Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain
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IL PENSIERO CONTEMPORANEO SECONDO J. MARITAIN

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Pubblicazione a cura dell’Istituto Internazionale Jacques Maritain (*) L’ISTITUTO INTERNAZIONALE JACQUES MARITAIN, nato nel 1974 per iniziativa di un gruppo di intellettuali ed esponenti del mondo culturale, artistico, accademico, ecclesiastico e politico di molti paesi, che si richiamavano idealmente alla ispirazione personalista del filosofo francese, è un’associazione culturale internazionale, giuridicamente riconosciuta, che promuove ricerche e studi sui temi dell’uomo, della cultura e della società contemporanea. Ha sede a Roma dove è ospitata la “Biblioteca della Persona”. L’Istituto si è diffuso nel mondo e conta numerosi soci in tutti i continenti; in molti paesi operano gruppi nazionali affiliati (Sezioni Nazionali ed Associazioni collaboratrici) che collaborano alla sua attività. Ha “relazioni operative” con l’UNESCO ed uno “statuto di collegamento” con la FAO e collabora con altre organizzazioni internazionali, centri di ricerca, Ong, governi ed agenzie specializzate dell’ONU. Nel 1999 è stata istituita presso l’Istituto la Cattedra UNESCO su “Pace, Sviluppo culturale e Politiche culturali”. Ha organizzato centinaia di incontri scientifici nel mondo (seminari, grandi convegni, incontri di ricerca, master, ecc.); ha curato la pubblicazione di oltre duecento volumi nelle principali lingue occidentali e pubblica la rivista internazionale quadrimestrale Notes et Documents (in francese, inglese, italiano e spagnolo).

(*) ISTITUTO INTERNAZIONALE JACQUES MARITAIN Via Torino, 125/A - 00184 Roma Tel. 06.4874336 - Fax 06.4852188 E-mail: [email protected] Sito web: www.istitutomaritain.org E-mail dell’autore Prof. Piero Viotto: [email protected]

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Piero Viotto

IL PENSIERO CONTEMPORANEO SECONDO J. MARITAIN

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In copertina: sul dorso: Marek Szwarc, Ritratto di Jacques Maritain Grafica di Rossana Quarta © 2012, Città Nuova Editrice Via Pieve Torina, 55 - 00156 Roma tel. 063216212 - e-mail: [email protected] ISBN 978-88-311-1635-0 Finito di stampare nel mese di febbraio 2012 dalla tipografia Città Nuova della P.A.M.O.M. Via Pieve Torina, 55 00156 Roma - tel. 066530467 e-mail: [email protected]

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In memoria di Aurelia Leletta d’Isola (1926-1993), mia compagna di studi all’Università di Torino, che per motivi di salute ha dovuto rinunciare alla sua vocazione domenicana, ma ha trascorso tutta la vita nella preghiera, nello studio, nell’insegnamento, secondo lo spirito di san Tommaso d’Aquino. Da lei ho appreso che la ricerca della verità è la ricerca di Dio.

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Introduzione. Dal criticismo al pensiero debole

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Introduzione. Dal criticismo al pensiero debole

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La filosofia dei tempi moderni si è talmente rimpicciolita a forza di guardare a se stessa e di distrarsi dalla realtà, che oramai tutto ciò che si domanda a proposito del conoscere è, rileva Bergson, «Come sia possibile la scienza?» (I, p. 148).

Questo volume rintraccia nel criticismo kantiano le premesse per la postmodernità e il germe del pensiero debole e considera l’idealismo hegeliano e il positivismo francese le grandi ideologie della modernità. Infatti, Kant si trova al crocevia della filosofia moderna e in lui confluiscono l’empirismo e il razionalismo: dal primo eredita la convinzione che la conoscenza debba partire dall’esperienza e sia una sintesi; dal secondo la necessità di costruire questa sintesi cognitiva di materia e forma a priori. Da lui derivano il positivismo e l’idealismo: il primo riduce tutto l’universo all’evoluzione della materia, il secondo alla dialettica della forma. L’empirismo e il razionalismo sono state nella modernità le grandi filosofie del conoscere, il positivismo e l’idealismo, recuperandole metafisicamente, hanno generato l’età delle ideologie. Kant, imperturbabile nella sua solitudine, con la sua sintesi a priori di materia e forma, inizia a decostruire i grandi sistemi filosofici preparando la postmodernità, spostando l’attenzione dalla metafisica alla antropologia. Non è possibile in questa sede sviluppare dettagliatamente l’analisi della filosofia contemporanea con la diaspora del pensiero debole nel pluralismo delle sue correnti, perché Jacques Maritain (1882-1973) si è appena affacciato su questo mondo multiforme; è possibile, invece, presentare le sue proposte per uscire dalla crisi del relativismo e del nichilismo con il recupero del pensiero scolastico, del realismo di san Tommaso, senza perdere i valori espressi dalla modernità, tanto da parlare di realismo critico. Il termine postmodernità, non usato da Maritain, è un termine complesso e ambiguo, non indica una particolare corrente di pensiero, ma rileva il clima di sfiducia nella ragione e nelle grandi ideologie nate dall’illuminismo,

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Introduzione. Dal criticismo al pensiero debole

che con l’idealismo e il marxismo hanno generato i totalitarismi di destra e di sinistra. Il termine postmodernità si trova definito in un’opera La condizione postmoderna (1979) di Jean-François Lyotard (1924-1998), un filosofo francese, che ibrida fenomenologia e psicoanalisi e, constatato il frantumarsi della ricerca filosofica, fa del pluralismo delle opinioni una filosofia, per cui il relativismo diventa la regola delle relazioni culturali. In questa postmodernità sono protagonisti anche l’esistenzialismo di Martin Heidegger, il positivismo logico di Ludwig Wittgenstein, lo strutturalismo di Roland Barthes, l’ermeneutica di Hans Georg Gadamer. La postmodernità era stata preparata anche dalla letteratura e dalle arti figurative, infatti il termine viene introdotto nella storia della cultura da un critico letterario spagnolo, Federico de Onís (1885-1966), in un saggio sulla letteratura sudamericana e dallo storico inglese Arnold J. Toynbee (1889-1975) nei tre volumi della sua storia della civiltà A Study of History; entrambe le opere sono state pubblicate nel 1934. Toynbee sostiene che tutte le civiltà confluiscono in una civiltà universale, in una sorta di religione universale nella quale il cristianesimo si dissolverebbe. Maritain dedica un paragrafo di Per una filosofia della storia (51) ad analizzare le questioni poste da Toynbee, che considera «più uno storico appassionatamente innamorato di generalizzazioni filosofiche che un vero filosofo della storia» (X, p. 757), ma non parla della postmodernità. A Maritain interessa soprattutto il destrutturarsi della filosofia come ricerca metafisica, iniziatosi con il criticismo kantiano, il ridursi del sapere filosofico ai problemi antropologici del linguaggio e della sociologia. Ha avuto modo di percepire il nascere di questo rifiuto della ragione che ha generato il relativismo contemporaneo con l’affermarsi nella letteratura e nelle arti figurative del surrealismo, fenomeno culturale di cui parla ne L’intuizione creativa nell’arte e nella poesia (49), dove scrive: «Non voglio intraprendere una discussione completa di questo fenomeno. È sufficiente, osservare che col surrealismo non abbiamo più semplicemente un processo di liberazione dalla ragione concettuale, logica, discorsiva. Abbiamo un processo di liberazione dalla ragione, propriamente parlando: un desiderio deciso e sistematico di negare la suprema autonomia di un potere che è spirituale per natura, di respingere ovunque e in ogni modo il controllo della ragione consapevole e, perfino nella vita preconscia, la superiorità intuitiva dell’intelletto, e di scatenare i poteri infiniti dell’irrazionale che sono nell’uomo. Questo rifiuto della ragione, questo distacco

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totale dalla ragione, non solo nella sua vita concettuale e discorsiva ma incondizionatamente, segna il limite essenziale che separa il surrealismo da tutte le altre correnti» (X, p. 202). Maritain considera anche la crisi epistemologica, perché l’epistemologia medievale, che raccorda il sapere scientifico al sapere filosofico e questo al sapere teologico, nell’età moderna viene progressivamente demolita. Cartesio nega la teologia come scienza, Kant nega la scientificità della stessa filosofia, dichiarando l’impossibilità per la ragione umana di conoscere il soprasensibile, per cui immagina che la metafisica sia l’illusione di un visionario; la filosofia contemporanea, come rileva Bergson, si riduce a cercare le ragioni della ricerca scientifica fisico-matematica e in molte correnti come l’empiriocriticismo, il pragmatismo, il positivismo logico si giunge a negare la scientificità della stessa scienza, i cui risultati sono considerati utili per la vita pratica ma non veri. Maritain aveva già visto in Galileo il germe di questo scetticismo nel passaggio da un sapere percettivo ad un sapere costruttivo, per cui le scienze fisico-matematiche si sostituiscono alla filosofia della natura. La filosofia contemporanea abbandona la logica formale di Aristotele, che raccorda gli enti di ragione agli enti reali, e si riduce ad una logica simbolica, che considera gli enti di ragione solo come segni e simboli convenzionali. Articolo l’analisi del multiforme mondo delle correnti di pensiero contemporaneo in due parti, perché pur riconoscendo tutte il valore, la libertà, l’autonomia della persona umana nella sua individualità, alcune, dipendendo dall’impostazione kantiana, riconoscono questa dignità solo come un valore morale, e rimandano ad una soggettività empirica, mentre altre, rifacendosi, in modo più o meno esplicito, alla filosofia dell’essere, riconoscono l’ontologicità dell’essere uomo. Per gli uni i diritti della persona umana nascono nell’intersoggettività delle relazioni sociali, per gli altri i diritti dell’uomo sono oggettivamente fondati nel diritto naturale che rimanda alla legge eterna e a un Dio legislatore. L’età moderna iniziatasi con l’umanesimo, dopo avere esaltato la ragione con l’illuminismo e le grandi ideologie, nell’età postmoderna, iniziatasi da lontano con il criticismo kantiano, finisce in un disumanesimo, che le deformazioni della persona umana introdotte nella storia dell’arte da Pablo Picasso, da Francis Bacon, da Salvador Dalì bene significano. Per Maritain bisogna superare il relativismo conseguenza del pensiero debole, bisogna considerare il pluralismo non come una filosofia, ove tutte le opinioni sono vere, ma solo una metodologia politica per

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Introduzione. Dal criticismo al pensiero debole

garantire la libertà di coscienza in una società democratica, senza rinunciare alla verità. Ma soprattutto bisogna ritrovare una ragione forte, capace di confrontarsi con i problemi della metafisica. In questo secondo volume non sono presenti alcuni protagonisti della filosofia contemporanea che Maritain, per limiti cronologici, non ha avuto modo di conoscere e di studiare, ma sono presenti altri protagonisti, che sono trascurati dalla cultura laica, come, per ricordarne alcuni, il russo Nikolaj Berdjaev, il francese Étienne Gilson, il tedesco Peter Wust, il franco-americano Yves René Simon, lo svizzero Charles Journet, le cui opere restano momenti fondamentali nella storia della filosofia. In questo volume utilizzo anche le corrispondenze intercorse tra Jacques Maritain e filosofi, teologi, scrittori contemporanei, perché il pensiero di Maritain non è il pensiero di un uomo solo, ma un pensiero in dialogo, capace di trovare la verità ovunque essa sia, anche nei sistemi più diversi dal proprio, non essendo la verità esclusiva di un sistema filosofico, ma inclusiva di tutti coloro che la cercano. Maritain in L’educazione al bivio (36), dopo avere sottolineato che nell’insegnare a filosofare non basta esercitare l’intelligenza, ma bisogna soddisfare l’intelligenza, che non si tratta di insegnare a cercare ma di insegnare a trovare la verità, precisa che il maestro è ben lieto in questo cammino di vedersi superare dall’allievo. Chi pretende l’esclusiva della verità, non la condivide, non accetta che altri, per altre strade, possano raggiungere la medesima verità. Come già indicato nell’Avvertenza preliminare al volume Il pensiero moderno secondo J. Maritain, tutti i testi citati del filosofo francese sono riferiti alle Oeuvres complètes, indicando per ciascun testo il volume e la pagina, secondo l’Elenco cronologico delle opere di Jacques Maritain, riportato alle pagine 301-311. Talvolta segnalo il titolo del singolo volume, perché in quel volume l’argomento in questione è trattato in modo approfondito; anche in questo caso, dopo il titolo, indico la sua collocazione nella bibliografia di Maritain. A partire dal III capitolo, visto il polverizzarsi della ricerca filosofica in numerosissime correnti di pensiero, le biografie dei singoli filosofi sono brevemente riportate in nota. Nel paragrafo dedicato alla Nuova Scolastica, ovviamente, non presento J. Maritain, il cui pensiero è rintracciabile, argomento per argomento, attraverso l’Indice degli argomenti, e a cui ho dedicato il primo volume di questa collana, con il volume Il dizionario delle opere di Jacques Maritain nel 2000, nel quale analizzo, ad una ad una, tutte le sue 65 opere, pubblicate tra il 1913 e il 1973, compresa quella pubblicata postuma dai suoi discepoli.

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I. Oltre l’illuminismo

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I. Oltre l’illuminismo

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1. Il crocevia della filosofia moderna L’illuminismo, alla confluenza tra empirismo e razionalismo, non ha prodotto grandi sistemi filosofici, è stato un’età di divulgazione, più attenta ai problemi della prassi che alle speculazioni della teoresi. Voltaire e Rousseau non sono dei metafisici; mancava un pensatore che ricapitolasse e sapesse unificare il fermento di quella stagione della storia della filosofia. Ma esplode il criticismo di Immanuel Kant che elabora una sintesi originale, distrugge la metafisica come scienza e apre da lontano alla postmodernità, che con il pensiero debole, superata l’illusione delle grandi ideologie, finisce per affiancare la religione e la scienza negando proprio quella filosofia che i maestri dell’illuminismo avevano posto a fondamento della loro rivoluzione culturale. L’eredità storica dell’illuminismo deriva più dalle conseguenze della Rivoluzione francese che dalla riflessione filosofica. Pensatore originale e solitario, Kant si pone al crocevia della filosofia moderna, perché in lui confluiscono i sistemi precedenti dell’empirismo e del razionalismo, e da lui, disputandosene l’eredità, si dipartono i sistemi successivi dell’idealismo e del positivismo, e la sua influenza si prolunga sulla filosofia contemporanea soprattutto attraverso la fenomenologia. Kant non ha avuto veri e propri maestri che gli segnassero il cammino, né sicuri discepoli che gli restassero fedeli; isolato, domina con la sua personalità inquieta la storia della filosofia. Il suo sistema rifiuta la metafisica, si limita a criticare i poteri della ragione umana, formulando un criticismo, che vuol stabilire i limiti della conoscenza umana e i principi del comportamento morale. Kant, che conosce la scienza e la filosofia moderna, ma non altrettanto la filosofia antica e la filosofia medievale, di cui ha avuto sentore solo attraverso i riferimenti polemici dei razionalisti e degli empiristi, non poteva che concludere in una sintesi instabile di empirismo e di razionalismo, di realismo e di idealismo, www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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che nessun altro filosofo avrebbe potuto continuare, se non alterando e modificando l’impostazione kantiana.

Kant al crocevia della filosofia moderna - tav. n. 1

2. Dalla crisi dell’illuminismo alla postmodernità Proprio questa scarsa conoscenza della storia della filosofia precedente l’età moderna, la dipendenza dall’ambiente culturale illuministico, che celebrava il culto della scienza fisico-matematica, spiega lo spirito del criticismo kantiano, che limita la conoscenza all’esperienza e fonda autonomamente la morale sull’uomo, ponendo di fatto tra parentesi Dio, come Creatore e Legislatore, senza negarne l’esistenza, ma riducendola ad un postulato, accettato più per fede che riconosciuto dalla ragion d’essere. Infatti in Kant la conoscenza non coglie l’essere, non si riferisce all’essere, non esce da se stessa, perché i poteri della ragione umana si limitano al mondo dell’esperienza e del fenomeno. Ma l’essere intelligibile, oggetto della metafisica, che la conoscenza non può raggiungere, viene fondato dalla morale. Si ha così un dualismo tra la sfera della conoscenza, limitata al mondo del sensibile, e la sfera della morale, che esige il mondo dell’intelligibile. Maritain dedica molta attenzione a Kant, lo cita in

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I. Oltre l’illuminismo

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quasi tutte le sue opere, a lui dedica buona parte del corso Il ruolo della Germania nella filosofia moderna (I, pp. 889-1026) tenuto a Parigi negli anni 1914-1915, e nel 1960 un intero capitolo della Storia della filosofia morale (XI, pp. 397-438). Riconosce a Kant il merito di avere valorizzato l’apporto del soggetto nel processo gnoseologico, tanto da chiamare il suo realismo, radicato nella filosofia di Aristotele e di san Tommaso, realismo critico, scandalizzando l’amico Gilson, ma rimprovera a Kant di essersi chiuso in un fenomenismo assoluto, dimenticando il riferimento del conoscere all’essere. «Kant aveva ragione ad affermare, contro gli empiristi, la sovrana attività dello spirito, il suo errore è stato di non avere visto la sovrana immanenza, ossia il carattere propriamente spirituale di questa attività. L’essenza di una tale attività non è quella di produrre, ma di divenire o di essere, per cui diventando con l’intellezione ciò che noi conosciamo, la conoscenza non procede interamente solo dallo spirito che conosce, ma insieme procede interamente dall’oggetto che conosce» (I, p. 46). Precisa: «La risposta che bisogna dare a Kant è che l’intelligenza vede concependo e non concepisce che per vedere; la sua operazione non consiste nell’assumere sotto una forma vuota un contenuto sensibile, ma nell’attingere in un verbo interiore, puramente intelligibile, che trascende tutto l’ordine della sensazione, la realtà stessa, portata all’altezza del nostro spirito» (I, p. 43). Con Kant si passa da un sapere percettivo per cui lo spirito attraverso l’astrazione libera in se stesso la forma intelligibile presente nella materia, riferendosi pertanto alla metafisica, ad un sapere costruttivo tutto riferito alla gnoseologia. Si sposta così la problematica filosofica dal rapporto materia sensibile e forma intelligibile sulla relazione soggetto-oggetto del conoscere. Maritain riconosce l’attività dello spirito, che diventa immaterialmente ciò che conosce, e rileva: «Kant ha avuto il sentimento profondo della spontaneità della natura intellettuale, dell’attività immanente della nostra intelligenza, ma siccome credeva che l’atto del conoscere consistesse nel produrre, anziché nel divenire qualcos’altro, ha rovesciato l’ordine di dipendenza tra l’oggetto e l’intelligenza umana, facendo di questa la misura e la legge di quello» (II, p. 776). Così noi non possiamo conoscere la realtà oggettiva di ciò che conosciamo, ma solo le formule del nostro sapere, le costruzioni della nostra mente. Maritain rileva che la verità per Kant non è la corrispondenza del pensiero con la realtà, ma è, e cita dai Prolegomeni, «il legame delle rappresentazioni in conformiwww.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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tà con le regole che determinano la loro interdipendenza nella concezione di un oggetto» (III, p. 434). Questa sintesi a priori tra un materiale empirico fornito dall’esperienza e le forme del soggetto conoscente era una soluzione arbitraria, che solo Kant fu in grado di sostenere in un equilibrio instabile. Dopo di lui la filosofia si divideva di nuovo tra i filosofi dell’idealismo, che risolvono tutto il conoscere nel soggetto e i filosofi del positivismo che bloccano tutto il conoscere nell’oggetto. Per comprendere Kant occorre accettare le modulazioni del suo linguaggio, che modificano il senso e il significato tradizionale dei termini del discorso filosofico.

3. Immanuel Kant e il criticismo Aristotele e tutti i grandi filosofi hanno avuto una teoria della conoscenza, ma bisognò attendere Kant per vederla considerata come disciplina propria. E questo è stato un progresso nella struttura del corpus delle discipline filosofiche (X, p. 672).

Una vita solitaria e metodica La filosofia critica è stata elaborata da Kant ed esposta organicamente nelle sue opere con uno stile rigoroso, che non indulge a divagazioni, con una metodicità pari al suo stile di vita, tanto che, si dice, i suoi concittadini regolassero i loro orologi al momento della sua passeggiata. C’è stato nella sua formazione un periodo precritico, ma una volta delineatasi nella sua mente la nuova concezione filosofica, questa è venuta sempre più compiutamente esprimendosi, senza modificazioni e alterazioni, malgrado alcuni punti incerti e oscuri. La vita di Immanuel Kant (1724-1804), caratterizzata dall’ordine e dal metodo, trascorre serena, è tutta impegnata nella ricerca filosofica e nell’insegnamento universitario, senza vicissitudini particolari. Il filosofo che inizia il passaggio dal moderno al postmoderno nasce a Koenigsberg da una famiglia protestante da cui riceve un’educazione severa, improntata al pietismo, che forma in lui una rigida coscienza morale e una fervida fede religiosa. Trascorre la fanciullezza e l’adolescenza nel Collegio Federiciano e di qui passa all’Università, iscrivendosi alla facoltà di filosofia. Durante gli anni

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I. Oltre l’illuminismo

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universitari aderisce alla filosofia razionalistica di Wolff, mentre attende a studi di fisica e di matematica. Nel 1755 pubblica la Storia universale della natura e teoria del cielo, nella quale espone l’ipotesi sulla formazione dei mondi da una nebulosa primitiva, che verrà poi ripresa dall’astronomo Pierre Simon Laplace nell’Esposizione del sistema del mondo (1796). Kant, ottenuta la libera docenza, inizia, sotto l’influenza degli empiristi inglesi e delle opere di Rousseau, una revisione del razionalismo leibnizio-wolffiano. Il periodo precritico è documentato da una serie di scritti minori, tra cui la Ricerca sulla chiarezza dei principi della teologia e della morale, dove si delinea la separazione tra il piano della conoscenza e il piano dell’azione, tra la gnoseologia e la morale. La crisi scettica, che scuote Kant da quello che egli chiama il suo sonno dogmatico, appare ne I sogni di un visionario illustrati con i sogni della metafisica, pubblicato anonimo nel 1766 ove, ironizzando le pretese visioni del mondo del soprasensibile, dichiara l’impossibilità di qualsiasi metafisica. L’inizio dell’attività alla cattedra di logica e metafisica dell’Università di Koenigsberg coincide con l’inizio del periodo critico, che si apre con la dissertazione De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis (1770), dove si imposta la negazione della conoscenza che pretenda di volere andare oltre l’esperienza sensibile, e si valorizza la scienza matematica come vera e sicura scienza del sensibile, espresso nello spazio (geometria) e nel tempo (meccanica). Questa dissertazione, dopo 11 anni, trova la sua definizione nella Critica della ragion pura (1781), che espone la dottrina della conoscenza, a cui fanno seguito nel 1783 i Prolegomeni ad ogni metafisica futura che voglia presentarsi come scienza, per chiarire alcuni punti oscuri e rispondere alle critiche suscitate dal nuovo punto di vista gnoseologico. La dottrina della morale è contenuta nella Fondazione della metafisica dei costumi (1785) e nella Critica della ragion pratica (1788). Con la Critica del giudizio (1790) il sistema kantiano può considerarsi compiuto, infatti con questa opera Kant intende trovare un raccordo tra la dottrina della conoscenza e la dottrina dell’azione, superando il dualismo tra il regno della natura e il regno dello spirito. Gli amici sopra la tomba di Kant fecero scolpire questa espressione del Maestro, che riassume tutta la sua dottrina e la sua vita: Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me.

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La Critica della ragion pura Con la Critica della ragion pura, cioè della ragione speculativa, Kant intende vagliare le possibilità e i limiti di quella ragione che il razionalismo aveva esaltato e l’empirismo denigrato. Esamina dettagliatamente le posizioni dei filosofi illuministi, accusando il razionalismo di dogmatismo, perché pretende che alle idee innate corrisponda la realtà, senza che vi sia stata esperienza, e l’empirismo di scetticismo, perché, fondandosi soltanto sull’esperienza sensibile, non può giungere ad affermazioni definitive e certe. I giudizi analitici a priori dei razionalisti (i corpi sono estesi) sono necessari e universali, perché costituiti a priori dall’attività del soggetto conoscente, ma sono infecondi e si risolvono in una tautologia, perché il predicato del giudizio, derivando per analisi dal soggetto, non aggiunge nulla di nuovo al medesimo, limitandosi a metterne in evidenza un aspetto. I giudizi sintetici a posteriori degli empiristi (i corpi sono gravi) sono invece accrescitivi di sapere, perché il predicato viene aggiunto al soggetto, ma non sono universali e necessari, perché la sintesi viene operata a posteriori, e può sempre venir modificata da una successiva esperienza. Poiché, secondo Kant, una conoscenza è valida se ha i caratteri dell’accrescitività e dell’universalità, bisogna trovare un giudizio sintetico a priori, fecondo, in quanto relativo all’esperienza, ma universale e necessario, in quanto costruito a priori. Due sono gli elementi costitutivi di un tale giudizio: la materia, cioè il contenuto del giudizio, data al soggetto conoscente dall’esperienza, e la forma, cioè il modo con cui il soggetto conoscente organizza i dati forniti dalla materia, ossia il legame per cui il soggetto e il predicato del giudizio vengono sintetizzati. La forma del giudizio non è trascendente i dati e l’esperienza, nel qual caso sarebbe un’idea innata, nemmeno è immanente, perché allora deriverebbe dall’esperienza, ma è trascendentale, in quanto non deriva dall’esperienza, ma non ne è fuori, essendo il modo con cui il soggetto conoscente organizza l’esperienza. Cercando un’immagine didattica: per l’empirismo la conoscenza è una serie di anelli separati; per il razionalismo è una catena di anelli tenuta insieme da un filo che li attraversa, come una collana di perle; per il criticismo è una catena di anelli, intrecciati tra di loro, che da loro stessi formano una catena. La forma è questo legame tra gli anelli, che non è né dentro, né fuori di ciascun anello. www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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I. Oltre l’illuminismo

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Con questa sintesi a priori Kant compie nella storia della filosofia una rivoluzione copernicana, perché il processo gnoseologico, anziché partire dall’oggetto conosciuto, parte dal soggetto conoscente, per cui la conoscenza non è più una rappresentazione oggettiva, ma una creazione soggettiva. Si afferma il nuovo principio della creatività dello spirito, anche se questa creatività del soggetto è limitata, per cui la sua attività si limita a creare la forma della conoscenza, l’organizzazione formale dei dati dell’esperienza. In altri termini il soggetto non crea la realtà dell’oggetto, ma soltanto la sua conoscibilità, cioè non l’oggetto in se stesso, ma nella sua relazione con il soggetto conoscente. Noi conosciamo la natura come ci appare nelle forme del soggetto, ma non in se stessa; noi conosciamo solo il fenomeno, ciò che ci appare, e non il noumeno, ciò che è. I trascendentali che nella filosofia medievale erano connotazioni dell’essere diventano connotazioni del conoscere. Maritain fa un’analisi accurata di questa sintesi a priori che irrompe nella storia della filosofia, «cosa ammirevole, la ricerca di una evidenza quasi angelica, l’ambizione di rendere lo spirito umano pienamente indipendente, ma finisce per asservire lo spirito ad una necessità che lo opprime. Perché se un termine non è contenuto in un altro, che cosa dunque può forzare lo spirito ad unire a priori questi due termini? Non certamente l’evidenza. Forse per Kant si tratta di una specie di necessità cieca, interiore al soggetto stesso; per Cartesio, ingannato dall’immaginazione matematica, sembra piuttosto che fosse l’interferenza di schemi matematici nella vita dello spirito» (I, p. 865). In Kant la formazione del concetto è il frutto di un giudizio sintetico a priori, mentre Maritain nella Piccola logica (7) rileva che «i concetti sono prodotti dallo spirito prima di essere assemblati, nel senso che le parti della proposizione (prese separatamente e in loro stesse) sono conosciute prima di questa; perché la semplice apprensione precede il giudizio» (II, p. 410). Kant anticipa arbitrariamente il giudizio sulla intellezione. Maritain in Riflessioni sull’intelligenza (89) riconosce che «non è nell’intellezione ma nel giudizio che l’intelligenza possiede propriamente la verità» (III, p. 80), e che «Kant ha avuto ragione nel volere restituire, sia contro Hume che contro Leibniz, il movimento progressivo e sintetico della ragione» (III, p. 86), ma «ha cercato tutta la legge e tutta la regolamentazione dal lato del soggetto e delle sue pretese forme a priori, mentre essa è tutta dalla parte dell’oggetto e delle necessità intelligibili iscritte nei concetti» (III, p. 87). «Kant ha confuso

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la vita della ragione con la vita vegetativa di un organismo materiale, che non si muove se non quanto all’esecuzione del movimento; a dire il vero ne ha fatto più l’attività di un automa che quella di un vivente» (ibid.). Precisa, approfondendo la sua analisi: «Kant non ha conservato della conoscenza intellettuale se non il meccanismo umano che essa comporta in noi e che, una volta separato dall’attività vitale dell’intelligenza, non costituisce la conoscenza, allo stesso modo che delle ossa non costituiscono la vita» (III, p. 362), ma soprattutto ha sganciato la conoscenza dall’esistenza, aprendo la strada all’idealismo: «Per Kant il giudizio ha per sé una funzione ideale, non esistenziale, spetta a lui fare il concetto sussumendo una materia empirica sotto una categoria e l’esistenza è una posizione assolutamente vuota di qualsiasi valore intelligibile» (IX, p. 26). Detto ciò, Maritain costata che Kant «affranca completamente l’intelligenza umana dall’oggetto del conoscere, perché è lei stessa la misura del conoscibile e nel suo lavoro non dipende che da se stessa. Il mondo gira intorno alla conoscenza che essa ne ha» (III, p. 348). La sintesi a priori di Kant conclude in un fenomenismo, perché limita la conoscenza al sensibile, e afferma l’impossibilità di cogliere, al di là dell’esperienza, l’intelligibile, l’essere, il pensabile (noumeno); e di conseguenza sarà possibile la scienza, la fisica, ma non la filosofia, la metafisica. Per Kant, se l’uomo volesse andare oltre l’esperienza sensibile, sarebbe come una colomba che pretendesse di volare senza il sostegno dell’aria. Ma l’esperienza da sola non può fare scienza, essa ha bisogno di essere compresa e organizzata nelle forme a priori del soggetto: restano così fissati le condizioni, i limiti, e il valore della conoscenza. «Kant domanda alle forme a priori della nostra sensibilità e del nostro intendimento, sotto la direzione delle forme a priori della ragione, di costituire il mondo conoscibile, il mondo dei fenomeni, perfettamente codificato secondo la struttura stessa del nostro spirito» (II, p. 269). «Kant ammetta la cosa “das Ding an sich” nascosta dietro l’oggetto, ma considerando questo oggetto come costruito dall’attività dello spirito secondo le sue leggi a priori, arresta la nostra conoscenza al fenomeno e la cosa resta inconoscibile» (IV, p. 495).

I tre gradi della conoscenza Per Kant la conoscenza non è un’astrazione dell’intelligibile dal sensibile, come in Aristotele e san Tommaso, ma è un giudizio espresso nei limiti dell’esperienza sensibile, una sintesi a priori di

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materia e di forma. Tre sono i gradi di questa conoscenza: il senso organizza le impressioni sensibili, l’intelletto formula i giudizi con i materiali ricevuti, la ragione vuol ridurre i giudizi a unità ultime e definitive. L’opera del senso costituisce l’estetica trascendentale, l’opera dell’intelletto e della ragione formano la logica trascendentale, che è una logica formale perché può darci solo la forma con cui noi unifichiamo la realtà, e non può raggiungere la realtà. La logica si articola in analitica trascendentale che considera l’attività dell’intelletto e in dialettica trascendentale che valuta l’attività della ragione. a) L’estetica trascendentale: fin dal suo grado inferiore la conoscenza si presenta come una costruzione a priori. Infatti nessuna esperienza è possibile se non si esprime nello spazio e nel tempo, e lo spazio e il tempo non possono derivare dall’esperienza, perché, essendo essi stessi la condizione necessaria affinché l’esperienza avvenga, sono forme a priori mediante le quali il soggetto ordina il fluire disordinato e caleidoscopico delle sue sensazioni. Lo spazio e il tempo non sono idee innate, trascendenti l’esperienza, a cui debba corrispondere una realtà in sé, come li intendevano i razionalisti; nemmeno sono immanenti all’esperienza, risultanti dell’accostarsi dei singoli spazi e delle singole durate, come ritenevano gli empiristi; ma sono nostri modi trascendentali di cogliere e costituire l’esperienza, quasi lenti colorate attraverso le quali il soggetto conosce l’oggetto modificandolo. Pertanto la realtà sensibile non si presenta a noi nello spazio e nel tempo, come intende il realismo di Aristotele e di san Tommaso, ma siamo noi che la spazializziamo e la temporalizziamo. Lo spazio e il tempo sono le forme del senso, chiamate da Kant intuizioni pure, perché inderivabili dall’esperienza. L’unione di queste forme con la materia costituisce la prima sintesi, cioè l’intuizione empirica, che a sua volta diventa materia per la successiva sintesi operata dall’intelletto. b) L’analitica trascendentale: poiché l’intelletto è la capacità di giudicare, Kant ricerca le forme a priori che debbono determinare l’attività dell’intelletto, raccogliendole in dodici categorie e formula una nuova tavola dei giudizi. Si ha così una seconda sintesi, che non avviene successivamente alla prima, bensì contemporaneamente, ma esige come suo contenuto la sintesi precedente. Perciò le categorie, o concetti puri, perché non ricavabili dall’esperienza, non sono gli attributi dell’essere più generali e quindi più universali e perciò in grado di fare da predicamento ad un gran numero di concetti, ma sono le leggi, le forme, i modi con cui, a priori, l’intelletto costruisce i suoi giudizi. Nel realismo classico le categorie derivano dall’essere, hanno

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un contenuto, sono oggettive, nel criticismo kantiano, invece, sono proprie del conoscere, forme pure, modi di funzionare del soggetto conoscente. Le dodici categorie sono da Kant raggruppate in quattro classi di tre categorie ciascuna, corrispondenti ai diversi modi di giudicare dell’intelletto, di cui sono le forme: la quantità è relativa alla determinazione quantitativa del soggetto, la qualità è relativa alla funzione del predicato, la relazione si riferisce al rapporto tra soggetto e predicato, e la modalità riguarda il modo con cui è attribuito il predicato al soggetto.

I giudizi e le categorie - tav. n. 2

La terza categoria di ogni gruppo è in certo qual modo la sintesi delle precedenti. Tra le intuizioni empiriche del senso e i giudizi dell’intelletto, Kant pone un’immaginazione trascendentale che mediante un processo di schematizzazione ordina per immagini il materiale sensibile onde predisporlo all’opera delle categorie. Due sono le categorie più importanti: quella di sostanza e accidenti, che crea l’unità nella coesistenza spaziale, e quella di causa ed effetto, che crea la successione temporale. La sostanza e la causa non sono www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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come in Hume associazioni casuali dovute all’abitudine, ma principi a priori del nostro conoscere, che permettono la fisica. Esse valgono soltanto nei limiti del sensibile, per cui non si può fondare una metafisica, conoscere la realtà come essa è. Maritain rileva: «Il principio di causa non è l’espressione di un semplice abito mentale acquisito per abitudine, come dice Hume, o come pretende Kant un giudizio sintetico a priori, la cui portata sarebbe limitata all’esperienza; il principio di causa è un principio conosciuto di per sé o per una intuizione intellettuale immediata, che si impone in virtù dell’evidenza intrinseca degli oggetti del concetto, la cui portata passa al di là dell’esperienza, perché le cause che esige sono ragioni di essere richieste dalle cose in quanto il loro essere è contingente» (X, pp. 26-27). Secondo Maritain queste categorie ci fanno conoscere l’oggetto in se stesso, nella sua intelligibilità. Per Kant, invece, l’attività unificatrice dell’intelletto si risolve nell’io penso del soggetto conoscente, che nella sua soggettività garantisce l’oggettività della conoscenza, in quanto i singoli giudizi si collegano nella fonte dell’unificazione, perché alla radice di ciascun giudizio, sta sempre l’attività pensante dell’io che pensa. Come potrei ritenere che il medesimo oggetto, che vedo prima in a, sia lo stesso che poi vedo in b, se non esistesse a fondamento delle singole percezioni un medesimo io che pensa? Così Kant costruisce soggettivamente l’oggettività della conoscenza, riferendola all’identità del soggetto con se stesso nella pluralità delle sue percezioni; mentre il realismo classico fonda l’oggettività della conoscenza sull’identità dell’oggetto con se stesso. Per Kant quel dato oggetto è il medesimo anche se di esso ho diverse percezioni, non perché sia in sé lo stesso, ma perché io resto identico con me pur nella diversità delle percezioni che gli riferisco. Questo io penso è la categoria delle categorie, l’autocoscienza, che Kant chiama, con terminologia leibniziana, appercezione originaria, per distinguerla dalle singole percezioni. L’io penso non è quindi la coscienza di questo o di quel giudizio particolare, bensì la coscienza in generale; e non è una realtà in sé, un essere, una sostanza, ma come tutte le categorie è una pura attività trascendentale. Questo io, che è il fondamento dell’oggettività della conoscenza, non è l’io empirico individuale, che varia da uomo a uomo, ma un io superindividuale, universale, trascendentale rispetto ai singoli io empirici, che è in ciascuno di noi, uno e identico come in tutti gli altri, senza essere ciascuno di noi: una specie di io più largo che però non è una realtà a noi trascendente, ma l’unità delle nostre coscienze. Perciò chi è coerente con la propria coscienza è contemporanea-

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mente in accordo con la coscienza di tutti gli altri io, e quindi viene così garantita soggettivamente l’universalità della conoscenza, per cui ciò che è vero per me è anche vero per tutti gli altri io che, come me, si conformino alle forme trascendentali del conoscere. Solo chi non è coerente con il suo io è in disaccordo con gli altri io. c) La dialettica trascendentale: la ragione non si accontenta della sintesi operata dall’intelletto e vuol procedere oltre ad una sintesi definitiva in cui tutta la molteplicità sia racchiusa in un’unità. La ragione cerca di unificare i giudizi in tre idee: l’idea psicologica, o idea di io, come fondamento di tutti i fenomeni interni; l’idea cosmologica, o idea del mondo, come fondamento di tutti i fenomeni esterni; e l’idea teologica, o idea di Dio, come ragione ultima di tutte le cose e di tutte le persone. Queste idee non sono rappresentazioni sensoriali soggettive, come per l’empirismo; né principi razionali innati, come per il razionalismo; né realtà ontologiche trascendenti, come per Platone; né realtà logiche, modelli esemplari delle cose, proprie del pensiero divino, come in san Tommaso, ma sono i principi regolatori dell’attività della ragione, che tendono ad unificare nella totalità incondizionata e assoluta la molteplicità multiforme dell’esperienza. Per Kant questa operazione non è possibile, perché ogni nostra conoscenza, essendo una sintesi, ha bisogno di una molteplicità concreta di dati da unificare, mentre le idee pretendono di risolvere la molteplicità nell’unità del tutto. Esse perciò, ponendosi al di là del sensibile, non ci danno conoscenza, ma puro pensiero. Quindi l’io, il mondo, Dio sono pensabili ma non conoscibili, si riferiscono al soprasensibile, al metafisico, al noumeno, che noi non possiamo raggiungere. La cosa in sé è per noi inconoscibile perché, se fosse conosciuta, verrebbe limitata nel tempo e nello spazio, sarebbe fenomenizzata dalle nostre forme soggettive di conoscenza. Questo non significa che l’uomo non possa soddisfare il suo bisogno di metafisica per via diversa da quella conoscitiva. Kant passa poi alla critica di ciascuna di queste idee. Nei paralogismi della ragion pura rileva che non è possibile conoscere l’anima come sostanza, ma solo come attività, come io penso formale, perché non si può passare dall’attività all’essere. Così è un paralogismo pretendere con Cartesio di ricavare dal pensare la sostanza pensante, di passare dal cogito al sum. Si può dire cogito ergo cogito e non cogito ergo sum, perché nell’autocoscienza si coglie soltanto una funzione pensante. Nelle antinomie della ragion pura Kant critica l’idea cosmologica, che ci fa cadere in gravi contraddizioni, antinomie, perché ad

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ogni affermazione posta come tesi è possibile contrapporre un’affermazione contraria come antitesi. Vengono elencate quattro antinomie: il mondo è limitato nel tempo e nello spazio, il mondo è infinito ed eterno; il mondo è costituito da elementi semplici in numero finito, il mondo è divisibile all’infinito; il mondo è retto dalla necessità, nel mondo esiste la libertà; il mondo ha il suo fondamento in un Essere necessario, il mondo non rimanda ad un Essere necessario. L’idea teologica ci porta ad una serie di sofismi che Kant elenca negli ideali della ragion pura, facendo la critica delle diverse prove dell’esistenza di Dio. L’argomento ontologico passa arbitrariamente dall’ordine logico all’ordine ontologico, dall’idea di Dio all’esistenza Dio. Rileva Kant altro è pensare di avere cento talleri (moneta del tempo), altro è averli realmente. L’argomento cosmologico è invalidato da Kant in quanto il principio di causa è applicabile solo al mondo sensibile; con la prova cosmologica, invece, si trasferirebbe il principio di causa sul piano metafisico, passando da un effetto fisico (mondo) ad una causa metafisica (Dio). Infine l’argomento teleologico proverebbe l’esistenza di un ordinatore, e non di un creatore. Kant finisce per sovrapporre queste diverse prove. Maritain rileva la confusione tra la prova ontologica e la prova cosmologica, osservando che non è la mia idea di perfezione che esige che Dio sia (argomento ontologico), ma è la perfezione di Dio, riscontrata a partire dalla mia imperfezione, che esige che Lui sia (argomento cosmologico). «Ho intravisto le perfezioni proprie di un pensiero che ha se stesso come sua esistenza e suo oggetto; ora so che questi privilegi sono quelli di un esistente reale. Bastante assolutamente a se stesso per esistere, esso è atto puro, e dunque infinitamente perfetto: sapendo che esiste, deduco dalla sua aseità la sua infinita perfezione. Solo per un sofisma palpabile Kant pretende che tale deduzione poggi implicitamente sull’argomento ontologico, e che rovini insieme. L’argomento ontologico, infatti, non consiste affatto nell’identificare l’esistenza a sé con l’assoluta perfezione, ma piuttosto nella pretesa che dalla semplice idea di perfezione assoluta si possa dedurre la sua esistenza reale. Se preliminarmente so, e per altra via (per esempio, partendo dal fatto della esistenza del mio pensiero) che l’essere a sé esiste, io sono evidentemente autorizzato a concludere, senza il minimo ricorso all’argomento ontologico, che, poiché la nozione di aseità implica quella di perfezione assoluta (e viceversa), questo essere a sé che esiste, è effettivamente perfezione assoluta» (IV, p. 667). Kant non intende negare l’esistenza di Dio, in cui crede fermamente e che porrà sul piano della morale, ma la

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

possibilità per l’uomo di dimostrarla con argomenti teoretici, perché la realtà divina è al di là delle possibilità gnoseologiche dell’uomo. L’esistenza di Dio non può essere né affermata, né negata. La Critica della ragion pura conclude riconoscendo il valore della matematica, che nell’estetica trascendentale viene garantita dalle forme a priori del tempo (aritmetica) e dello spazio (geometria), e della fisica, e nell’analitica trascendentale trova la sua giustificazione nel principio di causa. La metafisica invece è impossibile come scienza, perché il tentativo di rappresentare l’incondizionato produce le idee della ragione, che sono illusorie. La matematica e la fisica sono possibili, perché pure costruzioni a priori operate dallo spirito senza riferimento alla realtà in sé, mentre la metafisica non è possibile proprio perché vorrebbe l’accordo tra la realtà e il nostro modo di conoscerla. La verità non è più la relazione tra ciò che pensiamo e ciò che è, tra l’ordine logico e l’ordine ontologico, ma è l’accordo formale delle attività conoscitive fra di loro. L’oggettività della conoscenza per Kant è data dall’accordo del soggetto con se stesso, e l’universalità dalla concordanza nell’io trascendentale di tutti i soggetti conoscenti. Non si ha più il soggettivismo empiristico, ma un soggettivismo trascendentale, comunque sempre un soggettivismo.

La Critica della ragion pura - tav. n. 3

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La Critica della ragion pratica Maritain rileva che «Nella storia della filosofia morale, dal Rinascimento in avanti, solo con Kant appare qualcosa di veramente e positivamente nuovo. […] Egli si trova al punto di convergenza di due tradizioni opposte, il razionalismo e il cristianesimo… due eredità intellettuali contrastanti, due mondi di pensiero in conflitto. […] Egli è stato condotto ad una specie di rivoluzione copernicana nell’ordine pratico come nell’ordine speculativo […] a centrare tutta la vita morale, non più sul bene, ma sulla pura forma del dovere» (XI, p. 403). Questo capovolgimento ha portato ad una morale «acosmica, costituita puramente sui dati interiori della coscienza» (XI, p. 405). Maritain ha stima per la filosofia morale di Kant, ma ne individua i limiti e ne sottolinea le contraddizioni. Come il conoscere, anche l’agire è una sintesi a priori composta da una materia e una forma. La materia è data dal contenuto dell’azione, dal che cosa si deve fare, mentre la forma è data dal come bisogna fare. Ma mentre nella sintesi teoretica la materia entra a costituire il valore del giudizio, nella sintesi pratica tutto il valore dell’azione sta nella forma trascendentale con cui si opera. Il valore morale non dipende dall’intenzione o dal risultato, ma dall’adesione incondizionata alla legge morale; il contenuto è necessario affinché possa esprimersi la forma, ma è indifferente alla forma stessa. Chi compisse il dovere spontaneamente, per inclinazione naturale, e non per la pura obbedienza agli imperativi della coscienza morale, non avrebbe compiuto un atto morale. Anche sul piano della ragion pratica si ha un rovesciamento radicale, Maritain rileva come «il dovere è posto prima del bene, è posto come un assoluto al posto del bene, un atto non deve essere compiuto perché è buono, ma è buono perché dev’essere fatto» (I, p. 977). Maritain nelle Nove lezioni sulle prime nozioni della filosofia morale (47) fa un confronto diretto tra la morale secondo Aristotele e Tommaso e la morale secondo Kant, che illustra con una tavola didattica: la prima riferisce il bene dell’azione da intraprendere al bene dell’oggetto da porre come fine, è una morale cosmico-realistica a base sperimentale normativa; la seconda, che si propone il bene dell’azione staccato dal bene dell’oggetto, è una morale acosmico-idealistica a base deduttivo-normativa. Nella prima la ragione umana è una misura misurata, nella seconda la ragione umana è una misura puramente misurante. Secondo Kant «è la ragione che misura gli atti umani, ma non più

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nel senso della tradizione classica, perché ora si tratta della ragione pura, pura da ogni materia conoscibile, si tratta della ragione considerata in maniera puramente formale, dal solo punto di vista delle esigenze della universalità logica» (IX, pp. 743-744). L’atto è morale, vale per se stesso in relazione alla sua formulazione, indipendentemente dal contenuto e dal fine. Nella storia della filosofia si passa da una morale fondata sull’essere e su Dio ad una morale fondata sull’agire e sull’io. Anche sul piano della filosofia pratica Kant prepara la postmodernità.

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L’essere dovuto e il dovere per l’essere - tav. n. 4

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L’imperativo categorico Kant distingue due tipi di leggi a cui l’uomo è sottoposto: quelle necessarie a cui non può sottrarsi e che perciò non sono comandabili (es. respirare), e quelle libere, che l’uomo è libero di rispettare o meno, e che perciò sono comandabili (es. lavorare). Le prime sono dovute ai nostri impulsi sensibili, le seconde sono riferibili alla volontà, che non è altro che la ragion pratica, cioè la capacità di agire secondo principi, che Kant chiama imperativi. Gli imperativi sono di due tipi: gli imperativi ipotetici, che comandano un’azione condizionata da un’ipotesi, per cui l’azione stessa non è che un mezzo per raggiungere il fine proposto dall’ipotesi (es. se non vuoi vivere in miseria da vecchio, devi lavorare da giovane); e l’imperativo categorico, che comanda un’azione incondizionata, assolutamente fine a se stessa (tu devi). Gli imperativi ipotetici non possono essere fonte di valore morale, sono giudizi analitici, perché comandano mezzi che sono già contenuti in un fine, per il quale vengono appunto posti in atto; invece l’imperativo categorico, che si esprime con un giudizio sintetico a priori, il cui valore sta tutto nella forma, è il fondamento dell’azione morale. L’imperativo categorico si pone perciò a priori indipendentemente dall’esperienza e quindi dalla conoscenza; infatti ciò che è moralmente buono, sempre e dovunque, non può essere ricavato a posteriori dalla mutevolezza dell’esperienza sensibile, ma dev’essere posto a priori come principio universale e necessario. Così l’imperativo della moralità è interamente formale, non ci dice che cosa bisogna fare, ma in che modo dobbiamo comportarci. Il contenuto dell’azione non può essere soppresso, ma per valere dev’essere voluto nella forma della razionalità: solo a questa condizione i fatti naturali diventano atti spirituali. Nessun fine, nessun oggetto può essere posto all’azione umana, se si vuole garantire la dignità dell’uomo, che è fine a se stessa. Maritain cita questo testo di Kant: «Una persona non è soggetta ad altre leggi se non a quelle che essa dona a se stessa (sia da sola, sia in accordo con altre)» (IX, p. 576) e osserva che «Non obbedire che a se stessi è la prima rivendicazione della morale di Kant, come della politica di Rousseau» (I, p. 977) ed è la radice profonda del radicalismo laico. Poi osserva contro Kant che «la volontà è un appetito, caratterizzato dal desiderio, il suo atto primordiale è l’amore, non è quella immaginaria e puritana facoltà che vuole, senza desiderare» (I, p. 440). Precisa, inoltre, che l’uomo è una creatura, che non è fine a se stessa, perché deriva dal Creatore

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e cerca il suo Creatore. «Riferire il bene della creatura a se stessa e prescriverle di non tendere al bene divino, a Dio come suo fine ultimo, significa eliminare la sua dipendenza dal creatore, ed erigerla come un dio di fronte a Dio» (I, p. 981). Kant costruisce intorno all’imperativo categorico alcune massime e alcuni postulati come criteri di orientamento, ma che non modificano la struttura di fondo del tu devi, come autoregolazione dell’agire umano. I giudizi morali visti in loro stessi costituiscono la legge e considerati in rapporto alla volontà formano le massime. Perciò le massime morali fanno da mediazione fra la legge universale e la concreta azione morale da porsi in atto. Solo un essere ragionevole può agire secondo principi, secondo massime, cioè secondo una rappresentazione della legge, ma poiché la ragione può essere sollecitata da motivi contrari, provenienti dalla sensibilità, la razionalità si presenta come dovere. Se la volontà fosse di per se stessa conforme alla legge, non ci sarebbe bisogno del dovere, e sarebbe una volontà santa. Il dovere deve essere voluto per se stesso: un’azione conforme a dovere, ma non compiuta esplicitamente solo per dovere, non è un’azione morale. Il bene della nostra azione sta nella bontà del nostro volere: la volontà buona non riceve valore dalle sue operazioni, ma anzi è essa stessa a dare valore morale alle sue azioni. Kant, pur riconoscendo nel Vangelo il più alto codice di moralità, critica il comandamento cristiano dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo, perché il dovere compiuto per amore perderebbe la sua rigorosità e assolutezza, tanto da non essere più morale. Kant «si immagina il cristianesimo sul modello dei culti idolatri che ha rovesciato» (XI, p. 376), ma il cristianesimo non propone di amare Dio per essere felici, bensì è la rivelazione che nell’amare Dio, perché è Dio, l’uomo trova la sua beatitudine. «Kant contemporaneamente taglia fuori la vita morale dalla felicità aristotelica e dalla beatitudine cristiana» (XI, p. 411). In questa rigorosità del dovere per il dovere, che va oltre l’apatia degli stoici, perché non si tratta di conquistare l’indifferenza di fronte alla sensibilità, ma il trionfo sulle passioni, le massime della morale indicano la via per attuare l’imperativo categorico. La prima, Opera in modo che tu possa volere che la massima delle tue azioni divenga universale, fonda l’universalità della legge. L’universalità del comportamento è quindi la forma della morale. Maritain rileva come questa massima subordini il singolo io fenomenico alla volontà universalistica dell’io noumenico, un po’ come la volontà generale di Rousseau e fa sì che «la giustizia consista nella relazione (intersog-

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gettiva) tra gli uomini e non nella conformità alla legge (oggettiva) di Dio» (III, p. 920). La seconda massima, Opera in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona, sia in quella di ogni altro, sempre come fine, e mai semplicemente come mezzo, sottolinea il finalismo della morale, in quanto in nessun caso l’uomo può essere considerato mezzo, perché è assolutamente fine a se stesso. L’uomo è l’unico essere libero dai determinismi della natura, perciò mentre tutti gli altri esseri sono cose e hanno un prezzo, perché possono essere usati come mezzo, solo l’uomo è persona e ha una dignità, propria di chi è fine a se stesso. La terza massima, Agisci in modo che la tua volontà possa essere considerata come istituente una legislazione universale, conferma l’autonomia della ragion pura, che è legislatrice a se stessa, collegando la prima massima, che stabilisce l’universalità oggettiva della norma, con la seconda, che enuncia la finalità soggettiva della norma. L’uomo è principio e fine della legge morale, suddito e re. Ma le massime morali non sono ancora sufficienti a spingere l’uomo ad aderire alla legge, per cui Kant cerca una motivazione dell’azione morale nel sentimento di rispetto per la legge, un sentimento morale, un sentimento puro, che non è però un estrinseco movente alla moralità, ma la stessa moralità considerata come movente, la stima disinteressata per la legge. Maritain rileva che per Kant «Il dovere per il dovere è l’unica motivazione autenticamente morale e in questa motivazione pura un solo impulso del cuore è possibile: il rispetto per la legge» (XI, p. 410). Siamo nel punto più critico del pensiero kantiano, perché non è cosa facile sostenere un sentimento a priori e ritenere che una pura rappresentazione della legge sia obbligante. Maritain passa poi ad analizzare il problema della libertà, rilevando che in Kant c’è una confusione tra il libero arbitrio, come capacità di scegliere (libertà psicologica), e la libertà di autonomia, come adesione alla legge (libertà morale). La libertà coincide con la moralità, perché consiste nel dare a se stessi la legge, nell’essere indipendenti da qualsiasi condizionamento esterno, sia esso un’inclinazione della sensibilità o una rappresentazione della ragione, provenga dall’esperienza personale o si fondi sull’autorità di altri. Maritain rileva: «La libertà di scelta è un prerequisito della moralità, non la sua forma. Essa è la materia propria della moralità, perché solo degli atti liberi sono capaci di regolamentazione morale, come la materia lavorata dallo scultore o la musica sono capaci di regolamentazione artistica, nei due casi è la ragione che dona la misura e la forma» (V, p. 350). Maritain in Una filosofia della libertà (V, pp. 325-387) precisa che l’uomo diventa ve-

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ramente libero, conquista la sua autonomia, quando regolamenta le sue azioni secondo la verità, che la ragione conosce nella realtà della sua esistenza, come prescrive una morale cosmica. «La morale non è un mondo di imperativi discesi dal cielo della libertà, estranei al mondo dell’essere, essa ha le sue radici nella realtà totale di cui manifesta un certo ordine di leggi» (V, p. 722). Kant, invece, intende la libertà come facoltà di incominciamento assoluto, volontà autolegislatrice, volontà pura autosufficiente. L’autonomia è perciò l’origine e la forma stessa della moralità. Sono di conseguenza eteronome tutte quelle morali che hanno un fondamento diverso dalla volontà umana, perché vincolerebbero l’azione ad una motivazione esteriore. Kant elenca quattro casi di eteronomia, due dipendenti dal principio sensibile e soggettivo della felicità, e due dipendenti dal principio razionale e oggettivo della perfezione. Una morale fondata sul sentimento fisico del piacere, come quella epicurea, o sul sentimento morale del bene, come quella dei moralisti inglesi, è una morale eteronoma, perché condiziona il dovere ad un sentimento di felicità, variabilissimo e istintivo. Una morale fondata sull’ideale della perfezione razionale considerata come effetto della virtù, come in Wolff e nei razionalisti, è eteronoma perché non è la perfezione a fondare il bene, ma al contrario è il bene a costituire la perfezione. Infine è eteronomica anche la morale cristiana, che pone la perfezione in Dio e fa della Ragione divina la legge morale, subordinando la legge morale ad una realtà estranea alla nostra volontà. L’autonomia per Kant significa indipendenza della volontà dall’intelligenza (e della virtù dalla felicità) e agire secondo la pura forma dell’universalità della legge. Infatti l’autonomia in Kant non va intesa come la capacità dell’uomo di operare secondo la propria natura, secondo la legge del proprio essere, liberamente accolta; ma va intesa in senso assoluto, come radicale indipendenza della volontà umana. Mentre nel realismo è la metafisica a fondare la morale, e il bene è bene in se stesso, nel criticismo kantiano è la morale a fondare la metafisica, e il bene è bene per se stesso, come dovere formale. La ragion pura pratica nel creare la legge morale si pone al di là di ogni condizionamento sensibile, essa fonda ed esige quel mondo del sovrasensibile, che la ragion pura teoretica invano cercava e si illudeva di trovare. Il mondo dell’incondizionato, dell’intelligibile, del metafisico, è il frutto della legislazione morale; esso non è conoscibile, perché non è rappresentabile nelle forme della conoscenza, ma è reale perché necessario, affinché possa sussistere la stessa vita morale.

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I postulati della ragion pratica Kant, che di fatto fa della volontà morale il tipo della cosa in sé, in quanto il Regno dei fini si pone oltre il mondo della sensibilità, recupera la libertà e l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio con i postulati della ragion pratica, che sono proposizioni teoretiche non dimostrabili, ma che devono essere presupposte dall’azione morale. I postulati non estendono la conoscenza oltre i limiti dell’esperienza, perché la loro funzione è pratica e non teoretica. Se i postulati richiamano le tre idee della ragione, relative alla psicologia, alla cosmologia, alla teologia, non sono però dei contenuti di conoscenza, nulla ci dicono della natura del mondo intelligibile, ma sono delle intuizioni morali, proprie della fede della ragion pratica. Il primo postulato è la libertà di scelta, perché senza libertà non ci sarebbe responsabilità morale. Non si può avere esperienza della libertà, perché nel mondo dell’esperienza tutto è determinato dalla legge di causa ed effetto, ma di essa si ha certezza in quanto è la ratio essendi della moralità, perché se devi, puoi. La soddisfazione che nasce dal compiere il proprio dovere, non distrugge il valore morale, perché non è la causa del nostro comportamento, ma la conseguenza. Il bene supremo è la moralità, ma ciò non esclude che nel sommo bene possa essere anche inclusa la felicità. Questa coincidenza tra virtù e felicità è possibile se si ammettono gli altri due postulati, l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio. In questo mondo non è possibile raggiungere la perfezione morale, perciò l’immortalità dell’anima è necessaria affinché l’uomo possa proseguire il suo perfezionamento; e poiché in questo mondo non sempre chi è onesto è felice, è necessaria l’esistenza di Dio onnipotente e giusto che possa premiare ciascuno secondo i suoi meriti. Maritain rileva, che questa riconciliazione tra la legge del mondo della libertà (il dovere per il dovere) e la legge del mondo della natura (il desiderio della felicità) è «una riconciliazione tra pura riverenza per la legge e il puro eudemonismo. Kant respingendo il desiderio della felicità dall’ordine proprio della morale, rinuncia a fargli trascendere se stesso e ad affrancarlo dall’eudemonismo. […] Egli, che ha cercato qualcosa di più del disinteresse della morale dei santi, propone il superdisinteresse di un’etica nella cui struttura il fine ultimo soggettivo non ha alcun posto» (XI, p. 412). Nella morale kantiana «Dio non ha alcun ruolo» (XI, p. 413), interviene «a cose fatte» (ibid.), al di fuori della struttura dell’ordine morale; «Dio è un’appendice della morale, non il fondamento di

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questa» (XI, p. 415). Il bene, come valore oggettivo e come fine, è stato escluso dalla motivazione dell’atto morale. «Ciò che fa il valore dell’atto morale non è la bontà del suo contenuto e del suo oggetto, ma è la sua conformità universale al tu devi, puro e vuoto»1 (XI, p. 423). Il bene in sé come la cosa in sé sono estranei alla filosofia kantiana, che «trasferisce l’universalità dal piano della realtà, che è la natura umana, al piano dell’essere di ragione, che costituisce l’oggetto della logica» (XI, p. 430). Con il mondo del sovrasensibile fondato e richiesto dalla morale si ha un primato della ragion pratica sulla ragion pura, dell’azione sul pensiero. Kant ritiene che l’uomo può meritare la dignità umana perché la sua conoscenza è limitata, mentre la sua azione è libera. Infatti se l’uomo potesse conoscere la libertà, l’immortalità e l’esistenza di Dio, con la felicità che comportano, non sarebbe più in grado di comportarsi disinteressatamente. Così è moralmente necessaria l’esistenza di Dio, ma è altrettanto impossibile dimostrarla, e Kant afferma che doveva distruggere la scienza per salvare la fede, concludendo in un atteggiamento fideistico: «noi dobbiamo agire come se fossimo liberi, come se l’anima fosse immortale, come se Dio esistesse» (II, p. 269). Maritain rileva che «Kant ha costruito il suo sistema morale in funzione solo dell’ordine della causalità formale ed eliminando totalmente l’ordine della causalità finale» (XI, p. 417). «Kant ha retto l’autonomia ad assoluto, perché l’ha separata dall’Assoluto» (XI, p. 421). La morale della Ragion pura è «un’etica cristiana che è stata decapitata del piano teologale» (XI, p. 417). L’ipermoralismo kantiano finisce per tenere l’uomo schiavo della legge, escludendo Dio, nega all’uomo l’accesso alla suprema autonomia, che consiste, come dice san Paolo, nel fare per amore di Dio ciò che la legge comanda come dovere. «Il grande merito di Kant è di avere riconosciuto l’irriducibile originalità dell’ordine morale, il suo errore di averla sganciata dall’ordine metafisico per sospenderla ad un imperativo categorico, come ad un assoluto staccato dall’essere» (VI, p. 1213). «L’universalità puramente logica della legge, senza radici nella natura, tiene questa legge divisa dalla soggettività individuale» (XI, p. 431). Per questo motivo Kierkegaard vorrà recuperare la soggettività della coscienza morale. «Fu un’illusione di Kant quella di credere che il valore basti da solo come movente dell’azione morale. La bontà o la malizia intrinseca di un atto ci forniscono il perché formale, ma quando 1

Cf. il celebre Inno al dovere della Critica della ragion pratica, I, 1, 8.

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si tratta di passare all’azione, per avere presa sull’esistenza, i valori debbono essere inseriti nel dinamismo della nostra naturale e necessaria tendenza alla felicità» (IX, p. 839). «L’universalità non appartiene all’essenza della norma, è una conseguenza della razionalità della norma» (IX, p. 887). Maritain riscontra nella morale kantiana un residuo di occamismo, con la differenza che in Occam la legge dipendeva dall’arbitrio della volontà di Dio, mentre in Kant dipende dall’arbitrio della volontà umana (cf. XI, p. 396).

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La Critica del giudizio La terza Critica costituisce lo sviluppo delle prime due e il superamento del dualismo tra la conoscenza teoretica e la vita morale, tra il fenomenismo proprio del Regno della natura e la libertà propria del Regno dei fini. Kant, limitando la conoscenza al mondo dell’esperienza sensibile e fondando il mondo del sovrasensibile sull’azione morale, apre un contrasto tra la scienza della ragion pura, che ha del mondo una visione rigorosamente meccanicistica, e la fede della ragion pratica, che proclama il finalismo della vita razionale. Il dualismo tra meccanicità e finalità, tra mondo sensibile e mondo intelligibile, non è però radicale come tra il mondo delle idee e il mondo delle cose di Platone o come tra la res cogitans e la res extensa di Cartesio, perché Kant li pone in relazione sia sul piano del conoscere, in quanto senza i dati provenienti dalla cosa in sé non è possibile costituire mediante le forme a priori l’esperienza gnoseologica, sia sul piano dell’agire, perché la natura sensibile è l’ostacolo che la volontà deve superare per attuare la sua legge morale. Ma era necessario completare e concludere l’edificio intrapreso con l’esame delle forme a priori di una terza attività, intermedia tra il conoscere e l’agire, e perciò capace di stabilire un collegamento tra il mondo della natura e il mondo della libertà. Questa nuova attività è il sentimento inteso come giudizio riflettente, capace di subordinare un contenuto di conoscenza (ragion pura) ad un fine (ragion pratica). Il giudizio riflettente si differenzia dal giudizio determinante della ragion pura, con il quale si determina il mondo dell’esperienza subordinandolo ad una categoria. Invece con il giudizio riflettente il soggetto si ripiega su se stesso e cerca, nella rappresentazione sensibile, l’accordo tra senso e intelletto, senza riferimento alla conoscenza dell’oggetto, per cui in questa sintesi, di cui è forma il sentimento e contenu-

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

to l’esperienza, il predicato non aggiunge nulla alla conoscenza del soggetto. Vi sono due specie di giudizio riflettente: se il fine è riferito al soggetto, cioè al puro sentimento di sé, considerando l’oggetto per l’azione esercitata su di noi, si ha il giudizio estetico; se il fine è riferito all’oggetto, mediante il quale l’oggetto è considerato come rispondente ad una finalità secondo le esigenze della ragione, si ha il giudizio teleologico. Maritain osserva: «Sfortunatamente le osservazioni dirette, interessanti, e talora profonde, che si riscontrano in questa Critica molto più frequentemente che nelle altre due, sono viziate dalla sua mania di sistema e di simmetria e soprattutto dal soggettivismo della sua teoria della conoscenza» (I, p. 738). Kant inizia l’estetica moderna, senza però separare il bello dall’universalità della ragione e della legge morale. Il bello piace per la sola forma, a cui è interna la sua finalità, che è inintenzionale in quanto non si riferisce ad alcun oggetto, scopo, interesse, ma consiste nell’effetto che provoca in noi, prescindendo dal contenuto concreto dell’oggetto bello. Il sentimento non trova il bello nell’oggetto, ma se lo crea, presuppone soltanto il contenuto sensibile, che esso trasfigura e rende bello, contemplandolo, elevando così la natura al livello dello spirito universale. Il bello quindi non è dato al soggetto, ma è posto dal soggetto nel giudizio estetico, che è sintesi di intuizione e di concetto, ove l’universale intelligibile è espresso nel particolare sensibile. Il sentimento del bello non solo non dipende dall’oggetto, ma nemmeno dalle condizioni empiriche individuali; è una forma a priori, trascendentale, propria della struttura dello spirito umano. In questo senso e con questo significato va intesa la soggettività del bello, secondo Kant. Il bello è formale perché non dipende dal contenuto dell’opera d’arte, è soggettivo perché costituito a priori dalle forme del sentimento. Non ha compiti didattici o morali: così la natura è bella quando non è considerata conoscitivamente o moralmente, ma esteticamente. Kant sgancia il bello dal concetto, ma non del tutto dall’intelligenza, se il giudizio estetico è una forma speciale di giudizio. Ha ragione Kant nel ritenere che «la percezione del bello non sia, come intende la scuola Leibniz-Wolff, una concezione confusa della perfezione della cosa o della sua conformità ad un tipo ideale» (ibid.). Maritain approfondisce l’analisi: «Kant ha ragione nel ritenere che l’emozione, nel senso comune della parola, sia un fatto posteriore e consecutivo nella percezione del bello. Ma per lui il fatto primo ed essenziale è il giudizio estetico, per

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Il giudizio riflettente - tav. n. 5

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noi è la gioia intuitiva dell’intelligenza e secondariamente dei sensi» (ibid.). Ma «il veleno soggettivistico ha spinto fatalmente i filosofi a cercare l’essenziale della percezione estetica nell’emozione, a dispetto dello stesso Kant» (I, p. 739). Kant distingue, poi, il bello, ove c’è accordo e armonia fra sensibilità e intelletto, dal sublime, quando la sensibilità è incapace di adeguarsi all’intelletto e l’uomo si sente soccombere di fronte alla grandiosità della natura, ma poi prende coscienza della superiorità dello spirito sulla natura e questo sentimento dell’infinito diventa sublimante, ci umilia come esseri sensibili e ci esalta come esseri razionali. Kant tratta preferibilmente del bello di natura, a cui sostanzialmente riporta il bello d’arte, che il genio produce e il gusto apprezza. Nel giudizio teleologico la subordinazione di un contenuto di conoscenza è riferita ad un fine relativo all’oggetto, secondo l’idea di finalità che si ha di esso. Non si tratta più, come nel giudizio estetico, di una finalità formale riferita al soggetto, per cui si ha un giudizio di gusto, ma di una finalità reale, considerata nella natura secondo un giudizio di scopo. Naturalmente questa visione finalistica delle cose non ha valore gnoseologico, nulla ci dice circa la realtà delle cose, non è né vera, né falsa, è una nostra maniera di sentire la natura come se Dio l’avesse ordinata secondo fini, per cui essa nel suo insieme deve subordinarsi allo spirito. Così il mondo è stato creato per l’uomo, non per il dominio materiale o per la felicità sensoriale, ma affinché la libertà prevalga sui determinismi e dia uno scopo a tutte le cose: il massimo finalismo della natura si trova di conseguenza nell’uomo inteso come persona, fine a se stesso. Così gli esseri viventi non appaiono più delle macchine rette dal principio della necessità causale (meccanicismo illuministico), ma come organismi viventi ove le singole parti sono organi subordinati al fine del tutto.

La politica, il diritto, la religione, la storia Negli scritti minori Kant si confronta con queste problematiche. In L’idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico rileva una finalità razionale immanente alla storia che, al di là degli scontri tra gli individui e i popoli, spinge l’umanità verso la libertà, facendo passare gli individui dallo stato di barbarie alla società civile, e gli Stati dall’indipendenza alla federazione. Con Per la pace perpetua invita i popoli ad accordarsi per garantire la pace perpetua

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e universale. Sul problema della religione pubblica La religione nei limiti della sola ragione risolve il cristianesimo in una fede morale, e intende la Chiesa come una comunità di spiriti liberi. La costituzione legale della società è lo Stato; lo stato di natura è uno stato di lotta, solo lo stato legale garantisce all’individuo sicurezza e libertà. L’atto con cui si costituisce lo Stato è il contratto sociale, in cui ciascuno rinuncia alla sua libertà esteriore individuale, ma per riaverla arricchita come membro della comunità. Dalla separazione dei tre poteri, che devono completarsi senza identificarsi, deriva il bene dello Stato. Il potere legislativo, dal quale dipendono gli altri due, spetta interamente e direttamente alla volontà generale del popolo (Rousseau). Compito principale dello Stato è l’educazione dei cittadini alla libertà, perciò lo Stato deve garantire l’indipendenza della cultura e la libertà della critica. Kant distingue tra diritto e virtù, tra politica e morale, senza separare i due aspetti dell’azione umana che insieme confluiscono nel dovere, distinguendosi solo nella diversità del comportamento, che riguarda l’uso esterno della libertà, come accordo esteriore dell’azione con la legge, e il comportamento morale, che riguarda l’uso interno della libertà, come accordo interiore dell’intenzione con la legge. La legalità si accontenta dell’azione conforme al dovere, la moralità esige invece un’azione compiuta per convinzione. Kant, come Machiavelli, come Lutero, non distingue ma separa la legalità dalla moralità, l’ordine giuridico e l’ordine morale (cf. XI, p. 510), anche se sembra auspicare che «la legge positiva accolga le esigenze della ragion pura» (XVI, p. 795), per cui si può intravedere una legge naturale razionalista. In concreto per Kant l’unico diritto, innato e universale, che l’uomo possiede è quello della libertà; tutti gli altri, compreso quello di proprietà, ne derivano. L’autonomia della ragion pratica si oppone a qualsiasi forma di autorità. «L’autorità, quella di Dio come quella degli uomini, non può regolare che le azioni esteriori, non può che fondare la legalità, che è estranea alla moralità e che non può costituire una obbligazione morale» (I, p. 978). Kant riconosce che il contrasto tra virtù e felicità, tra moralità e natura, è dovuto ad un male radicale, che è proprio della stessa libertà, come possibilità di venir meno alla legge. Così nell’uomo sono presenti insieme il principio del bene e il principio del male. L’origine di questo male è oscura e incomprensibile, le religioni ne promettono la liberazione ad opera di Dio, per Kant questa liberazione è possibile all’uomo da solo, grazie al suo sforzo di perfezionamento. Riesce dif-

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ficile conciliare la morale autonoma, fondata sull’indipendenza della ragion pratica, con lo spirito religioso, fondato sulla dipendenza da Dio, così Kant riduce la religione nei limiti della ragione e la riduce ad un valore puramente pratico. L’idea di Dio è un concetto vuoto, la fede non ci aumenta la scienza, ma semplicemente conferma i precetti della morale, non ha un valore gnoseologico, ma soltanto morale. Kant, che critica il deismo illuministico, il quale con la ragione pretendeva di conoscere Dio, non fa che sostituire al deismo razionalistico di Voltaire, e al deismo sentimentale di Rousseau, un deismo morale. La religione non ha bisogno di dogmi, di riti, di sacramenti. Il cristianesimo stesso segnerebbe l’inizio di questa religione tutta interiore, fatta di perfezione morale, per cui quelli che vivono l’ideale morale possono dirsi figli di Dio. Maritain commenta «Dio comanda la legge da parte sua, nel medesimo tempo che essa, per se stessa, si impone nel profondo della nostra volontà, senza che questo comandamento di Dio aumenti per nulla la maestà della legge» (I, p. 984). È un mettere Dio tra parentesi. Come in Locke e in Rousseau, il cristianesimo viene laicizzato e naturalizzato, perché è svuotato di quel contenuto soprannaturale di relazione con Dio, che, invece, ne costituisce l’essenza. E pensare che Kant ha scritto: «Ho dovuto demolire il sapere per fare posto alla fede» (II, p. 1169). Il razionalismo agnostico dell’illuminismo fa posto al fideismo.

Una ristrutturazione soggettivistica della persona Il criticismo va esaminato nella reciprocità delle tre Critiche: fermarsi alla Critica della ragion pura sarebbe unilaterale, e insufficiente, per potere comprendere il sorgere della postmodernità, anche se è stato proprio questo aspetto del pensiero di Kant ad essere subito sviluppato, e assimilato, dalla scuola idealistica. Considerato nell’integralità del suo sistema e nel significato delle sue conclusioni, Kant non sembra lontano dal realismo tradizionale, nel senso che per lui la realtà esiste indipendentemente da noi, è fondamento del conoscere, è condizione dell’agire morale, è contenuto del sentimento. Se è svalutata la ragione conoscitiva, per l’atteggiamento fenomenologico, la ragion pratica pone l’essere, nella sua intrinseca finalità morale e nel suo rapporto con Dio, cosa che il sentimento col giudizio teleologico conferma. Come Locke supera il soggettivismo empiristico per ammettere la realtà dell’anima, del mondo e di

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Dio, e come Cartesio esce dalle premesse idealistiche del cogito per ammettere, al di là dell’io, un Dio trascendente e il mondo della materia estesa, così Kant, e meno contraddittoriamente dei precedenti, anche se con altrettanta difficoltà, ammette la realtà metafisica come limite dell’esperienza, come postulato della morale, come esigenza del sentimento. Soprattutto è l’uomo che si ripresenta ricostituito nella sua unità di conoscere, di volere e di sentire, anche se tra queste forme dell’attività dello spirito non vi è quella intima reciprocità e circolarità tipiche del pensiero greco e cristiano. Di fronte all’intellettualismo cartesiano e al meccanicismo hobbesiano, che finivano per negare la libertà dell’uomo, il criticismo kantiano rivaluta l’uomo come persona libera. Kant supera le posizioni unilaterali dell’empirismo e del razionalismo riconciliando l’esperienza con la ragione, il senso con l’intelletto, la materia con la forma, ma mentre in Aristotele questa sintesi ha un valore oggettivo e reale, per Kant ha solo un valore soggettivo e fenomenologico. Materia e forma nel realismo costituiscono in singolo l’essere, per il criticismo costituiscono in sintesi il conoscere. Per Kant oggettività significa soltanto universalità trascendentale, per cui una conoscenza è vera e un’azione è buona quando siano formulate dall’io penso e dall’imperativo categorico secondo le forme universali del conoscere e dell’agire; ciò non significa riferimento all’essere, all’oggetto in sé, e quindi si resta sempre nel soggettivismo, anche se non si tratta più di un soggettivismo empiristico, per cui ciascun singolo soggetto ha la sua opinione particolare e cerca il proprio utile individuale, ma di un soggettivismo universale. È costantemente presente nel sistema kantiano l’esigenza di Dio, come idea della Ragion pura, come postulato della Ragion pratica, come fine della natura nella visione teleologica, ma l’autonomia dell’imperativo categorico stabilisce che non Dio, ma l’io è il fondamento dell’ordine morale, per cui è la metafisica dei costumi a porre l’ordine metafisico. D’altra parte la riduzione della religione nei limiti della ragione umana conferma questa posizione, malgrado la sincera fede personale di Kant. Per garantire la dignità dell’uomo, Kant oppone la morale e la religione, dimenticando che, essendo una creatura, l’uomo non può dare legge a se stesso se non accettando l’essere di cui è costituito e che gli è donato da Dio per partecipazione. L’autonomia assoluta riferita all’uomo rappresenta la conclusione dell’antropocentrismo dell’umanesimo-rinascimento sviluppato dall’illuminismo. Ma a queste conclusioni Kant non giunge per de-

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molire il culto di Dio, ma vi giunge a causa della struttura stessa del suo sistema, che, avendo sganciato la conoscenza dalla metafisica, lo porta a derivare dalla morale la metafisica, con il primato della Ragion pratica. Si ha un’altra rivoluzione copernicana, perché non è più l’essere, attraverso il conoscere, a fondare l’agire come dover essere, ma al contrario è l’agire a fondare l’essere; cosicché il criticismo porta il suo contributo alla costruzione di un nuovo tipo di civiltà, non più fondato sulla contemplazione e sul pensiero, ma sull’azione, che in Kant resta ancora un’azione di disciplina morale nell’universalità della legge, mentre nella filosofia contemporanea diventa pragmatisticamente un’azione fine a se stessa in vista del successo e dell’utile individuale. Dall’esame dei singoli problemi balzano evidenti i punti deboli del criticismo: nel conoscere, la contraddizione della cosa in sé posta a fondamento della conoscenza e considerata inconoscibile; nell’agire, la difficoltà di ammettere la libertà della volontà, che deve ubbidire a se stessa senza aver motivo per dover ubbidire o disubbidire; nella Critica del giudizio, l’illusorietà del sentimento, che pone un fine all’ordine degli esseri, senza potersi assicurare della validità di tale atteggiamento teleologico. Kant è stato un maestro non tanto per il suo sistema, irripetibile nel suo equilibrio instabile tra empirismo e razionalismo, tra realismo e idealismo, tra oggettivismo e soggettivismo, quanto per l’impostazione problematicistica della sua filosofia. Il criticismo antepone la critica dei mezzi di conoscenza e di azione al loro uso, dubita di poterli usare prima ancora di averli usati. Si deve dubitare di ciò che non si è conosciuto con sufficiente sicurezza, invece Kant dubita deliberatamente di poter conoscere. Questo a priori dogmatico del criticismo, che in Kant non giunge a forme radicali di scetticismo, solo perché la metafisica e la morale sono garantite dalla Ragion pratica, continua nella fenomenologia. Maritain avverte: «Non si trascende il realismo e l’idealismo, non c’è una posizione superiore che li sorpassi e li riconcili, bisogna scegliere tra l’uno o l’altro, come tra il vero e il falso» (IV, p. 445); e annota: «anche Rudolf Euchen2, in campo protestante, oppone san Tommaso e Kant come due mondi che sono in conflitto irriducibile» (IV, p. 142). 2

Rudolf Euchen (1846-1926), filosofo tedesco che ha studiato soprattutto il problema della morale in Storia e critica dei concetti fondamentali del nostro tempo (1878) e Il significato e il valore della vita (1908).

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I. Oltre l’illuminismo

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Una seconda osservazione di Maritain è molto importante. «Dopo Kant, l’opposizione tra natura e libertà è diventata un luogo comune per la filosofia moderna. Da una parte si immagina una natura senza alcun rapporto con la moralità, come un insieme di fenomeni sottoposti al determinismo. Dall’altra parte vi è l’ordine della moralità e della coscienza, del bene e del male umani, separato dall’ordine della natura» (V, p. 325). Maritain riconosce a Kant il merito di averci fatto comprendere che i risultati delle scienze empiriologiche, soprattutto quelle che si servono della matematica, riguardano il mondo dei fenomeni e non hanno alcuna portata metafisica: «A questo titolo dobbiamo una certa riconoscenza a Kant, per avere reso usuale in filosofia il termine fenomeno, non in quanto si riferisce alla sua teoria della conoscenza, ma in quanto qualifica esattamente l’ambito epistemologico della scienza dei fenomeni come tali» (V, p. 865). Ma aggiunge: «Kant ha visto molto bene questo, il suo errore è stato quello di avere voluto generalizzare questo punto di vista, di averne voluto trarre tutto un sistema, riguardante la natura della conoscenza presa in se stessa» (V, p. 864). Per Kant all’uomo non è possibile che la conoscenza fenomenologica. «Come Cartesio aveva separato la filosofia dalla teologia, Kant separa la scienza dalla metafisica; come Cartesio aveva negato la possibilità di una teologia come scienza, Kant nega la possibilità della metafisica come scienza» (VI, pp. 44-45). Maritain riconosce anche un altro merito a Kant: quello di avere aiutato l’uomo «a prendere coscienza dell’importanza del problema della personalità morale» (V, p. 1109), della necessità di dovere conquistare la propria libertà, ma avendo confuso la libertà di scelta con la libertà di autonomia, facendo della volontà umana la regola delle proprie azioni, ha generato un superuomo «che si è rapidamente decomposto, di modo che dopo avere rivendicato un’indipendenza divina, l’uomo del materialismo psicologico o sociologico contemporaneo cerca invano se stesso nei conflitti e nei fantasmi del mondo sotterraneo dell’inconscio o nei meccanismi della vita sociale» (V, p. 1110). «Il grande merito di Kant è di avere riconosciuto l’irriducibile originalità dell’ordine morale, il suo errore di averla sganciata dall’ordine metafisico per sospenderla ad un imperativo categorico come ad un assoluto staccato dall’essere» (VI, p. 1213). Ma, soprattutto, Maritain sottolinea come la morale kantiana abbia sconnesso il piano dell’etica dal suo fondamento teologico, perché un’obbligazione morale, per vincolare realmente la coscienza, deve essere fondata solo sull’assoluto di Dio.

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La distruzione della metafisica come scienza, la riduzione del concetto ad una forma vuota, può ricordare Occam e la sua scuola, ma Maritain precisa: «I terministi avrebbero trovata assurda la pretesa di fare ruotare la verità intorno all’io umano; e la loro filosofia rappresenta piuttosto una deviazione, una corruzione dell’oggettivismo della scolastica che la fondazione di un sistema soggettivistico. Tra Occam e Kant, in un certo senso così vicini, c’è una differenza di intenzione intellettuale, dall’uno all’altro l’asse dell’orientamento della vita intellettuale si è interamente rovesciato» (I, p. 932). Con Kant si approfondisce la deviazione introdotta da Cartesio nella storia della filosofia, quando ha trasferito il rapporto tra materia e forma dal campo dell’essere a quello del conoscere, dalla cosmologia alla gnoseologia. «Cartesio e Kant si sono ugualmente sbagliati per avere concepito la conoscenza, e in particolare la conoscenza intellettuale, che è quanto esiste di più elevato nella natura, per avere confuso le cose del conoscere con le cose dell’azione transitiva. Conoscere per l’uno è ricevere un’impronta, per l’altro fabbricare un oggetto. Ma una tale unione di una materia e di una forma, unione costituente un terzo termine la “materia informata”, che noi incontriamo nel mondo dei corpi, privi di conoscenza, è precisamente ciò che non è caratteristico della conoscenza. Strana disavventura e incresciosa disgrazia per non essersi accorti del problema. Cartesio e Kant, i quali dirigono il loro sforzo principale sulla teoria della conoscenza, sono passati completamente a fianco della conoscenza» (III, p. 59). In Riflessioni sull’intelligenza (8) Maritain non esita a rintracciare le cause remote di questa deviazione nella Scolastica della decadenza: «L’errore capitale, qui, è di confondere ciò che attiene all’ordine entitativo con ciò che attiene all’ordine intenzionale, e di pretendere di spiegare la conoscenza con una composizione entitativa qualunque, ricezione di un’impronta o formazione di una rappresentazione. Da questo punto di vista bisogna dire che tutti gli errori di Cartesio e di Kant dipendono originariamente dal cedimento del pensiero scolastico al tempo di Suárez. Questi autori, materializzando la dottrina di san Tommaso, credevano che l’intellezione non consistesse per l’intelligenza che nell’essere informata dalla qualità rappresentativa (dal verbo mentale), che non consistesse che nel ricevere l’impronta di un’immagine; teoria che non lascia sussistere della conoscenza se non ciò che essa non è, e che potremmo chiamare la teoria dell’intelligenza come scatola a schede automatiche:

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I. Oltre l’illuminismo

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sotto l’impulso dell’intelletto agente essa traccia un’iscrizione su una scheda, l’iscrizione è ricevuta, la scheda è archiviata, ed è detto tutto. Schede e iscrizioni diventeranno con Cartesio innate al pensiero, che le riceve direttamente da Dio; con Kant, che ne fa il prodotto della nostra attività, lo schedario diventerà il mondo della rappresentazione» (III, pp. 78-79). Ma la vita dell’Intelligenza non è quella di un archivista; è molto più attiva e conosce il reale in profondità. «L’intelligenza non raggiunge il suo compimento se non mediante la sua stessa attività. Essa è vinta dall’oggetto, ma l’oggetto in atto ultimo di intelligibilità è essa stessa in atto ultimo di intellezione. E soggiogata dall’evidenza, ma l’evidenza dell’oggetto è anche la luce che essa porta a completa perfezione nella sua spontaneità vitale. Ecco perché le ripugna l’assoggettamento alla cieca costrizione delle forme a priori kantiane» (III, p. 90).

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II. L’età delle ideologie

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II. L’età delle ideologie

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1. La filosofia come realtà totale La modernità, che ha raggiunto il culmine nell’illuminismo, nell’età delle ideologie si sclerotizza generando sistemi compatti e chiusi come l’idealismo, il positivismo, il marxismo, che provocheranno una reazione irrazionalistica, preludio alla postmodernità con il pensiero debole e la diaspora delle correnti nel pensiero contemporaneo. L’ideologia scambia per filosofia un sistema di idee costruite a priori, indipendentemente dall’esperienza, che identifica con la realtà stessa, e genera sistemi politici totalitari. Si presenta in forme diverse, ma alla radice c’è sempre la presunzione che sia la ragione umana, individuale o collettiva, a determinare il divenire della storia. Maritain analizza in profondità la grande sofistica hegeliana, l’ideologia borghese di Auguste Comte, il materialismo dialettico di Karl Marx. A questa ideologia incominciano a reagire, in ordine sparso, le filosofie dell’irrazionalismo di Nietzsche e di Kierkegaard, per la verità più letteratura che filosofia, e dello spiritualismo italiano, ma le une si chiudono nella soggettività individuale, mentre Rosmini finisce per tentare un compromesso tra idealismo e realismo, pur salvando una metafisica pluralista.

2. L’idealismo L’idealismo ha fatto cadere la barriera che divideva l’essere logico dall’essere reale e il reale, introdotto di forza, nell’essere logico di ragione, fa violenza alla logica (XI, pp. 455.457).

Il razionalismo francese, attraverso il criticismo, diventa idealismo in Germania, risolvendo l’oggettività dell’esistere nella soggettività del conoscere, finendo per assorbire nella razionalità la stessa

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

irrazionalità. La creatività dello spirito che per Kant, fermandosi alla forma della conoscenza, creava solo la conoscibilità delle cose, nell’idealismo, estendendosi alla materia, giunge a creare l’essere stesso delle cose. Maritain rileva come l’idealismo, pur derivandone, rappresenti un superamento del criticismo kantiano «che era solo una specie di crisalide da rigettare una volta che la filosofia aveva trovato le sue ali. L’ispirazione era radicalmente diversa. Se la rivoluzione kantiana aveva liberato lo spirito dalla regolazione esercitata su di essa dalle cose, lo aveva fatto solo per limitare il campo del sapere e restringere le ambizioni della ragione. Bisognava portare a termine questa rivoluzione, liberare lo spirito dalle regolazioni esercitate su di lui dalle cose, fare cadere ogni barriera che restringa il dominio del sapere filosofico, in breve dare via libera alle ambizioni metafisiche della ragione. Si trattava di superare il dualismo kantiano, la cosa in sé, il fenomeno, che pur nella sua inconoscibilità, continuava ad appartenere al mondo dell’essere extra-mentale, e restava una realtà indipendente dallo spirito» (XI, p. 446). Con l’idealismo «lo spirito abolisce la cosa in sé, prendendone il posto, mentre i fenomeni non saranno che una manifestazione di essa» (ibid.).

La grande sofistica L’idealismo predetermina le condizioni di intelligibilità e Maritain commenta: «Quanto alla formula “fare delle condizioni di intelligibilità le condizioni della realtà”, se significa semplicemente riconoscere che ogni essere è intelligibile nella natura stessa in cui è (ens et verum convertuntur) non si vede come essa non possa imporsi a qualsiasi filosofo, che non rinunci a pensare; ma se significa un intellettualismo assoluto, si vede bene come si possa applicare a Parmenide, a Spinoza, a Hegel, ma non si vede come essa si possa applicare ad una filosofia che riconosca nelle cose un principio (la materia) per se stesso non intelligibile, come dice Aristotele» (I, pp. 598-599). Hegel trasforma le cose in idee, «fa del pensiero l’essere stesso delle cose, e pretende di trarre dal pensiero l’universo intero», giunge all’«aseità del pensiero» (I, p. 999). Tutte le conoscenze, da quelle delle scienze naturali all’esperienza mistica, sono risolte dall’idealismo nella filosofia. Maritain parla di un «totalitarismo della ragione» (IX, p. 121). Per il realismo l’intelligenza umana ha un limite inferiore, infraintelligibile, nella materia come pura potenza, e un limite superiore, sovraintelligibile, in

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Dio come atto puro; per il razionalismo tutto è intelligibile, tutto è alla portata della ragione umana, per cui la materia non è più «un elemento di opacità radicale, di non-intelligibilità per sé» che solo l’Intelligenza divina può conoscere, «perché conosce tutte le cose nella e mediante la loro essenza e intelligibilità increata» (XI, p. 475). Per l’idealismo non ci deve essere realtà che non sia riconducibile alla ragione umana, per cui la trascendenza di Dio e l’irrazionalità della materia vengono risolti nella filosofia. Maritain delinea lo svilupparsi dell’idealismo nella Storia della filosofia morale (57). «Si possono considerare i tentativi di Fichte e di Schelling come preparazione della filosofia hegeliana, ma nella forma di approssimazioni imperfette e di abbozzi mancati, perché qui l’Io e là l’Assoluto, pur interni al pensiero, si offrono ancora come distinti da esso, e anche se posti da esso, in qualche modo sono guardati dallo stesso pensiero e perciò ancora segnati da qualche residuo della realtà, della cosa in sé. Il colpo di genio di Hegel è stato quello di fare del pensiero o dello spirito lo stesso Assoluto» (XI, p. 447). Per Maritain il padre dell’idealismo moderno è Hegel, con cui si ha l’intuizione della «realtà in quanto storia» cioè dell’essere mobile, «ma ciò che conduce Hegel a concettualizzare questa intuizione in un sistema errato, che è una grande sofistica, non è solo il suo idealismo, ma c’è innanzitutto il modo con cui ha deciso di portare il razionalismo all’assoluto e di eguagliare la ragione umana alla ragione divina, trasformando la dialettica in un sapere assoluto ed assorbendo l’irrazionale nella ragione» (X, p. 630). Osserva inoltre che «Tommaso precisava che il filosofo, il dialettico e il sofista hanno tutti e tre lo stesso oggetto, cioè l’universalità dell’essere, ma in tre prospettive incompatibili tra di loro. Avrebbe anche certamente detto che, trasformando la dialettica in metafisica, Hegel ne ha fatto una suprema sofistica. Schopenhauer, ritorcendo su Fichte, Schelling ed Hegel la famosa diatriba, li ha chiamati i Tre impostori, espressione che si applica ad Hegel in modo eminente. Hegel ha forgiato con la sua dialettica uno strumento di straordinaria potenza, un organon altrettanto perfettamente congeniato per la soperchieria dogmatica, quanto quello di Aristotele per il sapere; una macchina per illudere l’intelligenza e della quale la filosofia moderna (oramai sommersa dalla opinione come sapere) e i tempi moderni non hanno ancora cessato di sperimentare l’efficacia» (XI, pp. 468-469). Maritain fa qualche accenno ad un quarto filosofo tedesco idealista, Friedrich Schleiermacher (1768-1834), autore dei Discorsi sulla

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religione (1799), che riduce l’esperienza religiosa ad un’intuizione o ad un sentimento dell’infinito, per collocarlo nella storia del razionalismo religioso e del protestantesimo liberale, che porta ad Adolf Harnach (1851-1930). Concludendo questa premessa, si può dire che l’idealismo è una forma di angelismo, è il desiderio di una conoscenza, come quella degli angeli, degli spiriti puri, che possono conoscere «senza l’umiliante contatto con la realtà materiale» (VIII, p. 121), una conoscenza impossibile all’uomo. L’idealismo finisce per «fare della critica della conoscenza, che dovrebbe essere solo un atto di riflessione sulla conoscenza della realtà, un’attività costruttiva» (IV, p. 400) che la porta ad un ripiegarsi all’infinito su se stessa, che «non può che sorpassarsi senza fine, sostituendo verità a verità, e non cogliendo mai nulla» (IV, p. 497) in un divenire perpetuo.

Johann Gottlieb Fichte Il primo dei filosofi tedeschi che introduce all’idealismo, rielaborando la filosofia di Kant, Johann Gottlieb Fichte (1762-1814), nasce in una modesta famiglia, riesce a frequentare, grazie all’aiuto di un mecenate, i corsi di teologia prima all’Università di Jena, poi in quella di Lipsia, incerto se dedicarsi alla carriera ecclesiastica o all’insegnamento della filosofia. Per un certo tempo fa il precettore in Sassonia, poi nella Svizzera tedesca, a Zurigo dove conosce il pedagogista Enrico Pestalozzi e dove incontra e sposa Marie Johanna Rahn, nipote di Friedrich Klopstock, famoso per il poema Il Messia, capolavoro della letteratura del movimento pietista impegnato nel rinnovamento del protestantesimo in Germania. Nel 1791 inizia gli studi filosofici con Kant e pubblica anonimo un volumetto Critica di ogni rivelazione, che viene attribuito al suo maestro. La lettura di Kant fu per Fichte una rivelazione e Maritain riporta questa significativa confessione: «Io scoprivo infine la filosofia, che riduce ad una semplice apparenza le circostanze dove noi viviamo e che lascia alla nostra libertà personale e all’io il potere di svilupparsi, malgrado le cose» (I, p. 993). Chiamato all’Università di Jena, pubblica diverse opere tra cui Dottrina della scienza; sospettato di ateismo si trasferisce a Berlino. Qui pubblica la sua opera più importante Sulla missione del dotto e collabora alla fondazione dell’Università, dove insegna, accanto a Schleiermacher, fino alla morte, avvenuta durante le guerre napoleoniche, avendo contratto un’infezione dalla moglie, che pre-

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II. L’età delle ideologie

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stava servizio come infermiera all’ospedale militare. Famosi sono i suoi Discorsi alla nazione tedesca (1807-1808), che se aiutarono il popolo a resistere alle invasioni francesi, furono anche il germe di quel pangermanesimo che resterà a lungo nella cultura e nella politica tedesca.

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L’idealismo etico Maritain non dedica molta attenzione a questo filosofo, ma nella Storia della filosofia morale (57) ne sintetizza il pensiero: «L’idealismo di Fichte, di ispirazione soprattutto morale, fa uscire tutto dall’Io attraverso un processo di sviluppo i cui termini si pongono opponendosi; e concepisce la vita etica come una realizzazione progressiva della sovrana indipendenza dell’Io trascendentale e sovraindividuale (dato che per i soggetti individuali Fichte diceva che “non c’è sicuramente nulla di buono”)» (XI, p. 446). In principio c’è un Io puro, che non è essere ma attività, una forma non trascendente ma trascendentale, rispetto ai singoli io empirici in cui si esprime. Risalire al di là di questa attività iniziale, che non si giustifica ma si pone da se stessa, è impossibile. Ammettere un oggetto anteriore e indipendente dal conoscere del soggetto significherebbe cadere nel dogmatismo o finire nello scetticismo; molto più sicura è la posizione dell’idealismo, che partendo dall’io puro non presume di uscirne fuori, perché tutto ne deriva, per cui l’oggetto si identifica con il soggetto. Maritain vede in questo Io puro, in questa attività trascendentale, pura forma, «un’Esistenza senza essenza, una libertà senza natura, un Io senza volto, che si pone per propria volontà in divenire» (XIII, pp. 547-548). L’attività dell’Io, trascendentale e dialettica, si sviluppa attraverso un’intrinseca opposizione tra io e non-io, che viene superata in una sintesi, per poi ricostruirsi in una nuova opposizione, e così all’infinito, perché se l’Io cessasse di divenire cesserebbe di essere. Tre sono i momenti di questo divenire: la tesi in cui l’Io pone se stesso come attività, l’anti-tesi, in cui l’io inconsciamente si oppone al non-io, lo spirito si oppone alla natura, e infine la sintesi, ove, nell’autocoscienza, l’io s’accorge di identificarsi con il non-io, lo spirito si accorge di aver superato in se stesso la natura. Fichte analizza i momenti fondamentali di questa attività: il momento teoretico (che chiama fantasia produttiva), in cui il soggetto pone l’oggetto e quindi si sente limitato dall’oggetto, che lo finitizza e lo determina: e questa

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è l’antitesi; e il momento pratico (che chiama riflessione consapevole), in cui il soggetto supera in sé l’oggetto, conquistando così la sua libertà oltre il limite che si era posto: e questa è la sintesi. Si conferma il primato kantiano della ragion pratica, perché l’Io teoretico è per l’Io pratico, il soggetto si pone l’oggetto allo scopo di superarlo e di celebrare in questo modo la sua libertà di fronte alla natura. Ma mentre in Kant l’io teoretico e l’io pratico erano separati, erano come paralleli, in Fichte sono relazionati, sono posti in rapporto da mezzo a fine: l’io che pensa è lo stesso io che agisce, anzi pensa per agire, così pensiero e azione sono coordinanti. Maritain commenta: «Per Fichte l’azione, che è vita, viene prima dell’essere, che è morte» (II, p. 1062). Mentre l’io puro è una forma assoluta, i singoli io empirici, uomini e cose, in cui si esprime, sono esseri contingenti, allo stesso modo che una sinfonia è una pura attività, che si esprime attraverso il suono dei singoli strumenti musicali, che sono realtà concrete e finite. Come ogni strumento deve suonare la sua parte, affinché la sinfonia possa svolgersi nella sua compiutezza, così nell’armonia dell’io trascendentale ogni uomo ha una sua particolare missione da compiere, subordinando il suo interesse particolare alla legge del dovere. L’imperativo categorico diventa: Agisci sempre in conformità della tua missione. L’uomo non deve disperdersi nel caleidoscopio della sensibilità, ma deve dedicarsi l’azione, deve credere nel dovere, vivendo il quale raggiunge l’immortalità. C’è in Fichte un’identificazione della religione con la morale, perché l’Assoluto non è inteso come realtà trascendente i singoli esseri, ma è immanente al divenire della storia; come in Spinoza la Natura naturans è immanente alla natura naturata, con la differenza che qui si tratta di un Ordo ordinans. L’Assoluto altro non è che la stessa legge morale, la forma trascendentale superindividuale, che invita l’uomo a vivere il dovere come missione. Maritain rileva: «Dio non è per Fichte che l’ordine morale, che si realizza nel mondo attraverso la nostra libertà e la nostra moralità, un ordine che si realizza in uno sviluppo continuo e senza fine: un panteismo evoluzionista e ateo» (I, p. 994). Come i singoli individui, anche ogni popolo ha la sua missione da compiere; per Fichte, la missione del popolo tedesco è quella di ammaestrare gli altri popoli. Maritain rileva che «la cristianità viene sostituita dalla germanità» (I, p. 921) e si giunge a «identificare gli istinti tedeschi con la legge divina» (I, p. 925). Il popolo tedesco è chiamato attraverso la cultura a superare la contraddizione tra dirit-

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to e moralità. Il diritto è necessario per l’organizzazione della società, per garantire a ciascuno la sua libertà, ma deve usare la coazione e la forza dello Stato per assicurare la libertà ai cittadini. Solo attraverso l’educazione, si riesce a superare l’antitesi tra legge e libertà, e a interiorizzare la legge ottenendole il rispetto senza dover usare la forza. Lo Stato nel suo sviluppo passa attraverso diverse fasi e deve diventare da Stato di polizia, che garantisce a tutti la libertà, e da Stato commercialmente chiuso, autonomo e autosufficiente, che garantisce a tutti il lavoro, uno Stato etico, cioè uno Stato educatore capace di assoggettare alla legge comune le coscienze degli individui. La missione del dotto è quella di illuminare e stimolare gli uomini a vivere nel dovere e nella socialità, contribuendo ad attuare nella storia il regno dell’Assoluto. Alla filosofia politica nazionalistica di Fichte risale anche quella Kulturkampf portata avanti da Bismarck contro la Chiesa cattolica. In conclusione Maritain rileva che «il machiavellismo assoluto è stato preparato anche, e soprattutto, dalla filosofia romantica tedesca di Fichte e di Hegel» e annota: «Si sa che l’autore dei Discorsi alla nazione tedesca ha scritto anche un saggio titolato Carattere di Machiavelli» (VIII, p. 322). Alcuni motivi comuni, e la loro parallela missione storica possono avvicinare Fichte a Giuseppe Mazzini (1805-1872). Per entrambi la vita è missione, entrambi celebrano il culto del dovere, in entrambi il pensiero diventa azione allo scopo di unificare la Patria; ma assai diverso è il significato delle due filosofie, perché quella di Fichte è idealistica e nazionalista, mentre quella di Mazzini è spiritualistica e internazionalista.

