedito di Albano Sorbelli: il Corpus

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Maria Gioia Tavoni

senz’altro affermare che le edizioni commentate dal medico-umanista senese hanno beneficiato di grandissima fortuna sia nel XV secolo sia in quello successivo. Ciò emerge dalla consultazione della banca dati IISTC e del catalogo in linea Edit 16 4, integrati dalla compulsazione di altri importanti strumenti bibliografici. L’analisi complessiva permette di stabilire che nel Quattrocento le edizioni furono 14; nel Cinquecento, fino al 1522, se ne conta più di una decina. Fra le cinquecentine appare anche una traduzione in lingua spagnola. Ma sulle edizioni del XVI secolo si dovrà comunque con maggior cura indagare poiché esse recano indicizzati nomi di altri commentatori, non so fino a che punto unicamente revisori dell’esegesi di Ilicino. Il rilevamento è dunque ancora in corso di monitoraggio. Non sussistono però dubbi sulla grande diffusione della princeps commentata dei Trionfi, fortuna indiscussa e acclarata dall’antica voce di Cesare Vasoli5 e, fra i saggi più recenti, da quelli della Merry e di Cracolici6, studiosi che hanno sicuramente preso a base alcuni repertori. Così d’altronde si poteva desumere sin dal primo scandaglio, limitato alla sola età incunabolistica e pubblicato nel 1949, dovuto a Ernest Hatch Wilkins, che pure non aveva operato distinzioni tra testo e relativi commenti7. L’anno successivo all’apparizione dei Trionfi, sempre dai torchi bolognesi dell’officina del Malpigli, in realtà unito per l’occasione ad altri soci (Sigimondo de’ Libri appare infatti al colophon in qualità di editore), vide la luce il Canzoniere, come a ragione precisa Sorbelli nel 1929 usando il titolo vulgato di Rime8. Canzoniere e Trionfi ebbero tuttavia storie e vite tipografichartarum e l’indice al commento di Bernardo Ilicino sui Trionfi, in L’Europa del libro nell’età dell’Umanesimo, a cura di Luisa Secchi Tarugi, Firenze, Cesati, 2004, pp. 621-644. 4 Istituto centrale per il catalogo unico e le informazioni bibliografiche, Edit 16. Censimento nazionale delle edizioni italiane del XVI secolo, Roma, ICCU, 1982-, . A tutt’oggi la banca dati contiene circa 53.000 edizioni. 5 In Dizionario biografico degli italiani, vol. 9, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1967, pp. 290-291. 6 Velerie Merry, Una nota sulla fortuna del commento di Bernardo Ilicino ai “Trionfi” petrarcheschi, “Giornale storico della letteratura italiana”, CLXIII (1986), pp. 235-246; Stefano Cracolici, Esemplarità ed emblematica nel commento di Bernardo Ilicino ai Triumphi di Petrarca, in I Triumphi di Francesco Petrarca, a cura di Claudia Berra, Bologna, Cisalpino, 1999, pp. 403-417. 7 Ernest Hatch Wilkins, The separate Quattrocento editions of the Canzoniere and the Triumph, in Id., The making of the “Canzoniere” and other Petrarchan studies, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1951, pp. 379-401. 8 Albano Sorbelli, Storia della stampa in Bologna, rist. anast. a cura di Maria Gioia Tavoni, Sala Bolognese (Bologna), Forni, 2003, (1. ed. 1929), p. 13.

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Elementi del paratesto nelle edizioni dei Trionfi con il commento dell’Ilicino (secoli XV e XVI)

che distinte e separate9, anche se la loro pubblicazione, quasi congiunta, – si ricorda che la princeps di entrambe, edite prive di alcun commento, si deve al prototipografo Vindelino da Spira nel 1470, a un anno dall’introduzione della stampa nella città lagunare10 – apre molti spazi per quanto riguarda la vasta diffusione di Petrarca anche in area bolognese, diffusione peraltro messa a fuoco da Paola Vecchi Galli e da Daniela Delcorno Branca, rispettivamente per i manoscritti e per la tipografia all’epoca dei Bentivoglio11. Mi preme una iniziale considerazione. Proprio perché i Trionfi dell’Ilicino ebbero, sin dal loro apparire, sorti separate dal Canzoniere, per errore fuse nell’IISTC in unica registrazione bibliografica, va rilevato, anche solo a proposito del loro smercio, che l’esame autoptico eseguito su esemplari di edizioni successive alla princeps, porta con una buona dose di attendibilità a stabilire che essi furono sì stampati da medesimi tipografi e/o editori, ma per circolare anche in forma autonoma, nel quadro di un progetto editoriale non unitario per concezione e per realizzazione. Lo prova una attenta indagine sull’esemplare conservato nella Biblioteca Universitaria di Bologna. Esso comprende le due opere in versi di due distinte edizioni, da taluni repertori segnalate al 1488 a causa di un errore di data nel colophon dei Trionfi 12. L’accorpamento delle due edizioni separate è avvenuto infatti in un secondo tempo, in fase di rilegatura. Lo attestano alcuni indizi: i due specifici colophon, di cui quello dei Trionfi è datato 1486 “adi. VII. di Zugno” (Fig. 1.1 e 1.2) e il fatto che entrambe le pubblicazioni portino foliazione e segnature autonome, ripetute per le singole opere. Nonostante la filigrana risulti comune a molte carte

9 Cfr. E. H. Wilkins, The making of the “Canzoniere”, cit., pp. 379-401. Francesco Petrarca, Trionfi, (IGI 7543), cit. e Id., Canzoniere, Bologna, [Annibale Malpigli], ed. Sigismondo de’ Libri, 1476, (IGI 7529). Nella penisola italiana solo alla Biblioteca Apostolica Vaticana le due edizioni bolognesi del Canzoniere e dei Trionfi sono contemporaneamente presenti. A Bologna, la princeps del commento ai Trionfi è conservata presso la BCAB (coll.: 16.O.II.1); l’edizione di Sigismondo de’ Libri del Canzoniere è custodita presso la BUB (coll.: A. V. B.VI.31). Il Registrum di quest’ultima, invece di indicare i fascicoli con lettere e/o numeri, li indicizza dai primi versi. 10 IGI, 7517 11 Paola Vecchi Galli, La stampa a Bologna nel Rinascimento fra corte, università e città. Rassegna del libro di rime, in Sul libro bolognese del Rinascimento, a cura di Luigi Balsamo e Leonardo Quaquarelli, Bologna, CLUEB, 1994, pp. 129-153; Daniela Delcorno Branca, Note sull’editoria bolognese nell’età dei Bentivoglio, “Schede umanistiche”, II (1988), pp. 19-32. 12 Francesco Petrarca, Trionfi, Venezia, Pellegrino de Pasquali, Domenico Bertocchi, 8 IV 1488 [ma 1486], (IGI 7551) e Canzoniere, Venezia, Pellegrino de Pasquali, Domenico Bertocchi, 7 VI 1486, (IGI 7532), BUB, coll.: A.V.B.13/1-2.

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Maria Gioia Tavoni

di entrambe le composizioni (l’immagine di un cappello), forse perché impresse da una stessa partita di carta, gli stampatori, Pellegrino de Pasquali e Domenico Bertocchi, che si sottoscrivono bolognesi, benché operanti tra Reggio Emilia e Venezia13, hanno confezionato le pubblicazioni come prodotti a loro stanti, in modo da essere venduti sia uniti sia disgiunti per singole opere. I Trionfi del 1486 si rinvengono infatti distinti dal Canzoniere dello stesso anno in alcune biblioteche, fra le quali la Corsiniana di Roma e altre importanti istituzioni italiane ed europee. Lo stesso può dirsi delle edizioni del 1490, stampate a Venezia da Pietro di Piasi, con a metro l’esemplare custodito anch’esso all’Universitaria bolognese14. L’incunabolo nella cui prima carta ms. si indica stampato nel 1490, in realtà porta due colophon differenti che neppure i più accreditati repertori registrano. Le date dei colophon, infatti, non sono coincidenti e la numerazione, espressa per carte e apposta con numeri arabi, ricomincia in ciascuna delle due opere petrarchesche. I Trionfi risultano stampati dopo “gli sonetti”, e precisamente nel “i49i.die.io.maii” con l’apposizione di un proprio registro in calce alla sottoscrizione. Il Canzoniere, invece, risulta stampato sempre a Venezia dallo stesso tipografo, ma nel “M.CCCCLXXXX.Adi.XXII.de Aprilo”. Nell’incunabolo del 1490-1491 colpisce un altro particolare, che è riscontrabile, benché in forma differente, anche in quello stampato a Venezia nel 1500 da Bartolomeo Zani15 (Fig.3.1 e 3.2). Nel verso dell’ultima carta dell’indice e della lettera di dedica e della vita del Petrarca, scritta dalla penna dell’Ilicino, vi è una importante xilografia del Trionfo di Amore, impreziosita da una cornice a candelabre con due putti in esergo accanto allo stemma che, tuttavia, nella copia esaminata, non è completato da insegne di appartenenza. Uno sguardo al cammino iconografico dei manoscritti, come suggerì a suo

13 Domenico, insieme con il fratello Dionisio e i famigliari più stretti, si era trasferito da Reggio Emilia a Bologna almeno dall’11 ottobre 1486, come mostra la denuncia della venuta in città pubblicata da Albano Sorbelli, Corpus chartarum Italiae ad rem typographicam pertinentium ab arte inventa ad ann. MDL, vol. 1: Bologna, a cura di Maria Gioia Tavoni, con la collaborazione di Federica Rossi e Paolo Temeroli, premessa di Anna Maria Giorgetti Vichi, Roma, IPZS, 2004, doc. CCLXI, pp. 276-277. Sorbelli dà tuttavia adito all’ipotesi che Domenico, insieme con i fratelli Dionisio e Donino, socio quest’ultimo di Ugo Ruggeri tra il 1474 e il 1476, fosse giunto a Bologna in anni precedenti: cfr. A. Sorbelli, Storia della stampa, cit., pp. 29-31. 14 Francesco Petrarca, Trionfi, Venezia, Pietro di Piasi, [1490], (IGI 7553) e Canzoniere, Venezia, Pietro di Piasi, 22 IV 1490, (IGI 7534), coll.: BUB, coll.: A.V.B.VI.28. 15 Francesco Petrarca, Trionfi, Venezia, Bartolomeo Zani, 6 III 1500, (IGI 7528) e Canzoniere, Venezia, Bartolomeo Zani, 28 IV 1500, (IGI 7528), coll.: BUB, coll.: A.V.B.VI.2.

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Elementi del paratesto nelle edizioni dei Trionfi con il commento dell’Ilicino (secoli XV e XVI)

tempo Michele Feo16, è necessario per capire donde trae ispirazione il legno del 1491, il quale può ritenersi elemento da non trascurare nella ricognizione delle fonti dell’altra incisione di medesimo soggetto che compare nella prima edizione della celeberrima Hypnerotomachia aldina. La grande qualità della decorazione xilografica che orna i Trionfi veneziani del 1490 è stata più volte rimarcata. Ne sono stati persino individuati i modelli iconografici nella serie di incisioni su rame, di stile fiorentino, risalenti agli anni ottanta del Quattrocento17. Ne è stato ipotizzato l’autore nel cosiddetto “Maestro del Plinio di Pico”, artista emblematico del passaggio dalla decorazione miniata a quella xilografica negli incunaboli veneti18. Mi sembra tuttavia che non sia stato ancora posto il necessario accento sulla forte dipendenza dei trionfi messi in scena nella misteriosa quanto superbamente illustrata Hypnerotomachia Poliphili, raffigurati in modi assai prossimi a quelli illustrati nove anni prima nell’edizione petrarchesca di Pietro di Piasi. Così come forse non è inutile segnalare che l’eredità dei trionfi polifileschi è stata raccolta, tra gli altri, dal Trionfo d’Amore e da quello di Castità che ornano anche il Petrarca veneziano, stampato da Zani19. La notorietà del commento, nelle varie stampe del Quattro e del Cinquecento, ha indotto a focalizzare poi l’interesse su altri aspetti delle manifestazioni con cui incunaboli e cinquecentine si presentavano al pubblico dei lettori, per tentare di cogliere fenomeni propri della produzione tipografica20.

16 Voce Francesco Petrarca, in Enciclopedia Virgiliana, vol. IV, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1988, p. 61. 17 Joseph Burney Trapp, Illustrations of Petrarch’s Trionfi from Manuscript to Print and from Print to Manuscript, in Incunabula. Studies in Fifteenth-century Printed Books presented to Lotte Hellinga, ed. by Martin Davies, London, The British Library, 1999, pp. 507-547. 18 Lilian Armstrong, Il maestro di Pico: un miniatore veneziano del tardo Quattrocento, “Saggi e memorie di storia dell’arte”, (XVII), 1990, pp. 7-39, 215-253. Prima di questo studio si vedano soprattutto: Giordana Mariani Canova, La miniatura veneta del Rinascimento, Venezia 1969, pp. 74-76, 157; Silvia Urbini, Immagini evocate, incise, miniate nei libri di Alberto Pio, in Atti del Convegno Internazionale di studi Alberto III e Rodolfo Pio collezionisti e mecenati, Carpi, Palazzo dei Pio da Carpi, 22-23 novembre 2002, a cura di Manuela Rossi, Tavagnacco, Arti grafiche friulane, 2004, pp. 199-200. 19 Come hanno stabilito gli studiosi delle fonti testuali del Polifilo, i sei trionfi messi in scena da Francesco Colonna dal punto di vista letterario derivano - più che da Petrarca dall’Amorosa Visione di Boccaccio: cfr. Francesco Colonna, Hypnerotomachia Poliphili, a cura di Marco Ariani e Mino Gabriele, Milano, Adelphi, 1998, tomo II, pp. 792-95. 20 Sulla ricezione degli scritti in volgare di Petrarca nei primi due secoli della stampa si veda Luigi Balsamo, Chi leggeva le cose volgari del Petrarca nell’Europa del Quattrocento e Cinquecento, in L’Europa del libro, cit., pp. 149-167.

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Maria Gioia Tavoni

Indugiando sulla princeps dei Trionfi commentata dall’Ilicino (1475), in particolare sull’esemplare dell’Archiginnasio, unico testimone presente a Bologna, penso di aver già dato prova che tipografo e commentatore non si conoscessero, come qualche studioso ha supposto. Nel colophon di diversi esemplari consultati, appartenenti alla successiva edizione del 1486, si legge finalmente una delle forme più comuni in cui appare il nome del medicoumanista toscano: “Misser Bernardo da monte illicinio da Siena”. Ma nei caratteri tipografici della princeps, come pure nella edizione del 147821, all’incipit della lettera di dedica a Borso d’Este, peraltro già morto al tempo della stampa, Ilicino figura in una curiosa variante del proprio nome, ossia Glicino. Riassumendo per sommi capi ciò che ho tentato di precisare altrove, l’importante esegesi a stampa dei Trionfi, uscita ancor prima che venisse dato in luce un commento a stampa della Commedia, come Dionisotti con grande autorità ha rilevato, si fonda su una tradizione di descrizione bibliografica dove insigni bibliotecari e bibliografi hanno creato il fantasma di un Glicino, declinato pure in Glicini, nelle vesti dell’autore del commento22. L’editio princeps del commento ai Trionfi reca un sintetico colophon che non rivela la identità del responsabile dell’esegesi; il suo nome è conficcato al termine del testo, prima del Finis e del colophon. È forse questo il primo elemento da cui è dipesa la continuità fra quanti hanno insistito sulla forma Glicini, perpetuando nel tempo l’errore così come si rileva anche in numerosi repertori e in alcune indicazioni delle maggiori e più attente strutture bibliotecarie sia italiane sia straniere. Con ragione Roberto Ridolfi già nel 1949 rimproverava anche i più agguerriti bibliografi del passato, i quali non si erano curati “neppure di dare un’occhiata al contenuto dei libri che venivano descrivendo e classando” 23. E che per molto tempo nessuno abbia prestato attenzione sul testo del commento che, se non avesse sciolto l’enigma, avrebbe almeno innescato più approndite indagini, è cosa certa. Basti pensare, a comprova del permanere della forma a dir poco singolare del nome dell’Ilicino, che un esemplare della British Library, precisamente quello acquisito alle collezioni del British Museum nel 1861, porta al dorso della legatura, eseguita fra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, scandito fra i nervi, come sorta di campi, le indicazioni dell’opera: “PETRARCHA

21 Francesco Petrarca, Trionfi, Venezia, Reynald von Niemegen, Theodor von Reynsburch, 6 II 1478, (IGI 7530). 22 Cfr. M. G. Tavoni, Da un inedito di Albano Sorbelli, cit. 23 Proposta di ricerche sulle stampe e sugli stampatori del Quattrocento, “La Bibliofilia”, a. LI, 1949, pp. 1-8, p. 2.

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Elementi del paratesto nelle edizioni dei Trionfi con il commento dell’Ilicino (secoli XV e XVI)

TRIOMPHI / CON LA EXPOSITIONE DI BERNARDO GLICINO / BONONIAE / B. AZZOGUIDI, 1475” 24, con l’antica, benché errata, attribuzione all’inventor della tipografia bolognese. L’assenza di richiamo al commentatore nell’explicit o nel colophon non è però la sola responsabile della fallace interpretazione. Da quanto ho potuto riscontrare a seguito dell’esame dei testimoni manoscritti coevi del testo dell’Ilicino, i quali tutti presentano un saut du même au même, sorpreso da mano altrettanto coeva nei marginalia del testimone dell’Archiginnasio, l’errata lettura è scaturita da una macchia di inchiostro addensatasi sul nome del curatore espresso nella epistola dedicatoria del manoscritto estense conservato a Modena, a mio parere, modello all’antigrafo di tipografia entrato nel visorio di Malpigli, dopo essere stato prelevato, e dunque copiato, dalle collezioni del duca d’Este per mano di un suo collaboratore25. Solo una difficile e impegnativa collazione fra il manoscritto ferrarese e la princeps di cui mi sto occupando, data l’entità del commento finora esplorato, a quanto mi risulta, prima da Angela Pozone26, recentemente da Eric Haywood27, potrà portare alla certezza che la macchia di inchiostro sia realmente la causa principale del lapsus di lettura, forse il più macroscopico degli albori della stampa bolognese. Veniamo ora ad un elemento paratestuale di grande rilevanza, soprattutto editoriale: la scelta del formato. Tutte le edizioni dell’esegesi petrarchesca di Ilicino stampate nel XV secolo risultano in folio, formato ritenuto da HenriJean Martin il più diffuso nel primo secolo della stampa28; in verità dati statistici desunti dalla più completa repertoriazione incunabolistica, l’IISTC, non sempre attendibile come si è detto, hanno in parte corretto l’assunto dello studioso francese, confermando lo schiacciante primato dell’in quarto29. Nel

24 BL, coll.: IB. 28593. Ringrazio Stephen Parkin, The British Library, per la competente assistenza alla ricerca. 25 Cfr. M. G. Tavoni, Da un inedito di Albano Sorbelli, cit., part. pp. 628-631. 26 Un commentatore quatrocentesco del Petrarca: Bernardo Ilicino, “Atti dell’Accademia Pontaniana”, 1974, pp. 271-390. 27 “Inter urinas liber factus est”. Il commento dell’Ilicino ai “Trionfi” del Petrarca, in Petrarca e la cultura europea, a cura di Luisa Rotondi Secchi Tarugi, Milano, Nuovi Orizzonti, 1977, pp. 139-159. 28 Lucien Febvre, Henri-Jean Martin, La nascita del libro, a cura di Armando Petrucci, Roma, Bari, Laterza, 1992, p. 98. 29 IISTC registra 14.668 edizioni in quarto contro 8.558 in folio. Per un approfondimento della situazione italiana si vedano Giuseppina Zappella, Il formato del libro antico. Analisi tipologica e proposte interpretative, “Accademie e biblioteche d’Italia”, LXIII

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Maria Gioia Tavoni

Cinquecento, per cui non disponiamo di percentuali statistiche aggiornate quanto alla distribuzione dei formati, si registrano anche edizioni in ottavo, sulla scia del successo che tale scelta di plicatura e taglio del fascicolo assume nell’editoria veneziana, dove tuttavia, è cosa nota, domina l’in quarto in 8. I dati testé richiamati invitano a una ulteriore riflessione. È vero che i testi giuridici a stampa, prevalentemente quelli bolognesi, come da più parti è stato sottolineato, sono sempre in folio, seppur destinati ad uso di applicazione da parte di studenti facoltosi. Per i Trionfi col commento dell’Ilicino valgono, forse, altre osservazioni. I Trionfi, infatti, si presentano anch’essi nel grande formato, ma credo per motivi profondamente diversi da quelli che spingono i tipografi e gli editori a scegliere il grande formato, erede diretto del manoscritto, per le ponderose trattazioni giurisprudenziali, a cominciare dagli incunaboli di parti del Corpus iuris, usciti alla fine dell’ultimo quarto del XV secolo. L’impaginato dei sontuosi in folio suggerisce che essi rappresentassero per i destinatari lo strumento di lavoro quotidiano, fonte di ricerca e di studi. Tuttavia il libro in grande formato si avvia sempre più a divenire anche simbolo di un pubblico di collezionisti, provenienti dai ranghi dell’aristocrazia e dall’agiata borghesia urbane, del clero e degli uomini di legge, “i migliori clienti dei librai”, per usare ancora le parole di Martin30, ossia un pubblico che è sceltissima e raffinatissima élite, sempre più restia a rivolgersi al costoso codice trascritto a mano. A sostegno della mia interpretazione vi è il fatto che alcuni esemplari, soprattutto della princeps, ma anche di edizioni successive, come provano le indicazioni manoscritte sulle sguardie e gli scudi miniati all’incipit delle numerose copie personalmente esaminate, siano appartenuti a collezionisti, le cui raccolte librarie stanno ancora a testimoniare i loro interessi di lettura, come pure le brame di possesso per pubblicazioni di eccellenza artistica. L’esemplare del 1475 dell’Archiginnasio31, ad esempio, è riccamente miniato e porta lo stemma dei Capponi fiorentini; quello della Nazionale parigina32 anch’esso miniato, come ho potuto con commossa meraviglia constatare, reca la nota autografa di possesso del grande naturalista bolognese, che recita: “Ulissis Aldrovandi et Amicorum”; il veneziano del 1478, che è senza indice come tutti gli esemplari esaminati di quella data, conservato alla

(1995), pp. 5-36, e Ead., Manuale del libro antico. Guida allo studio e alla catalogazione, Milano, Editrice Bibliografica, 1996, parte V. 30 L. Febvre, H.-J. Martin, La nascita del libro, cit. p. 222. 31 BCAB, coll.: 16.O.II.1. 32 BNF, coll.: RES- YD- 62.

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Elementi del paratesto nelle edizioni dei Trionfi con il commento dell’Ilicino (secoli XV e XVI)

Marciana33, è membranaceo con iniziali finemente miniate; quello della Corsiniana, sempre del ’78, è anch’esso miniato e reca lo stemma dei Salomoni da Vercelli34; così dicasi dell’altro esemplare, miniato dalla scuola e dallo stesso Martino da Modena con stemma, forse ferrarese, conservato alla Estense di Modena35, e per la copia della Universitaria bolognese, che risulta schedata al 1488, sfarzosamente decorata a bianchi girari, con stemma nel bas de page su fondo blu con ai lati le iniziali “B. E.” 36. (Fig. 4.1 e 4.2) Circa la ricca libreria privata di Aldrovandi va precisato che altra fu la copia “spoglia” su cui si esercitò il più illustre scienziato della Bologna del tempo: l’esemplare, custodito dall’Universitaria bolognese, dell’edizione che ora sappiamo per certo stampata nel 1486, porta anch’essa la famosissima nota di appartenenza. Come a dire che Aldrovandi, nella ridda delle impressioni che si susseguirono nel torno di pochissimi anni (sei edizioni dal 1475 al 1486), abbia inteso poter disporre dell’opera in edizione meno preziosa anche per preservare la copia della princeps, ahimè razzia di funzionari napoleonici, indettata da un abile ‘committente’ francese, sulla cui personalità ho raccolto molte notizie. In questa sede è sufficiente dire che si tratta di Joseph Praet, al quale si deve anche l’origine dell’attuale “Réserve des Imprimés” e che all’epoca delle guerre rivoluzionarie e sotto l’Impero, “contribua largement à faire acheminer à Paris le butin des troupes françaises manuscrits et livres précieux” 37. Dopo il formato vi è un ulteriore aspetto paratestuale di singolare impatto e di notevole importanza ai fini della fruizione del testo, non solo tipografico: l’indice. La Tabula appare fin dalla princeps con un’architettura quasi incomprensibile per chi si accinga oggi a utilizzarla, tentando di cogliervi i rinvii dall’indice al testo, perché essa è sprovvista di qualunque riferimento tipografico. Per approntare riferimenti al mare magnum del commento

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BNM, coll.: Inc. Ven. 588. BANLC, coll.: 51.F.24. Ringrazio il direttore Marco Guardo per la disponibilità dimostratami durante le ricerche. 35 BEU, coll.: a.C.4.15. Lo stemma, al centro del bas de page, è mascherato e non è modenese. A c. 1r nota ms. di possesso “F. Jo. Bapt. de Rubeis S. Dom[inici]. Mut[in]._” (sec. XVI) e prec. coll. “138. di S. Domenico” (sec. XVIII?). Con dedica dell’A. a Borso d’Este. 36 Francesco Petrarca, Trionfi, Venezia, Pellegrino Pasquali e Domenico Bertocchi, 1488, (IGI 7551), BUB, coll.: A.V.B.V.13/1, c. aiiiir. 37 Jean-François Foucauld, La Bibliothèque royale sous la Monarchie de Juillet, Paris, Bibliothèque Nationale, 1978, p. 9 e p. 193. 34

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Maria Gioia Tavoni

petrarchesco, sovviene la copia della Bodleiana38, annotata dalla stessa mano che ha segnato ai margini tutti gli autori desunti dall’esegesi dell’Ilicino. Nelle edizioni successive gli indici, che non compaiono in tutti gli incunaboli, come si è visto, meglio si precisano. Quelle che ne sono provviste, infatti, presentano gli indici sempre in fascicolo sciolto, giustapposto al testo, uguali nella struttura e, in due edizioni, assolutamente identici dal punto di vista testuale, seppur di diversa composizione. L’indice del 1491, stampato da Piero di Piasi, nel cui explicit si legge che il commento venne emendato da Gabriele Bruno, è uguale a quello dell’edizione del 1494, pubblicata a Venezia da Piero Quarengi e corredata di frontespizio tipografico39 (Fig. 5.1 e 5.2). Familiarità fra queste due edizioni furono a suo tempo rilevate anche da Wilkins40, ma non per quanto riguarda gli indici. Essi sono entrambi compresi in un fascicolo a sé stante, come spesso avveniva (almeno sin dai tempi del Catholicon gutenberghiano)41, e riportano traccia del paratesto della princeps (in particolare lettera di dedica con vita del Petrarca, preoccupazione storica di notevole rilevanza); condividono lo stesso proemio, ossia l’enunciato introduttivo alla tabula, dove lo stampatore, l’editore, il correttore o il curatore danno conto delle modalità compositive dell’indice stesso e dei meccanismi del suo funzionamento interno. Ritorna altresì identico il riferimento alle partizioni affidate a lettere in serie alfabetiche che corrono ai margini del testo, a lato di ciascuna colonna della composizione dell’indice; ricompaiono i rinvii alle carte. Da una analisi della mise en page del testo risulta che i tipografi, Piero di Pasi e Piero Quarengi, hanno rispettato tali suddivisioni affinché non venisse a cadere la stretta corrispondenza indice-testo, così da non dover ripetere una successiva indicizzazione, costosa e di non semplice esecuzione. La riproposizione di simili composizioni in edizioni differenti – purché di identico formato – era pratica assai diffusa nelle officine tipografiche fino a tutto il Settecento, soprattutto perché sveltivano il lavoro del compositore, che procedeva nella maggior parte dei casi per forme e poteva risultare così assai produttivo, con minor danno per effetto di errati tipoconteggi, quando non erano necessari veri e propri salti mortali per far entrare nelle forme dei fogli di stampa più interni al fascicolo, tutto il testo necessario. Al

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BLO, coll: Auct. 2 Q inf. 1. 17. Francesco Petrarca, Trionfi, [Venezia, Piero Quaregi], 12 I ‘Mcccclxxxxxii’ [ma 1494], (IGI 7558), BUB, coll.: A.V.B.VI.2. 40 E. H. Wilkins, The separate Quattrocento editions, cit. 41 Gherard Powitz, Die Tabula rubricarum des Mainzer Catholicon, “Gutenberg Jarhbuch”, (1994), pp. 32-49. 39

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di là del carattere utilizzato, ciò che doveva essere rispettata era la porzione di testo composta per ciascun rigo o per ciascuna pagina. Ecco quindi che da un attento esame dei caratteri tipografici usati sia per gli indici sia per il testo, si evince poi che la famiglia dei caratteri non è la stessa adoperata per le forme di entrambe le composizioni, alle rispettive date. Ciò che molto sinteticamente ho tentato di offrire all’attenzione del lettore mi porta a sostenere, anche in considerazione di studi da me condotti sugli indici negli incunaboli giuridici42, che in tipografia il modello per alcune edizioni riproposte non fu un manoscritto, bensì una stampa precedente sulla quale, com’è naturale, vennero esemplati anche gli indici che avevano una loro diffusione – ho buoni motivi per affermarlo – in quanto circolavano anche separati dal testo composto. In un’altra edizione dei Trionfi, nonostante l’architettura sia la medesima, l’indice venne meglio configurandosi, seppur mantenendo invariata la struttura. Così appare, ad esempio, nell’edizione stampata a Venezia da Zani il “die.VI.Marci” del 1500, nella quale le stringhe sono differenti e più articolati risultano i lemmi con le loro apposizioni, preludio ad un vero e proprio indice dei nomi43. Un unico riferimento ad una cinquecentina, precisamente quella del 1522, il cui esame ho intrapreso sull’esemplare della British Library44, non è da solo sufficiente per estendere la casistica ad altre edizioni o per tentare generalizzazioni valide per tutto il Cinquecento. L’indice che vi compare è introdotto da un proemio45. Disposto su due colonne, esso è più compiutamente allestito e assai articolato: vi si rinvengono riferimenti a cose notabili, a nomi propri, anche di città, oltre che sintesi di interi brani del commento. Quello che rimane invariato rispetto alle precedenti tabulae cui si è fatto riferimento è il funzionamento del rinvio indice-testo. Tarderà a farsi strada ciò

42 Maria Gioia Tavoni, “Per aconcio de lo lectore che desiderasse legiere piu in uno luoho che nell’altro”: gli indici nei primi libri a stampa, in I dintorni del testo. Approcci alle periferie del libro, atti del convegno internazionale, Roma, 15-17 novembre 2004, Bologna, 18-19 novembre 2004, a cura di Marco Santoro, Maria Gioia Tavoni, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 2005, pp. 57-79. 43 F. Petrarca, Trionfi, cit., (IGI 7528). 44 Francesco Petrarca, Petrarcha con doi commenti sopra li sonetti et canzone, impressum Venetiis, per dominum Bernardinum Stagninum, 1522 die xxviij Martij, (Edit16 CNCE 33353), BL, coll.: 1071.F.8. Il Censimento non assegna la paternità del commento all’Ilicino, attribuita al frontespizio a Niccolò Peranzone, come invece fa il British Library, The British Library catalogue of printed books to 1975, London, Clive Bingley, 1979-1988, al quale mi attengo. 45 I proemi delle tavole, che meriterebbero uno studio a sé, costituiscono la chiave di volta non solo per la consultazione dell’indice, ma pure per carpirvi il nome di colui che lo ha allestito.

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Maria Gioia Tavoni

che verrà teorizzato, nel maturo Seicento, dallo spagnolo Juan Caramuel Lobkowitz nel Syntagma de arte typographica (1664), il quale ebbe a precisare che l’indice deve essere organizzato in modo tale, ovvero con riferimento a capitoli e a paragrafi perché – sono sue le parole – “potrà servire per ogni edizione, e sia che il libro venga ristampato in quarto o in folio, più grande o più piccolo, potrà esservi aggiunto invariato”, indicando pertanto alle tipografie una strada più facile e snella da percorrere46. Chi fossero poi i compilatori degli indici dei Trionfi ancora non è chiaro. Albano Sorbelli riportando nel Corpus chartarum da poco edito il proemio della tavola della princeps attribuisce l’indice al “concetto dello stampatore Annibale Malpigli”47, uomo, come si è detto, di indubbia dottrina. Ammesso che anche i successivi apparati indicali – mi riferisco sempre e solo ai Trionfi – vengano allestiti in tipografia, non c’è dubbio che un mestiere accanto ai torchi, sul quale molto ancora resta da indagare, fosse proprio, tra i tanti che meglio si conoscono, quello del compilatore di indici, persona, o persone munite di buona cultura e a conoscenza delle parti più significative del testo sul quale andavano ad intraprendere l’indicizzazione. Di qualche opera, – sebbene i casi siano rari –, si sa per certo che furono gli stessi autori a provvedere agli indici. Porto ad esempio la Cronica fiorentina di Benedetto Dei (1418-1492) rimasta manoscritta per secoli48, ed anche gli Adagia di Erasmo. Per altre impressioni, mi riferisco ai libri giuridici del XV secolo, furono uomini di legge diversi dagli estensori dei testi e delle glosse ad intraprendere il difficile compito di aiutare il lettore, o semplicemente il consultatore, a ritrovare porzioni importanti del testo. Essendo l’Ilicino vivo solo all’epoca della princeps, come già ebbe a sostenere Vasoli, e in considerazione che solo uno dei manoscritti disseminati in Italia e in Francia porta una tavola assai schematica, la supposizione che gli indici venissero anche allestiti da uomini scelti in tipografia, penso possa trovare accoglienza e conforto. Mi auguro che le poche indicazioni paratestuali su cui mi sono soffermata non siano utili solo a chi studia il libro tipografico nella sua oggettualità, ma servano a studiosi di altre discipline, in particolare ai filologi dei testi a stampa, per meglio inquadrare la successione delle edizioni commentate dei Trionfi e le loro complesse diversità. 46 Cfr. Maria Gioia Tavoni, Avant Genette fra trattati e curiosità, in Sulle tracce del paratesto, a cura di Biancastella Antonino, Marco Santoro, Maria Gioia Tavoni, Bologna, BUP, 2004, pp. 11-18, part. pp. 13-14. 47 A. Sorbelli, Corpus chartarum Italiae ad rem typographicam pertinentium, cit., doc. LV, pp. 154-155. 48 Maria Gioia Tavoni, Sull’utilitas degli indici, “Paratesto”, I (2004), pp. 13-22.

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Avrei raggiunto un risultato insperato, se nutrissi la consapevolezza di aver corrisposto alle aspettative di Emilio Pasquini, al quale va il mio più sentito ringraziamento per avermi indicato le prime e imprescindibili piste bibliografiche, a cominciare dall’antica fatica dello Appel.

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Fig. 1.1. Colophon dei Trionfi datato 1488 (BUB, coll.: A.V.B.13/1, c. t8r).

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Fig. 1.2. Colophon del Canzoniere datato 1486 (BUB, coll.: A.V.B.13/2, c. O10v). Si noti come le due opere accorpate presentino non solo una data di edizione differente ma anche un rispettivo registro delle segnature.

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Fig. 2.1. Colophon dei Trionfi recante la data 1491 (BUB, coll.: A.V.B.VI.28/1, c. q7r).

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Fig. 2.2. Colophon del Canzoniere recante la data 1490 (BUB, coll.: A.V.B.VI.28/2, c. N5v). Si noti come, anche in questo caso, la datazione delle due edizioni non sia coincidente.

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Fig. 3.1. Xilografia del Trionfo di Amore inclusa nei Trionfi del 1491 (BUB, coll.: A.V.B.VI.28/1, c. aa8v)

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Fig. 3.2. Xilografia del Trionfo di Amore presente nell’edizione dei Trionfi del 1500 (BUB, coll.: A.V.A.III.28, c. a10v).

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Fig. 4.1. Esemplare sfarzosamente miniato dei Trionfi, 1488, conservato alla Biblioteca Universitaria di Bologna (coll.: A.V.B.V.13/1, c. a2r).

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Fig. 4.2. Stemma miniato a bianchi e girari sull’esemplare dei Trionfi del 1488 (BUB, coll.: A.V.B.V.13/1, c. a4r).

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Maria Gioia Tavoni

Fig. 5.1. Tabula giustapposta al testo dei Trionfi del 1491 (BUB, coll.: A.V.B.VI.28/1, aa2r).

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Elementi del paratesto nelle edizioni dei Trionfi con il commento dell’Ilicino (secoli XV e XVI)

Fig. 5.2. Tabula giustapposta al testo dei Trionfi del 1492 (BUB, coll.: A.V.B.VI.1, c. a2r). La familiarità con l’edizione del 1491 è evidente nell’identico proemio di introduzione alla tabula, nell’impaginazione e nella modalità di rinvio alle carte.

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LINGUE, TOPICHE: ITALIA, EUROPA

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PETRARCA NEI TRATTATI FRANCESI D’ARTE POETICA DEL CINQUECENTO

Un discorso sulla letteratura italiana s’imponeva a tutti nella Francia del Cinquecento, per la sua evidenza e la sua semplicità, al pari di una nuova vulgata, e si riassumeva in un canone. In un’ode che nel ’50 Du Bellay mandava a Margherita, sorella del re e futura duchessa di Savoia per esortarla a scrivere nella sua propria lingua, questi celebrava la gloria di certi scrittori italiani. La lingua italiana era illustrata dal Boccaccio e sopratutto dal Petrarca, Quel siecle esteindra ta memoire, O Boccace, et quels durs hyvers Pourront jamais seicher la gloire, Petrarque, de tes lauriers verds?1

Dopo di loro venivano aggiunti, su un piano minore, Dante, Bembo Sannazaro. Le lettere italiane contavano più scrittori illustri, avevano due veri padri fondatori, il Boccaccio e sopratutto il Petrarca, chiamato per anto-

1 J. Du Bellay, ‘Ode à Madame Marguerite’, in Recueil de Poésie, Parigi, G. Cavellat, 1549, pp. 33-5. Gli aspetti più generali di tale discorso sono stati studiati nei nostri Les Rencontres des Muses. italianisme et anti-italianisme dans les lettres françaises de la fin du XVIe siècle, Ginevra, 1992, pp. 177-216. Sul petrarchismo francese, oltre a J. Vianey, Le Petrarquisme au XVIe siècle, Paris-Montpellier, 1909, si veda Les Poètes français de la Renaissance et Pétrarque, ed. Jean Balsamo, Travaux de la Fondation Barbier-Mueller 1, Ginevra, Droz, 2004.

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Jean Balsamo

nomasia le Toscan, il toscano, un epiteto che confermava l’identificazione stretta di una lingua e dello scrittore che l’aveva creata, facendone un oggetto letterario, dandole una dignità letteraria. Il suo nome creava un vero mito culturale ampiamente svilupato dai poeti della Pleiade. Questi due autori erano per così dire classici, secondo Du Bellay che citava altri nomi nella Deffence; aggiungeva Dante, un solo nome, aggiungeva scrittori più recenti che illustravano maggiormente generi particolari più che la scelta della sola lingua: Sannazaro che aveva reinventato l’egloga, Ariosto, moderno ricreatore dell’epopea, Alamanni, la cui Coltivazione pareva un capolavoro del verseggiare, Bembo, e altri “moderni Italiani”, i poeti della raccolta di Giolito, ma che Du Bellay non prendeva la pena di nominare2. Questo canone ristretto si era imposto dall’inizio del secolo. Nel prologo del suo trattato della Concorde des deux langues, Lemaire de Belges si proponeva di “exaulcer, autoriser et honorer”3, di alzare, di dare autorità, di onorare la lingua francese. Lemaire nominava gli scrittori che avevavo contribuito a questa illustrazione, e opponendoli a quelli che avevano fatto lo stesso per l’italiano, dava l’argomento più forte del discorso apologetico in favore del francese, creando una specie di emulazione tra di loro se non di rivalità. Citando “Dante, Petrarque et Boccace tous trois Florentins, Philephe, Seraphin et assez d’autres”, tracciava così l’abbozzo di un discorso critico, preso in parte dalla storiografia fiorentina, al quale aggiungeva due nomi di autori più moderni, Serafino e Filelfo che sparirono quasi subito dal canone. Inoltre, opponendo questi pochi scrittori italiani di rilievo ad un numero maggiore di scrittori francesi, metteva in luce quel che presentava come una precellenza delle lettere, cioè del potere politico francese; questo argomento quantitativo verrà iperbolizzato alla fine del secolo dai tremila scrittori catalogati nella Bibliothèque di La Croix du Maine ed opposti ai poveri trecento italiani della Libreria del Doni. Nel 1532, un certo Pierre Grosnet faceva l’encomio dei “bons facteurs qui ont composé en rime tant en deçà que au delà des Monts” e citava per gli Italiani i soli Dante, Petrarca e Boccaccio4. E quindici anni dopo, il Sebillet,

2 J. Du Bellay, La Deffence et illustration de la Langue Françoyse [1549], ed. H. Chamard, Parigi, STFM, 1948, 19974, passim. 3 J. Lemaire de Belges, Le Traicté de la Concorde des deux langue [1511], in Les Illustrations de la Gaule et singularité de Troyes avec la couronne margaritique, Lione, Jean de Tournes, 1549, pp. 380-91; cfr. R. Griffin, La Concorde des deux langues. ‘Concordia discors ’, in Literature and the Arts in the Reign of Francis I. Essays presented to C. A. Mayer, ed. P. M. Smith - I. D. Mc Farlane, Lexington, 1985, pp. 54-81. 4 P. Grosnet, Le Second volume des mots dorés, Parigi, D. Janot, 1533, cc. 22-4.

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Petrarca nei trattati francesi d’arte poetica del Cinquecento

nonostante conoscesse bene la letteratura toscana e fosse amico del Gelli, nel trattato d’arte poetica che aveva composto sulle orme della tradizione marotica, celebrava Dante e Petrarca, che avevano salvato qualche vestigio di quel antico impero di Poesia rovinato dalle guerre e dalla barbarie medievale, e considerava il solo Petrarca come vero principe dei poeti italiani5. Secondo le epoche, secondo scoperte individuali e qualche puntuale suggerimento, apparivano altri nomi. Peletier richiamava i sonetti del Bembo “così sublimi quanto quelli del Petrarca, secondo il parere di alcuni” 6, ma confessava di non averli letti, riducendo la fama del Bembo a un’opinione non verificata. La generazione letteraria del 1580 scopriva nuovi autori e traduceva nuove opere; Vauquelin de La Fresnaye conosceva il Tasso e attribuiva le prime odi in italiano a Bartolomeo Delbene7. Ma quando si trattava delle lettere italiane in genere, tutti rispettavano questo quadro e questo canone. All’inizio del secolo diciasettesimo, Pierre de Deimier, nella sua Académie de l’Art poétique, bilancio dell’esperienza poetica svoltasi alla corte degli ultimi re Valois, ne proponeva un’allargamento, facendo brevi riferimenti al Boiardo, al Guarini e già al Marino, e citava brani di Aretino, Boccaccio, Dante, Tasso, ma più di tutti citava il Petrarca, al quale riservava riflessioni ed analisi più sviluppate, secondo i criteri della nuova poesia d’impronta malerbiana e non più nell’intento di giustificare la poesia in volgare. Poteva senza contraddizione fare l’elogio del ruolo storico del poeta, pure criticando con minuzia le metafore e la disposizione retorica dei Trionfi 8. Claude Duret elencava Boccaccio, Petrarca, Ariosto “eccellente, divino, patetico e diverso”, e prima di lui Torquato Tasso “molto diserto, molto eloquente e quasi inimitabile”, distinguendo questi quattro autori da altri moderni che avevano scritto della lingua italiana, Ruscelli, Dante, Bembo, Giambulari, Dolce o Sansovino; queste erano le fonti del discorso critico che si teneva sulla stessa lingua9.

5 Cfr. Thomas Sebillet, Art poétique françois [1548], in Traités de poétique et de rhétorique de la Renaissance, a cura di F. Goyet, Parigi, Le Livre de Poche Classique, 1990, pp. 54 e 108. 6 J. Peletier du Mans, Art poetique [1555], in Traités de poétique et de rhétorique, Ivi, p. 293. 7 J. Vauquelin de La Fresnaye, Art poetique françois, in Les Diverses Poesies [1605], ed. Julien Travers, Caen, 1859-1872, t. I, p. 24. Sul Delbene, cfr. J. BALSAMO, Note sur l’Elégie à Bartolomeo Delbene Florentin, «Revue des Amis de Ronsard», 10, 1997, pp. 145-63. 8 P. de Deimier, Académie de l’art poétique, Parigi, J. de Bordeaux, 1610, in particolare pp. 519-24 e 588. 9 C. Duret, Le Thrésor des langues de cest Univers, Yverdon, La Société, 1619, pp. 807-13.

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Jean Balsamo

Duret imitava strettamente il canone che Du Bartas aveva proposto nella sua Seconde Sepmaine, quando cercava di rintracciare lo sviluppo di tutte le lingue volgari europee:

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Le Toscan est fondé sur le gentil Boccace, Le Pétrarque aux beaux mots, esmaillé, plein d’audace10.

Ai due padri fondatori aveva aggiunto Ariosto “fluente, patetico e diverso” e Tasso “degno operaio del verso eroico”, ambedue conformi al suo proprio progetto epico. Non metteva in discussione il primato e l’anteriorità del Boccaccio e del Petrarca «pieno d’audacia». Degli altri, dei petrarchisti, non si parlava mai. Il Petrarca era considerato dai francesi come il più famoso fra gli scrittori delle lettere italiane, la più luminosa delle tre corone della Toscana. Assumeva figura di eroe, quell’eroe che aveva reso possibile la nascita e lo sviluppo della lingua italiana. Nella Deffence et illustration de la langue française, il manifesto della nuova scuola poetica francese, Du Bellay sviluppava questa stessa storia secondo i luoghi comuni del discorso apologetico della lingua francese. In un primo momento, metteva in luce la scelta del volgare che s’imponeva necessariamente al nuovo poeta ed al poeta di corte, prendendo l’esempio sugli italiani: Petrarca similmente e Boccaccio, quantunque avessero scritto molto in latino, questo non gli fosse stato bastante a dargli una grande fama, se non avessero scritto nella loro lingua volgare11.

Questa scelta era fondata sulla coscienza di non poter uguagliare gli antichi nel campo loro, scrivendo in latino. Si giustificava inoltre in quanto era ubbidienza ad una “naturale inclinazione”, che spingeva a scrivere nella propria lingua. Du Bellay celebrava in Petrarca non solo la sua scrittura naïve, nativa in italiano, ma anche una vera conversione, una translatio dal latino nel quale si era illustrato in quanto philosophus moralis, al volgare nel quale si illustrava in quanto poeta lirico. Du Bellay poteva mettere in luce la stessa

10 G. Du Bartas, La Seconde Sepmaine [1584], VI, ed. Y. Bellenger, Parigi, STFM, 1992, pp. 358-59. 11 “Petrarque semblablement, et Boccace, combien qu’ils aient beaucoup escrit en Latin, si est-ce que cela ne leur eust esté suffisant pour leur donner le grand honneur qu’ils ont acquis, s’ils n’eussent escrit en leur langue”, La Deffence et illustration de la Langue françoise, cit., II, 12, p. 189.

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Petrarca nei trattati francesi d’arte poetica del Cinquecento

evoluzione nel Bembo, che seguiva l’esempio datogli dal Petrarca. La formula veniva infatti da Peletier du Mans che otto anni prima della Deffence aveva già fatto di questi autori italiani i garanti, gli auctores che appoggiavano il suo proprio discorso teorico e poetico sulla lingua francese: Tengo per miei autori Petrarca e Boccaccio, due uomini che furono ricchi di grande erudizione e sapere, i quali hanno voluto dare testimonianza della loro dottrina scrivendo nella loro lingua toscana12.

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Laudun d’Aigaliers, in un brano a dire il vero piuttosto confuso del suo Art poetique françois sembra quasi ignorare l’insieme dell’opera latina, sia in prosa sia in versi, del Petrarca, unico scrittore italiano che citava: I migliori poeti del nostro tempo non hanno scritto in latino, come Petrarca, ma in italiano, come Du Bartas e Ronsard hanno scritto nella lingua propria13.

La parte presa dalla lirica del Petrarca nella costituzione del volgare letterario, nella coscienza che una lingua volgare potesse rivelarsi lingua letteraria e lingua di scienza implicava che fosse svalutata l’opera latina dello stesso. Fu precisamente in Italia, sullo scorcio del Cinquecento, poi in Francia, i due paesi nei quali si poneva nei termini più acuti il problema del volgare, che si fece questa necessaria partizione nell’opera stessa dello scrittore e che se ne trascurò un lato intero: ne dà testimonianza la produzione editoriale. Du Bellay che seguiva i teorici italiani era chiaro su questo punto quando opponeva la statura quasi prometeica del Petrarca italiano, inventore di lingua, a quello che considerava come epigono dei latini e del quale considerava inevitabile l’insuccesso. La prima delle ragioni per ammirare il Petrarca, insieme con il Boccaccio per la prosa, era il suo ruolo, con Dante in un modo minore, nell’affermarsi del toscano. Da un lato opposto, gli umanisti francesi spinti dallo sdegno col quale Petrarca sembrava considerare i pro-

12 “J’ai mesmement pour mes auteurs Petrarque et Boccace, deux hommes jadis de grande erudition et savoir, lesquels ont voulu faire temoignage de leur doctrine en escrivant en leur Touscan”, J. Peletier du Mans, L’Art poëtique d’Horace translaté de latin en rithme françoyse, Parigi, Jean Grandjehan [Grandjon], épître liminaire à Christophe Perrot, in Premiers combats pour la langue française, ed. C. Faisant, Parigi, Le Livre de Poche classique, 1989, p. 97. 13 “Les meilleurs Poëtes de nostre temps n’ont pas escript en Latin, comme Petrarque, ains en Italien: comme du Bartas et Ronsard ont escript en leur langue”, P. Laudun d’Aigaliers, L’Art poëtique françois [1597], ed. J.-C. Monferran, Parigi, STFM, 2000, p. 157.

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prii rerum vulgarium fragmenta che aveva composti e ai quali aveva dato ordine durante sua vita, potevano sprezzare le sue opere italiane, a pari di quelle del Boccaccio, e stimarle senza valore. Il sonetto d’amore, il racconto in prosa contavano poco nelle gerarchie del sapere, erano nugae, bagatelle. Usava questa parola, nel 1587, Papire Masson che aveva scritto la prima biografia del Petrarca stampata in Francia, esprimendo i valori ed il canone della alta cultura dei parlamentari gallicani14. Ma queste nugae si rivelavano ricche di ambizioni e non si conosceva nulla di più bello o che li ugualiasse nelle letterature classiche. In un secondo momento, Du Bellay riconosceva la perfezione dell’opera volgare: Addurrerò solo un Petrarca, del quale non ho paura di dire che se Omero e Virgilio rinascenti volessero tradurlo, non lo potrebbero fare con la stessa grazia ed ingenuità che dimostra egli nel suo volgare toscano15.

Il paragone provava per absurdum l’impossibilità di tradurre poeticamente, cioè rispettando la grazia originaria di un testo qualsiasi. Imponeva inoltre un nuovo confronto tra il Petrarca e i due autori maggiori del canone europeo. Petrarca non era intraducibile più di quanto non fosse inimitabile; dava solo la prova che anche il volgare potesse attingere il proprio grado di perfezione espressiva e formale, seguendo uno sviluppo proprio. Il modello petrarchesco era infine spostato su un piano sociale. Nella prefazione del suo canzoniere l’Olive, Du Bellay poteva fare della poesia un’attività degna di gentiluomini, richiamandosi all’aristocratica autorità del cardinale Bembo, editore delle rime del Petrarca all’inizio del secolo e restauratore di una specie di ortodossia petrarchesca nella poesia italiana: Certo è che mi vergogno quando vedo la poca stima che fanno gli Italiani della poesia nostra in confronto alla loro: e non trovo strano questo quando considero il fatto che quasi tutti quelli che scrivono in lingua toscana sono o cardinali o signori di grande fama, che si degnano arricchire il volgare loro con un’infinità di begli scritti16.

14 P. Masson, Vitae trium Hetruriae procerum, Dantis, Petrarchae, Boccacii, Parigi, Du Pré, 1587. 15 “J’allegueray seulement un Petrarque, duquel j’ose bien dire, que si Homere et Virgile renaissans avoient entrepris de la traduyre, ils ne le pouroient rendre avecques la mesme grace et nayfveté qu’il est en son vulgaire Toscan”, Deffence, ed. cit., p. 37. 16 “Certes j’ay grand honte quand je voy’ le peu d’estime que font les Italiens de nostre poësie en comparaison de la leur: et ne le treuve beaucoup estrange, quand je considère que voluntiers ceux qui escrivent en la langue toscane sont tous cardinaux mesmes et

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Petrarca nei trattati francesi d’arte poetica del Cinquecento

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L’argomento definiva un altro dei luoghi topici del discorso apologetico della lingua francese in quanto lingua di corte, alla quale potevano dare un lustro maggiore principi, prelati, signori o gentiluomini, quali erano Du Bellay stesso e Ronsard, che componevano in lingua volgare, onorando l’attività loro dei prestigi del potere o del sangue. La fortuna francese del Petrarca, in modo ben diverso dagli altri poeti italiani, prese suo pieno sviluppo quando Francesco I, tra il 1535 e il 1538, attraverso la scoperta della cosidetta tomba di Laura, assunse quale attributo del suo potere l’alloro poetico e un immaginario petrarchesco. Questa assimilazione delle due figure del poeta e del re costituiva quel che può essere chiamato Pétrarquisme royal, petrarchismo regio17. Nell’Olive, che dava una bella illustrazione al discorso teorico della Deffence, Du Bellay ambiva realizzare in francese quello che Petrarca aveva fatto prima di lui: comporre un canzoniere che celebrasse una donna sola, figura allegorica della creazione poetica, comporre una raccolta in una forma nuova sconosciuta agli antichi, allo scopo di mettere in luce le possibilità della sua lingua nel campo della lirica amorosa, un soggetto modesto in apparenza, non eroico, ma al quale Petrarca dandogli concisione e gravità aveva conferito uno stile proprio. Con questo rivendicava la sua precedenza in un genere inedito in francese o almeno che non aveva ancora ricevuto pieni sviluppi. Questo genere, in due anni appena, si rivelò come il genere per eccellenza della nuova poesia, come pietra di paragone dei nuovi talenti che emulavano per essere chiamati le Pétrarque français. Offriva la possibilità di una sintesi capace di conciliare tradizione erudita e cultura cortigiana. Du Bellay precisava nel suo proemio: confesso avere imitato il Petrarca, ma non lui soltanto, anche l’Ariosto e certi altri moderni italiani: perché nel l’argomento che tratto, non ho trovato migliori di loro18.

aultres seigneurs de renom, qui daignent bien prendre la peine d’enrichir leur vulgaire par infinité de beaux escriz”, L’Olive, ed. cit., p. 16. 17 Cfr. J. Balsamo, François Ier, Clément Marot et les origines du pétrarquisme français (1533-1539), in Les Poètes français de la Renaissance et Pétrarque, cit., pp. 3551. 18 “Je confesse avoir imité Pétrarque, et non luy seulement, mais aussi l’Arioste et autres modernes Italiens: pource qu’en l’argument que je traicte, je n’en ay point trouvé de meilleurs”, L’Olive, p. 8.

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Ritornando sul tema nella seconda edizione dell’Olive, precisava le forme di un’imitatazione che aveva suscitato diverse critiche. La definiva in termini di retorica, fondata su una topica e la variazione di luoghi comuni, e collocava il suo progetto poetico in relazione agli italiani, allo stesso modo in cui questi si situavano di fronte alla tradizione classica della quale erano insieme imitatori e emulatori. La novità del modello offerto ai francesi dal Petrarca si concentrava in una forma, il sonetto. Sempre Du Bellay, nella seconda prefazione dell’Olive richiamava che il sonetto e l’ode erano “due poemi ancora poco in uso”, che erano stati introdotti “quatro anni” prima, verso il 1546 dunque, da Mellin di Saint-Gelais, che erano composti “all’imitazione degli italiani”. Indicava i seguaci del Petrarca, questi “moderni italiani”, dei quali non si curava di dare i nomi, un gruppo folto e indifferenziato di sonettisti anonimi, che usavano una forma comune a tutti nella quale offrivano infinite variazioni dello stesso tema amoroso. Du Bellay conosceva pure il nome di Luigi Alamanni, del quale faceva menzione nella Deffence, e nella prefazione dell’Olive, nominava un tale “Cassola italien”, per sottolineare che lo conosceva di nome soltanto, non avendo letto niente di lui; si trattava di una sottigliezza argomentativa per confutare quelli che lo accusavano allora di plagio, mettendo in evidenza la similitudine tra i suoi sonetti e quelli del Cassola, che si conchiudevano dello stesso modo epigrammatico. Il problema del rapporto tra sonetto ed epigramma era già stato posto da Sébillet, che faceva del sonetto, del quale vedeva in Petrarca “l’archetipo”19, la versione italiana dell’epigramma latino. Le altre forme di rime utilizzate dal Petrarca, canzoni, madrigali o sestine appartenevano in proprio alla tradizione italiana; i teorici non accordavano a queste forme un’importanza uguale a quella del sonetto né lo stesso ruolo e ne trattarono in modo più sommario. Sébillet presentava le sestine del Petrarca come un modello di poesia non rimata, e Pontus de Tyard ne fece un esperimento non concludente. Belleau, nel 1560, precisava la differenza tra madrigale e sonetto, ancora confusi da Ronsard. Contava solo il sonetto. In un primo tempo, quello non era considerato allora una forma originaria francese; non era stato inventato o ritrovato apposta per rinnovare altre forme, quali il rondeau o il dizain che venivano a esaurimento dopo le ultime prove che ne fece Marot, negli anni 1540. Il sonetto non era neppure un prestito dei poeti italiani contemporanei, dell’Alamanni o dell’Amomo, i cui canzonieri erano stati stampati in Francia tra il 1531 e il

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Art poétique françois, in Traités de poétique et de rhétorique, cit., p. 107.

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Petrarca nei trattati francesi d’arte poetica del Cinquecento

1535, molto prima delle cosidette antologie giolitiane20. Il sonetto si definiva invece come la forma propria della poesia del Petrarca, come una vera segnatura petrarchesca, era l’espressione formale della riscoperta del Petrarca lirico. Non esisteva, stricto sensu, un’imitazione petrarchiana al di fuori di questa sintesi tra un modo di dire la passione amorosa ed una forma poetica, alla quale i francesi apportarono modifiche strutturali, la disposizione delle rime delle terzine, per qualificarla come sonetto alla francese. Nella prefazione delle Odi, nel 1550, Ronsard irrideva il “piccolo sonetto petrarcheggiato” (un petit sonnet petrarquizé) che era in favore alla corte e lamentava che i cortigiani lo apprezzassero più di un poema difficile quali erano le odi sue21. Riprendeva la parola stessa ed il legame tra sonetto e Petrarca dal protestante Teodoro di Bèze, il quale, volendo valutare le proprie tragedie di argomento sacro, aveva biasimato le futilità della poesia di corte ed i cattivi poeti, per i quali Sarebbe più decente cantare un salmo a Dio anzi che petrarcheggiare un sonetto e fare il cascamorto, che merita di rivestire il cappuccio a sonagli dei matti22.

Secondo Ronsard, solo un ristretto gruppo di poeti, nel 1550, assumeva la lezione data dal Petrarca: alludeva a Pontus de Tyard, Des Autels, Baïf e sopratutto a Du Bellay che considerava allora come il vero Petrarca redivivus. Lui stesso non aveva ancora sfruttata quella fonte, eccezione fatta per il suo primo sonetto, che era proprio una garbata variazione su un tema del Petrarca (‘Où print Amour ceste grandeur de gloire’ imitato da RVF 220: ‘Onde tolse Amor l’oro e di qual vena’). Ronsard cercava di affermarsi contro tutti e quattro, imponendo prima un suo progetto lirico ispirato da Pindaro, le odi, poi, in un secondo tempo, recuperando la tradizione di Petrarca del quale si proclamava erede e successore. Ronsard costruiva un progetto poetico globale destinato ad assumere l’insieme delle forme e dei generi23.

20 Sull’Alamanni, si veda H. Hauvette, Luigi Alamanni (1495-1556). Sa vie et son œuvre, Parigi, Librairie Hachette, 1903, in particolare pp. 194-98; sull’Amomo, N. Bingen, Amomo (1535): Jean de Maumont? ou Antonio Caracciolo?, “Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance”, 62, 2000, pp. 521-59. 21 Cfr. J. Balsamo, Ronsard, Pétrarque et quelques autres, in Nel Libro di Laura. Petrarcas Liebesgedichte in der Renaissance, ed. L. Collarile - D. Maira, Basilea, Schwabe Verlag, 2004, pp. 117-42. 22 “Seroit mieux séant de chanter un cantique à Dieu que de pétrarquiser un sonnet et faire l’amoureux transi digne d’avoir un chaperon à sonnettes”, Théodore de Bèze, Abraham Sacrifiant, Lausanne, 1550, prefazione. 23 Su questa polemica, si veda J. Balsamo, Le pétrarquisme de Ronsard, “Revue d’histoire littéraire de la France”, 1998, 2, pp. 179-93.

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Nella seconda metà del Cinquecento i letterati francesi proseguivano a legare il modello petrarchesco col sonetto. Cercarono tuttavia di ridurne l’importanza allargando il discorso alle origini del genere, non facendosi scrupoli ad utilizzare a tale scopo testi italiani che trattavano dell’argomento, le Prose del Bembo in particolare, che costituivano la pietra angolare dell’edificio teorico delle lingue volgari24. Lo sviluppo degli studi medievali e provenzali, con l’edizione delle Vite di Jehan de Nostredame nel 1575 e sopratutto il famoso Recueil de l’origine de la langue et de la poésie françoise di Claude Fauchet, nel 1581, mettevano in luce quel che i francesi considerarono le fonti provenzali, cioè secondo loro francesi, della poesia italiana e delle rime di Petrarca. Una generazione dopo quella di Du Bellay, si rinnovò la genealogia del sonetto, per farne un argomento polemico in favore della lingua francese. Nel suo trattato del Art poétique français, pubblicato solo nel 1605 ma scritto venticinque anni prima su ordine di Enrico III, Vauquelin de La Fresnaye, discreto adattatore della tradizione satirica dell’Ariosto e del Bentivoglio, ricomponeva in questo senso la storia del genere. Non attribuiva più il sonetto al Petrarca, ma ne fece l’invenzione dei trovatori, insieme con la rima, i due elementi sui quali si fondava la poesia in volgare. Dai trovatori, via la Sicilia, sonetto e rima passarono agli italiani. Nell’ambito della più ampia polemica anti-italiana che si svolgeva alla corte, questa ricostruzione storiografica permetteva di rovesciare il movimento stesso dell’imitazione: imitando il Petrarca e i suoi seguaci, i moderni francesi riprendevano quello che loro apparteneva come patrimonio, ritrovavano l’eredità dei poeti provenzali, cioè secondo loro, dei loro antenati: l’Italien est estimé l’autheur De ce dont le François est premier inventeur25.

Con l’interpretazione in chiave francese che si dava della storia del sonetto, si levava il sospetto di plagio che minacciava una letteratura in volgare che si era amplificata attraverso l’imitazione di modelli stranieri: il modello non appariva più come straniero. Ma nello stesso tempo, Petrarca perdeva la sua eccellenza e veniva considerato come semplice fruitore di un

24 Sull’argomento, cfr. P. Blanc, Sonnet des origines, origines du sonnet: Giacomo da Lentini, in Le Sonnet des origines au XVIIe siècle. Atti del convegno (Reims, 1986), Parigi, Klincksieck, s.d. [1989], pp. 9-18; sul ruolo del Bembo, si veda C. Bologna, Bembo e i poeti del duecento, in ‘Prose della volgar lingua’ di Pietro Bembo, Quaderni di Acme, 46, pp. 95-122. 25 J. Vauquelin de La Fresnaye, Art poetique françois, ed. cit., t. I, p. 20 et p. 65.

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Petrarca nei trattati francesi d’arte poetica del Cinquecento

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bene comune. Nel suo proprio Art poetique françois, nel 1597, Laudun d’Aigaliers taceva le origini italiane del sonetto e non alludeva neppure al ruolo del Petrarca. I trattati francesi di poetica riservavano al Petrarca un posto singolare, allo tempo stesso centrale e già in margine. Petrarca era il punto di riferimento della cultura letteraria moderna, a cui veniva dato rilievo particolare nella Deffence. Ma, nella proposta emancipatrice della lingua francese, sia dal latino che dall’italiano, esso non poteva essere considerato un modello assoluto. Il trattato di Du Bellay era il programma teorico della nuova scuola, dava una risposta polemica al trattato di Sébillet, pubblicato un anno prima, che proponeva come norma le poesie del Marot. Si sa la parte presa da quest’ultimo nell’introduzione della lirica petrarchesca in Francia, essendo lui il primo a tradurla con precisa attenzione al testo e rispettando perfino la forma originaria dei sonetti. Du Bellay, che faceva ritrosa menzione della nuova traduzione delle rime procurata da Vasquin Philieul, non alludeva al ruolo precursore di Marot in questo campo, e respingeva tanto il modello poetico offertogli dal poeta di Francesco I quanto le sue origini non nobili, che considerava indegne ed incapaci di alta poesia. Si può considerare che nell’aspettativa delle illustrazioni poetiche che Du Bellay si proponeva di offrire alla sua lingua natía, e delle quali l’Olive era solo un abbozzo, il riferirsi a Petrarca aveva valore di programma, ma che era un riferimento in mancanza di meglio. Era purtroppo un riferimento tanto più necessario quanto proveniva da testi teorici italiani, dei quali la Deffence, nonostante fosse un testo del tutto votato alla gloria della sola lingua francese, era un adattamento e il prolungamento: si nota per esempio che il paragone tra le opere latine del Petrarca e le sue opere italiane illustrato dall’argomento del capitolo XI, è ripreso dal Dialogo delle lingue del Speroni26. Il discorso critico francese riprendeva in parte il discorso critico italiano. Peletier du Mans si serviva del commento di Giasone di Nores all’arte poetica di Orazio, stampato nel 1553, che diffondeva l’insegnamento di Trifon Gabriele27. Daniel d’Auge, nei Deux dialogues de l’invention poétique, stampati nel 1560, proponeva una precisa riflessione sui rapporti tra poesia e reto26 Du Bellay, La Deffence, ed. cit., p. 75; cfr. P. Villey, Les Sources italiennes de la Deffence de Du Bellay, Parigi, Champion, 1908, e N. Addamiano, Quelques sources italiennes de la Deffence de Du Bellay, “Revue de littérature comparée”, 3, 1923, pp. 177-89. 27 Cfr. M. Jourde - J.-C. Monferran, Jacques Peletier lecteur de Jason de Nores: une source ignorée de l’Art poétique, “Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance”, 66, 2004, pp. 119-32.

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rica e citava almeno quattro volte il Petrarca; il suo libro era in realtà la mera traduzione dei Dialoghi dell’Inventione poetica di Alessandro Lionardi28. Opere così diverse come la Fabrica del Mondo dell’Alunno, le Prose del Bembo, l’Ercolano del Varchi, del quale si è ritrovato l’esemplare postillato da Desportes, e più degli altri, il Dialogo dello Speroni offrivano ai francesi nuove basi teoriche e diffondevano il canone delle lettere italiane. Si opporrà senza difficoltà il numero limitato e la povertà argomentativa dei trattati francesi all’abondanza e alla complessità della riflessione poetica italiana del Cinquecento, che prolungavano i vivaci e talvolta non cortesi dibattiti nelle accademie e tra gli eruditi. Tale opposizione rivela meno la differenza delle qualità nazionali e delle indoli di quanto mette in luce una concezione diversa della letteratura, del suo ruolo, dei suoi attori. I poeti e i teorici francesi conoscevano i trattati italiani dell’arte poetica. Questo stretto legame determinava in modo contradditorio il loro sistema di valori e la presenza di autori o di nomi di autori che non provenivano da una lettura diretta ed ingenua. Ma i francesi adottarono secondo chiave propria e propri valori i temi e gli argomenti del discorso che prima era servito per giustificare il volgare italiano e le sue forme poetiche, fino a rovesciarne i termini per farne l’apologia della lingua e della poesia francesi ai danni della lingua e della poesia italiane. Certo, nel Cinquecento, la preminenza del Petrarca su tutti gli altri poeti italiani non fu mai contestata, anche se taluni volevano uguagliargli certi autori più recenti. Petrarca presiedeva al Parnaso italiano e questo onore gli fu sempre riconosciuto dai francesi. Ma questi, pure imitando le sue rime, cessarono di considerarlo come un modello del tutto utile per loro. Petrarca veniva contestato nella sua relazione alla poesia francese nel momento stesso in cui la sua lirica era oggetto di un’imitazione attenta e di un culto manifesto la sua persona. Da un lato, i poeti francesi utilizzarono nei propri canzonieri la figura stessa del Petrarca amante, paragonandosi a lui per mettere in evidenza la sincerità e quel che si definirà l’ethos del loro discorso amoroso, creando a questo proposito un vero mito petrarchesco. Dell’altro lato, sul piano teorico, analizzavano il ruolo stilistico del Petrarca in termini che ne riducevano l’importanza.

28 D. D’Augé, Deux dialogues de l’invention poétique, Parigi, R. Breton, 1560; Petrarca è nominato più volte: c. 24v (“une chanson du Petrarque où il accuse Amour, et puis le deffend”), c. 28 (“Comme est cil que dict si bien le Petrarque, ‘L’ultimo dì ch’è prima a l’altra vita’ ”), c. 50 (“si que dit très bien le poète Toscan, ‘E l’alma disperando ha presa ardire’ […] par quoi le mesme dit, ‘Sento di troppo ardire nasca paura’ ”). Cfr A. Gordon, Daniel d’Auge, interprète de la Poétique d’Aristote en France avant Scaliger et plagiaire d’Alessandro Lionardi, “Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance”, 28, 2, 1966, pp. 377-92.

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Petrarca nei trattati francesi d’arte poetica del Cinquecento

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Già nel 1550, quando Ronsard opponeva il piccolo sonetto petrarcheggiato alla sua ambizione di comporre una grande poesia lirica ed erudita, il doppio modello offerto dal Petrarca, cioè la lirica amorosa e la forma del sonetto, suscitava le restrizioni di Barthélemy Aneau. Il lionese Aneau, che rappresenteva il mondo dei collegi e la tradizione scolastica, nel Quintil Horatien opponeva alla Deffence un concetto allargato dell’imitazione. Non stimava originali le proposte del Du Bellay, rifiutava alla lirica amorosa la possibilità di illustrare il francese, non considerava universale la fama del Petrarca. La sua argomentazione, nella quale criticava il sonetto per la sua facilità che andava di pari passo con la povertà delle rime italiane, si concludeva in guisa di ammonimento dato a tutti quelli che chiamava italianiseurs en françois: Se sperano che succeda loro quel che ha ottenuto il Petrarca, si sbagliano, giacché non sono loro dei Petrarca e non sono i soli a scrivere nella lingua loro, come Petrarca fu il solo nella sua, visto che esistono altri poeti francesi, migliori e che trattano cose più degne d’immortalità. Inoltre il Petrarca trae sua reputazione dalla sua Laura non avendo scritto quasi niente altro, e non è da tutti reputato buono, ma soltanto da quelli che sono similmente innamorati29.

Aneau confermava che la poesia petrarchesca si riduceva al solo lato amoroso delle rime; egli riduceva il ruolo del Petrarca nella sola poesia italiana e ad una lingua povera di altre forme d’illustrazioni, legava la fortuna del Petrarca al cattivo gusto di pochi appassionati, e faceva sentire i primi accenti d’italofobia quando denunciava le cosidette “italiche corruzioni”30. Anché Peletier du Mans, che pure aveva tradotto tra i primi brani delle rime esprimeva le sue reticenze e sfumava l’espressione delle lodi: Lo abbiamo tutti ammirato ed imitato e non senza ragioni, vista la grande dolcezza dello stile, la grande varietà su un argomento unico, la viva espressione delle passioni amorose che si vedono nella sua opera, benché ci siano ripetizioni e che talvolta concluda un po’ freddamente31.

29 “S’ils espèrent à eux advenir ce que Petrarque a obtenu: ils se deçoivent. Car ils ne sont pas Petrarque, et ne sont seuls en leur langue comme Petrarque en la sienne, vu qu’il y a plusieurs autres Poëtes François, meilleurs et traitant matière plus digne d’immortalité. Outre ce, Petrarque est renommé en sa Laure, pour n’avoir fait autre poésie, et puis non de tous, sinon des semblablement affectionnés”, B. Aneau, Le Quintil Horacien [1551], in Traités de poétique et de rhétorique de la Renaissance, ed. cit., p. 223. 30 Ivi., p. 194. 31 J. Peletier du Mans, L’Art poétique, cit., p. 293.

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Secondo Peletier, mancava sopratutto al Petrarca di essere nato nella buona epoca, quella di un gusto più sicuro, quella della corte di Enrico II. Du Bellay illustrava sotto forma allegorica tutta l’ambiguità del discorso francese, in un sonetto dei Regrets che costituiva la parte centrale di un trittico in lode dell’architettura regia. Descriveva il palazzo del Louvre che stava edificando l’architetto Pierre Lescot per farne un tempio dedicato alle muse. Queste non erano più le nove sorelle della mitologia, ma le quattro lingue che dovevano celebrare la monarchia dei sogni imperiali di Enrico II, le quattro tradizioni letterarie, i quattro generi della poesia di corte. Nel palazzo di parole edificato dal poeta, a ciascuna lingua corrispondeva un appartamento ornato da un definito ordine architettonico: quello attico per la musa greca, condotta da Omero, il dorico per la musa latina sotto la guida di Virgilio, il corinzio per la musa toscana condotta da Petrarca. Questo canone, associando Omero, Virgilio e Petrarca nella stessa dimora era stato suggerito al poeta da un’altra allegoria architettonica; quella dei templi di Venere e di Marte, nella Concorde des deux langues del Lemaire de Belges. Du Bellay completava la disposizione dell’edificio suo aggiungendo un quarto ordine, quello ionico che attribuiva alla musa francese e a Ronsard. Legava ad ogni musa un’ordine e un autore, che definivano un certo effetto estetico: la semplicità all’attico, la gravità al dorico, la grave dolcezza allo ionico, facendo uno strano uso della grammatica architettonica codificata secondo Vitruvio dai teorici italiani in poi. Du Bellay privava la musa italiana o piuttosto quella toscana del suo ordine, l’ordine toscano precisamente, scoperto nel quattrocento e che serviva ad appoggiare un’identità propria al di là dell’eredità romana. Inoltre, Du Bellay non precisava l’effetto suscitato dall’ordine che aveva attribuito alla musa italiana condotta dal Petrarca; era un enigma che toccava al lettore spiegare. Le sue qualità contrastavano con quelle degli altri: il corinzio era elegante e leggero, gli mancava la vera dolcezza e quella squisita combinazione di dolcezza e di gravità della quale faceva, come tutti gli altri, la qualità propria della lingua e della poesia francesi32. Lo stile del Petrarca era definito metaforicamente dall’ordine corinzio; questa metafora era una brillante variazione del discorso che i francesi al seguito di Lemaire de Belges proponevano sulle lettere italiane. Secondo le categorie dell’arte oratoria, l’ordine corinzio illustrava uno stile floridum o asiaticum che il Marino, secondo i teorici del classicismo, un secolo dopo 32 Sulla ricezione francese della ‘dolcezza’ del Petrarca, si veda P. Blanc, Les raisins verts du pétrarquisme: sur la douceur et sur son cheminement de Pétrarque à Du Bellay. Essai de critique différentielle, in Mélanges de poétique et d’histoire littéraire du XVIe siècle offerts à Louis Terreaux, Paris, Champion, 1994, pp. 225-37.

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Petrarca nei trattati francesi d’arte poetica del Cinquecento

avrebbe illustrato in un modo iperbolico. Questi termini erano polemici e la definizione poco coerente; il corinzio corrispondeva meno allo stile del Petrarca che alla natura elegiaca dell’ispirazione sua. Nello stesso tempo, un Du Monin poteva rilevare la “singolare brevità” sua, la concisione vicina ad un laconismo che rendeva le sue rime quasi intraducibili33, e invece, Guez de Balzac, quasi un secolo dopo il Peletier, parlerà ancora del “dolce Petrarca”34. Petrarca al pare di Ronsard, avrebbe dovuto essere definito poeta di dolce gravità. Ma per Du Bellay, i termini avevano un altro senso: il dolce corinzio petrarchesco era stile dell’amore, era il contrario dello ionico francese e della sua dolcezza mescolata da gravità, della severa urbanità del bello stile che sapeva celebrare la gloria del re, la gloria delle armi. L’italiano, identificato al solo Petrarca e alla sola sua poesia lirica, era lingua dell’amore, secondo Du Bellay, secondo Lemaire, secondo Chapelain che riprenderà l’argomento nella prefazione dell’Adone; l’italiano del Petrarca era una lingua e un modo poetico di corte, costituiva un elemento tra altri della celebrazione aulica, ma un elemento minore, costituiva un elemento di un progetto poetico d’insieme, ma toccava ai poeti francesi realizzarlo. Di un certo modo, si potrà considerare la storia della ricezione francese del Petrarca e del riferimento petrarchesco nei trattati di poetica non certo come una sfortuna, ma al contrario come una paradossale celebrazione della poesia francese.

33 J.-E. Du Monin, Nouvelles Œuvres, Paris, J. Parant, [1582], p. 43; cfr. G. Banderier, Le triomphe de la langue française, in Les Poètes français de la Renaissance et Pétrarque, cit., pp. 413-26. 34 J. L. Guez de Balzac, Les Entretiens [1657], ed. B. Beugnot, Paris, STFM, Didier, 1972, p. 471.

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TUTTO ’L DÍ PIANGO...: PETRARCH AND THE «NEW MUSIC» IN EARLY SEVENTEENTH-CENTURY ITALY

The publication of Giulio Caccini’s Le nuove musiche in 1602 has long been recognized as a landmark in the development of solo song in the early Baroque era. Caccini participated in a trend that would lead to the appearance of over 100 prints of songs for solo voice and instrumental accompaniment (via a basso continuo) in the first two decades of the century, plus many others in manuscript – songs that would establish important patterns both for early opera and for the cantata1. Nino Pirrotta, however, has reminded us that solo song was not a new phenomenon, and that the medium had long formed a central part of the so-called «unwritten tradition», often based on formulaic arie da cantar… (sonetti, terze rime, ottave rime, etc.) over standard bass patterns (for example, the Romanesca). He also argued that the now-lost products of this unwritten tradition were in keeping with a music that could be called truly «Renaissance» in style, and much more so than the polyphony conventionally associated with the musical Renaissance in our history textbooks. Thus the songs of Caccini’s Le nuove musiche and others of the type brought to the surface musical styles and performing practices that had long lain underground2.

1 Nigel Fortune, Italian Secular Monody from 1600 to 1635: An Introductory Survey, «The Musical Quarterly», XXXIX, 1953, pp. 171–195; Silke Leopold, «Al modo d’Orfeo»: Dichtung und Musik im Italienischen Sologesang des frühen 17. Jahrhunderts, Laaber, Laaber Verlag, 1995 («Analecta musicologica», XXIX). 2 Nino Pirotta, Novelty and Renewal in Italy, 1300–1600, in Id., Music and Culture in Italy from the Middle Ages to the Baroque: A Collection of Essays, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1984, pp. 159-74.

