Il pensare dell’apostolo Paolo

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Il pensare dell’apostolo Paolo

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collana LA BIBBIA NELLA STORIA diretta da Giuseppe Barbaglio

La collana si caratterizza per una lettura rigorosamente storica delle Scritture

sacre. ebraiche e cristiane. A questo scopo, i libri biblici, oltre che come documenti

di fede, saranno presentati come espressione di determinati ambienti storico-cultu­ rali, punti di arrivo di un lungo cammino di esperienze significative e di vive tradi­ zioni, testi incessantemente riletti e re-interpretati da ebrei e da cristiani. Si presuppone che la religione biblica sia essenzialmente legata a una storia e che i suoi libri sacri

ne

siano, per definizione, le testimonianze scritte. Più da vicino. ci

sembra fecondo criterio interpretativo la comprensione. criticamente vagliata, della Bibbia intesa come frutto della storia di Israele e delle primissime comunità cristiane suscitate dalla fede in Gesù di Nazaret e. insieme. parola sempre di nuovo ascoltala e proclamata dalle generazioni cristiane ed ebraiche dei secoli post-biblici. Il direttore della collana, i collaboratori e la casa editrice si assumono il preciso impegno di offrire volumi capaci di abbinare alla serietà scientifica un dettato piano e accessibile a un vasto pubblico.

Questi i titoli programmati:

l. 2. 3.

L'ambiente storico-culturale delle Scriuure Ebraiche (M. Cimosa: 2001 ) Le tradizioni storiche di Israele. D a Mosè a Esdra Cortese: 22001) l profeti d'Israele: voce del Dio vivente (G. Savoca: 1985)

(E.

4. l sapienti di Israele (G. Ravasi)

5. l canti di Israele. Preghiera e vita di un popolo (G. Ravasi: 1986) 6. La lerreratura interrestamenraria (M. Cimosa: 1 992) 7. L'ambiente storico-culturale delle origini cristiane. Una documentazione ragionata (R. Penna: 42000) 8. Le prime comunità cristiane. Tradizioni e tendenze nel cristianesimo delle origini (V. Fusco: 1997) 9. La teologia di Paolo (G. Barbaglio: 22001 ) 9bis. Il pensare dell'apostolo Paolo (G. Barbaglio: 2004) 10. Evangelo e Vangeli. Quarrro evangelisti, qua/lro vangeli, quatrro destinatari (G. Segalla: 32003) 11. Gesù ebreo di Galilea (G. Barbaglio: 42003) 12. La tradizione paolina (R. Fabris: 1995) 13. Omelie e catechesi cristiane nel/ secolo (G. Marconi: 21998) 14. L'Apolicalisse e /'apocalillica nel Nuovo Testamento (B. Corsani: 1997) 15. La Bibbia nell'antichità cristiana (a cura di E. Norelli) l. Da Gesù a Origene (1 993) II. Dagli scolari di Orige11e al V secolo

16. La Bibbia nel Medioevo (a cura di G. Crernascoli- C. Leonardi: 1996) 17. La Bibbia nell'epoca moderna e contemporanea (a cura di R. Fabris: 1 992) 18. La lerrura ebraica delle Scritrure (a cura di S.J. Sierra: 21996) 19. La Bibbia dei pagani. l. Quadro storico (G. Rinaldi: 1 991!) 20. La Bibbia dei pagani. Il. Testi e Documenti (G. Rinaldi: 1 998)

Giuseppe Barbaglio

IL PENSARE DELL'APOSTOLO PAOLO

EDIZIONI DEHONIANE BOLOGNA

e

2004 Centro editoriale dehoniano Via Nosadella, 6 40123 Bologna -

EDB (marchio depositato) ISBN 88-10-40271-5 Stampa:

Grafiche Dehoniane, Bologna 2004

Paolo è il «santo patrono»

di coloro che pensano A. ScHWEITZER, La mystique de l'apotre Paul, 318

Abbreviazioni

AT Bib BibOr BZ CBQ EvQ EvTh FS GLA T GLNT JSNT NRT NT NT NTS RB RSR RHPhR RivBib SBL se

STh TRE TThZ ThZ WuD ZNW Z TK

= Antico Testamento =Biblica = Bibbia e Oriente = Biblische Zeitschrift =Catholic Biblica/ Qrtarterly = Evangelica/ Quarterly = Evange/ische Theo/ogie = Festschrift (In onore di) = Grande Lessico dell'Antico Testamento = Grande Lessico del Nuovo Testamento = Journal for the Study of the New Testament = Nouve/le Revue Théologique = Novum Testamentum Nuovo Testamento = New Testament Studies =Revue Biblique = Recherches de Science Religieuse = Revue d'Histoire et de Philosophie Religieuses =Rivista Biblica = Society of Biblica! Literature =Scuola Cattolica = Studia Theo/ogica = Theologische Realenzyklopiidie = Trier Theologische Zeitschrift = Theologische Zeitschrift = Wort und Dienst =Zeitschrift fiir die neutestamenrliche Wissenschaft = Zeitschrift fiir Theologie und Kirche =