Friedrich Schelling Studente con Hegel all’Università di Tubinga, Friedrich Schelling (1775-1854) passa dagli studi teologici a quelli filosofici meditando le opere di Spinoza, di Kant e di Fichte, da cui però presto si stacca per elaborare una sua filosofia, caratterizzata da continue e progressive evoluzioni, per cui si possono individuare le varie fasi del suo pensiero. Il primo scritto, Idee per una filosofia della natura (1797), già segna il distacco dall’idealismo etico fichtiano. Professore all’Università di Jena, grazie all’appoggio di Goethe e di Schiller, pubblica diverse opere tra cui L’anima del mondo (1798) e Rappresentazione

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

del mio sistema (1801), che costituiscono gli scritti più organici e sistematici del primo momento della sua ricerca, quando si muove tra Fichte e Hegel, e segnano il passaggio dell’idealismo tedesco da posizioni soggettivistiche a posizioni oggettivistiche. Poi, abbandonata l’Università di Jena, va pellegrinando per altre università, mentre Hegel è al colmo del suo successo a Berlino. Si verifica in questo periodo una crisi che lo porta verso forme di irrazionalismo e di critica all’idealismo. Sono di questo periodo due opere importanti, Filosofia e religione e Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana e gli oggetti con questa connessi. Nel 1841, chiamato da Federico Guglielmo IV, ottiene la cattedra di Hegel all’Università di Berlino, ma non può far dimenticare la gloria dell’antico condiscepolo, e poco dopo abbandona la cattedra.

L’idealismo estetico In Fichte la natura era considerata negativamente come ostacolo per l’attività dello spirito, che la poneva allo scopo di superarla, per manifestare così la sua libertà. Schelling vuole rivalutare la natura e, anziché contrapposta allo spirito, la concepisce parallela, alla maniera di Spinoza. Tra natura e spirito viene ad esserci una differenziazione non più qualitativa, ma solo quantitativa: la natura è spirito inconscio e lo spirito è natura conscia; e la natura nel divenire dell’unica realtà è come la preistoria dello spirito. All’inizio del divenire, anziché un atto puro come in Fichte, c’è un’Unità indifferenziata di natura e di spirito, di io e di non-io, di soggetto e di oggetto, dalla quale si svolgono prima la natura e poi lo spirito, senza che ci sia mai una natura pura o uno spirito puro. All’inizio la natura prevale sullo spirito e alla fine lo spirito trionfa sulla natura, ma sempre persiste la relazione natura-spirito. Questo divenire avviene per intrinseche opposizioni, perché l’attività per produrre deve limitarsi e per esprimersi deve concretizzarsi. Maritain rileva: «L’idealismo di Schelling formula già il principio della triade (ma in termini ancora superficiali e troppo legati al discorso umano, tesi, antitesi, sintesi) e fa uscire tutto dall’Assoluto, ma da un Assoluto di pura indeterminazione che, come dice Hegel, “è come una notte dove tutte le vacche sono nere”» (XI, p. 447). Con l’idealismo di Schelling riprende significato la relazione ontologica tra la materia e la forma, tra natura e spirito, senza risolversi nella relazione gnoseologica tra il soggetto e l’oggetto del conoscere come era capitato nell’empirismo di

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II. L’età delle ideologie

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Hume. I momenti fondamentali di questo divenire dell’Unità, che va differenziandosi, sono quattro: la materia, la vita, la sensibilità, l’intelligenza. Schelling, prima di Darwin e di Spencer, intuisce e formula un’ipotesi evoluzionistica, ma non in senso materialisticodeterministico, bensì in senso spiritualistico, perché questo divenire ha un’intima finalità, in quanto un’Anima del mondo, un’Intelligenza immanente, presiede e dirige lo sviluppo di tutta la realtà verso un’autoliberazione dello spirito dalla materia. In questa filosofia l’influenza di Spinoza e di Bruno è rilevante, sia per il monismo che per la riduzione dei singoli esseri concreti, cose e uomini, a modi di essere dell’unica realtà. Negli uomini prevale lo spirito e nelle cose prevale la natura; ma tutti questi esseri finiti sono provvisorie manifestazioni del divenire dell’Unità differenziata che in loro si esprime e si concretizza.

Il divenire secondo Schelling - tav. n. 6

In Schelling si trova il punto di maggior connessione tra l’idealismo e il romanticismo; la sua filosofia alimenta la letteratura romantica tedesca. Goethe, Schiller, Novalis gli sono amici e lui partecipa al loro movimento. L’unità della natura e dello spirito, la concezione del divenire come un inconscio emergere dello spirito dalla natura, erano convinzioni comuni. Ma la radice profonda della simpatia degli scrittori romantici per Schelling sta nel fatto che questo filosofo, nello svilupparsi della sua riflessione, finisce per considerare l’arte come l’organo fondamentale della filosofia, perché soltanto l’artista in un’intuizione lirica può cogliere l’intima essenza delle cose, che è in-

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

sieme natura e spirito, sensibilità e intelligibilità, razionalità e irrazionalità. Infatti l’io teoretico, cioè l’attività gnoseologica, e l’io pratico, cioè l’attività morale, non possono raggiungere l’anima profonda della realtà, perché nel primo è l’oggetto che prevale sul soggetto e nel secondo è il soggetto che prevale sull’oggetto, mentre nella creazione artistica e nella fruizione estetica soggettività e oggettività si fondono nell’immaginazione contemplativa. In questa immaginazione creativa c’è un’indistinzione tra soggettività e oggettività. Maritain in L’intuizione creativa nell’arte e nella poesia (49) cita questo testo di Schelling: «Tanto l’artista è spinto involontariamente, e malgrado se stesso, alla creazione […] altrettanto i materiali per le sue opere gli vengono forniti, senza il suo contributo, dal di fuori» (X, p. 401). Anche Maritain riconosce il valore dell’intuizione creatrice del poeta, come soggettività-oggettività, ma non la confonde con l’intuizione del filosofo; riconosce l’autonomia della poetica rispetto alla prassi e alla teoresi, distingue ma non separa questi tre momenti dell’attività dello spirito. Cartesio e il razionalismo avevano portato ad un’identificazione tra filosofia e matematica, per cui l’evidenza e la deduzione matematica erano il criterio di ricerca; l’idealismo di Schelling fa coincidere l’arte con la filosofia, sostituendo al concetto l’intuizione. Sarà Hegel che supererà questo equivoco, ma per subordinare l’arte alla filosofia in un nuovo intellettualismo. Con l’idealismo estetico si è fuori dell’idealismo puro, perché la razionalità viene ad essere mescolata con l’irrazionalità, infatti nell’ultimo periodo della sua riflessione Schelling si porta all’opposizione netta dell’idealismo, verso forme di puro irrazionalismo, fino a considerare il male come una necessità metafisica. Di fronte alla difficoltà di ogni filosofia di derivare gli esseri finiti dall’Assoluto, di trarre dall’Uno i molti, Schelling riconosce che il moltiplicarsi dell’Uno nei motti è un male radicale, che l’individualità in se stessa è una colpa, in quanto significa lo staccarsi dell’individuo dal Tutto. A questa Iliade deve seguire un’Odissea con il ritorno dei molti all’Uno, i quali nell’Assoluto perdono la loro individualità e la loro finitezza per immergersi completamente nel Tutto. Schelling, in questo doppio processo di discesa dell’Uno nei molti e di ritorno dei molti all’Uno, che ricorda la filosofia di Plotino, stabilisce le relazioni tra Dio e gli uomini. Ma, non potendosi immaginare come Dio nella sua unità abbia bisogno di produrre la molteplicità, Schelling finisce di porre l’irrazionalità nella stessa Divinità. Maritain sottolinea anche un altro aspetto di Schelling, rilevando che questo monismo non è altro che una grande antropolatria,

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perché è l’io che pretende di essere Dio, la soggettività che si fa oggettività, il pensiero che si fa essere. Nel riportare tutto all’Assoluto come unica sostanza «Schelling ha preparato la strada ad Hegel, quando ispirandosi ad un tempo a Spinoza e a Kant, senza sospettare minimamente il senso assolutamente nuovo che tale formula avrebbe potuto assumere in Hegel, gli scriveva nel 1795 “Dio non è nient’altro che l’io assoluto”» (XI, p. 497). Per Hegel l’Assoluto non sarà solo l’unica Sostanza, ma la stessa Soggettività razionale.

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3. Georg Wilhelm Friedrich Hegel Hegel, lo sappiamo, ed è la sua gloria, ha voluto superare il dualismo kantiano tra la natura e la libertà, di fatto e di diritto, ma il suo geniale tentativo ha finito per identificarle (V, p. 326). Rendiamo omaggio a Hegel, al maestro dei maestri, davanti al quale lo spirito dell’uomo moderno è in ginocchio (XIII, p. 1007).

Il più importante filosofo tedesco, Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), nasce a Stoccarda in una famiglia piccolo-borghese, si forma nel seminario protestante di Tubinga, studiando filosofia e teologia, risentendo l’influenza di Rousseau e di Kant. Sono suoi compagni di studio Schelling e Hölderlin. Per più di cinque anni fa il precettore, prima a Berna poi a Francoforte, ampliando la sua cultura a contatto con il pensiero di Fichte, di Schiller e di Lessing. In quegli anni scrive una serie di saggi teologici, che saranno pubblicati postumi. A poco a poco perviene ad una sua visione del sapere, staccandosi sia dall’illuminismo che dal romanticismo, per elaborare una filosofia come pura concettualizzazione e ragionamento, nella quale essere e pensiero dialetticamente coincidono, fino ad identificarsi. La sua vasta erudizione lo porta ad interessarsi ai diversi problemi della cultura, filosofici, estetici, religiosi, morali, politici, giuridici, storici, che analizza nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio del 1817, riscritta e ampliata nel 1827 e riveduta ancora nel 1830. L’opera si struttura articolandosi nelle tre parti del suo sistema filosofico: la Logica, le Lezioni sulla filosofia della natura, la Filosofia dello Spirito. Ottenuta la cattedra universitaria insegna prima a Jena, accanto a Schelling, dove pubblica La fenomenologia dello spirito, www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

poi ad Heidelberg, infine a Berlino, capitale del Regno di Prussia, dal 1817 fino alla morte. Tra le altre opere sono da ricordare La scienza della logica (1812) e i Lineamenti di filosofia del diritto (1821). I discepoli pubblicano dopo la sua morte, sulla base di manoscritti inediti e dei loro appunti, le Lezioni sulla filosofia della storia, le Lezioni di estetica e Filosofia della religione. Il pensiero hegeliano ebbe una vasta influenza, non solo sulla filosofia europea, ma anche sulle stesse vicende politiche, dando origine a due scuole di pensiero, la destra hegeliana e la sinistra hegeliana, che portarono l’una al pangermanesimo militarista, prussiano, e poi nazista, e l’altra al comunismo sovietico, dilagando in tutto il mondo. Anche la filosofia italiana del primo novecento, con Benedetto Croce e Giovanni Gentile, e la politica del fascismo, trassero ispirazione dall’idealismo hegeliano.

Il metafisico del divenire Maritain dedica ad Hegel i primi capitoli della seconda parte della Storia della filosofia morale (57) con un triplice approccio: L’idealismo hegeliano (XI, pp. 445-494), La persona umana – la Sittlichkeit (XI, pp. 495-543), Il Dio di Hegel (XI, pp. 545-595), sottolineando come in lui si consumi la più completa e radicale secolarizzazione del cristianesimo, portando a termine il processo iniziato da Cartesio. Rileva con preoccupazione: «Ogni filosofia, come quella di Hegel, che pretenda di assumere in sé e di integrare la religione, è in definitiva una mistificazione» (IX, p. 74), perché la religione è una relazione da persona a persona, mentre la filosofia si risolve in un rapporto cognitivo tra soggetto e oggetto. Mentre la filosofia di Aristotele si radica nell’intuizione dell’essere, quella di Hegel deriva dalla intuizione del divenire, ma poi questa intuizione viene assorbita nella dialettica dello spirito, che celebra se stesso e si autocostruisce. Maritain in un seminario Nessun sapere senza intuitività (XIII, pp. 931-994) dedica una lunga riflessione a Tre grandi menti filosofiche, Cartesio, Hegel, Heidegger in cui di Hegel scrive: «Egli ha avuto un’intuizione primordiale, quella della mobilità e dell’inquietudine essenziali della vita umana, l’intuizione del divenire tragico di un vivente, che deve, senza sosta, contemplare la morte e la negatività e superare il loro potere con l’energia del pensiero. Ma nello stesso tempo porta l’idealismo all’assoluto, negando ogni realtà extramentale e facendo della realtà – la natura, la storia, il mondo –

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una manifestazione del Pensiero, cioè dello Spirito pensante discorsivamente se stesso» (XIII, p. 949). Hegel risolve tutte le conoscenze, da quelle scientifiche a quelle teologiche, nel sapere filosofico; e riduce e comprime il metodo della ricerca filosofica nella dialettica: «La dialettica diventa sapere e il solo unico autentico sapere; e la ragione diventa assolutamente libera da ogni controllo della intuitività dello spirito rivolto verso il reale, poiché non c’è assolutamente più il reale extramentale a cui il pensiero dovrebbe conformarsi» (XII, p. 950). Il metodo diventa il sistema, la dialettica è trasformata in metafisica. «L’idealismo ha fatto cadere la barriera che divideva l’essere logico dall’essere reale» (XI, p. 455), di qui la grande sofistica hegeliana che – grazie a due stratagemmi per cui «questa dialettica non comporta alcun punto fisso di prospettiva (la si potrebbe chiamare strategia dello spostamento focale)» (XI, p. 467) e «tutto l’universo della conoscenza delle cose viene trasferito nel mondo del puro pensiero (la si potrebbe chiamare strategia del mascheramento del reale nel processo logico)» (XI, p. 164) – giunge alla conclusione che la filosofia coincide con la storia. Maritain sottolinea che la dialettica hegeliana, sostituendo come legge fondamentale della realtà il principio di contraddizione al principio di identità, abbia portato la stessa contraddizione all’interno dell’essere, risolto nel divenire; cita questo testo di Hegel: «La natura intima delle cose è una contraddizione realizzata» (I, p. 328) e raccorda e confronta questa posizione con quella del sofista Gorgia (II, p. 68). Una buona intuizione, quella della realtà come storia, cioè come mobilità, flusso, cambiamento è stata mal concettualizzata. Maritain precisa: «Ciò che ha condotto Hegel a concettualizzare tale intuizione in un sistema erroneo, il quale non è altro che una grande sofistica, non è solamente il suo idealismo, ma soprattutto il modo in cui ha deciso di assolutizzare il razionalismo e di uguagliare la ragione umana alla ragione divina, trasformando la dialettica in un sapere assoluto e assorbendo l’irrazionale nella ragione, da cui il movimento dialettico, che è ad un tempo la stessa vita e la rivelazione della realtà» (X, p. 630). Hegel è il filosofo più radicale dell’idealismo, in lui l’idealismo si trova allo stato puro, tutte le conseguenze possibili ne sono tratte con coerente conseguenzialità fino al controsenso: tutta la realtà, il divino e l’umano, la persona e la società, l’eterno e il tempo, lo spirito e la natura, la religione e la filosofia, le scienze e l’arte, tutto viene risolto in una visione sintetica, che abbraccia e comprende il sapere universale. Questo argomentare del filosofo non concede più nulla al sentimento,

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alla narrazione, ma procede con rigorose deduzioni dai principi stabiliti, attraverso un pesante e arido discorrere dialettico. Non si trovano più come in Schelling diverse e successive fasi di pensiero, ma un’unica filosofia, che a poco a poco si dipana in tutte le sue articolazioni, fino ad esprimersi in un sistema organico, compiuto, definitivo.

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L’idealismo assoluto La ricerca filosofica non può essere morale come in Fichte, né sentimento come in Schelling, né religione come in Schleiermacher, perché è essenzialmente ragione concettuale, ossia riduzione della realtà in termini di pensiero. Con Hegel la filosofia torna così al suo metodo proprio, la logica, perché il suo oggetto è l’intelligibile, ed essa lo possiede in quanto l’essere è razionale. Ma da questo riconoscimento della razionalità del reale, Hegel passa all’identificazione della razionalità con la realtà, affermando che «tutto ciò che è reale è razionale, e tutto che è razionale è reale», e quindi «ogni cosa è un sillogismo» (XI, p. 450). Ne deriva che la realtà non è più solo secondo ragione, perché ha la sua ragion d’essere, ma è essa stessa la razionalità, la Ragione. Mentre Aristotele distingue tra l’essere e il pensiero, pur riconoscendo il pensiero immanente all’essere come sua forma intelligibile, Hegel identifica l’essere con il pensiero. Di conseguenza non è più possibile separare la logica come studio del pensiero, dalla metafisica come studio dell’essere, perché metafisica e logica coincidono. Maritain rileva: «L’antica nozione di logica, come scienza delle intenzioni seconde, presuppone una concezione realistica del mondo. Il concetto è anzitutto una presa sul reale extramentale, poi la logica lo considera a parte, in uno stato e con le proprietà che esso ha solo nella mente, come ente di ragione. Il ragionamento, di cui la logica studia le leggi, serve da strumento alla scienza del reale, ma questa è per natura distinta dalla logica, e la forma più elevata della scienza del reale non è la logica, ma è la filosofia. La dialettica fa parte della logica, e resta nella logica per edificare la scienza del reale, la filosofia. Per i filosofi antichi era un non senso fare della dialettica un sapere, una filosofia, quando invece non è che un primo tentativo di esplorazione delle cose, preliminare al sapere e incapace per natura di procurare il sapere, «perché lungi dal cercare con essa le strutture e le ragioni proprie delle cose, ci accontentiamo di passare sulle cose

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dei quadri logici, degli enti di ragione, che sono estrinseci alle cose e non esistono che nella nostra mente» (XI, p. 451). Maritain cita un testo di san Tommaso: «Il dialettico, come il metafisico, considera tutte le cose […] in quanto convengono in una certa unità […] tutte le cose non convengono che nell’essere […] è dunque chiaro che l’oggetto della dialettica è l’essere […] ma l’essere considerato dal filosofo è l’essere reale, quello considerato dal dialettico è l’essere di ragione ossia l’essere de-realizzato» (XI, p. 453) che esiste solo nel pensiero, attraverso il concetto, come segno cognitivo. Invece in Hegel, il più coerente degli idealisti, si ha un’identificazione tra essere e pensiero, tra cosa e concetto. La dialettica viene posta a fondamento di tutto il sistema filosofico. Si ha un idealismo oggettivo, perché l’oggetto coincide con il soggetto, la realtà con la razionalità. L’Idea non è l’idea in un soggetto che la pensa, nel mondo della logica, ma l’Idea è per se stessa autocosciente e ontologica, pensiero reale. L’affermazione cartesiana è portata alle estreme conseguenze, si trasferisce il cogito dal soggetto all’oggetto: l’essere è in quanto si pensa. Secondo Hegel quello di Platone non è un idealismo coerente, perché accanto alle idee ammette le cose, perché non vi è una sola idea, ma molteplici idee coordinate e finalizzate verso l’idea di Bene, perché l’idea è ontologicamente precedente e anteriore al concetto. In Hegel si ha un idealismo assoluto, perché vi è una sola Idea, e nulla esiste al di fuori di quest’unica Idea, e questa Idea è essa stessa concetto e non l’oggetto del concetto. Si ha quindi l’assoluta immanenza dell’ideale nel reale, dell’universale nel particolare, del pensiero nell’essere, dell’Uno nei molti, di Dio nel mondo. Come in Spinoza i singoli individui non sono altro che provvisorie e fenomeniche modificazioni dell’unico essere, puri modi di essere; ma con la differenza che in Spinoza l’unico essere era Dio, e qui invece è l’Idea, per cui anziché un monismo panteistico si ha un monismo idealistico. Hegel si pone quindi in quell’indirizzo monista che attraverso Spinoza si riallaccia a Bruno nel rinascimento, a Cusano nell’umanesimo, a Scoto Eriugena nel medioevo, a Plotino e agli stoici nell’ellenismo e a Parmenide nei presocratici. Per Maritain, Hegel non ha compreso l’analogicità dell’essere, non ha compreso che l’essere è un trascendentale, che si diversifica in ogni essere concreto, pur restando se stesso. Ha concepito l’essere in maniera univoca, al limite del nulla, un genere logico privo di consistenza. Maritain ne I gradi del sapere (17) rileva: «In un senso, non vi è nulla di più povero dell’essere, giacché per scorgerlo biso-

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gna lasciar cadere tutto il mantello del sensibile e del particolare. In un altro senso l’essere è la nozione più consistente e più solida giacché in tutto ciò che noi possiamo sapere non vi è nulla che non le appartenga. Questa solidità sfugge a coloro che prendono l’essere come univoco e che ne fanno un genere, il più vasto e il più nudo. In tal caso sarebbe, come l’ha visto Hegel, al limite del nulla, e mai indiscernibile dal nulla. Al contrario, per il fatto che è analogo, esso è un oggetto di pensiero consistente e differenziato, su cui una scienza può radicarsi, senza con ciò ipetrofizzarsi in un panlogismo distruttore delle essenze» (IV, p. 652)3. Maritain vede nel monismo di Hegel che risolve tutta la realtà nell’Idea una sorta di «materialismo virtuale» (VI, p. 347) che il marxismo renderà esplicito.

Lo storicismo In Per una filosofia della storia (51) Maritain dedica un intero capitolo ad Hegel (X, pp. 229-637) e riconosce al filosofo tedesco il merito di avere recuperato la filosofia della storia, che già sant’Agostino e Giambattista Vico avevano studiato, ma precisa che quella hegeliana non è un’autentica bensì una falsa filosofia della storia. Infatti risolve la realtà in divenire nel pensiero, identificando filosofia e storia in uno storicismo assoluto, per cui a livello di teoresi l’ultimo sistema filosofico, riassumendo in se stesso tutto il passato, è quello vero; a livello di prassi colui che vince ha sempre ragione, perché nessun valore trascende il divenire della storia. Vediamo in che modo Hegel struttura questo universo in divenire. L’Idea non è statica, ma dinamica; non è in atto, ma in un continuo farsi, attraverso un processo logico di contrapposizioni, perché l’Assoluto si esprime nella molteplicità degli esseri che lo vanno costituendo. All’inizio del divenire non c’è più, come in Schelling, un’unità indifferenziata, ma un’unità che va differenziandosi e costituendosi attraverso la differenziazione. Mentre l’Assoluto nella filosofia greca e cristiana è l’Atto puro, che non diviene, che trascende il divenire, nell’idealismo l’Assoluto coincide col divenire, si costituisce 3 Maritain precisa: «L’essere in quanto essere, oggetto del metafisico, che lo coglie con l’abstractio formalis, con la consistenza intelligibile essenzialmente variata dalla sua comprensione analogica, va del tutto distinto dall’essere colto con l’abstractio totalis, come il più universale dei nostri quadri logici» (IV, p. 652).

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divenendo, perché è immanente al divenire stesso. L’essere non è più in quanto è essere, ma in quanto incessantemente diviene nel suo opposto, nel non-essere. Al principio di identità, che la filosofia classica aveva ereditato da Parmenide, Hegel contrappone il principio di contraddizione, recuperato da Eraclito, tanto da proclamare: «Non c’è alcuna affermazione di Eraclito che io non abbia accolto nella mia logica». Questo divenire continuo è un passaggio dal non-essere all’essere, perché l’essere per essere deve contrapporsi al suo opposto; quindi il divenire non è più il passaggio dalla potenza all’atto, attraverso il quale l’essere muta restando se stesso, anzi divenendo sempre più se stesso, ma è il confronto con il suo opposto, il non essere. Quindi l’essere è perché si contrappone al non-essere. Maritain fa un’analisi approfondita. «Il concetto non è più un segno che fa conoscere una natura intelligibile scoperta nella cosa, ma l’autoaffermazione del pensiero avvolge e genera il diverso da ciò che pone, il no è presente nel sì e il sì è presente nel no; come voleva Böhme, ma con questa differenza che in Böhme si trattava di una esperienza mistica, in Hegel di un assioma della ragione, cioè l’identità dell’identità e della non-identità. È come se tutto Eraclito distillato in un potente alcol passasse in Parmenide e prendesse possesso di lui per ubriacarlo» (XIII, pp. 949-950). Mentre nella filosofia di Aristotele c’è un Essere che non muta, Dio, e gli esseri che mutano, gli uomini e le cose, e quindi è possibile fare distinzione tra la filosofia, che ha per oggetto la realtà che non muta, e la storia, che ha per oggetto ciò che muta, in Hegel filosofia e storia coincidono, perché l’essenza e l’esistenza, l’universale e il particolare si risolvono nel divenire. L’unica Idea è in divenire, per cui tutta la realtà coincide con la storia e nulla trascende questo divenire. Così la storia non si può giudicare, perché si giustifica da se stessa: tutto è bene, tutto è vero, nell’atto in cui si compie, diventa falso, male, dopo, quando, essendo sopraggiunto un altro momento del divenire, lo si può giudicare da quel nuovo punto di vista; ma al momento dell’azione in corso non vi è alcun criterio superiore, alcuna regola trascendente, per potere giudicare gli avvenimenti: la storia è il tribunale della storia. Si ha così lo storicismo, cioè l’identificazione della metafisica con la storia, la negazione di qualsiasi valore assoluto, trascendente la storia. Si ha una sorta di relativismo assoluto, perché «la Storia condanna in un’epoca ciò che ha benedetto in un’altra» (XI, p. 584). Se Hegel imbriglia la storia nella rigidità del suo sistema, molti suoi discepoli, meno metafisici di lui, pretendono di ricavare la filosofia

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dalla storia. Maritain precisa: il vero «storicista non è colui che raccorda la successione degli avvenimenti a qualche sistema di cause fisse e permanenti; al contrario è colui che pretende si spiegare tutto con un concatenamento di cause accidentali, di cause semplicemente storiche» (III, p. 1378). Maritain ritiene che l’idealismo di Hegel sia una sorta di gnosticismo, perché tutto il sapere umano si risolve nella storia, perché Hegel ha scambiato la filosofia della storia per una metafisica, mentre «essa appartiene alla filosofia morale in quanto considera gli atti umani visti nell’evoluzione dell’umanità» (X, p. 644) tenendo conto del libero arbitrio dell’uomo. Ma «Hegel ha misconosciuto l’incidenza della libera iniziativa umana nella storia» (X, p. 635). Infine Maritain, rileva la contraddizione fondamentale di questa filosofia della storia, perché la storia non è più un libero divenire dell’umanità, ma si fissa nel momento presente, considerato come definitivo: «La libertà del filosofo riguardo al tempo, la possibilità di dire ciò che è vero per sempre, è così essenziale alla filosofia, che i filosofi, per i quali nulla emerge al di sopra del tempo, sono costretti a porsi essi stessi alla fine del tempo, come faceva Hegel» (XI, p. 731).

La logica del concreto come dialettica degli opposti Mentre la logica classica, data la distinzione tra essere e pensiero, tra universale e particolare, porta al concetto astratto in quanto attraverso l’astrazione disindividualizzante il soggetto conoscente astrae dall’oggetto particolare conosciuto l’universale che vi e immanente, come sua forma intelligibile, la logica hegeliana, data la coincidenza tra l’essere e il pensiero, tra l’universale e il particolare, non astrae il pensiero dall’essere, l’universale dal particolare, perché universale e particolare si identificano nel concetto concreto. La conoscenza dell’universale astratto nella filosofia aristotelica avviene a posteriori dopo il processo di astrazione e si definisce secondo il principio di identità, per cui da uno o più oggetti bianchi si astrae il concetto di bianchezza, in quanto un oggetto è bianco perché ha in sé la bianchezza. Invece, non potendosi più derivare dall’essere individuale il concetto universale, con la logica di Hegel si pone il principio di contraddizione, confrontando un particolare con un altro particolare, per cui un oggetto bianco non è bianco perché è bianco, ma è bianco perché non è nero, cioè perché non è il suo opposto,

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che deve dialetticamente coesistere al bianco. Il bene non è bene perché è bene, ma è bene perché non è male. Mentre la definizione della logica classica è un’astrazione, quella hegeliana è una contrapposizione. Se ci si fermasse a questa contrapposizione si ricadrebbe nel dualismo tra essere e non essere come in Platone, Cartesio, Kant, ma in Hegel la contrapposizione è solo provvisoria, in quanto viene superata dialetticamente in una sintesi ove gli opposti si annullano nell’unità che li comprende. A questa sintesi ne succede poi un’altra, perché immediatamente essa diventa tesi di un’ulteriore antitesi, e così all’infinito, fino a trovare nell’Assoluto una unità onnicomprensiva di tutta la molteplicità, e conclusiva di tutte le contraddizioni. L’Assoluto viene così inteso, alla maniera di Cusano e di Bruno, come coincidentia oppositorum. Maritain cita questo testo di Hegel: «La ragione cerca il suo Altro, sapendo bene che lei non possiederà altro che se stessa, si riposa solamente nella sua propria infinità» (XIII, p. 949). Alla logica dicotomica per cui alla tesi si contrappone l’antitesi (ma l’antitesi non ha un valore in se stessa, perché il suo oggetto non esiste: il non-essere non è) Hegel sostituisce una logica tricotomica ove la tesi si contrappone all’antitesi, ma poiché l’antitesi è altrettanto reale che la tesi, la contrapposizione deve superarsi nella sintesi. Non vi è quindi mai verità assoluta, ma ogni verità è solo tale provvisoriamente, in quel dato momento, in attesa di un ulteriore superamento. La distinzione tra vero e falso, tra bene e male, tra bello e brutto, si smarrisce nella loro fusione nel processo storico, che anziché separare e distinguere le opposizioni, le sintetizza. «Hegel inaugura così una fase completamente nuova del razionalismo moderno […] nella quale l’irrazionale, anziché essere rifiutato e negato dalla ragione, diventa consostanziale alla ragione, come realtà da riconoscere […] che la ragione supererà riconciliandoselo» (XI, p. 477). Maritain rileva: «L’irrazionale è fin dall’inizio al centro della ragione e nella forma più flagrante: l’essere è il nulla. Il razionalismo ha recuperato tutto, il mondo e Dio, grazie ad un’accettazione trionfante dell’impurità della ragione» (XI, p. 481). In questo perenne divenire tra essere e non essere, tra il vero e il falso, tra il bene e il male, l’uomo, scrive Hegel, «non è mai quello che è ed è sempre quello che non è» (XI, p. 478).

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Il divenire dell’Idea Il divenire dell’Idea segue il processo triadico indicato dalla logica, avviene cioè per continue contrapposizioni che si risolvono nella sintesi e si ripropongono all’infinito. Tre sono le grandi fasi di questo divenire: l’Idea in sé o Logica, che consiste nell’organizzarsi dei concetti come possibilità del reale, ma che non sono separati e precedenti al reale (come le idee platoniche), dando origine all’Idea per sé o Natura, che è l’insieme della realtà vista nella sua oggettività, cioè l’estrinsecarsi delle idee nello spazio e nel tempo. Ma questa contrapposizione della Logica alla Natura è provvisoria, perché questa alienazione (come la chiama Hegel, introducendo nella storia della filosofia questo termine, poi molto usato nel marxismo e nella psicoanalisi) dello Spirito (Idea in sé) che si fa altro nella Natura (Idea per sé) si risolve nell’Assoluto (Idea in sé e per sé) cioè nell’autocoscienza terminale allo sviluppo, dove tutto il reale viene a coincidere con il pensiero, la natura con la logica, l’oggetto con il soggetto. Ciascuna tappa del divenire dell’Idea è a sua volta il risultato del divenire dialettico interno ad ogni fase, per cui la grande triade: Logica-Natura-Spirito si struttura in diverse triadi minori. a) La filosofia della logica è l’insieme del sistema delle categorie, inteso come determinazioni del puro pensiero e come essenza del reale. In Kant le categorie sono pure funzioni cognitive, qui ritornano ad avere un contenuto, anzi ad identificarsi col loro contenuto, perché sono insieme dell’essere e del pensiero. Il sistema dei concetti della logica si può considerare anteriore alla natura e allo spirito, ma ciò non significa che sia realmente, cronologicamente precedente. La triade in cui si struttura questo primo momento dell’Idea consiste nella contrapposizione tra l’essere e l’essenza che si sintetizza nel concetto. Nella dottrina dell’essere Hegel considera le categorie della quantità e della qualità, nella dottrina dell’essenza le categorie della sostanza e della causalità, nella dottrina del concetto considera anche il giudizio e il ragionamento. Poiché per Hegel la logica coincide con l’ontologia, il concetto, nella concretezza dell’esistere, si articola nella triade universalità, particolarità, singolarità. Maritain commenta: «Con Hegel abbiamo un’Idea che pone se stessa e si sviluppa dialetticamente. In questo caso non possiamo dire di essere di fronte ad un’essenza senza esistenza, né ad una libertà senza natura, ma, viceversa, troviamo un’Idea, un’essenza, che fa derivare tutto da se stessa, ma il punto di forza esistenzia-

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Lo sviluppo dell’idea in Hegel - tav. n. 7

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le viene trasportato all’interno di questa essenza, per cui questa è intrinsecamente contraddittoria, antinomica, l’essere assolutamente indeterminato essendo identico al non-essere, allora produrrà il famoso sviluppo dialettico. Così, grazie a questo sviluppo l’esistere, che è ormai un divenire, viene reintrodotto nell’essenza stessa e nella logica, spezzando l’una e l’altra» (XIII, p. 548). b) La filosofia della Natura. Quando la logica ha raggiunto la sua massima strutturazione come totalità organica dei concetti, si passa alla natura, parallelamente, nel senso che alla triade delle categorie corrisponde la triade della natura, così, all’essere corrisponde nella natura la meccanica, all’essenza la fisica, e al concetto la teleologia. Anche Hegel, seguendo in certo qual modo lo sviluppo evolutivo di Schelling, fa emergere dalla natura lo spirito, la natura produce un organismo nel quale le parti sono finalizzate al tutto. Maritain commenta: «La logica è diventata l’anima del reale. La filosofia della natura invece di essere ontologica, come dovrebbe, è ora dialettica» (XIII, p. 803). c) La filosofia dello spirito è la parte più importante della riflessione hegeliana, nella quale tutti i valori della civiltà umana vengono costretti a subordinarsi allo sviluppo triadico dell’Idea. Lo spirito dapprima si manifesta come Spirito soggettivo individuale, a cui si contrappone lo Spirito oggettivo sociale, ed entrambi si riuniscono nello Spirito assoluto divino. Ciascun momento di questa triade e il risultato di triadi interne. Lo Spirito soggettivo individuale si manifesta come coscienza delle cose (oggettività), poi come autocoscienza di se stesso (soggettività), momenti dialettici che si risolvono nella ragione. Nella ragione ogni io empirico, mentre si sente superiore agli altri esseri della natura, sente pure di essere partecipe di un’autocoscienza universale, come già aveva detto Fichte. Si passa così allo Spirito oggettivo sociale che si esprime nella triade diritto, moralità ed eticità, momenti che Maritain analizza dettagliatamente, perché gravidi di conseguenze non solo nella storia della filosofia, ma anche nella storia della politica.

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Il diritto, la morale, la politica I tre stadi dello sviluppo dello spirito oggettivo, che si attua dapprima esternamente, poi internamente e infine completamente (esternamente e internamente ad un tempo) sono quelli del Diritto astratto, della Moralità della coscienza e dell’Eticità connessa al gruppo sociale e soprattutto allo Stato (XI, p. 510). a) Il diritto, che «è il mondo delle relazioni tra persone proprietarie di cose» (XI, p. 510) consiste nella legalità, ossia nell’aspetto esteriore dei rapporti umani e riguarda l’adesione passiva dell’individuo alla legge sociale e non riguarda l’intenzione del soggetto, perché secondo Hegel «il diritto si costituisce prima dello stadio della morale» (XI, p. 510) e non esiste legge naturale che vincoli la coscienza. Il diritto «riguarda i bisogni privati e trova la sua realizzazione nella società civile, che Hegel distingue dallo Stato, guastando questa distinzione nei peggiori dei modi», perché per lui «la società civile è una collezione atomistica di individui, che ha a che vedere solo con un ordine economico» (XI, pp. 510-511). La libertà a questo livello giuridico è soltanto negativa, cioè consiste nel non impedire gli altri nelle proprie azioni e di non essere impediti dagli altri nelle proprie. b) La moralità, invece, esige la convinzione, l’adesione interiore della coscienza alla legge del dovere, richiede una partecipazione attiva all’ordine sociale, e a questo livello noi troviamo la vera libertà, la libertà di autonomia, la libertà di essere se stessi rispettando la legge morale. «Per Hegel la moralità del bene e della coscienza non è che la morale dell’ispirazione privata delle buone intenzioni e dei buoni propositi» (XI, p. 515). Kant si ferma a questa distinzione tra la legalità come comportamento esteriore e la moralità come coerenza interiore, e conclude in una morale puramente formale del dovere per il dovere, non potendo ancorare la morale alla metafisica. Hegel, invece, vuole trovare un contenuto al dovere, per lui non basta proclamare che bisogna fare il dovere, ma bisogna anche indicare in che cosa consista il dovere. Il contenuto della legge morale deve essere indicato dal gruppo sociale, dove il comportamento individuale si apre alla morale sociale, nella subordinazione del singolo all’ordine oggettivo superindividuale, che viene espresso dalle diverse comunità che sorgono via via nella storia a costituire i costumi. c) L’eticità. Il diritto e la moralità confluiscono nell’eticità, e l’etica hegeliana finisce per essere «altrettanto normativa e imperio-

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

samente normativa quanto quella di Kant» (XI, p. 286), in quanto un’azione non è comandata perché è giusta, ma è giusta perché è comandata. In questa filosofia morale, osserva Maritain, «il fine non soltanto viene integrato, ma ha il primato sul valore», quella di Hegel «è talmente un’etica della finalità, che in essa tutto viene giustificato, in ultima analisi, con i fini della storia» (XI, p. 588), si tratta di un’etica metafisica che non lascia spazio all’iniziativa e alla responsabilità del singolo soggetto, per cui «la nozione di fine ha perduto in questo sistema la sua autenticità razionale e la sua intelligibilità» (XI, p. 589). Questa eticità si struttura nella triade famiglia, società, Stato. Già nella famiglia l’uomo esce dalla sua soggettività empirica per svolgere la sua attività a favore dei membri della comunità familiare, ma questa prima comunità è ancora legata al fatto istintivo, né tantomeno è autosufficiente. Così si passa alla società, con l’intrecciarsi delle varie classi sociali, e questo complesso gioco di doveri e di diritti per evitare l’anarchia va subordinato allo Stato, massima espressione dell’eticità. Per Hegel la società non nasce per un patto concordato tra gli uomini (Locke, Rousseau), né deriva dalla natura umana (Aristotele, san Tommaso), ma si autopone, si autogiustifica, è il risultato del divenire storico dei popoli e nulla gli è superiore in Autorità. Lo Stato è uno Stato etico, lo Stato è la radice della legge morale, non è subordinato ad un diritto naturale a lui precedente, ma è lui stesso creatore del diritto, della legge, della moralità. Nel dualismo tra ideale e reale, tra Dio e il mondo, è possibile distinguere tra il diritto naturale proprio dell’uomo in quanto tale, e il diritto positivo proprio dello Stato e dell’uomo in quanto cittadino, per cui le leggi civili sono ingiuste se vanno contro il diritto naturale ed è garantita al cittadino l’obiezione di coscienza. In Hegel, invece, data l’identificazione dell’ideale con il reale, dell’essere con il divenire, dell’Assoluto con la storia, questa distinzione non è più possibile; non vi sono più leggi civili ingiuste, ma tutto quanto comanda lo Stato è bene, e quanto vieta è male. Lo Stato, come spirito del popolo, diventa, così, la ragione immanente nella storia, a cui il singolo deve subordinarsi, a cui deve ubbidire in coscienza. Lo Stato è l’Assoluto, nell’eticità confluiscono legalità e moralità. A questo proposito Maritain riporta alcune affermazioni di Hegel: «Dio deve essere concepito come spirito nella comunità»; «il mondo temporale è l’impero spirituale reale» (XIII, p. 951), fino a questo testo paradossale per un tedesco, ma coerente nel sistema idealistico: «Napoleone è Dio che si mani-

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II. L’età delle ideologie

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festa» (XIII, p. 953). Maritain aggiunge questa osservazione: «L’operazione mistica con la quale, per Rousseau, le volontà individuali muoiono nella volontà generale, passa in Hegel dal piano sociale al piano metafisico» (XI, p. 521)4. La storia vede la lotta tra i diversi Stati, la guerra è l’anima della storia perché nella contrapposizione tra i popoli la Ragione sceglie lo Stato più forte, quello a cui affidare la missione di guidare l’umanità intera. Una volta questa missione era affidata all’Oriente, poi questo decadde e la guida passò prima alla Grecia e poi a Roma, ora spetta al popolo germanico guidare il mondo. Hegel parla di un’astuzia della ragione, una sorta di provvidenza, laica e immanente, che regola i processi della storia nel senso che in essa opera l’Assoluto, che legittima il vincitore, il cui diritto di governare il mondo è giusto, perché nulla trascende la storia. Maritain ritiene che con Hegel non solo si passi da un machiavellismo moderato, che separa la politica dalla morale, ad un machiavellismo assoluto, che identifica la morale con la politica, ma si giunga ad una sorta di machiavellismo metafisico. In Principi di una politica umanista (38) scrive: «La stessa etica è inghiottita nella negazione politica dell’etica, il potere e il successo diventano i supremi criteri morali» e cita questi testi di Hegel: «Il corso della storia del mondo si tiene in disparte dalla virtù, dall’errore e dalla giustizia», «la storia è il giudizio di Dio», e commenta: «Oramai il machiavellismo non è più una politica, è una metafisica, una religione, un entusiasmo profetico e mitico» (VIII, pp. 322-323). Per Hegel lo Stato è «la suprema incarnazione dell’Idea, una specie di superuomo collettivo» (IX, p. 495) che non è soggetto al diritto e alla morale, ma è lui stesso la fonte del diritto e della morale. «L’uomo non è libero che quando compie, e come in virtù di una seconda natura, la legge dello Stato, oggettivizzazione nello Spirito; e in definitiva agli occhi di Hegel la suprema coscienza della libertà risiede nell’amor fati, nella riconciliazione con il destino, con la storia del mondo» (XI, p. 535).

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Maritain osserva che i tre stadi della filosofia dello spirito di Hegel sono più di ordine metafisico che di ordine storico, ma facendo un’analisi storica constata che «il diritto astratto ha avuto la sua tipica manifestazione ai tempi dell’Impero romano, la morale nei secoli del cattolicesimo e nel secolo dell’illuminismo, l’eticità quando la comunità tedesca protestante prende forma politica» (X, p. 691).

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

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L’arte, la religione, la filosofia Lo Stato è una concretizzazione dell’Assoluto nello spazio e nel tempo, ma il divenire dell’Idea non si arresta allo Spirito oggettivo sociale e passa allo Spirito assoluto divino, che si struttura in tre momenti dialettici: l’arte, la religione, la filosofia. L’arte consiste nel cogliere l’Assoluto in un’intuizione soggettiva, l’infinito nel finito, l’intelligibile nel sensibile. L’arte è la manifestazione sensibile dell’idea nella sua piena autonomia, libera da intenzioni didattiche o moralizzatrici, ma nella creazione artistica e nella fruizione estetica lo spirito è ancora legato alla sensibilità, per cui nello sviluppo triadico si passa alla religione, dove l’Assoluto viene raggiunto mediante una rappresentazione oggettiva. Si trascende così il mondo sensibile e si pone Dio come trascendente, come un oggetto esterno, con cui il soggetto comunica mediante simboli. Ma l’Assoluto che in se stesso è razionalità, può essere raggiunto solo mediante la filosofia, con il concetto, dove il soggetto e l’oggetto si identificano nell’autocoscienza, nella consapevolezza del soggetto di porsi come oggetto. In questo divenire dell’Idea, la religione è inferiore alla filosofia, perché il Dio di Hegel non è trascendente e sovraintelligibile, per cui l’uomo ha bisogno di una rivelazione per raggiungerlo, ma è un Dio al livello della razionalità umana, che l’uomo può concepire in se stesso, come concetto. Maritain commenta: «Dio, dopo essersi alienato da sé nel mondo, vi si reintegra in sé stesso e riconduce tutte le cose a sé attraverso l’uomo e il pensiero dell’uomo» (XIII, p. 951). «Il Pensiero hegeliano non è che la Ragione kantiana definitivamente deificata» (XI, p. 449). La filosofia rappresenta, così, il sapere assoluto, e la religione si risolve nella filosofia, Maritain cita questo testo di Hegel: «Il contenuto della filosofia, i suoi bisogni e i suoi interessi, le sono comuni con la religione, il suo oggetto è la vita eterna, e spiegando se stessa, spiega la religione […] così la religione e la filosofia coincidono» (XI, p. 547) e commenta: «L’Incarnazione del Verbo diventa, così, la legge fondamentale della dialettica!!!» (XI, p. 550), e con ironia aggiunge: «Tutte le verità della fede vengono appese al mattatoio della ragion pura» (XI, p. 547). Hegel traccia anche una storia delle religioni secondo la quale si è passati dal naturalismo primitivo delle religioni orientali al politeismo greco e romano, sostanzialmente antropomorfico, per giungere al cristianesimo, che è la forma assoluta della religione con l’Incarnazione del Verbo, che è un’anticipazione simbolica dell’unità del divino e dell’umano, che

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II. L’età delle ideologie

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si realizza con la filosofia. L’Idea ha raggiunto nella filosofia la sua autoliberazione, attraverso il divenire ha superato tutte le contraddizioni che la limitavano, e nell’autocoscienza si è posta come assoluta totalità, come coincidenza di essere e di pensiero. Ora lo Spirito può ripercorrere in sé le tappe del suo divenire, prendendo sempre più coscienza di essere tutta la realtà. Per Maritain si ha una contraffazione del cristianesimo perché «Hegel mentre domanda alla filosofia di salvare la religione e risolve tutto il contenuto della religione nei supremi enunciati metafisici della pura ragione, introduce in realtà il movimento stesso della Redenzione nella dialettica della storia e in realtà fa dello Stato il corpo mistico attraverso il quale l’uomo acquisirebbe la libertà di figlio di Dio» (VI, p. 321). Maritain osserva, inoltre, che il Dio hegeliano «è un Dio immanente, che si va facendo da sé, attraverso la storia umana, prima causa del male, interamente immerso nel fango e nel sangue dell’automovimento dell’umanità» (X, p. 687). Hegel ha avuto il coraggio di affrontare il problema del male, cioè del non-essere, del nulla, ma non ha saputo risolverlo, perché l’ha considerato un momento della dialettica, lo ha calato nel divenire necessario, discorrendo «sul potere e sulla fecondità del polo negativo della storia» (XI, p. 891) non lo ha visto nella sua realtà di nientificazione dell’essere, nella tragicità dell’offesa che l’uomo fa all’innocenza di Dio, che esige una riparazione che l’uomo non può soddisfare, che solo la redenzione di Cristo compensa (cf. Dio e la permissione del male [58]). Invece Hegel vuole che l’uomo si immoli per lo Stato, perché in questa subordinazione trova la sua salvezza; Maritain commenta: «Hegel ha tentato di portare dal piano religioso dell’obbedienza alla legge di Dio al piano politico dell’obbedienza alla legge dello Stato la nozione di libertas christana, così come il pensiero protestante l’aveva elaborata interpretando nella propria prospettiva i testi di san Paolo» (XI, p. 534). Conclude: «Nietzsche, proclamando la morte di Dio, non farà che svelare ciò che il mantello dell’idealismo dialettico copriva. La fede di Kierkegaard griderà vendetta su di essa, erigendosi contro la ragione» (XI, p. 553).

L’immolazione dialettica della persona Maritain dedica un capitolo intero all’analisi del posto dell’uomo nel sistema hegeliano partendo da questa premessa: «Per il realismo cristiano la persona, in quanto sostanza individuale, era un tutto e

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

si definiva per la sua indipendenza […] ma era nello stesso tempo parte dell’universo materiale e parte del gruppo sociale, possedeva sì l’indipendenza, ma solo nella sua radice in mezzo a tutte le servitù che la materia e il mondo facevano pesare su di lei. Indipendenza limitata, fragile e minacciata […], il dramma della vita consisteva nel renderla sempre più effettiva e vigorosa […] per conquistare la propria libertà di autonomia nella misura possibile della creatura» (XI, pp. 495-496). Per Hegel, che assorbe tutto l’irrazionale nella ragione, l’uomo non ha da accettare e convivere con il suo limite di creatura, perché deve superarlo: «L’hegelismo è la rivendicazione del superamento di ogni limitazione» (XI, p. 496); l’individualità della persona, con tutto il mistero della sua soggettività carnale nella sua irrazionalità, non è che un momento transeunte del divenire dell’Idea. «La notte della soggettività individuale è per Hegel solo una tenebra vuota dalla quale sorgono i fantasmi del sogno e dove sonnecchiano il molteplice e l’apparente» (XI, p. 499). Al processo morale della conquista dell’autonomia da parte dell’uomo concreto, pur «nelle angosce del libero arbitrio di ciascuno […] Hegel sostituisce uno sviluppo ontologico prodotto dalla dialettica dello spirito» (XI, p. 501) nel quale il singolo trova la sua libertà «annientandosi come tutto individuale nella comunità» (XI, p. 505), per lasciarsi assorbire nello Spirito Assoluto. «Kant aveva affermato la dignità assoluta della persona umana come fine […] Hegel procede all’operazione inversa, la persona umana non è che un flutto che passa nell’oceano della storia e che crede di spingere le onde quando, invece, ne è sopraffatta» (XI, pp. 501-502). La persona crede di essere libera, ma non lo è, «ciò che le appare come scelta tra diverse pressioni non è che un evento» (XI, p. 506) nel divenire della Storia; «il libero arbitrio non è che un momento illusorio» (XI, p. 507). L’hegelismo è una filosofia complessa e organica che si presenta in un blocco compatto e coerente, dove tutti i problemi sono risolti alla luce del medesimo principio, il divenire dialettico dell’Idea. Tutto viene sintetizzato, tutte le contraddizioni vengono risolte in un razionalismo allo stato puro, ove l’Assoluto finisce per coincidere con la razionalità umana, non certo presa nel senso empiricoindividuale di ogni uomo, ma nel suo insieme superindividuale. In un certo qual senso Sigieri di Brabante potrebbe essere il precursore di Hegel, con la sua concezione di un’anima comune in cui tutti gli individui comunicano e da cui ricevono valore, verità e moralità. Da

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II. L’età delle ideologie

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Hegel prenderà le mosse il marxismo con la subordinazione dell’individuo alla comunità. Lo Stato, come razionalità immanente alla storia, viene ad essere la divinità in terra, e l’uomo vi viene violentemente subordinato. Lo storicismo hegeliano elimina ogni valore assoluto, trascendente la storia, risolvendo tutti i valori morali, religiosi, estetici, politici, filosofici nel divenire; nulla vi è di sicuro e di definitivo, tutto diviene e muta attraverso la contraddizione nella dialettica degli opposti. Maritain rileva che la filosofia di Hegel è un sistema chiuso, contraddice se stessa, perché dopo avere affermato che l’essere è il divenire, lo risolve, staticamente, senza vie di uscita nel sapere filosofico. «Hegel ha riconosciuto nella sua filosofia la sommità suprema di tutto lo sforzo umano (in realtà era solo la sommità del pensiero di un’epoca). Per il fatto stesso che essa era ai suoi occhi la suprema rivelazione non poteva più considerarla come uno strumento per future scoperte senza termine» (XIII, p. 527). Maritain, considerando la portata storica della filosofia hegeliana, in una nota osserva: «È curioso constatare che Marx, come teologo pratico della rivoluzione che deve liberare l’umanità, ha giocato a riguardo di Hegel un ruolo trasfiguratore analogo a quello che san Tommaso ha giocato come teologo speculativo dell’Incarnazione redentrice» (XIII, p. 786). Ma Hegel, liberato dallo schematismo scolastico della sua logica e dalla prospettiva immanentistica, ha saputo vedere, come lui stesso la definisce, quella «elasticità infinita dello spirito» che permette «allo spirito di agire come fermento nella massa» (ma purtroppo «Hegel, rifiutando di ammettere la differenza tra dover essere e essere, ratificava così tutti i crimini della storia» [X, p. 789]). Nell’idealismo «il pensiero è stato eretto ad assoluto, non come atto puro di intellezione, ma come ragione discorsiva, processo di un Tutto infinito che non è trascendente alle cose e al divenire […] un tale immanentismo assoluto è più panteista del panteismo volgare» (XI, p. 558).

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4. L’irrazionalismo

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L’ondata irrazionalistica è la tragica peripezia dell’umanesimo razionalistico. Essa reagisce contro l’umanesimo della ragione chiusa in se stessa, ma aprendo l’uomo alle potenze inferiori, imprigionando la creatura nell’abisso della vitalità animale (VII, p. 17).

Il sistema hegeliano con l’identificazione dell’essere con il pensiero, della logica con la metafisica e la risoluzione dell’individualità nello Spirito assoluto, fino a comprendere l’irrazionalità e il male, provoca una reazione nella stessa cultura tedesca, reazione che Maritain analizza seguendo alcuni dei protagonisti principali. Nelle Sette lezioni sull’essere (21) troviamo un confronto preliminare: «Abbiamo da una parte i sistemi d’intellettualismo assoluto, lo spinozismo per esempio, e, all’estremo opposto, filosofie dell’irrazionalismo assoluto, come quella di Schopenhauer; e abbiamo un vertice tra questi due errori, un sistema come quello di Aristotele che riconosce che l’essere si accompagna all’intelligibilità e che per conseguenza tutti gli esseri diversi da Dio implicheranno, insieme a un elemento di non-essere relativo, anche un elemento di inintelligibilità relativa nella loro struttura metafisica» (V, p. 633). Contro il razionalismo dell’idealismo Schopenhauer ritorna alla distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno e approda ad un volontarismo pessimistico che Maritain presenta così: «L’essere come tale è inintelligibile, il fondo dell’essere è irrazionalità pura, discordia, tenebra, male assoluto. Ecco il vecchio Mefistofele tedesco, il male positivo e radicale che riappare, divenuto questa volta la sostanza stessa comune a tutte le cose, il miserabile dio del panteismo pessimistico» (I, p. 1013). Anche Johann Herbart, già discepolo di Fichte, ritorna al fenomenismo kantiano in una prospettiva di pluralismo, ma a questo filosofo Maritain dedica poca attenzione. Con più violenza Friedrich Nietzsche si oppone all’idealismo, secondo cui tutto ciò che è razionale è reale, «perché credere alla verità è una servitù, la servitù per eccellenza, in quanto significa affermare un altro mondo che il nostro, che il mondo della vita, della natura, della storia, della immediata esperienza in cui noi siamo immersi con tutti i nostri sensi» (I, p. 1015). A queste forme di irrazionalismo si affianca il fondatore dell’esistenzialismo, Søren Kierkegaard, che supera il pessimismo dei due precedenti filosofi in un’autentica fede cristiana, apportatrice di

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II. L’età delle ideologie

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verità, ma vissuta nella tragicità dell’angoscia, elevata da uno stato psicologico soggettivo ad una categoria filosofica. A proposito della riduzione della verità alla soggettività individuale di ogni uomo Maritain cita questa riflessione di Erik Peterson5, ordinario di Storia della Chiesa nella Facoltà evangelica di Bonn: «La soggettività è la verità, questa frase, che non si può applicare che a Cristo, è da Kierkegaard applicata ad ogni uomo, continua la divinizzazione dell’io e dell’immanenza!» (XI, p. 858). C’è in tutte queste forme di irrazionalismo un difetto di concettualizzazione e la filosofia diventa letteratura, attraverso l’analisi dei sentimenti in tutte le loro variazioni da quelle più istintuali e carnali a quelle sublimate nell’ascesi morale e nella fede religiosa. Nell’età moderna Cartesio ed Hegel hanno sottratto la ragione alle influenze superiori della religione, Schopenhauer, Nietzsche e Marx, e poco dopo Freud, l’hanno precipitata nell’abisso delle influenze inferiori dell’istintualità carnale, dalla quale non sarà l’esistenzialismo di Kierkegaard a salvarla, perché bisognerà recuperare l’oggettività razionale della verità in dialogo con la soggettività della coscienza, nell’integralità della persona umana.

Arthur Schopenhauer Nato a Danzica da una famiglia di commercianti, Arthur Schopenhauer (1788-1860), discepolo di Fichte, studioso di Platone e di Kant, fu tra i primi in Occidente a studiare la filosofia indiana. Fece molti viaggi in Europa con lunghi soggiorni in Francia, in Inghilterra, in Italia. Dopo la morte del padre si stabilì a Weimar con la madre, scrittrice, che lo introdusse nei circoli letterari, dominati allora da Goethe. Indifferente alla vita mondana, studia filosofia e nel 1813 si laurea a Jena con una tesi Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente analizzando la filosofia di Leibniz e di Wolff, subito pubblicata. Il capolavoro, che segna un ritorno a Kant con la netta distinzione tra fenomeno e noumeno e che ebbe numerose edizioni, è Il mondo come volontà e rappresentazione (1818). Libero docente nel 1820, al tempo di Hegel, all’Università di Berlino, si oppose con accanimento all’idealismo, ma senza successo. Abbandonato l’insegna5 Cf. P. Viotto, Erik Peterson, in Id., Grandi amicizie. I Maritain e i loro contemporanei, Città Nuova, Roma 2008, p. 15.

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

mento si stabilisce a Francoforte nel 1833, dedicandosi alla ricerca nel campo della filosofia morale, nel 1839 pubblica Sulla libertà del volere umano e nel 1840 Sul fondamento della morale. Ma il successo arriva con Parerga e paralipomena (1851), scritti di varia filosofia e letteratura, composto in uno stile facile e brillante. Il suo pensiero demolitore dell’illuminismo si diffonde in Europa interessando un vasto pubblico, raggiungendo attraverso Tolstoj anche la Russia. Maritain dedica a Schopenhauer una delle lezioni tenute all’Institut Catholique di Parigi il 19 maggio 1915 nella quale afferma: «Schopenhauer chiamava Fichte, Schelling, Hegel i tre giocolieri e non è solamente per gelosia che egli li detestava. Tuttavia gli assomiglia, come loro trae una metafisica dalla sua immaginazione, ma la sua è irrazionalista e il suo panteismo è pessimistico» (I, pp. 1012-1013).

Il mondo come rappresentazione e come volontà La filosofia di Schopenhauer è molto eterogenea, vi confluiscono apporti dell’illuminismo razionalistico, di cui rifiuta l’ottimismo, del romanticismo, di cui accoglie l’istanza sentimentale, e in particolare della mistica orientale, al punto che non può essere adeguatamente compresa senza una conoscenza delle Upanisad indiane. Ma l’approccio iniziale è un ritorno alla distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno, perché la cosa in sé non è intelligibile come pretende l’idealismo. La conoscenza del mondo fenomenico è data da una sintesi a priori tra l’esperienza e le forme dell’intelletto, ridotte a tre: causa, spazio e tempo. Schopenhauer non articola in due tempi la conoscenza, perché la conoscenza dell’intelletto assorbe immediatamente i dati sensoriali nella relazione di causa ed effetto, l’unica categoria kantiana conservata, che costituisce la ragion sufficiente per comprendere il mondo dei fenomeni. La conoscenza è quindi una rappresentazione attraverso la categoria di causa come relazione tra soggetto e oggetto, che non riguarda l’oggetto come per il materialismo, o solo il soggetto come per l’idealismo, ma si risolve nella loro relazione fenomenologica. «Schopenhauer pretende di essere il solo discepolo autentico di Kant, per lui il mondo che la conoscenza ci presenta non è che un mondo fenomenico» (I, p. 1013). L’uomo può scavalcare questa rappresentazione se si ripiega su se stesso, cogliendo la natura profonda del suo esistere, che è fatto di impulsi riconducibili alla volontà. La cosa in sé, il noumeno, l’essenza del mondo, è una cieca e irrazionale volontà, che nel suo divenire

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II. L’età delle ideologie

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si esprime negli esseri individuali, che sono dei modi di essere provvisori di un’unica volontà. Dalla gravitazione universale ai processi molecolari, dalla cristallizzazione dei minerali alla vita vegetativa, dall’istinto animale alla volontà umana, è sempre la stessa e unica Volontà irrazionale che si manifesta. Schopenhauer sostituisce al monismo razionalistico di Hegel, che si esprime nel divenire di un’unica Idea, il monismo irrazionalistico, che si esprime nel divenire di un’unica Volontà. Questa volontà in un primo tempo si particolarizza nelle grandi specie, eterne come le idee platoniche, poi nei singoli individui, provvisori e transeunti, come le onde di un oceano. La specie umana è eterna, mentre i singoli uomini nascono e muoiono senza avere alcuna sussistenza personale. L’amore umano, l’amore di coppia, secondo Schopenhauer, è una trappola della specie umana per mantenere la sua sopravvivenza. Il noumeno, l’essere, è dunque volontà, se cessasse di volere non sarebbe più, cesserebbe di essere; ma volere significa desiderare qualcosa, avere bisogno di qualcosa, mancare di ciò che si vuole, perciò volere significa soffrire. La volontà è quindi dolore. Se un desiderio viene soddisfatto sopraggiunge la noia, ma dura poco. Il piacere è solo una cessazione momentanea del dolore, perché subito insorge un nuovo dolore. L’uomo è prigioniero, non può evadere dalla sua condizione, anche il suicidio sarebbe inutile, perché l’uomo potrebbe solo liberarsi del suo corpo, ma non della sua anima che appartiene alla specie umana e all’eterna volontà. Ma l’uomo può progressivamente sedare la sua volontà, sostituendo ai motivi per vivere dei quietivi, fino a raggiungere uno stato di non-volontà. Schopenhauer descrive i tre momenti di questo percorso di liberazione: l’arte, la morale, l’ascesi. Nella fruizione estetica l’uomo sospende la sua volontà di vivere nella contemplazione della bellezza, che lo allontana dall’oggettualità del mondo fenomenico, dal mondo della rappresentazione intellettuale. A questo riguardo Schopenhauer fa una gerarchia tra le arti, elencandole secondo il maggiore o il minor grado di oggettualità di ciascuna: l’architettura, la scultura, la pittura, la poesia, la musica. Maritain in Arte e scolastica (2) osserva che, come in Kant, anche qui si sgancia completamente la percezione del bello dall’intelligenza: «Così è sbocciata in Schopenhauer, e nei suoi discepoli, una divinizzazione anti-intellettualistica della musica» mentre san Tommaso afferma che il bello «è ciò che piace, essendo visto, essendo cioè l’oggetto di una intuizione» (I, p. 738). L’arte è solo un primo momento di questo processo di liberazione e bisogna passare al mo-

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

mento successivo della compassione, che è un sentimento universale che spinge gli uomini a condividere il dolore altrui dimenticando il proprio. Schopenhauer recupera le posizioni degli illuministi inglesi e critica il formalismo della morale kantiana, dando un contenuto e un fine all’agire morale. Ma anche questo secondo momento non basta per una liberazione completa dal desiderio di vivere, ed è solo nell’ascesi, attraverso la castità, la povertà, la santità, rinunciando alla sessualità, alla ricchezza e allo spirito mondano, che l’uomo può raggiungere lo stato di non-volontà, che è nulla di ciò che noi conosciamo, ma qualcosa di ciò che noi ignoriamo, il nirvana, di cui parlano i buddisti, come assenza di ogni desiderio, come assoluta indifferenza, come un venir meno a se stessi. L’influenza di Schopenhauer sulla cultura è stata più letteraria che filosofica, si riscontrano tracce del suo pessimismo romantico in Tolstoj, Kafka, Thomas Mann. «È la filosofia della disperazione, contropartita della divinizzazione hegeliana dell’uomo» (I, p. 1013).

Friedrich Wilhelm Nietzsche Il pensatore tedesco Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900) non appartiene alla storia della filosofia in senso stretto, non ha una metafisica né una gnoseologia, ma i suoi scritti ne hanno fatto un’icona della cultura contemporanea per il radicalismo delle sue posizioni. «Nietzsche non è un filosofo, ma un poeta, il più grande poeta lirico della Germania dell’Ottocento» (I, p. 1014). Figlio di un pastore protestante, studia filologia classica nelle Università di Bonn e di Lipsia, e giovanissimo ottiene la cattedra nell’Università di Basilea. L’incontro con il pensiero di Schopenhauer e l’amicizia con Wagner sono all’origine delle sue riflessioni. Nel 1872 pubblica La nascita della tragedia dallo spirito della musica, in cui elabora una nuova visione della classicità, sostenendo che la tragedia greca nasce dall’impulso di uno spirito dionisiaco e da un impulso apollineo, la musica rappresenta l’elemento dionisiaco, mentre lo svilupparsi della trama l’elemento apollineo. Ma questa sintesi vitale, che si trova nelle opere di Eschilo e di Sofocle, si perde con Euripide, a causa dell’influenza del razionalismo socratico. Nietzsche, per gravi motivi di salute, deve abbandonare la cattedra e vive con una modesta pensione soggiornando al mare sulla riviera francese e italiana. Nascono in questo periodo le opere della maturità: La gaia scienza (1882), Così parlò Zarathustra (1883),

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II. L’età delle ideologie

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Al di là del bene e del male (1886), Genealogia della morale (1887). La malattia si aggrava, a Torino nel 1888 il filosofo è colpito da una grave crisi di pazzia, dalla quale non riesce più a sollevarsi. Trascorre in una blanda follia gli ultimi undici anni, assistito dalla sorella Elisabeth, che dopo la morte riordina i manoscritti inediti nel volume La volontà di potenza. Tra gli scritti postumi occorre ancora segnalare Sulla verità e sulla menzogna in senso extramorale nel quale si sviluppa una critica allo scientismo positivistico.

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L’antropologia del superuomo Secondo Nietzsche non c’è alcuna verità, perché la credenza nel valore della verità non è che il risultato dei condizionamenti psicologici e sociali che l’uomo subisce nella sua vita. Tutto ciò che di volta in volta si impone come verità non è che un impulso prevalente subito da un dato individuo o da un dato gruppo sociale. Per Nietzsche, rileva Maritain, «credere nella verità è in effetti avere fede in qualche cosa (Dio, la cosa in sé, la scienza moderna […]) di diverso dal nostro mondo, dalla vita, dalla natura, dalla storia, dall’immediata esperienza nella quale siamo immersi in tutti in sensi» (I, p. 1014). Poi cita questo testo di Nietzsche: «L’errore della filosofia consiste nel fatto che in luogo di vedere nella logica e nelle categorie della ragione un mezzo per dominare il mondo secondo la propria utilità (per conseguenza in vista di una falsificazione utile), ha creduto di trovare dei criteri di verità o di realtà. Il criterio di verità in fondo non è che l’utilità biologica» (II, p. 1146). L’uomo è un punto determinato dell’universo, animato da un movimento ciclico che si ripete attraverso un eterno ritorno, come avevano visto i filosofi presocratici. L’uomo che comprende questa realtà ha risolto l’enigma di Dioniso, votandosi, con l’amor fati, alla necessità del divenire cosmico, a cui non può sfuggire. Ma questa accettazione non significa rassegnazione, perché l’uomo può con la volontà di potenza, con un’autoaffermazione, partecipare attivamente a questo divenire e diventare un superuomo al di là di ogni regola morale, perché lui stesso è regola delle sue azioni. L’uomo comune, che non lotta per la vita, è un fallito nella scala dell’evoluzione; mentre il superuomo, con la volontà di potenza, può trasmutare tutti i valori conosciuti, assumendo nuovi criteri come punti di rottura delle convenzioni fino ad ora stabilite, opponendosi ad ogni forma di monismo in cui tutti dovrebbero confluire, come nel sistema hegeliano. Nietzsche, osserva Maritain, mette a confronto due grandi

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

categorie di uomini: «quella degli uomini superiori, uomini da preda, per i quali il bene è la forza, l’orgoglio, la crudeltà, l’astuzia e tutto ciò che può assicurare loro il successo; e quella degli uomini-schiavi, dei vinti, della massa, per i quali il bene è la pietà, la dolcezza, l’umiltà, la compassione, la pazienza. Il cristianesimo è la negazione della volontà di potenza, il trionfo della rivolta degli schiavi» (I, p. 1015). Conviene scegliere la morale del superuomo, perché non essendoci alcuna verità assoluta si può andare al di là del bene e del male per affermare la propria originale individualità. Maritain commenta: «Nietzsche non fa che svelare ciò che il mantello dell’idealismo dialettico copriva» (XI, p. 553). Nietzsche annuncia che Dio è morto: e Dioniso, che Cristo ha umiliato, tornerà di nuovo a regnare sulla terra. Il superuomo è libero da ogni convinzione dogmatica, da ogni tradizione sociale, per esercitare il raffinato eroismo della solitudine, accettando il dolore e disprezzando il benessere, in un processo incessante di metamorfosi. Il filosofare di Nietzsche è più letteratura che filosofia, non procede in modo sistematico, con coerenza logica, ma in maniera frammentaria, per aforismi. Lui stesso afferma di scrivere «non con parole, ma con illuminazioni». Qualcuno ha detto che si può citare Nietzsche contro Nietzsche, ma il filosofo precisa che il suo pensiero è celato dietro una maschera che ciascuno deve scoprire e svelare. Proprio per questa frammentarietà la filosofia di Nietzsche ha dato luogo a molteplici interpretazioni, viene accolta con entusiasmo dalle ideologie della violenza, come il nazismo e il fascismo, alimenta col suo nichilismo il pensiero debole e il suo estetismo ha influenzato la letteratura da Gide a D’Annunzio. L’etica del superuomo porta alle estreme conseguenze la morale kantiana, sganciandola da quei formalismi di universalità che la sostenevano. «Una volta che l’egocentrismo della morale kantiana viene liberato dai suoi elementi estranei che lo mascherano, la moralità consisterà per l’uomo nell’affermare se stesso, nel realizzare a tutti i costi la propria volontà, disprezzando i doveri formali della legalità. Da questo punto di vista, Stirner e Nietzsche sono i veri continuatori di Kant» (I, p. 979).

L’estetica Maritain nelle sue opere di estetica cita più volte Nietzsche, utilizza anche il suo linguaggio, oramai acquisito dalla cultura contemporanea, ma non condivide la contrapposizione tra l’apollineo e il dionisiaco, perché l’apollineo non rivela solo gli elementi di intelligi-

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bilità dell’arte e il dionisiaco non si riduce all’istintualità. Per Maritain nella creazione artistica entra in gioco anche un inconscio sovraconscio: «L’opera d’arte porta il marchio dell’artista, è figlia della sua anima e del suo spirito» (I, p. 704). L’arte non deve essere cerebrale, tutti gli accademismi la feriscono, perché l’emozione non è un fatto intellettuale, ma raggiunge l’essere ontologico nella sua intimità profonda, e in modo particolare attraverso la musica. Ne La chiave dei canti6 scrive: «Meno legato all’universo delle idee umane e dei valori umani di colui il quale crea con i vocaboli del linguaggio degli uomini; meno legato del pittore e dello scultore alle forme e alle immagini delle cose; meno legato dell’architetto alle condizioni di uso della cosa da creare, nel musicista si verificano nella maniera più limpida le esigenze metafisiche della poesia. Quando l’arte non le soddisfa, nel musicista si nota più che in ogni altro la carenza» (V, p. 797). Maritain sottolinea l’influenza di Wagner, ricordando prima l’ammirazione entusiasta, poi la delusione subita: «Nessun altro all’infuori di un elaboratore di opere come Wagner, poteva istruire un Nietzsche con una delusione così perfettamente decisiva» (ibid.). L’artista e il poeta nella loro ricerca dell’assoluto impegnano tutta l’anima; se questa ricerca è fatta contro la natura dello spirito, con un’ostinazione che non vuole accettare i limiti umani, può portare alla pazzia. Maritain si domanda: «Continuare ad ogni costo, rifiutare eroicamente di rinunciare alla crescita dello spirito creatore, quando una simile esperienza, postulata da tutto l’essere, è resa, tuttavia, impossibile, è questo forse il segreto del crollo di Nietzsche?» (V, p. 796). Nella lettura di Nietzsche, è proprio questo elemento ontologico che nell’emozione poetica raggiunge, in un modo misterioso, l’essere, che colpisce Maritain, tanto che ama definire musica ontologica le composizioni del suo amico Arthur Lourié. In un articolo del 1936 su «La Revue Musicale», dedicato a questo compositore musicale, Maritain scrive, prendendo posizione con “il gruppo dei sei” contro Debussy e Wagner: «In opposizione al fenomenismo musicale e al puro costruttivismo, si può dire che la musica di Lourié è una musica ontologica. Essa prende vita e si compie nel centro sconosciuto in cui si incarna la vita della persona» (VI, p. 1062)7. Aggiunge una 6

Cf. La clef des chants, in «La Nouvelle Revue Française», 260 (1° marzo 1935), pp. 673-702 (V, pp. 778-809). 7 J. Maritain, Sur la musique d’Arthur Lourié, in «La Revue Musicale», 165 (febbraio 1936), pp. 266-271; tr. it. in «Vita e Pensiero», LXXXI, 7-8 (luglio-agosto 1998), pp. 529-539 (VI, pp. 1060-1066). Cf. P. Viotto, Arthur Lourié: una lunga amicizia, in Id.,

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

riflessione di Nietzsche sulla musica contemporanea: «Di cosa soffro, quando soffro del destino della musica? Soffro perché l’hanno spogliata delle sue virtù purificatrici, del suo carattere affermativo, perché è diventata musica di decadenza, perché non è più il flauto di Dioniso» (VI, p. 1060). Maritain in L’intuizione creativa nell’arte e nella poesia (49), sulla base delle tre caratteristiche della bellezza trascendentale indicate da san Tommaso, cioè l’integrità, la proporzione e lo splendore, individua i tre momenti della creazione artistica e scrive: «Lo splendore o chiarità, che è la proprietà prima della bellezza, appare principalmente nel senso poetico o melodia interiore dell’opera; l’integrità si manifesta nell’azione o tema e la proporzione nella struttura armonica» (X, p. 555)8. Per quanto riguarda la struttura armonica, relativa, in un certo senso, alla quantità, all’estensione, cioè a qualcosa che si può indicare come numero, precisa: «C’è per la pittura o la musica o la danza o architettura, come per la poesia, uno spazio poetico nel quale l’unità dell’opera si dispiega […] nella reciproca extraposizione di parti estese o nel tempo o nello spazio» (X, p. 548) e cita un testo di Nietzsche: «Quando si perde il senso del numero abbiamo quello che Nietzsche chiama anarchia degli atomi scrivendo: “Da che cosa è caratterizzata la decadenza in letteratura? Dal fatto che in essa la vita non anima più l’insieme. Le parole diventano predominanti e debordano dalla frase alla quale appartengono. Le frasi stesse trasgrediscono i loro limiti e rendono oscuro il senso di tutta la pagina e la pagina, a sua volta, acquista vigore a spese dell’insieme, per cui l’insieme non è più un insieme”» (ibid.). Questa composizione armonica che salva l’opera d’arte dalla disgregazione, per Nietzsche è un fatto vitale, ma per Maritain è anche un atto intellettuale, perché la bellezza è lo splendore della verità. Infine un’osservazione sulle relazioni tra gusto estetico e critica d’arte, che coinvolge i rapporti tra la creazione artistica e la ricerca filosofica: «Il giudizio di gusto è cosa diversa che il giudizio dell’arte, che è di ordine speculativo […]. Molti grandi artisti avevano un pessimo gusto, e molti uomini di gusto perfetto erano mediocri creatori; che cosa è la musica scritta da Nietzsche nei confronti dei suoi Grandi amicizie, cit., pp. 350-353; P. Viotto, Honegger, Milhaud e il gruppo dei Sei, in ibid., pp. 346-350. 8 P. Viotto, Fruizione e creazione della bellezza in Maritain, in AA.VV., Filosofia e Arte, Urbaniana University Press, Roma 2006, pp. 23-44.

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giudizi sulla musica?» (I, p. 771). Ma dopo avere riconosciuto i meriti della sua estetica Maritain ritiene che Nietzsche rappresenti la punta estrema dell’irrazionalismo, dell’odio contro la ragione, e lo colloca nell’alveo aperto dal darwinismo: «Faccio allusione a queste visioni etiche eccessivamente povere, sottoprodotti del darwinismo e dei quali Darwin per parte sua non è responsabile, soltanto perché hanno fornito a Nietzsche una base, o piuttosto una decorazione e un apparato decorativo, sedicente scientifico, al quale poteva riferirsi per fare appello (per molti altri motivi, in realtà) alla volontà di potenza come all’autentica morale dei padroni e condannare come morale da schiavi il rispetto della persona umana, il senso dell’amore e della pietà, insegnati dalla tradizione giudeo-cristiana» (XI, p. 929). Osserva, infine, che la sua opposizione tra la vita e lo spirito «può essere valida contro la ragione idealista (Hegel riassorbe tutta la realtà nel divenire dialettico), ma è falsa assolutamente parlando» (VI, p. 801). Soprattutto accusa Nietzsche «di avere messo realmente e seriamente in dubbio la veracità delle nostre capacità di conoscenza» (V, p. 177), mentre l’uomo ha bisogno proprio della verità per vivere.

Søren Kierkegaard Un pensatore danese che nei suoi scritti fortemente autobiografici riversa le inquietudini e le speranze che lo animano, è all’origine delle multiformi correnti filosofiche dell’esistenzialismo contemporaneo. L’esistenzialismo come atteggiamento dello spirito, come percezione della drammaticità della condizione umana, come abbandono fiducioso in Dio, non è nuovo nella storia della filosofia, da quando il cristianesimo ha messo in crisi l’apollinea fiducia nella ragione del paganesimo. In questo senso Tertulliano, sant’Agostino, Pascal possono essere considerati filosofi esistenzialisti, ma con Kierkegaard l’esistenzialismo da atteggiamento morale diventa metafisica, come decisa opposizione all’idealismo hegeliano, che aveva assorbito e risolto l’esistenza individuale nello Spirito assoluto. Søren Kierkegaard (1813-1855) nasce e vive a Copenaghen, a parte un breve soggiorno a Berlino, dove assiste alle lezioni di Schelling. Le inquietudini dell’ambiente familiare (il padre si sente maledetto da Dio e fa pesare il suo tormento sul figlio) favoriscono nel giovane il ripiegamento su se stesso. Si laurea in teologia nel 1841

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

con la tesi Sul concetto dell’ironia con particolare riguardo a Socrate, in cui già si delinea la critica all’estetismo romantico, e soprattutto all’idealismo hegeliano. Maritain commenta questa tesi: «Socrate non è stato affatto un ironista in senso kierkegaardiano, cioè un ironista la cui grande vittoria è di rendere tutto problematico» (XI, p. 254) perché l’ironia in lui era propedeutica alla ricerca della verità, come intelligibilità dell’essere. E aggiunge: in Kierkegaard, «tormentato senza fine da se stesso, nascondendosi sotto maschere e pseudonimi che erano sempre lui, e lasciando ad intervalli vedere il suo viso, in modo da rendere il travestimento ancora più intrigante, l’ironia era il testimone e il mantello del suo segreto» (XI, p. 851). Kierkegaard si avvicina alla filosofia di Fichte, si entusiasma per Pascal, ma poi decide di essere assolutamente solo con se stesso. Rompe il fidanzamento, rinuncia a diventare pastore protestante, per combattere la sua battaglia contro il sistema, cioè il dominio della filosofia hegeliana, contro la cristianità, cioè le Chiese-istituzioni, che tradiscono lo spirito evangelico, contro la stampa, che manipola il pensiero individuale. Per combattere questa battaglia pubblica la rivista «Il momento» e scrive diversi libri: Aut Aut (1843), Timore e tremore (1843), Il concetto dell’angoscia (1844), La malattia mortale (1849), che, per la vivacità dello stile e le polemiche suscitate, hanno un buon successo. Per comprendere il suo pensiero, che non procede per articolazioni logiche, ma per frammenti slegati tra di loro, bisogna leggere il suo Diario. Maritain dedica al filosofo un lungo capitolo della sua storia della filosofia morale: La protesta Kierkegaardiana: meditazione sul singolo (XI, pp. 849-879) e rimanda continuamente a lui nel Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente (43) per sostenere che il tomismo è il vero esistenzialismo, perché la realtà ultima dell’essere è la sua sussistenza individuale, cioè la soggettività. Ne traccia anche un profilo: «Kierkegaard non era né un filosofo, né un teologo, era un uomo inquieto e dolorante, attratto dal mondo e tormentato dal desiderio della santità, singolarmente ricco di doni e percezioni mistiche […] per lui non c’era che un problema, che si poneva in termini tragici, il problema della fede. Ma in lui la fede era essa stessa una fede senza corteccia, priva di ogni elemento di certezza e di conseguenza tanto più legata all’angoscia e al laceramento interiore quanto più era reale nella sostanza della sua anima» (VIII, p. 21).

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L’esistenza del singolo come contraddizione Il punto di attacco della filosofia di Kierkegaard è soggettivo, non in senso logico, come principio del processo cognitivo, alla maniera di Cartesio, ma in senso psicologico, come principio del vivere e dell’esistere. L’errore dell’idealismo consisteva nel fare coincidere l’essere con il pensiero, e di conseguenza l’esistenza con l’essenza, per cui l’individuo singolo veniva annullato nel tutto, perdendo la sua libertà e la sua responsabilità. Secondo Kierkegaard per salvare l’individuo e la sua libertà bisogna partire dall’esistenza, sganciandola dall’essenza. Anche per Aristotele nella ricerca filosofica, che nasce nell’esperienza, bisogna partire dall’individuo, ma questo individuo è un insieme di essenza e di esistenza, mentre per Kierkegaard il singolo è un’esistenza pura, contrapposta all’essenza pura, che trascende infinitamente l’uomo, Dio. L’individuo è solo con se stesso e davanti a Dio, la sua vita è chiusa nell’esistenza da cui, invano, cerca di uscire. La vita non è un fluire regolare per contrapposizioni dialettiche, che sempre si risolvono nella sintesi, come pensa Hegel, ma una continua frattura, perché bisogna scegliere tra due opposti, che non si possono conciliare (aut-aut), una scelta che implica un rischio e genera uno stato di angoscia. Ma questa angoscia non nasce solo dalla scelta, perché è la stessa esistenza del singolo che, contrapponendosi a Dio, è colpa. La metafisica di Kierkegaard è una sorta di individualismo radicale, di pluralismo ateleologico, ogni individuo chiuso in se stesso, isolato dagli altri, cerca invano il suo essere, che solo Dio gli darà, quando avrà rinunciato ad essere se stesso. Questo individualismo radicale riguarda anche la conoscenza, perché ciascun individuo ha la sua verità, che non nasce dalla conciliazione degli opposti, ma è paradosso e scandalo, perché tiene uniti gli opposti. Maritain osserva: «Non che Kierkegaard negasse la ragione, la rifiutava, perché fidarsi del razionale è pura vanità di spirito e mondanità idolatra […]. Per ritrovare il vero singolare e il suo unico valore etico e religioso Kierkegaard ha voltato le spalle all’universo della dimostrazione e delle certezze oggettive, all’universo proprio della ragione. Ha domandato la scoperta dell’Assoluto ad un lavorio di escavazione nel singolo, nella sua propria soggettività incomunicabile: la soggettività è la verità» (XI, pp. 857-858). «Il suo pensiero introverso era tutto incentrato sulla sua propria soggettività e sulla sua unica propria singolarità» (XI, p. 856). Kierkegaard non è ide-

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

alista, non riduce la realtà al pensiero, la realtà che lui cerca, al di là delle apparenze, non si oggettivizza in un pensiero; lui va oltre il conosci te stesso di Socrate, perché cerca l’Assoluto e tenta di entrare nei segreti dell’essenza incomunicabile. Maritain constata: «Kierkegaard, che è cristiano, al termine della sua dialettica esistenziale si trova di fronte a Dio come un ateo si trova di fronte al nulla» (XI, p. 862). Ma è per una fede soggettiva, spogliata di ogni oggettività, con un atto di rottura con la ragione, che Kierkegaard trova Dio e questo approfondimento della soggettività «se è assolutamente valido per il singolo, nel seno del quale si produce, non vale in realtà che per lui, ed è, di sua natura, interamente privo di necessità razionale, rispetto ad un altro singolo resta arbitrario e ambiguo» (ibid.). Maritain riconosce l’importanza di questa intuizione secondo cui l’esistere sta nella singolarità: «Kierkegaard è stato il campione del singolo, dell’unicità e dell’incomunicabilità che caratterizzano ogni persona individuale» (IX, p. 863). Ma precisa che la parola “singolo” ha due sensi: «Il destino di Kierkegaard è stato quello di essere il campione del singolo non solo nel senso in cui il singolo è l’individuale, ma anche nel senso in cui il singolo è l’eccezionale, in cui l’uomo singolare è un uomo strano e sospetto, che non è come gli altri, un insolito, uno stravagante, un fuori posto, come secondo Platone era Socrate» (ibid.).

I tre stadi della vita Il divenire della vita umana procede attraverso salti qualitativi, non è uno sviluppo preordinato dalla ragione, ma dipende dalle libere scelte della volontà di ciascun individuo e Kierkegaard descrive tre momenti fondamentali di questo divenire. Maritain osserva: «La sua concettualizzazione resta disgraziatamente assoggettata allo schema dialettico, specialmente alla categoria dialettica degli stadi di esistenza, ma questa dialettica soggettiva perde ogni pretesa di sapere e di spiegazione per divenire in lui puramente descrittiva» (XI, p. 857). Contro l’ottimismo «della soddisfazione idealista e il suo implacabile Giove, Kierkegaard, ferito e trionfante, si rivolta in nome della soggettività (in altre parole, in nome della persona umana) e ponendosi al centro della sua angoscia spirituale» (XI, p. 606). Lo stadio iniziale è lo stadio estetico, rappresentato dalla figura di don Giovanni, nel quale l’individuo si abbandona al caleidoscopio delle sue sensazioni e delle sue emozioni senza imporre loro

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una coerenza intellettuale o morale. L’individuo considera il mondo come uno spettacolo da godere, dà libero sfogo alle passioni, dissipandosi e cadendo nell’illusione. Ma questo passare di fiore in fiore per nutrirsi dell’ebbrezza della primavera senza avere il coraggio di aspettare l’estate che spoglia il fiore della sua corolla per donare il frutto, conduce alla noia e alla disperazione, perché l’uomo è fatto per l’infinito, l’eternità, e il finito, il provvisorio, non lo può soddisfare, perché le gioie della carne sono effimere. Questa disperazione può essere purificatrice. Per Kierkegaard la verità non nasce semplicemente dal dubbio, come pensa Cartesio, ma emerge da una crisi più profonda, che coinvolge tutta l’esistenza, cioè dalla disperazione, che è la malattia mortale della natura umana. L’uomo passa allo stadio etico, che si può rappresentare nella figura del padre di famiglia, quando impara a ritirarsi in se stesso, quando non si disperde più nel mondo, non vuole più questa e quella soddisfazione dei sensi, ma impara a scegliere con responsabilità. Non vive più chiuso nel suo egoismo, ma si sente fratello con il prossimo, accetta i suoi legami e i suoi compiti sociali, la famiglia, la professione, la patria. È uno stadio migliore del precedente, perché l’uomo fermo allo stadio estetico confonde la realtà con la rappresentazione, si ferma all’effimero, vive di illusione, mentre l’uomo morale vive nella realtà e realizza se stesso. Ma questa autonomia, fondata sull’universalità della legge, formulata dall’io con l’imperativo categorico, è colpevole, perché l’uomo pretende di essere legge a se stesso. Maritain rileva: «L’universalità puramente logica della legge kantiana, universalità senza radici nella natura, tiene questa legge divisa dalla soggettività ed esteriore ad essa. È Kant che ha spinto Kierkegaard a cercare, per le richieste più profonde della coscienza morale, un’uscita nella rivolta contro la generalità della legge» (XI, p. 431). Si passa allo stadio religioso in un colloquio intimo e individuale, da soggetto a soggetto, con Dio, rimettendosi con fede a Lui, come ha fatto Abramo a cui fu richiesto di sacrificare suo figlio. La religione non ha bisogno, come la morale, di regole oggettive e universali. La fede è pura gratuità, non richiede giustificazioni intellettuali. Il cristianesimo non ha bisogno di apologia e di un’organizzazione ecclesiale, è un incontro personale dell’io con Dio. La religione è fiducia in un Dio che può donare ciò che si perde e ciò che si lascia per Lui. Ma in questo stadio religioso l’angoscia si fa ancora più dolorosa, perché l’uomo si sente tanto più colpevole quanto più si avvicina a Dio; e la sofferenza e la tristezza sono il segno di avere preso coscienza del significato dell’esistenza.

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

Maritain analizza in particolare il passaggio dallo stato etico allo stato religioso, sottolineando come la sovramorale della religione sia un superamento della morale, che sospende ma non abolisce la morale. Bisogna comprendere Kierkegaard nella sua contrapposizione a Kant e a Hegel: «L’etica kantiana svuota il singolo di se stesso, lo riduce a farsi un puro punto astratto, o un soggetto logico svuotato di realtà davanti all’universale astratto, che è la legge. L’etica hegeliana restituisce il singolo a se stesso in quanto obbedisce volontariamente allo Stato e si identifica con l’universale concreto, dove egli raggiunge il suo essere e la sua sostanza, che è la volontà universale dello Spirito oggettivato nello Stato. È contro questi due generi di etica che la singolarità kierkegaardiana grida vendetta» (XI, p. 873). Non c’è opposizione tra la morale e la religione: «Non solo l’eroe tragico come Agamennone, ma Abramo stesso che sacrifica Isacco, appartiene sempre all’universo dell’etica. Abramo, colpito nel cuore dall’ordine personale di Dio, e lacerato dalla contraddizione, aveva ancora una legge universale, e la prima di tutte: tu adorerai Iddio incomprensibile e gli obbedirai; e Abramo sapeva oscuramente, non dai trattati di teologia morale, ma dall’istinto dello Spirito Santo, che l’omicidio di suo figlio sfuggiva alla legge, che proibisce il delitto, perché gli era comandato dal Signore della vita» (IX, p. 61). Kierkegaard non ha compreso questo passaggio, lo ha considerato come un salto, una frattura nel divenire: «Il suo grande errore, in mezzo alle sue grandi intuizioni, è stato quello di separare e di opporre, come se fossero eterogenei, il mondo della generalità, o della legge universale, e quello della testimonianza unica, ingiustificabile davanti alla ragione dell’uomo, resa dal cavaliere della fede»9 (ibid.). Non ha saputo correlare l’universale della riflessione filosofica con il particolare dell’esperienza religiosa.

Esistenzialismo e tomismo La filosofia di Kierkegaard è stata una polemica contro l’idealismo, contro la società del suo tempo, contro la Chiesa danese, per affermare l’individualità del singolo, fino al paradosso di ritenere che l’essere nato è una colpa e che solo una religione, come cieca fe9

Maritain rimanda a R. Maritain, Storia di Abraham, Massimo, Milano 1978 (XIV, pp. 567-617); cf. scheda n. 9, in P. Viotto, Dizionario delle opere di Raïssa Maritain, Città Nuova, Roma 2005, pp. 76-84.

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de in Dio, può risolvere questa contraddizione. Maritain riconosce che Kierkegaard è più un poeta che un filosofo, ma dalle sue intuizioni trae conferme alle sue riflessioni filosofiche. In primo luogo Maritain riconosce che l’essenza è un’astrazione, nell’oggettivazione della mente, che essa in realtà esiste solo unita all’esistenza nella soggettività individuale e ripropone il problema metafisico del suppositum: «San Tommaso chiama suppositum ciò che noi chiamiamo soggetto. L’essenza è ciò che cosa una cosa è, il supposito, il soggetto, è chi ha un’essenza, chi esercita l’esistenza e l’azione, chi sussiste» (IX, p. 65). Ma questa soggettività è impenetrabile alla conoscenza intellettuale, che ha sempre bisogno di un oggetto, anche a livello di fede. «Resta tuttavia, e questo Kierkegaard l’ha mirabilmente visto, che è il singolo che esercita l’atto di esistere, che è il singolo che esercita l’atto di conoscere […] che è il singolo che si salva o si perde per sempre, che con le sei azioni e nientificazioni, nella sua relazione con Dio e con le creature, contribuisce a dar forma ai destini del mondo» (XI, p. 863). Maritain si richiama ad una seconda intuizione kierkegaardiana: la coscienza è più importante della legge, non sostituisce la legge ma la applica al caso individuale e concreto; al riguardo rimanda a san Tommaso, il quale afferma che «non c’è vita morale senza il giudizio personale della coscienza; che ci insegna che in ogni atto autenticamente morale, l’uomo, per applicare e nell’applicare la legge, deve incarnare e cogliere l’universale nella sua singola esistenza, in cui egli è solo di fronte a Dio» (IX, p. 63). Kierkegaard non ha saputo raccordare l’universalità della legge alla soggettività della coscienza, si è fermato alla contraddizione, chiudendosi nell’angoscia. Maritain commenta: «Siamo grati a Kierkegaard e ai suoi successori di avere, contro Hegel, insegnato ai filosofi la grande lezione dell’angoscia» (IX, p. 136); ma «l’angoscia non vale nulla come categoria filosofica» (IX, p. 137). «Noi siamo ben al di là dell’angoscia. L’angoscia non è che una forma dell’esperienza spirituale del filosofo» (IX, p. 138). Non bisogna confondere la soggettività del filosofare nella biografia del filosofo con l’oggettività della filosofia nell’universo della scienza. «Il limite insormontabile contro il quale urta la filosofia è dovuto al fatto che essa conosce senza dubbio i soggetti, ma li conosce come oggetti, per cui risulta totalmente circoscritta entro la relazione intelligenza-oggetto, mentre la religione si iscrive nella relazione tra soggetto e soggetto» (IX, p. 74). Maritain conclude: «Al di qua delle virtù divine, non c’è nulla nell’uomo che testimoni la sua grandezza

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

meglio del tremore. Ma non è per suo mezzo che la filosofia fa la sua opera. Il delirio è permesso al profeta, è proibito al filosofo» (IX, p. 127). Maritain riconosce «che l’intuizione centrale che animava l’esistenzialismo di Kierkegaard sia in fin dei conti la stessa che è nel cuore del tomismo: l’intuizione del valore assolutamente singolare dell’esistere, dell’existentia ut esercita, ma nata in seno ad una fede angosciata» (IX, 295). In Kierkegaard «il termine intuizione dell’essere non è più lecito, diciamo che egli viveva del senso assoluto del mistero della trascendenza infinita, attestata dai Patriarchi e dai Profeti» (IX, p. 125). In lui, come nei filosofi russi emigrati a Parigi, suoi discepoli, Lev Šestov (1866-1938) e Benjamin Fondane (1898-1944)10 si manifesta «una colpa gravida di conseguenze, che è quella di credere che per glorificare la trascendenza occorresse spezzare la ragione, mentre bisognava umiliarla davanti al suo Creatore e con ciò stesso salvarla» (IX, p. 126). Per combattere la presunzione dell’hegelismo, che riduce tutto alla razionalità, gli esistenzialisti sono scivolati in un irrazionalismo «che non rende giustizia ai mistici» (IX, p. 127), i quali sanno raccordare l’esperienza dell’Assoluto mediante l’intuizione dell’essere, come san Giovanni della Croce, senza contrapporre la mistica alla filosofia.

5. Il socialismo utopistico Tutto ciò che nel socialismo, e nella lotta di classe, vuol prendere il posto della salvezza e instaurare la felicità universale è falso, ma una verità inoppugnabile esiste: lo stato attuale è tale che la lotta contro l’ingiustizia sociale è necessaria (XII, p. 156).

Jacques Maritain in gioventù è stato anarchico e socialista, da studente ha conosciuto Raïssa Oumançoff mentre faceva volantinaggio davanti alla Sorbona a favore dei socialisti russi perseguitati dallo zar. Alla boutique dei “Cahiers de la Quinzaine” di Charles Péguy (18731914), un poeta che si muove tra cristianesimo e socialismo11, di cui presto diventa un collaboratore, fa amicizia con Georges Sorel. Fre10

Cf. P. Viotto, Benjamin e Geneviève Fondane, in ibid., pp. 258-260. P. Viotto, Charles Péguy tra socialismo e cristianesimo, in Id., Grandi amicizie, cit., pp. 179-184. 11

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quenta l’“Ècole socialiste”, tiene conversazioni nelle Università Popolari, scrive articoli su «Jean-Pierre», un periodico per ragazzi di ispirazione socialista fondato da Marcel Debré e da sua sorella Jeanne Maritain. L’incontro con Bergson, la conversione al cattolicesimo e la scoperta di san Tommaso mettono in crisi le convinzioni socialiste, gli fanno superare un ateismo radicale e l’anticlericalismo dei primi anni, ma non modificano le sue convinzioni circa le gravi ingiustizie sociali prodotte dal capitalismo, di cui è responsabile la classe borghese. Un suo alunno all’Institut Catholique di Parigi, Yves Simon, poi suo collaboratore in Francia e in America, studia il pensiero di Pierre-Joseph Proudhon e trova qualche correlazione tra il pensiero del filosofo francese e san Tommaso a proposito del valore del lavoro e il senso sociale della proprietà12. Insieme a Maritain nel 1934 firma il manifesto Per il bene comune (V, pp. 1022-1041) con un doppio no, al fascismo e al comunismo. Maritain collabora con Emmanuel Mounier alla fondazione della rivista «Esprit», ma poi si allontana dal gruppo, perché esso finisce per diventare un movimento politico, che si muove verso il socialismo. La sua proposta di Umanesimo integrale (1936) va oltre il liberalismo e il socialismo perché pone al centro delle relazioni sociali la persona, non l’individuo o la società.