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Whatever the relationship between early seventeenth-century solo songs and prior unwritten traditions, it is also clear that these songs inserted themselves into prior written traditions, principally of the polyphonic madrigal. There is plenty of evidence for polyphonic five-voice madrigals being performed by solo voice and intabulated accompaniment, and pieces that cross between the two media, whether directly or indirectly, are well known: Monteverdi’s Lamento d’Arianna is only the most obvious3. Some professional composers clearly looked down upon solo songs as the mere chicanery of performers who had more talent in their throats than in their brains. Others, however, sought to establish solo song as the epitome of a new kind of art-music that had the power to move both the heart and the mind by its rhetorical powers of persuasion and arousal. Was the solo song a lower form of music than the polyphonic madrigal or a higher one? The debate becomes clear in songs that seek to emulate, compete with, or pay homage to their polyphonic counterparts, drawing upon their expressive and structural techniques even as they moved in a different, monodic, direction4. This debate also becomes clear in the poetic choices of solo-song composers. True, they set a great deal of bad, often anonymous, lyric poetry whether as madrigals or as strophic arias. But solo-song composers, or at least the better among them, were not afraid to tackle the literary giants of the age: ottave rime from Tasso’s Gerusalemme liberata, dramatic monologues and dialogues from Guarini’s Il pastor fido, the more daringly erotic lyrics of Giambattista Marino5. In these terms at least, the range and types of poetry set as solo songs in the early seventeenth century were not so different from those found in other musical settings of the period whether in new styles or old, and they formed part of a broader mapping of changing poetic

3 The lament was performed by Virginia Andreini in the title-role of Monteverdi’s opera Arianna performed for the wedding of Prince Francesco Gonzaga and Margherita of Savoy (1608); it was then published in a five-voice version in Monteverdi’s Il sesto libro de madrigali a cinque voci (Venice, Ricciardo Amadino, 1614). The solo-voice version was first published (twice) only in 1623, although it also circulated in manuscript. See Tim Carter, Lamenting Ariadne?, «Early Music», XXVII, 1999, pp. 395-405. 4 See, for example, the comments in Tim Carter, New Songs for Old? Guarini and the Monody, in Guarini: la musica, i musicisti, ed. Angelo Pompilio, Lucca, Libreria Musicale Italiana, 1997, pp. 61-75 («Connotazioni», III). 5 See the lists of settings in Tasso: la musica, i musicisti, ed. Maria Antonella Balsano and Thomas Walker, Florence, Olschki, 1988, pp. 56-84 («Quaderni della Rivista italiana di musicologia», XIX); Guarini, cit., pp. 157-225; Roger Simon and D. Gidrol, Appunti sulle relazioni tra l’opera poetica di G. B. Marino e la musica del suo tempo, «Studi secenteschi», XIV, 1973, pp. 81-187.

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tastes. Indeed, there were times when the solo song had a distinct advantage. In the case of excerpts from pastoral plays, first-person narratives from epic poetry, or lyrics focussed on the poetic «I», the solo song won out over polyphony because of its greater appeal to notions of verisimilitude. The effect of an Arianna lamenting in five voices is, in principle, very different from one represented just by a solo voice. The displacement of the poetic «I» by the performing «we» in the sixteenth-century polyphonic madrigal has not been studied enough – it raises important issues of aesthetics and interpretation. But it is clear that by the early seventeenth century, it was perceived as a problem. The so-called stile rappresentativo was, at least by one definition of the term, predicated upon an identity of singer and character: a solo soprano singing Arianna’s lament somehow becomes Arianna. Once that identity has been established, it is hard to know how to read the same words delivered by two sopranos, an alto, a tenor, and a bass, save as some manner of narration or commentary. My introduction has raised a number of issues: the relationship between early Baroque solo song and prior written and unwritten traditions, the choices made of poesia per musica in this period, and changing notions of how best to represent the poetic «I». These all come to a head in looking at solo settings of Petrarch in early seventeenth-century Italy. This is not surprising. Petrarch ushered in new modes of lyric subjectivity; his poetry became inescapably embroiled in the questione della lingua; and he represented the epitome of the poet’s art. Petrarch was memorized in school, was dissected in the academy, and was a source of commonplace quotations. It took a brave composer to set a well-known Petrarch sonnet to music, and such composers usually sought to vaunt their achievement (hence Adriano Willaert’s own «new music», his Musica nova of 1559). But if the solo song was to make its mark on the early seventeenth-century musical world, it could not avoid the poet. Sigismondo d’India begins his third book of Musiche (1618) with the sonnet that starts the Canzoniere, Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono; Francesco Rasi places Che fai alma? che pensi? avrem mai pace? at the head of his 1608 Vaghezze di musica, and ends his 1610 Madrigali with S’una fede amorosa, un cor non finto; Jacopo Peri opens his 1609 Le varie musiche with a sequence of four Petrarch sonnets separated by strophic arias. Clearly, some solo-song composers accepted the Petrarchan challenge; many more did not. (Of course, much the same could be said for composers of earlier and contemporary polyphonic madrigals.) The list of solo settings of Petrarch in the Appendix, below, is revealing in several ways. First, the repertory is fairly limited but not insubstantial (35 settings of nineteen sonnets by fourteen named composers), and it is also repetitive (ten sonnets

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receive two or more settings, some of which are clearly emulative); for comparison, of the nearly 1,300 solo songs published in the period 1602–1620, a very rough tally gives 120 settings of texts by Guarini, almost 100 by Marino, 46 by Chiabrera, and 43 by Rinuccini, although Petrarch outdoes Tasso (16), Sannazaro (15), and Ariosto (2). Second, Petrarch came somewhat late in the initial enthusiasm for solo-song repertories: the first printed setting appeared in 1608. Third, the composers setting Petrarch for solo voice and basso continuo are, for the most part, those who would count among the more «serious» ones of the repertory, or at least, those with greater musical pretensions: Marco da Gagliano, Sigismondo d’India, Jacopo Peri, Francesco Rasi. Here we do not find the likes of a Domenico Maria Melli, a Bartolomeo Barbarino, or a Tomaso Cecchino. These composers also come from a predominantly Florentine orbit, with a secondary group from a Roman one: the only exception is Francesco Lambardi from Naples. For the Florentines, we have Domenico Belli, Piero Benedetti, Giulio Caccini, Jacopo Peri, Raffaello Rontani, Filippo Vitali, and settings in manuscripts of clear Florentine provenance (B-Br MS 704; I-Fn Magl. XIX.66). Francesco Rasi was also associated with Florence before his exile to Mantua, and Sigismondo d’India is known to have visited the city some time in 16086. The Romans include Giovanni Francesco Anerio, Nicolò Borboni, Antonio Cifra, Giovanni Girolamo Kapsberger, and Giovanni Domenico Puliaschi, plus a setting in a manuscript from the circle of Cardinal Montalto (US-PHu MS Ital. 57). But there are connections between these two groups. Rontani served as a musician to Don Antonio de’ Medici in Florence prior to moving to Rome in 1616 (he became maestro di cappella of San Giovanni dei Fiorentini), while Antonio Cifra’s Libro sesto di scherzi of 1619 survives only in a manuscript copy (I-Fn Magl. XIX 186) presented to its dedicatee, the same Don Antonio de’ Medici. Similarly, Filippo Vitali moved between Florence and Rome, while Puliaschi is known to have sung before Grand Duke Cosimo II de’ Medici at least in early 16207. The broad connection

6 For Rasi, see Warren Kirkendale, The Court Musicians in Florence during the Principate of the Medici, with a Reconstruction of the Artistic Establishment, Florence, Olschki, 1993, pp. 556-603 («“Historiae musicae cultores” biblioteca», LXI). D’India’s preface to his 1609 Musiche refers to his stay in Florence during the time of the preparations for the wedding of Prince Cosimo de’ Medici and Maria Magdalena of Austria (1608). The same preface also mentions a visit to Rome, although d’India’s style was never Roman in orientation. 7 For Puliaschi, see Angelo Solerti, Musica, ballo e drammatica alla corte medicea dal 1600 al 1637: notizie tratte da un diario con appendice di testi inediti e rari, Florence,

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between Petrarch and Florence is not at all surprising: Petrarch was, after all, the quintessential Tuscan poet, and was still a subject of regular discussion in Florentine academies and salons. Indeed, one gets the feeling that these settings inhabit a fairly narrow cultural world of Florentines and their associates looking back to their past literary glory in the face of uncertain futures. More interesting still, however, is the way in which Petrarch sonnets might be set to music. In effect, there are two choices. The first is to produce a set of strophic variations in the manner of a composed-out version of sixteenth-century arie da cantar sonetti. Such settings will vary the same melody and bass line for each of the two quatrains and two tercets. The melodic motion will be limited (often starting on a monotone), and the harmonic structure formulaic: extensive vocal embellishment will be implied or, occasionally, notated. The second approach is to write a through-composed setting (in one, two, or four sections) that to all intents and purposes treats the text in the manner of a contemporary madrigal: the vocal line will be more wide-ranging and nuanced; the harmony will be more adventurous and colorful; and one will find typical madrigalian gestures such as word-painting and expressive dissonance. The differences between these two approaches is clear from comparing the settings of Tutto ’l dí piango; e poi la notte, quando by Jacopo Peri (1609) and Giulio Caccini (1614)8. The Caccini harks back to Pirrotta’s «unwritten tradition»; the Peri seeks to raise the stakes for the solo song by having it emulate the avant-garde polyphonic madrigal in terms of structure and expression. Given Caccini and Peri’s well-known enmity in Florence, it is not surprising to find them adopting techniques for setting Petrarch that are diametrically opposed: regardless of which setting came first, the one is clearly making some kind of statement against the other. More intriguing, however, is just what the differences between these two settings might mean. For the most part, our Florentine composers who stayed in Florence whether in body 1905, repr. New York, Broude Brothers, 1968, p. 152. Rome-Florence musical connections, and stylistic issues therein, are discussed extensively in John Walter Hill, Roman Monody, Cantata, and Opera from the Circles of Cardinal Montalto, Oxford, Clarendon Press, 1997. 8 Jacopo Peri, «Le varie musiche» and Other Songs, ed. Tim Carter, Madison, A-R Editions, 1985, pp. 5-8 («Recent Researches in the Music of the Baroque Era», L); Giulio Caccini, Nove musiche e nuova maniera di scriverle (1614), ed. H. Wiley Hitchcock, Madison, A-R Editions, 1970, pp. 51-59 («Recent Researches in the Music of the Baroque Era», XXVIII). Of course, the date of publication of a song has no direct relationship to its date of composition: Caccini, for example, is known to have composed and performed a number of his songs long before they appeared in print.

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or, like Rasi, in spirit write through-composed, madrigalian settings: Caccini is the striking exception. The Romans and the others, however, adopt strophic variation in the manner of arie da cantar sonetti. But the differences seem to be not just of artistic intent, or even of political, social, and cultural identity (although that may be a factor). Rather, they expose some crucial problems of poetic and musical subjectivity in the solo-song repertory. The subjects and subjectivities of Petrarch’s sonnets are, of course, a highly complex matter. Most relevant for my present purpose, however, is the issue of voice. Lyric poetry occupies a special place between what Plato would have called the diegetic on the one hand, and the mimetic on the other9. Plato’s distinction (Republic, III) hinges on the location of the authorial «I»: in the diegetic (or pure narration), the poet himself is the speaker; in the mimetic, the poet retires behind the voices of his characters. Such mimesis is most apparent in drama, although epic, a primarily diegetic genre, can contain mimetic episodes (as Plato has Socrates say, when Homer «tries as far as may be to make us feel that not Homer is the speaker»). Lyric, however, conflates the diegetic and the mimetic in complex ways. The question of who is «speaking» in and through a Petrarch sonnet might seem to be answered easily: either it is Petrarch himself, expressing the gamut of his personal feelings for his beloved, if absent, Laura; or it is a generalized, idealized lover as Petrarch no doubt fancied himself to be. In the latter case, Petrarch also starts to speak on our behalf; his subjectivity becomes merged with ours. But while the «I» remains a constant presence in Petrarch’s texts, if only as the narrator of a lovelorn fate, the sonnets move through a bewildering array of pronouns. The «you» may be Laura, some other entity subject to direct address, or even the reader or listener. Individuals, or even Petrarch himself, can be objectified as «he» and «she»; objects or feelings can be reified as «it» or «they»; «we» can be invoked as the bearers of the human experience that Petrarch seeks to express. Sonnets that focus on third-person constructions will, not entirely paradoxically, tend toward the diegetic (the authorial «I» is the absent narrator); sonnets that focus on the first-person will be predominantly mimetic (the «I» imitates, rather than narrates, itself).

9 Here I draw upon Karol Berger, A Theory of Art, New York and Oxford, Oxford University Press, 2000, pp. 165-212. I have also been influenced by Margaret Murata, Image and Eloquence: Secular Song, in The Cambridge History of Seventeenth-Century Music, ed. Tim Carter and John Butt, Cambridge, Cambridge University Press, 2005, pp. 380-425.

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The problems become still more acute in any musical setting of a poetic text. Who is the «I» – the poet, the composer, the singer, or the listener for whom the poet, composer, and singer(s) variously speak as proxies? Who is the «you» – a second person addressed by the poem, or the listener attending to its performance? The difference between a reading of a poem and a musical reading of that poem may be one of degree and not of kind, yet the music and its performance force us to confront these questions in ways that a conventional reading, or even a verbal rendition, does not. And it is these questions, I argue, that prompted early seventeenth-century composers to explore Petrarch in different ways in the context of the new musical rhetorics of the stile rappresentativo. Sigismondo d’India provides a test case. By inclination, he would set a Petrarch sonnet through-composed in the Florentine manner. Yet there is one striking exception: his setting of I’ vidi in terra angelici costumi in his 1609 Musiche, which is a set of strophic variations (subtitled «aria da cantar sonetti»): indeed, d’India provides only the music and text of the first quatrain and the first tercet – the text of the second quatrain and second tercet were presumably so well known as not to have to take up space in the print. There are at least two possible explanations for d’India’s unusual (for him) choice of form. One is that he regarded the text as too neutral, or perhaps too abstract, to warrant a detailed madrigalian setting (although Belli, Benedetti, and Marco da Gagliano had no such concern): it merely becomes fodder for a generic aria da cantar sonetti also suitable for countless other such poetry. But perhaps something in the sonnet’s syntax prompted d’India to take this different route: namely, that initial «Io». As I have suggested, the argument in a Petrarch sonnet may proceed in several ways: it may begin with the «I» of the poet before moving to an address («you») or a description («she», «it»); it may start with an address («you») before commenting on the state of the «I»; or it may begin with description that then moves to the «I», or even remains entirely descriptive (i.e., wholly about «she» or «it»). Thus one can crudely classify the sonnets according to the presence of the «I» (strong, weak, or absent). The stronger the presence, the stronger is the poetic voice, which may be that of the poet, of the fictive narrator, of the self-identifying reader, or (in a critical swerve that goes beyond the bounds of the present discussion) of the poem itself. In the case of a musical setting, the singer will function as the poem’s voiced «I», but in the case of wholly narrative sonnets, the «I» will be distanced as a teller, whereas in the more lyric sonnets, the «I» will somehow invoke selfexpression. The strongest «I» sonnets are those that use a first-person pronoun, verb or (implied) adjective in the first line: I’ vo piangendo…, Tutto ’l

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dí piango…, Solo e pensoso…. In the case of solo-voice settings of Petrarch sonnets, it is striking that save in the case of the most obstinate Florentines, these strong-«I» poems are all set in the manner of arie da cantar sonetti, which is what d’India does (exceptionally, for him) in I’ viddi in terra angelici costumi. This sets the difference between Peri and Caccini’s settings of Tutto ’l dí piango in a new light. These settings do not just reflect alternative approaches to handling a Petrarch sonnet: they also emphasize quite fundamental differences in articulating poetic subjectivity on the one hand, and on the other, in recognizing the presence of the singer as singer (rather than as the voice of the poet, or of the imaginary lover). Here we need to learn the lessons of contemporary opera, which makes a clear distinction between the roles of singing and of song. Peri’s Euridice (1600) or Monteverdi’s Orfeo (1607), for example, are sung throughout, and yet they also contain songs that are distinguished from not-song by formal and stylistic procedures. For reasons of verisimilitude, most of these «songs» function dramatically as just that: they are moments when a character literally sings rather than just «speaks»10. Such songs are distinguished both by their poetic structure and by their music: a triple-time setting of ottonari, for example, or a set of quatrains or terze rime set as strophic variation. For the latter, obvious examples are the prologue to Orfeo (sung by the allegorical character La Musica), or the character Orfeo’s «song» to Caronte, Possente spirto, e formidabil nume in Act III of Monteverdi’s opera. Both draw upon sixteenth-century improvisatory traditions similar to the arie da cantar sonetti. Both also involve strong-«I» statements. «Dal mio Permesso amato, a voi ne vengo», begins the prologue to Orfeo: «Io la Musica son…». Similarly, in Possente spirto we hear «Orfeo son io…»11. In opera, the identity between singer and character necessarily becomes fused: it is an essential part of the theatrical illusion that the singer representing Arianna is indeed presumed to be Arianna, at least for the purpose of the dramatic effect. In the chamber, however, the singer usually remains present as a singer more than as a character, save when some imaginary theatrical or

10 Tim Carter, Monteverdi’s Musical Theatre, New Haven and London, Yale University Press, 2002, passim. Common academic parlance would now call such songs-as-songs «diegetic», although I avoid the term so as not to confuse it with Plato’s more precise use. 11 For a more subtle articulation of this argument in the context of theories of deictics, see Mauro Calcagno, «Imitar col canto chi parla»: Monteverdi and the Creation of a Language for Musical Theatre, «Journal of the American Musicological Society», LV, 2002, pp. 383-431.

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similar space is created. Therefore, chamber settings that are in the manner of operatic songs draw still more attention to themselves as just that, songs sung by a singer: at that point, the subject of the song becomes not so much its poetic content as the act of singing. D’India’s solution to the «I» problem in his setting of I’ viddi in terra angelici costumi is to treat the «I» as the singer as singer, rather than as poet or lover. Much the same occurs with Caccini’s Tutto ’l dí piango, where the focus again is on the act of singing rather than on the content of the text. The effect is made all the stronger not just by his use of extensive notated embellishment, but also by the formal and temporal framing of the repetitive harmonic patterns. The consequence is two-fold: the poetic «I» is displaced in two directions – first to the singer as «I», and second, to some manner of weak narration («I» the singer tell the story of the poetic «I») rather than strong personal (as distinct from vocal) expression. In the case of Petrarch’s more diegetic sonnets, through-composition remains an option because the «singer as I» problem is less present (the singer de facto becomes the narrator). And there are other twists consequent upon the problem of poet or singer as «I». Antonio Cifra provides a good example that might seem illogical but, in the present context, makes perfect sense. He belongs to the Roman school, and so would normally be expected to treat the sonnet by way of strophic variation. Yet he also has a Florentine connection (via the dedication of his 1619 Libro sesto di scherzi). He produced three Petrarch settings. Questa humil fera, un cor di tigre o d’orsa in the 1619 book is through-composed, which seems a gesture toward his Florentine dedicatee, although the sonnet tends toward the diegetic (i.e., it is a weak-«I» one). But Cifra cannot bring himself to do the same for the other sonnet in the same book, Valle che de’ lamenti miei se’ piena, where the «I» appears in the first line («miei»): here he reverts to Roman type, treating it as strophic variation. The apparent oddity, however, is the through-composed setting of Cantai, or piango, et non men di dolcezza, another strong-«I» poem, in his Li diversi scherzi…libro quinto of 1617. The prominent firstperson in the first line would prompt strophic variations, and so, it seems, would the opening reference to singing. Yet here we have not the singer as singer, but the poet as singer. The only way of distinguishing a poet’s song from a singer’s song is to turn it into not-song. There seems little doubt that in the context of early seventeenth-century musical rhetorics, through-composed setting better fosters the illusion of the singer as poet (rather than singer as singer), experiencing and expressing the intensity of each painful word one after the other. This is, one assumes, the principle lying behind the Florentine preference for through-composition in the case of Petrarch’s strong-«I» sonnets: in Peri’s Tutto ’l dí piango, we

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focus on the poet’s voice more than the singer’s, and on not-song rather than song. In part, this was a result of Humanist pretensions (the presumed symbiotic relationship between poetry and music in ancient Greece and Rome the revival of which was one self-proclaimed intent of the protagonists of the Florentine new music); in part, it was the result of the competing claims of verisimilitude (that musical recitation was justifiable as being merely a form of heightened declamation). The situation was not to last for long, as song soon came into its own, and as music reclaimed its ground as music rather than as some spurious form of speech. The irony in Pirrotta’s broader argument, however, is that what he establishes as a pure «Renaissance» style – improvised musical recitation to standard harmonic formulas – becomes an archetypal Baroque one (the aria), whereas it is his anti-Renaissance style (the «deliberate adoption of a polyphonic maniera») that is manipulated by Florentine solo-song composers to produce something more in keeping with a Humanist musical aesthetic. We can argue over our own stylistic and aesthetic preferences for song or not-song – or for aria versus recitative – but the crucial point for the early seventeenth century is that the grounds for such an argument now exist. The acute changes in music around 1600 may have brought anxieties to the surface, but they also made available to art-music a set of choices that had not hitherto existed, and that would animate much subsequent endeavor in the field. There are not many solo-voice settings of Petrarch coming from early seventeenth-century Italy, but they offer a unique space in which to explore important issues. Just as Petrarch himself exposed the dilemmas of subjectivity and expression in fourteenth-century Italian poetry, so did early Baroque song composers. The issue they both faced was the same, that of how might one best present through art the nature of human experience.

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Appendix

Petrarch settings for solo voice, 1602–1623 (S = Soprano; T = Tenor; B = Bass)

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Set through-composed

Set as strophic variation (in the manner of arie da cantar sonetti)

Voi ch’ascoltate in rime D’India 1618 (S; at head sparse il suono (Sonnet of book) 1; You–me–I) Quanto piú m’avicino al giorno extremo (Sonnet 32; I–we–she)

Vitali 1618 (T)

Solo et pensoso i piú deserti campi (Sonnet 35; I–him)

Borboni 1618 (S); Vitali 1618 (T)

Erano i capei d’oro a l’aura sparsi (Sonnet 90; They–I)

G. F. Anerio 1611 (S, T); F. Lambardi 1614 (T or S)

Pace non trovo, et non ò da far guerra (Sonnet 134; I–you)

Puliaschi 1618 (B); US-PHu MS Ital. 57 (T)

Che fai alma? che pensi? Rasi 1608 (T; at head avrem mai pace? of book) (Sonnet 150; You–we–I–she) Questa humil fera, un cor di tigre o d’orsa (Sonnet 152; She–I–it)

Peri 1609 (S); I-Fn Magl. XIX 186 (= Cifra 1619; S)

I’ vidi in terra angelici costumi (Sonnet 156; I–they)

M. da Gagliano 1615 (S); B-Br MS 704 (T; octave Belli 1616 (T); Benedetti only); d’India 1609 (S); 1617 (T)

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Tim Carter

In qual parte del ciel, in quale idea (Sonnet 159; She–me–he)

Peri 1609 (S; at head of book with subsequent sequence); Benedetti 1617 (T); Cifra 1617 (S)

Or che ’l ciel et la terra e ’l vento tace (Sonnet 164; It–I)

d’India 1618 (S; 1st quatrain only)

Lasso, ch’i’ ardo, et Peri 1609 (S) altri non me ’l crede (Sonnet 203; I–she–you)

Kapsberger 1612 (S; each of the four parts starts differently but ends the same)

Tutto ’l dí piango; et poi la notte, quando (Sonnet 216; I–she)

Peri 1609 (S); d’India 1618 (T)

Caccini 1614 (S)

S’una fede amorosa, un cor non finto (Sonnet 224; It–you–me)

Rasi 1610 (T; at end of book)

Passer mai solitario in alcun tetto (Sonnet 226; I–you)

I-Fn Magl. XIX.66 (= B-Br MS 704; ?Caccini; T)

Cantai, or piango, et Cifra 1617 (S) non men di dolcezza (Sonnet 229; I–you–they) Valle che de’ lamenti miei se’ piena (Sonnet 301; You–I)

I-Fn Magl. XIX 186 (= Cifra 1619; S)

Mentre che ’l cor dagli amorosi vermi (Sonnet 304; It–I–her)

d’India 1621 (T)

Quel rosignol, che sí soave piagne (Sonnet 311; It–me–he–I)

B-Br MS 704 (S; octave Giardino musicale (Rome, only) Giovanni Battista Robletti, 1621; Rontani; S)

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Tutto ’l dí piango...: Petrarch and the «New Music» in Early Seventeenth-Century Italy

I’ vo piangendo i miei passati tempi (Sonnet 356; I–you)

Benedetti 1613 (S)

Vergine bella, che di sol vestita (Canzone 366)

B-Br MS 704 (= I-Fn Magl. XIX.66 (inc.); S; 1st stanza only); Benedetti 1613 (S; 1st stanza only); Belli 1616 (S; 1st stanza only)

Or so come da sé ’l cor si disgiunge (Trionfo d’Amore, III, 151–59)

Rasi 1608 (T)

Vitali 1618 (T); Kapsberger 1623 (S)

Anerio, Giovanni Francesco, Recreatione armonica: madrigali a una et doi voci, Venice, Angelo Gardano «& fratelli», 1611 Belli, Domenico, Il primo libro dell’arie a una e a due voci, Venice, Ricciardo Amadino, 1616 Benedetti, Piero, Musiche…libro secondo, Venice, Ricciardo Amadino, 1613 Musiche…a una e dua voci…libro quarto, Florence, Zanobi Pignoni, 1617 Borboni, Nicolò, Musicali concenti a una e due voci, Rome, n.p., 1618 Caccini, Giulio, Nuove musiche e nuova maniera di scriverle, Florence, Zanobi Pignoni «e compagni», 1614 Cifra, Antonio, Li diversi scherzi a una, a due, a tre, et quattro voci, libro quinto, Rome, Giovanni Battista Robletti, 1617 Da Gagliano, Marco, Musiche a una, dua e tre voci, Venice, Ricciardo Amadino, 1615 D’India, Sigismondo, Le musiche…da cantar solo, Milan, Heirs of Simon Tini and Filippo Lomazzo, 1609 Le musiche…libro terzo a una e due voci, Milan, Filippo Lomazzo, 1618 Le musiche…a una et due voci…libro quarto, Venice, Alessandro Vincenti, 1621 Kapsberger, Giovanni Girolamo, Libro primo di arie passeggiate à una voce, Rome, n.p., 1612 Libro secondo d’arie a una e più voci, Rome, Luca Antonio Soldi, 1623

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Lambardi, Francesco, Il secondo libro de villanelle a tre, a quattro, et a cinque, con alcune à modo di dialoghi, & in questa parte del Tenore due arie nel fine, Naples, Giovanni Giacomo Carlino, 1614 Peri, Jacopo, Le varie musiche…a una, due e tre voci, Florence, Cristofano Marescotti, 1609 Puliaschi, Giovanni Domenico, Musiche varie a una voce, Rome, Bartolomeo Zannetti, 1618 (first printed as Gemma musicale, Rome, Giovanni Battista Robletti, 1618) Rasi, Francesco, Vaghezze di musica per una voce sola, Venice, Angelo Gardano «& fratelli», 1608 Madrigali di diversi autori, Florence, Cristofano Marescotti, 1610 Vitali, Filippo, Musiche a una e due voci…libro secondo, Rome, Giovanni Battista Robletti, 1618

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LA LINGUA DELLA PERCEZIONE DI SÉ. IL PETRARCHISMO INGLESE

1. Petrarca e l’inwardness come discorso. Non più di cinquanta poesie del Canzoniere vengono tradotte in inglese tra il Cinque e l’Ottocento, quando invece in Francia, per esempio, Vasquin Philleul, traduce integralmente il Canzoniere nel 1548. Watson, del resto, scrive che alla fine del Cinquecento il linguaggio ereditato da Petrarca attraverso le elaborazioni dei petrarchisti italiani e francesi era già obsoleto, fuori moda1. Molte delle traduzioni dal Canzoniere sono quelle pubblicate nel 1557 nella Tottel’s Miscellany 2, in gran parte tradotte da Wyatt e Surrey. Dunque il Petrarca conosciuto in Inghilterra, conclude Watson, si limita a quei cinquanta pezzi, e Petrarca, pertanto, è più un nome che non un libro. Aggiungiamo che molte di quelle traduzioni, anche se in apparenza letterali, sono in effetti delle imitazioni, con una scelta lessicale assai lontana da quella di Petrarca, e con intenzioni, e dunque significati, persino divergenti da quelli che si trovano nel Canzoniere. Ne dovremmo dunque desumere che Petrarca in Inghilterra non fu conosciuto affatto. Al contrario, noi pensiamo che la presenza di Petrarca, anche in Inghilterra, era tanto diffusa da divenire impercettibile, nella sua ovvietà, persino a chi ne faceva uso. E non occorre-

1 G. Watson, The English Petrarchans. A Critical bibliography of the ‘Canzoniere’, London, The Warburg Institute – University of London, 1967, pp. 2-3. 2 H. E. Rollins, ed., Tottel’s Miscellany, 2 vols., Cambridge (mass.), Harvard University Press, 1928-29.

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vano traduzioni: l’italiano era ben conosciuto non solo fra letterati, ma anche fra diplomatici, ‘gente di qualità’, mercanti3. Non solo era conosciuto Il Canzoniere, ma anche, se non di più, il Petrarca dei Triumphi tradotti per intero da Lord Morley, probabilmente attorno al 1550 e a noi giunti nella seconda edizione del 1554, e ancora nel 1587, da Fowler, in scozzese. Traduzioni parziali sono quelle di Mary Sidney, contessa di Pembroke (The Triumph of Death, fine Cinquecento) e Anna Hume (The Triumphs of Love Chastity and Death, 1644)4. La prima traduzione di un sonetto di Petrarca, il sonetto 132, “S’amor non è, che dunque è quel che sento” la troviamo nella canzone di Troilo in tre settime reali ai versi 400-420 del primo canto di Troylus and Cresseyde di Chaucer. Non è questa una cosa di poco conto ai fini del nostro discorso sulla costruzione linguistica e dunque sulla percezione dell’interiorità come costruzione retorica, come discorso. Il poema di Chaucer nella società di corte inglese occupa lo stesso spazio che occupano altrove i ‘petrarchini’. Il poema di Chaucer non solo è un testo di educazione linguistica per quella società, non solo risponde a un orizzonte d’attesa del suo pubblico di dame e cavalieri, ma anche lo costruisce, e così facendo definisce dei modelli d’identità collettiva, di percezione ed espressione della vita interiore nella società aristocratica inglese per almeno un paio di secoli. Troylus and Cresseyde fornisce dunque un modello di linguaggio comme il faut nella visione gentilizia della vita e, allo stesso tempo, ne determina, attraverso il

3 Si possono notare, per esempio, le opere di Machiavelli e Aretino pubblicate in italiano da John Wolfe (vide A. Gerber, All of the five fictitious Italian editions of writings of Machiavelli and three of those of Pietro Aretino printed by John Wolfe of London, “Modern language Notes”, XXII(1907), pp. 2-6, 129-35, 201-8). John Wolfe aveva lavorato in Italia, a Firenze, e a Londra mise insieme un catalogo di grande interesse (fu lui a pubblicare l’Amadis del Montalvo nella traduzione di Munday, il Montaigne di Florio, e anche i primi due canti di The Faerie Queene di Spenser. Un editore importante dunque e per il quale c’è da domandarsi quale senso mai avesse pubblicare libri in italiano a Londra. Molti di quei libri venivano contrabbandati in Italia, come ci mostrano S. Bertelli e P. Innocenti (Bibliografia machiavelliana, Verona, Valdonega, 1979) ma non si può pensare che un editore investisse il suo denaro in libri all’indice e dunque, con un mercato come minimo incerto, è forse più facile pensare che quei libri avessero un pubblico inglese. 4 Henry Parker, Lord Morley, The Triumphes of Francis Petrarcke, to be sold at Paul’s Churchyard, at the signe of the Holy Ghost, by John Carwood, London, 1554; Mary Sidney, Countess of Pembroke, The Triumph of Death, ed. By F. Berkeley Young, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1912; The Triumph of Death and Other Unpublished Poems by Mary Sidney, ed. by G. F. Waller, Elizabethan and Renaissance Studies n. 65, Institut für englische Sprache und Literatur, Salzburg, Universität Salzburg, 1977.

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La lingua della percezione di sé. Il Petrarchismo inglese

linguaggio, il modo di sentire, e ovviamente la retorica attraverso cui si esso esprime. Nel milieu aristocratico si scrivevano lettere usando situazioni e parole e figure tratte dal poema di Chaucer; probabilmente si parlava anche usando quel linguaggio; probabilmente con quel poema di Chaucer ci troviamo di fronte a una modellizzazione della percezione di sé, e del linguaggio dell’autoriflessività attraverso cui il soggetto costruisce e percepisce la propria inwardness 5. Crediamo che di Petrarca si debba dire la stessa cosa, e crediamo anche che Petrarca, in Inghilterra, a partire dal primo Cinquecento non tanto sostituisca Chaucer, quanto accompagni all’araldica e all’emblematica chauceriane un’altra araldica del sentimento, e dunque un nuovo modo di percepire sé nella realtà dei rapporti interpersonali, d’amore o di potere, e però anche il modo di percepire sé attraverso quello stesso linguaggio autoriflessivo, il linguaggio della conversio ad se. Il linguaggio di Wyatt, l’acclimatatore del sonetto petrarchesco in Inghilterra, per esempio, è sicuramente polivalente e pare funzionare sempre a più livelli. Il suo linguaggio erotico, le sue metafore, i suoi temi, il tradimento, l’incostanza femminile, costituiscono un’emblematica in bilico tra la tradizione autoctona – quella chauceriana e quella delle canzoni di tradizione inglese –, l’influsso petrarchesco e le suggestioni classiche; e attraverso quell’emblematica, in cui il sorriso e l’accigliarsi femminile si confondono con i sorrisi e i cipigli di Fortuna, non infrequentemente discorso erotico e discorso politico e dei rapporti di potere a corte si intersecano, si confondono, sono semplicemente omologhi6. Con la Tottel’s Miscellany, Petrarca, nelle traduzioni di Wyatt, Surrey e di altri courtly makers, diventa anche in Inghilterra il modello, implicito e esplicito, che, come dice Puttenham in The Arte of English Poesie (1589)7, serviva a dirozzare la lingua inglese. Sta di fatto che il sonetto dilaga in una moda che attraverso Sidney e Spenser entra poi ben dentro il Seicento fino a

5 Si veda al proposito H. A. Mason, “The People and the Court” in Idem, Humanism and Poetry in the Early Tudor Period, London, Routledge and Kegan Paul, 1959, pp. 143 sg. 6 Rinvio al mio Wyatt: il liuto infranto, Formalismo, convenzione e poesia alla corte Tudor, Ravenna, Longo, 1975, in particolare il capitolo primo della parte III, “Wyatt fra amore e disamore”, p. 153 sgg., e l’ultimo capitolo sulla versione di Wyatt dei Salmi penitenziali. Su ques’ultimo problema in particolare si veda Stephen Greenblatt, “Power, Sexuality and Inwardness in Wyatt’s Poetry”, in Idem, Renaissance Self-Fashioning, Chicago, Chicago University Press, 1980, pp. 115-156; si veda anche il mio Briseide, Criseide, Cressida: i volti della Fortuna, in La posa eroica di Ofelia, a cura di Viola Papetti e Nancy Isenmberg, Roma, ESL, 2003, pp. 249-269. 7 George Puttenham, The Art of English Poesie, Cambridge, Cambridge University Press, 1936.

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Shakespeare e a John Donne in una chiave spesso antipetrarchista. Del resto antipetrarchista è anche Wyatt, il primo traduttore di Petrarca e proprio nelle sue traduzioni che, per una qualche magia verbale, paiono spesso, se non rovesciare il significato dell’originale, comunque modificarlo transcodificandolo in una dimensione assai più concreta di passioni e intrighi, dinieghi, e ripicche, spesso anche usando il sonetto come commento e meditatio in situazioni politicamente pericolose. Se consideriamo la natura della maggior parte delle opere italiane, ma anche Francesi e Spagnole, tradotte in inglese tra il Cinque e il Seicento – Il Cortegiano di Hoby (1561), Della Civil Conversazione di Pettie e Young (1581-86), I Saggi di Montaigne di John Florio (1603), L’Amadis del Montalvo tradotto dal Munday (1589) da una versione francese di Nicolas de Herberay, anche la traduzione dello stesso Wyatt del Manosprecio de Corte y Alabanza de Aldea di Guevara (1536c.ca), e della Quyet of Mynde di Plutarco (1527) a cui potremmo aggiungere il Plutarco della Vite parallele (1575) di North, e quello dei Moralia (1603) di Philemon Holland – ci accorgiamo che si tratta in modo più o meno diretto di Courtesy Books, e abbiamo la sensazione che anche la traduzione di Harington del Furioso dell’Ariosto(1591) o quella di Fairfax della Liberata del Tasso (1600) abbiano la stessa funzione. Insomma si trattava in ogni caso di comporre il ritratto del perfetto gentiluomo in pace o in guerra, e il linguaggio non era certo l’ultima preoccupazione, anzi, tutto sommato, la prima. Il linguaggio della civile conversazione, per citare Stefano Guazzo, in italiano, o in inglese, era quello che distingueva il gentiluomo, più dell’abito, delle maniere, dell’etica stessa. Non occorre sottolineare l’importanza rivestita dal linguaggio in Castiglione, la lingua cortigiana di cui parla Calmeta, di cui discuteva Bembo, quella lingua aristocratica che in Italia unificava la cultura della penisola dalla Sicilia al Veneto8. Parlare quella lingua significava affermare la propria appartenenza e la propria identità. Petrarca in questo senso, in Italia, come ben si sa, a partire dalle Prose della Volgar lingua (1525) del Bembo, è parte importantissima nella formazione di un linguaggio dell’interiorità, nella costruzione

8 Sui rapporti tra le traduzioni inglesi e il dibattito italiano sulla lingua rinvio al mio Sir Thomas Wyatt’s Translations from Petrarch, in “Textus”, 1 (2002), pp. 65-85; rinvio anche all’altro mio intervento, La lingua affinata e la percezione di sé, in Petrarca in Europa, a cura di Armando Nuzzo e Gianni Scalia, “In forma di parole”: 1/2 Il petrarchismo in Inghilterra e Scozia, a cura di Mario Domenichelli e Donatella Pallotti, n. 3, tomo 2, luglio-settembre 2004, pp. 447-460. In questo numero di “In forma di parole” sono già apparse alcune delle traduzioni dai Sonetti di Shakespeare di cui mi servo nel presente lavoro.

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La lingua della percezione di sé. Il Petrarchismo inglese

della propria identità e dunque nella percezione di sé. Non occorre ricordare il dibattito sulla lingua nel Cinquecento italiano, dal Calmeta, allo Speroni, al Muzio, al Trissino, al Valeriano. Nella situazione inglese, come, più in genere nella situazione europea occidentale, si trattava, attraverso Petrarca, di affinare l’idioma natio, per farne lingua cortigiana come tratto distintivo aristocratico e anche, beninteso di fare dell’inglese uno strumento che potesse stare alla pari con l’Italiano, il francese, lo spagnolo. Bembo è dunque importante non soltanto in Italia, e attraverso Bembo diviene importante il suo modello linguistico ‘alto’ e cioè Petrarca come ideale affinamento linguistico ed espressivo a cui tendere, e come lingua d’eccezione anche nella costruzione e nella percezione di sé. Bembo è importante, del resto, anche per via di chi, nel dibattito sulla lingua gli si opponeva, e cioè Calmeta e Castiglione, entrambi in favore della lingua d’uso, non eccezionale, ma media. Non ci pare che questo aspetto sia stato molto considerato per quel che riguarda le poetiche implicite dei primi Courtly Makers inglesi e cioè Wyatt e Surrey. In realtà a noi pare che questo sia esattamente il problema che si pone nella differenza di linguaggio che caratterizza la lingua certamente più magniloquente e alta e nobile di Surrey in confronto alla lingua più d’uso, più rapida e attenta al quotidiano e al vissuto, alla lingua dell’Erlebnis di Wyatt9. Attraverso il linguaggio messo a punto nelle traduzioni e nelle imitazioni da Petrarca si passa dal linguaggio allegorico, emblematico di Chaucer a un nuovo modo di percepire e costruire una vera e propria architettura del sé come consapevole costruzione retorica, come discorso. Siamo nell’ambito certo classicista dell’art de vivre illustrata così esaurientemente da Michel Foucault ne L’Herméneutique du sujet 10 come estetica dell’esistenza e per la quale occorre sapere esplorare gli Arcana Conscientiae e alla quale si attinge attraverso la epistrophe pros heauton (Epitteto, Encheiridion, III, 22, 39 passim, ma anche poi il Marco Aurelio di Ta eis heauton, ovviamente il Plotino delle Enneadi). Ci rammenta Foucault che l’epistrophe pros heauton, la Conversio ad se, di origine platonica, prevede tre gradi: il primo è l’abbandono delle apparenze, del mondo delle apparenze, di ciò che è accidentale al nostro essere; il secondo punto è il tornare a sé, constatare la propria ignoranza, e occuparsi dunque di sé, educarsi, il che conduce al terzo punto che è quello del tornare alla patria, all’Essenza, alla Verità dell’Essere. Non serve forse sottolineare quanto tutto questo abbia a che fare con la metanoia cri9 Rinvio, su Wyatt e Surrey e il tema della lingua aristocratica, anche al bel saggio di W. J. Kennedy, Authorizing Petrarch, Ithaca, Cornell University Press, 1994, vedi in specie il cap. terzo. 10 Michel Foucault, L’Herméneutique du sujet, Paris, Gallimard, 2001, pp. 197-235.

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stiana e con, per esempio, gli exercitia spiritualia ignaziani che ne sono un exemplum notevolissimo11. Serve forse invece sottolineare come l’intera tradizione lirica europea sia evidentemente all’insegna dell’epistrophe pros heauton, e questo proprio per la ragione che è attraverso la lirica che si costruisce il linguaggio dell’autoriflessione, dell’autopercezione, in un volgersi del soggetto verso i propri movimenti interiori, la vita dell’anima, e dunque, spesso platonicamente o neoplatonicamente, l’abbandono del mondo dell’apparire attraverso il ripiegamento su di sé, e la formazione dunque di sé che consente di approdare alla Patria, alla verità oltre l’ingannevole mondo sensuale. Scrive Fulke Greville nella sua Life of Sidney, che il gran cavaliere del Rinascimento inglese non aveva come fine il bello scrivere, ma il ben vivere, o il bel vivere, rendere sé e gli altri, non tanto a parole, ma anche attraverso le parole, buoni e grandi nelle azioni e nella vita. In questa arte architettonica, dice sempre Greville, Sidney era maestro, il maestro di questa ars vitae aristocratica12. E pare ovvio il richiamo a Plotino in Enneadi (1.6), dove si trova l’idea che la vita debba essere vissuta come architettura e scultura di sé13, come arte, dunque, come estetica e poetica dell’esistere. Ci pare di potere associare questo passo a ciò che memorabilmente dice Baldacci introducendo i Lirici del Cinquecento: “La rettorica del Cinquecento è totalizzante. La letterarietà e la vita non sono la stessa cosa ed è impossibile portare la vita nella letteratura? Ebbene si porti la letterarietà nella vita per ricostruire l’uomo intero. Anche in questo senso la lezione del Bembo è esemplare14”. Non occorre sottolineare come tutto ciò sia parte fondamentale dell’eredità classica e di come à l’âge classique divenga dunque non uno dei discorsi, ma, noi crediamo, il discorso che costruisce l’identità aristocratica e dunque il discorso egemone. Cosa distingue un gentiluomo, una gentildonna, se non la lingua e la percezione che essi hanno di sé, il modo in cui il soggetto aristocratico architetta o scolpisce il sé come opera, opus vitae, libero dal mondo delle

11 Sugli Exercitia in questa prospettiva rinvio ancora al mio Cavaliere e gentiluomo, cit., pp. 92-99. 12 Cf. M. Caldwell (ed.), The Prose of Fulke Greville, New York and London, Garland, 1987, p. 13. 13 Si veda sull’idea della vita e del sé come architettura, Plotino, Enneadi, 1.6.3; sulla scultura di sé, 1.6.9. La traduzione integrale delle Enneadi è a cura di Guseppe Faggin, con testo greco a fronte, Milano, Rusconi, 1992. 14 L. Baldacci, I lirici del Cinquecento (1975), Milano, Longanesi, 1984, pp. X-XI. Su tutto questo problema rinvio al mio Cavaliere e gentiluomo. Saggio sulla cultura aristocratica in Europa (1513-1915), Roma, Bulzoni, 2002, pp. 116-122.

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La lingua della percezione di sé. Il Petrarchismo inglese

apparenze, dagli inganni del mondo sensoriale? Sta ovviamente in questa estetica, o poetica dell’esistere la chiave classica dell’idea rinascimentale dell’homo faber fortunae suae. Come scrive Foucault:

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S’il y a une telle liberté, et une défnition si légère de ces exercises et de leur enchaînement, il ne faut pas oublier que tout ceci se passe dans le cadre non pas d’une règle de vie mais d’une tekhnê tou biou (un art de vivre) […]. Faire de sa vie l’objet d’une tekhnê, faire de sa vie par conséquent une oeuvre – oeuvre qui soit (comme doit l’être tout ce qui est produit par une bonne téchne […]), faire de sa vie une oeuvre belle et bonne – implique nécessairement la liberté et le choix de celui qui utilise sa tekhnê 15.

Dunque è attraverso questa arte, questa téchne che, a un tempo, si costruisce e dunque si gode (o si soffre) di quella libertà di destino che permette la scelta stessa attraverso la quale dare forma ‘d’arte’ alla vita come opus, scultura e architettura di sé. Ma deve essere chiaro, anche per il rinascimento, che il dispositivo della conversio ad se, dell’epistrophe è un dispositivo comune, collettivo, designato a distinguere una classe, una casta. Quel dispositivo è anzi, con la lingua attraverso cui esso si esprime e si attua, il segno dell’appartenenza di casta, il segno dell’identità che permette di essere riconosciuti come soggetti in quell’appartenenza, e che permette dunque di percepirsi nella propria soggettività, e di riconoscersi in essa. L’inizio del petrarchismo inglese ha tradizionalmente una data: il 1527. È l’anno della missione diplomatica del giovane Wyatt in Italia. Nel 1525 Bembo aveva pubblicato Le prose della volgar lingua iniziando dunque un dibattito che non si sarebbe presto esaurito. Nel 1527 la questione era all’ordine del giorno nel dibattito tra letterati. Nel 1525, tra le altre cose, era stata anche pubblicata l’edizione del Vellutello dei Rerum vulgarium fragmenta16. Wyatt forse lesse il suo Vellutello (oppure qualche altra delle edizioni cinquecentesche), ma di quelle parafrasi, a conti fatti, e traduzioni alla mano, non dovette trarne molto17. Quello che pare certo è che Wyatt lesse Petrarca nel contesto della discussione italiana sulla lingua cortigiana, prendendo di fatto partito, nel suo lavoro di traduzione, non con Bembo, ma con i suoi oppositori. La poetica implicita di Wyatt pare più incline a una lingua d’uso e media, comunque non certo in favore della lingua d’eccezione di cui parla

15

Foucault, Herméneutique du sujet, cit., p. 405. Le volgari opere del Petrarca con la esposizione di Alessandro Vellutello da Lucca, Venezia, Giovannantonio et fratelli da Sabbio, 1525. 17 Rinvio al mio Sir Thomas Wyatt’s Translations from Petrarch, in “Textus”, cit. 16

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Bembo. La sua poesia usa una lingua diretta, non di rado persino colloquiale, laddove Surrey rappresenta al contrario, l’insistenza su una lingua ‘alta’ e ‘d’eccezione’. La poetica implicita di Wyatt deve essere compresa nella stessa chiave di mediocritas sulla quale insiste Castiglione in accordo con l’idea generale di ‘sprezzatura’ come ratio prima dell’estetica e dell’etica, della poetica esistenziale del gentiluomo, e come primo strumento per attingere alla karis alla grazia che caratterizza facies, abito, maniere, ma anche la mente, l’anima e il cuore dell’uomo di palazzo. In Surrey al contrario è evidente come la stessa karis sia cercata attraverso l’eccezionalità esibita in una lingua alta e preziosa che sta là a dimostrare l’eccezionalità dello stesso soggetto che l’ha concepita, e la scrive come parte del suo opus vitae. La linea di Surrey nella storia del linguaggi poetici dell’Inghilterra Rinascimentale è quella tutto sommato perdente, mentre vincente è lo schema di rime che da lui giunge direttamente fino a Shakespeare. La linea di Wyatt invece è quella che più si impone e che ha il maggiore impatto fino al primo Seicento. Attraverso Wyatt, la linea di sviluppo più notevole del linguaggio poetico è così quella più o meno apertamente antipetrarchista, sicché Petrarca, nel suo processo di acclimatazione inglese, viene usato, per così dire, malgré soi. Rimane da dire che Petrarca, anche se negato, ridotto, piegato ad altre esigenze espressive, magari in chiave di antipetrarchismo, rimane il modello della lingua dell’inwardness, della lingua, della costruzione retorica, delle figure attraverso cui il sé (aristocratico) si percepisce, trova forma, si esprime. Il Canzoniere, come del resto il Cortegiano castiglionesco, non può essere considerato come uno dei tanti ‘manuali per attori’, i courtesy books, nel grand théâtre aristocratico. In realtà, come il Cortegiano, il libro di Petrarca è forse più da intendersi come un encheiridion alla maniera di Epitteto o di Erasmo, un libro di filosofia pratica, soprattutto un libro di poetica, di poetica dell’esistere, e uno strumento attraverso cui si percepisce e si dà forma all’interiorità. 2. Conversio ad se, sonetti e triumphi. C’è un declinare dello stato sociale del sonettista nel momento maggiore della voga del sonetto tra la fine del Cinque e l’inizio del Sei. Se Wyatt, Surrey, e poi Sidney sono aristocratici, Edmund Spenser, pure cortigiano, non è tuttavia un aristocratico, così come non lo è Shakespeare, di professione attore, né John Donne, di estrazione borghese. Gli autori della Tottel’s Miscellany nel 1558 erano tutti aristocratici, mentre quasi tutti d’estrazione borghese sono i sonettisti a cavallo tra Cinque e Seicento: Daniel, Barnes,

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La lingua della percezione di sé. Il Petrarchismo inglese

Constable, Fletcher, Drayton, Percy, Lynche, Smith, Griffin, Tofte, e i molti madrigalisti, anche questi tutti, o quasi, d’estrazione borghese. Così la percezione interiore, quella percezione e costruzione di sé, e dell’inwardness, prima di stretto ambito aristocratico, viene democratizzandosi, o forse banalizzandosi in convenzione, con le eccezioni di Shakespeare, di John Donne, in cui ritroviamo tutto il fascino ‘vissuto’ della lingua diretta, quotidiana, della lingua d’uso, con il sonetto e, più in genere, la poesia usati, come del resto già in Wyatt, come commento alla propria vita, diario personale, documento dell’Erlebnis, un vissuto espresso, se non formato, dalle figure, dai paragoni, dalle metafore, dagli emblemi del petrarchismo. Un esempio interessante di questo uso del sonetto come espressione, percezione, formazione del vissuto, lo troviamo anche nei pochi sonetti di un’aristocratica come Lady de Vere, dedicati alla morte del figlio, con un linguaggio davvero petroso. Non si tratta di grandi sonetti che però paiono dirci quale fosse l’uso che si poteva fare della poesia come oggettivazione dei moti dell’anima. Vediamo il terzo sonetto della breve sequenza: In doleful ways I spend the wealth of my time Feeding on my heart that ever comes again. Since the ordinance of the Destin’s hath been To end of the seasons, of my years, the prime. With my son, my gold, my nightingale, and rose. Is gone, for ‘twas in him and no other where, And well though mine eyes run down like fountains here, The stone will not speak yet that doeth it enclose. And Destins and gods you might rather have tane, My twenty years than the two days of my son. And of this world what shall I hope, since I know That in this respect it can yield me but moss; Or what I should consume any more in woe, When Destins, gods, and worlds are all in my loss. [Afflitta, del tempo mio l’abbondanza Io spreco, e il cuore mi devo mangiare Che pur deve continuare a pulsare, Ché sorte la fine per ordinanza Or dispone della prima stagione Degli anni miei. Con la mia creatura, Oro, usignolo e rosa per sventura Sono perduti, sicché l’afflizione Dagli occhi come fonte zampilla, Ma non parla il sasso che la rinserra.

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Dei e destini! I miei vent’anni in terra Io darei per quella breve scintilla. Che spero? Muschio, dolore, tutto è finito: Destino, dei, mondo, in ciò che è svanito.]

Nel suo quarto e ultimo sonetto, Lady de Vere usa il mito per dare corpo alla sua elaborazione di lutto, e per far piangere gli dei stessi per la morte del suo bimbo e, con lui, per la morte della bellezza stessa, e sigla dunque la sua breve sequenza pietrificandosi, come la moglie di Anfione, metamorfosata per essersi troppo vantata dei suoi figli. Mutata in pietra, la madre diverrebbe sepolcro, e potrebbe dunque riavere dentro di sé, nella morte, il bambino perduto 18; non tanto dunque un ritorno a sé, una conversio ad se, ma uno sprofondare in sé nel lutto, per ritrovare in sé il perduto. In una dimensione contigua anche se certo diversa da questa, è estremamente significativo, come ha notato Donatella Pallotti recentemente, che il primo canzoniere organico, di 26 sonetti, sia quello di Anne Lock (1560), e sia di argomento religioso19. Ognuno dei 26 sonetti è dedicato a un verso del salmo 51 di Davide “Abbi pietà di me, o signore!”. Si tratta forse del primo esempio inglese di spiritualizzazione del sonetto, una pratica che ha anche in Italia una lunga storia. Si tratta di un elemento ulteriore nella costruzione del linguaggio dell’inwardness e nella costruzione della percezione di sé attraverso l’oggettivazione in parole dei moti dell’anima. È importante del resto in tutta questa storia la traduzione dei Salmi che pare entrare in qualche forma di sinergia culturale ed epocale con l’influsso esercitato dai Triumphi. L’uso dei Salmi per esercizi penitenziali, del resto, era comune anche fuori dai monasteri già nel medioevo, e le traduzioni dei Salmi di conseguenza molteplici anche prima del Cinquecento. Mason fa notare come fino alla metà del Cinquecento i Salmi, in Inghilterra, si trovino nelle Horae, i libri delle ore, d’uso nelle devozioni famigliari20. Una versione importante dei

18 Si veda per la breve sequenza di Anne Cecil De Vere, Marion Wynne-Davies, Women Poets of the Renaissance, London, Dent, 1998, pp. 16-17. I quattro sonetti, tutti influenzati da Cartels de Masquaradee, épitaphes (1573) di Philippe Desportes, apparvero inclusi nella raccolta Pandora (1584) di John Soowtherns (cfr. Wynne-Davies, cit., p. 275 e p. 352). 19 Donatella Pallotti, Tra sacro e profano, in Petrarca in Europa, “In forma di parole”, a cura di Armando Nuzzo e Gianni Scalia, I/2: Il petrarchismo in Inghilterra e Scozia, a cura di Mario Domenichelli e Donatella Pallotti, cit., p. 465. Rinvio al saggio di Pallotti per quel che riguarda la spiritualizzazione del sonetto in Inghilterra. Si veda anche S. M. Felch, a cura di, The Collected Works of Anne Vaughan Lock, Tempe, Arizona Center for Medieval and Renaissance Studies, 1999. 20 Cf. Mason, cit., p. 207.

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Salmi è ovviamente quella di Wyatt, tratta dalla prosa dei Sette Salmi della Penitenzia dell’Aretino, stampati a Venezia nel 1536, con ristampe nel 1539 e 1540. Nei versi di Wyatt si esprime una forza incredibile nell’alternarsi sperimentale di ottava rima narrativa e terza rima come metro riflessivo. Ed è forse da notare come la fama di Wyatt, appena dopo la sua morte, fosse legata al poeta dei Salmi molto di più che non al traduttore di Petrarca o al ballet maker21. La percezione di sé in chiave d’assoluto e di meditazione trascendentale nella tradizione inglese va cercata in una combinatoria del linguaggio emblematico del Canzoniere, di quello allegorico dei Triumphi, e delle suggestioni che provengono dai Salmi. I Triumphi appartengono a un genere o un sottogenere della visione allegorica in sogno che è così tipica del medioevo e alla quale appartiene anche l’Hypnerotomachia Poliphili (1499)22, un’altra delle fonti del linguaggio emblematico attraverso cui l’anima si racconta nel suo procedere ad perfectionem attraverso il superamento del desiderio carnale e la sua sublimazione nell’ovvia chiave neoplatonica di tutto il Rinascimento europeo. Il genere del triumphus tratta, come dire di tornei allegorici tra istanze allegoriche. La Cupido, il desiderio, trionfa nella vita; la Pudicizia trionfa sul desiderio; la Morte sulla Pudicizia; la Fama sulla Morte; il Tempo sulla Fama e l’Eternità su tutto. Il nostro sbrigativo resoconto della serie dei Triumphi del Petrarca serve unicamente per far rilevare come questa stessa struttura, e questo stesso linguaggio che deve rendere conto dei movimenti dell’anima, e delle figure che prestano forma all’interiorità, siano anche struttura e linguaggio, per esempio, delle feste ufficiali, dei masque, dei tornei che si celebrano in tutta Europa e in cui le istanze possono anche essere diverse, ma il linguaggio rimane lo stesso, e analoga la struttura. Coeur Loyal, Bon Courage, Bon Conseil sono maschere cavalleresche che entrano nelle lizze battendosi in uno scontro che pare sempre avere a che fare con la psychomachia, e i contrasti, e i trionfi delle virtù: Castità, Fede, e Fedeltà. Giunge una serie di cavalieri venanz che sfidano, come pellegrini, i tenanz e tutto il campo di gara e di festa, così come la sfilata che precede lo scontro sul campo, sono contrassegnati dall’allegoria e dalla struttura trionfale. Così si procede per la difesa o la conquista del Castello di Prudenza, o Castità, o Beltà, e così si festeggiano matrimoni, nascite di principi, firme di negoziati e trattati. E sempre l’ultimo trionfo definisce la scala dei valori e la prospettiva.

21 Si veda sul Wyatt salmista: Mason, cit.; Domenichelli, Wyatt, cit., e Greenblatt, Renaissance Self-Fashioning, cit. 22 Si veda l’edizione curata in due volumi da Marco Ariani e Mino Gabriele: Francesco Colonna, Hypnerotomachia Poliphili, Milano, Adelphi, 1998.

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Nel nostro Quattrocento (ma si pensi anche All’Amorosa Visione del Boccaccio) il genere o sottogenere ebbe larga diffusione. Il conflitto delle istanze come si diceva implica una psychomachia, una lotta dell’anima, e anche una lotta interiore in cui le personificazioni di qualità astratte, vizi e virtù, princìpi danno forma al triumphus. Ecco, a noi pare che il triumphus entri anche nella costruzione delle sequenze di sonetti, e più generalmente sia il fondamento strutturale nell’architettura di gran parte delle opere rinascimentali. Non ho spazio a sufficienza per esemplificare compiutamente questa affermazione. Darò brevemente due esempi e mi limiterò alle sequenze di sonetti. Nei Sonetti di Shakespeare della struttura trionfale non rimane che la rovina, ma quella rovina testimonia di una tentazione architettonica che ovviamente, data la nota impossibilità di definire altra sequenza che quella voluta con tutta probabilità dall’editore Thorpe nel 1608, noi non siamo in grado di dimostrare, e che ci limiteremo dunque a indicare. Il desiderio di bellezza, riassumiamo così, può sconfiggere la morte attraverso l’Increase, la discendenza, la procreazione in cui la Bellezza sconfigge la Morte riproducendosi nel tempo e dunque sconfiggendo anche il tempo. Ma sarà solo la Poesia, in cui la bellezza rimane imperitura, e dunque sopravvive nella fama, a sconfiggere il tempo divoratore con le sue rime immortali; tuttavia l’Impudicizia può allearsi alla morte e sconfiggere la Bellezza; il Desiderio può mutarsi in Poesia e dunque nella quintessenza dell’amore per sconfiggere Tempo e Morte i quali nella poesia vengono paradossalmente giocati contro se stessi, sicché il tempo può essere sconfitto dal tempo, e la morte dalla morte stessa. Il Desiderio tramutato in Poesia e non consumato in Lussuria è dunque la chiave di volta del sistema. Ma l’impudicizia, Lust, può trionfare e allora sarà la Morte a trionfare. Stiamo tentando dunque di rinchiudere i Sonetti di Shakespeare nel sistema trionfale, e in questo andamento da psychomachia che abbiamo appena esposto. Ma troviamo la stessa pyschomachia scalare negli Amoretti di Spenser, o meglio, anche qui ne troviamo i resti, le reliquie, mentre è del tutto evidente l’impostazione trionfale del grande incompiuto poema cavalleresco allegorico di Spenser: The Faerie Quene. Ma ancora si pensi, per quel che concerne Amoretti, solo al sonetto LXXV, con la poesia e la fama che l’hanno vinta sul tempo distruttore. E pensiamo anche al sonetto 146 di Shakespeare con quella chiusa, in cui l’anima deve ‘mangiare’ la morte, nutrirsi della morte del corpo sicché “Morta la morte non c’è più morire”, o a John Donne e in particolare ai Sonetti sacri come “Death be not Proud” in cui la vita è minacciata dal trionfo della Morte che su tutto ha imperio, ma la morte stessa è disfatta da Eternità sicché la stessa Morte non è più la fine della vita, ma l’inizio della vita eterna e il sonetto è sul topos trionfale della Mors mortis e, come nei Triumphi – il con-

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cetto però è biblico, Isaia 25:8; Paolo, Corinzi, 1: 26.54, ripetuto anche nel rituale funebre del Book of Common Prayer anglicano in cui l’ultimo nemico che deve essere distrutto è la morte stessa – l’istanza vincente alla fine non può che essere l’Eternità, alla quale la poesia dunque deve allearsi.

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3. I Sonnets come struttura trionfale in rovina. Nei Sonetti 23 di Shakespeare è assai evidente la presenza dello schema trionfale nei primi diciotto sonetti che formano una sequenza organica in un canzoniere la cui struttura come si è detto non possiamo decidere, a partire dall’impossibilità di definire la sequenza stessa, a parte i primi diciotto sonetti. Nella prima sequenza, dunque, il poeta si rivolge al “Fair Youth”, il giovane bello, e lo esorta al matrimonio ed ad avere progenie perché la di lui bellezza si rigeneri e dunque non muoia e possa nella prole sconfiggere il tempo, i guasti della vecchiaia, e la morte stessa. Si veda per esempio il sonetto n. 2: When forty winters shall besiege thy brow, And dig deep trenches in thy beauty’s field, Thy youth’s proud livery, so gazed on now, Will be a tattered weed of small worth held: Then being asked, where all thy beauty lies, Where all the treasure of thy lusty days, To say, within thine own deep-sunken eyes, Were an all-eating shame and thriftless praise. How much more praise deserved thy beauty’s use If thou couldst answer, ‘This fair child of mine Shall sum my count, and make my old excuse’, Proving his beauty by succession thine: This were to be new made when thou art old, And see thy blood warm when thou feel’st cold. [Quaranta inverni t’assedieran la bella Fronte ivi profonde scavando trincee E della tua gioventù la livrea fiera

23 L’edizione dei Sonnets che useremo sarà quella curate da Katherine Duncan-Jones, Shakespeare’s Sonnets, The Arden Shakespeare, London, Thomas Nelson, 1997. Ogni riferimento a questa edizione. Si veda anche l’edizione curata, con testo italiano a fronte, da Alessandro Serpieri, Milano, Rizzoli, 1991.

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Or sì mirata sarà in brandelli, E ti si chiederà: dove la tua beltà? Dove il tesoro dei tuoi giorni belli? Dirai che s’è persa negli occhi Tuoi infossati? Poca sarebbe lode E gran vergogna. Ben altrimenti La beltà va usata. Se tu potessi Dire che tuo figlio copre il tuo conto E il tuo debito salda, la beltà Pur sua, tua ancor sarebbe, e da vecchio Giovin saresti, e caldo il freddo sangue.]

Ai sonetti dal 15 al 19, tuttavia, si inaugura una nuova strategia di immortalità: la poesia indica ora se stessa come vero luogo in cui la bellezza non può morire. Con concettosità assai barocca il poeta offre ora al “Fair Youth” il matrimonio con la propria musa che diverrà dunque il ventre poetico dal quale si rigenererà perennemente un’immagine della bellezza sulla quale né tempo né vecchiaia hanno potere. Tra la chiusa del sonetto 15, la sestina del sonetto 18, e ancora la chiusa del sonetto 19 ci pare si aggrumi tutto il senso della microsequenza di cui si parla 15 And all in war with time for love of you As he takes from you, I engraft you new. [E in guerra perenne col tempo per amor tuo Com’ei a te prende, io ti rinnovo.] 18 But thy eternal summer shall not fade, Nor lose possession of that fair thou ow’st, Nor shall death brag thou wander’st in his shade When in eternal lines to time thou growst: So long as men can breathe or eyes can see, So long lives this, and this gives life to thee. [Ma non svanirà mai l’estate tua Né mai si perderà la tua bellezza Né dirà Morte che nell’ombra sua Tu vai, se in versi eterni al tempo cresci. E finché vi sarà chi vede e respira Vivran questi versi dandoti vita.]

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19 But I forbid thee one most heinous crime, O carve not with thy hours my love’s fair brow, Nor draw no lines there with thine antique pen; Him in thy course untainted do allow For beauty’s pattern to suceeding men., Yet do thy worst, old Time, despite thy wrong, My love shall in my verse ever live young [Ma un orrendo delitto io ti vieto, Non segnar l’ore in fronte all’amor mio Non tracciar righe con l’antica penna, Lascialo intatto mentre vai fuggendo, Modello di bellezza per chi verrà. Oppure sconcialo come vuoi, Vecchio, Lui nel mio verso vivrà sempre bello.]

Al sonetto 20 dunque il poeta propone il proprio amore sublimato in poesia come strategia di immortalità. Non si tratta qui di amore sensuale, quello che stringe uomo e donna e ne perpetua la bellezza della vita nei figli, ma dell’amore spirituale invece che attraverso la musa perpetui, nella memoria della bellezza del corpo, la bellezza dello spirito. Così nel sonetto 20 a coronamento di questa strategia, si presenta la figura platonica e neoplatonica dell’androgino, la stessa ripetuta in versioni infinite in tutta la commedia a tema gemellare del Cinquecento Europeo, a partire dalla Calandria e fino alla memorabile versione shakespeariana della Dodicesima notte, con tutte le sue fonti italiane, da Gli inganni dell’Accademia degli Intronati, a Gli ingannati di Niccolò Sechi, alle frequenti ripetizioni nei canovacci della Commedia dell’Arte. Il “Fair Youth” diviene dunque l’androgino, signore-signora della passione, Amore in persona, il Cupido dell’emblematica rinascimentale. Il “Fair Youth” si fa così segno della divina riunione del diviso, il segno dell’Uno a cui aspira l’anima neoplatonica. Questa figura d’unione, che si trova per la prima volta nel racconto di Aristofane nel Simposio platonico, dove gli androgini sono gli antichi esseri perfetti e sferici tagliati in due dall’invidia degli dei, e che, da quel momento in poi vanno inseguendosi l’un l’altro sperando di ritrovare la propria perduta metà – questa figura d’unione, dicevo, certamente guarda in direzione del superamento dell’amore sensuale, ingannevole dei corpi, verso quel grado superiore di amore che tutto il rinascimento neoplatonico, ripetendo l’insegnamento di Diotima ancora nel Simposio, canta e ripete in una miriade di figure.

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È evidentemente petrarchesca, prima ancora che petrarchista questa impostazione, ed è chiaramente di marca petrarchesca l’andamento trionfale che caratterizza la prima parte della sequenza. Ma si tratta di un triumphus che ci rimane come traccia interrotta, una sorta di rudere nella ricombinazione di quel testo presunto che non sappiamo ricostruire; ma certo, la tentazione è forte, se non di ridisporre, però di interpretare i Sonnets come canzoniere organico che pare costruirsi come trionfo della poesia in quanto amore spiritualizzato sublimato, purgato dalle scorie dei sensi. Sicché la poesia trionfa sul tempo, sulla morte e su ciò su cui la morte ha imperio, la vita che rovina, il corpo che marcisce a se stesso e cade nella notte. Rimane ovviamente il sospetto che le cose non stiano proprio così, o non stiano così che in parte. Intanto ricordiamo l’invettiva contro la lussuria e il trionfo dell’impudicizia alleata alla morte contro la bellezza, la poesia, l’eternità al sonetto 129: Th’expense of spirit in a waste of shame Is lust in action, and till action, lust Is perjured, murd’rous, bloody, full of blame, Savage, extreme, rude, cruel, not to trust; Enjoyed no sooner but despised straight; Past reason hunted, and no sooner had, Past reason hated as a swallowed bait, On purpose laid to make the taker mad; Mad in pursuit, and in Possession so; Had, having, and in quest to have, extreme; A bliss in proof, and proved, a very woe; Before, a joy proposed; behind, a dream. All this the world well knows, yet none knows well To shun the heaven that leads men to this hell. [Spirito dissipato, di vergogna Spreco è lussuria in atto, e, in atto, Spergiura, assassina, d’ogni biasimo Piena, selvaggia, estrema, brutale, Crudele, infida, disprezzata non appena Goduta; irragionevolmente Cercata, avuta, odiata come un’esca Gettata per fare impazzire chi abbocca. Follia la ricerca, follia il possesso: Avutola, avendola, cercando d’averla, Estrema; delizia, protervia, sventura Godimento in attesa, poi sogno, Come tutti sanno, non tanto però, Sicché al ciel s’en vanno che all’inferno mena.]

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Si tratta di un sonetto contra cupiditatem che certamente eredita le sue figure da una lunga ascendenza. Si pensi per esempio all’invettiva contro la bellezza del corpo, così come la troviamo in Brittle Beauty, il sonetto di Surrey in apparenza tanto simile a quello di Shakespeare e però anche tanto più ancora dentro al medioevo e in cui la bellezza del corpo ha in sé inscritto solo il cadere e il morire delle cose, ed è dunque essa stessa toccata dalla colpa originale. Brittle beauty that nature made so frail, Whereof the gift is small, and short the season, Flow’ring to-day, to-morrow apt to fail, Tickle treasure, abhorred of reason, Dangerous to deal with, vain, of none avail, Costly in keeping, passed not worth two peason, Slipper in sliding as is an eele’s tail, Hard to attain, once gotten not geason, Jewel of jeopardy that peril doeth assail, False and untrue, enticed oft to treason, En’my to youth (that most may I bewail!), Ah, bitter sweet! Infecting as the poison, Thou farest as fruit that with the frost is taken: To-day ready ripe, to-morrow all to-shaken24. [Fragil beltà effimera in natura Piccolo dono di breve stagione, In fiore oggi, doman peritura Tenue tesoro qual disprezza ragione, Perigliosa, vana, inutil da cercare, Da tener costosa, e valore non ha, Come l’anguilla non si fa afferrare, Rara a trovarsi, nulla per chi già ce l’ha. In pericolo, nel rischio è una gemma, Di gioventù nemica (quel che lamento!) E dolceamara, e veleno che infiamma. Falsa e sleale, adesca al tradimento. Come il frutto che il gelo rapisce Oggi matura, domani svanisce.]

In Shakespeare, attraverso la poesia, ciò che c’è di spirituale nella bellezza del corpo pare potere avere riscatto attraverso l’arte, la poesia e così approdare 24 E. Jones (a cura di), The Poems of the Earl of Surrey, Oxford, Oxford University Press, 1964, p. 14; il sonetto nell’Harrington Ms, è attribuito a Lord Vaux.

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all’eterno. Se così stessero le cose, il trionfo della bellezza alla fine sarebbe il trionfo della poesia, dell’opera che racchiude il segreto della bellezza nel mondo delle ombre, della poesia che sa scorgere nello specchio oscuro e impolito di cui parla Paolo in Corinzi I, l’immagine stessa di Dio. Sicché dunque il trionfo decisivo, in qualche senso, attraverso la poesia, è il trionfo della natura, sovrana su ogni rovina (sonetto 126), e il trionfo della natura è anche trionfo d’amore, di Eros in persona, il “lovely boy” che ha potere sulla clessidra, e sulla falce, i simboli del tempo e della morte. E l’arte, figlia di Natura, di Amore, scredita dunque il tempo e, attraverso il ricordo, l’imperitura memoria, ne uccide gli inesorabili minuti. Ma anche Natura non può serbare per sempre la bellezza, e il tempo dunque, dapprima opposto alla natura, ne diviene alla fine la luttuosa dimensione, oppure il tempo divoratore si nutre della bellezza, e di ciò che, più bello, è raro in natura (sonetto 60). Il tempo stesso, tuttavia, può essere usato contro il tempo, e divenire dunque lo scrigno dei tesori, di quella bellezza che nel tempo trionfa benedicendo l’attimo con la rivelazione dello splendore che in esso si cela per svelarsi. Sicché nel dispiegarsi del tempo tra passato e futuro, tra rimpianto e speranza, è anche ogni trionfo d’amore; non solo, del tempo non può che nutrirsi, e nel tempo non può che articolarsi, la speranza di avere ciò che ci manca: “Blessèd are you whose worthiness gives scope, / Being had, to triumph, being lacked, to hope” [Benedetto sia tu il cui valore dà,/ nell’averti, ogni trionfo, e, nel perderti, ogni speme. (sonetto 52)]; e ancora “Ruin hath taught me thus to ruminate, / that Time will come and take my love away./ This thought is as a death, which cannot choose/ But weep to have that which it fears to lose” [E m’insegna Ruina a pensare / Che Tempo verrà a rapire Amore./ E pensare è morire, e scelta non ha,/ E ciò che teme di perdere implora d’avere. (sonetto 64)]. L’arte stessa, la poesia, che si oppone al tempo e ai suoi guasti, figlia della memoria, del rimpianto e della speranza, la poesia, dicevamo, è figlia del tempo stesso, e nel tempo trova origine e ragione, in ciò che si ha, e che si perde, in ogni trionfo verso ogni inevitabile resa. L’arte come trionfo della bellezza e della verità, l’arte che sa trovare nel tempo, nella natura, nella dimensione finita e sempre ingannevole del mondo sensibile, del mondo delle ombre (Sonetto 53) attraverso una conversio ad se, nel linguaggio autoriflessivo, nell’epistrophe pros heauton, l’ideale unione di verità e bellezza: questa noi crediamo sia la visione del mondo, la filosofia sottesa e implicita nei Sonnets; ma non si può sottacere la presenza della negazione, dell’ironia, che la rende astratta e improbabile. Pensiamo dunque al sonetto 152 in cui la bellezza stessa, giurata e spergiurata dal poeta e dalla musa è dichiarata falsa: In loving thee thou knowst I am forsworn; But thou art twice forsworn to me love swearing,

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In act thy bed-vow broke and new faith torn, In vowing new hate after new love bearing. But why of two oaths’ breach do I accuse thee, When I break twenty? I am perjured most, For all my vows are oaths but to misuse thee, And all my honest faith in thee is lost: For I have sworn deep oaths of thy deep kindness, Oaths of thy love, thy truth, thy constancy, And to enlighten thee gave eyes to blindness, Or made them swear against the thing they see: For I have sworn thee fair: more perjured eye, To swear against the truth so foul a lie. [Sai che nell’amarti io son spergiuro; Ma tu due volte se mi giuri amore, che spezzi voti di letto, e fedeltà novella infrangi. A nuovo odio ti voti ogni volta che novello amor tu porti. Ma perché di doppio spergiuro t’ accuso? Io che venti volte t’inganno? Lo spergiuro Son io che non giuro che per poterti usare, Sicché in te ogni mia onestà si perde. E giuro sulla tua dolcezza, sull’amor tuo Sulla tua fedeltà, la tua costanza Per darti luce ho dato occhi a un cieco Perché giurassero contro ciò che vedono. E bellezza tua ho giurato; occhio spergiuro, Sì orrenda contro verità giurar menzogna!]

Questo sonetto, probabilmente uno della serie della “Dark Lady”, rappresenta dunque un altro Triumphus Cupidinis e dunque il trionfo dell’ingannevole mondo dei sensi, del mondo sensuale. Se questo è vero, qui si dichiara una sconfitta della stessa poesia, spergiura nel dichiarare il trionfo della bellezza e della poesia stessa contro, e però anche dentro, il tempo, la morte, la vecchiaia con cui la poesia sa perfino stringere alleanza. Il Triumphus Cupidinis, così, nello spergiuro, non può che mutarsi in disfatta della poesia, poiché in questo sonetto di chiusura, è la poesia stessa a dichiararsi bugiarda e a sconfessare la propria pretesa di opporsi all’inesorabilità del tempo, con la verità della bellezza, poiché qui la bellezza stessa non è che menzogna. Il tempo ha già lavorato dentro la poesia, contro la poesia stessa, come dentro e contro l’amore scovandone gli inganni e sfigurando la bellezza, la stessa poesia che dunque non può che dichiararsi come “orrenda menzogna”. Si apre qui, io credo, la prospettiva

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metafisica del sonetto 146, in cui riallacciandosi all’antico tema della mors mortis, l’anima deve divorare la morte, nutrirsi della morte del corpo perché muoia la morte stessa nel Triumphus aeternitatis:

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Poor soul, the centre of my sinful earth, Feeding these rebel powers that thee array, Why dost thou pine within and suffer dearth, Painting thy outward walls so costly gay? Why so large cost, having so short a lease, Dost thou upon thy fading Mansion spend? Shall worms, inheritors of this excess, Eat up thy charge? Is this thy body’s end? Then soul, live thou upon thy servant’s loss, And let that pine to aggravate thy store; Buy terms divine in selling hours of dross, Within be fed, without be rich no more: So shalt thou feed on death, that feeds on men, And death, once dead, there’s no more dying then. [Pover’anima, centro dell’argilla Mia di peccato, che nutri le forze Ribelli di cui ti rivesti; perché Soffri affamata? Perché quelle Tinte costose sui muri di fuori? Tanto spendi per breve contratto? Per la tua casa che muore? Erede Il verme ne mangerà lo spreco? Questa la fine del corpo? Anima, vivi In eterno di ciò che perde il tuo servo; vendendo delle ore la scoria Nùtriti dentro, fuori ricca non più. E mangia tu, la morte che mangia, Morta la morte, non c’è più morire.]

Qui è certamente evidente il movimento introversivo di cui parla Foucault a proposito della conversio ad se: l’affondare in sé, il ritorno a sé, per scoprire il vero, ed educarsi al ritorno alla patria, il ritrovare ciò che noi siamo, oltre l’apparire, e ciò a cui apparteniamo, attraverso un viaggio d’esilio nel mondo delle ombre. Certo non indicheremmo mai questo come ultimo sonetto della sequenza, e prospettiva dalla quale guardare al sistema di valori, e alla graduazione dei triumphi. Non riusciremmo in realtà a trovare chiusa migliore della coppia di sonetti 153 e 154, con quell’effetto di rima bacia-

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La lingua della percezione di sé. Il Petrarchismo inglese

ta così tipica della struttura del sonetto inglese e che trasporta tutta la sequenza in una prospettiva ironica con un trionfo d’amore e della malattia d’amore, e forse della malattia venerea, the “strange disease” del sonetto 153, che si suppone possa essere curata dalla magica fonte in cui una virginea ninfa ha spento la torcia di Cupido così scaldando perennemente l’acqua e facendone un bagno termale. Ma, come si legge nella chiusa al sonetto 154, se quella torcia ha perennemente scaldato l’acqua, quell’acqua non sa raffreddare Amore, né evidentemente i suoi effetti. Ecco, ci pare che, forse, in questa prospettiva, il trionfo definitivo, non sia quello di Amore, né quello di Lussuria, non un triumphus cupidinis con tutti i suoi effetti rovinosi, ma sia il trionfo dell’ironia, o ancora dell’arte, un trionfo arguto della poesia che, con l’ultimo sonetto, l’ultimo triumphus, dunque, ordina la prospettiva dell’intera sequenza e ne definisce la ragione architettonica.

