Il pensiero debole
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Idee/Feltrinelli

testi diAinoroso Carchia, Coinolli, Costa Cres~, Dal Lago Eco, --Perraris, Marconi Rovatti, Vattirrio

Il pensiero debole a cura di Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti testi.di Leonardo Amomso,Gianni Carchia Giampiero Comolli, Filippo Costa Franco Crespi, Alessandro Dal Lago Umberto Eco, Maurizio Ferraris, Diego Marconi Pier Aldo Rovatti, Gianni Vattimo

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Feltrinelli

© Giangiacomo Fcltrinelli Editore Milano Prima edizione in "Idee" novembre 1983 Decima edizione gennaio 1995 ISBI\' 88-07-09001-5

Premessa DI PIER ALDO ROV ATTI E GIANNI V ATTIMO

1. Il dibattito filosofico ha oggi almeno un punto di convergenza: non si dà una fondazione unica, ultima, normativa. Negli anni sessanta si cercava un'altra fondazione. Se un senso del sapere appariva ormai cristallizzato, la filosofia si incaricava proprio di affrontare questa "crisi" e si mobilitava per tentare di cambiar scena, di ricucire le discipline, e in particolare i saperi umanistici, con una nuova trama: strutturalistica o fenomenologica. L'alternativa, schematizzando, era: o ricorrere a strutture prive di centro e di finalità, in una parola senza soggetto, oppure cercare di battere il terreno di una soggettività non sostanzialistica, più fluida, in divenire. L'esempio più lampante veniva fornito dalla discussione intorno ai fondamenti del marxismo. Mentre la riscoperta del Marx "filosofo" voleva dire che le categorie economico-politiche erano ripercorribili a partire da un sefiso filosofico-esistenziale, da un'idea di uomo come soggetto in via di costituzione e disposto finalisticamente verso una realizzazione (si pensi a Sartre), d'altra parte, e in modo predominante, l'anti-umanismo strutturalistico rifiutava la semplificazione scientistica per valorizzare un'idea complessa di struttura a più dimensioni, con molti centri, con molti strati temporali relativamente autonomi, dotati di rapporti causali non lineari. Soggetto e oggetto, in definitiva, tentavano di sfuggire a una ipostatizzazione riduttiva, soggettivismo coscienzialistico o oggettivismo scientistico, e ciascuno tentava di ridefinirsi 7

per conto proprio, entrambi però prendendo le distanze da una metafisica schematica. La scena successiva, quella degli anni settanta, appare segnata da un ottimismo assai minore. Vi entra l'occhio impietoso di un pensiero senza redenzione, "negativo", con cui è possibile però scorgere i molti residui metafisici rimasti attivi e nascosti. Un reagente viene fatto passare attraverso le teorie strutturalistiche e attraverso le filosofie della nuova soggettività: esse prendono colore, rivelano le pretese totalizzanti, la legge in esse ancora astutamente fungente della "reductio ad unum". La "crisi" dei fondamenti, a questo punto, non è più trattabile come una cattiva verità che può essere rovesciata da una nuova: la crisi si sposta infatti dentro l'idea stessa di verità. Il dibattito cambia tono: vi irrompe stabilmente, anche se non gradito, un elemento tragico, e tutte le posizioni sono alla fine, lo sappiano o no, modi per elaborare o tenere a distanza questo elemento, che un linguaggio reso opaco dalla lunga consuetudine continua a chiamare "irrazionale". La domanda è: si deve necessariamente rinunciare alla verità oppure si possono chiamare "nuove ragioni", meno pretenziose, a tamponare la falla senza che la teoria perda il suo potere? In Francia, per fare solò un esempio, Foucault tentava, per oltrepassare il suo stesso precedente strutturalismo, di sciogliere il sapere in una molteplicità di strategie razionali, dispositivi locali, orizzontali, rinunciando sistematicamente a chiedersi "chi?" ( quale soggetto) e "perché?" ( secondo quale telos ), cioè mettendo fuori gioco il soggetto e il senso della storia come prodotti secondari e ingannevoli. In Italia, intanto, si dibatteva intorno alla "crisi della ragione": più che di farla funzionare, si tentava di "salvare" la ragione dal fantasma irrazionalistico ancora assai poco esorcizzato. Il caso italiano è tipico. Nietzsche, Benjamin, Heidegger e lo stesso Wittgenstein entravano prima di soppiatto e poi palesemente nel dibattito producendo ogni sorta di impasti e di miscele, certo sintomatiche, ma che quasi mai hanno oltrepassato la resistenza di un atteggiamento nella teoria che forse si potrebbe chiamare "politico": una teoria, cioè, intesa come potere, capacità di controllo, implicazione, totalizzazione. La rinuncia esplicita ad ogni fondazione metafisica veniva sempre bilanciata dal tentativo di salvaguardare la capacità di sintesi, il potere comunque generalizzante, ancora, della ragione. 8

2. I saggi raccolti in questo volume, che difficilmente si potrebbero unificare sotto un'etichetta di scuola data la varia provenienza e i diversi orientamenti teoretici dei loro autori, hanno in comune l'idea (la sensazione, impressione, presupposto) che sia i discorsi i tali ani sulla crisi della ragione (con il loro sforzo di restaurare, sia pure all'interno dei singoli "giochi" e ambiti, la stessa cogenza della ragione classica; o con il proposito-nostalgia di ricostruire una ragione globale, quella della nuova società "rivoluzionata", più legittima perché capace di includere ciò che la ragione classica aveva escluso), sia molte versioni del poststrutturalismo francese (dai rizomi di Deleuze alla microfisica di Foucault), abbiano ancora troppa nostalgia per la metafisica, e non portino davvero fino in fondo l'esperienza dell'oblio dell'essere, o della "morte di Dio", che soprattutto Heidegger e Nietzsche hanno annunciato alla nostra cultura. Il titolo "pensiero debole" allude a tutto ciò: essenzialmente, all'idea che a) si debba prender sul serio la scoperta nietzschiana, e forse anche marxiana, del nesso tra evidenza metafisica ( e dunque cogenza del fondamento) e rapporti di dominio, dentro e fuori il soggetto; b) senza tuttavia declinare immediatamente questa scoperta in una filosofia dell'emancipazione attraverso lo smascheramento e la demistificazione, ma anzi rivolgendo un nuovo e più amichevole, perché più disteso e meno metafisicamente angosciato, sguardo al mondo delle apparenze, delle procedure discorsi ve e delle "forme simboliche", vedendole come il luogo di una possibile esperienza dell'essere; e) non però nello spirito di una "glorificazione dei simulacri" (Deleuze), che finirebbe per conferir loro lo stesso peso dell' ontos on metafisico, ma nella direzione di un pensiero capace di articolarsi ( dunque di "ragionare") nella mezza luce ( secondo uno dei verosimili sensi della Lichtung heideggeriana); d) intendendo anche l'identificazione - assai problematica - di essere e linguaggio che l'ermeneutica riprende da Heidegger, non come un modo di ritrovare l'essere originario, vero, che la metafisica ha dimenticato nei suoi esiti scientistici e tecnologici; ma come una via per incontrare di nuovo l'essere come traccia, ricordo, un essere consumato e indebolito (e per questo soltanto degno di attenzione). Ecco i referenti teorici di molti degli autori di questi saggi. Non di tutti, e non tutti ugualmente validi allo stesso modo anche per quelli che vi si riconoscono. Ma può essere 9

utile elencarli in questa forma che non è affatto esaustiva ma piuttosto rapsodica, allo scopo di evitare che la "debolezza" del pensiero di cui qui è questione venga erroneamente pensata come un'abdicazione di tipo storico-culturale, una apologia indiretta dell'ordine· di cose esistente nel quale la direzione della storia sembra affidata ad agenti assai diversi dalla meditazione filosofica. La debolezza del pensiero nei confronti del mondo, e dunque anche della società, è probabilmente solo un aspetto della impasse in cui il pensiero si è venuto a trovare alla fine della sua avventura metafisica. Ciò che conta adesso è ripensare il senso di quella avventura ed esplorare le vie per andare oltre: appunto, attraverso la negazione - non anzitutto a liveilo di rapporti sociali, ma a livello di contenuti e modi del pensare stesso - dei tratti metafisici del pensiero, prima fra tutti la "forza" che esso ha sempre creduto di doversi attribuire in nome del suo accesso privilegiato all'essere come fondamento. Ma con tutto ciò non si dice molto per una caratterizzazione "positiva" del pensiero debole. L'espressione funziona anzitutto "debolmente'', se cosl si può dire, come uno slogan polivalente e volutamente dai confini non segnati, ma che fornisce un'indicazione: la razionalità deve, al proprio interno, depotenziarsi, cedere terreno, non aver timore di indietreggiare verso la supposta zona d'ombra, non restare paralizzata dalla perdita del riferimento luminoso, unico e stabile, cartesiano. "Pensiero debole" è allora certamente una metafora, e in certo modo un paradosso. Non potrà comunque diventare la sigla di qualche nuova filosofia. È un modo di dire provvisorio, forse anche contraddittorio. Ma segna un percorso, indica un senso di percorrenza: è una via che si biforca rispetto alla ragione-dominio comunque ritradotta e camuffata, dalla quale, tuttavia, sappiamo che un congedo definitivo è altrettanto impossibile. Una via che dovrà continuare a biforcarsi. Si inizia, forse, con una perdita o, se si vuole dire cosl, con una rinuncia. Ma già fin dall'inizio si può scoprire che essa è anche rallontanamento da un obbligo, la rimozione di un ostacolo. O meglio, ·è l'assunzione di un atteggi~mento: il tentare di disporsi in un'etica della debolezza, non semplice, assai più costosa, meno rassicurante. Un equilibrio difficile tra la contemplazione inabissante del negativo e la 10

cancellazione di ogni or1gme, la ritraduzione di tutto nelle pratiche, nei "giochi", nelle tecniche localmente valide. In secondo luogo, è uno sperimentare, un tentativo di tracciare analisi, di muoversi sul terreno. Verso il passato: il "pensiero debole" può riavv1crnarsi al passato attraverso quel filtro teorico che si può chiamare "pietas ". Una sterminata quantità di messaggi, che la tradizione invia a noi, può essere di nuovo ascoltata da un orecchio che si è reso disponibile. Nel presente: basta osservare quante esclusioni di campi e di oggetti lo sguardo totalizzante può, anzi deve praticare. Il prezzo pagato dalla ragione potente è una impressionante limitazione degli oggetti che si possono vedere e di cui si può parlare. Infine, anche in direzione del futuro, verso la quale il "pensiero debole" sembrerebbe impedito. Infatti, perché non ipotizzare che il contenimento del pensiero forte possa produrre un incontro su un territorio diverso da quello normativo e disciplinare, sul quale vengono stipulati normalmente tutti i nostri "accordi"? Ma già siamo corsi troppo avanti. Per ora c'è da tentare qualche piccolo movimento, un alleggerimento. È più agevole la polemica con il già noto. E ci sono già - in circolazione - monete contraffatte da individuare ...

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Dialettica, differenza, pensiero debole DI GIANNI VATTIMO

Il pensiero debole, di cui si cercano 1 tratti in questo saggio, ha con dialettica e differenza una relazione che non è principalmente o soltanto di "superamento", ma piuttosto si definirà .mediante il termine heideggeriano di Verwindung, termine esso stesso comprensibile solo entro una v1s10ne "debole" di che cosa significhi pensare. Non si può, comunque, leggere il rapporto fra i tre termini come un itinerario, un passaggio da a: il pensiero debole non si è lasciato semplicemente alle spalle la dialettica e il pensiero della dif~ ferenza; essi costituiscono per lui, invece, un passato pel senso del Gewesenes heideggeriano, che ha molto da fare con l'invio e il destino. Con ciò si è detto anche, però, che partire dalla dialettica e dalla differenza non è una decisione teorica che debba o possa venir radicalmente giustificata. Questi due ·termini, e ciò che significano specificamente nella nostra situazione, sono "dati" di destino nel senso dell'invio: sono due riferimenti che ci troviamo a incontrare sempre di nuovo quando ci mettiamo a pensare qui e ora. Forse è soprattutto il pensiero ''forte", quello della cogenza deduttiva, che deve temere di lasciarsi sfuggire la "mossa" iniziale, fatta la quale i giochi sarebbero poi fatti. Ma è vero che non si può saltare la questione neanche dal punto di vista di una visione debole del pensare: la quale, anzi, si costituisce proprio supponendo la possibilità che, di contro a una impostazione du• ramente metafisica del problema del cominciamento (muove12

re dai principi primi dell'essere) o a una metafisico-storicistica (alla Hegel: l'essere non ha principi primi, ma un processo provvidenziale: pensare significa innalzarsi all'altezza dei tempi), si dia una terza via di stampo "empiristico", senza però alcuna pretesa di muovere da una qualche esperienza pura o purificata di ogni condizionamento storico-culturale. L'esperienza da cui possiamo muovere, e a cui dobbiamo essere fedeli, è quella dell'innanzitutto e per lo più quotidiano, che è anche sempre storicamente qualificata, culturalmente densa. Non ci sono condizioni trascendentali di possibilità dell'esperienza, che sia possibile raggiungere mediante una qualche riduzione o epochè che sospenda la nostra adesione a orizzonti storico-culturali, linguistici, categoriali. Le condizioni di possibilità dell'esperienza sono sempre qua• lificate; o, come dice Heidegger, l'Esserci è progetto gettato, di volta in volta gettato. La fondazione, l'avvio, l'invioprincipio del nostro discorso non può es-sere, in altre parole, che fondazione ermeneutica. 1 Anche la logica con cui il discorso procede, poiché ve n'è una e lo svolgimento non è arbitrario, è una logica iscritta nella situazione, fatta di procedure di controllo che sono date di volta in volta, nello stesso modo non-puro in cui sono date le condizioni storicoculturali dell'esperienza. Forse, il modello a cui pensare, che anzi è già-sempre effettivamente in atto nel procedere filosofico, anche quando questo si interpreta diversamente, è quello che si dà nella critica letteraria e artistica: .discorsi e valutazioni critiche muovono sempre da un insieme di canoni che sono storicamente costituiti dalla storia delle arti e del gusto ... In questo modo non-puro, dunque, presupponiamo che, se ci si mette a filosofare qui e ora - oggi in Italia, e in relazione a ciò che rambiente filosofico italiano è, nei suoi collegamenti con la filosofia europeo-continentale ancora prevalenti -, si incontra un concetto largamente pervasivo, anche con tutti i suoi tratti problematici: il c;oncetto di dialettica. Con esso dobbiamo cominciare a fare i conti. Per intendersi, è utile ( ed ermeneuticamente corretto) riferirsi a un'opera emblematica (anche qui, la scelta è nelle cose stes1 Per questo concetto di fondazione ermeneutica mi permetto di rinviare al saggio Verso un'ontologia del declino compreso nel mio Al di là del soggetto, Feltrinelli, Milano 1981.

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se, nella situazione) della presenza della dialettica nel pensiero contemporaneo, la .Critica della ragione dialettica di Sartre.2 In essa, la dialettica si caratterizza in relazione a due nozioni principali: quella di totalità e quella di riappropriazione. Sartre ripercorre le vie della dialettica già percorse da Hegel: il vero è l'intero; e la formazione autentica dell'uomo consiste nel porsi nel punto di vist2 del tutto. Che cosa significhi che il vero è l'intc.;ro possiamo cercar di capirlo non tanto ricostruendo Hegel, ma guardando, più vicino a noi, alla pratica della critica dell'ideologia cosl diffusa nel pensiero di oggi. Questa critica non si svolge tanto, come spesso si è portati a credere, come lavoro di disvelamento del nascosto ( secondo una accezione che l'avvicina a una certa concezione dell'ermeneutica come "-scuola del sospetto"), ma come sforzo di ricomposizione di un punto di vi,sta non parziale, capace dunque di cogliere la totalità come tale. Ideologia non è solo il pensiero falso, che esprime in maniera (inconsciamente) mascherata il vero che sta neI fondo; l'ideologia maschera perché è pensiero pa-rziale. Ricostituzione della totalità significa anche riappropriazione: solo se il panorama è tutto spiegato, noi ne disponiamo davvero. Quel che è ·centrale in Sartre e nella dialettica del Novecento, che tiene presente la lezione di Marx e la sua critica ai tratti idealistici di Hegel, è la consapevolezza della problematicità del rapporto fra totalità e riappropriazione. La Critica della ragione dialettica è una critica nel senso kantiano del termine: cerca di chiarire a quali condizioni è possibile, concretamenté, la costituzione di un punto di vista totale, non ideologico. È noto come Sartre risolva, sia pure in modo non definitivo, il problema: un sapere effettivamente totale-riappropriato si attua soltanto nella coscienza del gruppo-in-fusione, il gruppo rivoluzionario in azione, nel quale teoria e prassi fanno tutt'uno, e la prospettiva del singolo coincide pienamente con quella di tutti gli altri. Ma di là da questa soluzione e dai problemi che essa pur sempre contiene ( la tendenza alla ricaduta nell'alienazione del pratico-inerte passati i momenti rivoluzionari "caldi" ), quel che importa dell'analisi di Sartre ~ il fatto di aver chiarito una volta per tutte (pare a -

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J. P. Sartre, Critica della ragione dialettica, 1960; tnd. it. di P. Caruso,

Il Saggiatore, Milano 1963. 14

noi) il carattere mitologico delle altre soluzioni del problema della dialettica; anzitutto di quella lukacsiana, che attribuiva, con Marx, la capacità di una visione totalizzante del senso della storia al proletariato espropriato in quanto espropriato, e garantiva poi, leninisticamente, l'attendibilità di questa visione totalizzante identificando la coscienza di classe con l'avanguardia del proletariato - il partito e la sua burocrazia. Sartre ha perseguito fino in fondo il problema - si potrebbe dire - di come ciascuno di noi può divenire lo spirito assoluto hegeliano; e per questo non poteva non andare incontro a uno scacco. Ma nello scacco della critica sartriana si può leggere anche una precisa acquisizione positiva per il pensiero: la verifica del rapporto tra ideale del sapere totale-riappropriato e la struttura di dominio che esso, proprio, dovrebbe rovesciare. Il ritorno del pratico-inerte dopo i momenti caldi della rivoluzione significa solo che il sapere totalizzante-riappropriato non può sussistere se non come una nuova forma di proprietà ( anche e soprattutto nel senso linguistico della parola: il dominio del proprio contro la metafora ... ). Non è, questo, solo la trascrizione dell'esperienza storica delle rivoluzioni del nostro secolo; questa esperienza, semmai, è una verifica (non una conseguenza) della debolezza e interna insussistenza - che si può mostrare anzitutto a livello teorico - dell'ideale della riappropnaz10ne. Pensiamo a un altro grande esempio di pensiero dialettico, quello di \X' alter Ben j amin, e in particolare alle Te si di filoso/i-a della storia. 3 Qui, richiamandosi anche esplicitamente alla seconda Considerazione inattuale di Nietzsche, Benjamin sottopone a critica l'immagine del tempo storico come procedere omogeneo - quella che sta alla base della fede nel progresso ma anche dell'attesa dell'evento "necessario" della rivoluzione. L'idea di un corso progressivo del tempo, e in fondo l'idea che si dia qualcosa come la storia, è espressione della cultura dei dominatori: la storia come linea unitaria è in verità solo la storia di ciò che ha vinto; essa si costituisce a prezzo dell'esclusione, prima nella pratica e poi nella memoria, di una moltitudine di possibilità, valori, immagini: è lo sdegno per questa liquidazione, più che il desiderio di assicurare un destino migliore a quelli che verranno, ciò che davvero muove, 3 Le Tesi sono tradotte in italiano nel vol. Angelus Novus, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 1962.

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secondo Benjamin, la decisione rivoluzionaria. La quale dunque mira a una redenzione che vendichi, cioè ridia la parola a, ciò che è stato escluso e dimenticato nella storia lineare dei vincitori. Da questo punto di vista, la rivoluzione dovrebbe riscattare tutto il passato, e anzi proprio in ciò sembrerebbe consistere il suo buon diritto, la sua superiorità sulla cultura dei dominatori. A questo, tuttavia, Benjamin oppone una preoccupazione "costruttiva": il materialismo storico non può "sprecare le proprie forze con la meretrice 'c'era una volta' nel bordello dello storicismo" (Tesi 16); non tutto il passato in quanto tale può e deve essere riscattato; il riscatto avviene solo in una prospettiva di costruzione alternativa a quella dello storicismo borghese: "il Messia non viene solo come redentore, ma come vincitore dell'Anticristo" (Tesi 6 ). A questo punto, però, il buon diritto della rivoluzione non è più fondato sulla sua capacità di redimere tutto ciò che è stato escluso; è ormai il diritto di una nuova forza che si esercita attraverso altri atti di esclusione. Le difficoltà che gli interpreti incontrano nel leggere in modo concorde questo breve scritto di Benjamin rispecchiano probabilmente, in un caso emblematico, problemi che riguardano la dialettica nel suo insieme. Più specificamente, si può dire che tali problemi presenti in tutto il pensiero dialettico novecentesco di impianto materialistico si rispecchiano nel vero e proprio pathos micrologico che percorre le Tesi benjaminiane. L'angelo del quadro di Klee, di cui Benjamin parla nella tesi 9, è mosso da una grande pietà per le rovine che la storia accumula ai suoi piedi, per tutto ciò che poteva essere e non è stato o non è più, che non ha prodotto vere Wirkungen, effetti storici. E ciò, sembra, non perché questi relitti si rivelino preziosi in vista di qualche costruzione, ma anzitutto perché sono pure tracce di qualcosa che ha vissuto. È dal punto di vista del diritto elementare del vivente che, con Adorno, si deve dire che l'intero è il falso. Il pathos micrologico di Benjamin, che si risente in molte pagine di Adorno, è il modo più significativo e urgente in cui oggi si presenta la crisi del pensiero dialettico (ma non dimentichiamo che già Kierkegaard aveva fondato il proprio antihegelismo sulla rivendicazione del singolo). L'importanza e il fascino di pensatori come Benjamin, Adorno, Bloch non consiste tanto nell'aver ripensato la dialettica incorporando in 16

essa le esigenze critiche della micrologia; ma nell'aver fatto valere queste esigenze anche a scapito della dialettica e della stessa coerenza e unità del .proprio pensiero. Essi non sono pensatori della dialettica, ma della sua dissoluzione. Si propone qui, attraverso grossi riferimenti "emblematici" a Sartre e a Benjamin, uno schema assai semplice: il pensiero dialettico novecentesco, avendo recepito le ragioni del rovesciamento marxiano dell'idealismo, si presenta come pensiero della totalità e pensiero della riappropriazione, rivendicando come materialismo il riscatto di ciò che la cultura dei dominatori ha escluso. Ma "la parte maledetta", ciò che è stato escluso dalla cultura dei dominatori, non si lascia tanto facilmente ricomprendere in una totalizzazione: gli esclusi hanno fatto esperienza del fatto che la stessa nozione di totalità è una nozione signorile, dei dominatori. Di qui, nel rovesciamento materialistico della dialettica hegeliana, una permanente tendenza che si può chiamare "dissolutiva", che ha la sua peculiare espressione nella dialettica negativa di Adorno, nella mistura di materialismo e teologia di Benjamin, nell'utopismo di Bloch. Su questa tendenza dissolutiva e sulle questioni che essa riflette e apre si inserisce il pensiero della differenza. (Si inserisce vuol dire: un itinerario di pensiero che, senza negare la propria caratteristica personale, si sforzi di farsi guidare dalla "cosa stessa", incontra proprio in relazione a questo problema della tendenza micrologico-dissolutiva della dialettica le tematiche della differenza.) Non si tratta di un "inserimento" casuale: numerosi fili legano, anche sul piano della storia effettiva, i marxisti critici come Benjamin, Adorno, Bloch, e il giovane Lukacs, per non parlare di Sartre, all'esistenzialismo da cui anche il pensiero della differenza proviene. Quest'ultimo, nella sua forma più radicale, ha la sua espressione in Heidegger. La tesi che si propone deve dunque essere completata cosl: nello sviluppo del pensiero dialettico novecentesco, si fa luce una tendenza dissolutiva che lo schema dialettico non riesce più a controllare; questa tendenza è visibile nella micrologia benjaminiana, nella "negatività" adorniana, e nell'utopismo di Bloch. Il significato di questa tendenza consiste nel mettere in luce che l'approccio dialettico al problema dell'alienazione e della riappropriazione è ancora profondamente complice dell'alienazione che dovrebbe combattere: l'idea di totalità e quella di riappropriazione, capisaldi di ogni pensiero dialet17

tico, sono ancora nozioni metafisiche non criticate. Al venire in chiaro di questa consapevolezza contribuisce in modo· determinante Nietzsche, con la sua analisi della soggettività metafisica in termini di dominio, e con l'annuncio che Dio è morto, e cioè che le strutture forti della metafisica - archai, Grunde, evidenze prime e destini ultimi - erano solo forme di rassicurazione del pensiero in epoche in cui la tecnica e l' organizzazione sociale non ci avevano ancora resi capaci, come accade ora, di vivere in un orizzonte più aperto, meno "magicamente" garantito. I concetti reggenti della metafisica - come l'idea di una totalità del mondo, di un senso unitario della storia, di un soggetto autocentrato capace eventualmente di appropriarsene - si rivelano come mezzi di disciplinamento e rassicurazione non più necessari nel quadro delle attuali capacità di disposizione della tecnica. Anche la scoperta della superfluità della metafisica (in termini marcusiani, della repressione addizionale) restere_bbe tuttavia esposta al rischio. di risolversi in una nuova metafisica ( per esempio: umanistica, naturalistica, vitalistica), se si limitasse a sostituire un essere "vero" a quello svelato falso dalla critica - sia essa di Nietzsche o di Marcuse. A questo rischio, a cui soggiace in definitiva il pensiero dialettico, utopico. o negativo che sia, si sfugge solo se si associa alla critica della metafisica come ideologia legata all'insicurezza e al dominio che da essa deriva la radicale ripresa del problema dell'essere iniziata da Heidegger. In .apparenza, e più che in apparenza, ma comunque in prima approssimazione, il problema che Heidegger pone in Sein und Zeit è analogo a quello posto dalla critica dell'ideologia: non possiamo prender come ovvia la nozione di ente, giacché la sua ovvietà è già il risultato di una serie di "posizioni '1, di accadimenti, o - dice Heidegger - di aperture storico-culturali ( e, in senso heideggeriano, destinali) che, esse anzitutto (prima della ovvietà-obiettiva dell'ente), costituiscono il senso dell'essere. Sembra dunque che, anche per Heidegger come per i critici dell'ideologia, si tratti di riappropriarsi delle condizioni di possibilità, di ciò che sta alle spalle dell'ovvio-obiettivo e lo determina come tale. Ma l'elaborazione di questo problema conduce fin dall'inizio Heidegger a scoprire altro: non una struttura trascendentale di tipo kantiano ( o husserliano) né una totalità dialettica hegelo-marxiana 18