I primi teorici Il socialismo in Inghilterra e in Francia nasce nella stessa classe borghese come reazione immediata e spontanea alle ingiustizie sociali conseguenti all’organizzazione capitalistica della vita economica, e risulta un fenomeno collaterale del positivismo che trova in A. Comte il teorico più significativo. In Germania, invece, si muove nell’ambito dell’idealismo, si definisce come sinistra hegeliana e si propone come socialismo scientifico, avvia la rivoluzione comunista, auspica la dittatura del proletariato e si contrappone al socialismo utopistico dei francesi e degli inglesi, che considera moderato per il suo muoversi all’interno della democrazia liberale. Nell’ambito di questo movimento Karl Marx diventa il profeta di un nuovo umane-

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Cf. P. Viotto, Yves René Simon e gli amici americani, in ibid., pp. 67-76. Cf. M. Fourcade, Yves Simon entre saint Thomas et Proudhon, in «Cahiers Jacques Maritain», 47 (dicembre 2003), pp. 4-22.

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

simo, che troverà in Russia con Stalin e in Cina con Mao Tze-Tung le realizzazioni più radicali. Maritain da filosofo rileva come l’ateismo sia intrinsecamente connesso con il marxismo e la rivoluzione comunista per sua stessa natura anticristiana, ma rileva che anche il socialismo utopistico tiene Dio fuori dei processi della storia, tanto da scrivere in Riflessioni sull’intelligenza (8): «Esiste su questo punto una tradizione repubblicana e socialista. Proudhon proclama decaduto il sovrano assoluto del mondo, Fourier non ammette che una collaborazione societaria tra Dio e l’uomo» (III, p. 326). L’ateismo degli uni e il deismo degli altri sono ancora le conseguenze dell’umanesimo antropocentrico, nato nel rinascimento e sviluppatosi con illuminismo, e straripa nel mondo, verso altre popolazioni che, attratte dal progresso tecnologico del mondo occidentale, finiscono per assorbirne la mentalità borghese, perdendo la loro identità culturale originaria. Il caso della Cina è emblematico. Maritain aveva previsto questo processo fin dal 1927 quando in Primato dello spirituale (12) scrive: «È molto significativo che questa invasione dell’ateismo, dello scientifismo, del socialismo occidentali, capace di distruggere tutto ciò che di spirituale c’è nell’antica cultura cinese […] sia anche capace di esasperare in odio contro gli altri tutto ciò che di materiale (in senso aristotelico) e di strettamente nazionale c’è in questa stessa cultura. Per un diabolico paradosso i cinesi intossicati dai peggiori prodotti dell’Occidente, si ergono contro il cristianesimo, oggi, proprio per difendere i diritti della loro cultura» (III, p. 937). Fatte queste considerazioni di base a livello di filosofia, perché il socialismo veicola una filosofia materialistica, Maritain mette a fuoco il nodo centrale del socialismo, la riabilitazione del proletariato, chiamato a diventare protagonista della vita politica. Riconosce che il proletariato ha una sua missione nella storia, ma bisogna liberarla dalla lotta di classe. Osserva che nella nozione socialista e comunista di coscienza di classe si riscontrano due errori: «Da una parte un errore di tipo liberale e borghese (in questo dapprima Proudhon, poi anche Marx, restano dei piccoli borghesi) che fa dell’affrancazione della classe operaia un ultimo episodio della lotta della libertà contro il cristianesimo e la Chiesa ritenute forze di asservimento e di oscurantismo. Dall’altra un errore di origine rivoluzionaria ed escatologica, che è il concetto marxista della lotta di classe e il compito messianico devoluto al proletariato» (VI, p. 549). Nella storia si giunge così ad un processo di sostituzione con il quale i socialisti e i comunisti occupano

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II. L’età delle ideologie

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lo spazio lasciato libero dai cristiani, attraverso una triplice azione culturale: a) la riabilitazione della causalità materiale, trascurata per una sovravalutazione delle energie spirituali, b) la ricerca della salvezza attraverso la dialettica della storia, dimenticata per l’accentuazione del fine ultimo della vita, la salvezza dell’anima, c) la valorizzazione del proletariato a cui si riconosce una missione redentrice. Maritain riconosce che questo atteggiamento di ostilità verso Dio è dovuto al peccato di omissione dei cristiani, che non si sono sufficientemente impegnati per realizzare la giustizia in questo mondo, e nella Lettera sull’indipendenza (VI, pp. 253-288) invita i cristiani a recuperare l’iniziativa sociale con un’azione politica cristianamente ispirata superando la contrapposizione capitalismo-socialismo, perché «in realtà non esiste nulla di più scandaloso, e in un certo senso di più rivoluzionario (perché è rivoluzionario persino rispetto alla rivoluzione), del credere ad una politica cristiana e del pretendere di dare l’avvio in questo mondo ad un’azione politica cristiana. Ma il cristiano sa che la prima maniera di servire il bene comune temporale consiste nel rimanere fedeli ai valori di verità, di giustizia, di amicizia fraterna, che ne costituiscono l’elemento principale» (VI, p. 297). Il termine socialismo nasce in Inghilterra e probabilmente il nome fu usato per la prima volta da Robert Owen (1781-1838) nel 1827 nella sua rivista «Co-operative Magazine», e fu poi ripreso in Francia da Pierre Leroux (1797-1871) in un saggio su L’individualismo e il socialismo (1833). In Inghilterra e in Francia il socialismo nasce come istanza morale per superare il liberalismo, non si definisce come lotta di classe, né prevede la violenza come strumento di rivendicazione sociale. Questo movimento viene chiamato nel 1839 da Jerome Adolphe Blanqui (1798-1854) socialismo utopistico nella sua Storia dell’economia politica (1839), mentre in Germania, poco dopo, il Manifesto del partito comunista (1848) denuncia che «questi sistemi ravvisano il contrasto tra le classi, ma non vedono nel proletariato una funzione storica e un movimento politico autonomo» e proclama la lotta di classe come strumento per la rivoluzione, proponendo un socialismo scientifico che Engels analizza in L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza (1888). Sul piano della vita politica queste ambiguità si manifestano anche nel travaglio della storia dei partiti che si ispirano a queste filosofie. Alcuni accettano la democrazia parlamentare e il pluralismo, definendosi socialdemocrazia, altri si orientano verso il comunismo e impongono la dittatura del partito unico. Ma il socialismo, come

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utopia, riguarderà, in seguito, anche i partiti di destra, che propongono il nazionalsocialismo come superamento dello Stato liberale in Germania e in Italia. La biografia di Georges Sorel (1847-1922) documenta questo travaglio storico, come si può constatare nei suoi ultimi scritti Le illusioni del progresso e La decomposizione del marxismo. Il suo pensiero nasce da una lettura disordinata di Proudhon e di Marx, di Nietzsche e di Bergson; il suo comportamento politico passa da un’adesione sincera al regime parlamentare ad un’adesione al comunismo, per poi opporvisi, e finisce per aderire al movimento nazionalista dell’Action Française. Il socialismo, pur nelle sue diverse forme, risente del razionalismo dell’illuminismo e dello scientifismo del positivismo. Ma al di là delle teorie filosofiche, Maritain individua nell’organizzazione capitalistico-industriale del lavoro, che, nella sua ripetitività e monotonia, non favorisce più la creatività del fare umano, la causa profonda dell’avvento del comunismo. In una nota di Arte e Scolastica (2) scrive: «Quando il lavoro diventa inumano o sottoumano, perché il suo carattere di attività artistica viene cancellato e la materia prende il sopravvento sull’uomo, è naturale che la civiltà tenda al comunismo e a una produzione che dimentica il vero fine del fare umano e che metterà in pericolo la produzione stessa» (I, p. 732). In queste poche parole c’è l’analisi del successo e del fallimento del comunismo nella storia contemporanea. Maritain in Umanesimo integrale (26) considera e approfondisce il concetto di utopia. «Quando un Tommaso Moro o un Fénelon, un Saint-Simon o un Fourier costruiscono un’utopia, costruiscono un essere di ragione, isolato da ogni esistenza data e da ogni clima storico particolare, esprimente un massimo assoluto di perfezione sociale e politica dell’architettura, del quale ogni dettaglio immaginario è spinto quanto più lontano possibile, poiché si tratta di un modello fittizio proposto allo spirito al posto della realtà» (VI, p. 438). Si tratta di un’ideologia. Nel socialismo scientifico persiste questo impulso utopistico, ad incominciare dall’ipotesi che la dittatura del proletariato sia solo una fase transitoria in vista della realizzazione di una società perfetta. È per questo che Maritain, nel fare la proposta di una nuova cristianità, non parla più di utopia, ma di un ideale storico concreto (VI, pp. 437-437).

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II. L’età delle ideologie

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Pierre-Joseph Proudhon In Francia il regime repubblicano genera un ambiente propizio al sorgere di correnti di pensiero rivoluzionarie ma rispettose delle libertà individuali e della convivenza democratica, pur nella critica violenta alla società borghese. Le premesse di questo movimento si possono rintracciare nella seconda metà del XVIII secolo. L’aristocratico SaintSimon (1760-1825), che forse ebbe come precettore d’Alambert, dopo aver partecipato con la spedizione francese alla Rivoluzione americana, rivolgendosi agli uomini del mondo economico e politico con la sua rivista «L’industria», propone una riorganizzazione della società più razionale, più scientifica, più giusta, nella quale i lavoratori possano avere parte agli utili della produzione. Dal 1817 al 1824 ha come collaboratore A. Comte. Il filosofo economista Charles Fourier (1772-1837) è il profeta disarmato di un’utopia rivoluzionaria che, criticando la famiglia come base della società, propone la creazione di piccole comunità, denominate falangi, alloggiate in unità urbane, nelle quali ogni individuo possa svolgere un ruolo attraente senza essere sfruttato. Il filosofo più importante di questo indirizzo è Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865). Sia per le sue numerose opere, sia per la diretta partecipazione alla vita politica come parlamentare, che con il saggio Che cosa è la proprietà (1848), si impose all’attenzione dell’opinione pubblica anche per il suo contrapporsi a Marx. Proudhon partecipa alla rivoluzione del 1848 e ne narra le travagliate vicende in Le confessioni di un rivoluzionario (1849). Passato all’opposizione del regime repubblicano-conservatore viene incarcerato per tre anni. Dopo la pubblicazione di La giustizia nella rivoluzione e nella Chiesa (1858) subisce una nuova condanna, ma riesce a rifugiarsi all’estero. Rientrato in patria nel 1862 dopo il condono della pena, scrive ancora diverse opere, tra cui Teoria della proprietà, pubblicata postuma nel 1866. Proudhon, convinto che gli interessi sul denaro siano una delle cause dell’ingiustizia sociale, lavora per l’organizzazione di prestiti gratuiti. Il nucleo centrale della sua riflessione riguarda la proprietà, che ritiene la struttura portante dei privilegi sociali, ma anche una garanzia di libertà per l’individuo, per cui considera la statalizzazione proposta da Marx una soluzione errata. Una seconda idea portante della sua filosofia riguarda la giustizia, che intende come uguaglianza di soggetti indipendenti. Di conseguenza bisognerebbe evitare la centralità dello Stato, affidando le funzioni pubbliche a piccoli gruppi, che dovrebbero potersi federare, anche al

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

di là dei limiti nazionali. Proudhon si professa non credente, diffida della giustizia fondata sull’esistenza di Dio, che dovrebbe realizzarsi nella comunità ecclesiale, crede nell’autosufficienza dell’uomo. Maritain rimprovera a Proudhon di concepire la giustizia solo in senso quantitativo, rilevando che questo ideale di giustizia è astratto, frutto del razionalismo cartesiano, e con un certo umorismo chiama questa idea «la giustizia dei geometri […]. Essa non è che un idolo morto e mortifero. Essa ha ingannato molti spiriti generosi, è lei che ha guastato quella passione della giustizia che in un Proudhon fu un sentimento così grande e così sacro […] Proudhon pensava la giustizia, secondo il tipo elementare di giustizia commutativa. La giustizia, concepita in questo modo, si riferisce agli uomini come a delle quantità, tra le quali (come nel caso del giusto scambio) essa esige l’uguaglianza pura e semplice» (III, p. 188). Maritain, nel saggio Persona e società (V, pp. 487-507), riconosce che Proudhon non vuole la collettivizzazione della proprietà, perché la proprietà individuale garantisce la libertà della persona e la difende dalla subordinazione allo Stato, ma rileva anche che la proprietà privata ha una spiegazione più profonda, ha una «sua radice metafisica, concernente la persona umana (e la famiglia) anteriormente alla considerazione delle sue relazioni con lo Stato» (V, p. 507). Bisogna trovare forme di proprietà societaria, evitando la statalizzazione della proprietà. Maritain riconosce la necessità di giungere all’uguaglianza tra uomo e donna, sulla quale Proudhon e Sorel insistono, precisando che bisogna promuovere non un’uguaglianza puramente quantitativa, ma una uguaglianza qualitativa, una uguaglianza proporzionale alle differenze reali tra l’uomo e la donna. «Quello che Proudhon non ha compreso è che, nell’ambito delle relazioni tra il tutto sociale e le sue parti, l’uguaglianza di proporzione costituisce la giustizia stessa» (VIII, p. 274), perché si deve dare a ciascuno secondo il suo bisogno e secondo il merito. Proudhon non ha compreso le funzioni dello Stato, immaginando una democrazia senza gerarchia, senza un’autorità, perché ogni uomo deve ubbidire solo a se stesso. Nella società umana l’uomo è un individuo e una persona: come persona riferisce a se stesso il bene comune, ma come individuo è subordinato al tutto sociale e alle autorità, che gestiscono il bene comune. Maritain osserva che la società immaginata da Proudhon non può esistere in questo mondo. «Una totalità senza gerarchia, un tutto senza alcuna subordinazione delle parti al tutto; non si trova questa meraviglia che nella Trinità divina, nella società increata in cui appunto le Persone non sono

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II. L’età delle ideologie

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parti» (VIII, p. 216). Proudhon resta prigioniero di una concezione antropocentrica della filosofia della storia, che affida all’uomo la sua liberazione, che non comprende il mistero del male nella storia, e contrappone Dio al mondo. «Egli si è completamente ingannato sulla nozione cristiana della trascendenza; e questo deriva non soltanto dal fatto che egli (come capita a tanti francesi di formazione classica) prendeva per concezioni cattoliche delle concezioni in realtà giansenistiche. Ciò deriva anche da un errore filosofico molto profondo. Se arrivò a bloccare nell’idea di trascendenza ogni specie di assolutismo: assolutismo dello Stato, dei ricchi, dei preti, per farlo culminare nel dispotismo supremo del tiranno celeste, ciò avvenne perché egli giungeva a spingere fino alle sue ultime conseguenze una concezione radicalmente univoca del Dio trascendente» (V, p. 402). Maritain approfondisce la sua analisi, rilevando che Proudhon non comprende l’ambivalenza della storia, rifiuta Dio perché nel mondo c’è il male. «Nella concezione dell’ateo, o, se si vuole, del “nemico di Dio”, come Proudhon si chiamava, è impossibile che Dio sia al servizio del nemico di Dio. Mentre nella concezione del cristiano il nemico di Dio è al servizio di Dio. Dio ha i suoi avversari (non nell’ordine metafisico, ma nell’ordine morale). Ma i suoi avversari sono sempre al suo servizio. È servito dai martiri e dai carnefici che fanno i martiri» (V, p. 397). Dio rispetta la libertà dell’uomo, chi fa il male si serve delle forze che Dio gli dona, usandole male, ma Dio sa trarre il bene anche dal male. È il mistero della storia, che Proudhon non sa decifrare, anche se tutta la sua filosofia è impregnata di valori morali, come dovere, moralità, giustizia (XIII, p. 657). Maritain conclude la sua analisi in Cristianesimo e democrazia (35): «Proudhon credeva che la sete della giustizia fosse il privilegio della rivoluzione […] la sete della giustizia è nata e cresciuta nell’anima dei secoli cristiani, ad opera del Vangelo. E il Vangelo e la Chiesa ci hanno insegnato a non obbedire che a ciò che è giusto» (VII, p. 729). Sul piano filosofico l’errore fondamentale del socialismo è quello di considerare l’uomo solo come individuo, dimenticando la persona e le sue naturali relazioni sociali, ad incominciare dalla famiglia, che è la cellula base dell’organismo sociale.

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6. Karl Marx e la sua scuola

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Marx ha parlato della mistificazione della dialettica hegeliana. La sua dialettica, per il fatto stesso che si crede realistica, raddoppia questa mistificazione (VII, p. 231).

Maritain in diverse opere studia il marxismo nella sua genesi, nella sua evoluzione nei diversi continenti attraverso i movimenti e i partiti che ad esso si ispirano, e titola un capitolo della sua storia della filosofia morale Marx e la sua scuola (XI, pp. 597-686). La sua analisi è particolarmente profonda, rileva come la filosofia di Marx dipenda da quella di Feuerbach per il suo ateismo e da quella di Engels per il suo materialismo dialettico e sottolinea come questa filosofia porti al primato della prassi, perché compito primario della conoscenza è la trasformazione della società. Maritain sottolinea l’incompatibilità tra la filosofia cristiana e la filosofia marxista, anche se vede nel comunismo, per il suo messianismo umanitario, l’ultima eresia cristiana. Queste analisi documentano come sia completamente falsa l’accusa rivolta a Maritain di essere un “marxista cristiano”.

Dal socialismo utopistico al socialismo scientifico Karl Marx è l’esponente più noto di questa ideologia, in lui l’hegelismo diventa materialismo dialettico, ma senza la collaborazione di Engels non avrebbe scritto il Manifesto del partito comunista e non avrebbe nemmeno pubblicato Il capitale (1885), che Engels completa con altri due volumi nel 1898. Il loro ateismo militante deriva dalla critica al cristianesimo fatta da Ludwig Feuerbach e dalla convinzione che la religione sia una forma di alienazione dell’uomo, perché l’uomo è dio a se stesso. Il marxismo si sviluppa in Russia, attraverso l’interpretazione radicale di Nikolaj Lenin (1870-1924), e raggiunge l’Oriente in Cina, coinvolgendo con l’azione politica di Mao TzeTung (1893-1976) un intero popolo, malgrado le resistenze dei nazionalisti. Secondo Maritain con Lenin il materialismo dimostra il suo vero volto di falso realismo: «Le polemiche di Lenin contro Avenarius e Mach sono molto significative a questo riguardo. Solamente i marxisti confondono realtà e materia, realismo e materialismo» (V, p. www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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II. L’età delle ideologie

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175)13. Con Lenin la morale socialista diventa la morale di un partito politico, tanto che in un discorso afferma: «la nostra etica è interamente subordinata agli interessi della lotta di classe del proletariato» (XI, p. 668). In Russia, nel 1917, con la Rivoluzione di ottobre contro il regime autocratico degli zar, «gli intellettuali che volevano una rivoluzione spirituale hanno scambiato per radicalismo dello spirito gli sconvolgimenti visibili e Lenin si è sbarazzato di essi con mezzi spicci, dopo essersi servito di loro» (V, p. 439). Lenin proclama la dittatura del proletariato. Maritain nella Lettera sull’indipendenza (25), analizzando gli schieramenti politici di destra e di sinistra operanti nella storia, e considerando il carattere psicologico degli uomini che militano in questi schieramenti, scrive: «Le situazioni si ingarbugliano per il fatto che a volte uomini di destra fanno una politica di sinistra e viceversa. Penso che Lenin sia un buon esempio del primo caso. Le rivoluzioni di sinistra fatte da temperamenti di destra sono le più terribili» (VI, p. 276). Maritain analizza le radici teoretiche del marxismo, ma considera anche le ricadute sociali nella vita dei popoli, denunciando le responsabilità del mondo occidentale, che per interessi di realismo politico collabora con i regimi comunisti. Nel 1932, nelle conclusioni de I gradi del sapere (17) a proposito della situazione nella Russia Sovietica scrive: «Più cinica e più brutale dell’educazione mediante il vuoto, sotto la quale il liberalismo occidentale asfissia l’infanzia, un’attenta chirurgia pedagogica opera le anime per cancellare in loro l’immagine di Dio; ma, nonostante tutto, questa immagine rinasce; un povero fanciullo che si crede ateo, se veramente ama ciò che ritiene come il volto del bene, si volge verso Dio, senza saperlo […]. È con rispetto che parliamo del popolo russo e della tragedia spirituale in cui è coinvolto» (IV, pp. 899-900). A riguardo della Cina, sottolineando le connessioni che nella storia si sono stabilite tra marxismo e darwinismo, dopo avere rilevato che «certe malattie, trasportate sotto altri climi, trovando organismi non immunizzati, diventano flagelli fulminanti» (III, p. 934), constata: «Nelle scuole primarie si insegna ai bambini dagli otto ai dodici anni la discendenza dalla scimmia nella forma più cruda, agli adolescenti dai dodici ai quindici anni il socialismo di Marx e il comunismo di Lenin, ai liceali l’empietà scientifica e agli studenti universitari l’ateismo russo nella formula di Gregorio Zinoviev (1883-1936): finiremo per 13 Cf. Lenin, Materialismo e empiriocriticismo, in Opere Complete, Editori Riuniti, Roma 1963, vol. XIV.

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

detronizzare Dio dal suo cielo! Non più religione, non più morale, non più legge, non più riti, non più genitori, non più maestri» (III, p. 935). Tutto questo nell’indifferenza del mondo occidentale, preoccupato solo dei suoi interessi economici. Troviamo in Maritain diversi rimandi agli ultimi discepoli di Marx, che tentano alcune varianti sul marxismo: György Lukács (1885-1971), filosofo ungherese che applica il marxismo alla critica estetica; Louis Althusser (1918-1990), filosofo algerino che, in una raccolta di scritti Per Marx (1965), riassume e rielabora gli insegnamenti di Marx, Lenin, Mao Tze-Tung. Roger Garaudy (1913), filosofo francese, recentemente convertitosi all’islam, che cerca possibili connessioni tra il marxismo e la religione. Nessuna particolare attenzione ai filosofi della Scuola di Francoforte, ma a Maritain interessa soprattutto la formazione del marxismo, e in questa ricerca si serve anche degli studi del teologo svizzero Georges Cottier14.

Ludwig Feuerbach Le radici storiche del marxismo vanno ricercate in Ludwig Feuerbach (1804-1872), «che ha trasferito l’ateismo dalla critica religiosa alla critica sociale, che ha determinato l’adesione di Marx al comunismo, perché la genesi del comunismo di Marx non è di ordine economico, come quella di Engels, ma di ordine filosofico e metafisico» (VI, p. 337). L’idea che il lavoro umano sia alienante a causa della proprietà privata è venuta dopo «l’idea feuerbachiana che la coscienza umana è disumanizzata dalla idea di Dio» (VII, p. 24). Feuerbach, nato in una famiglia luterana, dopo aver studiato teologia ad Heidelberg, attratto dal successo di Hegel, nel 1825 si iscrive all’Università di Berlino, dove segue i corsi di metafisica e di filosofia della religione e annota: «Bastò che per un semestre seguissi le sue lezioni e la mia testa e il mio cuore furono rimessi sulla loro via; io seppi ciò che dovevo e volevo: non teologia, ma filosofia! Non vaneggiare e fantasticare, ma imparare! Non credere, ma pensare!». Si laurea nel 1828 discutendo la tesi De ratione, una, universale, infinita, che consegna al Maestro con una lettera nella qua14 G. Cottier, L’athéisme du jeune Marx, ses origines hégéliennes, Vrin, Paris 1959; cf. G. Cottier, Itinéraire d’un croyant, CDL, Tours 2007.

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II. L’età delle ideologie

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le espone la sua convinzione della necessità che la filosofia, intesa come un idealismo panteistico, prenda il posto della religione. Ottenuta la libera docenza, tiene corsi su Cartesio e Spinoza in quella stessa università, ma la pubblicazione di Pensieri sulla morte e l’immortalità, in cui nega l’immortalità dell’anima, lo mette in conflitto con il corpo accademico e deve abbandonare i suoi corsi. Riesce ancora a pubblicare una Storia della filosofia moderna da Bacone a Spinoza, poi abbandona l’insegnamento per dedicarsi solo allo studio. Feuerbach è convinto che già nel rinascimento è avvenuta una progressiva emancipazione della filosofia dalla teologia e pubblica L’Essenza del cristianesimo (1841), a cui segue L’Essenza della religione (1846), suscitando nuove polemiche. Questi libri ebbero successo e fecero di lui non solo il leader della sinistra hegeliana, ma il punto di riferimento del movimento radicale tedesco. In queste due opere Feuerbach afferma che tutti i predicati che si attribuiscono a Dio sono riconducibili ai predicati che si attribuiscono all’uomo e pertanto sono relativi all’uomo e non possono essere estesi all’Assoluto. Maritain rileva: «Feuerbach afferma che l’idea di Dio e i dogmi religiosi non sono altro che una creazione spontanea del sentimento e del desiderio, per cui Dio non è che un nome che l’uomo dà a se stesso oggettivandosi. Dell’uomo stesso Feuerbach ha un’idea materialistica» (I, p. 1005); tanto che scrive, in una recensione del volume Teoria degli alimenti di J. Moleschott, un fisiologo positivista: «L’alimentazione umana è alla base della cultura. L’uomo è ciò che mangia […]. Gli alimenti si trasformano in sangue, il sangue nel cuore e nel cervello, nei pensieri e nei sentimenti, e se il popolo, in una rivoluzione futura, ricevesse migliori alimenti avrebbe migliori probabilità di successo» (ibid.). Secondo Feuerbach l’uomo trasferirebbe le qualità che trova in se stesso dalla sua soggettività all’oggettività. A ben guardare siamo di fronte al problema cruciale della conoscenza, alla relazione tra la soggettività del conoscere e l’oggettività del sapere, che solo il realismo critico risolve, senza assorbire Dio nella ragione. Ma questo problema gnoseologico non viene approfondito da Feuerbach che, nel suo antropocentrismo, sviluppando l’affermazione di Hobbes homo homini lupus, giunge ad affermare homo homini deus preparando la formula di Marx «l’uomo è per l’uomo l’essere supremo» (XIII, p. 212).

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

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Friedrich Engels Se in Feuerbach troviamo le radici filosofiche dell’ateismo di Marx, in Friedrich Engels (1820-1895) troviamo i presupposti economici della sua dottrina politica. Anche questo pensatore e uomo politico tedesco aveva rigettato il cristianesimo, dopo aver letto la Vita di Gesù di Friedrich Strauss (1808-1874), il capofila della sinistra hegeliana, che considera la religione un mito, ed essersi accostato alle posizioni di Feuerbach. Emigrato in Inghilterra per lavorare in una fabbrica di cui il padre era comproprietario, nel 1845 pubblica il suo primo libro, La situazione della classe operaia in Inghilterra, e l’anno seguente incontra Marx a Bruxelles e inizia una lunga collaborazione intellettuale e politica. Insieme, per incarico della Lega dei Comunisti, stendono il Manifesto del partito comunista. Fallita l’insurrezione, che analizza in Rivoluzione e controrivoluzione in Germania (1852), torna in Inghilterra a lavorare con un posto direttivo nella fabbrica del padre e aderisce all’Internazionale socialista. Influenzato dalle teorie di Henry Morgan (1818-1881), antropologo statunitense, che applica all’antropologia i criteri evoluzionisti di Darwin, ritiene che le istituzioni sociali dipendano e possano essere modificate dal divenire della storia, e nell’opera Dialettica della natura (1885) sostiene che le leggi della filosofia hegeliana sono le leggi dell’evoluzione. È proprio Engels a proclamare di «rimettere sui suoi piedi» (XII, p. 806) la logica hegeliana, trasformando la dialettica dell’Idea nella dialettica della Materia, per cui tutti i fenomeni della vita sociale, la religione, la filosofia, la politica, l’arte non sono che epifenomeni dell’economia e dell’evoluzione storica. Grazie a questa evoluzione lo Stato è destinato a sparire, come pure tutte le divisioni in classi, in una totalità sociale senza gerarchia, dove tutti gli uomini saranno eguali. Ecco come Engels applica la dialettica hegeliana all’analisi sociologica: al principio c’era una proprietà comune del suolo (tesi), poi si passò alla proprietà privata individuale e familiare (antitesi) e ora si torna ad un livello superiore alla proprietà comune collettiva (sintesi). Engels è anche affascinato dal positivismo di Comte, ma la sua guida intellettuale rimane Hegel, se in una lettera del 7 luglio 1866 a Marx scrive: «I francesi e gli inglesi sono attratti da questo nome, ciò che li seduce è il carattere enciclopedico, la sintesi. Tutto questo è disdicevole se si paragona Comte ai lavori di Hegel» (XI, p. 698). Sul piano filosofico si delinea il materialismo dialettico, perché En-

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II. L’età delle ideologie

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gels, quando affronta i problemi della conoscenza, non fa alcun riferimento ad un’attività spirituale del soggetto conoscente, parlando solo di «riflessi della realtà oggettiva nella coscienza» (XI, p. 598) e perché per lui, come scrive testualmente, «la libertà consiste nel comprendere la necessità» (XI, p. 642).

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Karl Marx Il più importante filosofo del socialismo scientifico, Karl Marx (1818-1883), nasce a Treviri, da famiglia ebrea convertitasi al protestantesimo, studia prima diritto e poi filosofia a Berlino, dove stringe amicizia con i giovani hegeliani. Si laurea a Jena nel 1841 con una tesi su Differenze tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro. Fa il giornalista e, convinto che la società politica debba essere rappresentativa dell’intera società civile, propone le elezioni politiche a suffragio universale. Nel 1843 si trasferisce a Parigi, incontra Engels a Bruxelles, entra in contatto con i circoli socialisti e comunisti, e partendo da Feuerbach estende il concetto di alienazione dalla religione all’economia e alla politica, affermando che la proprietà privata disumanizza l’uomo, lo priva della sua dignità, espropriandolo del prodotto del suo lavoro. Il distacco dal socialismo utopistico avviene con le Tesi su Feuerbach, scritte nel 1845 ma pubblicate da Engels solo nel 1888. Espulso dalla Francia su richiesta della Prussia, ripara a Bruxelles, dove nel 1847 scrive contro Proudhon Miseria della filosofia e insieme ad Engels prepara il Manifesto dei comunisti che viene pubblicato a Londra nel 1848 e, adottato dalla Prima Internazionale nel 1864, si diffonde in tutto il mondo. La loro collaborazione si definisce meglio nel volume La sacra famiglia, nel quale irridono alla carità borghese, rifiutano il socialismo di Stato, proclamano che il comunismo è una filosofia e che solo il materialismo può liberare l’uomo dall’alienazione e dallo sfruttamento. Nel volume L’ideologia tedesca prendono le distanze da Hegel, il socialismo sarà il risultato di una evoluzione storica quando la classe operaia prenderà coscienza della sua missione. Nella conferenza Il crepuscolo della civiltà (29) Maritain analizza questo processo storico: «In Marx, la genesi del comunismo è di ordine filosofico, deriva dagli impulsi ricevuti dalla sinistra hegeliana e da Feuerbach. Nella concezione di Marx l’idea che il lavoro umano viene disumanizzato dalla proprietà privata è derivata dall’idea di Feuerbach che la coscienza umana è disumanizzata dall’idea di Dio.

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

Ad un livello più profondo, la teoria del materialismo storico veicola una posizione ateistica assoluta; essa implica, infatti, un processo universale di sostituzione del movimento dialettico della storia ad ogni causalità trascendente e all’universo del cristianesimo; comporta, di conseguenza, l’idea che il mondo della natura e quello umano sono un divenire, che si pone di per se stesso, e questa idea esclude ogni esistenza di Dio» (VII, p. 24).

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Il primato della prassi L’approccio di Maritain al marxismo è più filosofico che politico, va subito al cuore della problematica epistemologica e rileva il pragmatismo intrinseco a quel filosofare, che finisce per approdare ad un falso realismo: «Sulla base della convinzione che conoscere significa trasformare, Marx fonde in un’unica essenza il filosofo e l’uomo di azione, riconosce come autentico filosofo soltanto colui che milita per la rivoluzione. Ogni filosofo che non sia un pensatore rivoluzionario viene così rigettato a priori fra gli pseudo-pensatori. Tale idea della coscienza, consistente, nella sua stessa essenza, in un processo trasformatore del mondo (una delle idee più profonde in Marx e senza dubbio la più rivoluzionaria), a mio giudizio, è un errore che svuota ogni libertà spirituale e ogni vera filosofia. Da essa consegue che tutto quanto il pensiero è coinvolto nel movimento stesso dell’azione transitiva e della dialettica del divenire, tutto intero immerso nella storia. Agli occhi di un metafisico abbiamo qui la quintessenza dell’immanentismo e del materialismo di Marx» (VI, pp. 255-256). Maritain si richiama ad Aristotele e alla sua distinzione tra conoscenza speculativa (conoscere per conoscere) e conoscenza pratica (conoscere per agire, al servizio della prudenza o conoscere per fare al servizio dell’arte). Marx disconosce questa distinzione, per lui «ogni conoscenza è essenzialmente trasformatrice delle cose e la sua verità consiste nel suo verificarsi nella prassi» (VI, p. 926). Così l’uomo non è ciò che è, o ciò che pensa, ma è ciò che fa, e Marx identifica questa tesi nella dialettica hegeliana applicata alla materia. Nelle sue Tesi su Feuerbach si può leggere all’undicesima: «La questione di sapere se il pensiero umano può raggiungere una verità oggettiva non è una questione teorica, ma una questione pratica. È nella prassi che l’uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà, la potenza, la precisione del proprio pensiero. La controversia sulla realtà o non realtà del pensiero, isolato dalla prassi, è una questione

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II. L’età delle ideologie

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puramente scolastica. I filosofi non hanno fatto altro finora che dare diverse interpretazioni del mondo, ciò che importa è trasformarlo» (VI, p. 345). Così la filosofia coincide con la storia, il pensiero con il divenire. «Ciò che è più grave nel marxismo è il fatto che ci presenta un filosofo che precipita la filosofia nell’attività pratica, sociale e politica» (VII, p. 200). Il marxismo non solo ordina il pensiero all’azione, ma identifica il pensiero nell’azione come tale, «fa consistere la conoscenza stessa in un’attività sulle cose, un’attività di lavoro e di dominazione della materia e di trasformazione del mondo» (VII, p. 229). Maritain analizza i «due caratteri dell’epistemologia marxista che si possono chiamare praticismo e dialetticismo» e rileva che «il modo con cui Marx afferma l’uno e l’altro significa la distruzione della scienza» (VII, p. 228). Infatti Marx «non ordina solamente all’azione la conoscenza come tale, ma fa consistere la conoscenza stessa nell’azione […] in un’attività di lavoro e di trasformazione del mondo» (ibid.). Marx «pretende di trovare nelle scienze stesse il processo tipico della dialettica: l’automovimento del concreto per negazione della posizione precedente», risolvendo la scienza nella sua storia. «Questo processo consiste nel servirsi della storia di una cosa per conoscere la natura della cosa, per spiegare la cosa stessa con la sua storia» (VII, p. 230). Ma la poesia non è la storia della poesia, la fisica non è la storia della fisica. Questi due aspetti, la prassi e la dialettica, si intersecano e si condizionano reciprocamente, perché il successo di cui parla Marx non è la riuscita individuale, come nel pragmatismo americano: «Non si tratta, affatto, di una concezione pragmatistica che sostituisca il rendimento pratico all’adeguazione alla realtà, per definire la verità. L’operazione è più sottile e radicale insieme. È la verità stessa, l’adeguazione alla realtà, che è resa dipendente dalla prassi; e cambia, in un senso o nell’altro, in ragione del fine pratico verso cui si muove, in quel momento, il sapere dialettico» (XI, p. 627). I valori vengono così storicizzati. «Verità, giustizia, bene, male, fedeltà, tutte le norme della coscienza, oramai rese perfettamente relative, non sono più che delle forme mutevoli del processo della storia, allo stesso modo che per Cartesio esse non erano che delle creazioni contingenti della libertà divina» (XI, p. 639). La verità muta a misura che il tempo trascorre.

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Il rovesciamento dell’hegelismo e la riabilitazione della causalità materiale Maritain analizza la posizione di Marx nella storia della filosofia, cercando di valutare il significato del ritorno al realismo dopo l’illuminismo e l’idealismo: «Ciò che ha innanzitutto motivato il capovolgimento marxistico, è stato l’istinto realista proprio dell’intelligenza, una forte reazione del senso comune, convinto del primato della cosa sull’idea e che non dubita del fatto che l’oggetto dell’intelletto umano sia la realtà extranozionale. Ma fin dall’inizio questo realismo è stato concepito come un materialismo, la realtà extramentale è stata confusa con la materia» (XI, p. 598). Si poteva ritornare all’ilemorfismo di Aristotele, raccordando la causalità materiale alla causalità formale ma «da più di due secoli, dopo Malebranche e Spinoza, i filosofi avevano preso l’abitudine di considerare la coppia soggetto-oggetto come equivalente alla coppia pensiero-materia» (XI, p. 599). Per di più Marx veniva da una formazione hegeliana, apparteneva alla sinistra hegeliana, per lui «una concettualizzazione di questo genere era semplicemente impossibile: da un lato perché la sua avversione per ogni forma di trascendenza gli impediva di riconoscere l’autonomia dell’elemento spirituale nell’uomo e nella storia umana; dall’altro lato perché, incorporando la dialettica hegeliana nel reale extranozionale, egli cercava di capire il dinamismo della realtà nella prospettiva dell’automovimento del discorso. Di conseguenza la relazione di causalità reciproca nel senso aristotelico veniva esclusa e sostituita dalla relazione dialettica» (XI, p. 600). Mentre Hegel fa emergere dallo sviluppo dell’Idea la natura e l’umanità, Marx fa uscire dall’evoluzione della Natura l’umanità e l’idea. Il marxismo risulta così un hegelismo rovesciato, di cui conserva il monismo e lo sviluppo dialettico per opposizione, ma attribuisce alla materia tutte le caratteristiche che Hegel aveva attribuito allo spirito. Esiste un unico essere, che è materia e, in questo unico essere, i singoli individui, come in Spinoza, sono modi di essere, inconsistenti, provvisori, immersi nel divenire evolutivo. La materia non è una massa statica, ma è una realtà dinamica, vivente, animata dalla dialettica della tesi e dell’antitesi, che si risolve in una sintesi, che diventa tesi di un’ulteriore antitesi, per cui l’essere non è in divenire, ma è il divenire. Essere e divenire coincidono, l’essere è in quanto assolutamente diviene il suo opposto; essere e non essere, vero e falso, bene e male si condizionano reciprocamente nel continuo

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II. L’età delle ideologie

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divenire. Marx conferma lo storicismo di Hegel, il suo è un materialismo dialettico. «È ben chiaro che il materialismo di Marx non è il materialismo volgare, né quello dei materialisti francesi del XVIII secolo, né il materialismo meccanicistico, ma, avendo una qualità tutta hegeliana, e confondendosi con un immanentismo perfetto è, per un metafisico, più reale e più profondo» (VI, p. 345). Si tratta di un immanentismo realista assoluto che rivaluta la causalità materiale, ma esclude dal divenire storico le altre cause, rovesciando la posizione hegeliana che aveva risolto tutto nella causalità formale. «L’assurdo misconoscimento idealistico della causalità materiale doveva condurre, per reazione, ad una rivincita di quest’ultima, giustificata nella sua origine, ma ugualmente insostenibile nei suoi risultati; perché le due causalità sono richieste insieme come principio di spiegazione della realtà» (VI, p. 347). Tutto nasce dalla materia in evoluzione, non sono dunque il pensiero e la coscienza a determinare la vita e la storia, ma al contrario è il divenire a determinare la vita in evoluzione, che genera l’uomo, le società, le civiltà. L’economia diventa l’anima dello sviluppo della società, tutti gli altri processi socioculturali, la filosofia, l’arte, la religione, diventano strutture secondarie ininfluenti, che Marx chiama sovrastrutture. Maritain in Umanesimo integrale (17) osserva: «Capisco bene che è necessario rivedere l’interpretazione corrente del materialismo storico, secondo la quale tutta l’ideologia della vita spirituale non è che un epifenomeno dell’economia. È questa l’interpretazione del marxismo volgare, ed è ben lungi dall’essere trascurabile, perché è diventata una forza storica. Marx però vedeva le cose con maggiore profondità […] egli ha creduto sempre ad un’azione reciproca tra i fattori economici e gli altri, l’economico considerato a sé non era dunque per lui l’unica energia della storia» (VI, p. 346). Tuttavia, approfondendo l’analisi, Maritain precisa alcuni snodi fondamentali del marxismo: «Da una parte l’intuizione delle condizioni di alienazione fatte nel mondo capitalistico alla forza-lavoro e della disumanizzazione da cui il possidente e il proletario simultaneamente sono colpiti, Marx l’ha concettualizzata in una metafisica monistica, dove il lavoro ipostatizzato diventa l’essenza stessa dell’uomo e dove, recuperando la propria essenza mediante la trasformazione della società, l’uomo è chiamato a rivestire gli attributi, che l’illusione religiosa attribuiva a Dio» (VI, p. 348), «dall’altra parte, se il fattore economico, isolato in sé, non è per Marx l’unica energia della storia, rimane il fatto che il dinamismo essenziale da cui procede l’evoluzione, es-

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

sendo quello delle contraddizioni economiche e degli antagonismi sociali del regime di produzione, è il fattore economico a svolgere la parte primariamente determinante rispetto alle diverse sovrastrutture in azione reciproca con esso» (VI, p. 349). Terzo, di conseguenza, «queste sovrastrutture perdono ogni autonomia propria; per esistere nella storia e per agirvi non solamente sono condizionate dall’economico e dal sociale, ma ne derivano la loro determinazione primaria e ne ricevono il loro senso, il loro reale significato per la vita umana» (VI, p. 351). Marx scrive in L’ideologia tedesca: «La morale, la religione, la metafisica e ogni altra forma ideologica, e le forme di coscienza che ad esse corrispondono, non conservano la loro autonomia, non hanno storia, non hanno sviluppo […]. Non è la coscienza che determina la vita, ma è la vita che determina la coscienza» (XI, p. 601). Maritain in Per una filosofia della storia (51) descrive la filiazione da Hegel del materialismo dialettico: «In Marx come in Hegel si trova sostanzialmente la stessa idea e lo stesso idolo; in ultima analisi, infatti, la dialettica marxistica è la stessa dialettica hegeliana che passa dal mondo dell’Idea al mondo della materia. Questa derivazione hegeliana è la sola spiegazione dell’espressione “materialismo dialettico”. La materia stessa per il marxismo è attivata e pervasa da un movimento logico, dialettico. In altri termini, nell’idealismo hegeliano si trovano degli enti di ragione, quegli enti di cui si occupa la logica – in cui consiste la realtà, in virtù della conoscenza sperimentale forzatamente introdottavi – inabitata nella realtà; mentre nel marxismo si trova la realtà, o la materia, inabitata dagli enti di ragione» (X, p. 632). Poi precisa: «La filosofia marxista della storia altro non è che la filosofia della storia di Hegel divenuta atea, invece di essere panteista, e che vede la storia avanzare verso la divinizzazione dell’uomo in virtù del moto dialettico della materia» (X, p. 633). Ma poiché l’uomo, nella lotta per la sua esistenza contro le forze della natura, deve associarsi ad altri uomini per trovare nuovi mezzi di produzione dei beni di consumo, la storia dell’umanità è la storia economica dell’evoluzione dei mezzi e dei modi di produzione, che Marx analizza e valuta secondo la legge hegeliana della dialettica per contrapposizione.

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II. L’età delle ideologie

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La società capitalistica, il plusvalore e la lotta di classe Secondo Marx in ogni tipo di società si possono distinguere due classi contrapposte: i proprietari degli strumenti di produzione e coloro che li usano. Le società variano e si modificano con il variare delle forme e dei mezzi di produzione. La sua filosofia della storia individua le grandi fasi dell’evoluzione dell’umanità. Nella comunità primitiva, quando gli uomini usano strumenti di pietra, cacciano la selvaggina e vivono in comune, la proprietà era collettiva. Con l’inizio dell’agricoltura e l’uso di strumenti di metallo come l’ascia e l’aratro, i più forti si spartiscono le terre e nasce il latifondo e si ha un regime di schiavitù. Nel regime feudale, grazie all’invenzione di strumenti per il lavoro artigianale, si costituisce la piccola proprietà accanto alla grande proprietà terriera; ma con l’invenzione della macchina e la necessità di grandi capitali nasce la grande industria. In questa situazione economica il possesso dei mezzi di lavoro è concentrato nelle mani di pochi proprietari, e la massa dei lavoratori è costretta a vendere la propria forza-lavoro, che diventa così una merce. Si è determinata una situazione storica in cui alla società di produzione di modo collettivo si contrappone una società di consumo ancora a base individuale e familiare, con grande svantaggio per i lavoratori. Secondo Marx si può porre rimedio a questa ingiustizia solo con la collettivizzazione anche dei consumi, e sarà lo stesso capitalismo a creare le premesse per l’avvento di una società comunista. Bisogna sostituire ad un’economia dove il lavoro aumenta il capitale, dove l’economia è fine a se stessa, e impoverisce il lavoratore, dove si giunge ad una sovraproduzione con grande riserve di beni e pochi acquirenti, un’economia socializzata nella quale il capitale sia utilizzato per migliorare il tenore di vita dei lavoratori. Maritain nella conferenza Gli ebrei tra le nazioni raccolta nel volume Il mistero di Israele (59) rileva che anche in Marx c’è una forma di antisemitismo, perché egli ritiene che ci sia «una specie di pre-adattamento e di mutuo concorso tra lo spirito di avventura ebraico e lo spirito di avventura capitalista e che in nessuna parte la giudaicità sia più in casa che nella civiltà capitalista» (XII, p. 489). La lotta di classe implica la necessità di usare la violenza. Marx la legittima moralmente, in una sorta di nuovo machiavellismo, perché, anche per lui, il fine giustifica i mezzi. «La constatazione che la forza è la levatrice della storia pone per Marx un solo problema, quello di poterla conquistare» (VI, p. 570). La lotta di classe e la dit-

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

tatura del proletariato sono una necessità storica, perché «il proletariato ha la missione sacra di salvare il mondo» (VI, p. 414) e solo quando tutto il mondo sarà conquistato al comunismo sarà possibile la pace. Maritain rileva che Marx ha operato nella società una sorta di secessione di una parte rispetto al tutto «e ha chiesto agli operai di tutto il mondo di non cercare altro bene comune che quello della propria classe» (XI, p. 39) sostituendo al concetto di popolo come corpo politico il concetto di classe, proprio come il nazionalsocialismo sostituisce al concetto di popolo il concetto di razza. Maritain, in uno dei suoi ultimi scritti, Una società senza denaro (XVI, pp. 1137-1152), osserva che è un’illusione credere alla fecondità del denaro e che il concetto di plusvalore non è un concetto solo marxistico, perché già la Chiesa per un certo tempo aveva ritenuto illecito il guadagno ottenuto con gli interessi sul capitale. Infatti «la somma di cui si tratta, stabilita prima ad un certo tasso di rendimento, non può essere in realtà che un prelievo su quanto dovuto al lavoro dell’uomo. È questa la qualità che caratterizza il regime capitalista. Questo concetto non è stato inventato da Marx; egli non aveva che da constatarlo, come possiamo fare noi, se abbiamo occhi per vedere. Ciò che è proprio di Marx è di averne fatto, proclamando la lotta di classe, uno strumento per la sua rivoluzione» (XVI, p. 1150). «Tanto quanto Marx, anche san Tommaso ha la percezione dell’umiliazione inflitta all’uomo dall’alienazione del lavoro al profitto altrui, che Tommaso chiama servitù» (VIII, p. 89). Il marxismo promette, attraverso la lotta del proletariato, una liberazione dell’uomo, e risolve il problema con la violenza, trasferendo allo Stato ogni forma di proprietà. Maritain osserva che malgrado il profitto sia il male radicale del capitalismo, è preferibile vivere in libertà in un regime capitalista, cercando degli strumenti per rimediare ai danni provocati dalla ricerca del profitto, piuttosto che in un regime comunista, il quale come regime totalitario, come dittatura del proletariato, toglie all’uomo la libertà, che è il dono più prezioso della persona umana.

L’antropologia dell’uomo collettivo Il marxismo vorrebbe liberare la persona umana dalla sua alienazione, dovuta all’organizzazione capitalistica del lavoro, che fa del denaro un valore assoluto, ma, a causa della sua filosofia, finisce per negarle la dignità, l’identità personale, riducendola ad un modo di essere del tutto collettivo e, a causa della sua politica, la subordi-

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II. L’età delle ideologie

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na allo Stato e al partito unico che vi si identifica. Marx scrive nelle tesi su Feuerbach: «Il materialismo storico considera che la vera natura umana è costituita dalla sua attività sociale» (VI, p. 500) e Maritain commenta: «Di qui la sua concezione immanentistica del lavoro considerato come una specie di sostanza comune e assoluta, ove si attualizza l’essenza dell’uomo e che non è messa in rapporto né a oggetti, né all’attività creatrice della persona» (ibid.). L’analisi è molto precisa: «Come ogni uomo, soprattutto come ogni grande uomo di azione, Marx credeva praticamente nel libero arbitrio, cioè in quella padronanza della volontà sui propri atti, mediante la quale la volontà domina interiormente tutto il condizionamento dei suoi atti, ma speculativamente la sua filosofia gli interdiceva questa credenza spiritualistica e riduceva la libertà dell’uomo alla spontaneità di un’energia vitale che, mediante la presa di coscienza del movimento della storia, diveniva la forza più efficace e più profonda di questa» (VI, p. 439). «L’uomo, agli occhi di Marx, non è un prodotto passivo dell’ambiente, l’uomo è attivo, agisce sull’ambiente per trasformarlo, ma nel senso fissato dall’evoluzione economica e sociale» (ibid.). Fa parte anche lui del determinismo universale, per cui la libertà è un postulato fittizio della filosofia, perché chi esiste, non è la singola persona, ma è l’umanità nella sua interezza in un dato momento storico del divenire dialettico, il singolo è solo un modo di essere. In realtà, il marxismo non può ammettere la libertà di scelta, ma solo la libertà di chi aderisce al divenire della storia. Maritain precisa: «Marx cerca una libertà infinitamente più ambiziosa, perché per lui la volontà umana è, a dire il vero, l’unico spirito della storia, di una storia, che nessun Dio trascendente governa dall’alto; e quando la volontà umana sarà uscita dal suo stato di alienazione, la storia tutta intera andrà dove la volontà umana vuole, sarà il Dio della storia, farà la storia da sovrana assoluta» (VI, p. 441). Osserva, inoltre, che la liberazione finale con la fine dello Stato resta un’illusione politica, proprio per la collettivizzazione dei mezzi di produzione: «La liberazione che esso si propone sarebbe in realtà la liberazione dell’uomo collettivo, non della persona individuale; e se supponiamo che alla fine lo Stato sia abolito, in compenso la società come comunità economica subordinerebbe a sé tutta la vita delle persone» (IX, p. 229). Ma, a prescindere da queste considerazioni, etico-sociologiche, Maritain rileva che Marx svaluta la stessa attività intellettuale dell’uomo. «A differenza di ogni realismo autenticamente filosofico, il realismo marxista non ha alcuna idea dell’attività specifica dello spirito nell’opera

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

di conoscenza e della libertà di movimento con la quale l’intelligenza produce in se stessa, compone, divide, manipola i suoi concetti, al fine di rendersi, attraverso essi, conforme alla realtà» (XI, p. 619). Per Marx la nostra conoscenza è solo un riflesso della realtà nello specchio del nostro cervello, e Lenin considera i concetti una copia, una fotografia, della realtà, come un doppione delle cose, alla maniera di Cartesio. Per il marxismo «il fatto che gli oggetti conosciuti, proprio in quanto conosciuti, abbiano una loro vita nello spirito umano, che è caratteristica dell’universo della logica, viene completamente ignorato» (XI, p. 620). Tutta l’attività dell’uomo è risolta nell’attività sociale, per realizzare il comunismo, che per Marx è il compiuto umanesimo; come scrive nei Manoscritti economico-filosofici è «la vera soluzione del contrasto dell’uomo con la natura, e dell’uomo con l’uomo, la vera soluzione del conflitto tra esistenza ed essenza, fra oggettivazione e affermazione soggettiva, fra libertà e necessità […] è risolto l’enigma della storia» (XI, p. 641).

La morale comunista Maritain constata: «La prospettiva di Hegel era innanzitutto metafisica, quella di Marx innanzitutto sociale, nessuno dei due ha scritto un trattato consacrato all’etica, tuttavia i problemi e la dottrina del comportamento umano occupano un posto nelle loro riflessioni» (XI, p. 656). L’affermazione di Benedetto Croce secondo cui «dissertare sull’etica secondo Marx è fatica vana per mancanza di materia»15 è inesatta. Avere considerato l’etica una sovrastruttura non impedisce a Marx di avere un’etica, pur facendola un semplice riflesso dell’infrastruttura economica, pur rifiutando «nozioni come quella di giustizia, di diritto naturale, di verità eterna, di precetto immutabile, nozioni ritenute contaminate di platonismo e di ipocrisia» (XI, p. 657). Anche Marx ha il suo «imperativo categorico che risulta dal fatto che l’uomo è l’essere supremo per l’uomo […] un imperativo etico, perché l’uomo è la suprema necessità della storia» (XI, p. 659). In base allo storicismo, per cui non esistono valori assoluti, non può esistere un dover essere, ma, osserva Maritain, «qui abbiamo a che fare con il santo dei santi, con l’anima hegeliana del marxismo» (ibid.), perché l’uomo è il sommo legislatore e tutto quanto avviene nella storia è per il suo bene, e cita una riflessione 15

B. Croce, Materialismo storico ed economia marxista, Laterza, Bari 1944.

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II. L’età delle ideologie

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di Garaudy: «La morale sarà veramente laicizzata solo se rinuncerà all’opposizione metafisica tra bene e male, a questo dualismo che non è che l’ombra terrestre della religione»16. Marx ed Engels credono «alla bontà naturale degli uomini, alla loro uguaglianza di attitudini intellettuali, all’onnipotenza dell’esperienza, dell’abitudine, dell’educazione»; secondo loro l’ingiustizia, lo sfruttamento nascono dalle strutture sociali; così criticano «l’ipocrisia della morale borghese, la sua buona coscienza, le sue sanzioni legali, che trattano il criminale come una pura libertà astratta» (XI, p. 659). Il male non è nell’uomo, ma nella società borghese, che bisogna abbattere. «Le virtù fondamentali sono quelle richieste dallo sforzo per l’avvento del comunismo: la solidarietà di classe, la disciplina, l’odio inesorabile contro ogni oppressione e sfruttamento, l’entusiastico dono di se stessi alla costruzione della società comunista» (XI, p. 674). Alla fine di questa lotta l’uomo troverà la pienezza della libertà: «Io non lavorerò più per vivere, il mio lavoro sarà la mia vita. La produzione, diventata umana, non sarà più che un’oggettivazione dell’individuo» (XI, p. 671). Ne consegue che «la morale marxistica è una morale escatologica» (XI, p. 665), cerca il Regno di Dio nella storia. Maritain rileva la contraddizione della morale marxiana che vuole essere insieme relativista, perché non esistono valori assoluti, in quanto la moralità è una categoria storica, che cambia con il mutarsi della situazione socioeconomica, e fondamentalista «perché impone i suoi precetti (per quanto variabili essi siano, a seconda delle fasi dello sviluppo) in modo incondizionato» (XI, p. 675) e conclude: «Dal punto di vista veramente etico, domandare all’uomo di sentirsi assolutamente obbligato in coscienza ad una condotta il cui oggetto non comporta in sé alcuna bontà intrinseca e risponde soltanto ad un interesse sociale momentaneo o al movimento della storia, è una sfida alla ragione come alla dignità della coscienza» (XI, p. 676).

L’ultima eresia cristiana Maritain vede nel comunismo un’eresia cristiana17, in se stessa contraddittoria, perché da una parte vuole realizzare la solidarietà tra 16

R. Garaudy, Le Communisme et la morale, Editions Sociales, Paris 1945, p. 17. Gli Stati totalitari-nazionali, eredi del vecchio antagonismo dell’Impero pagano contro il Vangelo, rappresentavano una forza esterna eretta contro il cristianesimo per asservirlo o annientarlo in nome del Potere politico divinizzato. «Al contrario, nonostante la filosofia materialista nella quale si concettualizza e che gli travisa il proprio 17

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

gli uomini e tra i popoli, mentre dall’altra è legato al filosofie come l’hegelismo e il marxismo che sono delle teologie rovesciate; nel Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente (42) si domanda: «Il panlogismo di Hegel è stato il supremo sforzo della filosofia moderna di assorbire tutti i cieli dello spirito nell’assolutismo della ragione. E dopo si è avuta la disperazione della ragione, ma di una ragione sempre posseduta, sempre ferita dall’ossessione teologica, diventata ossessione antiteologica. Quando Feuerbach ha dichiarato che Dio era creazione e alienazione dell’uomo, quando Nietzsche ha proclamato la morte di Dio, essi sono stati i teologi delle nostre filosofie contemporanee. Perché sono così carichi di amarezza, se non perché si sentono incatenati, loro malgrado, ad una trascendenza e ad un passato che debbono sempre uccidere e nella cui negazione affondano le loro stesse radici?» (IX, p. 131). «L’ateismo è il termine finale della dialettica interna dell’umanesimo antropocentrico» (IX, p. 368). Charles Péguy aveva iniziato il giovane Maritain al socialismo sulla base di un criterio morale, insegnandogli che la rivoluzione sarà morale o non sarà vera rivoluzione. Al termine della vita Maritain deve constatare il fallimento di questa prospettiva socialista: «Di fatto la rivoluzione si è prodotta nella forma di una rivoluzione marxista e atea, in una certa parte del mondo, in Russia. È qui che la rivoluzione ha avuto luogo ed è stata una rivoluzione interiormente corrotta, non, quindi, la rivoluzione etica di Péguy, ma la rivoluzione materialistica di Lenin» (X, p. 669). Questa rivoluzione si è diffusa in tutto il mondo, in Asia, nell’America Latina, in Africa, contaminandosi anche con il capitalismo come in Cina. Maritain constata, non senza tristezza: «La possibilità di vedere prodursi, ora, una rivoluzione péguystica, se così posso dire, una rivoluzione sociale cristiana, è sparita dalla storia […]. Ciò che i cristiani debbono fare oggi non è sognare una rivoluzione sociale cristiana, ma sforzarsi di fare prevalere l’ideale cristiano nei progressivi adattamenti secondo i quali il mondo non comunista attuerà i cambiamenti richiesti da quella stessa giustizia sociale che è stata il vero stimolo della rivoluzione comunista, anche se l’ideologia di quest’ultima non ha permesso di significato essenziale, il comunismo, che si situa nella linea storica del razionalismo moderno, dell’umanesimo antropocentrico e delle aspirazioni democratiche passate sotto l’obbedienza immanentista (e in lotta ideologica con le proprie fonti cristiane), in realtà deve essere considerato come un’eresia cristiana, l’ultima e del tutto radicale eresia cristiana», «donde consegue che i comunisti e i cristiani hanno cattiva coscienza gli uni verso gli altri» (IX, p. 233).

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II. L’età delle ideologie

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farne menzione» (ibid.). La rivoluzione comunista «si è condannata ad un’opera distruttiva, che voleva cambiare la faccia della terra, senza prima cambiare il proprio cuore» (V, p. 439). Alla radice della rivoluzione socialista Maritain vede il primato dell’azione sulla contemplazione cioè «il primato faustiano dell’azione in Marx e la prassi considerata come criterio di verità» (XII, p. 806). La filosofia della prassi è diventata l’ideologia del partito comunista, tanto che Antonio Gramsci (1891-1937) giunge a scrivere: «Ogni filosofia è una politica e ogni filosofo è essenzialmente un uomo politico» (XI, p. 630) e Lukács precisa, in coerenza con il materialismo dialettico, che «il criterio di valutazione non è il semplice successo, ma il successo voluto dalla storia» (XI, p. 683). Infine nel suo giudizio sugli avvenimenti della storia moderna Maritain ritorna a sottolineare la responsabilità dei cristiani e cita questa riflessione del filosofo russo Nikolaj Berdjaev: «La posizione del mondo cristiano di fronte al comunismo non è solo la posizione di colui che porta in se stesso la verità eterna e assoluta; è anche la posizione del colpevole, che non ha saputo realizzare questa verità e che l’ha tradita» (V, p. 426). La critica di Maritain al comunismo si basa sulla filosofia politica di san Tommaso, secondo la quale la proprietà è, per sua natura, privata, in ragione stessa della produzione cioè della recta ratio factibilium (la virtù dell’arte), mentre l’uso di questa proprietà deve essere comune per la recta ratio agibilium (la virtù della prudenza). Maritain sviluppa: «La legge dell’appropriazione personale (in forma individuale o associata) è altrettanto importante della legge dell’uso comune» (VI, p. 499). Rileva come il capitalismo e il comunismo abbiano alterato le condizioni del fare umano che possono essere soddisfatte solo nella libertà, nell’amicizia civile, con una politica economicamente avveduta. Il comunismo porta al collettivismo e alla tirannide, perché nella società socialista «se l’individuo si prende cura della buona gestione dei beni, non è perché egli sia direttamente responsabile dell’opera stessa, che produce, che non è più la sua cosa, e la cui riuscita e il cui naufragio non lo tocca più, non lo interessa più; ma è perché è responsabile davanti alla collettività, di cui è servitore, di fronte ad altri uomini che lo castigheranno, se svolge male il suo compito» (V, p. 506). Per Marx è la società, organizzata in Stato, non la coscienza responsabile davanti a Dio, ad essere il punto fondamentale di riferimento. In questo senso Maritain scrive: «Il marxismo resta tributario del messianismo utopico inerente, fin dall’inizio, alla tradizione sociali-

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sta. A dispetto delle esigenze teoriche della dialettica, vede sorgere dai conflitti della storia una umanità comunista, che appare come il punto conclusivo, dove tutto sarà riconciliato, come nel Verbo di Dio» (VI, p. 361). Il marxismo vuole realizzare sul piano della natura e della storia quell’umanità perfetta, che si potrà realizzare ad opera della grazia di Dio sul piano della soprannatura solo alla fine della storia nel Regno di Dio. «Nella lotta di classe e in questo messianismo escatologico è stata falsata la presa di coscienza della dignità della classe operaia. Questo culto dell’assoluto nella storia segna il passaggio dall’hegelismo rudimentale del nazionalsocialismo, che aveva divinizzato la razza, ad un hegelismo più profondo, che divinizza la classe proletaria nel divenire dialettico della lotta di classe» (VI, p. 414). L’errore dei socialismi consiste nella convinzione di poter modificare e migliorare l’uomo modificando le strutture sociali: «L’ambiente è qualche cosa di esteriore all’uomo, non è per nulla l’uomo stesso. Nel migliore ambiente possibile l’uomo stesso, con le sue grandezze e le sue miserie, non potrebbe essere cambiato di un solo iota» (XVI, p. 1144). Secondo Maritain il male non è solo nelle strutture sociali sbagliate, ma soprattutto nel cuore dell’uomo, che solo la grazia e la misericordia di Dio possono rimediare.

7. Lo spiritualismo italiano Come in Francia, anche in Italia troviamo un indirizzo filosofico che parte dall’illuminismo e si propone lo studio dell’origine delle idee. I filosofi di questa scuola furono detti “ideologi” e nella loro difesa dell’attività dello spirito, inderivabile dall’esperienza, si avvicinano a Kant, che, non conoscendo direttamente, ma attraverso traduzioni imperfette o da citazioni di altri pensatori, spesso fraintendono, sempre però evitando di chiudere la conoscenza nei limiti del fenomeno. Iniziata da Melchiorre Gioia (1767-1829) nel Collegio Alberoni di Piacenza, centro di diffusione e di critica del sensismo, questa scuola trovò con Giandomenico Romagnosi (1761-1835) una posizione di equilibrio tra l’empirismo e il razionalismo, indicando il processo gnoseologico in una componenza di senso e di intelletto. L’inizio del conoscere è nella sensazione, perché nulla vi è di innato, se non la capacità di conoscere, ma la sensazione da sé non fa conoscenza se non interviene, con le sue forme a www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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II. L’età delle ideologie

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priori, lo spirito, che se è una tabula rasa, non è però passività, bensì attività. Ma il vero iniziatore dello spiritualismo è Pasquale Galluppi (1770-1846), docente dell’Università di Napoli, che scrive la prima storia italiana della filosofia moderna con le Lettere filosofiche su le vicende della filosofia da Cartesio a Kant (1827). Il suo pensiero ebbe una vasta diffusione; i suoi sei volumi di Elementi di filosofia (1820-1827) erano diffusissimi nelle scuole del tempo, ma l’avvento di Rosmini e di Gioberti, la mancanza di una solida metafisica fecero declinare la sua fama. Maritain non prende in considerazione questi pensatori (si può rintracciare un solo rimando a Rosmini in una nota in una conferenza su Lo spirito della filosofia moderna tenuta all’Institut Catholique di Parigi nel 1914 [I, p. 855]), ma dobbiamo considerare almeno Rosmini e Gioberti. Nel primo, a prescindere dall’impostazione gnoseologica legata a Kant, che falsa l’impostazione di base del suo sistema, sul piano della metafisica e dell’etica si può riscontrare un certo parallelismo tra i due filosofi. Il secondo, criticando Rosmini, rimanda a quell’ontologismo, che Maritain aveva indicato come uno degli errori radicali del pensiero moderno.

Antonio Serbati Rosmini Il più importante esponente dello spiritualismo, Antonio Serbati Rosmini (1797-1855), nasce a Rovereto, studia nell’Università di Padova, viene ordinato sacerdote a Chioggia e in seguito si trasferisce a Milano. Nel 1830 fonda a Domodossola una Congregazione di religiosi dediti all’educazione della gioventù, e a Borgomanero un collegio. Rosmini, amico di Tommaseo e di Manzoni, ben rappresenta lo spirito della cultura italiana di questo periodo. Era sua intenzione compilare un’enciclopedia in diversi volumi, da contrapporre a quella francese degli illuministi e a quella tedesca di Hegel, ma la mole del lavoro intrapreso non poté essere portata a termine. Ci rimangono numerose opere, che rivelano la profondità e l’originalità del suo pensiero, la sua preparazione storica, il suo interesse verso tutti i problemi dibattuti in quel tempo. L’opera più nota agli storici della filosofia riguarda il problema della conoscenza, Nuovo saggio sulle origini delle idee (1830), che doveva essere l’introduzione di un’Enciclopedia filosofica. Rosmini prima di presentare il suo parere, fa la storia della questione trattata ed esamina le solu-

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

zioni precedenti. Nell’Introduzione alla filosofia (1850) dichiara che si debbono cercare i punti di accordo tra i vari sistemi filosofici, per giungere ad una conciliazione critica, non eclettica; indica come principi fondamentali del metodo la libertà del ricercatore e la deduzione delle affermazioni da una prima verità, conoscibile per intuito. Al problema morale dedica due opere: i Principi della scienza morale (1831) in cui espone la sua dottrina e la Storia comparativa e critica dei sistemi intorno al principio della morale (1837). Un’operetta, pubblicata postuma, riassume il suo sistema: Breve schizzo dei sistemi di filosofia moderna e del proprio sistema. Rosmini si interessa di psicologia e di pedagogia, scrivendo numerose opere tra cui Dell’educazione cristiana (1823), Sull’unità dell’educazione (1827), Del principio supremo della metodica (postumo). Rosmini nel 1848 svolge per conto del governo piemontese una missione a Roma. Il suo pensiero politico-religioso, per l’arditezza di alcune affermazioni e anche per il suo liberalismo, suscitò dubbi e perplessità negli ambienti conservatori e due opere del 1848, Le cinque piaghe della Chiesa e La Costituzione secondo giustizia sociale, furono poste all’Indice. Ma è stato riabilitato, nel 1994 è iniziata la causa di beatificazione, nel 1998 Giovanni Paolo II nell’enciclica Fides et ratio lo elenca tra i filosofi cristiani. Ma, a questo proposito, bisogna distinguere tra la filosofia e il filosofare dei cristiani. È questione di verità, perché o ha ragione chi afferma che l’intuizione dell’essere nasce a posteriori nell’esperienza o chi ritiene che sia un’idea a priori, quasi una funzione dello spirito come dice Rosmini. È questo un nodo cruciale della storia della filosofia, basti ricordare la questione dell’intelletto attivo nel pensiero arabo e cristiano. Per Maritain c’è una sola filosofia cristiana ed è quella aristotelico-tomista. Ma a prescindere dalla gnoseologia il pensiero rosminiano in metafisica, in morale, in politica, in filosofia del diritto non è lontano dal realismo tomistico. Dal 1906 esce una «Rivista rosminiana di filosofia e di cultura», nel 1966 a Stresa è stato fondato il Centro internazionale di studi rosminiani. È in corso la pubblicazione dell’opera omnia presso l’editrice Città Nuova di Roma.

L’idea dell’essere in generale Come per Kant, anche per Rosmini la conoscenza, anziché porsi come processo astrattivo del pensiero dall’essere, è una sintesi a priori di materia e di forma, ma diverse sono le conclusioni nei due pensatori. In Rosmini si hanno due elementi nuovi, l’idea dell’essere

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II. L’età delle ideologie

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in generale e il sentimento fondamentale. L’idea dell’essere in generale è l’a-priori di Rosmini; essa non deriva dall’esperienza, perché l’esperienza non può darci che oggetti particolari, non deriva dal nostro io, perché è limitato e finito, mentre l’idea in questione è proprio l’idea dell’essere indeterminato. Questa idea è innata; l’uomo non può pensare a nulla senza presupporla, quando noi conosciamo una qualsiasi cosa, immediatamente applichiamo a questo concetto, che pensiamo, l’idea dell’essere che abbiamo in noi. Dunque il trascendentale, la forma per eccellenza del nostro conoscere, non è l’io, il pensiero, ma è l’essere. Questa idea, che Rosmini chiama essere ideale, perché è un’entità logica, e non va confusa con l’essere reale, è una pura forma, una funzione, ma ha un contenuto di conoscenza. Non è l’idea di qualche cosa, ma di un essere possibile, universale e indeterminato, è l’idea più generale che si possa avere, dotata di queste caratteristiche: oggettività, semplicità, necessità, universalità, immutabilità. Mentre nell’innatismo platonico e cartesiano vi erano molte idee ed erano concrete, qui invece vi è una sola idea, ed è indeterminata. Non è l’idea di Dio, perché Dio, essere assoluto, non può essere scambiato con un’idea generalissima, ma è la luce interiore posta da Dio in ogni uomo che nasce. Rosmini così definisce questa idea: «L’idea dunque universalissima di tutte, che è anche l’ultima delle astrazioni, è l’essere possibile, che si esprime semplicemente nominandolo idea dell’essere. L’idea dunque dell’essere è l’universalissima, è quella che rimane dopo l’ultima astrazione possibile, è quella idea tolta la quale è tolto interamente il pensare, ed è resa impossibile qualsiasi altra idea»18. Definizioni che veicolano una certa ambiguità perché, se questa idea universalissima è «l’ultima astrazione possibile», deriverebbe dall’esperienza e non sarebbe una forma a priori. Il sentimento fondamentale è la sensazione di essere sostanzialmente uniti al proprio corpo, il senso generale di benessere e di malessere, il punto di unione tra l’anima e il corpo, cioè quel senso organico che la psicologia moderna chiamerà cenestesi, in altri termini è la sensazione della propria esistenza. Il sentimento fondamentale e l’idea dell’essere sono rispettivamente le forme trascendentali della sensazione e dell’intellezione.

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A. Rosmini, Nuovo saggio sull’origine delle idee, Libraria Editoriale SodalitasCentro internazionale di studi rosminiani, Stresa, riproduzione anastatica in due volumi dell’edizione Intra del 1875-1876, vol. I, pp. 440-442.

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

Il processo gnoseologico avviene così in due momenti: la percezione sensitiva, in cui il soggetto avverte di essere stato modificato nel sentimento fondamentale, ma non ha coscienza dell’oggetto, che ha causato la modificazione. A differenza quindi di Galluppi e di Aristotele la sensazione non coglie l’oggetto sensibile, ma solo la modificazione soggettiva provocata da questi. Segue la percezione intellettiva, che consiste in un giudizio sintetico a priori, in cui il soggetto conoscente applica alla sensazione l’idea dell’essere: il sentimento fondamentale modificato fa da materia, l’idea dell’essere da forma. Ma proprio qui, dove il pensiero rosminiano sembra avvicinarsi al criticismo kantiano, se ne distacca. Infatti le categorie kantiane (che sono dodici, mentre qui ce n’è una sola) sono create dal soggetto, sono forme, attività, trascendentali, e non contenuto di conoscenza; invece l’idea dell’essere rosminiana è oggettiva, innata, data da Dio all’uomo, realtà logica e non attività fenomenica. Ne risulta l’oggettività della conoscenza, proprio perché si tratta della categoria dell’essere, che applicata alla sensazione ci fa conoscere l’oggetto nella sua realtà intelligibile. Più che al soggettivismo kantiano siamo vicini all’oggettivismo aristotelico, ma diverso è il procedimento gnoseologico: infatti in Aristotele la categoria dell’essere, la principale, era tratta per astrazione dall’oggetto, qui invece è innata nel soggetto. Per analisi derivano dall’idea dell’essere le idee pure, cioè non ricavabili dall’esperienza, come l’identità, la non-contraddizione, la sostanza, la causa; mentre sono idee non pure quelle derivanti dall’unione dell’idea dell’essere con l’esperienza, come il tempo, la sostanza materiale, lo spazio, il moto. Tutto questo sul piano della ragione e della filosofia, accanto al quale va considerato il piano della fede e della religione, per quelle verità non intelligibili all’uomo, ma intelligibili a Dio, e quindi sovrarazionale e non irrazionali, e rivelate da Dio all’uomo. Tra ragione e fede, come in san Tommaso e Galileo, vi è dunque distinzione e non opposizione. Di fronte a questa gnoseologia Maritain osserverebbe che Rosmini non riconosce l’intelligibilità propria dell’essere, perché gliela fa attribuire dal soggetto conoscente.

La metafisica e la morale La filosofia di Rosmini, a parte il processo gnoseologico, non si stacca dal realismo di san Tommaso. In metafisica abbiamo un pluralismo di esseri che hanno l’essere, ordinati verso Dio, che è

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II. L’età delle ideologie

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l’essere, che li crea e li chiama a sé Ma il modo di formulare questa metafisica è diverso, perché la riflessione rosminiana si sviluppa intorno all’idea dell’essere. Rosmini, superando la coincidenza idealistica tra essere e pensiero, distingue tra essere ideale, cioè essere mentale, logico, ed essere reale, cioè essere reale, metafisico. Poiché l’idea dell’essere, che deriva appunto dall’essere, per essere oggettiva, non può derivare da esseri particolari e contingenti, deve pure esistere un Essere reale infinito, necessario, da cui essa possa derivare. Superando il monismo degli idealisti, Rosmini distingue tra esseri reali finiti ed Essere reale infinito, Dio. Infine gli esseri finiti si distinguono in fisici e spirituali, cose e uomini, distinguendo così la natura dallo spirito, anziché fare emergere la natura dallo spirito, o lo spirito dalla natura. Dio è l’Essere assoluto, ove essere ideale ed essere reale coincidono fino all’identità, ed è, perciò stesso, anche il sommo bene, perché l’essere morale è appunto l’adeguazione dell’essere reale all’essere ideale. Così la morale si fonda sulla metafisica, l’agire sull’essere. Lontano dal formalismo kantiano del dovere per il dovere, lontano dall’utilitarismo inglese del dovere per il piacere, in Rosmini il dovere è per l’essere; non è cioè una forma vuota, né ha un contenuto estraneo, ma ha un contenuto suo proprio: è la realizzazione dell’intelligibile, della pienezza della natura umana. Il valore morale dipende quindi dal grado di entità dell’oggetto posto come fine dell’azione; ora l’oggetto può essere sensibile particolare o intelligibile universale: nel primo caso si ha l’utile, nel secondo il bene. Il bene quindi è l’essere, non una forma universale alla maniera kantiana, il cui soggettivismo, anche se universale (perché l’uomo deve agire in modo che anche gli altri uomini possano agire come lui) e non individuale e utilitaristico, resta sempre un soggettivismo. L’agire umano dipende da un giudizio di stima sul valore dell’azione da intraprendere formulato dall’intelligenza, a cui la volontà deve adeguarsi, ma liberamente, perché tra il conoscere e l’agire c’è il libero arbitrio, che rende possibile la responsabilità dell’azione morale. La morale di Rosmini è equidistante dall’intellettualismo etico, per cui l’intelletto determina la volontà, e dal volontarismo etico, per cui è la volontà stessa a formulare la legge, perché questa non ha contenuto, impegna tutta la personalità dell’uomo: conoscere e agire, intelletto e volontà. Anzi è proprio nell’atto morale che si ha il raccordo tra l’essere ideale e l’essere reale, nell’essere morale: l’uomo diventa liberamente se stesso, adeguando la sua azione al

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

suo pensiero. Come in san Tommaso l’atto morale risulta da due elementi: uno oggettivo, la legge colta dall’intelletto, e uno soggettivo, l’intenzione propria della volontà. La legge morale non è quindi autonoma, formulata dalla volontà umana, ma eteronoma, perché formulata dall’Intelligenza divina, mentre l’esecuzione dell’atto morale è autonoma, perché l’io liberamente aderisce alla regola morale. L’io non stabilisce la regola, ma autonomamente la realizza. Ma l’uomo non si accontenta di essere solo uomo: in lui c’è un’inquietudine dovuta allo scarto tra la sua intuizione dell’essere ideale infinito e la sua realtà di essere reale finito; per questo non trova soddisfazione nei fini particolari che riesce a raggiungere, ma aspira al fine ultimo suo, che è Dio, pienezza di essere, coincidenza di essere ideale e essere reale. Ma come per conoscere Dio, in se stesso, è necessario l’apporto trascendente della rivelazione, che mediante la fede ci fa partecipare alla conoscenza che Dio ha di sé, così per raggiungere Dio sul piano della morale occorre l’apporto trascendente della redenzione che, mediante la grazia, ci fa partecipare alla vita di Dio. Il cristianesimo si pone così come coronamento dell’umanesimo. Maritain a questo riguardo introdurrebbe la differenziazione tra le aspirazioni connaturali e le aspirazioni transnaturali della persona umana.

La filosofia dell’essere secondo Rosmini - tav. n. 8

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II. L’età delle ideologie

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Il diritto e la politica Stabilito un diritto naturale fondato sulla morale, Rosmini ne deriva che il diritto positivo dello Stato deve uniformarvisi concretizzandolo, adattandolo alle singole situazioni. Lo Stato non è quindi fonte del diritto, non è Stato etico, ma è esso stesso subordinato al diritto. Rosmini circa l’origine dello Stato concorda con Aristotele e san Tommaso, affermando che la persona umana è il fondamento della società, la quale non nasce artificiosamente per un contratto, ma naturalmente, attraverso l’unione delle famiglie, e sottolinea come lo Stato abbia una funzione sussidiaria rispetto all’iniziativa delle persone e delle famiglie. Il fine dello Stato è il bene comune, e la sua massima virtù è la giustizia, per cui la politica va subordinata alla morale. Rosmini sottolinea come la carità non può surrogare, ma solo integrare, la giustizia, che è la virtù fondamentale dell’ordine sociale, tanto che nelle Massime di perfezione cristiana (1830) afferma, nella prima massima, che occorre «Desiderare unicamente e infinitamente di piacere a Dio, cioè di essere giusto»19. C’è un aspetto interessante nella filosofia del diritto di Rosmini, che affianca il suo pensiero a quello di Maritain, quando entrambi, pur ponendo la legge eterna di Dio a fondamento del diritto naturale, riconoscono che la persona umana è un soggetto di «diritto sussistente»20 e quando, Rosmini di fatto e Maritain esplicitamente, ritengono che questi diritti e doveri naturali siano percepiti dall’uomo in una conoscenza istintuale, prerazionale, perché, come osserva Giuseppe Goisis, entra «in gioco il sentimento fondamentale dell’esistere quel sentire, precategoriale e perfino preriflessivo, che non coincide col moto di assimilazione dei valori, configurandone, invece, la precondizione fondamentale. È proprio in virtù di tale sentimento fondamentale che la vita umana si presenta, nel suo assieme, come apprezzabile e degna di essere vissuta compiutamente, nonostante contraddizioni e delusioni, anche amarissime»21. Maritain ritiene che l’uomo conosca questa legge non per deduzione logico-concettuale, al modo di una serie geometrica, ma mediante «una conoscenza per connaturalità o simpatia, in cui l’intelletto arriva ai suoi giudizi consultando le inclinazioni interiori, 19

A. Rosmini, Massime di perfezione cristiana, Città Nuova, Roma 1976, p. 37. Cf. M. D’Addio, Capograssi e Rosmini, in «Quaderni sardi di filosofia e scienze umane», 15-16 (1896-97), pp. 97-113. 21 G. Goisis, Rosmini e Maritain: uno scrigno di valori a confronto con il vuoto del nichilismo, in «Rivista Rosminiana», CIV, fasc. II-III (aprile-settembre 2010), p. 282. 20

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

prestando ascolto alla vibrazione delle tendenze profonde» (XVI, p. 711). Si tratta di una conoscenza oscura, asistematica, prevalentemente vitale, che progressivamente sorge nella coscienza dell’umanità, «all’interno del duplice tessuto protettivo delle inclinazioni naturali da una parte e della società umana dall’altra» (XVI, p. 713). D’altra parte non si tratta di regole concettuali, ma di schemi dinamici fondamentali di quadri tendenziali con cui orientare la propria condotta. In conclusione, la filosofia di Rosmini si caratterizza come una filosofia dell’essere, come un realismo integrale, come una concezione pluralistica nella quale metafisica, conoscenza, morale e politica sono colte nelle loro intime e reciproche relazioni; ma questa prospettiva ontologica, essendo ancorata ad un’incerta gnoseologia, formulata in termini che rimandano all’ideologia sette-ottocentesca, finisce per allontanarla dalla tradizione aristotelico tomista.

Vincenzo Gioberti Nell’ambito dello spiritualismo italiano trova posto anche Vincenzo Gioberti (1801-1852), un sacerdote senza troppa vocazione, più attento ai problemi politici che a quelli religiosi. Cappellano alla Corte Sabauda, per le sue idee liberali ripara in esilio a Bruxelles, e qui attende all’insegnamento e alla compilazione delle sue principali opere. Sono di questo periodo Introduzione allo studio della filosofia (1840) e due volumetti Del bello (1841) e Del buono (1843), e un’opera di vasta risonanza pratica, il Primato morale e civile degli italiani (1843), che può considerarsi il suo capolavoro, in cui vagheggia un ideale politico federalista e neoguelfo, che suscitò non solo approvazioni, ma anche polemiche, particolarmente da parte degli anticlericali e dei gesuiti, a cui rispose con scritti astiosi e aspri come Prolegomeni al Primato (1845), Il gesuita moderno (1847), Apologia del gesuita moderno (1848). L’elezione di Pio IX, le riforme, l’inizio della guerra di indipendenza del 1848 sembrano realizzare il sogno giobertiano; ma ben presto il papa si ritira dal conflitto, subito seguito da Ferdinando II, e rimane il solo Piemonte a continuare la guerra all’Austria. Di qui una crisi di Gioberti, che modifica il suo piano politico e nel Rinnovamento civile d’Italia (1851) non assegna più al papa la direzione del moto unificatore della penisola, ma ai Savoia, e non parla più di unione federale, ma di unità nazionale. Gioberti partecipa attiva-

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II. L’età delle ideologie

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mente alla vita politica sabauda, come Primo ministro e poi come inviato plenipotenziario di Vittorio Emanuele II a Parigi; ma qui si ritira a vita privata. Maritain non cita mai questo filosofo, il cui pensiero è poco chiaro, impreciso nelle relazioni tra filosofia e teologia, per cui la sua filosofia sembra ora ammettere la trascendenza ora chiudersi nell’immanenza.

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La critica a Rosmini e l’ontologismo Nel breve scritto Degli errori filosofici di A. Rosmini (1841) Gioberti accusa Rosmini di psicologismo e di soggettivismo fraintendendolo, perché ritiene che l’idea dell’essere sia prodotta dal soggetto conoscente, e quindi sia una rappresentazione soggettiva, mentre Rosmini distingue tra essere ideale in noi ed essere reale fuori di noi, e l’idea dell’essere non è creata dal soggetto, bensì ricevuta da Dio. Secondo Gioberti il soggetto conoscente coglie direttamente l’Idea, non l’essere logico, l’idea dell’Idea, ma l’essere ontologico in se stesso, cioè l’essere reale. Si avrebbe così un panteismo, in quanto l’uomo coglierebbe in sé Dio, e non l’idea di Dio, se Gioberti non precisasse, non senza ambiguità, che questo Ente ideale, che l’uomo intuisce, non è Dio in se stesso, ma la forza di Dio, che ci crea incessantemente, cioè il suo atto creativo. Preoccupato di evitare il panteismo e di garantire la trascendenza di Dio, Gioberti distingue tra essere ed esistere, tra essenza ed esistenza, tra l’Ente, che ha l’essere in proprio, la cui essenza esige l’esistenza, e l’esistente, che ha l’essere partecipato, e la cui essenza non esige l’esistenza, ma rimanda all’Ente che lo crea. Tutto nasce da Dio e tutto ritorna a Dio, vi è un processo di discesa da Dio alle creature, e un processo di ritorno dalle creature a Dio, che Gioberti esprime sinteticamente nella formula: L’Ente crea l’esistente, l’esistente ritorna all’Ente. Non si tratta di un processo naturalistico alla maniera di Plotino o di Scoto Eriugena, perché l’atto creativo di Dio, anche se continuo (perché esistere significa essere continuamente creati), è trascendente e libero, poiché Dio non ha bisogno di manifestarsi nella creazione. L’essere creato è quindi attività, un continuo farsi, cosciente negli uomini, incosciente nelle cose. Così Gioberti distingue anche tra natura e spirito, oltre che tra Dio e il mondo. Il processo gnoseologico avviene in due momenti; nell’intuizione l’uomo coglie in sé l’Idea, non però Dio in se stesso, bensì la sua

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

forza creatrice, cioè il legame intimo che ci unisce a Dio, cioè la creazione, l’Ente-creante-l’esistente; ma poiché questa intuizione è indeterminata, a causa della finitezza della creatura, è necessario un chiarimento, una spiegazione, che avviene mediante la riflessione, che è la stessa parola di Dio, la sua rivelazione primitiva, rinnovata dal cristianesimo, che permette all’uomo di comprendere le verità razionali e di conoscere in forma analogica le verità a lui sovraintelligibili. Vi è qui, direbbe Maritain, una confusione tra filosofia e religione, sia perché la prima intuizione ha per oggetto lo stesso atto creativo, sia perché è necessaria la rivelazione per poter capire anche le verità naturali; per cui la Chiesa diventa garante della filosofia; in queste condizioni è spiegabile il primato morale e civile della Chiesa e la sua partecipazione diretta alla costruzione della civiltà politica, come viene delineato nel Primato.

La morale e la politica Mentre tutti gli altri esseri ritornano necessariamente e inconsciamente a Dio, l’uomo vi deve ritornare liberamente e coscientemente. Questo ritorno dell’umanità a Dio è un ritorno divino e umano ad un tempo: divino perché l’uomo da solo, senza l’aiuto di Dio, non sarebbe in grado di raggiungerLo, umano perché l’uomo, come causa seconda e libera, deve attivamente collaborare. La creazione divina si prolunga così nella civiltà, mediante le azioni dell’uomo, collaboratore di Dio, nel creare la storia. Come già in Rosmini, ma in modo diverso, Dio non è soltanto l’Essere, ma è anche la Verità e il Bene a cui l’uomo tende come fine ultimo, che può raggiungere solo mediante la grazia. Circa il rapporto intelletto-volontà nell’atto morale, Gioberti concorda con Rosmini nel riconoscere che la legge è formulata dall’intelletto e la volontà è libera nell’eseguirla, evitando ogni forma di intellettualismo o di volontarismo. La concezione della civiltà come progresso umano e divino in Gioberti si riflette sulla sua concezione politica, che indica nella religione il motivo ispiratore di tutta la civiltà, capace di ricostituire l’unità dei popoli su di una base morale e religiosa, pur nell’autonomia delle diverse tradizioni nazionali. L’Italia, che, per la presenza del papa, ha il primato di avere unita la sua civiltà con la religione, ha la missione di ammaestrare il mondo. La nuova civiltà dovrà trovare, distinti ma collaboranti, i laici e i chierici, evitando il predominio clericale, ma anche il laicismo anticlericale; lo Stato e la Chiesa non

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II. L’età delle ideologie

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devono confondersi, ma nemmeno separarsi, in modo che la fede sia la ispiratrice della cultura e della civiltà. L’unità dei popoli deve poi attuarsi come confederazione, prima tra i vari stati d’Italia, poi d’Europa, poi del mondo intero. Si potrà avere così un cosmopolitismo organico. Passando al piano della tecnica politica, che è contingente, sperimentale, perché va adattata alle reali situazioni storiche, abbiamo due momenti nel pensiero di Gioberti corrispondenti alle due opere maggiori: nel Primato infatti si auspica una confederazione di Stati italiani, sotto la presidenza del pontefice, e organizzata per iniziativa dei principi, che però debbono concedere delle riforme, in particolare la libertà di stampa, per permettere agli scrittori di educare il popolo, perché non con le armi o con la diplomazia, ma solo con l’educazione si potrà formare l’unità morale dell’Italia; nel Rinnovamento invece si abbandona l’idea di federazione, indicando nei Savoia la forza politica e militare capace di unificare l’Italia, si esclude il potere temporale e si propone l’istituzione di assemblee non solo consultive, ma rappresentative e deliberative. Il primo scritto giobertiano preparò il 1848, il secondo ispirò il 1859.

L’estetica A differenza dell’utile e del piacevole, che sono sensoriali e soggettivi, il bello è immateriale e oggettivo, anche se si presenta sotto forme sensibili. Poiché anche il criterio di valutazione è in noi a priori, come il vero e il bene, per giudicare una cosa bella dobbiamo già avere l’idea del bello. È la fantasia, intermediaria tra la sensibilità e l’intelligenza, l’attività creatrice e fruitrice del bello, non solo in chi lo produce, ma anche in chi lo gusta. Il bello varia così in rapporto all’immaginazione di coloro che lo contemplano, e non è fine a se stesso, ma prepara l’uomo al vero e al bene, perché invita alla signoria dello spirito sul corpo, essendo più intelligenza che sensibilità. Gioberti, come Kant, distingue tra bello e sublime, a cui aggiunge il meraviglioso, mescolanza di umano e di soprannaturale, caratteristico dell’arte cristiana. Secondo l’estetica di Maritain manca in Gioberti l’autonomia dell’arte.

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8. Il positivismo

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Non deve sorprendere che l’empirismo sia stato portato dallo sviluppo della sua logica interna a sfociare nel positivismo, che non è una filosofia, ma un’evasione pseudoscientifica dalla filosofia, un sostituto della filosofia (XI, p. 57).

I Maritain hanno avuto con i positivisti un rapporto diretto, perché alla Sorbona seguivano le lezioni del biologo materialista Félix Le Dantec (1869-1917). Raïssa ricorda che prometteva loro «un brillante avvenire scientifico se avessimo voluto lavorare nel senso che ci consigliava. Dovevamo cercare la sintesi della materia vivente e dimostrare, realizzandola, che la vita non è altro che una combinazione chimica particolare» (XIV, p. 683), e commenta: «Ignoravo il credo dei cristiani e non volevo neanche saperne di quella fede materialista […] e la tristezza mi penetrava, il gusto amaro del vuoto dell’anima davanti alla quale si spengono a poco a poco tutte le luci» (ibid.). Fu Bergson, che al Collège de France commentava Plotino, a liberare i due giovani dall’inquietudine esistenziale che li aveva portati sulla soglia del suicidio. Maritain fu alunno e poi in corrispondenza con un discepolo di Durkheim, il sociologo ed etnologo Lucien Lévy-Bruhl di cui Raïssa scrive: «Il professore per il quale Jacques ha conservato la più alta gratitudine (benché le proprie idee fossero già da allora molto lontane dalle sue) era Lucien Lévy-Bruhl che insegnava storia della filosofia moderna con una freddezza e una tristezza che colpivano stranamente gli studenti, ma la cui bontà era incomparabile» (XIV, p. 687). Jacques Maritain analizza il positivismo e subito si accorge dell’equivoco metodologico di questa filosofia che ritiene di potere studiare le leggi del comportamento senza studiare la loro causa, e fa di questa conoscenza fenomenologica una filosofia che dovrebbe esaurire la conoscenza della realtà, risolvendo i diversi approcci al reale ad una sola metodologia, quella del calcolo matematico. Ne La grande logica (7) scrive: «Si tratta del problema della causa e della legge. Sorge questo problema in relazione alle scienze dei fenomeni (scienze dell’osservazione e scienze sperimentali) sul modello delle quali il positivismo nel XIX secolo considerava tutte le scienze, dimenticandosi che esistono anche, e meritano maggiormente questo nome, le scienze sapienziali. Nello schema che il positivismo aveva costruito e che ha regnato per molto tempo, la scienza era una cono-

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scenza delle leggi ad esclusione delle cause. Il mondo dei fenomeni era un mondo di leggi senza cause. La legge, la relazione di legalità entro fenomeni era eretta contro la causa, contro la relazione di causalità. La scienza, secondo i positivisti, cerca il come, non il perché; essa non cerca le cause ma le leggi che regolano le une alle altre con delle relazioni costanti le apparenze osservate» (II, pp. 688-689).

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La radice del relativismo Il positivismo caratterizza la cultura e la civiltà della seconda metà del XIX secolo. Le triadi hegeliane a priori avevano costretto la scienza a sistematizzarsi secondo principi a lei estranei, cosicché adesso le scienze, in pieno sviluppo per il progresso dei mezzi tecnici di sperimentazione, si prendono la rivincita e vogliono staccarsi e contrapporsi alla filosofia. Meno schemi trascendentali a priori e più ricerche sperimentali: occorre partire dai fatti positivi, non da idee astratte. Malgrado questo atteggiamento anti-ideologico il positivismo «è il prodotto ultimo del metodo razionalista, la pretesa della ragione di erigersi essa stessa come misura della verità, che conduce in definitiva a ridurre tutte le cose alle nozioni. che troviamo in noi attraverso il minimo contatto sperimentale con la realtà, alle nozioni matematiche e geometriche» (I, p. 190). Il positivismo finisce di essere il continuatore dell’idealismo, perché a poco a poco viene a dare un significato metafisico alle sue scoperte, e a porre sotto i fenomeni un unico sostrato, la materia, che attraverso l’evoluzione genera tutti gli esseri e tutti gli stati di vita, dall’inorganico allo spirituale. Il positivismo continua il monismo e lo storicismo dell’idealismo, contrapponendosi solo per il fatto che al divenire dell’idea sostituisce il divenire della materia. In questo senso anche il marxismo appartiene al positivismo. Il positivismo si manifesta soprattutto in Francia, in Inghilterra, in Italia, meno in Germania e con caratteristiche diverse nei vari Paesi in cui si sviluppa. Il positivismo francese è sociologico, da Comte a Durkheim, quello inglese fenomenologico in Stuart Mill, utilitarista in Bentham, evoluzionista in Darwin e Spencer, quello tedesco materialista in Haeckel e Moleschott, e infine quello italiano, più metodologico che metafisico, a parte Ardigò. In gnoseologia, ritornando a Kant, il positivismo dichiara di fermarsi al fenomeno, salvo poi dare un valore assoluto alle leggi della scienza, dimostrandosi altret-

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tanto dogmatico dell’idealismo. In etica, nega l’esistenza di principi morali universali, trasformando l’edonismo in utilitarismo. In politica sta a fondamento del liberalismo in Inghilterra, teorizzando la libertà del singolo nella ricerca del proprio utile, e del socialismo sul Continente, trasferendo l’utilitarismo dal piano individuale al piano collettivo, per cui lo Stato non deve più garantire l’utile individuale, ma l’utile della comunità; comunque in entrambi i casi lo scopo della vita resta la produzione e il consumo dei beni materiali. In metafisica, dovrebbe essere agnostico, ma finisce per porre un monismo materialistico-evoluzionistico. Pur svalutandola, il positivismo non giunge alla negazione della religione perché al di là del fenomeno esiste una realtà inconoscibile all’uomo, il mistero, che è oggetto di rivelazione e di fede. Ma con il positivismo si verifica un grave equivoco, perché l’oggetto della fede è il soprasensibile, cioè l’intelligibile proprio della ragione e della filosofia, e non il sovraintelligibile proprio della religione. Infatti il positivismo, fermandosi ai fatti positivi, nega la realtà dell’intelligibile, per cui la filosofia perde il suo oggetto per diventare una semplice metodologia di classificazione delle diverse scienze, nella loro origine storica e nei loro reciproci rapporti. Si ripete così l’atteggiamento unilaterale dell’idealismo: questo negava ogni valore alle scienze risolvendole nella filosofia, il positivismo al contrario nega ogni valore alla filosofia riducendola a scienza. C’è in sostanza una confusione di oggetti e di metodi, non si distingue tra l’oggetto proprio della fede, il sovraintelligibile, l’oggetto proprio della filosofia, l’intelligibile, e l’oggetto proprio della scienza, il sensibile. In alcuni pensatori il positivismo da agnostico diventa materialista, nega la esistenza del sovrasensibile, e quindi dell’anima e di Dio. Le ricerche del positivismo portarono al sorgere di due nuove scienze, o meglio a studiare scientificamente argomenti che fino ad allora erano stati considerati solo filosoficamente: si tratta della psicologia, o scienza del comportamento umano, e della sociologia, o scienza delle relazioni sociali. Già prima del positivismo i filosofi si erano interessati a questi problemi, ma da un altro punto di vista, cioè come antropologia e come politica. Infatti la filosofia si domanda “che cos’è l’anima”, “che cos’è la società”, mentre le scienze si domandano “come funziona l’anima”, “quali sono le inter-relazioni sociali”. I due aspetti della ricerca umana, razionale l’uno, e sperimentale l’altro, sono complementari, ma distinti per il loro oggetto e per il diverso metodo: la filosofia studia l’essere, la natura dell’a-

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nima, la scienza il funzionamento, il comportamento dell’anima. I positivisti, confondendo i due piani, diedero un’interpretazione materialistica dei fatti umani, dimenticando che al di là, e proprio a fondamento dei determinismi fisiologici e dei condizionamenti psicologici, c’è la libertà e la spontaneità dello spirito. In questo modo i principi etici si ridussero a leggi psicologico-sociali, finendo di conseguenza in un relativismo morale. Il positivismo fu un vasto movimento culturale, improntò di sé la politica, l’arte, la letteratura, espresse un’estetica e una storiografia in contrapposizione all’estetica e alla storiografia dell’idealismo, sostituendo alle idee i fatti, all’interpretazione la descrizione. «Uno dei più rilevanti effetti del positivismo fu quello di diffondere in molti spiriti l’idea che anche i valori morali sono relativi, come tutto il resto» (XI, p. 734). Maritain distingue tra «un positivismo puramente scientifico o secolarizzato» (IX, p. 694) e «un positivismo messianico» come quello di Auguste Comte, che pretende «di essere la filosofia definitiva» (IX, p. 757).