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Introduzione

Nella più che decennale storia degli studi riguardanti Paolo, di regola si è puntato lo sguardo sul suo pensiero, sulla sua teologia. Già Lutero vi aveva evidenziato la centralità della >, in risposta alle domande degli interlocutori, le sue prese di posizione, rendendole pensabili e convincenti anche alla loro mente, oltre che persuasive alla loro volontà. Perché non si è accontentato dell'ipse dixit, fidu9

cioso nelle risorse del pensiero raziocinante che ha diritto di cittadi­ nanza pur nell'ambito non razionale delle adesioni di fede. Questo lavoro mira a far conoscere il pensatore Paolo. Pochi studiosi gli hanno negato tale qualifica. vedendo in lui solo il misti­ co o l'uomo religioso; ancor minor udienza hanno avuto quanti l'hanno giudicato contraddittorio, per non parlare dell'accusa dei detrattori di essere stato un astuto manipolatore delle credenze di fede con ragionamenti nebulosi e astrusi. Perché è stato un pensa­ tore occasionale eppure coerente. Ma quale coerenza possiamo scoprire nel suo pensare teologico espresso non in trattati sistematici, bensì in forma epistolare, e in debito alla plurale varietà dei destinatari e alla diversità non meno grande dei suoi intenti di epistolarista? In breve, quale la linea retta percorsa dalla sua mente? Spesso si è congetturato un centro dottri­ nale o di contenuto attorno a cui egli avrebbe costruito il castello del suo pensiero: per es. la giustificazione sola fide, oppure la dottrina cristologica: l'evento di Cristo morto e risorto o l'unione mistica dei credenti in lui. Uno studioso di grande valore, J.C. Beker, ha invece ipotizzato la presenza di una struttura subtestuale di carattere apo­ calittico all'insegna del trionfo finale di Dio nella storia. A me sem­ bra che il suo pensare sia stato piuttosto una sempre nuova interpre­ tazione del vangelo tradizionale, perché diventasse ••vangelo>>, lieta notizia, per i diversi ascoltatori della sua parola. Ha così variamente ridefinito l'annuncio generico di Cristo morto e risorto, portandone alla luce le profondità nascoste e dandogli nuovi «nomi>> di straordi­ naria significatività: vangelo della gratuita elezione divina dei genti­ li di Tessalonica, vangelo della croce, vangelo della libertà dalla legge mosaica, vangelo dell'apocalisse dell'indiscriminante giustizia di Dio, vangelo della fedeltà divina a Israele ecc. Il volume è complementare a La teologia di Paolo1 di cui costi­ tuisce il seguito logico: l'occasionalità, allora evidenziata, non è a scapito della coerente unitarietà di carattere ermeneutico, che ora intendo mostrare. Si struttura in due parti. La prima evidenzia le caratteristiche formali del suo pensare: un pensare teologico dentro il quadro di ferme e tradizionali convinzioni di fede, prevenuto da evidenze cul­ turali giudaiche e greche, incarnato nella forma letteraria della Jet-

l

lO

G. BARBAGLIO, La teologia di Paolo, EDB, Bologna 22001.

tera, sollecitato da concrete circostanze; non un monologo ma un pensare dialogante che vuoi far pensare le sue comunità per con­ vincerle con la più vasta gamma di argomenti che l'arte retorica del tempo gli suggeriva, soprattutto un'ermeneutica capace di interpre­ tare il comune credo cristiano perché questo sappia interpretare la vita dei due dialoganti. La seconda parte segue da vicino tale pro­ cesso ermeneutico, nel quale Paolo ha rinominaro il vangelo di Cristo, processo all'opera nelle lettere indirizzate ai credenti di Tessalonica, alla comunità di Corinto, alle Chiese di Galazia, ai «carissimi filippesi>>, «ai santi per vocazione>> che abitano a Roma. Ho voluto dare scorrevolezza al dettato, liberandolo da questio­ ni più minute, ma mantenendomi ben dentro il coro della ricerca più attuale, di cui all'inizio di ogni capitolo segnalo le voci più importanti, richiamandole poi nel testo. La traduzione italiana del testo originale delle lettere è di mia mano.