da cui il senso degli enti sia determinato; bensl l'insostenibilità (prima nella "cosa stessa" che nella nostra teoria) di uno dei tratti che da sempre la tradizione metafisica ha assegnato all'essere, cioè la stabilità nella presenza, l'eternità, l'" entità" o ousia. È la stabilità dell'essere nella presenza che si rivela anzitutto, fin da Sein und Zeit, come il frutto di una "confusione", di una "dimenticanza" perché deriva dal modellare l'essere sugli enti, come se fosse solo il carattere più generale di tutto ciò che si dà nella presenza. Aprire il discorso sulla differenza dell'essere dagli enti, quella che si chiama la. differenza ontologica, conduce alla fine molto più lontano di quanto Heidegger stesso si aspettasse. Questa differenza significa infatti anzituùo che l'essere non è; che siano, si può dire degli enti; l'essere, piuttosto, accade. Noi diciamo essere distinguendolo veramente dagli enti solo quando pensiamo come l'essere l'accadere storico-culturale, l'istituirsi e il trasformarsi, degli orizzonti entro cui di volta in volta gli enti divengono accessibili all'uomo e l'uomo a se stesso. Non è ontos on il dato sensibile nella sua immediatezza, certo; ma nemmeno il trascendentale, come voleva il neokantismo diffuso nella filosofia con cui Heidegger si misurava. L'analisi dell'Esserci, della sua gettatezza, del suo carattere sempre di volta in volta emotivamente situato e qualificato, conduce Heidegger a temporalizzare radicalmente l'a priori. Ciò che possiamo dire dell'essere è solo, a questo punto, che esso è tras-missione, invio: Ueber-lieferung e Geschick. Il mondo si esperisce in orizzonti che sono costruiti da una serie di echi, di risonanze di linguaggio, di messaggi provenienti dal passato, da altri (gli altri accanto a noi come le altre culture). L'a priori che rende possibile la nostra esperienza del mondo è Ge-schick, destino-invio, o Ueberlieferung, trasmissione. L'essere vero non è ma si invia (si mette in strada e si manda), si tras-mette. La differenza fra essere ed enti è anche, forse principalmente; il tratto peculiare di differimento che caratterizza l'essere ( e la sua stessa problematica stessità: pensiamo a Identitat und Differenz). Di questo differimento è intessuto anche il rapporto tra essere e linguaggio, che per Heidegger diventa decisivo a partire dagli anni trenta, e che lo accomuna, ma ancora una volta su un piano di maggior radicalità, con altri orientamenti filosofici novecenteschi ( per i quali Apel, come si sa, ha parlato di "trasformazione se19

m1ot1ca del kantismo "4 ). Quel che c'è di più radicale in Heidegger è che la scoperta del carattere linguistico dell'accadere dell'essere si riverbera sulla concezione dell'essere stesso, che risulta spogliato dei tratti forti attribuitigli dalla tradizione metafisica. L'essere che può accadere non ha i tratti dell'essere metafisico con la sola aggiunta della "eventualità"; si configura, si dà a pensare, con tratti radicalmente diversi. Dal punto di vista del pensiero della differenza, come appaiono le difficoltà e le tendenze dissolutive del pensiero dialettico? Il pensiero della differenza si può concepire come l'erede e il radicalizzatore delle tendenze dissolutive della dialettica: non si tratta, qui, di risolvere i problemi della dialettica con una "assunzione della teologia al servizio del materialismo storico", come voleva Benjamin, spostando in un futuro utopico la riconciliazione, la riappropriazione e la ricomposizione della totalità (come pensano, per vie diverse, Bloch e Adorno); si tratta piuttosto di sviluppare alla lettera la suggestione (forse puramente verbale) di Sartre, secondo la quale il senso della storia ( ossia, si può pensare, il senso del1'essere) sarà patrimonio di tutti quando ·si ·sarà dissolto in loro. Non c'è riappropriazione possibile senza liberazione dell'essere dal carattere della stabilità-presenzialità, dalla ousia. Ma una riappropriazione che non abbia più da fare con l'essere come stabilità che cos'è ancora? L'indebolimento del (della nozione di) essere, il darsi esplicito della sua essenza temporale (anche e soprattutto: effimerità, nascita-morte, tras-missione sbiadita, accumulo antiquariale) si ripercuote profondamente sul modo di concepire il pensiero e l'Esserci che ne è "soggetto". Il pensiero debole vorrebbe articolare queste ripercussioni, e così preparare una nuova ontologia. Questa nuova ontologia si costruisce non solo svolgendo il discorso della differenza, ma anche rammemorando la dialettica. Il rapporto dialettica-differenza non è a senso unico: non c'è solo un abbandono delle illusioni della dialettica per il pensiero della differenza. È probabile che la Verwindung, la declinazione della differenza in pensiero debole, si possa pensare soltanto se si assume anche l'eredità della dialettica. Ciò, anzitutto, si esplica prendendo alla lettera la suggestione di Sartre nella Question de méthode a cui si accennava: deve ve4 Cfr. K. O. Apel, Comunità e comunicazione, 1973; trad. it. di G. Carchia, Rosenberg e Sellier, Torino 1977. Su Apel si veda anche il saggio Esiti dell'ermeneutica, compreso nel mio Al di là del soggetto, cit.

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nire "il momento in cui la storia non avrà che un solo senso, e in cui tenderà a dissolversi negli uomini concreti che la faranno in comune" .5 Sartre non accentua certo esplicitamente il senso "dissolutivo" della tesi; ma nemmeno lo esclude, e forse il suo pensiero dopo la Ragione dialettica, soprattutto sul piano etico, dà ragione alla interpretazione che qui si propone. Forse anche l'estetizzazione della dialettica pensata da Marcuse ha questo significato dissolutivo, nel quale la riappropriazione può finalmente accadere senza che il servo si faccia padrone, ereditando f armamentario delle categorie forti della metafisica. L'eredità dialettica assumendo la quale il pensiero della differenza si declina ( verwindet) in pensiero debole è condensata nella nozione di Verwindung. A giusta ragione, giacché, come si sa, Verwindung è il termine che Heidegger adotta 6 al posto della Ueberwindung, del superamento caratteristico della dialettica. Non solo la Verwindung, la declinazione-distorcimento, e il rimettersi ( rimettersi da, rimettersi a, rimettersi nel senso di inviarsi) è l'atteggiamento che caratterizza il pensiero ultrametafisico nei confronti della tradizione trasmessa dalla metafisica - dunque, anzitutto, dell'ultima grande tesi metafisica, quella della dialettica hegelo-marxiana -, ma anche: proprio nella nozione e nella "pratica" della Verwindung come si dà in Heidegger si concentra l'eredità della dialettica ( e quindi del]a metafisica) che vive ancora nel pensiero della differenza. L'oltrepassamento heideggeriano della metafisica ha l'apparenza di un superamento dialettico e invece si pensa come diverso proprio in quanto Verwindung; ma in quanto tale, prosegue anche qualcosa che è proprio della dialettica. Questo rapporto di superamento-distorsione è del resto già esemplificato nell'annuncio nietzschiano della morte di Dio. Questo annuncio non è l'enunciazione metafisica della nonesistenza di Dio; vuole essere la vera presa d'atto di un "evento", giacché la morte di Dio è proprio, prima di tutto, la fine della struttura stabile dell'essere, dunque anche di ogni possibilità di enunciare che Dio esiste o non esiste. Che cos'è però, allora? Tesi non metafisica ma storicistica, che prendendo atto che Dio è morto anche carica questo evento di cogenza, valore, necessità "logica", nel senso del "tutto ciò che è reale è razio5

Cfr. Critica della ra_~ione dialettica, trad. cit., val. I, p. 77. Cfr. M. Heidegger, Saggi e discorsi, 1954; trad. it. di G.. Vattimo, Mursia, Milano 1976, p. 45. 6

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nale"? Si può predicare il nichilismo come la verità da riconoscere? La nozione heideggeriana della Verwindung è Io sforzo più radicale di pensare l'essere in termini di una "presa d'atto" che è anche sempre una "presa di congedo", perché né Io incontra come struttura stabile, né lo registra e accetta come necessità logica di un processo. Verwindung è il modo in cui il pensiero pensa la verità dell'essere inteso come Ueberlieferung e. Ge-schick. In questo senso, essa è sinonimo di An-denken~ l'altro e più usuale termine con cui Heidegger, nelle sue opere tarde, designa il pensiero ultrametafìsico, il pensiero che rammemora l'essere: ma che, per l'appunto, non lo fa mai presente, bensl sempre lo ricorda come già "andato" (bisogna "lasciar andare l'essere come fondamento" dice la conferenza Zeit und Sein 7 ). All'essere non si accede nella presenza, ma solo nel ricordo, perché ( o semplicemente: e ciò significa che) esso non si definisce mai come ciò che sta, ma solo come ciò che si tramanda: l'essere è invio, destinamento. II che significa però anche che, in qualche modo, il pensiero ultrametafìsico non può che lavorare con le nozioni della metafisica, declinandole, distorcendole, rimettendosi a esse, da esse, inviandosele come proprio patrimonio. Il lavoro di Heidegger dopo la svolta degli anni trenta è un colossale sforzo di ripensamento, rammemorazione e declinazione della tradizione metafisica. Poiché non disponiamo di un accesso precategoriale o transcategoriale all'essere, che smentisca e esautori le categorie oggettivanti dalla metafisica, non possiamo far altro che prendere queste categorie per "buone", almeno nel senso che non abbiamo che quelle; ma ciò senza alcuna nostalgia per altre categorie, che potrebbero essere più adeguate e appropriate all'essere com'è (poiché l'essere non è affatto). La Verwindung consiste però nel togliere a queste categorie precisamente quello che le costituiva come metafisiche: la pretesa di accedere a un ontos on. Tolta questa pretesa, esse "valgono" ormai solo come monumenti, eredità a cui si porta la pietas che è dovuta alle tracce di ciò che ha vissuto. Pietas è forse un altro termine che, insieme ad An-denken e a Verwindung, può essere assunto a caratterizzare il pensiero debole dell 'ul trame tafi sica. Pietas è un termine che evoca anzitutto la mortalità, la 0



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Cfr. M. Heidegger Zur Sache des Denkens, Niemeyer, Tiibingen 1969, 5-6; trad it.: Tempo ~d essere, a cura di E. Mazzarella, Guida, Napoli 1980.

finitezza e la caducità: che cosa significa, radicalmente, pensare l'essere sotto il segno della caducità e della mortalità? Il "programma" di un'ontologia debole ritiene che una simile trasformazione nel modo di pensare i tratti fondamentali (ossia, solamente, caratteristici, descrittivi) dell'essere abbia importanti conseguenze, delle quali il pensiero ha solo cominciato a prender atto: sono gli sconvolgimenti che sostanziano l'annuncio della morte di Dio, e che secondo Nietzsche. sono destinati a riempire i prossimi secoli della nostra storia. Il

trascendentale) quello che rende possibile ogni esperienza del mondo, è la caducità: l'essere non è ma ac-cade; forse anche nel senso che cade-presso, che accompagna in quanto caducità ogni nostra rappresentazione. Ciò che costituisce l'oggettità degli oggetti non è il loro star di fronte stabilmente resistendoci (gegen-stand), ma il loro ac-cadere, cioè il loro consistere solo in virtù di una apertura che è costituita come tale - come nell'analisi esistenziale di Sein und Zeit - dall'anticipazione decisa della morte. L'accadere - l'Er-eignis nei molteplici sensi che Heidegger assegna al termine - è quello che lascia sussistere i tratti metafisici dell'essere pervertendoli mediante l'esplicitazione della loro costitutiva caducità e mortalità. Ricordare l'essere vuol dire ricordare questa caducità; il pensiero della verità non è il pensiero che "fonda", come pensa la metafisica, anche nella sua versione kantiana; bensl quello che, esibendo la caducità e la mortalità proprio come ciò che fa l'essere, opera uno sfondamento. Sia il contenuto - i tratti dell'essere metafisico ripensati e sfondati - sia la forma del pensiero della Verwindung una legittimazione che non si appella alla struttura dell'essere e nemmeno a una legge logica della storia, ma a una "presa d'atto", dunque in qualche senso ancora storicistica - sono modi in cui il pensiero debole assume e prosegue l'eredità della dialettica coniugandola con la differenza. Se però è cosl, sembra che il pensiero che si sforza di pensare l'essere in questi termini sia debole anche d'un'altra debolezza: la mancanza di un autentico progetto proprio, il puro ripercorrimento parassitario di ciò che è già stato pensato, con un proposito sostanzialmente edificante ed estetico: il rivi vere il passato come passato unicamente allo scopo di goderne in una sorta di degustazione antiquariale. Molto pensiero attuale della decostruzione può essere accomunato in questa accusa; la quale, naturalmente, è tanto più convin23

cente quanto più si suppone come ovvio che il compito del pensiero sia un altro, il compito di una costruzione, di una funzionalità storica ( e poli tic a) su cui è lecito nutrire molti dubbi, almeno per quanto riguarda specificamente la filosofia. Alla base di questa debolezza del pensiero nei confronti dell'esistente, per cui pensare significherebbe solo prender atto degustativamente delle forme spirituali tramandate, sembra esserci l'offuscamento della nozione di verità. La connessione del pensiero debole con l'ermeneutica, del resto, sembra attestare la fondatezza di questi sospetti. Se tessere non è ma si tramanda, il pensiero dell'essere non sarà altro che ri-pensamento di ciò che è stato detto e pensato; tale ripensamento, che è il pensare autentico (giacché non è pensiero il misurare della scienza o l'organizzare della tecnica), non può procedere con una logica della verificazione e del rigore dimostrativo, ma solo mediante il vecchio strumento eminentemente este• tico dell'intuizione. L'intuizione, però, non è un'invenzione del pensiero debole; essa, anzi, è strettamente legata a una concezione metafisica dell'evidenza, della portata di verità della illuminazione interiore, del coglimento dei primi principi. Oggetto supremo di nous, di intelligenza intuitiva, sono appunto i principi primi. Che razza di culto dell'intuizione può avere un pensiero che, sulle tracce di Heidegger, pensa l'essere come ciò che non può mai darsi nella presenza, ma è sempre solo oggetto di rammemorazione? Occorre rileggere alla luce di aspettative "deboli" lo scritto di Heidegger su L) essenza della verità. Dei due significati del vero che esso individua - il vero come conformità della proposizione alla cosa e il vero come libertà, cioè come apertura degli orizzonti entro cui ogni conformità diventa possibile - è certo giusto privilegiare quest'ultimo. Tuttavia, non nel senso metafisico di un accesso all'originario che svaluti ogni procedura di verifica dei singoli "veri" che si danno come conformi e verificabili. È altrettanto giusto - e le letture recenti di Heidegger lo fanno sempre più di frequente - aspettarsi che la messa in luce di questi due signi• fica ti di verità liberi finalmente i singoli veri ( verificati, conformi ecc.) nella loro essenza di risultati della messa in atto di procedure; procedure che, lungi dall'essere svalutate in nome di un accesso più originario all'essere, vengono final• mente riconosciute come le uniche vie disponibili per una esperienza della verità. La libertà che lo scritto di Heidegger 24

indica come l'essenza della verità è probabilmente anche, o forse esclusivamente, la libertà nel senso letterale della parola, quella che viviamo ed esercitiamo come individui viventi in una società. Il richiamo alla libertà funge allora, qui, come pura e semplice de-stituzione delle pretese "realistiche" del criterio della conformità; cioè come un altro modo di formulare la dottrina dei giochi linguistici di Wittgenstein: il veroconf orme (verificato secondo le regole dei singoli giochi) è collocato entro l'orizzonte aperto del dialogo tra individui, gruppi, epoche. Ciò che apre l'orizzonte della verità, l'ambito in cui verifiche e falsificazioni di proposizioni divengono possibili, è la Ueber-lieferung, il Ge-schick. In tal modo, però, il rispetto per le procedure attraverso cui il vero si raggiunge e si consolida nei vari linguaggi della ragione, e per la natura procedurale del vero stesso, non è imposto in nome di una qualche fondatezza ontologica di questi linguaggi (fosse pure soltanto l'utilità "vitale" di questa o quella procedura, in una versione banalizzata del pragmatismo), né in nome della possibilità di riportare tali procedure a una struttura normativa di base (come nel caso del "kantismo semiotico" di Apel), ma solo in virtù di una pietas nei confronti di ciò che abbiamo ricevuto in eredità. Le regole dei giochi linguistici non si impongono né in nome di una loro dimostrata funzionalità ( fosse anche solo la funzione di assicurarci quel bene che è la convivenza ordinata con gli altri, o l'organizzazione del lavoro sociale per difenderci dalla natura ostile) né in nome di una loro fondabilità in una qualche meta-regola di tipo trascendentale, che sia il "funzionamento naturale" della ragione, ma solo in nome di quell'irriducibile sentimento di rispetto per i monumenti, che ci parlano insieme di caducità e di durata nella tras-missione. Questo sentimento non è poi "uno"; come il bello che individui, gruppi, società ed epoche riconoscono come tale riconoscendosi in esso ( dunque, costituendosi come gruppi) è di volta in volta diverso, cosl le pietates sono storicamente differenti, e il loro possibile allargarsi ad altri contenuti e ad altre tradizioni, in cui consiste poi il divenire della verità, si produce solo in base a concrete operazioni persuasive: è di questo che si occupa l'ermeneutica che, in Heidegger, è diventata sinonimo stesso di filosofia. Se si vuole riassumere che cosa pensa un'ontologia debole della nozione di verità si potrà cominciare col dire che: a) il vero non è oggetto di una prensione noetica del tipo del25

l'~videnza, ma risultato di un processo di verifì.ca, che lo produce nel rispetto di certe procedure già sempre di volta in volta date (il progetto di mondo che ci costituisce in quanto esserci); esso, in altri termini, non ha una natura metafisica o logica, ma retorica; b) verifiche e stipulazioni accadono in un orizzonte reggente, l'apertura di cui parla Vom W esen der W ahrheit, che è lo spazio della libertà dei rapporti interpersonali, dei rapporti tra le culture e le generazioni; in questo spazio, nessuno muove mai da zero, ma sempre già da fedeltà, appartenenze, legami. L'orizzonte retorico della verità ( o possiamo anche dire: ermeneutico) si costituisce in questo modo libero ma "impuro", in analogia a quel senso comune di cui Kant parla nella Critica del giudizio. I legami, i rispetti, le appartenenze sono la sostanza della pietas: questa delinea, insieme a una logica-retorica della verità "debole", anche le basi di una possibile etica, nella quale i valori supremi - quelli che fungono da beni in sé, non in vista di altro - sono le formazioni simboliche, i monumenti, le tracce del vivente ( tutto ciò che si offre e stimola l'interpretazione; un'etica dei "beni", prima che un'etica di "imperativi"); c) la verità è frutto di interpretazione non perché attraverso il processo interpretativo si giunga a un coglimento diretto del vero (per esempio, là dove interpretazione è intesa come decifrazione, smascheramento ecc.); ma perché è solo nel processo interpretativo, inteso anzitutto in ·riferimento al senso aristotelico di hermeneia, espressione, formulazione, che la verità si costituisce; d) in tutto ciò, nella concezione "retorica,, della verità, l'essere esperisce l'estremo del suo tramonto ( secondo la visione heideggeriana dell'Occidente come terra del tramonto dell'essere), vive fìno in fondo la sua debolezza; come nell'ontologia ermeneutica heideggeriana, esso diventa ormai soltanto U eber-lieferung, tras-missione, dissolvendosi anche nelle procedure, nella " retorica". Non c'è dubbio che, ripensati cosl i tratti dell'essere e della verità in termini deboli, il pensiero - nel senso di pensiero filosofìco, pensiero dell'essere - non potrà più rivendicare la posizione di sovranità che la metafisica gli ha attribuito - per lo più con un inganno ideologico - nei confronti della politica e della prassi sociale. Un pensiero debole, che è tale anzitutto e principalmente a causa dei suoi contenuti ontologici, del suo modo di concepire l'essere e la verità, è anche un pensiero che, di conseguenza, non ha più ragioni per ri-

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vendicare la sovranità che rivendicava il pensiero metafisico nei confronti della prassi. Ciò però indicherà una debolezza anche nel senso della accettazione dell'esistente e dei suoi ordini dati, e dunque una incapacità di· critica sia teorica Bia pratica? Detto in altri termini: parlare di debolezza del pensiero significa anche teorizzare una diminuita forza progettuale del pensiero stesso? Non nascondiamoci che il problema esiste, anche se quel che conta non è, anzitutto, porre su basi nuove il rapporto tra pensiero e mondo, ma riproporre il problema del senso dell'essere; da un ripensamento- ultrametafisico di tale senso, con tutto ciò che esso comporta sul piano delle ·nostre grammatiche concettuali, può anche nascere una nuova "disposizione" del rapporto tra filosofia e società, di cui per ora sappiamo poco. Quanto alla progettualità, però, che del resto nell'esperienza post-moderna, sia nelle arti sia nell'esistenza sociale, sembra perdere molta dell'enfasi che la mentalità metafisica le attribuiva, il pensiero della Verwindung non vi rinuncia affatto. Il ripensamento an-denkend della metafisica e del suo mondo, dunque anche delle strutture di dominio e di disciplinamento sociale che vi corrispondevano, è un progetto che può giustificare un impegno; la stessa de-costruzione di origine derridiana non è affatto una pura e semplice forma di degustazione estetica come talvolta appare ( ed è, in certe sua manifestazioni). Una ontologia debole, che pensa l'essere come tras-missione e monumento, tende evidentemente a privilegiare il canone sulle eccezioni, il patrimonio costituito e tramandato sulle illuminazioni profetiche. Ma il patrimonio tramandato non è un insieme unitario, è piuttosto un gioco fittissimo di interferenze; la possibilità del nuovo, e dunque anche del mutare dei "paradigmi", se vogliamo dirla con Kuhn, se non può venire da un mitico incontro con l'esterno - il precategoriale, la "natura", le cose come sono - sussiste però in quanto il Gc-schick non è solo il tramandamento di Wirkungen, di effetti che si sono dispiega ti e sono presenti come costitutivi del nostro progetto di mondo, ma anche di tracce, di elementi che non sono diventati mondo: le rovine accumulate dalla storia dei vincitori ai piedi dell'angelo di Klee; è la pietà per queste rovine l'unico vero movente della rivoluzione, più che ogni progetto altrimenti legittimato in nome 27

di qualche diritto naturale o di qualche corso necessario della storia. Identificare il nuovo con l'altro come altra cultura - sia esso la cultura di civiltà diverse, o di differenti giochi linguistici, o anche mondo virtuale contenuto nelle tracce della nostra tradizione che non sono mai divenute dominanti - tutto ciò significa esperire la differenza dell'essere non tanto come suo darsi in un luogo diverso, in un fondo originario, dunque ancora come un ente; bensl vederla come interferenza,8 sotto-voce, Gering 9; accompagnare l'essere al suo tramonto e pr'eparare cosi una umanità ultrametafìsica.

8 Mi permetto di rimandare qui il mio saggio Difference and Interference: on the Reduction of Hermeneutics to Anthropology, in "Res" (Harvard), n. 4, autunno 1982. 9 Cfr. Saggi e discorsi, trad. cit., p. 121-22.