Il positivismo in Francia, erede dell’illuminismo Il positivismo nasce in Francia, il suo nome è stato coniato da Saint-Simon e adottato da Auguste Comte, che ne diventerà il più significativo rappresentante, anche se con lui il positivismo si colora di connotazioni teologiche. Si diffonde in Inghilterra, grazie al saggio di J. Stuart Mill Comte e il positivismo (1865), ibridandosi con la tradizione empiristica. In Francia una serie di filosofi, sviluppando l’illuminismo, si muovono nell’ambito del positivismo. Claude Henri de Rouvroy conte di Saint-Simon (1760-1825) nell’opera Nuovo cristianesimo (1825) proclama la fine dell’aristocrazia, auspica una civiltà fondata sul lavoro industriale, perché lo sviluppo tecnologico può portare il benessere anche alla «classe più numerosa e più povera». Questo movimento intellettuale ha radici nell’età illuministica. Già il naturalista George Buffon (1707-1788) nella sua monumentale Storia naturale in 44 volumi, terminata dai suoi collaboratori, supera il metodo classificatorio di Linneo e si propone di partire dall’osservazione per studiare l’evoluzione delle diverse specie, che considera ciascuna fissa in se stessa. Il naturalista Jean-Baptiste de Lamarck (1744-1829) con il volume Filosofia zoologica (1809) è uno dei primi sostenitori dell’evoluzionismo da specie semplici a specie più complesse attraverso le modificazioni che si verificano nel pro-

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

cesso di adattamento all’ambiente, ma secondo una linea di continuo perfezionamento voluto dal Creatore. Secondo Maritain si tratta di una buona intuizione male concettualizzata (cf. XIII, p. 982). Con Félix Le Dantec22, discepolo di Helvétius e di d’Holbach, si giunge ad un ateismo radicale e un monismo materialistico e meccanicistico. Infatti nei suoi scritti, da La materia vivente (1895) a L’ateismo (1907), afferma che non vi è differenza qualitativa tra il mondo della pura materia e il mondo della vita. Maritain in un articolo in cui studia la funzione dell’assimilazione, che distingue il vivente dal non vivente, osserva che «Le Dantec, grande teorico del materialismo, ritiene che l’assimilazione sia il carattere fondamentale, che distingue essenzialmente l’organismo vivente, dal non vivente. Quando un corpo vivente è una sostanza individuale e non solamente una collezione di molecole giustapposte, allora il fatto dell’assimilazione acquista un valore non solamente sperimentale, ma un valore ontologico» (VI, p. 990)23. Infatti si tratta di una differenza di natura ontologica, che Le Dantec non coglie, perché per lui «non c’è che una differenza a medesimo livello, per cui l’organismo vivente è perfettamente riducibile ad una costellazione di fattori fisico-chimici. È semplicemente una differenza all’interno dell’universo della chimica» (VI, p. 991). Maritain riporta questo testo di Le Dantec: «Ho fatto un grande sforzo per sapere quale sia il mio metodo, mi sembra che esso consista unicamente in una fede ardente nel meccanicismo universale […] io credo che tutti i fatti siano suscettibili di una narrazione matematica […] è per questo che non sono a favore del finalismo» (I, p. 1088). Bisogna ricordare anche Ernest Renan (1823-1892), nonno da parte di madre di Ernest Psichari24, autore di “drammi filosofici” che nella Vita di Gesù (1863) nega la divinità di Cristo pur riconoscendo la storicità dei Vangeli. Così Maritain ricorda l’influenza di Renan sul nipote, suo amico e compagno al Liceo: «L’influenza intellettuale del nonno si ripercuoteva sul nipote soprattutto attraverso l’ambiente familiare e sociale. E ciò che Ernest incontrava, da questo punto di vista, nel suo ambiente familiare era una vita morale completamente areligiosa e agnostica, con una sfumatura di libero 22

Jacques Maritain redige una recensione per la «Revue de Philosophie» su F. Le Dantec, La crise du trasformisme, Alcan, Paris 1910 (I, pp. 1082-1085). 23 Cf. Philosophie de l’organisme. Note sur la fonction de nutrition, in «Revue thomiste», XLIII, 2 (settembre 1937), pp. 263-275 (VI, pp. 981-1000). 24 Cf. Ernest Psichari, in P. Viotto, Grandi amicizie, cit., pp. 104-108.

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pensiero umanistico e combattivo da parte di suo padre, un tempo credente, poi distolto dalla sua fede dal prestigio filosofico di Renan» (II, p. 1105). Maritain è preoccupato dello scientifismo e dello storicismo di Renan, che priva l’intelligenza dell’oggetto stesso del sapere, l’intelligibile, per ridurla a classificare i fatti empirici, senza valutarli, limitando l’orizzonte della ricerca al mondo sensibile. Ne parla in Riflessioni sull’intelligenza (8): «Rinunciando al luogo suo proprio, l’intelligenza ferita si ripiega sul concreto sentito, come se il fatto singolo, iscritto in un documento o su un apparecchio registratore, le desse infine quella sicurezza che essa non si aspetta più dalla contemplazione dell’essere. Ahimé! il fatto stesso, allorché l’intelligenza rifiuta di usare la propria luce per coglierlo e giudicarlo, si sottrae e si liquefa davanti a lei, poiché essa insegue allora un bene che è il bene proprio del senso, e che essa non raggiungerà mai, dato che essa stessa non sarà mai sensazione. Consegnandosi alla legge della materia e alla sua deludente infinità, l’intelligenza intraprende una mortale avventura, che non ha a che vedere con la scienza positiva, certo, ma con quella pusillanimità orgogliosa, scientista o storicista, comunque si voglia chiamarla, che propone alla ragione, come suo fine supremo, di procurarsi il sapere, dispensandosi dal pensare, di esaurire materialmente il dettaglio sensibile, e di contare, secondo l’espressione di san Tommaso, i ciottoli che giacciono nel letto di un fiume. Questa fascinazione del positivo è stato il male che ha raggiunto un grande numero di intelletti nel secolo di Comte e di Renan» (III, p. 48)25. Renan negò la divinità di Cristo. Un altro maestro del positivismo, Émile Littré (1801-1881), discepolo di Comte, ma contrario al suo orientamento religioso misticheggiante, più noto come autore del Dizionario della lingua francese (1862) che come filosofo, giunge ad immaginare che «Dio è contrario alla religione e il supremo beneficio della religione positiva sarà quello di togliere di mezzo Dio come irreligioso» (XI, p. 771). D’altra parte per il positivismo la sostanza non è che «un luogo vuoto, un quadro immaginario in cui collocare i fenomeni» (I, p. 200), come sostiene Hippolyte Taine (1828-1893) che vorrebbe ridurre la filosofia in psicologia e risolvere l’antropologia in linguistica e che nella Filosofia dell’arte considera 25

Cf. la recensione di Maritain nella «Revue Universelle» (15 luglio 1925) al volume P. Lasserre, La jeunesse d’Ernest Renan, Histoire de la critique religieuse au XIX siècle, Garnier, Paris 1925 (III, pp. 1367-1382).

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

l’opera d’arte come il frutto dei determinismi sociali del momento. Maritain ricorda anche il sociologo e pedagogista Emile Durkheim (1858-1917) «che fa della società un grande io, di cui ciascuno di noi sarebbe come un organo» (I, p. 966), e che può essere considerato l’ultima espressione del positivismo in Francia. Nel volume Le forme elementari della vita religiosa ripropone la visione evoluzionistica del divenire umano anche per le forme superiori della cultura, e Maritain commenta: «Tutto si evolve, tutto cambia, tutto muta, le verità, i dogmi, l’intelligenza, le leggi metafisiche, il bene, il male; l’energia diventa pensiero, la magia diventa religione, le rappresentazioni sociali del clan primitivo diventano la coscienza morale di Durkheim e dei suoi discepoli, il totem diventa il loro dio, e lo slancio vitale, con il superuomo vago ed evanescente che cerca di realizzarsi, produce ciascuno di noi, mentre i suoi rifiuti lasciati per strada si perdono nell’animalità e nel mondo vegetale. Insomma l’evoluzionismo s’affaccenda per far uscire qualcosa dal nulla, e per estrarre geneticamente, soltanto con la forza del tempo, il superiore dall’inferiore, il determinato dall’indeterminato» (II, p. 983). Inoltre Maritain sottolinea la deriva sociologica della pedagogia di Durkheim, che risolve l’educazione nel processo di socializzazione, subordinando la persona alla società (III, p. 1409)26. Maritain ebbe rapporti di amicizia con l’etnologo Lucien LévyBruhl (1857-1939) che sviluppa una ricerca sulla formazione della coscienza nelle popolazioni primitive in una serie di opere. Maritain nei Quattro saggi sullo spirito incarnato (30), analizzando l’evoluzione del linguaggio nella storia dell’umanità, si confronta più volte con l’etnologo. Il linguaggio è ciò che distingue l’uomo dall’animale, ma questa funzione si è evoluta nel tempo perfezionandosi, passando dal linguaggio primitivo di tipo magico al linguaggio adulto di tipo logico. Questo fatto non riguarda la natura del pensiero, ma lo stato di funzionamento del linguaggio, perché nell’uomo, nel primitivo come nel bambino, non esiste un pensiero prelogico, ma uno stato notturno della logica inizialmente legata ad un’«immaginazione intelligenziata» (VII, p. 129). Una lettera di Lévy-Bruhl a Maritain conferma e documenta questa concordanza: «Mio caro amico sembra che i nostri invii si siano incrociati. Mentre io ricevevo il suo Segno e simbolo (VII, pp. 97-147) lei trovava senza dubbio il mio Esperienza 26 Cf. J. Maritain, Prefazione a F. De Hovre, La pedagogia cristiana e le ideologie del mondo contemporaneo, La Scuola, Brescia 1973, pp. 1-6.

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II. L’età delle ideologie

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mistica e simbolo presso i primitivi […]. Come Lei dice, giustamente, la mentalità primitiva è uno stato della mentalità umana e io posso accettare i caratteri con cui la definisce […]. Quando Olivier Leroy27 è venuto a parlare con me, come lei gli ha cortesemente consigliato, l’ho rassicurato che le sue più vivaci critiche non mi avevano toccato. Del prelogismo (che brutta parola) che egli ostenta, non ho avuto io l’idea. Penso solo che questo stato, descritto e analizzato sotto il nome di mentalità primitiva, ha i suoi caratteri propri, senza per questo supporre che questi spiriti siano costruiti in modo diverso da noi» (8 maggio 1938). Così Maritain e Lévy-Bruhl concordano nel ritenere che il passaggio dal pensiero magico al pensiero logico riguardi le fasi di una medesima attività intellettuale28. Comunque, malgrado queste convergenze, Maritain non esita a criticare i caratteri negativi del positivismo di Lévy-Bruhl che, come Comte, fa dipendere la morale dalla sociologia quando afferma che «nessuna morale è possibile indipendentemente dalla sociologia» e «domanda una morale alla sociologia, come un’igiene alla medicina» (XI, p. 697).

Il positivismo in Inghilterra e il darwinismo Il positivismo in Inghilterra è uno sviluppo dell’empirismo, si esprime come utilitarismo in etica e come liberismo in politica, mentre formula una nuova logica induttivistica e introduce nella cultura europea l’evoluzionismo come chiave di lettura dei fenomeni naturali, in una serie di pensatori minori. Solo in Herbert Spencer trova una sistemazione organica e un sistema filosofico. Jeremy Bentham (1748-1832), il fondatore dell’utilitarismo, ebbe una vasta influenza sulla cultura e sulla politica inglese; la sua opera Deontologia è un’esposizione del nuovo criterio per valutare le azioni umane. L’uomo è per natura un egoista, che cerca il proprio benessere, per lui il bene è l’utile; la morale non deve soffocare questa tendenza originaria, ma deve razionalizzarla, deve cioè rendere scientifica la ricerca del piacere. Bentham elabora una sorta di arit27 Olivier Leroy (1884-1966?), autore di libri più volte citati da Maritain: La raison primitive, essai de réfutation de la théorie du prelogisme, Geuther, Paris 1937; Sainte Jeanne d’Arc, 2 voll., Alsatia, Paris 1954-1958. Maritain e Journet pubblicano nella loro collana “Questions disputées” il libro di Leroy Les hommes salamandres (Desclée, Paris 1931) con una postfazione di Journet. 28 Cf. Segno e simbolo, in Quattro saggi sullo spirito umano (30).

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

metica morale, indicando il modo di calcolare ogni azione dal punto di vista del massimo piacere che ne può derivare. In questo modo il grossolano edonismo si trasforma in un raffinato utilitarismo. Questo nuovo criterio di “massimizzare la felicità e minimizzare i dolori” non è però un criterio soggettivo e individuale, ma un principio oggettivo e universale. Il vizioso cerca un piacere individuale, che non è il suo vero interesse, il virtuoso invece cerca il piacere proprio dell’uomo, di tutti gli uomini, perché il fine della morale è la più grande felicità per il più gran numero possibile di uomini. Così l’egoismo si muta in altruismo e dall’interesse di ciascuno nasce l’interesse di tutti. Si sente nel pensiero del Bentham uno schietto positivismo, perché la felicità è biologicamente calcolata, e inoltre un ingenuo liberalismo perché dall’utile individuale dovrebbe sorgere il benessere sociale. Maritain rileva l’equivoco che sta alla radice di questa filosofia, cioè il ritenere «che l’egoismo sia più naturale dell’altruismo» (I, p. 1075) misconoscendo la socialità della persona umana, perché per il positivismo l’uomo è solo un individuo. Charles Darwin (1809-1882) più che un filosofo è un naturalista, ma poiché dalle sue ricerche e osservazioni ha tratto conclusioni teoriche, dando origine alla famosa legge dell’evoluzione dal meno perfetto al più perfetto, interessa la storia della filosofia, perché ben esprime lo spirito del positivismo. L’origine delle specie per selezione naturale (1859) e L’origine dell’uomo (1871) sono le opere di Darwin che ebbero una grande diffusione. Mentre si era sempre ritenuto che da ogni specie animale non potessero nascere che individui di quella medesima specie, Darwin, come Lamarck, afferma che le specie si trasformano, e al fissismo di Georges Buffon, contrappone l’evoluzionismo, ma, mentre per Lamarck è soprattutto l’ambiente a determinare le trasformazioni, per Darwin è l’ereditarietà la causa di queste variazioni: per l’uno predominano i fattori esterni, per l’altro i fattori interni. Secondo Darwin nella lotta per la vita e nell’adattamento all’ambiente prevalgono gli individui più forti, che trasmettono ai discendenti caratteristiche perfezionate, migliorando le specie. Anche l’uomo deriva da animali inferiori per evoluzione, e precisamente da una scimmia ominide: la coscienza intellettiva e la coscienza morale non sarebbero altro che trasformazioni per evoluzione di sensazioni e di istinti. Maritain, che si era laureato in biologia ed era stato in Germania alla scuola di Hans Driesch, riconosce l’evoluzione delle specie, ma ne rifiuta l’interpretazione meccanicistica, e sottolinea le ambiguità epistemologiche del darwinismo, sia perché fa di una scienza

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fenomenologica una filosofia, sia perché sostituisce una spiegazione storica alla conoscenza della natura degli organismi (cf. VII, p. 232). «Il darwinismo rompe l’unità dell’essere vivente, rompe l’unità della specie e considera gli organismi come sistemi meccanici di particelle materiali giustapposte» (I, p. 891) e in questo meccanismo naturalistico non trova un fine che dia un senso allo sviluppo. Quella di Darwin è un’intuizione male concettualizzata, falsata dall’immaginazione: «L’immagine di un mondo vivente, attraversato durante le età dal movimento da una durata creatrice, era soggiacente ad un’intuizione originale, per quanto mal concettualizzata questa abbia potuto essere da Lamarck con la sua nozione di adattamento all’ambiente e da Darwin con la sua nozione di selezione naturale e di lotta per la vita» (XIII, p. 982). Maritain nel seminario Verso un’idea tomista dell’evoluzione (XIII, pp. 573-648) precisa che l’uomo nasce nell’evoluzione, ma non dall’evoluzione, perché dalla materia non può derivare lo spirito; e l’anima intellettiva di ciascun uomo è creata direttamente, di volta in volta, da Dio. Nel XX secolo, il gesuita Pierre Teilhard de Chardin cercherà di stabilire una connessione tra l’evoluzione cosmica e il cristianesimo e Maritain in diverse occasioni rileverà le contraddizioni di una simile prospettiva, perché la ricapitolazione in Cristo di tutte le cose di cui parla san Paolo non sarà un evento biologico, ma un evento metastorico29. John Stuart Mill (1806-1873) è figlio di James Mill (1773-1836), autore dell’Analisi dei fenomeni della mente umana, in cui tenta di spiegare tutta l’attività psichica dell’uomo con l’associazionismo, riducendo gli atti spirituali a fatti puramente psicofisici. Su di lui influirono tanto Bentham che Comte, per cui supera l’individualismo liberistico del primo con l’esigenza sociologica appresa dal secondo. Nel 1843 pubblica il Sistema di logica formulando un nuovo metodo induttivo. Si interessa di politica nei due scritti La libertà e Considerazioni sul governo rappresentativo. Critica la morale di Bentham in Utilitarismo, e ammette la possibilità della cosa in sé, indipendentemente dall’esperienza. La sua influenza sul pensiero inglese fu notevole, soprattutto in logica. Per Stuart Mill tutta la nostra conoscenza nasce dall’esperienza e dall’associazione dei dati forniti dalla sensazione. Unico criterio valido è il ragionamento induttivo, non come quello di Bacone che dalla serie dei giudizi particolari pretendeva di 29 Cf. Pierre Teilhard de Chardin e l’evoluzionismo, in P. Viotto, Grandi amicizie, cit., pp. 62-67.

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indurre un giudizio universale, ma come induzione da un giudizio particolare ad un giudizio particolare. Se Antonio, Maria, Giovanni, Ambrogio sono morti, non si può indurre che tutti gli uomini moriranno, ma semplicemente che anche Gerolamo morirà. Per Stuart Mill non è valida la deduzione, perché la premessa maggiore, da cui si deriva la conclusione, non può essere stabilita, in quanto non si danno giudizi universali, non potendosi con l’esperienza verificare tutti i casi possibili. Non si può dire che tutti gli uomini moriranno, e quindi Socrate che è un uomo morirà, perché non si può sperimentare che tutti gli uomini moriranno finché non sia morto l’ultimo uomo. Per Maritain c’è qui un equivoco, perché non è che tutti gli uomini moriranno, perché finora sono morti, ma perché la natura umana è mortale; cioè il giudizio universale non è tratto dal ripetersi dell’esperienza, ma dall’analisi della natura dell’uomo: non bisogna confondere un’astrazione con una comparazione. Maritain commenta: «Un ragionamento induttivo è tutt’altra cosa che la ricerca sperimentale della causa di un fenomeno» (III, p. 1357). La filosofia di Stuart Mill, che recupera l’empirismo di Hume, avrebbe dovuto concludere in un fenomenismo, risolvendo la realtà nella percezione sensoriale, ma invece distingue tra sensazioni immediate e sensazioni possibili, ammette tanto l’oggetto quanto il soggetto come possibilità permanenti di sensazioni. Resta così, accanto all’esperienza, la possibilità della realtà. Stuart Mill vuole limitare la conoscenza all’esperienza, ma sente il bisogno di non annullare nella sensazione la realtà. Ma questa possibilità della cosa in sé non è in Mill oggettivamente fondata. Maritain osserva: «Se dico questo tavolo, queste parole non significano per lo scienziato una sostanza che mi si presenta con una determinata figura e certe qualità, e di cui, in quanto fisico, del resto, non può sapere nulla. Esse stanno a significare un certo insieme di percezioni legate da alcune regolarità esprimibili. La possibilità permanente di sensazione, di cui parla Stuart Mill, è legata ad un certo numero di determinazioni matematiche e logistiche che la rendono intersoggettivabile» (VII, p. 202). Anche Dio non è un assoluto, Maritain ricorda che Stuart Mill scrive nei suoi Saggi sulla religione: «“Ecco dunque i chiari risultati della teologia naturale sulla questione degli attributi divini: un essere un potere, grande ma limitato, senza che noi possiamo neppure sospettare come e da che cosa sia limitato; un’intelligenza grande, forse illimitata, ma fors’anche racchiusa entro limiti più ristretti della sua potenza, la quale desidera la felicità delle sue creature e fa

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qualcosa per procurarla, ma che sembra avere anche altri motivi di azione ai quali tiene maggiormente”. Mirabile formula del perfetto empirismo religioso, di cui i nuovi teologi dell’inizio del secolo come William James e i suoi amici non hanno avuto che da sviluppare il programma» (III, p. 319). Anche per Stuart Mill non esistono principi morali universali a priori, ma le regole dell’azione derivano dall’esperienza, però corregge la pura aritmetica di Bentham introducendo, accanto al criterio quantitativo di valutazione dei piaceri, un criterio qualitativo, rivalutando quelli spirituali su quelli materiali. Mentre Bentham si ferma al puro utile individuale, da estendersi al maggior numero di individui, Stuart Mill cerca di introdurre accanto al calcolo un sentimento di coscienza e, influenzato Comte, di amor del prossimo, per cui bisogna fare agli altri ciò che si desidera che sia fatto a noi. Non esce dall’utilitarismo, perché la ricerca della felicità altrui resta sempre un mezzo per affermare la propria. È impossibile un’azione disinteressata, chi crede di cercare disinteressatamente la felicità altrui, non pensa che a forza di cercare la felicità altrui come mezzo per raggiungere il proprio interesse, si è così abituato da scambiare il mezzo con il fine. Anche l’altruismo non è che il frutto di un’associazione psichica nata dall’esperienza. Stuart Mill corregge il liberalismo, perché riconosce le esigenze sociali, senza però uscire dall’utilitarismo per cui lo scopo della società resta sempre solo un maggior benessere. La libertà è il principio cardine che va mantenuto a tutti i costi, contro ogni assolutismo o egualitarismo: libertà di pensiero, perché la verità riceve vigore solo dalla critica, libertà di azione, perché in questo modo ciascuno può manifestare la sua personalità. Lo Stato deve garantire la libertà, la quale non ha altro limite che se stessa, cioè essa non deve nuocere alla libertà degli altri. Il sistema rappresentativo garantisce la libertà, ma sono da evitare la tirannia della maggioranza e la tirannia dell’opinione pubblica, la prima con un sistema bicamerale, la seconda con il favorire lo sviluppo di grandi personalità intellettuali e morali, capaci di influire sull’opinione dei più. Sono valide le leggi economiche di Smith, di Ricardo e di Malthus, quali l’interesse personale, la libera concorrenza, per quanto riguarda la produzione dei beni di consumo, ma per quanto riguarda la distribuzione dei beni il diritto può modificare quelle leggi per una migliore distribuzione della ricchezza prodotta. In conclusione, Maritain rileva che il positivismo risolve la persona umana nell’insieme degli stati psichici. «Analizzando la no-

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stra vita psichica alla maniera di Stuart Mill, non vedendovi che dei fenomeni in successione, si giunge a dichiarare che tutto si riduce in noi a degli stati di coscienza legati gli uni agli altri in virtù delle leggi dell’associazione; tutto come gli atomi materiali per la filosofia della natura della fine del XVIII secolo erano tra loro uniti in virtù di certe leggi di attrazione, che non erano che un caso particolare della grande legge dell’attrazione universale» (I, p. 195). Il più importante esponente del positivismo inglese, Herbert Spencer (1820-1903), trasferisce l’evoluzionismo dal piano biologico al piano cosmologico, finendo col dargli un significato metafisico. Accolta la dottrina di Lamarck, in un primo tempo intende l’evoluzione iniziata per un atto di creazione e da questo orientata verso un fine, ma poi si limita alla descrizione delle cause esterne che la producono, attribuendole all’ambiente, prima di Darwin, che lo cita nella prefazione de L’origine delle specie. Spencer formula un piano di lavoro per Un sistema di filosofia sintetica, che realizza in diversi volumi tra il 1860 e il 1893. Un posto a parte ha l’Educazione intellettuale, morale e fisica, del 1861, l’opera classica del positivismo pedagogico, che ebbe larga diffusione nei paesi anglosassoni. Il sistema di Spencer inizia, alla maniera di Kant, con una discussione sui limiti della conoscenza umana, riconducendoli al piano del fenomeno, oltre il quale non ci è dato di andare se non ci soccorre una rivelazione. La scienza ha per oggetto lo sperimentabile, il fenomeno, oltre il quale c’è il mistero; la religione ha per oggetto il soprasensibile, la cosa in sé, il noumeno. Così Spencer salva la fede, distinguendo tra conoscibile e inconoscibile, ma la contrappone alla scienza. L’esperienza è limitata al fenomeno, i dati che ne riportiamo, pur non dandoci la realtà in sé, ne sono un simbolo; per questo ci è possibile ammettere, al di sotto dei fenomeni, una forza persistente, che è la causa dei fenomeni e che rimane costante nel suo doppio aspetto di materia e di movimento. I singoli esseri emergono dalla materia per il raccogliersi di elementi che prima erano dispersi, e scompaiono nella materia per il dissolversi di questa composizione: all’evoluzione segue l’involuzione. Tutto il processo cosmico si riduce perciò a fenomeni di integrazione e di disgregazione. L’evoluzione è un’integrazione di materia, che va costituendo l’individuo attraverso un processo che si articola in tre aspetti. La concentrazione segna il passaggio dal semplice al composto (dalla nebulosa primitiva al sistema solare); ma questa concentrazione avviene mediante una differenziazione, passaggio dall’omogeneo all’e-

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terogeneo (mentre si passa dalla nebulosa al sistema solare i singoli pianeti si differenziano); e questa differenziazione avviene attraverso una determinazione, passaggio dal disordinato all’ordinato (nel sistema solare i pianeti si pongono in rapporto tra di loro e con il sole, in modo da costituire un’armonia delle parti col tutto). Spencer applica queste leggi dell’evoluzione alla biologia, alla psicologia, alla sociologia e all’etica, finendo, come faceva anche Hegel, per forzare la realtà, per farla corrispondere a principi a priori. L’evoluzione in biologia si manifesta come passaggio da forme inferiori a forme superiori per l’adattamento delle strutture degli individui alle modificazioni dell’ambiente esterno. Spencer in psicologia e in etica nega l’esistenza di principi a priori, derivandoli tutti per evoluzione dall’esperienza. Quei criteri di conoscenza e quelle regole di moralità che ci sembrano a priori, innati, costitutivi della nostra natura, sono invece solo a priori per noi, non per i nostri progenitori, che sono giunti a tali principi attraverso l’esperienza e poi ce li hanno tramandati per ereditarietà. Infine in sociologia si passa per evoluzione dall’individuo alla società attraverso il libero organizzarsi delle classi sociali, fino ad un perfetto equilibrio tra egoismo e altruismo, senza sacrificare la libertà dell’individuo. Sul piano pedagogico Maritain contro Spencer precisa che non basta esercitare l’intelligenza per migliorarla, perché per migliorarla, bisogna soddisfarla; e l’intelligenza è soddisfatta quando ha intelletto l’intelligibile, cioè quando ha raggiunto la verità. Approfondendo precisa: «L’opposizione tra valore di conoscenza e valore di esercizio deriva dall’ignorare che cos’è la conoscenza e dal supporre che conoscere sia accumulare materiali in un sacco, e non già l’azione più vitale, per mezzo della quale le cose vengono spiritualizzate per fare un tutt’uno con lo spirito. Nella conoscenza che è della specie più degna, se si desse la precedenza all’esercizio o alla ginnastica mentale o al puro esame dialettico su come sono fatte le grandi opere o come si svolgono i grandi pensieri, se si desse a questa ginnastica la precedenza sulla bellezza nella quale dilettarsi o sulla verità da apprendere e a cui aderire, si andrebbe contro la tendenza naturale dello spirito» (VII, p. 827). Maritain nella Storia della filosofia morale (57) conclude l’analisi sul positivismo anglosassone: «Dall’utilitarismo di Bentham e di Stuart Mill non credo che la filosofia morale abbia nulla d’importante da apprendere. Questo edonismo social-minded e ben pensante, che concepisce il fine della vita umana in termini di statistica, e che in Bentham ha un sapore piuttosto mercantile, in John Stuart Mill è

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colorato delle virtù proprie del gentleman, resta di molto inferiore al sentimento morale, che gli serve da sostrato nella coscienza comune, e che l’edonismo in parola tenta di razionalizzare. Esso dimentica del resto che Mandeville aveva mostrato anticipatamente l’estrema ingenuità del principio benthamiano secondo il quale la più grande felicità del più gran numero risulta dai piaceri e dall’utilità di ciascuno, quando siano ben calcolati. Tutto quello che l’utilitarismo della fine del XVIII secolo e dell’inizio del XIX è riuscito ad operare è il completo svuotamento, nel campo stesso di questi difensori della virtù, dell’idea del bene morale propriamente detto, del bonum honestum (bene come rettitudine) sostituita da quella del vantaggio, o del good state of affairs» (XI, p. 401).

Il positivismo in Germania e in Italia Maritain non dedica particolare attenzione al positivismo italiano e tedesco, ma nei suoi scritti si trovano alcune osservazioni rilevanti. Il positivismo in Germania non ebbe un ampio sviluppo, ma si trasformò in materialismo, con Ernest Haeckel (1834-1912), insegnante all’Università di Jena, che negli Enigmi dell’universo fa derivare tutti gli esseri da una materia originaria composta di azoto, ossigeno, idrogeno e carbonio, in una prospettiva, sotto l’influenza della filosofia della natura di Goethe, di un vago panteismo. Haeckel ritiene la filosofia una sintesi di chimica, fisica e meccanica come studio della forma, della materia e della forza; ed elabora la legge biogenetica generale secondo la quale l’ontogenesi, cioè lo sviluppo individuale degli embrioni, sarebbe una ricapitolazione della filogenesi, cioè lo sviluppo evolutivo della specie. Maritain, che si è specializzato in embriologia ad Heidelberg alla scuola di Hans Driesch30, ritiene che questa teoria sia una falsificazione (I, p. 933) e precisa che l’uomo nasce nell’evoluzione, ma non dall’evoluzione, perché la vita spirituale dipende ma non deriva dalla vita biologica, in quanto l’anima intellettiva è creata direttamente da Dio. Contrappone al meccanicismo di Haeckel il finalismo di Driesch, la cui filosofia della natura rivendica, contro ogni trasformismo, «l’autonomia della vita» (II, p. 1153) e per via sperimentale afferma «che il corpo 30

26-30.

Cf. La filosofia della natura: Hans Driesch, in P. Viotto, Grandi amicizie, cit., pp.

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vivente è qualche cosa di assolutamente irriducibile ad una macchina fisico-chimica» (II, pp. 1259-1260)31. Anche l’Italia partecipò al moto culturale che predominò nella seconda metà dell’Ottocento e che segnò una reazione al romanticismo; ma, a parte il suo principale esponente, Roberto Ardigò (1828-1920), il positivismo italiano non giunse alle conclusioni materialistiche del positivismo europeo; si caratterizzò come un positivismo metodologico, richiamandosi in questo senso alla tradizione sperimentalistica di Leonardo e di Galileo per la scienza, di Machiavelli e di Guicciardini per la storia e la politica, di Muratori per la storiografia. Fu una reazione allo spiritualismo che aveva sostenuto gli ideali risorgimentali: fatta l’unità politica dell’Italia, occorreva risolvere i problemi pratici che questa unità comportava, era necessaria una conoscenza dei dati positivi, della situazione reale, occorreva partire dall’esperienza. Questo riferimento all’esperienza si riallaccia alla tradizione ideologica fiorita nella seconda metà del Settecento e nei primi anni dell’Ottocento. Carlo Cattaneo (1801-1869), discepolo di Romagnosi, è l’iniziatore del positivismo italiano che invita i giovani a tornare agli studi positivi, a fare delle esperienze, e si interessa di studi psicologici tentando una psicologia delle menti associate, ossia una psicologia dei rapporti sociali. Un federalista repubblicano, Giuseppe Ferrari (1811-1876), anche lui discepolo di Romagnosi, volse in scetticismo l’empirismo del maestro. Ma il più noto positivista italiano è Cesare Lombroso (18361909), animatore a Torino della Scuola positiva italiana di diritto penale, che con le sue opere Genio e follia (1864) e L’uomo delinquente (1878) contribuì a promuovere la psicologia criminale, anche se giunse a derivare le capacità psichiche dalla struttura somatica e a considerare il genio come un anormale. Si può considerare tra i positivisti italiani anche il fisiologo Jacob Moleschott (1822-1893), docente prima in Olanda e in Svizzera, poi in Italia, a Torino e a Roma, senatore del Regno, membro dell’Associazione nazionale del libero pensiero “Giordano Bruno” che, in Circolazione della vita (1852) tradotta in italiano da Lombroso, riduce il pensiero a circolazione di fosfati.

31 Cf. gli articoli nei «Cahiers de philosophie de la nature» promossi da Maritain con un gruppo di scienziati dal 1925 al 1932.

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9. Auguste Comte: una nuova ideologia utopistica

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Profeta di una rivoluzione la quale non ha direttamente investito che la sfera delle idee, ma il cui potere di diffusione e il cui indice di universalità sono certo più considerevoli di quelle della rivoluzione marxistica nella sfera sociale (XI, pp. 746-747).

Maritain dedica particolare attenzione a questo filosofo, perché lo considera il padre del relativismo, nella sua Storia della filosofia morale (57) gli dedica due capitoli (XI, pp. 689-844) e utilizzando anche uno studio monografico fatto da Lucien Lévy-Bruhl32, che era stato suo insegnante alla Sorbona. Auguste Comte (1798-1857), discepolo e segretario di Saint-Simon, da cui fu profondamente influenzato, dopo una grave crisi nervosa e un tentativo di suicidio si avvia all’insegnamento all’“École polytecnique” e si dedica ad elaborare una sintesi enciclopedica in sei volumi, Corso di filosofia positiva, pubblicati tra il 1839 e il 1842, che diventano il più importante testo del positivismo francese. Ma proprio questo lavoro suscita polemiche e deve abbandonare l’incarico e vive grazie ai sussidi dei suoi ammiratori. Dopo una seconda crisi nervosa, da cui si salva grazie al legame con Clotilde de Vaux, la cui influenza lo inclina verso una visione misticoumanitaria, scrive i quattro volumi del Trattato di sociologia, riassunti in uno scritto divulgativo dal titolo Catechismo positivista (1852). Comte si riavvicina al socialismo utopistico, formula in tutti i suoi dettagli i principi e i riti di una nuova religione che sostituisce al culto di Dio il culto dell’umanità; la scienza diventava così una religione dando origine a sette che si diffondono anche in America. A Porto Alegre, in Brasile, si trova ancora un tempio con scritto sul frontone «L’amore per principio, l’Ordine come fondamento, il Progresso come fine». È una sintesi del credo di Auguste Comte. Maritain inizia la sua analisi rilevando che Comte, rispetto a Kant, «è profondamente e deliberatamente acritico» perché per lui «è un puro non-senso pensare che lo spirito possa scrutare se stesso, esaminare il proprio potere di conoscere e il valore della conoscenza» (XI, p. 690). «Egli si serve dello spirito senza curarsi minimamente di sapere che cosa esso sia» (XI, p. 691). Comte rappresenta nello sviluppo della riflessione filosofica uno snodo nella reazione antikantiana perché per il suo monismo si affianca ad Hegel e Marx e 32

L. Lévy-Bruhl, La philosophie d’Auguste Comte, Alcan, Paris 1900.

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II. L’età delle ideologie

La morale dopo Kant - tav. n. 9

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

prepara Sartre e Dewey e per il suo vago misticismo accenna ad una morale sovraumana radicata nella soggettività individuale come si può trovare in Kierkegaard e in Bergson. Si confronti la tavola che Maritain inserisce nella sua Filosofia morale (57) che allego rimandando per gli approfondimenti alle pagine di commento dell’opera.

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Il relativismo e l’epistemologia positivista Comte a diciott’anni proclama questo principio: «Tutto è relativo, ecco la sola cosa assoluta», che qualche anno dopo, diventato gran sacerdote dell’umanità, formula in: «Tutto è relativo, ecco il solo principio assoluto». Maritain rileva che questa formula «doveva procurare una profonda soddisfazione viscerale a generazioni di borghesi» (XI, p. 723) e osserva che si tratta di un’intuizione mal concettualizzata perché «il tempo è il grande relativizzatore, ma si tratta di sapere se tutto sia sottoposto al tempo e da esso misurato, e se tutte le cose di conseguenza siano relativizzate dal tempo» (XI, p. 724). Ma Comte, «invece di pensare ad una relatività dello stato delle nostre conoscenze, pensa alla relatività della verità» (ibid.). Così, contraddicendosi, fa del relativismo un assoluto. «Si è voluto relativizzare tutto, fenomenizzare tutto, ed erigere a filosofia la negazione del sapere filosofico […] ma la relatività non ha senso, che essendo relativa essa stessa, non ha senso che in rapporto all’assoluto» (XI, p. 732). «Comte pretende di fondare una filosofia, pur rifiutando alla filosofia un suo oggetto e un ambito indipendenti» (XI, p. 739). Comte nega il principio di finalità e lo sostituisce «con il principio positivo delle condizioni di esistenza: l’uccello vola perché ha le ali, non ha le ali per volare» (III, p. 1060). La scienza si limita a constatare, di volta in volta, il fatto, non cerca spiegazioni ultime; per il positivismo non vi è altra scienza. Nell’età positiva tutte le scienze si liberano delle sovrastrutture teologiche e filosofiche, nasce una nuova scienza, la sociologia, nella quale la filosofia morale diventa un’indagine sperimentale per poter stabilire scientificamente le leggi della vita associata. Comte stabilisce una nuova classificazione delle scienze, studiate nella loro successione storica, secondo la legge dell’evoluzione da una maggior astrazione e minore complessità a una maggior complessità e minor astrazione. Con questo criterio di valutazione si stabilisce una progressione epistemologica: matematica, astronomia, fisica, chimica,

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II. L’età delle ideologie

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biologia, sociologia, e infine morale «come sintesi soggettiva e strumento della religione» (XI, p. 804). La filosofia, avendo perso il suo oggetto specifico cioè l’intelligibile, viene ridotta ad un compito di classificazione delle altre scienze. Non esiste la metafisica, ma solo le conoscenze fenomenologiche dei fatti positivi, tanto che Comte afferma: «Mentre Hume rappresenta il mio principale precursore, Kant vi si trova accessoriamente legato: la sua concezione fondamentale non fu veramente sistematizzata e sviluppata che dal positivismo» (XI, p. 692). A proposto di questa riduzione della filosofia a semplice segretaria delle altre scienze Maritain osserva: «Comte è stato il primo di quei filosofi, la cui specie è divenuta comune, che filosofano con tanta maggiore arroganza, quanto più cacciano la filosofia da casa sua e le vietano i suoi propri territori, quei filosofi per i quali la filosofia non ha né oggetto, né sfera indipendenti, non avendo altra sfera ed altro oggetto che quello delle scienze. Spingendo alle estreme conseguenze l’idea dell’unità essenziale del sapere, tanto cara a Cartesio, e raccogliendo al puro livello dei fenomeni tutto il sapere umano ormai completamente omogeneo, egli così inaugura in modo sistematico quello che si potrebbe chiamare il giacobinismo o il sanculottismo epistemologico, per il quale la filosofia è un’aristocratica diventata portinaia e custode del Museo della Scienza» (XI, p. 691). Ma a parte il riscontro di queste esasperazioni ideologiche, Maritain riconosce a Comte il merito di avere riconosciuto che la scienza moderna, «che consiste nell’osservare e misurare, nell’organizzare i risultati in una costruzione matematica o in una altra specie di costruzione simbolica» (XI, p. 714), ha acquisito la sua autonomia dalla filosofia. Però Comte di una distinzione ha fatto una separazione, giungendo a contrapporre le scienze alla filosofia: «Ha dunque definito in modo sommario e semplicistico i caratteri che differenziano il modo di pensare proprio della scienza da quello proprio della filosofia, come sapere indipendente. Resta che egli ha visto tra questi due modi di pensare un’irriducibile differenza. E l’aver visto questo è quanto importa anzitutto, questo fa il merito e la forza storica di Comte. Si dovrà formulare questa verità in maniera diversa da lui, ma si è tenuti a riconoscerla» (XI, p. 713). E aggiunge: «L’equivoco insensato è stato di credere che il modo di pensare proprio delle scienze dei fenomeni respingesse nel nulla il modo di pensare proprio della metafisica; in altri termini, che il secondo modo di pensare fosse illusorio e che soltanto il primo costituisse un valido approccio alla realtà» (XI, p. 715). Cartesio aveva risolto

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

tutte le scienze in filosofia, con Comte la filosofia si riduce ad una metodologia di ricerca, elenca e cataloga le altre scienze. Le scienze dei fenomeni sono relative, perché con il continuo progredire degli strumenti di ricerca, assumono sempre nuovi punti di vista, ma questo fatto non autorizza a fare del relativismo una filosofia.

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La filosofia della storia L’umanità è pervenuta allo stato attuale attraverso tre grandi fasi storiche che Comte descrive inquadrando il suo sistema in una visione storica e considerandola, come già faceva Hegel, il punto terminale e perfetto dell’evoluzione. Nell’età teologica gli uomini riferiscono, mediante l’immaginazione, le cause dei fenomeni ad esseri trascendenti, a delle divinità. La religione passa attraverso vari gradi, dal feticismo primitivo al politeismo e infine al monoteismo. In questo periodo la società è organizzata monarchicamente. Nell’età metafisica gli uomini, abbandonando le precedenti spiegazioni antropomorfiche, riferiscono, mediante la ragione, le cause dei fenomeni ad enti astratti, razionali, a principi filosofici. In questo periodo la società si dissolve, la discussione, l’egoismo, il dubbio la sgretolano, l’individuo si sottomette allo Stato, ridotto ad una convenzione nata per contratto. Nell’età positiva, invece, gli uomini rinunciano alla spiegazione ultima della realtà e si accontentano, mediante l’osservazione, di spiegare i fenomeni con i fatti positivi, senza pretendere di cercare l’origine e lo scopo delle cose. Si studiano così le condizioni in cui avvengono i fenomeni, per stabilire le leggi del loro comportamento, per poterli utilizzare. Questa è la legge dei tre stati a cui sono sottoposte tutte le conoscenze: «Lo stato teologico o fittizio, lo stato metafisico o astratto, e infine lo stato scientifico o positivo» (XI, p. 717). Per Comte, osserva Maritain, «il regno della metafisica non è considerato che come una specie di malattia cronica transitoria» (XI, p. 721). Questa legge presuppone il principio fondamentale del progresso necessario: «È sotto la sua influenza che Comte, con Saint-Simon, guarda la Rivoluzione francese come l’irrevocabile avvenimento di una nuova Gerusalemme, di cui si era riservato di fondare la religione» (II, p. 862). Maritain rileva una stretta connessone tra la filosofia della storia e l’epistemologia di Comte: «Dal punto di vista positivistico si è condotti ad affermare che le scienze matematiche e fisico-matematiche,

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II. L’età delle ideologie

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e tutto l’insieme delle varie scienze fenomeniche, rappresentano il solo organo, la sola funzione di verità (o di verificazione) del pensiero umano, e che, pertanto, la religione, l’esperienza mistica, la metafisica, la poesia si trovano nella mentalità incivilita come un’eredità della mentalità primitiva e prelogica. Questo è un punto fondamentale nella filosofia della storia dei positivisti. Questi tipi di attività mentale non sarebbero che metamorfosi dell’antica magia, giustificabili, forse nell’ordine pratico e affettivo, ma direttamente opposti, come la magia stessa, alla linea della scienza e della verità. L’era della scienza è succeduta all’era della magia; e magia e scienza sono essenzialmente nemiche e incompatibili» (X, pp. 696-697). Per Maritain, come scrive in Segno e simbolo (VI, pp. 97-147), l’uomo ha sempre impostato e giudicato le sue azioni attraverso il pensiero, non c’è stata nell’umanità una mentalità prelogica, anche se la coscienza storica, la coscienza scientifica, la coscienza religiosa sono tutte passate attraverso il regime notturno dello spirito, prima di giungere allo stato adulto, allo stato logico della perfezione concettuale. Infine Maritain rileva che risolvere tutto il problema della conoscenza nei limiti della storia, negando la trascendenza del pensiero sul divenire dell’uomo, come fanno Comte, Hegel e Marx, è una sorta di «gnosticisno della storia» (X, p. 639).

La religione dell’umanità A questo punto Comte si lascia trasportare dal sentimento: il suo sistema di politica positiva acquista accenti di ingenuo misticismo. Afferma che l’individuo è solo un’astrazione, chi esiste realmente è l’Umanità; i singoli uomini nascono e periscono, ma l’Umanità è immortale ed eterna, è sempre stata e sempre sarà. L’immortalità di ciascuno è solo nel ricordo degli altri, non è un’immortalità reale, ma è «un’immortalità soggettiva» (IX, 303), in quanto ogni uomo partecipa ad un’unica anima collettiva. Preso sempre più dal sentimento di appartenenza all’unica umanità di quelli che furono, che sono e che saranno, Comte invita al culto di questa nuova divinità, subordinandole l’individuo, non solo politicamente (sociocrazia), ma anche spiritualmente (sociolatria). Ogni uomo è uomo grazie alla società in cui vive: «l’individuo umano come tale è un oggetto puramente biologico, le funzioni propriamente umane, come l’intelligenza e la moralità, sono sociali in tutta la forza del termine» (XI, p. 792). L’Essere supre-

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

mo è l’umanità, che è il Grande essere (cf. XI, pp. 792-793), il quale con il Grande Feticcio, cioè la terra e il Grande Mezzo, cioè lo spazio, costituisce una sorta di trinità positivista. La religione di Comte, che conserva, travisandoli, molti caratteri del cristianesimo, e «propone nove sacramenti sociali» (III, p. 359), è una laicizzazione della religione perché riduce Dio al collettivo dell’umanità e considera la salvezza, anziché l’opera soprannaturale di Dio nella storia di ogni uomo, il risultato del progresso naturale dell’umanità. Comte non è solo agnostico, ma è ateo, proprio come Marx. Maritain fa un confronto tra l’ateismo rivoluzionario del secondo e l’ateismo conservatore del primo. Comte aveva l’intenzione di scrivere un trattato di morale, ma riuscì solo a tracciarne l’indice, indicando due aspetti, l’uno riguardante l’ordine del mondo, che si sviluppa come fatalità, a cui bisogna adattarsi, come consiglia lo stoicismo, e l’altro riguardante l’ordine della società al quale bisogna collaborare sulla base dell’amore come principio, cercando di far prevalere la simpatia sull’egoismo. L’amore non è un valore in se stesso, come la carità per il cristianesimo, virtù che Comte e Marx disprezzano, ma è solo un mezzo. Maritain rileva che «la finalità ha in quest’etica, che è essenzialmente sociale, una preponderanza sul valore» (XI, p. 836). Comte, a differenza di Kant, «reintegra i legami dell’universo della natura con l’universo della moralità» (XI, p. 839) in un sistema morale «cosmico-chiuso», fenomenologizzato e relativizzato, perché «nella prospettiva positivistica la ragione è per l’universo morale un principio regolatore estrinseco, solo i sentimenti e gli istinti sono principi regolatori intrinseci della condotta umana» (XI, p. 841). Maritain osserva: «Non c’è alcun valore assoluto, c’è solo un fine relativamente supremo: l’Umanità e il suo progresso» (XI, p. 837). Maritain in Riflessioni sull’intelligenza (8) mette a confronto Comte e san Tommaso: «Il fondatore del positivismo ha giustamente veduto che tutto il nostro sapere poggia su una base sperimentale. E san Tommaso avrebbe potuto spiegargli che così è perché solo i nostri sensi ci danno l’intuizione immediata di ciò che esiste fuori di noi, in quanto le nostre idee non si risolvono in Dio, come credeva Cartesio, ma nelle cose, e ciò per mezzo dei sensi. Ma poi avrebbe cercato di fargli comprendere che questa non è che la risoluzione materiale, come noi diciamo, della nostra scienza; che dal dato sensibile, la luce dell’intelletto trae delle nature e delle leggi, tutto un ordine di necessità intelligibili, che vale per sé, e si risolve formalmente nella nozione oggettiva dell’essere; e infine che la ragione, basandosi sulle sole esistenze sensibili, immediatamente per-

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II. L’età delle ideologie

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cepite, può e deve passare all’affermazione scientifica dell’esistenza delle realtà spirituali» (III, p. 358).

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Conclusioni sull’età del positivismo Iniziatosi come una critica dell’idealismo in nome del fenomenismo, il positivismo finì per ereditarne le caratteristiche strutturali, quali il monismo e l’evoluzionismo, ma soprattutto la pretesa di aver trovato un metodo di ricerca uguale per tutti i campi del sapere. Ma non è il metodo a determinare la realtà, bensì è la realtà a richiedere un metodo a lei adeguato, e poiché la realtà è molteplice nei suoi aspetti, occorreranno diversi metodi per i diversi aspetti. Cartesio aveva creduto di aver trovato nella matematica il metodo universale, dopo di lui Hegel indica nella filosofia l’unico metodo di ricerca; i positivisti riducono tutto a scienza, e in questo senso avrebbero dovuto limitarsi alla constatazione dei fatti, nelle loro concatenazioni, senza pretendere di assurgere poi a valutare con il medesimo metro il perché ultimo e la causa prima di quei fatti; invece, proprio loro, i nemici della metafisica, diventarono dei metafisici e dei materialisti. Così sono caduti in due gravi contraddizioni: la prima consiste nell’aver voluto trasferire nella materia le caratteristiche dello spirito, cioè nell’aver attribuito alla natura, che di per se stessa è ripetizione, l’evoluzione storica e il progresso; la seconda, che è il rovescio della prima, consiste nell’aver attribuito allo spirito le caratteristiche della materia, per cui si è derivato per evoluzione l’uomo dall’animale, l’anima dal corpo, lo spirituale dal fisico. Il positivismo pretese di spiegare ogni cosa, anche le più complesse, con semplici variazioni quantitative, passando dalla fisica alla chimica, dalla chimica alla biologia, dalla biologia alla psicologia, dalla psicologia alla filosofia. Accanto al preteso metodo universale, il positivismo trascina altri equivoci derivati dal monismo, sia perché venivano svalutati i singoli esseri, ridotti a provvisori anelli di un’evoluzione senza scopo, sia perché era impossibile derivare dall’unità originaria, indistinta e imperfetta, tutta l’infinita serie degli esseri distinti e nel loro limite perfetti, che ne sono scaturiti. Così l’evoluzionismo si poneva dogmaticamente, senza giustificazione, a chiave di volta di tutto un sistema. La prima metà del secolo fu romantica ed ebbe per l’arte quasi un culto, la seconda metà fu positiva e volle adorare la tecnica; il secolo successivo vive l’antinomia tra arte e tecnica, tra spirito

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

e materia, tra libertà e necessità, in una serie di correnti filosofiche che reagiscono ad ogni monismo, ad ogni assolutismo, rivalutando il singolo, l’esistenziale, la pluralità. «Se John Stuart Mill trovava che la frequentazione degli scritti di Hegel depravava l’intelletto, un qualunque hegeliano avrebbe potuto rispondere che cercare lumi nel Corso di filosofia positiva di Comte è un segno di anemia dello spirito» (XI, pp. 699-700). In un certo qual senso il positivismo, attraverso Kant, è lo sviluppo dell’empirismo. Maritain osserva: «Il disaccordo tra positivismo e kantismo in materia speculativa è profondo. Ma esso non impedisce, sul piano delle opinioni comunemente diffuse e delle idee filosofiche volgarizzate, una specie di intesa cordiale e di convergenza effettiva tra i due sistemi. Fusi in una stessa nozione, i fenomeni constatati dal positivismo e i fenomeni costruiti da Kant dovevano segnare, per una moltitudine di esseri pensanti della specie uomo moderno, il limite a cui si arresta la conoscenza umana, e sul quale sta scritto in tutte le lingue del mondo: proibito andare oltre. Al contrario, sul piano dell’etica il positivismo si oppone al kantismo in modo assolutamente irriducibile e nella misura in cui esso ha allargato il suo dominio, la reazione anti-kantiana che prende in esso la sua forma estrema non ha potuto che approfondirsi e fortificarsi. L’apriorismo kantiano richiamava esso stesso una tale reazione e la rendeva inevitabile. Lo stato d’animo positivistico si rifiuta a questo apriorismo, si sente offeso dalla teoria dell’imperativo categorico e dalle sue esigenze puramente formali, come il carattere arbitrario del suo tu devi. L’assolutismo e il purismo etici, i comandamenti del Sinai trasferiti alla volontà noumenica dell’uomo, non gli dicono nulla di valido. E ciò di cui, non senza ragione, innanzitutto si scandalizza, è del fermo proposito kantiano di tagliare ogni legame tra il mondo della moralità e il mondo della natura» (XI, p. 691). Maritain nella sua analisi sottolinea come accanto e in relazione al positivismo utopistico e pseudomistico di Comte si sia sviluppato un «positivismo puramente scientista o secolarizzato» che ha raggiunto il mondo contemporaneo, di cui rileva tre connotazioni ereditate dal pensiero debole. «Il primo atteggiamento dottrinale è quello dello storicismo, che risale a Comte (agli occhi del quale, tuttavia, il relativismo storico non si applicava, beninteso, alla propria dottrina, considerata come definitivamente fissata). Lo storicismo ritiene che ogni pensiero umano è storicamente condizionato, non solo riguardo alle sue modalità accidentali, ma riguardo alla sua

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II. L’età delle ideologie

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stessa relazione con l’oggetto […]. Donde segue che nessun giudizio, quale che esso sia, e in particolare nessun giudizio morale, è universalmente valido, e che tutte le nostre norme di condotta sono relative al tempo e alla diversità dei momenti storici» (XI, pp. 694695). Il pensiero debole si muove in questo relativismo. «Il secondo atteggiamento dottrinale è quello del positivismo logico e dei suoi succedanei i quali, spingendo più lontano di Comte talune vedute di Comte stesso, considerano come fornite di senso e capaci di essere estese a validità intersoggettiva soltanto le asserzioni proprie delle scienze dei fenomeni, che hanno a che fare solo con i dati e con i metodi di osservazione e di misura» (XI, p. 695). Il pensiero debole rinuncia alla metafisica. «Il terzo atteggiamento dottrinale è quello del sociologismo, che non si confonde con la sociologia più che lo storicismo si identifichi con la storia, e che ritiene (era questa particolarmente la posizione di Émile Durkheim) che tutto quanto concerne la condotta umana, il comportamento degli individui come quello del gruppo, le idee, le credenze e le regole che vi presiedono, mette capo ad un unico sapere, la sociologia, pura scienza d’osservazione dei fatti sociali o fenomeni sociali» (XI, pp. 694-696). Il pensiero debole si ferma all’opinione. In conclusione il positivismo si presenta più come un’ideologia che come una filosofia, al punto da fare violenza alla scienza stessa. Infatti, osserva Maritain: «I teorici della scienza e della sua propria logica, soprattutto Meryerson in Francia, hanno dimostrato che lo scienziato, se si osserva non ciò che dice ma ciò che fa, senza fare caso delle sue opinioni e dei suoi pregiudizi filosofici, e delle sue sudditanze teoriche al positivismo, mette realmente in opera, una logica che non ha nulla a che vedere con le costruzioni del positivismo classico o dell’empirismo» (XI, p. 71). Il positivismo, avendo sganciato le scienze dal sapere filosofico, avendo ridotto la filosofia a fare la segretaria delle scienze, privandola del suo oggetto proprio, si pone oltre il criticismo kantiano. «Nell’ordine speculativo il positivismo è una reazione contro Kant nel senso che Kant, pur rendendo critica e non più dottrinale, l’opera della filosofia, restava un filosofo della tradizione aristocratica, stimava cioè la filosofia una disciplina di rango superiore, una disciplina-regina, incentrata su un oggetto che le apparteneva in proprio, che costituiva per essa un ambito o territorio noetico indipendente. Proprio mentre si persuadeva dell’impossibilità di ogni metafisica come scienza, egli rimaneva tutto preso dalla metafisica e si dava a restaurarla nella sua verità, mediante la

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credenza. L’idea dell’attività dello spirito, per quanto male del resto l’abbia potuta intendere, era all’origine della sua ricerca. E se limitava la nostra conoscenza ai fenomeni e al mondo dell’esperienza, collocava però nelle regioni non attinte dal sapere l’esistenza del noumeno o cosa in sé» (XI, p. 690). Il positivismo non è una filosofia critica o una filosofia dottrinale, ma un’ideologia. Ciò detto Maritain distingue nella selva dei positivisti un positivismo di destra e un positivismo di sinistra: «Vi è un positivismo di sinistra liberale, umanitario, ingenuo e incoerente, che milita per la giustizia, per la fraternità umana e per i diritti umani ritenendo nullo e come mai avvenuto tutto ciò che fonda razionalmente tali nozioni. Vi è d’altronde un positivismo di destra cinico e articolato, utopico al pari del positivismo di sinistra, ma all’insegna dell’ordine e della forza, che in nome della natura e delle sue necessità, e di un realismo sedicente scientifico, nutre una profonda avversione per la giustizia e per i valori morali» (XI, p. 694). Malgrado il giudizio critico sull’insieme del positivismo, Maritain, a riguardo dell’ipotesi di un evoluzionismo biologico, si dimostra possibilista tanto da scrivere in Verso un’idea tomista dell’evoluzione (XIII, pp. 573-648): «Notiamo di sfuggita che, nonostante il dubbio radicale a cui si rassegnano oggi molti scienziati quanto alla possibilità di trovare una spiegazione scientifica delle cause dell’evoluzione, significherebbe fare ingiuria allo spirito umano il rinunciare alla speranza che questa spiegazione, sempre soggetta a revisione, come tutte le spiegazioni della scienza, possa essere un giorno trovata» (XIII, p. 600). Ma si tratta di verificare, al di là dell’evoluzione biologica, il tutto con una sicura filosofia della storia e non fermarsi all’elencazione dei fatti, senza pretendere che la storia sia la scienza ultima. «La storia come pura elencazione dei fatti corrisponde ad una necessità assoluta. Ma essa non è affatto una scienza, come immaginava l’ingenuo positivismo del XIX secolo. Essa è una parte integrante della storia, una tecnica e una disciplina indispensabili (critica dei documenti, critica delle testimonianze, paleografia, ecc.), avente come scopo quello di osservare le situazioni del passato e di preparare del materiale attentamente verificato e vagliato, che lo storico dovrà in seguito pesare, valutare, interpretare ed organizzare al fine di comprendere il succedersi degli avvenimenti nella loro interdipendenza» (X, p. 754). Anche perché la storia non è fine a se stessa: «Un filosofo cristiano della storia non potrà mai installarsi, come hanno fatto Hegel, Marx e Comte al termine del tempo» (X, p. 749).

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II. L’età delle ideologie

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L’eredità più perniciosa che il positivismo lascia alla storia della filosofia è la rinuncia al sapere filosofico, è il suo nominalismo, per cui il concetto è un puro nome, utile ma non vero, è il suo fermarsi al primo grado di astrazione «da cui è esclusa ogni intellezione metafisica» (XVI, p. 974). È da questa cultura empiriologica che nasce il mondo contemporaneo dominato dalla tecnocrazia, con il prevalere dei mezzi sui fini, mentre «è la verità che è la sorgente e la misura della stessa efficienza» (XIII, p. 518). Viviamo in un’epoca «di imperialismo scientifico, che ha abbassato il livello di ricerca della ragione pur ottenendo una splendida dominazione tecnica della natura materiale» (VII, p. 262). È la rinuncia al sapere filosofico che Maritain analizza in profondità nel volume Ragione e ragioni (44): «Questa soluzione del dibattito tra scienza e filosofia presuppone che la scienza, per conquistare il divenire sensibile e il flusso dei fenomeni, lavori per così dire in controtendenza alle tendenze naturali dell’intelligenza e utilizzi, come propri strumenti, dei simboli esplicativi che sono enti di ragione fondati nella realtà, soprattutto enti di ragione matematici costruiti sulle osservazioni e misurazioni captate dal senso. A questa condizione lo spirito umano può dominare scientificamente il divenire sensibile e i fenomeni, ma rinuncia nel medesimo tempo a cogliere l’essere in sé delle cose» (IX, p. 251). Maritain riconosce che accanto «agli scienziati esclusivi sistematicamente convinti che la scienza sia l’unico tipo di conoscenza razionale di cui l’uomo sia capace» (XII, p. 1185), ci sono anche gli scienziati liberali «pronti a cercare un modo di cogliere razionalmente le cose che vada al di là dei fenomeni» (XII, p. 1186), ma aggiunge che per fare filosofia occorrono strumenti adeguati, perché «non si può fare della filosofia con strumenti non filosofici più di quanto si possa dipingere con un flauto o con un pianoforte» (XII, p. 1189). Il positivismo sul piano della filosofia del diritto ha comportato «il rifiuto dell’idea di legge naturale e un discredito dei diritti dell’uomo» (IX, p. 573) dimostrando di essere la filosofia della classe borghese del XIX secolo. Ma lo spirito del positivismo, attraverso il pragmatismo americano, è diventato costume, ha invaso il mondo: la gente lavora e vive per fare soldi e si distrae nei divertimenti. Maritain nel 1966 scrive: «Il fatto è che noi viviamo nel mondo di Auguste Comte: la Scienza (dal lato della ragione) completata dal Mito (dal lato del sentimento). Egli è stato un profeta di prima grandezza» (XII, p. 675). Ma sul piano intellettuale il positivismo ci ha portato al pensiero debole, perché «lo scienziato, come lo immagina lo schema positivista, finirà

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per analizzare perfettamente la realtà nell’ordine quantitativo e materiale, ma a condizione di conoscere solo cadaveri di realtà» (V, p. 871). Maritain conclude: «Il positivismo è semplicemente incapace di stabilire una filosofia morale, o l’assorbe nella religione con il positivismo messianico o la fa scomparire nella scienza con il positivismo secolarizzato» (XI, p. 844).

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III. La crisi della modernità

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III. La crisi della modernità

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1. La diaspora del pensiero debole I due conflitti mondiali del 1915-1918 e del 1939-1945 non solo hanno modificato la geografia politica del mondo con la fine del colonialismo e la crisi dello Stato-nazione, ma hanno portato alla dissoluzione delle ideologie e alla fine della modernità. Maritain nel 1943 in Cristianesimo e democrazia (35) descrive la genesi di questa dissoluzione: «Noi assistiamo alla liquidazione del mondo moderno, di quel mondo che è stato indotto dal pessimismo di Machiavelli a scambiare la forza ingiusta per l’essenza della politica; a cui lo scisma di Lutero, tagliando fuori la Germania dalla comunità europea, ha fatto perdere l’equilibrio; in cui l’assolutismo dell’ancien régime ha mutato a poco a poco l’ordine cristiano in un ordine di costrizione sempre più lontano dalle sorgenti cristiane della vita; di quel mondo che il razionalismo di Cartesio e degli Enciclopedisti ha gettato in un ottimismo illusorio, che il naturalismo pseudo-cristiano di Jean-Jacques Rousseau ha indotto a confondere le sacre ispirazioni del cuore umano con l’attesa di un regno di Dio sulla terra, procurato dallo Stato e dalla Rivoluzione; al quale il panteismo di Hegel ha insegnato a deificare il proprio movimento storico, e di cui hanno affrettato la rovina, l’avvento della classe borghese, il regime del profitto capitalistico, i conflitti imperialistici e l’assolutismo sfrenato degli Stati nazionali» (VII, p. 709). Dopo la presunzione prima del razionalismo e poi del positivismo, che non riconosceva i diversi gradi del sapere, ciascuno nei suoi limiti e nelle sue correlazioni, per risolvere tutto lo scibile nel sapere umano, è nato il pensiero debole. Maritain nel Breve trattato sull’esistenza e sull’esistente (42) fa un’analisi di questo processo: «San Tommaso distingueva per unire. E di conseguenza distingueva in modo tanto più preciso e più forte. In un momento della storia e della cultura in cui al pensiero cristiano, dominato dalla tradizione agostiniana, ripugnava far posto alle discipline puramente razionali,

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

uno dei fini principali della sua opera è stato quello di distinguere la filosofia dalla teologia, e di stabilire così l’autonomia della filosofia. Questa autonomia è stata da lui fondata in linea di principio. Dopo di lui non è riuscita a fondarsi veramente di fatto; non vi è ancora riuscita. Il nominalismo degli scolastici succeduti a san Tommaso non poteva che compromettere questa autonomia, privando la metafisica delle sue certezze, per riservarle esclusivamente al dominio sovrarazionale della fede. L’imperialismo filosofico dei grandi pensatori succeduti a Cartesio l’ha compromessa in un altro modo, del tutto opposto, privando delle sue spettanze la sapienza teologica per gravare la metafisica e la filosofia morale di quei compiti e responsabilità supremi di cui la teologia era stata la depositaria e che la filosofia prendeva ormai su di sé, dapprima con un vanaglorioso ottimismo, poi con il nero pessimismo delle grandi disillusioni. Il sistema di Malebranche è una teofilosofia; il monadismo di Leibniz è una trasposizione metafisica del trattato degli Angeli di Tommaso, la morale di Kant è una trasposizione filosofica del decalogo. Alla fine il positivismo di Auguste Comte è sfociato nella religione dell’umanità» (IX, p. 130). Questo scientifismo, che riduce tutto il sapere a conoscenza empirica, attraverso il pragmatismo americano è dilagato nel mondo, facendo del capitalismo la regola delle relazioni tra i popoli, diffondendo un’ideologia materialistica, più o meno esplicitamente legata ad un’indifferenza per i valori religiosi. Maritain in Riflessioni sull’America (52) conclude: «Resta che la diffusione universale di una specie di positivismo anonimo e volgarizzato, al quale in America il pragmatismo ha dato una spinta intellettuale, non può che rendere più insidioso questo materialismo» (X, p. 785). Nella filosofia contemporanea le correnti di pensiero si intersecano e si confondono, la filosofia dei valori si accompagna al neokantismo, l’esistenzialismo deborda nella fenomenologia, il tomismo, in alcuni pensatori, si diluisce nel personalismo; i filosofi del pensiero debole non sviluppano una riflessione sistematica, le loro argomentazioni sono più intuizioni slegate che ragionamenti consolidati. Maritain si è appena affacciato al mondo postmoderno, anche se ha colto le linee fondamentali di quanto stava accadendo nell’universo del sapere. Nella cultura e nella società c’è ancora un prevalere delle scienze sulla saggezza, ma, a poco a poco, anche il mondo scientifico sta prendendo coscienza della necessità di un’apertura al sapere filosofico, superando le chiusure dello scientifismo positivista, Maritain constata: «I magnifici rinnovamenti di cui la fisica è debitrice da un lato a Lo-

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III. La crisi della modernità

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rentz, Poincaré, Einstein, e d’altro lato a Planck, Louis de Broglie, Dirac, Heisenberg, rinnovano in essa il senso del mistero ontologico del mondo della materia. Le grandi dispute e scoperte delle matematiche moderne, che riguardano il metodo assiomatico, il transfinito e la teoria del numero, il continuo e le geometrie trascendenti, esigono una messa a punto filosofica, di cui si può vedere solo un inizio, ancora assai incerto, nei lavori di Russell e di Whitehead, o di Brunschvicg. Dal lato dei filosofi, le idee di Bergson e quelle di Meyerson in Francia, quelle dei fenomenologi in Germania, di Max Scheler particolarmente, e d’altra parte la rinascita tomista, hanno preparato le condizioni per una ripresa alla chetichella di ricerche che dipendono da una conoscenza ontologica del reale sensibile» (V, p. 964). Si tratta di timidi approcci, ancora molto legati alla soggettività, di una metafisica che non sa concettualizzare con esattezza questi approcci: «Non c’è che una metafisica riflessiva e apertamente idealista, come quella di Léon Brunschvicg33, che cerca la spiritualità nella coscienza dell’opera di scoperta scientifica, dove lo spirito supera senza fine se stesso; o riflessiva e occultamente idealista, come quella di Husserl e di molti neorealisti; o riflessiva e inefficacemente realista, come quella di Bergson, che cerca all’interno della scienza fisico-matematica una stoffa metafisica, che questa non possiede, e che si scopre soltanto nell’intuizione del divenire puro; o riflessiva tragica, come tante metafisiche contemporanee, dove, specialmente in Germania, è nel dramma dell’esperienza morale, o dell’esperienza dell’angoscia che lo spirito si sforza di ritrovare il senso dell’essere e dell’esistenzialità» (VI, p. 60). Per consolidarsi, questi approcci hanno bisogno di trovare una sicura metafisica dell’essere, che solo un meditato ritorno al realismo critico di Aristotele può garantire, raccordando la soggettività della coscienza all’oggettività del sapere. Bisogna superare il persistente equivoco di un sapere universale, riconoscendo che nell’esperienza esistono fatti di conoscenza diversi e complementari perché «non tutti i fatti possiedono lo stesso rango, essi non costituiscono una folla indistinta e senza gerarchia, ammassata sul mercato dell’esperienza sensibile, dove le diverse scienze vengono a cercare le derrate di cui hanno bisogno. I fatti sono anch’essi inseriti nelle gerarchie del33 Léon Brunschvicg (1869-1944), docente di filosofia in diversi Licei e poi alla Sorbona, incontrò più volte Maritiain alla Société française de philosophie. Tra le opere: Introduzione alla vita della mente (1910), Natura e libertà (1929), Cartesio e Pascal lettori di Montaigne (1942).

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

la conoscenza: vi sono fatti di senso comune, fatti scientifici (cioè che interessano le scienze della natura), fatti matematici (per esempio, l’esistenza di enti ragione, di funzioni continue senza derivate), fatti logici, fatti filosofici» (IV, p. 364). Bisogna riconoscere che la filosofia trascende le scienze: «Nell’ordine speculativo, la metafisica è il sapere supremo. Si può, con Kant, chiedersi se la metafisica sia possibile come scienza (al che rispondiamo affermativamente); si può, con Maine de Biran e Bergson, chiedersi se anch’essa, e per sé, sia una scienza sperimentale (al che rispondiamo negativamente). Ma in ogni caso non v’è altro sapere, non v’è, in particolare, alcuna scienza sperimentale che si ripartisca con la metafisica l’universo del trans-sensibile, o del terzo grado di astrazione. Inversamente, non v’è filosofia né conoscenza ontologica che si ripartisca con le matematiche l’universo del preter-reale, o del secondo grado di astrazione» (IV, p. 512). Maritain evidenzia come la crisi della filosofia sia dovuta proprio al metodo di lavoro intellettuale usato, alla logica simbolica. «Molti moderni, soprattutto dopo Kant e Hamilton, chiamando formale la logica in un senso diverso dagli antichi, ne fanno una scienza delle leggi e delle forme del pensiero separata dalle cose, indipendente dalle cose; e in questa concezione della logica non sono più le cose in se stesse, ma in quanto interiorizzate nello spirito, sono le pure forme del pensiero, che divengono oggetto del logico, come se la conoscenza avesse la sua struttura e le sue forme indipendentemente dalle cose; e sono queste forme e questa struttura della conoscenza che il logico studierebbe. Allora si tagliano i ponti tra il pensiero e le cose, e l’essere del logico non presupporrà l’essere reale, ma sarà una pura forma del pensiero» (V, p. 563). I logicisti della Scuola di Cambridge e della Scuola di Vienna, sostituiscono la dialettica alla filosofia, il sapere costruttivo al sapere percettivo. La filosofia contemporanea si frantuma e si disperde in multiformi indirizzi, i suoi rappresentanti non sempre sono classificabili con esattezza, perché si muovono in correnti di pensiero diverse, Martin Heidegger tra fenomenologia ed esistenzialismo, Jean-Paul Sartre tra esistenzialismo e fenomenologia, Max Weber tra fenomenologia e filosofia dei valori, Edith Stein tra fenomenologia e tomismo, Charles Renouvier tra neo-criticismo e spiritualismo, Simon Weil tra esistenzialismo e spiritualismo. Si tratta di un periodo della storia della filosofia che Maritain ha affrontato da un punto di vista storiografico solo marginalmente e di cui lui stesso è stato un protagonista.

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III. La crisi della modernità

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2. La fenomenologia Questa scuola filosofica nelle sue intenzionalità non è del tutto lontana dal tomismo, perché vorrebbe approdare all’essere, e ha un precursore in Franz Brentano, studioso di Aristotele, e uno sviluppo in Edith Stein, alunna del suo maggiore esponente, Edmund Husserl, che cerca una conciliazione tra fenomenologia e realismo nell’ambito di una filosofia cristiana; mentre altri discepoli del maestro come Max Scheler e Martin Heidegger contaminano la fenomenologia l’uno con la filosofia dei valori l’altro con l’esistenzialismo. Maritain scrive ne I gradi del sapere (17): «È curioso constatare che all’origine del movimento fenomenologico è avvenuta una specie di attivazione della filosofia post-kantiana, attraverso un contatto con germi aristotelici e scolastici trasmessi da Brentano. Le nozioni di Wesenschau e di intenzionalità lasciano chiaramente riconoscere i loro ascendenti. Ma fin dall’origine tutto è deviato per il fatto che la riflessività è stata utilizzata come primum, ci si è installati in essa per percepire a priori l’immediato, come se la riflessione, ritornando sulle operazioni dirette e sul loro oggetto inizialmente colto, potesse ritagliarsi in questo un oggetto, un oggetto attinto prima di questo stesso oggetto, più immediatamente di esso» (IV, pp. 445446). E rileva che non si possono fare dei primi passi un ritorno sui propri passi, non si può percepire l’oggetto partendo a priori, dalla soggettività. Franz Brentano34, più interessato alla psicologia che alla filosofia, porta avanti la sua ricerca sulle intenzionalità del soggetto, non parte dalle cose esistenti esternamente alla coscienza, ma dai fenomeni psicologici della coscienza, anche se ammette che non può esserci udire senza qualcosa di udito. Parte dalla psicologia perché garantisce la certezza dei fenomeni che esamina e coglie in un colpo solo (mit einem Schlage) con un’evidenza assoluta le leggi che li governano. Brentano vorrebbe uscire dal soggetto, perché non vi è soggettività senza oggettività, ma vi rimane prigioniero in quanto la coscienza intenzionale fa riferimento ad un oggetto distinto da essa ma presente in essa. E. Husserl delinea con maggiore precisione l’impostazione fenomenologica della filosofia, che non 34

Franz Brentano (1838-1917). Domenicano, nel 1973 abbandona il cattolicesimo. Professore a Würzburg e a Vienna, nel 1895 si ritira dall’insegnamento e vive gli ultimi anni in Svizzera. Tra le opere: Psicologia dal punto di vista empirico (1874), Intorno all’origine della conoscenza morale (1889), Della classificazione dei fenomeni psichici (1911).

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rinuncia all’essere, ma lo mette tra parentesi, che nelle relazioni umane supera l’empirismo, ma considera le regole comuni solo come intersoggettività.

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Edmund Husserl Maritain presenta così il principale esponente di questa corrente, Edmund Husserl (1859-1938)35, che giunge alla filosofia dopo studi di matematica e di psicologia: «Egli era un grande spirito, fondamentalmente retto, degno della gratitudine e dell’affetto che Edith Stein conservò per lui, anche quando se ne emancipò. Ma fu una vittima, come tanti altri, di Cartesio e di Kant. La tragedia di Husserl consiste nel fatto che, instradato da Brentano, fece uno sforzo disperato per liberare l’eros filosofico e nel momento in cui stava per raggiungere lo scopo lo respinge nel suo carcere legandolo (poiché egli stesso era preso in trappola) con catene di una sottigliezza estrema, ma incomparabilmente più potenti di quelle del vecchio cogito, a illusioni molto più fallaci di tutte quelle cartesiane e destinate a condurre l’ideosofia, presa per la filosofia, alla sua forma più insidiosa per lo spirito» (XII, p. 808). Husserl delinea con maggiore precisione l’impostazione fenomenologica della filosofia, che non rinuncia all’essere ma lo mette tra parentesi, che nelle relazioni umane supera l’empirismo, ma considera le regole comuni solo come intersoggettività. Maritain analizza il grande equivoco, che ha introdotto nella storia della filosofa: «Credendo come Cartesio che uno sguardo riflessivo sull’io pensante possa essere impiegato per costruire una filosofia, erige a principio la sospensione del giudizio, cara a Pirrone, stabilendo, come regola metodologica, assolutamente principale per l’intelletto, che esso è obbligato (grazie ad un diktat a priori e ad un postulato idealista mai esaminato criticamente) a mettere tra parentesi tutto il registro dell’essere extramentale (il pane medesimo di cui vive l’intelletto!) quando esercita l’atto di conoscere. Con un deplorevole taglio netto si deve dunque separare l’oggetto, percepito dall’intelligenza, e che si pone all’interno del conoscere, dalla cosa, 35 Ebreo, si converte al cristianesimo nella Chiesa evangelica; dopo studi di matematica sotto l’influenza di Brentano si dedica alla ricerca filosofica e insegna prima a Gottinga poi a Friburgo. Tra le opere: Idee per una fenomenologia (1913, più edizioni), Meditazioni cartesiane (1932).

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III. La crisi della modernità

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che essa percepisce, e che viene respinta all’esterno del conoscere (nella parentesi). Come se l’oggetto percepito non fosse la cosa stessa in quanto intelligibilmente percepita! La cosa stessa condotta nel seno dell’intelligenza per formare un tutt’uno col suo atto vitale!» (XII, p. 809). L’intelligenza non percepisce dunque la realtà, non coglie l’essere, ma è prigioniera del suo pensare, conosce solo oggetti-fenomeno all’interno della sua coscienza. Maritain continua la sua analisi: «Che significa questo? Significa che l’intelligenza deve pensare l’essere rifiutando di pensarlo come tale; ossia: pensando l’essere, penso del pensato, non penso l’essere; conosco l’essere a condizione di porlo tra parentesi o di fare astrazione da esso» (XII, p. 810). A questa filosofia Maritain fa due critiche. Primo, la razionalità non si può definire a priori, e in modo puramente formale, perché è una relazione tra lo spirito umano e la realtà, tra l’intelligenza e l’intelligibilità dell’essere; secondo, la verità non sta nella rettitudine formale delle operazioni della logica, ma proprio nel vedere la realtà mediante l’intuizione dell’essere. «Questa verità è che l’intelletto umano, benché sia una ragione che amministra i suoi concetti, ligia alla più stretta logica (e questo gli proviene dalla sua condizione carnale), è anche un intelletto, cioè una potenza capace di vedere nell’ordine intelligibile come vede l’occhio, e con incomparabilmente maggiore sicurezza di quanto non veda un occhio nell’ordine sensibile» (XII, p. 814). Secondo Husserl, nel suo radicalismo filosofico, la coscienza di sé precede la conoscenza delle cose, nel senso che il conoscere precede l’essere e costituisce se stesso. Maritain osserva: «La coscienza di sé presuppone un sé, e ciò vale a tutti i gradi del sapere: al supremo grado del sapere (metafisica) come ai gradi inferiori (scienze particolari)» (IV, p. 413). Vi è un ritorno su se stessi, ma prima si è se stessi. Husserl confonde il processo cognitivo (gnoseologia) con la sua valutazione (critica). Nella lunga nota sulle Meditazioni Cartesiane (IV, pp. 445-457) si legge: «Misconoscendo la vita propria dell’intelligenza in quanto tale e confondendola con quella del senso, si presuppone che questa prima certezza debba concernere l’attualmente dato, ecco che la si cerca nel puro cogito, e si dice: ego cogito cogitatum, per assegnare il punto di partenza della filosofia intiera là dove, se si restasse fedeli alla prima evidenza intuitiva, bisognerebbe dire: ego cogito ens, per assegnare il punto di partenza non della filosofia intera, ma di quella parte riflessiva della filosofia prima, che è la critica» (IV, p. 449). L’intenzionalità dell’atto cognitivo dei filosofi scolastici riguarda anche

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l’intelligibilità dell’essere, non è soltanto una qualità della coscienza, mentre nella fenomenologia «si materializza la pura trasparenza della intenzionalità, considerandola costituente l’oggetto del conoscere per mezzo delle sue regole, chiedendole di costituire l’altro e di conferendogli il suo senso proprio, come scrive Husserl, “partendo dal mio stesso essere” (mentre, al contrario, essa porta in me l’altro partendo dalla cui stessa alterità e mi fa essere l’altro» (IV, pp. 450-451). Così, muovendosi da Cartesio, la fenomenologia ritorna alla tradizione kantiana, ma con la differenza, come scrive Husserl, di non «lasciare aperta la possibilità di un mondo delle cose in sé, nemmeno a titolo di concetto limite» (IV, p. 452). Maritain fa altri riferimenti: «Tenuto conto di tutte le riserve imposte dalle differenti situazioni, si potrebbe dire che la posizione di Husserl di fronte a Kant è comparabile a quella di Berkeley di fronte a Cartesio. Anche Berkeley, nella sua lotta contro la cosa, credeva di rivendicare l’intuizione: sopprimendo la materia extramentale credeva di ritrovare, anch’egli, il senso che questo mondo [il mondo oggettivo delle realtà] ha per noi tutti, anteriormente ad ogni filosofia. Husserl, per liberare l’idealismo trascendentale dalle assurde cose in sé, ricostituisce tutto l’universo del realismo in seno all’ego trascendentale con processi sempre più artificiosi e «partendo dalle sorgenti del suo proprio essere» (IV, p. 453). Questa maniera fenomenologica di filosofare, questo voler cogliere le essenze intelligibili all’interno del soggetto conoscente, porta a disarticolare il rapporto tra essere e divenire. «D’altra parte, per il fatto che le essenze percepite dallo spirito non sono più colte in soggetti trans-oggettivi esistenti fuori dello spirito e non sono più compenetrate nel flusso del tempo, gli oggetti extratemporali dell’intelligenza, per un inaspettato ritorno di platonismo, si trovano separati dall’esistenza reale e temporale; e per raggiungere tale esistenza non resterà altro che invertire l’intelligenza dando la precedenza al tempo sull’essere, sia che si cerchi con Bergson di sostituire il tempo all’essere, sia che si cerchi con Heidegger di fondare l’essere sul tempo. Ma ciò significa voler garantire il realismo distruggendone il primo fondamento» (IV, pp. 456-457). Maritain conclude: «Non si trascende, constatiamolo una volta di più, il realismo e l’idealismo, non esiste una posizione superiore che li superi e li riconcili: bisogna scegliere tra l’uno e l’altro, come tra il vero e il falso. Ogni realismo che venga a patti con Cartesio e con Kant deve accorgersi, un giorno, che viene meno al suo nome» (IV, p. 445). A margine bisogna rilevare che la posizione di Maritain verso la fenomenologia è motivata anche

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III. La crisi della modernità

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da preoccupazioni teologiche, perché troppi, laici o ecclesiastici, per voler essere alla moda cercano compromessi con le filosofie contemporanee. «In effetti, ci furono parecchi tentativi di teologie cartesiane, malebranchiane, kantiane, hegeliane, ma non gettarono mai gran luce nella Chiesa. E attualmente geni creatori lavorano con sottoprodotti fenomenologici. Non sarebbe affare da poco per la teologia dover rinnovare i suoi modelli ad ogni stagione come i fabbricanti di automobili» (XII, p. 859).

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Edith Stein Maritain non ha analizzato in profondità le riflessioni di Edith Stein (1891-1942)36, assistente di Husserl, laureatasi nel 1917 con una tesi su Il problema dell’empatia, che cerca un’impossibile conciliazione tra fenomenologia e tomismo, perché ha avuto solo un’occasione di un breve incontro a Juvisy nel 1932 alle “Journées d’études sur la phénoménologie” organizzate da padre Marie Dominique Chenu e di uno scambio di una breve corrispondenza (1932-1936)37. Maritain, inaugurando i lavori di Juvisy, rileva: «L’interesse di una giornata come questa non è solamente documentario, ma quello di dimostrare se e come fenomenologi e tomisti possano avere una comprensione reciproca e se può esserci un germe di comunicazione intellettuale tra scuole diverse, che non derivi da eclettismo e da una conciliazione superficiale, ma al contrario da un’intelligenza precisa dei punti di accordo e di disaccordo e soprattutto dello spirito proprio di ciascuna dottrina» (XVI, p. 437). Un accordo non è stato possibile; infatti, ancora molti anni dopo, ne Il contadino della Garonna (61) Maritain continua a denuncia36 Edith Stein, di famiglia ebrea, negli anni dell’università si dichiara atea. L’incontro con Max Scheler la porta a maturare la conversione al cattolicesimo (1922). A Gottinga frequenta il gruppo dei fenomenologi, e riordina i manoscritti di Husserl. Insegnante a Munster, scopre la Scolastica, nel 1933 entra nel Carmelo di Colonia, durante la guerra ripara in un Carmelo olandese. Catturata dai nazisti muore ad Auschwitz. Tra le opere: La fenomenologia di Husserl e la filosofia di san Tommaso (1929), Potenza e atto (1932), Essere finito ed eterno, La scienza della Croce, Studio su san Giovanni della Croce, La donna, il suo compito secondo la natura e la grazia (postume) L’opera omnia è in corso di edizione presso l’editrice Città Nuova di Roma. Su di lei, cf. H.B. Gerl, Edith Stein, vita, filosofia, mistica, Morcelliana, Brescia 1998. 37 Cf. P. Viotto, Edith Stein e Simone Weil, incontri fugaci, in Id., Grandi amicizie, cit., pp. 242-245.

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

re l’ambiguità della fenomenologia, che nella sua radice cartesiana vorrebbe raggiungere l’oggetto a partire dal soggetto, cercando inutilmente una conciliazione tra idealismo e realismo. Riconosce, con la fenomenologia, che l’oggetto del pensiero è interno al soggetto, ma precisa che il soggetto lo ha ricevuto dalla cosa, perché l’intelligenza si è fatta intelletto essendo stata fecondata dall’intuizione dell’essere, perché nell’esperienza ha colto l’intelligibilità, che è il fondamento dell’essere. La cosa precede il concetto, l’essere precede il pensiero. Maritain analizza con estrema precisione l’atto del conoscere: «Il pensiero non deve uscire da se stesso per raggiungere la cosa extramentale. L’essere per sé, posto fuori del pensiero, cioè pienamente indipendente dal suo atto proprio, è reso dal pensiero stesso esistente nel pensiero, posto per il pensiero e integrato al suo atto proprio, di modo che ormai ambedue [essere e pensiero] esistono in quest’ultimo con una sola e medesima esistenza sovra-soggettiva. Così l’essere extramentale è raggiunto appunto nel pensiero stesso, e il reale è toccato e manipolato nel concetto medesimo. È là che il reale è afferrato, che il pensiero lo assorbe poiché la gloria stessa della sua immaterialità è di non essere una cosa nello spazio esteriore ad un’altra cosa estesa, ma una vita superiore a tutto l’ordine della spazialità che, senza uscire da sé, si completa con ciò che non è lei, cioè con quel reale intelligibile, la cui feconda sostanza essa trae dai sensi e questi l’attingono negli esistenti materiali in atto» (XII, p. 808). La fenomenologia non ha visto bene questo processo, perché si è installata nel pensiero, ha messo tra parentesi l’essere, la cosa in sé. L’intesa tra i Maritain e la Stein è più spirituale che intellettuale, perché a livello filosofico l’intenzionalità del conoscere, come viene elaborata dalla fenomenologia, non è conciliabile con il realismo tomista, che sostiene l’intelligibilità dell’essere. Ci sono poi anche delle differenze nell’intendere la filosofia cristiana, perché Maritain ritiene necessario il dato cristiano per la filosofia pratica, in quanto l’azione umana, oggetto della morale, riguarda un uomo in peccato o in grazia di Dio, e la non conoscenza di questo dato rende impossibile una filosofia morale adeguata; mentre la Stein ritiene che sia necessaria questa presenza del dato cristiano anche nella filosofia teoretica. Infatti, dopo avere letto il volume La filosofia cristiana nella traduzione tedesca, scrive a Maritain: «Vorrei sottolineare ciò che indicate a p. 103 e seguenti. Ciò che voi dite sulla filosofia morale vale anche, in fondo, per la metafisica; io direi anche per tutta la filosofia: essa ha bisogno di essere completata, perché, in fondo, tutto ciò che è finito,

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III. La crisi della modernità

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è, come creato, in situazione in relazione con Dio, cosa che non può essere compresa del tutto con le risorse proprie della filosofia, e perché non solo l’uomo ma tutto il cosmo sono avvolti dal mistero della caduta e della redenzione». Per la Stein, che non distingue con esattezza i diversi livelli cognitivi, naturali e soprannaturali, la rivelazione si identifica con tutta la verità. A proposito del suo libro L’essere finito e l’essere eterno. Saggio per un approccio al senso dell’essere la Stein scrive a Maritain: «Come sarebbe prezioso per me potermi intrattenere qualche volta con voi. Io presumo volentieri che voi avreste negato il diritto di esistenza al mio libro, a causa del fatto che mi mancano le basi di una formazione scolastica fondamentale. Ho fatto presente queste mancanze ai miei superiori, e con insistenza, ma invano. Ma bisogna che lo riconosca io stessa: se avessi voluto attendere per avere una posizione personale di avere colmato tutte le mie lacune, non sarei più arrivata ad essere utile agli altri, e invece lo posso un poco fin da ora sulla base delle mie conoscenze frammentarie» (16 aprile 1936). Maritain nel 1932 aveva inviato alla Stein I gradi del sapere, opera nella quale analizza i diversi livelli di conoscenza, che intercorrono tra la filosofa, la teologia e la mistica. La Stein le rispose: «Molti cordiali ringraziamenti per avere avuto la bontà di inviarmi il vostro ultimo grande libro. Sarà per me di grande profitto poterlo studiare. Purtroppo il mio tempo è talmente preso dai miei obblighi immediati verso l’Istituto di pedagogia, che mi dedico poco alle questioni essenziali della filosofia e allo studio della filosofia scolastica che mi sarebbe tanto necessaria» (6 novembre 1932). Da questi frammenti di corrispondenza si può capire che l’allieva di Husserl ha stima per san Tommaso, ma non ha modo di approfondire lo studio della filosofia scolastica, per cui l’accostamento tra fenomenologia e tomismo risulta ambiguo. Ma al là delle diverse impostazioni gnoseologiche ed epistemologiche, legate alla fenomenologia, la posizione della Stein a livello di metafisica e di etica non è lontana da quella di Maritain nel riconoscere il valore ontologico, e non solo etico, della persona umana, malgrado il fatto che la Stein sottolinei soprattutto l’intersoggettivività dell’empatia e non parli dell’oggettività di una regola trascendente la relazione, che rimanda, oltre la storia della comunità, ad un diritto naturale. Maritain farebbe un’analisi critica a questa affermazione della Stein: «La coscienza non è una scatola che raccoglie in sé i vissuti, ma questi stessi vissuti costituiscono, confluendo continua-

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

mente l’uno nell’altro, il flusso della coscienza»38 perché per il tomismo la coscienza psicologica e l’anima spirituale sono un tutto unico nella soggettività esistenziale (suppositum). Ci sono nell’antropologia della Stein quelle indistinzioni tra psicologia, filosofia e mistica che troviamo nell’agostinismo, e che Maritain, sulla base di san Tommaso, ha cercato di chiarire evidenziando le differenze e le correlazioni tra i diversi aspetti della vita della persona umana. In conclusione si può dire che l’importanza di Edith Stein nella storia della cultura contemporanea riguarda più la mistica che la filosofia e la sua opera può bene collocarsi a fianco di quelle del carmelitano Jacques Froissart (1892-1962), padre Bruno di Gesù Maria, il cui volume su san Giovanni della Croce nella traduzione inglese ha una prefazione di Maritain (IV, pp. 1186-1213), e di quelle del monaco cistercense Thomas Merton (1915-1968) che intrattiene una lunga corrispondenza con Maritain e ha tradotto in inglese diverse poesie di Raïssa Maritain39.

3. L’esistenzialismo L’esistenzialismo non è solo una corrente filosofica, che si sfrangia nelle posizioni dei diversi protagonisti, ma anche uno stato d’animo che si fa letteratura. Maritain gli dedica la premessa del Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente (17) rivendicando per la riflessione di san Tommaso la qualifica di filosofia esistenziale. «Dal punto di vista del vocabolario, come è noto, è sotto l’influenza di Kierkegaard che il termine esistenziale è entrato nell’uso corrente, soprattutto in Germania. Una ventina d’anni fa si parlava molto qui di cristianesimo esistenziale: ricordo una conferenza in cui Romano Guardini spiegava, davanti ad alcuni prelati un po’ sorpresi, come il senso esistenziale del Vangelo di san Giovanni gli fosse stato rivelato dal personaggio del principe Misˇkin, nell’Idiota di Dostoevskij. Molti filosofi, da Jaspers e da Gabriel Marcel a Berdjaev e a Šestov, si chiamavano allora filosofi esistenzialisti. Più tardi il termine esistenzialismo ha ricevuto il diritto di cittadinanza e con un tale successo che oggi, come Sartre 38 In A. Ales Bello, Edith Stein, in AA.VV., Enciclopedia della persona nel XX secolo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2008, p. 996. 39 Cf. P. Viotto, Jacques Froissart e Thomas Merton: la contemplazione, in Id., Grandi amicizie, cit., pp. 131-140.

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III. La crisi della modernità

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faceva notare, “non significa assolutamente più nulla”. A parte questo inconveniente accidentale, si tratta di un termine molto buono in se stesso, anzi eccellente. Tommaso non si è dichiarato né esistenzialista né realista (e tanto meno tomista). Ciò non toglie che queste cose siano consustanziali al suo pensiero» (IX, p. 14). Ciò detto, Maritain precisa subito che altro è conoscere, nell’oggettività della conoscenza, “che cosa sono”, e altro è conoscere “chi sono” nella soggettività della mia essenza esistenzializzata, nel mio caso particolare, e tendere alla salvezza davanti alla precarietà di questa vita provvisoria. «Normalmente, ci sono tra gli uomini, e persino nello stesso uomo, due attitudini, o piuttosto due atteggiamenti dello spirito fondamentalmente diversi, e che secondo linee diverse possono e dovrebbero coesistere: l’atteggiamento di cercare le cause, l’attitudine di universalità teoretica, di distacco da sé, per sapere, la capacità sapienziale, quella dell’intelligenza che vuole conoscere e impadronirsi dell’essere, diciamo quella di Minerva di fronte al cosmo; e l’atteggiamento di salvare il mio “unico”, l’attitudine di singolarità drammatica o di suprema lotta per la propria salvezza; e il comportamento imprecativo dell’uomo che vuole il suo Dio o piuttosto che è voluto da lui, diciamo quello di Giacobbe nella sua lotta con l’Angelo. Il primo atteggiamento, essenzialmente filosofico, fa il filosofo; il secondo, essenzialmente religioso, fa l’uomo di fede (o il disperato di Dio)» (IX, p. 120). Non si possono confondere questi due atteggiamenti, uno teoretico, che cerca la causa dell’essere, e l’altro pratico, che tende al fine del proprio esistere, uno filosofico di ordine naturale e l’altro religioso di ordine soprannaturale. Ma è ciò che è avvenuto nella storia della filosofia, con non poche contraddizioni: «È chiaro che il secondo di questi due atteggiamenti, quello di salvare il proprio unico, è stato quello dell’esistenzialismo esistenziale, dell’esistenzialismo in atto vissuto. In ciò è consistita la grandezza della sua testimonianza, la potenza della sua forza demolitrice e il valore delle sue intuizioni. L’esistenzialismo di Kierkegaard, di Kafka, di Šestov, di Fondane, è stato l’irrompere di una rivendicazione essenzialmente religiosa, il grido della soggettività verso il suo Dio, e, nello stesso tempo, la rivelazione della persona, nella sua angoscia del nulla, che è il non-essere nell’esistente. Ma a causa delle circostanze storiche in cui è nato, a causa soprattutto di Hegel e dell’implacabile fascino del suo totalitarismo della ragione, la disgrazia di questo esistenzialismo (di natura essenzialmente religiosa) è stata quella di nascere e di svilupparsi nella filosofia, con la quale

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era in un conflitto inesorabile […]. I professionisti hanno sempre la loro rivincita. La partita era persa a priori […]. Doveva venire l’esistenzialismo filosofico o accademico, l’esistenzialismo, come macchina per fare idee, strumento per costruire tesi. La colpa era pure dell’esistenzialismo esistenziale, che, Kafka escluso, s’era considerato una filosofia. Il grido lanciato dal fondo dell’abisso è diventato un tema filosofico… Il grande esistenzialismo-esistenziale, una volta passato al suo nemico, non è riuscito che a suscitare nella stessa filosofia una distruzione filosofica dell’intelligenza […] Giobbe è stato eliminato; se ne è conservato solo il letamaio […] la tragedia morale è stata sostituita da una metafisica sofisticata» (IX, pp. 122-123). La filosofia esistenzialistica iniziata nell’angoscia di Kierkegaard si è conclusa nella nausea di Sartre, tra queste posizioni, una profondamente religiosa e l’altra deliberatamente atea, oscillano posizioni intermedie da quelle degli esistenzialisti cristiani francesi, come Marcel e Lavelle, a quelle di Jaspers che finisce per risolvere la filosofia nella psicologia e di Heidegger che ibrida l’esistenzialismo e la fenomenologia. Un posto a parte spetta agli esistenzialisti russi di fede ortodossa, come Lev Šestov e Georges Florovsky, il cui pensiero Maritain conosce tramite l’amicizia con Nikolaj Berdjaev e Benjamin Fondane. L’errore di questi filosofi, pur nel differenziarsi delle diverse posizioni, è stato quello di aver voluto estrapolare l’esistenza dall’essere, «ma questo concetto, il concetto di esistenza o dell’esistere (esse) non è né può essere separato dal concetto assolutamente primo dell’ente (ens, ciò che è, ciò che esiste, ciò il cui atto è l’esistere), proprio perché l’affermazione di esistenza, o il giudizio che le dà un contenuto, è di per se stessa, la “composizione” di un soggetto con l’esistenza, l’affermazione che qualche cosa esiste (in atto o in potenza, semplicemente, o con questo o quel predicato). Il concetto dell’ente (ciò che esiste o può esistere) nell’ordine della percezione ideativa, corrisponde adeguatamente a questa affermazione nell’ordine del giudizio. Il concetto di esistenza non può essere visualizzato completamente a parte, staccato, isolato, separato da quello dell’ente: è in esso e con esso che il concetto di esistenza è concepito. Siamo di fronte all’errore iniziale che si trova nel sottofondo di tutte le filosofie esistenzialiste. Esse, ignorando o trascurando quell’ammonimento della sapienza scolastica, secondo il quale l’esistenza non può essere oggetto di una astrazione perfetta, presuppongono che la esistenza possa essere isolata e costituisca da sola l’humus che nutre la filosofia. Esse trattano dell’esistenza senza trattare dell’essere, si

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III. La crisi della modernità

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chiamano filosofie dell’esistenza, anziché chiamarsi filosofie dell’essere. Questo significa che il concetto di esistenza non può essere separato dal concetto di essenza» (IX, p. 33).