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DAL CAOS AL COSMOS: IL CANZONIERE DI EDMUND SPENSER

Accostarsi al canzoniere di Edmund Spenser significa entrare nel pieno della voga di canzonieri di stampo petrarchesco che si impose in Inghilterra negli anni 90 del XVI secolo, dopo la pubblicazione, nel 1591, dell’Astrophel and Stella di Sir Philip Sidney; ma significa anche accostarsi a uno dei più alti esempi di riscrittura, meditata e consapevole, del ‘materiale’ petrarchesco. Il dialogo che Spenser intessé con Petrarca e i petrarchisti è fatto di accettazioni e rovesciamenti, di adesione e scarto; i topoi dell’amore petrarchesco sono ripresi, imitati, e sottilmente rovesciati, utilizzati per un personale discorso d’amore che è anche un discorso sull’arte, la vita e il destino eterno dell’uomo. Per Spenser mi pare sia legittimo parlare di ‘canzoniere’, più che di sonnet sequence, la forma tipica del petrarchismo inglese1, in quanto gli 89 sonetti di Amoretti trovano il loro compimento nel poemetto che Spenser volle fosse pubblicato nel medesimo volume: due opere (più la breve parentesi delle Anacreontiche)2 a comporne una sola, come dice il titolo dell’opera, pubblicata nel 1595: Amoretti and Epithalamion.

1 Se Philip Sidney costruì Astrophel and Stella con sonetti e canzoni, i successivi poeti composero corone di soli sonetti; un’eccezione è il tardo canzoniere di Lady Mary Wroth Pamphilia to Amphilanthus, pubblicato nel 1621. Sulle sonnet sequences elisabettiane si veda, per tutti, M. R. G. Spiller, The Development of the Sonnet, London, Routledge, 1992. 2 Una riscrittura in chiave mitologica dei temi amorosi dei sonetti, scritta a imitazione (libera) del poeta greco Anacreonte.

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Già una prima lettura del canzoniere di Spenser dice lo scarto che egli impresse tra la propria opera e le coeve sonnet sequences, fra le quali giova ricordare almeno Delia di Samuel Daniel e Ideas Mirrour di Michael Drayton, pubblicate rispettivamente nel 1592 e nel 1594: dopo un corteggiamento che è causa di sofferenza ad una donna bella e crudele, l’amante ottiene dall’amata una promessa d’amore; e l’amore, alfine corrisposto, trova, ed è un unicum nell’ambito dei canzonieri di matrice petrarchesca3, il suo sbocco nel matrimonio, celebrato nell’Epithalamion, canto nuziale che segue la sequenza di sonetti. Amoretti può essere suddiviso in due macro-sequenze tematiche: sonetti 1-66 e sonetti 67-894. Nella prima sequenza, Spenser ricalca il topos petrarchesco dell’amante infelice che invano corteggia una donna inaccessibile, chiusa in una inarrivabile virtù e in un fiero orgoglio; nella seconda presenta l’accettazione da parte dell’amata del corteggiamento e la felicità di un amore corrisposto. Consideriamo la prima sequenza di sonetti; qui Spenser utilizza una serie di topoi petrarcheschi per descrivere amata e amante. La donna è ‘faire proud’ e ‘fayre cruell’ (Am. 27, 46, 49): è la «fera bella e cruda» di Petrarca (Canzoniere 23), la «donna bella e crudel» di Tasso (Rime, 166), la «fatal nemica […] bella e cruda» di Bembo (Rime, 33), la «fiere beauté» di Du Bellay (L’Olive, 37)5, Dai suoi occhi Amore scaglia dardi, lasciando lei però intoccata, ribelle ai dettami d’amore (Am. 8); ella è la tiranna che ama sottomettere a sé uomini per lasciarli poi morire (Am. 10); è la leonessa che trae piacere dallo sbranare vittime inermi (Am. 20), la pantera che gioca con le sue prede (Am. 53); è il basilisco dagli occhi mortali (Am. 49); ella è la guerriera che non vuole porre fine la guerra che sta di-

3 Almeno nei casi in cui la voce poetica sia maschile. Nelle Rime, ad esempio, di Veronica Gambara e di Vittoria Colonna, parte dei sonetti sono dedicati al marito; in quelle di Chiara Matraini, l’amato corrisponde all’amore di lei; e il discorso d’amore è, ovviamente, diversamente connotato. Si veda M. Zancan, Il doppio itinerario della scrittura, Torino, Einaudi, 1998. 4 Sulla complessità della struttura dell’opera, si vedano A. Fowler, Triumphal Forms, Cambridge, Cambridge University Press, 1970, e l’introduzione di K. L. Larsen a Edmund Spenser’s Amoretti and Epithalamion. A Critical Edition, Tempe (AZ), Arizona University Press, 1997. 5 O, come scrive Desportes negli Amours d’Hyppolite: «Ayez le cœur d’un Tygre ou d’une Ourse cruelle, / Soyez – s’il peut faire – assez fiere que belle» (Eligie, vv. 1-2). Per le edizioni dei canzonieri da cui sono tratte le citazioni, si rimanda alla nota bibliografica finale.

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Dal caos al cosmos: il canzoniere di Edmund Spenser

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struggendo l’amante (Am. 9): è la «dolce mia guerrera» di Petrarca (Canzoniere 21), la «bella guerriera mia» di Bembo (Rime, 29), la «guerriere Cassandre» e la «humblefiere, & fierehumble guerriere» di Ronsard (Les Amours, 4 e 88). Lei è chiusa in un solipsistico orgoglio, ferma in una sua siderale distanza; lei è di ghiaccio, un ghiaccio non disciolto dal calore in cui arde l’amante (Am. 30); è di pietra, di selce, d’acciaio (Am. 18, 32, 54). Ma, al contempo, ella è la sovrana, la dea, la santa, l’idolo celeste; il vaso di ogni perfezione e virtù, umane e divine, umile e positivamente sicura di sé (Am. 3, 8, 22, 45); l’amata è l’incarnazione dell’Idea neoplatonicamente intesa della bellezza quale riflesso del divino: è una creatura non tanto da amare quanto da adorare. Così Petrarca: Non era l’andar suo cosa mortale ma d’angelica forma, e le parole sonavan altro che pur voce umana; uno spirto celeste, un vivo sole fu quel ch’i’ vidi […] (Canzoniere 90, vv. 9-13)

E ancora: In qual parte del ciel, in quale idea era l’essempio onde natura tolse quel bel viso leggiadro, in che’ella volse mostrar qua giù quanto lassù potea? (Canzoniere 159, vv. 1-4)6

Così Spenser: The glorious image of the makers beautie, My soverayne saynt, the Idoll of my thought, dare not henceforth above the bounds of dewtie t’accuse of pride, or rashly blame for aught. For being as she is divinely wrought, and of the brood of Angels hevenly borne: and with the crew of blessed Saynts upbrought, each of which did her with theyr guifts adorne;

6 E ancora: «Aspro core e selvaggio e cruda voglia / in dolce, umile, angelica figura» (Canzoniere 265, vv. 1-2).

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the bud of joy, the blossome of the morn, the beame of light, whom mortal eyes adimire: what reason is it then but she should scorne base things that to her love too bold aspire? Such heavenly forms ought rather worshipt be, then dare be lov’d by men of means degree.

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(Am. 61) [Del creator l’immagine gloriosa, / la santa mia sovrana, l’idol mio, / l’ardire non avere oltre il dovuto / di biasimar d’orgoglio o d’altra cosa: / una divina creatura è lei, / al par degli angeli dal cielo nata, / ivi cresciuta insieme agli altri santi, / ognun dei quali l’adornò di doni; / è il fiore della gioia e del mattino, / la luce che ammirano i mortali: / e perché allor sprezzare non dovrebbe / chi ardito e vile verso lei aspira? / È da adorare lei che vien dal cielo: / non deve amarla l’uomo basso e vile.]7

Ella è la «donna scesa dal cielo» e il «celeste obietto» di Bembo (Rime, 2 e 8); è l’«ange divin» e la «deesse» di Ronsard (Les Amours, 30 e 39); la «Déesse» di Du Bellay (L’Olive, 7). È il poeta come amante che presenta la donna quale figura ossimoricamente duplice; e, così facendo, attua una proiezione del proprio sentire: un sentire che, oscillante, fluttuante, mutevole di momento in momento, è figura di un io diviso. L’amante, come Spenser scrive in Am. 25, vive in una vita che è morte: How long shall this lyke dying lyfe endure, And know no end of her owne mysery: but wast and weare away in termes unsure, twixt feare and hope depending doubtfully.» (vv. 1-4) [Quanto mai durerà la vita in morte / che sena veder fine alla miseria / sprecata si trascina, ed insicura, / nel dubbio eterno fra speranza e téma?]

sulla scorta di Petrarca: «e perché ’l mio martir non giunga a riva,/ mille volte il dì moro e mille nasco» (Canzoniere 164), e «questa morte che si chiama vita» (216), e «e ’l mio vivere è morte» (270); e di Bembo: «Vissi

7 Le traduzioni sono mie; quelle da Spenser sono tolte da E. Spenser, Amoretti e Epitalamio, a cura di L. Manini, Roma, Carocci, 2005.

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Dal caos al cosmos: il canzoniere di Edmund Spenser

quel dì per più non viver, anzi/ per morir ciascun giorno» (Rime, 49), e di Tasso: «Amorosa fenice,/ nel sol che solo adoro/ ardendo vivo e moro,/ e morendo rinasco e volo e canto» (Rime, 290). Una vita in cui non mai sono disgiunti il dolce e l’amaro («Così sol d’una chiara fonte viva/move ’l dolce e ‘l’amaro ond’io mi pasco», Canzoniere 164), né il dolore e il piacere che questo dolore dà («e ’l languir sì mi piace/ ch’infinito diletto ho nel martire», Tasso, Rime 23). Sospeso tra disperazione e speranza, l’amante è l’adoratore, il prigioniero, lo schiavo d’amore, perennemente inquieto, ardente nelle fiamme della passione, errante solo e pensoso, implorante uno sguardo benigno, un sorriso che gli dia salute e vita (Am. 26, 29, 42, 43, 52). Riflettendo sullo statuto ontologico dell’ossimoro8, se ne scopre la natura di riflesso sul reale d’un intimo stato: per Petrarca, l’assunzione dell’ossimoro come privilegiata figura retorica è segno di un intimo dissidio tra soggetto e oggetto, teste poesie quali «Di pensier in pensier, di monte in monte» (Canzoniere 129) e «Pace non trovo e non ò da far guerra» (Canzoniere 134) o «J’espere & crains, je me tais & supplie» di Ronsard (Les Amours, 12). Da questo dissidio parte Spenser, ovvero dalla rappresentazione di un io instabile diviso tra speranza e disillusione, tra accuse di crudeltà ed estasi di adorazione; e volontà di Spenser è rappresentare il processo che, da questo duplice sentire, da questa instabilità interiore, rechi ad un superamento della stasi, della paralisi che l’ossimoro è; egli descrive il percorso alla fine del quale il “pensiero ansioso” dell’amante (Am. 2) e il suo “spirto frale” (Am. 3) possano giungere alla calma e ad una unità forte. Nella lettera dedicatoria a Sir Walter Ralegh, posta all’inizio del poema The Faerie Queene (La Regina delle Fate), Spenser scrive che scopo ne è «to fashion a gentleman»9, ovvero, formare un gentiluomo; mutuando queste dichiarazioni programmatiche di formazione, si può dire che scopo di Amoretti è «to fashion a lover», formare un amante10, sulla scorta di motivi petrarcheschi, accettati e/o rifiutati, del neoplatonismo espresso da Marsilio

8 Si veda R. Gigliucci, Contraposti. Petrarchismo e ossimoro d’amore nel Rinascimento, Roma, Bulzoni, 2004. 9 E. Spenser, The Faerie Queene, a cura di A.C. Hamilton, London, Longman, 1999, p. 714. 10 Si discosta da questa interpretazione D. Gibbs nel suo Spenser’s Amoretti. A Critical Study, Aldershot, Scolar Press, 1990; la Gibbs considera punto centrale più il rituale del corteggiamento in sé. Sono più d’accordo con la visione presentata da W.C. Johnson nel suo Spenser’s Amoretti. Analogies of Love, Lewisburg, Bucknell University Press, 1990. In questo studio si troverà un’analisi del canzoniere sonetto per sonetto.

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Ficino nel Discorso sopra lo Amore e da Castiglione nel Cortegiano, rielaborando il tutto, poi, alla luce dell’etica protestante del matrimonio. La rilettura di Spenser si pone come cosciente sviluppo, e superamento, di certo petrarchismo e di certo neoplatonismo amoroso. Il percorso che l’amante compie è, al contempo, comprensione del valore e del senso veri dell’amore11 e presa di coscienza del sé, ricomposizione in armonia del proprio io diviso; la sua visione delle cose è distorta, perché deformata dalla passione (Am. 45), e la guerra che, a suo parere, la “crudel guerriera” conduce contro di lui è invero una “guerra civile” (Am. 44). Come sarà chiaro dalla seconda parte di Amoretti, la apparente crudeltà di lei, come già in Laura, nasce da una volontà della donna di porsi come educatrice e guida; se Laura conduce Patrarca ad un distacco dalle cose terrene ed è la sua “cara duce” (Canzoniere 357) verso il cielo, l’amata di Amoretti guida l’amante verso una concezione dell’amore che supera il livello terreno e sensuale per porsi come riflesso dell’amore divino. La funzione formatrice della donna, Elizabeth Boyle12 come novella Beatrice, novella Laura, è già chiara in Am. 8, quando Spenser scrive «voi date forma ai miei pensieri e mi formate dentro»; ella gli insegna a staccarsi dai bassi amori, dalle cose vili (Am. 3), a guardarla in modo casto (Am. 21), a coltivare casti affetti (Am. 6), lo solleva dalla polvere terrena (Am. 74 e 80); ma non subito l’amante lo capisce; solo poco a poco, nel corso del canzoniere, egli comincia ad avere dubbi sull’esattezza della propria visione, mentre anche lei mostra di aver bisogno di un altro per completare sé (Am. 58). Finché è dominato dalle passioni terrene, l’amante coglie questo solo confusamente (Am. 21), e la prima parte del canzoniere è dominata da immagini di separazione, rottura, smarrimento, guerra, caccia sanguinaria, frustrazione, prigionia, in un clima di dubbio e di insicurezza. Il “pensiero ansioso” di Am. 2 e lo “spirto frale” di Am. 3, il cuore prigioniero (Am. 42) dell’amante vivono, come già accennato, in una morte in vita instabile (“unsure”, Am. 25) quale nave fuori rotta nell’oceano, poiché priva di una stella guida (Am.

11 E con questo Spenser si pone sulla scia della vasta trattatistica amorosa del Cinquecento, dal Cortegiano di Baldassar Castiglione al Dialogo della infinità di Amore di Tullia D’Aragona (cfr. Trattati d’amore del Cinquecento, a cura di M. Pozzi, Bari, Laterza, 1980), innestandola sulla problematica della formazione dell’identità e del sé (cfr. S. Greenblatt, Renaissance Self-fashioning, Chicago, The University of Chicago Press, 1980). 12 Spenser sposò Elizabeth Boyle l’11 giugno 1594. Ella era parente di Sir Richard Boyle, conte di Cork, uno degli uomini più ricchi e influenti d’Irlanda.

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34) o preda di burrasche (Am. 56); è una vita sospesa fra tragedia e commedia, teatralizzata da Spenser, nel discorso metaforico di Am. 54: On this worlds Theatre in which we stay, My love lyke the Spectator ydly sits beholding me that all the pageants play, disguysing diversly my troubled wits. Sometimes I ioy when glad occasion fits, and mask in myrth lyke to a Comedy: soone after when my ioy to sorrow flits, I waile and make my woes a Tragedy. Yet she beholding me with constant eye, delights not in my merth nor rues my smart: but when I laugh she mocks, and when I cry she laughs, and hardens evermore her hart. What then can move her? if not merth nor mone, she is no woman, but a sencelesse stone. [In questo nostro mondo ch’è Teatro / l’amor mio siede oziosa spettatrice / e guarda le mie recite variate / con che travesto la turbata mente. / Nei casi lieti quando son felice / sul volto di Commedia ho io l’effigie; / ma se si rende in duolo l’allegria / della Tragedia mio è il lamento e il pianto. / Ma lei, che mai altrove gli occhi volge, / non ride mai, né mai lei me compiange, / e quando rido irride e quando piango / ride e più duro ancor rende il mio cuore. / Cosa la smuove? Non la gioia, il pianto: / non donna allor, ma pietra senza sensi.]

Qui, l’amante è l’attore sul palcoscenico degli Amoretti, e recita, per sé e per la donna, e per noi, il dramma della ricerca di un intimo equilibrio con sé e di un’armonia con gli altri. La tensione che attraversa Amoretti è questo moto verso la stabilità, alla quale l’amante si accosta, poco a poco, a partire da Am. 57. Questo è un passaggio segnalato, verbalmente, da un mutamento nell’aggettivazione: la “crudele guerriera” di Am. 11 diviene la “dolce guerriera” di Am. 57; e in Am. 59 l’amante celebra l’amata per la sua resistenza, che egli, ora, comincia a riconoscere come segno di virtù educatrice, di dedizione ad un alto concetto d’amore che lei non ha voluto abbassare all’ancora troppo basso senso d’amore di lui; e in questo sonetto (Am. 59), Spenser usa l’immagine di lei come “nave stabile”, guidata da una “potenza inamovibile”: l’opposto dell’io oscillante dell’amante. Ed egli, in Am. 63, sente che sta per raggiungere la riva felice tanto sospirata, riva d’una terra alfine “sicura”, dove potrà trovare stabilità e pace. Se il rapporto d’amore era stato descritto, sino a questo punto, come rapporto

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tra padrona e schiavo, adoratore e dea, ora l’amante, in Am. 65, esprime un nuovo, per lui, concetto d’amore come legame che è, ossimoricamente, libertà, e armonia non mai incrinata da discordia: «Ché dolcemente lega il vero amore,/ senza paura alcuna o costrizione» (vv. 6-7). In Am. 64, l’amata concede un bacio all’amante, e questo è un primo momento di comunione d’amore; secondo le parole di Castiglione, il bacio «è un aprire l’adito alle anime, che tratte dal desiderio l’una dell’altra, si trasfondono alternatamente ancora l’una nel corpo dell’altra»13. Egli comprende la natura divina dell’orgoglio di lei, e, in Am. 67, ella cede al suo amore. Am. 67 è il punto di svolta del canzoniere:

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Lyke as a huntsman after weary chace, Seeing the game from him escapt away, sits downe to rest him in some shadey place, with panting hounds beguiléd of their pray: So after long pursuit and vaine essay, when I all weary had the chace forsooke, the gentle deare returned the selfe-same way, thinking to quench her thirst at the next brooke. There she beholding me with mylder looke, sought not to fly, but feareless still did bide: till I in hand her yet halfe trembling tooke, and with her owne goodwill hir fyrmely tyde. Strange thing me seemd to see a beast so wyld, so goodly wonne with her own will beguyld. [Come dopo la caccia il cacciatore,/ vedendo l’animale ormai lontano,/ siede e riposa all’ombra delle fronde,/ e della preda vede il can beffato,/ così io, dopo lungo e vano assalto, e di gran caccia senza più motivo, /la gentil cerva vedo a me tornare,/ a placar la sua sete al vicin rivo./ Me riguardando con più mite ciglio,/ d’involarsi non tenta, ma si resta,/ e, sì tremante, con la man la stringo,/ e a mia prigione volentier si presta./ Veder sì schiva bestia catturata/ strano sembrò, di suo voler beffata.]14

Questo è un sonetto importante sia da un punto di vista tematico che per comprendere il modo in cui Spenser rivisse in sé Petrarca e il petrarchismo. Egli si accostò a Petrarca traducendo, ancora studente, la canzone 232 del Canzoniere (“Standomi un giorno solo a la fenestra”), non (o non solo) dal testo italiano ma

13 14

Il Cortegiano, a cura di A. Quondam, Milano, Mondadori, 2002, p. 389. Traduzione di Luca Compiani.

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dalla traduzione francese di Clément Marot15; e in Spenser la presenza di Petrarca non va mai disgiunta dalla presenza dei petrarchisti, italiani (Serafino Aquilano, Antonio Tebaldeo, il Cariteo, fino a Tasso) e francesi: Spenser fu attento lettore di Joachim Du Bellay (del quale tradusse Les Antiquités de Rome), di Philippe Desportes e di Pierre de Ronsard; infine, Spenser era ben consapevole della tradizione inglese del petrarchismo, iniziato negli anni trenta con le traduzioni di Sir Thomas Wyatt e di Henry Howard, Earl of Surrey. Come fonte di Am. 67 è stata indicata un sonetto di Torquato Tasso: Questa fera gentil, ch’in sì crucciosa fronte fuggia pur dianzi i vostri passi tra spini e sterpi e dirupati sassi, strada ad ogn’or prendendo erta e dubbiosa, or, cangindo voler, d’onesta posa vaga, discende a i sentier piani e bassi, e, quasi ogni durezza indietro lassi, incontro vi si fa lieta e vezzosa. Vedete omai come ’l celeste riso benigna v’apre, e come dolcemente i rai de’ suoi begli occhi in voi raggira. Pavesi, s’or tal gioia al cor v’inspira, che sarà poi quando più volte il viso d’amor vi baci e di pietate ardente? (Rime, 338)

Questo sonetto fa parte delle ‘Rime diverse composte ad istanza d’altri’ (in questo caso, il cortigiano estense Cesare Pavesi); non è il Tasso degl’infelici versi d’amore per Lucrezia Bendidio o Laura Peperara, ma il Tasso più ‘cortigiano’ e lieve, che presta il proprio verso ad altri; e in poesie come questa era possibile a Spenser trovare versi che cantano di un amore felice, situazione non presente negli altri canzonieri petrarcheschi. Pure, Spenser non traduce letteralmente; toglie da Tasso la situazione, e la volge al proprio discorso. Così, la ‘fera gentil’ diviene una ‘cerva gentile’, così come, nella traduzione di Canzoniere 323, la ‘fera’ di Petrarca era divenuta (già in Marot) una cerva (‘biche’/ ‘Hynde’); Spenser mantiene la volontà della donna d’arrendersi (“cangiando

15 Analisi comparativa in The Works of Edmund Spenser. A Variorum Edition, a cura di E. Greenlaw et alii, Baltimora, The Johns Hopkins University Press, 1947, The Minor Poems, vol. 2, pp. 272-77.

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voler” / “with her own will”), e i dolci sguardi di lei; ma il panorama di Spenser è un panorama di caccia, ben più pronunciato che in Tasso. E questo ci porta ad ampliare il gioco e il peso delle influenze letterarie che Spenser visse in sé. Il motivo della caccia alla cerva è già in Petrarca: “ed una cerva errante e fugitiva/ caccio con un bue zoppo e ‘nfermo e lento” (Canzoniere 212, vv. 78); e la cerva è nel sonetto 190: Una candida cerva sopra l’erba verde m’apparve, con duo corna d’oro, fra due riviere, all’ombra d’un alloro, levando ’l sole a la stagione acerba. Era sua vista sì dolce superba ch’i’ lasciai per seguirla ogni lavoro, come l’avaro che ‘n cercar tesoro con diletto l’affanno disacerba. «Nessun mi tocchi» al bel collo d’intorno scritto avea di diamanti e di topazi, «libera farmi al mio Cesare parve.» Ed era ’l sol già volto al mezzo giorno; gli occhi miei stanchi di mirar, non sazi, quand’io caddi ne l’acqua, ed ella sparve.

Questo fu uno dei primi sonetti ad essere tradotti in inglese da Sir Thomas Wyatt, negli anni trenta del Cinquecento: Who so list to hount, I know where is an hynde but as for me helas I may no more the vayne travaill hath weried me so sore, I ame of theim that farthest cometh behinde yet may I by no meanes my weried mynde drawe from the Deere but as she fleeth afore, faynting I folowe I leve off therefor sithens in a nett I seke to hold the wynde Who list her hount I put him owt eof dowbte as well as I may spend his tyme in vain; and graven with Diamonds in letters plain There is written her faier neck round abowte noli me tangere, for Cesers I ame and wylde for to hold though I seme tame16

16

Sir Thomas Wyatt, Selected Poems, a cura di H. Scott, Manchester, Carcanet, 2003,

p. 21.

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[Chi vuol cacciare, so dov’è una cerva;/ per me, ormai, è chiusa la stagione:/ la vana caccia m’ha fiaccato tanto/ che cacciatore ultimo trascino./ La mente stanca pur non so staccar/ da quella cerva, e mentre corre innanzi/ io nel seguirla manco. E cedo allor,/ ch’è come in rete trattenere il vento./ Sia scoraggiato chi pur vuol cacciarla:/ ché come me getterà via il suo tempo;/ in lettere sì chiare di diamante/ sta scritto infatto al suo bel collo attorno:/ Noli me tangere. /Io mansueta appaio, ma son fiera».]

Wyatt fu in Italia, in missione diplomatica, nel 1527, venendo a contatto con la poesia di Petrarca e con le discussioni sulla lingua che erano, allora, in pieno svolgimento (nel 1525 erano apparse le Prose della volgar lingua di Pietro Bembo); traducendo Petrarca, Wyatt lo immise nell’ambiente della corte di Enrico VIII e, nel farlo, ne modificò profondamente la lettera e il senso, con un processo di smontaggio, rettifica e rimontaggio che, nel risultato finale, lascia ben poco del poeta italiano. Wyatt cancella le notazioni paesaggistiche di Petrarca, toglie i colori, muove dall’immobilità estatica all’affanno dell’inseguimento, dalla stasi della visione alla volontà dinamica della caccia; la tensione spirituale di Petrarca lascia il posto ai tormenti e alla frustrazione di una concreta avventura cortigiana; la spinta al divino diviene un gioco crudele retto dalle leggi della corte: la candida cerva di Petrarca è emblema di Laura, la donna volta al cielo, la cui collana di diamanti e topazi è il simbolo di quella purezza che la rende intoccabile agli uomini perché volta al solo Dio; la donna di Wyatt indossa una collana di diamanti dono di un potente, ed ella è intoccabile perché appartiene ad un altro uomo (il re?) dinanzi al quale il cortigiano Wyatt non può far altro che retrocedere. La cerva di Spenser, invece, è la donna che, angelo e dea, come Laura, è comunque umanissima; è donna che, umanamente, concede il proprio amore all’amante e si appresta a diventarne la sposa. Ella si pone quindi in una posizione mediana tra la donna cantata da Petrarca, devota solo al cielo, e la donna tutta terrena, la cortigiana (Anna Bolena?) di Wyatt. Con questo sonetto Spenser si stacca dall’amore ideale di Petrarca e dalla visione anti-petrarchista di Wyatt, ma lo fa usando immagini proprie del petrarchismo, filtrate attraverso Tasso, rielaborate secondo il progetto di Amoretti17, e poste in un sonetto che non è più rima occasionale come per Tasso, ma il punto di svolta del canzoniere, tappa fondamentale nel percorso di formazione dell’amante.

17 Oltre a Petrarca, Tasso e Wyatt, sono rintracciabili in questo sonetto tracce del Cantico dei Cantici e della poesia di Ovidio; cfr. A. Lake Prescott, “The Thirsty Deer and the Lord of Life: Some Contexts for Amoretti 67-70”, in Spenser Studies, 6, 1985, pp. 3376.

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Luca Manini

Amante il quale, in Am. 68, alfine, comprende la natura dell’amore umano come riflesso o emanazione dell’amore divino: «Dobbiamo allora amarci, caro amore,/ amore è ciò che a noi insegna il Signore» (vv. 13-14). Se Petrarca risolve il proprio dissidio con la rinuncia a ciò che è terreno, e conclude il Canzoniere con l’immagine di Laura ancora e sempre sdegnosa d’amore18, con il pentimento dell’amante per i suoi passati errori, e l’invocazione/preghiera alla Vergine; se Marsilio Ficino asserisce che il vero amore è l’amore spirituale; se Pico della Mirandola spinge le conclusioni di Ficino all’estremo, fino a sostenere che la vera unione degli amanti può solo avvenire nella morte19; Spenser, pur accettando alcune considerazioni di Ficino e di Pico, va oltre il loro pensiero: l’amore umano è sì il riflesso dell’amore divino; la bellezza fisica è sì qualcosa di transeunte e d’inferiore alla bellezza spirituale; il corpo umano è sì qualcosa che si disfarà e svanirà, a differenza dell’anima, ma, per Spenser, l’amore umano, e terreno, ha un valore altissimo non solo come segno dell’amore divino, ma anche nella sua concreta realizzazione qui sulla terra. Ed ecco che Spenser conduce l’amante a superare questo dicotomico stato di contrasto raffigurando una congiunzione e coincidenza fra l’amata come “cielo inferiore” (Am. 46) e il più alto cielo di Dio: in lei, ovvero nell’amore umano, i due cieli si fondono, e la felicità terrena concretizzata nell’amore si fa una anticipazione della beatitudine celeste. Nella prima sequenza di Amoretti, amata e amante sono due realtà solipsisticamente chiuse in sé; come tale l’amante percepisce la donna, colta nella sua inespugnabile lontananza; e lui, a sua volta, è chiuso nel proprio limitato campo di percezione, che lo esclude dal resto del mondo, fisso com’è nel pensiero dominante d’amore (ancora in Am. 88). Solo in Epithalamion egli tornerà a fare parte del mondo, e lo vedrà, di nuovo, non attraverso la deformazione ossimorico-metaforica dei suoi elementi, ma in una realtà descrittiva che coglierà luoghi, persone e cose, pur inserendo il tutto in una più ampia visione in cui immanente e trascendente sono tutt’uno. Il poeta dice di sé, all’inizio, come di Orfeo: ma egli è un Orfeo che ha in sé il potere di riuscire a conservarsi la sposa, e il cui canto è in grado di evocare una rinnovata armonia universale, una ritrovata armonia cosmica che unisce in equilibrio mondo divino, mondo umano e mondo naturale; ogni strofa del poemetto si chiude con un verso in cui il canto umano suscita un’e-

18 Solo nel Trionfo della Morte Petrarca darà a Laura indubitabili parole d’amore a lui rivolte (vv. 85 sgg.) 19 Si veda Pico della Mirandola, Commento sopra una canzone d’amore, a cura di P. De Angelis, Palermo, Novecento, 1994.

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Dal caos al cosmos: il canzoniere di Edmund Spenser

co nel mondo naturale: microcosmo e macrocosmo si rispecchiano e si rispondono. Le voci che cantano, siano esse le voci degli uccelli o le voci degli uomini, ‘agree’ (vv. 83 e 132), ovvero sono unite nell’armonia, e le voci singole si fanno un’unica voce (v. 139). Le immagini di discordia che caratterizzano gran parte degli Amoretti lasciano il posto, in Epithalamion, a immagini di concordia: quanto era diviso, spezzato, incompleto, incompiuto, si fa qui unito e completo. Un superamento del tormento d’amore espresso nei sonetti è avvertibile nei vv. 315-18: «Sii benvenuta, notte tanto attesa,/ che alfin ripaghi al giorno la fatica;/ e le cure d’un sì crudele amore/ hai fatto una, e poi l’hai cancellata.» Al soggetto ‘io’ di Amoretti si sostituisce il pronome ‘noi’, il possessivo nostro (‘la nostra vittoria’, ‘il nostro voto’). All’instabilità si sostituisce la stabilità; quella dei cieli (vv. 413-14), ma anche quella dei rapporti umani sulla terra, nella fattispecie il rapporto fra sposo e sposa, uniti (vv. 238-9) in un legame che è eterno (v. 217, ripetuto al v. 396). Spenser non usa più, in Epithalamion, ossimori per descrivere la vita dell’amante e lo stato dell’amata; l’unico ossimoro che resta è al verso 306, dove la donna è descritta nella sua ‘orgogliosa umiltà’: ma, nella donna ormai sposa, quest’ossimoro nega se stesso nel mentre raffigura la perfezione di lei, giustamente orgogliosa della propria intoccata virtù. Dal caos dell’io in Amoretti si giunge ad un ordine che è esteriore e interiore; ciò che non accade in altri canzonieri. Le sonnet sequences di Sidney e di Daniel si chiudono con l’immagine di una separazione definitiva tra amata e amante, con un senso di esclusione che si fa segno di una perdurante divisione interiore, rafforzata dalla reiterazione degli ossimori. Nel sonetto 106 Sidney scrive della «presenza assente» di Stella, e conclude il canzoniere, al sonetto 108, con le parole «nei miei dolori per te tu sei la mia gioia,/ e nelle mie gioie per te il mio solo male». Samuel Daniel, nell’ultimo sonetto di Delia, il 50, si ritrova a vagare, come Petrarca, solo e pensoso, escluso dal paradiso; e, con voce più violenta, Michael Drayton, in Ideas Mirrour, nel sonetto 47, dice di come l’amante sia lasciato in uno stato di caos e di arbitrio creati dal capriccio dell’amante: But my faire Planet, who direcsts me still, Unkindly, such distemperature doth bring, Makes Summer, Winter, Autumn in the Spring, Crossing sweet Nature by unruly will. Such is the sunne, which guides my youthfull season, Whose thwarting course, deprives the world of reason. (vv. 9-14)

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[Ma il bel pianeta che ancor mi guida,/ scortesemente reca tal disordine/ che della primavera fa estate, e inverno, e autunno,/ e con sua sregolata volontà va contro la dolce natura./ Questo è il sole che guida la mia gioventù/ e il suo corso frustrante toglie al mondo ogni ragione.]

La duplicità/separazione tra amata e amante in Amoretti si fa in Epithalamion una unità conquistata, come già era stato adombrato in Amoretti: il continuo farsi e disfarsi dell’io del poeta amante, combattuto tra desiderio di morte e volontà di perseverare nel suo progetto d’amore, è simboleggiato dalla tela che la donna/Penelope fa e disfà (Am. 23), così come l’unità della coppia, e la conquistata stabilità dell’io, è suggerita da una tela che la donna ricama (Am. 71): il passaggio dal disfare i fili al ricomporli in un lavoro armonico e finito crea l’immagine della pace alfine raggiunta. La dicotomia spirito/corpo, ancora così forte in ambito cristiano e neoplatonico, è risolta da Spenser nella fusione operata dal matrimonio religioso. E, con questo, Spenser opera una ri-cristianizzazione dell’amore di stampo petrarchesco che, negli imitatori di Petrarca, si era fatto via via più terreno e fisico e, spesso, paganeggiante20. Spenser pare realizzare sulla terra il ‘sogno’ d’amore del perfetto cortigiano: Quale sarà adunque, o Amore santissimo, lingua mortale che degnamente lodare ti possa? […] Tu di concordia unisci gli elementi, […] Tu le cose separate aduni, alle imperfette dai la perfezione, alle dissimili la similitudine, alle nemiche l’amicizia, alla terra i frutti, al mare la tranquillità, al cielo il lume vitale. […] Facci sentire quegli odori spirituali che vivificano le virtù dell’intelletto, e udire l’armonia celeste talmente concordante, che in noi non abbia luogo più alcuna discordia di passione21.

Dall’unione di amante e amata nascerà una progenie che sarà segno del perdurare del loro amore; un modo per sconfiggere l’avidità divoratrice del tempo, tema/ossessione di Spenser, sin dai tempi della prima traduzione da Petrarca e mai interrotta, come testimoniano opere quali The Ruines of Time (Le rovine del tempo) e le Visions of the Worlds Vanitie (Visioni della vanità del mondo): sulla terra tutto è “unsteady”, instabile; solo l’aldilà darà all’uomo una perfetta e perdurante stabilità. Per Spenser, però, una parziale stabi-

20 Si vedano le osservazioni nei capitoli iniziali di R.W. Dasenbrock, Imitating the Italians, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 1991. 21 Il Cortigiano, cit., pp. 396-7.

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Dal caos al cosmos: il canzoniere di Edmund Spenser

lità è raggiungibile anche sulla terra, nella forma del matrimonio cristiano. Ed è questa tensione volta a superare lo stato incerto del transeunte e dell’instabile per votarsi a una ricerca la cui meta sia la stabilità, l’unità, la pace22 che unisce Spenser a Patrarca. Ma le cose terrene passano; solo la poesia, che infonde dolcezza e armonia, potrà dare loro una sorta di immortalità, almeno fin quando il mondo durerà23. Intanto, contro il potere del tempo, Spenser costruisce un “monumento eterno”, come dice concludendo Epithalamion, sulla scia di Orazio e di Ovidio, un monumento di versi e di parole, costituito da Amoretti, Anacreontiche ed Epithalamion. Se il tempo umano, nella visione di Spenser, lascerà poi il posto a un tempo eterno, intanto egli ci consegna un monumento poetico, questa testimonianza dell’amore, umano e divino, questa celebrazione dell’armonia come bellezza.

22 23

Cfr. Dasenbock, Imitating the Italians, cit., capitolo secondo. Come chiaramente espresso in vari sonetti: Am. 27, 36, 69, 75 e 82.

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Nota

Le citazioni dei canzonieri sono tratte da queste edizioni:

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F. Petrarca, Canzoniere, a cura di M. Santagata, Mondadori, Milano 1996, 2004 F. Petrarca, Canzoniere, a cura di U. Dotti, Donzelli, Milano 1996, 2004 P. Bembo, Prose e Rime, a cura di C. Dionisotti, UTET, Torino 1992 L. Ariosto, Le Rime, a cura di S. Bianchi, Rizzoli, Milano1992 T. Tasso, Le Rime, a cura di B. Basile, Salerno, Roma 1994 J. Du Bellay, L’Olive, a cura di E. Calderini, Librairie Droz, Ginevra 1974 P. de Ronsard, Les Amours, a cura di M. Bensimon e J.L. Martin, GarnierFlammarion, Parigi 1981 P. Desportes, Les Amours d’Hyppolite, in Poètes du XVI siècle, a cura di A. Schmidt, Gallimard, Parigi 1953, pp. 787-854 I canzonieri di Sir Philip Sidney (Astrophel and Stella), Samuel Daniel (Delia) e Michael Drayton (Idea) sono in Elizabethan Sonnet Sequences, a cura di H. Grabes, Max Niemeyer Verlag, Tübingen 1970 (contiene la prima versione di Idea di Drayton, Ideas Mirrour) Elizabethan Sonnets, a cura di M. Evans, Dent, London 1977 La Delia di Daniel è stata di recente riproposta in Selected Poems of Thomas Campion, Samuel Daniel and Sir Walter Ralegh, a cura di R. Levao, Penguin, London 2001 Per Astrophel and Stella, si veda anche Sir Philip Sidney. A Critical Edition of His Major Works, a cura di K. Duncan-Jones, Oxford University Press, Oxford 1989

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«O PETRARCHISTI, CHE VI VENGA IL CANCARO». NICOLÒ FRANCO E LA PARTE DEL VERO NEL CODICE LIRICO CINQUECENTESCO

The Original of Laura Vladimir Nabokov

1. “Il Petrarca tutto rubbato” “M’è forza, o Coccio, ch’io lasci il rimanente di questa lettra, perché il riso m’impaccia”. Così afferma Sannio ovvero l’autore Nicolò Franco al suo interlocutore Francesco Coccio, nel dialogo Il Petrarchista (1539), citando un resoconto epistolare di Petrarca (in realtà un apocrifo pastiche) sulla sua incoronazione in Campidoglio. E al Coccio, che indovina la successiva lettura di un analogo pastiche boccacciano, infarcito di arcaismi linguistici, lo stesso Sannio dichiara: “Il diavolo ti favella dentro l’orecchie”1. Non c’è bisogno di evocare il profilo erasmiano ed eretico del Franco per spiegare la scelta dichiaratamente provocatoria di questo dialogo e di numerose Pistole vulgari (1539) dedicate al Petrarca e al petrarchismo. La tentazione diabolica del riso, come tante sue polemiche contro l’istituzione e il conformismo ecclesiastici (pensiamo alla battuta del Petrarchista sulla “dispensa” papale a Laura per “torre due mariti in un tratto” o alle beffe indirizzate al Petrarca

1 Cfr. N. Franco, Il Petrarchista, a cura di R. L. Bruni, Exeter, University of Exeter, 1979, p. 87.

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Rinaldo Rinaldi

spirituale di Gabriele Fiamma nelle Pistole vulgari)2, si collega infatti primariamente alla vocazione parodica3 del poligrafo beneventano: un gusto per la caricatura, il travestimento e il pastiche, che proprio negli attacchi contro le norme liriche cinquecentesche raggiunge i risultati migliori, scavalcando addirittura la semplice polemica e proponendo una paradossale alternativa. Non è allora un caso se l’autore, nell’epistola dedicatoria del suo dialogo a Bonifazio Pignoli, prevedeva di scrivere “la giunta d’una comedia” sul medesimo argomento: a rendere esplicito, appunto, lo scatto comico di partenza4. Il Petrarchista nel suo complesso, come è noto, ha la forma di una parodia: parodia di quei commenti al Canzoniere petrarchesco che negli anni Trenta del Cinquecento andavano moltiplicandosi con grande successo editoriale. Non solo l’autore, in apertura del dialogo, giustifica il suo viaggio ad Avignone come opportuna preparazione di un progettato commento: SANNIO […] come studioso d’un tal poeta, e d’intendere ogni ascosa particella dei suoi concetti amorosi, e per l’animo che ho avuto molti anni di comentarlo, giudicai, che grande aiuto mi saria stato, per fare il tutto con diligenza, il ritrovarmi personalmente in Avignone […]5;

ma anche alla fine dell’opera e del viaggio ribadisce la sua volontà di “esponere il Petrarca”, arruolandosi nella schiera degli innumerevoli “spositori […] caca-chiose […] schiecchera-libri […] giornee d’oppenioni”6. Saranno allora le “mostruose soprabondanze” del repertorio di informazioni e di testi raccolto dal Franco ad Avignone e Valchiusa, le sue deformazioni e le sue enormità, i suoi falsi e i suoi grotteschi capovolgimenti, a funzionare come una parodia del genere, facendo “ridere” i commentatori ufficiali del Petrarca

2 Cfr. ivi, p. 63 e Id., Le Pistole vulgari (ristampa anastatica dell’edizione Venetiis, apud Antonium Gardane, 1542), a cura di F. R. De’ Angelis, Bologna, Arnaldo Forni Editore, 1986, p. 240r. 3 Non a caso la maggioranza dei Dialoghi piacevoli (1539) ha un impianto apertamente lucianesco, fra Leon Battista Alberti e Giovanni Gioviano Pontano (anche se le discussioni conclusive “sopra la Presidentia del poeta o del filosofo” e sul “poeta” che “s’antipone al Principe”, non azzardano riferimenti al petrarchismo). Cfr. Id., Dialoghi piacevoli, Venezia, Giolito, 1559, pp. 226 ss. (Dialogo nono) e pp. 259 ss. (Dialogo decimo). 4 Cfr. Id., Il Petrarchista, cit., p. 5. Su questa “comedia” si veda la nota di R. L. Bruni, Per una bibliografia delle opere di Nicolò Franco, in “Studi e Problemi di Critica Testuale”, 15, 1977, p. 92. 5 N. Franco, Il Petrarchista, cit., p. 8. 6 Cfr. ivi, pp. 104-105.

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«O petrarchisti, che vi venga il cancaro»

ma al tempo stesso smascherando ‘per eccesso’ le loro inverosimili fantasie, ridendo a sua volta di loro:

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COCCIO […] dovea dubitare, che i commentatori del Petrarca, ne l’udire le cose tue, non si dieno a ridere, come fanno i medici, de le medicine, che scrive Plinio. SANNIO E se i commentatori, o Coccio, si rideranno de le mie cose, se ben sono stati i primi a scrivere, non saranno i secondi a ridere? Almanco parranno più verisimili le mie favole, che le loro istorie. Ma questo è distino del Petrarca: che sieno poste in burla tutte le penne, che gli vogliono cacare adosso7.

Se allora Il Petrarchista saccheggia a piene mani, sfiorando la frontiera del plagio, repertori recenti come quelli di Sebastiano Fausto da Longiano e di Giovanni Andrea Gesualdo8, l’intenzione è sempre irridente: sia quando il Franco mette in bocca ad un ospite avignonese un lungo elogio di Petrarca9, sia quando attacca esplicitamente i commentatori sotto la maschera del medesimo cantore di Laura (una lettera apocrifa indirizzata a Benvenuto da Imola primo commentatore del Bucolicon carmen): […] che del suggetto de l’opra, quello si venisse a dire, ch’io non dissi giamai, et a rischiarare quello, che col doppio, e con l’ambiguo, hanno tal fiata le mie parole mostrato. Et oltre a ciò, per esserci molte cose, che né a voi investigare con l’intelletto saria permesso, né da me intenderle, vi saria lecito, né a me rivelarle sarebbe onore, vi consigliarei sempre, […] che ne l’esponere le mie rime non v’impacciaste, se di lode fuste desideroso, perché, in quanto biasimo può cadere chiunche (uscendo dal mio consiglio) si metterà a farlo, da quell’una cosa si può conoscere, ch’egli né col vero, né col certo, potrebbe addurci cose, o vere, o certe, non avendo né di verità, né di certezza testimonianza veruna. Chi potrà mai penetrare, in quelle cose che io nel mio petto riserbo, perché altro indizio non ne appaia? […] tutto questo […] saria […] cosa de la quale non solamente vivo ma morto mi riderei10.

Sulle “vane conietture”, sulle “chimere chiarissime” e sulle “favole manifeste” dei commentatori, sul loro“geometrare” e “bisbigliare”11, del 7

Ivi, p. 105. Cfr. rispettivamente Il Petrarca, Venezia, Francesco di Alessandro Bindoni e Mapheo Pasini, 1532 e Il Petrarcha, ivi, Giovanni Antonio Nicolini e fratelli da Sabbio, 1533. Ha opportunamente segnalato gli ampi calchi di questi due commenti Roberto L. Bruni nella sua edizione di N. Franco, Il Petrarchista, cit., passim e in particolare pp. 124-125. 9 Cfr. ivi, pp. 22-36. 10 Ivi, pp. 64-66. 11 Cfr. ivi, pp. 65-66. 8

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resto, è altrettanto esplicita l’epistola parallela che lo stesso Franco (imitando le fittizie missive agli uomini illustri che concludono le Familiares) invia a Petrarca: La prima [scil. ‘infelicità’] è stata la grande influenza, de i Comentatori piovutavi adosso, di sorte, che si può dire d’essi Non tanti animali il mar fra l’onde Né lassù sopra’al cerchio de la Luna Vidde mai tante stelle alcuna notte, Né tanti augelli albergan per i boschi, Né tant’herbe hebbe mai campo né piaggia. Hor questi dunque, perché si conosceano non valere ad altro, si son posti a comentare le vostr’opre vulgari, ingegnandosi di trovarci novità di chimere per parere ingegnosi, e di recarci ciancie infinite, per mostrarsi facondi. Ma con che rumor di scodelle i lavaceci, si vadano poi imboccando le vostre fantasie, volendole intendere al vostro dispetto, non ve ’l potrei scrivere per una lettra12.

Nel dialogo, tuttavia, la parodia del commento si mescola indissolubilmente alla parodia dello stesso Petrarca, anch’egli citato e ricalcato in tutte le forme possibili per far scattare, ancora una volta dall’eccesso, la risata. Non solo le epistole latine dell’umanista sono volgarizzate e citate attraverso lo schermo dei commentatori (come Seniles, XVII, 2 e Posteritati, in due lettere modellate su passi di Gesualdo)13, ma sono spesso contaminate da vistosi anacronismi (come Familiares, V, 10 citata anch’essa attraverso Gesualdo ma ricordando l’accoglienza a “Scandiano” di “quel conte che ha composto l’Innamoramento d’Orlando”)14. Il Franco, inoltre, mescola arditamente alle epistole quasi autentiche un gran numero di lettere false e le infarcisce di citazioni dei Rerum Vulgarium Fragmenta, trasferendole al registro prosastico e impiegandole come ingannevoli garanzie di autenticità15. Fra queste ultime pagine, peraltro, non mancano alcuni testi di dubbia attribuzione, come la lettera inviata a Leonardo Beccanugi da Padova16.

12 Id., Le Pistole vulgari, cit., pp. 238v-239r. Abbiamo evidenziato la citazione della sestina petrarchesca RVF, CCXXXVII, 1-5. 13 Cfr. N. Franco, Il Petrarchista, cit., pp. 81-82 e pp. 85-87 (con il commento del curatore). 14 Cfr. ivi, pp. 79-80 (con il commento del curatore). Sottolineatura nostra. 15 Un buon esempio è la falsa lettera al Boccaccio sul Corbaccio: cfr. ivi, pp. 69-72. 16 Cfr. ivi, p. 82 e pp. 125-126 (il commento del curatore). La lettera è presente nel codice Marciano Italiano IX, 203 di mano di Antonio Isidoro Mezzabarba, in stretti contatti

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«O petrarchisti, che vi venga il cancaro»

Un simile rimescolamento delle carte non coglie certo la verità biografica e letteraria di Petrarca, mira piuttosto ad incrinare e destabilizzare l’immagine di un poeta che proprio in quegli anni si stava affermando come esemplare modello per il codice lirico. Sono allora i Rerum Vulgarium Fragmenta, ovviamente, a fornire un campo d’azione privilegiato alla perversa strategia citazionale del Petrarchista: Franco ricombina all’infinito i versi del Maestro, creando numerosi centoni17 e presentandoli come autentiche composizioni “che oggi non si leggono tra le sue rime”18. Così, nel fantomatico manoscritto “originale” che Sannio vede ad Avignone, “dove di mano medesima del Petrarca, erano scritte tutte le rime, che egli compose”19, compaiono non solo testi nuovi ma nuovi generi, alcuni mai ufficialmente frequentati dal Petrarca (“ode”, “elegie”, “silve” e “favole d’Ovidio” in “versi sciolti”, “inni”, “sonetti a la pastorale”)20; e perfino registri linguistici inediti come il provenzale o il furbesco21. È insomma una vera e propria moltiplicazione del Petrarca quella a cui ci fa assistere Il Petrarchista: “mostruose soprabondanze” che non propongono tanto un petrarchismo paradossalmente plurilinguistico e sperimentale, ma fanno esplodere piuttosto il repertorio petrarchesco, dissolvendo la sua esclusiva selettività in una proliferazione carnevalesca, in una provocatoria ripetizione presentata come beffarda novità. Nicolò Franco riproduce così gli stessi meccanismi iterativi di un’industria editoriale che proprio in quegli anni realizzava la definitiva grammaticalizzazione e modellizzazione del petrarchismo22. Come dichiara la “Lucerna”, nella più famosa delle Pistole vulgari: Veggo il Petrarcha commentato. Il Petrarca sconcacato. Il Petrarca imbrodolato. Il Petrarca tutto rubbato. Il Petrarca Temporale, et il Petrarca Spirituale23.

con la cerchia dell’Aretino e lo stampatore Marcolini: le sue Rime apparvero presso questo editore nel 1536. Sul problema dell’autenticità cfr. G. Billanovich, Petrarca letterato. Lo scrittoio del Petrarca, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1947, pp. 257-258; E. H. Wilkins – G. Billanovich, The miscellaneous Letters of Petrarch, in “Speculum”, XXXVII, 1962, pp. 226-243. 17 Cfr. N. Franco, Il Petrarchista, cit., p. 54, p. 55, p. 57, pp. 58-59. 18 Cfr. ivi, p. 50. 19 Cfr. ivi, p. 46. 20 Cfr. ivi, pp. 53-54 e p. 56. 21 Cfr. ivi, pp. 56-57. 22 Sulla letteratura di questi anni, dominata ovviamente dalla personalità di Pietro Aretino, cfr. R. Rinaldi, L’industrializzazione della letteratura, in Id., Umanesimo e Rinascimento, Torino, UTET, 1993, vol. II, pp. 1629-1867. 23 N. Franco, Le Pistole vulgari, cit., p. 191r.

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Non è allora un caso se il medesimo Franco aveva esordito in volgare proprio con un plagio, ripubblicando sotto suo nome presso Marcolini il poemetto in ottave Tempio d’Amore (1536) ovvero l’Opera nuova nomata Vero tempio de Amore, scritto intorno al 1520 da Iacopo Campanile detto Capanio e già ampiamente diffuso in manoscritto24. Tutto può infatti essere ripetuto, rubato e falsificato nell’universo puramente mercantile della letteratura tipografica: non solo Capanio ma anche e soprattutto Petrarca, poiché la nuova moda dei commentatori e dei lirici petrarchisti identifica appunto la modernità o l’innovazione letteraria con una spregiudicata e formalistica moltiplicazione di plagi. È allora significativo il fatto che il dialogo del Franco si concluda evocando proprio la minaccia di un furto letterario, come se il paradossale collage del suo commento petrarchesco possa diventare a sua volta una vittima di potenziali contraffattori: SANNIO Ora, in questo mezzo, o Coccio, io ti prego, che ciò che hai da me udito in questa giornata, si resti appresso di te, che non vorrei, con questa rasa mi si facesse la barba, e tu facendo una ricolta del meglio, ti mettessi a farci un commento a le spese mie. E per tanto, talché non ti ricordi di ciò che ho detto, né io pensi male nei casi miei, fa’ conto, che oggi le tue orecchie sieno state le due porte del sonno, e che le mie parole sieno entrate per la eburnea, e per la cornea sieno uscite25.

Ciò che è stato copiato può essere dunque ancora copiato, in una catena di repliche capaci di trasformare anche i frammenti di verità in maschere senza spessore. La letteratura si trasforma in un “bisbiglio” infondato e inattendibile, che varca la porta di corno come i sogni non veritieri: la nuova lirica petrarchista, come gli altri generi cinquecenteschi, si limita a smontare e rimontare il modello, a “fare la barba” al Maestro combinando e ricombinando le tessere del suo mosaico26. Non a caso il Franco elenca tutte le categorie sociali fra i “rubbatori” del Petrarca, poiché ognuna di esse può estrarre dal

24 Il poemetto del Campanile uscì a stampa nello stesso 1536 (Alife, Acilio): cfr. A. Altamura, Storia di un plagio, Napoli, Società Editrice Napoletana, 1980, passim. Sul Campanile si veda la voce di G. Parenti, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1974, vol 17, pp. 411-412. 25 N. Franco, Il Petrarchista, cit., p. 106. 26 L’espressione caratteristica, “non […] registrata nei dizionari” (Bruni), sembra rinviare beffardamente al furto perpetrato in questo medesimo dialogo a spese del codice Mezzabarba. Cfr. n. 13.

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repertorio scomponibile dei Rerum Vulgarium Fragmenta qualche frammento adatto al suo status:

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[…] poi che non è sorte di gente al mondo che non n’habbia voluta la particella. I frati prima v’hanno rubbato La gola, il sonno, e l’otiose piume. I Preti, Di vin servi, di letti, e di vivande. Le Suore, Non Giove, o Palla, ma Venere, e Bacco. I Cardinali con i Prelati, A Roma il viso, et a Babel le spalle. La Chiesa […] La Corte […] I Prencipi […] Le Donne […] I Poeti […] I Philosophi […] I Pedanti […] I Soldati […] Fino a gli Alchimisti […]27.

Si riproduce così, in tono parodico e applicata al petrarchismo, quella parcellizzazione sociale dei generi letterari (internamente specializzati in base agli argomenti e ai destinatari) che forma la struttura portante della produzione libraria contemporanea28. Questo è il bersaglio polemico del petrarchismo parodico di Nicolò Franco: una lirica sempre più organizzata e venduta come i trattati di comportamento o le raccolte di lettere, una lirica trasformata in oggetto fabbricato meccanicamente. 2. “Il Petrarca sconcacato” L’incrinatura, se non il capovolgimento, del modello lirico dominante non dipende solo da una parodica o eccessiva ripetizione del repertorio, ma anche dal suo sistematico abbassamento: molto spesso, infatti, la polemica anticlassicista del Cinquecento applica alla poetica dominante una sfasatura linguistica, stilistica e tematica, analoga a quella che un secolo dopo ispirerà il genere eroicomico. L’officina più ricca di esempi e la cerchia sperimentale più avanzata, anche in questo caso, sono quelle aretiniane, come dimostra la dichiarazione programmatica inserita da Lorenzo Venier nel suo poemetto La Puttana errante (1531 ca.): Io non vi pasco in monti, in selve, in valli Di soventi lascivie e vaghe erbette, D’unquanchi isnelli e liquidi cristalli, D’ombre soavi e dolci parolette,

27

N. Franco, Le Pistole vulgari, cit., p. 240r. Sottolineature nostre. Cfr. R. Rinaldi, Le maschere del gentiluomo: dall’enciclopedia alla codificazione dei ruoli sociali e L’epistolario moltiplicato, in Id., Umanesimo e Rinascimento, cit., vol. II, pp. 1709-1738 e pp. 1738-1775. 28

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Come fan quei, ch’i pegasei cavalli Scorticano ogni dì con le staffette. Io dico pan al pane e cazzo al cazzo Per dire il ver, per odio, e per solazzo29.

La parodia, in questi casi, prende di mira contemporaneamente gli arcaismi linguistici e l’idealizzazione tradizionale dell’amore e della donna: il “cazzo”, insomma, rappresenta un antifrasi che è insieme linguistica e topica. Come dimostra benissimo lo stesso Aretino nei madrigali conclusivi del suo Dialogo (1536), l’abbassamento delle parole e delle immagini può congiungersi provocatoriamente alla squisita selettività petrarchistica, con stridente efficacia. Compresi in una sequenza di madrigali perfettamente canonici, si leggono qui infatti alcuni esercizi osceni, che al loro stesso interno giocano sull’ossimoro di una forma alta beffardamente degradata: Madonna, per ver dire, s’io vel facessi, che io possa morire: perché so che sapete che ne la vulva vostra sovente Amor con le piattole giostra; poi sì grande ano avete, che v’entrarebbe tutta l’età nostra. E tu, Amor, senza giurar mel credi, che egualmente le puzza il fiato e i piedi. Adunque, per ver dire, s’io vel facesse, che possa morire30.

E le cose non cambiano spostando i termini dell’opposizione tonale, come in quest’altro notissimo madrigale del Dialogo, che si ispira alla più prevedibile descrizione delle bellezze femminili ma evoca in absentia i medesimi fantasmi abbassanti del precedente: La mia donna è divina, perché piscia acqua lanfa e caca schietto belgivì, muschio, ambracane e zibetto; e s’ella a caso pettina i bei crini, giù a migliaia piovano i rubini. 29 L. Venier, La puttana errante, a cura di N. Catelli, Milano, Edizioni Unicopli, 2005, p. 51 (II, 4). 30 P. Aretino, Dialogo nel quale la Nanna insegna a la Pippa…, in Id., Sei giornate, a cura di A. Romano, Milano, Mursia, 1991, p. 352.

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Stilla da la sua bocca tuttavia nettare, corso, ambrosia e malvagìa; e in quella parte u’ son dolci i bocconi, stanno smeraldi invece di piattoni. Insomma, s’ella avesse oggi fra noi un buco solo, com’ella n’ha sol doi, direbbe ognun che venisse a vederla: ‘Ella è proprio una perla’ 31.

Qualcosa di simile, con attacco più diretto e minore eleganza, fa anche Nicolò Franco nel suo commento petrarchesco in fieri. È innanzitutto la lingua del Petrarca poeta trecentista cioè bembesco a subire una feroce deformazione parodica, modellata fedelmente sull’esempio polemico aretiniano delle Sei giornate. Se infatti nelle “prose vulgari” di “messer Francesco […] mai non si vidde sollennità”32, tanto che il Franco contrappone l’asciutto volgarizzamento petrarchesco di Familiares, XII, 233 agli eccessi vernacoli della “lingua vulgar fiorentina” perpetrati da Boccaccio nel Decameron34; ben diverso è il giudizio sulla lingua poetica dei Rerum Vulgarium Fragmenta che emerge dal Petrarchista. Basta pensare allo “scrivere zaffranato” del medesimo Boccaccio (“uopo”, “unquanco”, “testé”, “non è guari”, “quinci e quindi”), ma la cui prima responsabilità è attribuita al cattivo esempio di Petrarca “ne le sue rime” (con una lista di arcaismi analoghi)35. Ma nel dialogo del Franco il Divino Petrarca subisce anche una vistosa caduta stilistica, trasformandosi in autore di detti proverbiali popolareggianti (“‘Fiorenza a chi la vuole’, […] ‘Da Fiorenza guarda la gamba’ ”)36, di lettere galanti (“Sarei venuto ier sera stravestito al ballo, se fussi stato

31

Ivi, p. 358. Cfr. N. Franco, Il Petrarchista, cit., p. 88 e p. 93. 33 Cfr. ivi, pp. 93 ss. Questo volgarizzamento dell’epistola a Niccolò Acciaiuoli era compreso anticamente fra le Varie. 34 Cfr. N. Franco, Il Petrarchista, cit., p. 91. I petrarchisti “Fiorentini”, “il Varchi, Ugolin Martelli, e Lorenzo Lenzi, […] il dignissimo Alemano”, sono peraltro citati con stima in Id., Le Pistole vulgari, cit., p. 240v. 35 Cfr. Id., Il Petrarchista, cit., pp. 88-90. È in questa chiave di moderata polemica anti-bembesca, ma anche di maggiore disponibilità sperimentale autorizzata dalla prosa, che si dovrebbe rileggere il romanzo La Philena (1547): non al genere lirico, significativamente, Franco dedica la sua opera più impegnativa e ambiziosa. Cfr. P. F. Grendler, Critics ot the italian World (1530-1560): Anton Francesco Doni, Nicolò Franco and Ortensio Lando, Madison (Milwaukee) – London, The University of Wisconsin Press, 1969, p. 44. 36 Cfr. N. Franco, Il Petrarchista, cit., p. 75. 32

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sicuro, che il vostro marito non ci fusse comparso”)37, di cataloghi gastronomici che spostano i suggerimenti topici delle Familiares sulla frontiera del burlesco: Io stimo meglio il vivere in Valchiusa in una rustica mia casetta, che nei palazzi per i papi, e più fo conto del mangiare ne la mia casa pane, scalogne, ravani, salsicce, e vacca, che ne le tavole dei voltori aver tordi, starne, fagiani, vitelli di latte, migliazzi bianchi, suppe lombarde, lasagne maritate, e frittelle sambucate […]38.

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Lungo questa via il poeta di Laura finisce per assumere una degradata maschera bernesca “in piacevole stile”, firmando addirittura un fittizio “capitolo” in lode del “lauro”, perfettamente informe dal punto di vista metrico: Il lauro è l’ornamento de le chiese. Il lauro è l’ornamento de le taverne. Il lauro è buono a fare la gelatina. Il lauro è bonissimo per i fichi secchi. Il lauro è necessario ai barbieri. Col lauro s’ingrassano i tordi, e col lauro si tramezzano ne lo spedone. Del lauro si fa l’olio, che serve a Plinio in tante cose. Il lauro bisogna per l’incantesimo del Sannazzaro. Così strida nel foco ch’il mio mal prende in gioco39.

Non solo le rime fittizie, ma anche quelle ufficiali devono subire un processo analogo di falsificazione abbassante. Appellandosi ancora una volta al codice dei Rerum Vulgarium Fragmenta “di mano medesimo del Petrarca”, il Franco comunica infatti una finta lezione originaria di molte poesie, sistematicamente capovolta e svilita rispetto ai testi d’autore: […] e dove oggi si legge Benedetto sia ’l giorno, e ’l mese, e l’anno […] era prima scritto: Maladetto sia il giorno, e ’l mese, e l’anno […] e così ancora credo avenisse nel sonetto Io ho pregato amore e ne ’l riprego, perché il

37

Cfr. ivi, p. 59. Ivi, p. 81. Si vedano le pagine petrarchesche su questo tema, per esempio Familiares, VIII, 4 o XIII, 8. 39 N. Franco, Il Petrarchista, cit., pp. 57-58. 38

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Petrarca (per quanto si vedea scancellato) mostrava d’averlo prima cominciato Io n’ho ’ncacato amore, e gliene incaco […] Né altrimenti conobbi essergli avvenuto nel sonetto Passato è ’l tempo omai, lasso, che tanto, perché come da prima scritto l’avea Passato è ’l tempo che Berta filava. Così ancora il sonetto Per fare una leggiadra sua vendetta, mostrava d’aver avuto principio Per farmi amor nel buco una borsetta. E più ti dico che la canzone Di pensier in pensier, di monte in monte in piacevole stile l’avea primieramente tessuta, perché dicea Di bordell’in bordel, di chiasso in chiasso, / Mi guida amor […] 40.

Come ben dimostrano queste crude sostituzioni lessicali, sono poi gli oggetti stessi della lirica petrarchesca a perdere ogni traccia di aureola idealizzante, a cominciare dall’esemplare protagonista. Se infatti un’encomiastica lettera a Francesco I compresa nelle Pistole vulgari, “a laude et gloria di quel bel viso di Monna Lauretta”, rifiuta di parlare male “di lei, né de le donne francesi, sapendosi che son divine” (ma ridicolizza “l’inamorato” e “imbalordito” messer Francesco…)41; il Sannio del Petrarchista, affaticato nell’infruttosa ricerca di concreti dati biografici (“il nome de la famiglia, come del luogo, dov’ella nacque”)42, aggredisce invece con scatto sacrilego il divino fantasma di Laura: […] m’ebbi a dare al diavolo più di tre volte, e poco ci mancò, che io non mandassi il cancaro a Laura, a tutti i frati di Santa Chiara, che ce la tengono, et al Petrarca ancora, che negli avori, negli ebani, nei cristalli, e negli alabastri di Laura ebbe lingua per tre gazzuole, et in dire dov’ella nacque, volse fare le merde, per fare ch’altri ci cachi il sangue43.

Ed è proprio il confronto sistematico con la realtà (“la vera, e naturale effige di Laura […] ritratta da maestro Simone da Siena”)44 a innescare la demistificazione, abbassando ogni volta le parole poetiche al meschino livello della vita quotidiana. Le “mani” di Laura non hanno “tanta bianchezza”, le sue chiome sono “bionde onestamente, ma non tanto com’egli scrisse” (parodiando in un centone i “capegli […] così risplendenti, così negletti ad arte,

40 Ivi, pp. 47-48. Sottolineature nostre. I riferimenti sono rispettivamente a RVF, LXI, CCXL, CCCXIII, II, CXXIX. 41 Cfr. N. Franco, Le Pistole vulgari, cit., p. 48v. 42 Cfr. Id., Il Petrarchista, cit., p. 10. 43 Ivi, pp. 11-12. 44 Ivi, p. 37. Il riferimento è ovviamente a Simone Martini e a RVF, LXXVII-LXXVIII.

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inanellati ed irti”)45, mentre il “volto” è una polemica inversione dell’immagine petrarchesca: Io potrei giurare e tu me ’l potreste credere, che in quel volto di Laura, io vidi de la sbiacca, e de la grana, e de la vernice, come in quegli di tutte l’altre. Egli mi parea che lucesse, come una maschera modanese. Non ci viddi quei miracoli, né quella neve, né quelle rose, che tante fiate disse il Petrarca46.

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Anche nel comportamento di Laura, del resto, la realtà e la verosimiglianza contraddicono inesorabilmente la poesia, poiché “in ogni luogo si trovano uomini per le donne”: […] è dapocaggine a credere, che Laura, già donna di trentacinque anni quando morì, sia morta senza aver provato in vita, che cosa sia il congiungersi in matrimonio. Cosa impossibile pur a pensare, che una donna in tanto tempo se ne possa attenere47.

Su questa via, sempre spostando i versi petrarcheschi al livello della realtà, Franco giunge spontaneamente all’invettiva contro la donna che non corrisponde l’amore del poeta: Laura cagna, Laura villana, e veramente contadina come dice il Petrarca48, che diavol di core era il suo? Io stimo […] ch’ella non avesse intese quelle toscanerie. Era francese, e la acqua d’Arno non credo che troppo le andasse per lo cervello49.

E lo stesso Petrarca compare finalmente in veste di misogino, nella già ricordata lettera (fittizia) indirizzata al Boccaccio per elogiare il Corbaccio: È altro che una bellezza tutta piena di frode, quella, di che tanto invaghiti restiamo vedendola? Tutto è frode di dipinti colori il viso, che sì vago ne pare. Tutto è machina d’inganni l’intessuto ordine de’ capegli, che da la natura maestrevole giudicamo, e tutte sono esche coverte di vanità quelle, da le quali inescati corriamo al precipizio de l’ardentissima concupiscenza50.

45

Cfr. N. Franco, Il Petrarchista, cit., pp. 39-40. Ivi, p. 38. 47 Ivi, p. 61 e infra cfr. p. 62. 48 Probabilmente riferendo a Laura il congedo indirizzato alla canzone in RVF, CXXV, 79-81. 49 N. Franco, Il Petrarchista, cit., p. 69. 50 Ivi, p. 71. 46

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Alla provocazione del Franco corrisponde allora, in perfetta specularità, l’indirizzo Alli lettori che apre la già citata Puttana errante di Lorenzo Venier, che restituisce al poeta di Laura il suo ruolo ufficiale ma solo per rinnegarlo con violenza, citando La mia donna è divina dell’Aretino e ovviamente il Corbaccio:

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Fratelli beati coloro, che approno le orecchie del core alla gran tromba del quinto evangelista san Giovanni Boccaccio, e guai a quelli, che a gli incazziti fernetichi di messer Petrarca daran fede, perché l’uno è accesa candela de’ buon socii, l’altro è tenebre di chi coglionescamente crede, che la sua Monna Laura pisciasse acqua d’angioli, e caccasse ambracane; però vigilate, carissimi mei, quod amen amen dico vobis, che ’l sacrosanto Corbaccio è quel, che cava l’anime del limbo, e ’l corpo dell’inferno, e le borse del purgatorio51.

Il blasone idealmente conclusivo di simili strategie abbassanti è quello che già coronava la parodia fondata sulla ripetizione e sul plagio: l’epifania del petrarchismo come falsificazione e menzogna, artificioso inganno lontanissimo dal vero. Lo affermava già l’Aretino, smentendo clamorosamente la propria maschera lirica in nome (ancora una volta) della più bassa realtà sessuale: Madonna, io ’l vo’ pur dir che ognun m’intenda, io vi amo perché io ho poca faccenda: ma se io comperassi un quattrin l’uno i passi, a non dirvi bugia, men d’una volta il mese vi vedria. O voi potresti dire che io ho detto che il foco mi ancide, mercé vostra, a poco a poco: egli è ver che io l’ho detto, ma per la fola, e mento mille volte per la gola52.

E lo ribadisce il Franco in un sonetto a Quinto Gherardo, che fa sì riferimento al codice burlesco di ascendenza berniana, ma funge anche da programmatica dichiarazione: Fratel vuoi che te’l dica netto e schietto? Io n’incaco al Petrarca e’al Sannazzaro

51 52

L. Venier, La puttana errante, cit., p. 34. P. Aretino, Dialogo nel quale la Nanna insegna a la Pippa…, cit., p. 353.

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Il far Canzoni, e star senz’un denaro, Ne haver’un bezzo da passar traghetto. Apollo co le sue scartanovelle Mi pare un Ceretan vendicolori, Ch’assorda con le ciancie tutto un regno53.

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3. “Per dire il ver” Come Nicolò Franco ribadisce a più riprese nelle sue Pistole vulgari, il requisito indispensabile del petrarchista è quello di essere “rampino de i versi altrui”54. Tecnica unica e indispensabile di coloro che “scartafacciano il Petrarca”55 è infatti il furto sotto forma di collage, ovvero lo smontaggio e il rimontaggio dei versi già scritti dal maestro: Volete conoscere un Petrarchista in vista? guardiate che non sa fare un sonetto, se non ruba versi o non infilza parole.; […] un sonetto di quegli, che fanno i petrarchisti, i quali con i tacconi e con le pezze altrui, paiono le scarpe de i pellegrini.; Veggo quando gli tolgono i mezzi versi, e tal volta i versi interi. Veggo quando van facendo le scelte de le parole, de l’inventioni, e de le sentenze, che facciano al proposito di quel che scrivono, non curandosi di parer poveri d’intelletto. E perché si credono di non esser visti ne i furti, che fanno gli comincio a sgridar dietro, Io v’ho pur chiappati, ladri, tagliaborse, giuntatori, mariolacci. A rubbare il Petrarca ah?56

A quest’ultima epifania dei “goffi” petrarchisti, tratta dalla Risposta della Lucerna, Franco contrappone ironicamente la luminosa schiera dei petrarchisti ufficiali, guidata da Pietro Bembo: Veggo nel sommo loro il BEMBO, il quale, come ottimo, e massimo Duce di tutti gli altri, si sta dando ordeni, e leggi con lo scettro de la scienza, minacciando prigion d’infamia, e morte di nome a chi non osserva i giusti decreti de la sua penna. Gli veggo appresso i DUE GIROLAMI, l’un QUIRINO, e l’altro MOLINO. Veggoci i DUE BERNARDI, l’un NAVAIERO, e l’altro CAPPEL-

53

N. Franco, Le Pistole vulgari, cit., p. 145r. Cfr. ivi, p. 128v. 55 Cfr. ivi, p. 194v. 56 Ivi, p. 21r, p. 45r e p. 194v rispettivamente. 54

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LO. Questi non mai satii di star con riverenza innanzi la Maestà del venerando Vecchio, tuttavia attentamente esseguiscono ciò che egli ordina di sua bocca57.

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Anche se Le Pistole vulgari si guardano bene dal polemizzare con le Rime del 1530, che fondano il nuovo codice lirico, in almeno due occasioni Franco prende un’aperta posizione anti-bembesca, a favore della soluzione linguistica “cortigiana” di Baldassar Castiglione. “Se imito Castiglione, sarò pisciato da i Petrarchisti”58, egli scrive a Giovanni Giustiniani da Candia; e allo stesso Giustiniani invia un elogio del suo volgarizzamento dell’Eunuchus terenziano in endecasillabi sciolti sdruccioli (uscito insieme a quello dell’Andria nel 1544)59, segnalando proprio l’incompatibilità con la dottrina linguistica del “venerando Vecchio”: Il vostro Terentio andò anche una mattina al Bembo, su l’hora del desinare, come voi proprio m’havete detto. È ben vero che non ci desinò, perché S. Signoria non l’invitò a mangiare, come gli vidde in bocca la Grammatica del Castiglione60.

In un’altra lettera, del resto, il medesimo Giustiniani appare immerso in un’auto-censura linguistica che asseconda parodicamente la dittatura bembesca associandola ancora una volta alla moda petrarchista: […] con un paio di forficette tosando alcuni pelucci da i coglioni del mio Eunuco, dubitando che non facciano impaccio a l’eccellenze dei Petrarchisti61.

Ciò che Franco rimprovera alla rigida norma dell’imitatio, negli epigoni ma anche (con maggior ritegno) nel “sommo […] Duce di tutti gli altri”, è precisamente l’esteriorità della tecnica, la meccanica ricomposizione del già scritto che esclude una più interna e autentica elaborazione stilistica: O Petrarchisti, che vi venga il cancaro a quanti sete, io ve l’ho pur detto che parliate come il Petrarca, ma che non gli rubiate i versi con le sentenze62.

57

Ivi, p. 195r. Cfr. ivi, p. 173v. 59 L’Aretino utilizzò il volgarizzamento come fonte per la sua Talanta. Sul Giustiniani cfr. la voce di E. Russo nel Dizionario Biografico degli Italiani, cit., 2001, vol. 57, pp. 233-237. 60 N. Franco, Le Pistole vulgari, cit., pp. 203v-204r. Al “buon giudicio” del Libro del Cortegiano sembra alludere anche la citata lettera polemica indirizzata a Boccaccio nel Petrarchista. Cfr. Id., Il Petrarchista, cit., pp. 90-91. 61 Id., Le Pistole vulgari, cit., p. 88r. 62 Ivi, p. 48r. 58

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Per parlare “come il Petrarca”, infatti, non basta affidarsi al gioco classicistico del mosaico. Se Leon Battista Alberti, in una famosa pagina dei Profugiorum ab aerumna libri III 63, impiegava in senso positivo la metafora descrivendo l’armonico completamento di un tempio; il Franco utilizza la stessa immagine nella lettera indirizzata a Petrarca, ma ne capovolge il significato, evocando il “sempiterno tempio” petrarchesco barbaramente smembrato per costruire le banali imitazioni moderne: […] con la scusa d’essere gli imitatori del vostro stile, non si sforzano già di fare con le lor penne, né con gli ingegni una strada, che paia fatta come la vostra, senza haverci di quelle pietre medeme, ma scoprendo gli altari, la sacristia, e tutto il choro del sempiterno tempio, che vi faceste con l’intelletto, han fabricate, e fabricano ad ognihor le lor case matte in aria. Dico che credendosi parer voi, non solamente si servono del vostro dire: ma de i mezzi versi, de le sentenze, de le inventioni, de gli spirti, e di ciò che havete di buono, e di meglio. […] La bella è, che poi con l’usura del vostro, vogliono gareggiare con voi a chi meglio sa fare […] E ciò non viene da altro che da l’esser privi di quella natura, di cui fuste cotanto ricco64.

L’appello del Franco alla “natura” non è puramente convenzionale, ma indica un punto essenziale dell’argomentazione, poiché Il Petrarchista e Le Pistole Vulgari non si limitano alla parodia o al rifiuto ma tracciano il profilo (sia pure utopico) di un’alternativa. Ci vorrebbe infatti un “miracolo” o una specialissima “alchimia” per rifare Petrarca senza ripetere le sue parole, per coglierne la verità rinunciando ai centoni: […] ci vol’altro che falde di neve, pezze d’ostro, collane di perle: altro che smaltar fioretti, adacquare herbette, frascheggiar ombrelle, e nevicare aure soavi, per sonettizzare a la Petrarchesca. Non giova che imitiamo il Petrarca co’l cominciare, e co’l finire come comincia e come finisce lui: né rubargli un versetto, e ponerlo per coda d’una canzone, ma bisogna far più miracoli che non ne son ne la leggenda de’ santi padri65.

63 Cfr. L. B. Alberti, Profugiorum ab aerumna libri III, in Id., Opere volgari, a cura di C. Grayson, Bari, Laterza, 1966, vol. II, pp. 161-162. Su questa pagina si veda R. Rinaldi, La barriera delle lettere. Infelicità e autodifesa negli ultimi dialoghi albertiani, in Id., “Melancholia Christiana”. Studi sulle fonti di Leon Battista Alberti, Firenze, Olschki, 2002, pp. 229-234. 64 N. Franco, Le Pistole vulgari, cit., pp. 239r-v. 65 Ivi, p. 62r.

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L’autore delle Pistole vulgari, inserendo nella raccolta delle sue lettere una serie di sonetti dedicati al mito di Endimione66, conferma questo rifiuto di una lirica perfettamente adeguata al canone bembesco e risale alla più libera tradizione tardo-quattrocentesca, impersonata a Napoli dal Cariteo67. Ma è il (brutto) sonetto introduttivo della serie, in appendice ad una lettera per Benedetto Agnello, a fungere da caratteristico programma. Consapevole di non potere “seguir” i “passi” del “Pittor, che nel lauro il sacro ingegno / Formò con penna di sì dolci accenti”, il poeta si limiterà ad esprimere nei suoi versi un “vero dolor” e un “vero pianto”: Non perché de l’honor de i verdi allori Cerchi a l’ignudo stil tessere il manto, L’esca e ’l focil d’Amor piangendo canto, Ch’acceser nel mio cor gli eterni ardori: Ma sol, perché da i pruni e da gli horrori De i pungenti desir, senz’alcun vanto Spunti vero dolor, con vero pianto, Qual da le spine fan, le rose e i fiori68.