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Trasformazioni nel corso dell'esperienza DI PIER ALDO ROV ATTI

l. Nietzsche) un preambolo L'uomo, ha detto una volta Nietzsche, rotola via dal centro verso la x. Si allontana dal proprio luogo certo, verso un luogo incerto, un'incognita. Possiamo tentare di indicare, descrivere, raccontare questa incognita? Forse, però, più che di raccontare un luogo non abituale, si tratta di intendere cosa significhi quel "rotolare''. L'uomo che rotola via è l'uomo del completo disincanto, dell'ironia negativa, l'"ultimo uomo" che ormai ha imparato a incassare tutto, che sa con un gesto degli occhi accettare ironicamente ogni nichilismoì Oppure c'è un oltre? E questo oltre è la dispersione di tutto quanto abbiamo pensato con la nozione di soggetto? Puro gioco di interazioni, convenzioni, combinatoria di simulacri senza referente? Oppure è ipotizzabile una "logica" del decentramento del soggetto che riesca a descrivere, nel medesimo tempo, che cosa accade all'uomo quando si allontana dal suo centro e quale è il terreno, che innanzitutto occorre riconoscere, sul quale un nuovo "senso" può prodursi? Intanto: che altro è la perdita del centro se non la dichiarazione, la sanzione che il pensiero "forte" è ormai insostenibile? La situazione tipica del pensiero "forte" è infatti quella in cui pensante e pensato, chi pensa e cosa si pensa sono solidali: si tengono in una stretta, in una corrispondenza speculare. La situazione che Nietzsche vede è caratterizzata, invece, 29

dalla possibilità del perdersi: l'uomo è giunto dinanzi a un limite, un passo oltre e potrà sprofondare, perdersi completamente. Il luogo in cui il senso potrà riattivarsi è avvistabile solo di qui, drammaticamente. È un luogo impossibile? Molti motivi avremmo per dichiarare invalicabile questo limite: per elaborare una logica della rinuncia che ci permetta di vivere senza valori. L"' ultimo uomo,, è l'uomo del compromesso che ha imparato a convivere con il nulla. Il passo in più è un avventurarsi difficile: la soglia cela un'altra soglia, e sempre ci ritroveremo dinanzi a essa mentre ci saremo incamminati per una via tortuosa, accidentata, lunghissima e faticosa. L'immagine del cammino è metaforica (ma la metafora non è forse sempre un viaggio?). Essa indica uno stato d'animo, un nostro atteggiamento, un modo di vita. In Umano troppo umano leggiamo di un "impavido spaziare al di sopra degli uomini, dei costumi, delle leggi e delle originarie valutazioni delle cose". Un libero spaziare? Nietzsche riprenderà e correggerà continuamente questa idea di "leggerezza" e di "libertà": l'abisso trascina in basso e la spirale della necessità continua ad annodarsi. Non è possibile librarsi in volo e liberamente spaziare come un uccello nell'aria: forse l'unica alternativa è imparare a strisciare imitando il serpente, poiché solo aderendo alla terra avremo una possibilità di sollevarci sopra di essa. In conclusione di un suo notissimo frammento postumo (giugno 1887) Nietzsche tenta di suggerire un'immagine del1"' oltreuomo" e si chiede: "Quali uomini si riveleranno allora i più forti?" E risponde: "I più moderati, quelli che non hanno bisogno di principi di fede estrema, quelli che non solo ammettono, ma anche amano una buona parte di caso, di assurdità, quelli che sanno pensare, riguardo all'uomo, con una notevole riduzione del suo valore senza diventare perciò piccoli e deboli: i più ricchi di salute, quelli che sono all'altezza della maggior parte delle disgrazie - gli uomini che sono sicuri della loro potenza e che rappresentano con consapevole orgoglio la forza raggiunta dall'uomo" (Opere, voi. VIII, I, p. 206). Inoltre, in un frammento intitolato "Visione complessiva", possiamo leggere: "Il carattere ambiguo del nostro mondo moderno - gli stessi sintomi potrebbero significare decadenza e forza. E i contrassegni della forza, della raggiunta maturità, 30

potrebbero, in base alla valutazione tradizionale (arretrata) del sentimento, venir fraintesi come debolezza. Insomma il sentimento, come sentimento del valore, non è alt' altezza dei tempi. In termini generali: il sentimento del vdore è sempre arretrato" (Opere, vol. VIII, II, pp. 118-119). Ecco due passi molto problematici. L'idea di "forza", che regge gran parte del pensiero dell'ultimo Nietzsche, e l'idea correlata di "debolezza" non sopportano l'identificazione di senso che lo stesso Nietzsche vorrebbe conferire loro. Nietzsche è di fronte alla difficoltà di caratterizzare il forte e il debole secondo un inadeguato "sentimento" di forza e debolezza che pure non può fare a meno di usare. Un sentimento "arretrato". Quando diciamo forza e debolezza, l'immagine che subito nella nostra mente si collega a questa coppia, che fa parte di quel sentimento del valore che è pesantemente radicato in noi, ci mette fuori strada. I più forti saranno i più moderati, senza però diventare deboli. Sono qui all'opera perlomeno due nozioni di forza e altrettante di debolezza. Nietzsche oscilla tra esse cercando con fatica di individuare un nuovo ambito semantico. Credo che, al fondo, si possa scorgere l'affermazione che Nietzsche fa anche in altri luoghi: l'uomo è ormai abbastanza forte per apparire debole. Un paradosso? In ogni caso per Nietzsche ciò ha un significato profondo: lo " spaziare" ( o lo " starsene fuori") non può equivalere a una realizzazione compiuta e positiva collegata all'acqui,sizione storica di una forza, al compimento di un percorso umano, fino al punto in cui il "portar pesi" si trasforma in un "esser potenti''. Non è una simile dialettica che ci indica lo scarto. Vi è un cammino difficile dentro il nichilismo, in cui l'uomo acquisisce la capacità di abbandonare le proprie catene. Nietzsche suggerisce che non si tratta di un indietreggiare, bensì di realizzare una potenzialità grazie alla forza che deriva proprio dall'abitare storicamente il nichilismo. Nietzsche, però, sa anche che questa forza è una capacità autodistruttiva, un rischio abissale che l'uomo avvicina a sé. Il pathos di questo lato tragico è, esso stesso, in primo piano sulla scena: l'immagine è quella di una situazione di equilibrio instabile su una piccola superficie d'appoggio, uno stare in bilico che può produrre egualmente lo sviluppo della massima potenzialità e il definitivo sprofondamento. Non è più una dialettica, ma un cammino che si biforca senza soluzione. Le due possibilità 31

stanno insieme: questo bilico è, secondo Nietzsche, la situazione dell'uomo contemporaneo. Come può una simile precarietà essere la massima forza? Siamo lontani dai ripiegamenti di molta cultura del dopo-crisi: questo uomo non è segnato dalla perdita e dalla sottrazione, non è l'uomo del meno peggio, abbassandosi non si indebolisce. Qui l'ipotesi di un "pensiero debole" ha a che fare con la trasformazione di una forza acquisita ( e Nietzsche allude, spesso, proprio a una forza materiale), una forza che è, al tempo stesso, affermazione e autonegazione. Pensiamo all'eterno ritorno nelle pagine dello Zarathustra: alla doppia necessità che lo costituisce. Vi è una necessità che appesantisce, una forza che grava, il tornare pesante delle cose, un circolo che incatena così come ci bloccano i valori superiori, le categorie "vere" della filosofia, il fine ultimo, l'unità delle cose, il loro essere. Ma il movimento che ci incatena è duplicato da un movimento che allenta. Cosa è l'eterno ritorno se non una "diversa" necessità? Lo "spaziare" di Umano troppo umano non è più adesso uno stare fuori, ma uno stare dentro, un calarsi. Non è più un accontentarsi, un tenere a distanza, ma un attraversare la pesantezza, un faccia a faccia con la necessità. Al contrario. Se la si allontana, la necessità appare pesante, ferrea. Se la si lavora all'interno, allora il nulla che siamo non è più cosl terribile. La ruota del destino seguita a girare: possiamo guardarla da fuori o saltarci dentro. Possiamo arrenderci all'orrida casualità o scoprire il gioco del caso: è una scelta. Se avremo la forza per farla, scopriremo l'affermatività della debolezza. Il gioco del caso, come il gioco del fanciullo in riva al mare, è una fluttuazione, un lasciarsi prendere. Ma non è un dipendere, un essere passivi, pazienti: la necessità ha perso il suo ringhio. Caso e necessità si coniugano in due modi che sono due stili di vita. Orrida casualità e necessità che appesantisce. Necessità che alleggerisce e gioco del caso. Forza e debolezza si intrecciano e cambiano di senso. Siamo arretrati per capire: ci fermiamo all'ambiguità. L'arretratezza del nostro sentire, nel frammento postumo citato, rimanda al carattere di enigma dell'eterno ritorno. La spiegazione spinta al suo limite, fino al paradosso, sconfina nel mistero. Il riso di Zarathustra è misterioso: né di gioia, né di dolore, forse di stupefazione. Come può esistere una necessità de32

bole? Come possiamo accettare, trasformandolo, il destino? Cosa è questa forza che ci permette di essere deboli, e questa nuova debolezza che sembra la forza più grande? L'esitazione di Nietzsche di fronte a uno dei passaggi capitali della sua riflessione vale forse di più, per noi, di quanto possono contare i suoi atti di certezza e di risoluzione. Questo sentirsi arretrato potrebbe essere il punto del suo massimo avanzamento in un territorio che, prima ancora di essere esplorato, va disegnato sulla carta. Una zona dell'esperienza è avvistata da Nietzsche: lì non valgono più le misure abituali, le categorie normali. C'è un enigma da sciogliere: e non riguarda - come si potrebbe credere - un'esperienza eccezionale. Non c'è bisogno di salire in cima al monte o di scendere nel fondo dell'abisso. L'esperienza è la nostra, quella di ogni giorno. 2. Locale o globale. Peter Handke e Michel Serres C'è una poesia di Peter Handke che si intitola Trasformazioni nel corso della giornata ( Il mondo interno del!' esterno delfinterno, trad. it. di B. Bianchi, Feltrinelli, Milano 1980, pp. 52-54 ). Inizia così: "Fintantoché sono ancora solo, sono ancora io solo. / Fintantoché sono ancora fra conoscenti, sono ancora un conoscente. Ma appena vengo a trovarmi fra sconosciuti - / Appena scendo in strada - un pedone scende in strada. / Appena salgo in tràm - un passeggero sale in tram." Prima un essere dentro, tra noi. Poi un essere fuori, un diventare qualcosa, una qualche categoria·. Fino a che, in un progredire di astrazioni reali, quando riempio qualcosa, sono un contenuto e quando infine mi allontano sono solo più un punto. '' Poi, per concludere, mi siedo sull'erba accanto a uno - e sono / finalmente un altro." Questa conclusione ci sorprende un poco: sbilancia l'inerzia interpretativa che forse aveva accompagnato la nostra lettura sin lì. Ma è proprio l"'essere un altro'' l'elemento che importa, e quel "finalmente" indica un tratto positivo raggiunto. Un altro sta accanto, seduto sull'erba prossimo a uno come lui, come nQi. Lo stesso tema è dominante nel romanzo L}ora del vero sentire. Al modo di un Gregor più famoso, Gregor Keuschnig si sveglia una mattina e si scopre trasformato: durante la notte

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ha fatto un sogno in cui ha ucciso un uomo. C'è un passaggio brusco, un salto: la notte / la mattina, un sogno / il risveglio. Non è un passaggio graduale, ma uno scarto di esperienza, una trasformazione, forse quella "piccola" variazione - perché si tratta di un minuscolo spostamento - che modifica interamente lo stile di un'esperienza ( ne parla Gilles Deleuze in Dialogues ), una piccola "catastrofe", si potrebbe dire. "Di colpo non fu più se stesso." C'è una differenza molto sensibile tra Gregor Samsa che diventa in Kafka uno scarafaggio, dove il tratto fondamentale è lo sguardo degli altri, come lo vedono (ma lo stesso Deleuze, in un modo molto interessante, propone di leggervi l'elemento del diventare-animale come linea di fuga), e Gregor Keuschnig che non cambia in nulla esteriormente, mentre muta il suo modo di vedere gli altri e le cose. "1\1a la cosa che lo angosciava di più era il fatto di essere diventato un altro, e di dovere tuttavia fingere che nulla fosse cambiato" (trad. it. di L. Bianchi, Garzanti, Milano 1980, pp. 8-9). Anzitutto è un modo di accorgersi che realtà è una "brutta parola". Gregor Keuschnig vaga per la città, osserva: vede molti particolari dove prima non scorgeva nulla. A un tavolo di caffè stanno fotografando un bambino: "Ma la fotografia fu scattata solo quando il bambino ebbe realmente un sorriso infantile" (p. 136, corsivo mio). È chiaro che questo "realmente" ha a che fare con la difficoltà in cui Gregor stesso si trova di dover fingere che tutto sia rimasto uguale; come quando, al momento di dover entrare in casa, mentre gira la chiave nella serratura, si sforza, quasi immaginandosi uno specchio davanti a sé, di assomigliarsi il più possibile, di assomigliare alla "realtà" di se stesso. Il problema di adeguarsi alla "realtà", e dunque la non corrispondenza a essa. Il bambino si adegua alla "realtà" infantile: viene allora applaudito, un applauso cercato, quando completa stupidamente la frase di cui viene fatta mancare l'ultima parola che sarà la sua. "Il tovagliolo si mette sulle ... ? Ginocchia", rispose esattamente il bambino. Il secondo modo del cambiamento fila in una direzione opposta, e qui sta l'essenziale della metamorfosi: avvicinarsi aile cose. Accanto, sedersi sull'erba. Cambiamento che avviene senza pensarci, o con un pensiero indebolito, un avvertire soltanto, una specie di "coscienza accessoria". Ci si può mettere "accanto" alle cose. Che avviene? Sembra, in primo luogo, 34

che gli atti si moltiplichino: scorgiamo una quantità di az10ru prima trascurate, o addirittura non visibili. C'è un rovesciamento tra il rilevante e il supposto banale: i gesti banali diventano qualcosa da cui possiamo trarre indicazioni, significati importanti per capire come sta insieme la nostra esperienza. Il più banale dei gesti, come il farsi la barba: "Decise di non radersi. Era una decisione, e la cosa lo sollevò. Poi si fece la barba ugualmente, e attraversò l'alloggio fiero di questa seconda decisione" (p. 119 ). Per Handke, in questa semplice frase, sta il problema di una successione di decisioni, accettazioni, nuove decisioni, rapporto tra quello che si fa, si pensa di fare, si fa veramente, si prova una volta fatto; successione ritmata e altalenante, accelerazione dei contenuti e delle logiche, intensificazione e oscillazione, in breve ciò di cui è composta ogni esperienza. Niente altro è il "vero" ~entire: moltiplicazione e oscillazione, gioco frenetico tra panico e rassicurazione, tra dentro e fuori, nella moltiplicazione dei registri. Questo sentire è H "piacere" dell'esperienza. Non però linea di fuga, perché l'altro che si può diventare è al tempo stesso spiazzamento nei confronti della "brutta parola" ma anche riconquista della "normalità". Piacere di ciò che è normale: difficile conquista di un tale piacere che pure sembra a portata di mano. Nel diario Il peso del mondo ( trad. it. di R. Prccht, Guanda, Milano 1981) leggiamo per esempio: "24 marzo [ ... ] Come, nel momento più critico, volevo acquistare dei giornali, e mimare così un normale tran-tran quotidiano,, ( p. 3 5). II "mimare'' non è certo l"' adeguarsi" di prima. Oppure: '' Domenica, in quella vivace mattina, tornando da un negozio aperto e camminando verso il prossimo, mi sono accorto che stavo ripetendomi interiormente: 'Tutto sommato sono un uomo felice' " (p. 126). Scoprire la "normalità" è appunto la scoperta dello spezzettamento dell'esperienza, tessuto oscillante di piccole mosse che esige un'osservazione diversa, un'analisi fìne. Non sono le mosse di un grande gioco, quello o quelli cui siamo soliti attribuire un senso: la microfìsica della normalità fa mutare il significato del parametro temporale, e adesso il tempo dob~ biamo avvertirlo nel piccolo gioco delle accelerazioni e dei rallentamenti, delle anticipazioni e delle svolte "catastrofiche". Qui i tempi della "comprensione" sono altri, non lineari, non 35

singolari, non omogenei, eppure sensati, gli unici a esserlo, si potrebbe dire. Il protagonista del romanzo Prima del calcio di rigore, Josef Bloch, prefigura Gregor Keuschnig: anche lui percorre i luoghi, e il suo vagare è contemporaneamente del tutto casuale e significativo. Gioca la memoria, il deposito dei vissuti, c'è un andare e tornare, ma la memoria è solo un debole polo magnetico e tutto si scioglie nella contingenza di gesti brevissimi che Handke, con insistenza, scinde uno per uno, atomo per atomo, per farceli vedere: ''Nel locale trovò la cameriera che stava lavando il pavimento. Bloch chiese dell'affittuaria. 'Dorme ancora!' disse la cameriera. Bloch, in piedi, ordinò una birra. La cameriera tolse una sedia dal tavolo. Bloch tolse dal tavolo la seconda sedia e si sedette. La cameriera andò dietro il banco. Bloch posò le mani sul tavolo. La cameriera si chinò e aprì la bottiglia. Bloch spinse via il portacenere. La cameriera, passando, prese da un altro tavolo un sottobicchiere. Bloch spostò indietro la propria sedia ... " ( trad. it. di B. Bianchi, Feltrinelli, Milano 1971, pp. 43-44 ). Quasi appunti di regia. O un occhio che guarda dal di fuori? No, l'insieme degli atti e i loro intervalli non indicano un oggetto osservato, bensl un intersecarsi di movimenti, di domande e risposte. "Quando la cameriera gli si sedette vicino, dopo qualche tempo fece la mossa di circondarla con il braccio; lei si accorse che voleva fare solo la mossa, e si appoggiò all'indietro ancor prima che lui potesse far capire che aveva solo voluto fare la mossa. Bloch volle giustificarsi circondando veramente la cameriera col braccio; ma lei si era già alzata. Quando Bloch fece per alzarsi, la cameriera andò via. Adesso Bloch avrebbe voluto fare la mossa di seguirla. Ma era troppo per lui e abbandonò il locale" (p. 67). Troppo presto e troppo tardi. Ogni esperienza di incontro non è forse fatta di questo tessuto di bersagli mancati? In questo caso, un non accordo costituito di tanti minuscoli accordi mancati: ma è possibile trovare nel mondo dell'esperienza di questo "diventare un altro" un accordo non mancato? Intanto, quello che abbiamo appena letto è davvero un accordo mancato? L'accordo è comunque difficile, mai raggiunto completamente, richiede un viaggio complicato. Anche Peter Handke, come Deleuze, guarda in tal senso al bambino come blocco di esperienza che contiene possibilità che non potremo mai eguagliare rispetto a quelle del bambino 36

reale, ma che in ogni caso per noi costituiscono un'apertura. Bambini - dice Handke sempre nel diario ( ma il tema è ripresentato con più complesse sfumature in Storia con bambina) - che cominciano a raccontarsi un'esperienza comune usando parole completamente diverse, interrompendosi l'un l'altro, e poi, quando arrivano alla fine della storia, la concludono tuttavia allo stesso modo, con le stesse parole (Il peso del mondo, p. 82). L'accordo è possibile: non perché vi sia un modello sensato che fin dall'inizio regge il filo e unifica le differenze, i modi con cui i bambini raccontano la storia. Non vi è un testo cui uniformarsi. Al contrario: Handke, con questo esempio, che sposta e semplifica il problema e al tempo stesso ne visualizza la risolvibilità, dice che è proprio il modo diverso di raccontare la storia che produce, per la sua diversità, una medesima conclusione. Forse, per capire meglio, potremmo immaginarci un esempio opposto: bambini che sembrano parlare con le stesse parole dello stesso fatto, e poi che cominciano a interrompersi e a dire cose diverse, giungendo infine a differenti conclusioni, non incontrandosi mai. Nelle pagine iniziali di Le passage du Nord-Ouest (Minuit, Paris 1980) Michel Serres mette in scena il suo personaggio: Zenone di Elea. Zenone, ben consapevole dei suoi paradossi, come noi oggi dei nostri, parte da Atene per imbarcarsi in un punto preciso della costa e di lì andare/tornare a Elea. A metà viaggio gli vengono in mente i suoi calcoli: dovrà cominciare a spartire, dividere gli spazi e i tempi, per compiere ogni tratto dovrà prima giungere alla metà di quel tratto. Zenone si blocca. Arriverà ad Elea? Forse no. E riuscirà a muoversi da Atene? Zenone, un altro Zenone adesso, dovrà ripartire: ha deciso, ora, di compiere continui spostamenti, ogni volta una minuscola deviazione: non procederà linearmente, farà dei giri, come un'ellisse, un vortice. Ma di nuovo potrà calcolare il suo movimento, e di nuovo sarà bloccato. È necessario un terzo viaggio, ancora un altro Zenone: questo ~ forse un viaggio iniziatico, certo il paesaggio è mutato, non è più un tracciato su cui disegnare segmenti e curve, ma un percorso disseminato di ostacoli (messi lì da un dio?), e di prove - si direbbe - da superare. Forse è davvero un dio che ha piazzato quella enorme montagna che Zenone dovrà in qualche modo evitare; e un contadino avrà ammucchiato quel-

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la terra che gli blocca la strada, e forse il vento ha apprestato quella sottile barriera di polvere. !vfa quel piccolissimo atomo? Anch'esso fa inceppo, e certo solo un caso l'ha disposto proprio lì. Riuscirà Zenone a tornare a Elea? C'è, tuttavia, secondo Scrres, un "vero" Zenone, che non ha rinunciato a calcolare e a disegnare carte di reticoli rigorosì. però, ormai, sa bene che il calcolo lo blocca. Ora tirerà a sorte ogni sua mossa, si muoverà a caso. Rinuncia? Perdita di ogni speranza razionale? Fatalismo? Niente di tutto questo: è l'avere infine compreso che la ragione, quel calcolare ( quei modi di calcolare) non sono un universale: anzi sono un caso singolo. La ragione è una singolarità tra le altre; tutte le ragioni sono fatti locali, bussole parziali, relative. Comprendere questo limite vuol dire, per Serres, capire che per l'immaginario Zenone (cioè, per ciascuno di noi) Elea non è un luogo e un tempo dato: non è l'amplificazione della nostra ragione. Elea ( cioè, la nostra identità) sta piuttosto nel viaggio stesso: in una randonnée, dice Serres, un girare, un giro, un andare in giro, ma anche random, caso, scelta, chance, e certamente rischio. Le terre del nord-ovest; quasi ai limiti del polo nord, sono un intrico di frastagliature, di infinite e complicate strettoie, di continui ostacoli che le carte non possono segnare con precisione, un mare invaso da miriadi di arcipelaghi e di isole. Isole? Non sono vere isole: è come se ogni isola, a vedere bene, contenesse un altro mare in cui stanno altre isole. Eppure l'unica nostra possibilità è di metterci in viaggio perché 11 è l'unico passaggio. Il "globale" è irrinunciabile: ecco cosa dice Serres. Possiamo e dobbiamo compiere un rivolgimento nella nostra limitata esperienza quotidiana, ma come è possibile un rivolgimento nel "globale"? E cosa diventa il "globale" stesso? Sembra essere un doppio rivolgimento. Prima, quasi un capovolgimento di termini, una vertiginosa inversione. L'abbiamo già visto, Zenone potrà muoversi solo quando avrà compreso che lo spazio omogeneo, il tempo della misura reversibile, lo spazio e il tempo che scandiscono tutte le nostre pratiche, non sono che un caso particolare. Il "globale" è un "locale" storicamente sedimentato: una falsa globalità. Una immane volontà di potenza ha gonfiato questo punto fino a farlo coincidere con la totalità. Potremo mai convincerci che la vera totalità è fatta di mosse locali, parti di un viaggio senza sbocco 38

e sempre diverso? Che l'ordine e il disordine si toccano sempre, che la contingenza è il ritmo di tutte le cose? Che la vita stessa è regolata, di ordine in ordine, verso il disordine? Che vi è un altro senso non riducibile a modello? Questo "globale" che Serres intravede con un atto di immaginazione filosofìca, seppure con l'occhio rivolto alla termodinamica delle •strutture dissipative e alla matematica topologica delle catastrofi, non è un altrove, un secondo mondo: l'esempio che torna sempre è quello dell'essere vivente uomo. Il problema del "globale" è tutto condensato nella domanda, sempre meno ovvia: cosa è- la vita? Solo cominciando a rispondere a questa domanda, altre diventeranno legittime e dotate di senso: cosa è la storia? La vita è una complessità, un regolatore e uno scambiatore di tempi diversi: contingenza e disordine non ne sono i residui irrazionali, ma le chiavi di accesso. È possibile un sapere della contingenza? Quel che sappiamo bene è che il sapere del globale che possediamo non ci basta, semplicemente perché è una spiegazione che non spiega. Eccoci in pieno nel nostro scenario culturale. Ma abbiamo poi veramente bisogno di una spiegazione? di un "globale"? La carica di inventività teorica che un autore come Scrres comunica, al di là del suo ottimismo "scientifico", ci mette sull'avviso: senza un tentativo di accordo su ciò che riteniamo possa essere il "globale", capovolgendolo, cambiandone il segno e la natura (ma restando eguale a se stessa l'esigenza), le piccole mosse di Handke rischiano di restare mute. Ma ancora di più: ci sarà sempre un "locale" che chiederà adeguazione, una legge che non saremo riusciti a singolarizzare, una "realtà" di cui potremo ridere continuando però a prestarle il nome. Resterà sempre il dubbio che la "normalità,,, riconquistata o solo intravista, sia una semplice deriva, una insignificante variazione ai margini. Non abbiamo altra scelta; o è solo questione di praticabilità? Non ci sposteremo mai da Atene; o è solo perché non riusciamo a comprendere entro quale viaggio stiamo muovendoci?

3.