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Parte prima

Caratteristiche formali del pensare di Paolo

Capitolo I

Un pensare teologico

Bibl. A. BAmou. San Paolo. La fondazione dell'universalismo. Cronopio. Napoli 1999; K.A. BAUER, Leiblichkeit. Das Ende al/er Werke Gol/es. Die Hedeutung der Leiblichkeit des Menschen bei Pau/us, Giitersloh 1971. 72-R2; J.C. BEKER, Paul the Apostle. The Triumph of God in Life and Thought, Edinburgh 1980: G. BoF. «Il soma quale principio della sessualità», in HibOr 19(1977), 69-76; A . B . Du TotT, «Encounlering grace: towards understanding the essence of Paul's Damascus expe­ rience», in Neotestamentica 30(1996). 71 -87; M. FoESSEI., •Saint Pau!. la fondation du christianisme et ses échos philosophiques», in Esprit n. 2Y2(2003), 79-114; E. KASEMANN. •l Kor 6.12-20», in Exegetische Versuche und Hesinnungen, Gottingen 1965, l, 276-279: J.D. MooREs, Wrestling with Rationality in Pau/: Romans 1-8 in a 11ew perspective. Cambridge 1995; P. RtCOELJR, «Pau! apòtre. Proclamation et argu­ mentation», in Esprit n. 292(2003), 85-1 12: F. StEGF.RT, Argumentation bei Paulus, Tilbingen 1 985: K. WENGST, •Der Apostel und die Tradition. Zur theologischen Bedeutung urchrisllicher Formeln bei Paulus», in ZTK 69(1972), 145-162.

Per non ingenerare equivoci o ambiguità è necessario precisare subito: il pensare dell'apostolo si muove in un orizzonte di fede, sulla base di presupposti non dimostrati e indimostrabili che costi­ tuiscono le sue profonde convinzioni o credenze condivise con la prima generazione di cristiani. Per dirla con Ricoeur, come pensa­ tore egli è passato dal momento dichiarativo o anche assertivo della proclamazione dell'evento salvifico ai momenti argomentativi delle lettere (pp. 85-86). Sintetico Badiou: Paolo è pensatore e poeta del­ l'evento (p. 8). Da parte sua Beker precisa che Paolo è un pensato­ re, non un razionalista (p. 354 ) In breve, il Paolo pensatore è prevenuto dal Paolo credente, che confessa con la sua bocca e crede nel suo cuore che Dio con gesto salvifico è intervenuto «una volta per tutte>>, vale a dire in maniera decisiva e definitiva, a favore dell'umanità mediante Cristo morto, risorto e venturo. Il riferimento è allo stesso Dio della tradizione giudaica che ne ha trasmesso, vergate nelle Scritture sacre, le gesta a favore del popolo d'Israele; ma tale storia salvifica è vista da lui con occhi cristiani, cioè come promessa e profezia della salvezza finale. .

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Perciò non possiamo dire che il suo sia stato un pensare filosofi­ co, interessato alle verità eterne e sostenuto, in tutto e solo, dalle risorse della ragione umana: egli riflette con la sua mente su un evento soprannaturale creduto e confessato. E sotto questo aspetto appare assai diverso da Gesù, come annota Foessel: «Là dove Gesù ha predicato, Paolo ha teorizzato>> (p. 81 ). In breve, la razionalità non gli ha fatto difetto, una razionalità però tutta interna alla stan­ za della fede. E se Porfirio parlava di una a{ogos pistis, annota Siegert (p. 246), la fede di Paolo non è priva di qualsiasi logos o ratio. Lo stesso studioso qui cita, condividendola, la seguente affer­ mazione di Wilke: «Egli non scrisse quasi nessuna frase, non fa quasi mai un'affermazione senza aggiungervi la motivante ed espli­ cante gar o hoti» (ibid. ) . Non sono infatti marginali le affermazioni di principio che egli fa come pacifico possesso suo e dei destinatari delle sue lettere. In l Ts 1 ,9-10 è oggetto della conversione cristiana l'attesa della parusia di Gesù, figlio di Dio da questi risuscitato. Ma si vedano anche 3,13: (1Ts 4,14); (Rm 10,9). In 1Cor 15,12 la consequenzialità «Se .. ,/ ne segue che>> è vista all'inter­ no della logi ca del! 'annuncio evangelico, oggetto di adesione di fede: «Ora se si annuncia che Cristo è stato risuscitato dai morti,/ co me possono dire alcuni tra voi che non c'è risurrezione dei morti?>> (lCor 15,12). E in 1Cor 15,12ss Paolo mostra i seguenti due poli tra cui si muove il suo pensare: «se Cristo è stato risuscitato>>, ne sia mo certi per fede, «i morti in Cristo di certo saranno risuscitati>>, quanto appunto speriamo con fer mezza. Moores ha precisato che in R m 1-8, ma la stessa cosa di può dire delle altre lettere, la razionalità di Paolo si espri me, di regola, con sillogismi entimematici (enthymema), privi cioè di una pre messa, sottintesa e i mplicita, che Aristotele considera le prove più forti (Rhet. 1 , 1 .1 1 ). Lo stesso, in sostanza, si può rilevare in Fil 3,7-9 che però tradi­ sce innegabili peculiarità: anzitutto vi ca mpeggia l'io di Paolo, non il «noi>> o il «voi>> dei credenti in generale; in secondo luogo non sono presenti i verbi cognitivi, bensì quello valutativo: . L'autobiografia dell'apostolo narra, in realtà, la sua conversione, il passaggio radicale dalla fedeltà giudaica all'adesione a Cristo: quella vissuta nel suo passato co me grande punto di fo rza della propria vita (), ora però valutata una perdi18