La modestia del proposito è apparente. Ciò che conta, infatti, è riprodurre la passione petrarchesca, non la scorza superficiale delle parole: riscrivere dall’interno il desiderio e il dolore del Maestro, diventare insomma Petrarca non rubando i suoi versi ma identificando la propria esperienza con la sua. Si spiega così la curiosa piegatura documentaria e provocatoriamente oggettiva del dialogo Il Petrarchista, tutto organizzato intorno alla rivisitazione dei luoghi biografici e alla fittizia manipolazione degli oggetti personali di “messer Francesco”: non è solo una spinta parodica a muovere queste pagine, ma anche la paradossale ricerca di un’ispirazione prodotta per empatia. Così,

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Cfr. ivi, p. 37v, pp. 62v-63r, pp. 73r-v, pp. 123r-124r, p. 162r. Non diversa sarà la scelta, “piscatoria” e mitologica secondo la tradizione tardoquattrocentesca napoletana, delle poesie nate nell’Accademia casalese degli Argonauti (cfr. Id., Rime maritime, in G. I. Bottazzo, Dialogi et alcune rime maritime di M. Nicolò Franco et d’altri diversi spiriti dell’Accademia de gli Argonauti, all’Eccellenza del Marchese di Soncino, il s. Conte Massimiano Stampa, Mantova, Iacopo Ruffinelli, 1547, pp. 128r-142r). Di gusto cortigiano sono ugualmente le due serie di stanze inserite nel Dialogo… delle bellezze: una in lode degli “occhi” e l’altra per la dedicataria dell’opera (cfr. Id., Dialogo dove si ragiona delle bellezze, alla Eccellentissima Marchesana Del Vasto, Venetiis, apud Antonium Gardane, 1542, pp. 36v-37v e pp. 99v-102r). 68 Id., Le Pistole vulgari, cit., p. 37v (vv. 1-8 e sopra cfr. vv. 9-11). 67

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Rinaldo Rinaldi

dopo la dettagliata descrizione di Valchiusa (“O se tu vedessi, o Coccio, quella Sorga come l’ho io veduta”), scatta l’incantesimo:

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Chi non componeria i sonetti, le sestine con i Trionfi a carra? Chi non ci facesse l’Africa, le Epistole famegliari, i Libri de la vita solitaria et i Rimedi de la utriusque fortuna? Forse puote pensare ad altro che a scrivere chi ci si trova? Il diavolo non volse, che ci avessi meco portata carta e inchiostro, che netto netto per quelle due ore, che ci fui, ci avrei affasciata una bisaccia di libri69.

La stessa magica sintonia si riproduce al contatto fisico fra il profano visitatore e “quel calamaio, di che il Petrarca si servì in tutto quel tempo, che tenne il suo Parnaso in Valchiusa”70. Ma è una delle “penne” del poeta a funzionare davvero come trasformatore di energia lirica e macchina del tempo, permettendo ai nuovi autori di “scrivere come il Petrarca” senza bisogno di ripetere le sue parole: E per Dio nel vederle, non mi potei attenere di non tenerne una in mano, e ne la guisa, che scrivendo si tiene. Onde mi posso vantare, che in poter mio è stato l’aver potuto scrivere come il Petrarca, e di questo dirò sempre il vero a quegli, che non voglion credere, che lo scrivere petrarchesco si possa contrafare con altro, che con rubbare i versi, e l’invenzioni71.

E ai commentatori di trovare infallibilmente “il vero”, evitando le usuali “chimere” e “favole” con una sorta di miracoloso processo di scrittura automatica: […] perché senza dubbio una sì fatta penna per i miracoli di quel che scrisse, sarebbe scorta al comentatore nei luoghi dubbiosi, e standogli in mano, da se stessa gli mostrarebbe come dovesse scrivere. Anzi per maggior meraviglia, si arestarebbe, ove conoscesse non iscriversi il suo dritto, e dove si notasse il vero, là subito butteria de l’inchiostro a furia. O grande errore, a non avere usata ogni industria per averne una ! Almanco mi facessi a sapere, che spezie di pene si fusse quella, perché noi altri ancora ce ne potessimo servire, e veder di scrivere come il Petrarca72.

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Id., Il Petrarchista, cit., p. 15. Sottolineature nostre. Cfr. ivi, pp. 40 ss. 71 Ivi, p. 45. 72 Ibidem. 70

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«O petrarchisti, che vi venga il cancaro»

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Queste pagine parodiche vanno oltre la semplice parodia, là dove traspare il sogno che sarà del Pierre Menard borgesiano: essere Francesco Petrarca per “scrivere come il Petrarca”… È l’unico modo per scavalcare il petrarchismo restando all’interno del petrarchismo: ignorare l’apparenza delle parole per riprodurne l’essenza, risillabando (ma dal profondo) alla fine del viaggio le parole dimenticate. Si spiega anche così, e non solo con le ragioni di un beffardo abbassamento tematico, il curioso gusto feticistico che emerge a tratti dal Petrarchista, con il visitatore Sannio più interessato agli oggetti personali di Laura che ai versi a lei dedicati: L’aver visto l’effige di Laura viva, saria stato pochissimo, se messer Roberto non me n’avesse mostro cose di maggior importanza, sì come fu un paio di forficette da l’unghie dei piedi, una scuffia da notte, un pelatoio da ciglia, una carraffella dove teneva i belletti, un nettadenti e molti fragmenti d’un orinale73.

Gli oggetti, i feticci, sono i frammenti di realtà e di verità ai quali può appigliarsi la ricostruzione fantasmatica di un nuovo Petrarca: vedere, infatti, è molto più importante che ascoltare e le immagini vengono prima delle parole. Non a caso tutta la minuziosa visita di Sannio ai luoghi deputati del petrarchismo, fra Avignone e Valchiusa, è scandita dal “vedere” e dalla “fede degli occhi”, come unica testimonianza capace di ispirare un commento a Petrarca o un verso alla maniera di Petrarca: […] facilmente m’avrebbe sciolto da qualche dubbioso intrigo da l’opra, vedendo con gli occhi istessi, quello, che altri ha forse con le orecchie udito; talché approvandosi la mia fatica col testimonio, e con la fede de la propria vista, non s’incorrerebbe in quegli errori, ove spesso cade chi vuol credere a l’altrui dire74.

Sono le immagini, insomma, a far sgorgare la poesia: quelle immagini che tanta parte hanno nella cultura cinquecentesca, dalla mnemotecnica alla magia, dall’arte celebrativa alla tipografia. I moderni, in questo modo, non fanno che ripetere le tappe della creazione poetica sperimentate dal medesimo Petrarca, a sua volta collezionista e utilizzatore di immagini e feticci. Pensiamo al già citato “calamaio”, che trae il suo potere proprio dalla “effige” e dal “nome” di Laura associati in una sorta di impresa: […] c’era il ritratto di Laura nel campo d’un scudo, fuori di quella parte dove si tiene l’inchiostro, e per tutti i lati, così dentro come fuori, non c’era dipinto 73 74

Ivi, p. 40. Ivi, p. 8 e infra cfr. pp. 12-14.

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Rinaldo Rinaldi

altro che frondi di lauro; anzi in molti dei luoghi suoi e massime per attorno i labri, era scritto il nome di Laura grossamente, e di mano sua. […] egli non senza industria ci fe’ sculpire la testa di Laura […] perché la sua effige […] gli fusse un sprone, che tutta volta, che il calamaio gli venisse inanzi, fusse costretto di torre la penna, e venire a le armi […] E così acceso da la idea de l’idol suo, non pensasse mai d’altro scrivere, che di lei, sì come gli venne fatto75.

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Pensiamo ai “sigilli” con “l’imagine di Laura” e la “testa di Laura”, o a quello che offre (con motto ed immagine) una fedele traduzione iconica de “vero dolor, con vero pianto” del poeta: Tra gli altri ve n’era uno, ove egli sculpito si vedea, sotto l’ombra d’un lauro, disteso in terra, a guisa d’uom che parli, pensi e scriva; ignudo, per inferire, che ne l’amore era già privo d’ogni speranza, tutto afflitto, e sconsolato, per mostrare i disfavori, che avea da madonna Laura, e piangendo terribilmente, il che si dimostrava per un’urna, che sotto il braccio destro tenea, da la cui bocca usciva un fonte, che d’intorno un gran mare gli veniva a poco a poco formando, per figurarci quell’onde del pianto, di che sempre parlò. Con altri infiniti segni di miserie e di dolori, talché ben ci convenivano le lettre sculpite, che diceano: In questo stato son donna per voi76.

Il miglior emblema della proposta di Nicolò Franco, del suo Petrarca ricostruito in profondo e non alla superficie, per empatia e non per plagio, nei fantasmi dell’immaginazione prima che negli artifici del linguaggio, è allora il libro che dovrà accogliere il futuro commento di Sannio. Descritto con straordinaria precisione nella chiusa del Petrarchista, anch’esso deriva la sua forza persuasiva dalla concretezza delle immagini, che in questo caso sono le illustrazioni tipografiche del mito petrarchesco: COCCIO Di maniera, Sannio, che il sepolcro di Laura […] servirà per lo bello fregio de l’opra vostra. […] E penso che miglior cosa non si ci potrebbe porre, né che avesse migliore invenzione da campeggiarci, per entravenirci colonne, archi, cornicioni, paesi con prospettive, e cose di vista, allegre, e confortative. SANNIO […] sarà meglio, che invece del fregio si ponga l’effige del Petrarca. Dipoi la vera figura di Valchiusa, e di Sorga con la gionta dei luoghi loro. […] sarà più raggionevole, che nel principio de le rime in vita, si ponga il ritratto di Laura viva, e nel principio de le rime in morte, il sepolcro di Laura morta, e nel fine de l’opra, la sepoltura del poeta col suo epitafio, nel modo istesso che si

75 76

Ivi, pp. 41-42. Ivi, pp. 44-45 e sopra cfr. p. 44.

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«O petrarchisti, che vi venga il cancaro»

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vede in Arquà. E se in questo mezzo mi fusse possibile d’avere il ritratto di fra’ Gherardo, fratello suo, non sarà in tutto dissonante dal debito per averci ogni cosa. Onde facilmente correranno i compratori per vedere tante ‘testé’ e tanti ‘guari’ ne l’opra mia, perché le belle figurine a le volte fanno spacciare i libri77.

È questo un libro futuro, rappresentato nella mente come letteraria utopia, in cui le “belle figurine” indicheranno e insieme favoriranno il miracolo di un Petrarca redivivo e finalmente “vero”: un nuovo Petrarca che scavalcherà, con elegante auto-ironia, tutte le possibili gaffes linguistiche, tutti i peccati bembeschi dei “testé” e dei “guari”. “Messer Francesco” potrà così rinascere, sfuggendo ai rischi della superficialità e della meccanizzazione, proprio con l’aiuto dell’illustrazione tipografica. La conclusione è davvero esemplare: per il poligrafo Nicolò Franco la medesima industria che minaccia la sopravvivenza della poesia, offre gli strumenti del suo riscatto.

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Ivi, pp. 105-106.

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STILEMI PETRARCHESCHI NEI LIBRETTI DELLE PRIME OPERE IN MUSICA

I lavori più importanti degli esordi della storia operistica si collocano opportunamente attorno all’anno 1600, con L’Euridice a Firenze (1600), preceduta diversi anni prima da un’altra opera fiorentina, La Dafne (1596-98), e seguita alcuni anni più tardi da La favola d’Orfeo a Mantova (1607). Il fatto che queste opere formino un unico insieme ben definito è risultato fin troppo opportuno per gli studiosi della prima fase della storia operistica, i quali iniziarono a vedere nel 1600 un anno determinante situato a cavallo tra due periodi stilistici, il Rinascimento e il Barocco. Come i primi testi polemici fiorentini associati alla polemica intorno al nascente dramma per musica tendevano, per diversi motivi, a sottolineare da un lato i presunti principi della riscoperta musica greca antica e dall’altro la novità rappresentata dalla attività artistica a cui venivano associati, così lo stesso accento sulla novità permea la storiografia operistica per buona parte del ventesimo secolo. Attualmente ci lusinghiamo di avere maggiori conoscenze, e la consapevolezza storica della prima fase della produzione operistica ci fa riconoscere la continuità e il radicamento di tale produzione nella tradizione letteraria e musicale del Cinquecento. Tuttavia, non dobbiamo sottovalutare le caratteristiche innovative dell’opera, dal momento che, per la sua lunghezza e complessità, la rappresentazione drammatica cantata fu indubbiamente un fenomeno nuovo se paragonato ai precedenti intermedi di natura frammentaria. Le parti musicali del melodramma attribuirono ai compositori lo status di simbolo e Jacopo Peri, Giulio Caccini e specialmente Claudio Monteverdi diventarono successivamente l’equivalente in musica delle “tre corone”, pur essendo certamente aiutati nel loro lavoro dai poeti da cui dipendevano per la stesura dei libretti.

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Bojan Bujic

Per un aspetto importante, il processo di creazione e strutturazione dell’opera resta infatti immutato nella immaginazione del poeta; la collaborazione tra il poeta e il compositore può apportare modifiche e aggiustamenti alla componente poetica, ma il lavoro compiuto mantiene l’individualità attribuitagli dal poeta. Circa sessanta anni fa, quando nella discussione sulla materia operistica l’aspetto musicale dominava su quello letterario, il musicologo inglese Edward Dent affermò che le esigenze dettate dal contesto storico probabilmente facevano sì che il pubblico degli esordi non avesse una reale aspettativa riguardo alla componente musicale. La componente con cui il pubblico aveva familiarità era quella poetica ed “è probabile che il pubblico di allora si entusiasmasse alla poesia stessa”, afferma, aggiungendo che Ottavio Rinuccini era un “vero poeta” 1. Dent mostrò maggiore apprezzamento per il Rinuccini poeta di quanto non ne avessero generalmente mostrato gli storici della letteratura, che, nel periodo che esaltava Guarini e Marino, consideravano la sua una voce poetica minore. E, infatti, la sua voce non dovrebbe essere ignorata, poiché Rinuccini lasciò un segno importante quale fondatore di un genere letterario – il libretto operistico – che in seguito continuò a mantenere una forte presenza nel panorama letterario italiano. Prendendo in considerazione l’utilissimo grafico elaborato da Maria Giovanna Miggiani, possiamo vedere che l’impegno poetico di Rinuccini nell’ultimo decennio del Cinquecento si colloca in un momento in cui le fortune di diversi poeti preferiti dai compositori cambiano radicalmente2. Vediamo l’intersecarsi di tre linee attorno al 1595: quella di Petrarca, che ha un forte declino dopo aver raggiunto il suo apice verso il 1570, quella di Tasso, che pure ha già iniziato il suo movimento verso il basso dopo il culmine raggiunto attorno al 1590, mentre quella di Guarini sta nettamente risalendo. Nonostante il genere pastorale avesse mirabilmente ricevuto nuova vita nel tardo Cinquecento da Tasso e Guarini, la ferma impressione che si ha leggendo la poesia di Rinuccini non come un mero accessorio al dramma per musica, ma come letteratura vera e propria, è che l’influenza di Tasso e Guarini rimanga in un certo senso superficiale. Dobbiamo tenere presente che i modelli letterari del primo melodramma derivano, come ben si sa, da Ovidio, e in misura minore, da Virgilio. Non conosciamo quasi nulla delle letture classiche di Rinuccini. Gabriello Chiabrera, nella sua descrizione opaca quanto intrigante di 1 “The original audience might well have been thrilled by the poetry itself, for Rinuccini was a real poet, no mere ‘hack librettist’, for such people did not exist in those days.” E. J. Dent, Opera, Harmondsworth, Penguin, 1940, p.32. 2 L. Bianconi, Il Cinquecento e il Seicento, in Letteratura italiana. Teatro, musica, tradizione dei classici., a cura di A. Asor Rosa, vol. 6, Torino, Einaudi, 1986, p. 330.

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Stilemi petrarcheschi nei libretti delle prime opere in musica

Rinuccini, la quale ne offre una visione maliziosamente ironica, lo dipinge come un uomo di bassa cultura, (“egli studiò scienza nessuna, ed anco della lingua latina poco fu esperto”), ma apparentemente come un poeta abile che “ebbe una vena di verseggiare sonoramente, e verseggiava con agevolezza non picciola, e con saldo giudizio scorgeva il migliore, ed il fiore coglieva di celebrati componimenti; ed in ciò fare fu da tenace memoria sostenuto”3. Questi commenti, anche se forse non miravano ad essere celebrativi come può sembrare, ci possono aiutare a ricostruire la vena poetica di Rinuccini. Desiderosi di analizzare a fondo i sentimenti umanisti e classicisti fatti propri dai membri dei circoli del Bardi e del Corsi, i musicologi hanno per molto tempo mantenuto una visione di costoro quali rinnovatori della tradizione classica, e questa infatuazione verso i classici è stata per estensione attribuita anche a Rinuccini. Ma non dobbiamo dimenticare che, oltre all’adesione umanista ai valori contenuti nei modelli letterari greco-latini, nel Cinquecento ci fu un’altra scuola di pensiero che sosteneva il primato della lingua italiana quale strumento superiore non solo per la comprensione orale e la resa scritta dei suoni, ma anche per la sua adattabilità alla musica. Bernardino Daniello espose questa opinione nella prima parte del secolo: […] farete a qual si voglia, eccelente Musico, la voce insieme col suono sciogliendo et accordando, una delle Canzoni d’Horatio prima, et dopo una del Petrarca, cantare. Consciosia cosa che vie più (senz’alcun dubbio) di soave harmonia empierà ciascun giudicioso orecchio questa seconda – che fatto non havrà la prima, […]4

ed anche Lionardo Salviati si esprime in modo simile circa trenta anni dopo: A me giova di credere, che più dolcezza sia in una sola stanza d’una di quelle tre sorelle tanto maravigliose o di quella canzone, Chiare, fresche, e dolci acque, che in tutto un coro de i più dolci, che in EURIPIDE sia5.

Lo stesso sentimento è presente nella sua Poetica d’Aristotile, saggio scritto negli anni successivi al 1580 che, pur non essendo stato pubblicato, 3 G. Chiabrera, Elogi d’uomini illustri, in Alcune poesie di Gabriello Chiabrera non mai prima d’ora pubblicate, Genova, Caffarelli, 1794, p. 92. 4 B. Daniello, La poetica di Bernardino Danielo Lucchese, Giovan’Antonio di Nicolini da Sabio, Venezia, 1536, p. 134. 5 L. Salviati, Orazione di Lionardo Salviati. Nella quale si dimostra la Fiorentina favella […], Firenze, Giunti, 1564, ff. 9r-9v.

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conteneva idee che potevano essere oggetto di discussione durante gli anni formativi di Rinuccini. Da un punto di vista storico-letterario, questo è un altro esempio di come la questione della lingua possa essere stata discussa in termini nazionalistici. E se lo consideriamo più specificatamente come un aspetto rivelatore della sensibilità di Rinuccini, può darci un’idea delle sue preferenze poetiche e del suo metodo di lavoro – metodo che, dopo tutto, già Chiabrera definiva eclettico. Non è chiaro in quale misura Rinuccini fosse influenzato da Lionardo Salviati, ma non sarebbe troppo ardito presumere che parte del forte toscanismo di Salviati si trasmise al giovane poeta, o in modo diretto, o attraverso la mediazione di Giovanni de’ Bardi che, in fatto di gusti letterari, sembra aver delegato a Salviati. Non sorprende quindi che, nonostante Petrarca stesse già perdendo popolarità tra i compositori, il fascino della lingua petrarchesca fosse così forte per un giovane poeta fiorentino che stava crescendo all’ombra di Salviati e Bardi. Il fatto che lui fosse o meno un buon latinista è forse irrilevante, dal momento che i modelli letterari che lui probabilmente riteneva importanti erano in ogni caso quelli vernacolari. L’Ovidio delle Metamorfosi rimane indubbiamente alla base delle sue narrazioni drammatiche, seguito dal Virgilio delle Georgiche e dell’Eneide. Ma tale influenza può riguardare solo l’origine delle storie, poiché le intricate modalità in cui Ovidio sviluppa le storie stesse è assente in Rinuccini. Parafrasando un pensiero espresso in circostanze molto diverse, sarebbe più giusto dire che Rinuccini ricevette lo spirito di Ovidio dalle mani di Petrarca. L’influenza dei classici su Petrarca è innegabile e Virgilio, Cicerone, Ovidio e altri autori rappresentarono per lui (nelle parole di Kenelm Foster) “l’incomparabile patrimonio dell’umana saggezza”6. Recentemente diversi studiosi hanno offerto il resoconto di un’indagine dettagliata sull’influenza che Virgilio e Ovidio hanno avuto sulla lingua del Petrarca7. Nel nostro caso è particolarmente utile seguire la corrente ovidiana poiché la storia stessa de La Dafne ci conduce nella direzione della metamorfosi dell’essere umano in lauro, che lega così fortemente Ovidio, Petrarca e Rinuccini.

6 “[T]hese writers together constitute the one incomparable patrimony of human visdom.” K. Foster, Petrarch, Poet and Humanist, Edinburgo, Edinburgh University Press, 1984, pp. 169-70. 7 N. Gardini, Un esempio di imitazione Virgiliana nel Canzoniere Petrarchescho, in “Modern Language Notes”, 110/1 (1995), pp. 132-144. Sara Sturm-Maddox, Petrarch’s Metamorphoses Text and Subtext in the ‘Rime sparse’, Columbia, University of Missouri Press, 1985. Peter Hainsworth, The Myth of Daphne in the Rerum vulgarium fragmenta, in “Italian Studies”, 34 (1979), pp. 28-44.

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Stilemi petrarcheschi nei libretti delle prime opere in musica

Luigi Fassò, curatore della moderna edizione standard de La Dafne di Rinuccini, la definisce come l’“ampliamento di un intermedio intitolato Battaglia Pittica rappresentato nel 1589”8, facendo riferimento al fatto che la scena in cui Apollo uccide il drago, ispirata a un racconto breve delle Metamorfosi, I, 434-451, fu rappresentata per la prima volta nella sontuosa rappresentazione teatrale indetta per celebrare il matrimonio tra Ferdinando de’ Medici e Cristina di Lorena. Tuttavia, sembra difficile che La Dafne sia semplicemente lo sviluppo di tale idea – sarebbe più giusto dire che l’episodio presente nell’intermedio del 1589 trovò spazio qualche anno più tardi nel dramma poetico di Rinuccini basato sulla storia successiva delle Metamorfosi (I, 452- 567) – la storia appunto di Apollo e Dafne – all’interno della quale la scena di Apollo e del drago rappresenta solo un breve episodio. I fili del racconto che Ovidio fa della storia di Apollo e Dafne sono intessuti nel sottile intreccio formale delle Rerum vulgarium fragmenta (RVF), dove appaiono allusioni e riferimenti scollegati, che emergono in superficie in alcuni poemi, mentre scendono sempre più in profondità e si nascondono in altri. Sarebbe errato attribuire l’interesse di Petrarca nella storia di Apollo e Dafne a una fortuita somiglianza tra il nome Laura e il lauro nel quale viene trasformata Dafne. I ricorrenti riferimenti alla storia di Apollo e Dafne sarebbero segni di una deliberata trasformazione della Dafne ovidiana, la quale viene unita ad Apollo solo quando la sua vita come essere umano si è estinta; invece la Laura di Petrarca vive nella mente del poeta solo in una serie di reminiscenze. È Petrarca, dunque, che rappresenta il nostro primo referente nella ricerca delle fonti d’ispirazione di Rinuccini. Ma bisogna fare attenzione. Ansiosi di trovare delle echi petrarcheschi, potremmo essere facilmente ingannati nel ritrovare le classiche coppie di parole in rima che, sebbene siano entrate nel linguaggio poetico del Cinquecento grazie a Petrarca, diventarono poi parte integrante della “selva di rime”, per parafrasare Nicola Gardini9, e che, codificate successivamente attraverso i rimari, come quello di Ruscelli ad esempio10, offrirono un repertorio di schemi facilmente accessibili, di poetici objets trouvés. Infatti, anche una lettura superficiale de La Dafne di Rinuccini rivela facilmente la presenza di rime petrarchesche quali “giorno-adorno”, “intorno-ador-

8 L. Fassò (a cura di), Teatro del Seicento (La letteratura italiana: storia e testi, 39), Milano-Napoli, Ricciardi, 1956, p. 7. Tutte le citazioni da La Dafne e L’Euridice di Rinuccini seguono il testo curato da Fassò. 9 N. Gardini, Un esempio di imitazione, cit., p. 138. 10 G. Ruscelli, Del modo di comporre in versi. Varie edizioni cinquecentesche.

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no”, “scocchi-occhi”, “stile-vile”, etc., eppure, non sarebbe corretto considerarle soltanto come l’ovvia presenza di schemi precostituiti, privi di un particolare significato. Una più attenta lettura di Rinuccini indica un’acquisizione del vocabolario petrarchesco a un livello più profondo, e mostra come Rinuccini fosse forse un lettore più sofisticato di quanto siamo disposti a credere. Petrarca, naturalmente, non racconta la storia di Apollo e Dafne, ma, piuttosto, utilizza gli elementi come uno dei fili, che in modo sottile e ingegnoso tengono unito il RVF. Come afferma Sara Sturm-Maddox, “il racconto di Ovidio, con la sua ininterrotta sequenza di causalità, evento e conseguenza, con la sua diretta resa del tempo, perde il suo valore cronologico nella molteplice allusione petrarchesca”11. Ciò diventa un vantaggio per Rinuccini che si basa su Petrarca, la cui modalità di presentazione – frammentata, simbolica e densa di immagini – ben si accorda all’inesperienza drammatica dello stesso Rinuccini. La causalità di Ovidio appare indebolita in Rinuccini: non è chiaro, dai versi di Rinuccini, il perché alcuni personaggi si comportino come si comportano. Non c’è un sistema particolare con cui Rinuccini si avvicina a Petrarca. Piuttosto, utilizza degli echi petrarcheschi per creare la sensazione costante di uno stile petrarchesco nella sua versione della storia. A momenti Petrarca è chiaramente evidente, poi scompare, per riemergere nuovamente in un altro passo de La Dafne. Perfino l’esempio relativamente semplice della rima petrarchesca “giorno-adorno”, diventa più interessante se considerato nel suo intero contesto: Rinuccini, La Dafne, 25-28

RVF, 188, 1-8

OVIDIO Vedete lagrimar quel dio ch’in cielo reca in bel carro d’or la luce e ’l giorno, e de l’amata ninfa il lume adorno adorar dentro al trasformato stelo.

Almo Sol, quella fronde ch’io sola amo, tu prima amasti, or sola al bel soggiorno verdeggia, et senza par poi che l’addorno suo male et nostro vide in prima Adamo. Stiamo a mirarla: i’ ti pur prego et chiamo, o Sole; et tu pur fuggi, et fai d’intorno ombrare i poggi, et te ne porti il giorno, et fuggendo mi toi quel ch’i’ più bramo12.

11 “Ovid’s account, with its uniterrupted sequence of causality, event, and consequence, its direct rendering of linear time, is dechronologized in Petrarch’s multiple allusions.” S. Sturm Maddox, Petrarch’s Metamorphoses, p. 21. 12 Edizione di riferimento: F. Petrarca, Canzoniere, edizione commentata a cura di M. Santagata, Milano, Mondadori, 1996.

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Stilemi petrarcheschi nei libretti delle prime opere in musica

La rima “giorno-adorno” si presenta qui non come un prestito da qualche rimario, ma piuttosto come un riadattamento degli elementi di un sonetto di Petrarca associato al mito di Dafne. Inoltre, i versi di Rinuccini appena citati si trovano alla fine del prologo recitato dallo stesso Ovidio, come se Rinuccini volesse comunicare ai suoi lettori/ascoltatori che Ovidio parla loro nella lingua di Petrarca. L’inizio del dramma poetico di Rinuccini – una breve scena di 62 versi, è un leggero rifacimento dei versi composti per l’intermedio del 1589, nella quale il deus ex machina salva la moltitudine dei pastori dalla minaccia del sanguinoso drago. L’azione eroica termina velocemente, il drago giace a terra, morto, e il Coro a questo punto deve raccontare in sunto le gesta di Apollo prima che si possa procedere. E, Rinuccini, come se ripetesse un Leitmotiv poetico, ricorre nuovamente alla parola “adorno”, che in questo caso rima con “intorno”, avendo in mente forse il verso petrarchesco “mirando ’l ciel che ti si volve intorno, /immortal et addorno”; (RVF 264.49-50): Almo dio, che ’l carro ardente per lo ciel volgendo intorno vesti ’l dì d’un aureo manto, se tra l’ombra orrida algente splende il ciel di lume adorno, è pur tua la gloria e ’l vanto. Se germoglian frondi e fiori, selve e prati, e rinnovella l’ampia terra il suo bel manto, se de’ suoi dolci tesori ogni pianta si fa bella, è pur tua la gloria e ’l vanto. Per te vive e per te gode quanto scerne occhio mortale, o rettor del carro eterno; ma si taccia ogn’altra lode: sol de l’arco e de lo strale voli il grido al ciel superno.

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Così, una frequente rima petrarchesca, “intorno-adorno”, diventa qui più che un semplice espediente, dal momento che il sintagma nel quale compare la seconda parola della rima “lume adorno” ci riporta direttamente al RVF 135.52-57: Così aven a me stesso che son fonte di lagrime et soggiorno: quando ’l bel lume adorno

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ch’è ’l mio sol s’allontana, et triste et sole son le mie luci, et notte oscura è loro, ardo allor; ma se l’oro e i rai veggio apparir del vivo sole, tutto dentro et di for sento cangiarme, et ghiaccio farme, così freddo torno.

Anche se ci troviamo all’interno de in vita di Madonna Laura, la Canzone presagisce la crudele perdita da parte del poeta, del sole che illumina le sue giornate, la negazione dei benefici del “vivo sole” che riscalda. La luce e il rinnovamento primaverile a cui fa riferimento, elementi caratteristici del dramma pastorale, vengono utilizzati da Rinuccini come strumenti di perdita del “valore cronologico”, che investono i versi del Coro di molteplici significati. Le immagini che si riferiscono alla luce e al sole sono appropriate in questo momento, perché ben riassumono le azioni del dio di cui sono attributo. Ma le parole “suo bel manto”, che apparentemente richiamano il rinnovamento primaverile, ci proiettano lontano verso in morte di Madonna Laura, evocando il verso 8 del Sonetto 313: Passato è ’l viso sì leggiadro et santo ma passando i dolci occhi al cor m’à fissi: al cor già mio, che seguendo partissi lei ch’avolto l’avea nel suo bel manto.

come se Rinuccini si aspettasse che il suo pubblico rievocasse più del solo “suo bel manto”, e volesse richiamare alla memoria i versi immediatamente successivi (RVF 313.9-11): Ella ’l sol se ne portò sotterra, e ’n cielo ove triumpha, ornata de l’alloro che meritò la sua invicta honestate.

Fino a questo punto della Dafne di Rinuccini, il tragico oggetto del desiderio di Apollo non ha ancora fatto la sua apparizione – tutto deve ancora accadere. Il lettore/ascoltatore, se inconsapevole, seguendo soltanto il filo narrativo in primo piano del poema, non conosce ancora né Dafne, né tantomeno la sua relazione con il dio licenzioso, una relazione che porterà al drammatico conflitto tra desiderio e castità, provocato dal malizioso Amor e dalle sue due frecce. Sullo sfondo narrativo che fa necessariamente da riferimento, tuttavia, con l’aiuto del richiamo al contesto petrarchesco, siamo portati ad anticipare gli eventi come elementi non ancora annunciati dell’azione

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drammatica, e infatti raggiungiamo il momento ultimo: “suo bel manto” in primo piano ci conduce alla “ornata de l’alloro”. Si tratta di un ornamento così significativo che nel caso di Dafne segna la sua totale trasformazione in lauro. Nello spazio di pochi versi soltanto, raggiungiamo nel poema di Rinuccini l’inevitabile risultato finale, una fine che deriva da una causa precedente, ovvero la castità che Dafne, disperata, tenta di preservare e con successo infatti, perdendo nel farlo la sua identità di mortale e mantenendo la sua inviolata integrità. La frase “che meritò la sua invicta honestate”, ci riporta alla mente Rinuccini attraverso le parole di Petrarca – le parole che rimangono inespresse nel Coro di Rinuccini, ma vengono suggerite in modo potente dal contesto richiamato dalle allusioni petrarchesche. Non è troppo fantasioso affermare che, attraverso un giudizioso ricorso ai riferimenti, Rinuccini si rivela un lettore di Petrarca colto e attento, capace di prendere in considerazione l’intero repertorio di collegamenti che uniscono tra di loro le varie parti del Canzoniere. Con “lume adorno” ci indirizza prima al RVF 135, dove si toccano approfonditamente i temi del caldo e del freddo: “tutto dentro et di for sento cangiarme / et ghiaccio farme, cosí freddo torno” (59-60); “L’anima mia, ch’offesa / anchor non era d’amoroso foco, /appressandosi un poco / a quella fredda, ch’io sempre sospiro” (65-68). Mentre “bel manto” (Daf., 75) apre una ulteriore possibilità di riferimento al RVF 313, dove l’immagine richiama prontamente il: “Passato è ’l tempo omai, lasso, che tanto /con refrigerio in mezzo ’l foco vissi,” (1-2), e poi, come se non bastasse, Rinuccini inserisce il terzo riferimento a Petrarca: “occhio mortale” (Daf., 80) – che non risulta in un cliché poetico ma semmai un intelligente riferimento al RVF 127.51: ove fra ’l bianco e l’aurëo colore sempre si mostra quel che mai non vide occhio mortal, ch’io creda, altro che ’l mio; et del caldo desio che, quando sospirando ella sorride, m’infiamma sì che oblio nïente aprezza, ma diventa eterno, né state il cangia, né lo spegne il verno.

Ancora una volta il riferimento espande le precedenti immagini di caldo, freddo, fuoco e ghiaccio, e alla fine, ci conduce alle proprietà del lauro, che è resistente a entrambe le situazioni climatiche. Quasi a conferma del fatto che ha appreso la tecnica petrarchesca della proiezione in avanti e della reminiscenza, Rinuccini dà un ulteriore indizio di

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quello che sarà il futuro sviluppo del dramma, pur dando l’impressione di raccontare in realtà quanto è accaduto in precedenza (e ora, a una stanza già citata sopra, p. [471], aggiungo quella successiva): Per te vive e per te gode quanto scerne occhio mortale, o rettor del carro eterno; ma si taccia ogn’altra lode: sol de l’arco e de lo strale voli il grido al ciel superno. Nobil vanto! il fier dragone di velen, di fiamme armato, su ’l terren versat’ ha l’alma: per trecciar fregi e corone al bel crin di raggi ornato qual fia degno edera o palma?

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Certamente l’arco e la freccia fungono nuovamente da presagio dell’azione che deve ancora avvenire. Anche il riferimento apparentemente vago ai “fregi” non mi sembra casuale, bensì un riferimento al terzetto di chiusura del Sonetto 263: L’alta beltà ch’al mondo non è pare noia t’è, se non quanto il bel thesoro di castità par ch’ella adorni et fregi13.

La stretta vicinanza di “alma”-“corone”-“palma” richiama i versi della parte finale del Sonetto 295: O miracol gentile, o felice alma, o beltà senza exempio altera et rara, che tosto è ritornata ond’ella uscìo! Ivi à del suo ben far corona et palma quella ch’al mondo sì famosa et chiara fe’ la sua gran vertute, e ’l furor mio. 13 I riferimenti di Rinuccini si basano qui sull’identità fonetica delle parole che costituiscono il legame, a prescindere dal fatto che “fregi” compaia prima come nome e poi come verbo. Per un simile procedimento, dove Rinuccini usa la somiglianza fonetica tra “zaffiro” e “zephiro”, cfr. B. Bujic, Rinuccini the Craftsman: a View of his L’Arianna, in “Early Music History”, 18 (1999), p. 88.

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Per rafforzare le tesi avanzate finora, meriterebbe che ci concentrassimo sulle scene finali del poema. Seguendo la ormai assodata tecnica drammatica, il Nunzio fa la sua comparsa per raccontarci la tragica trasformazione di Dafne in un lauro, ed è a questo punto che Rinuccini, chiaramente, riporta Petrarca in primo piano, o piuttosto, ci appresta una tela fatta di allusioni petrarchesche sempre più fitte. Potrebbe essere che le parole del Nunzio “Ella, quasi cervetta / che inanzi a crudo veltro il passo affretta, /fuggia veloce” (Daf. 327-29) siano solo un rifacimento alquanto prevedibile di “raddoppia i passi, et più et più s’affretta” (RVF 50.6) senza nessun altro significato contestuale, e che “al ciel rivolse e ’l una e l’altra mano” (Daf. 335) allo stesso modo sembri un utile prestito dal RVF 225.5-6: “Or ch’al dritto camin l’à Dio rivolta, / col cor levando al cielo ambe le mani,” come se volesse farci entrare lentamente e prepararci per l’intensificarsi delle allusioni petrarchesche. La narrativa del Nunzio è di per sé un tour de force stilistico, trattandosi del monologo più lungo del poema, che consiste in cinquanta versi, interrotti solo da un inserimento di tre versi da parte del Coro. Nella parte che precede l’inserimento del Coro, il Nunzio ci offre la descrizione come il volo di Dafne è stato interrotto dal processo di trasformazione: […] ed ecco in un momento che l’uno e l’altro leggiadretto piede, che pur dianzi al fuggir parve aura o vento, fatto immobil si vede, di salvatica scorza insieme avvinto, e le braccia e le palme al ciel distese veste selvaggia fronde: le crespe chiome bionde più non riveggo e ’l volto e ’l bianco petto; ma dal gentile aspetto ogni sembianza si dilegua e perde; sol miro un arboscel fiorito e verde.

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Il frammento è un fitto collage di prestiti petrarcheschi. Non è soltanto modellato sui versi 29-42 della Canzone 127, ma vi troviamo anche “crespe chiome bionde”, che alludono al RVF 197.9: “le chiome bionde, e ’l crespo laccio”, al RVF 227.1: “chiome bionde e crespe”, al RVF 270.57: “capei crespi et biondi” e al RVF 292.5: “le crespe chiome d’òr”. I sintagmi in rima “selvaggia fronde” – “chiome bionde” ci riportano inevitabilmente a “chiome bionde-sacra fronde” del Sonetto 34, e il tutto richiama fortemente l’immagine di Apollo e Dafne. La rima conclusiva del frammento, “perde-verde”

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richiama il RVF 23.38-40, ancora un altro esempio in cui Petrarca affronta il tema della trasformazione e delle proprietà del lauro: e i duo mi trasformaro in quel ch’i sono, facendomi d’uom vivo un lauro verde che per fredda stagion foglia non perde.

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Rinuccini, infatti, utilizza “fiorito e verde”, come se non volesse perdere l’occasione di fare riferimento a un’altra fonte di immagini relative a boschi e foreste, richiamandosi prima alla Canzone 125.74: Qualunque herba o fior colgo credo che nel terreno aggia radice, ov’ella ebbe in costume gir fra le piagge e ’l fiume, et talor farsi un seggio fresco, fiorito et verde.

e poi all’autoreferenziale “Fresco, ombroso, fiorito et verde colle” di Petrarca (RVF 243.1), e a “Tutta la mia fiorita e verde etate” (RVF 315.1). Il lamento conclusivo di Apollo, più corto della narrazione del Nunzio, non è però meno fitto di allusioni a Petrarca: Dunque ruvida scorza chiuderà sempre la beltà celeste? Lumi, voi che vedeste l’alta beltà, che a lagrimar vi sforza, affisatevi pure in questa fronde: qui posa, e qui s’asconde il mio bene, il mio core, il mio tesoro, per cui, ben ch’immortal, languisco e moro. Ninfa sdegnosa e schiva, che, fuggendo l’amor d’un dio del cielo, cangiasti in verde lauro il tuo bel velo, non fia però ch’io non t’onori ed ami, ma sempre al mio crin d’oro faran ghirlanda le tue fronde e’ rami. Ma deh! se in questa fronde odi il mio pianto, senti la nobil cetra, quai doni a te dal Ciel cantando impetra: non curi la mia pianta o fiamma o gelo, sian del vivo smeraldo eterni i pregi,

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né l’offenda già mai l’ira del Cielo. I bei cigni di Dirce e i sommi regi di verdeggianti rami al crin famoso portin, segno d’onor, ghirlande e fregi. Gregge mai né pastor fia che noioso del verde manto suo la spogli e prive: a la grat’ombra il dì lieto e gioioso traggan dolce cantando e ninfe e dive.

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Il “verde lauro” del verso 381, sintagma petrarchesco frequente e altamente significativo, si trova qui come a voler illuminare con la sua presenza tutti i versi circostanti. La rima “scorza-sforza”, citata nel frammento precedente (Daf., 371374), è qualcosa che a questo punto ci aspettiamo inevitabilmente, trovandosi nel RFV 125.14-18 e 127.34-35, e altrettanto prevedibile è la rima “frondeasconde” che segue subito dopo, e che ci riporta nuovamente al RVF 34, fonte già utilizzata da Rinuccini. Le ripetute “fronde” nei versi 375, 384, e 385 già echeggiano nella nostra mente nel momento in cui arriviamo a “l’ira del Cielo” del verso 390 e “segno d’onor” del verso 393, ed è probabile che il lettore/ascoltatore che conosce bene il suo Petrarca pensi all’apertura del RVF 24: “Se l’onorata fronde che prescrive / l’ira del ciel, quando ’l gran Giove tona”. Con il verso 388, in cui Apollo descrive le principali caratteristiche del lauro, “non curi la mia pianta o fiamma o gelo”, da un lato Rinuccini ci riporta indietro alle immagini della Canzone 127, ma dall’altro, solo qui, alla fine di questo poema, ci rivela le motivazioni della presenza del repertorio di prestiti petrarcheschi inseriti all’inizio de La Dafne, i quali sono tutti legati all’idea del caldo e del freddo, suggerendo la facoltà rispettivamente di raffreddare e di infiammare delle due frecce di Amor. A quel punto la scelta sembrava in qualche modo poco chiara, ma per comprenderla dovevamo attendere lo sviluppo dell’intero dramma. Le strofe finali, che compaiono dopo il soliloquio di Apollo, secondo la prassi stabilita per i finali di quel genere nella poesia degli intermedi, sono organizzate in modo molto poco petrarchesco in ottonari e quaternari, ma ciò non diminuisce lo zelo con cui Rinuccini fa riferimento al vocabolario petrarchesco: Bella ninfa fuggitiva, sciolta e priva del mortal tuo nobil velo, godi pur pianta novella, casta e bella, cara al mondo e cara al Cielo. Tu non curi e nembi e tuoni; tu coroni

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cigni, regi, e dèi celesti: geli il cielo o ’nfiammi e scaldi, di smeraldi lieta ogn’or t’adorni e vesti.

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Godi pur de’ doni egregi; i tuoi pregi non t’invidio e non desio: io, se mai d’Amor m’assale aureo strale, non vo’ guerra con un dio.

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I primi tre versi (398-400) sono presi direttamente dal RVF 313.12: “disciolto dal mortal mio velo”, mentre “Amor m’assale” compare due volte nel RVF: nel 109.1, e nel 291.3, trattandosi quest’ultimo di un sonetto che Rinuccini può già avere preso in considerazione per “bianche chiome”. Il verso successivo (414) sembra alludere al RVF 296.7-8: “stame al mio laccio, et quello aurato et raro / strale, onde morte piacque oltra nostro uso!”. Nella seconda stanza (verso 408) troviamo un punto interessante che ci mostra nuovamente come funzionasse la mente di Rinuccini. La parola “smeraldi” compare anche qui, dopo essere apparsa nella forma singolare nel monologo di Apollo, al verso 389. Lì, “Non curi la mia pianta o fiamma o gelo” è seguito da un verso apparentemente innocuo: “sian del vivo smeraldo eterni i pregi”. “Smeraldo” compare una sola volta nel RVF, nel 228.4, dove è circondato dai topoi che rappresentano l’essenza stessa della storia di Dafne. Quindi, troviamo “Amor co la man dextra il lato manco/ m’aperse” (1-2), “piantòvi entro in mezzo ’l core / un lauro verde” (2-3) e alla fine “casta bellezza in habito celeste / son le radici de la nobil pianta” (10-11). È come se Rinuccini richiedesse costantemente ai suoi lettori/ascoltatori non solo la consapevolezza di ciò che hanno davanti, ma anche la capacità di seguire la sua versione della storia di Dafne e contemporaneamente di riportare alla mente un insieme di poesie precedenti in cui la storia, anche se mai esplicitamente, rappresenta un elemento vitale. Soltanto due anni circa separano La Dafne dalla successiva creazione poetica di Rinuccini dello stesso genere – L’Euridice. Come ho affermato, la continuità narrativa ne La Dafne non si basa sempre su una chiara successione di causa ed effetto – molti dettagli della narrativa ovidiana sono rimasti inspiegati, e lo stile poetico porta avanti la storia come se fosse una mera successione di episodi. Questa debolezza viene forse superata nell’Euridice e, inoltre, si ha l’impressione che Rinuccini abbia modificato il suo metodo di utilizzare prestiti e riferimenti. In primo luogo, il suo repertorio di prestiti si è esteso, e oltre a Petrarca, troviamo Virgilio, Dante, Poliziano e Luigi

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Tansillo. Eppure il legame con Petrarca è ancora più forte rispetto a quello con gli altri autori, quelli nuovi, e, in un certo senso, Rinuccini ha solo modificato le proporzioni degli ingredienti, non il suo modo di pensare. Allusioni e associazioni hanno ancora il loro ruolo. Credo che non sia casuale il fatto che i riferimenti alla lingua petrarchesca aumentino nel punto in cui Orfeo viene avvertito per la prima volta del fatto che qualcosa di terribile sta per essere narrato: “Ah! non sospender più l’alma dubbiosa.” (Eur., 201)14 egli implora la nunzia che sta per raccontare della morte di Euridice, e i versi petrarcheschi della Canzone 125 “Ma come pò s’appaga / l’alma dubbiosa e vaga”, sembrano risuonare nella mente di Rinuccini. Il nome della nunzia nell’Euridice è Dafne, e il fatto che abbia scelto proprio questo nome dà a Rinuccini la possibilità di lanciarsi in una serie di riferimenti incrociati. L’ambiente è silvestre, il che ben si armonizza con il luogo non solo in cui Euridice ha il fatale incontro con il serpente, ma anche in cui Apollo insegue Dafne, con l’effetto di un rifacimento di Petrarca in elegante sottotono: RVF, 125.59-65; 68-74

L’Euridice

Così avestú riposti de’ be’ vestigi sparsi anchor tra’ fiori et l’erba, che la mia vita acerba lagrimando, trovasse ove acquetarsi! Ma come pò s’appaga l’alma dubbiosa et vaga.

ORFEO Ah! non sospender più l’alma dubbiosa.

[…] Qualunque herba o fior colgo credo che nel terreno aggia radice, ov’ella ebbe in costume gir fra le piagge e ’l fiume, et talor farsi un seggio fresco, fiorito et verde.

DAFNE Per quel vago boschetto, ove rigando i fiori lento trascorre il fonte de gli Allori, prendea dolce diletto 205 con le compagne sue la bella sposa. Chi vïoletta o rosa per far ghirlande al crine togliea dal prato e da l’acute spine, e qual posando il fianco 210 sulla fiorita sponda dolce cantava al mormorar de l’onda; ma la bella Euridice movea danzando il piè su ’l verde prato, quando, ria sorte acerba!, 215 angue crudo e spietato, che celato giacea tra’ fiori e l’erba, punsele il piè con sì maligno dente,

14 Nelle versioni musicate da Peri e Caccini, invece di “alma dubbiosa” si legge “alma turbata”.

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Il passo è denso di riferimenti incrociati a Petrarca, presi non solo dalla Canzone 125, fonte che abbiamo già incontrato ne La Dafne, ma anche dai versi: “Alfin vid’io per entro i fiori et l’erba / pensosa ir sí leggiadra et bella donna” della Canzone 323.61-62 e, in modo assai più rivelatore, dal verso 69 della stessa Canzone “punta poi nel tallon d’un picciol angue”15. Almeno in questo punto, possiamo essere certi che la scelta delle parole operata da Rinuccini non è basata semplicemente su Ruscelli, ma su una solida conoscenza dei contesti petrarcheschi, il che permette al lettore di avere diverse direzioni in cui guardare. Agli esempi già citati possiamo aggiungerne un altro, molto importante, “Questa vita terrena è quasi un prato / che ’l serpente tra’ fiori et l’erba giace”, tratto dal Sonetto 99.5-6. È significativo che questa immagine petrarchesca sia poi ripresa da Poliziano nella Fabula di Orfeo, 143-145: Ella fuggiva l’amante Aristeo, ma quando fu sovra la riva giunta, d’un serpente venenoso e reo ch’era fra l’erb’ e’ fior, nel piè fu punta16.

Nella ricerca di influenze principalmente petrarchesche, non dobbiamo ignorare altri canali attraverso cui la lingua e le scelte lessicali del Petrarca possano essere giunte a Rinuccini, anche se solo con la funzione di consolidare le sue stesse scelte, e forse, di rassicurarlo del fatto che stava facendo un buon lavoro. Non sarebbe consigliabile quindi ignorare il topos delle porte dell’inferno e il soggiacente riferimento al mito di Orfeo presente nelle Rime di Tasso, 650.5-10: Misero amante, cui folle vaghezza dà in preda ad un’angelica figura, misero, ch’assai meglio entro a le porte de l’inferno placar potria la morte! Come in bel prato tra’ fioretti e l’erba giace sovente angue maligno ascoso17.

15 Marco Santagata ha già osservato la vicinanza dei versi 61-72 della Canzone 323 alla storia di Orfeo: “nell’ultima visione Laura assume i panni di Euridice: e come il canto di Orfeo non riuscì a strappare Euridice agli inferi, così la poesia di P.[etrarca] si dimostra incapace di salvare Laura dalla morte”. [M. Santagata] F. Petrarca, Canzoniere, p. 1240. 16 Edizione di riferimento: A. Poliziano, Stanze, Orfeo, Rime, a cura di D. Puccini, Milano, Garzanti, 1992. 17 Edizione di riferimento: T. Tasso, Le Rime, a cura di B. Basile, Roma, Salerno, 1994.

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Evidentemente, qui lo stesso Tasso si basava non solo su Petrarca, ma anche sul rifacimento di Poliziano del modello petrarchesco (Orf., 157-162):

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Andar convienmi alle tartaree porte e provar se là giù merzé s’empetra. Forse che svolgeren la dura sorte co’ lacrimosi versi, o dolce cetra; forse ne diverrà pietosa Morte, ché già cantando abbiam mosso una pietra.

Questo esempio non fa che rafforzare la mia tesi per cui le scelte poetiche di Rinuccini si erano ampliate quando scrisse L’Euridice. Un altro aspetto che appare è il suo tentativo di consolidare l’architettura dell’intero poema, dovuto forse alla sua consapevolezza di non essere sempre riuscito a ottenere un buon risultato ne La Dafne, da questo punto di vista18. Ritorniamo ora alla questione che abbiamo trattato in precedenza: ne La Dafne le reminiscenze sono intricate ma raramente sembrano pianificate rispetto alla più ampia struttura del poema. Ne L’Euridice il processo è diversificato. Le brevi allusioni sono rimaste, ma troviamo un’altra strategia metodologica – il ricorso a citazioni letterarie o alla versione riveduta di interi versi. I versi di Tansillo sono alterati più vistosamente, mentre quelli di Petrarca rimangono invariati o leggermente modificati. La presenza di una delle citazioni petrarchesche è stata spesso riconosciuta: il verso 53 nell’Euridice è il nono verso del Sonetto 245: “Non vede un simil par d’amanti il sole”, e sia Peri che Caccini, mettendo questo verso in primo piano musicale attraverso l’uso dell’ensemble, hanno dimostrato di volervi dare un rilievo particolare. A quanto detto possiamo aggiungere un’altra citazione, leggermente riveduta. Dobbiamo tenere presente che Rinuccini ha cambiato il finale tradizionale della storia di Orfeo e vi ha dato un “lieto fine”, in modo che il marito devoto possa riportare la sposa al mondo terreno. Del successo di Orfeo è testimone il pastore Aminta, che ora ha il ruolo di diffondere la buona notizia, ruolo che contrasta con quello tragico della nunzia Dafne. È come se Rinuccini ponesse una particolare attenzione nello strutturare questo punto

18 In un altro mio scritto ho fatto riferimento all’abile ricorso delle reminiscenze mutuate da Tansillo con cui Rinuccini conferisce coerenza e continuità a L’Euridice, attraverso il semplice uso dello stesso riferimento più di una volta, prima all’inizio e poi alla fine del poema. Cfr. B. Bujic, “Figura poetica molto vaga”: Structure and Meaning in Rinuccini’s Euridice, in “Early Music History”, 10 (1991), pp. 44.

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della narrazione. Per l’adattamento musicale di Peri ha aggiunto cinque versi, che non erano presenti nella prima versione stampata del poema, ma che vengono inseriti qui per dirci che il messaggiero Aminta è ora la felice controparte di quella che era stata la tragica Dafne in precedenza – e ce lo dice Aminta stesso:

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Se de tranquilli petti il seren perturbò nuntia dolente, messaggiero ridente la torbida tempesta e i fosch’ orrori ecco disgombro e rassereno i cori19.

Aminta pertanto invita i personaggi, e quindi anche il pubblico, a non soffrire più – tutto andrà bene – e conclude il suo discorso con il verso 3 del Sonetto 212 leggermente modificato, dove il petrarchesco “nuoto per mar che non à fondo o riva”, diventa in Rinuccini “nuota in un mar che non ha riva o fondo” (Eur., 637). Ancora, è possibile che questa citazione non sia casuale, ma dovuta a una allusione al contesto da cui deriva. Nei due versi precedenti di Petrarca leggiamo i versi “Beato in sogno et di languir contento, / d’abbraciar l’ombre et seguir l’aura estiva,” ai quali Rinuccini modifica il registro dandovi, senza reticenza alcuna, un valore positivo: il suo Orfeo ha ben più che “abbraciato l’ombre”. Egli ha fatto in modo che colui che governa l’oscuro mondo degli inferi rompesse le regole da lui stesso stabilite, piegandole letteralmente, proprio come nella speranza espressa e poi esaudita, nei due versi basati su “se non si piega il ciel, mover l’inferno!” di Tansillo (preso a sua volta da Virgilio e Poliziano), che Rinuccini adatta prima in “che mosso ha il ciel, pieghi l’inferno ancora” (Eur. 441) e poi in “mover gli dèi del ciel, piegar l’inferno” (Eur. 766)20. Dal momento che il verso di Tansillo deriva da un sonetto che solo poche righe avanti recita “ombra son io dannata a pianto eterno”, possiamo affermare che il nesso sostanziale sia da ricondurre anche qui al petrarchesco “ombre”, presente nella seconda citazione che Rinuccini fa di Petrarca. Imparando dalla sua prassi di attenta e intensa lettura, Rinuccini trasferisce il modo contestuale e referenziale di percepire un corpus poetico, quello di Petrarca, alla poesia di Tansillo, assicurando quindi coesione interna non solo alla sua narrativa poetica ma anche alle fonti poetiche da cui attinge.

19 Questi versi, probabilmente aggiunti da Rinuccini per il primo allestimento a Firenze, non si trovano nella edizione curata da L. Fassò (cfr. nota 8). 20 Per il sonetto di Tansillo, cfr. L. Tansillo, Il canzoniere edito ed inedito, a cura di E. Pèrcopo, Napoli, Liguori Editore, 1996 (ristampa). vol. 1, pp. 23-24.

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Stilemi petrarcheschi nei libretti delle prime opere in musica

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Ritornando ora a una delle affermazioni che ho fatto all’inizio, non dimentichiamoci che esattamente come il pubblico degli esordi dei drammi per musica difficilmente poteva andare oltre la percezione dell’aspetto letterario del genere drammatico-musicale, così anche gli autori dei primi libretti dovevano necessariamente imparare gli uni dagli altri. Uno dei maestri di Rinuccini fu certamente Petrarca, e quindi Rinuccini e il suo modo di trattare Petrarca sono diventati, successivamente, un modello per La favola d’Orfeo di Alessandro Striggio, assicurando così una forte presenza dei prestiti petrarcheschi nella prima fase del libretto dei drammi per musica. Senza una profonda conoscenza del linguaggio poetico di Petrarca, né le opere di Rinuccini né quelle di Stiggio avrebbero quella profondità letteraria che indubbiamente posseggono.

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Marcello Ciccuto

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PETRARCHISTI AL SERVIZIO DELL’ARTE, PERPLESSI

Nella secolare concorrenza di poesia e pittura la prima – che alza tra sé e il mondo quella barriera distanziante che è l’arbitrarietà del segno – fu da subito in affanno e rincorsa: tra l’uomo e la sua immagine dipinta esistono di fatto parecchi elementi in comune, gusto, tattilità ecc., laddove un abisso insondabile di senso separa l’uomo dal suo nome1. Nel campo della visione, ruolo del pittore nell’età post-gotica è quello di puntare alla bellezza perfetta, alle sue armoniche. Ciò che la poesia sembra non poter conseguire né attraverso la proporzione – che presuppone l’estensione nello spazio – né con l’accordo di più voci – che riguarda appunto la polifonia e non l’univocità significante. Nel caso del ritratto femminile, portato da Leonardo da Vinci sul suolo stesso delle prime discussioni petrarchistiche, sola l’arte pittorica è ritenuta in grado di rivelare all’istante l’armonia perfetta della figura; la poesia la distrugge, invece, obbligata com’è a dettagliare il corpo in più elementi2. Diciamo che il disagio patente dei poeti è tipico e comune a chi cerca di recuperare terreno: significa in altri termini tentare di abbracciare, nel caso, la totalità della figura femminile, ripetendone all’infinito la nominazione delle sue parti; o anche, scendendo a patti col nemico, imitando quelle opere (di pittura, di scultura…) che questo modello hanno di fatto realizzato. Il 1 Cfr. su questo l’ampia prospettiva tracciata in F. Lecercle, La Chimère de Zeuxis. Portrait poétique et portrait peint en France et en Italie à la Renaissance, Tübingen, Gunter Narr Verlag, 1987, pp. 36 sgg. 2 Ivi, pp. 51 sgg.

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Marcello Ciccuto

ritratto sarà certo e allora il nuovo, anzi il rinnovato luogo strategico del confronto3; l’ut pictura poësis porrà alla lirica, alle sue parole la condizione di diventare poliforme come solo il segno pittorico sa. Di qui, come è ovvio, l’ingresso della figura dell’artista nel recinto dell’esercizio poetico4; di qui, altrettanto ovvio, il ritorno ad alcuni fondamenti della discussione che Petrarca aveva a suo tempo avuto il merito di sbozzare e insieme definire. Mi riferisco non tanto ai molti luoghi suoi di impegno critico sulle arti e le figure (specie i luoghi teoricamente spessi del De remediis utriusque fortunae)5, quanto piuttosto ai trascurati sonetti LXXVII-LXXVIII dei Rerum vulgarium fragmenta. Pochi cenni allora a riguardo. Lo storico dell’arte Giovanni Paccagnini si provò a dare una risposta agli interrogativi subito sorti da quei testi, affermando che la bellezza delle immagini di Simone altro non sarebbe che proprio la bellezza pura, armonica e per niente realistica dell’arte sua, alla quale l’artista arriverebbe non con immediato e diretto rapporto di conoscenza con l’oggetto della sua pittura, bensì solo per via di contemplazione nel paradiso della memoria poetica6. In verità, oltre ad affermare nell’insieme la trascendenza dell’ispirazione (quindi della creazione) artistica, Petrarca mostrava di insistere con evidenza su questioni che gli stavano a cuore entro il quadro dei rapporti coi segni figurati, e cioè: 1) il pittore ha visto Laura in paradiso senza il velo delle membra corporee, elevandosi insomma sopra le apparenze; 2) il carattere eccelso e leggermente blasfemo della sua operazione viene sfumato nel sonetto LXXVIII dalla certezza secondo cui Simone, pur avendo avuto un’ispirazione divina e contemplata la bellezza con l’occhio dell’anima o della mente, non ha potuto dar vita all’inanimato, dar voce alla figura come Pigmalione ebbe in sorte da Venere di fare7. È un dato di 3 Come è dato ricavare da alcuni recenti studi in argomento, specie quelli raccolti nel volume Le metamorfosi del ritratto, a cura di R. Zorzi, Firenze, Olschki, 2002, e nella rivista “Letteratura & Arte”, I (2003). 4 Alcune tracce di questo secolare processo di appressamento dell’artista agli spazi operativi del letterario e della scrittura si possono reperire nei saggi di M. Ciccuto contenuti nei volumi L’immagine del testo. Episodi di cultura figurativa nella letteratura italiana, Roma, Bonacci, 1990; Icone della parola. Immagine e scrittura nella letteratura delle origini, Modena, Mucchi, 1995; Figure d’artista. La nascita delle immagini alle origini della letteratura, Firenze, Cadmo, 2002. 5 Un quadro pressoché completo di questo esteso versante riflessivo dell’estetica petrarchesca si può trovare in M. Ciccuto, Petrarca e le arti. L’occhio della mente tra i segni del mondo, in “Quaderns d’Italià”, 10 (2005), in c. s. 6 Vd. i materiali bibliografici e argomentativi raccolti in M. Ciccuto, Figure di Petrarca (Giotto, Simone Martini, Franco bolognese), Napoli, Federico & Ardia, 1991, pp. 81 sgg. 7 Ivi, p. 83, n. 16, e quel che viene dagli studi sulla figura di Pigmalione scultore in B. Eschenburg, Pygmalions Werkstatt, Köln, Wienand Verlag, 2001 (con bibliografia aggiornata).

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Petrarchisti al servizio dell’arte, perplessi

fondo dell’estetica petrarchesca, travestito peraltro nell’opposizione fra Policleto e il Martini medesimo, e che coincide insomma col problema del rapporto tra res e signa 8. Sulla scia di Agostino, Petrarca ha avuto più volte parole di condanna per il principio mimetico che regola la creazione artistica, figurativa, essendo per lui le immagini pure icone prive di contenuti simbolici (illecebrae oculorum persino le rovine e i reperti archeologici romani quando non connessi a profonde motivazioni), legate specialmente a quella cupiditas videndi che ha per oggetto la realtà sensibile, al cui superamento è dedicato come è noto nucleo rilevantissimo della familiare II, 9 (del 1353), a Dionigi da Borgo San Sepolcro (è la cupiditas che regge come è noto la concupiscentia oculorum di Confessiones X. 34: il semplice guardare le apparenze sensibili che avviene a spese del creatore invisibile, degli alti concetti infusi nel reale sotto forma di spessori allegorici e morali che solo la rinuncia alla vista materiale in nome di più autentica inspectio può addurre ai sensi umani: qui è materia del rinunciare al concretamente visibile, a ciò che è immediatamente disponibile ai sensi)9. Nell’attacco agostiniano alla curiositas videndi è specificato il passaggio dal respicere all’inspicere, dalle arti della pura visibilità querentes extrinsecus quod intus inveniri poterant, alle più alte funzioni espressive dell’idealità spirituale (sarà ancora la funzione riproduttivo-mimetica delle arti figurative e degli artisti a risultare vincolata ai processi di significazione ‘carnale’ stigmatizzati di nuovo dal retore Agostino in De doctrina christiana III. 5, per via della loro ricercata coerenza fra segno e cosa, dell’incapacità – a dirla tutta – a superare l’aspetto corporeo del segno, la intentio sequendi litteram che rende inabili alle spirituali letture della realtà stessa). Ciò che allora Petrarca dichiarò qui di voler riacquistare, grazie alla mediazione-modello dell’artista senese e in cosciente intento di trasmissione del concetto alle generazioni successive, fu il valore più autentico del segno, quello che è parte di un sistema di relazioni, capace di indicare qualcosa di assente e di nascosto, di intelligibile al di là della percezione sensibile e quindi della pura apparenza10. Ne venne il bisogno di un’enciclopedia esegetica per far sì che i significati di un testo, e di una parola, venissero correttamente interpretati come segni piuttosto che come cose: quindi l’invito all’uso dei signa translata, processo di perenne deviazione 8

M. Ciccuto, Figure di Petrarca, cit., pp. 83-6. Ai sussidi bibliografici reperibili ivi, pp. 86-8, si veda almeno J.-M. Fontanier, La beauté selon saint Augustin, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 1998, e la prospettiva di studio fondata da S. Vecchio, Le parole come segni. Introduzione alla linguistica agostiniana, Palermo, Novecento, 1994. 10 M. Ciccuto, Figure di Petrarca, cit., pp. 86-7. 9

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tropica dal letterale mediante semiosi illimitata o supplemento interpretativo. È in gioco tutto quello che consentirà al poeta di allontanarsi, sull’esempio del pittore, dalla testualità semplice dei signa propria, dalla loro corporea materialità esibita ad esempio in statue e pitture, al fine di attingere anche in esse ciò che praeter se aliquid animo ostendit: l’alto concetto, direi, ricollegandomi ai sonetti di partenza del discorso11. Sarà allora e in seguito la comparsa del ritratto dipinto a rovesciare integralmente le abitudini descrittive anche dei poeti: la descrizione del personaggio, strumento tradizionale della letteratura narrativa, si libera di qualsivoglia contesto e rappresenta l’individuo12; al pari della figura dipinta (che non ha più necessità di appoggiarsi alla narrazione religioso-agiografica), la descrizione del personaggio si dispensa della giustificazione narrativa e dei suoi orpelli e delle sue apparenze. Attinge dunque la sostanza, risolvendo l’antica opposizione già boccacciana e petrarchesca, appunto, nel prendere a modello l’operare degli artisti che, preceduti da Simone Martini, in paradiso avevano da tempo piantato le tende ovverossia impiegato le risorse dell’occhio della mente13. A questa altezza, comunque non meglio precisabile, si potrebbe persino avvertire del fatto che l’aneddoto di Zeusi a Crotone, che mette assieme, assembla le fattezze di Elena rottamando pezzi di altre bellezze, finisce per non essere più o non soltanto l’emblema della dispositio retorica, quanto piuttosto allegoria integrale della pittura, ora spogliata del peso delle apparenze14; per quanto, anche questo va detto preliminarmente, si dovessero ancora fare i conti con una tradizione forte e tutto sommato alternativa a quella appena accennata qui: la tradizione teologica del ritratto simbolico di Dio, legata alla fortuna del De coelesti hierarchia di Dionigi Areopagita, dell’Isagogé in Sacras Scripturas di Adriano e della Difesa delle

11

Ibid. In particolare si potrà vedere attorno a questa specifica evoluzione M. Pozzi, Teoria e fenomenologia della “descriptio” nel Cinquecento italiano, in “Giornale storico della letteratura italiana”, CLVII, 498 (1980), pp. 161-79; M. Koos, Petrarkistische Theorie oder künstlerische Praxis? Zur Malerei des Giorgionismo im Spiegel des lyrischen Männerporträts, in Der stumme Diskurs der Bilder. Reflexionsformen des Ästhetischen in der Kunst der Frühen Neuzeit, herausgegeben von V. von Rosen, K. Krüger, R. Preimesberger, München-Berlin, Deutscher Kunstverlag, 2003, pp. 53-84; e M. Ciccuto, Biografie ‘dipinte’. I ritratti dei letterati nella cultura umanistica, in “Letteratura & Arte”, I (2003), pp. 185-202. 13 Cfr. M. Ciccuto, La figura dell’artista moderno nella novellistica antica, in Id., Figure d’artista, cit., pp. 57 sgg. 14 J. Heffernan, Alberti on Apelles: Word and Image in De Pictura, in “International Journal of the Classical Tradition”, II, 3 (1996), pp. 348 sgg. 12

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immagini di Giovanni Damasceno; il versante insomma dei valori devoti e delle sostanze spirituali, come dire, aggrappati alla rappresentazione arcaica del corpo e delle forme in genere. Per adesso tuttavia conta rilevare come entro le coordinate di fondazione petrarchesca si sviluppi una tradizione rappresentativa che non è solo di linea ritrattistica: essa va a fare tutt’uno con la storia stessa delle testimonianze letterarie relative agli artisti, come dire i modelli operativi dei letterati-poeti15. Qui la diga del rispetto dell’uditorio minaccerebbe subito di cedere sotto il peso della massa di esempi e di dati e di episodi: fra Lancino Curzio a proposito di Giovanni Antonio Boltraffio e Cristoforo Solari e il Leonardo sforzesco del cavallo, che sosta ispirato davanti alla tomba polimaterica di Ambrogio Grifi del Briosco, in San Pietro in Gessate, e che quindi prende parte alla celebrazione sovraregionale – intervenne, lo sapete tutti, anche il Tebaldeo – del busto in marmo di Beatrice de Notariis, la ragazza amata da Ambrogio Leone nolano, scolpito, a Napoli, da Tommaso Malvito16; e poi Bernardo Bellincioni su Leonardo e Caradosso, il Pistoia e Gaspare Visconti. Straordinari gli epigrammi d’amore di Piattino Piatti (basterebbero, ma sono una legione, quelli per l’effigie della donna amata dal bolognese Jacopo dal Gambaro)17, e il dossier nutrito per il Giambellino o per Mantegna18; o ancora il caso a sé di Girolamo Casio Pandolfi, autentica enciclopedia del genere19, per avvicinarsi poi al capitolo delle epigrafi destinate a opere d’arte

15 Su questo aspetto, in mezzo a una bibliografia oggi sterminata, posso soltanto rinviare a quanto indicato nelle note 12 e sgg. del saggio di M. Ciccuto, Biografie ‘dipinte’, cit., nonché al quadro generale steso dai contributi raccolti da U. Pfisterer – M. Seidel, Visuelle Topoi. Erfindung und tradiertes Wissen in den Künsten der italienischen Renaissance, München-Berlin, Deutscher Kunstverlag, 2003, e nel volume Ars et scriptura. Festschrift für Rudolf Preimesberger zum 65. Geburtstag, herausgegeben von H. Baader, U. Müller Hofstede, K. Patz, N. Suthor, Berlin, Gebr. Mann Verlag, 2001. 16 Per molti degli esempi qui trattati si veda il saggio accuratissimo di G. Agosti, Scrittori che parlano di artisti, tra Quattro e Cinquecento in Lombardia, in Quattro pezzi lombardi (per Maria Teresa Binaghi), Brescia, Edizioni L’Obliquo, 1998, pp. 39-93. 17 Ivi, p. 63 e n. 63. 18 Anche nel caso di Giovanni Bellini e della sua fama “poetica” è necessario sintetizzare la vastità dei riferimenti bibliografici entro il solo, recente studio di G. Agosti, Un amore di Giovanni Bellini, in Ad Alessandro Conti 1946-1994, a cura di F. Caglioti, M. Fileti Mazza, U. Parrini, Pisa, Scuola Normale Superiore, 1996, pp. 45-83. Mentre per Mantegna si può consultare la rassegna edita in più puntate dallo stesso Agosti, col titolo Su Mantegna, a cominciare da “Prospettiva”, 71 (1993), sino al fascicolo 85 (1997) della stessa rivista. 19 D’obbligo in questo caso il riferimento a C. Franzoni, Le raccolte del “theatro” di Ombrone e il viaggio in Oriente del pittore: le Epistole di Giovanni Filoteo Achillini, in “Rivista di letteratura italiana”, VIII, 2 (1990), pp. 303-305.

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Marcello Ciccuto

(Francesco Filelfo, Porcellio, Andrea Alciati, il novarese Paolo Taegio e, intervallata, la lettera di questi a Giovan Jacopo Caccia “dell’amicitia c’ha la pittura con la poesia”)20; quindi Zoroastro da Peretola, di fortuna altresì novellistica, e il nolano Ambrogio Leone, il Domenichi, giù fino a Pomponio Gaurico o agli epigrammi di Panfilo Sassi e al Rurale di Ascanio Botta e a Niccolò dell’Arco, più naturalmente Ombrone da Fossombrone e il catalogo dei pittori di Ortensio Lando…21. Antonio Tebaldeo ha come sappiamo una ricchissima gamma di rapporti su questo versante, fra Gerolamo Mondella più e più volte convocato a fare da alter ego del poeta, ai testi in lode del ritratto leonardesco di Lucrezia Crivelli, amante di Ludovico il Moro; ai luoghi ecfrastici per eccellenza coinvolgenti la statua del Laocoonte e la testa di Medusa o, in fine, col recupero del registro epigrafico (storico per il genere ecfrastico)22, il distico dell’iscrizione posta sulla tomba di Raffaello al Pantheon. Ma di grande importanza sarebbe lo studio di questa produzione di alcuni insiemi direzionati che si deve alla penna di Evangelista Maddaleni Capodiferro (capace di orbitare anche intorno a una posizione blasfema, là dove viene considerando il miracolo artistico più stupefacente di quello dell’avventura terrena di Cristo)23, o di Hieronymus Angerianus, che reimpiegano addirittura, in pieno spirito antiquario, testi altrui di desunzione artistica in una sorta di “composta archeologica”; a non dire dell’intera simbologia legata ai temi tutti petrarchistici dello specchio, del fuoco e del ritratto parlante…24. Persino Dio viene coinvolto nella deceptio, a dire di Francesco Modesti25. E Bembo e Castiglione e Valeriano, e Francesco Franchini e Giovan Francesco Anisio per un ritratto di Giovanna d’Aragona, quindi Liburnio, Flaminio e Sadoleto, Blosio Palladio e il bresciano, interessantissimo Fausto Sabeo, Colocci e Carteromaco26. Estendendoci altrove, vengono in frotta personaggi di rilievo nel settore, come Bartolomeo Leonico Tomeo, detto Fusco, fratello del più noto 20

G. Agosti, Scrittori che parlano, cit., p. 67, n. 82. Ivi, pp. 85-90. 22 Per alcuni di questi luoghi e situazioni si veda F. Pellegrino, Elaborazioni di alcuni principali topoi artistici nei Coryciana, in U. Pfisterer – M. Seidel, Visuelle Topoi, cit., pp. 231-233. Quanto ai fondamenti epigrafici dell’ecfrasis basterà rinviare a qualche cenno in M. Ciccuto, Properzio e Valla per due tavole di Giovanni Bellini, in Hommages à Carl Deroux, édités par P. Defosse, V, Christianisme et Moyen Age néo-latin et survivance de la latinité, Bruxelles, Éditions Latomus, 2003, pp. 328-333. 23 F. Pellegrino, Elaborazioni, cit., p. 246. 24 Ivi, pp. 233-234. 25 Ivi, p. 250, n. 36. 26 Ivi, pp. 238-239. 21

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Niccolò27, capace di far risaltare addirittura la funzione della committenza (come è del caso di Aurelio Brandolini nel suo De laudibus Sixti quarti, oppure di Giovani Santi per Laurana, quando scrive: “E l’architetto a tutti gli altri sopra / Fu Lutian Laurana, uomo excelente / che ’l nome vive benché morte el cuopra / qual, cum l’ingegno altissimo e possente / guidava l’opre col parer del Conte”)28; passeremmo attraverso gli interessi antiquari di Giovanni Testa Cillenio, sino alla citazione di quel Ludovico Corradini che fu con ogni probabilità il fornitore, nel 1474, delle celebri mattonelle in maiolica per Schifanoia 29, e approderemmo nientemeno che a Raffaele Zovenzoni colla possente sua Istrias30. A voler tenere sotto tiro l’orizzonte petrarchistico, non è possibile fare di più nello spazio di una relazione, rispetto alla scelta indicativa di alcune delle complesse relazioni concettuali, quel repertorio topico ristretto che non può non partire dall’accenno al rapporto arte/natura capace di regolare parecchi di questi prodotti poetici e non, ma specialmente poetici intendo. Canonici i termini in forza dei quali l’arte è detta imitare la natura o, tramite le strettoie del genere panegirico, l’arte sia assunta a modello per la natura: si dà persino il caso di una opposizione agonistica31. La tematica del rapporto fra arte e natura trova frequente espressione indiretta nella ipotesi secondo la quale la rappresentazione figurativa sia identica all’oggetto reale che essa rappresenta (alcuni componimenti di Girolamo da Pacina mettono proprio in scena il contrasto tra l’intelletto razionale e il senso della vista, vittima dell’illusione)32. Allo scopo di rafforzare quella componente residua che abbiamo provvisoriamente definito di ‘spirito divino’ viene allora la situazione poetica assai comune, costituita dall’esigenza di interpretare l’immagine come se si trattasse dell’oggetto reale effettivamente presente dinanzi allo spettatore: nei Coryciana ad esempio questa presenza si trova accostata come epifania del divino, tuttavia per grazia ricevuta dallo zelo devoto del committente (anche nella variante della discesa dal cielo, o dell’evocazione)33. Talvolta è presen-

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G. Agosti, Un amore, cit., pp. 48-49. Cfr. L. Patetta, La celebrazione degli artisti e degli architetti negli scritti poetici e letterari del Rinascimento, in Lettere e arti nel Rinascimento. Atti del X Convegno internazionale (Chianciano-Pienza 20-23 luglio 1998), a cura di L. Secchi Tarugi, Firenze, Franco Cesati Editore, 2000, p. 611. 29 G. Agosti, Un amore, cit., pp. 57-58. 30 Ivi, pp. 58-59, nonché M. Ciccuto, Biografie ‘dipinte’, cit., p. 198. 31 F. Pellegrino, Elaborazioni, cit., p. 219. 32 Ivi, p. 220. 33 Ivi, p. 221. 28

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za pura e semplice dello spirito divino all’interno della scultura: salta così agli occhi il trito luogo comune, qui attivato, della funzione mediatrice del simulacro della divinità nei rapporti tra fedele e Dio (da cui deriveranno allora anche le statue animate di un petrarchista sui generis quale fu Enea Silvio Piccolomini)34; quindi la facoltà di conferire vita all’opera d’arte, in parecchie occasioni riferita all’artista-creatore (è il caso pressoché esemplare di Paolo Cerrato). Il riferimento ai miti classici riconducibili al concetto di creazione/creatività umana o artistica in special modo (con tangenze più che evidenti col topos del Divino Artefice, per cui ecco sfilare Prometeo, Deucalione, Pigmalione, Medusa e lo sguardo ecc.) serve a sua volta a qualificare una rappresentazione superiore a quella di chi semplicemente fa ‘pittura di storia’, quasi si trattasse di una superiore vitalità infusa. Ma fitta è anche la casistica del rilievo di carenze dell’opera d’arte in quanto tale rispetto all’oggetto reale (mancanza del respiro o della facoltà di parola; il contrasto, spesso insistito tra la fredda durezza del marmo e la tiepida tenerezza della carne umana, o la superficialità, già di condanna agostiniana – per quanto alcune volte si dia il caso di una scelta del limite sonoro consapevole da parte dell’artista, col sottinteso che sarebbe stato perfettamente in suo potere conferire quella facoltà alle sue statue)35. Se il nucleo concettuale basilare di questa produzione è la connessione fra arte e vita sempre più accostata dagli artisti e, sembra, sempre meno dai letterati, non possiamo passare sotto silenzio il collegato paradigma critico che consiste nel paragone tra antichi e moderni: questo può risolversi in equiparazione del moderno all’antico, tramite 1) la cosiddetta antonomasia sostitutiva, per cui l’artista viene celebrato come l’equivalente moderno di un celebre artista antico, Prassitele nostro, la mano fidiaca ecc.36; 2) il cosiddetto anacronismo retrospettivo, equivalente spesso alla proiezione dell’artefice moderno nel passato remoto come rivale dei più celebrati artisti dell’antichità. C’è posto allora in questo per una rivendicazione – persino aggressiva se leggiamo Gaspare Bernhardi – della superiorità del moderno in una col richiamo a un ruolo di superiore valenza per il letterato. Perché in fondo è sempre più graduale l’incidenza del commento critico all’opera d’arte e di promozione pubblicistica di essa sul gusto e quindi sui canoni estetici della stessa produzione artistica: nel campo della produzione

34 Rinvio per questo al mio studio Luoghi della cultura figurativa nelle opere di Enea Silvio Piccolomini, in corso di stampa nel volume di Atti del convegno di Roma, 2004. 35 F. Pellegrino, Elaborazioni, cit., pp. 224-225. 36 Ivi, p. 226.