Il reale impossibile di Lacan

Ritenuto un metafisico, Jacques Lacan ci può invece fornire un esempio di depotenziamento del pensiero nella medesima direzione che stiamo cercando di seguire. Il "rotolare" 39

nietzschiano può forse essere raffigurato come un intreccio topologico delle modalità dell'esperienza. Tutto il faticoso lavoro teorico di Lacan sta infatti a dirci che, se il soggetto è fuori centro, ciò non equivale a una pura e semplice deriva. Comunque Io si consideri, Lacan ci esorta a un compito filosofico di "costruzione" là dove ogni punto fermo di teoria sembra svanire. Necessità e impossibilità, dice Lacan, possono, anzi devono coniugarsi: l'una e l'altra, nel loro tagliarsi, mutano identità. E il soggetto con loro. L'esempio è l'amore. Nel seminario del 1972-73 (Encore, trad. it. di G. Contri, Einaudi, Torino 1983) l'amore è inteso come "l'incontro di due tracce d'esilio". Due luoghi.mancati che pure si incontrano, si toccano, in una contingenza. Una tangenza che non può diventare sovrapposizione: l'esilio infatti non sarà tolto, non vi potrà essere nessuna conciliazione. La contingenza, tuttavia, se è la prima, da sola non esaurisce il gioco multiplo delle dimensioni. Al tempo stesso, l'amore mira a essere necessario. Con un'espressione familiare, potremmo dire: vogliamo vivere l'idealizzazione del sempre nell'ora, cioè l'amore ha da essere eterno._ C'è un incontro, c'è un'ora: questo incontro ha per noi la cifra del sempre. Il sempre è la necessità che non cessa di essere; nell'ora c'è l'esigenza di non cessare di essere. L'amore deve essere qualcosa che non cessa: ecco la sua necessità. Ma non basta. Anzi manca ancora, alla descrizione, la dimensione forse più importante, la cerniera di tutto. Questo incontro contingente non si sottrae all'orrida casualità solo perché si aggancia a un sempre così: il caso scomparirebbe nell'idealità. C'è qualcosa di apparentemente più drammatico che complica il gioco, depotenziandolo. Per togliere, occorre aggiungere. L'ora e il sempre perdono la loro astratta pienezza solo se riusciamo ad ancorarli al mai, all'impossibile. L'incontro avviene in un punto o su un piccolo appiglio cui ci aggrappiamo per non sprofondare: ma questo sprofondare è essenziale. È il reale, secondo Lacan, che ci fa sprofondare, che ci tira giù. Il reale, cioè l'impossibilità. Lo sprofondamento è l'impossibilità del non cessare: non vi è opposizione tra necessità e contingenza, anzi entrambe stanno dalla stessa parte per l'esistenza di un limite, di qualcosa che non è possibile. Il "non cessare di" non è tanto, per Lacan, il non cessare di essere, ma il non cessare di scriversi, di iscriversi, come se in quell'ora, nell'incontro, il non scriversi potesse cessare: ci 40

fosse una pienezza, una scrittura completa. Come tale, presa da sola, la contingenza è il cessare illusorio di non scriversi, come se il "tendere a,, della necessità occupasse tutta la scena, riempisse la contirigenza. In un testo collaterale a Encore, redatto da allievi di Lacan, questa necessità viene graficamente espressa come l'ipotesi dell'esistenza di una x tale per cui non si dia la mancanza, o, con un altro linguaggio, si abolisca, almeno in un punto, la castrazione. L'ipotesi dell'eccezione. Ma volutamente Lacan è più sfumato: non è il punto di risoluzione che gli interessa, quanto l'intero movimento delle dimensioni. In questo movimento c'è un "non" che si sposta. C'è qualcosa che cessa, che non cessa, che cessa di non. Cosa mantiene la contingenza? Cosa fa sl che le due tracce d'esilio non esplodano in direzioni opposte, non diventino veri esili, estranei e lontani? Il sempre e il mai entrano nell'ora: un appiglio trattiene e trasforma l'illusione. Proprio perché siamo sospesi, perché il sempre è indebolito, non può fuggire per la,, tangente della pura immaginazione, l'incontro avviene, e e e amore. Nietzsche: dobbiamo essere moderati. La zavorra dell'impossibile mcxlera la fuga vuota, indebolisce l'illusione, realiz. za l'ora dell'incontro. Non è possibile solo illudersi, non pos• siamo solo possedere il sempre: quando ci troviamo in questa situazione ci è preclusa l'illusione della durata senza limite, che cioè vi sia -una sequenza di ora senza vuoti né cadute. Non possiamo possedere il sempre: eppure esso si dà. D'altra parte non possiamo neppure affidarci soltanto al mai: sarebbe un nostro uscire di scena, un non esserci. Non possiamo possedere il mai: eppure esso ci permette l'incontro. Lacan cerca di descrivere una forma di esperienza che probabilmente è quella che continuamente viviamo. Se la real• tà non si rivelasse impossibile, crederemmo nella necessità assoluta e onnipotente, non saremmo mai da qualche parte, in una precisa contingenza. La contingenza, allora, non è il caso felice: e davvero non è il caso cieco. L'intreccio dei cerchi pre• disposto da Lacan indica che l'ora, l'incontro, chiede nuove analisi. Non potremmo mai riconoscere questo momento, questo ora, se non ci fosse l'ombra prospettica del sempre che ci permette di goderlo: ma è appunto un'ombra, una variazione debole della necessità. Il reale non si può dire; per questo, 41

secondo Lacan, possiamo viverlo e dare un senso a tutto ciò che diciamo.

4. Cosa significa pensiero debole? In un senso ristretto "pensiero debole" vale per atteggiamento conoscitivo. Sembrano in gioco modi o categorie della conoscenza, un tipo di sapere. I frammenti nietzschiani sul nichilismo possono ancora servire da illustrazione: scopo, unità ed essere erano là gli idoli da infrangere. Ma perché distinguerli? L'obiettivo infatti è unico, è uno. Un modello che si sovrappone, coincide perfettamente con la realtà, fa uno con essa. Un tale modello non esiste, anche se continuamente lo evochiamo. Imperfezione del modello, che dovrà allora essere più duttile, più elastico, non rigido? Che dovremo abituarci a considerare approssimato e di necessità difettoso, un indicatore, un segnale? O non è piuttosto l'idea di "realtà" che dobbiamo prendere di mira? Quella realtà cui il modello deve esattamente aderire era, è essa stessa una costruzione, poiché è già predisposta per avere un modello, un raddoppiamento simbolico. Il "pensiero debole" avrebbe la pretesa di intaccare completamente l'atto del conoscere, tanto dal lato di chi conosce quanto da quello del cosa è conosciuto. Soggetto e oggetto sono certo dei termini ormai molto logori, ma ve ne sono di migliori? Il "pensiero debole" chiede una modificazione tanto dell'oggetto della conoscenza quanto del soggetto del conoscere. A questo esito ci spinge la destrutturazione nichilistica delle categorie fondamentali, il tentativo di intaccare il potere o, se si vuol dire, la "forza" dell'unità. L'uno a cui si modella il conoscere, ecco il punto di forza da indebolire: per accorgersi, innanzitutto, che questa forza si innesta nell'idea che abbiamo, e che teniamo salda, della realtà e di noi stessi. La realtà, continuiamo a credere, ha un fondo omogeneo: le è proprio un essere che ammettiamo arduo da scoprire, e soprattutto ingannevole. Un essere che non sta davanti ai nostri occhi, oppure che è tale da non poter stare davanti. Un essere che si cela ma che c'è. L'apparenza ingannevole segna già una distanza, ma non cessa di essere la storia rovesciata del rivelarsi della verità di tale fondo. Nello stesso modo seguitiamo ad affidarci a un'identità 42

trascendentale del soggetto: infatti quella unità alla quale senza sosta cerchiamo di legare i nostri atti conoscitivi si annoda a sua volta a una unità più grande e generale in cui le conoscenze di ciascuno come noi devono ritrovarsi. Nella sfera quotidiana la categoria di universalità continua ad agire anche se non vi poniamo attenzione e anche se ci sembra un po' strano chiamarla con questo nome antiquato. Ma esaminiamo una esperienza qualsiasi. Se l'essere non fosse in qualche maniera là e la nostra soggettività non fosse i_n qualche modo qui e riconoscibile in linea generale, cambierebbe del tutto lo scenario: ogni pensiero, ogni gesto perderebbero la certezza, per quanto piccola, che li autorizza dando loro legalità simbolica. Eppure, riesaminiamo quella nostra esperienza qualsiasi. Essa ha certamente una struttura, è anzi sempre un luogo dove si incrociano molteplici strutture. Luogo complesso, stratificato. La certezza che sembra assicurare la stabilità dello scenario, se guardata con occhi diversi, appare molto sottile: sembra piuttosto un vincolo superficiale, una patina che ci permette collegamenti e movimenti, uno scorrimento, una mobilità minima. Più che sentirne l'oppressione, che comunque assai presto compare come oppressione del1' eguale, di un muoversi fatto di un'unica possibilità di movimento, avvertiamo un senso di insoddisfazione: non ci accontentiamo più di questo minimo che ci appare come una riduzione. Rispetto a che? Rispetto a una certezza di grado diverso: quella che ogni volta abbiamo confusamente di fronte a un'esperienza qualsiasi, 1a certezza che tale esperienza sia e significhi per noi enormemente di più di quel minimo di legalità in cui già ci appare consegnata e come scritta. Il significato che attribuiamo alle cose, il nostro sapere normale potremmo chiamarlo, ci si offre di solito come un che di automatico che non richiede riflessione. È in effetti il risultato di una catena di operazioni logiche e culturali in senso generale. Pensiamo di essere, continuamente, trascinati da una corrente che sale e si ingrossa, non dubitiamo del progresso del nostro conoscere. Non vi è dubbio che cresca la quantità di informazioni di cui possiamo disporre e che la rete dei piccoli e grandi saperi si infittisca. Ma è più che altro una questione di nomi: si moltiplicano i termini, il tipo di operazione tende però a mantenersi identico. Quell'automatismo è il risultato di una potente semplificazione. È un 43

processo di astrazione perché prescinde dalla complessità dell'esperienza, riduce a un minimo, tende a unificarsi in un punto, a raggiungere a prezzo di rinunce e omissioni alcuni elementi semplici, sempre gli stessi, canali di scorrimento fissi di ogni conoscere. La logica comune del quotidiano soggiace a un massimo di semplificazione e di astrazione. Conoscere e comunicare vengono così enormemente facilitati e acquistano una potenza ~ociale. Se ci immaginassimo, in un gruppo di persone, un individuo che cerchi di dire la propria esperienza con tutta la specificità, o con un massimo di specificità rispetto al proprio vissuto di quel momento, le altre persone non lo capirebbero, si allontanerebbero da lui, dimostrerebbero subito scarso interesse a un racconto che dobbiamo presumere complicato, stratificato, e forse anche bizzarro. La potenza sociale di quell'individuo sarebbe quasi nulla. Per questo motivo, ogni volta che ci troviamo insieme ad altri, ci guardiamo bene dal procedere in una tale direzione, e ci incamminiamo invece in quella opposta, ipotizzando e inducendo un piano comune di riferimento; una forma di sapere cui pensiamo ciascuno spontaneamente aderisca, non perché sia propria a qualcuno in particolare, ma precisamente per il fatto che non appartiene a nessuno. Accade così che il sapere normale e la normale comunicazione facciano parte di un gioco speciale, le cui regole semplicissime ciascuno è in grado di apprendere con grande rapidità, e in realtà già da sempre è supposto conoscerle. La forza pratica del gioco scaturisce da qui: dall'estrema maneggevolezza delle regole, dalla loro ovvia comunicabilità. La forza teorica nasce invece dal fatto che le regole sono egµali per tutti, dunque universali, e al tempo tali da non implicare, oltre il livello della superficie, nessuno in particolare. Oggi non è più tempo di principi superiori, di fini ultimi, di verità definitive. Una battaglia contro un simile "pensiero forte" pare ormai anacronistica, e anzi, in questa epoca di "ultimi uomini", per dirla con Nietzsche, se si presentasse un sostenitore dei principi superiori, costui susciterebbe la nostra curiosità e forse anche un po' di rispetto: l'ironia che gli riserveremmo nasconderebbe probabilmente un fondo di nostalgia per una condizione che consideriamo irrevocabilmente perduta e non più riattivabile. La forza del pensiero non ha più a che fare con la sua

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ultimatività, cosi come la forma di tale potere non è più quella di un esplicito principio di autorità. Dobbiamo piuttosto andarla a cercare nella normalità quotidiana. Il prete e il tiranno, pur continuando a esistere materialmente, sono già fuori di scena. La scena è appiattita. È questo appiattimento, che tutti condividono, l'attuale figura del "pensiero forte": in quell'automatismo, nel gesto normale in cui si consuma una potente astrazione, in questo ovvio semplificare le cose, sta il carattere forte del pensiero. Da qui i timore che in molti suscita l'ovvio. Paura della banalità che nasconde l'attrazione che esercita su di noi il banale stesso per il potere che esso rappresenta, per ciò che permette di fare. Non c'è poi neppure bisogno di figurarsi una situazione sociale perché ciò vale anche, ogni volta, per l'io nei confronti di se medesimo. Questo processo di drastica semplificazione in direzione delle regole già note lo applichiamo, infatti, continuamente a noi stessi: nessuno, se non in rari momenti, desidera spingersi fino a quel margine di sé in cui sa bene che la propria identità comincia a oscillare perché la buona organizzazione dell'io non si manifesta più tale. ·Pigrizia e paura ci fermano prima, e normalmente neppure ci rivolgiamo da questa parte. C'è una fatica da affrontare, una sospensione di tutte le nostre abitudini, se davvero vogliamo provare a indebolire il nostro io, sottraendolo alla logica di superficie. E vi è poi la paura: di ciò che non ci è immediatamente familiare, di scoprire realtà che possono inquietarci, di trovarci di fronte a porte chiuse che non avremo il potere di far aprire. Timore che, giunti a quell'orlo, di ll in avanti si stenda un vuoto abissale. Tuttavia, al tempo stesso, sempre meno ci accontentiamo di un'identità il cui carattere fittizio, provvisorio e compromissorio salta ormai sempre più agli occhi. Il nichilismo è davvero compiuto, anche se il passaggio non è stato brusco, e questo compimento è un lento insinuarsi, un espandersi silenzioso, senza però possibilità di ritorno. Non c'è bisogno di raggiungere quel margine per essere inquieti. La somma di ciò che ci accorgiamo di star tralasciando si fa troppo grande. E il potere che ce ne viene in compenso può ormai sembrarci del tutto sproporzionato: troppo piccolo di fronte a quanto volontariamente abbiamo messo in perdita. È soltanto un simile calcolo, questa specie di valutazione contabile, che ci sospinge altrove: quando ognuno si accorge di vivere con un

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tale passivo, può cominciare a dubitare della validità del proprio attivo. Ho accennato a un'esperienza che ci viene raccontata in forma letteraria da Handke. Il momento in cui un individuo è spinto a voler cambiare scena. Allora accade che la logica superficiale si riveli per quell'ovvio che è, e che l'osservazione di questo ovvio produca un senso come di morte. Il quotidiano in. cui eravamo automaticamente immersi, ora ci appare come se fosse a una distanza enorme da noi: non è solo con disgusto attivo che lo contempliamo, ma con passiva indifferenza. In modi diversi, buona parte della grande letteratura di questo secolo ci ha raccontato l'angoscia, la noia, la nausea che accompagnano simile processo di "illuminazione". Se Handke ci può rimandare a Kafka, come non pensare anche all'uomo di Musil? Per poi risalire fino all'esistenzialismo: che altro vuol esprimere un letterato-filosofo come Sartre nella Nausea? Se l'oggetto, il mondo della letteratura postromantica si raffredda, un'altra zona però si arricchisce e diviene calda: ci si trova sospinti verso un bordo, il punto di appoggio si assottiglia, sembra diventare talmente esile da corrispondere infine a un niente. Ma a questo nulla corrisponde al tempo stesso un'esplosività dell'esperienza. Penso, per esempio, a Joyce. A tale niente sembra infatti collegarsi un racconto che potrebbe amplificarsi come un'onda e sempre di nuovo ricominciare. Che sia un racconto, un raccontare, un dire per mezzo della letteratura, non è qui davvero accidentale. La forza del dire filosofico, su questo margine, ha poca presa: il caso di Heidegger è emblematico di un fallimento, e in certo modo già lo era stato il caso di Nietzsche. La via del procedere per aforismi percorso teoreticamente debole - ·garantisce soltanto da peri• coli maggiori. L'idea di sistema e anche solo quella di "defi• nizione" diventano impraticabili, non convenienti: non perché vi sia troppo poco, non per una rarefazione, ma per una densità per la quale il concetto risulta inadatto. La forma letteraria dello Zarathustra è di qualità mediocre: eppure è il capolavoro di Nietzsche. Togliete quella forma e avrete non più il capolavoro, bensì la velleità di un testo filosofico impossibile. Heidegger si rivolge ai poeti, vi gira attorno: ma sono i versi che sceglie, semmai, a tenere la scena, mentre le formule filosofiche, per quanto acquistino in simbolicità, risultano sempre più faticose. 46

C'è dunque un racconto da fare. Alla letteratura non sembra affidato un compito secondario perché proprio nel suo narrare ( anche la poesia narra) si esprime una possibilità di dire la verità su quell'esperienza di cui stiamo parlando. Da quel margine, che è anche la soglia di un abisso, si attivano molteplici narrazioni. Il silenzio che possiamo incontrarvi non è altro che l'immagine del distacco: lo scarto da una forma di pensiero a un'altra forma di pensiero. Non è un vuoto: lo è soltanto se indugiamo rivolti all'indietro, se ci lasciamo invadere dalla nostalgia. Questo silenzio, se sappiamo farlo diventare nostro, è una disposizione ad ascoltare: e, innanzitutto, possiamo udire, come suggerisce Serres, un rumore di fondo persino assordante. Ma come possiamo capirlo, descriverlo? Che le storie si moltiplichino, che cioè siano "molte" storie: ecco il primo rilievo. E già ci pare di intravedere un filo, addirittura una categoria. La "molteplicità,, può divenire la categoria di un nuovo pensiero, di un pensiero "debole"? La domanda non è marginale: anni di discussione sulla cosiddetta "crisi della ragione" hanno infatti indicato un passo da compiere, quasi una nemesi delle origini metafisiche della nostra filosofia: dall'uno ai molti. Ma non è stata piuttosto una concessione, una contrattazione, un atto infine di conservazione? Nell'apertura filosofica ( ed epistemologica) alla molteplicità spesso si è nascosta, e si nasconde in ciascuno di noi, una chiusura più importante: la difesa di un pensiero or·ganizzante. È cosl accaduto, e accade di pensare che siamo nell'epoca delle molteplici ragioni: che pensiero "debole,, significhi pluralismo. E in tal modo ci si è esposti, e ci si continua a esporre a un doppio rischio: quello di caratterizzare il nuovo atteggiamento come "rinuncia,, a qualcosa (la qual cosa continua comunque a sopravvivere, nella rinuncia, anche se di una vita più esangue), e quello di allontanare-rimuovere il problema dell'unità ( come se, da un certo punto in poi, esso scomparisse semplicemente rovinando insieme ai detriti del soggetto ormai infranto e inutile). Le molte storie sono, però, prima di tutto, "narrazioni". Prendendo la molteplicità e dimenticando che si tratta del carattere di una narrazione, ci resta un guscio vuoto da cui ormai l'essenziale è fuggito via. Vi è solo una piccola differenza - un sintomo da cogliere, una concessione che è stata fatta - tra questo discorso e il discorso usuale dell'unità: 47

abbiamo solo complicato l'operazione, moltiplicato i terillllll. Il rumore di fondo è molteplice: ma non è più un oggetto che ci sta di fronte, e non siamo più, noi, un soggetto che può analizzarlo e scomporlo restando eguale a se stesso. L'esperienza che ci permette di percepirlo non può che essere un sovvertimento dell'espèrienza, non una transazione. Nessuna categoria sembra più funzionare da unità di misura perché la misura ha perso tutto il suo senso analitico e l'unità non è più un'immagine, un'abitudine inveterata del pensiero, ma una x di cui dobbiamo ancora cogliere la natura. La metafora del rumore di fondo funziona, d'altronde, fino a quando rimane valida la metafora dell'ascolto. Entrambe pagano al linguaggio il prezzo di una relazione duale, soggetto/ oggetto, dentro/fuori. C'è un pendere verso l'oggetto, verso il mondo. Il personaggio di Handke sente che gli oggetti parlano in un altro modo: vede che la scena si è sdoppiata. Ora le cose non sono altro che fenomeni. Si toglie di scena: qualcosa che assomiglia a un agire inconscio si mette in movimen to per cancellare le tracce di un soggetto stereotipato e convenzionale che ha ormai assegnato a ciascuna cosa il suo nome, a qualunque fatto un senso compiuto. Sembra adesso che gli oggetti, le cose, parlino una loro lingua senza eco. Il piccolo frammento. Insignificante, inutile, perfino assurdo. A margine, un particolare. Lì si concentra l'essere? Se riusciamo a percepire lo sguardo che di lì ci osserva senza vederci, siamo presi da una vertigine. È la sensazione che proviamo di fronte a un vuoto, a un ignoto: il piccolo frammento si rivela un infinitamente grande, un assoluto, una scheggia di eternità. Ma non è così. Siamo noi ancora una volta ad aggiungere un sopratono, un'eccedenza di pathos, un'estaticità. Stiamo, forse, di nuovo speculando: guardando dentro uno specchio che rovescia i termini, uno specchio che già Hegel sapeva maneggiare. Il piccolo frammento resta piccolo. La vertigine si scioglie in una familiarità strana: il quotidiano non si trascende in un assoluto, rimane quotidiano. Un velo può squarciarsi: dietro a esso non vi sono rarefazione, altezze o abissi in cui smarrirsi. Lo sguardo dell'oggetto ci passa a fianco, a lato: non si precipita verso il nostro io, non vi riconosce la fonte, l'inizio, il potere di farlo esistere. Chi perde, chi guadagna potenza? L'oggetto ci sembra aver acquistato un enorme potere perché riluttiamo ad ammettere il nostro indebolimento. 48

L'oggetto non è mutato. L'oggetto non ha sguardo. Il piccolo frammento dietro il velo: una delusione per i cercatori di eterno! E per chi non cessa di aggiungere altri veli ai veli. Se ha da insegnare qualcosa, il pezzetto di realtà ci aiuta a capire di cosa è fatto quel velo. Nessuno smarrimento se seguiamo le istruzioni. Soltanto la difficoltà di orientarsi in un territorio che ci sembra nuovo, una attività di impossessamento, come l'animale che ripercorre più volte uno spazio, Io contorna, lo riconosce, lo fa suo. Ed è appunto un riconoscimento: tutti i sensi sono all'erta, si acuiscono, si sbloccano, producono esperienza. La sensazione che abbiamo non è poi cosl nuova, se ci sembra di averla provata da sempre. Riconosciamo qualcosa di familiare davanti a cui siamo increduli, un po' perplessi, un po' infantili, e ci sentiamo anche un po' comici, come se stessimo scoprendo nient'altro che la normalità. Una perdita e un guadagno al tempo stesso. Abbiamo perduto una distanza, uno sguardo dall'alto al basso. Ma abbiamo guadagnato una mobilità, una capacità di muovere J>intera ne>stra esperienza corporea. Abbiamo ceduto potere: ma i sensi sono diventati porosi, e siamo in grado di sentire bene quel rumore di fondo perché adesso fa parte del nostro corpo. Il frammento che ci ha accompagnato è un piccolo frammento. Ecco un altro tratto, di nuovo la tentazione di istituire un ordine, di fabbricare una categoria. Una microfisica? Si tratta di sostituire un ordine con un altro? Di cambiare logica? Una risposta affermativa non è convincente. Ogni racconto di questa esperienza ci dice che essa non può essere ridotta a un'esperienza culturale. Questo spostamento modifica tutti i riferimenti del vissuto: non basta cambiar libro. Da un ordine a un altro. Possiamo forse concederlo. Ma a condizione che questo "altro" ordine sia riconosciuto come uno spazio completamente diverso: una differenza di natura, non di grado - per usare le parole di Bergson. Passare dal macro al micro, in questo caso, non può significare percorrere una scala, e neppure ipotizzare dei "salti" in un territorio omogeneo. II piccolo non può essere una riduzione del grande: il "piccolo" di cui parliamo non è questo, e nel nuovo territorio potremo trovare anche il "grande", a sua volta trasformato. Sembra infatti che tutti i rapporti debbano essere nuovamente descritti: il dettaglio non funziona come parte del tutto, ma come qualcosa che imponendosi di per sé sfugge alla totalizzazione, non è percepibile dalla lingua generale. Il 49

particolare si presenta piuttosto come ciò che sta da parte, appartato, sfuggente alla vista. Come il marginale rispetto alla zona illuminata, lo sfondo rispetto al primo piano, il fondo rispetto al fondamento. Un esserci, anzi un popolare l'esperienza, senza che ci si accorga: una dominanza impercettibile. Il piccolo frammento ci può far entrare in un universo, e forse ci può far scoprire che la grande logica abita localmente questo universo, ne fa parte. Questo marginale non ha da produrre margini, bordi, confini, isole sempre più piccole: al contrario allarga ed estende, "ingrandisce" l'esperienza. Tra soggetto ed esperienza mutano le parti, le proporzioni, attraverso una cifra, uno stile, una sfumatura. Il soggetto rimpicciolisce mentre si ingrossa l'esperienza. Il soggetto scompare? Oppure è divenuto talmente "piccolo" da potersi infine riconoscere nella sua esperienza? L'esperienza si moltiplica, si confonde, diviene illeggibile? Oppure si è fatta talmente piena di suoni che può :finalmente essere udita? E come è possibile che questa dissonanza sia simile a un silenzio? E ancora: il soggetto si è sfaldato, frammentato, disseminato? Oppure nel divenire impercettibile si è riconosciuto, nello sciogliersi ha preso contatto con se stesso? Solo a prezzo di una drastica semplificazione possiamo, allora, far coincidere l'orizzonte in cui ci immette l'espressione "pensiero debole" con una forma di sapere fra le tante, seppure diversa da tutte le altre. È proprio questa diversità, se la percorriamo, a rendere impossibili le distinziqni, la separazione di una sfera conoscitiva. Questo "pensiero"' se ancora possiamo chiamarlo così, non è un conoscere. Questo "conocere" è un'esperienza globale. Questa esperienza è tale che non può essere trattata come un oggetto. È una presa con la realtà. O meglio: un realizzarsi. Il soggetto di questa esperienza non può essere confinato nella nozione di soggetto: non può essere staccato, isolato, dedotto, non è né un fascio di luce né il limite dell'ombra. Eppure agisce, funziona: non sfuma in un niente, anzi si rivela complesso. Allargandosi, il suo spazio si complica. Intensificandosi, il suo tempo si articola. Questa esperienza è un atteggiamento, potrebbe divenire un esercizio, una condotta, una sperimentazione, un viaggio controcorrente. Qual è la meta? Possiamo solo sapere qual è la direzione, o forse soltanto qual è il modo, lo stile di 50

ogni tratto. Quali sono, a ogni momento, le condizioni minime ma necessarie per tenere la rotta. O soltanto: quali possono essere le correzioni continue, i salti, i piccoli scarti da chiedere alla nostra esperienza. Possiamo sviluppare in noi l'abilità di riconoscere gli ostacoli, evitare le secche, aggirare le nebbie. Possiamo imparare una specie di "attenzione", esercitarci in uno stato di all'erta, in un'arte del sospetto, in una modulazione attiva dell'inquietudine. Non lasciar passare, non lasciarsi portare. E, al tempo stesso, sospettare dell'immobilità, del guardarsi nel proprio specchio, della cattura narcisistica del vuoto. L'esperienza del vero sentire? Non ne possiamo conoscere con precisione né il come né il quando: già una simile previsione deve attirare il dubbio. Ma non possiamo dubitare di questa esperienza, semplicemente perché, almeno una volta, l'abbiamo attraversata, perché un poco, sempre, la stiamo attraversando. Sospettiamo di chi pretende che il proprio racconto sia veritiero, semplicemente perché sappiamo che il nostro sarebbe diverso. C'è dunque. qualcosa di transitorio e di intermedio nell'espressione "pensiero debole". Essa si situa provvi.soriamente tra la ragione forte di chi dice la verità e l'impotenza speculare di chi contempla il proprio nulla. Da questo mezzo può funzionare, per noi, come un indicatore.