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Martin Heidegger Maritain dedica attenzione a questo filosofo tedesco40 perché è il più metafisico nel gruppo, anche se, ricorda, «rifiuta il nome di esistenzialismo» (IX, p. 127) pur anticipando l’esistenza sull’essenza, «affermazione ambigua, perché potrebbe significare qualche cosa di vero, cioè che l’atto precede la potenza, che la mia essenza riceve la sua presenza nel mondo dalla mia esistenza e la sua intelligibilità dall’Esistenza in atto puro, mentre in realtà significa tutt’altra cosa, cioè che l’esistenza non attua nulla, che io esisto ma non sono nulla, che l’uomo esiste, ma che non v’è natura umana» (IX, pp. 17-18). La filosofia è una domanda sull’essere, a cui l’uomo accede partendo dall’esserci (dasein), cioè dalla sua esistenza dall’essere-nel-mondo, ma è una domanda a cui non può dare risposta, perché l’Assoluto non è oggettivizzabile, vi può alludere il linguaggio della poesia, ma non è possibile una conoscenza reale al di là dell’ermeneutica del linguaggio. L’essere è un “determinante indeterminato” un nulla, non perché non sia, ma perché non è determinabile. In questo senso non resta che “vivere-per-la-morte”, prigionieri nel tempo della propria esistenza, nell’angoscia, che non è la paura, ma la condizione umana quaggiù. Maritain rileva: «Il maggiore testimone di questo dramma è Heidegger, nel quale l’insaziabile tormento nasce da un ardente eros metafisico, anch’esso prigioniero, che, ossessionato dalla preoccupazione dell’essere, conduce una tragica lotta contro il nulla di pensiero implicato dalla fenomenologia, per andare a cercare aiuto dai poeti e nelle potenze teogoniche del loro linguaggio: portando in tal modo la testimonianza più inquietante dell’assenza di filosofia 40 Martin Heidegger (1889-1976), dopo avere frequentato per quattro semestri la Facoltà teologica di Friburgo, si iscrive a filosofia e si laurea nel 1913 con una tesi su La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto. Due anni dopo ottiene la libera docenza. Nominato assistente ad Heidelberg, su proposta di Husserl, viene a contatto con la scuola fenomenologica, ma presto se ne distacca, anche se dedica “con ammirazione e amicizia” a Husserl la sua opera Essere e tempo (1927). Nominato ordinario a Friburgo lavora all’Introduzione alla metafisica che pubblica nel 1953. Tra le altre opere sono da segnalare i due volumi su Nietzsche (1961) e Fenomenologia e teologia (1970).

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nel nostro tempo» (XII, p. 811). Heidegger cerca l’essere mediante un’intuizione poetica che coinvolga anche il soggetto, e rifiuta l’oggettività del sapere, considera il ragionamento del logos un percorso impraticabile. Maritain in Nessun sapere senza intuitività (XIII, pp. 931-994) rileva: «Con Hegel avevamo a che fare con una ragione decentrata dal reale e che non era controllata che da se stessa. Con Heidegger, al contrario, mi sembra, è con un’intuitività innamorata del reale, e che abiura la ragione, che noi abbiamo a che fare, e questa intuitività non vuole, anch’essa, essere controllata che da se stessa» (XIII, p. 953). Tutto il processo cognitivo è risolto in una sorta di mistica naturale «in cui l’anima si svuota di tutto per raggiungere l’esistere del sé» (XIII, p. 954). «È questo genere di intuitività che, io credo, è in gioco in Heidegger, e che rifiuta ogni controllo della ragione dal punto di vista di questa e quanto alle esigenze che convengono a questa. Ma poiché, volente o nolente, Heidegger è un filosofo, l’intuitività in questione è appassionatamente alla ricerca dell’essere, benché essa rimanga estranea all’intuizione dell’essere, che è di ordine puramente intellettuale. E poiché, deponendo la ragione, Heidegger rimane ugualmente sotto l’influenza o l’obbedienza di Hegel, e conserva l’ambizione di pervenire, se non ad un Sapere assoluto di tipo hegeliano, almeno ad una Sapienza, che appaghi le aspirazioni dello spirito, l’intuitività in lui prende su di sé tutta l’opera di concettualizzazione che, cominciata fin dalla prima operazione dello spirito, prosegue normalmente nella costruttività sempre più ampia in cui la ragione discorsiva ha il suo dominio» (ibid.). Ma non si può chiedere alla poesia o al mito il sapere filosofico, la conoscenza oggettiva dell’essere, e questa richiesta porta il filosofo alla disperazione: «In una concettualizzazione metafisica così richiesta all’intuitività poetica stessa, le idee sono cieche e le parole sono irrimediabilmente fallaci; non soltanto sono deviate dal loro senso originale o forgiate artificialmente, ma non arrivano a dire ciò che il filosofo vuol dire. Lungi dal lavorare su nature intelligibili raggiunte in un verbo mentale, il pensiero (l’oscuro Denken heideggeriano) si concentra su ciò che può cogliere ancora del contenuto fuggente della sua intuizione quando tenta di desoggettivizzare questa prima (e allo scopo) di concettualizzarla o intellettualizzarla in termini metafisici. Rimane nella notte e si muove nella notte. Ancor più, è inevitabile che, una volta operata tale concettualizzazione, il filosofo la avverta come un tradimento di ciò che aveva intuitiva-

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mente percepito e che aveva commosso tutto il suo essere. Per questo dispera, alla fine, della filosofia e della metafisica» (XIII, p. 956). La metafisica non è quindi possibile perché Heidegger ritiene che sarebbe un’oggettivazione dell’esistenza, un ridurre l’essere all’essenza concettuale, tanto che scrive: «Poiché essa scruta l’essente in quanto essente, si limita all’essente e non si volge all’essere in quanto essere» (XII, p. 811). Maritain commenta: «San Tommaso non si è fermato all’ente, all’essente, ma è andato diritto all’essere, all’atto di essere (peccato che Heidegger non l’abbia visto!)» (XII, p. 845); e aggiunge: «Un’esistenza senza essenza, un soggetto senza essenza: fin dall’origine ci si insedia nell’impensabile» (IX, p. 17). Nelle Sette lezioni sull’essere (21) analizza e valuta l’angoscia: «Essa è il sentimento improvviso, vivo e lacerante di tutto ciò che vi è di precario e di minacciato nella nostra esistenza, nell’esistenza umana e, nello stesso tempo, proprio per effetto di questo sentimento, di questa angoscia, l’esistenza si spoglia della sua banalità, assume un valore unico, il suo valore unico, ci si presenta come un qualcosa di salvato dal nulla, di strappato al nulla. Certamente questa specie di esperienza drammatica del nulla può servire di introduzione all’intuizione dell’essere, ma a condizione che la si consideri solo un’introduzione» (V, p. 578). Heidegger resta fermo al piano psicologico, dal quale non si può cogliere l’intelligibilità dell’essere.

Jean-Paul Sartre L’altro filosofo esistenzialista a cui Maritain rivolge particolare attenzione è Jean-Paul Sartre (1905-1980)41 perché in lui l’esistenzialismo si coniuga da una parte con la fenomenologia e dall’altra con il marxismo. Di questo filosofo, che è anche un autore di testi teatrali di successo, che partecipa alle vicende politiche, che anima il

41 Jean-Paul Sartre, allievo della Scuola Normale Superiore di Parigi con Raymond Aron, M. Merleau-Ponty, diviene subito celebre con il romanzo La nausea (1938) e per la traduzione in francese del Trattato di psicopatologia di K. Jaspers. La ricerca di una filosofia concreta lo avvicina a Husserl e ad Heidegger e nel 1943 pubblica L’essere e il nulla, un saggio di ontologia fenomenologica. Attraverso la rivista «Les temps modernes» diventa uno dei maestri della gioventù francese. Tra gli scritti filosofici: L’essere e il nulla (1943), Critiche della ragione dialettica (1960); drammaturgici: Le mosche (1943), A porte chiuse (1944), Le mani sporche (1948).

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movimento studentesco del maggio del 1968, Maritain parla a lungo nella Storia della filosofia morale (XI, pp. 881-923). Sartre partendo da una psicologia fenomenologica fonda un’ontologia fenomenologica. Considera la coscienza un distaccarsi dalle cose e dai fatti, annullando la totalità dell’esistente, per porre liberamente nuovi significati. Ma questo processo è contraddittorio perché essendo la coscienza soggettività come libertà assoluta, il per-sé che dà significato all’essere del mondo, l’in-sé, oggettività, va definendosi destrutturandosi, nullificandosi nella sua oggettualità. Per esserci bisogna oggettivarsi, ma questo oggettivarsi nel mondo distrugge la soggettività e l’uomo sente di essere “di troppo” in questo mondo (la nausea dell’esistenza) perché la sintesi di in-sé e per-sé è impossibile, sarebbe Dio. Di qui lo scacco ontologico dell’esistenza. Dio non esiste e l’io non può farsi Dio, anche se Sartre scrive: «La realtà umana è puro sforzo per diventare Dio» (XI, p. 895). Maritain cita altri due testi di Sartre: «Così il nulla è questo buco d’essere, questa caduta dell’in-sé verso il sé mediante il quale si costituisce il per-sé». «Il per-sé corrisponde dunque ad una destrutturazione decomprimente dell’in-sé, e l’in-sé si nientifica e si assorbe nel suo tentativo di fondarsi. Non è dunque una sostanza di cui il per-sé sarebbe attributo e che produrrebbe il pensiero senza assorbirsi in questa stessa produzione. Resta semplicemente nel per-sé come un ricordo dell’essere, come la sua ingiustificabile presenza nel mondo. L’essere-in-sé può fondare il suo nulla, ma non il suo essere, decomponendo si nientifica in un per-sé che, in quanto tale, diventa il suo fondamento; ma la sua contingenza di in-sé resta però fuori della sua presa» (IX, p. 123)42. E commenta «Il nulla nell’esistente è stato sostituito dal nulla dell’esistente; l’orrore del nientificare libero, che sconvolge l’esistenza è stato sostituito dalla constatazione del non-essere, che è il limite inflitto ad essa dalle antinomie della dialettica sovrana, o dall’esperienza della minaccia che si fa pesare sull’io, o dall’accettazione, in cui l’orgoglio almeno trova il fatto suo, dell’impotenza del per sé, che può solo corrodere e nientificare l’esistenza, e della nausea che prende lo spirito di fronte alla stupida gratuità dell’In sé e alla radicale assurdità dell’esistenza» (IX, p. 123). 42 Anche per Maritain l’uomo, facendo il male, nientifica, ma questa nientificazione è un fatto morale, è un venir meno, non un atto metafisico; l’uomo non fabbrica il nulla, ma guasta l’essere. Sartre non ha visto che c’è una disimmetria tra la linea dell’essere e la linea del non-essere. Cf. J. Maritain, Dio e la permissione del male (58).

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È il dramma della filosofia contemporanea, che vuole trovare l’essere dopo averlo messo tra parentesi e Sartre, come romanziere e come filosofo, apre questa parentesi e vi scorge tutto il male che vi alligna, ma anziché considerare il male come una ferita che la malvagità umana infligge all’essere, lo attribuisce all’essere stesso. Maritain scrive: «Del dramma di cui parlo, Sartre è un testimone nauseato (e meno libero di quanto creda) che ha scorto, grazie alla letteratura e a qualche istinto di romanziere, una fenditura nella Parentesi e visto attraverso la fogna l’esistenza reale, ma come un informe, enorme, osceno, innominabile e mostruoso insulto alla ragione, l’Assurdo del puro e assoluto contingente. E molto in fretta ha tappato la fenditura della Parentesi e ha ricondotto nel suo pensiero, a titolo di oggetto-fenomeno, questo nauseante Assurdo, per elaborare con esso un’ontologia del fenomeno e dichiarare che “il mondo è di troppo”. Le parole tollerano tutto. Ma è chiaro che anche Sartre ci porta, a suo modo, una testimonianza sorprendente dell’assenza di filosofia nel nostro tempo» (XII, pp. 811-812). Maritain nella sua etica ha messo in evidenza come nell’atto morale si realizza la libertà dell’uomo, che è chiamato a deliberare del suo destino, perché deve non solo applicare una regola, ma anche deliberarla nella sua applicazione alla situazione esistenziale in cui è coinvolto43, e rileva che tutta la filosofia di Sartre si snoda a partire da questa intuizione, che però viene alterata, perché sgancia l’azione dell’uomo da qualsiasi forma di legge precedente l’atto del scegliere, sia essa data da Dio, dalla natura o dalla ragione, abbandonando l’uomo alla precarietà della sua esistenza. Così «tutti i valori vengono relativizzati, salvo quello della libertà che l’uomo si dà quando prende la libertà di scelta come fine supremo» (XI, p. 910). Maritain osserva: «A dire il vero, è in filosofia morale che Sartre apporta considerazioni degne d’interesse. Per quanto malamente la concepisca, l’esistenzialismo contemporaneo ha un sentimento autentico della libertà e della sua trascendenza essenziale nei confronti delle specificazioni e virtualità dell’essenza, e dell’importanza in certo modo 43

Scrive Maritain: «Bisogna aggiungere che la ragione non soltanto deve riconoscere l’ordine scaturito dal pensiero creatore, perché vi è un ordine che essa stessa è incaricata di costruire in quanto ragione pratica: è appunto quello delle cose umane e degli atti umani, che rappresenta, secondo san Tommaso, il dominio dell’etica. Continuatrice e collaboratrice dell’opera divina, la ragione deve ad ogni istante inventare, conformemente all’ordine eterno, l’ordine contingente e costantemente rinnovato delle opere del tempo» (V, p. 391).

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creatrice dell’atto morale, e dei gradi di profondità che esso comporta, e dell’unicità assoluta, irriducibile ad ogni concatenazione di eventi anteriori e di determinazioni, dall’istante in cui, con l’esercizio della sua libertà, il soggetto si rivela a sé e s’impegna. Se tutto ciò non fosse viziato dall’accettazione dell’assurdo e dall’espunzione della natura e della forma rationis, come di ogni oggetto, di ogni causalità e finalità, vi sarebbero qui le premesse per una filosofia morale e una filosofia della libertà» (IX, p. 54). Poco dopo rileva il paradosso della morale sartriana, che parte dall’io come quella di Kant, ma non per formulare una legge universale, ma per affermare la sua libertà di scelta senza regole. Infatti «invece di dire: sono io che decido liberamente di ciò che faccio (in accordo o disaccordo con ciò che devo), si dovrà, oramai, dire: sono io che decido liberamente di ciò che devo» (XI, p. 908). Sono io che creo la mia libertà, e ogni azione vale per se stessa, vale in rapporto alla mia scelta, fosse anche l’omicidio o l’adulterio, in quella data situazione. Si tratta di una “decisione valorizzante” che crea, di volta in volta, arbitrariamente, la sua regola. Maritain rileva che questa morale «è insieme una morale dell’ambiguità e una morale della situazione» (XI, p. 908) e confronta questa libertà assoluta di arbitrarietà di Sartre con quella che Cartesio attribuiva a Dio. Ma in questo caso si ha un’aseità del nulla (cf. XI, p. 905), perché l’azione dell’uomo, del per sé sull’in sé, corrode e nientifica l’esistenza, l’uomo fa il nulla. «L’uomo di Sartre è così più radicalmente viziato, più marcio, dell’uomo del giansenismo, perché il peccato originale è diventato il fatto stesso di essere nati, di partecipare all’esserci delle cose» (XI, p. 897). Infine Maritain considera anche l’estetica di Sartre che affianca il brutto e il bello, come ha affiancato l’essere e l’assurdo, e osserva: «Qui ci troviamo di fronte alla categoria del brutto, dell’osceno, disgustoso, nauseante, sudicio, viscoso. Sartre ha perfettamente ragione a riconoscerla come categoria esistente. Ma il fatto è che questa categoria del brutto non ha senso per uno spirito puro; e non ha senso per Dio. Perché uno spirito puro vede tutto in modo puramente intellettuale, non sensitivo. Brutto è ciò che, essendo visto, dispiace; dove non ci sono sensi non c’è categoria di bruttezza» (X, p. 302). Non si dimentichi che l’esistenzialismo di Sartre per le sue contaminazioni con il marxismo è anche un materialismo e soprattutto cercando un’ontologia del fenomeno, non poteva che concludere nell’assurdo (cf. XI, p. 888).

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Gabriel Marcel Maritain conclude la sua riflessione sull’esistenzialismo rilevando che esso rappresenta una forma di pensiero debole, perché «la tragedia dei filosofi esistenzialisti, siano essi esistenzialisti cristiani come Gabriel Marcel o esistenzialisti atei come i discepoli francesi di Husserl e di Heidegger, sta nel fatto che essi hanno il sentimento o l’intuizione del primato dell’essere, dell’esistenza, e nello stesso tempo rifiutano ogni valore all’idea dell’essere, con il pretesto che è un’idea astratta, di modo che in essa non vedono altro che una parola e pensano che l’idea stessa non ci offra che una tastiera muta. Se io sono invece un tomista, è perché in definitiva ho compreso che l’intelligenza vede, e che è fatta per l’essere; nella sua funzione più perfetta, che non è quella di fabbricare idee ma di giudicare, essa si appropria dell’esistenza esercitata dalle cose. E nello stesso tempo forma la prima delle sue idee, l’idea dell’essere, che la metafisica trarrà nella propria luce al più alto grado di visualizzazione astrattiva» (IX, pp. 252-253). Maritain osserva che gli esistenzialisti hanno dimenticato la distinzione fondamentale tra l’intelletto, che coglie l’essere nella sua esistenzialità, e la ragione, che lavora su oggetti di pensiero: «La ragione, ha detto Heidegger, è la nemica prima del pensiero (o piuttosto del pensare del Denken)» (XIII, p. 931). Bisogna distinguere, senza separare, la logica dalla filosofia. Così in Sartre, ma ad un’attenta lettura anche in Heidegger, l’Assoluto si risolve nel nulla, e negli esistenzialisti cristiani, come in Louis Lavelle44, «in una libertà senza natura» (XIII, p. 549). Il pensiero debole cerca l’Assoluto, ma negando l’oggettività del sapere si smarrisce nella soggettività esistenziale del suo approccio al conoscere, perché il soggetto può avere un’intuizione dell’essere non relazionandosi con l’oggetto, ma nell’esperienza interiore individuale in una sintesi di ontologia e di psicologia attraverso la libertà mediante la quale si supera il distacco, l’intervallo, il mondo, che ci separa da Dio. Maritain è in rapporto di amicizia con Gabriel Marcel45, negli anni Trenta fir44

Louis Lavelle (1883-1951), docente alla Sorbona, elabora una filosofia dello spirito come sintesi di ontologia e psicologia. Tra le opere: Presenza totale (1934), Il tempo e l’eternità (1945). 45 Gabriel Marcel (1889-1973), filosofo e critico teatrale, discepolo di Bergson, si converte dall’ebraismo al cattolicesimo nel 1929. Cerca una metafisica del concreto, rifiuta l’oggettività del concetto, perché solo con l’amore si approda all’Assoluto. Tra le opere: Giornale metafisico (1927), Essere e avere (1935), Il mistero dell’Essere (1961).

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

mano insieme diversi manifesti politici, hanno la medesima tensione verso l’Assoluto, per entrambi la filosofia è mistero e problema, ma li divide il significato e il valore da attribuire al concetto, che per Marcel è un’astrazione sterile che ci allontana dall’essere reale, mentre per Maritain coglie l’essere nella sua concreta esistenzialità. Marcel vuole superare la scissione tra il conoscere e il vivere, tra l’oggettività e la soggettività, tra avere ed essere, perché è nell’amore e nella fedeltà che si può avvertire la presenza dell’Assoluto. Invece, secondo Maritain, l’uomo raggiunge l’essere in una visione semplicissima, al di sopra di ogni discorso e di ogni dimostrazione, mediante un’intuizione «dove, in un momento di emozione decisiva simile a fuoco spirituale, l’anima entra in un contatto vivo, trafiggente, illuminante, con una realtà che essa afferra e da cui viene afferrata» (V, p. 574). Ed è l’essere, nella sua intelligibilità, che procura questa intuizione. Si hanno come «due luci, l’una da parte dell’oggetto, l’altra da parte dell’habitus o della virtù intellettuale del soggetto» (V, pp. 572-573), ma «c’è una priorità dell’oggetto, non nell’ordine temporale, ma delle gerarchie dell’essere; c’è priorità, nell’ordine della natura dell’intuizione dell’essere in quanto essere sull’habitus interno del metafisico» (V, p. 573). La filosofia contemporanea ha cercato vie diverse per questo tipo di intuizione, dall’esperienza della durata di Bergson all’esperienza dell’angoscia di Heidegger, fino all’approfondimento del senso morale, inteso come fedeltà, in Marcel; ma queste vie si fermano sulla soglia dell’essere, non trovano che un surrogato della metafisica. Queste filosofie esistenzialistiche, che non giungono all’intuizione dell’essere in quanto essere, al punto che Marcel sostituisce la stessa parola intuizione con la parola raccoglimento, possono soltanto «procurare un’esperienza interiore, psicologica o morale» (V, p. 587).

Simone Weil Figura isolata nel groviglio delle correnti ideologiche francesi, Simone Weil (1909-1943)46 è importante per il suo percorso intellet46

Simone Weil, ebrea, dopo aver insegnato filosofia nei Licei abbandona e lavora in fabbrica per provare la condizione operaia, partecipa alla guerra civile spagnola con i repubblicani, a Solesmes e ad Assisi ha alcune esperienze mistiche. Durante l’occupazione tedesca ripara prima a Marsiglia, dove partecipa ad un gruppo di resistenza, distribuisce clandestinamente la rivista «Témoignage chrétien», poi negli Stati Uniti da

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tuale che parte dalla filosofia di René Le Senne47 , e dalla letteratura di Alain Fournier, si incrocia con l’esistenzialismo di Gustave Thibon48, incontra di sfuggita Jacques Maritain approdando alle soglie del cristianesimo. S. Weil apprende da Alain Fournier il metodo di lavoro intellettuale, l’analisi critica dei testi, il volontarismo etico portato fino allo stoicismo; ma più tardi rimprovera al suo maestro di non avere capito il significato della sofferenza. I suoi scritti, molto frammentari, fortemente autobiografici e critici, che si muovono tra contemplazione estetica e contemplazione mistica, non sono riportabili ad una precisa elaborazione concettuale. Ad un amico la Weil scrive: «Hai letto san Giovanni della Croce? È in questo momento la mia principale occupazione. Mi hanno regalato anche il testo sanscrito “Gita”, traslitterato. Si tratta di due pensieri straordinariamente simili. La mistica di tutti i paesi è identica. Credo che anche Platone debba essere considerato un mistico e che egli concepisse le matematiche come materia di contemplazione mistica»49. Dalle riflessioni e dalle intuizioni di S. Weil si rileva una spiritualità autenticamente cristiana, anche se lei non ne fa una manifestazione esteriore, anzi resiste all’ingresso nella Chiesa e vive il suo cristianesimo in una solitudine drammatica. Per lei si tratta di accettare la condizione umana, di vivere la propria vocazione personale, imparando a «leggere la necessità dietro la sensazione, leggere l’ordine dietro la necessità, leggere Dio dietro l’ordine». Si tratta di mettersi dalla parte di Dio, non solo di amare se stessi e le creature in Dio. La Weil coglie bene il rapporto tra l’amor di Dio e l’amor del prossimo, supera qualsiasi prospettiva di un solidarismo socialista, puramente umanitario, perché in Dio vede la fonte del soccorso alle miserie della condizione umana. Medita sulla Passione di Gesù, che non è voluta da Dio per se stessa, ma è permessa per la salvezza degli uomini, e in se stessa dove passa in Inghilterra per collaborare con la Resistenza, ma stremata muore in sanatorio. Tra le opere, tutte postume, L’ombra e la grazia (1947), La conoscenza soprannaturale (1950), Lettera a un religioso (1951), La condizione operaia (1951). 47 René Le Senne (1883-1954), filosofo e psicologo, definisce la sua filosofia ideoesistenziale. Tra le opere: La menzogna e il carattere (1930), Il destino personale (1951), La scoperta di Dio (1955). 48 Gustave Thibon (1903-2001), letterato e filosofo, uomo di destra, si stacca da Maritain non solo per motivi politici ma per il suo modo di filosofare, tanto che scrive: «Credo alle immagini più che alle idee. L’idea circoscrive, l’immagine evoca. La perfezione di certe immagini lascia in noi una scia di mistero e di invisibile che sfida qualsiasi intellezione». Tra le opere: La scala di Giacobbe (1942), Diagnosi, Saggio di filosofia sociale (1945), Nietzsche il declino dello spirito (1948). 49 Lettera cit. in S. Pétrement, La vita di Simone Weil, Adelphi, Milano 1994, p. 569.

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

e per se stessa non è accettabile. La croce non si può desiderare, la sofferenza non vale per se stessa, ma la croce e la sofferenza sono da accettare perché nel mistero cristiano segnano la presenza di Dio nell’umanità e nella storia. Precisa: «La grandezza suprema del cristianesimo viene dal fatto che esso non cerca un rimedio soprannaturale contro la sofferenza bensì un impiego soprannaturale della sofferenza»50. Dio fatica a reggere con la sua Provvidenza la storia, Dio ha pazienza con gli uomini, perché in un certo senso deve fare i conti con le necessità naturali da Lui volute nel creare un mondo limitato e materiale e con le casualità sociali da Lui permesse; necessità e casualità che sono aggravate dal peccato e che solo la sofferenza degli uomini in unione con la sofferenza di Cristo può rimediare. La contraddizione è un elemento costituzionale della storia umana, ma non è da accettare bensì da superare, pur patendola e soffrendone. Non si tratta di fare una sintesi dei contrari (tesi e antitesi) come nella filosofia di Hegel o Marx, ma di trascendere la contraddizione, perché in Dio la contraddizione si può risolvere. Scrive: «La contraddizione è la vetta della piramide. La parola “bene” non ha il medesimo significato come termine della correlazione bene-male o come designazione dell’essere stesso di Dio»51. Infatti «la contraddizione sperimentata fino in fondo è lacerazione. È la croce»52; la contraddizione nasce dal limite, ma senza questo limite noi non esisteremmo, tanto che si può affermare: «Il limite è la prova che Dio ci ama»53. Siamo lontani da qualsiasi forma di manicheismo o di dualismo cartesiano, ma anche dalle precise concettualizzazioni di Maritain sul problema del male. S. Weil, a Maritain che incontra in America, scrive: «Sono di origine ebrea, ma i miei genitori, del tutto agnostici, mi hanno lasciato ignorare la mia origine fino all’età di undici anni e mi hanno educata al di fuori di ogni religione. Dalla più tenera infanzia, ormai da molto tempo, perché ho già trent’anni, ho assorbito l’ispirazione cristiana per l’intermediazione dei libri, ad incominciare dal XVI secolo francese, che ho amato da quando ho appreso a leggere. Ho così adottato teoricamente, e per quanto la mia imperfezione lo permetteva, nella pratica, l’atteggiamento cristiano a riguardo dei proble50

p. 123.

S. Weil, L’ombra e la grazia, Introduzione di G. Thibon, Rusconi, Milano 1985,

51

Ibid., p. 139. Ibid. 53 Ibid., p. 145. 52

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III. La crisi della modernità

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mi della vita e della morte. Il dogma cristiano mi ha sempre attratto per la sua bellezza, questa attrazione è diventata, di anno in anno, di giorno in giorno, sempre più viva, fino ad essere trasformata in adesione, anche se si tratta di un’adesione nell’ordine dell’amore e non nell’ordine dell’affermazione. Mi sembra che sia questo il tipo di adesione che conviene ai misteri soprannaturali, perché l’amore soprannaturale in noi è la sola facoltà capace di entrare realmente in contatto con essi. Mi sembra che la fede consista nella subordinazione di tutte le facoltà naturali dell’anima, compresa l’intelligenza, all’amore soprannaturale, subordinazione che deve, pertanto, lasciare intatte le loro proprie funzioni e il loro libero gioco […]. Io credo di avere il diritto di dire “Credo”. Tuttavia ho delle difficoltà, non davanti a Dio, ma davanti agli uomini, per la coscienza che questa parola è quasi sempre usata in sensi molto differenti. Ma c’è per me un ostacolo ancor più grande. Non posso accettare di ammettere che ho il dovere, e neppure il diritto, di sottomettere il mio pensiero alla giurisdizione della Chiesa e di ritenere un’idea come falsa quando questa è marcata d’infamia con le parole “Anathema sit”. L’uso che la Chiesa ha fatto di queste parole è per me come una barriera che mi forza a restare sulla soglia» (27 luglio 1942). Maritain comprende questa inquietudine, più psicologica che intellettuale, e le risponde: «Sono rimasto colpito dalla confidenza con la quale mi parlate della vostra posizione spirituale. Di tutte tali questioni sarei felice di parlare con voi al mio ritorno a New York. Ma fin da ora vorrei dirvi che, a mio giudizio, voi avete realmente ricevuto il dono della fede, ma siete turbata da una forma di concettualizzazione ancora inadeguata. Il giorno in cui comprenderete che è la Verità divina che si dona essa stessa a noi attraverso la fede, queste difficoltà cadranno. Saranno spazzate via dal battesimo, ma è opportuno che con la preghiera e con la meditazione cominciate fin da ora a superarle voi stessa. L’amore procede dal Verbo, ed è perché l’intelligenza, interiormente illuminata, aderisce alla Verità divina e ai misteri che la superano che l’amore soprannaturale zampilla nell’anima e la feconda tutta intera» (4 agosto 1942). Maritain la affida al padre domenicano M.A. Couturier con il quale la Weil riprende a discutere la sua situazione e al quale scrive la lunga Lettera ad un religioso. Malgrado queste difficoltà intellettuali, la Weil fa battezzare i due nipoti, Alain e Sylvie, convincendo il fratello e la cognata, e morirà poco dopo a Londra, probabilmente battezzata da una sua compagna di ospedale.

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4. Il neocriticismo e la filosofia dei valori La filosofia contemporanea vive nell’ombra di Kant, acquisisce un linguaggio nuovo, sostituisce alla nozione tradizionale di bene quella di valore, ma si frantuma nella motivazione di questi valori etici, perché alcuni li considerano assoluti come le forme trascendentali kantiane (Windelband, Rickiert) o le idee platoniche (Hartmann, Natorp, Cassirer) o Dio (Le Senne) e altri invece li storicizzano relativizzandoli (Dilthey) mentre Max Scheler si appoggia sulla fenomenologia. Maritain non dà molto importanza a questi filosofi, ne coglie tutta l’ambiguità conseguente al voler salvare l’oggettività dei valori a partire dalla soggettività. Nella Storia della filosofia morale (57) scrive: «Non diremo nulla qui di una scuola di ispirazione kantiana o neo-kantiana che ha avuto la sua importanza in Austria e in Germania nel XIX secolo, la scuola della Filosofia dei valori non apporta alcun elemento veramente originale alla nostra indagine critica. Si potrebbe dire che come nell’ambito ontologico la fenomenologia di Husserl cerca una via intermedia tra il realismo e l’idealismo, così, nell’ambito morale, la filosofia dei valori cerca una via di mezzo tra una concezione, che ritiene i valori oggettivamente e intrinsecamente fondati, e una concezione che li ritiene semplicemente soggettivi; una tale ricerca, per quanto profittevoli abbiano potuto essere le analisi che le dobbiamo, era condannata a volgere nella direzione dell’una o dell’altra delle due posizioni pure, tra le quali essa sperava di mantenersi, e tra le quali, in realtà, non c’è via di mezzo» (XI, p. 689). Ne Lo stato attuale della filosofia in Germania (II, pp. 1141-1157) Maritain considera questo ritorno a Kant come una reazione al monismo della filosofia hegeliana. «Pochi, ad eccezione di Alois Riehl, si rassegnano ad avallare il kantismo integrale con le sue spinose contraddizioni e ad ammettere l’esistenza della cosa in sé. La Scuola di Marburgo (Hermann Cohen54, Paul Natorp55, Ernest Cassirer56) e la Scuola di Baden (Wilhelm Windelband57, 54 Hermann Cohen (1842-1918), docente a Marburgo. Tra le opere: Il fondamento dell’etica kantiana (1887), Etica del valore puro (1904). 55 Paul Natorp (1854-1924), docente a Marburgo. Tra le opere: Idealismo sociale (1920), Filosofia e pedagogia (1909). 56 Ernest Cassirer (1874-1945) insegna in diverse università tedesche e poi in America. Tra le opere: La vita e la dottrina di Kant (1918), Saggio sull’uomo (1944). 57 Wilhelm Windelband (1848-1915), filosofo e storico della filosofia, insegna in Svizzera e in Germania. Tra le opere: Preludi (1884), Storia della filosofia (1892).

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Heinrich Rickert58) si accordano nel proclamare l’inutilità di ogni tentativo di raggiungere una realtà indipendente dal nostro spirito. Per il neocritismo idealistico della prima scuola esistono solamente i fenomeni di coscienza, il pensiero e l’essere sono una sola realtà, non ha senso ammettere un al di fuori o un al di là del pensiero. La seconda scuola, con il suo neocritismo della teoria dei valori, che vuole che l’uomo riconosca al di sopra di lui un mondo di valori eterni (il Vero, il Bello, il Bene), rimanda, a dire il vero, più all’idealismo assoluto di Fichte e Hegel che al criticismo kantiano. Detesta, senza rincrescimento, i tre postulati della morale kantiana e dichiara, per bocca di Rickiert, che «bisogna rigettare l’antica saggezza perché noi, uomini moderni non crediamo più alla saggezza» (II, pp. 1143-1144).

Max Scheler Maritain si sofferma su Max Scheler59, un discepolo di Wilhelm Dilthey60, influenzato da Nietzsche, che l’incontro con la fenomenologia di Husserl porta a dedicarsi ai problemi morali, sociali, religiosi a partire dalla persona, che è un essere in relazione. Scheler, criticando l’antropologia della psicoanalisi di Freud, che si fonda sul risentimento, propone un’antropologia della solidarietà, «concentrando il mondo nell’uomo e dilatando l’uomo al mondo» (XVI, p. 104). Maritain, in Da Bergson a Tommaso d’Aquino (37), scrive: «Max Scheler non era un teologo come Karl Barth61 né un filosofo profetico come Nicolaj Berdjaev. Era un filosofo troppo filosofo, se così posso dire, almeno nel significato tedesco di questa parola, poiché un’inquietudine perpetua lo spingeva senza posa a rovesciamenti di prospettiva e a nuove sintesi delle quali non si sapeva mai se una più nuova sarebbe venuta a sostituire l’ultima. Max Scheler ha applicato 58

Rickert Heinrich (1863-1936), docente ad Heidelberg. Tra le opere: L’oggetto della conoscenza (1892), Immediatezza e significato. 59 Max Scheler (1874-1928), docente in diverse università (Jena, Monaco, Colonia, Francoforte). Tra le opere: Il formalismo dell’etica e l’etica materiale dei valori (1916), L’eterno nell’uomo (1921), Le forme del sapere e la società (1926), La posizione dell’uomo nel cosmo (1928). 60 Wilhelm Dilthey (1883-1911), docente in Svizzera e in Germania. Tra le opere: Introduzione alle scienze dello spirito (1883), L’analisi dell’uomo e l’intuizione della natura dal Rinascimento al XVIII secolo (1891-1904). 61 P. Viotto, Il confronto con la teologia protestante: Karl Barth, in Id., Grandi amicizie, cit., pp. 129-131.

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con singolare perspicacia il metodo fenomenologico al contenuto spirituale e morale dell’esistenza umana, e ha così riaperto nella stessa filosofia fonti religiose. L’antica analisi, con i suoi processi di dissociazione concettuale artificiosa, faceva posto a un’analisi in profondità la quale, grazie al suo modo metafisico, andava nella psicologia più lontano della psicologia stessa, rispettava e metteva in luce l’integrità data all’intuizione. È così che Scheler ha saputo scoprire, rispetto al filosofo, l’eterno nell’uomo, e le concrete implicazioni dei doni sopraumani nella sostanza della vita umana. Le virtù cristiane, l’umiltà e la carità, si trovano riabilitate non da un punto di vista dogmatico o teologico, ma dal punto di vista di una conoscenza in certo modo laica del concreto. E nello stesso tempo, per tutt’altra via di quella di Kierkegaard e di Barth, e in una prospettiva molto più umanista, era anche restituito il senso della persona, universo a se stessa. Se l’assenza di una metafisica e di una teologia sufficientemente ferme non aveva dato al suo pensiero troppa versatilità, se internamente le crisi che hanno oscurato la sua fede, ed esternamente le devastazioni morali e politiche, che cominciavano a sconvolgere la coscienza del suo paese, non avessero impedito all’opera e all’azione personale di Max Scheler di mantenere le promesse di cui risplendevano, egli avrebbe potuto rinnovare la vita religiosa della Germania nel senso di un cristianesimo ricco insieme di intelligenza filosofica e di vita interiore» (VIII, pp. 29-30). Invece Scheler, verso la fine della vita, abbandona la concezione trascendente di Dio per una concezione immanentistica di un assoluto che si realizza nella storia alla maniera dello storicismo di Hegel. Tra i discepoli di Max Scheler bisogna ricordare Paul Landsberg62, filosofo che cerca una mediazione tra fenomenologia, esistenzialismo e personalismo per fondare un’antropologia filosofica capace di fondare l’unità della persona. A causa del regime nazista si trasferisce a Barcellona, ma all’avvento al potere del falangismo deve riparare in Francia, dove collabora alla rivista «Esprit» di Mounier. Durante l’occupazione della Francia viene arrestato dalla Gestapo e muore in un campo di concentramento. Landsberg sviluppa una fenomenologia dell’interiorità, rilevando che l’uomo deve umanizzare 62 Paul Ludwig Landsberg (1901-1943) insegna all’Università di Bonn fino al 1933. Tra le opere: La vocazione di Pascal (1929), Introduzione all’antropologia filosofica (1934), Problemi del personalismo (postumo). La pubblicazione delle Opere Complete è in corso di edizione presso le Edizioni San Paolo di Milano.

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se stesso aprendosi ad un orizzonte universale e impegnandosi socialmente. Nel Saggio sull’esperienza della morte riflette sul suicidio richiamandosi a Cristo, che ci invita all’accettazione e non alla rivolta davanti alla drammaticità della condizione umana. Maritain è in dialogo con alcuni filosofi tedeschi e austriaci, come documentano le corrispondenze e diversi viaggi. Maritain nel 1927 e 1928 tiene conferenze a Colonia, invitato dalla “Katholische Akademikerverband”; nel 1931 partecipa alla settimana di studi internazionali a Salisburgo, poi si reca a Monaco dove incontra Erik Peterson63, di cui ricorda questo giudizio riguardante Kierkegaard: «La soggettività è la Verità. Questa affermazione che si applica solo a Cristo, è da Lui estesa ad ogni uomo: ecco la divinizzazione dell’io e dell’immanenza» (XI, p. 858). La filosofia cristiana nei paesi di lingua tedesca risulta influenzata dalla corrente fenomenologica, che riduce l’essere ad un oggetto della mente, che nega la filosofia come scienza per salvarla come fede, e non sa cogliere con sicurezza l’autonomia della ricerca filosofica64. Maritain lo dice espressamente di Joseph Pieper65, che «fa dipendere troppo strettamente l’opus philosophicum tutto intero dalla teologia» (X, p. 647). Pieper sviluppa un’approfondita analisi sulla natura delle virtù cardinali e teologali, dando preminenza alla prudenza, e connette le virtù naturali a quelle teologali, rilevando che il liberalismo ha falsato l’ordine delle virtù fondandole sulla coscienza individuale e dimenticando che la natura umana è stata guastata dal peccato. Bisogna considerare anche la relazione di Maritain con Dietrich Hildebrand66, filosofo del Circolo di Gottinga, impegnato nella ricerca di una conciliazione tra la fenomenologia e il realismo. Protestante, si converte al cattolicesimo nel 1914. Perseguitato dal nazismo ripara a Vienna, dove fonda e dirige la rivista «Der Christliche Ständestaat», per la quale chiede una collaborazione di Maritain a riguardo del problema ebraico. 63

B. Ritzler, Freiheit in der Umarmung des ewig Liebenden – Die historische Etwicklung des Personverstandnisses bei J. Maritain, Peter Lang, Bern-Frankfurt 2000. 64 Ph. Chenaux, L’influence de Maritain en Allemagne, in AA.VV., Jacques Maritain en Europe, Beauchesne, Paris 1996, pp. 87-111. 65 Joseph Pieper (1904-1997). Filosofo impegnato soprattutto nell’analisi delle virtù morali, la sua ricerca si muove verso l’essere come dover essere. Opera omnia presso l’editore Meiner di Amburgo. In italiano: Sulla fortezza (1956), Otium e culto (1967), Sulla giustizia (1969), Speranza e storia (1969). 66 Dietrich Hildebrand (1889-1977). Dieci volumi curati dalla Dietrich-von-Hildebrand-Gesellschaft negli anni 1971-1984. In italiano: Liturgia e personalità (1935), Il matrimonio (1959), Che cosa è la filosofia (2001).

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Maritain invia un testo che titola Sull’antisemitismo, che viene pubblicato nel 1936 (XVI, pp. 476-479). Emigrato in America, Hildebrand firma nel 1942 il manifesto Davanti alla crisi mondiale (VII, pp. 1214-1229). Quando, nel 1960, la Fordham University prepara un volume in omaggio a Hildebrand, Maritain partecipa con un testo in inglese, A proposito della filosofia cristiana, in cui riassume le sue posizioni sul problema (XI, pp. 1045-1058). Altra relazione di Maritain, nell’ambito della cultura tedesca, è quella con Peter Wust67, ritornato alla fede sotto l’influenza di Scheler, tra di loro c’è una corrispondenza negli anni 1927-1933, che segna l’incontro dei “cattolici del Reno” con i “cattolici della Senna”, come documenta la raccolta delle corrispondenze del filosofo tedesco con Paul Claudel, Gabriel Marcel, Charles Du Bos, Romain Rolland. Il suo discorso antropologico sottolinea le aspirazioni dell’uomo alla certezza e all’Assoluto che si trovano in una situazione di insicurezza e di rischio, tra dogmatismi e scetticismi, a cui bisogna reagire prendendo coscienza che la Provvidenza di Dio regola la storia. Wust in una lettera parla della morte del suo maestro: «L’altroieri ero sulla tomba di Max Scheler. Il 13 marzo, prima della sua partenza per Ascona, ci eravamo salutati all’angolo della via Auer. E ora mi trovo in un angolo discreto del cimitero. Circondato da una siepe verde. L’hanno inumato secondo il rito cattolico, la seconda moglie, sorella del musicista Furtwangler, si è interessata per ottenerlo. Nell’ultima settimana prima di morire, il filosofo è uscito ancora una volta dallo stato crepuscolare dovuto alle lunghe sofferenze, ha chiesto un foglio di carta e una matita, diceva che nella sua sofferenza aveva acquisito nuove conoscenze sulla vita dell’aldilà, conoscenze che non aveva mai avuto prima. Poi ha annotato otto punti. Nessuno conosce il contenuto di queste note, alcuni dicono che non siano decifrabili […]. Chi lo sa, forse Dio ha fatto giungere al morente grandi grazie. La sepoltura cattolica non è già, essa stessa, un’ultima grazia, anche se non è stata fatta su richiesta del defunto? Si è comunque pregato sulla tomba di Scheler. Purtroppo non ho visto la croce di legno provvisoria sulla tomba. Pregiamo con fervore per il riposo della sua anima. Vi invio un piccolo ramoscello che ho colto per voi sulla sua tomba» (6 giugno 1928). Maritain risponde: «Sono commosso per 67

Peter Wust (1884-1940), docente a Münster. Tra le opere: La crisi dell’Occidente (1928), Incertezza e rischio (1985), Lettres de France et d’Allemagne. Correspondance de Peter Wust avec ses amis français, Téqui, Paris 1985.

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quanto mi scrivete di Scheler e vi ringrazio per il rametto che avete raccolto per me sulla sua tomba. Di cuore preghiamo con voi per la sua anima» (20 giugno 1928). È molto interessante anche una lettera di Journet a Maritain: «Wust è morto lasciando ai suoi studenti un bellissimo testamento spirituale nel quale dichiara che non ha mai insegnato nulla contro le sue convinzioni profonde, anche se è stato difficile in alcuni momenti. All’opposto i giornali hanno pubblicato alcuni estratti da un discorso di Karl Adam che dichiara che la “natura germanica” è l’elemento sostanziale e il cristianesimo l’elemento accidentale del popolo tedesco» (19 luglio 1940). Tra gli amici tedeschi dei Maritain un posto particolare spetta a Theodor Haecher68, alunno di Scheler, che non porta a termine i suoi studi filosofici e si impegna in collaborazioni con diverse riviste fino a quando il nazismo gli impedisce di scrivere e di tenere conferenze. Ma ancora negli anni 1942 e 1943 a Monaco legge i suoi manoscritti al gruppo dei giovani studenti della “Rosa bianca”. Risulta che Hans e Sophie Scholl amavano citare la frase di Maritain: «Bisogna avere uno spirito duro e un cuore tenero» (III, p. 723). Maritain lo incontra a Monaco nel 1931, pubblica alcuni suoi scritti, tra cui La nozione di verità secondo Kierkegaard (1934) e Virgilio, padre dell’Occidente (1935). Maritain scambia con Haecher un’importante corrispondenza, attraverso la quale si può seguire la loro relazione intellettuale. Quando riceve il volume Che cosa è l’uomo, Maritain gli scrive: «Aristotele ha supposto che Dio è l’essere sussistente e Mosè l’ha insegnato alla filosofia cristiana […]. Ma la verità che Dio è l’Amore stesso sussistente, Deus caritas est, questa verità che è di ordine naturale in se stessa, ci è voluto la grazia evangelica per apprenderla e fino ad oggi è stata trascurata dai filosofi cristiani. Mi domando se non sia conforme ai paradossi della provvidenza che l’approfondimento di tale verità sia stato riservato ai nostri tempi violenti» (14 marzo 1934). Poi torna il filosofo che pure nell’amicizia non rinuncia alle sue convinzioni intellettuali e rimprovera ad Haecher di non cogliere l’esistenzialismo vero di san Tommaso e gli dice: «Voi ritenete san Bonaventura e Platone dei pensatori più esi68 Theodor Haecher (1879-1945). Filosofo e letterato. Protestante, si converte al cattolicesimo nel 1921. Studia in particolare Kiekegaard e Virgilio. Si accorge subito del paganesimo implicito nel fascismo e già nel 1923 in un opuscolo, La Bestia, fa la satira di Hitler e di Mussolini. Tra le opere: Che cosa è l’uomo? (1934), La creatura e la creazione (1935), La bellezza (1937), Lo spirito dell’uomo e la verità (1934). Cf. H. Siefken, Correspondance Maritain-Haecher, in «Cahiers Jacques Maritain», 31, pp. 23-40.

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

stenzialisti di Aristotele e di san Tommaso. Sono persuaso che è vero il contrario. Platone si ferma alle essenze. Aristotele è il solo metafisico che abbia dato tutto il suo valore all’intuizione dell’essere; e questo ruolo dell’esistenza, dell’atto di essere, è ancor più marcato in san Tommaso che in Aristotele. Sono solo le apparenze esteriori, la routine della pedagogia, che mascherano la poesia di cui san Tommaso è ricco. San Tommaso è un orfico, la poesia e la metafisica si sono compenetrate in lui» (14 marzo 1934). Nel 1940 gli amici di Haecher preparano un volume in omaggio al filosofo per i suoi sessant’anni e chiedono un contributo a Maritain. Il volume viene offerto a Haecher nell’unica copia dattiloscritta, nella quale non figura il contributo di Maritain, che per le vicende della guerra è andato smarrito. Negli Archivi di Kolbsheim ne è stata trovata una copia, in cui si legge: «Tutti coloro che nel mondo della cultura hanno conoscenza della lingua tedesca e di ciò che cosa essa ha donato alla cultura universale apprezzano l’importanza dell’opera di Haecher e il modo con cui ha saputo rinnovare con uno stile ardente e puro, libero da ogni pedanteria, ricco di umanità e di vita, la presentazione dei problemi metafisici e morali» (XVI, pp. 11731174). Un aspetto particolare, problematico, forse più politico che culturale, dei rapporti di Maritain con il mondo tedesco riguarda la responsabilità collettiva del popolo tedesco davanti alle violenze e alle atrocità perpetrate dal nazismo in tutta Europa. Maritain ritiene che si debba eliminare il virus dell’imperialismo prussiano, e propone sul piano politico una soluzione federale e sul piano morale il riconoscimento delle colpe commesse. A questo riguardo sono molto interessanti i dispacci e le relazioni che Maritain redige per il governo francese in qualità di Ambasciatore presso la Sede69.

5. L’empiriocritismo e la filosofia della scienza Maritain constata che la visione di Comte secondo la quale solo le scienze sperimentali sono vere, è scomparsa perché la maggior parte degli scienziati incomincia a riconoscere che la scienza non si pronuncia «sulla natura o l’essenza di ciò che è, ma sulle connessioni tra i segnali o i simboli che i nostri sensi, e soprattutto i nostri stru69 Cf. R. Fornasier, Maritain e la responsabilità collettiva del popolo tedesco, in «Notes et Documents», XXXI, 6 (settembre-dicembre 2006), pp. 44-52.

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menti di osservazione e di misura, ci permettono di elaborare» (VII, p. 202). Nell’articolo Lo stato attuale della filosofia in Germania (II, pp. 1141-1157) Maritain, dopo aver rilevato che «la filosofia moderna è giunta a negare la metafisica attraverso il criticismo kantiano e il positivismo» (II, p. 1144), presenta diversi esponenti di queste filosofie che trasformano le categorie della filosofia classica e le leggi del positivismo in finzioni pratiche regolate da un principio comune di economia, di utilità pratica. Dopo avere ricordato Richard Avenarius70 si sofferma su Ernest Mach, l’animatore del Circolo di Vienna, fondato dal filosofo e fisico Moritz Schilick nella città allora capitale dell’Impero austro-ungarico, mentre nasceva nelle arti figurative l’espressionismo e nella musica la dodecafonia, A questo circolo si richiamano altri due filosofi austriaci: Kurt Gödel, dall’America, e Ludwig Wittgenstein, dall’Inghilterra. L’attività di gruppo termina nel 1936, quando uno studente nazista uccide il fondatore. Secondo Maritain, per Ernst Mach71 «la scienza è un vasto sistema di simboli abbreviati e la conoscenza un fenomeno puramente biologico che avviene sulla base di un principio di economia o principio del minor dispersione di forze; conoscere è fare economia di intelligenza […]. La filosofia di Mach è sostanzialmente affine al pragmatismo» (II, p. 1144). Approfondendo precisa: «La scienza si disinteressa completamente del processo di causazione all’opera nel reale, non ha per scopo che descrivere nella maniera più economica ciò appare ai nostri sensi» (XI, p. 711). Su queste basi Hans Vaihinger72 si propone di stabilire «un sistema di finzioni teoriche, pratiche e religiose dell’umanità sulle basi di un positivismo idealistico» (II, p. 1145) che costituirebbe kantianamente «la filosofia del Come-Se» perché tutte le nostre conoscenze non sono che delle finzioni a cui continuiamo a credere, ma che non hanno alcun valore oggettivo. La scienza non cerca le cause, si limita a stabilire delle connessioni tra i fenomeni a scopo pratico per il benessere dell’umanità. «Questa non è, d’altra parte, l’idea che solo Auguste Comte si faceva della scienza, ma è quella anche di tutti gli scienziati che si richiamano a 70

Richard Avenarius (1841-1896), studente e poi professore a Lipsia e a Zurigo. Tra le opere: Filosofia come pensiero del mondo secondo il principio del minimo sforzo (1876), Critica dell’esperienza pura (1890). 71 Ernst Mach (1838-1916), docente di fisica prima a Praga poi a Vienna. Tra le opere: Conoscenza ed errore (1905), Analisi delle sensazioni (1906). 72 Hans Vaihinger (1852-1933), di formazione kantiana, insegna a Strasburgo e poi ad Halle. Tra le opere: Commento alla Critica Ragion pura (1899).

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lui, in particolare quella del celebre teorico della scienza e filosofo energetista Mach» (V, p. 869).

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Ludwig Wittgenstein Maritain rileva che in Ludwig Wittgenstein73 comincia ad esserci un superamento di questa posizione. Di lui scrive: «egli si è accostato per un momento al positivismo logico e solo per abbandonarlo» (XI, p. 696) e rintraccia nel Trattato logico-filosofico questa massima «“Not how the world is, is the mystical, but that it is”, “non come il mondo è, è il mistico, ma che esso è”, che può ricevere un senso pienamente filosofico ed essere considerata come una valida asserzione della metafisica dell’esse» (XI, p. 758). Ma c’è un salto dalla scienza alla mistica, e rimangono incertezze. Maritain aggiunge: «Quanto al principio avanzato nella stessa opera: “What can be said at all can be said clearly”, “tutto ciò che può dirsi può essere detto chiaramente” può essere inteso nel senso del più stretto univocismo scientistico, per il quale non è “detto chiaramente” se non ciò che si definisce mediante una verifica matematica o sperimentale; ma può essere inteso anche in un senso veramente degno dell’intelligenza, potendo significare che da una parte si possono formulare degli enunciati “detti chiaramente” su cose oscure in se stesse (come la materia prima di Aristotele) od oscure per noi (come le perfezioni divine), e che d’altra parte la chiarezza di un enunciato è qualcosa di essenzialmente analogico, e che vi sono tante maniere differenti di “dire chiaramente” quanti sono i gradi distinti nella conoscenza – perché un filosofo dovrebbe accusare un fisico di non parlare chiaramente quando parla di anti-materia? E perché un fisico dovrebbe accusare un filosofo di non parlare chiaramente quando parla di essere in potenza o di essere contingente?» (XI, p. 758). Ma in Wittgenstein non c’è una risposta chiara a questo interrogativo. D’altra parte Wittgenstein è stato alla scuola dei logicististi inglesi (Peirce, MacFarlane) «che vogliono fare della matematica una logica del numero» (II, p. 677) e Maritain avverte: «la logicistica è qualcosa di essenzialmente differente dalla logica. Mentre la logica 73

Ludwig Wittgenstein (1889-1951), filosofo austriaco che dopo aver studiato ingegneria a Berlino si trasferisce a Cambridge per lavorare con Bertand Russel. Il suo Trattato logico-filosofico (1921) sulla natura del linguaggio ha avuto diverse edizioni.

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si appoggia sull’atto stesso della ragione nel suo processo verso il vero, dunque sull’ordine dei concetti stessi e del pensiero, la logicistica si appoggia sulle relazioni entro segni ideografici, dunque sui segni stessi presi come sufficienti una volta stabiliti» (II, p. 572). Ai maestri della Scuola di Cambridge Bertrand Russell74 e Alfred North Whitehead75 Maritain avrebbe voluto dedicare un capitolo della sua Grande logica come aveva previsto nel suo piano di lavoro (II, p. 762), ma nelle Opere complete si trovano solo alcuni rimandi occasionali. Nell’importante articolo Segno e simbolo (VII, pp. 97147), pubblicato nel 1938 sul primo numero del «Journal of Warburg Institut», dopo aver riconosciuto che il segno, nella sua funzione di simbolo, è «la chiave di volta della vita intellettuale» (VII, p. 107), precisa che lo è in ordine al suo significato intelligibile e scrive: «La nascita dell’idea, e quindi della vita intellettuale in noi, sembra legata alla scoperta del valore di significazione di un segno. L’animale si serve di segni senza percepire la relazione di significazione. Percepire la relazione di significazione è avere un’idea – un segno spirituale. A questo proposito nulla è più suggestivo di quella specie di miracolo che è il primo risveglio dell’intelligenza nei ciechi-sordomuti (Marie Heurtin, Helen Keller, Lydwine Lachance): dipende essenzialmente dalla scoperta della relazione di significazione di un gesto con l’oggetto desiderato» (VII, p. 107). È questa relazione tra l’ordine logico e l’ordine ontologico a cui tendono più o meno consapevolmente i filosofi contemporanei e Maritain ne traccia la storia: «Mentre Russell si adoperava, brillantemente più che solidamente, a demolire la logica della predicazione e a far cadere ogni barriera tra la logica e la matematica, e mentre Whitehead, dopo di ciò, si sforzava di trascendere il nominalismo scientifico per ricostruire una teoria della conoscenza e una metafisica di grande stile, Émile Meyerson, in Francia, mostrava che la scienza, così come si fa, rende testimonianza contro lo schema positivistico della scienza, e svela un irreprimibile desiderio ontologico, che d’altronde essa non è in grado di soddisfare; ai nostri giorni

74

Bertrand Russell (1872-1970), filosofo e letterato, premio Nobel per la letteratura nel 1950, noto per una Storia della filosofia occidentale (1945). 75 Alfred North Whitehead (1861-1947), matematico e filosofo, autore del Trattato di algebra universale (1893) che ripropone l’ipotesi leibniziana di fondare tutte le scienze sul calcolo logico.

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un altro filosofo francese, Gaston Bachelard76, «insiste ancora di più sull’invenzione creatrice attraverso la quale la scienza conduce i suoi simboli incontro alle cose […]. Ciononostante, e quasi per compensazione, si andava sviluppando presso certi teorici la tendenza ad una interpretazione sistematica tale da imporre delle regole formali molto rigorose e da andare verso una specie di purismo logico: mi riferisco ai logici della Scuola di Vienna» (VII, p. 199). L’errore della Scuola di Vienna consiste nel confondere ciò che è vero per la scienza dei fenomeni e ciò che è vero per ogni scienza e per ogni sapere in generale, consiste nell’estendere all’universalità del sapere umano ciò che è valido solo per il suo particolare settore. Di qui la negazione assoluta della metafisica e la pretesa arrogante di rifiutare ogni senso agli enunciati metafisici. La Scuola di Vienna aveva preso coscienza che la scienza non si pronuncia «sulla natura o l’essenza di ciò che è, ma sulle connessioni tra i segnali o i simboli che i nostri sensi e soprattutto i nostri strumenti di osservazione e di misura ci permettono di elaborare» (VII, p. 202), ma ha fatto di questo tipo di scienza l’unica scienza «guastando una buona intuizione con una cattiva concettualizzazione» (VII, pp. 218-219), dimenticando che «se la scienza raggiunge l’essere delle cose solo obliquamente e per mezzo di costruzioni di ragione, è pur sempre l’essere che essa raggiunge in una maniera enigmatica e cieca» (VII, pp. 219-220). Maritain, poiché alcuni di questi scienziati sono anche dei sinceri credenti, osserva con una certa ironia: «Per un capovolgimento imprevisto l’oggetto assegnato da Aristotele alla metafisica passa alla fede. Se la scienza non attinge l’essere, lo attingerà la fede, almeno per colui che ha ricevuto questo dono. Coroniamo di neofideismo il neopositivismo, e tutto andrà bene, e con una notevole economia di spesa intellettuale» (VII, p. 223). Ma la fede così è ridotta ad «una semplice disposizione affettiva e pratica, senza contenuto di verità, né valore di conoscenza» (VII, p. 224). Maritain rimanda ad Aristotele, e sulla base della logica classica combatte i logicisti, che con la logica simbolica fanno della logica una strumento fine a se stesso, di valore puramente formale, precisando: «Ciò deriva dal fatto che il principio stesso del loro metodo esige che tutto sia significato, e che non ci sia nulla nel ragionamento che non sia già nei segni del ragionamento stesso, dovendo questi 76 Gaston Bachelard (1884-1962), docente alla Sorbona. Tra le opere: La formazione dello spirito scientifico (1938), Il razionalismo applicato (1949).

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segni a sua volta bastare a se stessi» (II, p. 583). Invece, «la logica è un’arte fatta per servire l’intelligenza, non per sostituirla. La logica non ha il compito di affidarci delle formule, che bastano a se stesse per svilupparsi, una macchina algoritmica che avanza da sé, mentre l’intelligenza rimane in riposo o è all’opera unicamente per sorvegliarne il funzionamento» (II, p. 584). La logica è un metodo, non una filosofia.

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Werner Karl Heisenberg In questa problematica, che coinvolge le scienze e la filosofia, un posto rilevante spetta anche ad Albert Einstein77 con la sua teoria della relatività e Werner Karl Heisenberg78 con il principio di indeterminazione. A riguardo della relatività Maritain osserva: «Penso che il senso comune e la filosofia parlino del tempo reale, di una realtà fisica, che è la durata di ciò che cambia, mentre Einstein – di fatto se non intenzionalmente – parla di tutt’altra cosa e cioè di un’entità matematica, che è una variabile in un’equazione, e che in comune col tempo ha solo il nome» (II, p. 816). Non bisogna confondere il tempo della filosofia con il tempo dei teorici del principio della relatività, infatti «ricercare le leggi, senza volere conoscere le cause, ci si espone a prendere per delle cause, o per degli enti reali, quelle che sono semplici finzioni», finendo per «assegnare un qualche valore fisico e ontologico a enti di ragione, che si è costretti ad elaborare per sostenere il linguaggio matematico» (II, p. 817). Non bisogna matematizzare il tempo reale: «Per i filosofi il tempo matematico, infinito e vuoto, è solo un ente di ragione. Il tempo reale, essendo fondato sul movimento, al pari dello spazio, è inseparabile dalla materia, così che il tempo e lo spazio hanno incominciato ad esistere solo con il mondo dei corpi e sono limitati come lui» (II, p. 820). La misurazione del movimento e del tempo dipende da noi, «ma il metafisico sa che tutto ciò che esiste è determinato. Prima di essere misurato da noi, ciò 77

Albert Einstein (1879-1955), fisico tedesco, premio Nobel nel 1922. Maritain fu suo collega a Princeton e ne parla in diverse opere. Cf. in particolare: La matematizzazione del tempo (II, pp. 813-844), La fisica della quantità e la rivoluzione cartesiana (III, pp. 205303) e La matematica dei fisici ossia la simultaneità secondo Einstein (III, pp. 237-303). 78 Werner Karl Heisenberg (1901-1976), fisico tedesco formatosi all’Istituto di fisica teorica di Copenaghen. Sono importanti due opere: Mutamenti nei fondamenti delle scienze della natura (1935) e Fisica e filosofia (1959).

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che è misurabile esiste e ha una sua quantità determinata. Evidentemente l’espressione numerica delle dimensioni spaziali e temporali varia con le unità (di misura) scelte, ma le cose hanno delle dimensioni assolute, altrimenti non avrebbero affatto dimensione, non esisterebbero quantitativamente. Ciò che esiste, sia pure nel modo imperfetto del tempo, sia pure attraverso l’istante, è intrinsecamente determinato» (II, pp. 822-823). Oltre alla misura matematica c’è anche una misura ontologica del tempo: «La parola misura ha per il filosofo un senso molto più esteso che per il fisico, il filosofo dice che la scienza divina è la misura delle cose e che le cose sono la misura della nostra scienza» (II, p. 824). Maritain conclude: «La relatività del tempo teorizzata da Einstein interessa l’arte di sistematizzare in senso matematico le misure sensibili, che noi applichiamo all’universo; ma se la tenessimo per una dottrina filosofica del reale, sarebbe un non senso» (II, p. 832). Maritain, anche a proposito del principio di indeterminazione di Heisenberg, osserva che le teorie scientifiche non possono essere utilizzate come teorie filosofiche, perché si tratta di livelli e modi di conoscenza diversi. Ne I gradi del sapere (17) scrive: «Per importanti e significative che siano per il teorico della scienza le idee di Heisenberg, esse non hanno assolutamente nulla a che vedere con il problema della libertà. Senza dubbio possono contribuire alla rovina di certa scienza romanzata, ma se si commettesse la balordaggine di volerle utilizzare direttamente per un’apologia del libero arbitrio, esse non avrebbero in questo ambito maggior valore del clinamen di Epicuro e di Lucrezio» (IV, p. 604). Concludendo, Maritain evidenzia il diverso uso che l’uomo fa dell’intelligenza nel campo della ricerca scientifica e nel campo della riflessione filosofica, modesto nel primo caso, strutturale nel secondo: «Tutto ciò significa che l’intelligenza è una sorta di testimone e di regolatore indispensabile del senso nel lavoro scientifico, ma che resta, se così mi posso esprimere, esterno a questo lavoro. Solo i sensi e gli apparecchi di misura vedono nella scienza: l’intelligenza vi è presente solo col compito di trasformare, secondo le regole della sintassi matematica e logica (che per i viennesi consiste del resto in pure trasformazioni tautologiche), i segni che esprimono ciò che è stato così visto. L’intelligenza è installata nella direzione dell’officina, scheda e sottomette ad un calcolo sempre più estensivo le indicazioni che le vengono fornite. Resta fuori dal cantiere dove si effettua direttamente il lavoro, le è vietato entrare» (VII, p. 203). Altro sono le scienze fisico-matematiche, altro è la filosofia della natura: non

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si può relativizzare il tempo reale, né si può indeterminare il libero arbitrio; non bisogna scambiare le formule della scienza per argomentazioni filosofiche. «Il concetto di finzione non va confuso con quello di ipotesi, perché le finzioni non pretendono né di copiare, né di interpretare scientificamente la realtà, ma solamente renderla accessibile e utilizzabile all’uomo, al prezzo anche di numerose contraddizioni. Sovente le finzioni più false, dal punto di vista logico, sono le più feconde per la conoscenza umana» (II, p. 1145). Sono funzioni utili per il progresso tecnologico, ma non vere per la filosofia e la saggezza dell’umana.

6. Il pragmatismo Il pragmatismo, il cui nome fu coniato da Charles S. Peirce79, non è solo il punto di arrivo della filosofia anglosassone che, partita dalla tarda scolastica di Duns Scoto e Occam, attraverso l’empirismo prima e il positivismo poi, per il persistente nominalismo, giunge ad affermare che il successo, la riuscita, è il criterio di verità, ma è anche un atteggiamento dello spirito, quando alla contemplazione preferisce l’azione e risolve la teoresi nella prassi. Maritain, particolarmente attento alla filosofia della religione, trova questo atteggiamento nella Riforma protestante. «Il predominio nel pensiero di Lutero dell’interesse pratico sull’interesse teoretico non spiega solamente l’orrore dei protestanti per gli Ordini contemplativi, ma prepara il pragmatismo di un William James e le teorie moderne della verità che rende. Poco importa, in fondo, che Dio abbia una tale o tale natura, tali o tale altri attributi, purché egli ci salvi» (I, p. 936). Inoltre vede in Cartesio «la prima radice del pragmatismo e dell’utilitarismo che caratterizzano la concezione moderna della scienza, perché ha deposto la saggezza» (V, p. 89) e ha orientato la scienza al sapere pratico, attribuendole l’unico scopo di dominare il mondo. In Scienza e saggezza (24) osserva che questo atteggiamento distrugge la scienza stessa, perché anche le scienze pratiche, in quanto sono un sapere e non un fare, restano sempre teoresi e non sono 79

Charles Sanders Peirce (1839-1914), avviato agli studi di logica dal padre, matematico, ebbe solo incarichi annuali in alcune università e morì poverissimo. Lasciò una quantità enorme di manoscritti pubblicati postumi dalla Harvard University.

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

prassi: «In realtà, distruggendo la scienza, il pragmatismo distrugge anche la scienza pratica, perché nella scienza pratica, in quanto resta scienza, speculativamente pratica o praticamente pratica, qualche cosa sussiste ancora, ad un grado o ad un altro, di quell’ordine speculativo che il pragmatismo rifiuta» (VI, p. 89). In politica il pragmatismo sgancia l’agire umano dai valori, come Machiavelli, che ha teorizzato il primato dell’utile sul bene, come il liberalismo politico, che considera la democrazia solo una tecnica giuridica per l’efficienza della vita sociale e non un valore etico e il liberismo economico, che considera l’utile come il fine assoluto dell’economia. Maritain è preoccupato per le conseguenze pedagogiche del pragmatismo, tanto da considerarlo in L’educazione al bivio (36) uno dei sette errori della pedagogia contemporanea perché falsa l’educazione intellettuale. «È un disgraziato errore quello di definire il pensiero umano come un organo di risposta agli stimoli e alle situazioni attuali dell’ambiente, vale a dire in termini di conoscenza e reazione animali, poiché una simile definizione si applica esattamente al modo di pensare proprio degli animali senza ragione. Al contrario, il pensiero umano è uno strumento o piuttosto un’energia vitale di conoscenza o d’intuizione spirituale; e l’attività pensante comincia non solo con delle difficoltà ma con delle vedute (insights) o percezioni, e termina in vedute, che sono rese vere dalla dimostrazione razionale o dalla verifica sperimentale, e non dalla sanzione pragmatica. Il pensiero umano è capace di illuminare l’esperienza, realizzare dei desideri, che sono umani, perché sono radicati nel desiderio primordiale del bene illimitato, e di dominare, controllare e foggiare di nuovo il mondo. Al principio dell’azione umana, in quanto umana, c’è la verità, conosciuta (o che si crede conoscere) per se stessa, per amore cioè della verità. Senza la fede nella verità non c’è efficacia umana. Questa è la critica principale da fare alla teoria pragmatista e strumentalista della conoscenza» (VII, pp. 782-783). In una conferenza del 1946 su Cooperazione filosofica e giustizia intellettuale (IX, pp. 271-300), Maritain fa una comparazione analitica tra pragmatismo e tomismo, precisando: «In ultima analisi ci troviamo qui davanti a un’opposizione metafisica, più radicale e più decisiva di tutti gli accordi parziali. Alla radice della filosofia tomista c’è l’affermazione del primato dell’essere sul divenire. Alla radice della filosofia pragmatista c’è l’affermazione del primato del divenire sull’essere. Potremmo formulare questa contrapposizione in altro modo, dicendo che la posizione che nel tomismo è occupata dalla verità, nel prag-

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matismo è occupata dalla verifica. Capisco bene che il pragmatista fa uso della nozione di verità e il tomista fa altrettanto con la nozione di verifica. Ma in quanto concetto filosofico di importanza e di significato primordiale, per l’uno è la verità, per l’altro la verifica che rappresenta il concetto da cui dipende tutto il resto. Agli occhi del pragmatista la verità è tutt’uno con la verifica. Agli occhi del tomista la verifica non è che una via e un mezzo per raggiungere la verità» (IX, p. 284). Conclude: «Il tomista insiste sul valore contemplativo della conoscenza, il pragmatista ne diffida come di un’illusione statica, contraria alla realtà della vita intellettuale, che non è che divenire e fatica. Questa disputa tra essere e divenire, e tra verità e verifica, rivela un profondo antagonismo che anche i migliori sforzi restano incapaci di superare» (IX, p. 285).

William James Maritain prova simpatia per questo giovane americano80, laureato in medicina, dedito a studi di fisiologia e di psicologia, che, amico di Renouvier e di Bergson, insoddisfatto tanto dal positivismo che dall’idealismo, vuole trovare una soluzione al conflitto tra materialismo e spiritualismo, tra determinismo e libertà, ma diffida della sua filosofia empiristica. Così lo presenta: «La combinazione perfettamente definita di puritanesimo, di romanticismo e di empirismo che è riscontrabile in lui, mi sembra che ne faccia un tipo eminentemente rappresentativo. Mi duole di non averlo conosciuto personalmente; provo per lui il più grande rispetto; non è difficile avvertire attraverso i suoi scritti la lealtà, il coraggio e l’intelligenza di una personalità umana degna di ammirazione. Con tutto ciò, ammiro meno la sua opera filosofica di quanto ammiri l’opera letteraria di suo fratello. Egli è filosofo in modo aperto, oserei dire cinico, col suo sentimento e la sua volontà, diciamo meglio, col suo temperamento – e infatti una filosofia è essenzialmente, ai suoi occhi, una traduzione del temperamento, il che ci consente di caratterizzare con sufficiente esattezza la sua, qualificandola come bilio-sanguigna» (III, p. 309). 80 William James (1842-1910), docente ad Harvard, fonda il primo laboratorio di psicologia sperimentale. Tra le opere: Principi di psicologia (1890), che Maritain cita più volte e nel suo libro su Bergson, La volontà di credere (1897), Pragmatismo, con una prefazione di Bergson (1907), Universo pluralistico (1909).

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

Per James la verità non è una rappresentazione logica di una realtà ontologica, ma è un giudizio di valore, una previsione sulla riuscita di una data azione. La verità non si scopre, si inventa; la verità è uno strumento per l’azione e la sua prova non è l’evidenza logica, ma la verificazione pratica, il risultato. A questa verità si perviene soggettivamente, con tutta l’anima, non con la sola intelligenza. La verità dipende psicologicamente dalla fiducia che si ha in essa: se, in montagna, si deve superare un difficile passaggio, si riesce solo se si crede di riuscirvi. La verità la costruiamo noi con la nostra fede. Non l’intelligenza, ma la volontà può liberarci dallo scetticismo, dall’ateismo, dal pessimismo: è la volontà di credere. James ci dà così una nuova formula del primato della ragion pratica. Il mondo non è un cosmo finito e determinato, ma un caos indefinito e in continua costruzione ad opera di molti individui, senza che prevalga una volontà unica, per cui appare in tutta la sua precarietà, irrazionalità, provvisorietà. Non è importante l’insieme della natura, sono importanti i singoli individui che liberamente vi operano. L’uomo non è fatto per conoscere la storia passata, ma per creare quella futura. La storia è opera delle grandi individualità, che hanno mutato il corso dell’umanità. Il genio non è il prodotto dell’ambiente: non può realizzarsi se l’ambiente non gli è propizio, ma non ne deriva, perché la sua opera è libera e del tutto individuale. Anche Dio è un individuo plasmatore del mondo, non trascendente, onnipotente, ma limitato e finito, primo tra tutti gli individui: la sua opera è precaria, fa quello che può, senza potere imporre la sua volontà al mondo. Maritain cita questo testo di James: «Le vedute più ampie che l’evoluzionismo scientifico ha aperto e la marea montante dell’ideale socialdemocratico hanno mutato il carattere della nostra immaginazione, al punto che l’antico teismo monarchico è invecchiato o è in via di invecchiamento» (III, p. 224). La religione è indispensabile all’anima umana, non però una religione oggettiva e unica, ma una religione soggettiva e individuale, a seconda dell’esperienza interiore di ognuno. Per James la fede si riduce a sentimento soggettivo che nasce dal subconscio, anziché essere la partecipazione ad una rivelazione oggettiva di un Dio trascendente. Premesso che per James «l’onnipotenza di Dio è incompatibile con l’individualità assoluta delle persone» (III, p. 320), Maritain di fronte a questa teologia pluralista si domanda: «La nostra libertà non implica forse che noi siamo indipendenti da lui? Forse che noi non gli resistiamo, quando facciamo il male? Come potrebbe esserci del male nel mondo se Dio avesse la

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III. La crisi della modernità

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possibilità di impedirlo? Henry James81 aveva insegnato a suo figlio che Dio non basta a se stesso, che ha bisogno della nostra collaborazione, che deve comportarsi come un onesto operaio che lavora all’opera comune» (III, p. 320). Cita questo testo di James: «Non vedo perché l’esistenza del mondo invisibile non potrebbe dipendere in parte dalle reazioni personali di chicchessia tra noi alle sollecitazioni dell’idea religiosa. Insomma, Dio stesso potrebbe trarre dalla nostra fedeltà la forza e la grandezza del proprio essere» (III, p. 321). Questo pluralismo teologico non affronta il problema del male e «tappandosi gli occhi e le orecchie, crede di capire che Dio non è onnipotente e che il male limita la sua forza» (III, p. 325), e alla fine «James e i suoi amici politeisti inclinano a credere ad una specie di politeismo» (III, p. 328). Anche lo Stato non è che l’insieme degli individui, il cui compito si limita a garantire la tolleranza democratica, perché ogni opinione è sostenibile e ogni parere deve essere tollerato. La filosofia di James presenta il mondo e la storia come un pluriverso in costruzione. Maritain commenta: «Il pluralismo filosofico nel quale lui e i suoi amici riponevano le loro speranze, e che oggi è più che superato, appariva loro come l’espressione metafisica dello slancio verso una allpervading democracy. Perciò essi si rappresentavano il mondo come un immenso formicolare, senza ordine fisso né gerarchia alcuna, di volontà tutte eguali in importanza, o addirittura, secondo un’espressione dello stesso James, come un grande banchetto repubblicano» (III, p. 305). L’uomo è immerso nel fluire del tempo e della contingenza: «Estasi per estasi: come Spinoza si immergeva nella conoscenza del terzo genere dove vedeva tutto perdersi nell’eternità, così James s’immerge nello spessore dei momenti fuggitivi, che egli sente altrettanto inesauribilmente ricchi di contraddizioni quanto l’assoluto degli assolutisti, e dove vede tutto ciò che è reale urtarsi e diffondersi in altre realtà. Il che dimostra che a voler filosofare al di sotto, come al di sopra, della ragione, ci si perde allo stesso modo» (III, p. 312). Dal punto di vista filosofico «James professa un nominalismo puro, di cui è deciso a fare, dopo Hume e Stuart Mill, e meglio di loro, un’applicazione integrale; ha verso l’astrazione un odio innato, che egli non si contenta di ostentare teoricamente, ma che passa nella sua pratica filosofica; egli si aggrappa al concreto, si rifiuta di vedere alcunché al di là dell’apparenza, non vuole che le cose siano elaborate dall’intelligenza, vuole dei fatti bruti, dei fatti non ripuliti, come lui li 81

Henry James, romanziere, fratello del filosofo.

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chiama. Che altro significa, se non che egli intraprende seriamente e lealmente a filosofare senza lo strumento del concetto e dell’analisi razionale, mostrandoci così ancora pienamente uno degli aspetti del pragmatismo?» (III, p. 310). Maritain conclude: «Un’umanità puramente volontaristica disprezza la verità; e la bellezza ne diventa quella specie di mostro moralista e feticista su cui Rousseau, Tolstoj, James ci danno qualche idea» (III, p. 474).

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John Dewey In James il pragmatismo germoglia sul terreno della psicologia e coltiva in particolare la filosofia della religione, con John Dewey82 si connette con la sociologia e si sviluppa sul terreno della filosofia politica e della filosofia dell’educazione. Maritain sottolinea l’importanza di questo filosofo: «Negli Stati Uniti l’influenza in certo qual modo ufficiale di John Dewey continua a prevalere nel campo dell’educazione; il positivismo a sfumatura hegeliana di questo generoso intelletto è peraltro di una qualità nettamente superiore a quella delle applicazioni massicce che si sono fatte delle sue idee in pedagogia» (III, p. 330). Dewey con il suo empirismo fattosi logica strumentale, con il suo naturalismo umanistico, con la sua morale della situazione è la presa di coscienza della crisi della modernità che voleva fare l’uomo perno assoluto del suo destino. «La rivolta di John Dewey contro Hegel è stata incomparabilmente più forte e più effettiva di quanto lo fosse stata quella di Marx. Mentre Marx restava in definitiva essenzialmente hegeliano, per il fatto che la dialettica, concepita al modo di Hegel, rimaneva per lui il vero sapere, che rende padroni delle cose, e lo strumento per eccellenza del pensiero, Dewey ha totalmente respinto la dialettica hegeliana […]. Ma di Hegel ha conservato la nostalgia del monismo» (XI, p. 930). «Per Dewey come per Marx, benché con connotazioni del tutto differenti, si potrebbe parlare di un capovolgimento dell’hegelismo. Questa volta, nella filosofia rimessa in piedi, non è 82

John Dewey (1859-1952) nasce in America da immigrati fiamminghi, dopo una iniziazione alla filosofia neo-hegeliana la conoscenza di James lo inclina verso il pragmatismo, docente prima a Chicago poi alla Princeton University. Tra le opere Il mio credo pedagogico (1897), Saggi di logica sperimentale (1916) Democrazia ed educazione (1916), L’arte come esperienza (1934).

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più la Materia ma è la Natura sorgente e oggetto delle perpetue rifusioni creatrici e dei perpetui aggiustamenti dell’azione umana. Non siamo più in presenza di un materialismo dialettico, bensì di un naturalismo strumentalistico» (XI, p. 932). Lo sperimentalismo di James diventa una logica strumentale, infatti Dewey rifacendosi a Bacone, che cita frequentemente, porta ad estreme conseguenze l’empirismo. La verità non è una rappresentazione della realtà, ma uno strumento per l’azione, che continuamente modifica la realtà. La logica non deve fare dei riassunti delle esperienze passate, ma delle previsioni per l’avvenire; non è retrospettiva, ma prospettiva. L’esperienza, che presiede questa logica, non è l’esperienza dell’empirismo fatta di sensazioni pure, associate poi dall’abitudine, ma un’esperienza grezza, totale, in cui intervengono tutti gli elementi della vita psichica, compresi gli elementi irrazionali, subconsci e inconsci. E ogni esperienza è provvisoria, modificabile da ulteriori esperienze, ed essa stessa prepara nuove ricerche. Si viene ad una specie di sperimentalismo storicistico, in quanto la verità continuamente si modifica e si rinnova col progredire delle esperienze e con le modificazioni che queste continuamente arrecano alla realtà, che non è precostituita all’uomo e definita, ma in costruzione, in sviluppo, con le caratteristiche di precarietà e di ambiguità proprie dell’indeterminismo. Maritain osserva: «Lo sforzo di John Dewey può essere considerato uno dei più significativi tentati dal pensiero filosofico moderno verso un naturalismo integrale o assoluto. Aggiungiamo che proprio per questo, e nello stesso tempo, è stato uno degli sforzi di pensiero più tipicamente soggetti ad un’ambiguità radicale» (XI, p. 934). Questa ambiguità radicale consiste nel voler costruire una metafisica sul divenire, di cercare la natura ontologica nelle scienze fenomenologiche. «Dewey ha in comune con il positivismo logico un energico pregiudizio antimetafisico» (XI, p. 937). La vita è incertezza, rischio, problema, che la logica strumentale cerca di risolvere, senza però giungere ad una soluzione definitiva. In questa ricerca non c’è uno sdoppiamento tra soggetto e oggetto, ma i due termini sono fusi insieme, sicché il soggetto diventa oggetto, l’esperienza si fa natura. Nulla trascende la natura, e l’uomo vi è immerso quale attivo costruttore; non è quindi uno spirito puro alla maniera dell’idealismo, estraneo al mondo, né, alla maniera del positivismo, un animale bruto, dominato dal mondo; egli è l’attore del progresso del mondo. L’errore della filosofia classica consiste nell’aver voluto ricercare all’indietro una causa prima, per porsi poi il problema dell’ordiwww.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

ne e della fine del mondo; ma non è la causa, la sostanza delle cose, che può interessare l’uomo, ma sono le loro capacità, le loro forze, e quindi l’utilizzazione che ne possiamo trarre per migliorare il mondo. A questo ingenuo ottimismo, Dewey fa seguire una constatazione di fatto, che vena l’ottimismo di scetticismo, perché nel mondo sempre vi sarà bene e male, ordine e disordine, verità e falsità, amore e odio. L’uomo non trascende la natura, non è un soggetto al di sopra dei suoi pensieri e delle sue azioni, ma è i suoi pensieri, le sue emozioni: il flusso continuo dell’esperienza non è nella coscienza, ma è la coscienza stessa, e l’io non è, come in Herbart, che il punto di confine tra le esperienze passate e le esperienze future. L’uomo e la natura fanno una unità, l’esperienza è data dal loro rapporto inteso come un’attività rinnovatrice di entrambi i termini. L’uomo non vive solo, ma nella società che lui stesso costruisce. L’individuo e la società presi a sé sono un’astrazione, nella realtà esistono solo nel loro rapporto, per cui sia l’individualismo che il collettivismo sono errori unilaterali, perché la società è l’interreciprocità tra l’individuo e la collettività, per cui, mentre l’individuo forma la società, ne è formato. Nulla trascende i rapporti sociali, non esiste una società ideale, perfetta, ma una società che continuamente si muta e si rinnova proprio per opera dell’individuo. Abbiamo in Dewey un socialismo per partecipazione, non un socialismo per sottomissione, come nel marxismo. Non esiste perciò una morale universale valida per tutti i tempi e tutti i luoghi, ma una morale sociale, che nasce nel gruppo a cui si appartiene e che continuamente si modifica con nuove esperienze e in nuove situazioni. La virtù è un’abitudine plasmata dalla società. Non esistono valori etici assoluti, perché è l’uomo che di volta in volta li stabilisce: «Si tratta sempre, per colui che si trova in una data situazione, di stimare la relazione tra i mezzi e il fine, e la validità di questo apprezzamento cade sotto l’osservazione, è sperimentalmente verificabile» (XI, p. 941); se riesce vale. «I giudizi di valore dipendono dagli uomini che sono hic et nunc impegnati nell’azione e che si dettano la loro norma di condotta» (XI, p. 943). Non siamo lontani, anche se con diversa fondazione, dalla morale della situazione di Sartre. In questo naturalismo umanistico e sociologico anche l’arte per Dewey acquisisce una tonalità sociale e diventa un mezzo di comunicazione tra gli individui. La bellezza non è eccezionale, caratteristica di poche opere straordinarie, ma è propria anche delle azioni più comuni, quando sappiano acquistare ritmo e unità. Dewey vuole radicare la morale

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III. La crisi della modernità

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sulla natura umana, «il suo errore è di considerare la natura umana nella prospettiva delle scienze fenomenologiche e di disprezzare le sue implicazioni metafisiche» (IX, 978). La psicologia e la sociologia non possono fondare la morale.

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7. Il neoidealismo Mentre il positivismo viene attaccato da più parti, l’idealismo hegeliano trova ancora discepoli in Europa e in America, che però lo vanno modificando. Questa ripresa dell’idealismo rappresenta in Italia un vero e proprio moto culturale a cavallo del XIX e del XX secolo, come reazione al positivismo e come ripresa del pensiero giobertiano. Continuatori dell’hegelismo in Inghilterra sono Thomas Green83, e soprattutto Francis Bradley84, importante snodo del pensiero anglosassone perché separa la logica dalla psicologia, sostiene che le idee non sono stati mentali soggettivi, ma puri significati logici, preparando G.E. Moore e B. Russel, che però si oppongono al suo rigoroso monismo. L’idealismo è professato in America da Josiah Royce85; in Italia il centro di diffusione è l’Università di Napoli, dove Augusto Vera86 diffonde la filosofia idealistica interpretandola platonicamente e teisticamente, e Francesco De Sanctis87 l’applicò alla critica letteraria; ma fu soprattutto con Bertrando Spaventa che l’idealismo italiano prese una sua forma originale, per poi esprimersi in un sistema compiuto con Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Accanto al neoidealismo intanto andava acquistando vigore l’idealismo critico che vuole uscire dalle contraddizioni del monismo salvando l’autonomia dei singoli spiriti, e dell’immanentismo, salvando 83

Thomas Green (1836-1882), professore di etica dell’Università di Oxford. Postumi i suoi Problemi di etica (1883). 84 Francis Bradley (1846-1924), docente ad Oxford. Importante i suoi Principi di logica (1883). 85 Josiah Royce (1855-1916) dopo aver studiato in Germania ritorna in patria e insegna alla Harvard University cercando di raccordare l’hegelismo con il pragmatismo di W. James. Tra le opere: Il mondo e l’individuo (1901), La filosofia della fedeltà (1908). 86 Augusto Vera (1813-1885), docente a Milano e a Napoli, soggiorna anche in Francia e in Inghilterra. Tra le opere: Introduzione ad Hegel (1855), Il problema dell’Assoluto (1882). 87 Francesco De Sanctis (1817-1883), più volte ministro della pubblica istruzione, traduce in italiano la Scienza della logica di Hegel; scrive un’importante Storia della letteratura italiana (1871).

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

la trascendenza dell’Assoluto. A questa corrente appartengono Bernardino Varisco88 e Piero Martinetti89. L’importanza di Bertrando Spaventa90 è più storico-critica che non costruttiva, perché fu il primo ad interpretare idealisticamente la storia della filosofia italiana. Nei suoi scritti, dopo aver premesso che l’hegelismo rappresenta il punto terminale di tutta la speculazione moderna e la più alta filosofia dello spirito umano, considera la filosofia italiana come preparazione dell’hegelismo. Nel rinascimento il monismo di Bruno avrebbe preparato quello di Spinoza, e l’autocoscienza di Campanella il cogito cartesiano, e Spinoza e Cartesio avrebbero poi portato ad Hegel. Nel risorgimento Vico sarebbe un precursore di Kant, Galluppi e Rosmini discepoli di Kant, e Gioberti di Hegel. Ma più che a questa ormai superata interpretazione della nostra storia della filosofia, l’importanza di Spaventa è legata alla sua critica all’hegelismo originario. Mentre in Hegel lo sviluppo dell’Idea avveniva mediante tre momenti – logica, natura, spirito –, per cui la coscienza sorgeva al termine del divenire, per Spaventa, non potendosi avere sviluppo dell’idea fuori della coscienza, tutto il divenire deve esprimersi nell’interno dello spirito. Così l’essere è tutto raccolto nel pensiero, nell’intimo della coscienza interamente immanente al soggetto. È il pensiero che, ripiegandosi su se stesso, pone l’essere, che altro non è che pensiero divenuto pensato. In Hegel si aveva un idealismo oggettivistico, alla maniera di Platone, in Spaventa si ha invece un idealismo soggettivo, alla maniera fichtiana. Maritain si accorge subito dell’incompatibilità del monismo idealistico con la filosofia cristiana, tanto che, commentando la relazione di Mariano Cordovani alla Settimana Tomista di Roma del 1923 rileva «la profonda opposizione dell’idealismo italiano contemporaneo e il pensiero tomistico» (II, p. 1249).

88

Bernardino Varisco (1850-1933), docente all’Università di Roma. Importante lo scritto postumo Dall’uomo a Dio (1939). 89 Piero Martinetti (1872-1943), docente di filosofia teoretica a Milano, rinunciò alla cattedra per non aderire al fascismo. Importanti gli Scritti di metafisica e di filosofia della religione (1976). 90 Bertrando Spaventa (1817-1883), docente all’Università di Napoli, fu l’ideologo della Destra storica. Tra le opere: La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea (1862), Rinascimento, Riforma e Controriforma (1867), Da Socrate a Hegel (antologia di recensioni raccolte da G. Gentile nel 1905).

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Benedetto Croce Il più importante rappresentante dell’idealismo italiano, Benedetto Croce91, impronta la sua ricerca estetica e storica ad una concezione di derivazione hegeliana, ma con variazioni originali che rimandano a Spaventa e a Vico. Grande la sua fama, anche all’estero, vasta la sua influenza sulla cultura italiana della prima metà del XX secolo. Abruzzese, studiò a Napoli e a Roma, viaggiò molto all’estero, raccolse a poco a poco una notevole biblioteca e si diede a ricerche filosofiche, letterarie e storiche, pubblicando una serie numerosa di articoli e di saggi sulla rivista «La critica» da lui fondata nel 1903 e diretta per quarant’anni con costanza e tenacia, sostituendola poi per difficoltà belliche con i «Quaderni della critica» nel 1944. Intanto aveva stretto amicizia con Giovanni Gentile, amicizia che lo portò verso un approfondimento delle sue riflessioni filosofiche, ma che si ruppe a poco a poco, prima per divergenze filosofiche e poi, quando Gentile aderì al fascismo, anche per divergenze politiche. Maritain conosce le opere di Croce, perché le cita più volte e in particolare si interessa alla sua estetica, intorno alla quale discute con Gino Severini, come risulta dalla loro corrispondenza92. Tutto è spirito, e lo spirito è in divenire, filosofia e storia coincidono: non si ha quindi una filosofia assoluta, ma ogni filosofia non è che l’interpretazione dei problemi della sua età, cioè una metodologia per comprendere la storia. Il passato vive nella coscienza del presente: «la storia è contemporanea»; la vera filosofia è l’ultimo sistema che raccoglie e compone le filosofie precedenti. Portando alle estreme conseguenze il principio vichiano della storia come unione di filosofia (vero) e di filologia (certo) e alterandolo, Croce afferma che le idee sgorgano dai fatti e creano i fatti. La storia è, sì, documentazione dei 91

Benedetto Croce (1866-1952), filosofo e uomo politico, senatore del Regno, negli anni 1920-1921 fu ministro della pubblica istruzione, meditando vaste riforme che non riuscì a realizzare per la caduta del governo Giolitti. Al fascismo non nascose la sua opposizione, ma non fu disturbato nella sua attività intellettuale. Alla caduta del regime, ebbe incarichi nei governi Badoglio e Bonomi. Raccoglie i suoi quattro scritti maggiori – Estetica, come scienza dell’espressione e linguistica generale (1902), Logica, come scienza del concetto puro (1908), Filosofia della pratica, Economia ed etica (1909), Teoria e storia della storiografia (1917) – in un’opera fondamentale intitolata Filosofia dello spirito. Tra le altre opere: Materialismo storico ed economia marxista, Saggio su Hegel (1906), La filosofia di G.B. Vico (1911), Breviario di estetica (1913). 92 Cf. P. Viotto, Gino Severini tra Maritain e Mounier, in Id., Grandi amicizie, cit., pp. 373-379; Il carteggio Severini - Maritain (1923-1966), a cura di G. Radin, Mart-Olschki, Firenze 2011.

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

fatti e critica mediante giudizi, ma la documentazione non diventa “storia” se non è assunta, quasi materia in una sintesi a priori, dalla filosofia, altrimenti è soltanto “cronaca”, pura elencazione di fatti. Così, mentre in Vico si trovava oggettivamente il punto di giuntura tra i fatti e la critica, qui lo si trova soggettivamente, finendo per contraffare i fatti stessi quando si afferma che la storia è la storia dello storico. Il positivismo pretendeva di trarre la storia dai fatti, l’idealismo al contrario subordina, coartandoli, i fatti alle idee. In questo monismo storicistico Croce conclude che non vi è che un’unica storia, quella dello spirito in divenire; scindere da quella una storia dell’arte, della politica, dell’economia è arbitrario, perché queste non sono che diversi punti di vista per considerare la medesima realtà. Lo spirito è assolutamente uno, sempre identico a se stesso, pur nel suo differenziarsi in forme e gradi: due sono le forme, la teoretica e la pratica, che a loro volta si sdoppiano in due gradi ciascuna, uno particolare e uno universale.

Le forme e i gradi dello Spirito in Croce - tav. n. 10

La forma teoretica dà al grado particolare l’intuizione estetica e al grado universale il concetto, mentre la forma pratica dà al grado particolare l’utile e al grado universale il bene. Come è facile osservare, sono le forme e i gradi dell’attività umana, già così classificati da

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III. La crisi della modernità

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Aristotele, ma qui ripresi con altro significato. Ogni grado è distinto da ogni altro, senza esserne separato, anzi, nella sua distinzione implica l’altro, anziché opporglisi. Così mentre in Hegel si aveva la dialettica degli opposti, per cui lo Spirito ascendeva di grado in grado, annullando nelle sintesi i gradi precedenti, qui invece si ha una dialettica dei distinti, per cui il Soggetto passa di grado in grado, senza annullarne l’originalità e l’autenticità: è questa la circolarità dello Spirito così porta con sé tutto, ma senza nulla confondere, in un processo di unità-distinzione. Questa circolarità non è ripetizione, bensì è un crescere continuamente dello Spirito su se stesso. La dialettica degli opposti viene ricondotta da Croce all’interno dei singoli gradi, per cui nell’arte c’è la contrapposizione tra bello e brutto, nella logica tra vero e falso, nell’economia tra utile e disutile, nella morale tra bene e male. L’Estetica è il primo grado della vita dello Spirito; essa è precedente e indipendente dai gradi successivi, cosicché l’arte è soltanto arte, assolutamente fine a se stessa, e non può esservi un’arte vera, un’arte utile, un’arte buona; né la logica, né l’economia, né la morale possono interferire nell’atto estetico. L’arte è intuizione-espressione contemporaneamente, non pura intuizione come nel romanticismo, né sola espressione come nel classicismo, in quanto non si ha intuizione musicale senza suoni, intuizione pittorica senza colori, intuizione poetica senza parole: la sua perfezione è proprio questa unità. L’estrinsecazione dell’emozione interiore implica la volontà di fissare le proprie intuizioni, e così sorge la tecnica, però questa non interviene nel fatto estetico, ma solo nel suo momento pratico. L’arte è così forma pura, ha per contenuto un’intuizione, che immediatamente si esprime; se tra l’intuizione e la espressione si insinuasse un concetto o un interesse, non si avrebbe più un fatto estetico. Ogni uomo è artista, perché l’attività estetica è un momento necessario nello sviluppo dello spirito, e ogni uomo con il linguaggio (a cui Croce da un’origine più estetica che concettuale) è un poeta. La differenza tra il genio e l’uomo comune è solo quantitativa; d’altra parte il gusto di chi contempla l’opera d’arte si identifica con il genio di chi la produce. Infine non si possono fare classificazioni di arti e di generi letterari, perché l’arte è una sola, anche se diversi sono i mezzi tecnici di espressione. Maritain contesta a Croce di ridurre l’arte a puro lirismo, a pura soggettività. In Arte e Scolastica (2) scrive: «Il grande errore dell’estetica neohegeliana di B. Croce, che scrive “Il bello www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

non appartiene alle cose”93, lui pure vittima del soggettivismo moderno, è di non vedere che la contemplazione artistica, pur essendo intuitiva, rimane sempre del tutto intellettuale. L’estetica deve essere insieme intellettuale e intuitiva» (I, p. 740). La logica di Croce intende combattere sia l’empirismo come l’astrattismo, riprendendo l’universale concreto di Hegel come sintesi di particolare e di universale, di essere e di pensiero; e anche ogni intuizionismo o pragmatismo, perché l’oggetto della conoscenza ha da essere un concetto e non un’intuizione o un’emozione o un interesse. Di contro al concetto concreto proprio della filosofia, le scienze usano uno pseudoconcetto, cioè l’universale astratto dall’individualità e concretezza della realtà. Questi concetti non sono veri, ma sono utili schematizzazioni per la vita pratica. Il concetto implica poi hegelianamente la contraddizione, perché il concetto di nero non si può avere se non nell’opposizione al concetto di bianco. L’errore non può venire dall’attività teoretica, ma solo dalla volontà, quando vengano a interferire nella ricerca degli interessi estranei. Mentre in Kant vi era il primato della ragion pratica sulla ragion pura, in Croce nell’unità dello Spirito vi è soltanto distinzione: l’uomo conosce per volere, e vuole per conoscere. L’attività pratica, in quanto tende ad uno scopo, presuppone la conoscenza dello scopo da raggiungere, sorge in un momento successivo, ma non cronologicamente successivo, dell’attività teoretica. Come nella forma teoretica, così pure nella forma pratica bisogna distinguere due gradi: uno particolare, l’utile, e l’altro universale, il bene. E come il concetto presuppone l’intuizione, così il bene presuppone l’utile, in quanto chi cerca il bene cerca un utile universale, il bene per tutti gli uomini. Il concetto di bene esige un’integrazione tra egoismo e altruismo, tra interesse e disinteresse. L’economia e la politica riguardano il grado particolare della ricerca, sono perciò stesso premorali, amorali, e quindi al di qua della distinzione tra bene e male. Si sente in tutto questo il liberalismo politico e il liberismo economico di Croce. Quanto al diritto, esso è paragonabile alla scienza, con i suoi pseudoconcetti e con le sue continue variazioni, perché le sue leggi hanno, sì, qualcosa di universale come le leggi morali, ma mancano di quella spontaneità, che

93 B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, 8a ed. rin., Laterza, Bari 1946, p. 107.

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III. La crisi della modernità

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è propria invece dell’eticità, e si vanno modificando col tempo, non esistendo un diritto naturale. La morale sta tutta nella spontaneità dell’adesione soggettiva alla norma universale, cioè nell’intenzione, indipendentemente dal successo pratico dell’azione deliberata, e non implica la socialità, poiché la legge morale è impegnativa per l’individuo indipendentemente dalla società. Maritain rileva che la critica di Croce al marxismo («è un’impresa assolutamente disperata volersi occupare di etica in Marx»94) «è vera solo in parte per quanto riguarda la teoria della morale» (XI, pp. 656-657) perché Marx non ha scritto un trattato di morale, ma nelle sue opere parla più volte di morale. Per Croce l’atto della volontà è libero, ma al tempo stesso è necessitato dalla situazione di fatto precedente l’atto stesso; è libero in quanto, sviluppando la situazione, ne crea una nuova: in questa innovazione sta la sua libertà. La religione viene collocata in parte nell’etica, come pratica, e in parte nell’estetica, come conoscenza, senza però coglierne il significato e la sua specificità, data la concezione immanentistica che sostiene tutta la sua filosofia. L’idealismo crociano rappresenta un tentativo di salvare, pur nel monismo e nella riduzione di tutta la realtà a Spirito, l’originalità e l’autenticità delle altre forme, estetiche e pratiche, dell’attività umana.