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Petrarchisti al servizio dell’arte, perplessi

artistica vengono ricercati, dentro la fattura stessa dell’opera, proprio quegli effetti spettacolari, caricati, di estrema forza illusiva già compiutamente sviluppati dalla letteratura ecfrastica; sì che a un certo punto il topos poetico risulterà perfettamente aderente all’opera cui si riferisce per l’occasione panegiristica (basti ricordare l’insistenza sul tema del movimento nelle liriche dedicate alla Veronica Vaticana da un Francesco Mochi). Facile arrivare al gusto fatale per le epigrafi postume (eminente tra tutte quella per Masaccio dettata da Annibal Caro: “Pinsi, e la mia pittura al ver fu pari; / l’atteggiai, l’avvivai, le diedi il moto, / le diedi affetto; insegni il Buonarroto / a tutti gli altri, e da me solo impari”)37, che raccoglie molti dei luoghi comuni citati, rilanciandoli – o facendoli retrocedere – di nuovo verso il confronto/scontro fra maestri; o al culto della superficialità esibita (la dedica di Angelo Galli al mosaicista Andrea Tafi, “Qui giace Andrea, ch’opre leggiadre e belle / fece in tutta Toscana, et ora è ito / a far vago lo regno delle stelle”). Forse si potrà approdare, attraverso l’esempio dei sonetti di Bramante o della produzione panegiristica su Andrea Mantegna, così ben indagata da Giovanni Agosti, al Simia del salernitano Andrea Guarna, del 151738, il quale, colto al volo il referente petrarchesco messo a testo anche dall’epitaffio dettato da Girolamo Casio (“Lo architetto Bramante in Milan nacque / servì la patria in fin che visse il Moro / con Giulio in Roma crebbe fama e oro / lassò qui il vel, là in ciel l’alma rinacque”), ci fa intuire una ri-progettazione per mano umana nientemeno che del paradiso. Qui compiuta l’ascesa del letterato verso il cielo (Ariosto definì nel frattempo Michelangelo, nel XXXIII dell’Orlando furioso, “più che mortal angel divino”), nella sua pura funzione di esaltatore/commentatore. In attesa di Benvenuto Cellini a chiudere il cerchio, nel sonetto dove sosteneva di avere avuto una visione di sé stesso con la testa cinta da un’aureola (per aver superato gli antichi), terminando: “io scrivo / per ringraziar lo Dio della Natura / che mi dié l’alma e poi ne ha auto cura / alle diverse imprese ho fatto e’ vivo. / Quel mio crudel destin d’offes’ha privo / vita hor gloria e virtù più che misura / gratia valor beltà, cotal figura / che molti io passo e chi mi passa arrivo” 39. Come dire, fine della rincorsa.

37

L. Patetta, La celebrazione degli artisti, cit., p. 609. Ivi, p. 617. 39 Ivi, p. 624. 38

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IL LUGAR DI GARCILASO*

Nelle considerazioni che seguono, ho deciso di astenermi da ogni sorta di preambolo, limitandomi alla sola dichiarazione preliminare che, attraverso un episodio ben circoscritto e commisurato alle esigenze di spazio, intendo mostrare quanto complesso e problematico possa rivelarsi il rapporto tra la poesia di Garcilaso de la Vega, l’inventore geniale del moderno linguaggio lirico spagnolo, e il testo del Canzoniere petrarchesco. Il caso che sottoporrò all’attenzione del lettore costituisce una delle più straordinarie realizzazioni di un tema classico della lirica romanza, divenuto

* Per il titolo della versione scritta, confesso di essere debitore a Francisco Rico che me lo suggerì in sostituzione di quello assai più convenzionale con cui il contributo fu presentato oralmente: Garcilaso petrarchista, che per il suo carattere generico, se non addirittura superficiale, rischiava, contro la volontà di chi scrive, di offrire un’immagine del geniale toledano alla stregua della moltitudine di rimatori cinquecenteschi che, dentro e fuori della nostra penisola, si sforzarono di produrre versi sull’esempio degli imitatissimi fragmenta. Suppongo che fosse del tutto estranea al mio suggeritore, che qui ringrazio pubblicamente, l’intenzione di parafrasare il titolo di un noto saggio heideggeriano sul poeta tedesco Georg Trakl, Eine Erörterung seines Gedichtes, che il traduttore italiano ha reso con Il luogo del poema di Georg Trakl. La coincidenza dovrà, dunque, ritenersi puramente casuale, dal momento che il filosofo, a commento di un bel componimento del poeta austriaco (Sebastian im Traum), giocava con i significati di er e Ort, come luogo d’origine dell’ “anima [umana] straniera sulla terra”, ed Erörterung, come discussione della medesima poesia di Trakl; mentre, nel contesto del discorso che qui si è inteso sviluppare, un equivalente gioco linguistico sfrutta il doppio senso del termine lugar che, come si vedrà, è sia il luogo fisico immaginario a cui fa riferimento l’enunciato poetico, sia il luogo simbolico che Garcilaso, in quanto soggetto dell’enunciazione, occupa all’interno della tradizione poetica.

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tale a partire almeno dalla Vita nuova: il ricongiungimento, o meglio, il desiderio di ricongiungersi all’amata morta. Nel caso specifico di Garcilaso, il riferimento è alla celebre penultima strofa della prima delle tre egloghe da lui composte, dove i due pastori, Salicio e Nemoroso, si prodigano in un canto amebeo nel corso del quale al lamento di Salicio per il disdegno di Galatea fa seguito il pianto di Nemoroso per la morte di Elisa. Ed è con l’invocazione di Elisa nella menzionata strofa che Nemoroso conclude il suo monologo, dando voce all’ardente desiderio di unirsi presto all’amata: Divina Elisa, pues agora el cielo con inmortales pies pisas y mides, y su mudanza ves, estando queda ¿por qué de mí te olvidas y no pides que se apresure el tiempo en que este velo rompa del cuerpo y verme libre pueda, y en la tercera rueda, contigo mano a mano, busquemos otro llano, busquemos otros montes y otros ríos, otros valles floridos y sombríos donde descanse y siempre pueda verte ante los ojos míos, sin miedo y sobresalto de perderte?1

Vale senz’altro la pena di rileggere i versi spagnoli nella splendida traduzione che dell’insieme delle egloghe garcilasiane ci ha offerto Mario Di Pinto qualche anno fa: Divina Elisa, giacché ora il cielo calchi e misuri con piedi immortali, e stando ferma vedi il suo mutare: perché di me ti scordi e non impetri che s’avvicini il tempo in cui si rompa questo velo del corpo ed io sia libero e nella terza ruota tenendoci per mano cerchiamo un altro piano altri monti cerchiamo ed altri fiumi,

1 Garcilaso de la Vega, Obra poética y textos en prosa, a cura di B. Morros, con uno studio preliminare di R. Lapesa, Barcelona, Crítica, 1995, pp. 138-39.

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altre valli fiorite e piene d’ombra dov’io riposi e possa contemplarti sempre dinanzi agli occhi senza paura a perderti di colpo2.

Confesso di essermi già occupato di questa strofa in un precedente lavoro, anch’esso di qualche anno fa, e di essermi cimentato in una lettura di essa che, prescindendo sostanzialmente dai legami con la tradizione, privilegiava invece i rapporti interni all’egloga mediante la ricostruzione di un microsistema di quattro strofe – due attribuibili al canto di Salicio e due a quello di Nemoroso –, nelle quali il topos del locus amoenus risultava scandagliato nella doppia prospettiva temporale del passato e del futuro, a partire dalla dolorosa condizione presente, anch’essa duplice, di chi ha perso l’oggetto d’amore per il disdegno o per la morte di esso3. Favorito dall’occasione che mi offre l’incontro per il quale sono state redatte le presenti note, vorrei percorrere ora il cammino complementare tentando – limitatamente all’ultima delle quattro strofe – di tracciare e precisare i nessi che essa intrattiene con la tradizione, in particolare con quella petrarchesca. Senz’altro indugio, allora, dirò che i più autorevoli commentatori antichi di Garcilaso, vale a dire il professore di retorica salmantino Sánchez de las

2 Garcilaso de la Vega, Le egloghe, a cura di M. Di Pinto, Torino, Einaudi, 1992, pp. 25-27. 3 A. Gargano, “Questo nostro caduco et fragil bene”. Forme e significati del “locus amoenus” nell’Egloga I di Garcilaso, in Signoria di parole. Studi offerti a Mario Di Pinto, a cura di G. Calabrò, Napoli, Liguori, 1998, pp. 283-98. L’apostrofe a Elisa dell’ultima stanza del canto di Nemoroso è stata oggetto d’attenzione da parte di numerosi studiosi che si sono occupati dell’egloga; oltre agli studi citati nelle successive note 4, 14, 26, qui mi limito a segnalare: H. Keniston, Garcilaso de la Vega. A Critical Study of his Life and Works, New York, Hispanic Society of America, 1922, pp. 202-203; M. Arce de Vázquez, Garcilaso de la Vega. Contribución al estudio de la lírica española del siglo XVI (1930), Puerto Rico, Universidad de Puerto Rico, 1975, 4ª ed., pp. 95-96; Ead., La egloga primera de Garcilaso, in “La Torre”, 1(1953), n° 2, pp. 31-68, in part. le pp. 52-54; P. Salinas, La realidad y el poeta (1940), in Id., Ensayos completos, a cura di S. Salinas de Marichal, Madrid, Taurus, 1983, vol. I, pp. 238-240; E. Orozco Díaz, De lo humano a lo divino: del paisaje de Garcilaso al de S. Juan de la Cruz, in “Revista de la Universidad de Oviedo”, 6 (1945), pp. 99-123, in part. 117; R. Ter Horst, Time and the Tactics of Suspense in Garcilaso’s Égloga primera, in “Modern Language Notes”, 83(1968), pp. 145-63, in part. p. 162; A. J. Cruz, Imitación y transformación. El petrarquismo en la poesía de Boscán y Garcilaso de la Vega, Amsterdam-Philadelphia, John Benjamins Publishing Company, 1988, p. 105; G. Güntert, Garcilaso, Égloga primera: la adopción de la distancia estética, in Actas del X Congreso de la Asociación Internacional de Hispanistas (Barcelona, 21-26 de agosto de 1989), Barcelona, PPU, 1992, t. I, pp. 443-55, in part. le pp. 451-52.

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Brozas, nel 1574, e il celebre poeta Fernando de Herrera, nel 1580, posero l’attenzione sulla topografia ultramondana “con artificio retorico iterativoalternativo”, presente nella parte centrale della strofa garcilasiana, e finirono col concordare nel segnalare alcuni versi della quinta egloga dell’Arcadia del Sannazaro, l’elegia funebre che Ergasto intona sulla sepoltura di un altro pastore, Androgeo. Estenderò la citazione dei versi all’incipit dell’egloga italiana, perché mi sembra evidente che anch’essi siano coinvolti dalla ripresa che ne opera Garcilaso: Alma beata e bella che da’ legami sciolta nuda salisti nei superni chiostri, ove con la tua stella ti godi insieme accolta […] e coi vestigi santi calchi le stelle erranti, […] altri monti, altri piani, altri boschetti e rivi vedi nel cielo, e più novelli fiori; altri fauni e silvani per luoghi dolci estivi seguir le ninfe in più felici amori4 (vv. 1-5, 9-10, 14-19) 4 J. Sannazaro, Arcadia, a cura di F. Erspamer, Milano, Mursia, 1990, pp. 102-103. L’espressione “artificio retorico iterativo-alternativo” è presa a prestito da M. P. Manero Sorolla, Otro llano, otros montes y otros ríos: en torno a un artificio, una fuente y una fórmula literaria, in “Anuario de Filología” (Barcelona), 2(1976), pp. 349-78, che, a partire dai versi garcilasiani, osserva: “existe en torno a este pasaje un origen a esclarecer y una fortuna a rastrear” (p. 356) e, a proposito dell’origine, conclude che “es evidente que, de manera muy principal [Garcilaso] estuvo determinado por tres [textos]: los de Sannazaro, Ariosto [Orlando Furioso, 34.70] y Petrarca [RVF 142]” (p. 364). Per quel che riguarda gli antichi commentatori della poesia di Garcilaso, a proposito della segnalazione della fonte sannazariana, cfr., per il Brocense, A. Gallego Morell, Garcilaso de la Vega y sus comentaristas, Madrid, Gredos, 1972, p. 285 (B-130) e, per F. de Herrera, Anotaciones a la poesía de Garcilaso, a cura di I. Pepe e J. M. Reyes, Madrid, Cátedra, 2001, pp. 737-38. Il più recente editore della poesia di Garcilaso, sulle fonti della strofa, ha così sintetizzato le indicazioni dei commentatori antichi e moderni che lo hanno preceduto: “La visión de la amada en el mundo de los bienaventurados, con antecedentes en Virgilio (Bucólicas, V), parece combinar aspectos de Petrarca, Canzoniere, CCCII, 1-8 […] y Sannazaro, Arcadia, V, 9-10 y 14.16 […], mezclados con otros de Bembo, I, 7-10” (ed. cit., p. 139 n. 407). Per Bembo,

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Non c’è dubbio che il toledano, nel comporre l’ultima strofa del lamento di Nemoroso, ebbe ben presente i versi di Sannazaro ovvero del poeta che – a giudizio di Lapesa – “de la actualidad italiana […] más influyó sobre Garcilaso”5. L’iniziale invocazione dell’anima beata; l’immagine virgiliana relativa a un altro pastore morto, “sub pedibusque videt nubes et sidera Daphnis” (Bucol. V. 57), ripresa attraverso l’egloga sannazariana con la sostituzione di videt con calchi che poi ritroviamo nel verbo pisas del testo spagnolo; ancora, e soprattutto, i versi che maggiormente attrassero l’attenzione dei menzionati commentatori antichi, quella topografia ultramondana con l’artificio retorico iterativo-alternativo, i cui componenti coincidono pressoché alla lettera nei due testi; il riferimento, infine, alla sede celeste dove l’anima beata è allocata, che – nei due settenari del Sannazaro, almeno – sembra chiaramente alludere alla tesi sostenuta da Platone nel Timeo, secondo cui le anime prima di incarnarsi dimorano nelle stelle e a queste fanno ritorno dopo la morte6: sono tutti elementi, quelli che ho appena finito di elencare, che c’inducono ad acconsentire senza riserve al suggerimento dei primi commentatori. Se riserve ci sono, non possono perciò che riguardare un’altra questione: quella dei rispettivi contesti – di Sannazaro e Garcilaso –, nei quali i diversi fattori coincidenti risultano coinvolti. Difatti, alla puntuale ripresa formale fa riscontro una sostanziale divergenza sul piano dei contenuti; una divergenza che acquista pieno significato, se si tiene conto dell’operazione che Garcilaso compie nei confronti del suo modello immediato, i versi di Sannazaro. Nei quali, se si eccetua il fugace accenno ai rinnovati amori

Morros accoglie il suggerimento del Brocense (B-131), che segnala alcuni versi della canzone Donna, de’ cui begli occhi alto diletto, senza tener conto del fatto che “il Bembo stava componendo questa canzone in morte della Morosina quando nel 1539 fu eletto al cardinalato” (P. Bembo, Prose e rime, a cura di C. Dionisotti, Torino, UTET, 1966, 2ª ed., p. 644). La data di composizione della canzone del Bembo esclude perentoriamente che Garcilaso abbia potuto prenderne visione. Per una prima indicazione del sonetto 302 del Canzoniere petrarchesco, cfr. E. Mele, In margine alle poesie di Garcilaso, in “Bulletin Hispanique”, 32(1930), pp. 218-25, in part. p. 222. In relazione “a la invocación a la amada para que acelere con sus ruegos la muerte del pastor”, R. Lapesa ha rimandato a una serie di componimenti petrarcheschi, non tutti di strettissima pertinenza per il testo di Garcilaso; cfr. La trayectoria poética de Garcilaso (1948), in Id., Garcilaso: Estudios completos, Madrid, Istmo, 1985, p. 134 n. 171. 5 Lapesa, La trayectoria poética, cit, p. 88. 6 Nella formulazione di Dante, “la sentenza di Platone”, difatti, “Dice che l’alma a la sua stella riede, / credendo quella quindi esser decisa / quando natura per forma le diede” (Paradiso, a cura di A. M. Chiavacci Leonardi, Milano, Mondadori, 2004, 6ª ed., IV. 5254). La teoria è esposta in Platone, Timeo, 41-42.

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delle divinità silvane dei vv. 17-19: “altri fauni e silvani / per luoghi dolci estivi / seguir le ninfe in più felici amori”, null’altro rimanda al tema amoroso, dal momento che il proposito del poeta – sia detto per inciso – fu quello di combinare l’egloga funebre di stampo virgiliano (la quinta delle Bucoliche) con il linguaggio lirico petrarchesco7. Diversamente, nella strofa di Garcilaso troviamo ripristinato il contesto amoroso del componimento in cui per la prima volta fu usata la topografia ultramondana con l’artificio retorico iterativo-alternativo, che è senz’altro all’origine dei versi centrali della strofa di Sannazaro. Si tratta, naturalmente, del congedo della celebre sestina del Petrarca, Alla dolce ombra de le belle frondi, la cui lettura riprendo dagli ultimi tre endecasillabi della strofa che precede lo stesso congedo: […] ora la vita breve e ’l loco e ’l tempo mostranmi altro sentier di gire al cielo et di far frutto, non pur fior’ et frondi. Altr’amor, altre frondi et altro lume, altro salir al ciel per altri poggi, cerco, ché n’è ben tempo, et altri rami8.

A proposito di un’altra opera di Garcilaso, una delle due elegie da lui concepite, Francisco Rico ha osservato che “il disegno e il processo di composizione […] consistono nell’esplorazione della propria tradizione letteraria”. E, in effetti, la strofa su cui stiamo riflettendo potrebbe essere allegata come ulteriore esempio di come spesso – nella poesia di Garcilaso – “la storia della letteratura riesca a intrecciarsi con la sostanza stessa di un testo”9; un processo che, nel caso concreto, si realizza grazie all’innesto sul tessuto formale dei versi sannazariani della tematica amorosa, derivata dal testo

7 All’affermazione, secondo la quale “Questi [il Petrarca del Canzoniere] e Virgilio sono […] i due auctores, le due guide, dietro cui programmaticamente, ma direi anche necessariamente, si pone lo scrittore dell’Arcadia”, sono dedicate molte delle belle pagine che formano lo studio di E. Saccone, L’Arcadia: storia e delineamento di una struttura (1968), in Il soggetto del Furioso e altri saggi tra Quattro e Cinquecento, Napoli, Liguori, 1974, pp. 9-64, la citazione è a p. 20. 8 F. Petrarca, Canzoniere, a cura di M. Santagata, I edizione aggiornata, Milano, 2004, al cui commento rimando, insieme a quello che può leggersi ora in F. Petrarca, Canzoniere. Rerum Vulgarium Fragmenta, a cura di R. Bettarini, Torino, Einaudi, 2005. 9 F. Rico, In mancanza di epilogo. La tradizione e il poeta, in Biblioteca spagnola. Dal Cantar del Cid al Beffatore di Siviglia, Torino, Einaudi, 1994, pp. 284 e 285.

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petrarchesco, a cui lo stesso Sannazaro aveva attinto. Eppure, direi che l’operazione appena descritta, in luogo di chiudere, apra uno scenario, sul quale non ritengo inutile gettare un rapido sguardo, dal momento che la ripresa tematica da parte di Garcilaso non è priva di sorprendenti effetti di senso. Voglio dire che, mentre la sestina petrarchesca rappresenta – come è noto – uno dei più significativi testi penitenziali del Canzoniere, e i versi del congedo, in particolare, annunciano un processo di redenzione che implica il radicale superamento perfino dell’amore casto e spirituale per Laura, a favore di un amore più alto ed elevato, in una parola della caritas10; ebbene, è evidente come nella strofa di Garcilaso non si conservi traccia alcuna di una analogo processo di redenzione, dal momento che, non solo vi è assente qualsiasi resto o testimonianza dell’apparato simbolico che gli ultimi versi della sestina petrarchesca sottintendevano11, ma anche l’esplicito proposito di elevazione spirituale sembra essersi rovesciato nella contrastante affermazione di un amore che non conosce pentimenti, né sul piano morale né su quello religioso. Insomma, le stesse parole servono ad esprimere tanto la renovatio petrarchesca quanto la confirmatio garcilasiana. Del resto, due altri indizi testuali non fanno che accrescere il sospetto che il poeta spagnolo, pur nella scelta di Sannazaro come modello immediato, abbia inteso più sottilmente misurarsi col testo petrarchesco. In quest’ultimo, difatti, ritroviamo, coniugato non a caso alla prima persona, quel verbo: cerco, che – assente nei versi di Sannazaro –, costituisce l’altra iterazione, sebbene di minore intensità, della strofa spagnola: “busquemos otro llano, busquemos otros montes…”. E neppure è da trascurare il fatto che, nell’aspirazione di Nemoroso, il ricongiungimento con Elisa avvenga in quella “tercera rueda”, a cui fa riferimento l’inci-

10 Cfr. Santagata, Per moderne carte. La biblioteca volgare di Petrarca, Bologna, il Mulino, 1990, pp. 194-96, 295-97 e 362; Id., I frammenti dell’anima. Storia e racconto nel Canzoniere di Petrarca, Bologna, il Mulino, 1992, pp. 239-41. Sulla sestina 142, si vedano almeno i contributi di G. Gorni, Metamorfosi e redenzione in Petrarca. Il senso della forma Correggio del “Canzoniere”, in “Lettere italiane”, 30(1978), pp. 3-13, ora raccolto in Id., Metrica e analisi letteraria, Bologna, il Mulino, 1993, pp. 171-82, e L. Vanossi, Identità e mutazione nella sestina petrarchesca, in Studi di Filologia Romanza e Italiana offerti a Gianfranco Folena dagli allievi padovani, Modena, S.T.E.M.-Mucchi, 1980, pp. 281-99, e le riflessioni di G. Frasca, La furia della sintassi. La sestina in Italia, Napoli, Bibliopolis, 1992, pp. 284-92. 11 Sull’“apparato simbolico penitenziale”, cfr. l’analisi (sulla scia del Castelvetro) di Gorni, Metamorfosi e redenzione, cit., pp. 178-79 del volume, a cui si aggiungano le riflessioni di Santagata, Per moderne carte, cit., pp. 194-96. Per una diversa valutazione, in base alla quale i versi del congedo non debbono interpretarsi come “un controcanto all’intero testo”, cfr. Bettarini, ed. cit., vol. I, p. 687.

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pit della sestina, a proposito cioè del “dispietato lume / che ‘nfin qua giù m’ardea dal terzo cielo”, a significare il lume della concupiscenza da cui Francesco sarà difeso da un altro lume, più “soave e chiaro”, l’amore casto e spirituale di Laura che, tuttavia, dovrà a sua volta anch’esso essere superato grazie all’ulteriore e più radicale soluzione prospettata nel congedo. Giunti a questo punto, direi che ci sono elementi sufficienti a giustificare un allargamento del discorso che, senza uscire dal Canzoniere, si interroghi sul significato che in entrambi i poeti – Petrarca e Garcilaso – assume il tema della morte dell’amata e del desiderio di unirsi a lei. Se rileggiamo la strofa di Garcilaso, possiamo facilmente constatare come nelle unità strutturali di essa trovino posto i due motivi dalla cui fusione scaturisce l’intero contenuto tematico dei versi in esame: la preghiera rivolta ad Elisa dall’innamorato perché contribuisca ad affrettarne la morte, nella fronte; il ricongiungimento all’amata in forma di agognato evento proiettato nel futuro, nella sirima. Nelle frazioni della fronte, poi, si distribuiscono a loro volta i due elementi che formano la preghiera: nel primo piede, l’invocazione di Elisa con l’indicazione della dimora celeste; nel secondo, la preghiera vera e propria. Ebbene, nel Canzoniere petrarchesco il desiderio di morte dell’innamorato, spesso – anche se non esclusivamente – legato al desiderio di riunirsi all’amata, pur trovando la sua più intensa espressione nella sestina doppia Mia begnigna fortuna12, risulta tuttavia abbondantemente disseminato in tutta la seconda parte, ‘in morte’ di Laura. Ciononostante, solo in tre sonetti il motivo in questione si realizza nella forma della preghiera a Laura perché acceleri la morte dell’innamorato. Si tratta, come si ricorderà, della terna di sonetti in successione (346, 347, 348), in ognuno dei quali all’ultimo verso è affidata l’espressione del desiderio di morte in forma di preghiera all’amata: perch’io l’odo pregar pur ch’i’m’affretti prega ch’e’ venga tosto a star con voi m’impetre gratia, ch’ i’ possa esser seco.

12 “Nel raddoppiamento della forma essa [la speranza del soddisfacimento] diviene piuttosto un desiderio di morte” (Frasca, La furia della sintassi, cit., p. 230). Ritroviamo i due desideri (il bramar morte e il riveder l’amata) congiuntamente espressi tra la fine della settima e l’inizio dell’ottava stanza: “Vissi di speme, or vivo pur di pianto, / né contra Morte spero altro che Morte. // Morte m’à morto, et sola pò far Morte / ch’ i’ torni a riveder il viso lieto”, versi che hanno suggerito alla Bettarini il seguente commento: “ecco che la morte raddoppia interamente se stessa a partire dalla settima stanza, la prima della ‘seconda sestina’, provocando una tensione binaria dentro lo stesso verso” (ed. cit., vol. II, p. 1465). Per altre occorrenze della congiunta espressione dei due desideri, si vedano i sonetti 291, 8 e 312, 13-14.

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Parimenti, tutti e tre i sonetti insistono sull’immagine di Laura come “cittadina del celeste regno” (354.4), a cui gli angeli in cielo si fanno intorno con amore reverente (346); oppure che, seduta in prossimità di Dio, partecipa della sua onniscienza (347); o, ancora, delle cui bellezze gode Dio e i suoi angeli (348). Ma, rispetto ai due sonetti di contorno, solo in quello centrale ritroviamo una configurazione paragonabile a quella della strofa garcilasiana, poiché il comune motivo del desiderio di morte si articola nei due momenti successivi dell’invocazione di Laura con l’indicazione della dimora celeste, nella quartina iniziale, a cui tiene dietro la menzionata preghiera del verso finale: Donna che lieta col Principio nostro ti stai, come tua vita alma richiede, assisa in alta et gloriosa sede […] prega ch’ i’ venga tosto a star con voi. (vv. 1-3, 1-4)

Che nel comporre la strofa di Nemoroso, Garcilaso abbia seguito tutti e tre i sonetti o, com’è più probabile, abbia avuto maggiormente presente il solo sonetto di mezzo; comunque sia, resta il fatto che nei suoi versi risulta eliminata ogni traccia dell’aspirazione cristiana alla trascendenza nella quale, come abbiamo appena visto, trova legittimità e sostento il desiderio di unirsi alla donna amata nei componimenti petrarcheschi. Ne è prova, in primo luogo, il fatto che la determinazione propriamente cristiana della sede abitata dall’anima di Laura come la parte più alta e gloriosa del cielo, l’empireo, dov’essa gode la beatitudine celeste (“del ciel la più beata parte”, 31.4, dirà altrove lo stesso Petrarca)13; una tale determinazione prevalentemente cristiana – notavo – fa posto, nei versi iniziali di Garcilaso, alla condizione di Elisa, che è descritta nei termini di mera sottrazione ai mutamenti e ai turbamenti della condizione terrena, e a cui è pertanto estranea qualsiasi connotazione in senso esplicitamente cristiano14. Difatti, sarà risultato ancora più evidente

13 Sulla dimora celeste di Laura, a proposito di 31.4, Santagata annota: “l’incertezza sulla sede celeste di Laura sopravvive anche nelle rime ‘in morte’: mentre 287 e 302 la collocano nel cielo di Venere, 359 parla espressamente del «ciel empireo» [v. 10]”. 14 I primi versi della strofa meritano un discorso più approfondito, che mi riservo di rimandare ad altra occasione. Per il momento mi limito a segnalare che è inaccetabile quanto scrive O. H. Green, la cui tesi è che la sede celeste di Elisa sia l’empireo: “The word mudanza refers to the movement of the heavenly spheres BELOW the Empyrean. The two words estando queda refer to the immobility of the Empyrean which, alone of all the hea-

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come sia il pronome plurale con cui si chiude il sonetto petrarchesco il fattore che, introducendo il motivo del ricongiungimento all’amata: “… ch’ i’ venga tosto a star con voi”15, segna lo scarto più rilevante tra i significati che il motivo assume nei componimenti dei due poeti. Non è certo questa l’occasione, né in verità chi scrive ne avrebbe l’autorità, per interrogarsi sul valore e sul significato che, nella seconda parte del Canzoniere, assume il desiderio di ricongiungimento con l’amata. Mi limiterò, pertanto, a poche e brevi considerazioni, utili unicamente all’argomento che mi sono proposto di illustrare all’inizio delle presenti note. Ricorderò subito, allora, che senza la pur limitata ambiguità a cui ho accennato a proposito del pronome che chiude il sonetto centrale della triade, Donna che lieta col Principio nostro, il desiderio di godere, entrambi beati, della presenza del Signore si ritrova esplicitamente espresso in almeno due altri componimenti. Il primo di essi è costituito dalle terzine del “sonetto del cambiamento di vita”16 (349), È mi par d’or in hora udire il messo, dove la metafora del corpo prigione dell’anima si salda col concetto del volo dell’anima protesa nella visione di Dio e di Laura, “come se la visione di Dio disgiunta da quella della sua anima non desse perfetta beatitudine”17: O felice quel dì che, del terreno carcere uscendo, lasci rotta et sparta questa mia grave et frale e mortal gonna, et da sì folte tenebre mi parta volando tanto su nel bel sereno, ch’ i veggia il mio Signore et la mia donna.

Nel secondo dei due componimenti, a cui alludevo: la celebre canzone 359, Quando il soave mio fido conforto, è Laura che, apparsa in sonno all’innamorato stanco di vivere e bisognoso di consolazione, esprime il desiderio

vens, does not move” (The Abode of the Blest in Garcilaso’s Égloga primera, in “Romance Philology”, 6(1953), pp. 272-78, la citazione è a p. 273). Di diverso parere Lapesa che giustamente scrive: “Esencialmente petrarquesco, ese anhelo ascensional se une a la representación pagana de los Campos Elíseos, tal como aparece en la egloga V de la Arcadia” (La trayectoria poética, cit., p. 139). Cfr. infra n. 26. 15 Sul valore parzialmente ambiguo del pronome voi, si veda la parafrasi di Santagata: “i beati o, più probabilmente, con Dio e Laura” (ed. cit., ad loc.). 16 È la definizione della Bettarini, ed. cit., p. 1531. 17 F. Petrarca, Le Rime sparse e i Trionfi, a cura di E. Chiòrboli, Bari, Laterza, 1930, ad loc.

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che possano entrambi esser col Signore, al termina della vita di lui: “si che siam Seco al fin del tuo corso” v. 55)18. Non sempre, però, nei numerosi componimenti della seconda parte nei quali è presente – o, almeno, accennato – il nostro tema, ritroviamo un analogo rapporto di perfetta consonanza tra le due istanze implicate, come invece abbiamo visto verificarsi nei due sonetti (347 e 349) e nella canzone (359), a cui ho fatto finora riferimento, e a proposito dei quali è impossibile determinare in che misura – nell’attrazione del pensiero del poeta innamorato verso la trascendenza – prevalga il desiderio di rivedere Laura, come effetto psicologico del lutto, o l’aspirazione alla visione divina, come anelito alla salvezza eterna. In questa direzione, non credo di sbagliarmi se indico nel sonetto 302, Levòmmi il mio penser, il componimento dove l’equilibrio tra le due istanze sembra maggiormente incrinarsi a favore della prima, nel senso che nel desiderio di unirsi all’amata morta predomina quel carattere passionale che contrassegnava il sentimento amoroso di molti componimenti in vita, prima e dopo un testo penitenziale come la sestina 142. Anche in questo caso, un commento del sonetto sarebbe del tutto fuori luogo. Cercherò, pertanto, di suggerire quanto mi preme evidenziare, accennando a un doppio rapporto: quello che il componimento intrattiene, all’interno del Canzoniere, con l’altro sonetto della visione, il 362, Volo con l’ali de’ pensier al cielo, e, fuori dal contesto del Canzoniere, con la visione celeste di Beatrice che Dante descrive nel componimento finale della Vita nuova, il sonetto Oltre la spera, che a sua volta è, senza alcun dubbio, alla base dei due sonetti petrarcheschi della visione19. In entrambi i testi (il sonetto Volo con l’ali di Petrarca e il dantesco

18 Per la rilevanza del tema della resurrezione della carne nella canzone 359, cfr. M. Petrini, La resurrezione della carne. Saggi sul Canzoniere, Milano, Mursia, 1993, pp. 1525, dove a proposito del verso citato si legge: “Né si tratta della salvezza eterna; o per lo meno, non della salvezza e basta, ché essa è accompagnata da qualcosa di più carnale, la riunione dei due amanti nella vita ultraterrena” (p. 22, il corsivo è dell’autore). Sullo stesso tema si vedano ora i contributi di M. C. Bertolani, Dal sonno alla resurrezione, in Il corpo glorioso. Studi sui Trionfi del Petrarca, Roma, Carocci, 2001, pp. 71-102 e il più recente Petrarca e la visione dell’eterno, Bologna, il Mulino, 2005. Numerosi i rapporti della canzone con l’episodio dell’incontro e del dialogo tra Petrarca personaggio e il fantasma di Laura nel capitolo secondo del Triumphus Mortis; per una tavola dei riscontri, cfr. E. Pasquini, La canzone CCCLIX, in “Lectura Petrarce”, 5(1985), pp. 227-47, in part. p. 246. Sull’episodio dei Trionfi può leggersi ora il capitolo Visione ed exemplum nel Trionfo della Morte II, nell’appena citato Il corpo glorioso, pp. 53-70. 19 Per l’affinità delle due ‘visioni’ nei sonetti 302 e 362, e per il parallelismo di entrambi col dantesco Oltre la spera, cfr. K. Foster, Petrarch. Poet and Humanist, Edimburgh, Edimburgh University Press, 1984; utilizzo la trad. sp., Barcelona, Crítica, 1989, p. 115.

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Oltre la spera), si tratta – com’è noto – dell’ascesa spirituale (“il sospir ch’esce del mio core” e “lo peregrino spirito”, in Dante; “l’ali de’ pensieri”, in Petrarca)20; un’ascesi spirituale – dicevo – dove avviene l’incontro con l’amata trasformata in intelligenza celeste, ovvero in sostanza divina. D’altronde, nel sonetto petrarchesco, la mutatio spirituale dell’innamorato a cui Laura fa esplicito riferimento nei versi centrali: … Amico, or t’am’ io et or t’onoro perch’ à’ i costumi variati, e ’l pelo

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(vv. 7-8)

rende possibile l’incontro di lui col Signore, alla cui presenza è la stessa Laura a condurlo: Menami al suo Signor: allor m’inchino, pregando humilmente che consenta ch’ i’ stia a veder et l’uno e l’altro volto (vv. 9-11)

La contemplazione dei due volti riprende il tema della visione celeste che domina nel sonetto dantesco: Oltre la spera, e, soprattutto, nel passo finale che immediatamente segue e col quale si conclude l’intera opera: E poi piaccia a colui che è sire de la cortesia, che la mia anima se ne possa gire a vedere la gloria de la sua donna, cioè di quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira ne la faccia di colui qui est per omnia secula benedictus 21

20 Sullo spirito peregrino, si veda l’importante saggio di R. Klein, in La forma e l’intellegibile. Scritti sul Rinascimento e l’arte moderna, Torino, Einaudi, 1975, pp. 5-44. Per l’identificazione delle “ali de’ pensieri” con le pennae mentis boeziane e l’interpretazione di esse come metafora dell’intelletto, cfr. F. Rico, Vida u obra de Petrarca I. Lectura del Secretum, Chapell Hill, University of North Carolina, 1974, p. 256 n. 27. Per un diverso parere, cfr. Santagata, ed. cit., nota ad loc. Sulle metafore delle ali dell’intelletto e del volo dell’anima, cfr. ora L. Marcozzi, Le ali dell’intelletto nei Rerum vulgarium fragmenta, in “Critica del testo”, 6(2003), numero monografico dedicato a L’io lirico: Francesco Petrarca. Radiografia dei Rerum vulgarium fragmenta, pp. 559-89. Sulla serie 362-365, si vedano anche le riflessioni di P. Boitani, Il tragico e il sublime nella letteratura medievale, Bologna, il Mulino, 1992, pp. 279-83. 21 D. Alighieri, Vita nuova, a cura di D. De Robertis, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi Editore, 1980, p. 247. Si vada anche Id., Vita Nova, a cura di G. Gorni, Torino, Einaudi, 1996, p. 232 e, per il “saggio di lettura”, si vedano le pp. 277-79.

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dove, malgrado la diversa realizzazione della “geometria degli sguardi”, con la speranza di redenzione si auspica la contemplazione congiunta di Beatrice beata e del Signore, a cui allude la definizione paolina, di origine salmistica22. Se ora torniamo, al sonetto 302, Levòmmi il mio penser, è per notare che all’immaginata visione che vi è descritta, sembra essere del tutto estranea quella prospettiva salvifica di cui la riunione con l’amata risulta invece arricchirsi nei testi a cui ho appena fatto cenno: il petrarchesco Volo con l’ali, assieme al sonetto e al capitoletto finali della Vita nuova. “Prevalgono gli effetti psicologici del lutto, le manifestazioni del trauma e della mancanza che esso ha generato”23, ha scritto Santagata, con esplicito e puntuale rimando al nostro sonetto, sebbene nelle intenzioni dell’autore l’osservazione vada riferita più generalmente alla cosiddetta ‘forma Chigi’. Leggo le sole quartine, la cui pertinenza in rapporto alla strofa garcilasiana mi appare maggiore: Levòmmi il mio penser in parte ov’era quella ch’io cerco, et non ritrovo, in terra: ivi, fra lor che ’l terzo cielo serra, la rividi più bella et meno altera. Per man mi prese, et disse: – In questa spera sarai anchor meco, se ’l desir non erra: i’ so’ colei che ti die’ tanta guerra, et compie’ mia giornata inanzi sera.

Commentando questi versi, Foster ha notato che la memoria vi svolge un ruolo centrale24; e, in effetti, un altro interprete dell’intero sonetto aveva

22 L’espressione “geometría de las miradas” è presa a prestito da D. Alighieri, Vida nueva, ed. bilingue a cura di R. Pinto, Madrid, Cátedra, 2003, p. 117, dov’è usata in diverso contesto. Sulla comparazione dei due sonetti (Oltre la spera e Levòmmi il mio penser) insiste P. R. Olson, Two Sonnets of Heavenly Vision, in “Italica”, 35(1958), pp. 156-61. Per la “petrarchesca reductio ad unum che segna il distacco dal finale della Vita Nuova”, cfr. la nota di commento della Bettarini a 362.11, ed. cit., vol. II, p. 1598. Per una trattazione più ampia, a proposito della visione beatifica tra Dante e Petrarca, cfr. ora M. C. Bertolani, Petrarca e la visione dell’eterno, cit., pp. 195-96 che prendono spunto dal son. 362. Della medesima studiosa si veda anche l’anteriore Il corpo glorioso, cit., pp. 77 e sgg. 23 Santagata, I frammenti dell’anima, cit., p. 260, dove il testo così continua: “Non è casuale che nell’unico testo in cui, morta, appare all’amante, Laura chiuda il suo discorso sull’attesa del futuro ricongiungimento […] in piena consonanza col desiderio di morte dell’innamorato” (pp. 260-61). 24 Foster, Petrarch, trad. sp. cit., pp. 181-83.

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osservato che “in a vision of heaven [di 302], anything earthly necessarily implies a backward glance”, precisando poi che “it is a vision in wich he [l’innamorato] has achieved everything he had vainly longed for on earth, and he sustains it as long as possibile”25. È tempo di tornare definitivamente alla strofa finale dell’egloga garcilasiana, tentando di raccogliere le fila del discorso, e al tempo stesso, di connettere alcune tappe del breve itinerario percorso all’interno del Canzoniere petrarchesco. Che nel comporre l’ultima strofa del lamento di Nemoroso, Garcilaso avesse inizialmente presenti i versi di Ergasto dell’egloga quinta di Sannazaro, è cosa sicura, come ben videro e per primi suggerirono gli antichi commentatori, ai quali però rimasse celato il processo di orditura di testi petrarcheschi che il poeta spagnolo realizzò, a partire dal modello immediato. E così, l’antico e intramontabile tema dell’unione all’amata morta trova una nuova e splendida espressione nel canto di un pastore, il quale dà voce al suo sofferto desiderio, attingendo da almeno tre componimenti petrarcheschi fusi in un’inedita realizzazione del tema: l’invocazione dell’amata con l’indicazione della dimora celeste a cui si accoda la preghiera perché la morte si anticipi, come si configura nel sonetto 347, Donna, che lieta, si combina con l’immaginata visione celeste, nei toni accesi d’impenitente desiderio delle quartine del sonetto 302, Levòmmi il mio penser; e il luogo del definitivo incontro risulta descritto col ricorso alla topografia ultramondana con l’artificio retorico iterativo-alternativo, come si presenta nel congedo della sestina 142, A la dolce ombra. Lungi da me, naturalmente, l’intenzione di suggerire l’idea della strofa di Garcilaso come d’una sorta di centone petrarchesco; anzi, spero di aver mostrato con sufficiente chiarezza che l’operazione poetica compiuta dallo spagnolo consiste nell’esatto contrario della giustapposizione di espressioni tratte, più o meno casualmente, da componimenti petrarcheschi, dal momento che essa si presenta come la riscrittura dell’antico tema della lirica amorosa, realizzata col ricorso a una selezione di testi dal 25 Olson, Two Sonnets of Heavenly Vision, cit., pp. 158 e 159, dove riecheggia il giudizio del De Sanctis, a proposito del son. 302: “gli è che Laura non è stata mai tanto donna, che là, nella stella dell’amore, tra raggi della sua gloria” (Saggio critico sul Petrarca, a cura di E. Bonora, Bari, Laterza, 1955, p. 239). Per i rapporti del sonetto con l’elegia properziana IV, 7, cfr. N. Tonelli, Petrarca, Properzio e la struttura del Canzoniere, in “Rinascimento”, 38(1998), pp. 249-315, dove si legge: “E proprio il culmine della passionalità e gelosia di Cinzia, […] mi pare lasci una riconoscibile, se pur stemperata traccia nei «detti» solo apparentemente «sì pietosi e casti» di Laura, per l’occasione certamente «meno altera»” (pp. 264-65). Infine, per la dimora celeste di Laura collocata nel “terzo cielo”, cfr. supra n. 13, a cui si aggiunga il commento della Bettarini: “Qui il Paradiso dantesco s’incrocia con il raptus di Paolo, 2 Cor XII 2-4”, ed. cit., ad loc.

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Il lugar di Garcilaso

Canzoniere che testimonia di un preciso disegno ideologico. Che quest’ultimo consista in un incremento di laicizzazione a cui viene sottosposto il concetto di trascendenza, in stretta relazione col tema del ricongiungimento con l’amata morta, non credo che ci sia molto da dubitare26. Così, portando alle sue estreme conseguenze un processo che lo stesso Petrarca aveva risolutamente avviato nei confronti di Dante, Garcilaso depura il tema da ogni elemento penitenziale implicante l’ideologia cristiana; e, in mancanza di soluzione penitenziale come di mutatio spirituale, il desiderio di unirsi all’amata e, con esso, la stessa attrazione verso la trascendenza, finiscono per definirsi in termini puramente laici. Di ciò sono prova non solo la ripresa di determinati testi petrarcheschi e gli scarti operati nei loro confronti, come abbiamo visto finora, ma anche una lettura – per così dire interna – che si limiti cioè al dettato garcilasiano, il quale nella descrizione del celeste luogo del reincontro ricorre all’uso iterato dell’aggettivo otros/s per marcare, ad un tempo, l’identità e la differenza rispetto al terrestre lugar del passato. “Di esso conserva la piena delizia, senza però ereditarne la caducità. Insomma il lugar che Nemoroso ed Elisa – di nuovo uniti – ricercheranno in futuro nelle regioni del terzo cielo, si definisce come il luogo la cui alterità rispetto al terrestre lugar del passato è garanzia che la perdita vi è stata bandita per sempre, vale a dire che il piacere che in esso si godrà si realizzerà nella totale reciprocità senza limiti di tempo né mutamenti di stato. In una parola, il luogo in questione è la sede di una felicità assoluta, illimitata” 27. Siamo ai limiti di una tradizione che, nel protrarsi28, trova le forme e le maniere di un radicale rinnovamento, realizzando il quale Garcilaso prende posto nel e, al tempo stesso, contribuisce al, programma umanistico che coniuga laicizzazione e classicità; e, in tal senso, la scelta dell’egloga sannazariana come modello immediato è tutt’altro che fortuita, dal momento che in essa il paradiso cristiano ha

26 A tale proposito si vedano le giuste precisazioni di Lapesa, La trayectoria poética, cit., p. 139 e la n. 176 aggiunta nell’edizione del 1985. Per un diverso parere, cfr. Green, The Abode of the Blest, cit., p. 272 e n. 2 e dello stesso autore, España y la tradición occidental. El espíritu castellano en la literatura desde “El Cid” hasta Calderón, Madrid, Gredos, 1969, vol. I, pp. 191-94 e vol. II, pp. 48-49 e 58. Su questo punto di divergenza tra i due illustri studiosi, cfr. anche Güntert, Garcilaso, Égloga primera, cit., pp. 451-52 e E. L. Rivers, Garcilaso de la Vega. Poems, London, Grant & Cutler – Tamesis Books, 1980, p. 72 n. 22. 27 Mi sia consentito di riprendere una conclusione che può leggersi in Gargano, “Questo nostro caduco”, cit., p. 296. 28 Per una ripresa del motivo nella poesia spagnola novecentesca, si veda, per esempio, L. Gómez Canseco, La visión del amado en el trasmundo: Luis Cernuda lee la Égloga I de Garcilaso, in “Archivo Hispalense”, 71(1998), pp. 81-90.

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già classicamente riacquistato i connotati dei pagani campi elisi, i virgiliani: “locos laetos et amoena virecta / fortunatorum nemorum sedique beatas” (Eneide, VI, 638-9), nei cui confini Garcilaso iscrive il luogo dove Nemoroso si unirà all’amata Elisa.

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IL CANZONIERE DI QUEVEDO

È ormai una tradizione – per lo meno in Spagna – iniziare a parlare di Quevedo ricordando una frase di Jorge Luis Borges: “Francisco de Quevedo es menos un hombre que una dilatada y compleja literatura”1. Questa frase, abbinata ad un’altra celebre sentenza, “la grandeza de Quevedo es verbal”2, può sembrarci un’ovvietà, una definizione applicabile senza distinzione, valida in qualsiasi caso, ma la verità è che Petrarca è uno dei pochi scrittori classici d’Europa ai quali la frase di Borges può applicarsi rigorosamente: “Francesco Petrarca è meno un uomo che una estesa e complessa letteratura”, visto che la sua opera, svilupata internamente nei lavori di un umanista, di un moralista, di un polemista, di un poeta (e tutto ciò lo fu anche, a modo suo, Quevedo), determinò la posterità di due dei grandi generi letterari, uno di loro ancora da definire (il saggio) e l’altro (la poesia) con una tradizione secolare alle spalle. Il valore inaugurale del canzoniere di Petrarca non risiede esclusivamente nei temi, vecchi come i versi, nemmeno nella figura di Laura, profilata instancabilmente da trovatori e stilnovisti, né ancora nella narrazione autobiografica ed introspettiva di una relazione amorosa, provata da Dante nella Vita Nova, ma bensì nella trasformazione di quelli ed altri ingredienti in un libro (il “libro-romanzo” si è chiamato con frequenza) perfettamente legato e

1 J. L. Borges, Quevedo, in Otras inquisiciones (1952), Obras completas, Barcellona, Círculo de Lectores, 1992, II, p. 259. 2 Ivi, p. 255.

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strutturato, e che, a dispetto della sua inevitabile condizione miscellanea e della costante riorganizzazione delle sue parti, presenta una configurazione diversa dalle raccolte poetiche dei classici e dei canzonieri trovadorici. Quei Rerum vulgarium fragmenta formavano – e questo si è detto tante volte che forse sto sfiorando di nuovo l’ovvietà –, il primo libro poetico della letteratura europea moderna3. Conviene dire, però, che nella legione degli imitatori di Petrarca, dispersi od ammucchiati per più di due secoli in più di una dozzina di lingue (l’italiano, il francese, lo spagnolo, il catalano, il portoghese, l’inglese, il tedesco, il fiammingo, il polacco, il serbo-croata, il russo, il latino…), non è così facile, come a volte si può pensare, trovare qualcosa in più di una semplice reiterazione o ricreazione di motivi superficiali. Tra i poeti vivificatori del Canzoniere fu molto più frequente l’insistenza in certe immagini o l’imitazione di poemi concreti, che non la comprensione e assunzione del libro come un insieme strutturato4. Con le peculiarità cronologiche di ogni paese e della diversa fortuna del denominato petrarchismo classico (legislato da Pietro Bembo in Italia e rappresentato da Garcilaso in Spagna o da Du Bellay in Francia, per esempio), il petrarchismo tardivo o terminale è in certo modo il più interessante, perché non si tratta di un petrarchismo di imitazione, adattazione o ammirazione (come è solito esserlo quello delle prime generazioni), né si spiega con il 3 Forse è appunto l’ovvietà a spiegare la strana negligenza con cui si parla di Petrarca nei libri di E. R. Curtius, E. Auerbach e Gilbert Highet (capolavori senz’altro fondamentali per la cultura letteraria europea: rispettivamente, Letteratura europea e Medio Evo latino, Firenze, La Nuova Italia, 1992; Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Torino, Einaudi, 1964; The Classical Tradition. Greek and Roman Influences on Western Literature, Londra, Oxford University Press, 1949): la presenza di Petrarca nell’opera di Curtius è molto scarsa; Auerbach scrisse saggi eccellenti su Dante e Boccaccio, ma niente sul Petrarca, e Highet dedica al Canzoniere la bellezza di cinque o sei righe. Tutto questo è forse comprensibile, ma non è andata meglio in tempi più recenti: un critico di fama mondiale come Harold Bloom non dedica nessun capitolo, neanche una piccola sezione, all’amante di Laura (The Western Canon. The Books and School of the Ages, New York, Harcourt Brace & Company, 1994). Ma, sottoposti all’obbligo di trovare un autore letterario che rappresenti nella poesia moderna d’Occidente quello che Cervantes rappresenta nel romanzo, Shakespeare nel teatro e Montaigne nel saggio, c’è qualcuno che lo meriti di più di Petrarca? Dal punto di vista dell’identità nazionale italiana, si veda ora la rivendicazione di A. Quondam, Petrarca, l’italiano dimenticato, Milano, Rizzoli, 2004. 4 Sulla forma e sulla formazione del libro-canzoniere cfr. M. Santagata, Dal sonetto al Canzoniere. Ricerche sulla preistoria e la costituzione di un genere, Padova, Liviana, 1979, e G. Gorni, Le forme primarie del testo poetico, in Letteratura italiana. Le forme del testo, dir. Alberto Asor Rosa, I: Teoria e Poesia, Torino, Einaudi, 1984, pp. 504-518. Sul petrarchismo spagnolo, si veda M. P. Manero Sorolla, Introducción al estudio del petrarquismo en España, Barcellona, PPU, 1987.

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Il canzoniere di Quevedo

fenomeno dell’antipetrarchismo (la cui origine è molto più antica): l’assunzione del modello illustre è accompagnata da una volontà di superazione che oltre a fruttificare in splendide parodie (si pensi alle romanze giovanili di Lope de Vega o Luis de Góngora) detta in Spagna, sopratutto nel Seicento, alcuni dei migliori canzonieri petrarchisti del Siglo de Oro. Alle volte si tratta solo di micro-canzonieri galanti tra i quali abbondano le varie Amarilis, Belisa, Crisalda, Filis, Floralba, Floris, Lisarda, Marcia, Silvia, Tirsis e cento donne che s’assomigliano molto fra di loro e molto poco, in realtà, alla Laura di Petrarca, perché all’influsso del Canzoniere bisogna sommare le voci e gli echi di innumerevoli petrarchisti minori aggruppati in antologie di Rime diverse, mediazione imprescindibile per capire il carattere ornamentale di certi testi di Francisco de Medrano, Luis Martín de la Plaza, il Conde de Villamediana, Francisco de Rioja, Pedro Soto de Rojas, Luis Carrillo y Sotomayor, Pedro Espinosa, Gabriel Bocángel, e degli stessi Lope de Vega, Góngora e Quevedo. L’influenza di Petrarca (che era meno un autore letterario del passato che un genere, una tendenza ed un ambiente) può darsi per scontata in quasi tutti i poemi seri di carattere amoroso, ed è saputo, in più, che “la imitatio practicada por Quevedo se basa en la contaminación de varios subtextos” la cui identificazione è già stata realizzata in maniera soddisfacente da varie generazioni di studiosi5. Alcuni dei mediatori fra Petrarca e Quevedo furono Jacopo Sannazaro, Antonio Tebaldeo, Pietro Bembo, Juan Boscán, Garcilaso de la Vega, Joachim du Bellay, Luis de Camões, Diogo Bernardes, Francisco de Aldana, Fernando de Herrera, Francisco de Figueroa, Battista Guarini, Luigi Groto, Torquato Tasso, Lupercio Leonardo de Argensola o Giambatista Marino (limitandoci, per tale di non uscire dal nucleo della sua poesia petrarchista, a una quindicina di modelli sicuri o molto probabili). In Quevedo, come in Petrarca, l’identificazione delle fonti certifica l’assimilazione di tutta una tradizione, e se non è buono limitarsi alla crenologia letteraria (la “crítica hidráulica” denunciata con umore

5 Cfr. F. di Quevedo, Un Heráclito cristiano, Canta sola a Lisi y otros poemas, a cura di L. Schwartz e I. Arellano, Barcellona, Critica, 1998 (la citazione, in p. XLIII). Secondo I. Navarrete, Los huérfanos de Petrarca. Poesía y teoría en la España renacentista, Madrid, Gredos, 1997, p. 295, Quevedo “incorpora las citas en sus poemas de manera mucho más polifónica [que Garcilaso]; aparecen aquí y allá, disfrazadas a la manera de su propio discurso, sin marca alguna, pero no irreconocibles. Los resultados van de la estilización a la parodia, o a lo que Bakhtin llama ‘polémica oculta’, donde las palabras de otro influencian el discurso del autor, forzándole a la alteración. […] La voz auténtica del ciclo de Lisi no puede distinguirse de la voz incorporada de sus predecesores, porque consiste en gran medida en la amalgama de esas voces”.

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dal grande poeta Pedro Salinas), non è più inadeguato o inappropriato che farlo con i grandi autori, e ancor di più in un’epoca in cui l’imitación compuesta costituiva la base stessa della creazione letteraria. “La tradizione – cito adesso parole di Marco Santagata che servirebbero per Quevedo – è da lui accolta non per essere esibita, ma, al contrario, per essere sminuzzata, triturata, rimpastata in un amalgama che niente più conserva degli ingredienti originari. Petrarca cioè si rifà al passato con un solo scopo: produrre ‘il nuovo’ ”6. Nella poesia spagnola del Seicento, “il nuovo” si stava producendo al margine, al di là della tradizione petrarchista, che aveva perso la sua centralità, non solo nell’insieme del sistema letterario, ma anche nell’opera individuale di quei autori più legati all’esempio di Petrarca, com’è il caso di Francisco de Quevedo, cantore dell’amore raffinato e maestro dell’umore buffone, autore di demolitrici sentenze metafisiche e rimatore di barzellette scatologiche. Per farsi un’idea dell’affascinante versatilità dell’opera dello scrittore spagnolo basterebbe con alludere ai suoi scritti in prosa, tra i quali figurano trattati di dottrina cristiana (come la Virtud militante), saggi di filosofia politica (Marco Bruto, Política de Dios), finzioni satiriche (i Sueños e La hora de todos) o un romanzo picaresco (La vida del Buscón), oltre ad un lungo eccetera di opuscoli festivi, studi umanistici ed allegati polemici. L’alternanza o, anzi, la coincidenza di argomenti seri e motivi giocosi, di scopi morali ed intenzioni umoristiche, si manifestò in altri autori del Siglo de Oro, ma fu forse nell’opera di Quevedo dove si rivelò più drammatica ed intensa, fino al punto di essere riconosciuta come caratteristica dai suoi contemporani. Nel Laurel de Apolo, pubblicato nel 1630, Lope de Vega definì don Francisco come una sorta di somma “de cuanto ingenio ilustra el universo”, equiparandolo nelle sue diverse sfaccettature al prestigioso umanista Giusto Lipsio ed agli autori classici che rapresentavano l’eccellenza nella poesia satirica (Giovenale), nella lirica (Pindaro) e nella favolazione narrativa (Petronio). Secondo Lope, Quevedo era un “espíritu agudísimo y suave, / dulce en las burlas y en las veras grave”7. Qualche lustro prima, quando ancora non erano stati diffusi il Polifemo e le Soledades di Luis de Góngora e Quevedo non aveva scritto ancora i suoi opuscoli anti-gongoriani, Cervantes aveva già definito l’autore del Buscón come “el flagelo de poetas memos”8, 6 F. Petrarca, Canzoniere, a cura di M. Santagata, Milano, Arnaldo Mondadori, 1996, p. XLVII. 7 Lope de Vega, Laurel de Apolo, I, 370-371, ed. a cura di C. Giaffreda, introduzione di M. G. Profeti, Firenze, Alinea, 2002, pp. 233-34. 8 Cervantes, Viaje del Parnaso, II, 310, in Poesías completas, a cura di V. Gaos, Madrid, Castalia, 1974, I, p. 78.

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visto che in non poche pagine della sua opera satirica, in verso ed in prosa, prese in giro i poeti, soprattutto quelli radunati intorno all’immaginario convenzionale della lirica amorosa, che era sostanzialmente d’origine petrarchesca. A prescindere da tutte queste limitazioni e dissensi, Quevedo fu dei pochi autori del suo tempo che fece attenzione alle possibilità dei Rerum vulgarium fragmenta come “macrotesto” strutturato organicamente, cioè, che prese in considerazione la condizione del Canzoniere come libro9. Fu anche dei pochi che assunse il carattere confessionale e religioso dell’esperienza di Petrarca; infatti la lettura dei Salmi penitenziali e la lezione (o l’elezione) spirituale delle Rime sparse hanno molto a che fare con una delle sezioni dell’opera poetica di Quevedo alla quale l’autore diede, in un modo molto determinato, forma di collezione organizzata ed autonoma. Si tratta, certamente, dell’Heráclito cristiano y segunda arpa a imitación de la de David, un ‘libro’ del 1613 nel quale, nonostante la sua litania di confessione cristiana e la sua devota ricerca di “un nuevo corazón, un hombre nuevo”, o appunto a causa di queste, è facile avvertire echi dei Rerum vulgarium fragmenta, soprattutto nei salmi IX (“Cuando me vuelvo atrás a ver los años / que han nevado la edad florida mía”), XXVI (“Después de tantos años malgastados”) e XXVIII (“Amor me tuvo alegre el pensamiento”), che è, significativamente, quello che chiude la raccolta nella versione stampata e definitiva di Las tres Musas últimas castellanas. Amor me tuvo alegre el pensamiento, y en el tormento, lleno de esperanza, cargándome con vana confianza los ojos claros del entendimiento. Ya del error pasado me arrepiento; pues cuando llegue al puerto con bonanza, de cuanta gloria y bienaventuranza el mundo puede darme, toda es viento. Corrido estoy de los pasados años, que reducir pudiera a mejor uso buscando paz, y no siguiendo engaños.

9 Come ha scritto F. B. Pedraza a proposito di un altra eccezione, “el concepto moderno de poemario, conjunto lírico que presenta una unidad temática y estilística e incluso una tensión dramática en su sucesión, es relativamente reciente. Los cancioneros renacentistas y barrocos se parecen más a antologías, donde el criterio de variedad tiene mayor peso que el de coherencia y unidad” (Lope de Vega, Rimas, a cura di F. B. Pedraza Jiménez, Madrid, Universidad de Castilla-La Mancha, 1993, p. 21).

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Y así, mi Dios, a Ti vuelvo confuso, cierto que has de librarme de estos daños: pues conozco mi culpa y no la excuso.

La dichiarazione delle false allegrie dell’amore, il pentimento dell’ “errore passato”, il disprezzo del mondo, la vergogna (“corrido estoy”), l’appello a Dio, la contrizione per la colpa ed ancora il topico della navigazione ci portano più esplicitamente e direttamente a Petrarca, che la maggior parte dei poemi propriamente amorosi dell’opera di Quevedo. Nonostante questo, è possibile che l’esempio del Canzoniere come ‘libro di una vita’ fosse inassumibile per la posterità, perché i suoi inseguitori più capaci trasformarono la dualità originale in una sorta di dissociazione particolare, staccando la poesia amorosa dalla poesia religiosa. In Spagna il fenomeno non è così semplice come ora lo sto trattando sommariamente, infatti bisogna considerare la voga della così chiamata “poesía a lo divino”, per la quale Petrarca ed i petrarchisti furono una fonte inesauribile, ma un altro esempio ottimo della decomposizione del Canzoniere come ‘libro dei libri’ è quello di Lope de Vega, che offrì ai suoi lettori, in modo differenziato e proggressivo, il canzoniere amoroso (Rimas, 1602) ed il canzoniere del pentimento cristiano (Rimas sacras, 1614), per concludere con la superazione parodica di entrambi (Rimas humanas y divinas del licenciado Tomé de Burguillos, 1634). La dissociazione tra un canzoniere pagano ed un altro cristiano si produce in Quevedo in un modo significativamente estremo e in termini che hanno molto meno a che fare con la vita dell’autore che nel caso di Petrarca o in quello appena citato di Lope de Vega, infatti si dà il paradosso che l’Heráclito cristiano, confessionale e palinodico, precede in qualche anno la composizione del canzoniere amoroso di radici petrarchiste. La poesia amorosa di Quevedo comprende più di duecento poemi (duecento venti, numeri 292-511 dell’edizione curata da José Manuel Blecua)10, quasi tutti raccolti sotto l’auspicio della musa Erato in El Parnaso español (1648), e della musa Euterpe in Las tres Musas últimas castellanas (1670). Assieme all’influsso del petrarchismo, o ad esso incorporato, si percepisce l’eco degli elegiaci latini, la sopravvivenza dell’amore cortese nei poeti dei canzonieri del Quattrocento e la dottrina neoplatonica dei trattati filografici dell’epoca. Non mancano in quest’insieme le dimostrazioni di un’elocuzione

10 F. de Quevedo, Obra poética, a cura di J. M. Blecua, Madrid, Castalia, 1969, I, pp. 485-687.

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nuovissima, ma si avverte comunque un certo arcaismo, un notorio immobilismo tematico, un occasionale conformismo nella ricreazione di motivi conosciuti o di un immaginario sbiadito dall’uso: i giochi fra opposti, l’inaccesibilità della donna amata, la persistenza nel segreto, il desiderio di una morte virtuale, la contaminazione dell’amore attraverso la vista, la descriptio puellae… Quevedo sembra spolverare, senza il tono canzonatorio di altre occasioni, e con un certo, o certissimo, tradizionalismo, una poesia alla maniera dei poeti anteriori o “retrocedentes” – lo dico apposta con un cultismo di Góngora –, che deve capirsi nell’ambito del suo interesse per Fray Luis de León, Francisco de la Torre o Francisco de Aldana, un interesse che è, a sua volta, conseguenza, precisamente, della sua opposizione alla poesia di Góngora11. Dentro alla musa Erato di El Parnaso forma una sezione indipendente un insieme di una sessantina di composizioni que Quevedo concepì organicamente alla maniera del Canzoniere di Petrarca e nel quale trattò “con singularidad un pasión amorosa” (la frase è di González de Salas). I problemi di questa sezione iniziano nel suo stesso titolo, Canta sola a Lisi y la amorosa pasión de su amante: il soggetto della frase non è il poeta (visto che a lui fa riferenza come l’amante), né il “libro”, come sarebbe bello immaginare, ma bensì la musa ispiratrice, in questo caso Erato, secondo una formulazione dello stesso González de Salas, primo editore della poesia di Quevedo, comune ad altre sezioni di El Parnaso (“Clío … canta poesías heroicas”; “Polimnia … canta poesías morales”, e via dicendo). Il canzoniere di Quevedo è, dunque, un ‘libro’ senza titolo d’autore, ma questo non dovrebbe preoccuparci troppo né alla luce della storia, né in vista delle definizioni petrarchesche. Comunque sia, il problema principale di Canta sola a Lisi (e la differenza essenziale rispetto a Petrarca) risiede nella difficoltà di stabilire con precisione il grado di coscienza e volontà dell’autore nell’elaborazione del canzoniere. Morto Quevedo, il libraio Pedro Coello si occupò di raccogliere “con todo género de negociación” il maggior numero possibile di poemi e finanziò la prima edizione congiunta: El Parnaso español, monte en dos cumbres

11 Da un altro punto di vista sottolinea l’arcaismo del Quevedo amoroso P. J. Smith, Quevedo on Parnassus. Allusive Context and Literary Theory in the Love-Lyric of Francisco de Quevedo, Londra, The Modern Humanities Research Association, 1987. Un ottimo riassunto dei modelli, delle fonti e dei contesti di questa sezione dell’opera di Quevedo è quello di L. Schwartz e I. Arellano nell’ed. cit., pp. xliii-xlvii; si veda anche M. Blanco, Introducción al comentario de la poesía amorosa de Quevedo, Madrid, ArcoLibros, 1998.

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dividido, con las nueve Musas castellanas (Madrid, Diego Díaz de la Carrera, 1648). L’edizione fu curata da José Antonio González de Salas, che unicamente riuscí a pubblicare le prime sei muse, ma a lui si debbono la revisione dell’insieme e l’assegnazione definitiva ad una o altra “Musa” e, salvo prova in contrario, tutti i titoli del singoli componimenti12. Il proggetto venne completato con l’apparizione di Las tres Musas últimas castellanas (Madrid, Imprenta Real, 1670), a cura – non così attenta come quella di González de Salas – di Pedro Aldrete, nipote del poeta. A quei testimoni stampati bisogna aggiungere centinaia di manoscritti, più utili per la poesia satirico-burlesca che per quella amorosa: infatti sono pochi i codici che contengono testi di Canta sola a Lisi, collezione della quale, a differenza dell’Heráclito cristiano, non conserviamo nessuna testimonianza sotto forma di manoscritto che ne certifichi la coesione. In modo che, come quasi sempre, dipendiamo dalla intercessione (e dagli interventi) di José Antonio González de Salas, che fu anche il primo ad avvertire e ponderare l’affinità tra la seconda sezione della musa Erato (cioè, Canta sola a Lisi) con il canzoniere di Petrarca: Famosa es mucho la memoria, desde el segundo o tercero siglo antecedente, del ilustre y elegante poeta, entre los toscanos, Francisco Petrarca; y no menos aún también entre los latinos. Pero no creo que el esplendor que contrujo a su fama, de la celebración de su Laura tanto repetida, querrá ceder al que más le adorne entre sus muchos méritos. […] Confieso, pues, ahora, que advirtiendo el discurso enamorado que se colige del contexto de esta sección, que yo reduje a la forma que hoy tiene, vine a persuadirme que mucho quiso nuestro poeta este su amor semejante al que habemos insinuado en Petrarca. El ocioso que con particularidad fuese confiriendo los sonetos aquí contenidos con los que en las rimas se leen del poeta toscano, grande paridad hallaría sin duda, que quiso don Francisco imitar en esta expresión de sus afectos. Señalando fue el curso de algunos años en sonetos diferentes, hasta que llegó al veinte y dos, frisando con el que seguía en tan pequeña disonancia. Después muere la causa de su dolor y amante se queda, prometiendo inmutable duración del carácter amoroso en su alma, por toda su inmortalidad. Mucho parentesco, en fin, habemos de dar en estas dos tan parecidas afecciones, como en la significación le tienen los conceptos con que ambos las manifestaron en sus poesías13.

12 Cfr. R. Cacho Casal, González de Salas editor de Quevedo: El Parnaso español (1648), in “Annali dell’Istituto Universitario Orientale. Sezione Romanza”, 43 (2001), pp. 245-300. 13 In F. di Quevedo, Obra poética, I, p. 117.

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Ma nella frase meno stravagante di tutto il prologo, González de Salas confessa apertamente il suo ruolo nell’organizzazione di questa sezione (“que yo reduje a la forma que hoy tiene”), in modo che possiamo assegnare a Quevedo l’intenzione di comporre con una parte dei suoi poemi amorosi un canzoniere indipendente alla maniera di Petrarca, ma ci risulta estremamente difficile immaginare quale sarebbe il grado di assentimento dell’autore di fronte alla disposizione finale del suo canzoniere in El Parnaso. L’intentio autoris ci risulta, infine, molto più inacessibile che nel caso dei Rerum vulgarium fragmenta, e questa difficoltà deriva in molte altre che la critica ha cercato di risolvere in più di mezzo secolo di ricerche su Canta sola a Lisi (tra tutti loro, Carlo Consiglio, Joseph G. Fucilla, Roger Moore, Julian Olivares, Gregorio Cabello, D. Gareth Walters, Paul Julian Smith, Lia Schwartz, Ignacio Navarrete…): il bilancio globalmente più completo e lo studio più sensato è, secondo me, quello di Santiago Fernández Mosquera, al quale faccio riferimento per illuminare gli angoli che qui rimarranno inevitabilmente in penombra14. Il corpus testuale è problematico: ai cinquanta cinque poemi raccolti nel Parnaso (numeri 442-492 e 507-510, che sono quelli che Pedro Coello e González de Salas riuscirono a trovare), conviene aggiungere altri quattordici sonetti con menzione a Lisi raccolti da Las tres Musas (493-506). La semplice intercalazione di questi sonetti tra il poema in morte (492) ed il madrigale e gli idilli che chiudono la serie (507-510) rovina la tenue illazione narrativa dell’insieme, ma la riordinazione, secondo criterî ‘petrarchisti’, dei sessanta nove testi (settanta, se aggiungiamo le stravaganti “redondillas”, quartine d’ottonari, che conserva un manoscritto, nº 511) è un esercizio rischioso che non conduce a conclusioni sicure15. Risulta anche perico14 C. Consiglio, El Poema a Lisi y su Petrarquismo, in “Mediterráneo”, 13-15 (1946), pp. 76-93; J. G. Fucilla, Estudios sobre el petrarquismo en España, Madrid, CSIC, 1960; R. Moore, Towards a Chronology of Quevedo’s Poetry, Fredericton, York Press, 1977; J. Olivares, La poesía amorosa de Francisco de Quevedo. Estudio estético y existencial, Madrid, Siglo XXI, 1995; G. Cabello Porras, Sobre la configuración del cancionero petrarquista en el Siglo de Oro (La serie de Amarilis en Medrano y la serie de Lisi en Quevedo), in “Analecta Malacitana”, 4 (1981), pp. 15-34 (ora in Ensayos sobre tradición clásica y petrarquismo en el Siglo de Oro, Almería, Università di Almería, 1995, pp. 13-37); D. G. Walters, ed., F. di Quevedo, Poems to Lisi, Exeter, University of Exeter, 1988; P. J. Smith, Quevedo on Parnassus. Allusive Context and Literary Theory in the Love-Lyric of Francisco de Quevedo, Londra, The Modern Humanities Research Association, 1987; I. Navarrete, Los huérfanos de Petrarca. Poesía y teoría en la España renacentista, Madrid, Gredos, 1997, e S. Fernández Mosquera, La poesía amorosa de Quevedo. Disposición y estilo desde Canta sola a Lisi, Madrid, Gredos, 1999. 15 Si veda in particolare la proposta di D. G. Walters, Una nueva ordenación de los poemas a Lisi de Quevedo, in “Criticón”, 27 (1984), pp. 55-70.

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loso estrarre troppe conseguenze biografiche dal nome di Lisi, tanto se si trattasse di qualche “Luisa” (così lo credette González de Salas) o di qualche “Isabel”, le quali sono state vincolate qualche volta con donne di carne ed ossa dell’ambiente di Quevedo, come Luisa de la Cerda o la stessa Isabel de Borbón, moglie di Filippo IV. Riguardo alla data di composizione dei poemi, nessuno sembra anteriore, come ho già detto, all’Heráclito cristiano, e per evidenze di diversa specie sappiamo che alcuni furono scritti prima del 1627-1628 (quelli inclusi nel denominato Cancionero Antequerano) e gli altri (quelli autografi) verso 1634, ma in tutti questi casi le versioni di quelli stampati, che sembrano definitive, mostrano ritocchi posteriori. Posteriori e molto significativi, perché in alcuni dei poemi manoscritti appaiono altri nomi di donna (Belisa, nel nº 446; Lisa, che potrebbe essere un errore, nel 487; Lisarda, nel 507; Flori, nel 508; Aminta, nel 509; Elisa, nel 509) o non appare ancora quello di Lisi (444, 477); la presenza di Lisi (o Lísida) è del resto confermata nei quattro sonetti autografi conservati in una copia del Trattato dell’amore umano di Flaminio Nobili16: i numeri 471 (“Diez años de mi vida se ha llevado”), 483 (“Si hermoso el lazo fue, si dulce el cebo”), 484 (“Lisis, por duplicado ardiente Sirio”) e 499 (“Ya viste que acusaban los sembrados”: in questo caso il nome di Lisi, presente nell’autografo, sparisce nella versione stampata di Las tres Musas). In qualsiasi caso, i poemi di Canta sola a Lisi furono scritti e rivisti durante un periodo approssimato di venticinque o trent’anni che possiamo situare vagamente tra 1615 e 1645 (nonostante qualche sonetto potrebbe essere più antico)17. Ci sono ancora due eventualità che ci impediscono di fare congetture troppo azzardate: l’indemostrabile simultaneità di esperienza amorosa e creazione letteraria, e la notizia di non poche revisioni di alcuni testi la cui versione finale è separata da parecchi anni dalla prima redazione. A guisa di esempio: il sonetto “Diez años de mi vida se ha llevado” si può datare nel 1634 (fa parte degli autografi), e se sommiamo i dodici anni che 16 Cfr. J. O. Crosby, En torno a la poesía de Quevedo, Madrid, Castalia, 1967, pp. 15-42. 17 Cfr., per esempio, R. Moore, Towards a Chronology, p. 19: “It would then read: sixth year (poem 461) circa 1629; tenth year (poem 471) circa 1633; and twenty-second year (poem 491) 1645. Quevedo would have known Lisi, then, from about 1623 to 1645”. Non è impossibile proporre altre datazioni (così M. Roig Miranda, Les Sonnets de Quevedo. Variations, constance, évolution, Nancy, Presses Universitaires de Nancy, 1989, pp. 453-54, e cfr. S. Fernández Mosquera, La poesía amorosa de Quevedo, pp. 27-28), ma ha ragione I. Navarrete, Los huérfanos de Petrarca, p. 268, nel avvertire che “no hay correlación obvia entre la fecha de los poemas y su orden en la secuencia, y mucho menos razón alguna para creer que son autobiográficos”.

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ci vogliono per raggiungere i “veintidós años” di amore di un altro poemetto di anniversario (nº 491), l’aritmetica ci porta a 1646, con Quevedo defunto. Prendendo in considerazione tutte queste limitazioni e a parte di altri dettagli o ipotesi che dobbiamo prendere cum grano salis, Canta sola a Lisi y la amorosa pasión de su amante presenta una riconoscibile struttura di canzoniere petrarchista: il sonetto iniziale compie, anche se parzialmente, la funzione di poema proemiale: “¿Qué importa blasonar del albedrío…?” (442); ci sono tre poemi di anniversario in posizione strategica (ventesimo, trentesimo e cinquantesimo): “Si fuere que, después del postrer día” (461), “Diez años de mi vida se ha llevado” (471) e “Hoy cumple amor en mis ardientes venas” (491); un sonetto più o meno in morte (“¿Cuándo aquel fin a mí vendrá forzoso…?”, 492) cede il passo agli epitaffi e lamentazioni funebri, differenziati anche dalla metrica, che chiudono la collezione (507510). Ma è difficile andare molto più in oltre. Il primo poema, per esempio, è scritto dall’oggi della “schiavitù” dell’amore, e nei suoi versi non appaiono né il disinganno, né la palinodia, né il pubblico, né la funzione autoreferenziale del ‘libro’, anche se alcuni di questi elementi si trovano sparsi per la collezione. ¿Qué importa blasonar del albedrío, alma, de eterna y libre, tan preciada, si va en prisión de un ceño, y, conquistada, padece en un cabello señorío? Nació monarca del imperio mío la mente, en noble libertad criada; hoy en esclavitud yace, amarrada al semblante severo de un desvío. Una risa, unos ojos, unas manos todo mi corazón y mis sentidos saquearon, hermosos y tiranos. Y no tienen consuelo mis gemidos; pues ni de su victoria están ufanos, ni de mi perdición compadecidos.

Specialmente petrarcheschi sono i sonetti “Aquí, en las altas tierras de Segura” (447, con invocazioni alla natura molto simili a quelle dei Rvf CCCVIII e CCCI), “En una vida de tan larga pena” (469, con echi dei Rvf XII) e “Colora abril el campo que mancilla” (481, che per la sua iconografia e l’impossibile primavera dell’amante ricorda ai Rvf IX e CCCX).

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Solo no hay primavera en mis entrañas, que habitadas de Amor arden infierno y bosque son de flechas y guadañas18.

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Ciò che è indubitabile è che Canta sola a Lisi contiene un pugno di sonetti magnifici che si trovano tra i migliori della poesia spagnola di tutti i tempi19: Crespas hebras sin ley desenlazadas, que un tiempo tuvo entre las manos Midas; en nieve estrellas negras encendidas, y cortésmente en paz de ella guardadas. Rosas a abril y mayo anticipadas, de la injuria del tiempo defendidas; auroras en la risa amanecidas, con avaricia del clavel guardadas. Vivos planetas de animado cielo, por quien a ser monarca Lisi aspira, de libertades, que en sus luces ata. Esfera es racional que ilustra el suelo, en donde reina Amor cuanto ella mira, y en donde vive Amor cuanto ella mata.

Crespas hebras sin ley desenlazadas (nº 443): argomento ineluttabile nei canzonieri petrarchisti era la descrizione della donna amata, e Quevedo ci offre in questo sonetto un Retrato no vulgar de Lisi (è così che si intitola in El Parnaso español) che, anche se basato nella composizione e nella disposizione delle descrizioni topiche della bellezza femminile (i capelli, gli occhi, le guance, il sorriso, le labbra) evita sofisticatamente i termini reali e parte da metafore pure dei tratti fisici per culminare nella descrizione delle virtù spirituali. Si mis párpados, Lisi, labios fueran, besos fueran los rayos visüales de mis ojos, que al sol miran caudales águilas, y besaran más que vieran.