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L'antiporfirio DI UMBERTO ECO

1.

Un modello semantico "forte"

Ci sono due ideali di pensiero "forte". In un primo caso si aspira a un pensiero così complesso (ma al tempo stesso organico) che possa rendere ragione della complessità (e organicità) del mondo della nostra esperienza, o mondo naturale. Nel secondo caso si aspira a costruire un mondo-modello ridotto in modo tale che un pensiero, non così complesso da essere incontrollabile intersoggettivamente, possa rispecchiarne la struttura. In questo secondo caso, onde essere intersoggettivamente controllabile, i,l pensiero assume le forme di un linguaggio L dotato di regole proprie, tali tuttavia che queste regole siano le stesse del mondo-modello che il linguaggio esprime. Nel primo caso il pensiero presume di procedere per regole date ( e trovate nel farsi del pensiero stesso) che per una qualche ragione siano le stesse (peraltro ancora ignote) del mondo "naturale" che esso pensa. Nel secondo caso vengono poste sia le regole del linguaggio che quelle del mondo-modello ed entrambe, in quanto poste, debbono essere note in anticipo e formulate in qualche forma metalinguistica (resta naturalmente aperto il problema di cosa renda H metalinguaggio adeguato al linguaggio che esso descrive, ma è raro che questo punto venga problematizzato eccessivamente). Per un pensiero forte del secondo tipo occorrono due re52

quisiti che ne verifichino la forza. Il primo è che tutte le trasformazioni compiute sul linguaggio rivelino connessioni del mondo-modello tali che, benché le regole di quel mondo fossero poste, non risultassero cosl evidenti a chi le aveva poste: in tal modo ogni operazione (linguistica) di pensiero svela aspetti ancora inediti del mondo-modello. Ma se fosse rispettato solo questo requi-sito tale forma di pensiero rivestirebbe solo una funzione per così dire ginnastica, e verrebbe elaborata per amore del pensiero (nel senso di gratia rationis, /or the thought's sake) e non per amore del mondo-modello, posto solo per permettere al pensiero di funzionare. Molti sistemi formali sono di questo tipo e rivestono indubbia utilità, ma se sono considerati utiH è per la loro funzione vestibolare o strumentale, in quanto permettono a un pensiero di rinforzarsi per un qualche fine, e cioè per pensare - in ultima analisi - il mondo naturale. Questo :fine è quello che costituisce la seconda e più completa verifica di un pensiero forte del secondo tipo: il mondo-modello (posto), le cui strutture il linguaggio rispecchia, deve presentare omologie con il mondo naturale della nostra esperienza, almeno sotto qualche aspetto. Solo in tal caso le trasformazioni del linguaggio consentono, in prima istanza, di conoscere possibilità inedite del mondo-modello, ma nell'ipotesi che le possibilità inedite del mondo-modello (posto come omologo al linguaggio) risultino poi essere possibilità del mondo naturale (che come tale non è posto ma dato). In a1tri termini, un mondo-modello posto ( e omologo ari linguaggio costruito) appare suscettibile di certe trasformazioni che, opportunamente pantografate, prevedono, suggeriscono, consentono, incoraggiano trasformazioni del mondo naturale (anche se quest'ultimo, in quanto dato, non è noto in tutta la sua complessità strutturale). Non è difficile accorgersi che questo pensiero forte di secondo tipo è quello a cui fa ricorso non solo la scienza sperimentale ma anche ogni disciplina assiomatizzata che peraltro consenta previsioni sul ,mondo naturale: il teorema di Pitagora non sancisce solo un comportamento necessario del mondo-modello delle entità geometriche in uno spazio bidimensionale (posto), ma permette di determinare comportamenti di certi aspetti del mondo naturale, per esempio la costruzione di solidi tridimensionali su superfici piane come quella terrestre, in condizioni molari ottimali. Una delle tendenze dominanti nella ,teoria dei linguaggi 53

naturali, sin dall'antichità, è stata quella di costruire un "pensiero ,linguistico forte" di questo tipo. L'ideale è stato cioè quello di una teoria linguistica che da un laito descriva un linguaggio-modello (posto in condizioni di laboratorio) ma dall'altro, grazie a!Pomologia tra metalinguaggio teorico e linguaggio-modello (da un lato} e tra linguaggio-modello e linguaggio naturale (dall'altro), consenta di avanzare previsioni sui comportamenti linguistici naturali ( sia pure in condizioni ottimali). Non si vuole alludere a quelle semantiche di linguaggi artificiali che pongono Ie regole di un ,linguaggio-modello fornito di un numero ridottissimo di espressioni, collegate mutuamente da pochi postulati di significato, e al'ticolabili secondo poche regole sintattiche. Si pensa piuttosto alle semantiche formali dei linguaggi naturali, alle grammatiche generativo-trasformazionali, alle semantiche generative, a tutti i sistemi di regole che cercano di render ragione del funzionamento di una lingua naturale tale quale viene parlata dai propri utenti in condizioni extra-laboratoriali. Delle varie componenti di una lingua cosl regolata considereremo in questo saggio solo la componente semantica. Una lingua-modello posta, che possa presentare omologie di funzionamento con la lingua naturale data, deve avere un lessico e aJle espressioni di questo lessico debbono essere correlati dei contenuti. Non ci interessa in questa sede il destino estensionale delle espressioni di tale lingua; e cioè se e come essa possa essere usata per designare stati di un mondo reale o possibile mediante espressioni che veicolano proposizioni vere o false. Ci interessa che della lingua possa essere fornita una analisi intensionale (anche se si può ammettere che in seguito le estensioni delle proposizioni formulate mediante questa lingua siano funzione delle intensioni delle sue espressioni elementari). Tuttavia il problema di ogni semantica che voglia caratterizzarsi come strumento per un pensiero "forte" del linguaggio ( e quindi del mondo che esso linguaggio viene usato per designare) è il dover essere concepita come sistema di regole ( espresse in un qualsiasi metalinguaggio teorico) che esprimono la struttura interna di una lingua-modello posta, in .qualche modo omologa alla ·lingua naturale usata nel corso della nostra esperienza di parlanti. In quanto posta, controllabile e suscettibile di trasformazioni rette da regole, questa lingua dovrebbe essere composta 54

di un insieme finito di espressioni correlate a un ms1eme finito di contenuti. L'unico modo per correlare un insieme finito di espressioni con un insieme finito di contenuti sarebbe ricorrere a un criterio piat.to di sinonimia, per cui a ogni espressione corrisponde, come contenuto, l'espressione di un altro linguaggio, o un'altra espressione dello stesso linguaggio, senza che siano ammessi casi di equivocità. Per ragioni che qui non analizziamo, e di cui testimonia l'intera storia del pensiero semantico, tale criterio non pare fruttuoso perché in ogni caso non rispecchia la modalità di funzionamento di una lingua naturale. Nel corso del perniiero semantico due altre soluzioni ( peraltro mutuamente riducibili) si sono mostrate più fruttuose: la descrizione del contenuto avviene mediante definizione formulata ne1Ia stessa lingua-modello o mediante una serie più o meno gerarchizzata di componenti semantici elementari (semi, marche semantiche, nomi di proprietà), espressi nel metalinguag,gio della teoria. In entrambi i casi sia la definizione che la serie delle marche sono reciprocabili col definiendum. /Uomo/ equivale a "animale razionale mortale" e viceversa, cosl come /uomo/ equivale a "umano + maschio + adulto" e viceversa. In questa prospettiva semantica si pone immediatamente un problema fondamentale: pare, dal modo in cui noi usiamo una lingua naturale, che le definizioni o la serie di marche assegnabili al contenuto di un termine linguistico siano potenzialmente infinite. Un uomo è animale razionale mortale ma è anche bipede, implume, ha due occhi, un sistema circolatorio venoso e arterioso, un pancreas, si accoppia di regola solo con es-seri della propria specie, è suscettibile di aver barba e baffi, e cosl via. Questa infinità deUe marche possibili rende difficile concepire una lingua utilizzabile per un pensiero forte. Quando la chimica inorganica definisce l'acido cloridrico HCl si preoccupa solo di quelle caratteristiche o proprietà del composto che possono permettere calcoli ciirca la sua combinabilità con ~Itri composti e deve ignorare i vari usi a cui viene adibito industrialmente, le circostanze della sua scoperta, o il fatto che in certi romanzi di fantascienza siano stati concepiti esseri capaci di respirare in tale sostanza. In questi casi una scienza decide quali sono quelle proprietà senza le quali il proprio oggetto deve essere defìni to 55

come tale e non può non comportarsi come acido cloridrico, relegando tutte le altre (non essenziali da quel punto di vista scientifico) tra le proprietà accidentali che appartengono indubbiamente a quella che viene detta ,la nostra conoscenza del mondo, ma non alle regole di quello specifico linguaggio. Cosl si potrebbe pensare che per predire il buon funzionamento e la comprensione della lingua italiana sia necessario o essenziale stabilire che /uomo/ significa maschio umano adulto, ma non çhe l'uomo è l'animale che nel ventesimo secolo è salito sulla Luna. La distinzione tra i due tipi di rappresentazione semantica qui delineata è quella che va comunemente sotto il nome di differenza tra semantica a dizionario e seman• tica a enciclopedia. ·Un pensiero forte deve pertanto cercare di costruire una semantica a dizionario che dia ragione della comprensibilità e funzionamento di una propria lingua--modello pos•ta, omo. Ioga a una lingua naturale data, isenza che le regole di questa lingua presumano di spiegare tutti i tipi di signilicazione o di designazione per attuare i quali, alla luce di determinati contesti, questa lingua può essere usata. La caratteristica di un dizionario ideale è che 1) esso deve poter rappresentare il significato di un numero indefinito di unità lessicali attraverso l'articolazione di un nu• mero finito di componenti; 2) queste componenti non debbono essere a loro volta interpretate in componenti minori (altrimenti non si soddisferebbe il requisito 1) ma debbono costituire dei primitivi. Le varie teorie - sia pure ciascuna in modo ampiamente insoddisfacente, cfr. Haiman 1980, Eco 1983 - affrontano in modi diversi sia 11 problema di come limitare le componenti sia quello della loro •natura ( costruttori teorici, idee platoniche, parole•oggetto primitive il cui significato non è definibile ma è dato da un'ostensione primaria che li ha collegati a un dato di esperienza elementare). Deve essere chiaro che le nozioni di dizionario ed enciclo• pedia sono nozioni teoriche, appartenenti alle categorie di una semiotica generale, e in principio non hanno nulla in comune con quelli che sono detti i dizionari o le enciclopedie "in carne ed ossa,,. Questi ultimi sono strumenti empirici e spesso un cosiddetto dizionario contiene molta informazione enciclopedica ( e naturalmente ogni enciclopedia contiene informazione dizionariale, il che sarebbe meno scandaloso, perché un dizio. 56

natio rappresenta una serie di informazioni "linguistiche" a esclusione di quelle enciclopediche, mentre una enciclopedia, rappresentando idealmente tutta la conoscenza del mondo, può includere in essa anche la conoscenza linguistica). È chiaro che un dizionario di questo tipo (e questo suo limite costituisce la sua "forza") non serve a stabilire le condizioni d'uso dei termini per riferirsi a cose o stati del mondo, ma garantisce semplicemente le condizioni di buona formazione delle espressioni di una data lingua. Esso quindi deve solo rendere ragioni cli fenomeni quali la sinonimia, la parafrasi, le relazioni cli ipo- e iperonimia, la differenza tra verità anali tiche ( dipendenti dalle marche o primitivi che costituiscono il dizionario) e ile verità sintetiche (dipendenti dalla conoscenza del mondo di cui il dizionario non rende ragione), la contraddittorietà, l'inconsistenza, l'anomalia e la ridondanza semantica (e&. Katz 1972: 6). Quello che si cercherà di mostrare in questo saggio è che l'idea teorica di un dizionario è irrealizzabile e che ogni dizionario rigoroso contiene elementi di enciclopedia che ne minano la purezza. In tal senso appare irrealizzabile l'idea di un pensiero forte del linguaggio. La dimostrazione che ci proponiamo potrebbe partire dalle più aggiornate semantiche normali delle. lingue naturali. In questa sede preferiamo compiere un altro tragitto, e cioè dimostrare che il crampo logico che affetta ogni dizionario teorico si manifesta all'origine stessa del problema e cioè nella teoria della definizione fornita ( suhla base di idee aristoteliche, ma non in spirito di fedeltà ad Aristotele) nella Isagoge di ,Porfirio il Fenicio ( scritta nel III secolo d.C. ). L'equivoco porfiriano ci è trasmesso attraverso le decine di commentari dedicati al ,suo testo da tutti i :filosofi medievali, a partire da Boezio e - come dovrebbe apparire dalle pagine che seguono tale equivoco affetta ancora, anche senza che se ne riconosca l'origine, l'idea contemporanea di una semantica a dizionario. Mostreremo pure che molti pensatori medievali si sono resi conto di questo equivoco ma avevano alcune ragioni per non problematizzarlo troppo.

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2.

L'albero di Porfirio

2.1. Aristotele e la definizione Aristotele (Analitici Secondi, II 90 b 30) dice che ciò che si definisce è l'essenza o la natura essenziale. Definire una sostanza significa s(abilire, tra i suoi attributi, quelli che appaiono come essenziali e in particolare quelli che sono causa del fatto che la sostanza sia quale essa è, in altri ter,mini la sua forma sostanziale. Il problema è andare a caccia degli attributi giusti che possano essere predicati come elementi della definizione (96 a 15). Aristotele fa l'esempio del numero tre: un attributo come l'essere si applica certo al numero tre ma anche a qualsiasi altra cosa che non sia un numero. Al contrario la disparità si applica al tre in modo tale che, anche se ha una applicazione più vasta ( essa si applica per esempio anche al cinque), tuttavia non si estende al di là del genere numero. Questi sono gli attributi di cui dobbiamo andare alla ricerca "sino al punto che, benché ciascuno di essi abbia una estensione più ampia del proprio soggetto, tutti insieme abbiano la stessa estensione del soggetto: e questa sarà l'essenza della cosa" (96 a 35). Aristotele vuol dire che, se si definisce l'uomo come ani·male mortale e razionale, ciascuno di questi attributi, preso singolarmente, può applicarsi anche ad altre entità (i cavalli sono per esempio animali e mortali, e gli dei, nel senso neoplatonico del termine, sono animali e razionali) ma presa come un tutto, come un "gruppo" defìnizionale, "animale razionaile e mortale" si applica solo all'uomo e in modo assolutamente reciprocabile. Una definizione non è una dimostrazione: mostrare l'essenza di una cosa non equivale a provare alcuna proposizione circa quella cosa; una definizione dice cosa qualcosa sia mentre una dimostrazione prova che qualcosa sia (91 a 1 ), e quindi in una definizione noi assumiamo ciò che la dimostrazione deve invece provare (91 a 35) - co-, loro che definiscono non provano che qualcosa esista (92 a 20 ). Ciò vuol dire che per Aristotele una definizione concerne intensioni e non incoraggia alcun processo (estensionale) di riferimento a uno stato del mondo. La definizione spiega il significato del nome (93 b 30). In questo tentativo di trovare il metodo giusto per inferire buone definizioni Aristotele sviluppa la teoria dei predica58

bili, e cioè dei modi in cui le categorie possono essere applicate a, o predicate di, un soggetto. Nei Topici (101 b 17-24) egli individua solo quattro predicabili, genere, proprio, definizione e accidente. Porfirio parlerà di cinque predicabili (genere, specie, differenza, proprio e accidente) ma vi sono alcune ragioni, se non evidenti almeno "ragionevoli", per cui Aristotele non pone la differenza tra i predicabili: la differenza è "generica" per definizione, va registrata insieme al genere (Top. 1.101 b 20) e definire significa mettere il soggetto sotto il genere e quindi aggiungere la differenza (Top. VI 139 a 30 ). In tal senso la differenza, attraverso il genere e la definizione, è automaticamente compresa nella lista dei predicabili. In altri termini, la definizione ( e quindi la specie) è il risultato della congiunzione del genere e della differenza: se si mette nella lista la definizione non è necessario mettere la differenza, se si mette la specie non è necessario mettere la definizione, se si mettono genere e specie non è necessario mettere la differenza (e quindi Porfirio pecca di ridondanza). Inoltre Aristotele non può ·mettere la specie tra i predicabili perché la specie non si predica di nulla, essendo essa stessa il soggetto ultimo di ogni predicazione. Porfirio inserisce la specie nella lista perché la specie è ciò che viene espresso dalla definizione. 2.2. L'albero di Porfirio In una lunga discussione in Analitici Secondi (II, XII 96 b 25-97 b 15) Aristotele traccia una serie di regole per sviluppare una giusta divisione che proceda dai generi più universali alle infimae species, individuando a ogni passo della divisione la giusta differenza. È il metodo che Porfirio adotta nella Isagoge. Il fatto che Porfirio sviluppi una teoria della divisione commentando le Categorie (dove il problema della differenza è appena menzionato) è seria materia di discussione (cfr. per esempio Moody 1935) ma non è cli particolare rilievo per la nostra analisi. Nello stesso modo si può evitare la vexata quaestio sulla natura degli universali, questione che Boezio consegna al Medio Evo proprio partendo dalla Isagoge . .Porfirio manifesta l'intenzione (non si sa quanto sincera) di lasciar da parte la domanda se i generi e le specie esistano in sé o se siano mere concezioni della mente. Quello che ci 59

interessa è che egli è primo a tradurre Aristotele in termini di albero e certo è difficile evi tare il sospetto che cosl facendo egli sia tributario di una concezione neoplatonica della catena degli esseri. Ma possiamo benissimo trascurare la metafisica che si sottende all'Arbor Porphyriana, dato che ciò che ci interessa è il fatto che questo a,lbero, indipendentemente dai suoi riferimenti metafisici e in quanto concf'nito come rappresentazione di relazioni logiche, ha influenzaw tutte le teorie posteriori della definizione. Non siamo interessati alle ragioni metafisiche per cui Porfirio delinea un unico albero delle sostanze, mentre si può supporre che Aristotele sarebbe stato più flessibile nell'immaginare molti più alberi, magari complementari tra loro, e volta per volta dipendenti dal tipo di problema definitorio che doveva risolvere. Aristotele usa il metodo della divisione con molta cautela e, si può dire, con molto scetticismo. Sembra dargli molto in Analitici Secondi ma appare molto più scettico in De partibus animalium (642 b sgg.) dove dà l'impressione di essere disposto a delineare alberi diversi a seconda del problema che si trova di fronte, anche quando si tratta di definire la stessa specie (si veda tutto il discorso sugli animali con le corna, di cui si dice in Eco 1981 a). Ma Porfirio ha tracciato un unico albero delle sostanze, ed è da questo modello, non dalla più problematica discussione del vero Aristotele, che l'idea di una struttura dizionariale della definizione ha preso origine, via Boezio, sino ai giorni nostri, anche quando il sostenitore di una semantica a dizionario non sa a chi essere debitore (d'altra parte l'idea di dizionario semantico si sviluppa appieno nei campus americani, e non si può pretendere, per legge tayloristica, che laggiù un esperto di semantica sia anche esperto di storia della filosofia). E quindi è dall'Arbor Porphyriana che occorre partire. Porfirio, dicevamo, elenca cinque predicabili: genere, specie, differenza, proprio e accidente. I cinque predicabili stabiliscono il modo della definizione per ciascuna delle dieci categorie. Quindi è possibile pensare a dieci alberi di Porfirio, uno per le sostanze, che permetta per esempio di definire l'uomo come animale razionale e mortale, e uno per ciascuna delle altre nove categorie, per esempio un albero delle qualità in cui il porpora venga definito come una specie del genere rosso (Aristotele dice che anche gli accidenti sono suscettibili di definizione, anche se soltanto in riferimento a una sostanza, 60

Met. VII 1028 a 10-1031 a 10). Pertanto ci sono dieci alberi possibili, ma non c'è un albero degli alberi perché l'Essere non è un summum genus. Senza dubbio -l'albero por.firiano delle sostanze aspira a essere un insieme gerarchico e finito di generi e specie: non è detto se gli altri nove alberi siano finiti o no, e Porfirio è piuttosto elusivo su questo argomento. La definizione che Porfirio provvede per il genere è molto formale: un genere è ciò a cui è subordinata una specie. Di converso, una specie è ciò che è subordinato a un genere. Genere e specie sono mutuamente definibili e quindi complementari. Ogni genere posto a un nodo alto dell'albero comprende delle specie che ne dipendono, ogni specie subordinata a un genere è un genere per la specie che gli è subordinata, sino all'estremità inferiore dell'albero, dove sono collocate le specie specialissime o sostanze seconde. Al nodo superiore massimo c'è il genus generalissimum (rappresentato dal nome della categoria) che non può essere specie di niente altro. Così ogni specie postula il proprio genere superiore, mentre non si può asserire l'opposto. Un genere può essere predicato delle proprie spede, mentre le specie apparten'gono a un genere. Il rapporto da specie a genere superiore è un rapporto da iponimi a iperonimi. Questo fenomeno garantirebbe la struttura finita dell'albero perché, posto un numero dato di specie specialissime, dato che per due (o più) specie vi è un solo genere, e così procedendo verso l'alto, alla fine l'albero non può che rastremarsi sino al nodo patriarc~. In tal senso l'albero assolverebbe a tutte le funzioni richieste a un buon dizionario. Ma un albero di Porfirio non può essere composto di soli generi e specie. Se cosl fosse esso assumerebbe la forma della figura 1 ed in un albero di questo tipo uomo e cavallo ( o uomo e gatto) non potrebbero essere distinti -l'uno dall'altro. Un uomo è diverso da un cavallo perché, anche se entrambi sono animali, il primo è razionale e il secondo no. La razionalità è la differenza dell'uomo. La differenza rappresenta l'elemento cruciale, perché gli accidenti non sono richiesti per produrre una definizione e il proprio ha uno statuto molto curioso; appartiene alla specie, e solo a quella, ma non fa parte della sua definizione. Ci sono diversi tipi di proprio, uno che occorre in una sola specie ma non in ogni membro (come la capacità di guarire nell'uomo); uno che occorre in una intera specie ma non in essa

61

sostanza

corporea

~ Incorporea

~

non vivente

vivente

animale

I

non antmale

uomo cavalo, ecc.

sola (come l'essere bipede); uno che occorre in tutta la specie e solo in quella, ma solo in un tempo determinato (come il diventare grigio in tarda età); e uno che occorre in una e una sola specie, solo in quella e in ogni tempo (come la capacità di ridere per l'uomo). Quest'ultimo tipo è quello più frequentemente citato nella letteratura in argomento e presenta la caratteristica assai interessante di essere reciprocabile con la specie (solo l'uomo è ridente e solo i ridenti sono uomini). In tal senso avrebbe tutte le ragioni per appartenere alla definizione essenzialmente e invece ne viene escluso e appare come un accidente sia pure con uno statuto particolare. La ragione più evidente per questa esclusione è che per scoprire il proprio è necessario un atto di giudizio abbastanza complesso, mentre si riteneva che il genere e la specie fossero "colti" intuitivamente (Tommaso e la tradizione aristotelicoto!Jlista parleranno di simplex-apprehensio ). In ogni caso, vi.: sto che il proprio è escluso dal gioco, non occorre che lo consideriamo, almeno nei limiti del presente discorso. Tornia,mo allora alla differenza. Le differenze possono essere separabili dal soggetto ( come essere caldo, muoversi, esser malato), e in questo senso altro non sono che accidenti. Ma possono anche essere inseparabili: tra queste alcune sono inseparabili ma sempre accidentali ( come l'avere il naso camuso), altre appartengono al soggetto per sé, ovvero essenzialmente, come essere razionale o mortale. Queste sono le 62

differenze specifiche e sono aggiunte al genere per formare la definizione della specie. Le differenze possono essere divisive e costitutive. Per esempio il genere "essere vivente" è potenzialmente divisibile nelle differenze "sensibile/insensibile" ma la differenza "sensibile" può essere composta col genere "vivente" per costituire la specie "animale". "Animale" a propria volta diventa un genere divisibile in "razionale/irrazionale" ma la differenza "raziona-le" è costitutiva, col genere che essa divide, della specie "animale razionale". Quindi le differenze dividono un genere (e il genere le contiene quali opposti potenziali) e vengono selezionate per costituire in atto una specie sottostante, destinata a diventare a sua volta un genere divisibile in nuove differenze. L'Isagoge suggerisce l'idea dell'albero solo verbalmente, ma la tradizione medievale ha visualizzato il progetto, come appare nella figura 2. · Nell'albero della figura 2 le linee tratteggiate marcano le differenze divisive mentre le linee continue marcano le differenze costitutive. Ricordiamo che il dio appare come animale e come corpo perché nella teologia platonica, a cui Porfirio si rifà, gli dèi sono forze naturali intermedie e non debbono essere identificati con l'Uno. La tradizione medievale riprende questa idea per pure ragioni di fedeltà all'esempio tradizionale, cosl come tutta la logica moderna assume, senza ulteriore verifica, che la stella della sera e la stella del mattino siano entrambe Venere, che attualmente non esiste alcun re di Francia. 2.3. Un albero che non è un albero Il difetto di questo albero è che. esso definisce in qualche modo la differenza tra dio e l'uomo ma non quella tra il cavallo e l'asino, o tra l'uomo e il cavallo. Il difetto potrebbe essere solo apparente, dovuto al fatto che in ogni discussione canonica l'esempio che interessava instanziare era quello dell'uomo. Se si fosse voluto definire il cavallo, l'albero avrebbe dovuto essere arricchito di una serie di disgiunzioni ulteriori sul proprio lato destro, in modo da isolare, insieme agli animali razionali, anche quelli irrazionali (e mortali). È vero che anche in questo caso il cavallo non avrebbe potuto essere di63

Generi e specie

Differenze

Differenze

SOSTANZA.

r- - -- -- -- ___ .. ___ --- -----, corporea

Incorporea

l.________--l►► CORPO

.-r- -- ----- - -•--- - --- - --, animato

inanimato

I..--------•►ESSERE VIVENTE

r-----------•-----------, Insensibile·

senslblle (..__ _ _ _ _ _

-1►~ ANIMALE

r-----------•-----------1 razionale

irrazionale

-'-------►~ANIMALE r-------___.. __________ -1 RAZIONALE

mortale

I

Immortale

..