Giovanni Gentile L’idealismo di Giovanni Gentile95 ha connotazioni diverse da quello di Croce, anche se all’inizio vi è una qualche convergenza tra i due filosofi. Infatti Gentile per un certo periodo collabora a «La critica», ma poi si distacca dal pensiero crociano cercando di riportare l’idealismo all’ispirazione originale hegeliana e applicandolo ai problemi pedagogici, identificando la pedagogia con la filosofia. 94 B. Croce, Matérialisme historique et économie marxiste, Giard et Brière, Paris 1901, p. 174. 95 Giovanni Gentile (1875-1944). Siciliano, si laurea alla Scuola Normale di Pisa con una tesi su Rosmini e Gioberti, aderisce al fascismo e vi rimane fedele anche dopo la caduta del regime nel luglio del 1943, partecipando al tentativo di ripresa con la Repubblica Sociale di Salò. Come ministro dell’educazione nazionale promuove nel 1922 la riforma della scuola che porta il suo nome. Tra le opere: Sommario di pedagogia come scienza filosofica (1912), Teoria generale dello spirito come atto puro (1916), La riforma dell’educazione (1920), Sistema di logica come teoria del conoscere (1922), La filosofia del diritto e La filosofia dell’arte, entrambe del 1931.

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

Riprendendo motivi berkeleyani, kantiani e fichtiani, concepisce lo Spirito non come essere, ma come un’attività che ha immanente tutta la realtà. Nulla esiste fuori dello Spirito, e lo Spirito non è statico, ma dinamico, perché il pensiero non è un fatto, ma un atto, cioè un’attività, un divenire. Questo Spirito non si diversifica, come in Croce, in forme e gradi, ma è assoluta unità e identità a se stesso. Nulla è estraneo al pensiero per cui si debba avere una forma pratica distinta da una forma teoretica: il pensiero è esso stesso un’azione in quanto è creatività. Gentile aderisce con convinzione al fascismo sulla scia della teoria hegeliana dello Stato etico che identifica la morale e la politica facendo dello Stato un assoluto, riproposta da Spaventa. Maritain in Umanesimo integrale (26) riporta questa frase di Benito Mussolini, fondatore del Partito Nazionale Fascista: «tutto nello Stato, niente contro lo Stato, nulla al fuori dello Stato» e commenta: «Gentile ha esposto chiaramente tutto ciò nel linguaggio proprio al suo sistema filosofico» (VI, p. 608), ma precisa che questa posizione non dipende dall’attualismo della sua filosofia. Con il fascismo lo Stato non solo amministra ma pretende di educare i cittadini per cui il ministro della pubblica istruzione diventa ministro dell’educazione nazionale. Il pensiero non ha altra origine che se stesso, non ha altro oggetto che se stesso, lo Spirito è atto puro, cioè pensiero nell’atto stesso del pensamento. Il pensiero si sdoppia intrinsecamente in pensieropensante e pensiero-pensato, ma per ricomporsi nell’unità dell’autocoscienza. L’unica categoria è il pensiero, che è unità e attività, il pensato è solo l’oggetto del pensiero, astratto dal pensiero pensante, in cui però sussiste e si regge. Il pensato è la molteplicità, la natura con i suoi esseri particolari spazializzati e temporalizzati. Ma lo spazio e il tempo sono ancora creazioni dello Spirito, per cui la molteplicità rientra nel pensiero come suo prodotto; cosicché l’uno è il molteplice e il molteplice è l’uno. La pluralità dei soggetti empirici va fichtianamente intesa come produzione dell’unico Spirito che unifica quei soggetti nel suo Io trascendentale. Lo Spirito quindi è creatività immanente che va creando i singoli esseri, transitorie attuazioni della sua unità. Lo Spirito è storia, perché si manifesta dialetticamente attraverso la molteplicità degli esseri, ma non è storia in quanto, nella sua unità, è atto eterno. Questa apparente antinomia si risolve riportando il divenire del pensiero pensato all’atto del pensiero pensante, per cui tutta la storia si raccoglie nell’atto del pensare e la storia della filosofia coincide con il filosofare.

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III. La crisi della modernità

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La legge per cui lo Spirito si moltiplica nella pluralità per raccogliersi nella sua unità e si oggettivizza per raccogliersi nella sua soggettività: è la legge hegeliana della dialettica degli opposti che Croce aveva superato e Gentile riabilita. Il soggetto è autoctisi, ossia autocreazione, posizione di sé, da se stesso, cioè lo Spirito si sdoppia in soggetto e oggetto per cogliersi nell’autocoscienza, che supera l’antitesi, eliminandola. Questa dialettica non avviene però nell’Idea in sé, precedente lo spirito, come in Hegel, ma all’interno dello Spirito stesso. I momenti del divenire dello Spirito sono quelli già indicati da Hegel: l’arte, la religione, la filosofia. La tesi, in cui il soggetto si pone irriflessivamente nella sua soggettività, costituisce il momento estetico. L’arte è per Gentile autonomia e libertà, perché lo Spirito vi si manifesta libero da ogni legame e da ogni scopo, ma ciò non significa che l’arte sia un’attività particolare dello Spirito: è solo un aspetto dell’unica attività dello Spirito, in cui lo spirito si presenta sempre in tutta la sua interezza e unità. L’arte è moralità, perché ogni manifestazione umana è moralità e contiene in sé tutto lo Spirito, ed è catarsi, purificazione dalle passioni, dall’inquietudine, perché apportatrice di quiete e di serenità. L’antitesi costituisce il momento oggettivo, in cui lo Spirito si contrappone a un oggetto e si presenta come religione, quando questo oggetto è considerato come trascendente, e come scienza, quando invece è considerato nell’insieme dei fatti naturali ritenuti precedenti l’attività del pensiero. Ma questi due momenti, presi a sé, isolati dal loro rapporto dialettico di contrapposizione, sono delle astrazioni che devono essere considerate soltanto nella loro reciproca implicanza, nell’autocoscienza ove la contrapposizione tra oggetto e soggetto si elimina nella sintesi. Nella sintesi i due termini coincidono nella filosofia, che è hegelianamente la concettualizzazione del reale, ove tutta la realtà è pensiero in atto. La filosofia di Gentile parte, come quella di Croce, dalla soggettivizzazione dello sviluppo dell’idea, ma poi se ne distingue perché, mentre Croce nega la dialettica degli opposti e struttura lo spirito in forme e gradi, Gentile ritorna alla dialettica hegeliana e concepisce lo spirito come unità. In questo senso Gentile rappresenta il punto terminale di tutta la filosofia idealistica, iniziata da Cartesio e sviluppata da Hegel, perché conclude nell’identificazione assoluta dell’essere col pensare, portando alle estreme conseguenze il principio della creatività dello spirito.

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8. La psicoanalisi Maritain si confronta anche con la psicoanalisi distinguendo con precisione il metodo diagnostico dall’implicita filosofia che le scoperte di Sigmund Freud96 veicolano soprattutto a livello di divulgazione. Nel gruppo di amici che frequenta le riunioni di Meudon c’è anche Roland Dalbiez97, un giovane professore di filosofia laureatosi con una tesi su Freud, che con R. Collin fonda i «Cahiers de la Philosophie de la nature». Il volume Il metodo psicoanalitico e la filosofia freudiana esce nel 1936, e Maritain ne trae spunto per una conferenza su Freudismo e psicoanalisi (VII, pp. 61-96) che tiene a Rio de Janeiro e che pubblica nei Quattro saggi sullo spirito nella sua condizione d’incarnazione (30) partendo dal principio stabilito da Dalbiez «la psicoanalisi è una terapia non una filosofia».

Sigmund Freud Con Freud nasce una nuova scienza, la psicoanalisi, come psicologia del profondo, di ciò che non si sa, ma che condiziona il nostro comportamento affettivo, intellettuale e morale. Secondo Maritain nasce in maniera deviata perché considera solo l’inconscio subconscio, e lo risolve nella sessualità. Freud, nell’opera L’io e l’es (1923), riassume la sua antropologia. L’Es (il pronome personale neutro nella lingua tedesca) è il mondo dell’inconscio con le sue pulsioni, una forza impersonale, il serbatoio della libido, che entra in conflitto con l’Io, che per un certo versante è ancora inconscio, legato ai meccanismi di difesa, mentre per l’altro versante è la coscienza di sé del 96 Sigmund Freud (1856-1939), nato da una famiglia ebrea, si laurea a Vienna in medicina nel 1881, si specializza a Parigi alla scuola del neurologo J.M. Charcot. Rientrato in patria, apre uno studio privato per la cura delle malattie mentali e pubblica con lo psichiatra J. Breuer il suo primo lavoro, Studi sull’isteria (1895). Approfondisce i suoi studi sull’inconscio nell’opera fondamentale L’interpretazione di sogni (1900) e nei Tre saggi sulla teoria sessuale (1905). In Analisi terminale e analisi interminabile (1937) Freud applica il metodo analitico anche allo studio dell’arte e dell’etnologia in Totem e tabù (1913). L’invasione nazista dell’Austria lo costringe a rifugiarsi a Londra. 97 Roland Dalbiez (1893-1976). Figlio di una famiglia aristocratica, ufficiale navale nella Prima guerra mondiale, si dedica allo studio della filosofia laureandosi nel 1921. Docente dell’Università di Rennes, ha tra gli allievi anche Paul Ricoeur. Tra le opere: Il metodo psicoanalitico e la filosofia freudiana (1936), Mistica e psicoanalisi (1948). Scrive numerosi articoli per i «Cahiers de Philosophie de la nature» tra cui Le trasformisme et la philosophie nel primo fascicolo, Prospettive sulla vita morale nel quarto.

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III. La crisi della modernità

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soggetto. Il Super-io svolge una funzione di controllo e di inibizione. L’Io che è il «rappresentante degli interessi della persona nella sua totalità» deve mediare tra gli altri due livelli della struttura psichica, che sono in conflitto fra di loro. Il Super-io non coincide con la coscienza morale, per Freud nasce dalla costrizione delle regole sociali introiettate nella psiche, che censurano il comportamento dell’individuo e generano un senso di colpa. Nell’età evolutiva a causa dei divieti dei genitori si forma nel maschio il complesso di Edipo come desiderio di morte per il rivale del proprio sesso (Jung individua nelle femmine il complesso di Elettra), poi questo complesso viene rimosso quando si forma il Super-io, ma resta latente. Infine Freud teorizza l’inferiorità della donna che sarebbe invidiosa del maschio e soffrirebbe di un complesso di castrazione. Maritain nel suo saggio rileva che «l’investigazione psicoanalitica dell’inconscio rende manifeste in modo singolare le condizioni d’incarnazione dello spirito dell’uomo. Alla fine, constatando lo scacco di una filosofia aberrante innestata sulla psicoanalisi per dissolvere la personalità umana nel mondo dell’istinto, del senso e del sogno, si constata anche che attraverso una comprensione corretta delle scoperte di Freud la persona è condotta ad una purificazione spirituale e ad una migliore coscienza del proprio mondo» (VII, pp. 54-55). Inoltre sottolinea come «tutta la filosofia di Freud poggi su di un pregiudizio: la negazione violenta della spiritualità e della libertà» (VII, p. 91). Precisa inoltre che sul piano terapeutico la psicoanalisi «può guarire certe nevrosi, quelle la cui eziologia non è organica, ma psicodinamica», ma aggiunge subito che può anche aggravarle per cui «è un metodo difficile e pericoloso» e «se bisogna scegliere un buon medico tra mille, bisogna scegliere un buon psicoanalista tra diecimila» (VII, p. 72). L’errore centrale della psicologia freudiana consiste nel ritenere comune e normale ciò che di fatto è eccezionale e patologico. «Per lui l’esistenza del complesso di Edipo è una legge universale» (VII, p. 86). Maritain rileva che l’interpretazione dei sogni porta a frequenti fraintendimenti nell’interpretazione dei simboli a causa di un uso indiretto e distorto del simbolo, che non notifica più l’oggetto, ma lo stato d’animo inconscio del soggetto: «In questo senso Freud e i suoi discepoli intendono il termine simbolo, di cui essi non considerano più la significazione diretta, ma solamente la significazione capovolta. Il simbolo freudiano è un contenuto cosciente causato da stati inconsci di cui è il sintomo: Minerva che nasce dal cervello di Giove non è più il simbolo dell’origine

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divina della sapienza, è il simbolo dell’idea di nascita fisiologica ex utero rimossa nell’inconscio» (VII, p. 147). Non bisogna confondere i segni diretti, propri del linguaggio umano, che sono dell’oggetto che vogliono significare e i segni indiretti che gli psicoanalisti usano per esplorare l’inconscio istintuale, come Maritain argomenta con precisione nella conferenza Segno e simbolo (VII, pp. 97-147) tenuta al prestigioso Warburg Institute di Londra nel 193598. Maritain sviluppa queste premesse soffermandosi su tre aspetti della psicoanalisi: la terapia, la psicologia e l’implicita filosofia. Freud ha ragione di ritenere che esista una vita psichica che sfugge alla coscienza, anche san Tommaso riconosce che vi è in noi «un mondo di realtà i cui effetti soltanto arrivano alla coscienza» (VII, p. 63). Non bisogna identificare il fenomeno psichico come un atto di coscienza, come fanno i filosofi idealisti discepoli di Cartesio. Ma in Freud l’inconscio «è la cosa principale dell’uomo, se non il tutto delle sue energie. L’uomo è governato dall’inconscio, mentre il lume della coscienza, quando funziona bene, impedisce soltanto ai conflitti interni delle energie inconsce di disturbare troppo gravemente questo governo» (VII, p. 65). Freud, come sottolinea Dalbiez, afferma che «uno stato psichico non è solamente determinato dal davanti, se così mi posso esprimere, e cioè dall’oggetto al quale si riferisce, ma anche dall’indietro, voglio dire da altri stati e disposizioni psichici del soggetto, di cui quello stato è insieme l’effetto e il segno, cioè l’espressione psichica» (VII, p. 67). La psicoanalisi è «una tecnica di esplorazione delle profondità geologiche dell’anima, congiunta alla tecnica di interpretazione dei sogni» (VII, p. 68). Ma «rimane molto spesso senza risultato e quando giunge a dei risultati, questi sono più spesso dell’ordine del probabile che del certo; in ogni caso è una conoscenza del singolare, giacché spiega il presente individuale con il passato individuale; appartiene non all’ambito della scienza speculativa, ma a quello della medicina» (VII, pp. 67-68). La psicologia freudiana ha recuperato il valore della finalità nel dinamismo psichico, superando i pregiudizi meccanicistici e organicistici, ma non ha colto il rapporto fondamentale tra potenza e atto. Freud «sostituisce la potenzialità con una somma di attualità opposte tra di loro, l’indeterminazione orientata verso l’attuazione normale, ma capace di attuazioni multiple, con una costellazione di attuazioni 98 J. Maritain, Signe et symbole, in «Journal of the Warburg Institute», 1 (1937), pp. 1-23; testo sviluppato in «Revue Thomiste», 46, 2 (aprile 1938), pp. 299-330.

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contrarie in conflitto» (VII, p. 86). Nell’uomo gli istinti «hanno un’indeterminazione relativa molto più grande che nell’animale, e chiedono di ricevere dalla ragione la loro regolazione definitiva» (VII, p. 89). La psicoterapia non può sostituire l’educazione morale. Maritain cita questo testo di Dalbiez: «L’educazione della volontà, in ragione del fine che si propone, è opera morale o religiosa e non psicoterapeutica […] mentre la morale e la religione utilizzano la libertà, la psicoterapia si serve del determinismo […]. I fenomeni che la psicoterapia si sforza di modificare sono fenomeni patologici e non colpe morali. Non ha lo scopo di rendere la gente virtuosa, ma di restituirle la salute […]. La salute psichica, lungi dal confondersi con la virtù, le è presupposta […]. Lo psicoterapeuta ha il compito esclusivo di liberare il suo cliente da fenomeni strettamente patologici e non di dotarlo di una metafisica, di una morale, di una politica» (VII, pp. 78-79). Maritain non nega l’importanza dell’inconscio, ma sottolinea come non ci sia solo l’inconscio sub-conscio, ma anche l’inconscio sovraconscio e ne L’intuizione creativa nell’arte e nella poesia (49) scrive: «Il punto che io sostengo è che tutto dipende dal riconoscimento dell’esistenza di un inconscio spirituale, o piuttosto di un preconscio, di cui erano ben consapevoli Platone e i saggi antichi, e la trascuratezza del quale in favore dell’inconscio freudiano è solo un segno dell’insensibilità dei nostri tempi. Vi sono due specie d’inconscio, due grandi regni dell’attività psicologica lontana dallo stato di consapevolezza: il preconscio dello spirito nelle sue fonti vive e l’inconscio della materia, istinti, tendenze, complessi, immagini e desideri repressi, ricordi traumatici, che costituiscono un insieme dinamico, chiuso e autonomo. Vorrei designare la prima specie di inconscio col nome di spirituale o, per amore di Platone, inconscio o preconscio musicale; e il secondo con il nome di inconscio automatico, o inconscio sordo – sordo all’intelletto – ed esistente in un mondo suo proprio, distinto dall’intelletto; potremmo anche dire, in senso del tutto generale, lasciando da parte ogni teoria particolare, inconscio freudiano. Queste due specie di vita inconscia sono in stretto rapporto e in continua comunicazione l’una con l’altra; nell’esistenza concreta esse di solito si mescolano e si frammischiano in modo più o meno grande; e io credo che mai – eccetto in qualche raro esempio di suprema purificazione spirituale – l’inconscio spirituale operi senza che l’altro sia presente, anche se in misura minima. Ma sono essenzialmente distinti e di natura completamente diversa» (X, pp. 217-218). www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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L’inconscio subconscio e sovraconscio - tav. n. 11

In Religione e cultura (16) Maritain da una parte rileva l’indeterminatezza della vita inconscia nell’uomo, che permette all’uomo di regolare il suo processo di formazione, e dall’altra l’infinitezza della vita spirituale. «se Freud chiama assurdamente il fanciullo un perverso polimorfo è perché misconosce questa indeterminatezza. Una filosofia generale di tipo molto inferiore impedisce a questo grande osservatore (anche lui stimolato da un potente odio metafisico della forma rationis) di distinguere la potenza dall’atto; egli sostituisce la potenzialità con una costellazione d’attualità opposte fra loro, l’indeterminatezza orientata verso l’attuazione normale, ma capace di multiformi attuazioni anormali, con un insieme di attuazioni contrarie, ove ciò che noi chiamiamo normale non è più che un caso particolare dell’anormale.

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III. La crisi della modernità

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Fatto sta che la specie di infinitezza propria dello spirito infinitizza in qualche modo e rende indeterminata nell’essere umano la vita stessa dei sensi e degli istinti, che non può trovare il suo punto di fissaggio naturale, intendo secondo le esigenze e i destini propri dell’umana natura, che nella ragione e nelle forme che essa provoca. altrimenti essa troverà un fissaggio distorto, in balia di una passione dominatrice, e devierà dalla natura. l’uomo veramente e pienamente naturale non è l’uomo della natura, la terra incolta, è l’uomo delle virtù, la terra umana coltivata dalla retta ragione, l’uomo formato dalla cultura interiore delle virtù intellettuali e morali. egli solo ha una consistenza, una personalità» (IV, pp. 199-200). pertanto considerare la personalità, come fa Freud, una maschera che nasconde gli abissi inconfessabili dell’inconscio è un’offesa alla dignità umana. Maritain conclude la sua analisi del freudismo: «È assurdo riassorbire il superiore nell’inferiore, è disumano disgiungerli» (VII, p. 89), l’uomo è una unità di corpo e di spirito. Bisogna sublimare il mondo istintuale, ma la vera sublimazione eleva gli istinti qualitativamente. «la filosofia larvata di Freud non è che un travestimento di un odio profondo della forma della ragione» (VII, p. 94); ma la sua opera rappresenta nella storia della filosofia «un castigo dell’orgoglio di quella fiera personalità farisaica che il razionalismo aveva elevato come un fine supremo» (VII, p. 92). Freud denuncia la menzogna di questa falsa coscienza borghese, ma il suo amaro pessimismo non può trovare i rimedi per la guarigione, che solo può venire dalle forze dello spirito e della grazia di dio. anche il romanziere J. Green, amico dei Maritain, si era accorto che la psicoanalisi non può cogliere che in superficie i misteri dell’inconscio. nel suo Diario scrive: «Ho letto d’un fiato il piccolo libro di Freud sull’infanzia. Bisognerebbe sottolineare quasi tutte queste pagine stupefacenti, ma Freud ha un bel spiegare, il mistero resta intero. Quando avrà stabilito che il fanciullo è attratto da sua madre, non avrà fatto che spostare un po’ più indietro i confini dell’inconscio; ma la questione che io mi pongo ancora è questa: perché? sul mistero del nostro esistere, come su tutte le teorie, Freud rimane in silenzio» (2 novembre 1933). Green giunge a scrivere: «la psicoanalisi mi sembra una forma moderna dell’ateismo»99.

99

1179.

J. Green, Autobiografia, in Oeuvres complètes, vol. V, Gallimard, paris 1977, p.

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Carl Gustav Jung Maritain ricorda anche Carl Gustav Jung100, che viene considerato il continuatore di Freud, mentre dopo un periodo di collaborazione elabora una sua interpretazione della psicoanalisi, desessualizzando la libido, distinguendo tra un inconscio personale e un inconscio collettivo come «una poderosa massa ereditaria spirituale, che rinasce in ogni struttura cerebrale individuale», composta da archetipi appartenenti al patrimonio dell’umanità. per lui le nevrosi non sono scatenate da conflitti istintuali con le coercizioni dell’ambiente, ma da predisposizioni somatiche, che generano uno squilibrio tra l’inconscio e il conscio. Jung si interessa anche ai problemi religiosi, e partendo dalla distinzione fatta da Bergson tra religione statica, istituzionale, e religione dinamica, risolve quest’ultima nel divenire dell’inconscio. Maritain riconosce in Jung il superamento del freudismo nelle sue espressioni più radicali, ma fa alcune precisazioni. «non credo, come Jung sembra fare, a un’eredità psicologica capace di trasmettere al nostro inconscio delle rappresentazioni archetipiche. non credo neppure a un inconscio collettivo, come entità superindividuale, di cui ognuno di noi sarebbe partecipe. penso piuttosto che ciascuno di noi, durante tutta la sua vita, ma in particolare nell’infanzia, subisca il contagio, l’influenza di quello che chiamo inconscio dello spirito, di ciò che opera coscientemente o inconsciamente nella mentalità dei suoi contemporanei e che si esprime con segni il cui urto può essere fugace e impercettibile, ma proprio allora l’imprimersi di essi sarà penetrante, perché esso stesso registrato inconsciamente. parlando in generale, penso che in ognuno di noi l’inconscio dello spirito, durante tutta la vita, ma soprattutto nell’infanzia, riceve l’impressione (più o meno penetrante, secondo che essa è più o meno inconsciamente registrata) di un universo multiplo di forme segni e simboli, derivanti dall’ambiente culturale in cui viviamo. orbene questo universo è storicamente stabilito, porta in sé i resti sempre attivi delle epoche culturali precedenti e d’un immenso passato. Mi pare dunque che, nel senso che ho precisato, la nozione di inconscio collettivo andrebbe sostituita con quella di influenza inconsciamente ricevuta in gradi diversi da ciascu100 carl Gustav Jung (1875-1961), medico psichiatra svizzero, figlio di un pastore protestante, a cui si deve la teoria dei complessi e la definizione della psicologia analitica. tra le opere: Studio diagnostico delle associazioni (1906), Simboli e trasformazioni della libido (1912), Tipi psicologici (1920), Psicologia e religione (1940).

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no degli appartenenti alla comunità culturale e la nozione di eredità psicologica con quella di eredità culturale. ci accorgeremo allora come le prospettive mentali o gli atteggiamenti mentali da cui dipende il modus significandi che impieghiamo coscientemente, possano essere il risultato della registrazione sull’inconscio del nostro spirito di forme, simboli e segni emananti dalla comunità culturale. Vedremo anche come alcune di queste forme, segni e simboli possano essere archetipi risalenti al più lontano passato (non si deve inoltre dimenticare che la parola “archetipo” può riferirsi non solo a forme primitive trasmesse storicamente, ma anche a strutture o modalità d’azione connaturali allo spirito umano, che possono manifestarsi negli uni e negli altri per una semplice e spontanea convergenza, senza implicare nessun influsso o trasmissione storica)» (XII, pp. 243-244). In Jung si verifica un’identificazione dell’eredità culturale come fatto oggettivo con un presunto inconscio collettivo; ma soprattutto Jung confonde l’inconscio sovraconscio dello spirito con un preconscio personale contrapposto all’inconscio collettivo. Maritain precisa: «la mia distinzione fra inconscio spirituale e inconscio automatico è completamente diversa dalla distinzione che Jung fa fra l’inconscio personale e l’inconscio collettivo; questi due fanno parte dell’inconscio spirituale in quanto entrano nella sfera della vita preconscia dell’intelletto o della volontà, e sono così spiritualizzati, ed entrambi fanno parte dell’inconscio automatico in quanto sono chiusi in un mondo puramente animale, separato dalla vita dell’intelletto e della volontà» (X, p. 217).

9. la filosofia del diritto Maritain su questa problematica si è confrontato personalmente con filosofi e giuristi contemporanei. In L’Uomo e lo Stato (46) mette le basi della sua riflessione. Bisogna rispettare in coscienza le leggi civili liberamente pattuite e costituzionalmente definite. la sovranità è gestita dal popolo, ma la sua radice è nella legge eterna, perché solo dio può essere sovrano, può trascendere la legge. pertanto l’uomo è più responsabile verso la verità, che conosce, che verso la società civile, di cui pure deve rispettare i regolamenti legittimamente formulati dal legislatore eletto dalla volontà popolare, facendo obiezione di coscienza e resistenza passiva alle leggi che la sua cowww.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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scienza ritiene fondatamente ingiuste. la democrazia è un valore ma non è un valore assoluto. Queste riflessioni che rimandano ad un diritto naturale, conosciuto in maniera istintuale prima che in modo razionale, sono state elaborate nelle Nove lezioni sulla legge naturale (65). Il problema di fondo rimane sempre la relazione tra l’oggettività della verità e la soggettività della coscienza. Maritain si sofferma a ripensare e approfondire questa problematica a confronto con due contemporanei tra loro su posizioni opposte: carl schmitt, che privilegia l’oggettività, fa dello stato il garante dell’oggettività finendo per giustificare il totalitarismo, e Hans Kelsen, che privilegia la soggettività e fonda democrazia sul relativismo.

Carl Schmitt Maritain negli anni Venti, quando era vicino al movimento dell’Action Française e a Maurras, ha una relazione culturale e una corrispondenza epistolare con Carl Schmitt101, che era stato allievo di Max Weber e di cui pubblica la traduzione francese di Romanticismo politico (1928) nella «Bibliothèque Française de philosophie» che dirige. entrambi sono lettori attenti di léon Bloy, entrambi sono fieri avversari del positivismo e partono da san tommaso, a cui Maritain è fedele, mentre il giurista tedesco ripiega su lutero, pascal, Kierkegaard. l’uno è aperto al rinnovamento del concilio Vaticano II, l’altro è deluso dai risultati del concilio e ripiegato sulla tradizione. In politica schmitt è un esponente della corrente neoconservatrice, che vede nello stato un valore supremo. Infatti critica la concezione liberale dello stato, a cui si ispira la costituzione della repubblica di Weimar, perché ritiene che il parlamento non rappresenti la volontà popolare, ma solo quella dei partiti che dominano la vita politica, per cui bisogna sostituire allo Stato di diritto – che non è altro che una finzione, perché, senza tenere conto della giustizia, ammanta di legalità le deci101 carl schmitt (1888-1985). Filosofo del diritto, docente a Bonn e a colonia, poi a Berlino dal 1933 al 1945, membro del consiglio di stato prussiano; compromesso con il regime nazionalsocialista, nel 1945 fu privato della cattedra e arrestato, in seguito assolto si ritirò a vita privata. tra le opere: Romanticismo politico (1919), La dittatura (1921), Teologia politica (1922), Dottrina della Costituzione (1928), Legalità e legittimità (1932). cf., su di lui: M. nicoletti, Trascendenza e potere. La teologia politica di C. Schmitt, Morcelliana, Brescia 1990; J.W. Bendersky, Carl Schmitt, Teorico del Reich, il Mulino, Bologna 1989.

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sioni del parlamento – uno Stato di giustizia che si realizza mediante un plebiscito capace di esprimere il popolo attraverso un partito unico. Il buon governo non dipende dal rispetto di una norma convenzionale ma dalle decisioni di un capo che incarna la volontà popolare, oggettivandola nel suo potere. Maritain ben presto critica le posizioni di schmitt, che finiscono per giustificare il totalitarismo nazista. nella conferenza Il crepuscolo della civiltà (29) tenuta a parigi l’8 febbraio 1939 Maritain sottolinea come nello stato totalitario l’odio sia l’anima della coesione sociale; e rileva che schmitt «descrive sul piano fenomenologico il concetto della politicità del politico, afferma che esso consiste essenzialmente nella relazione con l’amico contro il nemico, e ritiene che sia essenziale alla comunità politica il costituirsi contro qualcuno. È il principio del contro l’altro o dell’inimicizia costitutiva. per la politica dell’impero pagano, l’odio contro il nemico, interno o esterno, della comunità, scaturisce nello stesso tempo dell’amore verso quest’ultima […]. la comunità politica sa veramente con chi essa si costituisce a condizione di costituirsi per schiacciare gli altri. lo stato sa chi sono i suoi. sovranità dell’odio» (VII, pp. 31-32). In questa prospettiva schmitt coinvolge la religione perché ritiene che bisogna fare rinascere il sacro Impero ed elabora una Politische Theologie. In Umanesimo integrale (26) Maritain conduce un’analisi approfondita e scrive: «Bisogna segnalare un equivoco: il significato tedesco delle parole Politische Theologie è del tutto diverso da quello delle parole francesi théologie politique o delle corrispondenti italiane. Il significato delle ultime è che la politica, come tutto ciò che compete al dominio morale, è oggetto del teologo come del filosofo, a causa del primato dei valori morali e spirituali impegnati nello stesso ordine politico, e perché questi valori morali e spirituali implicano, nello stato di natura decaduta e redenta, un riferimento all’ordine sovrannaturale e all’ordine della rivelazione, il che è oggetto proprio del teologo. dunque esiste una teologia politica come una filosofia politica, una scienza di un oggetto profano e temporale che giudica e conosce questo oggetto alla luce dei principi rivelati. Invece il significato tedesco dell’espressione Politische Theologie è che l’oggetto stesso di cui si tratta non è realmente profano e temporale; l’oggetto stesso è sacro (heilig). c. schmitt, che è stato uno degli ispiratori e dei consiglieri intellettuali del regime nazista, aveva già cercato di mostrare nelle grandi idee politiche e giuridiche moderne una trasposizione di temi essenzialmente teologici. da ciò, se ci si pone, per speculare, su un punto di vista pratico e concreto, senza tener conto della distinzione

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degli oggetti formali, si verrà molto facilmente a dire che le realtà politiche sono esse stesse dell’ordine divino e sacro. tale è il senso che i teorici tedeschi contemporanei del Sacrum Imperium danno alla parola Politische Theologie. essi si riferiscono così all’idea messianica ed evangelica del Regno di Dio, del quale vogliono trovare una realizzazione nel tempo e nella storia. così si finisce per pensare che per il compimento della redenzione occorre non solo l’unificazione degli uomini nella chiesa, ma anche nell’Impero» (VI, pp. 405-469). nella prospettiva francese, che Maritain condivide, si riconosce che la teologia deve interessarsi di politica per quanto riguarda i valori morali, ma non deve servirsi della politica per realizzare il regno di dio (concezione evangelica della politica). nella prospettiva tedesca si ha invece una concezione politica della religione, perché si nega la laicità dello stato e ci si serve della religione a fini politici. Ma passando dalle argomentazioni teoretiche all’analisi effettuale degli avvenimenti storici, Maritain constata che queste teorie hanno finito per identificare lo stato con un’ideologia politica, e quindi con un solo partito politico, negando la democrazia. scrive: «dopo avere spiegato che l’unità politica comporta la triplice essenza dello stato, del Movimento, del popolo, schmitt insegna che l’organo proprio del movimento è il partito nazionalsocialista e che il legame tra il partito e lo stato consiste in un’unione personale realizzata in colui che è insieme Führer e cancelliere del Reich» (VI, p. 483).

Hans Kelsen diametralmente opposta a questa posizione, che pone l’ideologia a fondamento della società (non si dimentichi che il nome Pravda del giornale sovietico al tempo dell’Urss significa Verità), è quella di Hans Kelsen102. Il filosofo austriaco ritiene che la società democratica debba fondarsi sullo scetticismo, e critica le posizioni di Maritain103. non riconosce che la democrazia è una conseguenza dell’influenza del 102

Hans Kelsen (1881-1973). Filosofo austriaco del diritto, insegnante a Vienna dal 1911 al 1930, in seguito all’invasione nazista del suo paese si trasferì a Ginevra, poi dal 1941 negli stati Uniti come docente di diritto internazionale all’Università di Berkeley. tra le opere: Problemi fondamentali della dottrina del diritto e dello Stato (1910), Essenza e valore della democrazia (1919), Socialismo e Stato (1920), Teoria generale del diritto e dello Stato (1945), Dottrina pura del diritto (1960). 103 H. Kelsen, Maritain’s Philosophy of Democracy, in «ethics», 1 (1955), pp. 1-101.

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cristianesimo nella storia, come affermano Bergson e Maritain, ripropone lo stato liberale con il suo relativismo come unica espressione di democrazia; e giunge ad affermare che il credente non può essere un buon cittadino, perché sicuro delle sue convinzioni tenderebbe ad imporle agli altri, e solo chi dubita può essere un autentico democratico. «non può essere messo in dubbio che la dignità della persona umana sia rispettata molto di più in un ordine sociale, che garantisca alla persona l’autonomia politica, che non in un ordine religioso basato sul principio dell’eteronomia, vale a dire sul principio che un uomo religioso è soggetto ad una legge alla cui creazione egli non ha alcuna parte»104. Il diritto costituzionale si fonderebbe solo sull’intersoggettività pattuita, senza alcun riferimento all’oggettività di una legge eterna trascendente la coscienza. Kelsen contrappone la coscienza sociale e la coscienza religiosa, non riconosce un diritto naturale vincolante la coscienza e aggiunge: «per neutralizzare questo principio e per salvare la dignità della persona umana, la teologia cristiana ha introdotto la dottrina del libero arbitrio. Ma questa dottrina non può sostenersi sull’insegnamento del Vangelo ed è difficilmente compatibile con l’assunto di una volontà di dio onnipotente, che determina ogni cosa, da cui deriva la credenza nella predestinazione»105. Maritain risponde precisando che l’uomo è stato creato da dio dotato di libero arbitrio, che la salvezza viene da dio, ma impegna la collaborazione dell’uomo, che la legge eterna è in me, è di me, anche se non è da me, perché ha il suo fondamento ultimo proprio nell’esistenza di dio. Kelsen nel sostenere la giustificazione relativistica della democrazia si richiama a pilato, «che rifiutandosi di distinguere il giusto dall’ingiusto e lavandosi le mani si appella al popolo chiedendo ad esso di decidere perché non sapeva cosa fosse la verità, e così in una società democratica spetta al popolo decidere e regna la reciproca tolleranza proprio perché nessuno sa che cosa è la verità. la verità di cui parla Kelsen è la verità religiosa e metafisica, quella che viene chiamata “verità assoluta”, come se ogni verità, in quanto è vera, non fosse assoluta nella propria sfera […]. l’ossatura dell’argomentazione di Kelsen è la seguente: chiunque conosce o pretende di conoscere la verità assoluta o la giustizia assoluta – e cioè la verità o la giustizia semplicemente – non può essere un democratico, perché non può ammettere la possibilità di un punto di vista diverso dal proprio, che si dà come punto 104 105

H. Kelsen, I Fondamenti della democrazia, Bologna, il Mulino 1966, p. 322. Ibid., p. 208.

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di vista vero. Il metafisico e il credente sono tenuti ad imporre la loro verità eterna agli altri, agli ignoranti e alle altre persone dalla mente oscura. a loro tocca intraprendere la santa crociata di chi conosce contro chi non conosce o non è partecipe della grazia di dio. soltanto quando siamo coscienti della nostra ignoranza riguardo a ciò che è il Bene, solo allora possiamo rimetterci al popolo per decidere» (XI, p. 76). Maritain risponde, dopo avere ricordato che Gesù ha detto a pilato di essere venuto al mondo proprio per portare testimonianza alla verità. «se fosse vero che chiunque conosce, o pretende di conoscere, la verità non può ammettere la possibilità di un punto di vista diverso dal proprio ed è quindi tenuto ad imporre il proprio punto di vista agli altri con la violenza, allora l’animale ragionevole sarebbe il più pericoloso di tutti gli animali. In realtà, l’animale ragionevole è tenuto, in virtù della sua natura, a cercare di condurre i propri compagni a partecipare di ciò che egli conosce come vero o come giusto, non con la coercizione, ma con mezzi razionali e con la persuasione» (XI, p. 77). poi aggiunge: «Il metafisico, proprio perché ha fiducia nella ragione umana, e il credente, proprio perché ha fiducia nella grazia divina e sa che una fede imposta è un’ipocrisia detestabile a dio e all’uomo, non fanno ricorso alla guerra santa per rendere accessibile agli altri la loro “verità eterna”; essi si richiamano alla libertà interiore degli altri, offrendo loro sia delle dimostrazioni, sia la testimonianza del loro amore. e non si domanda al popolo di decidere, perché si sia coscienti della propria ignoranza riguardo a ciò che è il bene, ma perché conosciamo questa verità e questo bene, e cioè che il popolo ha diritto all’autogoverno» (ibid.). la democrazia è proprio il luogo dove è possibile confrontare pacificamente i diversi punti di vista, partendo dal rispetto della persona come esige il diritto naturale. la questione in fondo riguarda la possibilità o la realtà di potere conoscere la verità. anche in Italia G. Zagrebelsky, in Il Crucifige e la democrazia106, analizza queste problematiche e commentando il processo a Gesù rileva che tra il dogmatismo di caifa, che vuole imporre allo stato la legge ecclesiale, e lo scetticismo di pilato, che si domanda “che cosa è la verità” e vuole solo garantire il suo potere, la democrazia esige un atteggiamento possibilista di fronte alla verità intesa come fondamento delle relazioni sociali: «sia il dogmatico che lo scettico possono apparire amici della democrazia, ma sono come falsi amici. Il dogmatico può accettare la democrazia solo se e fino a quando serve come for106

G. Zagrebelsky, Il Crucifige e la democrazia, einaudi, torino 1995.

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za, una forza indirizzata ad imporre la verità. lo scettico, a sua volta, perché non crede in nulla, può tanto accettarla quanto ripudiarla. se è davvero scettico, non troverà nessuna ragione per preferire la democrazia all’autocrazia. o meglio, troverà una ragione non nella fede o in un qualche principio, ma in una convenienza»107. Zagrebelsky si ferma a riconoscere la possibilità della verità, mentre Maritain riconosce la certezza della verità e, distinguendo tra intelletto teoretico e intelletto pratico, trova la conciliazione tra la libertà e la verità nell’accettare insieme alcuni punti pratici comuni, che ciascuno giustifica teoreticamente secondo le sue convinzioni, e con ironia conclude: «potrebbe accadere che lo scettico ritenga quanti non sono scettici degli esseri barbari, infantili o subumani, e potrebbe accadere che li tratti male così come lo zelota tratta male il non credente. allora lo scetticismo appare altrettanto intollerante che il fanatismo, diventa il fanatismo del dubbio» (XI, p. 74). schmitt finisce per giustificare, alla maniera di Hegel, il diritto positivo come legge assoluta vincolante la coscienza; Kelsen, alla maniera di Kant elabora un puro formalismo giuridico, secondo cui la validità di una norma risiede in un’altra norma perché il diritto puro vuole conoscere esclusivamente il suo oggetto, liberandosi da ogni riferimento alla natura dell’uomo. Ma il problema della relazione tra la verità e la libertà è un problema che va risolto al di là di ogni fondamentalismo e di ogni relativismo, la cui doppia unilateralità Maritain analizza in un articolo del 1957, Truth and human Fellowship, in cui scrive: «da una parte l’errore degli assolutisti, che vogliono imporre la verità con la costrizione, deriva dal fatto che essi trasferiscono dall’oggetto al soggetto i sentimenti che provano a buon diritto nei confronti dell’oggetto; essi pensano che, come l’errore non ha per sé diritti di sorta e deve essere bandito dallo spirito (con i mezzi dello spirito), così l’uomo quando è in errore non gode di diritti propri e deve essere bandito dal consorzio degli uomini (con i mezzi del potere umano). dall’altra parte l’errore dei teorici che fanno del relativismo, dell’ignoranza e del dubbio la condizione necessaria per la reciproca tolleranza deriva dal fatto che essi trasferiscono dal soggetto all’oggetto i sentimenti che provano a buon diritto nei confronti del soggetto – che deve essere rispettato anche quando è in errore – e così privano l’uomo e l’intelletto umano di quell’atto, l’adesione alla verità, nel 107

Ibid., p. 6.

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quale consistono ad un tempo la dignità dell’uomo e la sua ragione di vivere» (XI, pp. 78-79). le posizioni di schmitt e di Kelsen, che non distinguono corpo politico e Stato, fanno dello stato un assoluto e della legge civile un valore fine a se stesso. Maritain, invece, osserva: «l’espressione sovranità della legge non è che un’espressione puramente metaforica che si riferisce alla natura razionale della legge e della sua qualità morale e giuridica obbligatoria, ma non ha niente a che vedere con il concetto autentico di sovranità […]. lo stato non è la legge, e la cosiddetta sovranità dello stato non è affatto la sovranità giuridica e morale della legge» (IX, 500). precisa: «Un teorico della forza di Kelsen ha fatto dello stato un’astrazione solamente giuridica e identificandolo con l’ordine legale, concetto che sradica lo stato dalla sua sfera vera (ossia dalla sfera politica); e che è tanto più ambiguo in quanto lo stato reale (in quanto parte e organo superiori del corpo politico) approfitterà in realtà di questa essenza finita a lui attribuita come essere di ragione giuridica, per rivendicare gli attributi sacri e la sovranità della legge» (IX, pp. 499-500). Ma la legge è sacra perché quando è giusta rimanda, tramite il diritto naturale, alla legge eterna, a dio, non perché è formalmente corretta. pertanto, fatta salva la moralità della legalità, per cui bisogna rispettare le leggi liberamente pattuite, precisato che la legalità non è la moralità, lo stato democratico riconosce l’obiezione di coscienza alle leggi che il cittadino ritiene fondatamente ingiuste, anche se la maggioranza dei cittadini le ha deliberate. si tratta di raccordare la legalità giuridica al diritto naturale, e Maritain conclude: «Il grande teorico del diritto H. Kelsen non ammette la legge naturale, ma in ragione stessa dell’esigenza così forte in lui di una norma assolutamente pura da cui dipenderebbero tutte le leggi positive, un certo numero dei suoi discepoli in america hanno fatto ritorno alla nozione di legge naturale» (XVI, p. 797).

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1. la persona come valore morale e come realtà ontologica nel fiume multiforme della filosofia contemporanea, accanto alle correnti di pensiero esaminate nella terza parte, che non approdano all’essere nella sua ontologicità (a parte il neoidealismo di Benedetto croce e Giovanni Gentile, che risolve l’essere nel pensiero), o perché lo mettono tra parentesi, come la fenomenologia, o perché si fermano all’esistenza individuale, come l’esistenzialismo, convivono altre correnti di pensiero che raggiungono l’essere attraverso la persona in una prospettiva di realismo filosofico e di personalismo pedagogico e politico, pur differenziandosi, contrapponendosi e a volte ibridandosi tra di loro. lo spiritualismo si riferisce all’essere mediante la volontà e la coscienza morale nella sua soggettività, mentre la nuova scolastica, che valorizza l’intelligenza e riconosce la scientificità del sapere filosofico, lo coglie nella sua oggettività. I filosofi del personalismo, che oscillano tra i due precedenti indirizzi, raggiungono l’essere non tanto come valore ontologico o come valore morale, ma come valore relazionale, secondo cui la persona esiste nella relazione sociale. Max scheler, considerato il maestro dei personalisti, afferma che «Il tu (duheit) è la categoria più esistenziale del pensiero umano»108, dalla cui consapevolezza nasce la relazione con gli altri e con l’assoluto; posizione che ritroviamo in Martin Buber, secondo cui la relazione è il luogo personale per eccellenza, la struttura ontologica originaria. la nuova scolastica trova la sua espressione più importante e significativa nel tomismo, che pur differenziandosi nel filosofare dei singoli pensatori, non si frantuma in diversi tomismi come sembrerebbe nell’interpretazione di Géry prouvost109, perché tutti i tomi108

cit. in F. Miano alla vice Personalismo, in aa.VV., Enciclopedia filosofica, Bompiani, Milano 2008, vol. IX, p. 8538. 109 G. prouvost, Thomas d’Aquin et les thomistes, cerf, paris 2007.

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sti hanno in comune una filosofia realista, radicata nell’intelligibilità dell’essere, qualunque sia la formula gnoseologica con cui ciascuno approda a questa intelligibilità. Maritain parla di Realismo critico, Gilson di Realismo metodologico (V, pp. 393-396). non solo la nuova scolastica è un indirizzo unitario, ma ha saputo constatare nell’intuizione dell’essere la differenza tra san tommaso e aristotele perché per tommaso l’oggetto del sapere non è l’essenza, ma l’essere, cioè l’atto di essere come Battista Mondin nella sua Storia della metafisica ha sottolineato: «Ma poi percorrendo la storia della metafisica, Gilson fece la sensazionale e decisiva scoperta che tutte le metafisiche elaborate prima di san tommaso, e anche dopo di lui, sono tutte di stampo essenzialistico: il principio primo di ogni cosa è sempre una essenza (l’idea, la forma, la sostanza, la possibilità ecc.). solo san tommaso si spinge oltre l’essenza e situa il principio primo della realtà nell’essere (esistenza), gettando così le basi di una metafisica esistenzialistica. a questo punto il gioco era fatto: san tommaso possedeva una sua metafisica, la metafisica dell’essere. ciò che ora bisognava fare erano tre cose: 1) mostrare come san tommaso era uscito dall’essenzialismo ed era approdato all’esistenzialismo; 2) individuare i pilastri portanti della metafisica dell’essere; 3) illustrare la superiorità della metafisica di san tommaso nei confronti sia delle metafisiche che esaltano l’essenza a danno dell’esistenza, sia delle metafisiche che isolano talmente l’esistenza da sopprimere completamente l’essenza»110. Maritain ne Il contadino della Garonna (61) fa una lunga digressione sull’intuizione dell’essere (XII, pp. 843-847) dopo avere precisato: «san tommaso non si fermò all’ens, all’ente, andò dritto all’esse, all’atto di essere» (XII, p. 845) e rileva che forse non avremmo avuto la fenomenologia se Heidegger avesse compreso san tommaso: «Il tomismo è una filosofia del Sein in quanto è una filosofia dell’esse. Quando i giovani c’invitano a scoprire Martin Heidegger, senza saperlo c’invitano a far loro riscoprire la metafisica transontica di san tommaso d’aquino… sarebbe interessante sapere che cosa avrebbe pensato Heidegger se avesse conosciuto l’esistenza di una metafisica dell’esse prima di prendere le sue decisioni iniziali. Ma è troppo tardi, non lo sapremo mai… come potremmo saperlo, se Heidegger stesso non ne saprà mai nulla? pongo il problema solo con lo scopo di sugge110 B. Mondin, Storia della metafisica, edizioni studio domenicano, Bologna 1998, vol. 3, p. 658.

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rire a coloro che insistono perché lo seguiamo, che non c’è pericolo immediato. non abbiamo forse che il ritardo del nostro anticipo. ci incitano a seguire coloro che abbiamo già sorpassato»111. Maritain aggiunge: «le filosofie esistenzialiste che circolano oggi non sono che il segno di un certo bisogno profondo di ritrovare il senso dell’essere» (XVI, p. 201). Maritain si rammarica: «l’intuizione dell’essere non è di tutti. Bergson la possedette attraverso un surrogato che lo ingannò, e camuffata nella sua concettualizzazione ad opera di pregiudizi anti-intellettualistici. né Husserl né alcun altro ideosofo l’ebbero. Finisce per possederla un giorno colui che va abbastanza lontano nella meditazione, cioè colui che arriva ad entrare in quel silenzio attivo e attento dell’intelligenza in cui, consentendo alla semplicità del vero, essa si fa sufficientemente disponibile e aperta per udire che ogni cosa mormora e per ascoltare, anziché fabbricare risposte» (XII, pp. 814-815). nel Breve trattato (42) rivendica a san tommaso questa intuizione dell’essere: «tommaso d’aquino va con l’intelligenza stessa all’esistenza stessa. egli ha della scienza l’idea più altamente classica, è scrupolosamente attento alle minime esigenze, alle più sottili regole e misure della logica, della ragione, dell’arte di articolare le idee. e non è un libro illustrato quello che egli conosce, ma questo cielo e questa terra dove ci sono più cose che in tutte le filosofie, è questo universo esistente, poggiante sui fatti primi, che bisogna constatare e non dedurre: un universo attraversato da tutti gli influssi produttori di essere che lo vivificano, l’unificano, e fanno sì che si muova verso l’imprevedibile avvenire, un universo ferito, anche, da tutte quelle deficienze di essere, che costituiscono la realtà del male, e nelle quali bisogna vedere lo scotto dell’interazione degli enti e il prezzo della libertà creata, capace di sottrarsi all’influsso del primo essere» (IX, p. 21). le differenze tra i tomisti che Géry prouvost sottolinea sono sostanzialmente differenze linguistiche, come Maritain rileva a conclusione di una sua polemica con sertillanges a proposito della conoscenza filosofica di dio: «a malincuore abbiamo dovuto criticare alcune espressioni di sertillanges. In una materia così importante, e dove accade così facilmente che un pensiero esatto si ripari sotto formule non corrette, bisogna procedere con cautela nel muovere un’accusa di tal sorta contro un filosofo tanto avveduto. sertillanges 111 É. Gilson, Trois leçons sur le Thomisme et sa situation presente, in «seminarium», 4, ottobre-dicembre 1965, pp. 718-719.

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ha un acuto senso della trascendenza dell’atto puro, ma la terminologia di cui si serve per mettere meglio in luce questa trascendenza, e che egli trae sia da un linguaggio meno evoluto e meno scientifico di quello di san tommaso, sia da formule tecniche di san tommaso la cui traduzione ne fa sparire il senso preciso, tende a provocare gravi malintesi» (IV, p. 1030).

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2. lo spiritualismo Maritain considera soprattutto lo spiritualismo francese, che ha radici profonde perché già Maine de Biran112, recuperando la tradizione di Malebranche in confronto con l’illuminismo nei Nuovi saggi di antropologia afferma che l’uomo, oltre alla vita del corpo e della coscienza intellettuale, ha una vita spirituale che nell’amore lo unisce a dio, risolvendo la filosofa in misticismo. Victor Cousin113, riunendo l’influenza di Maine de Biran a quella della Scuola scozzese del senso comune di thomas reed, con il suo eclettismo prepara la via a Jean Gaspard Ravaisson114 che nel suo Testamento filosofico del 1901 pone le basi di questa corrente di pensiero, opponendo lo spiritualismo cristiano, come “filosofia aristocratica”, alla “filosofia plebea” del positivismo. Maritain sottolinea come questo spiritualismo sia ancorato al razionalismo e di cousin scrive: «non ha esagerato l’importanza storica di cartesio, ma l’ha mal compresa e presentata in maniera troppo esclusiva e troppo sistematica. Vedeva in cartesio il liberatore di una filosofia fino ad allora schiava» (V, p. 33). Questo spiritualismo razionalistico non è in grado di fondare una metafisica, rivaluta l’uomo e la sua libertà, senza ancorarla ad una sicura antropologia, perché manca di una filosofia della natura. rileva Maritain: «dopo lo scacco dei grandi sistemi idealisti postkantiani, in cui, non dimentichiamolo, un vasto lavoro di filosofia 112 Maine de Biran (1766-1824), filosofo della restaurazione. tra le opere: L’appercezione immediata (1807), Saggio sui fondamenti della psicologia (1812), Nuovi saggi di antropologia o della scienza dell’uomo interiore (1824). 113 Victor cousin (1792-1867), filosofo noto soprattutto per i suoi studi storici. È autore di due volumi di un Corso di storia della filosofia (1828-1829) e di cinque volumi di un Corso di storia della filosofia moderna (1841) a cui Maritain rimanda spesso, come pure al volume Il Vero, il Bello, il Bene (1853). 114 Jean Gaspard ravaisson (1813-1900) studia a parigi con V. cousin e a Monaco con F. schelling. tra le opere: Saggio sulla metafisica di Aristotele (1844), La filosofia di Pascal (1887), Metafisica e morale (1892) e il Testamento filosofico, pubblicato postumo.

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della natura – la Naturphilosophie romantica – si è trovato legato al lavoro metafisico e ha subìto lo stesso destino, dopo lo scacco dei parziali e timidi tentativi francesi di metafisica speculativa fondata sull’introspezione psicologica, al modo di Victor cousin o a quello di Maine de Biran, che cosa constatiamo? non c’è più filosofia della natura, il campo intero della conoscenza della natura sensibile viene abbandonato alle scienze del fenomeno, alla conoscenza empiriologica; i filosofi si sforzano di costituire una metafisica, sì, ma, molto più impressionati dal positivismo di quanto non credano, non osano neppure concepire la possibilità di un’ontologia della natura sensibile che completi la conoscenza empiriologica; non c’è più filosofia della natura; ebbene! per lo stesso processo, non c’è più metafisica speculativa» (V, pp. 873-874). Un altro filosofo spiritualista a cui Maritain pone attenzione è Charles Renouvier115 che, partito da posizioni kantiane, attraverso un recupero di cartesio e di leibniz, in opposizione al naturalismo e al sociologismo dei positivisti, rivaluta l’uomo come essere libero in relazione con dio, ma considera l’assoluto un essere limitato nel tempo, e non riconosce i fondamenti ontologici e intelligibili della persona. la fede religiosa per renouvier è «un’opzione volontaria, un atto di fede cieca verso i principi della ragione, sospendendo così le necessità intelligibili alla pura contingenza, e l’evidenza a una credenza gratuita» (III, p. 50). Maritain rileva come renouvier riconosca nell’uomo la capacità di un «cominciamento assoluto» nel campo dell’azione morale, ma precisa che l’atto libero «scaturisce da una causa (la volontà di una natura intelligente) che è talmente causa da guidare la sua stessa determinazione al suo effetto; agisce sempre secondo un motivo, di cui essa stessa costituisce però l’efficacia» (II, p. 1057). Ma per renouvier «la cosa in sé e la sostanza non sono solo inconoscibili ma assolutamente inesistenti, per cui il loro concetto è una pura chimera» (II, p. 226). Infine, tra gli esponenti minori dello spiritualismo in Francia, Maritain nei suoi scritti di logica fa riferimento a Jules Lachelier116, Octave Hamelin117 e si soffer115

charles renouvier (1815-1903), filosofo francese che si muove in ambienti vicini a saint-simon. tra le opere: Saggi di critica generale (1854-1864). 116 Jules lachelier (1832-1918), docente all’École normale supérieure continua l’opera di Maine de Biran. tra le opere: Fondamento dell’induzione (1871). 117 octave Hamelin (1856-1907), docente alla sorbona, partendo da Kant riscopre l’esistenza di dio e il valore della persona umana. tra le opere: Saggio sugli elementi principali della rappresentazione (1907).

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ma in particolare sul contingentismo di Étienne Émile Boutroux118 per la sua critica al determinismo assoluto della filosofia positivista e ne trae occasione per precisare che «i fatti vanno collocati essi stessi in una gerarchia di conoscenze, perché ci sono fatti del senso comune, fatti scientifici (che interessano le scienze della natura), fatti matematici, fatti logici, fatti filosofici» (IV, p. 364). Il giovane Maritain, in una dissertazione filosofica sul tema Quali sono i tratti distintivi della natura umana? (XVI, pp. 599-610), del 1904, scrive: «Boutroux stabilisce un confine che sembra insuperabile tra l’inconscio e il conscio e non spiega come la natura abbia potuto passare dall’uno all’altro. a mio avviso il conscio, che vittoriosamente esplode nell’uomo, pre-esisteva già nell’inconscio, essendo la ragione stessa della vita dell’inconscio. non c’è un salto brusco, ma il passaggio all’atto di qualcosa di latente ed in qualche modo di preformato» (XVI, p. 605). osservazioni interessanti di un adolescente, che un giorno, sulla base della filosofia di san tommaso, avrebbero sviluppato una critica all’evoluzionismo di darwin e alla psicoanalisi di Freud. Ma soprattutto Maritain rileva come il contingentismo di Boutroux non possa garantire l’atto libero dell’uomo, abbandonandolo alla casualità, e osserva: «la concezione aristotelico-tomista, al contrario, mostrando come la contingenza nel corso degli eventi singoli si concili con la necessità delle leggi riconosciute dalla scienza, ci fa vedere come potrà inserirsi nella natura la libertà propria degli spiriti, che come tali non fanno parte della natura sensibile e del mondo corporeo, ma che tuttavia agiscono in questo mondo» (IV, p. 325). Un altro filosofo spiritualista è Émile Meyerson119, specializzatosi in Germania in studi scientifici, che contesta al positivismo la pretesa di volere ridurre tutto il sapere alla conoscenza fenomenica. per Meyerson non è sufficiente conoscere le leggi, cioè il come di quanto accade, bisogna conoscere anche le cause, cioè il perché di quanto accade. Questa conoscenza è possibile con l’aiuto della filosofia che grazie al principio di non contraddizione, che è alla base del principio di causa ed effetto, può raccordare il molteplice all’unità. Maritain commenta: «Il sapere di tipo empiriologico, cioè la scienza dei fenomeni 118 Étienne Émile Boutroux (1845-1921), discepolo di renouvier. tra le opere: Sulla contingenza delle leggi di natura (1874), La natura e lo spirito (1904), la cui traduzione italiana ha una prefazione di G. papini, Scienza e religione nella filosofia contemporanea (1908). 119 Émile Meyerson (1859-1939), ebreo, filosofo francese di origine polacca. tra le opere: La spiegazione delle scienze (1921).

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della natura, richiede di completarsi con un sapere di tipo ontologico, cioè con una filosofia della natura. Queste scienze, in effetti, implicano, come ha dimostrato molto bene Meyerson, una tendenza e un riferimento ontologici che esse non possono soddisfare. esse tendono all’essere (come reale) e diffidano di esso (come intelligibile), per ripiegarsi sul fenomeno sensibile, in modo che, per costituirsi secondo il loro tipo epistemologico puro, sono in un certo senso costrette a procedere controcorrente rispetto l’intelligenza» (VI, p. 63). Inoltre precisa: «le teorie scientifiche riguardano l’osservabile e il misurabile come tale, non riguardano l’essere in quanto intelligibile» (IX, p. 949), ma non bastano a loro stesse, non esauriscono il sapere, richiedono di essere integrate. Questo appello all’essere ha un significato ben preciso: «Quello che agli occhi di Meyerson era un postulato realista della scienza, e che agli occhi di un metafisico tomista è una verità filosofica ben fondata, cioè che le cose o gli oggetti da conoscere esistono indipendentemente dalla conoscenza che ne abbiamo, questo assioma del realismo, a nostro avviso vale per la psicologia come per le altre scienze» (VII, p. 63). ci troviamo di fronte a quella giuntura che riporta, per vie diverse, spiritualisti e tomisti su posizioni di realismo. Ma gli spiritualisti non vanno oltre la constatazione di una realtà, che la conoscenza fenomenologica della natura non riesce a raggiungere, mentre i filosofi della nuova scolastica ritengono che sia possibile questa conoscenza noumenica della realtà. Maritain cita questi testi di Meyerson: «lo scienziato attuale non può indicare l’essenza del reale. Questo, anzi, è ciò che distingue il suo atteggiamento da quello del suo predecessore materialista e, più ancora, da quello del fisico medievale: egli non afferma più di giungere veramente all’essere reale, il quale, al contrario, gli appare come avvolto in un profondo mistero» (IV, pp. 550-551). lo scienziato ha «il senso di trovarsi davanti a un enigma ad un tempo meraviglioso e sconvolgente. egli lo contempla con un rispetto quasi timoroso e che, forse, presenta qualche analogia con quello che il credente prova dinanzi ai misteri della sua fede» (IV, pp. 561-562). Meyerson riconosce che lo spazio matematico della scienza moderna non è lo spazio reale, ma non riconosce l’intelligibilità dell’essere, perché «restando, nonostante tutto, razionalista, concepisce il processo razionale secondo lo schema eleatico» (IV, p. 36).

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Maurice Blondel accanto a questi spiritualisti laici ci sono anche gli spiritualisti cristiani. Maritain si sofferma in particolare su Maurice Blondel120, con il quale ha rapporti personali, qualche volta molto conflittuali, come documenta la loro corrispondenza121. la filosofia di Blondel si muove lungo una linea che trova le sue radici in sant’agostino e in pascal, ma ne rappresenta una deviazione. Maritain dedica a questo filosofo un lungo capitolo di Riflessioni sull’intelligenza (III, pp. 93161), l’articolo Esperienza mistica e filosofia (XVI, pp. 356-363) e un paragrafo in La filosofia cristiana (V, pp. 232-239). la speculazione di Blondel è molto originale e personale, parte da un’impostazione psicologica e giunge ad una costruzione metafisica ardita e nuova. Blondel sostiene un’aspra battaglia per affermare il suo pensiero, già compiutamente espresso nella sua prima opera, L’azione, che resta il suo capolavoro perché, cercando un raccordo tra la filosofia e la religione, tra il pensiero moderno e il cristianesimo, non era ben visto dai cattolici tradizionalisti e dai pensatori laici. non bisogna però dimenticare che la diffidenza verso il suo sistema è stata alimentata dal suo discepolo e compagno di impresa l. laberthonnière, il cui pensiero sfocia nel modernismo e nell’immanentismo. Blondel sa restare fuori dalla rissa e continuando e approfondendo la sua speculazione completa il primo scritto con Il pensiero, in cui esamina il problema gnoseologico, e con L’Essere e gli esseri, nel quale elabora una metafisica pluralistica. a coronamento di questa trilogia esce postumo il volume La filosofia e lo spirito cristiano. nella conoscenza, secondo Blondel, è coinvolta anche la volontà. I filosofi si sono sempre impegnati su due problemi distinti, riguardanti l’uno la vita, cioè il problema morale, e l’altro l’essere, cioè il problema gnoseologico; secondo Blondel questi due problemi non si possono scindere. L’azione è il loro punto di unione, perché l’azione non esclude il pensiero, anzi lo esige, ma lo vuole vitale, attivo, capace di uscire dall’astrattezza per concretizzarsi nella vita. 120

Maurice Blondel (1861-1949), discepolo di l. ollé-laprune, insegna filosofia prima all’Università di lille poi ad aix-en-provence. tra le opere: L’azione (1893), Il pensiero (1934), L’Essere e gli esseri (1935), La filosofia e lo spirito cristiano (1944-1946). 121 Una parte della corrispondenza tra Blondel e Maritain si trova in l. stroobants, Discussion sur l’intelligence, correspondance Blondel-Maritain, louvain 1977. cf. anche p. Viotto, Maurice Blondel e il dibattito sulla filosofia cristiana, in Id., Grandi amicizie, cit., pp. 30-33.

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IV. Incertezze e speranze

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Vi è uno squilibrio tra l’ideale e il reale, tra ciò che si vuole e ciò che si realizza, tra il desiderio e la realtà, tra la volontà volente e la volontà voluta, che è quel tanto che siamo riusciti a realizzare. l’azione cerca di superare questo squilibrio, ma senza riuscirvi, perché la volontà continuamente tende a superarsi e nulla la può soddisfare. di fronte a questa lacerazione, si aprono due vie: o esiste un essere Infinito capace di placare l’ansia dell’uomo e la vita si apre alla speranza, oppure non esiste questo essere e la vita diventa un tragico ripiegarsi su se stessi, in un’infelicità metafisica. nella conoscenza proviamo questa ansia, perché il pensiero pensante non trova mai soddisfazione nel pensiero pensato, per cui la tensione verso l’essere, verso l’oggetto, verso la verità, è un continuo superamento verso un trascendente. così la filosofia, in virtù della sua ricerca, esige la religione; la ragione chiama la fede per poter raggiungere quel principio che è la spiegazione ultima dell’essere delle cose e degli uomini, e del loro destino. Questo pensiero non è il pensiero astratto, ma è un pensiero concreto che cerca la convergenza dell’universale col particolare e la trova, al di là dello sdoppiamento tra soggetto e oggetto, nell’azione. Blondel contrappone alla conoscenza intellettuale, propria della filosofia, che chiama conoscenza nozionale, una conoscenza reale, sperimentabile nell’affettività, ma non provabile dall’intelligenza, e le cui certezze non sono dimostrabili. Blondel identifica la conoscenza con l’ascetica e con la mistica, e finisce per confondere l’ordine naturale con l’ordine soprannaturale. Maritain in Riflessioni sull’intelligenza (8) premette che «un tomista non può dimenticare la sinergia tra le virtù naturali e le virtù soprannaturali, perché san tommaso non solo l’ha affermata, ma analizzata meglio di qualunque altro» (III, p. 158) e presenta i due diversi modi di conoscere: la conoscenza concettuale (filosofia) e la conoscenza per modo di inclinazione (morale, poesia, mistica), che Blondel confonde in un’unica conoscenza. «la conoscenza per concetti, che egli chiama conoscenza nozionale, che è meglio chiamare concettuale e razionale, è la conoscenza propria dell’intelletto umano, il più imperfetto di tutti gli spiriti, quella che, comportando l’astrazione e l’attività discorsiva, ci costringe al difficile lavoro progressivo della ragione, ma che, elevandoci al di sopra di tutto l’ordine del particolare sensibile, è la sola a renderci capaci, allorquando è perfettamente stabilita nelle necessità intelligibili, delle certezze assolute della scienza e della dimostrazione; quella che ci procura

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

il più alto possesso del vero, che ci sia possibile nell’ordine naturale, quella che ci permette di giungere per analogia, ma con totale certezza, alla causa prima. che cosa ci dice Blondel a suo riguardo? egli non si accontenta di mostrare le naturali imperfezioni di un tal modo di conoscere, né i vizi che un cattivo uso del concetto può comportare […], egli dichiara che questa conoscenza corrisponde senza dubbio a un momento dello sforzo dell’intelligenza in cerca di un reale più reale del reale apparente, ma afferma che quella stessa conoscenza è incapace di soddisfare un tale desiderio e di mettere la nostra intelligenza in possesso del suo proprio oggetto» (III, pp. 101-102). Maritain riporta alcuni testi di Blondel secondo cui il concetto non è che un succedaneo, «l’intelligenza non può accontentarsi di un cibo semivuoto come i concetti, né di rappresentazioni approssimative, mentre è desiderosa di stabilità e di sicurezza, affamata di presenza reale e di possesso; l’intelletto astratto o la ragione discorsiva vive di mimetismo o di imitazione; la conoscenza nozionale erige una architettura di simboli; ci tiene rinchiusi dietro un vetro smerigliato, in un ambiente chiuso e artificiale. In breve, non è ad essa che dobbiamo riservare il nome di intelligenza» (III, p. 102). È la negazione del sapere concettuale come filosofia e di conseguenza anche dell’uso del sapere discorsivo nel sapere teologico, con la confusione tra la teologia e la mistica. Maritain passa ad ulteriori approfondimenti: «sappiamo che san tommaso, allorché distingue la sapienza del teologo dalla sapienza del contemplativo, ricorre alla celebre distinzione posta da aristotele tra il giudizio per modo di conoscenza e il giudizio per modo di inclinazione (I, 1, 6, ad 3). per esempio, l’uomo, che ha in sé l’habitus o la virtù della temperanza, giudicherà rettamente delle cose della temperanza per modo di inclinazione, ossia consultando la propria tendenza o disposizione interiore; e colui che è istruito nella scienza morale potrà, quand’anche non fosse virtuoso, giudicare rettamente di queste cose per modo di conoscenza, ossia considerando le ragioni intelligibili, e potendo render ragione del proprio giudizio. così, per le cose divine, il teologo, svolgendo razionalmente le conclusioni virtualmente contenute nei principi della fede, ne giudicherà per modo di scienza; il contemplativo, vivendo queste cose in se stesso attraverso la carità, ne giudicherà per modo di inclinazione, grazie al dono della sapienza… san tommaso riconduce questo giudizio per modo di inclinazione a una certa simpatia affettiva o connaturalità, compassio sive connaturalitas, la quale, avvicinando al sogget-

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to le cose divine, al punto di renderle come sue, gli permette in tal modo di averne, senza discorso, una certa conoscenza. siffatta conoscenza per connaturalità amorosa, san tommaso la esclude accuratamente dalla perfezione della conoscenza intellettuale in quanto intellettuale; ma ricorre costantemente ad essa per spiegare la conoscenza mistica, dove precisamente l’intelligenza creata è da sola del tutto insufficiente riguardo al suo oggetto, voglio dire riguardo a dio raggiunto e gustato fino a un certo grado in maniera sperimentale, e non più conosciuto soltanto attraverso l’analogia delle creature» (III, p. 104). Invece Blondel riduce tutta la conoscenza alla conoscenza per connaturalità affettiva, rifiuta il filosofare come fatto intellettuale, non distingue l’ordine naturale della ragione umana dall’ordine soprannaturale, della fede e dei doni dello spirito santo. Maritain contesta a Blondel la pretesa di formulare una filosofia cattolica e scrive in Scienza e saggezza (24): «per quanto io possa comprendere la sua posizione, ritengo che egli rivendichi alla filosofia il titolo di cattolica, senza ammettere che questo titolo dipende da un’influenza positiva esercitata dalla rivelazione e dalla teologia sulla filosofia. È proprio in quanto filosofia, e in ragione delle esigenze del suo specifico sviluppo, che essa sarebbe cattolica, perché essa scoprirebbe in se stessa delle impossibilità a raggiungere il reale alle quali potrebbe portare rimedio solo una conoscenza per connaturalità, e delle lacune che invocano la fede» (VI, pp. 90-91). per Blondel la ragione stessa, e per se stessa, tende al soprannaturale, e non ha «da costruire nella sua propria sfera una saggezza naturale. ammettere la possibilità di una tale saggezza sarebbe adorare un idolo!» (VI, p. 2). Viene così del tutto negata la possibilità stessa di una saggezza filosofica a livello dell’intelligibilità dell’essere. per Maritain la riflessione di Blondel è un’apologia che pretende di essere una filosofia, una deviazione che pascal ha evitato. ne I gradi del sapere (17) c’è un testo molto chiaro: «Il pensiero di pascal può essere liberato dagli errori che vi farebbe insorgere una trasformazione in sistema filosofico, perché pascal, apologista e mistico, trascende quasi costantemente la filosofia. Invece la sistemazione filosofica in cui il pensiero di Blondel ha preso forma gli è essenziale» (IV, p. 1078). pertanto «l’ordine nel quale il pensiero di Blondel può trovare il suo vero posto è l’apologia» (IV, p. 1077). Infatti «nell’apologia vivente e pratica, nell’arte di volgere gli spiriti verso il dio della salvezza e di prepararli all’atto di fede, l’oggetto che la ragione vuole fare riconoscere è un oggetto soprannaturale. Qui le dimostrazioni

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

della ragione non hanno la loro efficacia se non mirando a rettificare la volontà e a condizione di essere sostenute dalla grazia, sovente anche da qualche pregusto delle grazie mistiche. Qui l’uomo, posto davanti al suo fine ultimo, comprende che nessuna azione ha senso per lui senza la religione» (XVI, p. 357). tutta la filosofia blondeliana diventa una prova dell’esistenza di dio, una prova integrale, che unisce le due prove fin qui date, quella dei filosofi, che salgono a dio per la via del freddo ragionamento e concludono nell’esistenza necessaria di un pensiero trascendente, e quella dei santi, che salgono a dio dal loro cuore, dal loro intimo, per scoprire un dio di amore che resta però oscuro: occorre salire a dio con tutto l’essere, con il pensiero e con la vita, e questo è possibile con l’azione che alla fine pone un dio, che è pienezza di pensiero e di vita, nella sua pienezza di essere. l’azione non ha quindi un significato psicologico, come dramma della coscienza, ma è la legge universale degli esseri, che non sono statici, ma dinamici, in farsi, in tensione verso un essere che li trascende, li fonda e li attira a sé. Bisogna distinguere tra essere ed esistere: gli esistenti non hanno l’essere in proprio, ma lo hanno partecipato da un essere trascendente che ha l’essere in proprio. tra gli esistenti l’uomo è l’essere che maggiormente si avvicina all’essere primo, perché si eleva sulle cose come persona, e ha una tensione di partecipazione verso l’essere; ma non può assurgere all’essere soprannaturale al quale tende se non interviene un aiuto soprannaturale da parte di dio cioè la grazia. Maritain non contesta a Blondel la sua fede viva, il suo amore per il Vangelo, nemmeno molte idee, che condivide, ma precisa che «la loro sistemazione filosofica, l’organizzazione che è loro data in un corpo di dottrina, produce un insieme falso e pieno di pericoli, perché la logica interna di un tale sistema tende ad integrare nel tessuto essenziale della filosofia elementi che postulano il soprannaturale e nel contempo ad affermare l’incapacità dell’intelligenza a bastare a se stessa davanti all’oggetto della filosofia» (XVI, p. 356). È interessante rilevare che lo stesso Maritain ritiene che a livello di filosofia pratica la ragione abbia bisogno della fede per conoscere l’oggetto della sua ricerca, l’uomo nella sua condizione esistenziale di uomo peccatore che solo la grazia può salvare, ma precisa che questa filosofia morale adeguatamente presa (VI, pp. 180-214) tratta filosoficamente e non teologicamente i dati ricevuti dalla teologia, e che la filosofia teoretica non ha bisogno di conoscere questi dati per raggiungere il suo oggetto (cf. La filosofia cristiana [19] e Scienza e

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saggezza [24]). Maritain conclude la sua polemica con Blondel: «esiste una bella differenza tra l’affermare che la filosofia non basta e il costruire una filosofia dell’insufficienza» (V, p. 237). a Lucien Laberthonnière122, direttore degli «annales de philosophie chrétienne», rivista che fiancheggia il movimento modernista, Maritain dedica poche righe in La filosofia bergsoniana (1) per rilevare che la sua posizione a riguardo della filosofia della religione può essere paragonata a quella di William James (I, p. 390) e che se è vero che bisogna filosofare con tutta l’anima, è pure vero che solo con l’intelligenza si può fare filosofia. laberthonnière approfondisce la nozione di persona come esperienza totale appresa da ravaisson, considera la fede come un atto di responsabilità personale e su queste basi scrive nel 1901 il trattato Teoria dell’educazione che Mounier nel suo Il personalismo (1949) considera il classico della pedagogia personalista. In laberthonnière viene svalutata l’intelligenza e soprattutto, come in Blondel, non si fa distinzione tra il piano della natura e quello della soprannatura, cioè tra libertà dell’uomo e la grazia di dio, che integra, rafforza, sopraeleva la libertà ma non la sostituisce.

John Henry Newman In Inghilterra lo spiritualismo trova la sua espressione più significativa in John Henry Newman123, un sacerdote della chiesa anglicana, assistente degli studenti al saint Mary’s college che nel 1933 con alcuni amici fonda un gruppo di studio sulle tradizioni religiose, chiamato Movimento di Oxford. I suoi studi sulla patristica alla ricerca del rapporto tra la verità e la tradizione, e di conseguenza tra ortodossia ed eresia, lo conducono, dopo una lunga crisi, alla chiesa cattolica; nel 1948 diventa sacerdote e fonda la prima comunità inglese dell’oratorio. la sua filosofia, ermeneutica dell’atto di fede, inteso come impressione nello spirito dell’uomo di un’idea vivente che informa prima il sentimento e l’azione e solo dopo l’intelligenza, si sviluppa 122 lucien laberthonnière (1860-1932), sacerdote della congregazione dell’oratorio. tra le opere: Saggi di filosofia religiosa (1903), Il realismo cristiano e l’idealismo greco (1904). 123 John Henry newman (1801-1890), anglicano poi convertitosi al cattolicesimo, nominato cardinale da leone XIII. tra le opere: Saggio sullo sviluppo della dottrina cristiana (1848), Saggio sulla grammatica dell’assenso (1870), Diario spirituale (postumo).

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su di una linea platonico-agostiniana. Maritain ricorda questo testo dalla sua autobiografia: «non ho mai peccato contro la luce» (IX, p. 1131) e a riguardo degli studi universitari in Per una filosofia dell’educazione (53) cita, approvandole, queste due osservazioni: «l’università è il luogo dove si insegna la conoscenza universale» (VII, p. 859), per cui se non insegna anche la teologia «una tale istituzione tradisce proprio quello che professa di servire, se c’è, dio» (VII, p. 866). sia newman che Maritain ritengono che il fine primario dell’educazione non sia la socializzazione e la preparazione al mondo del lavoro, come ritiene dewey, ma la piena realizzazione della persona attraverso un educazione liberale attraverso le lettere e le arti. Maritain fa pochi riferimenti allo spiritualismo in Germania, che si sviluppa in una sorta di contaminazione con l’esistenzialismo e la fenomenologia. accenna a romano Guardini, filosofo e teologo tedesco di origine italiana che ha avuto modo di incontrare a salisburgo nel 1931, e a erich przywara, filosofo e teologo polacco. Romano Guardini124 considera la conoscenza come una relazione viva di un soggetto vivo verso un oggetto concreto e il fenomeno è il chiarirsi di un’essenza. siamo in una prospettiva di realismo, più letteraria che filosofica, perché non sempre approda ad una precisa concettualizzazione. Guardini analizza l’uomo nella sua soggettività irripetibile, per cui «non posso essere sostituito da nessun’altro, perché sono unico», come scrive in Mondo e persona. Erich Przywara125 fa conoscere sul continente il pensiero di newman, studia sant’agostino, Kant, Kierkegaard, cerca l’analogia dell’essere e approfondisce l’analisi del rapporto immanenza-trascendenza, cioè la relazione tra dio e le creature, concludendo che solo la grazia può risolvere questa relazione tra l’uomo e dio. per Maritain «solo con una rinascita in Germania del pensiero di san tommaso, lo sforzo riguardevole sostenuto da pensatori come Guardini e przywara con il loro acuto senso dei bisogni del pensiero moderno potrà ottenere risultati durevoli e produrre una re-

124 romano Guardini (1885-1968), ordinario di filosofia della religione a Berlino (1923-1939), a tubinga (1945), a Monaco (1948). l’opera completa in lingua italiana è in corso di edizione presso la Morcelliana (Brescia). cf., su di lui: l. negri, L’antropologia di Romano Guardini, Jaca Book, Milano 1989; G.-H. Barbaro, Romano Guardini, Morcelliana, Brescia 1998. 125 erich przywara (1889-1972), gesuita polacco la cui filosofia ha molto influenzato Hans Urs von Balthasar. tra le opere: Analogia entis, metafisica, la struttura originaria e il ritmo cosmico (1932, 4 voll.), L’uomo, antropologia tipologica (1959).

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staurazione della metafisica, senza la quale, l’intelligenza della nostra epoca rischia di costruire sulla acqua» (IV, p. 1130). pochi riferimenti a Jean Guitton126, solo qualche rimando al suo libro su Giovanna d’arco in La Chiesa di Cristo (63) a riguardo della missione e del martirio della santa, anche se i due filosofi si sono incontrati a tolosa il 27 dicembre 1964 in occasione della visita di mons. pasquale Macchi, inviato da paolo VI per alcune questioni in discussione al concilio. si vedano i 4 memoranda sulla verità, sulla libertà religiosa, sul laicato, sulla preghiera (XVI, pp. 1085-1131). Guitton lavora sui rapporti tra il tempo e l’eternità, considera l’apertura del tempo all’eternità la struttura stessa dell’essere; elabora un parallelo tra renan e newman per rispondere al conflitto moderno tra ragione e religione. tra il discepolo di pascal, non lontano dalle posizioni di Bergson, e il discepolo di san tommaso un dialogo filosofico non era possibile perché per Maritain si può fare filosofia solo con i concetti e seguendo le regole della logica, altrimenti si fa letteratura.

3. Henri Bergson Il più importanti dei maestri dello spiritualismo è di sicuro, come riconosce la critica storica, Henri Bergson127, ma lo considero a parte perché la sua influenza è stata notevole e persistente su Maritain, che deriva da lui lo spirito del suo filosofare, anche se la sua filosofia, che ha appreso da san tommaso, lo ha portato ad una critica frontale del bergsonismo, distinguendo tra un bergsonismo di intenzione e un bergsonismo di fatto. Maritain ha seguito quasi in diretta, passo passo, lo svilupparsi della riflessione begsoniana da L’evoluzione creatrice (1907) a Le due sorgenti della morale e della religione (1932), commentandola nei suoi scritti, e inter-reagendo128. 126

Jean Guitton (1901-1999), docente di storia della filosofia alla sorbona, fu il primo laico a prendere la parola al concilio Vaticano II, chiamato da Giovanni XXIII. Opera ommia in 5 volumi, Ritratti (1966), Critica religiosa (1968), Giornale della mia vita (1912-1971), Filosofia (1978); famoso il suo Testamento filosofico (1997). 127 Henri Bergson (1859-1941). Filosofo ebreo, docente al collège de France, si contrappone al positivismo dei docenti della sorbona. accademico di Francia, riceve il premio nobel nel 1928. durante l’occupazione nazista rinuncia a tutti gli incarichi. tra le opere: Saggio sui dati immediati della coscienza (1889), Materia e memoria (1896), L’evoluzione creatrice (1907), Le due sorgenti della morale e della religione (1932). 128 cf. p. Viotto, Henri Bergson, un maestro perduto e ritrovato, in Id., Grandi amicizie, cit., pp. 17-30.

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

Il fatto che con Maritain la nuova scolastica abbia acquisito i risultati positivi della modernità è dovuto all’influenza bergsoniana. nel processo cognitivo bisogna raccordare l’oggettività della verità con l’attività del soggetto, che non riceve un’impronta, non costruisce la realtà, ma concepisce il concetto (IX, p. 259); nel processo operativo bisogna raccordare l’oggettività della legge con la responsabilità della coscienza, che non si limita ad applicare la legge, ma la formula nella concretezza della decisione (V, p. 391). Maritain ha dunque maturato e realizzato la sua vocazione filosofica in dialogo con Bergson. a lui dedica non solo un’importante monografia, La filosofia bergsoniana (1), che ha avuto diverse edizioni con aggiornamenti dal 1913 al 1948 ed è stata tradotta in inglese nel 1955, e una raccolta di saggi nel volume Da Bergson a Tommaso d’Aquino (37), ma fa continui riferimenti in tutte le sue opere, seguendolo nello sviluppo della sua riflessione filosofica e nel suo avvicinarsi al cristianesimo. Bergson non ha ricevuto il battesimo, ma nel suo testamento lasciò scritto: «le mie riflessioni mi hanno portato sempre di più vicino al cattolicesimo, nel quale vedo il compimento dell’ebraismo. Mi sarei convertito se non avessi visto prepararsi da alcuni anni l’ondata formidabile di antisemitismo, che sta irrompendo sul mondo. Ma spero che un prete cattolico vorrà venire a recitare le preghiere alle mie esequie. nel caso in cui questa autorizzazione non fosse accordata, occorrerebbe rivolgersi ad un rabbino, ma senza nascondergli, e senza nascondere a nessuno, la mia adesione morale al cattolicesimo»129.

L’intuizione secondo Bergson, la realtà è un continuo divenire: la nostra intelligenza, con i suoi schemi astratti, non è in grado di coglierla nel suo intimo, si limita a descriverla nei suoi aspetti superficiali, traendo delle regole che sono utili per la vita pratica, funzionali ma non vere. la metafisica, l’essere in se stesso, non è rappresentabile da nessuna immagine, da nessun concetto; è però raggiungibile me129 cf. il lungo articolo Storia delle teorie sulla memoria (XVI, pp. 659-673), pubblicato da Maritain nella «revue de philosophie» nel 1904 per presentare il corso che Bergson aveva tenuto al collège de France nell’anno accademico 1903-1904, e il postscriptum Durata e simultaneità (XVI, pp. 285-288) all’articolo La metafisica dei fisici e la simultaneità secondo Einstein, pubblicato da Maritain nella «revue universelle» nel 1922.

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diante un’intuizione che ci fa comunicare con l’anima delle cose. come in schopenhauer, la rappresentazione intellettuale non ci dà che il fenomeno, l’intuizione invece raggiunge il noumeno. Bergson si affianca a tutti gli altri irrazionalisti, che svalutano l’intelligenza, per attribuire ad un’altra attività psichica la capacità gnoseologica. Bergson, come pascal, contrappone lo spirito di geometria «di coloro che vedono le cose nella prospettiva dello spazio», cioè con l’intelligenza, e lo spirito di finezza «di coloro che vedono le cose nella prospettiva della durata», cioè l’intuizione (I, p. 526). premessa la distinzione tra il tempo reale della filosofia e il tempo matematizzato della scienza, Bergson constata che per i matematici il tempo è una successione di parti, susseguenti e ben distinte le une dalle altre; ma questo approccio porta ad una spazializzazione del tempo. Il tempo è altra cosa, è una durata reale, vissuta dalla coscienza, nella quale il passato e l’avvenire sono compresenti e noi li viviamo, continuamente rinnovandoci. la durata matematica è utile, ma è fittizia, la vera durata è quella vissuta dalla coscienza. Bergson vuole costruire, contro il materialismo dei positivisti, una metafisica della durata reale, ma questa filosofia finisce per considerare il divenire come la sostanza stessa delle cose, e si basa sull’intuizione psicologica escludendo l’intellezione intellettuale. Maritain osserva: «In essa, entro certi limiti, ci troviamo di fronte a un’esperienza autentica. la durata appare come il movimento vissuto in cui, a un livello più profondo di quello della coscienza, i nostri stati psichici si fondono in una molteplicità virtuale, ma tuttavia unica, e per mezzo del quale sentiamo che avanziamo nel tempo, che duriamo mutando, in una maniera indivisa e che tuttavia ci arricchisce qualitativamente e trionfa sull’inerzia della materia. È questa un’esperienza psicologica che non è ancora l’intuizione metafisica dell’essere, ma che avrebbe potuto portare a questa intuizione, perché, racchiusa in questa durata psicologica e in essa implicitamente data, vi è certamente l’esistenza, l’irriducibile valore dell’esse. È dunque una via, un cammino verso la percezione dell’esistenza. Ma questa non è ancora venuta allo scoperto sotto la sua forma intelligibile propria» (V, pp. 577-578). Maritain accoglie da Bergson il valore dell’intuizione, ma lo libera dalle scorie psicologiche in cui Bergson lo immerge, e considera la percezione astrattiva di aristotele come un’intuizione dell’essere. nelle Sette lezioni sull’essere (21) analizza questa intuizione: «Una percezione diretta, immediata, non nel senso tecnico, che gli antichi attribuivano al termine intuizione, ma nel senso che possiamo rece-

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

pire dalla filosofia moderna. si tratta di una visione semplicissima, al di sopra di ogni discorso e di ogni dimostrazione, perché essa è all’origine delle dimostrazioni, una visione della quale non c’è parola esternata dalla voce, o parola di qualsiasi linguaggio, che possa esprimere pienamente e adeguatamente la ricchezza e le virtualità, e dove, in un momento di emozione decisiva simile a fuoco spirituale, l’anima entra in un contatto vivo, trafiggente, illuminante, con una realtà che essa afferra e da cui viene afferrata. ebbene, affermiamo che è proprio l’essere a procurare tale intuizione. I caratteri dell’intuizione sembrerebbero, a tutta prima, corrispondere all’intuizione bergsoniana. È vero; ma quest’ultima si presenta come un’intuizione non di natura intellettuale. ora, noi diciamo che è l’essere, che è per eccellenza oggetto di intuizione, però oggetto di intuizione intellettuale. siamo in realtà molto lontani dal bergsonismo. l’essere procura una tale intuizione non già a quella specie di simpatia di cui parla Bergson, la quale esige una torsione della volontà su se stessa; è invece all’intelligenza che l’essere procura l’intuizione stessa, e per mezzo di un concetto, di un’idea […]. È nel momento in cui, insieme al reale, proferisce entro di sé un verbo mentale, che l’intelligenza raggiunge immediatamente l’essere in quanto essere, oggetto del metafisico» (V, pp. 574-575). Maritain riconosce l’importanza dell’intuizione, a cui dedica uno dei suoi ultimi articoli nel 1970130, e osserva che «molte delle critiche di Bergson contro l’intelligenza, riguardavano non tanto l’intelligenza, quanto l’uso dialettico di questa» (XI, p. 452). Intanto il soggetto ha trovato il suo ruolo nella percezione dell’oggetto che, come concetto, non viene impresso come uno stampo, ma formulato dall’intelletto attivo del soggetto.

L’evoluzione creatrice per Bergson l’essere è un divenire continuo, sempre nuovo, in evoluzione creatrice, grazie ad uno slancio vitale, che permea e anima la materia. l’essenza profonda degli esseri è la vita; tutta la natura è un immenso sforzo verso l’affermarsi dello spirito, dell’intelligenza, della libertà. In questo divenire c’è un continuo progresso, non per uno sviluppo deterministico, come nel positivismo, bensì per un’e130 cf. J. Maritain, Nessun sapere senza intuizione, in Approches sans entraves: scritti di filosofia cristiana (64).

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IV. Incertezze e speranze

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voluzione creatrice di forme sempre nuove. Quando lo slancio vitale si arresta, si ha la morte, la materia, che il sopraggiungere di un nuovo slancio vivifica, dando origine alla materia organica. due sono i mezzi con cui lo slancio vitale plasma il mondo: l’istinto che raggiunge perfettamente il suo scopo, ma lo ignora e non può oltrepassarlo, e l’intelligenza, meno perfetta dell’istinto rispetto al suo oggetto, ma non chiusa in esso, capace di superarlo. tra le due forze non c’è soluzione di continuità, perché fra loro c’è uno scarto invalicabile. c’è una finalità nella natura, non nel senso antico o medioevale, di un fine a cui corrispondono mezzi preordinati, ma nel senso che la natura sa dove tendere, pur non conoscendo in anticipo le sue vie, e perciò procede per tentativi sempre nuovi, fino a raggiungere il suo scopo. Questa evoluzione non è prodotta dall’ambiente, o un effetto del caso, deriva da un impulso interiore verso la vita. Bergson supera il determinismo dei positivisti, ma l’ordine finalistico che riconosce non è altro che l’incontro di due movimenti semplici: il movimento della vita, o dello slancio creatore, e il movimento della materia che gli resiste. Maritain rileva che se non si distingue una causa finale e una causa formale, trascendenti il divenire, l’ordine risulta un semplice assemblaggio di parti. al limite dell’evoluzione Bergson pone l’eternità, ma senza separarla dall’evoluzione stessa, perché «tra dio e il mondo non c’è che una differenza di grado o di intensità, o di tensione, o di restringimento nella durata; ciò non farà mai una differenza autentica di natura o di essenza» (I, p. 324). In realtà nel Bergson dell’Evoluzione creatrice l’esistenza di dio «resterà sempre irrimediabilmente ipotetica» (I, p. 312).

La morale e la religione Maritain ha seguito tutto lo svilupparsi della filosofia di Bergson, la cui ultima fase si colora di spiritualità religiosa ne Le due sorgenti della morale e della religione. la natura vuole continuare se stessa e comanda agli individui il rispetto delle leggi che la conservano. la natura governa gli animali con l’istinto, a cui questi non possono sfuggire, e l’uomo con l’intelligenza, che va ubbidita liberamente. così nell’uomo nasce la costrizione morale, il dovere di rispettare le regole sociali. Ma l’uomo non può accontentarsi di questa morale sociologica, che è una morale chiusa, che mira solo a conservare lo stato sociale, subordinando l’individuo alle norme della comunità.

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

In questa situazione non c’è posto per la persona umana. Ma con il sorgere di uomini eccezionali, la cui coscienza si pone al di sopra delle leggi dell’ambiente, che sono capaci di liberarsi dalle finalità sociali, seguendo non più il meccanismo dell’intelligenza, ma la libertà dell’intuizione, nasce una morale aperta, quella dei santi, dei saggi, degli eroi. come vi sono due morali, così vi sono pure due religioni. c’è una religione statica, imperfetta, naturale, politica, conservatrice, che pone dio al fine della vita per garantire l’immortalità dell’individuo. Ma accanto a questa religione c’è una religione dinamica, che sale a dio non freddamente, quasi costretta dall’intelligenza, ma con tutto il cuore, e che scopre un dio abisso d’amore, che ha fatto il mondo per amore e che attende gli uomini nel suo amore, ed è la religione dei mistici e dei santi. Maritain dedica a quest’opera un intero capitolo della Storia della filosofia morale (57). parte da questa affermazione di Bergson: «È da escludere che si possa fondare la morale sul culto della ragione» (XI, p. 965); e subito precisa che in Bergson non c’è traccia di filosofia morale come sapere riflessivo, perché «quello che Bergson intende esprimere è che la morale e la filosofia morale presuppongono come loro sorgenti costitutive forze che non dipendono dalla ragione ma dalla vita, dal principio della vita: da una parte un mondo infrarazionale e inframorale, che è essenzialmente di ordine sociale, e dall’altra un mondo sovrarazionale e sovramorale, che è essenzialmente di ordine mistico. la nostra morale, e i nostri diversi sistemi più o meno intellettualistici di filosofia morale, sono una razionalizzazione nella quale sul piano dei concetti e della logica questo infrarazionale e questo sovrarazionale si frammischiano e si compenetrano e si influenzano reciprocamente, e in cui il primo trasmette al secondo qualcosa della sua forza di costrizione, e il secondo sparge sul primo qualcosa del suo profumo. così l’uno e l’altro perdono, per il filosofo che si tiene sul piano dei concetti, la loro virtù propria; la conservano, però, per l’uomo che agisce, nel quale, al di sotto e al di sopra di questo piano, le sorgenti vive e le due morali esercitano sempre il loro potere» (XI, p. 966). a Bergson interessa l’analisi della coscienza morale e non la ricerca intellettuale della natura dell’atto morale, e riscontra delle pressioni, che provengono dall’ambiente sociale, e delle aspirazioni, che provengono dall’appello di anime superiori; le prime danno origine alla morale chiusa del conformismo sociale, le seconde alla morale aperta della esperienza mistica. Maritain osserva che la vita morale è così avvolta in «un duplice involucro, l’uno infra-

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IV. Incertezze e speranze

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morale di per sé e l’altro sovramorale» (XI, p. 971), per cui quella di Bergson «non è una morale esclusivamente filosofica» (ibid.) perché si muove tra sociologia e mistica. Maritain constata che «Bergson non poteva evitare una specie di ambiguità che, per quanto varie ne siano le forme, consiste fondamentalmente nel comprendere in una stessa nozione cose che, quando ci si mette a chiarire e a distinguere con più precisione, si rivelano attinenti ad ordini differenti» (XI, p. 973). Manca una distinzione chiara tra morale e religione, tra natura e soprannatura, e non c’è alcun riferimento al diritto naturale. pur non fondandosi sul sentimento, la morale di Bergson, muovendosi tra coercizione sociale e attrazione mistica, non può fondare l’obbligazione morale. «attrazione o coercizione, emozione sovraintellettuale o costrizione quasi istintiva, queste forze esercitano su di noi una causalità fisica, non ci legano moralmente in virtù di quello che la coscienza vede, non riguardano in nulla quel potere posseduto dal giudizio di coscienza di vincolare nell’ordine puramente morale una volontà, che resta fisicamente libera di sfuggirgli» (XI, p. 988). Maritain precisa come l’obbligazione morale nasca dalla relazione tra l’intelletto e la volontà: «ecco l’obbligazione morale autentica: in essa la forza che mi vincola non è in alcun modo qualcosa che eserciti su di me una qualche causalità fisica, pressione o aspirazione, costrizione della società o attrazione dell’amore creatore. Questa forza è puramente quella della conoscenza intellettuale condizionante l’esercizio del volere. essa dipende non dalla causalità finale ma dalla causalità formale, ed è passando per il volere, e in virtù della natura stessa del volere, che è necessitante» (XI, p. 993). a Bergson manca il concetto di bene. «Il bonum honestum, la qualità di un atto eticamente buono in virtù di quello che è, o della sua relazione con quello che è l’uomo, indipendentemente da ogni considerazione di vantaggio o di utilità, come di piacere, indipendentemente anche da tutte le pressioni, che possono pesare su di noi, e da tutte le emozioni e aspirazioni, che possono sollevarci, il bene come rettitudine, anche questo è notevolmente assente dalla morale di Bergson quanto da quella di dewey» (XI, p. 990). ciò detto, Maritain riconosce a Bergson il merito «di opporre all’amore mancato che l’altruismo ateo ci propone, l’amore autentico per tutti gli uomini attraverso dio e con dio» (IX, p. 1004), ma questa è una sovramorale che include elementi di un altro ordine. anche Maritain ritiene che una morale puramente razionale non sia adeguata ad indirizzare l’uomo verso il suo fine ultimo, che è soprannaturale, e ha elaborato una fi-

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

losofia morale adeguatamente presa, che tiene conto dei dati forniti dalla fede, ma che tratta a livello filosofico (cf. La filosofia cristiana [19] e Scienza e saggezza [24]). Maritain riconosce a Bergson il merito di averlo posto sulla strada di questa filosofia morale adeguata: «Bisogna concludere che quanto Bergson ci propone in realtà e ha introdotto per la prima volta nel campo del sapere filosofico è allo stato incoativo ancora e senza che essa stessa si dichiari ancora esplicitamente per tale, una filosofia morale adeguatamente presa, o una filosofia che fa suoi i dati concernenti l’esistenza umana ricevuti da una conoscenza superiore. e di questo, chiunque abbia una giusta idea della filosofia morale, gli deve una speciale gratitudine» (XI, p. 972). si tratta di distinguere e di connettere riflessione filosofica ed esperienza mistica.