18 En Quevedo, Obra poética, ed. J. M. Blecua, I, p. 117; cfr. Canzoniere, IX, 14 “primavera per me pur non è mai” (o l’intero soneto in morte CCCX). 19 Il testo, con piccole modifiche, è quello di Blecua, e rimando ancora, per ulteriori informazioni, al commento di Schwartz e Arellano.

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Tus bellezas, hidrópicos, bebieran, y cristales sedientos de cristales, de luces y de incendios celestiales alimentando su morir, vivieran. De invisible comercio mantenidos, y desnudos de cuerpo, los favores gozaran mis potencias y sentidos; mudos se requebraran los ardores; pudieran, apartados, verse unidos, y en público, secretos, los amores.

Si mis párpados, Lisi, labios fueran (nº 448). In questa Comunicación de amor invisible por los ojos (titolo di El Parnaso), Quevedo vincola due temi molto importanti per la poesia amorosa del suo tempo: lo sguardo come veicolo dell’amore (motivo diffuso specialmente dal neoplatonismo) ed il silenzio dell’amante (essenziale nella concezione dell’amore cortese sin dai trovatori). Dall’ipotetica identità che presiede il poema (Si mis párpados fuesen labios) derivano una serie di conseguenze basate nello scambio di proprietà e caratteristiche dei termini equiparati: gli sguardi sarebbero baci, gli occhi si bacerebbero, berrebbero, si alimenterebbero e dichiarerebbero, in silenzio, il loro sentimento. En crespa tempestad del oro undoso, nada golfos de luz ardiente y pura mi corazón sediento de hermosura, si el cabello deslazas generoso. Leandro, en mar de fuego proceloso, su amor ostenta, su vivir apura; Ícaro, en senda de oro mal segura, arde sus alas por morir glorioso. Con pretensión de Fénix, encendidas sus esperanzas, que difuntas lloro, intenta que su muerte engendre vidas. Avaro y rico y pobre, en el tesoro, el castigo y la hambre, imita a Midas, Tántalo en fugitiva fuente de oro.

En crespa tempestad del oro undoso (nº 449). Il titolo assegnato a questo sonetto in El Parnaso español riassume abbastanza bene il suo contenuto: Afectos varios de su corazón fluctuando en las ondas de los cabellos de Lisi. Il poeta simbolizza il suo affanno per ottenere la donna amata mediante l’immagine del proprio amore solcando il biondo mare dei capelli di Lisi. Gli

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“afectos varios” con cui il cuore è equiparato sono quelli di cinque personaggi mitologici: Leandro, Icaro, la Fenice, Mida e Tantalo; in tre dei cinque casi, l’equiparazione si perfeziona con la corrispondenza delle metafore iniziali dei capelli: oro undoso e golfos de luz hanno la loro applicazione al mito rispettivo nelle espressioni mar de fuego, senda de oro e fuente de oro (ed ancora negli aggettivi che completano il loro significato tali come proceloso, mal segura e fugitiva). Un grande numero di poemi barocchi partono da una situazione simile (ce ne sono di Lope, Góngora, Villamediana e Giambattista Marino, tanto per citare i più prossimi), ma Quevedo supera il proposito essenzialmente galante di altre composizioni e approfondisce nel tema della frustrazione del desiderio. En breve cárcel traigo aprisionado, con toda su familia de oro ardiente, el cerco de la luz resplandeciente y grande imperio del Amor cerrado. Traigo el campo que pacen estrellado las fieras altas de la piel luciente, y a escondidas del cielo y del Oriente, día de luz y parto mejorado. Traigo todas las Indias en mi mano, perlas que, en un diamante, por rubíes pronuncian con desdén sonoro hielo y razonan tal vez fuego tirano, relámpagos de risa carmesíes, auroras, gala y presunción del cielo.

En breve cárcel traigo aprisionado (nº 465). Più che una descrizione della donna amata, il poeta ci offre la descrizione di un Retrato de Lisi que traía en una sortija (titolo di El Parnaso), ponderando il contrasto tra la piccolezza dell’anello che contiene l’immagine e la dimensione cosmica della bellezza della sua dama. Una volta ancora, Quevedo procura non limitarsi ad una galanteria semplice e superficiale, anche se indubitabilmente prese in considerazione una lunga tradizione poetica nella quale non mancano le comparazioni della donna con un gioiello prezioso (per esempio in Petrarca) né le ingegnose descrizioni di anelli con le quali questo sonetto presenta qualche similitudine, soprattutto un celebre sonetto di Góngora (“Prisión del nácar era articulado”) ed un altro dell’italiano Marino (“Breve cerchio d’or fin, che di splendore”). Diez años de mi vida se ha llevado en veloz fuga y sorda el sol ardiente,

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después que en tus dos ojos vi el Oriente, Lísida, en hermosura duplicado. Diez años en mis venas he guardado el dulce fuego que alimento, ausente, de mi sangre. Diez años en mi mente con imperio tus luces han reinado. Basta ver una vez grande hermosura; que, una vez vista, eternamente enciende, y en l’alma impresa eternamente dura. Llama que a la inmortal vida trasciende ni teme con el cuerpo sepultura, ni el tiempo la marchita ni la ofende.

Diez años de mi vida se ha llevado (nº 471). Questo è uno dei tre poemi di anniversario di Canta sola a Lisi, alla maniera di quelli che incluse Petrarca nel Canzoniere. Il poeta aproffitta l’occasione del tempo commemorato (con l’anafora dei versi 1, 5 e 7) per fare il bilancio del processo e del fenomeno amoroso, che inizia con lo sguardo, e per raccogliere motivi conosciuti come l’identificazione della donna amata con il sole e la perduranza del sentimento: Amor de sola una vista nace, vive, crece y se perpetúa (titolo di El Parnaso). Cerrar podrá mis ojos la postrera sombra que me llevare el blanco día, y podrá desatar esta alma mía hora a su afán ansioso lisonjera; mas no, de esotra parte en la ribera, dejará la memoria en donde ardía: nadar sabe mi llama la agua fría y perder el respeto a ley severa. Alma a quien todo un dios prisión ha sido, venas que humor a tanto fuego han dado, medulas que han gloriosamente ardido, su cuerpo dejarán, no su cuidado, serán ceniza, mas tendrá sentido, polvo serán, mas polvo enamorado.

Cerrar podrá mis ojos la postrera (nº 472). È molto possibile che il titolo assegnato a questo poema in El Parnaso español non si debba all’autore, ma la verità è che riassume con grande sobrietà e precisione il complesso contenuto di questo sonetto amoroso, “che è possibilmente il migliore di Quevedo, probabilmente il migliore della letteratura spagnola” (parole di

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Dámaso Alonso)20 e, senza dubbio, il più analizzato dagli specialisti. Il tema, che appare in altre composizioni anteriori (come quelle che iniziano “Fuego a quien tanto mar ha respetado”, “Si hija de mi amor mi mente fuese”, o il sonetto di anniversario che abbiamo appena commentato), si basa in un paradosso che esprime la possibilità di vivere senza vivere (e cioè, vivere senza vita, o più esattamente vivere nella morte) grazie alla passione incombustibile dell’amore. La logica e la struttura del sonetto si adeguano al tema con ammirevole perfezione, tanto per la bellezza della metafora della morte e l’oblio quanto per l’alternanza tra formule concessive (“Cerrar podrá…”, “podrá desatar…”) ed avversative (“mas no…”), procedimento che si ripete e si intensifica nelle terzine mediante l’enumerazione delle parti dell’essere (alma, venas, medulas), destinate alla caducità, ma redimite dal sentimento amoroso ed eternamente vive in esso. ¡Qué perezosos pies, qué entretenidos pasos lleva la muerte por mis daños! El camino me alargan los engaños y en mí se escandalizan los perdidos. Mis ojos no se dan por entendidos, y por descaminar mis desengaños, me disimulan la verdad los años y les guardan el sueño a los sentidos. Del vientre a la prisión vine en naciendo; de la prisión iré al sepulcro amando, y siempre en el sepulcro estaré ardiendo. Cuantos plazos la muerte me va dando prolijidades son, que va creciendo, porque no acabe de morir penando.

¡Qué perezosos pies, qué entretenidos! (nº 475). Sotto l’apparenza di una riflessione morale sulla morte ed il passare del tempo, questo sonetto esprime la costanza e l’ostinatezza nell’amore, unica missione del poeta durante l’intera vita (dalla culla al sepolcro, dice nella prima terzina). Come nel sonetto anteriore, evita il tu esplicito di altre occasioni (cioè, Lisi) per conferire tutto il drammatismo possibile al caso dell’innamorato, che non fa che soffrire ma non rinuncia al suo sentimento, come dice il titolo di El Parnaso: Amante desesperado del premio y obstinado en amar.

20 D. Alonso, Poesía española. Ensayo de métodos y límites estilísticos, Madrid, Gredos, 19665, p. 526.

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Il canzoniere di Quevedo

Cargado voy de mí: veo delante muerte que me amenaza la jornada; ir porfïando por la senda errada más de necio será que de constante. Si por su mal me sigue ciego amante (que nunca es sola suerte desdichada), ¡ay!, vuelva en sí y atrás; no dé pisada donde la dio tan ciego caminante. Ved cuán errado mi camino ha sido, cuán solo y triste y cuán desordenado, que nunca ansí le anduvo pie perdido; pues por no desandar lo caminado, viendo delante y cerca fin temido, con pasos que otros huyen le he buscado.

Cargado voy de mí: veo delante (nº 478). Nella tradizione dei poemi ricapitolativi e palinodici del petrarchismo, il poeta fa il bilancio della sua situazione e si offre come esempio per il disinganno di tutti gli innamorati: Exhorta a los que amaren que no sigan los pasos por donde ha hecho su viaje (titolo di El Parnaso). Si riconoscono facilmente gli echi di Petrarca, ma il modello più diretto è un sonetto di Juan Boscán con un inizio molto similare (“Cargado voy de mí doquier que ando”), e non in vano quello di Quevedo appare nella parte finale di Canta sola a Lisi, nella quale sono frequenti le lamentazioni. En los claustros del alma la herida yace callada, mas consume hambrienta la vida, que en mis venas alimenta llama por las medulas extendida. Bebe el ardor hidrópica mi vida, que ya, ceniza amante y macilenta, cadáver del incendio hermoso ostenta su luz en humo y noche fallecida. La gente esquivo y me es horror el día; dilato en largas voces negro llanto, que a sordo mar mi ardiente pena envía. A los suspiros di la voz del canto, la confusión inunda el alma mía, mi corazón es reino del espanto.

En los claustros del alma herida (nº 485). L’amore è come una malattia, come una ferita silenziosa che consuma l’innamorato e lo sprofonda nello

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sgomento del suo inferno interiore. Il sonetto (“uno dei migliori poemi spagnoli che esprimono l’immanenza del dolore”, secondo parole di Gonzalo Sobejano)21 sviluppa quest’idea con grande effettività retorica e con un patetismo che fu ben raccolto dal titolo assegnato in El Parnaso español: Persevera en la exageración de su afecto amoroso y en el exceso de su padecer. Si mette in risalto l’ “eccellente coerenza discorsiva sin dall’elemento interiore dei quartetti all’esteriorizzazione delle terzine” (J. M. Pozuelo)22, per culminare con un endecasillabo demolitore, somma e riassunto di tutti i sintomi enumerati. ¿Cuándo aquel fin a mí vendrá forzoso, pues por todas las vidas se pasea, que tanto el desdichado le desea y que tanto le teme el venturoso? La condición del hado desdeñoso quiere que le codicie y no le vea; el descanso le invidia a mi tarea parasismo y sepulcro perezoso. Quiere el Tiempo engañarme lisonjero, llamando vida dilatar la muerte, siendo morir el tiempo que la espero. Celosa debo de tener la suerte, pues viendo, ¡oh Lisi!, que por verte muero, con la vida me estorba el poder verte.

¿Cuándo aquel fin a mí vendrá forzoso…? (nº 492). Anche se non è l’ultimo poema della collezione dedicata a Lisi, effettivamente si tratta dell’ultimo sonetto nell’edizione di González de Salas e si presenta come scritto dopo la morte dell’amata: Laméntase, muerta Lisi, de la vida, que le impide el seguirla. Il desiderio di morire, vecchio motivo della poesia sentimentale, fa sí che la vita e la morte si confondano ancora una volta. Consapevole della prossimità della sua morte, Quevedo scrisse a Villanueva de los Infantes che “hay muchas cosas que, pareciendo que existen y

21 G. Sobejano, “En los claustros de l’alma…” Apuntaciones sobre la lengua poética de Quevedo, in Sprache und Geschichte. Festschrift für Harri Meier, Monaco di Baviera, W. Fink Verlag, 1971, ora in id., Inmanencia y trascendencia en poesía (de Lope de Vega a Claudio Rodríguez), Salamanca, Almar, 2003, p. 103. 22 F. di Quevedo, Antología poética, a cura di J. M. Pozuelo Yvancos, Madrid, Biblioteca Nueva, 1999, p. 295.

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Il canzoniere di Quevedo

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tienen ser, ya no son nada, sino un vocablo y una figura”. Il paradosso del petrarchismo, che è stato molte volte sul punto di non essere più che quello, una parola e una figurazione, è quello di avere tollerato tante derive: il canzoniere monogamico e cristiano di Petrarca è stato specchio, modello e ispiratore di capolavori pagani, poligamici, parodici, femminili, forse anche omoerotici… L’autore del Secretum, sempre attento al suo ruolo coevo e futuro nella letteratura europea, non poteva presagire che un petrarchismo diffidente e dissidente finirebbe col riunire creatori cosí importanti e così diversi tra loro come Quevedo, Shakespeare, Goethe o Leopardi (per non accennare al post-petrarchismo che alcuni critici avvertono in Neruda o Montale). La menzione di tali nomi basta a darci un’idea della vitalità dei Rerum vulgarium fragmenta.

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LE PÉTRARQUISME D’AGRIPPA D’AUBIGNÉ

Si l’on cherche à le rattacher à un grand ancêtre italien, d’Aubigné se situe dans la lignée de Dante plutôt que dans celle de Pétrarque, sans qu’on puisse prouver toutefois une filiation directe du poète de la Divine Comédie à celui de la “Divine Tragédie” huguenote 1. Or la dette de d’Aubigné envers Pétrarque est loin d’être négligeable2. Je commencerai par noter une coïncidence entre Pétrarque et Agrippa d’Aubigné. Il s’agit d’une simple coïncidence factuelle à laquelle on ne doit pas accorder une importance exagérée. La dernière œuvre en langue vulgaire de Pétrarque, une œuvre inachevée, est la série des Triumphi. La dernière œuvre publiée par Agrippa d’Aubigné quelques semaines avant sa mort, et qu’il aurait sans nul doute poursuivie s’il avait vécu plus longtemps, est le Livre quatriesme des Avantures du Baron de Faeneste, récit picaresque dialogué qui s’achève par un triomphe allégorique à la manière de Pétrarque. C’est du reste l’une des rares fois où le nom de Pétrarque est mentionné dans l’œuvre de d’Aubigné.

1 Arturo Farinelli, Dante e la Francia dall’Età Media al Secolo di Voltaire, Milan, Ulrico Hoepli, 1980, vol. I, p. 535-545. À compléter par Lionello Sozzi, «D’Aubigné, l’Italie et les auteurs italiens, les ‘Tragiques’ et la ‘Divine Comédie’», Albineana 15. «Aubigné et l’Italie», 2004, p. 13-36. Voir notamment p. 26-36. 2 Voir Lionello Sozzi, art. cit., p. 19-21.

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Une parodie de Pétrarque: les Triomphes du Faeneste IV

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Là s’arrête, semble-t-il, le parallèle. Les triomphes du livre IV du Faeneste sont parodiques. Ils prennent le contre-pied de Pétrarque, mais s’en inspirent incidemment et obliquement. Une tapisserie en douze pièces – ou pentes – orne la grand’salle du château de Farnacle: “Elle est de quatre triomphes, chacun de trois pantes”. “Ce n’est pas”, ajoute d’Aubigné, “le triomphe de la Chasteté, ni rien de l’invention de Pétrarque”3. Certes, mais il faut toujours se méfier des dénégations. Le premier triomphe est celui de l’Impiété, figure du catholicisme superstitieux et cruel, le second de l’Ignorance, le troisième de Poltronnerie, et “le quatriesme de Gueuserie, qui est le plus beau”4. La Gueuserie incarne ici l’élévation sociale par des moyens malhonnêtes. On mesure évidemment ce que l’allusion à Pétrarque peut avoir ici d’irrévérencieux et de comique. La référence, au demeurant, n’a rien qui doive surprendre, puisque Pétrarque est le créateur du genre des Triumphi. Un genre poétique qui se définit par son caractère visuel et théâtral et un ordre d’exposition où les allégories se présentent à tour de rôle, formant cortège. Au lieu de six chez Pétrarque – l’Amour, la Chasteté, la Mort, la Renommée, le Temps et l’Éternité –, ces figures allégoriques ne sont plus que quatre chez d’Aubigné5. Elles se succèdent tout en procédant l’une de l’autre. L’Impiété engendre l’Ignorance et est vaincue par elle. La Poltronnerie procède de l’Ignorance et la surmonte. La Gueuserie, qui est la traduction sociale de l’imposture attachée aux trois premiers vices, triomphe en dernier lieu. Alors que les Triumphi dessinent une ascension continue de la terre vers le ciel, d’Aubigné représente le parcours inverse d’un abaissement continuel, de l’Ignorance première jusqu’à la Gueuserie finale. «Les chariots, ici, sont tirés non pas par de blancs chevaux mais par des diables, des ânes, des daims, des renards, des ‘louves maigres’», comme celle que rencontre Dante dans la selva oscura au début de la Divine Comédie 6. L’ordre hiérarchique du triomphe est renversé les vicieux triomphants mènent enchaînés ceux qui ont

3 Agrippa d’Aubigné, Les Avantures du baron de Faeneste, livre IV, chap. XVI à XX, in Agrippa d’Aubigné, Œuvres, éd. H. Weber, M. Soulié et J. Bailbé, Paris, Gallimard, «Bibliothèque de la Pléiade», 1969, p. 820. 4 Ibid., ad loc. 5 Henri Weber, «Les Tapisseries du Faeneste», Albineana 13, Niort, 2001, p. 191-205. 6 L. Sozzi, art. cit., p. 19-20.

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Le pétrarquisme d’Agrippa d’Aubigné

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pratiqué la vertu contraire, adeptes respectivement de la Piété, de la Sagesse, de la Valeur et de la Probité. Les triomphes parodiques du Faeneste apparaissent en ce sens comme des “contre-triomphes”: ils conjuguent à l’apparat pétrarquiste le topos du monde renversé, dont la valeur satirique est bien connue. Dans ce registre carnavalesque, ils ont pour précédents, et peut-être pour modèles, le Trionfo della Calumnia de Benedetto Rucellai, un anonyme Trionfo dei Pazzi intégré à un recueil de Canti Carnascialleschi et en France le Triomphe de très haute et puissante Dame Vérole7. Chaque contre-triomphe du Faeneste se présente selon un protocole rigoureux et presque immuable: vient tout d’abord la figure éponyme avec ses acolytes siégeant sur un char; puis l’attelage qui le traîne, la musique qui l’accompagne, le pavement que foulent les roues, enfin l’énumération des prisonniers et des champions victorieux qui tiennent leurs chaînes. Les captifs et leur escorte sont regroupés suivant un ordre chronologique. C’est ici que les trois pentes de tapisserie trouvent leur justification, puisque l’histoire universelle, comme déjà dans Les Tragiques, se découpe en trois grandes périodes: l’Antiquité, c’est-à-dire l’ancienne Alliance, l’Église primitive et les temps modernes de la Réforme8. Ce dernier volet est le plus développé, puisque jamais dans l’histoire des hommes les vices n’ont pris un tel empire. Du reste, dans le cas de la Poltronnerie, les deux premières pentes font défaut, car, nous est-il d’abord expliqué, c’est le mur de la pièce où se trouve la cheminée; c’est surtout que les anciens n’exaltaient que la vaillance, et non son contraire, comme aujourd’hui. Ce quadruple triomphe parodique valut à d’Aubigné la censure de l’Église de Genève. En effet, beaucoup plus rabelaisien que pétrarquiste, ce triomphe en quatre chapitres et en prose verse dans la franche obscénité. On y voit par exemple Dame Ignorance “toute nuë, n’ayant pas le jugement de cacher ses parties honteuses”, et, dans ce simple appareil, lisant de bas en haut dans un bréviaire9. Flanquée de l’Opiniâtreté et de la Superstition, ayant la Folie pour vis-à-vis, elle traîne trois bandes de captifs, où figurent au premier rang les patriarches de l’Ancien Testament, “Noé, qui voulut faire le

7

Cités par H. Weber, art. cit., p. 192. Agrippa d’Aubigné, Faeneste, IV, XVII, “Pléiade”, p. 821: “Souvenez-vous qu’à chaque costé de la salle il faloit trois pentes de tapisserie: la premiere, de ce que fournissoit l’Antiquité; la seconde, de ce que nous avons appris durant la primitive Eglise; la troisiesme est des Modernes et de ce temps.” 9 Agrippa d’Aubigné, Faeneste, IV, XVIII, “ Pléiade ”, p. 823. 8

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savant à inventer l’arche; Moyse, à amener la loy à des gens qui n’en vouloient point”, et à leur suite la cohorte des Prophètes et des pères de l’Église, dûment enchaînés pour des raisons du même genre10. Le plus incongru, et le plus difficilement acceptable pour le Conseil de Genève, c’était de voir défiler, bousculés et en pauvre équipage, les principaux théologiens réformés. Calvin lui-même n’échappe pas au traitement d’infamie, et cela nous vaut cet excellent portrait-charge: “ce pauvre Calvin, maigre comme un harancsoret”11. Le voici emporté sans ménagement parmi la foule des captifs, à la suite de “tant de Docteurs d’Alemagne qui osoient prescher contre l’ivrognerie”, et juste devant les douze ministres de Poissy, les sieurs de Chamdieu et Du Plessis-Mornay. Un peu plus loin, le pavé sur lequel roule le lourd chariot d’Ignorance est constitué de “force livres polemicques”, dont la liste s’ouvre par l’Institution de la religion chrestienne et se clôt, comble d’ironie, par l’Histoire universelle d’Agrippa d’Aubigné lui-même12! On constate que l’auteur pousse jusqu’à ses ultimes conséquences la logique carnavalesque du renversement. Les contre-triomphes du Faeneste sont remplis d’une allégresse iconoclaste qui n’épargne rien ni personne, pas même le parti protestant et ses chefs de file. Tout en concentrant ses traits sur l’Église catholique et ses adeptes, le satiriste pousse l’irrespect jusqu’à feindre de se moquer de lui-même et de ses propres valeurs. Non sans une perceptible jubilation, il égratigne les icônes protestantes, comme Calvin, dont la silhouette de hareng saur est montrée du doigt, et l’œuvre fondatrice, l’Institution, foulée aux pieds, après avoir été ravalée au rang de “livre polémique”, ce qui est peutêtre la pire injure pour un ouvrage qui se voulait tout à la fois de réconciliation et de refondation. Ces plaisanteries scabreuses, qui ne s’en prenaient pas seulement aux ennemis catholiques, mais malmenaient aussi les figures les plus révérées de la tradition réformée, choquèrent les autorités de Genève, fort sourcilleuses en matière de dogme et de bienséances. À peine le Livre Quatriesme était-il sorti de presse, début avril 1630, c’est-à-dire moins d’un mois avant la mort de d’Aubigné, que l’imprimeur Pierre Aubert fut arrêté. On se garda bien d’appréhender l’auteur, trop connu et d’un âge plus que respectable. Le Petit Conseil estima qu’il y avait dans ce livre “plusieurs choses impies et blasphématoires qui scandalisent les gens de bien”.

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Ibid., p. 823. Ibid., p. 824. 12 Ibid., ad loc. 11

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Le pétrarquisme d’Agrippa d’Aubigné

Ce remploi ironique et carnavalesque n’est pas, bien sûr, la seule trace de Pétrarque dans l’œuvre d’Agrippa d’Aubigné. Avant le Faeneste, d’Aubigné a déjà repris à nouveaux frais le genre des Triomphes dans La Chambre dorée, le troisième livre des Tragiques, pour peindre «le triomphe sainct de la sage Themis», la justice céleste, par opposition à la justice corrompue et sanglante des hommes13. Nulle intention parodique ici de la part de d’Aubigné, mais comme chez son coreligionnaire et contemporain Du Bartas, auteur d’un Triomfe de la Foi publié en 1574 dans sa Muse Chrestienne, la volonté de reprendre à Pétrarque la part religieuse de son héritage et de l’annexer au patrimoine réformé.

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Ronsard contre Pétrarque: l’Ode XIII du Printemps Il est dans l’œuvre d’Agrippa d’Aubigné une seconde référence explicite à Pétrarque, elle aussi critique et légèrement parodique, dans Le Printemps, ce canzoniere composé par d’Aubigné, ou plutôt entrepris par lui à l’âge de ses vingt ans et de sa passion brûlante et malheureuse pour Diane Salviati, la nièce de la Cassandre de Ronsard. À vrai dire, l’Ode dans laquelle le nom de Pétrarque apparaît ne saurait être contemporaine des premiers élans amoureux d’Agrippa d’Aubigné et de la rupture de ses fiançailles. La critique interne montre qu’elle est plus tardive d’au moins dix ans et qu’elle coïncide avec le début de la composition des Tragiques, à partir de 157714. Cette Ode adressée à Nicolas Volussien, un ami du poète qui cultivait lui-même les Muses, rend un hommage appuyé, et en même temps ambigu, à “Ronsard le père”15. Le rapport de d’Aubigné à Ronsard est un rapport filial, tout à la fois d’admiration, d’émulation et de culpabilité. La filiation va de pair en effet avec une rivalité poétique, mais aussi érotique. D’Aubigné osa aimer la nièce, et de quelle passion ardente! là où Ronsard s’était borné à courtiser la tante, d’assez loin et sur un mode plutôt platonique. En apparence, l’Ode XIII du Printemps chante la palinodie. Elle déclare le modèle ronsardien inaccessible. Le «parfait poëte» doit non seulement 13

Agrippa d’Aubigné, Les Tragiques, III: La Chambre dorée, v. 695-902. Voir sur ce point Frank Lestringant, «Agrippa d’Aubigné, fils de Ronsard: autour de l’Ode XIII du Printemps», Studi Francesi, vol. 109, anno XXXVII, fasc. 1, gennaio-aprile 1993, p. 1-13. 15 A. d’Aubigné, Le Printemps, Ode XIII, v. 61, in Œuvres, op. cit., «Pléiade», p. 303: «Pendant que Ronsard le pere/ Renouvelle nostre mere […]». 14

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avoir l’«âme parfaite», mais connaître à fond tous les arts. Or quel être humain serait capable en une vie de «Gaigner l’encyclopedie/ Ou esprouver tous mestiers»16? Qui ne voit là une réplique ironique à la seconde Preface sur la Franciade ou à l’Abrégé de l’Art poétique, qui recommandaient au poète de faire le tour de toutes les connaissances et d’être tantôt philosophe, tantôt médecin, arboriste, anatomiste et jurisconsulte, sans oublier les métiers manuels? Quand, s’adressant à Volussien, d’Aubigné dit refuser le genre épique et préférer à la guerre mythologique des géants et des dieux la guerre réelle qu’il connaît bien pour avoir servi sous toutes les armes, infanterie, cavalerie et marine, il plaisante. Le renoncement n’est qu’apparent ou du moins provisoire; il prépare en réalité à l’exécution du grand œuvre que constituent Les Tragiques. Pour conclure son reniement de la “poésie parfaite” préconisée par Ronsard, d’Aubigné affirme renoncer de plein gré à “La renommée immortelle/ D’un pedentesque savoir”17. C’est alors que Pétrarque entre en scène: Nicollas, tes serpelettes, Tes vendangeurs, tes sornettes, Resonnent à mon gré mieux Que ces rimes deux fois nées Et ces frazes subornées D’un Petrarque ingenieux18.

Henri Weber commente en ces termes les trois derniers vers de la strophe. C’est l’imitation qui donne à de tels vers une seconde naissance. Comme l’ont fait Du Bellay dès 1553 et Ronsard après lui, d’Aubigné condamne le pétrarquisme qui favorise l’imitation. Il lui oppose le naturel de la poésie rustique, probablement bucolique, à laquelle s’exerce Nicolas Volussien. Mais comment ne pas voir que ces vers sont ironiques et qu’ils condamnent la haute poésie pour privilégier le genre le plus bas? La condamnation du pétrarquisme est-elle, à tout prendre, plus sincère que le reniement du modèle ronsardien? Préférer le style bas au détriment de l’art sublime, ce n’est pas condamner le grand genre, mais seulement confesser son incapacité à l’atteindre.

16

Id., Ode XIII, v. 151-156, «Pléiade», p. 306. Id., Ode XIII, v. 167-168, «Pléiade», p. 306. 18 Ibid., v. 169-174, «Pléiade», p. 306. 17

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Le pétrarquisme d’Agrippa d’Aubigné

Ce passage anti-pétrarquiste pose la question de l’imitation en termes de paternité. La paternité de Ronsard, pour adoptive qu’elle fût, était bonne et légitime; celle de Pétrarque est usurpée. Qu’on en juge plutôt par la suite de l’Ode:

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Car de quell’ ame peut estre Ce que l’on fait deux foys naistre Par le faux pere aprouvé: Comme la poule pourmeine, Non le poulet qu’elle ameine, Mais celluy qu’elle a couvé19.

À “Ronsard le pere” évoqué au début de la même Ode avec révérence et émotion, s’oppose la fausse paternité du pétrarquisme. Alors que l’exemple de Ronsard suscite une émulation féconde – “maint cher nourrisson” après lui “dresse sa gloire” –, celui de Pétrarque engendre le plagiat et l’imposture. “Le faux pere”, ici, c’est le poète pétrarquiste qui s’approprie indûment la technique et l’outillage “d’un Petrarque ingenieux” – un ingénieur en poésie, serait-on presque tenté de dire, dont la cohorte des apprentis remplit la scène littéraire française du XVIe siècle. Il est difficile sans doute de rivaliser avec Ronsard, mais du moins son influence est-elle bénéfique et fécondante, alors que celle de Pétrarque aboutit à la répétition stérile des mêmes motifs. Pour le dire une nouvelle fois en termes d’imaginaire parental, alors que Ronsard est un ancêtre légitime, Pétrarque cocufie ceux qui se réclament de lui sans le renouveler. Ces derniers ont bien tort d’arborer fièrement leur progéniture, car ils promènent en lieu et place de celle-ci une descendance étrangère: Comme la poule pourmeine, Non le poulet qu’elle ameine, Mais celluy qu’elle a couvé.

Incapables de concevoir par eux-mêmes, les pétrarquistes français se bornent à couver l’œuf du poète italien. La référence à la basse-cour trahit la piètre estime dans laquelle d’Aubigné tient les plats imitateurs de Pétrarque. À noter que le prestige de ce dernier est à peine entamé. En l’affaire, c’est le pétrarqui-

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Ibid., v. 175-180, «Pléiade», p. 307.

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sant, et non Pétrarque, qui joue le rôle ingrat du père berné. D’où cette condamnation sans équivoque d’une imitation ravalée au rang de plagiat:

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C’est beaucoup de bien traduire, Mais c’est larcin de n’escrire Au dessus: traduction, Et puis on ne fait pas croire Qu’aux femmes et au vulgaire Que ce soit invention20.

On voit donc que l’Ode XIII du Printemps ne tient pas la balance égale entre les deux paternités poétiques de Ronsard et de Pétrarque. Le premier modèle est décourageant sans aucun doute, mais il reste modèle, quand bien même (presque) inaccessible, alors que le second, qui produit des “rimes deux fois nées” et des “frazes subornées” interdit de fait l’invention. En définitive, il semblerait que dans l’opposition paradigmatique entre Ronsard et Pétrarque, d’Aubigné retrouve l’antithèse traditionnelle entre inspiration et imitation, entre enthousiasme poétique et habileté technicienne et singeresse d’autrui. Le lignage de Ronsard est celui des authentiques poètes; celui de Pétrarque est formé de la foule innombrable et monotone des rimeurs. Pétrarque donnerait tout au plus des procédés et des formules, alors que Ronsard communiquerait le souffle divin, sans lequel la poésie véritable est inconcevable. De toute évidence, cette critique relève de l’anti-pétrarquisme le plus traditionnel, tel qu’il a été illustré en France par Joachim Du Bellay, luimême poète pétrarquien et pétrarquisant dans L’Olive21, avant de chanter la palinodie. En réalité, il en va tout autrement que ne le laisserait supposer l’antithèse simplificatrice développée dans l’Ode XIII. Pour s’en convaincre et démentir d’Aubigné par lui-même, il suffit de se reporter à une autre section du Printemps, à savoir L’Hécatombe à Diane, qui en constitue le premier volet. D’Aubigné disciple de Pétrarque D’Aubigné goûtait et pratiquait Pétrarque. Comme la plupart de ses contemporains lettrés, il le lisait en italien. On le sait par sa Correspondance. 20

Ibid., v. 181-186, «Pléiade», p. 307. Voir sur ce point Olivier Millet, “Du Bellay et Pétrarque, autour de L’Olive”, in Jean Balsamo éd., Les Poètes français de la Renaissance et Pétrarque, Genève, Droz, 2004, p. 253-266. 21

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Le pétrarquisme d’Agrippa d’Aubigné

Une lettre sans millésime adressée à “M. l’Advocat du Roy, à Fontenay le Comte” et datée “De nostre mayson de Maillezais, ce 25 de mars”, comporte ce post-scriptum: “Vous plairoit-il m’envoyer par Bernard, present porteur, Petrarcha & Bembo & il Cortegiano di Baldezar Castiglione, qui me fera escole à ceste heure-cy22?” Le contexte de la lettre évoque une joute poétique. Gouverneur de Maillezais, abbaye du marais poitevin qu’il a transformée en forteresse, d’Aubigné vit alors retiré au “désert” et dans une bouderie prolongée vis-à-vis du roi Henri IV, qui a abjuré le protestantisme, puis dans une rébellion de plus en plus ouverte face à son successeur Louis XIII et à la régente Marie de Médicis23. Le séjour du poète à Maillezais, qui s’étend sur trois décennies, de 1589 à 1620, est la période la plus féconde de sa production littéraire. C’est là qu’il a composé, outre de nombreux pamphlets, l’essentiel des Tragiques et de l’Histoire universelle. Si d’Aubigné relit Pétrarque et Bembo à une date qu’il faut donc supposer tardive, c’est pour y prendre du plaisir, mais aussi des leçons. Tel est, dans la lettre sans millésime, le sens de l’expression “faire école”. Jusqu’à un âge avancé de sa vie, d’Aubigné fut l’écolier de Pétrarque, et accessoirement celui de Bembo et de Castiglione. En témoigne L’Hécatombe à Diane, le premier volet d’un Printemps en triptyque, dont la rédaction déborde le temps de la jeunesse, comme on l’a suggéré plus haut24. L’Hécatombe porte l’empreinte profonde, non seulement du pétrarquisme, mais de Pétrarque lui-même25. Dans plus d’un sonnet, on

22 A. d’Aubigné, Œuvres complètes, éd. Réaume et de Caussade, Paris, Alphonse Lemerre, t. Ier, 1873, p. 572. — Pas trace de Pétrarque, en revanche, dans l’inventaire après décès des biens d’Agrippa d’Aubigné. Mais il est vrai que cette bibliothèque de ville ne comporte pratiquement pas de poètes. D’Aubigné les gardait sans doute pour les loisirs de la campagne. Voir sur ce point Jean-Raymond Fanlo, «La Bibliothèque genevoise d’Agrippa d’Aubigné d’après l’inventaire après décès», Bibliothèque d’humanisme et Renaissance, t. LXVI, 2004, n° 3, p. 565-601. 23 C’est le 31 décembre 1588 que d’Aubigné reçoit la capitulation de Maillezais dont il devient ensuite gouverneur. En août 1620, proscrit au lendemain de la défaite des Pontsde-Cé, il quitte définitivement la France pour Genève, où il arrive le 1er septembre. — Sur le sens de cette retraite poitevine, voir Alexandre Tarrête, “Agrippa d’Aubigné à Maillezais. Un poète au désert”, in Cécile Treffort et Mathias Tranchant dir., L’abbaye de Maillezais. Des moines du marais aux soldats huguenots, Rennes, Presses universitaires de Rennes, 2004, p. 63-76. 24 Pour cette influence, voir surtout Wolfgang Drost, «Petrarchismo e realismo nella poesia di D’Aubigné giovane», Rivista di letterature moderne e comparate, XV, 3, 1962, p. 165-187. 25 Je m’écarte sur ce point précis de la récente lecture proposée par Véronique Ferrer, «Le Printemps d’Agrippa d’Aubigné ou les épreuves du pétrarquisme», in Jean Balsamo

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relève non seulement des traits pétrarquistes ou pétrarquisants, mais souvent une imitation très précise de vers, de quatrains ou de tercets entiers venus du Canzionere. L’Hécatombe à Diane, on le sait, est un sacrifice de cent victimes offert à la déesse vierge et inexorable, mais le titre comporte aussi une allusion subtile à Hécate aux trois visages. D’Aubigné doit sans doute l’idée du chiffre cent à la tradition italienne, où la centaine de sonnets n’est pas exceptionnelle. L’une des premières en date est celle qu’Antonfrancesco Rainerio publie à Milan en 155426. Ces Cento sonetti sont très éloignés par le sujet et par le ton de l’Hécatombe sanglante réunie par le soupirant de Diane Salviati. Accompagnés d’abondants commentaires en prose, dus au frère du poète et de contenu anecdotique, ils retracent la carrière tout à la fois honorable et décevante d’un fonctionnaire nourri de bonnes lettres, et se partagent entre l’éloge servile et la mortification mondaine27. Le seul trait commun entre Rainerio et d’Aubigné est que ce recueil poétique est marqué au coin de la mort. L’épître dédicatoire de Rainerio assimile curieusement la publication des Cento soneti à un suicide à l’antique, qui préfigure la fin tragique de l’auteur, lequel mettra fin à ses jours dans des circonstances obscures 28. Pareillement, d’Aubigné, paraphrasant dans sa Préface en vers les Tristes d’Ovide, lie l’apparition de son œuvre à sa propre mort, qu’elle est chargée, il est vrai, non d’anticiper, mais de compenser. De la tradition de la centaine de sonnets, on peut rapprocher encore l’exemple de Du Bellay, excellent connaisseur des poètes italiens de son siècle. La première édition de L’Olive en 1549 réunit cinquante sonnets, c’est-à-dire une demi-centaine. Ce chiffre

éd., Les Poètes français de la Renaissance et Pétrarque, op. cit., p. 445-457. L’auteur de cette étude très solide écrit notamment: «En vérité, force est de constater qu’entre Aubigné et Pétrarque, les relais se multiplient. L’influence de l’Italien est filtrée et accommodée au sol français par des poètes comme Maurice Scève, Joachim Du Bellay, et surtout Pierre de Ronsard, maître absolu dont le poète protestant se réclame». Certes, mais il n’empêche que d’Aubigné lit aussi directement Pétrarque, et, qui plus est, dans l’original italien. L’observation vaut aussi pour Du Bellay, comme l’a montré Olivier Millet, art. cit., p. 254255. Chez l’un et l’autre poètes, l’imitation de Pétrarque, “un Pétrarque intertextuel”, s’opère à deux niveaux, immédiatement et par l’intermédiaire des pétrarquistes italiens. 26 Guglielmo Gorni a signalé ce rapprochement dans un numéro de Versants publié en 1989 et consacré aux «Prologues au XVIe siècle»: «I ‘Cento sonetti’ di Antonfrancesco Rainerio», p. 135-143. Voir ici même, id., «Perché non possiamo non dirci petrarchisti. Abbozzo di un bilancio di vita e opere». 27 Guglielmo Gorni, «I ‘Cento sonetti’», art. cit., p. 144. 28 Ibid., p. 146-149.

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symbolique disparaît dès la deuxième édition, en 1550, lorsque le nombre des sonnets est porté de cinquante à cent quinze. D’emblée l’imitation de Pétrarque dans l’Hécatombe à Diane est patente et massive. Les quatre premiers sonnets sont quatre variations sur le motif de la «tempête avec spectateur», ou, si l’on préfère, une variatio maniériste en quatre temps sur un motif directement emprunté à Pétrarque29. Le modèle commun à ces quatre sonnets est en effet le sonnet 189 du Canzoniere: «Passa la nave mia colma d’oblio/ per aspro mare»30. D’Aubigné reprend à son compte la métaphore filée de la navigation amoureuse que l’on rencontre aussi dans la première poésie de la Renaissance, chez les émules de Clément Marot, comme Jacques Colin, l’auteur du poème «De la conformité de l’amour et du navigage». Mais d’Aubigné donne au motif une ampleur nouvelle. L’âpre mer, l’aspro mare de Pétrarque devient, dans le deuxième sonnet de l’Hécatombe, «l’horreur de la mer enragée». Ce roulement des rr qui définit selon Ronsard le son épique, cette rumeur qui forme dans La Franciade le fond sonore des scènes de bataille et de tempête, ouvre la confession lyrique du Printemps sur l’ampleur symphonique du grand genre. Certes l’allégorisme minutieux de Pétrarque est conservé, notamment dans les tercets du premier sonnet: Pour avoir mes souspirs, les vents levent les armes. Pour l’air sont mes espoirs volages et menteurs, La mer me fait perir pour s’enfler de mes larmes31.

et surtout du deuxième: En la mer de mes pleurs porté d’un fraile corps, Au vent de mes souspirs pressé de mille morts, J’ay veu l’astre beçon des yeux de ma deesse32.

29 Dario Cecchetti, «Agrippa d’Aubigné lit le Sonnet CLXXXIX de Pétrarque, un exercice de variatio maniériste», Albineana 15, 2004, p. 37-67. L’expression de «tempête avec spectateur» est tirée de Hans Blumenberg, Schiffbruch mit Zuschauer. Paradigma einer Daseinssmetapher, Francfort, Suhrkamp, 1979; trad. fr., Naufrage avec spectateur: paradigme d’une métaphore de l’existence, Paris, L’Arche, 1994. 30 Pétrarque, Canzoniere, éd. Marco Santagata, Milan, Mondadori, 1996 et 2004, p. 828; éd. et trad. Pierre Blanc, Paris, Bordas, «Classiques Garnier», 1988, p. 326-327. 31 A. d’Aubigné, Le Printemps, Hécatombe, I, p. 56; «Pléiade», p. 247. 32 Ibid., Hécatombe, II, p. 57; «Pléiade», p. 248.

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Ce dernier vers fait très précisément écho au Sonnet 189 du Canzoniere: «Celansi i duo mei dolci usati segni»33. Mais à cet allégorisme du modèle pétrarquiste d’Aubigné joint la fureur de l’emportement. S’il lui arrive de céder au désespoir, au point d’évoquer à plusieurs reprises et dans les termes les plus crus l’éventualité du suicide, il ne se résigne pas, à la différence de l’Italien. Jamais sa passion ne s’incline devant la fatalité ni même durablement devant la froideur de Diane, à la fois dame et déesse. On remarque que la chute du deuxième sonnet de l’Hécatombe renverse le propos de Pétrarque, laissant poindre une lueur d’espoir au cœur de la nuit et du chaos. La formule pétrarquiste:

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Celansi i duo mei dolci usati segni,

se retourne dans cette autre: J’ay veu l’astre beçon des yeux de ma deesse.

«L’amoureuse mer» (I, 6), en définitive, est illuminée par les yeux consolateurs d’une divinité soudain moins hostile que protectrice. La psychologie du Printemps diffère de celle du Canzoniere, comme diffère de l’allégorie pétrarquiste le paysage d’apocalypse qui sert de cadre à ce chant de souffrance amoureuse. Autre renversement par rapport au modèle: alors que le sonnet 189 de Pétrarque présente tous les caractères d’une conclusion, d’Aubigné le transforme en un texte liminaire, en le contaminant par quelques éléments thématiques venus du sonnet d’introduction, Voi ch’ascoltate, «Vous qui au fil des rimes éparses écoutez le son / de ces soupirs…»34. Dès lors, le topos de la tempête existentielle remplit une double fonction non seulement il illustre la situation psychologique, périlleuse et instable, de l’amant-poète embarqué dans une longue navigation, mais, de surcroît, il définit le rapport de l’auteur au lecteur, tel qu’il est posé au tout début du Canzoniere, un rapport marqué par l’oscillation entre la distance critique et la compassion35. Par-delà la contamination des deux sonnets de Pétrarque et la superposition de thèmes qui en résulte, d’Aubigné renoue avec un motif de la philosophie antique, le

33

Pétrarque, Canzoniere, sonnet 189, v. 12. Dario Cecchetti, art. cit., p. 58. 35 Ibid., p. 52. 34

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fameux Suave mari magno qui ouvre le livre II de Lucrèce36. La tempête vue du rivage n’appelle ici nulle ironie, moins encore l’impassibilité du philosophe, mais, dans la lignée de Pétrarque, le regard participant du public, en particulier celui de la «chere maitresse» évoquée dans le quatrième sonnet. Selon Dario Cecchetti, dont je suis la lecture, d’Aubigné, dans les quatre premiers sonnets de l’Hécatombe, aurait donc composé une sorte de Canzoniere en miniature réunissant les prémisses et la conclusion, l’ouverture et l’épilogue, – un micro-Canzionere, en quelque sorte, qui tient à la fois de l’hommage et du défi, réalisé dans le jeu alterné de la destruction et de la reconstruction du modèle37. Le plus remarquable, c’est qu’en dépit de ces écarts flagrants entre deux mondes et deux imaginaires que presque tout sépare, d’Aubigné recourt de façon délibérée et insistante aux formules pétrarquistes. Ce recours à Pétrarque a quelque chose de presque rituel. Les formules pétrarquistes surgissent à des moments-clés du sonnet, par exemple à l’attaque du premier vers, mais le plus souvent dans le second tercet et dans la pointe. C’est ainsi que plusieurs sonnets, dont la couleur ténébreuse et sanglante se situe à l’opposé de la tonalité plus sereine en comparaison du Canzoniere, se concluent par une paraphrase assez précise de Pétrarque. Prenons l’exemple des sonnets X et XIV du Printemps, qui sont deux sonnets de guerre et d’amour. On y observe le contraste presque choquant entre un pétrarquisme de convention dans les tercets et le pathétique de la scène vécue dans les deux quatrains. En d’autres termes, la violence du comparant rend le comparé d’autant plus faible et sentant l’artifice. Mais la rupture de ton n’a peut-être rien d’une maladresse, contrairement à ce que suppose Wolfgang Drost38. Ce dernier voudrait que le jeune d’Aubigné ne parvienne pas à s’affranchir entièrement des conventions à la mode. On pourrait considérer les choses tout autrement et voir dans le décrochement, qui fait passer des strophes guerrières, de ton épique, aux strophes amoureuses, d’un allégorisme assez convenu, l’effet d’une rupture délibérée. La puissance hallucinée du comparant communique quelque chose de son énergie au comparé. La souffrance amoureuse revêt dès lors la gravité d’une véritable agonie.

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Lucrèce, De nature rerum, II, 1-19. Dario Cecchetti, art. cit., p. 66. 38 Cité par Henri Weber, dans son commentaire du Sonnet XIV du Printemps, in A. d’Aubigné, Œuvres, «Pléiade», p. 1112. 37

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Le déséquilibre entre la guerre et l’amour réactive la métaphore usée et rend à la catachrèse l’énergie visionnaire de l’image. Ainsi, dans le sonnet X, le second tercet qui démarque et condense le second quatrain du sonnet 134 du Canzoniere, le fameux Pace non trovo, rend à la prison, aux fers et à la mort imminente toute la force d’une situation vécue39. De même dans le sonnet XIV, l’atroce agonie, sur le champ de bataille, d’un soldat terrassé et blessé à mort, donne à la métaphore du coup de grâce demandé par l’amant à l’aimée une énergie et une vérité inhabituelles. La pointe précieuse du dernier vers:

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Ny par la mort un mourant secourir40,

retrouve une sorte de sincérité que l’image trop usée avait perdue. Comme le dit justement Henri Weber, «le lieu commun pétrarquiste est rajeuni par la réalité de la vision du champ de bataille»41. Dans le sonnet XCIV, où se conjuguent peut-être des souvenirs d’Ovide et de Pamphilo Sasso, la fenêtre ouverte sur le cœur «sanglant» de l’amant, «transpercé mille fois/ Tout bruslé, crevassé», prépare l’image en surimpression de la ville violée par son propre prince, à l’occasion des guerres civiles qui ravagent alors la France. Diane lançant des brandons, dards et traits sur le cœur où est imprimé son portrait fait comme le roi de France, ou plutôt le tyran, assiégeant, détruisant et foulant «La place qui portoit ses armes et son nom». Dans cette métamorphose du cœur sanglant en place forte saccagée, s’esquisse un des plus fameux tableaux des Tragiques42. Même contraste et même chute de style et de registre dans le Sonnet LXXVII évoquant le saule mi-mangé qui sert d’appui au cep «ingrat de ce qui l’ha préservé», symbole de la femme insensible à l’amour du poète qui l’a portée aux nues et rendue immortelle43. La précision réaliste de l’arbre

39 A. d’Aubigné, Le Printemps, Hécatombe, X, p. 66-67; «Pléiade», p. 250. Cf. Pétrarque, Canzoniere, 134, p. 655. 40 Ibid., Hécatombe, XIV, p. 71; «Pléiade», p. 251. 41 Ibid., Hécatombe, XIV, p. 71, note 6 sur le dernier vers. 42 Ibid., Hécatombe, XCIV, p. 161-162; «Pléiade», p. 270. Cf. Tragiques, I, v. 581589. 43 Ibid., Hécatombe, LXXVII, p. 143; «Pléiade», p. 266.

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desséché, que l’alternance du chaud et de la bise achève de ruiner, contamine de sa vigueur l’assez plate image finale: Des ventz de mes souspirs, des feux de mes douleurs.

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Ce qu’il faut retenir en définitive ici, c’est le déséquilibre entre les termes rapprochés. Le comparant réaliste est presque toujours en excès par rapport au comparé amoureux, comme si la réalité environnante prenait le pas sur le répertoire de l’élégie amoureuse. Est-ce pécher par illusion téléologique, si l’on sent déjà que cette œuvre n’a pas sa fin en soi, qu’elle en prépare une autre dont elle serait en quelque sorte l’envers ou le négatif au sens photographique, ou comme l’on parle de «mains négatives» pour désigner les empreintes humaines sur les parois des grottes préhistoriques? Le Printemps maniériste esquissant le poème baroque des Tragiques serait en ce sens comme le fantôme d’un corps, le moule en creux d’une forme en gestation. Mais le principe et le mouvement sont déjà là, ce tour de main et cette manière – la maniera –, ou, pour le dire en un mot, la main. Le répertoire pétrarquiste fixe au Printemps sa limite et son cadre, un cadre que la passion amoureuse déborde de toutes parts, pour aller vers un embrasement qui est celui de la France de l’époque, Un autre feu auquel la France se consume44,

et qui fera l’objet du grand poème des Tragiques. Le pétrarquisme et ses formules ressassées qui souvent apparaissent en clausule forment donc une sorte de carcan poétique, qu’accentue sur le plan formel le cadre rigide du sonnet, et dont Aubigné va se libérer dans la forme ouverte et digressive du poème long à rimes plates et à enjambements perpétuels. Mais c’est un carcan dont il a provisoirement besoin pour s’affirmer dans la filiation des grands poètes de son temps, et notamment de Ronsard. Cet héritage formel le tient en lisières, mais il lui sert en même temps de tremplin. D’Agrippa d’Aubigné il en irait comme de Clément Marot dans l’épître à Lion Jamet, telle que l’a analysée Gérard Defaux45: la prison du 44

A. d’Aubigné, Les Tragiques, I, 58. Gérard Defaux, «Rhétorique, silence et liberté dans l’œuvre de Marot. Essai d’explication d’un style», Bibliothèque d’humanisme et Renaissance, t. XLVI, 1984, 2, p. 29945

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Châtelet, où le poète de François Ier est enfermé pour avoir «mangé le lard» au printemps 1526, désigne métaphoriquement la prison poétique de la Grande Rhétorique et de ses formes acrobatiques et contraignantes dont Marot s’évade par la forme plus souple et plus personnelle de l’épître en vers à rimes plates. Dans le même temps, le poète emprisonné fait l’expérience de la liberté chrétienne, une liberté qui réside dans la soumission entière à Dieu et dans l’abandon à la grâce qui chante à travers le fidèle. De même dans Les Tragiques, le poète dépossédé de lui-même et de sa passion amoureuse, libéré de surcroît des chaînes formelles du canzoniere, «ne chante que de Dieu» et n’est plus «qu’organe à la celeste voix»46. L’élan de la douleur et le vertige sadique ne seront plus réfrénés dès lors par la répétition docile, et scolaire parfois, d’une poésie formulaire fixée par plusieurs générations d’imitateurs. Ils se donneront libre cours dans un genre qui ne devra plus rien à Pétrarque et beaucoup à Ronsard, mais non plus au Ronsard lyrique et profane des Amours qui lui-même pétrarquise, mais au poète politique des Discours et plus encore au poète sacré des Hymnes. À ce stade de notre analyse, on comprend le régime si différent des deux paternités poétiques évoquées dans l’Ode XIII à Nicolas Volussien. L’une exalte et l’autre rabaisse, ramenant la fonction de la poésie «Aux femmes et au vulgaire»47. Mais surtout l’une favorise la prise de conscience d’une identité, alors que l’autre, au contraire, est à l’origine d’une aliénation. Malgré une voix qui, dans son forcènement, est entre toutes reconnaissable, le Printemps n’est pas tout à fait l’enfant d’Agrippa d’Aubigné. Sa naissance est «douteuse». Un doute pèsera toujours sur le père véritable, étant donné les marques suspectes que porte à son corps défendant ce fils à demi renié.

322. Repris et amplifié dans Gérard Defaux, Marot, Rabelais, Montaigne: l’écriture comme présence, Paris, Champion, 1987, p. 57-97. 46 A. d’Aubigné, Les Tragiques, V, 1425, et VI, 59. 47 A. d’Aubigné, Le Printemps, Ode XIII, v. 185, «Pléiade», p. 307.

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PETRARCHISMO SPIRITUALE. LA POESIA SACRA DI MUZIO SFORZA

Nel 1590 fu pubblicata a Venezia da Domenico Farri la raccolta di Rime sacre di un gentiluomo monopolitano, Muzio Sforza1, che a fronte di una produzione letteraria consistente (nello stesso anno raccoglieva due libri di Rime d’amore secondo il classico canone petrarchesco2 e negli anni ottanta aveva pubblicato allo stesso modo elegie sacre e no, Laudes, orationi, prose morali, e pubblicherà ancora fino al ’97, quando morirà a cinquantacinque anni, Sylvae, Elegiae sacrae ed Epigrammi, orazioni e canzoni, tre libri di Hymni per Clemente VIII Aldobrandini, una Clementiade) non ha avuto se non una risonanza locale3 all’infuori di uno studio che gli riconosce un posto di rilievo nella letteratura celebrativa in onore di Venezia4. Soprattutto que1 Delle Rime Sacre di Mutio Sforza all’Illustrissimo et reverendissimo Signor Francescoo Sforza, cardinal di S. Chiesa, in Venetia, MCXC. La Parte prima, da [p. 1] a p. 69, contiene sonetti e canzoni numerate progressivamente, ma distintamente come nelle edizioni cinquecentesche di Petrarca, e alla fine un Lamento a Cristo in croce in terzine e un’Egloga sacra dal titolo Psiche. La Parte seconda, con la dedica a Mons. Francesco Maria Sforza, vescovo di Conversano, comprende analogamente sonetti e canzoni (pp. [1]-59). 2 Delle Rime del S. Mutio Sforza, in Vinegia, presso Altobello Selicato, MDXC. La parte prima è dedicata a Mario Sforza, la parte seconda a Paolo Sforza, Marchese di Proceno, la terza parte a D. Ferrante Carafa, Duca di Nocera. 3 Cfr. L. Russo, Muzio Sforza, poeta monopolitano tra Rinascenza e Controriforma, Bari, Puglia Grafica Sud, 1985. Il libro, ben informato e variamente composto di testi scelti e commentati, di esami di opere e di notizie biografiche, contiene un elenco delle opere a stampa. 4 I. Nuovo, Muzio Sforza, in Puglia Neo-Latina. Un itinerario del Rinascimento fra autori e testi, a cura di F. Tateo-M. De Nichilo-P. Sisto, Bari, Cacucci editore, 1994, pp. 311-331.

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st’ultimo intervento, a quei tempi di grande attualità, e la frequentazione di insigni uomini di Chiesa e di toga, da cui deriva la sua presenza a Roma proprio nell’anno delle raccolte di rime (l’una dedicata al cardinale Francesco Sforza, suo zio, l’altra ad altri signori della famiglia e a Ferrante Carafa)5, induce a riflettere sulla qualità della sua partecipazione ad un petrarchismo che si stava evolvendo in senso epidittico e spirituale. L’esame dei carmi elegiaci latini, profani e sacri6, non conferma l’ipotesi di una trasposizione di Petrarca nei versi elegiaci, come nella prima età umanistica, mentre la diglossia sembra anche nel caso dello Sforza la scelta italiana definitiva all’estinguersi dell’originale esperienza umanistica. E lo testimonia il nostro Muzio Sforza con la bipartizione della sue raccolte di versi7. I primi componimenti, su cui mi soffermerò, possono essere un esempio illuminante del modo in cui lavorava il nostro letterato e in genere della riscrittura sacra di Petrarca. Il sonetto 4, che descrive lo stato “d’un che sia in grazia e d’un che sia in peccato”, è un tipico componimento controriformistico che adopera le antitesi petrarchesche per contrapporre il bene ed il male con qualche banalità derivata tuttavia dalla semplificazione colloquiale di formule non eccelse dello stesso Canzoniere8. A cominciare dalla bipartizione fra quatine e terzine del sonetto, che utilizza una correctio petrarchesca al limite del prosastico: «a me par il contrario», diceva Petrarca all’inizio della seconda quartina del sonetto Parrà forse ad alcun che’n lodar quella (Rvf 247, 5) per rispondere all’eventuale obiezione ch’egli abbia rivolto ad una creatura mortale la lode che spetterebbe ad un essere divino, ma in effetti per ribadire che la sua lode è poca cosa rispetto alla bellezza di lei. «Tutto il contrario aviene» dice all’inizio della prima terzina Muzio, al quale interessa

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Cfr. note 1 e 2. Mutii Sfortiae Elegiarum sacrarum libri duo, Venetiis, 1588. Una nuova edizione apparve, ex officina Horatii Salviani, nel 1594. 7 Qualche interesse offre l’elegia proemiale, se confrontata con il sonetto proemiale delle Rime sacre, non solo per l’analogia tematica, ma anche per l’esclusione degli dèi quali termini d’invocazione: «Hactenus insani iuveniles lusimus ignes / Delusi a mundo, carnis et illecebris /Nunc alius penetrans arcano viscere telo: / Pectora de coelo nostra perurit Amor. / Ergo purgato coelestia corde canamus / Iam sursum rapior, lurida terra vale. / Numinaque, ut vires addant, non ficta vocanda: / Nec mihi qui dictet carmina, Phoebus erit. / Sedibus aetereis at spiritus ille ciendus, / Omnia qui complet quique creabat aquas» (Elegiarum sacrarum libri duo, 1594, cit., c. Ar). 8 Dirò Canzoniere riferendomi ai Rerum vulgarium fragmenta perché come “canzoniere” erano lette le Rime sparse di Petrarca. Nelle citazioni, per brevità e per seguire la nuova consuetudine, adotterò la sigla Rvf. Di M. Sforza terrò presente l’edizione delle Rime sacre del 1595. 6

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Petrarchismo spirituale. La poesia sacra di Muzio Sforza

contrapporre chi si strugge per una «frale / Beltà» e chi solleva lo sguardo al cielo. In realtà Muzio semplificava la doppia antitesi petrarchesca, che si risolveva in una sorta di gradatio anadiplosica (la figura terrena lodata come divina, ma la lode divina riconosciuta inadeguata a quella che dovrebbe essere la lode della donna vera), inserendo una serie di altre antitesi comuni in Petrarca (caldo/gelo, terra/cielo, corpo/mente - anima/corpo)9 o a lui riconducibili anche se specificamente estranee (condanna/beatitudine, terren/santo), ma non si esime dal confutare proprio quel sonetto del Canzoniere, esempio tipico di struggimento per una “beltà” caduca che è peccato guardare quando la mente dovrebbe rivolgersi al cielo e liberarsi dal peso del «mortal velo». La locuzione petrarchesca è assunta dunque nella sua accezione originaria, dal momento che Petrarca parla appunto di “mortal velo” (Rvf 313, 12), “corporeo velo” (Rvf 264, 114) a proposito dell’impedimento rappresentato dal proprio corpo e di “bel velo” o simili per indicare il corpo di Laura, per distinguersi da Petrarca che, esaltando la Laura terrena, non si era potuto liberare dal «mortal velo». L’attacco delle quartine («O ben tre volte fortunato»), come quello delle terzine, era anch’esso una riduzione del testo di Petrarca che concludeva la canzone S’i’ ’l dissi mai («I’ beato direi, / tre volte e quattro e sei», Rvf 206, 52-53) chiamando beato chi dovendo languire invece si muoia, che è propriamente il topos originario, di fattura elegiaca, di quel capovolgimento operato dalla poesia spirituale per cui la beatitudine è nel volgersi al cielo abbandonando il velo terreno: «O ben tre volte fortunato, a cui / Non vil terren desio, ma santo zelo / Di Dio riscalda’l cor: e’n fiamma e’n gelo / D’amore e di timor sospira a lui. // Ei per cammin lontan da’ regni bui / Col corpo è in terra, e con la mente in Cielo; / Et sì soggioga a l’alma il mortal velo, / Ch’al fin trionfa in pace d’ambe dui». La trasformazione di segno della poesia petrarchesca emerge nel trasferimento al rapporto fra l’uomo e Dio di una notazione psicologica che riguardava normalmente l’effetto della vista della donna («in foco e’n gelo / tremando, ardendo assai felice fui», Rvf 337, 10-11, dove il “tremore” del lessico amoroso è stato sostituito dal “timor” di più tranquilla derivazione devota), come emerge nel trasferimento della condizione di Laura, divisa fra il corpo in terra e l’anima in cielo («Quella ch’or siede in cielo e’n terra giace», Rvf 290, 8), nella situazione

9 Quest’ultima antitesi in Petrarca compare qualche volta come tale (Rvf 246, 4; 336, 14); altre volte al corpo si fa riferimento con una metafora («nodo», Rvf 305, 1; «membra», 94, 3) o con una perifrasi («Quel che l’anima nostra preme e ’ngombra», Tr. Etern. 64).

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di quel fortunato che si solleva con i santi pensieri al cielo («col corpo in terra e con la mente in Cielo»). La seconda terzina si libera dal lessico e dal colore petrarchesco con «l’immortale / Foco infernal», con l’antipetrarchesco participio «condannato» e con l’altrettanto sfuggente al tono petrarchesco «Angel beato» finale. Del resto il rifiuto di seguire fino in fondo il modello del Petrarca, pur così sofisticatamente riscritto fino al verso 10, si suggella nella scelta della doppia rima baciata delle terzine: «Tutto il contrario aviene a chi per frale / Beltà si strugge. Io l’uno e l’altro stato, / E ’n uno il mal, ne l’altro ho’l ben provato. // Ne l’uno io sembrava un ch’a l’immortale / Foco infernal sia messo, e condannato. / Ne l’altro hora esser parmi Angel beato» (si noti lo schema cdd cdd). Comunque non saprei trovare in Petrarca una confessione come questa, che è anzi un tipico capovolgimento di «chi per prova intenda amore», poiché il poeta – si fa per dire – racconta di aver «provato» sia a rivolgersi al bene terreno, sia a rivolgersi al bene celeste e può dire ai suoi lettori che non c’è paragone a considerare come ci si sente nello stato di chi si libera dal «mortal velo», morte del corpo e vita dell’anima. Della svolta enunciata in questo quarto sonetto come già operante, lo Sforza aveva espresso il proposito, com’era da attendersi, nel primo sonetto programmatico delle Rime sacre, che non potevano non essere un pendent del primo sonetto del Canzoniere, richiamato in effetti non solo dalla formula delle «rime sparse», ma anche dalla evocazione di esse come di un’esperienza passata. Con la differenza tuttavia che Petrarca si riferisce nel sonetto introduttivo alle rime sparse che raccoglie ora, nelle pagine succcessive, per ottenere comprensione e perdono, mentre il tardo petrarchista si lascia alle spalle quelle rime sparse d’amore, per chiedere la forza di comporre un canto diverso: «S’amor terren fu ’l fior de’ più verdi anni / Così mi diè lo stil, l’ingegno e l’arte,/ Ch’in rime sparse osai cantar in parte / La cagion bella e miei soavi affanni». Forse l’occhio era rivolto al primo sonetto delle Rime sannazariane, che rimpiangeva la dissipazione delle doti poetiche in un canto d’amore che non avrebbe garantito alcuna fama al poeta, il quale invece l’avrebbe acquistata, grandissima, se Apollo lo avesse aiutato a rivolgersi ad altri argomenti. L’attacco di Sannazaro, con quel condizionale, con quella rima anni/affanni (primo e quarto verso), con quello «stil» in posizione evidente, con quel soave spostato dallo stile agli affanni, e soprattutto con il senso diverso da quello petrarchesco (non la confessione e il pentimento, ma l’indicazione di due diversi e possibili temi della lirica), può considerarsi un precedente più vicino per il sonetto introduttivo dello Sforza, il quale oltre tutto, come Sannazaro, si provava a cambiar registro, almeno in parte: «Se quel soave stil che da’ primi anni / infuse Apollo alle mie rime

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nove, / non fusse per dolor rivolto altrove / a parlar di sospir sempre e d’affanni […]10. Le «rime nove», ossia le promettenti rime giovanili, tornano ad essere le «rime sparse» di Petrarca, forse con un più deciso riferimento metaforico alla dispersione morale, più che alla storia della composizione, ma la suggestione di Petrarca riaffiora in un più sostanziale elemento veicolato dalla ripresa perfino dell’incipit: «S’Amor novo consiglio non m’apporta, / per forza converrà che’l viver cange» (Rvf 277, 1-2). Petrarca diceva altra cosa, ma prevedeva che la sua vita potesse essere stravolta dalla perdita della donna, la quale, ormai non più in terra, ma in cielo dove si mostra chiara alla mente pur non essendo più visibile con gli occhi, gli potrebbe far da guida, mentre lui intanto invecchia anzitempo: «et me fa sì per tempo cangiar pelo». Orbene, nel sonetto dello Sforza, che comincia con «S’Amor» e contiene l’immagine del “cangiar pelo”, si parla appunto del cambiamento dal registro amoroso al registro sacro: «Hor c’ho cangiato pel, pensieri e panni, / Dammi, divino Amor, ch’in altre carte / con altri inchiostri sian da me cosparte / Altre laudi, altri ardori et altri inganni». A questo punto non è necessario insistere sulla ripresa del concetto petrarchesco della prima rima della seconda parte del Canzoniere, dove un proposito di cambiamento si esprime con la preghiera a Dio di potersi levare al cielo («ché, vedendo ogni giorno il fin più presso, / mille fiate ò chieste a Dio quell’ale / co le quai del mortale / carcer nostro intelletto al ciel si leva», Rvf 264, 5-8), echeggiato nella speranza che il proprio esempio possa svegliare dal letargo, far piangere e rivolgersi al cielo gli altri («Perché al mio suon come di chiara tromba / Surga la gente, e dal letargo scossa / Pianga e a la via del Ciel il piè rivolga»), dove il proposito missionario si allontana tanto dal proposito lirico di Petrarca, ma dove tuttavia l’uso di un hapax petrarchesco (letargo in rima, TT 75) appare in un contesto diverso, dove una voce chiama i peccatori dal letarago. Né è necessario insistere sugli inchiostri, sui panni, sui trittici lessicali ottenuti con collages di bine come in “stil ingegno ed arte”, “pel pensiero e panni”, “laudi ardori inganni”, mentre non sarebbe inopportuno ricordare che verdi anni non è petrarchesco, è semmai una variazione di primi anni sannazariano, divenuta locuzione fortunata presso Foscolo, Leopardi, Gozzano, e che il sonetto si chiude con un «tolga» assunto nel senso di “prenda” (“conquisti più palme e più corone”), come non avviene in Petrarca11, che «cosparte» è ancora un hapax di Petrarca (Rvf 107, 9). 10 I. Sannazaro, Sonetti e canzioni, Parte prima, I, in Opere volgari, a cura di A. Mauro, p. 137. 11 Lo Sforza ha presente Petrarca, Tr. Pud. 94-96, dove tôrre ha il solito significato di “togliere”, ma «victoriose e chiare palme» compaiono come oggetto di altro verbo collocato anteticamente, «scuotergli di mano».

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Ma il primo sonetto è preceduto da una rima di dedica al cardinale Francesco Sforza che già alludeva ad una famosa canzone petrarchesca, Nel dolce tempo de la prima etade, dove il poeta «cangiava il giovenil aspetto” e diventava un cigno, certo anche con riferimento al precoce incanutire: «ond’io presi col suon color d’un cigno» (Rvf 23, 60). Lo Sforza assume questa trasformazione come la speranza di sollevarsi come un Cigno dalle “torbide” onde nelle quali altrove Petrarca diceva di giacere («Vedove l’erbe e torbide son l’acque, / et voto et freddo il nido in ch’ella giacque, / nel qual io vivo, et morto giacer volli», Rvf 320, 6-8), ma la riferisce alla sua nuova aspirazione di cantore della fama del cardinale: Malgrado pur dela Dea cieca io spero In Cigno trasformarmi, e su le sponde Volar del Tebro che m’invita e sforza, E co’l favor di te, mio Febo, altero Poggiar da quelle rive e torbide onde, E gir cantando Santa Fiore e Sforza.

Il riferimento è alla poesia epidittica nella quale si sarebbe trasformata l’originaria poesia d’amore, se Apollo avesse continuato a sorreggere il poeta, se lo avesse guardato come prima; ed è difficile dire se dover privilegiare, come antecedente dello Sforza, la metafora di Apollo che col suo sguardo rinnova l’aria in Petrarca («et sua sorella par che si rinove / nel bel guardo d’Apollo, Rvf 42, 7-8) o il simbolo di Apollo che aveva dato a Sannazaro – nel sonetto proemiale – le virtù poetiche: «Se con lieto occhio, e con serena fronte / Apollo mi guardasse, come prima, / Quando mi scorse di Parnaso in cima, / Et con le Muse, Amor, m’aperse il Monte», tanto più che, mentre il poeta napoletanto si rammaricava di non aver potuto toccare argomenti che gli avrebbero dato la fama, lo Sforza, con analoga antitesi anche se con esito diverso, si propone di mettersi in mostra contribuendo alla gloria, ma del suo protettore non sua, col bere al fonte d’Ippocrene (il riferimento mitico non ha certo che fare con Petrarca). Il sonetto II delle Rime sacre è una richiesta d’ispirazione com’era necessaria una volta enunciati tali propositi (e il nostro Muzio ne aveva bisogno). Ma l’industria non gli manca: due hapax petrarcheschi semanticamente rilevanti perché rappresentano un’antitesi fondamentale, la «celeste … armonia» dei versi 5-6 e le «terrene lutte» del verso 14, sono chiamate a svolgere una funzione analoga a quella che avevano nei rispettivi luoghi del Canzoniere (I’ vidi in terra angelici costumi, «ed era il cielo a l’armonia sì intento» Rvf 156, 12, e Mai non vedranno le mie luci asciutte, «Spirto già invicto a le

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terrene lutte», Rvf 322, 5), ma in un contesto diverso – secondo un metodo classico dell’imitazione – che rivela una lettura tematica e non meramente formale e lessicale delle rime del maestro e la consapevole intenzione di utilizzarle per un fine diverso. Petrarca dichiarava di aver visto in Laura un tale complesso armonico di pregi che non potesse essere se non opera del cielo («ed era il cielo all’armonia sì intento»). E certamente lo Sforza aveva avvertito la somiglianza tematica di questo sonetto con quello che lo precedeva di due numeri, Rvf 154, 1-4, dove si delineava la medesima armonia operata dal cielo nella figura di Laura: «Le stelle, il cielo e gli elementi a prova / tutte lor arti et ogni extrema cura / poser nel vivo lume, in cui Natura / si specchia, e’l sol ch’altrove par non trova», perché nei versi in cui, capovolgendo la situazione, invita Iddio artefice dell’ordine dell’universo a infondere in lui, poeta, una tale armonia da farlo cantare secondo un sacro registro, l’extrema cura della Natura universale ritorna in forma d’invocazione a Dio, eterna cura (lo Sforza aveva presenti i due sonetti 154 e 156): Tu, che questo universo, eterna cura, Festi, e reggi qual ben temprata lira, Ond’immortal concento ei rende, e spira Di numero, di peso, e di misura; Forma in quest’alma una celeste, e pura Harmonia, acciò che mentre a te sospira (Domi i destrier del carro che la tira) Lieta, et in pace a te canti, e sicura.

Analogamente, egli leggeva in Canzoniere 322 un’invocazione al Colonna, cui andava il merito di aver ricondotto le rime del poeta di Laura allo stile di dolcezza dal quale la morte le aveva disviate: «Spirto già invicto a le terrene lucte / ch’or su dal ciel tanta dolcezza stille, / ch’a lo stil, onde Morte dipartille, / le disviate rime hai riconducte» (4-8). Il modello si adattava perfettamente alla sua intenzione di chiedere a Dio l’ispirazione non per riportare lo stile dolente allo stile dolce d’amore, ma per trasformare un canto d’amore, e quindi tormentoso, in un canto di lode divina: Poi fuora in voci e’n numeri la sciogli Tutta in lodarti sì, che per due tali Musiche infiammi al ciel l’anime tutte. Et Echo di te Voce sì le’nvogli, Che per volar lassù spieghino l’ali Già vincitrici a le terrene lutte.

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Sarà più banale la rima tutte/lutte, ma è un fatto che essa riesce ad evitare le tre rime possibili offerte da Petrarca (asciutte, construtte, ricondutte). L’anima santa che, in Petrarca, può aiutare dal cielo il poeta perché è fra i beati avendo superato le battaglie del mondo, è diventata la stessa divinità alla quale ora dovrebbe rivolgersi lo Sforza con la sua lode che si eleverà dopo aver conosciuto, essa, le battaglie del mondo, ossia dopo aver cantato d’amore. Questo uso di valorizzare gli hapax del modello lirico è soprattutto notevole dove si tratta di immagini emblematiche. Nel sonetto VI la «viva dolce calamita» di un’artificiosa canzone petrarchesca (Rvf 135, 30), che passa in rassegna i mirabilia naturali per illustrare la condizione contraddittoria del poeta, si duplica, ma anche si scioglie con un’antitesi esplicativa in «celeste calamita» e «terrestre calamita», l’una rappresentata ovviamente dalla forza che «accende e tira» verso la contemplazione e l’altra dalla forza contraria che ritarda l’ascesa, il «volo». È una esplicazione, forse anche una riduzione della simbologia fisica escogitata da Petrarca che attribuiva a Laura, identificata con lo strano minerale, il meraviglioso effetto di trarre la carne piuttosto che il ferro, e in particolare di estrarre dal corpo il cuore che una volta era duro come il ferro e riusciva a tenere insieme la persona del poeta ora «diviso e sparso» (Rvf 135, 26). Nello Sforza la simbologia della calamita è diversa, attribuita com’è, secondo una più semplice interpretazione del contrasto fra cielo e terra, alla forza del cielo e alla forza della terra, ma è anche diverso l’effetto psichico, perché il «diviso e sparso» che in Petrarca allude alla dissoluzione dell’unità spirituale (il cuore staccato dal resto dell’apparato sensibile), qui diventa una teologica definizione della inesorabile diversità fra l’anima e il corpo: In duo partir mi sento: et mezzo trarne Te sopra, e mezzo in giù, tardando il volo L’antica mia terrestra calamita»

Mezzo e mezzo. Non che, nel motivare l’azione della calamita terrena, non si avverta l’uso petrarchesco di considerare l’aspetto umano e non demoniaco delle lusinghe («Ma s’avien che’n volando io gli occhi giri12 / In terra, e sfavillar le due fiammelle / Veggia, e’l bel viso che’n gioie aspre e felle / M’hanno arso e tratto in sì dolci martiri, // In duo partir mi sento»), ma è

12 Cfr. «Quando in voi adivien che gli occhi giri», Rvf 17, 3, altra rima petrarchesca in cui avviene una separazione – “l’anima esce dal cor per seguir voi”.

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certo che l’antitesi di Petrarca venga interpretata con quel modo teologico che nel poeta di Laura era un quadro di riferimento più che una realtà attuale. Che si trattasse di un’interpretazione, non di un travisamento del testo petrarchesco, e cioè di un’accentuazione di quei tratti che in Petrarca potevano confortare la lettura in senso sacro e spirituale del Canzoniere, non mi sembra che possa esserci dubbio, quando pensiamo che questo sonetto dello Sforza si conclude con una sorta di compromesso assai vicino all’ideologia petrarchesca dell’ozio religioso e della solitudine, nonostante l’insistenza sulla distanza fra la carne e lo spirito. Era un normale referente petrarchesco: se una calamita attrae in cielo e una sulla terra, per conservare l’unità della persona basterà vivere in terra come se si stesse in cielo: «Mal grado pur del mondo, e de la carne / Tu sol m’havrai, ch’io già libero e solo / In terra vo’ menar celeste vita». “Libero” e “solo” sono due intensi attributi petarcheschi della più intima aspirazione all’ozio e alla solitudine della riflessione. In questa medesima prospettiva d’interpretazione mi sembra di poter collocare quel prototipo di rima spirituale che lo Sfoza ci fa trovare dopo i primi due sonetti proemiali rivolti al lettore e alla divinità ispiratrice, quel prototipo di rima spirituale che è la prima canzone. Qui non importano tanto le ovvie riprese lessicali e metaforiche13, quanto il fatto che la struttura della canzone, riprendendo lo stile consistente nel comporre e giustapporre quadri simbolici o di riferimento metaforico in una successione temporale, spaziale, funzionale, ma sostanzialmente esemplificativi di uno stesso concetto, quasi ad insistervi e a meditarvi (si pensi a Ne la stagion che’l ciel rapido inchina), si articola secondo i gradini di un’ascesa. Il poeta al solito lo spiega ad un certo punto, ricollegandosi alla parola chiave dell’ascesa spirituale, la scala: Così di questa scala per li gradi Salendo, in cima a lei suo fattor Dio Guardo appoggiato in radi Splendori, oggetto d’ogni bel disio.

La scala è costituita dalla vista della terra primaverile, dalla penetrazione dello sguardo nel sottosuolo, dalla vista dell’atmosfera prima notturna, poi rischiarata dalla luna e dalle stelle del firmamento, poi rischiarata dall’alba e

13 La Primavera «di vaghi fiori e di fresch’erba altera» – come Laura «di gioventude e di bellezza altera», Tr. Mortis 1, 35; i «liquidi cristalli», le luci delle stelle «cosparte» nel cielo come quelle di Laura sulla terra, Rvf 107, 9, il «mortal velo» lasciato sulla terra dai beati e che Petrarca attribuiva non a Laura, ma a sé («bel velo» o simili era quello di Laura); il «fragile» usato come anche «fraile» nel senso di “caduco” in Petrarca.