UOMO/DIO...

I

Figura 2

stinto dall'asino, ma sarebbe bastato complicare ancora l'albero al proprio lato destro. Ora, sarebbe sufficiente analizzare i problemi che Aristotele deve affrontare in De partibus animalium per accorgersi che questa operazione non è così semplice come appare a prima vista, ma basta, dal punto di vista teorico, dover decidere dove si porranno· l'asino e il cavallo nell'albero di :figura 2 per veder sorgere un serissimo problema. Cerchiamo di distinguere il cavallo dall'uomo. Indubbiamente entrambi sono animali. Indubbiamente entrambi sono mortali. Dunque ciò che li distingue è la razionalità. Pertanto l'albero di figura 2 è sbagliato, perché la differenza "mortale/ 64

immortale" deve essere posta come divisiva del genere "animale", e solo in seconda istanza si dovrebbe porre la clifferenza divisiva "razionale/irrazionale". Ma si veda quali sono le conseguenze for,mali di tale mossa nella figura 3. ANIMALE

r- ---________ , ___ -- ---:----, mortale

Immortale

------illill'► r- ------ -- _,_ ----------, ANIMALE MORTALE

'~

razionale

Irrazionale

_l_ _ _ _ _

-1►~

UOMO/ CAVALLO

◄◄t-------.J'

Figura]

Come risolveremmo a questo punto la differenza tra uomo e dio? Per farlo occorrerebbe tornare alla figura 2 e avremmo di nuovo perduto la possibilità di distinguere l'uomo dal cavallo. La sola alternativa è che la differenza "mortale/immortale" occorra due volte, una sotto "animale razionale" e l'altra sotto "animale irrazionale,,, come -appare in figura 4. ANIMALE

r- - - - ______ , ___ - --- -- --, razionale

L...

Irrazionale

ANIMALE RAZIONALE/ANIMALE IRRAZIONALE

r ____ A __ , mortale

.-1

r--A----7 mortale

Immortale

Immortale

L J CAVALLO/ X

LUOMO/DIOJ Figtmz 4

65

Porfirio non avrebbe scoraggiato questa decisione, dato che egli dice (18.20) che la stessa differenza "si osserva spesso in diverse specie, come quadrupede in molti animali che differiscono per specie" ( trascuriamo che quadrupede debba essere un proprio e non una differenza, dato che come esempio di proprio è dato altrove "bipede"). Anche Aristotele dice che quando due o più generi sono subordinati a un genere superiore (come accade nell'uomo e nel cavallo, in quanto sono entrambi animali) nulla esclude che essi abbiano le stesse differenze (Cat. 1 b 15 sgg; Top.

VI 164 b 10). In Analitici Secondi (II 90 b sgg.) Aristotile mostra come sia possibile arrivare a una definizione non ambigua del numero tre. Posto che per i greci l'uno non era un numero (ma la fonte e la misura di tutti gli altri numeri), il tre può essere definito come quel dispari che è primo in entrambi i sensi (e cioè che non è né somma né prodotto di -altri numeri}. Questa definizione sarebbe d$;!1 tutto reciprocabile con l'espressione /tre/. Ma è interessante ricostruire nella figura 5 il numeri

pari

dispari

A

somma o prodotto

A

né somma

primo

non primo

né prodotto di altri

di altri

~

non somma

I

2

non prodotto

non somma

I

I

2

3

non prodotto

I

3

9

Figura 5

processo di divisione attraverso il quale Aristotele perviene a questa definizione. Questo tipo di divisione suggerisce due interessanti conseguenze: a) le proprietà registrate in corsivo non sono esclu66

sive di una sola disgiunzione ma occorrono sotto più nodi; b) una data specie (per esempio due, tre o nove) può essere definita dalla congiunzione di più proprietà di cui sopra. Queste proprietà sono in effetti differenze. Cosl Aristotele mostra non solo che molte differenze possono essere attribuite a una stessa specie, ma anche che la stessa coppia di differenze divisive può occorrere sotto diversi generi. Non solo, ma egli mostra anche che, una volta che una certa differenza è risultata utile a definire senza ambiguità una certa specie, non è importante tenere in considerazione tutti gli altri soggetti di cui è ugualmente predicabile. In altri termini, una voha che una o più differenze sono servi te a definire il numero tre, è irrilevante che esse servano altrettanto bene, sia pure in altre combinazioni, a definire il numero due. Per una chiara e inequivoca precisazione di questo punto si veda Analitici Secondi (II, XIII 97 a 16-25). A questo punto si può tentare un passo avanti. Una volta detto che, dati alcuni generi subordinati, niente impedisce loro di avere le stesse differenze, e poiché l'albero delle sostanze è completamente costituito di generi tutti subordinati al genere massimo, è difficile dire quante volte la stessa coppia di differenze possa occorrere.

2.4. Un albero di sole differenze Molti commentatori medievali dell'Isagoge sembrano incoraggiare i nostri sospetti. Boezio (In Is. C.S.E.L.: 256.1012 e 266.13-15) scrive che "mortale" può essere una differenza di "animale irrazionale" e che la specie "cavallo" è costituita dalle differenze "irrazionale" e "mortale". Egli suggerisce pure che "immortale" può essere una differenza valida per i corpi celesti che sono sia inanimati che immortali: "In questo caso la differenza immortale è condivisa da specie che differiscono tra loro non solo per genere prossimo .ma per tutti i generi superiori sino a quel genere subalterno che occupa il secondo posto al sommo dell'albero" (Stump 1978: 257). Il sospetto avanzato da Boezio è, secondo Stump, "sorprendente" e "sconcertante": invece è del tutto ragionevole. Sia Aristotele che Boezio sapevano che la differenza è più grande del proprio soggetto, e cioè ha una estensione più vasta, e ciò è possibile solo perché non sono i soli uomini a essere mortali o i soli dèi a essere immortali ( e cosi per le 67

altre differenze concepibili). Se la differenza "mortale/immortale" occorresse solo sotto un nodo, "mortale" e /uomo/ sarebbero reciprocabili, e quindi non avremmo a che fare con una differenza ma con un proprio. Ci sono più esseri mortali di quanto non ci siano uomini, proprio perché questa coppia di differenze ricorre anche sotto altri generi. Ed ecco perché, come Aristotele sapeva (Topici VI 144 a 25), uomo è reciprocabile con tutta la definizione -ma non coi suoi singoli elementi: non con il genere (" animale -razionale"), perché il genere ha una estensione maggiore della specie, e non con la differenza perché ( sia pure in modo diverso)_ anche la differenza ha una estensione ·maggiore della specie. Ci sono più esseri mortali di quanti non siano gli animali razionali. Ma il problema da affrontare ora riguarda esattamente la natura ambigua di maggiore estensione della differenza rispetto alla specie che costituisce. Abelardo nella sua Editio super Porphyrium (157 v 15) suggerisce anch'egli che una data differenza sia predicata di più di una specie: "Falsum est quod omnis differentia sequens ponit superiores, quia ubi sunt permixtae differentiae, fallit". Quindi: a) la stessa differenza comprende molte specie, b) la stessa coppia di differenze può occorrere sotto diversi generi, c) diverse coppie di differenze occorrenti sotto diversi generi possono però essere espresse (analogicamente) dagli stessi nomi, d) rimane impregiudicato quanto in alto nell'albero stia il genere comune rispetto a cui molti sono i generi subordina ti che ospitano la stessa coppia di differenze. Di conseguenza si è autorizzati a riproporre l'albero di Porfirio secondo il modello della figura 6. Questo albero presenta interessanti caratteristiche: a) consente la rappresentazione di un universo possibile in cui possono essere previsti e collocati molti generi naturali ancora ignoti ( per esempio delle sostanze incorporee, animate ma irrazionali); b) mostra che ciò che eravamo abituati a considerare generi e specie {qui rappresentati in corsivo tra parentesi) sono sem~ plici nomi che etichettano gruppi di differenze; e) non è retto da relazioni da iponimi a iperonimi: in quest'albero non si può stabilire che, se qualcosa è mortale, allora è razionale, o che se è irrazionale allora è un corpo, e cosl via; d) come conseguenza di e esso può essere di continuo rior68

sostanza Incorporea

corporea (corpo)

A

(?)

A

animata

inanimata

animata

Inanimata

(vivente)

(minerale?)

(?)

(7)

~

sensibile

insensibile

(anima/e)

(vegetale)

I\

7

~

?

/\

?

razionale

irrazionale

razionale

irrazionale

(?)

(?)

(?)

(?)

I\

mortale (uomo)

immort. (dio)

?

I\

mortale

Immortale

(bruto)

(?) Figura 6

ganizzato secondo diverse prospettive gerarchiche tra le differenze che lo costituiscono. Per quanto riguarda la caratteristica a abbiamo visto ciò che Boezio diceva sui corpi celesti. Per quanto riguarda la caratteristica b è chiaro che questo albero è composto di pure differenze. Generi e specie sono solo nomi che diamo ai suoi nodi. Boezio, Abelardo e altri pensatori medievali erano ossessionati dal problema della penuria nominum, e cioè dal fatto che non c'erano a disposizione abbastanza items lessicali per etichettare ogni nodo (altrimenti si sarebbe trovata un' espressione in luogo di "animale razionale", che, come si vede, viene nominato ripetendo il nome del genere prossimo e quello della differenza specifica). Ammettiamo che il lamento dei medievali sia dovuto a ragioni empiriche: dato che nella loro esperienza (come nella nostra) non si erano mai incontrati altri animali razionali se non l'uomo e ( sotto forma di forza naturale) n 69

arte della misura), ma un processo illimitato di soggettivazione del mondo, l'entificazione della natura. Nella scienza classica si trattava ancora del sapere del reale come necessità, durezza, resistenza del mondo al volere, in cui tuttavia l'umanità apprendeva a misurare e a bilanciare le forze: "La necessità, che ci frena nella più semplice azione, ci suggerisce, se riferita alle cose, l'idea di un mondo cosl completamente indifferente ai nostri desideri che ci accorgiamo di essere vicini a non essere nulla. Pensando noi stessi, se così mi posso esprimere, dal punto di vista del mondo, arriviamo nei nostri riguardi proprio a quella indifferenza senza la quale non ci si può liberare dal desiderio, dalla speranza, dal timore, dal divenire e senza la quale non c'è virtù, né saggezza e si vive nel sogno. Il contatto con la necessità è ciò che sostituisce la realtà al sogno ... Alcuni splendidi versi di Lucrezio sono sufficienti a far sentire quello che c'è di purificatore nello spettacolo e nel cimento della necessità ... " 34 L'ideale della scienza classica si esprime qui come contemplazione della necessità, conoscenza della debolezza umana nell'ambiente, eco33

S. Weil, Réflexions à propos de la théorie des quanta, "Les cahiers de Sud" 251, dicembre 1942, firmato E. Novis, poi in Sur la science, Paris 1966, tred. it. Sulla scienza, Torino 1971, p. 173. 34 S. Weil, La science et nous, trad. it. Sulla scienza, eit., p. 109.

107

logia. Ma esso è anche conoscenza musicale, apprendimento dell'armonia: "Questa immagine è data in certe opere dell'uomo dal limite, l'ordine, l'armonia, la proporzione, i ritorni regolari ... " 35 La conoscenza dei limiti non implica in Simone Weil una chiusura della rappresentazione, né un'immagine consolatoria, nostalgica, arcaicizzante del nesso uomo-mondo. È precisamente la conoscenza dei limiti e dell'armonia che permette di comprendere l'illimitato e il disarmonico. Nel gioco reciproco di limitato e illimitato, la conoscenza appare come partecipazione, consonanza, comunicazione con il reale. Ciò che qui Simone Weil intende è la tensione tra armonico e disarmonico come rivelarsi, ancora una volta, della necessità. Accettando la sua limitazione nel cosmo, la sua debolezza, la conoscenza non si appropria del mondo, ma ne viene appropriata: "Una statua di marmo che si potrebbe credere fluida e dalle pieghe morbide, che si potrebbe credere flessibile alla pressione di tutto l'universo che la circonda, ha preso per sempre- la forma di un corpo umano intatto, nella posizione di equilibrio in cui la gravità non l'altera e in cui ogni movimento è ugualmente possibile. Una piccola superficie racchiude in limiti ben precisi uno spazio infinitamente vasto a tre dimensioni, in cui le cose e gli esseri sono, nello stesso tempo, legati e separati dalla loro reciproca posizione, fissati nell'apparenza di un istante e come se non fossero visti da nessuno e da nesun punto di vista, come se fossero sorpresi ma non contaminati da uno sguardo umano velato di incoscienza ... Tutte queste sono immagini che raggiungono e feriscono l'animo nell'intimo. Un corpo e un viso umano che ispirano contemporaneamente il desiderio e ancor più il timore di avvicinarsi per paura di nuocere, di cui non si può immaginare l'alterazione e di cui si percepisce acutamente l'estrema fragilità, che strappano quasi l'anima a un luogo e a un istante particolare e le fanno sentire violen• temente che vi è inchiodata, sono anch'essi un'immagine del genere. E l'universo estraneo all'uomo presenta immagini come queste." 36 Il gioco tra limitato e illimitato, tra armonico e disarmonico, tra finito e infinito, è tale che esso ferisce l'animo. Esso lo ferisce perché, nella concezione di Simone Weil, la conoscenza del reale è in primo luogo passione del reale, 35 36

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lvi, p. 117. lvi, pp. 118-119.

patire il reale. Ed è patire, perché la conoscenza non è qui de-cisione, taglio dei legami che uniscono l'uomo al mondo, ma abbandono, identificazione con il reale, non distruzione del reale attraverso l'affermazione del soggetto conoscente. La conoscenza patisce il reale, perché si modella sulle ferite del reale, sul suo squilibrio. A questo stile conoscitivo, che si potrebbe definire come delicatezza, corrisponde evidentemente, sul piano etico, quell'indebolimento che caratterizza l'uomo di comando responsabile. In esso si manifesta la memoria di una filosofia della rinuncia alla prepotenza del soggetto, che deriva, filtrata da Schopenhauer e forse da Goethe, dalle Upanisad alla cui traduzione Simone Weil lavorava negli ultimi anni della vita. Ma quello stile, a ben vedere, è affine anche al ritorno della filosofia qualitativa della conoscenza, quale si esprime in Bergson o in Simmel, e che è presente nell'opera letteraria e saggistica, a esempio, di Hermann Broch.37 Anche in quest'ultimo, in particolare, la via della conoscenza ha inizio quando il soggetto accetta la sua agonia, la sua morte come abbandono al reale. L'etichetta. di misticismo con cui la critica razionalista è solita sbrigarsi di queste tendenze della filosofia e della letteratura non rende giustizia al loro motivo dominante, che è il superamento della conoscenza strumentale, e quindi il depotenziamento del soggetto, l'affidarsi del soggetto al ritmo del reale, il de-costruirsi. Simone Weil indica spesso nella geometria antica .questa capacità di conoscere l'armonia del reale, una capacità che appartiene al campo del godimento estetico: "Più bella ancora fu la prima intuizione di Talete, quando scorse nel sole l'autore di un'infinità di proporzioni che vengono iscritte sul suolo e cambiano con le ombre; da quel primo momento appariva cosl la nozione di proporzione variabile, cioè di funzione; ma per noi il termine stesso di funzione indica la dipendenza di un termine riguardo a un altro, mentre i Greci gioivano semplicemente nel fare del cambiamento un oggetto di contemplazione." 38 Ma l'abbandono al reale significa anche accettare le sue disarmonie, accettare il fatto che l'equilibrio e l'armonia si ristabiliscano a detrimento della posizione umana nel cosmo. Gli astri non sono solo i simboli di una danza, ma anche la !7 Si pensi soprattutto a La morte di Virgilio. Per i temi che stiamo qui discutendo è anche importante H. Broch, Poesia e conoscenz.a, Mila.no 1965. 35 S. Weil, Sulla scienza, cit., pp. 120-121.

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misura di una lontananza incolmabile. Abbandonarsi al reale significa anche abbandonarsi al suo aspetto te"ibile. Ancora una volta, in Simone Weil, l'ordine è precario, sull'armonia della natura - quale l'umanità vuole contemplare - incombe la dissonanza, l'eccesso. In questa irrisolta tensione tra ordine e disordine riemerge l'ellittica affinità di Simone Weil con Nietzsche. L'idea centrale di Simone Weil è che in ogni caso, soprattutto quando l'uomo abbia una parte nello squilibrio, l'ordine si ricostituisca a un livello superiore. Si tratterebbe in questo caso, come dice uno scienziato contemporaneo, del rimarginarsi della f~rita che l'uomo infligge al cosmo, di una estetica superiore del bello-e-del-brutto.39 Qui Simone Weil avrebbe potuto citare Coleridge: il vecchio .marinaio, unico superstite dell'equipaggio che si è macchiato dell'uccisione dell'albatro, si incammina verso la pace solo quando si· pacifica con l'ambiente, quando apprende a benedire i mostri marini. 40 L'idea della limitazione, della debolezza, rimanda quindi alla conciliazione, al sapere come funzione di una presenza non distruttiva dell'ambiente. Rimanda soprattutto al delicato gioco di velamento-svelamento in cui l'uomo progetta la sua presenza storica nel cosmo. Con le parole di Heidegger, alla contrapposizione non distruttiva tra Mondo umano e Terra: "La Terra non è semplicemente il chiuso, ma ciò che emerge come autochiudentesi. Mondo e Terra sono sempre, e in virtù della loro stessa essenza, in contrapposizione e in lotta. Solo come tali prendono il loro posto nella lotta di illuminazione e nascondimento. La Terra emerge attraverso il Mondo e il Mondo si fonda sulla Terra soltanto perché si storicizza la verità come lotta originaria di illuminazione e nascondimento." 41 Per Heidegger questa lotta è la via stessa della verità. E la verità come gioco di velamento e svelamento - che in quanto tale si contrappone alla scienza, che elabora un dominio di verità già aperto - si istituisce 9

Il rapporto tra uomo e cosmo è discusso in questa prospettiva da G. Bateson in Verso un'ecologia della mente, Milano 1976. Ma si veda soprattutto G. Bateson, Mind and Nature, New York 1980, pp. 227 e sgg. 40 S. T. Coleridge, The Rime of the A»cient Mariner, versi 272-287: "Oltre l'ombra della nave / Io spiavo i serpenti marini... Felici cose viventi! Lingua non c'è / Che possa dichiararne la bellezza! / Un'acqua d'amore mi fiottò dal cuore, / E, senza sapere le benedissi: / Certo il mio santo ebbe pietà di me, / Ed io le benedissi, senza sapere" {trad. it. di B. Fenoglio, Torino 1%4, p. 39). 41 M. Heidegger, L'origine dell'opera d'arte, in Sentieri interrotti, Firenze 1973, p. 40. J

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nell'opera, si fissa nella forma dell'opera. Questo istituirsi, nel senso particolare definito da Heidegger, fa sl che l'opera sia nella sua essenza poesia. Heidegger parla qui dell'opera d'arte (che si contrappone al mero fabbricare) come ciò in cui viene messa in opera la verità. 1Ma attraverso la contrapposizione di Mondo e Terra si allude anche a una tensione non distruttiva tra umanità e terra. In questa contrapposizione, si manifesta, quasi con le stesse parole, quella delicatezza della presenza umana su cui insiste Simone W eil: "La lotta [ tra Mondo e Terra] non è un tratto [ Riss] che spalanchi un baratro, ma è l'intimità di un convenirsi reciproco dei lottanti. Un tal tratto at-trae i contendenti verso l'origine della loro unità, in base al comune fondamento. Esso è un disegno fondamentale [ Grundriss] ... Questo tratto non permette che gli opposti si dilacerino separatamente, ma inserisce la contrapposizione di misura e limite in un unico contorno [ U mriss]." 42 4. La modernità, l'ossessione Come in Heidegger, misura, limite, oppos1210ne non lacerante dei contrari sono i termini che descrivono per Simone Weil i contorni dell'abitare umano in terra. Il processo in cui la patria della misura è stata soppiantata dal regno dell'illimitato è un tema su cui la filosofia della cultura del nostro secolo, da Simmel a Weber e Heidegger, ha insistito. La nozione di limite, con cui si intende ciò che dà forma alla vita, che le impedisce di trasformarsi in ripetizione di se stessa, in sopravvivenza, è decisiva in questa tradizione. Ciò che Simone Weil vi aggiunge è l'analisi degli effetti della deriva - l'allontanamento dal cosmo - sull'immaginazione umana. Se il cosmo contiene l'immaginazione, permettendo il bilanciamento delle forze all'interno di un ordine - possibile e impossibile, finito e infinito, reale e immaginario -, l'illimitatezza del mondo moderno scatena l'immaginazione. Con tale scatenamento non si conquista una nuova libertà, come nella mitologia del progresso, ma la soggezione a un nuovo tipo di necessità, all'illimitato. Lo svincòlamento dal cosmo libera l'immaginazione per vincolarla a qualcosa di nuovo, 42

Ivi, pp. 47-48.

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a se stessa. Simone Weil definisce questa libertà singolare, moto indefinito dell'immaginazione, rotazione della conoscenza su se stessa, come ossessione. 43 Ossessione è il dolore che non ha fine, la caduta che non ha fondo. Essa designa quello squilibrio per cui la necessità non è accettata ma subita: "Sentimento d'impossibilità, squilibrio; situazioni in cui l'immaginazione che modella in modo :fittizio il passato, l'avvenire e gli oggetti lontani non riesce a colmare i vuoti. Ci prova ma non può. Fame, sete interiori. Slancio impedito ... Oscillazioni interiori tra il rifiuto e l'accettazione. Movimento dell'anima senza oggetto, anche immaginario. Vuoto imposto. Dopo un certo tempo, conseguono sfinimento e morte di certe parti dell'anima." 44 Simone Weil descrive una particolare condizione dell'anima, lo sganciamento da un principio ordinatore, l'impotenza dello sguardo rivolto all'illimitato e quindi la perdita di contatto con il reale, il naufragio. Divelta dai suoi confini, l'anima erra senza che lo sguardo possa fermarsi, senza che l'immaginazione abbia termine. II significato della tortura, la sua insopportabilità, non sono legati al dolore in quanto tale, ma all'infinità del dolore. Nell'ossessione l'anima precipita nel tempo. Il tempo non è dominato mediante qualche ritmo, ma impone il suo precipitare: "Rapporto tra il tema musicale ( e anche architettonico?) e l'ossessione. Una fuga di Bach è un'ossessione dominata - per questo il tema iniziale non ha molta importanza. L'ossessione è l'unica sofferenza umana ... un dolore non ossessivo non è sofferenza." 45 Ossessivo è subire una necessità tanto schiacciante che non lascia punti di interruzione, che inchioda all'infinito. Ossessiva è quindi ogni subordinazione all'illimitato. Simone Weil ha visto nel dominio di ciò che è illimitato il tipo di imposizione che non è redimibile, che non dà scampo. Allora l'ossessione non definisce solo la soggezione alla forza nelle situazioni-limite, ma la condizione di esistenza della modernità. Alla violenza mitica quale si esprime nella nozione di castigo cosmico (la bilancia di Zeus), la modernità sostituisce 43

Il tema dell'ossessione in rapporto al mondo moderno e allo sradicamento è discusso soprattutto in S. Weil, L'enracinement. Prélude a une déclaration des devoirs envers l' etre humain, Paris 1949, trad. it., La prima radice, Milano 1978-2. 44 S. Weil, Cahiers, Il, Paris 1972, p. 79. 45 S. Weil, Quaderni, I, cit., p. 148.