La politica e l’estetica Bergson non ha scritto un trattato di filosofia politica, ma ne Le due sorgenti della morale e della religione si hanno diverse intuizioni sulla società chiusa e sulla società aperta che anticipano quelle di Karl popper. In una nota Maritain osserva: «Bergson ha rilevato che storicamente il sentimento democratico ha un fondamento cristiano. Ma sotto l’influenza del razionalismo e del materialismo le democrazie moderne hanno rinnegato questa base evangelica» (VII, p. 1160). In Cristianesimo e democrazia (35) scrive: «come Bergson ha dimostrato nelle sue profonde analisi, è stato lo slancio di un amore infinitamente più forte della filantropia predicata dai filosofi, in quanto esso è la manifestazione in noi dell’amore creatore degli esseri e rende veramente ogni essere umano nostro prossimo, a far valicare all’abnegazione umana le frontiere chiuse dei gruppi sociali naturali, gruppo familiare e gruppo nazionale, allargandola a tutto il genere umano. senza spezzare i vincoli di carne e di sangue, di interesse, di tradizione e di fierezza, necessari al corpo politico, e senza distruggere le leggi severe della sua esistenza e della sua conservazione, un tale amore, esteso a tutti gli uomini, trascende e contemporaneamente trasforma dall’interno la vita propria del gruppo e tende a riunire l’intera umanità in una comunità di nazioni e di popoli in cui gli uomini siano riconciliati. poiché il regno di dio non è avaro, la comunione, che è il suo privilegio soprannaturale, non è da dio conservata gelosamente: egli vuole che si diffonda e si rifranga al di

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IV. Incertezze e speranze

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fuori dei limiti del suo regno, sotto forme imperfette, in quell’universo di conflitti, di malizia e di amara fatica che è il dominio temporale. In ciò è il principio più profondo dell’ideale democratico, che è il nome profano dell’ideale cristiano. ed è per questo che Bergson scrive: “la democrazia è di essenza evangelica e ha l’amore come motivo determinante”. da ciò appare evidente che l’ideale democratico va in direzione opposta alla natura, la cui legge non è l’amore evangelico. “Furono false democrazie le antiche città fondate sulla schiavitù, libere per mezzo di questa iniquità fondamentale dai problemi più gravi e angosciosi”. la democrazia è un paradosso e una sfida alla natura, alla natura umana ingrata e ferita» (VII, pp. 739-740). In L’uomo e lo Stato (46) Maritain cita questo testo di Bergson: «dalla società chiusa alla società aperta, dalla città all’umanità, non si passerà mai per via di allargamento, perché non sono della medesima essenza» (IX, p. 724) e commenta: «distinguendo tra società chiuse, che sono temporali e terrene, e la società aperta, che è spirituale, Bergson ha mostrato come il genere di amore che unisce i membri del villaggio o della città possa estendersi da una società chiusa a un’altra più vasta; ma che se vogliamo arrivare all’amore dell’umanità intera, allora si tratta di passare da un ordine ad un altro, dall’ordine delle società chiuse all’ordine, infinitamente differente, della società aperta e spirituale, in cui l’uomo è unito a quell’amore che ha creato il mondo» (IX, p. 724). Ma Bergson oppone la città chiusa e la città aperta, mentre bisogna distinguerle, senza confonderle, perché anche la città chiusa ha una sua anima, che è l’amicizia civile. Maritain precisa: «si tratta di passare da un ordine a un altro: dall’ordine di società chiusa all’ordine, infinitamente differente, della società aperta e spirituale, in cui l’uomo è unito a quell’amore stesso che ha creato il mondo. tutto questo è vero. Ma anche qui la semplice considerazione dello sviluppo in estensione è solo accidentale. se gli uomini devono passare dalle nostre attuali società politiche a una società politica mondiale, passeranno a una società chiusa più vasta, vasta quanto tutto l’insieme delle nazioni, e l’amicizia civica dovrà estendersi in ugual modo. l’amicizia civile resterà ancora infinitamente differente dalla carità, come la società mondiale resterà infinitamente differente dal regno di dio» (IX, pp. 724-725). Manca in Bergson la distinzione tra il piano naturale e il piano soprannaturale. anche nelle opere di estetica di Maritain vi sono molti riferimenti a Bergson. In Arte e Scolastica (2) si supera ogni forma di intellettua-

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

lismo e di accademismo riconoscendo che l’opera d’arte germina nelle profondità della vita dello spirito, nasce da «una visione semplice, benché virtualmente molto ricca di molteplicità, dell’opera da fare, colta nella sua anima individuale; una veduta che è come un germe spirituale o una ragione seminale dell’opera e che assomiglia a ciò che Bergson chiama intuizione e schema dinamico, che interessa non solo l’intelligenza, ma anche l’immaginazione e la sensibilità dell’artista, che risponde ad una certa sfumatura unica di emozione e di simpatia e che, a causa di ciò, è inesprimibile in concetti» (I, p. 753). Questo non significa che il poeta e l’artista non siano consapevoli della loro emozione creatrice: «l’intuizione poetica nasce nell’inconscio, ma emerge da esso; il poeta non è all’oscuro di questa intuizione, al contrario essa rappresenta per lui la luce più preziosa e la regola fondamentale della sua virtù d’arte. Ma ne è consapevole sur le rebord de l’inconscient [sul bordo dell’inconscio], come avrebbe detto Bergson» (X, p. 216). se Bergson si limita a constatare che la creazione artistica avviene sul bordo dell’inconscio, Maritain precisa che questo inconscio risulta dalla interrelazione tra l’inconscio sovraconscio di cui parla platone e l’inconscio subconscio di cui parla Freud.

Ideosofia e filosofia Maritain ha appreso molto da Bergson, ma, quando si è accorto degli errori in cui cadeva, non ha esitato un momento a contestarlo, come si è contrapposto ai suoi discepoli, soprattutto quando si è accorto che scivolavano verso il modernismo. ne Il contadino della Garonna (61) scrive: «di tutti i pensatori – e grandi pensatori – la cui discendenza si inizia da cartesio non metto in discussione né l’eccezionale intelligenza, né l’importanza, né il valore, né, talvolta, il genio. contesto loro solo una cosa, ma con tutte le mie forze e con la certezza di avere ragione, ed è, tranne naturalmente per ciò che riguarda Bergson (e forse anche Blondel), il loro diritto al nome di filosofi. per quanto si riferisce a loro, è un nome da spazzar via subito, non sono filosofi; sono ideosofi: ecco il solo appellativo adatto, col quale conviene chiamarli. di per sé non ha valore peggiorativo, designa semplicemente un’altra via di ricerca e di pensiero diversa da quella filosofica» (XII, p. 803). la filosofia è amore della saggezza, ma si tratta della saggezza dell’intelletto che si raggiunge nel concetto e che si elabora con la ragione. non si può fare filosofia con l’azione, con la fede, con

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IV. Incertezze e speranze

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l’esperienza mistica. sta qui la radicale differenza tra i filosofi dello spiritualismo e i filosofi della nuova scolastica. concludo con alcune riflessioni da I grandi amici di raïssa Maritain, che è stata la testimone segreta e ammirata di questa relazione fondamentale per la filosofia contemporanea: «Bergson ha definito una dottrina psicologica della libertà, piuttosto che una dottrina metafisica. Questa non può derivare che da una metafisica dell’intelletto e della volontà, e Bergson non ha cercato nei suoi lavori una tale metafisica. la sua intuizione primordiale lo impegnava per altre strade. Ma sul piano psicologico la dottrina bergsoniana della libertà non è incompatibile con le conclusioni metafisiche di aristotele e di san tommaso» (XIV, p. 704).

4. Il pensiero slavo-ortodosso la russia è un mondo a sé stante, la sua cultura ha radici nel mondo bizantino, che nemmeno la dittatura comunista è riuscita a sradicare, la sua filosofia e la sua letteratura hanno una profonda ispirazione religiosa, la sua teologia rimanda alla patristica, è mancata una scolastica. Maritain vede in Fëdor Michajlovic Dostoevskij131 il più significativo rappresentante di questa cultura, che in Dialoghi (V, pp. 730-758) presenta così: «Un giorno dostoevskij ha avuto aperto gli occhi sul mondo spirituale da un tocco evangelico e ne è rimasto per sempre turbato, perché le intuizioni del suo cuore non hanno trovato da parte della sua intelligenza quelle pure certezze che avrebbero dovuto equilibrarle. Intossicato dal suo tempo (e da rousseau), non ha mai creduto che la ragione potesse fondare quella distinzione tra il bene e il male a cui sottometteva il suo pensiero. non sembra neppure che egli abbia preso chiaramente coscienza della certezza essenzialmente soprannaturale di quella fede nel redentore alla quale era legata la sua anima. la sua disgrazia sta nell’aver posto una sorta di scisma tra l’amore e la sapienza, nel non aver compreso che quest’ultima spira l’amore. egli stesso fu la prima vittima del suo misconoscimento del cattolicesimo» (V, p. 744). Ma veniamo ai filosofi, tra cui sono rilevanti anche alcuni pensatori ebrei. 131

Fëdor Michajlovic dostoevskij (1821-1881), scrittore noto per i romanzi Umiliati e offesi (1862), Delitto e castigo (1866), L’idiota (1869), I demoni (1873), I fratelli Karamazov (1880).

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

Lev Šestov132, richiamandosi a pascal, oppone il dio della religione al dio dei filosofi; per lui il peccato originale non deve essere valutato in termini etici o metafisici, ma in termini gnoseologici, perché legato alla concupiscenza del sapere, che genera la presunzione di conoscere le essenze. Maritain commenta: «Šestov ha eroicamente filosofato contro la filosofia e la sua polemica multiforme e continua contro l’intelligenza, che egli identificava nel serpente, il suo irrazionalismo grandioso e ostinato rappresentano una forma estrema del pensiero religioso ebraico e della protesta di Israele. con l’energia di un profeta della nostra epoca, roso dai dubbi e in lotta con la disperazione, egli ha innalzato contro la ragione moderna, contro la ragione greca, l’ardente accusa di un cercatore di dio, che non si lascia trovare dal suo dio. ossessionato dal problema del male, come Berdjaev, e convinto come lui che il deismo razionalista è il padre dell’ateismo, quest’uomo dolce, dall’eloquenza accattivante, sfidava l’onnipotenza e la libertà di dio chiedendo di attuare l’impossibile e di fare in modo che il perdono del peccatore facesse sì che quanto è stato commesso non fosse stato commesso» (VII, p. 27). Maritain nel Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente (42), riflettendo sull’esperienza di questi filosofi che si richiamano a Kierkegaard, osserva: «non pretendo affatto sostenere che la loro dottrina sia stata più fedele alla Bibbia o al Vangelo di quella di altri pensatori ebrei o cristiani, sono ben lungi da ciò. c’era in loro una specie di grandioso smarrimento, fatale per la dottrina, e la loro colpa, gravida di conseguenze, è stata quella di credere che per glorificare la trascendenza occorresse spezzare la ragione, mentre bisogna solo umiliarla davanti al suo creatore e con ciò stesso salvarla. anche se la colpa prima è di Hegel, il quale dichiarava che la filosofia era la scienza del bene e del male finalmente posseduta, non si può perdonare a Šestov di avere identificato la ragione con il serpente. Il delirio è permesso al profeta, non al filosofo» (IX, p. 127). Maritain rivaluta la religiosità tragica dell’esistenzialismo esistenziale dei filosofi russi, contro il pessimismo radicale dell’esistenzialismo accademico, dei filosofi occidentali, ricordando il suo amico ebreo

132 lev Šestov (1866-1938), professore all’Istituto di studi slavi di parigi. tra le opere: L’idea del bene in Tolstoj e Nietzsche (1900), La filosofia della tragedia (1903), La notte del Getsemani (1923), Kierkegaard e la filosofia esistenziale (1936), Atene e Gerusalemme (1938).

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IV. Incertezze e speranze

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Benjamin Fondane133, «discepolo di Šestov ma abitato dal Vangelo» (X, p. 1145), che in uno dei suoi scritti, pubblicato postumo dalla moglie Geneviève, afferma: «per Kierkegaard e per la prima generazione esistenzialista il nulla che l’angoscia ci rivela non è il nulla dell’esistente, ma un nulla nell’esistente. È l’incrinatura dell’esistente: il peccato, la sconfitta della libertà»134. È un’idea che troviamo in Dio e la permissione del male (58) in cui si parla della disimmetria tra il bene e il male, per cui l’analisi del male non può essere portata avanti in analogia con l’analisi del bene, perché il male non è un essere, ma un non-essere, una ferita nell’essere che va riparata per riequilibrare l’essere. I Maritain furono molto vicini a Geneviève durante la deportazione in Germania del marito e la morte nelle camere a gas. Quando, dopo una lunga malattia, muore anche Geneviève, ritornata alla fede ed entrata nel monastero “la solitude”, Jacques annota nel suo Diario: «ancora la tristezza, il lutto e la morte. Ho una pena profonda. oh grande anima generosa, vi siete donata al martirio come colui che amate, come gli ebrei immolati nei campi di concentramento, sapendo cosa facevate in unione con cristo redentore!» (6 marzo 1954).

Nikolaj Berdjaev Molto più importante è il rapporto di Maritain con il filosofo russo Nikolaj Berdjaev135, conosciuto nel 1925, per il comune maestro Bloy, per il reciproco scambio di idee, malgrado le differenze di carattere, di cultura e di impostazione filosofica. Maritain legge i libri di Berdjaev, ne apprezza la rivalutazione del medioevo e la critica al rinascimento, utilizza in Umanesimo integrale le sue riflessioni sul comunismo. si associa nella critica alla modernità e in un saggio del 1926 scrive: «I fenomeni profondi rilevati dal filosofo russo, che sostiene che noi entriamo in un’epoca storica completamente nuova, in un nuovo medioevo. secondo lui questo periodo sarà marcato 133

Benjamin Fondane (1898-1944), poeta, filosofo e critico letterario ebreo di origine rumena, che critica la tradizione occidentale accusandola di intellettualizzare la poesia facendola diventare un sottoprodotto della riflessione filosofica in Falso trattato di estetica (1938). 134 B. Fondane, L’Existence, Gallimard, paris 1945, p. 35. 135 nikolaj Berdjaev (1874-1948), filosofo russo che, escluso dalle università per ragioni politiche, ripara a parigi. tra le opere: La filosofia della libertà (1916), Il senso della storia (1923), L’io e il mondo degli oggetti (1934), Cristianesimo e realtà sociale (1947), Autobiografia spirituale (postuma).

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

dalla predominanza dei dibattiti spirituali, dal ritorno alla metafisica, in un quadro religioso fornito ai problemi più importanti. tutte le grandi idee che hanno guidato i tre secoli precedenti, in particolare il dogma del progresso, sono diventate obsolete» (XVI, p. 37). È in questa prospettiva che Maritain scrive le sue prime opere, da Antimoderno (1922) a Primato dello spirituale (1927). Berdjaev nella sua Autobiografia spirituale (1949) ricorda: «avevo conosciuto Maritain fin da quando mi ero stabilito a parigi, nel 1925, tramite la vedova di l. Bloy […]. Maritain è uno dei pochi francesi in cui ebbi ad osservare assenza di nazionalismo, faceva ogni sforzo per evadere dal campo della cultura latina e scoprire altri mondi, amava i russi, li preferiva ai francesi […]. durante i primi anni alcune riunioni in casa di Maritain lasciarono in me penosa impressione. Quelle discussioni intorno al tomismo mi mozzavano il respiro, tuttavia Maritain continuava a piacermi. non era un granché come oratore, non molto abile nel disputare, durante le discussioni mancava di prontezza, non sapeva improvvisare, controbattere, poteva farlo soltanto il giorno seguente. In ciò noi siamo notevolmente diversi: in me il pensiero scorre molto rapido, posso di colpo orientarmi, controbattere immediatamente […]. con l’andare del tempo il suo tomismo si fece meno intransigente e meno fanatico […]. Quanto a me avevo non poche prevenzioni nei confronti del tomismo e dell’ortodossia cattolica, e contro tutti quelli che avversano il modernismo […]. In me non c’è nulla di scolastico, io sono un libero pensatore, la mia formazione filosofica deriva da Kant e dalla filosofia tedesca»136. poi aggiunge: «Mai, nella mia filosofia, come nel corso della mia esistenza, ho accettato di assoggettarmi al potere di qualcosa di generale e di universalmente obbligatorio, che trattasse come proprio mezzo e strumento ciò che è individualmente personale e irripetibile. sono sempre stato a favore dell’eccezione e contro la regola. In questo senso, la problematica di dostoevskij e di Ibsen è stata la mia problematica morale»137. I due amici potevano incontrarsi sul piano dell’analisi storica, si scontravano sulla metafisica, ad incominciare dalla concezione della persona umana, che per Maritain è una sostanza, una realtà ontologica, mentre per Berdjaev non si può definire la natura della persona, che è vita e libertà, un’immagine di dio. si tratta di un’“antropologia cristologica”, tanto che Berdjaev scrive: 136 137

n. Berdjaev, Autobiografia spirituale, Jaca Book, Milano 2006, p. 296. Ibid., p. 98.

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IV. Incertezze e speranze

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«In cristo dio diventa persona e l’uomo stesso diventa persona»138, identificando la persona con l’uomo nuovo di san paolo e non confondendo teologia e filosofia. Maritain esprime un giudizio complessivo sulla filosofia di Berdjaev in un breve testo, Aspetti contemporanei del pensiero religioso, riconoscendo che «in Berdjaev il mistero della fede, e si tratta della fede operante nella ragione, occupa il posto centrale. Berdjaev non è un teologo come Barth, è un filosofo e tutta la sua opera si pone sul piano della filosofia cristiana, di una filosofia cristiana, che egli concepisce in modo diverso dal mio […]. so bene che i giudizi che egli dà sul tomismo sono spesso ingiusti e non penso affatto che sui primi principi della metafisica lui e io potremo mai giungere ad un accordo. Ma anche discutendo con lui si riceve sempre quel prezioso stimolo che proviene dall’assoluta sincerità dello spirito in cerca dell’essere. È nell’ordine della filosofia morale e sociale, e soprattutto della filosofia della storia che egli ci dà, con un sistema etico ricco di esperienze morali profonde, ma gravato da un irritante irrazionalismo, intuizioni concrete e feconde, che gettano luce su molti dei più urgenti problemi pratici del nostro tempo. Berdjaev è uno di coloro che pensano ancora nel loro cuore, uno dei testimoni della libertà cristiana» (VIII, pp. 25-26). secondo Maritain le riflessioni di Berdjaev sono più un filosofare nella fede che una filosofia razionale, perché mancano di una sicura concettualizzazione e non procedono con le necessarie articolazioni della logica filosofica. a questo riguardo Maritain scrive a Journet: «certamente Berdjaev è pieno di errori. Ma 1) un enunciato, una proposizione non hanno per lui il medesimo valore che hanno per noi, perché la sua filosofia resta avviluppata nelle fasce di una sorta di poesia profetica […]. 2) È per salvare la sua fede cristiana che egli annaspa, non sa come, tra i concetti e fa dire alla ragione qualsiasi cosa; in questo è proprio un russo» (24 aprile 1932). Berdjaev sostiene che la chiesa russa è più vicina all’essenza primordiale del cristianesimo, che ha più libertà, è più profetica, ma conclude: «la russia può aiutare l’occidente a superare la crisi e la decadenza dell’umanesimo, ma l’occidente può aiutare la russia a salvarsi dal collettivismo mostruoso, elemento morbido dell’oriente»139. Journet in una nota del trattato 138 cit. in n. Valentini, N. Berdjaev, in aa.VV., Enciclopedia della persona nel XX secolo, cit., p. 108. 139 n. Berdjaev, L’Idée religieuse russe, in «cahiers de la nouvelle journée», 8, p. 32.

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

La Chiesa del Verbo Incarnato fa una dettagliata analisi delle riflessioni teologiche di Berdjaev, concludendo che l’errore fondamentale del filosofo russo è il suo profetismo che «confonde le prime ispirazioni che sono del campo della profezia con le seconde ispirazioni che sono del campo della fede e della carità»140. Ma sul piano della filosofia della storia si possono riscontrare alcune convergenze, Maritain nella Storia della filosofia morale (57), a proposito di Marx e della sua scuola, fa suo un giudizio di Berdjaev: «Il marxismo è una filosofia della felicità e non dei valori. con i marxisti non è possibile parlare di una gerarchia dei valori, perché essi non ammettono il modo di porre il problema dei valori in sé. per essi esistono soltanto la necessità, l’utilità, la felicità»141 (XI, p. 680). nel valutare lo svilupparsi della filosofia Maritain riconosce con il filosofo russo che tutte le grandi filosofie moderne, comprese l’hegelismo e il marxismo, risentono dell’influenza della rivelazione giudeocristiana; anche se le verità cristiane «con il razionalismo hanno subito un processo di materializzazione» (XI, p. 1046). In Umanesimo integrale (26) riporta questo testo di Berdjaev riguardo Marx: «Ha ragione quando dice che la società capitalista è una società anarchica, dove la vita si consuma esclusivamente come un gioco di interessi particolari; niente di più contrario al cristianesimo» (VI, p. 344), rileva che nel comunismo è presente un elemento escatologico «che promette una liberazione totale e definitiva» (VI, p. 354) che non può dare. Maritain sottolinea che bisogna dare importanza alla vita spirituale degli uomini perché ci sono «avvenimenti che non hanno spazio nella storia, ma in quella che Berdjaev chiama metastoria» (IX, p. 1121), riconosce anche che «il cristianesimo è ordinariamente tradito dal comportamento dei cristiani» (IX, p. 701), il cui peccato di omissione è la causa di tanta ingiustizia nel mondo. con Berdjaev Maritain riconosce l’importanza dei dati teologici per comprendere gli avvenimenti della storia, ma, a differenza del filosofo russo, distingue con esattezza la teologia della storia, i cui fini riguardano la vita eterna, e la filosofia della storia, i cui fini riguardano la vita terrena, ed elabora una «filosofia morale adeguatamente presa» che tiene conto dei dati della rivelazione, ma li tratta filosoficamente 140 ch. Journet, L’Église du Verbe Incarné, Édition saint Maurice, saint Maurice (svizzera) 1999, vol. I, p. 288. cf. anche nota 45, pp. 288-291. 141 n. Berdjaev, Royaume de l’esprit et royaume de César, delachaux, paris 1951 p. 82.

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IV. Incertezze e speranze

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e non teologicamente (cf. Scienza e saggezza, con un chiarimento sulla filosofia morale [24]). l’influenza di Berdjaev su Maritain non si limita alla filosofia della storia, ma si estende ad altri campi del sapere, ad esempio alla filosofia dell’arte, quando accetta il giudizio del filosofo russo sul rinascimento. «Berdjaev assicura che un classicismo perfetto, cioè volere trarre dalla natura un’armonia interamente felice e appagante, è impossibile dopo l’agonia di cristo e la crocifissione. secondo lui il classicismo del rinascimento conserva, a sua insaputa, una piaga cristiana. penso che Berdjaev abbia ragione. Ma in Grecia è esistita la perfetta tranquillità classica? Una violenza misteriosa e cupa veniva ad assalire questo sogno, poiché anche in Grecia la natura umana era ferita e chiedeva la redenzione» (I, p. 781). c’è anche una certa influenza di Berdjaev nelle riflessioni sulla filosofia della natura, se Maritain nella presentazione della sua collana “les Iles” (1930) cita questa osservazione del filosofo russo: «l’organismo si distingue dal meccanismo perché in lui il tutto precede e determina le parti, mentre nel meccanismo è l’inverso che occorre» (V, p. 1076). entrambi recuperano il finalismo della filosofia classica e medievale, superando le posizioni del meccanicismo positivistico. Berdjaev nel suo misticismo rifiuta il tomismo di Maritain, ritiene che la chiesa cattolica abbia imbalsamato il cristianesimo e spento la libertà, ma con Maritain rileva l’apporto dell’ebraismo alla storia dell’umanità, perché riconosce «nel destino del popolo ebraico il punto di intersezione, l’incontro più violento dei destini celeste e terreno. perciò la filosofia del destino terreno dell’uomo può essere fatta incominciare dalla filosofia della storia ebraica e del destino del popolo ebraico»142. Il filosofo e poeta russo o. clément coglie con esattezza la radicale contrapposizione filosofica tra i due amici: «per Berdjaev il tomismo è un sostanzialismo diventato in realtà impossibile dopo la rivoluzione kantiana, tende a naturalizzare il mistero, a dare ai concetti religiosi un carattere pseudoscientifico e non riesce quasi a rendere conto del mistero della persona di cui fa una sostanza individuale, mentre essa trascende ogni sostanzialità»143. Berdjaev non ha compreso che per Maritain il tomismo è un realismo critico e una filosofia esistenziale, come non ha compreso la soggettività della 142

n Berdjaev, Il senso della storia, Jaca Book, Milano 1971, p. 74. o. clément, Berdjaev. Un philosophe russe en France, desclée de Brouwer, paris 1991, p. 889. 143

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

persona, che solo dio può conoscere, senza oggettivarla. Ma su questa avventura intellettuale lasciamo la conclusione ai due protagonisti. Maritain: «Berdjaev, la cui metafisica mi pare inaccettabile, ma le cui vedute sull’uomo e sulla storia sono molto profonde» (V, p. 426). Berdjaev dice di Maritain: «I suoi avversari conservatori gli rimproverano di subire la mia influenza malefica. Questo non è vero per la filosofia, ma può darsi che sia vero in relazione ai problemi sociali e politici. nel corso degli anni della nostra amicizia è molto cambiato, ma resta un tomista, che accosta i nuovi problemi al tomismo e il tomismo ai nuovi problemi»144. e poi di se stesso: «la mia filosofia ebbe sempre un carattere etico. Il pathos del dovere ebbe sempre la meglio sul pathos dell’essere […]. Ho sempre protestato violentemente contro la morale del dovere e difeso la morale del cuore»145.

5. Il personalismo Il nome risale al libro Il personalismo (1903) di renouvier, filosofo spiritualista di cui si è già parlato, che considera l’uomo un soggetto dotato di autocoscienza, centro autonomo, ed è usata dai principali protagonisti dell’esistenzialismo cristiano, come Marcel, le senne, lavelle, ma diventa un termine alla moda negli anni trenta con la rivista «esprit» di Mounier. nel 1947, ne La persona umana e il bene comune (43), Maritain scrive: «nulla sarebbe più falso che parlare del personalismo come di una scuola o di una dottrina. È un fenomeno di reazione contro due opposti errori, ed è un fenomeno inevitabilmente molto misto. non c’è una dottrina personalistica, ma ci sono aspirazioni personalistiche e una buona dozzina di dottrine personalistiche che non hanno talvolta in comune se non la parola “persona”, e delle quali alcune tendono più o meno verso l’uno degli errori contrari tra i quali sono situate. ci sono personalismi a tendenza nietzschiana e personalismi a tendenze proudhoniane, personalismi che tendono alla dittatura e personalismi che tendono all’anarchia. Una delle grandi preoccupazioni del personalismo tomista è di evitare l’uno e l’altro eccesso» (IX, p. 170). secondo Maritain il vero personalismo è quello di san tommaso, che della persona ha una concezione ontologica perché per garantire l’esserci 144 145

In «cahiers Jacques Maritain», 4-5, p. 48. n. Berdjaev, Autobiografia spirituale, cit., p. 97.

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IV. Incertezze e speranze

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della persona non basta una concezione morale come quella degli esistenzialisti o degli spiritualisti. In questo paragrafo considero il personalismo comunitario dei pensatori che si muovono intorno ad «esprit», dopo avere precisato che anche per Maritain la persona ha una dimensione sociale, un valore relazionale. la persona per il personalismo personalistico nasce nella relazione, cioè dalla relazione coniugale dei suoi genitori e da dio, che ne crea l’anima, ma non è la relazione, ha sua esistenza individuale al di là della relazione, perché è una sostanza individuale, dotata di libertà responsabile. È qui in gioco il concetto stesso di natura umana, che Maritain analizza con precisione concettuale, mentre nei personalisti non è sempre ben definito, con la conseguenza di risolvere la persona nella relazione sociale, con il prevalere del comunitario sul personalistico. tra i personalisti c’è una sorta di ostilità per la ricerca intellettuale, se Jean Lacroix146, uno dei fondatori di «esprit», nel 1972 intitola un suo libro Il personalismo come antiideologia e ritiene che il problema della persona sia più una protesta morale che una ricerca intellettuale.

Emmanuel Mounier Il più importante rappresentante del personalismo è Emmanuel Mounier147 che fonda e dirige la rivista «esprit», anima i gruppi che affiancano la rivista, e dai cui scritti si può trarre un’antropologia e un progetto politico bene strutturati. Maritain sostiene Mounier nella fondazione della rivista, poi se ne distacca quando la rivista comincia ad impegnarsi direttamente in politica, ma anche per motivi ideologici perché riscontra un certo eclettismo ideologico nelle col146

Jean lacroix (1900-1986), docente di filosofia, discepolo di Blondel, animatore delle settimane sociali di Francia. tra le opere: Persona e amore (1942), Marxismo, esistenzialismo, personalismo (1949), Il senso dell’ateismo moderno (1958). 147 emmanuel Mounier (1905-1950). allievo di Jacques chevalier, discepolo di Bergson, si laurea nel 1927 con una tesi su Il conflitto tra antropocentrismo e teocentrismo in Cartesio, insegna in diversi licei. tra le opere: Dalla proprietà capitalista alla proprietà umana (1934), Rivoluzione personalistica e comunitaria (1935), Manifesto del personalismo (1936), Personalismo e cristianesimo (1936), Trattato sul carattere (1946), Che cosa è il personalismo (1947), Il personalismo (1949). Oeuvres Complètes, Éditions du seuil, paris 1961-1963, 4 voll. cf., in italiano: una buona antologia a cura di M. Montani, Una rivoluzione esigente, elledici, torino 1985; M. toso - Z. Formella - a. danese (edd.), Emmanuel Mounier: Persona e umanesimo relazionale, las, roma 2005 (vol. 1), 2006 (vol. 2).

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

laborazioni. si può seguire questa relazione intellettuale attraverso la corrispondenza dei protagonisti e i loro scritti autobiografici148. la riflessione di Mounier, che si muove tra l’esistenzialismo di G. Marcel, la fenomenologia di e. Husserl e il tomismo di J. Maritain, e vorrebbe poter conciliare Marx e Kierkegaard, parte da una critica alla società borghese e, soprattutto, al capitalismo, che segna il primato del profitto sul lavoro. Mounier, il 13 marzo 1932, in una riunione a Meudon parla del problema della “proprietà” (XII, p. 332) e in seguito scrive un articolo sul diritto di proprietà per «esprit» inviandolo a Maritain, che gli risponde precisando: «a) i beni creati appartengono già a una persona che è dio, b) la ragione per cui il diritto di proprietà è individuale, è che la natura umana sussiste in persone, c) questo diritto è effettivamente di pertinenza della legge naturale o per lo meno dello ius gentium, d) san tommaso quando parla di proprietà non pensa ad una gestione in nome della collettività, né a una funzione speciale che ha in vista; per lui la natura umana esige l’appropriazione personale delle cose. È la libertà della persona che è in gioco, e) le giuste leggi (diritto positivo) debbono assicurare un minimo, per quanto possibile elevato, di uso comune e bisogna che dell’uso profittino tutti» (lettera all’inizio del 1934). Mounier segue i consigli di Maritain e raccoglie i suoi articoli in un volume, Dalla proprietà capitalistica alla proprietà umana, pubblicato nel 1934 da Maritain nella sua collana “Questions disputées”. Mounier ha fretta, vuole formulare una proposta operativa e l’anno dopo in Rivoluzione personalista e comunitaria elabora cinque principi: «1) la libertà attraverso la costrizione istituzionale […]. Il realismo consiste nell’inquadrare questa libertà con delle istituzioni che ne prevengano le tentazioni. Il capitalismo difende l’iniziativa e la libertà di alcuni con l’asservimento della maggioranza. 2) l’economia è al servizio dell’uomo […]. l’attività economica è quindi subordinata a un’etica dei bisogni. 3) Il primato del lavoro sul capitale. 4) Il primato del servizio sociale sul profitto. 5) primato della persona che si dispiega in comunità organiche»149. per Mounier non c’è solo il capitalismo economico della società borghese, ma c’è anche un capitalismo morale dei poveri, invidiosi dei ricchi, 148

p. Viotto, Emmanuel Mounier e la rivista Esprit, in Id., Grandi amicizie, cit., pp. 191-199. 149 e. Mounier, Oeuvres Complètes, cit., vol. I, pp. 274-176.

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IV. Incertezze e speranze

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che desiderano diventare anche loro ricchi, di conseguenza non basta cambiare le strutture sociali, occorre riformare le coscienze. l’antropologia di Mounier ruota intorno a tre dimensioni della condizione umana, perché l’uomo è un’unità coscienziale di singolarità e di universalità, di individuazione e di relazione, di concentrazione e di trascendenza. la persona è il volume totale dell’uomo. «È un equilibrio in lunghezza, larghezza e profondità, una tensione che inabita ogni uomo fra le tre dimensioni spirituali: quella che sale dal basso e la incarna in una carne; quella che si dirige verso l’alto e la solleva all’universale; quella che si dirige verso il largo e la porta verso una comunione. Vocazione, incarnazione, comunione: tre dimensioni della persona»150. l’incarnazione è essere in situazione, essere in equilibrio tra oggettività e soggettività, non solo di avere un corpo, ma di essere un corpo, di doversi costruire combattendo la propria individualità, perché «la mia persona non è il mio individuo maschera, che è quell’immagine imprecisa e cangiante che i diversi personaggi, tra i quali io oscillo, formano, accumulandosi l’uno sull’altro»151. l’incarnazione è essere in relazione, perché sono io se non di fronte al tu, e il noi, non è il “noi altri”, quasi un collettivo, ma un insieme di persone, una comunità. «Un noi organico, il noi, realtà spirituale, conseguente all’io, che non nasce dall’eclissi delle persone, ma dalla loro maturazione […] il mio me non è che il ricettacolo di particolarità più o meno impersonali, un semplice punto di incontro»152. la vocazione è essere in trascendenza, non semplice presenza a sé e agli altri, relazione orizzontale, ma risposta ad un altro, relazione verticale. la persona non si risolve nella coscienza, non si può definire concettualmente. Mounier formula diversi approcci, che possono essere riassunti in questa formula: «essa è una presenza in me»153. la maturazione della persona avviene attraverso la libertà, «ma la libertà non è inchiodata all’essere personale come una condanna, gli viene proposta come un dono, che si accetta o si rifiuta»154. occorre praticare tre esercizi formativi: «la meditazione, come ricerca della propria vocazione; l’impegno, come riconoscimento della propria incarnazione; la spogliazione, come iniziazione al dono di sé e al150

Ibid., p. 179. Ibid., p. 177. 152 Ibid., p. 191. 153 cit. in G. coq, Mounier Emmanuel, in aa.VV., Enciclopedia della persona nel XX secolo, cit., p. 707. 154 e. Mounier, Oeuvres Complètes, cit., vol. III, p. 480. 151

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la vita nell’altro. se la persona viene meno ad uno di essi decade»155. Questo processo di personalizzazione fatto di testimonianza, di impegno e di risposta non finisce mai, perché la trascendenza personale «è negazione di sé come mondo chiuso, sufficiente, isolato nel proprio scaturire […], è un movimento di essere verso l’essere ed è consistente solo nell’essere che ha di mira», movimento che si può riassumere nella formula «l’essere personale è la generosità»156. Mounier sente l’impegno sociale, vuole combattere il disordine stabilito dalla società borghese con una rivoluzione personalista che presenta come una terza via tra l’individualismo liberale e il collettivismo socialista, indicando come obiettivi «l’espulsione delle potenze del denaro, la soppressione del proletariato, l’installazione di una repubblica fondata sul lavoro, la formazione e l’accesso al potere di nuove élites popolari»157. si muove come Maritain a partire dalla filosofia politica di péguy, convinto che «la rivoluzione sarà morale o non sarà affatto»158, ma a differenza di Maritain non ha fiducia nella democrazia liberale tanto da scrivere che la rivoluzione personalista «in nessun caso si potrà realizzare con una democrazia parlamentare di tipo liberale e chiacchierona, ma dovrà scaturire organicamente da una democrazia reale, con strutture salde, che collaborano con un’autorità senza debolezza e fornita di mezzi eccezionali»159. la questione della rivoluzione personalista diventa oggetto di una Lettera aperta a Mounier di Paul Archambaud160, pubblicata su «l’aube» (21 gennaio 1934), che oppone al personalismo rivoluzionario il personalismo democratico161 e che recensisce il libro di Maritain Du régime temporel et la liberté (20) parlando di un programma democratico cristiano, quasi opponendolo al programma di Mounier. Maritain interviene con una lettera al direttore del giornale precisando che le sue riflessioni filosofiche non devono essere lette in chiave politica: «non è un buon metodo riportare sul piano delle attività di un partito ricerche che sono di un ordine più elevato […]. non ho alcuna intenzione di misconoscere i meriti dei 155

Ibid., vol. III, p. 430. cit. in G. coq, Mounier Emmanuel, cit., p. 713. 157 e. Mounier, Oeuvres Complètes, cit., vol. IV, p. 89. 158 e. Mounier, Oeuvres Complètes, cit., vol. I, p. 849. 159 e. Mounier, Oeuvres Complètes, cit., vol. IV, p. 113. 160 paul archambaud (1883-1950), professore di filosofia al collège sainte croix di neuilly, discepolo e commentatore di Blondel, fonda la rivista «la nouvelle Journée» nel 1914, che in seguito diventa «cahiers de la nouvelle Journée». 161 cf. anche l. sturzo, La démocratie et la révolution, in «l’aube», 13 febbraio 1934. 156

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IV. Incertezze e speranze

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cattolici sociali, né dei democratici cristiani, e se il mio pensiero si incontra con il loro su questo o quel punto, ne prendo atto volentieri. tuttavia debbo avvertire che si tratta di punti di vista molto differenti» (22 gennaio 1934). Maritain è vicino a Mounier, ne condivide l’ispirazione non le sue formulazioni, soprattutto non vuole essere coinvolto nelle contese tra i partiti politici, tanto che con Lettera sull’indipendenza (25) prende le distanze dalla rivista «esprit». ritenere che la filosofia di per se stessa debba trasformare la società «è un errore che svuota ogni libertà spirituale e ogni vera filosofia; da esso consegue che tutto il pensiero è coinvolto nel movimento stesso dell’azione transitiva e della dialettica del divenire, tutto intero immerso nella storia» (VI, p. 256). Il porsi del filosofo al di fuori dei partiti, la sua indipendenza davanti all’azione immediata da intraprendere, che esige una parte considerevole di tecnica e di arte, è tutto l’opposto dall’evasione e dalla fuga, perché «il filosofo ha una qualche utilità tra gli uomini solo se rimane tale» (VI, p. 257). Invece «esprit» è molto vicina al socialismo, lo riconosce anche Berdjaev, che in una recensione di Rivoluzione personalista e comunitaria scrive: «Mounier lega talmente la persona e la comunità che non vuole più dire io, ma deve dire noi. È molto vicino alla concezione della Sobornost del pensiero ortodosso. lui e i suoi amici si rivoltano contro l’anonimato. la società capitalista è anonima, la persona è cancellata, ma il comunismo è ancora più antipersonalistico. l’individualismo e il collettivismo sono due aspetti del medesimo male»162. Mounier non nega l’autonomia della persona, ma ne marca la comunitarietà, mentre per Maritain la persona non è una relazione sociale, ma è un valore per se stessa, nella sua individualità. Maritain si pone al di sopra delle contese partitiche, ma non si astiene dal prendere posizione, se queste coinvolgono principi fondamentali della democrazia e riguardano i diritti dell’uomo. da parte degli ambienti di destra si sviluppa una campagna contro Mounier e si tenta di far passare la rivista «esprit» come fosse il periodico belga «terre nouvelle», che inalbera come insegna un fucile, un martello e una croce. Maritain prende le difese di Mounier in una relazione al Vicario generale di parigi nel maggio del 1936. «In realtà “esprit” non ha nulla a che vedere con “terre nouvelle”, è una rivista di ricerca scientifica che, pur assumendo posizioni sociali di anticapitalismo e penetrando, malgrado molte opposizioni, negli ambienti rivoluzionari, combatte 162

n. Berdjaev, recensione in «put’», 49 (dicembre 1935), p. 90.

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

il comunismo e il marxismo, e così conserva al cristianesimo molti giovani attratti dal comunismo che senza di essa scivolerebbero da quella parte. Questa rivista non ha un’etichetta cattolica, non pretende di parlare a nome del cattolicesimo. essa né compromette, né infeuda il cattolicesimo come faceva il movimento “sillon”163. essa non costituisce una scuola […]. Il suo direttore Mounier è un cattolico dalla vita irreprensibile. se si possono riscontrare in “esprit” imprudenze, temerarietà di linguaggio, e talvolta qualche errore, come in tutte le riviste dei giovani, questi errori non sono sistemici, e la rivista è molto migliorata dalla sua fondazione. Una condanna di “esprit” avrebbe gravi conseguenze, produrrebbe un grande turbamento nelle coscienze di persone che si trovano in punti importanti della vita profonda francese, rischierebbe di gettare verso il comunismo un buon numero di giovani sconcertati; fornirebbe un’arma temibile nelle mani degli avversari della chiesa» (XVI, p. 934). a margine di tutte queste vicende politiche Mounier si interessa anche ai problemi dell’arte e incarica un gruppo di artisti, tra cui anche Gino severini164, di preparare un Manifesto del personalismo. esce un numero monografico di «esprit», nella cui introduzione Mounier scrive: «l’artista per troppo tempo ha creduto di poter giocare, senza contraddizioni e senza danno, questo doppio gioco: mettere la sua arte al servizio del mondo economico e delle sue caste, e rivendicare nel medesimo tempo un’indipendenza totale nel nome della filosofia ufficiale di questo mondo, l’individualismo; egli pensava di averne un diritto senza rischio, grazie alla ricchezza inespugnabile della sua ispirazione che, però, perdeva a poco a poco il desiderio stesso di comunicare […]. Il mondo del denaro è doppiamente ostile al mondo dell’arte: egli sterilizza e rigetta l’artista; egli sterilizza e allontana il pubblico. colui che resta fedele ad un’arte indipendente è a poco a poco condannato alla miseria e alla solitudine»165. non si tratta di considerare l’arte in funzione del pubblico, né tanto meno di farne un’arte per le masse, perché l’opera d’arte vale per se stessa, per la sua gratuità, ma bisogna re163

Il movimento e la rivista «le sillon» fondata nel 1894 da Marc sagnier voleva promuovere un’azione politica nello spirito dell’enciclica Rerum novarum di leone XIII, ma assunse atteggiamenti modernisti e si avvicinò ai socialisti. Il movimento fu condannato da pio X nel 1910 e si sciolse. 164 cf. Il carteggio Severini - Maritain (1923-1966), cit. 165 e. Mounier, Préface à une réhabilitation de l’Art et des Artistes, in «esprit», 25 (1° ottobre 1934), p. 6.

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IV. Incertezze e speranze

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cuperare i valori umanistici, sia nell’artista che nella società, perché è la persona che sta all’origine della creatività artistica e della fruizione estetica. Mounier precisa, e in questo atteggiamento è vicino alle posizioni di Maritain: «non si fa arte per il proletariato o per la rivoluzione non più di quanto si faccia arte per la borghesia. si fa arte per l’uomo e contro tutto ciò che asservisce o svalorizza l’uomo»166. Questo evidenziare la funzione sociale dell’arte non porta Mounier a trascurare il valore intrinseco dell’opera d’arte, perché è proprio attraverso il contenuto della creazione artistica che la soggettività dell’artista e la soggettività dello spettatore comunicano in uno scambio intellettuale. «l’artista – scrive Mounier – è insieme la parola dell’universo segreto e la parola degli uomini del suo tempo. Intermediario tra l’uno e l’altro, giammai interamente d’accordo con l’uno o con l’altro, egli deve, tuttavia, tendere a questa doppia relazione con l’universo e con gli uomini, e se è possibile a stabilire fra loro un’intesa»167. concludendo si può dire che tra Maritain e Mounier c’è stata una collaborazione feconda sulla base della stima reciproca e nella comune intenzione di promuovere nella storia il fermentare del lievito del Vangelo, anche se ci sono state incomprensioni per il diverso approccio ai problemi, in Maritain più filosofico che politico, in Mounier più pratico che teoretico. Ma in entrambi la visione dell’uomo e del suo destino si è sviluppata in coerenza all’ispirazione cristiana e ad un realismo filosofico, perciò guardando all’insieme dei loro scritti si potrebbe dire che in Mounier prevale l’intuizione e in Maritain il discorso razionale, ciò che nel primo è in un abbozzo sincretico nel secondo si ritrova nella precisione analitica delle definizioni concettuali. a ben guardare è proprio nel diverso modo espressivo che si sono differenziati, ed è più facile e gratificante leggere Mounier che seguire Maritain nelle sue argomentazioni filosofiche, ma entrambi concordano nel primato dello spirituale sul temporale. nel 1966, commentando la costituzione pastorale Gaudium et Spes sulla chiesa nel mondo contemporaneo del concilio Vaticano II, dopo avere rilevato l’importanza della centralità della persona, si attribuisce, congiuntamente a Mounier, il merito di avere per primi portato l’attenzione sulla persona: «Mi sia concesso di fare qui un’osservazione. Grazie soprattutto a e. Mounier l’espressione per166 167

Ibid., p. 9. Ibid., p. 12.

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

sonalista e comunitario è diventata una torta alla crema per il pensiero cattolico e la retorica cattolica francese. Io stesso non sono in questo esente da responsabilità. In un’epoca in cui era importante opporre agli slogan totalitari un altro slogan, ma vero, avevo sollecitato le mie cellule grigie e finalmente lanciato in uno dei miei libri di allora quell’espressione, e penso che Mounier l’avesse presa da me. essa è esatta, ma a vedere l’uso che se ne fa adesso, non ne sono molto fiero. Infatti, dopo aver pagato un debito al personalista è chiaro che tutte le simpatie vanno al comunitario» (XII, p. 736).

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Paul Ricoeur Questo slittamento dal personalista al comunitario, cioè dall’umanesimo integrale all’umanesimo relazionale, non è da attribuirsi solo a Mounier, ma anche ai suoi successori, in particolare a paul ricoeur, per la cui filosofia il vivere bene consiste nel sentire “se stesso come un altro”. per Maritain, invece, la persona è una realtà ontologica, una sostanza individuale, è in relazione, ma non è la relazione. Paul Ricoeur168, che approda al personalismo dalla fenomenologia e dall’ermeneutica, considera la persona come una realtà indefinibile, perché per nominarla siamo costretti ad usare espressioni diverse e tra loro contraddittorie, come io, soggetto, personalità, coscienza, autocoscienza, individuo, per cui in Muore il personalismo, ritorna la persona scritto nel 1983 in occasione del cinquantenario di «esprit», recupera la persona, «concetto sopravvissuto e resuscitato», non come sostanza ma come la dimora (foyer) di molte attitudini, come impegno di relazione (engagement), come carica progettuale, come fedeltà ad una causa, quindi più sul versante del volere che dell’intelligere, per cui l’esperienza umana originale sarebbe un’eidetica della volontà. ricoeur parte dai tre maestri del sospetto – Marx, nietzsche, Freud –, che considerano la scienza cartesiana una falsificazione, perché risolve il conoscere nella coscienza, mentre i vari condizio168

paul ricoeur (1913-2005) partecipa ai “Venerdì” di G. Marcel e stringe amicizia con Mounier. Fa parte della direzione di «esprit». traduce Husserl, viene nominato docente a strasburgo, in seguito è chiamato alla sorbona, che abbandona nel 1968 per nanterre; tiene corsi anche in diverse università americane. tra le opere: La filosofia della volontà (1950), Storia e verità (1955), La metafora viva (1975), Tempo e racconto, in tre volumi (1983-1985), Sé come altro (1990).

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IV. Incertezze e speranze

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namenti economico-sociali e psicologico-inconsci interferiscono sul sapere. a questo riguardo si impegna in un’analisi del linguaggio. rileva che i segni del linguaggio non sono solo un mezzo di comunicazione fine a se stessa, come ritiene la linguistica, ma rimandano a simboli che hanno una pluralità di referenti trascendenti religiosi, mitici e poetici, propri dell’inconscio e che diventano oggetto di un’interpretazione ermeneutica. la metafora è viva, non rimanda da un segno ad un altro segno, è un linguaggio di rivelazione che suggerisce nuove interpretazioni. l’analisi di ricoeur passa dal segno sensibile al simbolo psicologico, ma non giunge al significato intelligibile, si ferma alla veracità, non cerca la verità, allude ma non trova. siamo ancora di fronte al pensiero debole, non si riconosce all’intelligenza la capacità di cogliere l’intelligibilità dell’essere. lo documenta anche un’intervista fatta da Bernard révillon nel 1999. alla domanda «che cosa può fare la nostra ragione umana di fronte alla questione dell’esistenza di dio?», il filosofo risponde: «credo che si debba tenere aperta la questione del rapporto tra fede e ragione. Ma certo l’approccio va fatto con umiltà e con una certa riserva. personalmente, non mi arrischierei, al termine della mia riflessione filosofica, a usare la parola “dio” in modo tematico. tutt’al più il filosofo può evocare un fondamento, un assoluto, un’origine»169. la filosofia in quanto tale non può dire dio, ma essa nella circolarità aperta del suo discorrere si apre all’ascoltabile: la fede. ricoeur in una delle ultime sue opere, La natura e la regola (1998), presenta così la sua ricerca: «ritengo di appartenere a una delle correnti della filosofia europea, che si lascia essa stessa caratterizzare da una certa diversità di etichette: filosofia riflessiva, filosofia fenomenologica, filosofia ermeneutica. riguardo al primo termine – riflessiva –, l’accento è posto sul movimento attraverso il quale la mente umana tenta di recuperare la propria capacità di agire, di pensare, di sentire, capacità in qualche modo nascosta, perduta, nei saperi, nelle pratiche, nei sentimenti che l’esteriorizzano rispetto a se stessa […]. Il secondo termine – fenomenologica – designa l’ambizione di andare alle “cose stesse”, cioè alla manifestazione di ciò che si mostra all’esperienza, priva di tutte le costruzioni ereditate dalla storia culturale, filosofica, teologica; questo intento, diversamente dalla corrente riflessiva, porta a mettere l’accento sulla dimensione intenzionale della vita 169 Intervista pubblicata in Paul Ricoeur: la logica di Gesù, testi a cura di e. Bianchi, edizioni Qiqajon, comunità di Bose 2009, p. 137.

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

teorica, pratica, estetica, ecc. e a definire ogni tipo di coscienza come “coscienza di…”. riguardo al terzo termine – ermeneutica –, ereditato dal metodo interpretativo applicato in un primo tempo ai testi religiosi (esegesi), ai testi letterari classici (filologia) e ai testi giuridici (diritto), l’accento è posto sulla pluralità delle interpretazioni legate a ciò che si può chiamare la lettura dell’esperienza umana. sotto questa terza forma la filosofia mette in questione la pretesa di ogni altra filosofia di essere priva di presupposti. I maestri di questa terza tendenza si chiamano dilthey, Heidegger, Gadamer». Maritain non ha avuto modo di scrivere su ricoeur, ho solo trovato questa annotazione ne Il contadino della Garonna (61), quando elencando i filosofi che hanno interessato il suo lavoro, parlando di Husserl annota: «Ho del rispetto intellettuale anche per alcuni dei suoi discendenti, particolarmente per Heidegger e nel nostro paese per uomini come paul ricoeur (del quale tuttavia sono lontano dal fidarmi)» (XII, p. 802).

6. la nuova scolastica non dedico molto spazio alla nuova scolastica, e non riprendo i contribuiti originali di Jacques Maritain170 alla tradizione tomista, perché sono rintracciabili nelle analisi delle diverse correnti di pensiero (l’intuizione dell’essere, la distinzione tra scienza e saggezza, la filosofia morale adeguatamente presa, la conoscenza per connaturalità, l’intuizione creativa nella poesia e nell’arte, la filosofia della democrazia, l’epistemologia delle scienze umane)171. Faccio riferimento solo marginalmente ai dibattiti teologici in cui Maritain è stato coinvolto, avendone trattato diffusamente nel volume già citato Grandi amicizie: i Maritain e i loro contemporanei. Utilizzo le note bio-bibliografiche sia pure succinte, per segnalare autori e opere di questa corrente di pensiero trascurata nelle storie della filosofia, scritte da pensatori, laici che non si accorgono che la nuova scolastica non è una ripetizione del pensiero medievale, bensì una sua continuazione in dialogo con la filosofia contemporanea. 170 per la biografia di Jacques Maritain cf. la Nota bibliografica, in p. Viotto, Dizionario delle opere di Jacques Maritain, città nuova, roma 2003, pp. 13-23 e la Nota bibliografica, anno per anno, in p. Viotto, Dizionario delle opere di Raïssa Maritain, cit., pp. 13-41. 171 per una visione organica del pensiero cf. p. Viotto, Introduzione a Maritain, laterza, Bari-roma 2000.

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IV. Incertezze e speranze

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due fatti storici sono all’origine della nuova scolastica: la fondazione della rivista «la civiltà cattolica» nel 1849 ad opera della compagnia di Gesù e la lettera enciclica Aeterni Patris di leone XIII (1879) che raccomanda alle scuole cattoliche di studiare la filosofia di san tommaso. In quest’opera vanno segnalati il collegio alberoni di piacenza, il collegio romano dei padri gesuiti e gli studi domenicani di napoli, roma, Bologna. sorsero poi diversi istituti di filosofia nelle università cattoliche e furono fondate numerose riviste, tuttora attive, che elenco nella successione cronologica del primo anno di edizione: «divus thomas» (1880), fondata dai domenicani a Bologna; «revue thomiste» (1892), fondata dai domenicani a toulouse; «revue néo-scolastique de philosophie» (1894), fondata da d. Mercier a lovanio in Belgio; «rivista di filosofia neoscolastica» (1909), fondata da a. Gemelli a Milano; «ciencia tomista» (1910), fondata dai domenicani a salamanca in spagna; «angelicum» (1924), della pontifica Università san tommaso di roma; «nova et vetera» (1926), fondata da ch. Journet a Friburgo in svizzera; «the new scholasticism» (1927), fondata dalla american catholic philosophical association a Baltimora negli Usa; «the thomist» (1939), fondata dai domenicani a Washington negli Usa; «revista portuguesa de filosofia» (1945), dell’Università cattolica del portogallo, fondata dai padri gesuiti a Braga; «roczniki filozoficzne» (1948) dell’Università cattolica di lublino in polonia; «aquinas» (1958) della pontificia Università lateranense in roma; «studium» (1998), fondata dai domenicani a tucumân in argentina. sovente queste riviste hanno numeri monografici: ne ho trovati una ventina dedicati a Maritain172. l’iniziatore della nuova scolastica, Désiré Mercier173, filosofo e teologo all’Università cattolica di lovanio in Belgio nel 1882, fonda la cattedra di filosofia tomista rivalutando il realismo contro il neocriticismo kantiano e il neopositivismo dominanti la cultura europea. Maritain nel 1931 pronuncia il discorso per l’inaugurazione del suo monumento (IV, pp. 1172-1179) mettendo in evidenza come Mercier abbia saputo raccordare la scienza e la filosofia e come non abbia separato la ricerca intellettuale e la vita spirituale. del gruppo 172

d. Gallagher - J.l. allard - p. Viotto - B. Hubert, Bibliographie sur Jacques et Raïssa Maritain, roma 1997. 173 désiré Mercier (1851-1926), docente a lovanio, nel 1894 fa ripartire le pubblicazioni della «revue néo-scolastique» in seguito denominata «revue de philosophie de louvain». tra le opere: diversi volumi di un Corso di filosofia.

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

di lovanio, Maritain fa riferimento allo storico Maurice De Wulf174, citando la sua Storia della filosofia medievale, e al pedagogista fiammingo Frans De Hovre175, per il cui Saggio di filosofia pedagogica scrive una prefazione (III, 1406-1412) sottolineando come l’educazione non può essere neutra, perché implica sempre un riferimento ai valori: «ogni pedagogo adora un dio: spencer la natura, comte l’umanità, rousseau la libertà, Freud il sessuale, durkheim e dewey la società, Wundt la cultura, emerson l’individuo. oppure tutto si riduce ad adattarsi al fanciullo e a lasciar fare in tutto alla natura, il che significa negare la pedagogia. In verità, se il mondo moderno è tanto impregnato di pedagogia non è perché egli abbia fatto in questo campo delle scoperte straordinarie: è perché, come dice chesterton (spesso e felicemente citato da de Hovre), l’uomo moderno ha perso il suo indirizzo: egli non sa dove abita né dove va; è senza dubbio per questo che si occupa tanto degli altri» (III, p. 1409). I Maritain vennero a contatto con il pensiero tomistico grazie al domenicano, Humbert clérissac, che nel 1910 consigliò loro di leggere la Summa theologica; in Francia, allora, la filosofia scolastica era sostenuta da Émile Peuillaube176, come ricorda raïssa: «padre peillaube, che aveva simpatizzato con Jacques, era impegnato lui stesso in quell’epoca in grandi lotte intellettuali all’Istituto cattolico di parigi, dove l’insegnamento della filosofia era fino allora collegato con la facoltà di lettere […] ottenne con la sua perseveranza e la sua abile ostinazione la creazione di una facoltà speciale dedicata interamente alla filosofia, in cui lo studio di san tommaso doveva occupare il primo posto. nella stessa epoca aveva fondato la “revue de philosophie”, che era pubblicata dall’editore Marcel rivière; costui era anche l’editore di Georges sorel e dirigeva una libreria socialista. sorel, che seguiva tutti gli indizi di nuove di pensiero, gli aveva detto un giorno: “Fate attenzione a quei tomisti di cui ancora 174

Maurice de Wulf (1867-1947), docente a lovanio e poi ad Harvard. tra le opere: Studi storici sull’estetica di san Tomnmaso (1896), Storia della filosofia medievale (1900 e successive edizioni), L’opera d’arte e il bello (1920). 175 Frans de Hovre (1884-1956), pedagogista e storico della pedagogia, rivaluta il personalismo in opposizione al naturalismo di spencer e alla socialpedagogia di dewey. tra le opere: L’etica e la pedagogia morale di Foester (1913), Saggio di filosofia pedagogica (1924), Il cattolicesimo, i suoi pedagogisti e la sua pedagogia (1929). 176 Émile peuillaube (1864-1934), docente di psicologia e decano della Facoltà di filosofia dell’Institut catholique di parigi, nel 1910 fonda la «revue de philosohpie». tra le opere: Teoria dei concetti, esistenza origine, valori (1895), Iniziazione alla filosofia di san Tommaso (1926).

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IV. Incertezze e speranze

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nessuno parla e che si agitano per restaurare l’intelligenza cattolica; hanno speranze buone per l’avvenire”» (XIV, p. 1014). così è grazie ai socialisti che san tommaso incomincia ad essere conosciuto fuori dai conventi. peuillaube invita Maritain a tenere una serie di conferenze su Bergson e la filosofia moderna, poi nel 1914 lo chiama alla cattedra di storia della filosofia. nel 1930 Maritain tiene la conferenza per commemorare i trent’anni della «revue de philosophie» (IV, pp. 1154-1164). I Maritain fondano nel 1922 i circoli tomisti e ne affidano la direzione spirituale a padre Réginald Garrigou-Lagrange177, la cui conoscenza del pensiero di san tommaso è una garanzia. Maritain ricorda che, quando Pierre-Thomas Dehau178, a causa della sua quasi cecità, aveva bisogno che gli leggessero i testi, durante il noviziato, Garrigou-lagrange gli lesse in latino tutta la Summa theologica. l’opera del 1932 I gradi del sapere (17) ha numerosissimi rimandi a Garrigou-lagrange, poi questa amicizia intellettuale si guasta per motivi politici perché Garrigou-lagrange consiglia Maritain di non collaborare con la rivista «esprit» e di non interessarsi di politica179. Maritain scrive a Journet: «sento in quel che mi scrive la sua amicizia vera e profonda, ma non credo che veda esattamente le cose, ha troppa pusillanimità davanti all’opinione degli uomini. per di più non comprende che gli obblighi di un filosofo laico non sono quelli di un teologo religioso. occuparsi dei problemi della vita civile è un compito specifico del filosofo. e se i filosofi cristiani trascurano di compiere questo loro dovere, a loro rischio e pericolo, è il cristianesimo, sono le anime che pagheranno questa negligenza» (30 dicembre 1935). la rottura si verifica quando esce Umanesimo integrale (26)180; tra i due rimane l’amicizia, la perfetta condivisione intellettuale a livello teoretico riguardante la gnoseologia e la metafi177 réginald Garrigou-lagrange (1877-1964), domenicano francese, docente di filosofia in Belgio poi all’angelicum a roma. tra le opere: Dio, la sua esistenza, la sua natura (1914), Il senso comune, La filosofia dell’essere (1922), Perfezione cristiana e contemplazione (1923). 178 pierre-thomas dehau (1870-1956), domenicano che a parigi segue un gruppo di giovani intellettuali, tra cui Julien Green, stanislas Fumet, Jacques Froissart. nel 1914, alla morte di padre Humbert clérissac, diventa il direttore spirituale di raïssa Maritain. due suoi nipoti, thomas philippe e Marie-dominique philippe, entrano nell’ordine domenicano. 179 p. Viotto, Garrigou-Lagrange, comprensioni e incomprensioni, in Id., Grandi amicizie, cit., pp. 122-126. 180 p. Viotto, La polemica su Umanesimo integrale, in ibid., pp. 140-147.

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

sica, ma il teologo non comprende e non condivide la proposta che Maritain va elaborando per distinguere, senza separare, religione e politica e garantire nella laicità dello stato l’impegno dei cristiani. Un altro domenicano che sviluppa il pensiero tomistico, distinguendo ricerca intellettuale e apologetica, filosofia e mistica, è Ambroise Gardeil181, con delle riflessioni, che Maritain tiene presenti nelle sue ricerche su sant’agostino e san Giovanni della croce. riporta questo testo: «Il bue muto ha divorato tutta la sostanza spirituale dell’aquila di Ippona […] ne ha fatto, come per aristotele, la sostanza del suo spirito» (V, p. 811). Maritain nell’appendice quinta de I gradi del sapere (17) fa un’analisi critica formulando alcune precisazioni concettuali (IV, pp. 1063-1075) e stende anche la prefazione al suo volume La vera vita cristiana (V, pp. 1111-1112). Maritain fa qualche riferimento alla nuova scolastica in Italia, è presente alla settimana di studi tomistici di roma del 1923 e rileva la netta opposizione dei filosofi tomisti all’idealismo di croce e Gentile tanto che annota: «Il prossimo grande conflitto filosofico sarà senza dubbio il conflitto con l’idealismo, denunciato eloquentemente a riguardo della metafisica da Mariano Cordovani182, con un realismo niente affatto ingenuo ma profondamente elaborato e solidamente critico» (II, p. 1249). nel 1931 tiene tre lezioni all’Università cattolica di Milano e in un’intervista rilasciata a «l’avvenire d’Italia» (XVI, pp. 425-431) ricorda Agostino Gemelli183, rettore dell’Università, e i tre protagonisti della rinascita tomista Francesco Olgiati184, Emilio Ciocchetti185 e Amato Masnovo186, che caratterizzarono l’inizio di questa avventura culturale (XVI, p. 429). più 181 ambroise Gardeil (1859-1931), cofondatore della «revue thomiste», critica Blondel per la confusione tra il piano della natura e il piano della soprannatura. tra le opere: La credibilità e l’apologetica (1908), La struttura dell’anima e l’esperienza mistica (1927). 182 Mariano cordovani (1883-1950), domenicano, teologo pontificio dal 1936 al 1950. tra le opere: importante la trilogia Il Rivelatore, Il Salvatore, Il Santificatore (1945-1946). 183 agostino Gemelli (1878-1959). laureato in medicina, agnostico socialista, si converte e diventa frate francescano, fonda l’Università cattolica a Milano nel 1921 e si dedica a studi di psicologia. 184 Francesco olgiati (1886-1962), docente di storia della filosofia. tra le opere: le monografie Berkeley (1924), Leibniz (1929), Cartesio (1937), Benedetto Croce (1953). 185 emilio ciocchetti (1867-1931), studioso della filosofia di Giovanni Gentile, fa conoscere a tullio Garbari gli scritti di Maritain. 186 amato Masnovo (1880-1955), docente di storia della filosofia medievale che riassume nei tre volumi Da Guglielmo d’Auvergne a Tommaso d’Aquino (1930-1945).

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IV. Incertezze e speranze

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frequenti sono i riferimenti a Cornelio Fabro187, soprattutto nella corrispondenza con Journet, dove sviluppa un’analisi approfondita delle sue posizioni che sono vicine alle sue e a quelle di Gilson nell’intendere il tomismo come esistenzialismo. In una lettera a Vittorino Veronese per la XIX settimana sociale dei cattolici Italiani ricorda anche Giuseppe toniolo (VIII, pp. 1123-1124). In Germania la nuova scolastica stenta ad affermarsi, Maritain segnala solo due nomi: il gesuita Joseph Kleutgen188, sui cui testi ha studiato (XII, p. 848), e Martin Grabmann189 (IV, p. 1129), poi Brentano che, come abbia visto, volge la filosofia tedesca verso la fenomenologia. In spagna continua la tradizione della seconda scolastica, in particolare nell’Università di salamanca, ma in maniera tradizionalista senza entrare in dialogo con la modernità. Il più importante rappresentante, Santiago Ramirez190, si trova in conflitto con Maritain su diversi punti, in particolare sulla natura della filosofia cristiana. In Inghilterra, dominata dalla cultura empirista, la nuova scolastica non ha spazio. John Henry newman si muove nell’ambito dello spiritualismo, invece trova fecondi sviluppi in america, sia in canada che negli stati Uniti, sia nei paesi sudamericani, come il Brasile, il cile, l’argentina. Maritain ha avuto un’esperienza diretta della situazione nordamericana191, e in un’intervista ne parla diffusamente: «della rinascita della metafisica, e in particolare del tomismo, il merito è da attribuirsi da una parte alla Scuola di Chicago, con il presidente Robert Hutchins192, e l’eloquente, brillante, sottile professor Mortimer adler (che non sono cattolici), e dall’altra parte alla Scuola 187

cornelio Fabro (1911-1995), docente a roma e a perugia, traduce in italiano i tre volumi del Diario di Kierkegaard (1948-1951). tra le opere: La fenomenologia della percezione (1941), Dall’essere all’esistente (1957), Tomismo e pensiero moderno (1969), Introduzione a san Tommaso (1983), L’enigma Rosmini (1988). 188 Joseph Kleutgen (1811-1883), gesuita tedesco, docente alla Gregoriana, collabora all’estensione dell’enciclica Aeternis Patris. tra le opere: La filosofia antica esposta e difesa (1863-1864), La teologia antica esposta e difesa (1867-1874). 189 Martin Grabmann (1875-1949), docente a Vienna e a Monaco. tra le opere: Storia della scolastica (1909-1911, 2 voll.), San Tommaso (1912), La vita intellettuale nel Medioevo (postumo, 3 voll.). 190 santiago ramirez (1891-1967), docente a Friburgo e poi a salamanca. l’opera omnia in 40 volumi è in corso di edizione. cf. p. Viotto, Santiago Ramirez e il problema della filosofia morale, in Grandi amicizie, cit., pp. 33-37. 191 cf. F. Michel, La pensée catholique en l’Amerique du nord, desclée, paris 2010. 192 robert Hutchins (1899-1977), rettore della chicago University e presidente del centre for the study of democratic Institutions. tra le opere: L’università di utopia (1953). In italiano: l’antologia Educazione alla libertà, la nuova Italia, Firenze 1963.

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

di Toronto, che è cattolica. Faccio riferimento al movimento che ha per centro l’istituto di studi medievali fondato da Étienne Gilson e presieduto da Gerard B. phelan». poi aggiunge: «da qualche anno l’Università di notre dame, nell’Indiana, fornisce un contributo importante, e attualmente in pieno sviluppo, alla rinascita degli studi tomistici» (VII, pp. 1083-1085). Maritain e il suo discepolo e amico Y. simon insegnano in questa università dove, dopo la morte del filosofo, è sorto il Jacques Maritain center per conservare i suoi manoscritti, la sua corrispondenza e per raccogliere la bibliografia sulla sua opera. Mortimer Adler193 conosceva aristotele e san tommaso prima di conoscere Maritain, ma l’incontro con il filosofo francese gli permette di approfondire la sua riflessione, come scrive nella prefazione di Arte e prudenza: «Il mio debito verso Maritain è così manifestamente dimostrato da questo stesso libro, che non posso che aggiungere il piacere di riconoscerlo. più che i principi sul quale il libro si basa, gli devo la comprensione di ciò che significa lavorare nella tradizione della filosofia perenne». Maritain dialoga con il canadese Gerald Bernard Phelan194 su diverse questioni, ad esempio nel volume Sette lezioni sull’essere (21), che gli ha dedicato, e accetta la sua formula l’essere è l’essere per esprimere il principio di identità. poi commenta: «È questa la sua formula preferita e io penso che sia un’opinione molto valida. spiegata bene, tale formula appare ampiamente comprensiva. L’essere è l’essere vuol dire prima di tutto: ogni cosa è ciò che è; ma vuole anche dire (e questa volta il predicato e l’affermazione si trovano dalla parte dell’atto esistenziale): ciò che esiste, esiste. tautologia? tutta una metafisica è latente in questa formula: ciò che è posto fuori delle sue cause esercita un’attività, un’energia che è l’esistenza stessa; esistere vuol dire tenersi ed essere tenuto fuori dal nulla, l’esse è un atto, una perfezione, la perfezione suprema, un fiore luminoso in cui si affermano le cose» (V, p. 624). come si può notare, Maritain inclina questa affermazione, che condivide, verso l’actus essendi, per 193 Mortimer adler (1902-2001), docente alla columbia University. tra le opere: Arte e prudenza (1937), San Tommaso e i Gentili (1938), L’idea di libertà (1958), L’evoluzione della specie, con un’introduzione di Maritain (1958). In italiano: Educare all’ascolto, la scuola, Brescia 1988. nel 1940 pubblica in Scholasticism and Politics le nove conferenze che Maritain ha tenuto nel 1938 durante il suo primo viaggio in america. 194 Gerald Bernard phelan (1892-1965), fondatore, con É. Gilson, a toronto del pontifical Institut of Mediaeval studies. tra le opere: Il concetto di bellezza in san Tommaso (1967).

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IV. Incertezze e speranze

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evitare ogni possibile sospetto di essenzialismo, perché l’essere include l’esistenza. d’altra parte il principio di identità ha un valore ontologico, l’essere è l’essere in se stesso, non perché a livello logico A è A. anche la morale si fonda sulla ragione e Maritain cita questo testo di phelan: «la condotta umana è, per sua stessa natura, una condotta razionale, altrimenti non è una condotta umana» (VIII, p. 1037). Quando nel 1959 phelan viene premiato dall’american catholic philosophical association Maritain pronuncia un discorso (X, pp. 1114-1119).

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Étienne Gilson Ma al di là di questi gruppi di filosofi che sono attivi nelle Università cattoliche, la rinascita della filosofia scolastica e del tomismo è dovuta agli studi di storia della filosofia medievale di Étienne Gilson195 che riabilita il pensiero medievale nelle Università statali e lavora in parallelo con Maritain per fondare una filosofia cristiana distinta dalla teologia196. l’importanza di Gilson non riguarda solo la storiografia perché anche lui sviluppa una filosofia esistenziale radicata nell’intuizione dell’essere e sa raccordare la filosofia classica alla filosofia moderna, come rileva Maritain nella prefazione ad un volume collettaneo in onore del filosofo (IX, pp. 1201-1203). «Gilson deve molto a Bergson e a cartesio. che soddisfazione potere pensare ai servizi che a malincuore il vecchio cartesio ha reso a questo nemico del cogito! se egli non avesse incominciato con lo scrutare la genesi dell’idealismo vivisezionando i testi di cartesio e della scolastica dell’età barocca, dubito che Gilson avrebbe ora scritto il suo grande libro L’essenza e l’esistenza» (IX, p. 1202). 195

Étienne Gilson (1884-1978), docente alla sorbona, al collège de France, in canada dà vita all’Institute of Mediaeval studies. accademico di Francia dal 1946. tra le opere: Il tomismo (1919 e successive edizioni), La filosofia medievale (1922), La filosofia di san Bonaventura (1924), Introduzione allo studio di sant’Agostino (1929), Lo spirito della filosofia medievale (1932), Il realismo metodico (1936), Cristianesimo e filosofia (1936), Realismo tomista e critica della conoscenza (1939), L’essere e l’essenza (1948), Giovanni Duns Scoto (1952), Introduzione alla filosofia cristiana (1960), La filosofia e la teologia (1960). su di lui: l.K. shooh, Étienne Gilson, Jaca Book, Milano 1991; M. Grosso, Alla ricerca della verità: la filosofia cristiana in É. Gilson e J. Maritain, città nuova, roma 2006. 196 cf. p. Viotto, Étienne Gilson, un’amicizia nella ricerca della verità, in Id., Grandi amicizie, cit., pp. 37-45. Inoltre É. Gilson - J. Maritain, Correspondance 1923-1971, a cura di G. prouvost, Vrin, paris 1991.

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

Maritain e Gilson concordano nel precisare che la filosofia procede con la sola ragione, ma che esiste uno “stato cristiano” della filosofia per gli apporti che la rivelazione cristiana ha fornito al filosofare. «di fatto, storicamente, Gilson ha ben ragione nell’affermare che grazie alla rivelazione cristiana, e perché essa ha avuto orecchie per intendere, la filosofia è stata costituita in uno stato cristiano, e ha manifestato dei caratteri esplicitamente cristiani» (VI, p. 98). Ma resta filosofia perché procede con la sola ragione, anche se utilizza, filosoficamente, dati forniti dalla fede, come Gilson significa con l’espressione “rivelazione generatrice di ragione” (V, p. 247), precisando: «I due ordini restano distinti anche se la relazione che li unisce è intrinseca» (V, p. 255). Un nodo centrale della ricerca di Gilson riguarda la metafisica, l’atto di esistere, l’intuizione dell’essere. Maritain precisa: «l’essere non è un universale; la sua ampiezza infinita, la sua sovrauniversalità, per così dire, è quella di un oggetto di pensiero implicitamente molteplice, che inerisce in modo analogico a tutte le cose, e scende nella sua irriducibile diversità nel più intimo di ciascuna; non è soltanto ciò che esse sono, ma anche il loro stesso atto di esistere. c’è un concetto dell’esistenza: in esso l’esistenza è intesa ut significata, come significata allo spirito, e al modo di un’essenza, pur non essendo un’essenza. la metafisica non verte sul concetto di esistenza; nessuna scienza si arresta al concetto, ma tramite questo, ogni scienza attinge la realtà! la scienza dell’essere verte non sul concetto di esistenza, ma sull’esistenza in se stessa. e quando tratta dell’esistenza (e ne tratta sempre, almeno in un certo modo), il concetto di cui fa uso non le mostra un’essenza, ma, secondo l’espressione di Gilson, ciò che ha per essenza di non essere un’essenza: l’atto di esistere… la metafisica usa il concetto di esistenza per conoscere una realtà che non è un’essenza, ma l’atto stesso di esistere» (IX, pp. 41-42). ora, questo atto di esistere riguarda in primo luogo dio. Gilson scrive: «per capire la posizione di san tommaso su questo punto decisivo è necessario ricordarsi del ruolo privilegiato che attribuisce all’esse nella struttura del reale. per lui ogni cosa possiede il proprio atto di esistere; diciamo piuttosto: di reale non ci sono che gli atti distinti di esistere, in virtù di ciascuno dei quali una cosa distinta esiste. occorre dunque porre, come principio fondamentale, che ogni cosa è in virtù dell’esistere che le è proprio: unumquodque est per suum esse. poiché si tratta di un principio, si può essere certi che la sua portata si estende sino a dio. anzi, sarebbe meglio dire

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IV. Incertezze e speranze

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che è l’esistenza stessa di dio che fonda questo principio. poiché dio è l’essere necessario come ha mostrato la terza prova della sua esistenza. Dio è dunque un atto di esistere tale che la sua esistenza diviene necessaria. È ciò che si chiama essere necessario per sé. porre dio in questa maniera, è affermare un atto di esistere che non richiede alcuna causa della propria esistenza. Questo non sarebbe il caso se la sua essenza si distinguesse in qualche modo dalla sua esistenza; allora, infatti, l’essenza di dio determinando in qualche grado questo atto di esistere, questo non sarebbe più necessario. Dio è dunque l’esistere che è, e nient’altro. tale è il senso puro della formula Deus est suum esse: come tutto ciò che è, dio è grazie al suo proprio esistere; ma, in questo caso unico, occorre dire che ciò che l’essere è, non lo è che grazie al suo esistere, ossia l’atto puro di esistere»197. Maritain ricorda come Gilson abbia parlato di una «metafisica dell’esodo» perché dio si è manifestato a Mosè come “colui che è” o “Io sono chi sono”, e precisa con esattezza, a riguardo del testo biblico dell’esodo: «a dire il vero, nelle due interpretazioni Colui che è o Colui che solo sa il suo essere e il suo nome, si afferma in ogni modo come l’Essere a sé, infinitamente trascendente. È in ogni caso l’interpretazione data in tanti secoli di storia (Colui che è) che in realtà è stata decisiva per la ragione speculativa e per quella che Gilson ha chiamato la metafisica dell’esodo» (XI, p. 392). Marie-Dominique Philippe198 rintraccia questo riferimento all’essere anche nel nuovo testamento, nel Vangelo di san Giovanni, dove cristo afferma più volte Io sono e sottolinea in particolare questo versetto: «prima che abramo fosse, Io sono» (Gv 8, 58), perché evidenzia il primato dell’essere sul divenire, dell’eternità sul tempo, ma soprattutto invita a considerare la riflessione filosofica a partire da aristotele (cf. XI, p. 299). Maritain e Gilson hanno posizioni comuni anche nel campo della filosofia politica. entrambi nel 1934 firmano il manifesto Per il bene comune, contro il comunismo e contro il fascismo, entrambi 197

É. Gilson, Le Thomisme, Vrin, paris 1947, pp. 133-134. Marie-dominique philippe (1912-2006), dopo studi di matematica, entra nell’ordine domenicano. docente di filosofia a Friburgo, in svizzera, dal 1945 al 1982. Fonda l’École saint Jean per i giovani che si radunano nella comunità san Giovanni e nel 1992 la rivista «aletheia».tra le opere: Il nulla e l’essere (1975), Dall’essere a Dio (1977, 4 voll.); Introduzione alla filosofia di Aristotele (1991), San Tommaso (1992), Le tre saggezze (1994), L’Essere, saggio di filosofia prima (1994, 2 voll.), Ritorno alla sorgente (2005). cf. p. Viotto, Philippe Marie Dominique, in Enciclopedia Filosofica, Bompiani, Milano 2007, pp. 8588-8589. 198

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

distinguono tra chiesa e cristianità, tra l’agire in quanto cristiano a livello di religione e l’agire da cristiano a livello di cultura e di politica. Maritain fa pochi riferimenti al domenicano Antonin Sertillanges199, fondatore della «revue des Jeunes» nella quale ha pubblicato i suoi primi articoli, forse perché lo stile di padre sertillanges è più letterario che teoretico, ma in una breve corrispondenza con lui analizza come la nozione di essere sia attribuibile anche a dio e dedica alla questione la terza appendice de I gradi del sapere (17) per rispondere alle sue obiezioni (IV, pp. 1015-1030). precisa che l’essere di dio è intelligibile all’uomo, ma l’intelligibilità che l’uomo ha di dio non ne esaurisce il suo essere, che in se stesso è transintelligibile all’uomo. pertanto l’essere di dio «senza che noi possiamo sapere come, evade dal nostro modo di concepire. l’essenza divina è, dunque, colta effettivamente dalla nostra conoscenza metafisica, ma senza che si dia nella sua pienezza; è conosciuta, ma il suo mistero rimane integro e intatto. proprio mentre la conosciamo, essa sfugge alla nostra presa, eccede all’infinito la nostra conoscenza» (IV, p. 675). a dio si giunge con un’intellezione ananoetica, che procede per sovranalogia, in quanto tra il sapere umano e il sapere divino c’è discontinuità di oggetto e di metodo. Ma la metafisica che studia l’essere abborda l’assoluto. la metafisica, che dopo la fisica e la matematica raggiunge il più alto grado di astrazione, «considera delle realtà che esistono, o possono esistere senza la materia, fa astrazione dalle condizioni materiali dell’esistenza empirica, ma non dall’esistenza» (XI, pp. 29-30). Il suo oggetto, come nota Gilson, è proprio l’atto di esistere: «ciò che ha per essenza di non essere un’essenza» (XI, p. 39). siamo alle soglie dell’Infinito, conosciamo realmente l’esistere di dio, ma non esauriamo la sua essenza nella nostra conoscenza dell’essere.

Yves René Simon Un altro filosofo della nuova scolastica a cui Maritain fa frequenti rimandi è Yves René Simon200, suo allievo all’Institut catho199 antonin sertillanges (1863-1948), docente all’Institut catholique di parigi. tra le opere: San Tommaso d’Aquino (1910), La vita intellettuale (1921), Femminismo e cristianesimo (1921), Le grandi tesi del tomismo (1928), Il cristianesimo e le filosofie (1929), Il problema del male (1949). 200 Yves rené simon (1903-1961), prima docente in Francia poi alla notre dame University nell’Indiana. tra le opere: Introduzione all’ontologia del conoscere (1934),

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IV. Incertezze e speranze

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lique e poi collaboratore, prima in Francia e poi in america, con cui scambia un’importante corrispondenza (1927-1961)201, insieme nel 1942 firmano il manifesto politico dei cattolici europei in esilio in america Davanti alla crisi mondiale (VII, pp. 1214-1230). la sua antologia di testi di san tommaso diffonde il tomismo in Francia e Maritain nella prefazione constata: «Il nostro razionalismo classico perde il suo mordente e cerca di far posto a valori che ha per lungo tempo negato e nel medesimo tempo sente minacciati quegli elementi di verità, che egli affermava con cieco esclusivismo» (VII, p. 1252). la nuova scolastica non è un ritorno al medioevo, anzi intende recuperare i valori positivi della modernità. la traduzione in inglese del Trattato di logica di Giovanni di san tommaso fatta da simon, per la quale Maritain scrive la prefazione (X, pp. 11721180), ha avuto un’importanza storica in america nel contrastare la logica strumentale di dewey. tra Maritain e simon c’è uno scambio continuo di riflessioni su argomenti di ricerca intellettuale che vanno elaborando in comune. Maritain, seguace di péguy, e simon, studioso di proudhon, concordano anche a livello di filosofia politica. simon pubblica un libro sulle funzioni dell’autorità in un regime democratico e Maritain in una recensione scrive: «non c’è tra i problemi più urgenti delle democrazie moderne un problema più urgente per l’intelligenza politica che una chiara visione della natura e delle funzioni dell’autorità. auspico che questo libro sia studiato non solo dagli studenti di scienze politiche, ma anche dagli elettori e dai leader delle nazioni democratiche» (VII, p. 1289). Maritain alla morte di simon nel 1960 scrive nell’elogio funebre Yves Simon, mio fratello d’armi (XII, pp. 1207-1210): «Un’assoluta onestà intellettuale e quella dote fondamentale per il filosofo che è l’intransigenza per la verità, impregnavano tutta la sua personalità. amava tommaso perché amava la verità, ma egli amava la verità più di quanto amasse tommaso ed è per questo che i suoi progressi nella conoscenza della verità gli fecero prediligere tommaso. più acquisiva padronanza del rigoroso strumento tomista, meglio padroneggiava questo strumento in modo da proseguire la sua ricerca personale e creatrice Critica della conoscenza morale (1934), Tre lezioni sul lavoro (1938), Natura e funzioni dell’autorità (1940), La marcia della liberazione (1942), Filosofia del governo democratico (1951). cf. p. Viotto, Yves René Simon e gli amici americani, cit. 201 J. Maritain - Y. simon, Correspondance. Les années françaises (1927-1940), a cura di Michel Florian, cld, tour 2008. Il secondo volume, relativo al periodo americano (1940-1973), è in corso di edizione.

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

di verità in piena libertà di spirito» (XII, p. 1209). Questo elogio di simon è un’osservazione preziosa per tutti coloro che vogliono essere fedeli a tommaso, non per ripeterlo, sarebbe antistorico, ma per continuarlo; la filosofia non si fonda su di un principio di autorità, ma sull’evidenza intellettuale, anche quando si serve dei risultati della ricerca altrui. significativa a questo riguardo è l’amicizia e il lavoro in comune di Maritain con un altro filosofo e teologo, un sacerdote del seminario di Friburgo in svizzera, Charles Journet202, quasi sempre presente agli incontri di Meudon e di Kolbsheim, che pubblica gli articoli di Maritain nella sua rivista «nova et Vetera». alcuni loro libri sono come costruiti in parallelo, Maritain attento alla problematica filosofica, Journet più attento alla problematica teologica. Faccio riferimenti solo a due problemi molto attuali: la filosofia della storia e il problema del male. Henri-Irénée Marrou203, rifacendosi al De civitate Dei di sant’agostino, scrive un libro sull’ambivalenza della storia204. Journet sviluppa queste considerazioni rilevando che tra la città di Dio (Gerusalemme) e la città di Satana (Babilonia) c’è una città dell’uomo. secondo Journet, le due città di cui parla agostino, pur trascendendo la storia, coabitano nel cuore dell’uomo. Bisogna, dunque, considerare una terza città, quella che si realizza nelle strutture sociali, che l’uomo si dà per organizzare la vita civile, nella quale la Chiesa è presente come cristianità in un dato tempo e in un dato luogo, ma questo “mondo cattolico” non è la chiesa. Journet e Maritain rintracciano nell’analisi del pensiero agostiniano fatta da Marrou il germe lontano, abbozzato ma non approfondito, di questa riflessione. Maritain, in Per una filosofia della storia (51), distingue con esattezza i diversi livelli di conoscenza storica, distingue con precisione la teologia della storia, che studia gli 202

charles Journet (1891-1975). l’opera omnia è in corso di pubblicazione, a cura della Fondation cardinal Journet, presso le editions saint-augustin, saint Maurice (svizzera). ch. Journet - J. Maritain, Correspondance, 1920-1973, editions saint-augustin, saint Maurice (svizzera), 6 tomi. cf. p. Viotto, Charles Journet: religione, cultura, politica, in Id., Grandi amicizie, cit., pp. 112-120; Id., Charles Journet: una lunga amicizia, in Id., Dizionario delle opere di Raïssa Maritain, cit., pp. 236-241. 203 Henri-Irénée Marrou (1904-1977), membro dell’École française de rome dal 1930 al 1932, docente in diverse università francesi, poi dal 1949 al 1975 alla sorbona. tra le opere: Fondamenti di una cultura cristiana (1934), Sant’Agostino e la fine della cultura antica (1937), La conoscenza storica (1954), Teologia della storia (1944), Storia dell’educazione nell’antichità (1948), Sant’Agostino e l’agostinismo (1952), Patristica e umanesimo (1976). 204 H.-I. Marrou, L’ambivalence de l’histoire chez saint Augustin, Montréal 1950.

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IV. Incertezze e speranze

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avvenimenti nella prospettiva dei fini ultimi, del Regno di Dio, e la filosofia della storia, che studia i medesimi avvenimenti, ma nella prospettiva della città dell’uomo, i cui fini terrestri sono infravalenti rispetto ai fini ultimi. Questa presenza del male nella storia esige, al di là delle considerazioni sociologiche, un’analisi filosofica e teologica. Journet nel 1961 scrive Il male: saggio teologico, Maritain nel 1963 Dio e la permissione del male (58) nelle cui pagine, quasi a specchio, tengono conto delle riflessioni che si sono scambiati nella loro corrispondenza. Il male è una colpa, un’offesa all’ordine morale, perché è un venir meno all’ordine ontologico, un privare l’essere del dovuto, una nientificazione nell’essere, che va riparata. la teologia ci parla di un peccato verso dio, che è stato come privato del dovuto. Maritain precisa che l’uomo è causa prima del male, di cui dio è assolutamente innocente. Maritain commenta il versetto del Vangelo di Giovanni Sine me nihil potestis facere (Io. 15, 5), che può essere letto in due modi. «si può leggere: Senza di me non potete fare nulla, e nulla di buono. È la linea dell’essere o del bene, in cui dio ha l’iniziativa prima. e si può anche leggere: Senza di me potete fare il nulla, senza di me potete introdurre nell’essere questo nulla o questo non-essere del bene dovuto, questa privazione che è il male. Questa iniziativa del male, voi non la potete avere che senza di Me (perché con Me potete fare soltanto il bene)» (XII, p. 44). a livello teologico il male comporta la perdita della grazia di dio, per cui l’uomo, come insegna san paolo, cade sotto la legge del peccato, che solo la sofferenza può riparare. per ristabilire l’uomo nel suo stato soprannaturale, il Verbo di dio si è incarnato e ha sofferto la morte nella sua natura umana. la legge delle renumerazioni è intrinseca alla realtà delle cose (cf. Nove lezioni sulle prime nozioni della filosofia morale [47]). In un frammento inedito di raïssa, che Jacques ha trovato tra le sue carte205, si legge: «Questa legge della trasmutazione delle nature che comprende in sé tutte le leggi morali e divine, è qualcosa di necessario, di fisico, di ontologico, se si vuole. dio stesso non può abolirla, come non può produrre l’assurdo». la legge è giusta. la legge è necessaria. Ma la legge non è dio. dio è amore. «Il volto della legge e del suo rigore, il volto del dolore e della morte, non è il volto di dio. dio è amore». Quando l’uomo patisce questa legge, dio, che non può rimuoverla, è vicino a lui, patisce con lui: «dio è con questa natura che egli ha fatto e che soffre. se potesse trasformare questa natura nella sua, 205

p. Viotto, Dizionario delle opere di Raïssa Maritain, cit., pp. 212-214.

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

abolendo la legge della sofferenza e della morte, egli l’abolirebbe, perché egli non si compiace dello spettacolo della sofferenza e della morte. Ma egli non può abolire nessuna legge inscritta nell’essere» (XIV, p. 494). concludo queste considerazioni sullo spiritualismo e sulla nuova scolastica, rilevando che vi è fra di loro una comune convinzione a riguardo dell’esistenza di dio e del valore della persona umana, ma se si passa dalle convinzioni alle cognizioni bisogna constatare che è solo con i tomisti della nuova scolastica che il processo di concettualizzazione trova la sua formulazione più precisa. si deve filosofare con tutta l’anima, come insistono gli spiritualisti, ma è solo quando l’intelligenza diventa intelletto, conoscendo gli intelligibili, che si può fare filosofia. Maritain sottolinea come sia la stessa chiesa a raccomandare questa fedeltà a san tommaso, come significano le encicliche dei pontefici206, e annota: «non lasciare cadere nulla di sant’agostino e di quello che di sant’agostino può sussistere in un pascal o in un newman, assumere e salvare tutto ciò che di vitale e di positivo esiste in tutta la ricerca umana, ma attraverso san Tommaso, attraverso i principi del tomismo: ecco quello che le indicazioni dei pontefici suggeriscono» (III, p. 96). senza infeudare il cristianesimo ad un sistema filosofico, perché la fede trascende e non dipende dalla ragione, perché la filosofia cristiana è una questione di intelligenza e non di fede. Maritain precisa: «certo, sono persuaso che tutto ciò che un pascal, un newman, un Blondel hanno pensato di vero, ha nella sintesi tomista la sua gloriosa collocazione e vi tende come al suo luogo naturale; ma, per vederlo, occorre situarsi nella prospettiva di san tommaso e chiedere al genio di pascal, alla nobile intelligenza di newman, al potente intelletto di Blondel, senza nulla abbandonare di ciò che essi hanno veramente visto, di mettere almeno da parte talune delle loro costruzioni e delle loro negazioni sistematiche: un sacrificio che non dovrebbe costare molto a degli spiriti veramente affrancati dalla superstizione dei sistemi» (III, p. 97).

206

In appendice al volume Il Dottore Angelico nelle Oeuvres complètes sono elencate queste raccomandazioni a partire da alessandro IV (1254-1261) fino a Giovanni paolo II (1978-2005) (IV, pp. 181-191).

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Conclusione

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conclusione

L’uomo contemporaneo ha un bisogno immenso di metafisica e della restaurazione dei valori (XVI, p. 40).

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1. oltre la modernità I monaci benedettini hanno costruito l’europa perché hanno raccordato l’azione alla contemplazione, il lavoro e la preghiera (Ora et labora), connettendo teoresi e prassi; in seguito questo primato della contemplazione è venuto meno, e si è giunti al primato dell’azione, della prassi, fino a fare della riuscita il criterio di verità, con il pragmatismo culturale e il machiavellismo politico, per cui un’opinione, un’azione, valgono, sono vere, sono giuste, se riescono. In conclusione di questa storia del pensiero contemporaneo, riprendendo le fila anche del percorso del pensiero moderno, analizzo i nodi strutturali di questo processo di secolarizzazione e indico le prospettive di una rinascita. prendo a prestito un’immagine di Marie-dominique philippe che descrive la filosofia contemporanea come un fiume tumultuoso in piena che ha raccolto molti affluenti e trascina a valle cadaveri, per cui bisogna risalire a monte, andare controcorrente, per scoprire la sorgente della saggezza207. cercherò di tracciare, secondo l’analisi fatta da Maritain, il percorso di questa caduta nel pensiero debole che finisce per negare la filosofia stessa in un relativismo universale dove tutte le opinioni sarebbero vere, e di intravedere l’inizio di un ritorno alla sorgente. nella ricerca storiografica si possono individuare questi cadaveri che si lasciano trascinare dal fiume della storia in due trittici di personaggi che hanno dominato la scena della cultura europea frantumando l’eredità ebraico-greco-latino-cristiana. Maritain in Tre riformatori (9) analizza l’opera di lutero, che ha rotto l’unità della chiesa, quella di cartesio che ha spostato l’asse della ricerca filosofica 207 Marie-dominique philippe, Retour à la source, Fayard, paris 2005; Id., Les trois sagesses, Fayard, paris 1994.

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

da dio all’io, e infine quella di rousseau, che ha teorizzato l’assoluta sovranità del popolo, che dovrebbe ubbidire solo a se stesso. Un secondo trittico lo si trova nelle Nove lezioni sulle prime nozioni della filosofia morale (47) dove Maritain analizza come darwin, Marx e Freud abbiano negato la libertà dell’agire umano, cercando nell’evoluzione della specie, nelle strutture socioeconomiche e nell’inconscio le cause del comportamento umano e liberando l’uomo dalla sua relazione con dio. Infine, studiando le relazioni di Maritain con i poeti e i romanzieri, ho individuato un terzo trittico di personaggi che hanno contribuito alla scristianizzazione e alla disumanizzazione della cultura contemporanea. a livello teologico ernest renan ha negato la divinità di cristo e ridotto la religione ad una morale naturale. a livello sociologico andré Gide ha giustificato qualsiasi comportamento, anche il più immorale, come libertà di scelta dell’individuo. a livello filosofico Jean-paul sartre, contaminando esistenzialismo e marxismo, ha fatto del nulla il fondamento di una filosofia disperata. la brutale rappresentazione dell’uomo nell’arte contemporanea, soprattutto in Francis Bacon, pablo picasso e salvador dalì, è il segno più evidente di questa disumanizzazione. Questi protagonisti hanno dato vita a correnti di pensiero e movimenti politici che si sono succeduti e accavallati, e hanno anche provocato una salutare reazione che vuole risalire la corrente della storia non per negare ma per assimilare i contenuti positivi acquisiti dalla modernità. nel delineare un confronto riepilogativo tra il pensiero antico e medievale e il pensiero moderno e contemporaneo, debbo ricordare che i singoli filosofi non possono essere imbrigliati nelle correnti ideologiche che rappresentano e che essi stessi hanno suscitato, perché ciascun filosofo ha la sua identità, per cui le osservazioni che seguono riguardano l’insieme dei movimenti di pensiero che si scontrano nella storia e vanno riferite ai singoli filosofi accertando le variabili relative a ciascuno. comunque ogni sistema filosofico ha una sua coerenza interna, se si ritiene che il concetto non possa approdare all’essere, a questo fenomenismo corrisponde, più o meno consapevolmente una logica strumentale e una morale utilitaristica, per cui si rimane nel giusrazionalismo, di fatto la politica viene separata dalla morale e l’assoluto è soltanto un principio posto dall’uomo.

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Conclusione

Realismo

Fenomenismo

Idealismo

Logica formale

Logica strumentale

Logica reale

Teismo

Deismo

Ateismo

Eudemonismo

Utilitarismo

Rigorismo

Giusnaturalismo

Giusrazionalismo

Giuspositivismo

Stato morale

Stato legale

Stato etico

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Uno sguardo riepilogativo - tav. n. 12

la filosofia contemporanea, dopo l’ubriacatura delle ideologie di destra con l’hegelismo e di sinistra con il marxismo, sta ripiegando su queste posizioni, ma occorre andare oltre e ritrovare il realismo delle sorgenti. per ogni punto di questo riepilogo accenno alle vie di uscita proposte da Maritain, rimandando per approfondimenti al mio volumetto, già citato, Introduzione a Maritain.

2. dal realismo alla fenomenologia la filosofia classica è fondata sull’essere considerato nella sua intelligibilità, per cui aristotele e tommaso ritengono che noi conosciamo le cose come sono perché l’intelligenza diventa intelletto in quanto ha “intelletto” l’essere intelligibile. tutto il medioevo si è lacerato sulla “questione degli universali” proprio per poter criticamente stabilire che il concetto, universale logico, rappresenta realmente l’essere, anche se non è «ciò che conosco» (id quod intelligitur) ma «ciò con cui conosco» (id quo intelligitur) veramente la realtà. Questo realismo è stato messo in discussione, nell’età di mezzo della storia della filosofia, dal razionalismo, dall’empirismo, dal criticismo, che hanno portato al fenomenismo, affermando che noi non conosciamo le cose come sono, ma solo come sembrano, perché la nostra conoscenza non può cogliere la “cosa in sé”, il noumeno, ma soltanto l’apparire della cosa nel processo cognitivo. Questa operazione inizia con cartesio, per il quale la conoscenza si arresta alle idee innate, che sono come dei “quadri” mentali a cui la volontà di dio fa corrispondere la realtà, non essendoci comunicazione tra

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

l’anima e il corpo, tra la res cogitans e la res extensa. Berkeley, nel medesimo periodo, in Inghilterra, risolve la conoscenza nella percezione sensoriale affermando: esse est percipi, e Hume giunge ad affermare: esse est percipere, risolvendo anche il soggetto nel divenire stesso della percezione. In Kant razionalismo ed empirismo confluiscono nella “sintesi a priori”, che porta alla creatività dello spirito, nella quale l’autocoscienza si riduce ad essere uno specchio che specchia se stesso. così, dal sum ergo cogito del realismo classico, secondo cui per l’autotrasparenza dello spirito nell’autocoscienza l’io coglie se stesso, il suo proprio essere, si è passati tramite il cogito ergo cogito del fenomenismo, al rovesciamento radicale del cogito ergo sum dell’idealismo, per cui l’io crea non solo la conoscibilità dell’essere, cioè le forme della sua conoscenza, ma l’essere stesso, cioè la realtà, identificandosi dialetticamente con essa. In modo parallelo la filosofia della religione è passata dal teismo della tradizione ebraica, cristiana e musulmana, per cui dio è “colui che è”, tramite il deismo illuministico, che ha ridotto dio all’idea che l’uomo ha di lui, all’ateismo contemporaneo, che finisce per considerare l’uomo dio a se stesso e divinizza la storia. Infatti, mentre per aristotele l’essere è “in divenire”, per Hegel, Marx, dewey, l’essere è “il divenire”. Questa rivoluzione ontologica comporta la negazione di ogni forma di pluralismo, perché se l’essere coincide con il pensiero, l’essere è “unico” e non può essere predicato in modo analogico a diversi esseri, risolti a “modi di essere” provvisori del tutto. a questa situazione cerca di reagire la fenomenologia, ma in maniera ambigua ed equivoca, perché, mettendo a priori tra parentesi l’essere extramentale, finisce per negarlo, imprigionandosi nel processo cognitivo. Maritain osserva: «È curioso notare che all’origine del movimento fenomenologico è avvenuta una specie di attivazione della filosofia post-kantiana per un contatto con germi aristotelici e scolastici trasmessi da Franz Brentano. Ma fin dall’origine tutto è stato deviato per il fatto che la riflessività è stata utilizzata come primum; ci si è installati in essa per percepire a priori l’immediato, come se la riflessione, ritornando sulle operazioni dirette e sul loro oggetto inizialmente colto, potesse ritagliarsi in questo un oggetto attinto prima di questo stesso oggetto» (IV, p. 446). per il tomismo invece il soggetto, nell’intuizione dell’essere, percepisce l’oggetto nella sua realtà, e solo attraverso questo processo percepisce, quasi in secondo piano, anche se stesso.