ta (zemia); questa ritenuta un grandissimo guadagno (kerdos). l sono letteralmente rovesciati: >, la sua autobiogra­ fia è anche la biografia di tutti i credenti. Dunque nel suo pensare egli dà per scontata non solo la dell'evento salvifico, ma anche la valutazione, insita nell'adesione di fede, di una nuova scala di , cioè di quanto veramente vale nell'esistenza umana, che porta a scelte nuove di vita. È ancora interessante notare come egli presenti le convinzioni di fede quale fattore decisivo della sua argomentazione. Già lo si è rilevato a proposito dei periodi ipotetici; ora lo possiamo mostrare in proposizioni saldate da congiunzioni causali, finali, conclusive e consecutive. «Noi invece che siamo del giorno dobbiamo essere sobri, indossando la corazza della fede e dell'amore e avendo come elmo la speranza della salvezza, perché (hoti) Dio non ci ha destinati all'ira foriera di condanna eterna, bensl al possesso della salvezza mediante il Signore nostro Gesù Cristo>> (l Ts 5,9); (Gal 5,1 ); (2Cor 5,14). > (Gal 1 , 12). (Gal 1.15-16). In particolare egli fa appello all'azione illuminante dello Spirito di Dio: ( lCor 12,3); ( l Cor 2,12- 1 3) E sempre con lin­ guaggio apocalittico in due passi trasmette ai suoi ascoltatori quan­ to ha ricevuto per rivelazione divina, appunto una realtà : ( l Cor 15.51-52); (Rm 1 1 ,25-26). D'altra parte in l Cor 15,3-5 le convinzioni di fede condivise con tutti i credenti della prima generazione sono presentate come tradi­ zione apostolica: (l Cor 15,3-5). Come conciliare tutto ciò con quanto dice in Gal di aver ricevuto il vangelo per diretta rivelazione divina? Non sembra esserci contrad­ dizione: qui Paolo riproduce la formulazione tradizionale del van­ gelo, inteso nel suo aspetto oggettivo; in Gal invece afferma che il vangelo della libertà dei gentili dall'obbligo della circoncisione, da lui annunciato in Galazia, non è pura e semplice convinzione umana. bensì dono di un'apocalisse divina. Un dono che gli ha dato in mano la chiave d'interpretazione del vangelo (cf. du Toit) come annuncio di libertà dalla legge e di affidamento al Dio di Gesù Cristo. Ora la stessa duplicità vale per i credenti: lo Spirito li ha mossi a confessare che Gesù è il Signore (cf. l Cor 1 2.3). cioè ad accogliere la predicazione evangelica, la quale ha appunto, come contenuto essenziale, la «tradizione>> riportata in l Cor 15,3-5: morte e sepoltura, risurrezione e apparizione pasquale. Dunque il pensare di Paolo si muove in tale orizzonte di fede cristiana, dominato dall'agire decisivo di Dio in Cristo. Per questo lo si può qualificare teocentrico. di un teocentrismo però di marca cristologica, nel senso che l'iniziativa salvifica divina è stata media­ ta dalla storia di Gesù crocifisso e risorto. Il suo interesse di pensa­ tore era volto non all'essenza divina, alla speculazione di quello che Dio è in se stesso, bensì alla sua azione, definitiva espressione di benevolenza (eudokia) e amore (agapan), che prende posto non all'interno della trafila dei suoi gesti salvifici, bensì al vertice di que­ sto processo. Non per nulla il vangelo, oggetto del suo pensare ermeneutico, è da lui qualificato con due genitivi, soggettivo e oggettivo: (lTs 2,2.8.9; 2Cor 1 1 ,7; Rm 1,1; 15,1 6.19), cioè notizia di gioia data da Dio stesso al mondo, e ( l Ts 3,2; 2Cor 2,12; 9,13; 10,14; Gal l ,7; Fil 1 .27; Rm 9,1 2), vale a dire notizia di gioia che ha il suo epicentro oggettivo nella vicenda di Gesù. Ma trattandosi di un agire a salvezza dell'u­ manità, si ha che il pensare di Paolo denota pure una chiara conno­ tazione soteriologica. Si segnalano anche alcune formule sintetiche di fede: >. In I Cor 15,3-5 Paolo riporta una formulazione tradizionale del vangelo: . N é sono assenti tradizioni liturgiche, la battesimale in Rm 6,3-4, che doveva risuonare in questi termini: , soprattutto quella della Cena del Signore: «il Signore Gesù nella notte in cui veniva consegnato alla morte, prese il pane e reso grazie lo spezzò e disse: Questo è il mio corpo che è per voi; fate questo in mia memoria. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice dicendo: Questo calice è la nuova alleanza mediante il mio sangue; fate questo, ogni volta che berre­ te, in mia memoria>> ( l Cor l l,23-25). Infine l'inno cristologico di Fil 2 con probabilità, ma non man­ cano voci contrarie, è un lascito dell'eredità protocristiana: inno diviso in due unità letterarie all'insegna del duplice movimento di abbassamento (vv. 6-8) e d'innalzamento (vv. 9-11 ), collegate dalla congiunzione del v. 9 e caratterizzate non solo dal con­ trasto tematico ma anche da diversi soggetti: nella prima Gesù Cristo, richiamato dal pronome relativo , nella seconda Dio che risponde all'iniziativa di quello. Paolo se ne serve per moti­ vare la parenesi: l'umile sentire (tapeinophrosyne) raccomandato alla comunità filippese (2,3) trae ispirazione dalla scelta di umile abbassamento (etapeinosen) di Gesù. (Fil 2,5-1 1 ). Per conci udere vorrei rilevare che sullo sfondo della sua rifles­ sione teologica appaiono pure quadri di percezioni e convinzioni antropologiche e cosmologiche date per scontate e non riflessa­ mente motivate, che tuttavia funzionano come elementi necessari della sua argomentazione e intuizione. Anche per lui vale il princi­ pio che si fa teologia in un quadro predefinito di antropologia e cosmologia. Così in l Cor 6,12-20 il confronto con il settore li berta­ rio della chiesa di Corinto immediatamente verteva sulla liceità o meno della frequentazione di prostitute, in realtà vi si esprime una contrapposizione antropologica. L'apostolo infatti mette in campo una sua antropologia «somatica», tela su cui ricama la propria teo­ logia che, a sua volta, motiva il giudizio morale: l'uomo è corpo, essere essenzialmente comunicativo e incarnato (cf. Bauer, Bof, Kiisemann ); di conseguenza la persona è messa in gioco anche dai suoi rapporti sessuali che non le sono per nulla né indifferenti né insignificanti. Ma così egli entra in collisione frontale con i suoi interlocutori, spiritualisti che li valutavano in modo cosistico, ele­ mento materiale e accessorio. Ne fa fede il loro slogan che sottin­ tende un argomento a pari: come il cibo è per il ventre e viceversa, così il sesso è per il corpo e viceversa. In breve, il cibo e il sesso pari­ menti sono da consumare e nulla più. Di qui la pretesa legit­ timità di rapporti sessuali con prostitute. Egli invece nega che altret­ tanto si possa affermare di corpo e immoralità sessuale. perché «il corpo è per il Signore e il Signore per il corpo» (v. 13b). Ne va del­ l'uomo, non di un suo organo materiale, più esattamente della rela­ zionalità del credente al suo Signore. Come si vede, la risposta pàolina parte da un preciso punto di vista antropologico (l 'uomo è corpo, soma), presentato senza alcu­ na motivazione; è un substrato della sua mente che pensa e argo­ menta in chiave teologica: il credente, essere essenzialmente rela­ zionato agli altri e mondano, dunque con una sua costitutiva ses­ sualità (presupposto antropologico), ha un rapporto totalizzante con Cristo (dato di fede), che perciò delegittima moralmente ogni altro dello stesso genere (conseguenza etica). In concreto la rela­ zione con una prostituta è da lui valutata antropologicamente come un darsi così impegnativo da risultare alternativo a quello proprio dell'adesione di fede a Cristo. Antropologia, teologia ed etica appaiono così strettamente connesse; soprattutto queste ultime due 23