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dal sole, quindi dalla visione dell’empireo. Una vera e propria ascesa dalle bellezze terrene a quelle celesti, che non può concludersi senza un preciso riferimento alla scala neoplatonica e al motivo del disprezzo del mondo, del «breve bello», che richiama lo stesso aggettivo attribuito da Petrarca alla vita e al tempo, e al desiderio di lasciare le spoglie terrene per l’infinito e l’eterno. La canzone, che va letta per questa sua esemplarità di un Petrarca rivestito consapevolmente di panni neoplatonici, anche se qui non se ne ha il tempo, contiene anche una rima difficile che ci riporta ad un Petrarca un po’ clus, e ancora una volta ad un hapax artificiosamente riproposto, anche se sostanzialmente reso di facile intelligenza dalla dittologia: Iddio mi abbaglia a tal punto «che di lui null’altro / che’l tergo veggio e scaltro». Accostato a «veggio», «scaltro» sembra un gioco lessicale, si direbbe una zeppa, a meno che non voglia suggerire, più che il superfluo “penetrare con lo sguardo”, un più impegnativo “riesco a rappresentare con tale abilità da riuscire efficace”, in un luogo che oltretutto ci rimanda a quel topos della reticenza, per cui lo scultore preferirebbe rappresentare di spalla le figure la cui bellezza non potrebbe essere resa con l’arte. Non saprei dire quanto lo Sforza abbia inteso il senso di quel vocabolo faticosamente spiegato da Leopardi – dal cui commento la spiegazione passa nel Dizionario del Battaglia – e da Contini nel passo del Canzoniere (Rvf 125, 26) dove non è poi così perspicuo, e direi perfino così necessario, oltre che per la rima, presa in prestito dalla Commedia: il lamento del poeta infastidisce altrui, perché egli non riesce a renderlo piacevole: Se’l dolor che si sgombra aven che’n pianto o in lamentar trabocchi, l’un a me nòce et l’altro altrui, ch’io non lo scaltro. (Rvf 125, 23-26)

Orbene, nella canzone dello Sforza il sofisticato senso che il vocabolo ha in Petrarca sarebbe superfluo, mentre ben si adatta il più semplice senso di “esprimere efficacemente”. La sofisticheria della scelta rimane. Mi è sembrato opportuno verificare in concreto la qualità di un’operazione, pur scontata com’è quella di Muzio Sforza in piena Riforma cattolica, piuttosto che cercare improbabili risultati complessivi o specifiche linee di tendenza in quella uniforme trasformazione del petrarchismo che colleghiamo con la maniera pittorica. Lo sviluppo di temi evangelici, storici o gnomici, la ripresa dell’epidittica sacra e agiografica più prossima al costume della committenza religiosa e signorile, ha un interesse minore che quell’impegno

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di travestire Petrarca o perfino di inverarlo nelle sue pieghe spiritualistiche, dalle quali emergerà anche il petrarchismo spirituale del Settecento, pur esso costituito di voci minori ed inedite che si pongono come interpretazione del Petrarca in concomitanza con movimenti di rinnovata pietà religiosa. Piuttosto mi soffermerei un istante, concludendo, su alcune parole della lettera dedicatoria al cardinale Francesco Sforza, che testimoniano non un programma unitario alla radice delle Rime sacre, ma una vicenda analoga a quella del Canzoniere, una raccolta di “parte” delle rime volgari «in varii tempi fatte et in più libri disperse», ed una promessa rituale ma in certo qual modo inconsueta, quella di far seguire, nel caso che queste rime fossero piaciute, «maggior opera et in un altro idioma»; forse un poema, e in latino per giunta? Dopo tre anni, infatti, il nostro letterato pubblicò, ma in onore di Clemente VIII Aldobrandini eletto nel ’92, gli Hymni e la Clementias, opera maggiore e in altro idioma, per l’appunto. A noi importa registrare la fedeltà critica di Muzio Sforza al concetto della lirica volgare, anche sacra, come poesia “minore”, ancora petrarchesca, per sostenere una bella arguzia encomiastica. A Francesco Sforza, ancora cardianale, diceva adattarsi una collana di liriche volgari, mentre si proponeva di scrivere per lui una poesia più grave, in latino, come gli inni o il poema: si era augurato, evidentemente, di vederlo papa.

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DAL SALMO AL SONETTO: LA MEDITAZIONE PENITENZIALE DI ANNE VAUGHAN LOCK

Nel 1560, a tre anni dalla pubblicazione della Tottel’s Miscellany, che presentò al pubblico i primi sonetti inglesi, apparve, in chiusa di un volume in ottavo, una raccolta di 26 sonetti, di tono e contenuto profondamente calvinista, intitolata A Meditation of a Penitent Sinner: Written in Maner of a Paraphrase upon the 51. Psalme of David. Menzionato per la prima volta in uno studio critico nel 19891, questo testo costituisce la prima sonnet sequence in inglese, anticipando di circa vent’anni i canzonieri di Watson e Sidney. Non solo, A Meditation è anche la prima opera della letteratura europea che si ritiene combini il genere petrarchesco del canzoniere con quello della parafrasi dei salmi. Il volume, del quale A Meditation è parte, contiene la traduzione inglese, a tutt’oggi l’unica, di quattro sermoni sul capitolo 38 di Isaia (il cantico di Ezechia), predicati da Calvino a Ginevra tra l’agosto e il dicembre 15572. La traduzione è preceduta da una lettera dedicatoria, siglata dalle iniziali “A. L.” indirizzata a Katherine Willoughby Brandon Bertie, duchessa di Suffolk, alla quale l’impegno a sostegno della causa protestante costò l’esilio durante il regno della cattolica Maria.

1 Cfr. T.P. Roche, Jr., Petrarch and the English Sonnet Sequences, New York, AMS Press, 1989, pp. 155-57. 2 J. Calvin, Sermons of John Calvin, Upon the Songe that Ezechias made after he had bene sicke, and afflicted by the hand of God, conteyned in the 38. Chapiter of Esay, London, John Day, 1560. L’edizione francese apparve due anni dopo la versione inglese.

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Il volume vide, dopo la prima edizione del 1560, altre due edizioni, una nel 1569, e l’altra nel 1574; di entrambe, tuttavia, non sono rimaste copie3. Tutte e tre le edizioni sono opera di John Day, uno degli stampatori più in vista del regno di Elisabetta, per qualità e quantità di opere, attivo soprattutto nella pubblicazione di letteratura protestante4. Solo due copie del testo della prima edizione del 1560 sono note: una conservata presso la Folger Library di Washington, l’altra presso la British Library. Quest’ultima contiene un’iscrizione manoscritta che recita: “Liber Henrici Lock ex dono Annae uxoris suae. 1559”. Le due copie mostrano discrepanze, la cui natura fa supporre a Susan Felch, la curatrice dell’edizione moderna, che siano il risultato di un intervento autoriale, avvenuto in corso di stampa5. Le iniziali “A. L.”, che siglano la lettera dedicatoria, sono quelle di Anne Lock, una figura di spicco del primo protestantesimo inglese, che dedicò tutta la vita alla diffusione e alla causa della ‘nuova religione’6. Nata a Londra intorno al 1534, Anne Vaughan Lock crebbe in una famiglia benestante del ceto mercantile che aveva stretti legami con la corte di Enrico VIII e in ambiente che non solo era favorevole, ma promuoveva concretamente la causa protestante in Inghilterra. Il primo marito, Henry Lock, un facoltoso mercante, proveniva da una famiglia che, per ceto e cultura, sembra rispecchiare quella di Anne7. Da questa unione, nacque Henry Lok, il prolifico poeta tardo elisabettiano, autore di una delle più ampie raccolte di

3 L’edizione del 1569 è menzionata da Andrew Maunsell in The first part of the Catalogue of English printed bookes (London, John Windet, 1595, p. 27); mentre l’unica copia di quella del 1574, conservata presso il British Museum, è andata distrutta durante la seconda guerra mondiale. 4 Cfr. C.L. Oastler, John Day, the Elizabethan Printer, Oxford, Oxford Bibliographical Society, Bodleian Library, 1975. 5 S.M. Felch, Introduction, in The Collected Works of Anne Vaughan Lock, a cura di S.M. Felch, Tempe, Arizona, Arizona Center for Medieval and Renaissance Studies in conjunction with Renaissance English Text Society, 1999, pp. lxx-lxxi. 6 Per le notizie relative alla vita di Anne Vaughan Lock, cfr. P. Collinson, The Role of Women in the English Reformation Illustrated by the Life and Friendships of Anne Locke, in “Studies in Church History”, 2 (1965), pp. 258-72, ristampato in Id., Godly People: Essays on English Protestantism and Puritanism, London, The Hambledon Press, 1983, pp. 273-87; S.M. Felch, Introduction, cit., pp. xvi-xxxvi. Relativamente all’ambiente familiare in cui Anne crebbe, cfr. W.C. Richardson, Stephen Vaughan: Financial Agent of Henry VIII, Baton Rouge, Louisiana State University Press, 1953. 7 Dopo la morte di Henry, Anne contrasse altri due matrimoni, il primo con Edward Dering, un brillante predicatore che fu in prima fila nelle dispute religiose degli anni ’70. Il secondo con Richard Prowse, un facoltoso commerciante e membro del parlamento negli anni ’80.

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Dal salmo al sonetto: la meditazione penitenziale di Anne Vaughan Lock

sonetti sacri della letteratura inglese, nonché di una versione dell’Ecclesiaste8. Nei primi anni del loro matrimonio, Anne e Henry diedero ospitalità a John Knox, l’infuocato riformatore scozzese, proprio quando, dopo l’incoronazione di Maria Tudor (1553), fu bollato come persona non grata e, di lì a poco, costretto a rifugiarsi a Ginevra (1554). Fu dietro sollecitazione di Knox che Anne, con i due figli, lasciò Londra, e il marito, per raggiungere la comunità degli esiliati inglesi a Ginevra. Lì visse dal maggio del 1557 al giugno del 1559; lì preparò la traduzione dei sermoni di Calvino che fu data alle stampe, al suo rientro in Inghilterra, nei primi mesi del 1560. È in chiusa di questo volume che troviamo A Meditation. Nel 1590, Anne pubblicò la sua seconda opera, intitolata Of the markes of the children of God, and of their comforts in afflictions. L’opera è una traduzione dal francese di Des Marques des enfans de Dieu et des consolations en leurs afflictions del teologo e riformatore belga Jean Taffin ed è dedicata a Anne Russell Dudley, contessa di Warwick9. Sebbene trent’anni dividano i due lavori di Lock, i Sermons of John Calvin e Of the markes of the children of God appaiono opere sorprendentemente simili. Entrambe sono pubblicate in ottavo e presentano la stessa architettura: sono aperte da una lettera dedicatoria indirizzata a una nobildonna di provata fede protestante, a cui segue la traduzione di un testo di lingua francese che mette in luce il significato della sofferenza per il vero credente. Infine, entrambe le opere sono chiuse da un testo poetico che esplora le afflizioni del peccatore attraverso l’esempio di due figure veterotestamentarie: Davide e Giobbe, rispettivamente. Oltre ai volumi menzionati, Lock scrisse anche un breve componimento in latino incluso in un manoscritto dedicato a Robert Dudley, conte di Leicester (1572)10. Anne Vaughan Lock firmò le sue opere in modi diversi: con le semplici iniziali “A. L.”, i Sermons of John Calvin; come Anna Dering, la poesia latina contenuta nel manoscritto a Leicester, e come Anne Prowse, Of the markes of the children of God. Lo stesso spelling del suo cognome, Lock (Locke, Lok) è incerto a causa dei capricci dell’ortografia seicentesca.

8 H. Lok, Sundry Christian Passions, London, Richard Field, 1593; Id., Ecclesiastes, otherwise called The Preacher, London, Richard Field, 1597. 9 A. Prowse, Of the markes of the children of God, London, Thomas Orwin for Thomas Man, 1590. Ora anche nell’edizione moderna delle opere di Lock (A.V. Lock, The Collected Works of Anne Vaughan Lock, cit., pp. 74-198). Il testo di Taffin apparve molto probabilmente nel 1586 (cfr. S.M. Felch, Introduction, cit., p. lxv). 10 Il testo della poesia è contenuto in A.V. Lock, The Collected Works of Anne Vaughan Lock, cit., pp. 72-73.

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La prima opera di Lock, Sermons of John Calvin, contiene in chiusa una raccolta di 26 sonetti di natura meditativa e ispirati ad una sensibilità religiosa nuova e ancora controversa nell’Inghilterra del tempo. Questi sonetti costituiscono, secondo le conoscenze attuali, il primo esempio di sonnet sequence pubblicata in Inghilterra. Una sonnet sequence che non celebra l’amore per una donna distante e irraggiungibile e che non registra le fluttuazioni emozionali di un io in cerca della propria identità; una sonnet sequence che non rivendica una discendenza aristocratica, che accetta la ‘stigmatizzazione’ della circolazione in forma stampata, che si colloca all’interno di un volume compilato da una donna, esterna alla corte ma nota in quell’ambiente11. Una donna che apparteneva ad una classe emergente, quella dei mercanti protestanti, il cui peso politico e sociale andava via via aumentando nell’Inghilterra elisabettiana, una donna che aveva svolto un ruolo importante a Ginevra tra esiliati inglesi e che, al suo ritorno, occupò una posizione preminente e attiva nella comunità londinese dei godly. L’identificazione di Lock come autrice della sonnet sequence che chiude il volume di traduzioni è tuttavia problematica: il testo poetico non è firmato. Inoltre, nella pagina che apre la raccolta, sotto il titolo, appare una annotazione che solleva dubbi intorno alla sua paternità/maternità letteraria: I have added this meditation folowyng unto the ende of this boke, not as parcell of maister Calvines worke, but for that it well agreeth with the same argument, and was delivered me by my frend with whom I knew I might be so bolde to use and publishe it as pleased me12.

11 Nel 1576, James Sanford include Lock – “Mistresse Dering” – tra le “noble Gentlewomen famous for their learning”, attivamente impegnate nella causa protestante, che rappresenterebbero un modello di sapere e devozione per Elisabetta I. La menzione è contenuta nella dedicatoria a Christopher Hatton (1540-1591), capitano della guardia reale e futuro membro del Privy Council di Elisabetta, lettera che introduce l’edizione inglese riveduta e ampliata di The Garden of Pleasure, nuovamente intitolata: Houres of recreation, or Afterdinners, Which may aptly be called The Garden of Pleasure (London, Henry Binneman, 1576, sig. Aiiijr). L’opera è la traduzione inglese, per mano di Sanford, di L’hore di ricreatione di Guicciardini. Cfr. anche S.M. Felch, “Noble Gentlewomen famous for their learning”: The London Circle of Anne Vaughan Lock, in “ANQ”, 16 (2003), pp. 14-19. 12 A.V. Lock, Sermons of John Calvin, Upon the Songe that Ezechias made after he had beene sicke, and afflicted by the hand of God, conteyned in the 38. Chapiter of Esay, in Id., The Collected Works of Anne Vaughan Lock, cit., p. 62. Tutte le citazioni dall’opera di Lock sono tratte da questa edizione; d’ora in poi la pagina sarà indicata in parentesi nel testo, subito dopo la citazione. L’edizione del 1560 di Sermons of John Calvin è stata pubblicata in facsimile nel 1973 a cura di Lewis Lupton e più recentemente nel volume Protestant Translators: Anne Lock Prowse and Elizabeth Russell, a cura di E.V. Beilin (2001).

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Dal salmo al sonetto: la meditazione penitenziale di Anne Vaughan Lock

La lettura più immediata attribuisce i sonetti ad un/a conoscente di Lock (“my frend”). Tra i possibili candidati compaiono i nomi di John Knox13, sebbene non si conosca, a tutt’oggi, alcun testo poetico originale da lui composto, di William Kethe e William Whittingham, entrambi autori di versioni metriche dei salmi, che Lock certamente incontrò a Ginevra durante gli anni dell’esilio14. Studi più recenti tendono, tuttavia, a vedere in Anne Lock l’autrice della sonnet sequence15. Gli argomenti più significativi a sostegno dell’attribuzione dei sonetti a Lock si basano sui punti di contatto tra le varie sezioni dell’opera – la lettera dedicatoria, la traduzione dei sermoni e la sonnet sequence –, che appaiono legate tra loro da immagini, scelte lessicali e usi linguistici del tutto inusuali16. Nonostante la suggestività di queste corrispondenze, nulla però può essere dato come definitivo. Se Lock è l’autrice dei sonetti, come ormai sostenuto dalla maggior parte degli studiosi, il problema sollevato dalla nota introduttiva permane17. Essa è stata interpretata come una formula appartenente alla retorica della modestia, ovvero come un meccanismo di difesa contro possibili censure sociali legate alla scrittura creativa (e alla sua pubblicazione) da parte di una donna – e di una donna appartenente all’emergente classe media18. I pochissimi precedenti di opere poetiche pubblicate da donne prima del 1560 portano, infatti, lo stemma reale o aristocratico19. L’ipotesi del movente cautelativo sarebbe, tuttavia, più convincente se il volume in cui i sonetti sono contenuti, fosse circolato sotto il nome per esteso di Lock e non sotto le iniziali “A.L.” (cosa che, tra le altre, suggerisce la possibilità che, per i lettori dell’epoca, il testo non fosse automaticamente percepito come composto da una donna)20. 13

Cfr. P. Collinson, The Role of Women, cit., p. 265. Cfr. S.M. Felch, Introduction, cit., p. liii. 15 Tra i primi studi che attribuiscono la sonnet sequence a Lock, cfr. T.P. Roche, Jr., Petrarch and the English Sonnet Sequences, cit., p. 155; M.R.G. Spiller, The Development of the Sonnet: An Introduction, London and New York, Routledge, 1992, p. 92. 16 Ivi, p. 44; S.M. Felch, Introduction, cit., pp. liii-liv. 17 Un’ipotesi possibile è che la nota sia da attribuire allo stampatore, John Day (cfr. M.P. Hannay, “Unlock my lipps”: the Miserere mei Deus of Anne Vaughan Lok and Mary Sidney Herbert, Countess of Pembroke, in Privileging Gender in Early Modern England. Sixteenth Century Essays and Studies, a cura di J.R. Brink, Kirksville, Mo., Sixteenth Century Journal Publishers, 1993, p. 21). Per la ricostruzione delle ipotesi, cfr. S.M. Felch, Introduction, cit., p. liv. 18 Cfr. R. Smith, “In a mirrour clere”, cit., p. 43. 19 Cfr. C. Parr, Prayers or Meditacions, London, Thomas Berthelet, 1545 e The Lamentacion of a Synner, London, Edward Whitchurche, 1547; Elizabeth I, A Godly Meditacyon of the Christen Sowle, Wesel, Dirik van der Straten for John Bale, 1548. 20 Cfr. R. Smith, “In a mirrour clere”, cit., p. 43. 14

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L’annotazione di Lock si distingue da molte altre note coeve, o di poco successive, per il fatto che in queste ultime l’autore non disconosce il proprio ruolo autoriale, ma si adopera per giustificare la pubblicazione dell’opera, chiamando spesso in causa l’azione insistente svolta da “amici”. Al contrario, nella nota di Lock, chi parla assume su di sé la responsabilità della pubblicazione e rinnega qualsiasi paternità/maternità letteraria, attribuendola altrove, ad un/a amico/a, appunto. Tuttavia, nonostante non si possa sostenere con assoluta certezza che A Meditation sia stata composta da Lock, è pur vero che è grazie alla sua azione che l’opera è stata pubblicata e che è giunta fino a noi. Se non quello di autrice in senso stretto, Lock avrebbe dunque svolto un ruolo autoriale altrettanto significativo, non solo consentendo la trasmissione e la conservazione di un particolare testo, ma anche inserendolo all’interno di un volume progettato per promuovere il protestantesimo e la fondazione della Nuova Gerusalemme, in Inghilterra, agli albori del regno di Elisabetta. Una causa nella quale non solo Calvino e Lock, ma anche la dedicataria, la duchessa di Suffolk, e lo stampatore dell’opera, John Day, erano fortemente impegnati21. Questi elementi forniscono il contesto di lettura della raccolta, e ne determinano, almeno in parte, l’interpretazione. Alla luce della sua collocazione, A Meditation appare complementare alla traduzione dei sermoni di Calvino e ne rappresenta una sorta di commento poetico. È significativo, a questo proposito che, nella lettera dedicatoria, Lock colleghi esplicitamente, indicandoli come esempio, Ezechia e Davide, le figure su cui si concentreranno, rispettivamente, la prosa dei sermoni e la poesia dei sonetti. Entrambi sono sovrani che hanno esperito sia la malattia e l’afflizione che il potere liberatorio della misericordia divina. Inoltre, la descrizione del corpo sofferente di Ezechia viene presentata, nella epistola dedicatoria, ricorrendo all’uso di quei tropi petrarcheschi che diverranno di lì a poco altamente convenzionali, ma che, nel 1560, possedevano ancora quella freschezza che presto sarebbe andata perduta. Il “buon re Ezechia” è visto giacere “somtime chillinge and chattering with colde, somtime languishing and meltyng away with heate, nowe fresing, now fryeng, nowe spechelesse, nowe crying out, […]” (p. 7). La presenza di queste immagini, qui associate alla sofferenza di un soggetto biblico, suggerisce un interesse di Lock per una tradizione poetica, quella petrarchista, che solo da pochissimi anni aveva raggiunto il grande pubblico inglese, un interesse che appare confermato anche dalla scelta di

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Per una definizione dell’opera di Lock come “gendered text”, cfr. Ivi, pp. 47-8.

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una sonnet sequence, un genere inedito nel panorama della poesia inglese del tempo, per dar forma alla parafrasi del salmo davidico che chiude il volume22. La sonnet sequence è divisa in due parti: “The preface, expressing the passionate minde of the penitent sinner”, che comprende i primi cinque sonetti, e “A Meditation of a penitent sinner, upon the 51. Psalme”, di cui fanno parte i rimanenti 21 sonetti, che costituisce, appunto, la meditazione vera e propria sul salmo 51. Quest’ultima parte contiene anche la traduzione inglese, in prosa, del Miserere, una traduzione originale: nessuna delle dieci traduzioni dei salmi disponibili all’epoca, è stata qui scelta per accompagnare la parafrasi poetica23. Ogni sonetto, stampato in black-letter – lo stesso carattere impiegato per il testo dei sermoni – espande un versetto del salmo, tranne nel caso dei versetti 1 e 4, che sono divisi in due parti alle quali sono collegati due sonetti. I versetti del salmo sono stampati in corsivo a margine di ciascun sonetto, occupando lo spazio convenzionalmente riservato alla glossa. Il testo poetico appare dunque esibire la propria fonte sacra, il movimento da cui trae origine: la giustapposizione grafica tra il testo poetico e quello del salmo permette di cogliere la presenza esplicita e simultanea del modello. L’auctoritas non è qui semplicemente evocata o allusa, ma letteralmente e visivamente compresente e partecipe alla creazione del testo nel suo insieme. Nessuna delle versioni metriche dei salmi, precedenti, ma anche immediatamente seguenti, a A Meditation del 1560, inserisce il testo-fonte; esso è sempre una presenza implicita, inespressa. Il testo del salmo presentato è, come accennato, una traduzione, quasi certamente basata sulla Vulgata24. A Meditation, dunque, presenta e ‘accosta’ i due processi dell’imitazione “ad exemplar propositum”25, che più hanno coinvolto i salmisti inglesi del XVI secolo: la traduzione e la parafrasi, che riflettono un diverso grado di ‘rispetto’ nei confronti del contenuto e dell’espressione dell’originale. La traduzione, che, secondo il principio riformista, rende in plain English, e quindi comprensibile a tutti, la sostanza della parola di Davide, funge da catalizzatore per la parafrasi. La traduzione è l’occasione

22

Cfr. Ivi, p. 45. Cfr. S.M. Felch, Introduction, cit., pp. lvi-lvii. 24 Id., The Vulgate as Reformation Bible: the Sonnet Sequence of Anne Lock, in The Bible as a Book: The Reformation, a cura di O. O’Sullivan, London, The British Library & Oak Knoll Press in association with The Scriptorium: Center for Christian Antiquities, 2000, pp. 65-88. 25 J.L. Vives, Opera in duos distinta tomos, Basle, 1555, to. I, p. 492; R. Zim, English Metrical Psalms, Cambridge, Cambridge University Press, 1987, pp. 8-9. 23

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che permette l’appropriazione del modello da parte di un soggetto collocato nel presente, soggetto che trasforma quel modello, parafrasandolo in forma di sonetto. L’autore di A Meditation controlla, così, due forme di riscrittura del modello biblico – la traduzione e la parafrasi – e le rende partecipi di un unico esercizio di scrittura devozionale: letteralismo teologico e parafrasi culturale convivono e si confrontano sulla pagina. I ventuno sonetti non traducono il salmo in versi; essi ne rappresentano invece l’espansione del senso. L’uso della forma lirica insieme all’insistita ripetizione di io pongono l’accento sull’intensità emozionale dell’esperienza personale che è, comunque, già presente nel modello davidico. Il principio di questa pratica di ‘dilatazione’ del testo è illustrata dalle parole del teologo seicentesco Henry Hammond, che, nella prefazione di A Paraphrase and Annotations upon the Books of the Psalms, affermava: I have heard of some pious men, which have constantly completed the whole work of their private prayers by inlarging their meditations on the several petitions of the Lords Prayer; the profit whereof is probably much greater than of the same, or greater, space laid out by others in the multiplied recitation of the same divine Prayer. And proportionably, the reciting of a few Psalms daily with these interpunctions of mental Devotion, suggested and animated and maintained by the native life and vigour which is in the Psalms, may deserve much to be preferred before the daily recitation of the whole Psalter […]26.

I ventuno sonetti che “interpungono” il salmo 51 sono preceduti, come accennato, da una sequence di altri cinque che costituiscono una sorta di preludio penitenziale alla meditazione vera e propria. La questione di fondo affrontata in questi cinque sonetti non è sostanzialmente diversa da quella che occupa i restanti ventuno; essa riguarda il riconoscimento da parte del peccatore penitente della propria irrimediabile abiezione, una condizione che lo rende immeritevole della misericordia divina. Ciò che distingue questi cinque sonetti iniziali è il fatto che essi non sono esplicitamente basati su un altro testo, diversamente da ciò che accade nella meditazione in cui il testo biblico è visibilmente presente e giustifica, in un certo senso, la scrittura poe-

26 H. Hammond, A Paraphrase and Annotations upon the Books of the Psalms, London, R. Norton for Richard Royston, 1659, sig. c 1v. Sulla pratica dell’espansione, cfr. R. Greene, Anne Lock’s Meditation: Invention versus Dilation and the Founding of Puritan Poetics, in Form and Reform in Renaissance England: Essays in Honor of Barbara Kiefer Lewalski, a cura di A. Boesky, M.T. Crane, Newark, University of Delaware Press, 2000, pp. 153-70.

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Dal salmo al sonetto: la meditazione penitenziale di Anne Vaughan Lock

tica. L’io sembra qui parlare da una posizione, almeno apparentemente, ‘più personale’. Questa sensazione è rafforzata dal diverso orientamento del messaggio poetico nei due gruppi di sonetti: mentre i 21 legati al salmo si presentano come allocuzioni dirette a Dio e sono impostati sulla retorica conativa della supplica e della preghiera, i sonetti della “prefazione” sono autoriflessivi, l’io parla a se stesso e analizza la propria condizione di afflizione a partire dal riconoscimento della colpa. Discorso introspettivo e discorso allocutivo, i due modi principali della poesia lirica amorosa, caratterizzano, dunque, i due gruppi di sonetti che sono distinti anche da titoli diversi. Il passaggio, all’interno del canzoniere, dalla “prefazione” alla “meditazione” vera e propria coincide con l’inserimento di un destinatario interno, Dio, e con un cambiamento nelle modalità discorsive e retoriche. Secondo l’ordine stabilito dalla sonnet sequence, il discorso introspettivo precede il discorso allocutivo: la relazione personale con Dio è possibile soltanto dopo la presa di coscienza della propria condizione di reprobo, una consapevolezza alla quale l’io giunge attraverso un colloquio rivelatore con se stesso. I cinque sonetti della “prefazione” esprimono, appunto, “the passioned minde of the penitent sinner” e presentano un io alle prese con la propria incapacità di “enjoy the comfort of the light” e “finde the waye wherein to walke aright” (P1, vv. 1314)27. Dapprima l’io cerca di distinguere se stesso dal proprio peccato, una distinzione che crolla quando, mosso da “disperazione”, si rende conto di essere un “[f]or damned vessel” (P3, v. 9) della terribile collera divina. La capacità di dire il proprio peccato e di riconoscerlo in quanto peccato è, secondo la logica calvinista espressa nei sermoni sul cantico di Ezechia, un segno implicito della Grazia divina. Dice Calvino nel quarto sermone sul cantico di Ezechia, tradotto da Lock: whan oure Lorde sheweth us a terrible countenaunce, oure mouthes are stopped, we are fylled wyth suche anguisshe, that it is impossible for us to blesse hym. […] On the other syde, when God sheweth hym selfe mercyfull towarde us, and uttereth some signe of hys favor toward us, he openeth oure mounthes, as it is sayde in the li. Psalme (p. 51).

Nel canzoniere, è dalla presa di coscienza della propria assoluta abiezione, è dalla consapevolezza di meritare, sin dall’inizio, la condanna, è da una posizione di totale umiltà e debolezza che l’io lirico può “presumere” d’im27 Tutte le citazioni dai sonetti sono tratte da A.V. Lock, The Collected Works, cit., pp. 62-71, e saranno indicate, in parentesi, nel testo. L’indicazione del sonetto e dei versi sarà preceduta dall’iniziale P quando il sonetto citato appartiene a “The preface”.

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plorare Dio28. A questo punto, l’introspezione lascia il posto all’invocazione e alla preghiera. Un’invocazione che, non a caso, muove dal Salmo 51, quello tradizionalmente considerato un paradigma cristiano di conversione e di pentimento. I sonetti della meditazione riaffermano, dunque, l’autorità e la verità scritturale (l’io parla perché Dio gli/le ha “aperto la bocca”), e costituiscono al contempo un esempio di performance testuale di quella autorità (l’io, appropriandosi del salmo, si pone nel ruolo di un Davide contemporaneo). Ma i sonetti testimoniano soprattutto l’esistenza del rapporto con Dio. L’invocazione, afferma Golding nella lettera dedicatoria alla sua traduzione dei Salmi di Calvino, è in primo luogo “a communication with God”29 una forma di discorso che stabilisce un rapporto, una relazione personale con l’Altro per eccellenza. Da introspettivo, il sonetto si fa drammatico. Ed è significativo che sarà questa la forma che raggiungerà, in Inghilterra, le vette più alte con le raccolte di Sidney e Shakespeare. L’uso del sonetto per dar forma alla meditazione sui salmi non ha precedenti nella tradizione inglese. I più importanti sonettisti, attivi prima del 1560, Wyatt e Surrey, composero anch’essi versioni metriche dei salmi; tuttavia, né Wyatt né Surrey, impiegarono la forma del sonetto per le loro parafrasi. Neppure Marot, traduttore di Petrarca e tra i primi autori di sonetti in francese, scelse il sonetto per le sue fondamentali versioni dei salmi, pur impiegando forme strofiche diverse per ciascuno di essi30. Petrarca, poi, per i suoi Psalmi septem elaborò una poesia-prosa essenziale sensibile alla venustà dello stile davidico, stilisticamente lontana dalle rime volgari. I suoi salmi

28 Il verbo “presume” appare in P5, v. 1. Sui diversi, e spesso contraddittori, significati che il verbo possedeva all’epoca, cfr. C. Warley, “An Englishe Box”: Calvinism and Commodities in Anne Lok’s A Meditation of a Penitent Sinner, in “Spenser Studies”, 15 (2001), pp. 226-7. 29 J. Calvin, The Psalmes of David and others. With M. Iohn Calvins Commentaries, London, Thomas East and Henry Middleton for Lucas Harison, and George Byshop, 1571, sig. *iiijv. 30 Marot, che durante tutta la vita lavorò alla versione francese del Salterio, pubblicò il VIe Psaulme, il primo salmo dai lui tradotto, intorno al 1531. Dopo due edizioni parziali, date alle stampe all’insaputa del poeta, apparve la prima edizione munita di “privilège royal”: Trente psaumes (Paris, Estienne Roffet, 1541). Ad essa ne seguì una seconda, comprendente altri 19 salmi e il Cantico di Simeone, edizione non datata, ma il “privilège” indica il 1543. Per quanto concerne le altre edizioni dei salmi di Marot e la loro complessa storia testuale, rinvio alla trattazione di Mayer nella sua edizione critica delle opere di Marot (C.A. Mayer, Introduction, in C. Marot, Oeuvres Complètes, édition critique par C.M. Mayer, Genève, Editions Slatkine, 1980, pp. 17 sgg.).

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Dal salmo al sonetto: la meditazione penitenziale di Anne Vaughan Lock

penitenziali furono “paraphrastically translated” in versi da George Chapman soltanto nel 161231. La versione metrica dei setti salmi penitenziali di Wyatt, pubblicata nel 1549, che attinge sia alla tradizione devozionale degli esercizi penitenziali che al modello letterario italiano – I Sette Salmi de la Penitentia de David di Aretino (1534) – rappresenta l’affermazione della poesia salmodica all’interno del repertorio poetico inglese32. Wyatt fu il pioniere della poesia meditativa e introspettiva; ed è grazie alla sua iniziativa che il salmo e il sonetto divennero forme poetiche inglesi. Tuttavia, per i suoi Sette Salmi Penitenziali, Wyatt non impiegò il sonetto, ma fece ricorso alla terza rima, per le parole del salmista, e all’ottava rima, per i prologhi che introducono ciascun salmo. A Meditation risente, come è stato dimostrato, dell’influenza strutturale e stilistica dell’opera di Wyatt, un fatto che, tuttavia, non spiega la scelta della forma del sonetto33. Tutti i sonetti di A Meditation adottano la forma sperimentata da Surrey, cioè abab cdcd efef gg; quattro di essi complicano questo schema, ripetendo una rima (P2; P4; 8; 9); nessuno, però, mostra traccia dell’ottava petrarchesca cara a Wyatt. Nel 1560, poi, in Inghilterra, il sonetto non era ancora una forma in voga, né possedeva uno statuto ben preciso; il termine stesso, sonnet, poteva indicare qualsiasi componimento breve, generalmente di carattere amoroso, e non era riservato per descrivere la forma che attualmente consideriamo “sonetto”. I sonetti di Surrey, insieme a quelli di Wyatt, furono pubblicati, per la prima volta nel 1557, nella Tottel’s Miscellany. La popolarità della raccolta – tre edizioni nel 1557, due nel 1559 – la rendono una fonte possibile per quanto riguarda la scelta del sonetto per A Meditation del 1560. Un sonetto encomiastico di Surrey, “The great Macedon”, fu aggiunto, probabilmente dopo la morte di Wyatt, al manoscritto olografo dei Salmi di Wyatt. La presenza di questo sonetto spiegherebbe un’altra particolarità della forma adottata in A Meditation. In essa, soltanto nove dei ventisei sonetti che la compongono presentano la divisione tra ottava e sestina, una divisione che i primi sonettisti inglesi, consapevoli della scrittura petrarchesca, tendevano a mantenere. Il

31 G Chapman, Petrarchs Seven Penitentiall Psalmes, paraphrastically translated: with other Philosophicall Poems, and a Hymne to Christ upon the Crosse, London, R. Field for Matthew Selman, 1612. 32 T. Wyatt, Certayne Psalmes chosen out of the Psalter of David, commonlye called the vii. Penytentiall Psalmes, London, Thomas Raynald for John Harryngton, 1549. 33 Cfr. M.G.R. Spiller, A Literary “First”: the Sonnet Sequence of Anne Locke (1560), in “Renaissance Studies”, 11 (1997), pp. 46-8; R. Smith, “In a mirrour clere”, cit., pp. 53-6.

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sonetto che funge da prologo ai Salmi di Wyatt è uno dei pochissimi sonetti di Surrey che non osserva la divisione tra ottava e sestina34. Secondo Spiller, il testo dei Salmi di Wyatt avrebbe iniziato Lock – che Spiller considera l’autrice di A Meditation – sia alla forma della meditazione/traduzione che a quella del sonetto35. Tuttavia, al di là dell’influenza specifica difficilmente dimostrabile, si può forse supporre che la scelta del sonetto derivi dalla consapevolezza dell’uso cui la forma era principalmente associata, vale a dire, l’espressione del sé e dell’esperienza personale, un uso che doveva apparire congeniale al novello salmista. Sin dal IV secolo, almeno, i commentatori cristiani avevano considerato i Salmi come un modello per l’analisi del “cuore e dell’anima” e come fonte di conforto spirituale. Matthew Parker, nella sua versione metrica dei Salmi del 1567, cita Sant’Attanasio come autorità patristica per affermare che i Salmi contengono “the motions, the mutations, the alterations of every mans hart and conscience described and lively paynted to hys owne sight”36. Non diversamente Calvino che nei Salmi vedeva “the Anatomy of all the partes of the Soule, inasmuch as a man shalnot find any affection in himselfe, whereof the Image appeareth not in this glasse”. Nel libro dei Salmi, continua Calvino, i Profeti che, “talking with God, bycause they discover all the inner thoughts”, muovono l’individuo al “peculiar examination of himself”37. I Salmi non riflettevano soltanto l’esperienza dei credenti, ma presentavano anche il modo per articolare quell’esperienza: “whereas al other Scriptures” – spiega Gilby nel 1580 – “do teach us what God saith unto us, … [the psalms] do teach us, what we shall saie unto God”38. I commentatori cinquecenteschi, come per esempio Thomas Wilcox, ponevano, poi, particolare enfasi sulla grande varietà dei temi e stili attraverso i quali venivano espressi, nei Salmi, le disposizioni e i bisogni personali39. In breve, l’imitazione dei

34

Cfr. M.R.G. Spiller, A Literary “First ”, cit., p. 49. Ibid. 36 M. Parker, The whole Psalter translated into English Meter, which contayneth an hundreth and fifty Psalmes, London, John Daye, 1567, sig. Biiiiv. 37 J. Calvin, To the godly Readers, in The Psalmes of David, cit., sig. *Iv. 38 A. Gilby, The Epistle Dedicatory to the Right Honourable and Vertuous Ladie, The Ladie Katherine, Countesse of Huntingdon, in T. de Bèze, The Psalmes of David, truely opened and explaned by Paraphrasis, according to the right sense of every Psalme. Set foorth in Latine by the excellent learned man Theodore Beza. And faithfully translated into English by Anthonie Gilbie, London, John Harison and Henrie Middleton, 1580. La citazione è tratta dall’edizione del 1581, stampata a Londra da Henrie Denham, sig. A3v. 39 T. Wilcox, A Right Godly and Learned Exposition, vpon the whole Booke of Psalmes, London, printed for T. Man, and W. Brome, 1586, sig. B1r. 35

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Dal salmo al sonetto: la meditazione penitenziale di Anne Vaughan Lock

Salmi nella vita e nella letteratura promuoveva la coscienza di sé ed era espressa in forme liriche e drammatiche atte a sottolineare l’intensità emozionale dell’esperienza personale. Per la sua natura introspettiva, la forma ‘nuova’ del sonetto poteva, dunque, apparire consona a dare voce alla moderna percezione di sé declinata sul paradigma davidico. In fondo, afferma Zim nel suo importante studio sulle versioni inglesi dei salmi, “[t]he eloquent and sentient ‘I’, whose voice emerges from their lyrical poetry, is a direct descendant of the psalmist: Petrarch had written both psalms and sonnets”40. A Meditation, volgendo il sonetto a scopi devozionali, non solo introduce una prospettiva inedita, e implicitamente critica, nella percezione della forma – mutato è l’oggetto d’amore e della petizione, mutato è l’interlocutore – ma costituisce anche un precedente importante per i diversi canzonieri spirituali che videro la luce tra la fine del ’500 e l’inizio del ’600. Se è possibile comprendere la scelta del sonetto per A Meditation, più arduo appare trovare una spiegazione per la forma-canzoniere che essa assume. Come accennato, non esistono, nella letteratura europea, precedenti conosciuti di testi che combinino la sonnet sequence con la parafrasi dei salmi. Presumibilmente elementi diversi convergono nella creazione di questa nuova forma poetica. Essi provengono, con tutta probabilità, sia dall’esegesi dei salmi che dalla tradizione petrarchesca. L’idea del “libro” di sonetti può senza dubbio derivare dalla lettura diretta delle Rime di Petrarca, magari corredata dai commenti cinquecenteschi filo-protestanti come, per esempio, quello di Fausto da Longiano (1532) o di Antonio Brucioli, che pubblicò il suo “Petrarca”, dapprima a Venezia nel 1548, poi a Lione nel 1550. Significativamente, Brucioli era anche autore di una versione dei Salmi, “dalla Ebraica uerita in lingua Toscana”, corredata da un “nuovo” commento e da una lettera dedicatoria di sapore riformistico, che apparve a Venezia nel 153441. Per via delle sue annotazioni anti-papiste (cfr. canzoni 22, 45; sonetti 92, 106-108), il Canzoniere glossato da Brucioli doveva apparire particolarmente interessante per quei cultori e consumatori di poesia che avevano a cuore la “restauratione della chiesa, della uera Ierusalem”42 e che, magari, erano stati costretti all’esilio durante il regno di Maria Tudor.

40

R. Zim, English Metrical Psalms, cit., p. 204. A. Brucioli, I Sacri Psalmi di David, Distinti in cinque Libri, tradotti dalla Ebraica uerita in lingua toscana, & con nuovo commento dichiarati, Venetia, Aurelio Pincio Veneziano, 1534. 42 Ivi, sig. CXXIIv. 41

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Donatella Pallotti

Accanto a letture filo-protestanti del Canzoniere, il Cinquecento italiano produsse anche tentativi di riscrittura dello stesso Canzoniere in chiave cristiana e come poesia rivolta alla Saggezza Divina o alla Vergine. Opere che riscossero un considerevole successo, come dimostra, per esempio, Il Petrarca spirituale di Girolamo Malipiero, apparso nel 1536, che fu ristampato almeno altre cinque volte prima della fine del secolo. Secondo Roche, la pubblicazione di un certo numero di canzonieri di argomento religioso, avvenuta in Inghilterra soprattutto negli ultimi anni del Cinquecento e nei primi decenni del Seicento, rappresenta la fase culminante di quel processo di “spiritualizzazione” della poesia amorosa, iniziato in Italia intorno alla metà del XVI secolo43. Letture, commenti, e riscritture del Canzoniere petrarchesco plausibilmente hanno giocato un ruolo non secondario nella composizione di A Meditation, soprattutto se consideriamo che la sua probabile autrice, Anne Vaughan Lock, aveva vissuto per alcuni anni sul continente. Tuttavia, accanto a questi testi, era certamente conosciuta, soprattutto da chi traduceva e parafrasava i Salmi, una pratica esegetica che aveva come obiettivo quello di “ordinare” e di classificare i Salmi sulla base, per esempio, delle forme e degli usi retorici, o dei diversi tipi di parlanti e interlocutori, oppure delle emozioni esibite o evocate, ovvero dei generi lirici. A partire dalla tradizione ebraica, passando per Agostino, per arrivare ai commentatori cinquecenteschi, vi furono poi anche diversi tentativi di dare coerenza alle liriche “sparse” dei salmi, inserendole all’interno di uno schema generale di carattere strutturale e narrativo legato al progresso spirituale44. Sebbene non si possa 43

T.P. Roche, Jr., Petrarch and the English Sonnet Sequences, cit., pp. 90 sgg. Nelle sue Enarrationes in Psalmos, Agostino individua tre gruppi di cinquanta salmi; a ognuno dei quali corrisponde uno stadio della vita spirituale. Il salmo 50 è di penitenza, il 100 è di misericordia e giudizio, mentre il 150 è di lode di Dio nei suoi santi. Questo è, secondo Agostino, “l’ordine secondo il quale tendiamo alla vita eterna e beata” (Agostino, Esposizioni sui Salmi, 4 voll., Roma, Città Nuova Editrice, 1967-77, vol. IV, a cura di V. Tarulli e F. Monteverde, 1977, p. 929). Tra i commentatori cinquecenteschi, George Wither riassume diverse posizioni e chiarisce: “the number of [the Psalmes] according to the received account, is a hundred and fiftie. From which Trinitie of Fifties, the Father of the Church have gathered some mysticall observations, touching the three Persons of the holy Trinitie. Other notes are also taken from that triple number: and some there be, who say, that in those three fifties, are expressed the three degrees of blessednesse: the first discovering the estate of penitence, the second of progression, and the third of perfection. Or thus: the first fiftie are of repentance and correction, and second of righteousnesse and mercy, the last of praises & thankesgivings, which shall be the employment of the righteous, in the perfection of their blessedenesse: and this is all which I can say to any purpose, concerning the number of the Psalmes.”(G. Wither, A Preparation to the Psalter, London, N. Okes, 1619, p. 47). 44

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Dal salmo al sonetto: la meditazione penitenziale di Anne Vaughan Lock

parlare di canzoniere in senso stretto, l’individuazione di un ordine significativo in cui i singoli salmi si succedono può avere contribuito alla percezione di un’affinità tra il modello strutturale delle Rime di Petrarca e quello delle “rime” di Davide. Alla fine degli anni ’50 del Cinquecento, l’autore o l’autrice di A Meditation aveva a disposizione la tradizione del sonetto e quella dei Salmi metrici e delle meditazioni sui Salmi, tradizioni che, intrecciate tra loro, diedero vita ad un’opera del tutto inedita che assume ulteriori connotati di originalità se considerata nel contesto del volume in cui è inserita. Un volume curato da una donna dell’emergente ceto medio, con impeccabili credenziali protestanti, e dedicato a una donna di alto lignaggio che, probabilmente, fungeva da mediatrice per una più importante destinataria: Elisabetta I45. Le figure di Ezechia e Davide, menzionati nella lettera dedicatoria e protagonisti rispettivamente dei sermoni e dei sonetti, erano considerati dai protestanti, modelli di sovranità. Entrambi furono indicati a Elisabetta come esempi da imitare sia nella vita privata che nel governo dello stato. Nella lettera dedicatoria a Elisabetta, che precede la Bibbia di Ginevra del 1560, viene chiamato in causa Ezechia, il re iconoclasta, impegnato nella lotta contro l’idolatria e la falsa religione (2 Re 18:4), per ammonire la giovane sovrana affinché intraprenda immediatamente la riforma dello stato e ristabilisca “la parola di Dio” al fine di evitare “the wrath of the Lord”46. L’anno precedente, i traduttori ginevrini dei Salmi (1559) avevano già incoraggiato Elisabetta ad imitare Davide, sollecitandola a identificare le sue esperienze con “the perils and persecutions that he susteined before he came to the royal dignitie”47. Questi, ed altri, interventi mostrano una preoccupazione assai diffusa nei primi anni del regno di Elisabetta: l’impegno della sovrana nei confronti della religione riformata. Il volume di Lock, che stabilisce una relazione tra Ezechia e Davide, suggerisce l’ipotesi di un tentativo, da parte di un’attivista protestante, che era stata esiliata a Ginevra, di esercitare una sorta di pressione politica sulla sovrana, in termini assai simili a quelli attuati da autorevoli voci maschili. Inoltre, il sonetto di Surrey che apre i Salmi penitenziali di Wyatt, aveva messo in luce il loro carattere politico: il Davide presentato da

45 Rilevanti, a questo proposito, le osservazioni di Rosalind Smith (“In a mirrour clere”, cit, pp. 48-52). 46 The Bible and Holy Scriptures conteyned in The olde and Newe Testament, Geneva, Rouland Hall, 1560, sig. *** iiv. 47 The Boke of Psalmes, Geneva, Rouland Hall, 1559, sig. * iiiv.

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Wyatt rappresenta un modello ammonitorio “Where rulers may se in a mirrour clere / The bitter fruit of false concupiscence”48 (vv. 10-11). A rafforzare una possibile linea ‘femminile’ di trasmissione dell’opera da Lock a Elisabetta, con la mediazione della duchessa di Suffolk, vi è anche un altro elemento che è stato, finora, trascurato. Una delle prime opere a cui Elisabetta si dedicò fu la traduzione dal francese di Le miroir de l’âme pécheresse di Margherita di Navarra, un testo che fu al centro di una accesa controversia tra i teologi della Sorbona, che lo avevano inserito tra i libri proibiti nel 1533, e la corona francese, costretta ad intervenire per evitare che Margherita fosse accusata di eresia. Il manoscritto della traduzione inglese, dal titolo The Glasse of the synnefull soule, fu donato a Catherine Parr da Elisabetta, nel 1544, quando la futura sovrana aveva appena 11 anni. Sia il testo originale che la traduzione si aprono con una citazione dal salmo 51. La traduzione, nella versione pubblicata per la prima volta nel 1548 dal teologo riformatore John Bale, con il titolo A Godly Medytacyon of the christen sowle, è chiusa da una parafrasi in versi del salmo 13, basata probabilmente sulla Vulgata, preceduta da una nota introduttiva di Bale stesso 49 . Recentemente la paternità/maternità del componimento è stata messa in dubbio50; tuttavia, esso è stato, a lungo, considerato opera di Elisabetta. John Bale, nella dedicatoria alla giovane principessa, trattando della “true Nobylyte”, menziona Ezechia e Davide tra i sovrani che hanno lottato contro la falsa religione; del primo, egli mette in luce, soprattutto, l’iconoclastia. Bale sottolinea, inoltre, come lo stile dei Salmi davidici sia “not all unlyke” a quello dell’opera da lui presentata51. A Meditation di Lock sembra condividere con A Godly Medytacyon di Elisabetta alcuni tratti importanti sia dal punto di vista strutturale che tematico, un’affinità che non poteva sfuggire all’attenzione della sovrana. Lock avrebbe, dunque, collocato il suo messaggio radicale in una tradizione di scrittura devozionale femminile, fatta di traduzioni e di parafrasi dei salmi,

48 H. Howard, Earl of Surrey, The great Macedon, in Poems, a cura di E. Jones, Oxford, Clarendon Press, 1964. Il sonetto apparve anche nella Tottel’s Miscellany. 49 La traduzione di Elisabetta, in due versioni che si differenziano entrambe dal manoscritto, vide cinque edizioni durante il XVI secolo. 50 Cfr., per es., la nota introduttiva di Salminen in M. de Navarre, Le Miroir de la âme pécheresse, édition critique et commentaire suivis de la traduction faites par la princesse Elizabeth, future reine d’Angleterre: The Glasse of the Synnefull Soule, a cura di R. Salminen, Helsinki, Suomalainen Tiedeakatemia, 1979, p. 257. 51 A Godly Medytacyon of the christen sowle, Wesel, Dirik van der Straten, 1548, sig. Avv; sig. 39v.

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Dal salmo al sonetto: la meditazione penitenziale di Anne Vaughan Lock

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che vantava, in primo luogo, il contributo della sovrana stessa, e che indicava come precedenti illustri l’opera di altre due regine, Margherita di Navarra e Catherine Parr, entrambe sensibili alla causa della religione riformata. La forma del sonetto, con i suoi connotati cortigiani, avrebbe, poi, reso ancor più viva quell’attenzione, più ‘moderna’ quella meditazione; mentre la sonnet sequence, con accenti lirici e drammatici, ne avrebbe indicato gli stadi e la progressione spirituale. La meditazione trova espressione nelle parole del salmista, forma nel sonetto, sviluppo nella sonnet sequence, attraverso una pratica poetica che, in ultima analisi, non era estranea a Petrarca stesso. In fondo, nell’invocazione, “miserere d’un cor contrito humile”52 che chiude il Canzoniere, la voce dell’io lirico aveva già assunto i toni penitenziali del salmista davidico.

52 F. Petrarca, “Vergine bella, che, di sol vestita”, v. 120, in Canzoniere, a cura di M. Santagata, Milano, Mondadori, 1996.

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Bibliografia

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Dal salmo al sonetto: la meditazione penitenziale di Anne Vaughan Lock

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Donatella Pallotti

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IN CHIUSURA

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PERCHÉ NON POSSIAMO NON DIRCI PETRARCHISTI. ABBOZZO DI UN BILANCIO DI VITA E OPERE

Sono stato invitato a parlare di petrarchismo, e ne ringrazio gli organizzatori, ma a me pare di aver già detta la mia in proposito, per quel che vale, e mi ripugna di essere l’epitomatore di me stesso. Alludo specialmente ai saggi Per una storia del petrarchismo metrico (1987) e soprattutto a Il libro di poesia nel Cinquecento (: principio e fine), uscito in Il libro di poesia dal copista al tipografo, a cura di Marco Santagata e Amedeo Quondam, che raccoglie gli Atti di un convegno svoltosi a Ferrara il 29-31 maggio 1987, pubblicato a Modena, presso Panini, nel 1989, e riproposto, insieme col primo, nella mia silloge Metrica e analisi letteraria, Bologna, il Mulino, 1993, pp. 183-92 e 193-204: due contributi a cui rinvio e che non compendierò qui. Vorrei cambiare le regole del gioco e, nel farlo, confido di non esser giudicato pretestuoso o vano. Oltretutto, senza che me l’aspettassi, il mio discorso – con quello di Raimondi, per vostra e per mia fortuna – serve da chiusa del nostro convegno, un onore e un onere veramente troppo impegnativi per le modeste riflessioni che intendo sviluppare. Sono molti i giovani ricercatori presenti; d’altra parte, come ho detto, non intendo ripetermi; vorrei dunque illustrare, parodiando una frase celebre di Croce, Perché non possiamo non dirci petrarchisti, esplicitando il programma col sottotitolo Abbozzo di un bilancio di vita e opere. Se siamo qui a parlare di Petrarca e di petrarchismo ancora una volta, lo dobbiamo in effetti a queste premesse. Darò, di questa formula, una lettura piuttosto personale che collettiva, come il sottotitolo, a ben vedere, suggerisce; e sarebbe interessante indagare perché non vale la formula *Perché non possiamo non dirci dantisti.

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Guglielmo Gorni

Eravamo davvero giovani, trent’anni fa, Quondam, Ferroni, Ossola, chi vi parla e altri. Ci siamo divisi, ognuno è andato per la sua strada, ed è miracoloso che in parte ci si ritrovi a discorrere di petrarchismo. A questo incontro quasi postumo (per la mia generazione e per la mia percezione delle cose) non potevo mancare: questa è la ragione per cui non ho declinato l’invito di Amedeo, anche se, sul petrarchismo, non credo di poter dire più di quanto ho già detto o scritto. Non sono mancate ragioni di dissenso, tra noi del vecchio gruppo: per sensibilità personali, più che per conflitti di scuola. Da Quondam, ad esempio, la penso diversamente su più questioni accademiche, e lui lo sa: ma il petrarchismo torna a unirci, e mi piace che sia così. Ritorno dunque al passato. In quegli anni, Quondam, soprattutto insieme con Giulio Ferroni, studiava le antologie di poesia cinquecentesca. Che ora anche si ristampano, a quanto vedo, e delle quali (mi compiaccio di constatare) oggi si sanno tante cose, ma di cui allora non si sapeva letteralmente nulla. Erano un mondo sconosciuto, guardato con diffidenza, che imponeva un lavoro di pionieri; perché si potesse avere un’idea della cosa, si doveva riaprire un cantiere abbandonato da secoli, sfidando il dileggio di molti. Le studiava, queste antologie – pareva a noi di Firenze emunctae naris (a me, dico, a Giovanni Parenti, Silvia Longhi e Giuliano Tanturli) – in maniera tumultuosa e precipite, dando prova di una filologia un po’ avventurosa. Ne venne fuori una recensione agrodolce del compianto Parenti all’antologia curata dai nostri amici, La “locuzione artificiosa”. Teoria ed esperienza della lirica a Napoli nell’età del manierismo, Roma, Bulzoni, 1973 (la prima parte, teorica, a cura di Ferroni, la seconda – un’antologia di testi – a cura di Quondam). La recensione s’intitolava Vicende napoletane del sonetto tra manierismo e marinismo (in margine a una recente antologia) e fu pubblicata sul primo numero (MCMLXXVIII) di “Metrica”, alle pp. 225-39, saggio brillante, e purtroppo, a quanto vedo, non più citato. “Metrica”, una rivista ormai morta, era diretta da Franco Gavazzeni e distribuita dalla Ricciardi, una casa editrice che non aveva alcuna esperienza di riviste e che era in balia delle superstizioni filologiche di Gianni Antonini. Di “Metrica” uscirono cinque numeri d’impeccabile riuscita, poi il periodico si spense, come anche la collana “Documenti di filologia”, diretta da Contini e creata per lui, della quale “Metrica” ricalcava l’aristocratico schema e l’impaginazione. Una rivista sui generis, di apparizione non fissa e rigorosamente priva di abbonamenti, dedicata a una disciplina, la metrica appunto, di cui neppure oggi si potrebbe sostenere la popolarità. Quella recensione poteva apparire severa; era il segno invece di un’attenzione simpatetica, un segnale scambiato da pochi nel deserto degli studi sul petrarchismo. La novità di Quondam era, ed è, un approccio quantitativo

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Perché non possiamo non dirci petrarchisti. Abbozzo di un bilancio di vita e opere

a fatti del tutto ignorati, o di cui si dava conto (nei casi migliori) con degnazione qualitativa. A questo riguardo, mi pare ancora istruttivo del suo modus operandi il vecchio studio che s’intitola Petrarchismo mediato (Roma, Bulzoni, 1974), coi sottotitoli Per una critica della forma “antologia” e Livelli d’uso nel sistema linguistico del petrarchismo, dove per la prima volta, credo, nei nostri studi, si ostentano tabulati, statistiche e discorsi quantitativi. Per dire, il saggio di Luigi Baldacci, Il petrarchismo italiano nel Cinquecento, uscito da Ricciardi nel 1957 e ristampato a Padova, presso la Liviana, in “nuova edizione accresciuta” nel 1974, discorreva per pagine e pagine di questo manierismo delle nostre lettere, ma non si abbassava mai a citare le antologie ‘giolitine’. L’unico che sapeva tutto e che avrebbe potuto apprezzare era, beninteso, Dionisotti, il savio che tutto seppe; ma Dionisotti era lontano, a Londra, e le convenienze del petrarchismo in Italia erano affidate, semmai, a cultori segreti, schivi e disinteressati a esercitare un qualsivoglia potere accademico, come, poniamo, Cesare Bozzetti, per il quale i petrarchisti erano un’Arcadia squisita, un club inaccessibile e non comunicabile. Naturalmente aveva ragione Quondam: bisognava metter mano finalmente a quel mondo cartaceo ignoto, pubblicare e divulgare, anche a costo di sbagliare, e non chiudersi, con la Ninfa tiberina del Molza in mano, in un ridotto appartato. Io, che nel 1968 ero impegnato nel movimento studentesco senza capirci granché, mi ridussi a redigere, sotto la guida di Bozzetti, una tesi di laurea sul canzoniere di un petrarchista minore, il milanese e farnesiano Antonfrancesco Rainerio, perché altra tesi, ben altrimenti ambiziosa, su Celio Magno, non venne portata a termine per ragioni di tempo, per il timore di non farcela a laurearsi in quattro anni, conditio sine qua non per sperare in qualche borsa e in una carriera scientifica futura. Col risultato che Celio Magno, voce primaria della nostra poesia, è inedito all’età nostra nella sua globalità. Mentre, se avessi perseverato, di sicuro si leggerebbe oggi un’edizione moderna completa di quel grande. Sul Rainerio pubblicai soltanto un articolo tardo, nel 1989, dedicato naturalmente a Bozzetti, Un’ecatombe di rime. I “Cento sonetti” di Antonfrancesco Rainerio, su “Versants. Revue suisse des littératures romanes”, 15, N. S., 1989, pp. 135-52, in un numero dedicato ai Prologues au XVIe siècle, a cura di André Gendre e Michel Jeanneret, e ne antologizzai qualche sonetto dei meno alessandrini nell’antologia ricciardiana1 uscita nel 2001; mi sembrò di fare molto per lui, il massimo possibile per 1 Cfr. Poeti del Cinquecento. I. Poeti lirici, burleschi, satirici e didascalici, a cura di G. Gorni, M. Danzi e S. Longhi, La letteratura italiana. Storia e testi, Volume 23, Tomo I, Milano-Napoli, Ricciardi, 2001.

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Guglielmo Gorni

questo gatto bigio delle nostre lettere, che un tempo avevo contribuito a far uscire dall’oblio. E invece, incredibile a dirsi e segno dei tempi nuovi, venni rimproverato di non aver dato uno spazio adeguato al Raineri nell’antologia (si rifiutò anche il nome Rainerio, da me adottato, recuperato dai frontespizi delle stampe d’autore)2; mi si accusò anche di esser stato troppo severo nientemeno col Molza, che avrebbe meritato, mi si fece sapere oralmente, un’adesione più cordiale. Vinto lo sbigottimento, tanto più forte perché era passata una ventina d’anni tra la consegna dei materiali dell’antologia e la loro stampa, ritardata soprattutto per ragioni tecniche (segnatamente per il passaggio dal sistema monotype – che imponeva di ricomporre, magari solo per una virgola da ritoccare, l’intero rigo di piombo, il che comportava a volte nuovi errori in altri punti del rigo ricomposto – alla composizione elettronica, ma con caratteri perfettamente identici a quelli passati), bisognava prendere atto che il petrarchismo cinquecentesco era diventato, se non popolare, almeno più largamente noto presso gli studiosi. E che erano cresciute le esigenze, allargato l’orizzonte d’attesa dei lettori. Sulle Rime del Bembo, ad esempio, era follia sperare un incremento dell’annotazione, sobria e precisa, di Dionisotti per il volume dell’Utet: eppure mi sembra che la scommessa non sia stata perduta, che insomma sia valsa la pena di procedere a una nuova annotazione, che si facesse carico di chiose di lingua e di stile, un po’ messe in sordina nel precedente torinese. Eppure non è mancato3 chi sentenziasse come s’avesse a commentare la poesia del Cinquecento, che finora

2 Cfr. l’informata recensione di Domenico Chiodo all’antologia ricciardiana in “Giornale Storico della Letteratura Italiana” 590 (2003), pp. 284-90. Faccio a tempo a segnalare la bellissima edizione Anton Francesco Raineri, Cento sonetti, altre rime e Pompe, con la Brevissima Esposizione di Girolamo Raineri, [a cura di Rosanna Sodano], Torino, Edizioni Res, 2004, con Note varie alla p. 20 e seguenti, che mi rimprovera per i giudizi negativi da me emessi sulla poesia del Rainerio. Ora io posso essere stato, nei miei giovani anni, giudice troppo severo, come già Croce, della poesia di lui, ma, con buona pace del Rainerio e del fratello suo Girolamo, stento ancora a farne, pur con l’affetto che s’immagina, un autore da riscoprire. Sacrosanta l’avvertenza delle pp. 260-262: i testi del CD-rom ATL, che non ho digitato io, sono in effetti inaffidabili, purtroppo me n’ero già avveduto. 3 Cfr. A. Afribo, Commentare la poesia del Cinquecento, in “Per leggere” 4 (primavera 2003), pp. 141-64. Il quale in Teoria e prassi della “gravitas” nel Cinquecento, Firenze, Cesati, 2001, p. 136, mi aveva riservato questa digressione: “Non è intanto vero che, come dice Guglielmo Gorni, ‘le poetiche rinascimentali, con la notevole eccezione del Trissino […] sono mute o quasi sulla morfologia delle testure’ e che ‘l’empirismo è la norma costante’”. Ci sono invece – mi si obietta – Muzio e Minturno, le cui Poetiche sarebbero gremite di tali digressioni. Per Muzio non so che dire, se non che la sua Poetica è in sciolti, dunque inadatta alla dimostrazione puntuale e tecnica che si richiede. Quanto a Minturno, il

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Perché non possiamo non dirci petrarchisti. Abbozzo di un bilancio di vita e opere

era esente, con numerate eccezioni, da chiose scientifiche. Forse, o anzi, certamente si ha ragione a essere esigenti: mi pare tuttavia che si debba tener conto della tradizione esegetica della poesia cinquecentesca, pressoché nulla: in questa luce, l’impresa ricciardiana rappresenta un innegabile progresso. Soprattutto è da riflettere sul fatto che, ragioni tecniche a parte, la fortuna editoriale dei poeti petrarchisti non è mai garantita. Se per una raccolta di novelle c’è sempre spazio nel nostro mondo cartaceo, per il canzoniere di un ‘petrarchista’ la cosa non è affatto scontata, come – per non dir altro – la vicenda dei due restanti volumi, tuttora inediti, dell’antologia ricciardiana rivela4. Si diceva del petrarchismo che unisce. Pareva, il loro, un mondo identico a sé e indistinto: sonetti e canzoni, nient’altro che sonetti e canzoni, solo endecasillabi e qualche raro settenario. Una gran noia, in apparenza. Fu il Petrarca il nostro autore, coi suoi commenti quattro e cinquecenteschi, non Dante o qualche moderno, Leopardi o Pascoli. Ci sforzavamo di reagire, a fronte dei fatti di lingua e di stile, come avrebbero fatto Ludovico Antonio Muratori o Anton Federico Seghezzi; il nostro gusto, retrodatato al Settecento, era il loro: una monotonia ben calibrata. Non era stata questa, del resto, cioè la lirica toscana, la poesia per antonomasia dell’Europa tutta? non semplicemente l’italiana illustre, bensì proprio la poesia senza aggettivi, e importava riannodare antichi nessi. Questo il programma di allora, poi venne un tempo di pausa. Sennonché – sarà ironia del destino, o provvidenziale eterogenesi dei fini – quasi al momento di lasciare Ginevra ho avuto parte nel costituire una Fondation Barbier-Mueller pour l’étude de la poésie italienne de la Renaissance, con un suo fondo di libri rari, con una sua rivista, Italique, che continuo a dirigere, e che si avvale di un comitato scientifico che annovera, con altri, anche il nome di Quondam, e ciò ha prolungato l’impegno. Le antologie liriche erano studiate, allora, solo dai francesisti di vecchia scuola e dai comparatisti, che vi cercavano fonti peregrine per i poeti della Pléiade, fonti che risultavano di solito sconcertanti per noi italianisti, per la rarità dei nomi proposti. Si conservano, alla Bibliothèque Nationale di Parigi,

terzo libro de L’Arte Poetica del 1564 (non credo che si alluda ai sei libri latini del De Poeta del 1559), contiene, è vero, notazioni di schemi metrici, ma niente che sia comparabile alla perizia assoluta del Trissino; sicché non cambierei quel mio vecchio, incidentale giudizio, preso a pretesto per infliggermi la citata ramanzina. 4 Ma segnalo volentieri l’attività delle Edizioni Res, che sono andate pubblicando in questi anni, in ineccepibili edizioni, molti rariora.

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le prime due delle cosiddette nove antologie del nostro Cinquecento poetico, annotate da Ronsard (se non vado errato, il canone di nove – tanti libri di poesia, editi da vari editori, quante le Muse – fu costituito nel Settecento da Giusto Fontanini e Apostolo Zeno nella loro Biblioteca dell’eloquenza italiana, che risale al 1726, ma che solo nel 1753 appare a doppia firma in redazione ampliata e rivista). Questo raro cimelio ronsardiano coonesta ogni ricerca di fonti, a partire dalle antologie verso i testi della Pléiade. Dato che stiamo discorrendo di petrarchismo europeo, non spiaccia se resto su questo tema, sul quale, nei giorni passati, tanti specialisti hanno fissato un bilancio esaustivo di presenze, rinnovando un discorso in qualche modo topico5. Non tutto il petrarchismo, va detto, è cosa originaria e deriva dal Petrarca. Ho soprattutto in mente, per le lettere francesi, quell’intelligente abuso che fu la Laure d’Avignon (Paris, Jacques Gazeau, 1548), “extraict du poète Florentin Françoys Petrarque: Et mis en François par Vaisquin Philieul de Carpentras”. Perché non sempre, negli imitatori, il petrarchismo è di prima mano, e non sono solo le antologie e i canzonieri dei cinquecentisti italiani a dettar legge. Anche se la materia è molto italiana, un titolo come L’Olive di Joachim du Bellay rinvia a un precedente vicino nel tempo, tutto e solo francese, quello citato di Vasquin Philieul6, appunto. Lo si ripeta ancora una volta: non tutto il petrarchismo discende dal Petrarca. E poi c’è petrarchismo e petrarchismo. Michelangelo Buonarroti, ad esempio, stimato massimo lirico dopo il Petrarca, è autore specialmente di sonetti e madrigali (anche di ottave e di capitoli in terza rima, a onor del vero; ma soprattutto di sonetti e di madrigali). Ora, indipendentemente dagli ingredienti linguistici messi in atto, il madrigale cinquecentesco è per eccellenza, per metro e per forma, un’istituzione non petrarchesca. Si dà, col madrigale, un’apertura ‘musicale’ affrancata dal modello petrarchesco a

5 Mi si consenta di menzionare almeno la recentissima silloge Les poètes français à la Renaissance et Pétrarque. Études réunies par Jean Balsamo […], Genève, Droz, 2004, promossa dalla citata Fondation Barbier-Mueller. Segnalo come particolarmente significativo il breve Avant-propos premesso dal francesista Michel Jeanneret alla raccolta di saggi (pp. 9-12), che esordisce così: “Le pétrarquisme? Une vaste névrose collective, la clameur pathétique, et finalement lassante, de soupirants mal dans leur peau”. E se ne ‘scusa’ la secolare efficacia, perché, dopo tutto, il petrarchismo si sarebbe reso benemerito nell’illustrare “les phénomènes obscurs de la vie intérieure”. Può essere: forse una lettura psicologica può dar conto della perdurante stravaganza. Ma la vera chiave sta nella gratuita assunzione dell’io lirico, come a giusto titolo insistono gli amici della scuola romana che fa capo a Roberto Antonelli, e nel lavoro sulla lingua. 6 Une riedizione critica di questo testo capitale del petrarchismo è prevista nella serie di pubblicazioni della Fondation Barbier-Mueller.

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forme chiuse, che del resto – come rivelano i frammenti (di sonetto) e la tecnica del non-finito – era sentito troppo cogente. Mi spiace che nessuno abbia segnalato, almeno a mia notizia, quella che mi pare una riuscita critica dell’antologia ricciardiana, cioè l’opposizione tra i sonetti (sede di esperienze liriche assolute) e i madrigali (composti soprattutto per Vittoria Colonna). Ripropongo qui alcune riflessioni dal ‘cappello’ a Michelangelo, alle quali, come si dice, ‘ci tengo’: In una silloge del 1546 rimasta inedita e lasciata a mezzo, promossa segnatamente dal Riccio, che morì in quell’anno, erano proprio i “madriali” i pezzi privilegiati. Perché aver scelto i madrigali, i testi più esangui […]? Forse per prudenza letteraria, a cui non sarà stato estraneo il Riccio, allo scopo di evitare un duro confronto con la dominante tradizione bembesca e dellacasiana. Sonetti e frammenti di sonetti buonarrotiani danno un senso costante di troppo pieno: parole e concetti rinserrati, senza i passaggi d’uso. Aboliti gli spazi intermolecolari, il testo precipita in una concentrazione ardua, chiusa, ripugnante ai canoni levigati della lirica illustre. Anche a costo di ridurre il progettato sonetto a soli quattro, sei, otto o perfino undici versi. Tante interpretazioni sono state date del non-finito michelangiolesco: almeno nell’esercizio della poesia, il non-finito non è mai interruzione, ma [esaurimento del tema], fedeltà, portata ai limiti dello smacco, al nucleo originario dell’intuizione poetica, che non si può dilatare se vien meno l’energia prima. […] I madrigali, invece, sono meno ‘diversi’, lasciano entrare l’aria e il vuoto; sono di confezione flessibile, e quasi modellabili a capriccio […].

Insomma, paradossalmente, le migliori riuscite si hanno quando l’autore si misura in un corpo a corpo con la tradizione, quando fa il petrarchista a pieno titolo e non quando si scarta dall’imitatio. Il madrigale, si concede, è per sua natura affrancato da una vicinanza stretta al modello, ma non per questo è garante di un acquisto di originalità. Altre infrazioni storiche alla regola che tutto il poetabile è petrarchista, cioè sonetti e canzoni, sono realizzate soprattutto nei settori che hanno coltivato il sonetto caudato burchiellesco, o lo strambotto di fine Quattrocento, praticato soprattutto da Serafino Aquilano. Oggi che Michelangelo Zaccarello ci ha dato non solo la nuda edizione della vulgata quattrocentesca (era stata un’accorta soluzione filologica, la sua, che lasciava però impregiudicato il problema di dare un senso a quella poesia), ma anche un commento ai testi (tutti sonetti ABBA ABBA CDC DCD dEE, schema naturalmente non petrarchesco) si vede bene che il manierismo fortunatissimo del Burchiello (ancora l’austero Parini annovera, tra le rime di Ripano Eupilino, esperimenti ‘caudati’ e un sonetto [LXV], il cui capoverso

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suona O anima bizzarra del Burchiello) fu storicamente il tentativo più forte e coerente di sottrarre la nostra tradizione poetica al Petrarca. Forse che l’opposizione al Petrarca è una delle chiavi di lettura di quella poesia non decifrata? Va rammentato che il Burchiello, per i quattrocentisti fiorentini, era una delle Tre corone poetiche della poesia toscana, terzo dopo Dante e il Petrarca, anche secondo il parere del Lasca nella dedicatoria dell’edizione del 1552,

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[lo] ingegnoso e faceto Burchiello: il quale dagli antichi nostri fu giudicato terzo con Dante, e col Petrarca; pensandosi che il divinissimo Messere Giovanni Boccaccio, fusse Oratore, e non Poeta […]

Contini nei Preliminari sulla lingua del Petrarca, saggio del 1951 che serve da prefazione all’edizione einaudiana (1964) del Canzoniere da lui curata e sobriamente annotata da Daniele Ponchiroli, separa nettamente il Petrarca dal petrarchismo7: La stagione di un Petrarca non tradito, precisamente in concomitanza col Boccaccio (un Boccaccio ciceronizzato), è, cosa risaputa, il Cinquecento bembesco. Ma le condizioni di questa fortuna, di questo passaggio in letteratura, sono: quello che mancava a Petrarca, una notevole capacità riflessiva; l’accettazione concreta della pluralità degli stili, anzi dei generi; un ideale di lume platonico per ogni stile che rende esattamente comprensibile a noi, post-romantici […] la legittimità del petrarchismo. D’altra parte, l’inattualità temporale dell’esperimento petrarchesco si può benissimo prestare a configurarsi in anticipo straordinario […] come soprattutto accadde, prodigioso quanto isolatissimo rinascimento, quando lo si vide riapparire, intatto dai secoli, virginalmente fresco, ancora nutritivo, nelle mani di Giacomo Leopardi.

“E noverar le stelle ad una ad una” (Canto notturno, XXI 135) è la ripresa leopardiana di un verso del Petrarca in attacco di stanza, “Ad una ad una annoverar le stelle” (RVF 127, 85), che nell’originale è una forma di adúnaton: c’è differenza tra i due versi? Il Flora, mi pare, ci speculava sù; confesso che io, questa differenza, non la sento tanto, duro d’orecchio come sono. Ma non credo che fosse questo il petrarchismo che aveva in mente Contini. Il quale, reso il debito omaggio al petrarchismo cinquecentesco, se ne disinteressò sempre, sdegnandolo forse come poesia ripetitiva.

7 Segnalo la ristampa dell’edizione continiana di Tallone (1949, 1974), con una Nota finale di Carlo Ossola, nell’anno centenario 2004.

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C’è poi, si è detto, lo strambotto di Serafino Aquilano, a cui toccò in sorte un grandissimo successo in quell’ibrida stagione di fine Quattrocento che ci si accorda a riconoscere come sua. Lo strambotto, di otto versi, occupa, abbreviandolo, lo spazio del sonetto, di quattordici. Sono state invocate (già da Alessandro D’Ancona) categorie critiche singolari (ibridismo, prebarocchismo) per dar conto di questo fenomeno. Forse bastava dire che quelli di Serafino sono esperimenti antipetrarcheschi. Contro il Petrarca eterno della nostra tradizione, la cui voce ricadde sempre pesantemente sulle velleità di rinnovamento della poesia italiana. Anche la metrica barbara è stata inventata da un letterato non sospetto, Giosuè Carducci, soprattutto per sottrarsi all’ipoteca del sempiterno endecasillabo, al peso congenito del sonetto, “breve e amplissimo carme”, e della canzone, le cui strofe già l’impaziente Leopardi aveva svincolato dall’isometria (basterebbe questo fatto per infliggere qualche macchia al supposto petrarchismo ‘verginale’ di lui). Insomma, io leggerei la storia della poesia italiana come un desiderio di affrancamento dal Petrarca, come la volontà – nei rappresentanti più inquieti – di sottrarsi alla forza di gravità di quel modello così scoperto ed egregio. Di qui, tornando al principio, la volontà di vederci chiaro, in questa storia apparentemente risaputa del petrarchismo; di sottoporlo al vaglio della storia, come qualcuno di noi cominciò a fare anni fa. E come continuano a fare, ora, soprattutto i giovani, o insomma i rappresentanti di generazioni successive a quella di Quondam e mia. Nel frattempo, l’elettronica ha cambiato i dati del problema, e a questa stregua il petrarchismo non è più quello di una volta. Va confessato con urgenza: visto che nelle pagine precedenti sono stato elegiaco, ho il diritto di esser preso in parola quando mi voglio profetico. Ho misurato serenamente i meriti miei e le mie inadempienze rispetto ai nuovi strumenti, ma il futuro del petrarchismo è assicurato, e sarà radioso. Mi permetto di dire che andrà distinto con cura quello che è petrarchismo sic et simpliciter da etichette che meglio si direbbero Varia fortuna del Petrarca, o dizioni affini. E se di petrarchismo si tratta – petrarchismo senza aggettivi, lo ha definito spiritosamente Guido Baldassarri nel suo intervento di poco fa – sarà utile confrontarlo a sua volta con le vicende del genere lirico e del suo canone. Chi (a mio parere) se non il Petrarca è responsabile del prestigio della poesia lirica in tempi moderni, un genere letterario che i teorici – e segnatamente l’Aristotele della Poetica – non trattarono mai ex professo, e non stimarono mai pari al poema epico, o ai generi teatrali, in particolare alla tragedia? Questioni aperte, che mi trovano interessato al dibattito, e non rinunciatario o estraneo.

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INDICE DEI NOMI*

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a cura di Gilda Corabi

Acciaiuoli, Niccolò, 451n. Accolti, Bernardo, detto l’Unico Aretino, 321 Achillini, Claudio, 64, 65 Achillini, Giovanni Filoteo, 489n. Acuña, Hernando de, 223, 228 e n., 229, 230 Addamiano, Natale, 385n. Adel, Kurt, 282n. Afribo, Andrea, 584n. Agee, Richard, 137n., 172n. Agnello, Benedetto, 459 Agolanti, Cesare, 265 Agosti, Giovanni, 489n., 490n., 491n., 493 Agostino, 17, 19 e n., 22, 23, 24, 487, 572 e n., 576 Ajmar, Marta, 192n. Alamanni, Luigi, 63, 376, 382, 383n. Alberti, Antonio, degli, 272 Alberti, Filippo, 65 Alberti, Leon Battista, 17, 19, 444n., 458 e n. Albonico, Simone, 82n., 197n., 206n., 327n., 330n. Alciati, Andrea, 490 Aldana, Francisco de, 513, 517 Aldrete, Pedro, 518 Aldrovandi, Ulisse, 357-358 Aleardi, Amedea, 201, 261, 270 *

Alexander, Jonathan James Graham, 280n. Alfieri, Vittorio, 19 Alga, Silvia, 302n. Ali, Paolo, 338 Alighieri, Dante, 18, 23, 24, 57n., 59, 105, 110, 255, 261, 267, 273, 292 e n., 294n., 344, 349, 376, 377, 379, 478, 499n., 505, 506 e n., 507n., 509, 512n., 531 e n., 532, 585, 588 Allegretti, Antonio, 65 Alonso, Dámaso, 526 e n. Altamura, Antonio, 448n. Álvarez-Ossorio Alvariño, Antonio, 231n. Amalteo, Giovan Battista, 63 Amanio, Nicola, 63 Ames - Lewis, Francis, 295n. Amomo, 382, 383n. Anacreonte, 427n. Andreini, Isabella, 63, 203, 205, 208n. Andreini, Virginia, 392n. Aneau, Barthélemy, 387 e n. Anerio, Francesco, 394, 401, 403 Anguillara, Giovanni Andrea dell’, 63 Anguissola, Sofonisba, 339 Animosi, Cristiano, 313, 318, 327n., 342 Animuccia, Paolo, 188

È escluso, per la frequenza con cui ricorre, il nome di Francesco Petrarca.