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infatti, in ogni campo, lo squilibrio, il dominio dell'illimitato.46 Tale è la conoscenza moderna, che si svelle dalla contemplazione dei limiti e delle regolarità del cosmo, per diventare auto-conoscenza, sapere ossessivo. Ma tale è anche la forma assunta dalle relazioni tra gli uomini. Nel mondo moderno la società rappresenta l'irruzione dell'illimitato, la frapposizione di uno spazio incolmabile, tra gli individui. Nella società la debolezza umana non è affidata allo sguardo d'altri, ma è soggetta all'impassibilità di un'astrazione. Persino· nella situazione limite della guerra, quando la necessità della forza si interrompe, Io sguardo del guerriero non può ignorare la supplica. Achille non sopporta senza commozione lo sguardo di Priamo, nella: tenda. Arjuna si ferma quando il suo sguardo si posa sui parenti. Anche se nel mito questa pietà suscitata dalla presenza d'altri non può fermare la necessità, esso le dà senso. Il dolore non ossessivo è ciò che descrive la relazione tra con-presenza e necessità. Esso permette di muoversi consapevolmente rispetto alla necessità, di essere responsabili. Nella società invece, in quanto dominio dell'illimitato, lo sguardo erra senza potersi arrestare sul volto d'altri. In questo senso Simone Weil descrive rigorosamente la relazione sociale moderna come immaginaria. La società realizza il potere schiacciante dell'immaginario sulla misura umana. 47 Simone W eil tocca qui un aspetto decisivo della condizione moderna. Con questa, l'umanità si libera dei legami che la tenevano avvinta al cosmo, di quell'intimità come "convenirsi reciproco dei lottanti" cui allude Beidegger. La terra non è più fondamento ma risorsa inesauribile, illimitata. Quel cosmo naturale, che la meta.fisica moderna tratta ormai alla stregua di mathesis, sistema di funzioni astratte dai loro contenuti, è dissolto. Ma la necessità e la forza impongono che un altro legame sia sostituito a quello spezzato. Il legame sociale prende il posto di quello naturale: "Il capitalismo ha realizzato l'affrancamento della collettività umana rispetto alla natura ... Ma questa collettività, in rapporto all'individuo, ha Su questo punto ha posizioni analoghe K. Lowith in Saggi sulla storia, Firenze 1971. 47 Questa critica radicale della società è comune ad alcuni autori . che condividono con Simone Weil una posizione marginale nella cultura contemporanea. Ci riferiamo in particolare a H. Arendt, Vita activa, Milano 1964, e a C. Michelstadter, Persuasione e rettorica, Milano 1982. 46

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ereditato la funzione oppressiva esercitata un tempo dalla natura." 43 Beninteso, anche la natura è oppressiva, in quanto manifestazione dello squilibrio, della forza e della gravità. Ma in essa, attraverso la lotta non distruttiva, tra Mondo e Terra, è ritagliabile un cosmo. La saggezza arcaica, la filosofi.a, è anche contemplazione e consolazione dello squilibrio. Ma quale cosmo si può ritagliare entro i confini di ciò che Simone Weil chiama collettività? I tentativi di fare della società un ordine, quali le scienze sociali promuovono da oltre un secolo, testimoniano la vacuità del nuovo legame. Simone Weil nota spesso il bisogno di surrogare i legami perduti con false religioni, falsi legami. Ai suoi tempi, nei primi decenni di questo secolo, il bisogno puramente immaginario di un nuovo cosmo si manifestava con le nozioni di "religione civile" o di "coscienza collettiva". Oppure, come nella Germania pre-nazista, con un appello anacronistico ai miti della terra e del radicamento. Nel nostro tempo, la pretesa di costruire un cosmo sociale, una cultura, è caduta. Se non altro, il discorso sociale ha rinunciato a surrogare le religioni, si mostra per quello che è, un discorso sull'organizzazione della forza. Nel saggio sull'Iliade, Simone Weil ha confutato rillusione moderna secondo cui il legame sociale abolirebbe il regno della forza:· "Chi aveva sognato che la forza, grazie al progresso, appartenesse ormai al passato, ha voluto vedere in questo poema un documento; chi sa discernere la forza, oggi come un tempo, al centro di ogni storia umana, vi trova il più bello, il più puro degli specchi." 49 Si tratta oggi, almeno nella cittadella dell'Occidente, di un tipo evidentemente diverso di forza. La violenza mitica, che trasforma in cose gli uomini, sia quelli che impugnano la spada sia quelli che la subiscono, tiranni e schiavi, si è ritirata dalla vita sociale per attestarsi sui confini degli stati. Ma la forza come ossessione, come necessità inappellabile preme non meno di ieri sulla vita sociale, è la vita sociale, ciò che Simone Weil chiama la nuova Bestia, che ha sostituito il tradizionale Leviatano. È la società come luogo in cui erra l'immaginario, in cui sguardo e pensiero sono dominati dall'astrazione. Ciò che Simmel ha detto del denaro, al culmine della modernità, descrive la forza astratta eppure ossessiva del legame sociale: "Il denaro è l'unico prodotto cui"' S. Weil, Quaderni, I, cit., p. 133. -tt S. Weil, L'Iliade poema della forza, in La Grecia e le intuizioni precristiane, cit., p. 11.

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turale che è pura forza, che ha rimosso da sé il portatore, divenendo assolutamente e soltanto simbolo. Fino a qui esso è il più caratterizzante fra tutti ì fenomeni del nostro tempo, nel quale la dinamica ha conquistato la guida di ogni teoria e di ogni prassi. Che sia pura relazione... senza includervi alcun contenuto, non è contraddittorio. La forza in realtà non è che relazione. " 50

5. Etica come limitazione

II pensiero di Simone Weil, inattuale nella sua terminologia volutamente estranea alla cultura filosofica contemporanea, rivolto all'ordine arcaico piuttosto che all'apologia del disordine moderno, si rivela tuttavia contiguo con la riflessione contemporanea sul nichilismo. La ricerca di Dio nell'impossibilità, l'analisi del decadere dell'ordine cosmico, la consapevolezza della devastazione compiuta dalla modernità, la stessa accettazione consapevole della forza, la nozione di un'impossibile conciliazione tra uomini e dèi, tra terra e cielo ( ciò che Heidegger chiama il Geviert, la quadratura) si impongono nel nostro secolo come i termini che descrivono l'esistenza sulla terra. Ma è soprattutto nella nozione di debolezza, che il tragitto di Simone Weil finisce per intrecciarsi a quello della filosofia. Debolezza indica infatti la condizione comune· del pensiero e dell'esistenza davanti al nichilismo. Il pensiero che non soggiace al fascino della forza ossessiva, deIIa potenza moderna, non può che riconoscere in modo disincantato l'equazione di nichilismo realizzato e dominio planetario. Quando la filosofia riflette sull'assoggettamento dell'uomo ai suoi prodotti (ciò che Simone Weil chiama la conoscenza ossessiva e il feticcio sociale), non può non trovare in questo esito del nichilismo una condizione normale. Rispondendo a E. Jiinger, e alla sua ipotesi di un superamento della condizione nichilistica,51 Heidegger sottolinea la necessità di accettare tale destino: "II nichilismo non è in se stesso qualcosa di patologico, come il cancro. Per ciò che concerne l'essenza del nichilismo, non c'è speranza di guarigione." 52 Il ni50

G. Simmel, Diario postumo, in Saggi di estetica, Padova 1970, p. 39. E. Jiinger, Ober die Linie, in Werke, Bd. 5, Stuttgart 1960, pp. 247-289. 52 M. Heidegger, Zur Seinsfrage in Wegmarken, Frankfurt a. M. 1967, p. 215. 51

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chilismo è divenuto cosl potente e planetario, che non può aver senso negarlo, o tentare di combatterlo:· "Non c'è spirito penetrante che vorrebbe negare che il nichilismo, sotto le forme più diverse e più nascoste, sia lo stato 'normale' dell'umanità. Le migliori prove ne sono i tentativi esclusivamente reazionari che sono stati fatti contro il nichilismo, e che, invece di lasciarsi andare a un dialogo con la sua essenza, promuovono la restaurazione di ciò che non è più (die Restauration des Bisherigen ). " 53 Heidegger ha mostrato in vari luoghi l'esito nichilistico della cultura: trasformazione della filosofia in una pluralità di scienze de-antologizzate, dominio mondiale della cibernetica e del pensiero "calcolante", organizzazione planetaria della potenza. Dinanzi a tale funzionalizzazione della verità filosofica, che già Nietzsche aveva indicato nell'equazione moderna di verità e potenza, il compito del pensiero consiste ormai in un dialogo, senza pretese forti di sistematicità, completezza e penetrazione, con l'essenza del nichilismo - con il compimento stesso della filosofia. Con Heidegger, il pensiero aodica alla possibilità di controllare, anche solo teoreticamente, il processo del nichilismo, "la razionalizzazione tecnico-scientifica" .54 La filosofia accetta in modo disincantato la coabitazione con un processo di razionalizzazione che, nella sua effettualità, insensatezza e mancanza di fini, non si lascia prevedere, rimanendo aperta sia la possibilità di una distruzione finale sia di un consolidamento dagli esiti incerti. Il ritorno alle cose stesse, in cui Heidegger mostra il compito attuale del pensiero, non significa certamente un recupero dell'oggettivismo, ma una riflessione sullo statuto precario della soggettività nella filosofia. Significa inoltre considerare un rapporto con il mondo che oggi non è più pensabile in termini di conciliazione. Tale riflessione assume sempre di più le caratteristiche del raccoglimento, come indicano gli stessi termini con cui Heidegger descrive la condizione attuale del pensare; metafore in cui la presenza di un bosco fitto e impenetrabile (l'oggettività minacciosa e illusoria della metafisica realizzata) si contrappone ai cauti sondaggi del pensiero; sentieri interrotti e itinerari in cui è sospesa la speranza di trovare o indicare la via. Cosl una delle nozioni decisive di Heidegger, la Lichtung, allude solo alla possibilità che nel fitto 53 54

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Ivi, p. 220. M. Heidegger, La fine della filosofia, in Tempo ed essere, Napoli 1980.

dell"' irrefrenabile dilagare della razionalizzazione e della furia sradicatrice (das Fortreissende) della cibernetica" 55 si apra una radura (Lichtung), nel senso di un'apertura alla verità che non è ancora verità. Il compito della filosofia, qualcosa di non realizzato e forse irrealizzabile, è affidato alla labile riflessione su ciò che si dà nella radura, su un senso nascosto. La verità filosofica risiede in questi chiaroscuri, in cui, allo stesso modo della luce che piove improvvisamente sulle radure, può rivelarsi la cosa stessa del pensiero. Con queste riflessioni di Heidegger, i momenti dell'ascolto, dell'attenzione raccolta come nell'attesa di una rivelazione,- dell'indefinibile voce del linguaggio poetico e della natura, segnano una condizione di estrema e consapevole debolezza del pensiero, il ripudio di ogni attività di conquista e identificazione della verità. Tale condizione costituisce, a ben vedere, un esito necessario del pensiero che, nel corso di questo secolo, ha conosciuto la trasformazione della ragione in forza, senza farsene conquistare. Un'analoga tensione tra razionalizzazione e raccoglimento emerge negli scritti di Weber, dove l'austera partecipazione al corso insensato del mondo (la responsabilità, il "saggio comando") non lascia spazio che a dei palpiti privati, a ciò che lo stesso Weber ha chiamato il "pianissimo". 56 L'autenticità dell'esistenza, su cui Heidegger aveva fondato il suo originario programma filosofico - e a cui ha finito per rinunciare - è ormai indicibile, diventa qualcosa di osceno se esposta al mondo. Il "pianissimo", il raccoglimento, cosl come l'ascolto di una voce naturale o divina, non si lasciano dichiarare: possono valere solo come indizi di quell'alludere poeticofilosofico, in cui il pensiero trova ormai un limite espressivo insormontabile, forse la sua stessa fine. Nel ripiegarsi del pensiero, cosl come nell'aprirsi del linguaggio .filosofico alla poesia, si manifesta dunque una consapevole debolezza. Pensarla significa accettare il disincantamento, la perdita del cosmo, come destino ineludibile, come necessità. II pensiero accetta di non separarsi dal processo di compimento del nichilismo, di patirlo, riservandosi solo zone di chiaroscuro in cui mostrare, al di fuori di ogni consolazione, l'essenza del dominio. La nozione di debolezza indica dunque la fragile costituzione attuale del discorso filosofico, il suo oscillare tra il ri" Ivi, p. 180. 56

M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione, dt., p. 76.

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conoscimento-accettazione del processo di compimento della metafisica come Storia dell'Essere - la normalità del nichilismo - e l'oltrepassamento, accidentato, necessariamente ambiguo, intermittente, di tale condizione. Il pensiero si installa debolmente nella differenza, non nel senso di un privilegio accordato a presunte valenze di ciò che è marginale, empiricamente differenziale o debole, ma come indecidibilità del dilemma antico-ontologico. Heidegger in particolare prende posizione sia contro il recupero della tradizione, sia contro l'illusione che la sfera della tecnica, il dominio degli enti, la sfera della forza e della mancanza di fondamento possano in quanto tali essere trasparenti, offrire un progetto. Si tratterebbe in ogni caso di un processo di imposizione ( Gestell), di essere-progettati, che l'uomo si illude di controllare, di progettare.57 La riflessione di Heidegger è qui enigmatica poiché proprio nella tecnica, nella sua progettualità soggettivo-distruttiva, si indica il manifestarsi di un evento ( Ereignis) che potrebbe capovolgere il senso del compimento della metafisica: "Ciò che cogliamo, attraverso il mondo della tecnica, nell'im-posizione [ Ge-stell] come costellazione di essere e uomo, è un preludio di ciò che Er-eignis significa [ heisst]. L'Ereignis, tuttavia, non si irrigidisce necessariamente nel suo preludio. In esso, infatti, si fa sentire la possibilità che il semplice imporsi dell'im-posizione [ Ge-stell] venga approfondito in direzione di un più originario farsi-evento [Ereignen]. Un tale approfondimento [Verwindung], che si compie nell'im-posizione [ Ge-stell] a partire dall'Er-eignis, porterebbe a una ripresa, nella luce delI'Ereignis (non sarebbe quindi mai qualcosa che l'uomo possa fare da solo), del mondo della tecnica, che dal suo stato di dominio passerebbe a uno stato di asservimento all'interno dell'ambito attraverso cui l'uomo raggiunge nel modo più pro• prio l'Er-eignis." 58 In tale "mai qualcosa che l'uomo potrebbe fare da solo" si esprime l'inanità, per Heidegger, di un tentativo umanistico di sovvertire la necessità del processo di imposizione. Come esempio della condizione di passività e di debolezza dell'uomo dinanzi all'Ereignis, Heidegger si riferisce esplicitamente all'etica. Infatti, con una rappresentazione che esalti la possibilità di una progettazione umanistica "tutto è ricondotto all'uomo e si perviene, nel migliore dei casi, all'esigenza sr Su questa nozione dr. in particolare M. Heidegger, LA questione della tecnica, in Saggi e discorsi, Milano 1976, pp. 5 e sgg. sa M. Heidegger, Identità e differenza, "aut aut" 187-188, 1982, p. 13.

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di un'etica adeguata al mondo della tecnica. Irretiti in tale rappresentazione, si finisce per rafforzarsi nell'opinione che la tecnica sia qualcosa che riguarda soltanto l'uomo. Si trascura di dare ascolto all'appello dell'essere, appello che parla nell'essenza della tecnica. "59 Non è dunque nell'illusione di riprogettare un'etica, a partire dall'opaca dimensione della tecnica, e dello sforzo umanistico del suo superamento, che può muovere una comprensione dell'essenza del mondo contemporaneo. Qui l'etica appare come una variante, una diramazione del processo di imposizione. Anche un'etica senza fondamenti, quale viene ripetutamente proposta dalle :filosofie consapevolmente acefale d'oggi, appare come una traduzione, adeguata al nostro tempo, dei presupposti forti della metafisica. Ogni etica, per quanto pensata nei termini deboli, meramente operativi, di un coordinamento minimo delle attività umane, risente del fondamento perduto, pur nella condizione di oblio che fa irridere al fondamento originario, metafisico. Ma la nozione di debolezza può essere associata diversamente all'etica, può essere l'etica. Può far pensare, analogamente alla nozione hcideggeriana di differenza ontologica, a una riflessione che si installa nella condizione di indecidibilità, che si limita a essere presente nel processo di imposizione, senza pretendere di sovvertirne la fonte. Qui la debolezza non appare solo come una condizione logica, una particolare costituzione del pensiero, ma rimanda a una condizione che si potrebbe chiamare patologica, alla debolezza come orizzonte dell'esistenza. Essa descrive d'altronde, anche se in una prospettiva empirica, l'essenza della condizione umana nel mondo della tecnica (non solo tecnica come immaginario della natura, ma anche come immaginario dell'uomo e della società). Debole è dunque, come nella riflessione enigmatica del secondo Heidegger, la condizione dell'uomo che riconosce comunque di essere vincolato alla necessità. Egli accetta, come in Simone Weil, di declinare con il mondo, limitando, quanto è umanamente possibile, il suo contributo all'ingiustizia. La limitazione, la debolezza in quanto etica, può essere la forma che assume oggi la responsabilità. 60 Se a questo declinare possa mai corrispondere un riequilibrio, una giustizia, questo appare oggi qualcosa che il pensiero non può decidere. 59

lvi, p. 11.

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Si veda a questo proposito la riflessione di Heidegger sulla Gelassenheil: M. Heidegger, L'abbandono, Genova 1983.

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Invecchiamento della "scuola del sospetto" DI MAURIZIO FERRARIS

È stato Paul Ricoeur, nel suo saggio su Freud De l'inter-

prétation,1 a conferire il nome comune di "scuola del sospetto" alla triade Nietzsche-Freud-Marx. Secondo Ricoeur ( che in ciò sintetizza una posizione assai diffusa nella cultura contemporanea), il legame che unisce pensatori almeno originariamente remoti gli uni dagli altri per metodo e intenzioni, quali Nietzsche, Freud e Marx, consisterebbe in un comune atteggiamento "smascherante", in una demistificazione programmatica e radicale .. Pensare, per la "scuola del sospetto", significa interpretare. La interpretazione segue però un processo "vertiginoso": per essa, non solo le tradizioni, le idee ricevute, l'ideologia sono ingannevoli e mistificanti; ma la stessa nozione di "verità" è l'effetto di una stratificazione (e mistificazione) storica, ha origini retoriche, emotive, interessate. Il "proprio", il senso autentico di cui le apparenze e le formazioni secondarie sono la metafora, è a sua volta qualcosa di oscuro e di derivato: qualcosa che a sua volta deve essere sottoposto a interpretazione. Come scrive Nietzsche in una pagina del Libro del filoso/o: "Le verità sono delle illusioni che hanno dimenticato di essere tali, delle metafore che hanno perduto la loro forma sensibile, delle monete che hanno perduto il loro conio e 1 Cfr. De l'interprétation. Essai sur Freud, Ed. du Seuil, Paris 1965; tr. it. di Emilio Renzi: Della interpretazione. Saggio su Freud, Il Saggiatore, Milano 1966, in particolare le pp. 46 e sgg. della tt. it. (L'interpretazione come esercizio del sospetto).

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che vengono allora considerate, non più come moneta, ma come metallo." 2 Anche sotto l'influsso di circostanze esteriori, appartenenti alla storia della cultura in senso lato, la "scuola del sospetto" ha incontrato, specialmente nel ventennio trascorso, una grande fortuna ( si pensi, ad esempio, a fenomeni come la NietzscheRenaissance in Francia e poi in Italia, alla diffusione capillare della psicanalisi, ecc.). Ma d'altra parte, e verosimilmente non solo per il venir meno delle circostanze "culturali" che ne decretarono il successo, la "scuola del sospetto" manifesta oggi segni assai evidenti di obsolescenza. Un invecchiamento tanto più palese quanto più, viceversa, l'ermeneutica "in genere" (e in particolare il pensiero di Gadamer) tende attualmente a porsi come orizzonte complessivo della filosofia "classica", della riflessione extrametodica intorno alla tradizione filosofica e linguistica. Si potrebbe anzi, in via preliminare, avanzare l'ipotesi che l'ermeneutica abbia conseguito il proprio ruolo unificante, di koinè linguistica e teorica, proprio mettendo tra parentesi le intenzioni più nettamente smascheranti della "scuola_ del sospetto", e presentandosi non come rottura e oltrepassamento della tradizione :filosofi.ca, ma piuttosto come sua memoria e conservazione. Per quanto possano essere ovvi i motivi di "storia della cultura" che hanno decretato l'invecchiamento della "scuola del sospetto" e l'affermarsi dell'ermeneutica nel senso gadameriano, restano invece aperti sul piano più propriamente teorico almeno tre interrogativi, a cui tenteremo qui in parte di rispondere: quali ,sono i limiti intrinseci dell'ermeneutica del sospetto? qual è il suo rapporto con l'ermeneutica gadameriana? in che misura alcune contaminazioni fra l'ermeneutica e la "scuola del sospetto", come la grammatologia di Jacques Derrida, conservano una certa attualità :filosofica nel panorama della riflessione teorica contemporanea?

1 Non ancora disponibile nelle Opere a cura di Colli e Montinari, Il libro del filosofo è tradotto in volume separato, Savelli, Roma 1978. Questa citazione (qui lievemente modificata) vi si trova a p. 76.

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1. I limiti dello smascheramento Due analisi, di Foucault e di Derrida, possono aiutarci a meglio definire alcuni limiti intrinseci della ermeneutica del sospetto. Anzitutto, Foucault, in uno scritto del 1964,3 ravvisa due rischi che incombono sulle pratiche di Nietzsche, Freud e Marx: il nichilismo e il dogmatismo. In primo luogo, il nichilismo. Perché, scrive Foucault, l'approfondirsi della interpretazione "smascherante", proprio in quanto suppone il costante passaggio da una interpretazione all'altra (dietro a una maschera se ne celano altre; le metafore si susseguono all'infinito, senza mai giungere a un terminus ad quem ), può portare alla conclusione che non vi sia, propriamente, nulla da interpretare, e che l'intero processo ermeneutico si risolva in se stesso. Di fatto, questo esito nichilistico caratterizza non solo l'ermeneutica del sospetto, ma l'ermeneutica in genere (si pensi a certi tratti tipicamente nichilistici assunti dalla riflessione gadameriana, per la quale la nozione "forte" di verità si dissolve in un dialogo diffuso, in uno scambio collettivo di significati, che non si appoggiano su alcun referente stabile, e che non conducono a verità definitive). E tuttavia, nel caso della ermeneutica del sospetto, questa dissoluzione nichilistica del referente della interpretazione assume, secondo Foucault, tonalità tipicamente aporetiche, cosl da conferire tratti patolçgici a una ermeneutica che - a differenza di quanto avviene, per esempio, in Gadamer - è tendenzialmente "vertiginosa". Si giunge cosl, scrive Foucault, a "una ermeneutica che si riavvolge su se stessa, entra nel territorio dei linguaggi che si auto-implicano costantemente, la regione mitica della follia e del puro linguaggio" .4 A sua volta, il dogmatismo costituisce il rovescio della autoimplicazione nichilistica delle interpretazioni; in un certo senso, ne è la formazione reattiva. "Meglio un qualsiasi senso che l'assenza di senso", scrive Nietzsche nella Genealogia della morale descrivendo la genesi degli ideali ascetici; stanco di Nietzsche, Freud, Marx, in uCahiers de Royaumont" 6, Ed. de Minuit, Paris 1967 (atti del convegno internazionale di Royaumont su Nietzsche, 1964), pp. 182-192. • Nietzsche, Freud, Marx, cit., p. 192. 3

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maschere, l'interprete può fermarsi a una maschera qualsiasi, oppure avvalersi di una griglia ermeneutica preformata, per cui a ogni significante corrisponda un significato stabile. Si crea cosi un codice, e l'ermeneutica si trasforma in una semiotica. Scrive ancora Foucault: "Una ermeneutica che di fatto si ripieghi su una semiotica crede alla esistenza assoluta di segni: abbandona la violenza, l'incompiuto, la infinità delle interpretazioni, per far regnare il terrore dell'indizio, e sospettare il linguaggio." 5 Ancora una volta, ci troviamo di fronte alla ambiguità implicita in ogni ermeneutica del sospetto, sempre sospesa tra un eccesso e un difetto di interpretazione; una duplicità che si annida in ogni richiamo a una razionalità smascherante, che si può anche tradurre nei termini di una dialettica dell'illuminismo quale la tratteggiano Adorno e Horkheimer: "Nietzsche ha compreso, come pochi dopo Hegel, la dialettica dell'illuminismo, e ha enunciato il rapporto contraddittorio che lo lega al dominio. Bisogna 'diffondere l'illuminismo nel popolo, perché i preti diventino tutti preti in cattiva coscienza, e lo stesso bisogna fare con lo stato. II compito dell'illuminismo è di fare, di tutto il contegno dei principi e dei governanti, una menzogna intenzionale'. D'altro canto l1illuminismo è sempre stato uno strumento dei 'grandi artisti di governo'." 6 Nichilismo e dogmatismo si rafforzano a vicenda; lo smascheramento tende o a avvolgersi su se stesso, oppure a porre le basi di un nuovo mito dogmatico, eventualmente caratterizzato da un "orrore mitico per il mito" .7 Ma se le analisi di Foucault tendono a indicare i limiti presenti negli esiti (siano essi inevitabili o meno) di una ermeneutica del sospetto, Derrida - specialmente nell'esame della "mitologia bianca" 8 che costituirebbe il nocciolo della "me5

Ibid. Max Horkheimer, Theodor W. Adorno, Dialektik de-r Aufklarung, Querido Verlag, Amsterdam 1947, tr. it. di Lionello Vinci: Dialettica dell'illuminismo, Einaudi, Torino 19744, p. 53, corsivi nostri. 1 Op. cit., p. 37. 8 La Mythologie bianche, in "Poétique,. 5, (1971), ora in Jacques Derrida, Marges de la philosophie, Ed. de Minuit, Paris 1972, pp. 247-324. Cfr. in particolare l'ultirru sezione del saggio, La métaphysique relève de la métaphore, alle pp. 308 e sgg. della cd. in volume. 6

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tafi.sica occidentale" - ravvisa una disfunzione costitutiva - o una contraddizione originaria che caratterizza il progetto smascherante in quanto tale. Il passo di Nietzsche riportato nel precedente paragrafo, e che Derrida commenta nel suo saggio sulla "Mythologie blanche", si presenta in prima istanza come un tentativo di "oltrepassamento della metafisica". Attraverso una ermeneutica particolarmente estremizzata, Nietzsche parrebbe; svelare le clausole metafisiche che si annidano entro lo stesso concetto di "verità", la quale si rivela come una semplice metafora. Ma, obietta Derrida, siamo certi che questa volontà di smascheramento non sia solidale, in modo profondo e costitutivo, con la storia della metafisica? In apparenza, Nietzsche svela illuministicamente una tipica "mitologia bianca", la credenza in un fondamento stabile della verità, in un porsi obiettivo del vero, al di là delle contaminazioni della doxa, e degli interessi. Di fatto, però, questo smascheramento si presenta come strettamente imparentato con ciò che si vuole demistificare, si presenta cioè come "classicamente" metafisico. Che cos'è la metafisica, prosegue infatti Derrida, se non l'ambizione di svelare le metafore, di oltrepassare il velo dell'apparenza? Più della metafora della moneta, richiamata da Nietzsche, occorrerebbe prendere in considerazione la metafora della luce - intesa come immagine generale di ogni ermeneutica del sospetto e di ogni m·etafisica -, che illustr~ bene come il desiderio di smascherare, più che porci al riparo della metafisica, sia di fatto l'essenza stessa di ciò che, nella tradizione di Nietzsche e di Heidegger, va sotto questo nome. "Metafora fondatrice,'' scrive Derrida, "non solo in quanto metafora fotologica - e a questo proposito tutta la storia della nostra filosofia è una fotologia, nome che si dà alla storia o al trattato della luce - ma già in quanto metafora: la metafora in generale, passaggio da un essente a un altro, o da un significato a un altro, autorizzato dalla sottomissione iniziale e dallo spostamento analogico dell'essere sotto l'essente, è la pesantezza iniziale che trattiene e reprime irrimediabilmente il discorso della metafisica. Destino che solo con una certa jngenuità si può considerare come il riprovevole e provvisorio accidente di una 'storia'; come un lapsus, un errore del pensiero nella storia (in historia). È, in historiam, la caduta del pen124

siero nella filosofia, per mezzo del quale la storia ha preso avvio." 9 La volontà di smascherare - di gettare una luce oltre il velo delle apparenze, di giungere al proprio che si cela dietro alla metafora - non è l'atto finale della metafisica, il "mezzogiorno degli spiriti liberi" di cui parla Nietzsche; al contrario, è precisamente l'atto iniziale di ogni metafisica. D'altra parte, la metafisica non è tale in quanto ignora che la stessa "verità" non è che un'antica metafora: lo è piuttosto perché, consapevole del carattere metaforico dei propri enunciati, ha tentato, nel corso di tutta la sua "storia", di ridurre il metaforico al proprio, all'adeguato, al concettualmente univoco._ Se vista in questa prospettiva, non più legata a una dialettica dell'illuminismo, ma piuttosto alla interpretazione heideggeriana della "storia della meta.fisica" come storia de11' oblio dell'essere, l'ermeneutica del sospetto si presenta allora come il coronamento di quella vicenda. Il soggetto che "svela", che riconosce più o meno nichilisticamente i fondi molteplici che si nascondono dietro al metaforico ( o alla coscienza freudiana, o alla falsa coscienza oggetto della critica della ideologia) è precisamente il soggetto metafisico per eccellenza, che incarna la propria volontà di potenza nella "volontà di interpretazione". 2. Il quadro dell'ermeneutica. Ricostruzione e integrazione Si conferma per questa via la conclusione, non troppo paradossale, secondo cui l'ermeneutica del sospetto è un tipico esempio di pensiero "forte", perentorio e metafisico - non ·meno delle convinzioni ingenue, positive o ideologiche, che essa si propone di smascherare. E ciò non solo per gli esiti possibili in cui si può risolvere (il nichilismo della interpretazione oppure il dogmatismo, l'irrigidimento in una semiotica o in una struttura); ma principalmente per l'assunto enfaticamente smascherante che la anima. Una considerazione che si chiarisce meglio quando si tenti una classificazione di questa modalità ermeneutica entro il quadro tipologico proposto da Gadamer in Verità e metodo. 10 9