- è quanto ci interessa ora qui - hanno senso e validità nel qua­ dro antropologico in cui si muove il pensare di Paolo. Sempre quanto attiene alla sua antropologia «somatica>>, si può far riferimento a l Cor l 5,35 in cui egli riflette sul dei risor­ ti. Alla domanda risponde che si tratta di un corpo . In con­ creto distingue accuratamente tra corpo «psichico>> e corpo «pneu­ matico>> o , distinzione che è una netta antitesi ripetuta con i binomi paralleli: corruttibilità/incorruttibilità; disonore/onore; debolezza/forza. Ma nello stesso tempo appare che egli ammette una continuità della persona, espressa con la qualifica di «corpo>> oppure anche con il pronome «noi>> del v. 49: «abbiamo portato l'immagine dell'uomo terreno/porteremo l'immagine dell'uomo celeste>>. Per non dire di altre formule antropologiche paoline, come «corpo del peccato>>, il nostro essere dominato dal peccato (Rm 6,6), corpo di morte, noi stessi votati alla morte eterna (Rm 7,24), corpo mortale, che esprime la nostra esistenza storica (Rm 6,12; 8,1 1 ), corpo misero/corpo glorioso (Fil 3,21). In proposito non si può non accennare a 2Cor 5,1 -8, dove solo a prima vista si fa luce una concezione antropologica di segno duali­ stico: in realtà è significativo che vi manchi il binomio, tipico del dualismo greco. di «corpo-anima>>. La diversità tra «ora>> e «allora>> non è tra corporeità e assenza di corporeità, bensì tra due differen­ ti corporeità, detto in senso figurato tra abitazione terrestre e abita­ zione celeste. > davanti al Creatore (ktisisl ktisas) e mondo non separabile dai destini dell'uo­ mo, bensì a essi strettamente legato. Non per nulla intende l'uomo come essere , essere al mondo, lo si è visto sopra. Perciò 24