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Indice dei nomi Anisio, Giovan Francesco, 490 Anselmi, Gian Mario, 14n., 16n., 23n., 48n., 208n. Antolini, Bianca Maria, 171n. Antonelli, Roberto, 586n. Antonini, Gianni, 582 Antonino, Biancastella, 360n. Antonio da Ferrara, vd. Beccari, Antonio Antonio di Guido, 272 Antonio V, duca di Baviera, 172 Aragona Colonna, Geronima d’, 182, 206, 207, 346 Aragona, Giovanna d’, 170, 171, 182, 206, 344, 345, 490 Aragona, Giulia d’, 206 Aragona, Maria d’, 227 Aragona, Tullia d’, 169, 181, 202 e n., 206, 208n. Arcadelt, Jacques, 136, 138, 139, 141, 144, 180, 184, 185, 186, 187 Arce de Vázquez, Margot, 497n. Arco, Niccolò, dell’, 490 Arellano, Ignacio, 513n., 517n., 522n. Aretino, Pietro, 61, 168, 180, 181, 222 e n., 344, 377, 406n., 415, 447n., 450 e n., 455 e n., 457n. Ariani, Marco, 353n., 415n. Arienti, Sabadino, degli, 257n., 267 Ariosto, Ludovico, 60, 93, 184, 210, 216, 222, 344, 376, 377, 378, 380, 384, 394, 408, 442, 493 Aristofane, 419 Aristotele, 120, 589 Arlotti, Ridolfo, 65 Armas, Frederick A., de, 242n. Armstrong, Lilian, 353n. Arnigio, Bartolomeo, 64 Arringhieri de’ Cerretani, Ermellina, 213 Artusio, Girolamo, 335 Asor Rosa, Alberto, 162n., 163n., 349n., 466n., 512n. Atanagi, Dionigi, 64, 165 e n., 170, 206, 315, 329n., 345

Atlas, Allan, 142n. Attendolo, Giovan Battista, 64 Aubert, Pierre, 534 Aubigné, Theodore Agrippa d’, 531-546 Auerbach, Erich, 512n. Augé, Daniel d’, 385, 386 Augurelli, Giovanni Aurelio, 290, 301, 302n. Aurnhammer, Achim, 42n., 99n. Avalle, D’Arco Silvio, 256 Avalos y Figueroa, Diego d’, 217 Avalos, Alfonso d’ (Marchese del Vasto), 219, 220, 221, 222, 223, 224 e n., 227, 228, 232, 233n., 235, 236, 237, 238 Avalos, Costanza d’, 213, 235 Avalos, Ferrante Francesco d’ 197n., 218, 220, 222 Avalos, Maria d’, 92 Baader, Hannah, 489n. Baffo, Francesca, 206, 207 Baïf, Jean-Antoine de, 383 Bailbé, Jacques, 532n. Baldacci, Luigi, 28n., 189n., 193 e n., 410 e n., 583 Baldassarri, Guido, 589 Baldi, Ludovico, 176 Balduino, Armando, 29n., 213n., 286n., 302n. Bale, John, 574 Ballistreri, Gianni, 259n. Balsamo, Jean, 42n., 292n., 303n., 375n., 377n., 381n., 383n., 538n., 539n., 586n. Balsamo, Luigi, 351n., 353n. Balzac, Jean-Louis Guez de, 389 e n. Banchieri, Adriano, 181 Bandello, Matteo, 64, 249n. Banderier, Gilles, 389n. Banti, Alberto M., 39n. Baránski, Zygmunt G., 190n. Barbadoro, Antonio, 273 Barbarigo, Agostino, 281 Barbarigo, Filippo, 260n., 266, 268n., 270, 272 Barbarino, Bartolomeo, 394 Barbati, Bartolomeo, 64

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Indice dei nomi Barbati, Petronio, 61 Barberi Squarotti, Giorgio, 25n. Barbi, Michele, 256 Bardi, Giovanni de’, 467, 468 Barignano, Pietro, 63, 344 Barnes, Barnabe, 412 Baron, Hans, 17 Barré, Antonio, 170, 171 e n. Barreto, Francisco, 155 Bartoli, Tomaso, 177n. Bartolo da Sassoferrato, 19 Bartolomeo, Beatrice, 205n., 266, 275n., 284n., 327n. Basile, Bruno, 201n., 257n., 442, 480n. Bataillon, Marcel, 227n. Battaglia Ricci, Lucia, 303n. Battaglia, Salvatore, 556 Battiferri, Laura, 64, 203, 205, 206, 208n., 211 e n. Beccanugi, Leonardo, 446 Beccari, Antonio, 270 Bednarz, James, 250n. Beilin, Elaine V., 562n., 576 Belenguer Cebriá, Ernesto, 231n. Belleau, Remy, 382 Belleforest, François, de, 249n Bellenger, Yvonne, 378n. Belli, Domenico, 394, 401, 403 Bellincioni, Bernardo, 489 Bellini, Bernardo, 190n. Bellini, Giovanni, 489 e n. Belloni, Gino, 294n., 295n., 300n., 301n., 303n., 304n. Bellucci, Laura, 260n. Bembo, Bernardo, 290 e n. Bembo, Pietro, 16, 20, 30 e n., 33, 44, 45, 52n., 58n., 60, 65, 66, 78n., 110n., 135, 136, 140 e n., 144, 161, 163, 168, 169, 174, 181, 182, 184, 185, 186, 193n., 209n., 219, 236, 237 e n., 238, 290, 291, 292n., 304, 305n., 306n., 309, 310, 326, 344, 375, 376, 377, 379, 380, 384 e n., 385, 408, 409, 410, 411, 412,

429, 430, 437, 442, 456, 457, 490, 498n.. 499n., 512, 513, 539, 584 Bendidio, Lucrezia, 435 Bendinelli, Silvia, 205 Benedetti, Francesco de’, 260, 261, 268, 269, 274 Benedetti, Piero, 394, 401-403 Benigni, Tomaso, 177n. Bensimon, Marc, 442 Bentivogli, Bruno, 201n., 257n., 258n., 264n., 270, 273, 285n., 310n. Bentivogli, Giovanni, 259, 264, 272 Bentivogli, Sante, 258, 259, 261, 270 Bentivoglio, Ercole, 65, 384 Benvenuto da Imola, 445 Berchem, Jachet, 184, 185, 186, 187 Bergalli Gozzi, Luisa, 191n. Berger, Karol, 396n. Berlin, Isaiah, 20n., 21 e n. Bernardes, Diogo, 513 Bernhardi, Gaspare, 492 Berni, Francesco, 181 Bernstein, Jane A., 130n. Berra, Claudia, 14n., 24n., 25n., 303n., 350n. Bertani, Lucia, 206, 213 Bertelli, Sergio, 406n. Bertocchi, Domenico, 351n., 352 e n. Bertolani, Maria Cecilia, 24n., 505n., 507n. Besomi, Ottavio, 275 Bettarini, Rosanna, 500n., 501n., 502n., 504n., 507n., 508n. Beugnot, Bernard, 389n. Bevilacqua, Margherita, 260n., 261, 270 Bevilacqua, Nicolò, 303, 310 Bèze, Théodore de, 383 e n., 570n., 577 Bhabha, Homi, 150 e n., 152 e n., 153n., 158 e n. Bianchi, Stefano, 442 Bianco, Monica, 82n., 164n., 165n., 195n., 206n., 207n., 327n. Bianconi, Lorenzo, 50n., 54n., 162n., 466n. Bichi, Pia, 213 Bidelli, Giulio, 63

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Indice dei nomi Bidi Piccardi, Adua, 42n. Bigi, Silvia, 207n., 312n. Billanovich, Giuseppe, 447n. Bingen, Nicole, 303n. Biondi, Albano, 21n. Birago, Giovanpietro, 281 e n. Bizzarrini, Marco, 105n. Blackburn, Bonnie J., 135n. Blanc, Pierre, 42n., 384n., 388n., 541n. Blanco, Mercedes, 517n. Blecua, José Manuel, 516 e n., 522n. Bloom, Harold, 512n. Blumenberg, Hans, 541n. Bocángel, Gabriel, 513 Boccaccio, Giovanni, 16, 33n., 49n., 59n., 93, 175, 202n., 249n., 294, 353n., 375, 378 e n., 379 e n., 380, 416, 446, 451, 454, 457n., 512n., 588 Boccardi, Giovanni, 143 Bock, Gisela, 191n. Boesky, Amy, 566n., 577 Boezio, Anicio Manlio Torquato Severino, 22 Boiardo, Matteo Maria, 60, 326, 377 Boitani, Piero, 506n. Bologna, Corrado, 384n. Bonagiunta, Giulio, 165, 171, 172n. Bonandrei, Antonio de’, 261 Bonardo, Giovanni Maria, 61, 65 Boncompagni, Giacomo, 346 Bonfadio, Pietro, 64 Bonifacio, Dragonetto, 63, 235 Bonora, Ettore, 508n. Booth, Stephen, 251n., 253n. Borbón, Isabel de, 520 Borboni, Nicolò, 394, 401, 403 Borges, Jorge Luis, 511 e n. Borgognano, Gherardo, 63 Borgogni, Gherardo, 348 Borra, Luigi, 330n. Borsetto, Luciana, 20n., 189n., 192n., 203n., 205n., 206n., 207n., 209n., 211n., 212n. Boscán, Juan, 46n., 231, 513, 527

Bots Hans, 45n. Botta, Ascanio, 490 Bottazzo, Gioan Iacopo, 344, 459n. Boyle, Elizabeth, 432 e n. Boyle, Richard, 432n. Bozzato, Erika, 342 Bozzetti, Cesare, 196n., 215n., 583 Braccali de’ Bracciolini, Selvaggia, 213 Braccali dei Ricciardi, Giulia, 213 Bracciolini, Poggio, 22 Bracharaio, Pietro, 185, 187 Braden, Gordon, 119n. Braga, Teófilo, 146n., 152n., 153n., 156 e n., 157 e n. Bragard, Anne-Marie, 135n. Bramanti, Vanni, 52n. Brandolini, Aurelio, 491 Brembata Grumella, Isotta, 347 Brenzoni Schioppo, Laura, 201 e n., 287 e n. Brevaglieri, Sabina, 191n. Brevio, Giovanni, 64 Brink, Jean R., 563n., 577 Brioschi, Franco, 191n. Britonio, Girolamo, 64, 235 e n. Brocardo, Antonio, 64, 180 Broccardo, Persico, 338 Bronzino, Agnolo di Cosimo, detto, 211 Brown, Horatio F., 300n., 301n. Brozas, Sánchez, de las, 497 Brucioli, Antonio, 571 e n., 576 Brugnolo, Furio, 294n. Bruni, Leonardo, 14, 17, 23, 271, 272 Bruni, Roberto L., 443n., 444n., 445n., 448n. Bruno, Gabriele, 358 Bruno, Giordano, 16 Brunozzi dei Villani, Cornelia, 213 Builloud, Marguerite, 302 Bujic, Boian, 474n., 481n. Bulifon, Antonio, 212n. Bullock, Alan, 196n., 197n., 218n. Buon, Gabriel, 248 Buonarroti, Michelangelo, 64, 183, 345, 493, 586, 587

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Indice dei nomi

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Burchiello, vd. Domenico di Giovanni Bürger, Gottfried August, 97n. Burrow, Colin, 251n., 253n. Busdraghi, Vincenzo, 212n. Butt, John, 396n. Butters, Humfrey, 136n. Butzmann, Hans, 276n., 279n. Buus, Jakob, 175, 185, 187 Cabello Porras, Gregorio, 519 e n. Caccia, Giovan Iacopo, 490 Caccia, Giovanni Agostino, 64 Caccini, Giulio, 391, 394, 395 e n., 398, 399, 402, 403, 465, 479, 481 Cacho Casal, Rodrigo, 518n. Caffoni, Girolamo, 261, 262, 270 Caglioti, Francesco, 489n. Calabro, Giovanna, 497n. Calcagno, Mauro, 398n. Caldarini, Ernesta, 442 Calderon de la Barca, Pedro, 25 Calderoni, Anselmo, 271 Caldwell, Mark, 410n. Calitti, Floriana, 21n., 28n. Calmeta, Vincenzo, 408, 409 Calmo, Andrea, 63 Calogrosso, Giannotto, 259, 260 e n., 261, 270 Calvin, Jean, 559 e n., 561, 562, 564, 567, 568 e n., 570, 576 Calvo, Francesco, 224n. Camillo, Giulio Delmino, 61 Cammelli, Antonio detto il Pistoia, 489 Camões, Luís Vaz de, 145-159, 513 Campagnolo, Stefano, 164n., 171n. Campanile, Iacopo, 448 e n. Campiglia, Maddalena, 205 Campos, Agostinho de, 158 e n. Canguilhem, Philippe, 138n. Cannata Salamone, Nadia, 195n. Cantelli, Ludovico, 265 e n., 269 Capelli, Roberta, 297n., 303n. Capilupi, Andrea, 63

Capodilista, Francesco, 266, 272, 286 Capovilla, Guido, 213n. Cappello, Bernardo, 332n. Cappello, Vittore, 281 Capretti, Elena, 143n. Cara, Marchetto, 139 Caradosso, vd. Foppa Cristoforo Carafa, Farizio, 92 Carafa, Ferrante, 64, 220, 224n., 547n., 548 Carboni, Fabio, 324 Cardamone, Donna G., 169n. Carducci, Giosue, 589 Carillo y Sotomayor, Luis, 513 Cariteo (Benet Gareth), 435, 459 Carlo V, d’Asburgo, 37, 41n., 46, 220, 221 e n., 222n., 223, 232, 233n. Caro, Annibale, 61, 172, 182, 183, 190n., 493 Carpané, Lorenzo, 342 Carrai, Stefano, 32n., 48n., 261n., 262n., 264n., 290n. Carrera, Manuel, 133n. Carter, Tim, 392n., 395n., 396n., 398n. Carteromaco, vd. Forteguerri Niccolò Casone, Geronimo, 348 Casoni, Girolamo, 64, 65 Casoni, Guido, 64 Cassola, Luigi, 58n., 61, 140, 184, 186, 382 Castellani, Geronima, 206, 213 Castellani, Nicolosa, 258n. Castelletti, Cristoforo, 64 Castellozzi, Massimo, 342 Castelvetro, Ludovico, 501n. Castiglione, Baldassar, 16, 20, 46n., 61, 73, 75, 76n., 129, 181, 223, 234 e n., 237 e n., 238, 408, 409, 412, 432 e n., 434, 457, 490, 539 Castiglione, Giannotto, 212 Castilho, António Feliciano de, 152, 153n. Castoldi, Massimo, 201n., 287n. Castriota, Costantino (Filonico Alicarnasseo), 222n. Castro, Alberto Osório de, 157 Castro, Aníbal Pinto de, 145n.

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Indice dei nomi Catelli, Nicola, 450n. Caterina da Siena, 193, 203 Cattani, Alessandro, 259 Cattin, Giulio, 50n., 51n. Cavalcabò, Carlo, 270 Céard, Jean, 118n., 247n. Ceccarelli Giuseppe, 135n. Cecchetti, Dario, 541n., 542n., 543 e n. Cecchi, Paolo, 54n., 55n. Cecchino, Tomaso, 394 Cellini, Benvenuto, 493 Celtes, Conrad, 282 Centorio, Ascanio, 64 Cepperello, Lisabetta, da, 213 Cerda, Luisa de, 520 Cereta, Laura, 201n. Cerrato, Paolo, 492 Cerrón Puga, Maria Luisa, 191n., 206n., 324 e n. Cervantes, Miguel de, 93, 155n., 225, 249n., 512n., 514 e n. Cervoni, Isabella, 205 Cesa, Pompeo della, 92 Cesari, Gaetano, 131 e n. Cetina, Gutierre de, 223, 226-231 Chambers, Edmund Kerchever, 250n. Chandler, Stanley Bernard, 257n. Chapelain, Jean, 389 Chapman, Catherine Weeks, 133n. Chapman, George, 569 e n., 576 Chappuys, Gabriel, 249n. Charteris, Richard, 171n. Chateaubriand, Francois Auguste Rene de, 155, 157 Chaucer, Geoffrey, 406, 407, 409 Chegai, Andrea, 53n., 162n. Chemello, Adriana, 192n., 202n. Cheney, Patrick, 242n., 250n. Cherchi Paolo, 16 e n., 21n., 88n., 200n. Chiabrera, Gabriello, 64, 65, 394, 466, 467n., 468 Chiavacci Leonardi, Anna Maria, 499n. Chines, Loredana, 22n.

Chiodi, Luigi, 312n. Chiodo, Domenico, 302n., 584n. Chiorboli, Ezio, 504n. Ciccuto, Marcello, 302n., 303n., 486n., 487n., 488n., 489n., 491n. Cicerone, Marco Tullio, 14, 17, 21, 22, 468 Cieco, Niccolò, 264n., 266, 268n., 269, 271 Cifra, Antonio, 394, 399, 402, 403 Cimello, Giovan Tommaso, 169n. Cino da Pistoia, 59 Ciociola, Claudio, 313 Clara, Ippolita Gambaruta, 197n., 207 Clark Fehn, Ann, 101n. Clarke, Danielle, 578 Clarke, Elizabeth, 578 Claudius, Matthias, 94 Clemente VII (Giulio de’ Medici), 136 Clemente VIII (Ippolito Aldobrandini), 547, 557 Coattini, Francesco, 347 Coccio, Francesco, 443 Coello, Pedro, 517, 519 Cola di Rienzo, 18, 19 Colin, Jacques, 541 Collarile, Luigi, 42n., 383n. Collin, Heinrich Joseph von, 98 Collinson, Patrick, 560n., 563n., 576 Colocci, Angelo, 490 Colombo, Fernando, 133 e n. Colonna, Francesco, 353n. Colonna, Livia, 170, 182, 344 Colonna, Vittoria, 61, 196n., 197 e n.. 202, 203, 205 e n., 206, 207, 208n, 209n., 212, 213, 217, 218, 428n., 222n., 223 e n., 233, 235 e n., 237 e n., 238 e n., 587 Colzani, Alberto, 164n. Comboni, Andrea, 258n., 262 Compiani, Luca, 434n. Compiuta Donzella, 193 Consiglio, Carlo, 519 e n. Constable, Henry, 250, 413 Conti Odorisio, Ginevra, 202n.

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Indice dei nomi Conti, Giusto de’, 30n., 34, 60, 78n., 264, 265, 267n., 271, 285 Conti, Vincenzo, 337, 340 Contile, Luca, 64 Contini, Gianfranco, 78n., 256n., 556, 582, 588 Contino, Giovanni, 188 Contò, Agostino, 262n. Cooper, Frederick, 150n. Coppetta, Francesco Beccuti, 61 Cornazzani, Fileno, 188 Corneille, Pierre, 25 Corneilson, Paul, 129n., 169n. Corradini, Ludovico, 491 Corsi Ramos, Girolama, 201, 207 Corso, Anton Giacomo, 64, 181 Corteccia, Francesco, 141, 185, 187 Cortellessa, Andrea, 27n. Cortesi, Paolo, 20 Corti, Maria, 78n. Cosmico, Niccolò Lelio, 266, 284, 301, 302n. Cossutta, Fabio, 32n. Costa e Silva, José Maria da, 153 e n., 154 Costa Pimpão, Alvaro J. da, 145n. Cracolici, Stefano, 350 e n. Crane, Mary Thomas, 566n., 577 Cremante, Renzo, 327n. Crescimbeni, Giovan Mario, 191n., 260n. Cristiani, Francesco, 63 Crivelli, Lucrezia, 490 Crivelli, Tatiana, 30n., 191n. Croce, Benedetto, 40, 581, 584n. Crosby, James O., 520n. Crotti, Lucrezia, 339 Cruz, Anne J., 497n. Cummings, Anthony M., 135n., 142n. Cunha, Xavier da, 154 e n., 155 e n., 156 Curtius, Ernst Robert, 512n. Curzio, Lancino, 489 Cvetko, Dragotin, 132n. D’Accone, Frank A., 132n., 136n., 139n. D’Ancona, Alessandro, 589 D’Ancona, Paolo, 280 e n.

D’Angelo, Paolo, 87n. D’India, Sigismondo, 393, 394 e n., 397, 399, 401, 402, 403 Dal Bene, Giovanni, 177n. Dalla Pieve, Goro, 331n. Dalla Vecchia, Patrizia, 51n. Daniel, Samuel, 250, 412, 428, 439, 442 Daniello, Bernardino, 304, 467 e n. Danzi, Massimo, 47n., 199n., 208n., 290n., 583n. Dasenbrock, Reed Way, 440n., 441n. Davies, Martin, 349n., 353n. Day, John, 560, 563n., 564 De Jennaro, Pietro Jacopo, 78n. De La Mare, Albinia, 280n. De Maio, Romeo, 191n. De Robertis, Domenico, 257n., 262, 267, 268n., 506n. De Sanctis, Francesco, 36, 508n. De Vere, Anne Cecil, 413, 414 De’ Angelis, Francesca Romana, 444n. Defaux, Gérard, 545 e n., 546 Dei, Benedetto, 360 Deimier, Pierre, de, 377 e n. Del Puppo, Dario, 297n. Del Vita, Alessandro, 222n. Delbene, Bartolomeo, 377 e n. Delcorno Branca, Daniela, 351 e n. Delcorno, Carlo, 17n. Della Casa, Giovanni, 20, 34, 38n., 56, 57, 61, 181, 198, 325, 326 Della Gerga, Lionora, 207 Della Vedova, Michele, 286 Deng-Su, I, 42n. Dent, Edward, 466 e n. Dering, Edward, 560n. Des Autels, Guillaume, 383 Desonay, Fernand, 248n. Desportes, Philippe, 386, 414n., 428n., 435, 442 Deutsch, Otto Erich, 97n., 98n., 99n., 103n. Di Benedetto, Filippo, 275n. Di Costanzo, Angelo, 63, 220

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Indice dei nomi Di Girolamo, Costanzo, 191n. Di Pinto, Mario, 496, 497n. Di Ricco, Alessandra, 258n. Diaz Larios, Luis F., 228n. Diez Fernandez, Jose Ignacio, 228n. Dilemmi, Giorgio, 233n. Diola, Orazio, 329n. Dionigi da Borgo San Sepolcro, 487 Dionigi l’Areopagita, 488 Dionisotti, Carlo, 22n., 33 e n., 48n., 163 e n., 164, 193n., 197n., 203 e n., 223n., 236n., 255, 260, 269, 312, 326, 354, 442, 499n., 583, 584 Dolce, Lodovico, 165, 170, 180, 220, 315, 377 Dolfi, Diamante, 213 Domenichelli, Mario, 408n., 415n. Domenichi, Ludovico, 165, 198n., 206, 212, 214 e n., 229, 334, 345, 490 Domenico di Giovanni, detto il Burchiello, 181, 587, 588 Donato, Baldassarre, 188 Donelli Lollio, Cesare, 329n., 339 Doni, Anton Francesco, 52n., 142 e n., 143, 376, 451n. Donne, John, 408, 412, 413, 416 Dordoni, Traiano, 329n., 337, 338, 339 Dorimbergo, Beatrice, di, 346 Dotta, Gentile, 213 Dotti, Ugo, 14n., 442 Drayton, Michael, 250, 413, 428, 439, 442 Drost, Wolfgang, 539n., 543 Du Bartas, Guillaume de Saluste, 378 e n., 379 e n., 535 Du Bellay, Joachim, 247n., 375-389, 428, 430, 435, 442, 512, 513, 536, 540 e n., 586 Du Monin, Jean Edouard, 389 e n. Du Pont, Jacques, 185, 187 Ducchi, Gregorio, 347 Dudley, Robert, 561 Duncan-Jones, Katherine, 251n., 253n., 417n., 442

Duperay, Eve, 42n. Dupeyron, Christian, 308n. Duret, Claude, 377 e n., 378 Durling, Robert, 113 Dürr, Walther, 95n., 104n., 105n., 109n. Duso, Elena Maria, 266n. Egeria da Canossa, 213 Einstein, Alfred, 50n., 131 e n., 140, 162n., 165n., 179 Elam, Keir, 48n., 208n. Elisabetta I, regina di Inghilterra, 38, 41n., 573, 574 e n., 576 Engel, Hans, 105n. Epicuro, Marc’Antonio, 63, 233n., 235 Epitteto, 409, 412 Erasmo da Rotterdam, 17, 19, 20, 83n., 86, 360, 412 Erne, Lukas, 250n. Ernout, Alfred, 246n. Erspamer, Francesco, 191n., 498n. Eschenburg, Barbara, 486n. Espinosa, Pedro, 513 Este, Alfonso II d’, 92 Este, Borso d’, 270, 354, 357n. Este, Eleonora d’, 92, 347 Este, Ercole d’, 257 Este, Isabella d’, 192n., 201 Este, Lionello d’, 269n. Este, Niccolò d’, 264 Estienne, Charles, 249n. Euripide, 120, 467 Evans, Maurice, 442 Fabbri, Paolo, 50n., 51n., 52n., 53n., 58n., 95n., 105, 162n. Faggin, Giuseppe, 410n. Fahy, Conor, 192n., 194n. Fairfax, Edward, 408 Falletti, Leonora, 213, 214 Falomir Faus, Miguel, 221n. Fanlo, Jean-Raymond, 539n. Fantoni, Marcello, 28n.

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Indice dei nomi Faria e Sousa, Manuel de, 148 e n., 149 e n., 150, 154, 156 Farinelli, Arturo, 531n. Farnese, Alessandro, duca di Parma, 347, 348 Farri, Domenico, 547 Fasano, Pino, 39n. Fassò, Luigi, 469 e n., 482n. Fauchet, Claude, 384 Fava, Lucia, 172n. Febbo, Monica, 27n., 42n. Febvre, Lucien, 355n., 356n. Fedele, Cassandra, 201n. Fedi, Roberto, 56n., 163n., 198n., 205n., 273 Feil, Arnold, 95n. Felch, Susan M., 414n., 560 e n., 561n., 563n., 565n., 576, 577 Feldman, Martha, 51n., 136n. Feliciano, Felice, 261n., 262 e n., 263, 266, 273 Fellinger, Johann Georg, 98 Fenaruolo, Girolamo, 64 Fenlon, Iain, 50n., 51n., 52n., 76n., 105n., 129n., 130n., 132n., 134n., 135n., 136n., 137n., 138n., 142n. Fenzi, Enrico, 18, 19n., 23n. Feo, Michele, 13n., 19n., 275, 353n. Ferabosco, Domenico, 184, 185, 186, 187 Fernández de Córdoba, Gonzalo, 219n., 226, 228, 231 e n. Fernández Mosquera, Santiago, 519 e n., 520n. Ferrari, Luigi, 331n. Ferrer, Véronique, 539n. Ferrero, Ermanno, 222n. Ferroni, Giulio, 48n., 588 Festa, Costanzo, 134, 139, 167, 180, 184, 186, 187 Festa, Sebastiano, 134 Fiamma, Gabriele, 61, 444 Ficino, Marsilio, 431, 438 Figliucci, Lucrezia, 213 Filelfo, Francesco, 376, 490 Fileti Mazza, Miriam, 489n. Filippo da Massa, 263, 264, 272

Filippo II, re di Spagna, 348 Filonico Alicarnasseo, vd. Catriota Costantino Finucci, Valeria, 27n. Fiorentino, Giovanni, 249n. Firenzuola, Agnolo, 64 Flach, Adolf, 276 Flaminio, Marco Antonio, 490 Flavio Biondo (Biondo di Antonio Biondi), 22 Fletcher, John, 413 Flora, Francesco, 222n., 588 Florio, John, 406n., 408 Folena, Gianfranco, 301 Fontanier, Jean-Michel, 487n. Fontanini, Giusto, 586 Foppa, Cristoforo, detto il Caradosso, 489 Formisano, Luciano, 191n. Forni, Giorgio, 22n., 47n., 48n., 191n., 208n., 209n., 211n. Forster, Leonard, 89n. Forteguerri, Laudomia, 192n., 213 Forteguerri, Niccolò, detto il Carteromaco, 490 Fortune, Nigel, 391n. Foscari, Francesco, 270 Foscolo, Ugo, 36, 551 Foster, Kenelm, 468 e n., 505n., 506 e n. Foucauld, Jean-François, 357n. Foucauld, Michel, 409 e n., 411 e n. Fowler, Alastair, 428n. Franceschini, Ezio, 325n. Francesco I, re di Francia, 37, 220, 381, 385, 453 Franchini, Francesco, 490 Franco, Nicolò, 30n., 77, 344, 443-463 Franco, Veronica, 203, 205, 207, 208n. Franzoni, Claudio, 489n. Frasca, Gabriele, 501n., 502n. Frati, Lodovico, 257n., 258n., 259n., 261 Freccero, John, 116 e n. Frey, Hermann-Walther, 135n., 144n. Frye, Northrop, 123 e n. Fucilla, Joseph G., 519 e n. Fumaroli, Marc, 25

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Indice dei nomi Gabriele, Mino, 353n., 415n. Gabrieli, Andrea, 188 Gagliano, Marco, da, 394, 397, 401 Galeazzo di Tarsia, 64 Galeota, Fabio, 64 Galilei, Vincenzo, 107n. Gallego Morell, Antonio, 498n. Galli, Angelo, 493 Gallo, Cornelio, 260 Gambara, Veronica, 61, 168, 196 e n., 205, 206, 207, 208n., 213, 344, 428n. Gambaro, Iacopo, dal, 489 Gaos, Vicente, 514n. García Sánchez, María Dolores, 45n. Garcilaso de la Vega, 218 e n., 219, 223 e n., 225, 226n., 231, 495-504, 508, 509, 510, 513 Gardano, Antonio, 130 e n., 165, 167n., 168, 169, 170, 173 e n., 174 Gardini, Nicola, 468n., 469 e n. Gargano, Antonio, 42n., 45n., 47n., 221n., 497n., 509n. Garin, Eugenio, 19n., 21n. Garzoni, Tommaso, 16 Gatteschi degli Alluminati, Candida, 213 Gatti, Alessandro, 65 Gatto, Simon, 188 Gaurico, Pomponio, 490 Gavazzeni, Franco, 582 Gazeau, Iaques, 308 Gelli, Giovan Battista, 64, 243 e n., 244, 251, 252, 377 Gellio, Aulo, 83n. Gendre, André, 583 Gentili, Sandro, 27n. Gerber, Alan, 406n. Gerbino, Giuseppe, 129n., 136n. Gero, Ihan, 167, 180 Gesualdo da Venosa, 92 Gesualdo, Giovanni Andrea, 300, 304 e n., 310, 445, 446 Gherardo, Quinto, 455 Giaffreda, Christian, 514n.

Gialdroni, Teresa M., 171n. Giambullari, Pier Francesco, 377 Gianfigliazzi, Geri, 245 Giannetto, Nella, 290n. Giasone di Nores, 385 Gibbs, Donna, 431n. Gibellini, Piero, 196n., 215n. Giberti, Gian Matteo, 235n. Gigli, Giulio, 67n. Gigliucci, Roberto, 27n., 47n., 49n., 88n., 208n., 431n., 578 Gilby, Anthony, 570 e n., 576 Giolito, Gabriele, 165, 173, 174 Giorgetti Vichi, Anna Maria, 352n. Giovan Battista da Cremona, 188 Giovanni da Modena, 268 Giovanni Damasceno, 489 Giovenale, Decimo Giunio, 514 Giovio, Paolo, 219n., 235 e n., 236 e n., 237 e n., 238 Giraldi Cinzio, Giovan Battista, 63, 249n. Girardi, Raffaele, 324 e n. Giustinian, Giovanni, 457 e n. Giustinian, Leonardo, 266, 269, 270, 272n., 273, 282 Giustiniani, Orsatto, 63 Goethe, Johann Wolfgang, 14, 20, 94, 99, 101n., 104, 529 Golfarini, Anna, 207, 212 Gómez Canseco, Luis, 509n. Góngora, Luis de, 513, 514, 517, 524 Gonzaga Colonna, Vespasiano, 338 Gonzaga, Curzio, 63 Gonzaga, Ercole, 345 Gonzaga, Ferrante, 227, 232 Gonzaga, Giulia, 233 Gonzaga, Gugliemo, 329n., 337 Gonzaga, Ippolita, 345 Gonzaga, Isabella, 207 Gonzaga, Lucrezia, 345 Gonzaga, Scipione, 347 González de Salas, José Antonio, 517, 518 e n., 519, 520, 528

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Indice dei nomi González Miguel, J. Graciliano, 218n., 228 e n., 230n., 231 e n. Gordon, Alexander, 386n. Gorni, Guglielmo, 22n., 47n., 208n., 213n., 215n., 267n., 501n., 506n., 512n., 540n., 583n., 584 Gosellini, Giuliano, 61, 347 Gosnet, Pierre, 376 e n. Gosswin, Antonio, 188 Gottifredi, Bartolomeo, 64, 65, 66 Goyet, Francis, 377n. Gozzano, Guido, 551 Grabes, Herbert, 442 Gradenigo, Pietro, 61 Graf, Arturo, 35n. Gravina, Gianvincenzo, 34 Grayson, Cecil, 458n. Graziosi, Elisabetta, 204 e n. Grazzini Antonfrancesco, detto il Lasca, 588 Greco, Antonio, 188 Green, Otis H., 504n., 509n. Green, Thomas M., 89n., 124n. Greenblatt, Stephen, 89n., 407n., 432n. Greene, Robert, 250 Greene, Roland, 566n., 577 Greenlaw, Edwin, 435n. Gregorio Magno, 114, 115 Grell, Ole Peter, 250n. Grendler, Paul F., 451n. Greville, Fulke, 410 Gries, Johann Diederich, 99n. Griffin, Robert, 376n., 413 Grifi del Briosco, Ambrogio, 489 Grillo, Angelo (Livio Celiano), 57n., 64, 65, 67, 68 Grimani, Guido, 329n. Grisonio, Daniele, 188 Gröber, Gustav, 152n. Gronda, Giovanna, 50n. Groto, Luigi, 61, 65, 346, 513 Gualdi, Pietro, 265 Guami, Francesco, 188 Guami, Gioseffo, 188

Guardo, Marco, 357n. Guarguante, Orazio, 61 Guarini, Battista, 57n., 64, 65, 66, 67, 68, 92, 105 e n., 176, 392, 394, 466, 513 Guarna, Andrea, 493 Guazzo, Stefano, 20, 63, 83 e n., 408 Guerrini, Gemma, 293n. Guevara, Antonio de, 16, 408 Guglielminetti, Marziano, 29n. Guicciardini, Francesco, 17, 562n. Guicciardini, Ludovico, 83n. Guidi, Benedetto, 329n. Guidiccioni, Giovanni, 63, 214 Gullino, Giuseppe, 290n. Günter, Georges, 497, 509n. Guntherus Cistercensis, detto Ligurinus, 282 Gwynn, Robin, 249n. Haar, James, 50n., 52n., 53n., 76n., 129n., 132n., 134n., 135n., 136n., 137n., 138n., 142n., 164n., 169n., 171n. Hainsworth, Peter, 468n. Hallmark, Rufus, 101n. Hamann, Johann Georg, 20 Hamilton, Albert Charles, 431n. Hammond, Hanry, 566 e n., 577 Hannay, Margaret P., 563n., 577 Hanning, Robert W., 129n. Harington, John, 408 Harisse, Henry, 133n. Harrán, Don, 169n., 173n. Hatton, Christopher, 562n. Häuser, Helmut, 282n. Hauvette, Henri, 383n. Haye, Maclou, de la, 248n. Haywood, Eric, 355 e n. Hazanas y la Rua, D. Joaquin, 227n. Heffernan, James, 488n. Heiatt, Charles W., 250n. Heiatt, Kent, 250n. Hempfer, Klaus W., 27n., 29n., 79n. Herberay, Nicolas, de, 408 Herder, Johann Gottfried, 20

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Indice dei nomi Heredia, Jerónimo de, 225 Herrera, Fernando de, 226n., 498 e n., 513 Hieronimus Angerianus, 490 Highet, Gilbert, 512n. Hill, John Walter, 395n. Hitchcock, H. Wiley, 395n. Hoby, Thomas, 408 Holland, Philemon, 408 Höltenschmidt, Edith, 93n., 94n. Holty, Ludwig Christoph Heinrich, 94 Horodyski, Bogdan, 281n. Hosek, Chavica, 123n. Howard Henry, conte di Surrey, 405, 407, 409 e n., 412, 421, 435, 568, 569, 573, 574n., 577 Hufton, Olwen, 191n. Hume, Anna, 406 e n. Huntington, Archer M., 133n. Hurtado de Mendoza, Diego, 223, 228 e n., 229, 230

Kennedy, William J., 89n., 242n., 243n., 247n., 409n. Kethe, William, 563 King, Margaret L., 191n., 201n. Kirk, Ernest F., 249n. Kirk, Richard E. G., 249n. Kirkendale, Warren, 394n. Kirkham, Victoria, 211n., 242n. Klein, Robert, 506n. Klostermann, Vittorio, 276n. Knowles, John, 138n. Knox, Dilwyn, 192n. Knox, John, 561, 563 Koos, Marianne, 488n. Korch, Katrin, 93n., 94n., 95n., 97n. Kosegarten, Ludwig Gotthard Theobul, 94 Kramer, Richard, 95n., 104n. Kristeller, Paul Oscar, 275 e n. Krüger, Klaus, 488n. Kupelwieser, Leopold, 98

Ihan, Maistre, 167, 180 Ilicino, Bernardo, 349, 354, 355, 359n. Innocenti, Piero, 406n. Ippoliti, Francesco, 63 Isaac, Heinrich, 139

La Croix du Maine, Francois Grude de, 376 Lambardi, Francesco, 394, 401, 404 Lamma, Ernesto, 266n. Lampredi, Mariapia, 42n. Lando, Ortensio, 16, 209n., 451n., 490 Landulfo, Augostino, 232, 233n. Lanza, Antonio, 259n. Lapaccini, Filippo, 264, 272 Lapesa, Rafael, 218n., 496n., 499n., 504n., 509n. Lappaccini, Filippo, 259 Larivaille, Paul, 192n. Larsen, Kenneth J., 428n. Lasso, Orlando, de, 55n., 167n., 182, 183, 188 Laudun d’Aigaliers, Pierre, 379 e n., 385 La Valva, Maria Provvidenza, 275 La Via, Stefano, 53n., 54n., 62n. Layolle, Francesco, de, 138, 140 Le Maçon, Antoine, 249n. Lecercle, Francois, 485 Lefèvre, Matteo, 45n. Legati, Domenico, 345

Javitch, Daniel, 60n. Jeanneret, Michel, 583, 586n. Jenson, Nicolas, 281 Johnson, William Clarence, 431n. Jones, Emrys, 421n., 574n. Jonson, Ben, 250 e n., 251 Jossa, Stefano, 39n. Jourde, Michel, 385n. Juromenha, visconte di, vd. Lemos Pereira de Lacerba António Kalchberg, Johann Nepomuk von, 98n. Kant, Immanuel, 86 Kapsberger, Giovanni Girolamo, 394, 403 Keniston, Hayward, 497n.

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Indice dei nomi Lemaire de Belges, Jean, 376 e n., 388, 389 Lemos Pereira de Lacerba, António de, visconte di Juromenha, 145, 146n., 148, 150n., 154, 155, 156 e n., 157 Lenneberg, Hans, 164n. Lenzi, Lorenzo, 451n. Leon, Luis de, 517 Leonardi, Claudio, 204n, 274n., 325n. Leonardi, Lino, 325 Leonardo da Vinci, 485, 489 Leonardo de Argensola, Lupercio, 513 Leone X (Giulio de’ Medici), 135, 136, 140, 142 Leone, Ambrogio, 489, 490 Leoni, Giovanni Battista, 63 Leopardi, Giacomo, 24, 25, 36, 529, 551, 556, 585, 588, 589 Leopold, Silke, 391n. Lerro, Antonio di, 258, 261, 269, 274 Lescot, Pierre, 388 Lessing, Gotthold Ephraim, 20 Lestringant, Frank, 535n. Lesure, François, 162n. Levao, Ronald, 442 Lewis, Mary S., 130n., 138n. Liberale da Verona, 280 Libri, Sigismondo de’, 350, 351n. Liburnio, Niccolò, 490 Licino, Giovan Battista, 347 Ligurinus, vd. Guntherus Cistercensis Lincoln, Harry B., 176n. Linschoten, Jan Huygen van, 157 Lionardi, Alessandro, 386 Lipsio, Giusto, 514 Lito da Carrara, 261, 265, 270 Litschauer, Walburga, 98n. Livio, Tito, 16, 17, 22 Lobies, Jean Pierre, 331n. Lobkowitz, Juan Caramuel, 360 Lock, Anne Vaughan, 414 e n., 560-577 Lock, Henry, 560 Lodge, Thomas, 250 Lodigiana, Andronica, 205

Lohner, Edgar, 93n. Lok, Henry, 560, 561 n., 577 Lomas Cantoral, Jerónimo de, 225 Longeon, Claude, 379n. Longhi, Silvia, 48n., 208n., 582, 583n. Longiano, Sebastiano Fausto, da, 116, 117 e n., 123, 445, 571 Longoschi Soleri, Maria, 213 López Bueno, Begoña, 226 e n., 230n., 231n. López Suárez, Mercedes, 230n. Loredan, Laura, 286 Lucrezia di Raimondo, 213 Lucrezio Caro, Tito, 543 e n. Ludovico da Canossa, 236n. Luna, Fabricio, 233n. Luppi, Andrea, 164n. Lupton, Lewis, 562n. Luzzi, Cecilia, 53n., 54n., 62n., 162n. Lynche, Richard, 413 Mace, Dean, 52n., 135n. Machiavelli, Niccolò, 15-19, 21, 61, 140, 143, 406n. Macinghi Strozzi, Alessandra, 201 Maddaleni Capodiferro, Evangelista, 490 Maddalo, Silvia, 280n. Maggi, Armando, 242n. Magli, Ida, 202n. Magno, Celio, 63, 583 Maira, Daniele, 42n., 383n. Malatesti, Battista, 201, 265, 271 Malatesti, Malatesta, 265, 269, 271 Malatesti, Sigismondo Pandolfo, 259n., 260, 263, 264, 266 e n., 268n., 271 Malato, Enrico, 21n., 191n. Malipieri, Olimpia, 213 Malipiero, Girolamo, 204n., 572 Mallet Michael, 265n. Malpigli, Annibale, 349 e n., 350, 351n., 355, 360 Malpigli, Nicolò, 261, 262, 263, 264, 266, 270, 271, 272 Malvezzi, Camilla, 258n.

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Indice dei nomi Malvito, Tommaso, 489 Malynes, Gerard, de, 252n. Mancini, Massimiliano, 175n. Mandyczewski, Eusebius, 103n. Manero Sorolla, Maria Pilar, 498n., 512n. Manfredi, Muzio, 61, 63, 346 Manini, Luca, 430n. Mantegna, Giovanni Alfonso, 330n., 489 e n., 493 Mantovani, Alessandra, 23n., 46n. Manuzio, Aldo, 20 Manuzio, Paolo, 165 Manzoni, Alessandro, 19, 39 Maramauro, Guglielmo, 269 Marchese, Baldassarre, 235 Marco Aurelio, 409 Marcozzi, Luca, 506n. Mare, Albinia, de la, 295n. Marenzio, Luca, 56, 57 e n., 93, 95n., 105-110 Marescotti, Galeazzo, 258 e n., 261, 270 Margherita di Navarra, 206, 212, 213, 574 e n., 577 Mariani Canova, Giordana, 279n., 282n., 353n. Marinelli, Lucrezia, 202 e n. Marino, Giovanni Battista, 28, 31, 34, 38, 47, 48, 51, 64, 65, 66, 67, 68, 72, 74, 377, 388, 392, 466, 513, 524 Mariz, Pedro, 152 Marlowe, Christopher, 250 e n. Marnoto, Rita, 27n., 45n. Marot, Clément, 247n., 382, 385, 435, 541, 545, 546, 568n., 577 Marsilio da Padova, 19 Martelli de’ Panciatichi, Maria, 213 Martelli, Lodovico, 61, 140, 184, 186 Martelli, Mario, 201n. Martelli, Ugolino, 451n. Martellotti, Guido, 19n. Marti, Mario, 326 Martin de la Plaza, Luis, 513n. Martin, Christine, 99n. Martin, Henri-Jean, 355 e n., 356 e n. Martin, James L., 442

Martinengo, Gabriele, 188 Martinengo, Marco Antonio, 176 Martinengo, Ottaviano, 338 Martini, Simone, 243, 244, 453n., 487, 488 Martirano, Bernardino, 64, 221 e n., 233 Marulic, Marko, 20 e n. Masaccio, Tommaso di ser Giovanni di Mone Cassai, detto, 493 Masi, Giuseppe, 191n., 202n., 211n. Mason, Harold Andrew, 407n., 414 e n., 415n. Masson, Papire, 380 e n. Masuccio Salernitano, 249n. Matraini, Chiara, 64, 198 e n., 202, 205, 206, 207, 208n., 210n., 428 Matthews Grieco, Sara F., 191n. Mattujani, Bartolomea, 270 Maunsell, Andrew, 560n., 577 Mauro, Alfredo, 218n., 551n. Mayer Brown, Howard, 141n., 171n. Mayer, Claude Albert, 568n., 577 Mayrhofer, Johann, 95, 98, 99 Mazzacurati, Giancarlo, 29n., 33 e n. Mazzuchelli, Gian Maria, 331n. McFarlane, Ian Dalrymple, 376n. Medici da Toledo, Leonora de’, 345 Medici degli Strozzi, Clarice de’, 212 Medici, Alessandro de’, 142, 232 Medici, Antonio de’, 394 Medici, Caterina de’, 248 Medici, Cosimo II de’, 394 Medici, Ferdinando de’, 469 Medici, Lorenzino de’, 144 Medici, Lorenzo de’ (il Magnifico), 60 Medrano, Francisco de, 513 Meier, Bernhard, 107n. Meillet, Antoine, 246n. Meinhard, Johann Nicolaus, 20 Meldert, Leonard, 188 Mele, Eugenio, 217n., 499n. Melli, Domenico Maria, 394 Melzi, Robert C., 249n. Ménager, Daniel, 118n., 247n. Menato, Marco, 212n.

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Indice dei nomi Merli, Simone, 313 Merry, Valerie, 350 e n. Merulo, Claudio, 188 Mexias, Pedro, 16 Mezzabarba, Antonio, 64, 446, 448n. Michelangelo, vd. Buonarroti Michelangelo Miggiani, Maria Giovanna, 140n., 207n., 312n., 466 Migne, Jacques Paul, 114n. Milburn, Erika, 224n. Milde, Wolfang, 279n., 282n. Millet, Olivier, 538n., 540n. Minturno, Antonio, 63, 235, 327, 584 Mira, Leandro, 188 Mirtilla, Ippolita, 206, 213 Mischiati, Oscar, 52n. Miskimin, Harry A., 241n. Mochi, Francesco, 493 Moderata Fonte (Modesta Pozzo de’ Zorzi), 202 e n. Modesti, Francesco, 490 Molino, Girolamo, 61 Molza, Francesco Maria, 61, 583, 584 Molza, Tarquinia, 208n. Monaldeschi, Bartolomeo, 267, 268n. Monaldo da Orvieto, 269 Monda, Davide, 48n., 208n. Mondella, Girolamo, 490 Monetarius, Friedrich, 19 Monferran, Jean-Charles, 379n., 385n. Montagnani, Cristina, 27n. Montaigne, Michel Eyquem de, 17, 406n., 408, 512n. Montale, Eugenio, 529 Montanaro, Pomponio, 64 Monte, Filippo, di, 54n. Montefeltro, Agnesina, di, 237 Montemayor, Jorge, de, 249n. Montevecchi, Alessandro, 16n. Monteverde, Franco, 572n., 576 Monteverdi, Claudio, 51, 65, 66, 392 e n., 398, 465 Monti, Scipione, de. 347

Monticchiello, Domenico, da, 265, 269 Montjoy, M. Cristophe, 250 e n. Moore, Roger, 519 e n., 520n. Morandi, Benedetto, 264, 272 Morelli, Gabriele, 228n. Morelli, Marcello, 325n. Morley, Henry Parker, Lord, 406 e n. Moro, Maurizio, 65 Morra, Isabella, di, 206, 208n., 213 Morros, Bienvenido, 218n., 496n., 499n. Müller, Giuseppe, 222n. Munday, Anthony, 406n., 408 Murata, Margaret, 396 Muratori, Lodovico Antonio, 34, 585 Murtola, Gaspare, 64 Muscettola, Giovanni Antonio, 235 Musgrave, Peter, 241n. Muzio, Girolamo, 63, 219n., 224 e n., 409, 584 Muzzarelli, Giovanni, 63, 233n. Nabokov, Vladimir, 443 Naich, Hubert, 184, 185, 186, 187 Nannini, Remigio, 61 Nappi, Cesare, 263 Nappo, Tommaso, 331n. Narda N. Fiorentina, 213 Nardi, Jacopo, 142 e n. Nashe, Thomas, 250 Navagero, Andrea, 64, 332n. Navarrete, Ignacio, 519 e n., 520n. Negri, Anna Maria, 224n. Negroni, Carlo, 243n. Nelli, Francesco, 18 Neruda, Pablo, 629 Niccoli, Ottavia, 191n., 204n., 209n. Niccolini, Matteo, 310 Nicoli, Giovanni, 30n., 191n. Nicolini, Fausto, 231n. Niemegen, Reynald von, 354n. Nobili, Flaminio, 520 Nogarola, Isotta, 201n., 202n. North, Thomas, 408

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Indice dei nomi

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Nostredame, Jean de, 384 Notariis, Beatrice de, 489 Noto, Paolo, 331n. Novalis, Georg Friedrich Philipp Freiherr von Hardenberg, detto, 20, 93, 98 Nuovo Isabella, 547n. Nuvolone, Gianantonio, 313, 327n. Nuvolone, Giulio, 331n. Nuzzo, Armando, 408n., 414n. O’Sullivan, Orlaith, 565n., 576 Oastler, Christopher Lewis, 560n., 577 Olivares, Julian, 519 e n. Olson, Paul R., 507n., 508n. Ombrone da Fossombrone, 490 Omero, 380, 388, 396 Ongaro, Antonio, 57n., 64 Ongaro, Giulio M., 164n., 172n. Opitz, Martin, 19 Orazio Flacco, Quinto, 22, 248 Orlandi, Alberto, 259 e n., 263, 266 e n., 271, 272n. Orozco Díaz, Emilio, 497n. Ossola, Carlo, 47n., 582, 588 Ovidio Nasone, Publio, 22, 23, 24, 437n., 447, 466, 468, 469, 470, 471 Owens, Jessie Ann, 172n. Pacca, Vinicio, 21n., 25n., 244n., 246n. Paccagnini, Giovanni, 486 Pace, Pompeo, 63 Pacina, Girolamo da, 491 Pacini, Lidia, 20n. Padoan, Maurizio, 164n. Padovani, Serena, 143n. Pagani, Antonio, 64 Paleologa, Margherita, duchessa di Mantova, 345 Palestrina, Giovanni Pierluigi da, 104, 161, 162, 188 Palladio, Blosio, 490 Pallavicini, Maddalena, 213 Pallotti, Donatella, 408n., 414 e n.

Pandolfi, Girolamo Casio, 489, 493 Panigarola, Francesco, 64 Panizza, Letizia, 191n., 192n. Pantani, Italo, 29n., 48n., 165n., 179, 194n., 312n., 342 Paoli, Marco, 212n. Paolino, Laura, 21n., 25n., 244n., 246n., 305n. Papetti, Viola, 407n. Papparcone, Anna, 241n. Parabosco, Girolamo, 61, 230n. Parenti, Giovanni, 448n., 582 Parini, Giuseppe, 19, 587 Parisi, Susan, 138n., 164n. Parke, Patricia, 123n. Parker, Matthew, 570 e n., 577 Parkin, Stephen, 355n. Parma, Alberto, 63, 65 Parma, Orazio, 64 Parr, Catharine, 563n., 574, 575, 577 Parrini, Umberto, 489n. Pascal, Blaise, 17 Pascale, Lodovico, 64 Pascoli, Giovanni, 585 Pasolini, Pier Paolo, 24n. Pasquali, Pellegrino de, 351n., 352 Pasquini, Emilio, 24n., 267n., 361, 505n. Passero, Marco Antonio, 64 Paterno, Lodovico, 64 Patetta, Luciano, 491n., 493n. Paulacino, Battista, 273 Pavesi, Cesare, 64, 435 Pecci, Onorata, 213 Pedraza Jimenez, Felipe B., 524n. Pedro da Toledo, 220, 232 Peletier du Mans, Jacques, 377 e n., 379 e n., 385, 387 e n., 388, 389 Pellegrini, Caterina, 206 Pellegrini, Cornelia, 213 Pellegrino, Camillo, 64 Pellegrino, Francesco, 490n., 491n., 492n. Penco, Mariagrazia, 235n. Penissone, Francesco Bonardo, 188 Peonia, Alessandro, 342

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Indice dei nomi Pepe Sarno, Inoria, 498n. Peperara, Laura, 435 Pepoli, Isabella, 207, 213 Peppi, Guido, 258, 260, 261, 264, 269, 272, 274 Pèrcopo, Erasmo, 217n., 219, 223n., 225, 226, 227 e n., 230n., 231 e n., 232n., 482n. Percy, Thomas, 413 Peregrino, Angelo, 347 Peretola, Zoroatro, da, 490 Peri, Jacopo, 393, 394, 395 e n., 398, 399, 401, 402, 404, 465, 479, 481, 482 Perna, Margherita, 205 Peron, Gianfelice, 294n. Perréal, Jean, 302 Perron, Anquetil, du, 157 Pestarino, Rossano, 225n Petrarca, Gherardo, 463 Petrini, Mario, 505n. Petronio, 514 Petronio, Ludovico, 263, 272 Petrucci, Armando, 281 e n., 355n. Petrucci, Aurelia, 212 Petrucci, Cassandra, 212 Petrucci, Ottaviano, 132, 134 Pettie, George, 408 Pfisterer, Ulrich, 489n., 490n. Philieul, Vasquin, 304, 308, 309, 385, 405, 586 Piacentini, Marco, 266, 286 Piasi, Pietro di, 352, 353, 358 Piatti, Piattino, 489 Piccolomini, Alessandro, 194n. Piccolomini, Ascanio, 64 Piccolomini, Bartolomeo Carlo, 63 Piccolomini, Enea Silvio, 492 Piccolomini, Silvia Marchesa de’, 213 Picenardi, Giovan Battista, 338 Pico della Mirandola, Giovanni, 438 e n. Pico, Plinio di, 353 e n. Picone, Michelangelo, 191n. Piemontese, Fiorenza G., 213 Pigna, Giovan Battista, 64 Pignoli, Bonifazio, 444

Pincelli, Ugo, 312n. Pindaro, 514 Pino, Bernardino, 64 Pinto, Raffaele, 507n. Piovan, Francesco, 275n. Piperno, Franco, 54n., 105n., 162n., 165n., 171n. Pirchkeimer, Willibald, 19 Pirogallo, Filippo, 197 e n. Pirro, Andre, 135n. Pirrotta, Nino, 391 e n., 395, 399 Pisano, Bernardo, 131, 132, 133, 134, 136, 138, 140 e n., 142 Piscini, Angela, 214n. Pizzagalli, Daniela, 196n. Platone, 25, 120, 396, 398n., 499 e n. Plotino, 410 e n. Plutarco, 408 Pocock, John Greville Agard, 17 e n. Poeta, Livia, 213, 214 Policleto, 487 Policlito, 243 Poliziano, Angelo, 22, 60, 478, 480 e n., 481, 482 Pompilio, Angelo, 53n., 66n., 67n., 129n. Ponchiroli, Daniele, 588 Pontano, Giovanni Gioviano, 16, 20, 23 e n., 46n., 444n. Pontio, Pietro, 107n. Popp, Ludwig, 282n. Porcari, Stefano, 15, 16 Porcellio, Giannantonio de’ Pandoni, detto, 489 Porrino, Gandolfo, 64 Porta, Costanzo, 188 Powers, Katherine, 177n. Powitz, Gherard, 358n. Pozone, Angela, 355 e n. Pozuelo Yvancos, Jose Maria, 528 e n. Pozzi, Mario, 432n., 488n. Praest, Joseph, 357 Preimesberger, Rudolf, 488n. Prescott, Anne Lake, 248n., 250n., 437n. Preti, Girolamo, 64

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Indice dei nomi

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Prizer, William F., 132n., 138n. Profeti, Maria Grazia, 514n. Prosperi, Adriano, 21n., 192n. Prowse, Anne (Anne Vaughan Lock), 561 e n. Prowse, Richard, 560n. Pseudo Antonio da Monza, 281 Puccini, Davide, 480n. Pugliese, Annunziato, 171n. Pulci, Antonia, 201 Puliaschi, Giovanni Domenico, 394 e n., 401 Puligo, Domenico, 143 Puttenham, George, 407 e n. Pyrard, François, 157 Quadrio, Francesco Saverio, 191n., 260n., 324 Quaquarelli, Leonardo, 262n., 351n. Quarengi, Piero, 358 e n. Quental, Antero de, 153n. Querenghi, Antonio, 64 Querno, Camillo, 235n. Quevedo, Francisco de, 511-529 Quirino, Vincenzo, 63, 344 Quondam, Amedeo, 16n., 20, 21n., 28n., 40n., 52n., 76n., 83n., 147 e n., 161n., 163 e n., 164n., 165n., 173n., 175, 178n., 179, 194n., 196n., 200n., 205n., 206n., 208n., 209n., 211n., 212n., 234, 238n., 256n., 285n., 312n., 349 e n., 434n., 512n., 581, 582, 583, 585, 589 Rabano Mauro, 114 Rabitti, Giovanna, 191n., 193n., 197n., 198n., 201n., 205n., 210n., 330n. Raffaello Sanzio, 490 Raimondi, Ezio, 20n., 29n., 223n., 225 e n., 581 Rainerio, Antonfrancesco, 61, 540 e n.. 583, 584 e n. Ralegh, Walter, 431 Rasch, Wolfdietrich, 94n. Rasi, Francesco, 393, 394 e n., 396, 401-404 Reardon, Colleen, 138n. Regn, Gerhard, 27n.

Reulx, Anselme de, 184, 187 Reyes, Jose Maria, 498n. Richardson, Walter Cecil, 560n., 578 Rico, Francisco, 13 e n., 46n., 495n., 500 e n., 506n. Ridolfi, Luca Antonio, 304n., 309, 310 Ridolfi, Roberto, 143, 354 Rigazzi, Francesco, 265 Rimonda, Laura, 286 Rinaldi, Cesare, 64 Rinaldi, Rinaldo, 447n., 449n., 458n. Rinuccini, Ottavio, 64, 65, 394, 466-483 Rioja, Francisco de, 513 Risset, Jacqueline, 208n. Rivers, Elias L., 509n. Rizzo, Gino, 39n. Rizzo, Silvia, 19n. Robletti, Giovanni Battista, 402 Roccatagliata, Antonio, 346 Roche, Thomas P. Jr., 559n., 563n., 572 e n., 577, 578 Rode, Cipriano de, 55n. Rodella, Massimo, 287 Rodriguez de Montalvo, Garcia, 406n., 408 Roig Miranda, Marie, 520n Rollins, Hyder Edward, 405n. Roma, Ippolita, 207 Romanello, Giovanni Antonio, 262, 264, 266, 272, 285 e n. Romano, Aldo, 292, 300n., 305n., 306 e n., 450 Romano, Giovan Battista, 188 Ronsard, Pierre de, 113, 117-124, 126, 242, 247 e n., 248 e n., 251, 252, 253, 379 e n., 381, 382, 383, 387, 388, 389, 429, 430, 431, 435, 442, 535-538, 540n., 541, 546, 586 Rontani, Raffaele, 394, 402 Rorario, Fulvio, 63 Rore, Cipriano, de, 138, 181, 182 Rosand, David, 129n. Roselli, Giovanni di Antonio, 273 Roselli, Rosello, 259 Rosen, Valeska, von, 488n.

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Indice dei nomi Rosenmeyer, Thomas, 121n. Rossello, Francesco, 186 Rossetti, Gabriel, 292 e n. Rossi, Antonio, 48n., 312, 342 Rossi, Federica, 352n. Rossi, Luca Carlo, 297n. Rossi, Manuela, 353n. Rostirolla, Giancarlo, 52n. Rota, Bernardino, 63, 220, 233n., 235 e n. Rothbard, Murray N., 241n. Rousseau, Jean Jacques, 86 Roverbella, Gregorio, 257n., 262, 264 Rovere, Claudia della, 212 Rovilio, Guglielmo, 303, 304 e n., 309, 310 Rubsamen, Walter, 131 e n., 140 Rucellai, Benedetto, 533 Rucellai, Cosimo, 63 Ruffo, Vincenzo, 167n., 181, 186 Ruggeri, Ugo, 352n. Ruscelli, Girolamo, 63, 165, 170, 206, 228n., 315, 331n., 334, 335, 336, 342, 344, 345, 346, 377, 469 e n. Russell Dudley, Anne, 561 Russo, Emilio, 457n. Russo, Luigi, 547n. Sabeo, Fausto, 490 Sacchetti, Franco, 59, 270 Saccone, Eduardo, 500n. Sacrati, Iacopo, 260n. Sadoleto, Iacopo, 490 Saint-Gelais, Mellin de, 382 Sala, Bornio da, 259, 260, 268n. Sala, Pierre, 302 Salinas de Marichal, Soledad, 497n. Salinas, Pedro, 497n., 514 Sallustio Crispo, Caio, 17 Salutati, Barbara, 143 Salutati, Coluccio, 14, 17, 19n., 260, 268n. Salvi, Achille, 331n. Salvi, Beatrice, 205 Salvi, Matteo, 331n. Salvi, Virginia, 63, 205, 206, 213, 331

Salviati, Diane, 535, 540 Salviati, Lionardo, 467 e n., 468 Salwa, Piotr, 27n., 42n. Sandal, Ennio, 196n., 212n., 215n. Sandoval di Castro, Diego, 64 Sanese, Athalanta, 212 Sanford, James, 562n., 578 Sangallo, Laudomia da, 213 Sangallo, Maria da, 213 Sanguinacci, Iacopo, 262, 266, 269, 270, 271n. Sannazaro, Iacopo, 33, 44, 45, 56, 57 e n., 60, 144, 168, 187, 218, 225, 235, 236 e n., 375, 376, 394, 498-501, 508, 513, 550, 551n., 552 Sanseverino, Dianora, 207 Sanseverino, Ferrante, 233n. Sansovino, Francesco, 180, 377 Santagata, Marco, 21n., 22, 23, 24 e n., 25n., 33n., 48n., 52n., 78n., 80n., 81n., 85n., 86n., 113n., 196n., 198n., 243n., 244n., 264 e n., 285n., 290n., 312n., 442, 470n., 480n., 500n., 501n., 503n., 504n., 506n., 507 e n., 512n., 514 e n., 541n., 575n., 577, 581 Santangelo, Giovanni, 29n. Santasofia, Daniele, 306n. Santi, Giovanni, 491 Santi, Mara, 30n., 191n. Santoro, Marco, 359n., 360 Sanvito, Bartolomeo, 279 e n., 280, 281, 282, 290 Sartori, Claudio, 132n., 162n. Sassi, Panfilo, 490 Sasso, Panfilo, 60, 287, 544 Savino Giancarlo, 273n., 274 Saviozzo, vd. Serdini Simone Savoca, Giuseppe, 32n. Savorgnan, Giovanni, 347 Savorgnan, Maria, 193n. Scalia, Gianni, 408n., 414n. Scapuccini, Antonio, 271 Scarpi, Ortensia, 213

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Indice dei nomi Scève, Maurice, 247n., 309, 540n. Scheffel, Sunita, 27n. Schiller, Johann Christoph Friedrich, 94, 99 Schlegel, August Wilhelm, 20, 93-103, 109, 110 Schlegel, Friederich, 93, 94 e n., 95, 98, 99, 104n. Schmidt, Albert-Marie, 442 Schmidt-Glintzen, Helwig, 275n. Schnitzler, Arthur, 24n. Schober, Franz von, 98 e n., 104n. Schoenbaum, Samuel, 250 Schreiber, Alois, 95 Schubart, Christian Friedrich Daniel, 99 e n. Schubert, Franz Anton, 93-110 Schuetze, George C., 176n. Schwartz, Lia, 513n., 517n., 519, 522n. Sclavo, Dalmasina, 207 Scott, Hardiman, 438n. Scott, Joan W., 190n. Scott, Walter, 97n. Scotto, Girolamo, 130 e n., 165, 167n., 168, 169 Scouloudi, Irene, 249n. Sébillet, Thomas, 376, 377n., 382, 385 Sechi, Niccolò, 419 Seghezzi, Anton Federico, 585 Segre, Cesare, 47n. Seidel, Max, 489n., 490n. Semper, Wydawnictwo Naukowe, 27n. Seneca, Lucio Anneo, 22 Senese, Francesca B., 213 Sera, Beatrice dal, 207 Serafino Aquilano, 48n., 60, 200n., 205n., 342, 376, 435, 587, 589 Serdini, Simone detto il Saviozzo, 255, 262, 266, 267 e n., 269, 271n., 273 Seripardo, Antonio, 236n. Serpieri, Alessandro, 417n. Severino, Antonio, 235 Sforza, Francesco Maria, cardinale, 547n., 548, 552, 557 Sforza, Francesco, 259 e n., 263, 264, 272

Sforza, Ginevra, 258n. Sforza, Ludovico Maria, detto il Moro, 490 Sforza, Mario, 547n. Sforza, Muzio, 547-557 Sforza, Paolo, 547n. Shakespeare, William, 25, 96n., 124, 242, 246-253, 408 e n., 412, 413, 416, 417 e n., 421, 512n., 529, 569 Shapiro, James, 250n. Shelley, Percy Bysshe, 24 Sherr, Richard, 136n. Sidney, Mary, 406 e n., 407 Sidney, Philip, 124, 412, 427 e n., 439, 442, 559, 568 Simone da Siena, 453 Simonin, Michel, 118n., 247n. Sismondini, Alberto, 159n. Sisto, Pietro, 547n. Skelton, Thomas, 249n. Skinner, Quentin, 17 e n. Slim, H. Colin, 143n., 144n. Smith, Paul Julian, 517n., 519 e n. Smith, Pauline M., 376n., 413 Smith, Rosalind, 563n., 569n., 573n., 578 Sobejano, Gonzalo, 528 e n. Socrate, 396 Sodano, Rossana, 584n. Solari, Cristoforo, 489 Solerti, Angelo, 244n., 394n. Somma, Silvia di, contessa di Bagno, 213 Sommariva, Giorgio, 286 Sonnleithner, Leopold von, 998 Soowtherns, John, 414n. Sorbelli, Albano, 350 e n., 352n., 354n., 360 Soto de Rojas, Pedro, 513 Sottili, Agostino, 20n. Soulié, Marguerite, 532n. Sozzi, Lionello, 531n., 532n. Spaccazocchi, Maurizio, 135n. Spagnoletti, Giacinto, 29n. Spenser, Edmund, 412, 416, 427-441 Speroni, Sperone, 64, 385, 386, 408 Spiegel, Henry William, 241n.

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Indice dei nomi Spilimbergo, Irene di, 345 Spiller, Michael R. G., 427n., 563n., 569n., 570 e n., 578 Spinola, Maria, 213 Spira, Fortunio, 63 Spira, Vindelino da, 300 e n., 310, 351 Staccoli, Agostino, 264, 272 Stampa, Cassandra, 198 Stampa, Gaspara, 64, 195, 198 e n., 199 e n., 200n., 202, 205, 207, 208n., 210n., 213 Steele, John, 171n. Steiner, George, 23 Stella, Guido, 260 Stigliani, Tommaso, 64 Stillinger, Jack, 124n. Stoler, Ann Laura, 150n. Storck, Wilhelm, 150 e n., 151 e n. Storey, H. Wayne, 294n., 296n., 297n., 298n., 300n., 304n. Strada, Elena, 82n., 164n., 195n., 327n. Striggio, Alessandro, 183, 483 Strozzi, Filippo, 140, 144 Strozzi, Giovan Battista, 61, 65 Strozzi, Lorenzo, 140 Sturm-Maddox, Sara, 468n., 470 e n. Suess von Kulmbach, Hans, 282 Surrey, vd. Howard Henry Tacita, Fausta, 207, 213 Taegio, Paolo, 490 Taffin, Jean, 561 e n. Tafi, Andrea, 493 Tansillo, Luigi, 61, 217 e n., 218-232, 238n., 325, 340, 341, 346, 479, 481 e n., 482n. Tanturli, Giuliano, 582 Tarrête, Alexandre, 539n. Tarugi Secchi, Luisa, 350n., 355n., 491n. Tarulli, Vincenzo, 572n., 576 Tasso, Bernardo, 61, 65, 66, 167 Tasso, Torquato, 24n., 34, 56, 57, 61, 64, 65, 67, 68, 80, 92, 105 e n., 109n., 207, 279 e n., 326, 342, 377, 392, 394, 408, 431, 435, 436, 437 e n., 442, 466, 480n., 481, 513

Tateo, Francesco, 547n. Tavoni, Maria Gioia, 349n., 350n., 351n., 354n., 355n., 359n., 360n. Tebaldi, Antonio detto il Tebaldeo, 60, 77, 197, 287, 435, 489, 490, 513 Temeroli, Paolo, 352n. Ter Horst, Robert, 497n. Terenzio Afro, 457 Terracina, Laura, 64, 202, 205, 206, 207, 208n. Testa Cillenio, Giovanni, 257 e n., 258, 261 e n., 262 e n., 263, 264, 270, 273, 274, 491 Testi, Fulvio, 64 Testore, Ravisio, 16 Thiesse, Anne-Marie, 43n. Tieck, Johann Ludwig, 93 Tiziano, 221, 222n. Toffanin, Giuseppe, 191n. Tofte, Robert, 413 Tolomei, Claudio, 140, 175 e n., 185 Tomasi, Franco, 82n., 165n., 175n., 205n., 206n., 211n., 214n., 215n., 219n., 327n. Tomeo, Bartolomeo Leonico, detto Fusco, 490 Tomeo, Niccolò, 491 Tomitano, Bernardino, 63 Tommaseo, Niccolo, 190n. Tonelli, Natascia, 508n. Torelli Lunati, Alda, 212 Torelli, Barbara, 207 Tornabuoni, Lucrezia, 201 e n., 207 Tornielli Borromeo, Livia, 213, 214 Torre, Francisco de la, 517 Toscano, Tobia R., 197n., 219n., 220n., 221n., 223n., 226, 231 e n., 232n. Trakl, Georg, 495n. Tranchant, Mathias, 539n. Trapp, Joseph Burney, 353n. Travers, Julien, 377n. Travi, Ernesto, 235n., 236n. Treffort, Cécile, 539n. Trenti, Luigi, 27n.

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Indice dei nomi Trissino, Giovan Giorgio, 61, 135, 320, 409, 585 Troiano, Girolamo, 63 Troiano, Massimo, 188 Tron, Michele, 171 Tschense, Astrid, 104n. Tyard, Pontus de, 247n., 382, 383

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Uberti, Fazio degli, 269 e n. Ulysse, Georges, 201n. Urbini, Silvia, 353n. Vaganay, Hugues, 312n., 324, 342 Valenziano, Luca, 64 Valeriano, Pierio, 409, 490 Valerio, Massimo, 16, 22 Valla, Lorenzo, 23 Valle, Faustina, 206 Valois, Margherita, di, 345 Valturio, Carlo, 260, 264, 268 Vanossi, Luigi, 501n. Varchi, Benedetto, 61, 144, 183, 345, 386, 451n. Varotti, Carlo, 17n. Varrone, Marco Terenzio, 83n. Vasari, Giorgio, 143 Vasconcelos, Carolina Michaelis de, 151 e n., 152n. Vasconcelos, Joaquim de, 152n. Vasoli, Cesare, 14n., 350, 360 Vatasso, Marco, 295n. Vauquelin de La Fresnaye, Jean, 377 e n., 384 e n. Vecchi Galli, Paola, 22n., 47n., 48n., 89n., 201n., 258n., 260n., 267n., 303n., 312n., 351 e n. Vecchio, Sebastiano, 487n. Vega, Lope de, 513, 514 e n., 515n., 516, 524 Veggio, Claudio Maria, 180 Vela, Claudio, 33n. Vellutello, Alessandro, 291, 300-310, 411 e n. Vendler, Helen, 251n., 253n. Venier, Domenico, 61

Venier, Lorenzo, 449, 450 e n., 455 e n. Venier, Maffio, 61 Vento, Ivo de, 184, 186, 188 Vercelli, Alessandro, 197 Verdelot, Philippe, 136, 138, 139, 141, 142, 143, 144, 180, 185, 187 Vettori, Andrea, 269 Vianey, Joseph, 375n. Vidue, Ettore, 183 Vigri, Caterina, 204n. Villa, Claudia, 297n. Villabruna, Antonio, 172 Villamediana, Juan de Tarsis, conde de, 513, 524 Villey, Pierre, 385n. Vinall, Shirley W., 190n. Virgilio Marone, Publio, 22, 380, 388, 466, 468, 478, 482, 498n., 500n. Visconti, Bianca Maria, 259 Visconti, Filippo Maria, 269, 271 Visconti, Gaspare, 489 Vitali, Filippo, 394, 401, 403, 404 Vitelli, Vitello, 169, 181 Vives, Juan Luis, 565n., 578 Vogel, Emil, 50n., 138n., 162n., 179 Volpi, Niccolò, 260, 266, 268n. Volussien, Nicolas, 535, 536, 546 Wagner, Fritz, 42n. Wagner, Klaus, 133n. Wagner, Richard, 105n. Walker, Thomas, 50n. Walters, D. Gareth, 519 e n. Waquet, Françoise, 45n. Warley, Christopher, 568n., 578 Watson, George, 405 e n., 559 Weber Henri, 118n, 533n., 536, 543n., 544 Weber, Catherine, 118n. Weber, Henri, 532n. Wert, Giaches de, 55n., 136, 188 Whittingham, William, 563 Wiesnel, Merry E., 190n., 192n., 201n., 202n., 208n.

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Indice dei nomi Wilcox, Thomas, 570 e n., 578 Wilkins, Ernest Hatch, 244n., 350 e n., 358 e n., 447n. Willaert, Adrian, 51n., 54n., 138, 172, 184, 187, 393 Willoughby Brandon Bertie, Katherine, duchessa di Suffolk, 559, 564, 574 Winkler, Friedrich, 282n. Wither, George, 572n., 578 Wolfe, John, 406n. Wood, Sharon, 191n. Woolf, Virginia, 211 Wordsworth, Wiliam, 124n. Wroth, Mary, 427 Wyatt, Michael, 44n. Wyatt, Thomas, 249n., 405, 407 e n., 408 e n., 409 e n., 411 e n., 413, 415 e n., 453, 436 e n., 437 e n., 568, 569 e n., 570, 574, 578 Wynne-Davies, Marion, 414n. Yonge, Bartholomew, 249n., 408 Yungblut, Laura Hunt, 249n. Zabata, Cristoforo, 225n., 346

Zaccarello, Michelangelo, 587 Zaja, Paolo, 82n., 195n., 205n., 212n., 219n., 327n. Zambeccari, Pellegrino, 260, 268n. Zancan, Marina, 191n., 199n., 202n., 203n., 428n. Zane, Giacomo, 64 Zanella, Giuseppina, 355n. Zani, Bartolomeo, 352 e n., 353, 359 Zappella, Giuseppina, 212n. Zardin, Danilo, 52n. Zarlino, Gioseffo, 106 e n., 107n., 188 Zarri, Gabriella, 192n., 202n., 204n. Zavenzoni, Raffaele, 491 Zeller, Otto, 331n. Zeller, Wolfram, 331n. Zeno, Apostolo, 586 Zeusi, 488 Zim, Rivkah, 565n., 571 e n., 578 Zonta, Giuseppe, 202n. Zoppelli, Luca, 140n. Zorzi, Renzo, 486n. Zuccheri, Virinia Gemma de’, 213

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INDICE DEI MANOSCRITTI

BOLOGNA, BIBLIOTECA UNIVERSITARIA 1739 - 255-274 52 II 1 - 263 CITTÀ

DEL

VATICANO, BIBLIOTECA APOSTOLI-

CA VATICANA Chig. L. V. 176 - 294 Chig. L. VIII. 305 - 296 Ross. 1117 - 262 Vat. Lat. 3195 - 245, 293, 294n., 296n., 297n., 299 Vat. Lat. 3196 - 243, 244n., 245n., 304n., 305n. Vat. Lat. 3908 - 260n. Vat. Urb. Lat. 681 - 280

COIMBRA, BIBLIOTECA GERAL DA UNIVERSIDADE cod. 888 - 219n. COLOGNY-GENÈVE, BIBLIOTEQUE BODMER It. 130 - 280 FIRENZE, BIBLIOTECA MEDICEA LAURENZIANA 41.10 - 295 e n., 298, 300 e n. 41.17 - 297 e n., 298, 299n. Antinori 158 - 139n. Ashb. 1378 – 271 Segni 1 - 291, 292, 295 e n., 298, 299, 300

FIRENZE, BIBLIOTECA NAZIONALE CENTRALE II. II. 62 - 262 FIRENZE, BIBLIOTECA RICCARDIANA 1088 - 299 1098 - 259n. 1126 - 266n. 1154 - 265n LONDON, BRITISH LIBRARY Add. 21463 - 281 Stowe 955 - 302, 303, 309 LONDON, LIBRARY OF J. R. ABBEY 7368 - 280 e n. MILANO, BIBLIOTECA AMBROSIANA N 95 sup. - 296n. MODENA, BIBLIOTECA ESTENSE a.N.6.4 (It. 1154) - 258n. MÜNCHEN, BAYERISCHE STAATSBIBLIOTHEK cod. 627 it. 259 - 266 NAPOLI, BIBLIOTECA NAZIONALE XIII G. 43 - 197n.

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Indice dei manoscritti NEW YORK, PIERPONT MORGAN LIBRARY M. 502 - 296n., 299 PARIS, BIBLIOTHÈQUE NATIONALE It. 1022 - 258n. It. 1036 - 259n TRIESTE, BIBLIOTECA CIVICA I 5 - 262

WINDSOR, ETON COLLEGE LIBRARY 159 - 290 WOLFENBÜTTEL, HERZOG AUGUST BIBLIOTHEK Guelf. 293 - 138n. Extravagantes, 277.4 - 275 YALE UNIVERSITY, BEINECKE LIBRARY M 706 - 296, 297n.

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VENEZIA, BIBLIOTECA MARCIANA It. IX 43 - 280 It. IX 152 - 284 e n.

It. IX 163 - 201n., 287 It. IX, 257 - 263 It. IX, 203 - 446n.

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Finito di stampare nel mese di gennaio 2007 dalle GRAFICHE TEVERE Coordinamento tecnico CENTRO STAMPA di Meucci Roberto CITTÀ DI CASTELLO (PG)

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