Force et signification, in "Critiquc" 193-194 (giugno-luglio 1963), ora in L'écriture et la di/Jérence, Ed. du Seuil, Paris 1967; tr. it_ di Gianni Pozzi: La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971, p. 34. 10 Hans Georg G!damer, Wahrheit und Methode, Mohr, Tiibingen, 19723 ; tr. it. di Gianni Vattino: Verità e metodo, Bompiani, Milano 19833 •

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Riferendosi specifìcamente alla estetica e alla interpretazione delle opere d'arte consegnate dalla tradizione, Gadamer fa precedere l'esposizione del proprio modello interpretativo dalla analisi di due modalità ermeneutiche che reputa insufficienti: la ricostruzione secondo Schleiermacher, e la integrazione proposta dalla filosofia hegeliana della storia.11 Rapportarsi ermeneuticamente alle opere del passato, scrive Gadamer, non significa né ricostruirne il mondo storico originario, come si proponeva Schleiermacher, né semplicemente, secondo il modello hegeliano, inscrivere l'opera entro una teleologia storica che la motiverebbe, istituendo una mediazione, operata dal pensiero, con la vita presente. Nella prospettiva gadameriana, l'integrazione come pratica ermeneutica richiede una diversa mediazione, effettuata non dallo spirito assoluto, ma da una tradizione essenzialmente linguistica, con l'opera che quella stessa tradizione ci consegna. Il rapporto ermeneutico si compone quindi di una tradizione, trasmissione e traduzione, che integra quanto nel corso del tempo l'opera inevitabilmente. perde - il mondo storico e spirituale entro cui è sorta - con la storia (in larga misura accidentale: non orientata, teleologica e perentoria) delle sue interpretazioni, della sua "fortuna" - che viene quindi a far parte integrante dell'opera stessa, dell'oggetto da interpretare in quanto tale. Nel concetto di Wirkungsgeschichte, 12 di "storia degli effetti,,, si assume quindi che l'opera è costitutivamente spuria, che cioè l'interpretazione si effettua su un territorio già compromesso; e che quindi lo "smascheramento" non è a rigore possibile. Per ritornare all'esempio di Nietzsche, della verità come antica metafora, risulterebbe in questa prospettiva che il senso - la riduzione della metafora, lo svelamento del "proprio" che si nasconderebbe dietro al tropo metaforico - è costitutivamente irraggiungibile; e che l'interpretazione consisterebbe piuttosto in un rapporto, più diffuso e meno perentoriamente smascherante, con il succedersi storico delle interpretazioni, delle metafore, dei trasferimenti di senso. Più precisamente, se proviamo a inserire l'ermeneutica del sospetto entro la tipologia gadameriana, ci accorgeremo che 11

Cfr. in particolare le pp. 202-207, Ricostruzione e integrazione come compiti ermeneutici, della tr. it. cit. di Verità e metodo. 12 Cfr. in particolare Il principio della "Wirkungsgeschichte", in Verità e metodo, tr. it. cit., pp. 350-363.

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la volontà di oltrepassare il velo (storico, ideologico, positivo) dell'apparenza - o la volontà di oltrepassare la metafisica, tout court - mostra una visibile affinità con il progetto ricostruttivo di Schleiermacher, cioè con il progetto di una ermeneutica che ripercorra le articolazioni interne e esterne dell'opera, cosi da restituirne, insieme alla struttura, anche il mondo st~ rico entro cui essa si è costituita, l'origine. In effetti, per quanto - soprattutto in Freud e in Nietzsche - la scuola del sospetto non manchi di cautele "antimetafìsiche" (un maggiore interesse per gli effetti, per le vicissitudini che hanno generato una determinata concezione teorica o morale), tuttavia l'intenzione ermeneutica fondamentale è puntata verso una analisi ricostruttiva. Come dimostrano in modo esemplare le vicissitudini storiche del freudismo, e la stessa metapsicologia freudiana, l'ermeneutica del sospetto tende infatti a stabilire un rapporto diretto e propriamente "metafisico" con la natura, con le cause dirette, le pulsioni immediate, con le origini biologiche e metastoriche dei comportamenti. Si può quindi riferire alla "scuola del sospetto" quanto Gadamer scrive a proposito della ermeneutica "ricostruttiva" di Schleiermacher: "In definitiva, una tale definizione dell'ermeneutica non è meno contraddittoria di ogni altra restituzione e restaurazione di una vita passata. Dal punto di vista della storicità del nostro essere, la ricostruzione delle condizioni originarie, come ogni altro tipo di restaurazione, si rivela ·un'impresa destinata allo scacco. La vita che viene restaurata, recuperata dal suo stato di estraneità, non è più la vita originaria. Essa acquista soltanto, nel perdurare dell'estraneità, una seconda esistenza sul piano della cultura [ ... ]. Cosl un'operazione ermeneutica che intendesse il comprendere come restaurazione dell'origine rimarrebbe pura comunicazione di un significato perento. " 13 Rispetto agli intenti ricostruttivi che animano la ermeneutica del sospetto non meno di quanto non animassero, sebbene con finalità diverse, l'ermeneutica schleiermacheriana, il progetto di integrazione quale viene proposto da Gadamer si presenta più dichiaratamente come una pratica "debole", sicuramente meno perentoria e metafisica. Come l'integrazione secondo Hegel, l'ermeneutica gadameu Op.

cit., p. 205.

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riana muove infatti dalla consapevolezza della impossibilità di una restaurazione, di una interpretazione definitiva o di una trasparenza totale. Ma la sostituzione effettuata da Gadamer, della filosofia hegeliana della storia ( teleologica, fondata, motivata) con il concetto di Wirkungsgeschichte, depotenzia ulteriormente la voJontà "smascherante" depositata nell'atto ermeneutico. L'interpretazione non assume più come quadro il proposito di unr, restituzione-restaurazione integrale dell'origine; di più, non si avvale neppure, per motivare il succedersi delle interpretazioni e delle trasformazioni, del "tempo forte" della storia. Essa segue il succedersi - in ultima istanza accidentale - di una serie di interpretazioni differenziate, che modificano al tempo stesso l'oggetto della interpretazione e fa nostra coscienza ( e il nostro approccio) di interpreti. Invece di presentarsi come il conseguimento di una trasparenza definitiva, di una evidenza non opinabile, l'ermeneutica risulta qui immersa in una costitutiva opacità, Anzitutto, la Wirkungsgeschichte, scrive Gadamer "decide anticipatamente di ciò che si presenta a noi come problematico e come oggetto di ricerca, e noi dimentichiamo la metà di ciò che è, anzi dimentichiamo l'intera verità del fenomeno storico se assumiamo tale fenomeno, nella sua immediatezza, come l'intera verità" .14 Se in sostanza l'ermeneutica del sospetto è soggetta, non meno della ermeneutica ricostruttiva di Schleiermacher, alla illusione storicistica per cui non vien posto in questione proprio il quadro storico che condiziona il soggetto della interpretazione - al contrario, l'ermeneutica gadameriana muove precisamente dalla consapevolezza delle determinazioni storiche che ci definiscono come interpreti. La "integrazione" ermeneutica è quindi prima di tutto una pratica transitoria, mutevole, precaria: "Essere storico significa non potere mai risolversi totalmente in autotrasparenza." 15 A questo punto, ci si può domandare se tutte le esigenze "depotenzianti" rispetto alla perentorietà della ermeneutica del sospetto siano soddisfatte dal progetto gadameriano.

14 15

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Op. cit., p. 351. Op. cit., p. 352.

3. Dalla integrazione alla decostruzione Per quanto orientato verso una opacità che sospende le intenzioni più perentorie della ermeneutica del sospetto, il modello integrativo di Gadamer presenta almeno un carattere che si espone immediatamente alla critica. Si tratta del predominio molto palese della continuità ( tra presente e passato, anzitutto; ma anche tra i momenti diversi di una tradizione) che la caratterizza. Una tendenza verso il continuo che agisce in due direzioni: la prima è l'accesso ben poco problematico dell'interprete nei confronti dei lasciti (testi, documenti, monumenti) di una tradizione; la seconda è la possibilità, in definitiva troppo facilmente rivendicata da Gadamer, di istituire un dialogo produttivo fra i testi di quella tradizione e le condizioni attuali del dialogo sociale. · Le due tendenze sono ovviamente correlate. Nella terminologia heideggeriana, si potrebbe dire che Gadamer presentifìca troppo nettamente la tradizione, che elide con troppa rapidità le cesure e le differenze operanti in essa.16 Le osservazioni presenti in Verità e metodo sulla interpretazione dei testi scritti sono a questo proposito assai indicative. Scrive infatti Gadamer: "Nella forma dello scritto, tutto ciò che è tramandato è contemporaneo di qualunque presente. In esso si ha una peculiare coesistenza di passato e presente, in quanto la coscienza presente ha la possibilità di un libero accesso a ogni tradizione scritta, senza più dover ricorrere alla trasmissione orale, che mischia le notizie del passato con il presente, ma rivolgendosi direttamente alla tradizione letteraria, la coscienza comprendente acquista un'autentica possibilità di allargare il proprio orizzonte, arricchendo cosl il proprio mondo di una dimensione nuova." 17 Il passato quale ci viene trasmesso dalla scrittura (cioè quale pura idealità, senza contaminazioni e -mediazioni spurie con il presente, come avviene per la parola) acquista una paradossale simultaneità con il presente. Una simultaneità che si caratterizza inoltre per una forte trasparenza, per una "evidenza" peculiare del testo scritto - in breve, per una vo16 Sul prevalere del modello della continuità, nella interpretazione gadam~ riana dell'opera d'arte, ma anche nella ermeneutica di Gadamer in genere, si veda Gianni Vattimo, Estetica ed ermeneutica, in "Rivista di Estetica" n.s., 1

(1979), pp. 3-15: 17

Verità e metodo, tr. it. cit., p. 448.

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lontà di comunicare che Gadamer assume come assai poco problematica: "In tutto ciò che ci è pervenuto sotto forma di scrittura, è presente una volontà di durata che si è foggiata quella peculiare forma di permanenza che chiamiamo letteratura. In essa non è dato solo un insieme di monumenti e di segni~ Ciò che appartiene alla letteratura possiede invece una sua specifica contemporaneità con ogni presente. Comprendere la letteratura non significa anzitutto risalire a una esistenza passata, ma partecipare nel presente di un contenuto del discorso. " 18 Mosse contro la volontà ricostruttiva - che viceversa ambirebbe a restituire nella interpretazione il passato in quanto passato, l'origine nella sua integrità, la verità oggettiva delle intenzioni dell'autore di un testo -, queste considerazioni tendono però a definire lo scritto, come veicolo della tradizione, nei termini di una idealità astratta del linguaggio. Scrive ancora Gadamer: "Nello scritto il linguaggio acquista la sua vera spiritualità, poiché di fronte alla tradizione scritta la coscienza comprendente perviene alla sua posizione di piena sovranità. Non dipende da più nulla· di estraneo. La coscienza che legge è così potenzialmente in possesso della storia." 19 Non più ripetizione del passato, la comprensione diviene partecipazione di un senso presente. Garantita dalla spiritualità dello scritto, una fondamentale continuità lega momenti sparsi ( e remoti, trascorsi, forse non pienamente comprensibili) presentilicandoli nella interpretazione. La integrazione gadameriana induce a chiedersi se il primo compito ermeneutico non sia tanto stabilire un tramite fra noi come interpreti e la tradizione a cui presumiamo di appartenere, quanto piuttosto domandarci se sia legittima quella presunzione - e se di conseguenza la nostra appartenenza alla tradizione sia cosl lineare da consentirci un accesso "simultaneo" ai testi, come quello prospettato da Gadamer. Parrebbe, in sostanza, che mentre l'ermeneutica del sospetto tende a enfatizzare gli aspetti "vertiginosi" e aporetici della interpretazione, la integrazione gadameriana si presenti come una posizione eccessivamente irenica, come un rapporto ben poco problematico con i lasciti della tradizione intesi come oggetti ermeneutici. (E questa impressione viene del u Op. cit., p. 450, corsivi nostri. Op. cit., p. 449.

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resto confermata se esaminiamo il problema della integrazione in senso inverso, se cioè consideriamo come Gadamer - per esempio, nella polemica con Habermas 20 - tenda a omologare due tipi eterogenei di dialogo: quello dell'interprete con la tradizione, e quello che interviene tra gli attori sociali. Anche in questo caso, la tradizione viene appiattita sulla presenza, sul dialogo presente; o, viceversa, quest'ultimo viene inscritto senza difficoltà nel solco della tradizione.) Di fronte a questa presentifìcazione, si possono meglio capire i motivi che hanno indotto Derrida a ipotizzare una grammatologia, l'ermeneutica di una tradizione considerata non come insieme coerente di testi potenzialmente simultanei a noi, e trasparenti alla lettura, ma come analisi delle cesure, delle discontinuità, della fondamentale non trasparenza di una traditio che ha cessato di appartenerci o che non è mai stata nostra. In questa prospettiva, gli oggetti della interpretazione, e cioè prima di tutto i testi, si presentano non nella loro "vera spiritualità", ma piuttosto in uno stato di opaca materialità, come "monumenti" o come "segni" - come tracce non presentificabili, per adottare la terminologia di Derrida. E l'operazione ermeneutica non si propone di ricostruire il passato, come avviene nel caso della scuola del sospetto, né di integrarlo con il presente, secondo il modello gadameriano, ma viceversa di decostruire una tradizione fatta di tracce e testi mai pienamente· intelligibili. Lo scopo fondamentale della decostruzione consiste infatti, propriamente, nel pensare la differenza, la distanza che separa la nostra interpretazione dagli oggetti a cui essa si applica. L'attività ermeneutica diviene a questo punto una domanda senza risposta; vale anzitutto come esercizio ontologico, come indicazione della incommensurabilità del comprendere rispetto all'oggetto della comprensione. "L'interrogazione," scrive Derrida in un saggio su Lévinas, "deve essere conservata. Come interrogazione. La libertà della interrogazione ( doppio genitivo) deve essere detta e difesa. Permanenza fondata, tradizione realizzata dell'interrogazione rimasta interrogazione." 21 · 20

Cfr. per esempio le repliche di Gadamer ad Habermas in Rhetorik, Her• meneutik und Ideologiekritik, in Kleine Schri/ten, vol. I, Mohr, Tiibingen; tr. it. parziale di Autori Vari, Marietti, Torino 1973, pp. 55 e sgg. 21 Jacques Derrida, Violence et métaphysique. Essai sur la pensée d'Emma· nuel Lévinas, in "Revue de métaphysique et de Morale" 3 e 4 (1964), ora in L'écriture et la différence, tr. it. cit., p. 100.

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La tradizione permane qui soltanto come oggetto ermeneutico, come unità tematica della interpretazione; essa non fornisce, come avviene in Gadamer, un criterio positivo di comprensione, una legittimazione "storica" (per quanto depotenziata e non trasparente) dell'atto interpretativo. In rapporto alla ermeneutica ricostruttiva o integrativa, la decostruzione ipotizzata da Derrida si presenta come l'estrema dissoluzione del proposito di una comprensione autentica, di un giungere al nocciolo, se non delle cose, almeno del linguaggio come tradizione, deposito, repertorio di parole-chiave .filosofiche. Scopo della grammatologia non è indicare il senso di una tradizione o la legittimità di una interpretazione, ma slegare, dissolvere e intervallare con l'introduzione di scarti o margini di gioco i modelli istituiti (e positivamente praticabili) di interpretazione. Funzione critica della decostruzione che si riconosce bene - in un campo diverso, la polemica con la filosofia analitica - nella replica di Derrida a John Searle che lo accusava di aver frainteso la teoria degli spech acts: "Un teorico degli atti linguistici," scrive Derrida rivendicando la legittimità della propria decostruzione, "che sia minimamente coerente con la propria teoria dovrebbe aver passato un po' di tempo a esaminare problemi del tipo: il proposito fondamentale consiste nell'essere vero? Nell'apparire vero? Nell'asserire il vero? " 22 · Ma a questo punto, è chiaro che Derrida ha cambiato gioco, non solo rispetto al concetto di :filosofia diffuso nella tradizione della linguistic analysis, ma anche nei confronti delle finalità e dei modi della interpretazione quali vengono pensati tanto dalla "scuola del sospetto" quanto dalla ermeneutica gadameriana.

4. La filosofia come genere di scrittura In che cosa consiste questo "cambiamento di gioco"? Prima di tutto, per gli assunti interni della ,grammatologia, comporta un nuovo rapporto con i testi scritti e con il problema della scrittura in generale. Come si legge esplicitamente nella polemica con Searle (ma come implicitamente vien detto in tutto zi

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Lim1ttd lnc. abc, in •Gtyph" 2 (19n), pp. 162-254, p. 178.

il lavoro. di Derrida), la grammatologia mette radicalmente tra parentesi il problema della "referenza" al reale, e la pos. sibilità di surrogare, con un atto estensivo, la funzione "tondativa" della scrittura e della interpretazione dei testi. La grammatologia è un tipo di scrittura, e ciò non semplicemente per gli accorgimenti stilistici che adotta, ma prima di tutto perché il "referente" è soltanto la tradizione scritta (.filosofica, "metafisica ") che ci costituisce come interpreti. Quello di Derrida è quindi un uso enfatico e deviante dd principio ermeneutico classico della sola scriptura; ma proprio in quanto enfasi, esso pone in rilievo una tendenza già implicitamente in atto nelPermeneutica in quanto tale. -La tesi della grammatologia come "genere di scrittura" è al centro di un saggio di Richard Rorty recentemente raccolto in volume.23 Secondo Rorty, assumendo quale unico referente il ·corpus testuale della tradizione filosofica, Derrida si porrebbe come ultimo epigono di una "linea" del pensiero moderno che inizia con Hegel, e che si oppone a una lignée parallela, di origine kantiana, per la quale pensare significa invece rapportarsi, nel modo più conforme possibile, agli oggetti e alle strutture del mondo reale e naturale. Per qùesta seconda tradizione, la scrittura non sarebbe altro che "supplemento" (per adottare una terminologia che Derrida trae da Rousseau), e il linguaggio stesso -tenderebbe, asintoticamente, alla propria autosoppressione a vantaggio della pura ostensione, intesa come massima corrispondenza tra mente e natura. E, come Derrida si presenta quale epigono della lignée hegeliana, cosl evidentemente gli esponenti attuali della "linea" kantiana sono, secondo Rorty, gli analisti del linguaggio anglosassoni. Ora, prosegue Rorty, il rapporto tra "hegeliani "e "kantiani" non è di semplice esclusione o di incomprensione reciproca (come di fatto potrebbe sembrare 24 ); ma piuttosto è omologabile allo scarto che il dibattito epistemologico fa intercorrere tra "scienza critica" e normai science - o alla differenza tra

un

D Richard Rorty, Philosophy as a Kind of Writing. An Essay on Derrida, in Id., Consequences of Pragmatism (Essays: 1972-1980), University of Minnesota Press, Minneapolis 1982. 24 Cosl, ad esempio, Searle esclude che il dibattito tra Derrida e Austin possa venire considerato come un confronto fra due tradizioni, e sostiene che si tratta di un semplice fraintendimento della teoria degli atti linguistici da parte di Derrida (cfr. John Searle, Reiterating the Di/Jerences (reply to Derrida), in •Glyp~" 1, 1977, pp. 198-208).

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nulla e differenza C'è un passo in cui Heidegger ricorda la parola latina lucus e la sua etimologia tradizionale: "Noi pensiamo [ ... ] un umanismo di tipo singolare. La parola finisce per essere una denominazione del genere di 'lucus a non lucendo' " (PW 94, it., 112-13 ). A tutta prima l'esempio pare essere puramente casuale: giacché Heidegger si è dichiarato contrario all'umanismo in quanto fenomeno della metafisica antropocentrica e soggettivista, la sua posizione può essere definita "-umanistica~ solo rovesciando completamente il significato abituale della parola. Quindi un umanismo per antifrasi, cosl come lucus, 143

secondo l'etimologia tradizionale, deriva per antifrasi da lucere. Ma già il fatto che la posizione di Heidegger non sia semplicemente "antiumanistica" (non sarebbe un superamento, ma un semplice rovesciamento della metafisica, ossia un'opposizione interna) deve farci riflettere. A ciò si aggiunge il fatto che la parola lucus nel suo significato originario corrisponde perfettamente al tedesco Liçhtung che è per l'appunto una parolachiave (se non la parola-chiave) del pensiero di Heidegger. Considerando questi due dati, si può ben supporre che Heidegger non riporti l'espressione lucus a non lucendo come mero esempio casuale: essa sembra avere piuttosto un rapporto più profondo con r" umanismo di tipo singolare" di Heidegger. Questo umanismo, nel caso si voglia mantenere il termine, non si riferisce tanto all'uomo e, comunque, non certo all'uomo come "signore dell'essente" (PW 90, it. 108) e quindi anche della luce come chiarezza semplicemente presente e garante della visibilità, ma invece all'essenza dell'uomo come ek-sistenza storica (geschichtliche Ek-sistenz). Ma l'essenza dell'uomo cosi intesa è un abitare, un dimorare nella Lichtung dell'essere. L'uomo non è signore della luce, ma, nella sua essenza, sta in rapporto con la luminosità della Lichtung. Inoltre, l'espressione lucus a non lucendo allude al fatto che la Lichtung dell'essere non è una mera chiarezza già data, ma sta in un rapporto essenziale quanto problematico con l'oscurità, cosl come il latino lucus. Ora si tratta quindi di considerare il rapporto dell'ek-sistenza umana con la Lichtung e l'essenza problematica della Lichtung stessa come lucus a non lucendo (due aspetti che ovviamente sono connessi tra loro). Già l'apertura (Erschlossenheit) dell'esserci era stata chiamata da Heidegger, in Sein und Zeit, Gelichtetheit (''essereilluminato") o anche Lichtung: l'esserci, "in quanto esserenel-mondo, è luminoso [gelichtet] in se stesso, non riceve la luce da un altro ente, è esso stesso Lichtung [Chiodi: illuminazione]" (SZ 133, it. 120); "l'ente che porta il nome di esser-ci è 'illuminato' ['Gelichtetheit] dell'esserci, non è una forza o sorgente anticamente presente di una chiarezza [Helligkeit] che, irradiandosi, comparirebbe a tratti in questo ente" (SZ 350 [it. 523], dr. anche SZ 147, it. 230-31 e SZ 170, it. 266). L'esserci, dunque, è "illuminato" non dal~ la luce di un altro ente, ma nel suo essere stesso. }:..'esserci è l'ente ontologico; esso, cioè, è aperto nei confronti del proprio essere e dell'essere dell'ente da sé difforme, giacché per 144

l'esserci ne va, nel proprio essere, di questo essere stesso. Il rapporto con l'essere costituisce l'essenza dell'esserci e pertanto rende anche possibile che l'esserci si ponga - in forma preontologica o esplicitamente ontologica - la questione dell'essere. La Gelichtetheit dell'esserci, la sua apertura, è la "visione ontologica" dell'uomo in quanto esistente. Essa si articola ek-staticamente come temporalità (cfr. SZ 408, it. 607). Ora, all'apertura illuminata" (gelichtet) dell'esserci corrisponde la storia ( Geschichte nel senso di Schickung, "destinazione", e di Geschick, "destino") "illuminante" (lichtend) dell'essere.12 La Lichtung è al tempo stesso Lichtung dell'essere e Lichtung dell'esserci, in quanto resserci, come rapporto all'essere, è il luogo stesso dell'avvento di quest'ultimo: il "ci" dell'esser-ci è la Lichtung dell'essere (dr. PW 69-72, it. 89-92). Né la Lichtung è un luogo qualunque dell'abitare umano,13 né il ritrarsi (Entzug) dell'essere in quanto rapportarsi (Bezug) all'esserci - tale è l'evento della Lichtung - è qualcosa di inessenziale per l'essere stesso 14 : la Lichtung è piuttosto il luogo della coappartenenza di essere ed esserci: la storicità epocale del primo e l'apertura estatica del secondo non solo si corrispondono, ma sono "lo stesso" (das Selbe). Ma l'uomo, la cui essenza riposa nell'esistenza in quanto essere-nel-mondo, si trova innanzitutto in un rapporto "esistentivo" con l'ente. Che ruolo ha, in questo, il suo rapporto con l'essere? "Al di là dell'ente, ma non via da esso, anzi in