l'alienazione di questo è corruzione di quello e la speranza cristia­ na, speranza gemente, nel si coniuga con l'attesa spasmodica, tra gemiti (systenazein) e dolori del parto (synodynein), dell'universo creato (he ktisis) proteso alla sua libera­ zione. , in TRE 26(1996), 1 33s; lo .. •La teologia di Paolo», in Teologia biblica del Nuoo•o Testamento, Paideia, Brescia 1 999;

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C.

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l. TAATZ, Friihjiidische Briefe: die paulinische Briefe im Rahmen der offiziel/en religio­ sen Briefe des Friihjudentum. Freiburg-Gottingen 1991: F. VouGA, : W. WuELLNER, «The Argumemative Strucrure of l Thessalonians as Para­ doxical Encomium». in CoLUNS (ed.), The Thessalonian Correspondence, 1 17-136.

Non è privo di significato determinare il «luogo>> in cui Paolo ha riflettuto con la sua mente. Non ha elaborato trattati, steso saggi, scritto compendi dottrinali; il suo pensare ha preso forma invece nelle lettere scritte per le sue comunità. Collins lo può così definire a ragione «Uomo di lettere>> ( «Reflexions>>, 39). Dato inoppugnabi­ Je, che però può essere inteso in modi assai diversi, secondo che si considera lo scritto epistolare puro e semplice contenitore esterno di un pensiero altrimenti elaborato, oppure fattore che lo qualifica e, in vario modo, lo determina. Sulla prima direttrice si sono mossi quanti ritengono che Paolo sia in primis un teologo interessato a 40

comunicare alle comunità destinatarie delle lettere il suo pensiero, addirittura, non senza un pizzico di esagerazione retorica, un pro­ fessore di teologia che indottrinava i credenti di Tessalonica e di Corinto, della Galazia, di Filippi e di Roma come fossero studenti di un 'accademia teologica: un professore con un pensiero già ben definito in testa che doveva solo trovare un linguaggio adatto per trasmetterlo agli ascoltatori. Per esempio, a proposito della Lettera ai Romani, è ben nota la definizione di Melantone: compendium doctrinae ch ristianae; e anche studiosi moderni propendono per definirla un saggio teologico (Stirewalt), alla maniera delle lettere di Epicuro e di Seneca. Un ultimo riferimento: Bultmann nella sua celebre opera è passato sopra alla varietà degli scritti epistolari e, concentratosi su Rm quale espressione compiuta del pensiero teo­ logico di Paolo, lo ha interpretato come un tutt'uno unitario in chia­ ve antropologica, riassumibile nel binomio: , visto che, a suo dire, ogni affermazione su Dio - e su Cristo - è affermazione sull'uo­ mo, dunque «la teologia paolina è nello stesso tempo antropologia>>, antropologia soteriologica (p. 192). Tale immagine dell'apostolo però non ha mancato di trovare sulla sua strada oppositori e contestatori. I più critici hanno addirit­ tura osato negargli la qualifica di pensatore degno di questo nome. Così Riiisiinen ritiene che sia stato un errore fondamentale di molta esegesi paolina del ventesimo secolo l'averlo presentato come il e il teologo cristiano per eccellenza, men­ tre è, anzitutto e principalmente, un missionario, un uomo di reli­ gione pratica che sviluppa una linea di pensiero per un fine pratico, influenzare la condotta dei suoi lettori (Pau/, 266-267). E già un secolo fa circa Deissmann si era detto convinto che l'apostolo non appartiene alla storia della teologia bensì a quella della religione; di fatto gli attribuì non una cristologia, ma una cristolatria e affermò, in modo perentorio, che è la religione il segno profondo da lui lasciato nel cristianesimo primitivo ( Licht, 327). E ancora: (Bible Studies, 58). La maggioranza degli studiosi però l'ha riconosciuto teologo, anche se non sistematico, eppure coerente, che si è espresso in scrit­ ti di circostanza, alle prese con problemi vivi delle sue comunità cri41