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Conclusione

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3. dalla logica formale alla logica strumentale Il pensiero contemporaneo ripudia l’identificazione hegeliana dell’essere con il pensiero, torna indietro alla ricerca della sorgente del sapere, ma si ferma ad una conoscenza fenomenica che, come già aveva fatto Kant, presuppone l’essere ma non lo conosce, e siamo all’ermeneutica, alla fenomenologia, alla filosofia analitica, alle filosofie del linguaggio. Maritain ne Il contadino della Garonna (61) rileva che si è giunti alla cronolatria epistemologica per cui la filosofia, prostrata nell’adorazione dell’effimero, rifiuta la verità eterna per «un fissarsi ossessivo sul tempo che passa» (XII, p. 684), e alla logofobia, per cui si rifiuta la filosofia in nome del linguaggio, dimenticando che «non è il linguaggio a fare i concetti, ma sono i concetti a fare il linguaggio. e il linguaggio che li esprime li tradisce sempre, più o meno» (XII, p. 689). Questa crisi intellettuale che nega il valore ontologico ad ogni forma di conoscenza, che finisce per favorire il nichilismo e il relativismo, è una conseguenza di un collasso epistemologico. la filosofia medievale con alberto Magno e tommaso d’aquino ha costruito una struttura organica del sapere, stabilendo dei rapporti tra le scienze per cui, nel rispetto delle reciproche autonomie, le scienze della natura (scienza) sono subordinate alle scienze dell’uomo (filosofia), e queste alla scienza di dio (teologia). tutti i saperi sono scienza nel campo della loro ricerca se individuano con esattezza l’oggetto del conoscere e formulano con sicurezza un metodo di investigazione, ma, tra queste scienze, precisa Maritain in Scienza e saggezza (24), solo la filosofia, la teologia, la mistica sono una saggezza, perché riguardano i fini ultimi dell’esistenza. Questa costruzione, gerarchica, elaborata dalle Summae è stata progressivamente demolita dalle Enciclopedie, che hanno livellato e frantumato ogni forma di conoscenza. occam e cartesio negano la scientificità della teologia, risolvendola in un atteggiamento pratico, utile per salvarsi l’anima, ma scientificamente non vero, riducendo la conoscenza nei limiti della ragione. Kant nega la scientificità della stessa filosofia, rigettando la metafisica, fermando la conoscenza nei limiti dello spazio e del tempo, ammettendo solo la scientificità delle scienze fisico-matematiche. la filosofia contemporanea con l’empiriocriticismo, il neopositivismo, il pragmatismo giunge all’estrema conseguenza di negare valore scientifico alle stesse scienze sperimentali e matematiche, considerandole solo dei punti di vista pratici, utili, ma non veri. www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

la logica è lo strumento necessario per la ricerca, ma non è la filosofia, è soltanto il veicolo per approdare all’essere nella concretezza della sua esistenza. essa lavora sui concetti, che non sono l’essere ma la rappresentazione mentale dell’essere. secondo la logica formale di aristotele, per la quale il concetto, come universale logico, ha realtà ma non è la realtà, occorre distinguere, senza separare, l’essere e il pensiero, l’ordine ontologico e l’ordine logico, e il fondamento del discorso filosofico è il principio di identità, per cui a è a, cioè l’essere è l’essere. cartesio riduce la logica a pura elaborazione mentale dei concetti, e di fatto, senza negarlo, finisce per snaturare il principio di identità, riducendolo matematicamente ad un principio di uguaglianza, per cui “a è uguale ad a”. Grazie a lui la “logica matematica” diventa il modello universale del sapere, il progresso delle scienze acquista un ritmo vertiginoso, ora accelerato dall’informatica, ma non si hanno regole per controllarlo. Hegel va oltre, passa alla logica reale, che identifica l’essere con il pensiero, per cui il concetto stesso è la realtà, e l’essere è la sua intelligibilità; ma, dovendo discorrere, pone alla base del processo logico il principio di contraddizione, giungendo a dire, per usare un’immagine figurativa, che il bianco non è bianco perché è bianco, ma è bianco perché non è nero, e conseguentemente il bene non è bene, perché è bene, ma è bene, perché non è male; così l’essere è in quanto si oppone al non essere e tutto si risolve nel divenire dialettico. In questo modo si sostanzializza il nulla, e il male diventa un protagonista della vita come nietzsche ha profetizzato e sartre ha teorizzato. Marx con il suo materialismo storico acquisisce la dialettica hegeliana, risolvendola nel divenire della materia e nella necessità della lotta di classe e della violenza per affermare il bene. la filosofia contemporanea reagisce a questa identificazione dell’essere con il pensiero, ma approda alla logica strumentale, secondo la quale il concetto non ha realtà, non è la realtà, ma è solo uno strumento per modificare la realtà, utile ma non vero, finendo nel nominalismo puro e semplice, riducendo la logica a linguaggio convenzionale, prescindendo da qualsiasi relazione con la realtà (Wittgenstein), giungendo a sostituire i concetti con i simboli matematici (russel). nel mondo anglosassone il pragmatismo giunge ad affermare il principio del successo, facendo della riuscita il criterio di verità. È la logica di mercato, per cui una cosa vale se rende, e il concetto una sorta di previsione della riuscita (marketing). Quando insegnavo filosofia nei licei mi servivo di un gioco di parole doman-

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Conclusione

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dando ai giovani «la ruota gira perché è rotonda?» (realismo) o «è rotonda perché gira?» (idealismo) o «gira per diventare rotonda?» (pragmatismo). Maritain, che ha scritto un trattato di logica approfondendo l’analisi sulla natura del pensiero umano, osserva che di fronte alla logica, che necessariamente lavora sui concetti, che sono enti di ragione, bisogna porre il problema della Critica, cioè del valore reale del concetto. rilevando che già nella filosofia antica e medievale c’erano spunti di riflessione sulla critica, anche se ancora confusi nella logica e nella metafisica, ironizza: «È per questo che tante anime buone si immaginano che la critica della conoscenza cominci con Kant, come la libertà con la rivoluzione francese!» (II, p. 22). l’oggetto della logica è l’essere, un ente di ragione, che presuppone l’essere del metafisico, e vive solo nella logica, perché «l’ente di ragione non può esistere fuori dell’intelletto» (IV, p. 561). la nozione di essere è fondamentale per il giudizio, in quanto il predicato afferma la realtà del soggetto; ma la logica come tale non coglie questo essere ontologico; infatti «ciò che il logico coglie formalmente è la funzione dell’essere nella conoscenza» (IV, p. 562). la logica non è l’ontologia: «Il dialettico per considerare le cose, non procede attraverso le cause reali, ma attraverso le intenzioni della ragione» (IV, p. 567). la filosofia contemporanea ricerca una spiegazione logica delle cose, ma il filosofo cerca delle cose una spiegazione ontologica. spetta alla critica, che è una parte della metafisica, verificare la validità dei ragionamenti in rapporto alla realtà delle cose, perché la logica riguarda solo le operazioni sugli enti di ragione. di fatto c’è sempre una connessione tra metafisica e logica: «nessun sistema di logica può essere costruito senza presupporre un insieme di posizioni di ordine metafisico e critico: è così che le logiche che pretendono o hanno preteso di soppiantare la logica dell’Organon di aristotele (per esempio la logica induttiva di Bacone, la logica empirista di stuart Mill, le logiche psicologiste del XIX secolo, la logica neoleibniziana dei logisti, la logica della Scuola di Vienna) presuppongono in realtà tutta una metafisica e tutta una critica della conoscenza più o meno impregnate di nominalismo» (II, p. 682). In questa prospettiva il problema critico è un problema interno al problema metafisico. «la critica della conoscenza non esiste come disciplina distinta dalla metafisica. assegnarle un’esistenza a parte equivale a porre un terzo termine tra realismo e idealismo, tra il sì e il no, il che è la pretesa dei moderni con la loro impensabile nozione

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

di puro fenomeno, che svuota dell’essere il concetto stesso di essere, il più generale dei nostri concetti» (IV, pp. 408-409). Il senso comune conferma questo atteggiamento realistico, ma la filosofia non è un realismo ingenuo, che identifica la cosa con l’oggetto, bensì un realismo critico, che non smentisce ma purifica il senso comune. «Ciò che penso è ciò che è, pensa il senso comune (non a torto), ma immediatamente materializza questa affermazione e la storpia in una facile rappresentazione, immaginando che il pensiero sia una specie di copia o di calco materiale della cosa, che coincide in ogni tratto con questa, in modo tale che tutte le determinazioni dell’una siano le determinazioni dell’altro» (IV, p. 416). la cosa nel pensiero, oggetto di pensiero, è diversa dalla cosa nella realtà, pur corrispondendo alla realtà, perché «tra la cosa e il pensiero, il pensiero in atto intendo, vi è un’unità incomparabilmente più profonda che tra un modello e un calco» (IV, p. 420). Maritain precisa in Riflessioni sull’intelligenza (8) che «il problema più importante della critica è il problema della verità e del valore del filosofare. In linguaggio tomista si può dire che la cosa è l’oggetto materiale del senso e dell’intelligenza, mentre ciò che noi chiamiamo qui l’oggetto, è il loro oggetto formale: oggetto formale e oggetto materiale colti in un sol tratto e indivisamente dalla medesima percezione» (IV, p. 432). Il realismo critico salva l’oggettività della conoscenza e l’attività del soggetto, nella distinzione e nella correlazione tra essere e pensiero. soltanto in dio il soggetto e l’oggetto, il pensiero e l’essere, coincidono.

4. dalla legge eterna al diritto come intersoggettività Mi sono soffermato a lungo su questi problemi della conoscenza e della logica perché i problemi della prassi, dall’etica alla politica, comprendendo anche la filosofia del diritto, ne dipendono. Infatti, se noi possiamo conoscere la verità, cioè la realtà, siamo tenuti a rispettarla e ad agire in conformità, per cui non è il dovere che fonda l’essere, come ritiene Kant affermando il primato della ragion pratica, ma è l’essere che è dovuto. per la filosofia classica e cristiana l’etica si può riassumere nel principio «fa’ il bene e sarai felice»; si afferma un eudemonismo, non nel senso banale che la felicità sia il fine dell’agire, ma più profondamente nel senso che chi rispetta l’essere in se stesso realizza la sua persona, con la precisaziowww.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ne, sottolineata da Maritain, che per il cristiano la felicità consiste non solo nella buona coscienza, ma nella beatitudine eterna che dio solo può donare. a questo eudemonismo, nell’età di mezzo della filosofia, si contrappone il rigorismo kantiano, per cui il dovere è una forma vuota e l’imperativo categorico ci obbliga a fare il dovere per il dovere, con uno stravolgimento dell’etica, per cui un’azione non è più comandata, perché è giusta, ma è giusta, perché è comandata. Hegel non fa che sostituire all’imperativo formale della coscienza individuale la ragione di stato e si giunge nella prassi al nazional-socialismo e al social-comunismo. Il pensiero contemporaneo reagisce all’idealismo e al marxismo, che avevano teorizzato la sottomissione dell’individuo al tutto sociale, ma negando la conoscibilità dell’essere finisce in un relativismo etico, che sfocia facilmente in un utilitarismo per cui è bene ciò che ciascuno nella sua soggettività ritiene bene per la sua convenienza. Volendo usare delle immagini si potrebbe dire che non si tratta più di studiare per sapere, o di lavorare per produrre (eudemonismo, si è soddisfatti del proprio lavoro compiuto, per l’oggettività del risultato) e nemmeno di studiare per studiare o di lavorare per lavorare (rigorismo), ma di studiare per essere promossi, di lavorare per guadagnare. la logica strumentale porta a queste conclusioni. Maritain accetta la posizione di aristotele per cui l’essere è il bene, che è dovuto dall’uomo, che liberamente può rifiutarlo, e precisa, approfondendo il discorso nelle Nove lezioni sulle prime nozioni della filosofia morale (47), che la norma prevede i premi e i castighi come una conseguenza naturale delle azioni compiute, che ricadono sull’agente in ragione della sua responsabilità. essi non hanno solo un valore politico di deterrente contro il male per garantire la società, né hanno solo un valore pedagogico come strumenti per educare la persona: sono una remunerazione per l’azione compiuta e non un rimedio sociale o personale. Il male ha nientificato l’essere, ha privato l’ordine di qualcosa di dovuto. Maritain individua nella dialettica intrinseca dell’ordine morale «la legge di riequilibramento dell’essere» (IX, 930). Il male ricade su chi lo fa, ristabilisce l’ordine e permette la guarigione morale. «Il colpevole è ricondotto al suo vero posto, cessa di essere sfasato e dislocato, è esistenzialmente riordinato. se accetta la pena come giusta, sarà guarito» (IX, p. 932). la pena e la sofferenza hanno quindi un doppio significato: sono nell’oggettività una punizione-restaurazione dell’ordine e nella soggettività una punizione-rimedio. I dannati hanno ciò che hanno voluto. Maritain, in Dio e la permissione del male (58),

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affronta anche i problemi teologici che ne derivano, riguardanti la responsabilità dell’uomo e l’innocenza di dio rispetto al male, che è un non-essere, che dio non può volere, che va riparato, ma che l’uomo non è in grado di riparare. solo la sofferenza di cristo può salvare l’uomo dal suo peccato. passando al problema della politica, non è difficile cogliere le sue naturali correlazioni con l’etica e constatare il parallelismo con i problemi precedentemente esaminati, per l’organicità interna dei sistemi filosofici. se l’uomo è un animale sociale, se è per natura sociale, perché nasce da una coppia, in una famiglia, vive in un gruppo, lo scopo dello stato è la giustizia, il dare a ciascuno il suo secondo il bisogno e secondo il merito, per cui la politica dipende dalla morale, come affermano aristotele e tommaso (stato morale). se l’uomo è un individuo che diventa sociale attraverso un contratto convenzionale con gli altri individui, come pensano locke, rousseau e Kant, lo stato non ha altro scopo che quello di garantire la libertà dell’individuo e la legge comune vale solo nella legalità convenuta (stato legale). dato il dualismo antropologico tra la res cogitans e la res extensa di cartesio e il dualismo tra il regno dei fini e il regno della natura, posto da Kant, le questioni che riguardano gli spiriti vanno separate da quelle che riguardano i corpi. Maritain chiama questa posizione machiavellismo moderato, perché non si afferma ancora che la politica è il fondamento dell’etica, come faranno in coerenza con il loro sistema filosofico Hegel e Marx, giungendo a dire che lo stato ha sempre ragione e le sue leggi hanno perciò stesso un valore morale (stato etico) pervenendo al machiavellismo assoluto. Maritain sottolinea come queste conclusioni politiche siano correlate con l’antropologia e con la logica. se il concetto di uomo, secondo il fenomenismo, è un puro nome il cui valore è equivoco, l’umanità è la somma eterogenea dei singoli individui. se per l’idealismo il concetto di uomo è univoco, si risolve nell’umanità e i singoli individui non sono che modi di essere dell’umanità. Mentre per il realismo il concetto di uomo è analogico e si predica differentemente a tutti gli uomini, per cui l’umanità non esiste da se stessa, ma è comune a tutte le persone umane. Maritain, in Per una politica più umana (38), scrive: «affermare l’uguaglianza di natura tra gli uomini è, per l’idealismo egalitario, volere che ogni disuguaglianza tra essi sparisca. affermare l’uguaglianza di natura tra gli uomini è per il realismo cristiano volere che si sviluppino le disuguaglianze feconde per il cui mezzo la moltitudine degli individui partecipa al comune tesoro dell’umanità. l’idealismo egalitario decifra il termine

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“uguaglianza” solo alla superficie; il realismo cristiano lo decifra in profondità» (VIII, p. 266). Venendo alla Filosofia del diritto si può ancor meglio comprendere questo percorso della storia della filosofia. la posizione della filosofia classica e cristiana è quella del giusnaturalismo, secondo cui esiste una legge eterna, radice del diritto naturale, che trascende la coscienza, la quale attraverso il contratto sociale si esprime nella legge civile. Questa posizione che trova in dio la fonte della legge eterna presuppone il realismo, cioè la possibilità di conoscere la verità e di raggiungere l’essere. con il fenomenismo, che nega la possibilità di conoscere la verità non si può più agganciare il diritto naturale a dio; per cui Kant e i cosiddetti giusnaturalisti, fondando il diritto naturale solo sulla ragione umana, danno origine ad una sorta di giusrazionalismo. Maritain osserva che con Grozio e il giusnaturalismo c’è stato un rimaneggiamento razionalista della legge naturale, una specie di geometrizzazione razionalistica del discorso. si ritiene che la legge naturale sia un codice scritto dalla ragione umana, una specie di calco da applicare agli atti umani, una norma che ha valore a priori e per se stessa è universale, uguale per tutti gli uomini. si giunge ad una concezione del tutto astratta e irreale del diritto naturale, non più radicata nell’esistenza di dio. Il giusrazionalismo, pur abolendo la legge eterna, riconosce la distinzione tra diritto naturale e diritto positivo perché distingue tra una legge naturale, formulata dalla ragione, e la legge civile, formulata dallo stato, garantendo al cittadino l’obiezione di coscienza di fronte ad una legge civile che la sua coscienza, per fondati motivi etici, ritiene ingiusta. con l’avvento dell’idealismo, che identifica l’essere con il pensiero, risolvendolo nel divenire dialettico, si giunge a negare la distinzione tra diritto naturale e diritto civile, affermando che l’unica legge è quella civile, quella promulgata dallo stato. lo stato etico e il machiavellismo assoluto non potevano che concludere in questo assolutismo che ha trovato nel secolo scorso la sua realizzazione nei regimi totalitari, finendo in una sorta di giuspositivismo, perché solo il diritto positivo ha valore giuridico, politico ed etico. Il fascismo, il nazionalsocialismo, il falangismo, il comunismo riconoscono come unica legge della società quella dello stato, a cui vogliono subordinare i cittadini non solo sul piano della legalità, ma anche su quello della morale.

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5. dallo stato assoluto allo stato democratico la storia della vita politica in europa è passata dallo stato assoluto, prima delle grandi monarchie europee in spagna, Francia, prussia, russia, poi dei totalitarismi ideologici di destra e di sinistra, con l’intervallo della rivoluzione francese e allo stato democratico. oggi in tutta europa, dopo due conflitti mondiali, si va consolidando lo stato democratico a matrice liberale, perché si ritorna alla distinzione tra diritto naturale e diritto positivo, ma si fonda questo riconoscimento solo sull’intersoggettività tra gli uomini, alla maniera di Kant, perché il pensiero debole non riconosce alla ragione umana la possibilità di conoscere la verità. Hans Kelsen, nel sostenere la giustificazione relativistica della democrazia, si richiama a pilato che, rifiutandosi di distinguere il giusto dall’ingiusto e lavandosi le mani, si appella al popolo chiedendo ad esso di decidere, perché non sapeva cosa fosse la verità, e così in una società democratica spetta al popolo decidere e regna la reciproca tolleranza, proprio perché nessuno sa che cosa sia la verità. Maritain risponde, ne Il filosofo nella città (55): «se fosse vero che chiunque conosce, o pretende di conoscere, la verità, non può ammettere la possibilità di un punto di vista diverso dal proprio ed è quindi tenuto ad imporre il proprio punto di vista agli altri con la violenza, allora l’animale ragionevole sarebbe il più pericoloso di tutti gli animali. In realtà, l’animale ragionevole è tenuto, in virtù della sua natura, a cercare di condurre i propri compagni a partecipare di ciò che egli conosce come vero o come giusto, non con la coercizione, ma con mezzi razionali e con la persuasione» (XI, p. 77). come si può constatare, la questione in fondo riguarda la possibilità o la realtà di potere conoscere la verità. anche in Italia G. Zagrebelsky, nel già citato Il Crucifige e la democrazia, analizza queste problematiche e commentando il processo a Gesù rileva che tra il dogmatismo di caifa, che vuole imporre allo stato la legge ecclesiale, e lo scetticismo di pilato, che si domanda “che cosa sia la verità” e vuole solo garantire il suo potere politico, la democrazia esige un atteggiamento possibilista di fronte alla verità intesa come fondamento delle relazioni sociali. Il problema riguarda il rapporto tra la soggettività della coscienza e l’oggettività della legge, e più profondamente la relazione tra libertà e verità. nella storia della filosofia occidentale siamo passati dal realismo ebraico-greco-latino-cristiano nel quale soggettività e oggettività sono poste in interrelazione, attraverso il piano inclinawww.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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to del fenomenismo empiristico e razionalistico, ancorato solo alla soggettività, all’idealismo hegeliano, che fa dell’oggettività un assoluto. Maritain, nel riconoscere il valore della democrazia, recupera insieme libertà e verità, soggettività e oggettività, evitando due errori: «da una parte l’errore degli assolutisti, che vogliono imporre la verità con la costrizione, deriva dal fatto che essi trasferiscono dall’oggetto al soggetto i sentimenti che provano a buon diritto nei confronti dell’oggetto; essi pensano che, come l’errore non ha per sé diritti di sorta e deve essere bandito dallo spirito (con i mezzi dello spirito), così l’uomo quando è in errore non gode di diritti propri e deve essere bandito dal consorzio degli uomini (con i mezzi del potere umano). dall’altra parte l’errore dei teorici che fanno del relativismo, dell’ignoranza e del dubbio la condizione necessaria per la reciproca tolleranza deriva dal fatto che essi trasferiscono dal soggetto all’oggetto i sentimenti che provano a buon diritto nei confronti del soggetto – che deve essere rispettato anche quando è un errore – e così privano l’uomo e l’intelletto umano di quell’atto, l’adesione alla verità, nel quale consistono ad un tempo la dignità dell’uomo e la sua ragione di vivere» (XI, pp. 78-79). Il pluralismo non è una filosofia ma solo una metodologia politica che fonda la legittimità della legge formulata dalla maggioranza e insieme garantisce al cittadino la libertà dell’obiezione di coscienza quando una legge sia ritenuta dalla persona fondatamente contraria alla verità in cui essa si riconosce. si può superare così lo scetticismo del relativista e il dogmatismo del fondamentalista. Ma la democrazia non richiede solo il rispetto della libertà di coscienza, ma implica anche la ricerca della giustizia sociale, come il personalismo, pur nelle sue diverse espressioni, esistenziali, fenomenologiche, neoscolastiche, spiritualiste, perché l’unità sociale di base non è l’individuo come atomo ma la persona umana nelle sue relazioni sociali, ad incominciare dalla famiglia. Bisogna superare i limiti della democrazia liberale senza cadere in qualsiasi forma di socialismo, sia esso di destra o di sinistra, che fa del gruppo un’astrazione; la democrazia è un tutto fatto di tutti, perché il bene comune non è il bene delle istituzioni, ma delle persone in società. Il bene comune, come rileva Maritain in La persona umana e il bene comune (43), non solo deve essere intrinsecamente morale, ma dev’essere distribuibile ai cittadini.

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6. dall’universo organico al pluriverso casuale tutte le precedenti considerazioni riguardanti i problemi del conoscere e i problemi dell’agire vanno considerate all’interno dei problemi riguardanti la metafisica, cioè l’essere del mondo, dell’uomo e di dio. per il pensiero greco tutti gli esseri nel loro insieme costituiscono un universo organico. anche se ci fossero molti mondi, se ci fossero anche altri mondi al di là dello spazio e del tempo da noi conosciuti, tutti questi esseri globalmente costituirebbero un solo universo, con un punto di riferimento unitario. aristotele nella sua metafisica ha impostato il problema attraverso la relazione materia-forma degli esseri in divenire dalla potenza all’atto che rimandano ad un atto puro trascendente, Forma delle forme. dio trascende il mondo. Il pensiero ebraico-cristiano, attraverso la narrazione biblica, considera la natura come una creatura posta in essere e sorretta dal Creatore. san tommaso, lavorando sulla relazione costitutiva dell’essere, cioè sul rapporto essenza-esistenza, precisa che dio è l’essere e tutti gli altri esseri hanno l’essere da lui, per cui il mondo è costantemente sorretto dalla provvidenza di dio, causa efficiente e causa finale. con il fenomenismo di cartesio e di Kant, che nega la possibilità di conoscere la metafisica e restringe la conoscenza dell’uomo nei limiti dello spazio e del tempo, si giunge alla contrapposizione tra il mondo delle cose e il mondo degli spiriti, tra il regno della natura e il regno degli spiriti. si pone dio come un’ipotesi fuori dalla storia del mondo, in una sorta di parallelismo tra dio e il mondo, nell’incertezza tra trascendenza e immanenza, tra monismo e pluralismo. Ma subito dopo l’idealismo hegeliano, anche nella sua variante marxista, nega ogni trascendenza e considera l’assoluto immanente al divenire in un monismo nel quale i singoli esseri sono ridotti a modi di essere del tutto immersi nel fluire della storia. la necessità del divenire dialettico regola la vita di ogni essere; il male e il bene sono momenti provvisori di questo divenire e si includono reciprocamente. È l’età delle ideologie e dei totalitarismi. la filosofia contemporanea rompe con questo monismo, afferma il valore e l’indipendenza dell’individuo, considera il mondo un pluriverso senza regole necessarie. Maritain osserva che in questo pluriverso «tutto è spezzato e discontinuo, anche il tempo che fluisce a gocce, non ci sono che episodi infilati l’uno dietro l’altro e provenienti da contesti diversi, tutto si scinde e si spezzetta in frammenti, che si ammucchiano gli uni sugli altri, si urtano e si frammiwww.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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schiano» (III, p. 317). non la provvidenza, o la necessità, ma il caso regna sovrano su questo pluriverso sconnesso. non si nega dio ma si afferma che «non è onnipotente, perché l’onnipotenza di dio è incompatibile con l’individualità assoluta delle persone […] perché dio non basta a se stesso, ed ha bisogno della nostra collaborazione» (III, p. 320). ci troviamo di fronte ad una forma di agnosticismo perché, per usare le espressioni di pirandello, si potrebbe dire, come recita il titolo di un suo romanzo, Uno, nessuno, centomila, e come quello di una commedia, Così è se vi pare, la cui protagonista giunge a dire «Io sono colei che mi si crede».

7. Il ritorno alla saggezza l’analisi del percorso storico del pensiero occidentale, dilagato con il marxismo e il neocapitalismo in tutto il mondo, ha mostrato come il prevalere della scienza sulla saggezza, dell’avere sull’essere, del sapere discorsivo sul sapere intuitivo, porta al disumanesimo, al dominio della società sull’uomo, di pochi su molti, dei popoli ricchi sui popoli poveri. Bisogna recuperare il primato della contemplazione sull’azione, dello spirituale sul temporale, della mistica sulla politica, come péguy e Bergson hanno indicato e come Maritain ha concettualizzato, recuperando il pensiero greco e cristiano. «aristotele e i saggi dell’antichità sapevano che le virtù morali sono ordinate alla contemplazione della verità, che trascende l’intercomunicazione politica» (VII, p. 667). san tommaso ci ha insegnato che «l’attività esteriore deve discendere dalla sovrabbondanza dell’attività interiore, mediante la quale l’uomo si unisce alla verità e alla sorgente dell’essere» (VI, p. 728). se gli uomini nel travaglio della storia sono riusciti a trovare un accordo pratico sui diritti dell’uomo, riconoscendo a ciascuno la libertà di coscienza, è perché si sono liberati dalla presunzione illuministica di essere legge a loro stessi e dalla sovranità dello stato come assoluto nella storia. dall’idealismo della ragione trionfante sono tornati al fenomenismo del pensiero debole, facendo un passo avanti possono ritrovare il realismo della conoscenza e riscoprire il diritto naturale come fondamento del loro accordo. Gli uomini del XXI secolo dall’ateismo militante delle ideologie, hegeliane o marxiste, deweyane o sartriane, sono passati al deismo riconoscendo l’esistenza di un valore assoluto, ancora un poco, possono ritrovare il teismo e scoprire www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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che Colui che è è il padre di tutti gli uomini. la logica simbolica, matematizzata, resta nel mondo della tecnica un prezioso strumento di lavoro, ma riconosciuti i limiti e le competenze delle scienze naturali e matematiche, bisogna ritornare all’armonia tra la scienza e la saggezza. Il fatto che scienziati e filosofi lavorino insieme nella bioetica è il sintomo di una ricomposizione epistemologica dopo la frantumazione del sapere. riconosciuta la democrazia come ideale di fraternità e di giustizia per tutti i popoli e tra tutti i popoli, gli uomini debbono prendere coscienza che il fine ultimo della vita umana non è il benessere temporale della società, ma la beatitudine eterna nella contemplazione di dio. siamo usciti dalla modernità nata dal cogito ergo sum di cartesio per riscoprire attraverso la metafisica e le grandi religioni monoteistiche, ebraismo, cristianesimo, islamismo, quell’adoro ergo sum che pone l’uomo nelle sue reali condizioni e nel suo destino ultimo. nel suo ultimo discorso all’Unesco, il 21 aprile 1966, su Le condizioni spirituali del progresso e della pace (XIII, pp. 755-764)208, Maritain riafferma il primato dello spirituale come motore della storia: «le scoperte tecniche hanno avuto un peso molto grande nello sviluppo dell’umanità. le scoperte spirituali hanno avuto un peso ancor più grande […]. certo è necessario del tempo, a volte occorrono lunghi anni. proprio per questa ragione l’azione dello spirituale sugli uomini e sulla storia è più vasta e più potente che non l’azione temporale, fosse pure la più folgorante, che esercita tutta la sua forza in un dato momento ed i cui effetti sono immediatamente portati via dal flusso e dalle fluttuazioni del tempo» (XIII, p. 756). l’ultimo articolo di Maritain, Le due grandi Patrie209 è quasi un testamento: «Verrà un giorno in cui questa grande patria che è il mondo, ritroverà in buona parte, in mezzo a mali anch’essi nuovi, secondo la legge della storia del mondo, il fine vero per cui è stata creata; un giorno in cui una nuova civiltà darà agli uomini non certo la felicità perfetta, ma un ordinamento più degno di loro e li renderà più felici sulla terra, poiché io penso che la meravigliosa pazienza di dio non sia ancora esaurita, e che il giudizio finale non avverrà domani» (XVI, p. 1158). È questo il senso dell’Umanesimo integrale di Maritain, che raccorda l’umano e il divino, la ragione e la fede, la libertà e la grazia, la società civile e la comunità cristiana, sottolineando che l’uomo è in 208

cf. J. Maritain, Il compito dello spirituale nei confronti del progresso e della pace, in «Humanitas», XXVIII, 7 (luglio 1973), pp. 494-501. 209 J. Maritain, Les deux grandes Patries, in «le Monde», 2-3 septembre 1973.

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questo mondo per coltivarlo e per popolarlo, ma in vista del fine ultimo, che è la contemplazione di dio. Questa filosofia cristiana, che non svaluta i valori umani, non li considera mezzi, ma fini infravalenti, raccordati con il fine ultimo, nasce dal messaggio evangelico, che ci ricorda come la valutazione ultima del comportamento umano riguardi proprio la realizzazione dei fini intermedi: «l’avere dato da mangiare all’affamato… l’avere visitato l’ammalato…» (Mt 25, 31-46). l’uomo non è estraneo a questo mondo, ma questo mondo non basta all’uomo.

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II. L’età delle ideologie

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elenco cronologico delle opere di Jacques Maritain

Maritain ha voluto che nelle sue Oeuvres Complètes le sue opere fossero riportate in ordine cronologico secondo la prima edizione, ma nel testo dell’ultima edizione. nel Dizionario delle opere di Jacques Maritain ho ricostruito la genesi di ciascuna opera con le varianti relative alle diverse edizioni e traduzioni. si riportano in questo elenco tutte le opere di Maritain in ordine cronologico, indicando per ciascuna la collocazione nelle Oeuvres Complètes, la prima traduzione in lingua italiana e segnalando le successive edizioni solo quando è cambiato l’editore. l’edizione in lingua francese è: J. e r. Maritain, Oeuvres Complètes, a cura di J.-M. allion, M. Hany, d. Mougel, r. Mougel, M. nurdin, H.r. schmitz, editions Universitaires-editions saint paul, Fribourg (suisse)-paris 1986-2008, 17 voll. I volumi XIV e XV riportano gli scritti di raïssa Maritain. Il volume XVI riporta testi ritrovati, inediti o pubblicati in riviste secondarie tra il 1920 e il 1973. Il volume XVII contiene gli indici generali e la bibliografia. È in corso l’edizione dell’Opera omnia in lingua inglese: The Collected Works of Jacques Maritain, a cura di r. McInerny e B. doering, University of notre dame press, notre dame (Indiana). per approfondimenti e aggiornamenti, cf. i «cahiers Jacques Maritain», 21 rue de la division leclerc, 671210 Kolbsheim (France), dei quali, dal 1980 ad oggi, sono stati già pubblicati 66 fascicoli. Indirizzo di posta elettronica: [email protected]

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Elenco cronologico delle opere di Jacques Maritain

1.

I, pp. 5-612

La philosophie bergsonienne: études critiques, Marcel rivière, paris 1913, 447 pp.; nuova ed. in lingua inglese, new York 1965

2.

I, pp. 615-788

Art et scolastique, librairie de l’art catholique, paris 1920, 188 pp.; 4° ed. riv., 1947; tr. it., Arte e Scolastica, Morcelliana, Brescia 1980

3.

II, pp. 9-272

Eléments de philosophie, I. Introduction générale à la philosophie, téqui, paris 1920; 32° ed. riv., 1963; tr. it., Introduzione alla filosofia, seI, torino 1947; Massimo, Milano 1988, con postfazione di p. Viotto

4.

II, pp. 765-921

Théonas, ou les entretiens d’un sage et de deux philosophes sur diverses matières inégalement actuelles, nouvelle librairie nationale, paris 1921, 220 pp.; 19252; tr. it., Théonas, dialoghi tra un sapiente e due filosofi su argomenti di diversa attualità, Introduzione di a. Gnemmi, Vita e pensiero, Milano 1982

5.

II, pp. 922-1136

Antimoderne, editions de la revue des Jeunes, paris 1922, 247 pp.; 19252; tr. it., Antimoderno, con premessa di l. castiglione, logos, roma 1979

6.

XIV, pp. 15-81

De la vie d’oraison, À l’art catholique, paris 1925, scritto in collaborazione con raïssa; nuova ed., 1947; tr. it., Vita di preghiera, Borla, torino 1961

7.

II, pp. 275-763 II, pp. 665-763

Eléments de philosophie, II. L’ordre des concepts (Logique), pierre téqui, paris 1923, 355 pp.; 32° ed. riv., 1963, La grande logique; tr. it., Elementi di filosofia, II. Logica minore, Introduzione di J.J. sanguineti, Massimo, Milano 1990

8.

III, pp. 7-426

Réflexions sur l’intelligence et sur sa vie propre, nouvelle librairie nationale, paris 1924, 388 pp.; 4° ed. riv., 1947; tr. it., Riflessioni sull’intelligenza, Introduzione di V. possenti, Massimo, Milano 1987

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Elenco cronologico delle opere di Jacques Maritain

303

9.

III, pp. 429-655

Trois réformateurs: Luther, Descartes, Rousseau, librairie plon, paris 1925, 284 pp.; 5° ed. riv., 1947; tr. it., Tre riformatori: Lutero, Cartesio, Rousseau, Introduzione di G.B. Montini, Morcelliana, Brescia 1928; nuova ed. 1967, Introduzione di a. pavan

10.

III, pp. 657-737

Réponse à Jean Cocteau, stock, paris 1926, 147 pp.; tr. it., I contadini del cielo, la locusta, Vicenza 1947; edizioni successive: Cocteau a Maritain, Maritain a Cocteau, o.e.t., roma 1958; Lettera a Cocteau, passigli, Firenze 1988-1999

11.

III, pp. 749-780

Une opinion sur Charles Maurras, et les devoirs des catholiques, plon, paris 1926, 40 pp.

12.

III, pp. 783-988

Primauté du spirituel, plon, paris 1927, 315 pp.; diverse edizioni fino al 1961; tr. it., Primato dello spirituale, Introduzione di G. campanini, logos, roma 1980

13.

III, pp. 9911023

Quelques pages sur Léon Bloy, l’artisan du livre, paris 1927, 49 pp.

14.

III, pp. 10251191

Clairvoyance de Rome, spes, paris 1929

15.

IV, pp. 9-191

Le Docteur Angélique, Hartmann, paris 1929, XVIII-247 pp.; 3° ed. in lingua inglese, new York 1958; tr. it., Il Dottore Angelico, Introduzione di c. Bo, cantagalli, siena 1936; nuova ed., Introduzione di I. Biffi, 2006

16.

IV, pp. 193-255

Religion et culture, desclée de Brouwer, paris 1930, 115 pp.; 4° ed. riv., 1947; tr. it., Religione cultura, Guanda, Bologna 1938; Morcelliana, Brescia 1966, nota introduttiva di a. pavan

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304 17.

Elenco cronologico delle opere di Jacques Maritain

IV, pp. 257-1111

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XVII, pp. 566573

Distinguer pour unir: ou les degrés du savoir, desclée de Brouwer, paris 1932, XVIII-919 pp.; numerose edizioni, modificate e ampliate, fino alla definitiva del 1963. cf. anche la nuova introduzione alla tr. ingl., The Degrees of Knowledge, Bles, london 1959, XVII-XIX pp.; tr. it., I gradi del sapere, Morcelliana, Brescia 1974

18.

V, pp. 9-222

Le songe de Descartes, Buchet chastel, paris 1932, XII-346 pp.; nuova ed. 1965

19.

V, pp. 225-316

De la philosophie chrétienne, desclée de Brouwer, paris 1933, 166 pp.; 19382; tr. it., Sulla filosofia cristiana, Vita e pensiero, Milano 1978, Introduzione di V. Melchiorre

20.

V, pp. 319-515

Du régime temporel et de la liberté, desclée de Brouwer, paris 1933, 268 pp.; 19382; tr. it., Strutture politiche e libertà, Morcelliana, Brescia 1968, Introduzione di a. pavan

21.

V, pp. 517-683

Sept leçons sur l’être et les premiers principes de la raison spéculative, téqui, paris 1934, 284 pp.; tr. it., Sette lezioni sull’essere e sui primi principi della ragione speculativa, Massimo, Milano 1981, Introduzione di V. possenti

22.

V, pp. 985-816

Frontières de la poésie et autres essais, rouart, paris 1935, 226 pp.; tr. ingl., Art and Poetry, philosophical librairie, new York 1943, con una nuova introduzione di Maritain; tr. it., Frontiere della poesia ed altri saggi, Morcelliana, Brescia 1981

V, pp. 810-817

23.

V, pp. 817-968

La philosophie de la nature: essai critique sur ses frontières et son objet, téqui, paris 1935, 226 pp.; tr. it., La filosofia della natura, Morcelliana, Brescia 1974

24.

VI, pp. 11-250

Science et sagesse, suivi d’éclaircissement sur la philosophie morale, labergerie, paris 1935, 393 pp.; tr. it., Scienza e saggezza, Borla, torino 1963, presentazione di p. Viotto

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Elenco cronologico delle opere di Jacques Maritain

305

25.

VI, pp. 253-288

Lettre sur l’indépendance, desclée de Brouwer, paris 1935, 66 pp.; tr. it., Lettera sull’indipendenza, in Scritti e manifesti politici, 1933-1939, a cura G. campanini, Morcelliana, Brescia 1978, pp. 45-73

26.

VI, pp. 301-634

Problemas espirituales y temporales de una nueva cristiandad, Madrid, el signo 1935; ed. fr., Humanisme intégral, aubier, paris 1936; numerose edizioni, modificate e ampliate, fino alla definitiva del 1947; tr. it., Umanesimo integrale, studium, roma 1946; nuova ed., Borla, torino 1962, presentazione di p. Viotto; successiva ed., 1969, nota di p. Viotto

27.

VI, pp. 637-832

Questions de conscience, desclée de Brouwer, paris 1938, 282 pp., 19392; tr. it., Questioni di coscienza, Vita e pensiero, Milano 1980, Introduzione di V. possenti

28.

scritti di raïssa: XV, pp. 659-681 e 683-696; scritti di Jacques: VI, pp. 835-891

Situation de la poésie, desclée de Brouwer, paris 1938, 166 pp.; tr. it., Situazione della poesia, Morcelliana, Brescia 1979

29.

VII, pp. 9-49

Le crépuscule de la civilisation, ed. les nouvelles lettres, paris 1939, 31 pp.; ultima ed. riveduta e aumentata, “l’arbre”, Montréal 1941; tr. it., Il crepuscolo della civiltà, in Scritti e manifesti politici 1933-1939, a cura di G. campanini, Morcelliana, Brescia 1978, pp. 169-197

30. VII, pp. 51-280

31.

VII, pp. 283-425

Quatre essais sur l’esprit dans sa condition charnelle, desclée de Brouwer, paris 1939, 226 pp.; nuova ed. riveduta e aumentata con due appendici e una nota, alsatia, paris 1956, 272 pp.; tr. it., Quattro saggi sullo spirito umano nella condizione d’incarnazione, Morcelliana, Brescia 1978 De la justice politique, plon, paris 1940, pp. XIII, 114; tr. ingl., 1941, con una breve postfazione

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306

Elenco cronologico delle opere di Jacques Maritain

32.

VII, pp. 337-425

À travers le désastre, editions de la Maison Française, new York 1941, 149 pp. Il volume, pubblicato durante la guerra, ebbe un’edizione clandestina (aux éditions de minuit, paris 1942) e una in polonia. l’ed. ingl. (1941) ha un postscriptum (VII, pp. 424-425), la seconda ed. fr. (1944) ha una nota di Maritain (VII, pp. 339341), l’ed. definitiva (1946) ha un’altra nota di Maritain (VII, pp. 337-338); tr. it., Attraverso il disastro, capriotti, roma 1945

33.

VII, pp. 427-615

La pensée de saint Paul, ed. de la Maison Française, new York 1941, 252 pp., correa, paris 1947; tr. it., Il pensiero di san Paolo, Borla, roma 1964, presentazione di p. Viotto

34.

VII, pp. 617-695

Les droits de l’homme et la loi naturelle, editions de la Maison Française, new York 1942, 144 pp.; ulteriori edizioni francesi 1945, 1947; tr. it., I diritti dell’uomo e la legge naturale, comunità, Milano 1953; Vita e pensiero, Milano 1977, 114 pp., presentazione di V. possenti; 1991

35.

VII, pp. 699-762

Christianisme et démocratie, editions de la Maison Française, new York 1943, 94 pp.; successive edizioni, 1945 e 1947; tr. it., Cristianesimo e democrazia, comunità, Milano 1953; Vita e pensiero, Milano 1977, presentazione di G. lazzati

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Elenco cronologico delle opere di Jacques Maritain

307

36.

VII, pp. 765-900 e 963-988

Education at the Crossroads, Yale University press, new Haven 1943, 120 pp.; L’éducation à la croisée des chemins, egloff, paris 1947, rivista riga per riga dall’autore e con un’Introduzione di c. Journet, contiene l’appendice Le problème de l’école publique en France; nel volume Pour une philosophie de l’éducation, Fayard, paris 1959 e 1969 Maritain riporta le quattro lezioni con delle varianti; tr. it., L’educazione al bivio, la scuola, Brescia 1948, Introduzione di a. agazzi; nell’ed. del 1975 un’appendice di p. Viotto riporta, dopo il testo originale del 1943, le varianti del 1959 e del 1969 (pp. 161-187); una nuova ed. è stata cura da G. Galeazzi in Per una filosofia dell’educazione, la scuola, Brescia 2001, pp. 55-215

37.

VIII, pp. 9-174

De Bergson à Thomas d’Aquin, editions de la Maison Française, new York 1944, 269 pp.; Hartmann, parigi 1947; tr. it., Da Bergson a Tommaso d’Aquino, Mondadori, Milano 1947, Introduzione di r. cantoni; Vita e pensiero, Milano 1980, Introduzione di V. possenti

38.

VIII, pp. 177355

Principes d’une politique humaniste, editions de la Maison Française, new York 1944, 232 pp.; Hartmann, paris 1945; tr. it., Per una politica più umana, Morcelliana, Brescia 1968

39.

VIII, pp. 357375

À travers la victoire, Hartmann, paris 1945, 57 pp.

40.

VIII, pp. 379508

Messages (1941-1944), editions de la Maison Française, new York 1945, 221 pp.

41.

VIII, pp. 5111008

Pour la Justice: articles et discours (1940-1945), editions de la Maison Française, new York 1945, 367 pp.

42.

IX, pp. 9-140

Court traité de l’existence et de l’existant, Hartmann, paris 1947, 239 pp.; 2° ed. ampliata, 1964; tr. it., Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente, Morcelliana, Brescia 1965

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308

Elenco cronologico delle opere di Jacques Maritain

43.

IX, pp. 167-237

La personne et le bien commun, desclée de Bouwer, paris 1947, 93 pp.; tr. it., La persona umana e il bene comune, Morcelliana, Brescia 1948

44.

IX, pp. 239-438

Raisons et raison, egloff, paris 1948, 358 pp.; tr. it., Ragione e ragioni, Vita e pensiero, Milano 1982, Introduzione di V. possenti

45.

IX, pp. 441-469

La signification de l’athéisme contemporain, desclée de Brouwer, paris 1949, 42 pp.; tr. it., Il significato dell’ateismo contemporaneo, Morcelliana, Brescia 1950

46.

IX, pp. 471-736

Man and the State, University of chicago press, chicago 1951, 219 pp.; tr. fr., L’homme et l’état, presse Universitaire de France, paris 1953; le oc riportano il testo francese, ma rivisto con le integrazioni dell’ultima edizione americana del 1956; tr. it., L’uomo e lo Stato, Vita e pensiero, Milano 1963; nuova ed., 1981, Introduzione di V. possenti; ed. successiva, 1992, con una nota di bibliografia ragionata di p. Viotto; ulteriore ed., Marietti, Genova 2004

47.

IX, pp. 739-939

Neuf leçons sur les notions premières de la philosophie morale, téqui, paris 1951, 195 pp.; 196412; Nove lezioni sulle prime nozioni della filosofia morale, Vita e pensiero, Milano 1978, Introduzione di V. possenti

48.

X, pp. 9-99

Approches de Dieu, alsatia, paris 1953, 136 pp.; tr. it., Alla ricerca di Dio, edizioni paoline, roma 1968, 118 pp.; nuova ed. con il titolo Ateismo e ricerca di Dio, Massimo, Milano 1981

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Elenco cronologico delle opere di Jacques Maritain

309

49.

X, pp. 101-601

Creative Intuition in Art and Poetry, pantheon Book, new York 1953, XXXII-423 pp.; tr. fr., L’intuition créatrice dans l’art et la poésie, desclée de Brouwer, paris 1966 (presenta delle varianti rispetto al testo inglese); tr. it., L’intuizione creativa nell’arte e nella poesia, Morcelliana, Brescia 1957 (è la traduzione dell’ed. ingl.; la successiva ed. del 1983 è ricostruita sul testo francese)

50.

X, pp. 928-949

Georges Rouault, Harry ambrams, new York 1954, 74 pp.; tr. it., in «Il sabato», 6-11 aprile 1980, pp. 17-19

51.

X, pp. 603-761

On the Philosophy of History, charles scribner’s sons, new York 1957, 180 pp.; tr. fr. di c. Journet, Pour une philosohpie de l’histoire seuil, paris 1959; tr. it., Per una filosofia della storia, Morcelliana, Brescia 1957

52.

X, pp. 763-922

Reflection on America, charles scribner’s sons, new York 1958, 205 pp.; tr. fr. a cura di ph. lecomte du nouy, Réflexions sur l’Amérique, Fayard, paris 1958; tr. it., Riflessioni sull’America, Morcelliana, Brescia 1960

53.

VII, pp. 901-961

Pour une philosophie de l’education, Fayard, paris 1959, 250 pp.; nuova ed. riv., 1969; tr. it., L’educazione della persona, la scuola, Brescia 1962, Introduzione di p. Viotto; nuova ed. a cura di G. Galeazzi, in Per una filosofia dell’educazione, la scuola, Brescia 2001, pp. 217-304

54.

XIV, pp. 83-154

Liturgie et contemplation, scritto in collaborazione con raïssa, prefazione di c. Journet, desclée de Brouwer, paris 1959, 98 pp.; tr. it., Liturgia e contemplazione, Borla, roma 1979

55.

XI, pp. 9-130

Le philosophe dans la cité, alsatia, paris 1960, 205 pp.; tr. it., Il filosofo nella società, Morcelliana, Brescia 1976, Introduzione di a. pavan

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310

Elenco cronologico delle opere di Jacques Maritain

56.

XI, pp. 133-230

The Responsibility of the Artist, scribner’s sons, new York 1960, 120 pp.; tr. fr., La responsabilité de l’artiste, Fayard, paris 1961; tr. it., La responsabilità dell’artista, Morcelliana, Brescia 1963

57.

XI, pp. 2331040

La philosophie morale. Examen historique et critique des grands systèmes, n.r.F. Gallimard, paris 1960, 588 pp.; ristampe 1961-1966; tr. it., La filosofia morale, Morcelliana, Brescia 1971; 19995, con una posfazione di V. possenti e un Indice degli argomenti di p. Viotto

58.

XII, pp. 9-123

Dieu et la permission du mal, desclée de Brouwer, paris 1963, 82 pp.; 19643, con una nota aggiuntiva; tr. it., Dio e la permissione del male, Morcelliana, Brescia 1965

59.

XII, pp. 429-660

Il mistero di Israele, Morcelliana, Brescia 1964 186 pp.; Introduzione di a. pavan; l’ed. or. it., a cura di a. pavan, precede l’ed. fr. e presenta alcune varianti rispetto alle oc; ed. fr., Le mystère d’Israël, desclée de Brouwer, paris 1965; nuova ed., con testi non compresi nella precedente ed., Il mistero di Israele, MassimoJaca Book, Milano 1990, Introduzione di V. possenti

60.

XII, pp. 122-427

Carnet de notes, desclée de Brouwer, paris 1965, 430 pp. le oc riportano il testo programmato per una seconda ed. alleggerito dei capitoli VII e VIII che sono stati pubblicati in Approche sans entraves; tr. it., Ricordi e appunti, Morcelliana, Brescia 1967; l’ed. it. riporta anche i capitoli VII Amore e amicizia e VIII A proposito della Chiesa del Cielo

61.

XII, pp. 6631035

Le paysan de la Garonne, desclée de Brouwer, paris 1966, 410 pp.; tr. it., Il contadino della Garonna, Morcelliana, Brescia 1969; nuova ed., Il cerchio, rimini 2009

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Elenco cronologico delle opere di Jacques Maritain

311

62.

XII, pp. 10371176

De la grace et de l’humanité de Jésus, desclée de Brouwer, paris 1967, 156 pp.; tr. it., Della grazia e della umanità di Gesù, Morcelliana, Brescia 1971

63.

XIII, pp. 9-411

De l’Eglise du Christ. La personne de l’église et son personnel, desclée de Brouwer, paris 1970, 310 pp.; nuova ed. rivista e aumentata nelle note, 1971; tr. it., La Chiesa del Cristo. La persona della Chiesa e il suo personale, Morcelliana, Brescia 1971

64.

XIII, pp. 4131223

Approches sans entraves, Fayard, paris 1973, 600 pp., Préface a cura di e.r. Korn; tr. it., Approches sans entraves, scritti di filosofia cristiana, città nuova, roma, vol. I 1977, vol. 2 1978

65.

XVI, pp. 906918 XVI, pp. 687918

Nove lezioni sulla legge naturale, a cura di F. Viola, Jaca Book, Milano 1985, 202 pp.; l’ed. fr. a cura di G. Brazzola, La loi naturelle ou loi non écrite, editions Universitaires, Fribourg-paris 1986, riporta una decima lezione su Il Decalogo

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Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

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312

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Indice delle tavole didattiche

tav. 1 Kant al crocevia della filosofia moderna . . . . . . . . pag. 12 tav. 2 I giudizi e le categorie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 20 tav. 3 la critica della ragion pura . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 24 tav. 4 l’essere dovuto e il dovere per l’essere . . . . . . . . . » 26 tav. 5 Il giudizio riflettente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 35 tav. 6 Il divenire secondo schelling . . . . . . . . . . . . . . . . . » 53 tav. 7 lo sviluppo dell’idea in Hegel . . . . . . . . . . . . . . . . » 65 tav. 8 la filosofia dell’essere secondo rosmini . . . . . . . . » 122 tav. 9 la morale dopo Kant . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 145 tav. 10 le forme e i gradi dello spirito in croce . . . . . . . » 206 tav. 11 l’inconscio subconscio e sovraconscio . . . . . . . . » 216 tav. 12 Uno sguardo riepilogativo . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 285

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314

Il pensiero contemporaneo secondo J. Maritain

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Indice degli argomenti

Gli indici degli argomenti e dei nomi sono costruiti secondo lo schema già usato nel precedente volume, dedicato al pensiero moderno, onde facilitare la consultazione in parallelo dei due volumi di questa storia della filosofia secondo Maritain, da socrate a sartre. In relazione alle problematiche filosofiche affrontate nel pensiero contemporaneo, sono stati inseriti nuovi argomenti. ad esempio ho inserito “creazione e evoluzionismo”, “Materia e forma”, “potenza e atto”, nella sezione della Filosofia della natura, in quanto con darwin, Kant e Marx sono diventati argomenti di attualità. Ho aggiunto alla Logica la voce “logica reale”, perché con Hegel si identifica la metafisica con la logica. Ho inserito “intersoggettività” a riguardo della “oggettività e soggettività della legge morale”, perché alcune correnti contemporanee fondano il valore etico e il diritto naturale solo sull’intersoggettività. Ho aggiunto, a proposito dell’origine dello stato, la voce “sociale”, in quanto per lo storicismo di comte, di Hegel, di Marx lo stato è un prodotto dell’evoluzione storica. nelle sezioni riguardanti la Politica e l’Economia non compaiono più “dispotismo illuminato”, “Fisiocrazia” e “Mercantilismo”, mentre si trova “socialismo”, perché nelle diverse posizioni, utopistiche o scientifiche, di destra o di sinistra, le dottrine e le politiche socialiste hanno caratterizzato il secolo scorso. Ho inserito nella Critica della conoscenza la voce “realismo critico”, che Gilson rimprovera a Maritain, ma che per Maritain è il nome che si addice ad una filosofia che, fedele all’oggettività della conoscenza, voglia riconoscere il contributo del soggetto al processo cognitivo, sottolineato dal pensiero contemporaneo. Indico, con una t di seguito al numero di pagina, le Tavole didattiche in quanto in quei grafici Maritain sintetizza ed esplicita il suo pensiero sull’argomento trattato. Quando un argomento si sviluppa in più pagine segnalo quelle pagine in neretto. Una Storia della filosofia secondo Maritain non poteva includere Maritain, ma chi ha la pazienza di consultare le pagine segnalate in neretto può facilmente ricostruire il suo pensiero. Questo indice permette di valutare lo slittamento linguistico-concettuale che si è verificato nella storia della filosofia, basti pensare alla relazione materia e forma in aristotele e in

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Indice degli argomenti

315

Kant, o alla relazione spazio e tempo in aristotele, agostino, cartesio, Hume, Kant, Bergson, einstein, o al diverso significato dell’Atto puro in aristotele e Gentile o della mistica in san Giovanni della croce e in Bergson. le pagine segnalate comprendono anche le note di bibliografia, in modo che si possano rintracciare le opere che i filosofi contemporanei hanno dedicato a questi specifici argomenti.

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Questioni di epistemologia analisi ontologica e analisi empiriologica: 153, 154, 160, 163, 193, 232, 233, 287 sapere percettivo e sapere costruttivo: 9, 13, 41, 128, 130, 146, 160, 189 sapere intuitivo e sapere discorsivo: 21, 48, 53, 54, 56, 70, 73, 86, 90, 105, 125, 126, 172, 236, 242, 246, 265, 297 sapere teoretico e sapere pratico: 11, 54, 60, 98, 104, 105, 115, 183, 195, 196, 225, 250, 283 scienze ananoetiche: il sovraintelligibile: 46. 70, 126, 130, 278 scienze dianoetiche: l’intelligibile: 12, 13, 18, 43, 47, 58, 61, 63, 120, 121, 130, 141, 147, 163, 166, 191, 285 scienze perinoetiche: l’infraintelligibile: 46. 74, 76, 133, 233 l’intuizione dell’essere: 90, 122, 150, 163, 166, 172, 173, 1677, 178, 183, 184, 188. 196, 228+229, 243+244, 268, 275, 276, 286 I gradi del sapere: filosofia, teologia, mistica: 18+24, 24T, 30, 31, 130, 157+158, 163, 194, 278

problematiche relative all’essere Metafisica essenza ed esistenza: la sussistenza: 12, 18, 47, 49, 61, 64+66, 76, 77, 83, 84, 85+87, 89, 112, 125, 164, 170+171, 173, 174+176, 177, 188, 227, 228, 259, 240, 259, 274, 275+278, 296, 307 Monismo dualismo e pluralismo: 15, 33, 35T, 46, 53+54, 55, 53T, 59, 60, 63, 68, 74, 77, 79, 85, 106, 120, 121, 129, 132, 144, 151, 167, 180, 199, 200, 203+206, 286, 292, 296+297 trascendenza ed immanenza: 16, 39, 47, 49+50, 53T, 58+61, 69, 70, 71, 73, 90, 97,104, 106, 107, 111, 119+125, 148, 149, 175, 184, 198, 203, 204, 209, 210, 223, 230, 235, 238+240, 261, 262, 267, 277, 296+297 la sostanza: 20, 21, 55, 64, 71, 111, 120, 132, 133, 174, 202, 231, 243, 254, 257, 259, 266 causa prima e cause seconde: 20, 21, 23+24, 31, 36, 62, 64, 76, 93, 104, 106+107, 120, 128+129, 140, 148, 151, 176,

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Indice degli argomenti

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189, 193, 201, 202, 231, 232, 236, 247, 296+297 la subordinazione delle cause: 32, 93, 107, 126, 221, 245

Antropologia Individuo e persona: 9, 27, 29, 36, 38+43, 54, 57, 71+73, 75, 77, 79+80, 83, 85, 86, 91, 95, 96, 97, 110+112, 122, 123, 134, 136, 139, 140+141, 149, 167+168, 169, 180, 183+184, 198, 199, 202, 213+217, 219, 223+224, 227+230, 238, 239, 254, 257, 259+269, 270, 282, 291, 292, 295, 296, 308, 309, 311 dualismo antropologico: 12, 15, 33, 35T, 292 autocoscienza coscienza inconscio: 21+22, 25, 32, 41, 49, 64+68, 70, 71, 75, 81, 89, 100, 104, 113, 120, 134, 136, 139, 149, 159, 161, 163, 167, 174, 185, 198, 202, 204, 210+211, 212+219, 216T, 223, 226, 241, 243, 258, 261, 266+268, 286, 290+295 Uguaglianza proporzionale: 95+96, 103, 292, 293 Filosofia della natura Filosofia della natura, scienze naturali, scienze fisico matematiche: 9, 12, 41, 46, 51, 55, 66, 95, 140, 142, 148, 159, 194, 230+231, 233, 287, 298, 304 Finalismo e meccanicismo: 33, 36, 39, 53, 66, 106, 132, 142, 242, 257, 275

creazione e evoluzionismo: 7, 53, 79, 102, 106+107, 123, 125, 126, 131, 136+237, 140+142, 146, 148+149, 151, 154, 187, 241, 244+245, 274, 284 Materia e forma: 7, 13, 14, 16+19, 25, 29, 39, 42, 47, 52, 60, 98, 102, 104, 105, 106+108, 118, 128+129, 132+133, 137, 140, 142, 159, 190, 215, 228, 245, 297+298 potenza e atto: 46, 61, 165, 170, 171, 173, 188, 190, 209+210, 214, 216, 228, 274, 296 spazio-tempo: 15, 19, 22+23, 24T, 64, 70, 76, 120, 150, 166, 193, 210, 233, 243, 287

Teologia teismo deismo ateismo: 38, 48, 91+92, 95, 98, 99, 100, 102, 107, 114, 132, 138, 150, 198, 217, 252, 259, 285T, 285+286, 297, 308 panteismo e politeismo: 50, 59, 70, 73, 74, 76, 100, 125, 132, 148, 157, 199 teologia scientifica e teologia mistica: 9, 41, 88, 101, 125, 138, 158, 165, 167, 171, 183, 185, 198, 220, 222, 223, 236+238, 240, 251+256, 275, 280, 281 le diverse vie di accesso all’assoluto: 22+23, 31+32, 38, 39, 87+88, 119+121, 122T, 125, 126, 169, 179, 204, 237+239, 245, 246, 267, 271, 276+277, 282, 285+286, 290+293, 296+297, 308, 310

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l’essenza di dio: l’aseità: 9, 23, 46, 49, 176, 225, 277+278 relazione tra la fede e la ragione: 38, 84, 86, 87, 120, 125, 130, 140, 144, 169, 197, 237+238, 241, 255+256, 266, 298 relazione tra la libertà e la grazia: 41, 87, 116, 122, 126, 165, 166, 179, 181, 224, 225, 238, 239, 298 l’esperienza mistica: 61, 69, 76, 90, 149, 165, 167+168, 172179, 212, 234+238, 246+248, 251, 272, 297 secolarizzazione del cristianesimo: 38, 56, 92, 112, 113, 150, 257, 283

problematiche relative al conoscere Gnoseologia Innatismo e sperimentalismo: 7, 12, 14, 16+19, 21, 33, 74, 76, 85, 116, 118+119, 134, 137+138, 141, 143, 154, 159, 166, 178, 185, 198, 201+202, 243, 266+267, 285+286 percezione sensoriale: 13, 116, 119, 120, 137, 138, 273, 286 Immaginazione fantastica: 17, 20, 49, 54, 76, 119, 127, 134, 137, 148, 198, 250 percezione intellettuale: 13, 17, 42+43, 73, 119, 120, 170, 243+244, 278, 290 I gradi di astrazione: fisica matematica metafisica: 8, 13, 15, 17, 24, 50, 60, 63, 89, 120,

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138, 146, 147, 151, 155+156, 163, 170, 178, 190, 191, 193, 194, 199, 242, 235, 278, 288 senso comune e senso morale: 34, 106, 160, 178, 193, 230, 232, 271, 290 processo di concettualizzazione: 47, 55, 57, 75, 86, 106, 107, 132, 137, 146, 159, 172+173, 179, 181, 192, 211, 229, 235+236, 255, 282

Logica logica formale, logica reale, logica simbolica: 8, 9, 19, 45, 58, 62+64, 65T, 79, 119+120, 122T, 134, 135, 137, 153, 160, 163, 190+193, 194, 200+201, 203, 205, 208, 209, 279, 285T, 287, 290, 298, 302 ragioni di essere e enti di ragione fondati in re: 9, 21, 59, 108, 155, 193, 289 concetto o idea: 17+18, 22+24, 42, 54, 58+59, 61, 62+64, 111, 118+122, 122T, 125, 155, 170, 177, 195, 204, 205+206, 208, 211, 236, 242, 244, 276, 287+290 Giudizi analitici e sintetici: 16+18, 20T, 20+22, 27, 120+122, 137, 138, 153, 289 ragionamenti induttivi e deduttivi: 54, 58, 64, 118, 135, 137+138, 172, 192, 289 principi primi di per sé evidenti: 21, 23+24, 57+58, 61, 62, 75, 120, 141, 231, 232, 274+275, 287+290, 304

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analogia e sovranalogia: 59, 60, 126, 190, 233, 236, 237, 240, 276, 278, 286, 292

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Critica della conoscenza oggettività e soggettività della conoscenza: 9, 13, 17, 21+22, 24T, 34, 38+42, 59, 66, 70, 89, 101, 119+122, 122T, 146+147, 161, 161+166, 169, 172+173, 174, 178, 182, 204, 206, 220, 242, 287+290 Verità e verifica: evidenza reale ed evidenza razionale: 17, 11, 43, 54, 138, 149, 161, 163, 190, 196+198, 231, 280 nominalismo: 155, 158, 191, 195, 199, 288+289 realismo critico: 7, 13, 101, 159, 228, 257, 290, 324 Il linguaggio filosofico, simbolico, poetico, mistico: 8, 81, 134+135, 149, 171, 188, 190+193, 207, 213+214, 244, 267, 276, 287+280 l’appello di intelligibilità e l’essere intenzionale: 21, 42, 43, 46+47, 74, 120, 161, 163+164, 166, 171, 228, 233, 237, 267 conoscenza per modo di inclinazione: 123, 235+236, 237, 268 Imperialismo gnoseologico: 57, 69, 92+94, 155, 154 relazione tra la ragione e la fede: vedi Teologia

problematiche relative all’agire e al fare Etica Il bene morale: 25+37, 26T, 61+63, 65T, 67, 80, 105, 121+122, 122T, 126, 127, 135+136, 145T, 196, 206T, 207, 208, 230, 247+248, 252, 253, 266, 281, 290+293 libero arbitrio e libertà morale: 29+30, 31+32, 37, 40+42, 49, 62, 67+69, 72, 76, 86, 97, 103, 111+112, 121, 131, 139, 159, 174+176, 194, 223, 232, 246, 253, 260+261, 273, 274, 284, 304 Valore e fine: 25+29, 32+36, 40, 68, 90, 121, 141+142, 146, 150, 176, 182, 197, 202, 214, 222, 226, 227, 256, 259, 290+293 Felicità e beatitudine: 28+33, 37, 120, 136+139, 141, 256, 285T, 290+291, 298 oggettività e soggettività della legge morale e l’intersoggettività: 9, 29+32, 35T, 64+69, 75, 84, 86+88, 89, 191, 112+113, 121-122, 122T, 138, 145T, 153, 159, 162, 167, 174, 178, 182, 198, 209, 223, 242, 261, 290+293 relazione tra la libertà e la grazia: vedi Teologia Virtù morali e teologali: 31, 37, 89, 113, 115, 123, 124, 150, 184+185, 202, 217, 235+236, 249, 256, 297

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Il problema del male: 37+38, 54, 61, 63, 71, 74, 79, 80, 85, 90, 97, 110, 113, 116, 174+175, 180, 199, 251+253, 278, 280+282, 291, 292, 310 Filosofia morale adeguatamente presa: 238, 248, 256, 268 la dissimmetria tra l’essere e il non essere: 174, 253 sapere speculativamente pratico e sapere praticamente pratico: 196

Filosofia del diritto diritto naturale e legge eterna: 9, 37, 51, 65T, 66+69, 112, 123+124, 155, 167, 209, 219+220, 223, 226, 247, 285T, 290+293 diritto positivo e legge civile: 68, 123, 139, 143, 208+209, 220+222, 223+226, 260, 285T, 290+293 Giusnaturalismo: 285T, 293 Giurazionalismo: 284, 285T, 293. Giuspositivismo: 51, 67, 69, 285T, 293

Politica Filosofia della politica, scienza e arte della politica: 27, 36+37, 51, 56, 65T, 67+69, 93+94, 99, 102, 105, 111, 115, 118, 123+124, 125, 126+127, 130, 137, 143, 157, 196, 208, 210, 220+222, 223+226, 248, 249, 259, 262+263, 277, 278, 279, 280, 285T, 290+295, 305, 306, 307, 308

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origine naturale, contrattuale, storica dello stato: 36+37, 51, 67+69, 71, 73, 102, 111, 123+124, 139, 199, 210, 219, 220, 221+222, 226, 248, 249, 285T, 290+295, 308 la sovranità: 219, 221, 226, 284, 297 Fondamentalismo e relativismo: 9, 105, 113, 147, 152, 229, 221+222, 223+225 relazione tra la chiesa e lo stato: 37, 51, 92, 117, 118, 123+124, 126+127, 210, 221, 222, 255, 277, 278, 311 assolutismo: 51, 68+69, 97, 139, 152, 157, 210, 226, 292, 294+295 liberalismo: 48, 91, 93, 94, 135, 139, 154, 220, 223, 262 socialismo: vedi Economia cristianità sacrale e cristianità temporale: 24, 50, 94, 221, 249, 256, 277+278, 289, 306

Economia capitalismo: 91, 93, 109, 110, 114, 115, 158, 260, 263, 297 liberismo: 137, 196, 208 socialismo: 90+103, 114, 130, 144, 202, 222, 263, 295

Filosofia della storia sapere storico e sapere filosofico: 8, 9, 57+56, 60+62, 73, 97, 108+109, 131, 143, 147, 148+149, 153+155, 158, 183, 205, 248, 255+256, 280+282, 309

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determinismo, libertà umana, provvidenza di dio: 36, 41, 47, 57, 60+62, 69, 71+73, 107-108, 111, 148+149, 180, 186, 197, 210, 245, 256, 280+283, 296+297, 309 storicismo e antistoricismo: 60+62, 73, 107, 112, 129, 133, 152+153

Estetica la natura della bellezza e la conoscenza poetica: 34+36, 35T, 53+54, 70, 77, 81, 86+87,

127, 134, 176, 200, 202, 206+208, 206T, 209, 211, 215+216, 216T, 249, 250, 264+265, 270, 274, 302, 304, 305, 209, 310 la virtù dell’arte: 53+54, 70, 81, 82, 104, 115, 207, 250, 274 la creatività artistica: 52+53, 54, 70, 81+82, 94, 216T, 250, 264-265. classicismo: 78, 207, 257. romanticismo: 53, 55, 76, 143, 197, 207, 220 surrealismo: 8, 9

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In questo Indice dei nomi sono stati conservati i nomi dei pensatori e delle correnti di pensiero precedenti, perché Maritain connette in continuità le diverse modalità del filosofare, che variano con il susseguirsi dei filosofi nella storia, con la filosofia, che rimane invariata nella sua problematica per ogni uomo, che, rispettando l’oggettività della sua ricerca, non la risolve nella soggettività del suo pensare. nel segnalare le correnti ideologiche sono stati inseriti nuovi nomi, rispetto al volume precedente, dedicato al Pensiero moderno (2011), come modernismo, ermeneutica, psicoanalisi… ma anche quelli delle diverse scuole che, via via, si sono andate costituendo, come la Scuola di Vienna, la Scuola di Francoforte, la Scuola di Chicago… In questo elenco di nomi ho ritenuto opportuno inserire anche la voce criticismo, perché anche se non costituisce una specifica scuola di pensiero e riguarderebbe, in realtà, solo Kant, dopo di lui è diventato un atteggiamento molto diffuso nella filosofia contemporanea – basti pensare all’empiriocriticismo e alla fenomenologia – che pretende di anticipare la critica alla conoscenza, pretendendo, direbbe Maritain, di fare dei primi passi un ritorno sui propri passi (IV, 397). talvolta i nomi non compaiono nella pagina a cui si fa riferimento, ma nella medesima si analizza il contributo alla storia della filosofia e della cultura di quel pensatore o di quella scuola. sono importanti i rimandi alle Tavole didattiche, perché Maritain si serve anche della grafica per meglio esprimere il suo pensiero. se un nome risulta esclusivamente riportato in una nota, alla cifra della pagina indicata segue una n. Quando le pagine sono interamente dedicate al medesimo pensatore o alla medesima corrente di pensiero la numerazione è indicata in neretto, come pure i riferimenti contenuti nella Conclusione. l’Indice dei nomi del secondo volume di questa Storia della filosofia secondo Maritain, poiché comprende anche i nomi riportati nelle note bio-bibliografiche, permette di rintracciare le opere che i filosofi contemporanei hanno dedicato ai pensatori precedenti, riscontrando la continuità del filosofare umano, che attraverso il contributo di molti cerca la filosofia come scienza.

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Indice dei nomi

abramo: 87, 88, 277 adam Karl: 187 adler Mortimer: 273, 274 Agostinismo: 157, 168, 240, 280 agostino, san: 60, 83, 234, 240, 272, 275, 280, 282 alain (pseudonimo di Henri alban Fournier): 179 alberto Magno, san: 287 ales Bello angela: 168n alessandro IV: 282n allard Jean louis: 269 allion Jean Marie: 301 althusser louis: 100 archambaud paul: 262 ardigò roberto: 129, 143 aristotele: 9, 13, 14, 18, 19, 25, 39, 46, 47, 56, 58, 61, 68, 74, 85, 104, 106, 120, 123, 159, 161, 187, 188, 190, 192, 207, 228, 230n, 236, 243, 251, 272, 274, 277n, 283+289 Aristotelismo: 28, 62, 92, 106, 118, 120, 124, 161, 232, 286 aron raymond: 173n avenarius richard: 98, 189 Bachelard Gaston: 192 Bacone Francesco (Francis Bacon): 101, 137, 201, 289 Badoglio pietro: 205n Balthasar Hans Urs, von: 240n Barth Karl: 183, 184, 255 Barthes roland: 8 Bendersky Joseph: 220n Bianchi enzo: 267n Bonomi Ivanoe: 205n Bentham Jeremy: 129, 135+136, 137, 139, 141, 142

Berdjaev nikolaj: 10, 115, 168, 170, 183, 252, 253+258, 263 Bergson Henri: 7, 9, 91, 94, 128, 145T, 146, 159, 160, 164, 177, 178, 197, 218, 223, 229, 239, 241+251, 359, 271, 275, 297 Berkeley George: 164, 210, 222, 272, 286 Bismarck otto, von: 48 Blanqui Jerome adolphe: 93 Blondel Maurice: 234+239, 250, 259n, 262n, 272n, 282 Bloy lèon: 220, 253, 254, 303 Bo carlo: 303 Böhme Jakob: 61 Bonaventura, san: 187, 275n Borglie louis, de: 159 Boutroux Étienne Émile: 232 Brazzola Georges: 311 Brentano Franz: 161+162, 273, 286 Breuer Joseph: 212n Bruno Giordano: 53, 59, 63, 143, 204 Brunschvicg léon: 159 Buber Martin: 227 Buffon Georges louis leclerc, conte di: 131, 136 caifa: 224, 294 campanella tommaso: 204 campanini Giorgio: 303, 305 cantoni remo: 307 capograssi Giuseppe: 123n cartesio (descartes rené): 9, 17, 22, 33, 39, 41, 42, 43, 54, 56, 63, 75, 85, 87, 101, 105, 112, 117, 147, 150, 151, 157, 159n, 162, 164, 176, 195, 204,

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211, 214, 230, 231, 250, 259n, 272n, 275, 283+289 cassirer ernest: 182 castiglioni luigi: 302 cattaneo carlo: 143 Cattolicesimo: 69, 91, 161, 165, 177, 185, 187, 239, 242, 251, 264, 270 charcot Jean-Martin: 212n chenaux philippe: 185n chenu Marie dominique: 165 chesterton Gilbert Keith: 270 chevalier Jacques: 259n ciocchetti emilio: 272 clément olivier: 257 clérissac Hummbert: 270, 271 cohen Hermann: 182 collin remy: 212 comte auguste: 45, 91, 95, 102, 129, 131, 133, 135, 137, 139, 144+156, 145T, 158, 188, 189, 270 Comunismo: 59, 91, 93, 94, 98, 99, 100, 103, 110, 112, 113+116, 253, 256, 264, 277, 291, 293 Controriforma: vedi Riforma cattolica cordovani Mariano: 204, 272 cottier Georges: 100n cousin Victor: 230+231 couturier Marie alain: 181 Cristianesimo: 8, 25, 28, 37, 38, 56, 70, 71, 80, 83, 87, 90, 92, 98, 101, 102, 104, 113, 122, 126, 131, 137, 150, 162, 168, 179, 180, 187, 223, 234, 242, 253, 255, 256, 259, 264, 271, 275, 278, 282, 298, 306 Criticismo: 7+10, 11, 12T, 14,

323

16, 20, 30, 38, 39, 40, 46, 120, 153, 160, 183, 189, 285 croce Benedetto: 56, 112, 203, 205+209, 206T, 210, 211, 227, 272 d’addio Mario: 123n dalbiez roland: 212, 214, 215 d’alembert Jean-Baptiste: 95 dalì salvador: 284 danese attilio: 259n d’annunzio Gabriele: 80 darwin charles robert: 55, 83, 99, 102, 129, 135, 136+137, 140, 232, 284 debré Marcel: 91 debussy: 81 dehau thomas: 271+272 de Hovre François: 134, 270 democrito: 103 de sanctis Francesco: 203 dewey John: 145T, 146, 200+203, 240, 247, 270, 279, 286 de Wulf Maurice: 270 dilthey Wilhlem: 182 dirac paul: 159 d’Isola leletta aurelia: 6 doering Bernard: 301 dostoevskij Fedor: 168, 251+252 driesch Hans: 136, 142 du Bos charles: 186 duns scoto Giovanni: 171n, 195, 275n durkheim Émile: 128, 129, 134, 153, 270 Ebraismo: 109, 177, 185, 242, 252, 257, 283, 286, 294, 296, 298 edipo: 213

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einstein albert: 159, 179, 193, 184, 242n Ellenismo: 59 emerson ralph Valdo: 270 Empirismo: 7, 11, 12T, 16, 22, 39, 40, 52, 116, 128, 135, 138, 139, 143, 152, 153, 162, 195, 197, 200, 201, 208, 285, 286 engels Friederich: 93, 98, 100, 102+109, 113 epicuro: 30, 103, 194 eraclito: 61 Ermeneutica: 8, 171, 239, 266, 267, 268, 287 eschilo: 78 euchen rudolf: 40 euripide: 78 Fabro cornelio: 273 Falangismo: 184, 293 Fascismo: 56, 80, 91, 187, 204n, 205, 209, 210n, 277, 293 Federico de onís: 8 Federico Guglielmo IV: 52 Fénelon (François de salignac de la Mothe): 94 Fenomenologia: 8, 11, 40, 158, 160, 161+168, 170, 171, 173, 182, 183, 184, 185, 227, 228, 240, 260, 266, 273, 283+289 Ferdinando II: 124 Ferrari Giuseppe: 143 Feuerbach ludvig: 98, 100+101, 102, 103, 104, 111, 114 Fichte Johann Gottlieb: 47, 48+51, 52, 55, 58, 66, 74, 75, 76, 84, 183, 204, 210 Florovsky George Vasilievic: 170 Foester Friedrich Wilhelm: 270n Fondane Benjamin: 90, 169, 170, 253

Formella Zbigniew: 159n Fornasier roberto: 188n Fourcade Michel: 91n Fourier charles: 92, 94, 95 Freud sigmund: 75, 183, 212+217, 216T, 218, 232, 250, 266, 270, 289 Froissart Jacques (Bruno di Gesù Maria): 168, 271n Fumet stanislas: 271n Furtwangler Wihlelm: 186 Gadamer Hans Georg: 8, 268 Galeazzi Giancarlo: 307, 309 Galilei Galileo: 9, 120, 143 Gallagher donald: 269n Galluppi pasquale: 117, 120, 204 Garaudy roger: 100, 113 Gardeil ambroise: 272 Garrigou-lagrange réginald: 271 Gemelli agostino: 269 Gentile Giovanni: 56, 203, 204, 205, 209+211, 227, 272 Gerl Hanna Barbara: 165n, 240n Giacobbe: 169, 179 Giansenismo: 97, 176 Gide andré: 80, 284 Gilson Étienne: 10, 13, 228, 229n, 273, 274n, 275+278 Giobbe: 170 Gioberti Vincenzo: 117, 124+127, 203, 204, 209n Gioia Melchiorre: 116 Giolitti Giovanni: 205n Giovanna d’arco: 241 Giovanni apostolo, san: 168, 277, 281 Giovanni della croce, san (Juan de Yepes y alvares): 90, 165n, 168, 179, 272 Giovanni paolo II: 118, 282n

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Giovanni XXIII: 241n Giove: 86, 213 Gnemmi angelo: 302 Gödel Kurt: 189 Goethe Johann Wolfgang: 51, 53, 75, 114, 142 Goisis Giuseppe: 123n Gorgia: 57 Grabmann Martin: 273 Gramsci antonio: 115 Green Julien: 217, 271n Green thomas: 203 Grosso Mauro: 275n Grozio (Huig Van Groot): 293 Guardini romano: 168, 240 Guglielmo di alvernia: 272n Guicciardini Francesco: 143 Guitton Jean: 241n

Heisenberg Werner Karl: 159, 193+195 Helvetius claude adrien: 132 Herbart Johann: 74, 202 Heurtin Marie: 191 Hildebrand dietrich: 185+186 Hitler adolf: 187n Hobbes thomas: 39, 101 Holbach paul Henri thiry, de: 132 Hölderling Friedrich: 55 Hubert Bernard: 269 Hume david: 17, 21, 53, 138, 147, 199, 286 Husserl edmund: 159, 161, 162+165, 167, 171n, 173, 177, 182, 183, 229, 260, 266n, 268 Hutchins robert: 273

Haecher theodor: 187-188 Haeckel ernest: 129, 142 Hamelin octave: 231 Hamilton William: 160 Hany Maurice: 301 Harnach adolf: 48 Hartmann nicolai: 182 Hegel Georg Wilhelm Friedrich: 7, 45, 46, 47, 51, 52, 54, 55+73, 65T, 74, 75, 76, 77, 78, 79, 83, 84, 85, 88, 89, 90, 91, 92, 98, 100+108, 112, 116, 117, 129, 141, 144, 145T, 148, 149, 151, 152, 154, 157, 165, 169, 179, 182, 184, 200, 203, 204, 205, 297, 208, 209, 211, 225, 252, 256, 283-289 Hegelismo: 72, 90, 98, 106, 114, 116, 200, 203, 204, 256, 285 Heidegger Martin: 8, 56, 160, 161, 164, 170, 171+173, 177, 178, 228, 268

Ibsen Henric: 254 Idealismo: 7, 8, 11, 12T, 14, 18, 40, 45+73, 74, 75, 76, 80, 83, 84, 85, 88, 91, 101, 106, 108, 129, 130, 131, 151, 164, 166, 182, 183, 197, 201, 203+211, 227, 229, 272, 275, 283+289 Illuminismo: 7, 8, 11+14, 15, 38, 45, 55, 69, 76, 92, 94, 106, 116, 131, 230 Irrazionalismo: 45, 52, 54, 74+90, 252, 255 Islamismo: 100, 298 James Henry: 199 James William: 139, 195, 197+200, 201, 203, 239 Jaspers Karl: 168, 170, 173n Journet charles: 10, 134n, 135, 187, 255, 256n, 269, 271, 273, 280+281, 307, 309 Jung carl Gustav: 213, 218+219

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Kafka Franz: 78, 269, 170 Kant Immanuel: 7, 9, 11, 12T, 13, 14+43, 20T, 24T, 26T, 35T, 46, 48, 50, 51, 55, 63, 64, 67, 68, 70, 72, 74, 75, 76, 77, 78, 80, 87, 88, 116, 117, 118, 120, 121, 127, 129, 140, 144, 145T, 147, 150, 152, 153, 158, 160, 162, 164, 176, 182, 183, 189, 204, 208, 210, 225, 231, 240, 254, 286, 283+289 Keller Helen: 191 Kelsen Hans: 220, 222+223, 226, 294 Kierkegaard soren: 32, 45, 71, 74, 75, 83+90, 145T, 146, 168, 169, 170, 184, 185n, 187, 220, 240, 252, 253, 260, 273 Kleutgen Joseph: 273 Klopstok Friedrich: 48 laberthonnière lucien: 234, 239 lachelier Jules: 231 lacroix Jean: 259 lamark Jean-Baptiste de Monet, de: 131, 136, 137, 140 landesberg paul ludvig: 184 laplace pierre simon: 15 lasserre pierre: 133n lavelle louis: 170, 177, 258 lazzati Giuseppe: 306 le dantec Félix: 128, 132 leibniz Gottfried Wilhelm: 15, 17, 21, 34, 75, 158, 191, 231, 272, 289 lenin nikolaj: 98, 99, 100, 112, 114 leonardo da Vinci: 143 leone XIII: 239, 264n, 269 leroux pierre: 93 leroy olivier: 135

le senne rené: 179, 182, 258 lessing Gotthold ephraim: 55 lévy Bruhl lucien: 128, 134, 135, 144 littré Émile: 133 locke John: 38, 68, 292 lombroso cesare: 143 lorentz Hendrik: 158, 159 lourié arthur: 81 lucrezio: 194 lukàcs György: 100, 115 lutero Martin: 37, 157, 195, 220, 283, 303 Macchi pasquale: 241 MacFarlane John: 190 Mach ernest: 98, 189, 190 Machiavelli niccolò: 37, 51, 143, 157, 196 Machiavellismo: 51, 69, 109, 283, 292, 293 Maine de Biran François pierre: 160, 230+231 Malebranche nicolas: 106, 158, 165, 230 Malthus thomas robert: 139 Mandeville Bernard, de: 142 Manzoni alessandro: 117 Mao tze-tung: 91, 98, 100 Marcel Gabriel: 168, 170, 171+178, 186, 259, 260, 266n Maritain Jeanne: 91 Maritain raïssa oumançoff: 88, 90, 128, 168, 251, 268, 269, 270, 271, 280, 281, 301, 302, 305, 309 Marrou Henri-Irenée: 280+282 Martinetti piero: 204 Marx Karl: 45, 73, 75, 91, 92, 94, 95, 97+116, 144, 149, 150, 154, 145T, 180, 200, 205,

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209, 256, 260, 266, 283+289 Marxismo: 8, 45, 60, 64, 73, 92, 94, 97+102, 104, 105, 196, 107, 108, 110, 111, 112, 114, 115, 116, 129, 144, 173, 176, 202, 209, 256, 259, 264, 283+289 Masnovo amato: 272 Maurras charles: 220, 303 Mazzini Giuseppe: 51 McInerny ralph Matteo: 301 Melchiorre Virgilio: 304 Mercier désiré: 269 Merleau-ponty Maurice: 173n Merton thomas: 168 Meyerson Émile: 159, 191, 322+ 233 Miano Francesco: 227n Michel Florian: 273, 279 Minerva: 169, 213 Misticismo: 69, 76, 90, 135, 149, 165, 167, 168, 172, 179, 190, 212, 230, 234+237, 246, 247, 248, 251, 257, 272, 287, 297 Modernismo: 234, 239, 250, 254, 264 Moleschott Jacob: 101, 129, 143 Mondin Battista: 228n Montaigne Michel eyquem, de: 159n Montani Mario: 269n Montini Giovan Battista: 303 Moore George edward: 203 Morgan Henry: 102 Moro tommaso (thomas More): 94 Mosè: 187, 277 Mougel dominique: 301 Mougel rené: 301 Mounier emmanuel: 91, 184, 205, 239, 258, 259+266

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Muratori ludovico antonio: 143 Mussolini Benito: 187n, 210 natorp paul: 182 Nazionalsocialismo: 80, 94, 110, 116, 187, 288, 220, 222, 291, 293 Nazismo: vedi Nazionalsocialismo negri luigi: 240n Neocriticismo: 182+183, 269 Neopositivismo: 192, 269, 287 nicoletti Michele: 220n nietzsche elisabeth: 79 nietzsche Friedrich Wilhelm: 45, 71, 74, 75, 78+83, 94, 114, 171, 179, 183, 252n, 258, 266, 288 novalis (Georg Friedrich philipp Freiherr von Hardenberg): 53 Nuova Scolastica: 10, 227, 228, 233, 242, 251, 268+282 nurdin Michel: 301 occam Guglielmo, di (ockham): 33, 42, 195, 287 ollé-laprune léon: 234n owen robert: 93 paolo, san: 32, 71, 137, 255, 281, 306 paolo VI: 241 papini Giovanni: 232n parmenide: 46, 59, 61 pascal Blaise: 83, 84, 159n, 184n, 220, 230n, 234, 237, 241, 243, 252, 282 Patristica: 239, 251, 280 pavan antonio: 303, 304, 310 péguy charles: 90, 114, 262, 279, 287 peillaube Émile: 270+271

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peirce charles sanders: 190 pestalozzi enrico: 48 peterson erik: 75, 185 phelan Gerald: 274+275 philippe Marie-dominique: 271n, 277, 283 philippe thomas: 271n picasso pablo: 284 pieper Joseph: 185 Pietismo: 14 pilato: 223, 224, 294 pio IX: 124 pio X: 264n pirrone: 162 planck Max Karl: 159 platone: 22, 33, 59, 63, 75, 86, 179, 187, 188, 204, 215, 250 Platonismo: 54, 77, 112, 119, 164, 182, 203, 240 plotino: 54, 59, 125, 128 poincaré Jule Henri: 159 popper Karl: 248 Positivismo: 7, 8, 9, 11, 12T, 14, 45, 91, 94, 102, 127+156, 157, 158, 189, 190, 195, 197, 200, 201, 203, 206, 220, 230, 231, 232, 241, 244 possenti Vittorio: 302, 304, 305, 306, 308, 310 Pragmatismo: 9, 40, 104, 105, 155, 158, 189, 195+197, 200, 203, 208, 283+299 Protestantesimo: 14, 40, 48, 55, 69, 79, 78, 84, 103, 183, 185, 187, 195, 218 proudhon pierre-Joseph: 91, 92, 94+97, 103, 258, 279 prouvost Gery: 227, 229, 275n przywara erik: 248 psichari ernest: 132n, 133 Puritanesimo: 197

rahn Marie Johanna: 48 ramirez santiago: 173 ravaisson Jean Gaspard: 230, 239 Razionalismo: 7, 11, 12T, 15, 16, 22, 25, 38, 39, 40, 45, 47, 48, 54, 57, 63, 72, 74, 78, 94, 96, 114, 116, 157, 192, 217, 230, 248, 256, 279, 285 Realismo: 7, 11, 13, 19, 21, 30, 38, 39, 40, 45, 46, 71, 98, 104, 106, 111, 118, 120, 121, 161, 164, 166, 182, 185, 227, 233, 240, 260, 265, 269, 272, 275, 283+289 reed thomas: 230 renan Joseph ernest: 132, 133, 241, 284 renouvier charles: 160, 197, 231+232, 258 révillon Bernard: 267 ricardo davide: 139 rickiert Heinric: 182, 183 ricoeur paul: 212n, 266+268 riehl alois: 182 Riforma cattolica: 204n Riforma protestante: 195, 204n Rinascimento: 25, 39, 59, 92, 101, 183, 204n, 253, 257 ritzler Benedikt: 185 rivière Michel: 270 rolland romain: 186 romagnosi Giandomenico: 116, 143 Romanticismo: 53, 55, 76, 143, 197, 207, 220 rosmini serbati antonio: 45, 117+124, 122T, 125, 126, 204, 209n, 273n rousseau Jean Jacques: 11, 15, 27, 28, 37, 38, 55, 68, 69, 157, 200, 251, 270, 284, 292, 303

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royce Josiah: 203n russel Bertrand: 159, 190n, 191, 203, 288 sagnier March: 264 saint simon claude Henry: 94, 95, 131, 144, 148, 231 sanguineti Juan: 302 sartre Jean-paul: 145T, 146, 160, 168, 170, 173+176, 177, 202, 284, 288 Scetticismo: 9, 16, 40, 49, 143, 198, 202, 222, 224, 225, 294, 295 scheler Max: 159, 161, 165n, 182, 183+184, 186, 187, 227 schelling Friedrich Wilhleim: 45, 51+55, 53T, 58, 60, 66, 76, 83, 230n schiller Johann christoph: 51, 53, 55 schleiermacher Friedrich: 47, 48, 58 schmitt carl: 220+222, 225, 226 schmitz Heinz: 301 scholl Hans: 187 scholl sophie: 187 schopenhauer arthur: 47, 74, 75+78, 243 scoto eriugena: 59, 125 Scolastica: 42, 165, 167, 170, 179, 251, 273, 275, 302, Scuola di Baden: 182, 183 Scuola di Cambridge: 160, 190, 191 Scuola di Chicago: 273 Scuola di Francoforte: 100 Scuola di Marburgo: 182, 183 Scuola di Toronto: 274 Scuola di Vienna: 160, 189, 192, 194, 289

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Seconda Scolastica: 273, 275 sertillanges antonin dalmace: 229, 278 fiestov lev: 90, 168, 169, 170, 252, 253 severini Gino: 205 shooh laurence K.: 275n siefken Hinrich: 187n sigieri di Brabante: 72 simon rené Yves: 91n, 274, 278+280 smith adam: 139 socrate: 84, 86, 138, 204 sofocle: 76 sorel Georges: 90, 94, 96, 270 spaventa Bertrando: 203+204 spencer Herbert: 53, 129, 135, 140+142, 270n spinoza Baruch: 29, 46, 50, 51, 52, 53, 55, 59, 101, 106, 199, 204 Spiritualismo: 45, 116+127, 143, 160, 161, 197, 227, 230+241, 251, 273, 282 stalin Joseph: 91 stein edith: 160, 161, 162, 165+168 stirner Max: 80 Stoicismo: 28, 59, 150, 179 strauss david Friedric: 102 stroobants ludo: 234n sturzo luigi: 262n suárez Francisco: 42 teilhard de chardin pierre: 137 taine Hippolyte: 133 tertulliano: 83 thibon Gustave: 179-180 thomas Mann: 78 tolstoj lev nikolaevic: 76, 78, 200, 252n

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Tomismo: 84, 88+90, 118, 124, 137, 154, 158, 159, 161, 165, 166, 168, 169, 177, 196, 197, 204, 227, 228, 229, 232, 233, 235, 254, 257, 258, 260, 268+282, 283+289 tommaseo niccolò: 117 tommaso, san: 5, 7, 13, 18, 19, 22, 25, 40, 42, 47, 59, 68, 73, 77, 89, 91, 110, 115, 120, 122, 123, 133, 150, 157, 158, 165n, 167, 168, 169, 173, 175, 187, 188, 214, 220, 228, 229, 230, 232, 235, 236, 237, 240, 241, 251, 258, 260, 269, 270, 271n, 272, 273n, 274n, 276, 277n, 278, 279, 280, 282, 283+289 tommaso Moro: 94 toniolo Giuseppe: 273 toso Mario: 259n toynbee J. arnold: 8 Umanesimo: 39, 59, 74, 92, 112, 114, 122, 259, 266, 280 Vaihinger Hans: 189 Valentini natalino: 255n Vangelo: 28, 97, 113, 223, 238, 252, 253, 265, 277, 281 Varisco Bernardino: 204 Vaux clotilde, de: 144 Vera augusto: 203

Veronese Vittorio: 273 Vico Giovan Battista: 60, 204n, 205, 206 Viotto piero: 75, 81, 82, 88, 90, 91, 132, 137, 165, 168, 173, 183, 205, 234, 241, 260, 268, 269, 271, 273, 275, 277, 279, 280, 281, 302+310 Virgilio: 187 Vittorio emanuele II: 125 Voltaire François-Marie arouet, de: 11, 38 Wagner ricard: 78, 81 Weber Max: 160, 220 Weil alain: 181 Weil simone: 160, 165, 178+181 Weil sylvie: 181 Whitehead alfred north: 159, 191 Windelband Wilhelm: 182 Wittgenstein ludwig: 8, 189, 190+193, 288 Wolff christian: 15, 30, 34, 75 Wundt Wilhelm Max: 270 Wust peter: 10, 186+187 Zagrebelsky Gustavo: 224n, 225, 294 Zinoviev Grigory: 99

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Introduzione. dal criticismo al pensiero debole. . . . . . . . . pag.

7

I. oltre l’illuminismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1. Il crocevia della filosofia moderna . . . . . . . . . . . . . 2. dalla crisi dell’illuminismo alla postmodernità . . . 3. Immanuel Kant e il criticismo. . . . . . . . . . . . . . . . . Una vita solitaria e metodica . . . . . . . . . . . . . . . . . . La critica della ragion pura . . . . . . . . . . . . . . . . . . I tre gradi della conoscenza . . . . . . . . . . . . . . . . . La critica della ragion pratica. . . . . . . . . . . . . . . . . l’imperativo categorico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . I postulati della ragion pratica. . . . . . . . . . . . . . . La critica del giudizio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La politica, il diritto, la religione, la storia. . . . . . . . Una ristrutturazione soggettivistica della persona . .

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11 11 12 14 14 16 18 25 27 31 33 36 38

II. l’età delle ideologie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1. la filosofia come realtà totale . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. l’idealismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La grande sofistica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Johann Gottlieb Fichte. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . l’idealismo etico. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Friedrich Schelling . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . l’idealismo estetico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3. Georg Wilhelm Friedrich Hegel. . . . . . . . . . . . . . . Il metafisico del divenire . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L’idealismo assoluto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Lo storicismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La logica del concreto come dialettica degli opposti . Il divenire dell’Idea. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il diritto, la morale, la politica . . . . . . . . . . . . . . . . . L’arte, la religione, la filosofia . . . . . . . . . . . . . . . . . . L’immolazione dialettica della persona. . . . . . . . . . .

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45 45 45 46 48 49 51 52 55 56 58 60 62 64 67 70 71

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4. l’irrazionalismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 74 Arthur Schopenhauer . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 75 Il mondo come rappresentazione e come volontà » 76 Friedrich Wilhelm Nietzsche . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 78 l’antropologia del superuomo. . . . . . . . . . . . . . . » 79 l’estetica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 80 Søren Kierkegaard . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 83 l’esistenza del singolo come contraddizione . . . » 85 I tre stadi della vita. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 86 esistenzialismo e tomismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 88 5. Il socialismo utopistico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 90 I primi teorici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 91 Pierre-Joseph Proudhon . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 95 6. Karl Marx e la sua scuola . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 98 Dal socialismo utopistico al socialismo scientifico . . » 98 Ludwig Feuerbach . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 100 Friedrich Engels . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 102 Karl Marx . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 103 Il primato della prassi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 104 Il rovesciamento dell’hegelismo e la riabilitazione della causalità materiale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 106 la società capitalistica, il plusvalore e la lotta di classe. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 109 l’antropologia dell’uomo collettivo . . . . . . . . . . » 110 la morale comunista . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 112 l’ultima eresia cristiana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 113 7. lo spiritualismo italiano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 116 Antonio Serbati Rosmini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 117 l’idea dell’essere in generale . . . . . . . . . . . . . . . . » 118 la metafisica e la morale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 120 Il diritto e la politica. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 123 Vincenzo Gioberti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 124 la critica a rosmini e l’ontologismo . . . . . . . . . . » 125 la morale e la politica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 126 l’estetica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 127 8. Il positivismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 128 La radice del relativismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 129 Il positivismo in Francia, erede dell’illuminismo . . . » 131 Il positivismo in Inghilterra e il darwinismo . . . . . . » 135 Il positivismo in Germania e in Italia . . . . . . . . . . . » 142

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9. auguste comte: una nuova ideologia utopistica . . pag 144 Il relativismo e l’epistemologia positivista . . . . . . . . » 146 La filosofia della storia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 148 La religione dell’umanità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 149 Conclusioni sull’età del positivismo . . . . . . . . . . . . . » 151 III. la crisi della modernità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1. la diaspora del pensiero debole . . . . . . . . . . . . . . . 2. la fenomenologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Edmund Husserl. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Edith Stein . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3. l’esistenzialismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Martin Heidegger . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Jean-Paul Sartre . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Gabriel Marcel . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Simone Weil . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4. Il neocriticismo e la filosofia dei valori . . . . . . . . . . Max Scheler . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5. l’empiriocritismo e la filosofia della scienza. . . . . . Ludwig Wittgenstein . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Werner Karl Heisenberg. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6. Il pragmatismo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . William James . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . John Dewey . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7. Il neoidealismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Benedetto Croce . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Giovanni Gentile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8. la psicoanalisi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Sigmund Freud . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Carl Gustav Jung . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9. la filosofia del diritto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Carl Schmitt . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Hans Kelsen . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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157 157 161 162 165 168 171 173 177 178 182 183 188 190 193 195 197 200 203 205 209 212 212 218 219 220 222

IV. Incertezze e speranze. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1. la persona come valore morale e come realtà ontologica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. lo spiritualismo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Maurice Blondel . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . John Henry Newman . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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3. Henri Bergson . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 241 L’intuizione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 242 L’evoluzione creatrice . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 244 La morale e la religione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 245 La politica e l’estetica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 248 Ideosofia e filosofia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 250 4. Il pensiero slavo-ortodosso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 251 Nikolaj Berdjaev . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 253 5. Il personalismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 258 Emmanuel Mounier . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 259 Paul Ricoeur . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 266 6. la nuova scolastica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 268 Étienne Gilson . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 275 Yves René Simon . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 278 conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1. oltre la modernità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. dal realismo alla fenomenologia. . . . . . . . . . . . . . . 3. dalla logica formale alla logica strumentale . . . . . . 4. dalla legge eterna al diritto come intersoggettività 5. dallo stato assoluto allo stato democratico . . . . 6. dall’universo organico al pluriverso casuale . . . . 7. Il ritorno alla saggezza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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283 283 285 287 290 294 296 297

elenco cronologico delle opere di Jacques Maritain . .

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301

Indice delle tavole didattiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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313

Indice degli argomenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Indice dei nomi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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