stiane, non esclusa la Lettera ai Romani. Le due suddette qualifiche gli sono attribuite espressamente da Sanders che vede nel pensiero dell'apostolo una rigorosa coerenza con queste due convinzioni basilari: prima, Dio ha provveduto in Cristo alla salvezza di tutti gli uomini; seconda, Dio lo ha chiamato ad annunciare il vangelo ai gentili (Paolo, 605-606). Ma già Wrede aveva affermato che in lui non c'è un sistema teologico: «mai egli ha voluto elaborare un siste­ ma della sua dottrina, neppure nella Lettera ai Romani>> (p. 41). A sua volta Beker al quesito «Quale il tema coerente del pensiero di Paolo'!>> ha risposto indicando il trionfo di Dio, in altre parole la speranza nell'albeggiante vittoria di Dio e nell'imminente redenzio­ ne dell'ordine creato, inaugurata in Cristo (Pau{ the Apostle). Senza dire di esegeti che hanno visto in lui un pensatore teolo­ gico in evoluzione. per cui al Paolo degli albori (der friihe Paulus), quello della Prima lettera ai Tessalonicesi, si giunge al Paolo matu­ ro (der spiite Paulus) della Lettera ai Romani attraverso le fasi intermedie segnate dalle altre lettere. A parte gli studi significativi di Schulz, Schnelle e Stiding, voglio riportare la seguente afferma­ zione di principio di Hiibner: («Paulus>> 133; cf. pure , 380). L'evoluzione è individuata soprattutto nella dottrina della legge, quando egli passa da Gal a Rm, e nell'escatologia come appare dal confronto di lTs 4-5 con l Cor 1 5 o di questi due testi con 2Cor 5,lss. Ma è anche ritenuta la causa delle contraddizioni che il pensiero paolino contiene, soprattutto, si pensa, nella valutazione teologica della legge mosaica (Rliislinen). Non mancano però, in proposito, valide obiezioni, perché, oltre­ tutto, non è facile precisare i termini dell'evoluzione del pensiero paolino, se non conosciamo con chiarezza l'ordine di successione delle sue lettere: Gal è da collocare nello stesso periodo di 2Cor, all'incirca a metà degli anni 50, oppure al primo posto nella scala cronologica degli scritti di Paolo, dunque all'anno 50, o ancora dopo lTs e prima di 1-2Cor, come ipotizza Martyn nel suo commentario? E l'ultima lettera è ravvisabile in Rm oppure in Fil, o ancora in Gal, come ipotizza Vouga? Comunque in questa prospettiva si riconosce che le lettere hanno inciso sul pensiero paolino, affetto dunque da contingenza, parzialità, mutevolezza. Alcuni anni or sono ho precisato il rapporto tra quelle e questo con la formula di teologia , intendendo per forma non la semplice veste letteraria, bensì un fattore strutturante, addirittura specificativo della sua natura. Ora intendo continuare 42

approfondendo il pensare teologico dell'apostolo a partire dal fatto che le sue lettere sono mezzo di comunicazione: ciascuna lo ha messo di fronte a un determinato uditorio, interagente con lui in un rapporto dialogico che ne ha determinato le prese di posizione. Sono prese di posizione che si collocano su due piani diversi eppu­ re complementari: le une di immediata e concreta praticità suggeri­ te dalle specifiche situazioni del mittente e dei destinatari che costi­ tuiscono la sua prima parola «Volitiva>>; le altre di marca propria­ mente teologica che, connesse con le suddette, sono in realtà la sua seconda parola, subordinata e funzionale, che possiamo definire complessivamente come ermeneutica del vangelo, approfondimento razionale delle basilari convinzioni della fede cristiana. Appare utile iniziare con una panoramica sulla ricerca attuale in campo epistolografico. Punto di partenza è senz'altro la proposta di Deissmann che ha distinto con rigore tra lettera e epistola. quella scritto di circostanza e familiare e questa puro trattato; se la lettera è un segreto, l'epistola è una merce di mercato; la lettera si diversi­ fica dali' epistola come la natura dall'arte; la lettera è un pezzo di vita, l'epistola una testimonianza di arte (Licht, 195); la lettera serve al dialogo di uomini separati, è un io che parla a un tu: tutto il con­ trario l'epistola (Paulus. 6-7). Anche se utile, la sua tesi però non serve a definire compiutamente le lettere paoline, perché è certo che sono vere lettere, non esclusa Rm, frutto di uno scambio comu­ nicativo con i destinatari; ma appare altrettanto certo che non sono semplici conversazioni tra familiari, amici o conoscenti, definite da Seneca: vera amici absentis vestigia (Ep. 40,1 ) e da Cicerone: amico­ rum colloquia absentium (Phil. 2,4,7). Queste definizioni si riferi­ scono, in realtà, a un solo particolare genere epistolare. quello del­ l'amicizia (typos philikos). Mittente invece è qui l'apostolo Paolo, di regola abbinato a collaboratori, tranne in Rm, ritenuti da alcuni stu­ diosi veri e propri coautori, un punto di vista contestato o comun­ que ridimensionato da altri (cf. per es. Murphy-O'Connor e Byrskog). Egli scrive a comunità cristiane, di norma da lui fondate, intervenendo autorevolmente su problemi spirituali che le interes­ savano da vicino; e ciò è vero persino della Lettera a Filemone. Berger le ha ben qualificate apostoliche, perché espressione della sua autorità di apostolo rivendicata e riconosciuta. Di fatto il confronto con l'epistolografia greco-romana del tempo ha mostrato, anzitutto, come egli ne condivida la struttura di fondo: indirizzo, introduzione, corpo epistolare, epilogo con saluto­ augurio conclusivo; ma anche formule e motivi stereotipi, come rin43

graziamento (o proskynema) e annuncio di una prossima v1s1ta (parousia); progetti di viaggi; voti augurali o formula valetudinis ( vale/sta bene!); espressioni introduttive di brani o di parti del corpo epistolare, così la formula ; la cosiddetta formula di notificazione (disc/osure): «Vi rendo noto>>{ «Non voglio che ignoriate>>; il motivo del ricordo (mneia) e verbi espressivi di preghiera e richiesta (deomai, paraka/6). Come esempio di parallelismo formale cito la lettera di Apione. Indirizzo e saluta/io: «Apione a Epimaco padre e signore con molti saluti>>. Preghiera: «Per prima cosa prego per la tua salute ... >>. Ringraziamento: «Ringrazio il Signore Serapide, perché mentre ero in pericolo sul mare mi ha subito salvato>>. Comunicazione di noti­ zie: «Quando venni a Miseno, ricevetti come stipendio da Cesare tre monete d'oro>>. Formula valellldinis; «ti auguro di star bene [ ...]>>. Richiesta di notizie: «Ti chiedo pertanto, signore padre mio, scrivi­ mi una letterina, innanzitutto sulla tua salute, poi su quella di mio fratello ... >> . Saluti: «Saluta molto Capitone e i miei fratelli e Serenilla e i miei amici>>. Conclusiva formula valetudinis: «Ti augu­ ro di star bene» (trad. R. Penna). A giudizio di Stowers, comunque, il miglior paragone con le lettere di Paolo sono quelle di Epicuro che, rivolgendosi ai discepoli, chiamati amici, esortava, incoraggia­ va, consigliava, ne regolava i conflitti, insegnava le sue dottrine, con le sue lettere manteneva la comunione (Leller Writing, 40). D'altro canto le lettere del primo giudaismo, indirizzate a comu­ nità giudaiche della diaspora, evidenziano che quelle paoline, spe­ dite a comunità di fede, le somigliano, soprattutto nell'intento di esortare. consolare e incoraggiare i destinatari (cf. Taatz). Possiamo citare dall'Apocalisse di Baruc alcuni versetti della lettera dei cc. 78ss. Indirizzo con saluto-augurio: «Lettera di Baruc, figlio di Neri a, che (egli) scrisse alle nove tribù e mezzo [ ... ] che erano al di là del fiume, in cui erano scritte queste cose: Così dice Baruc, figlio di Neria, ai fratelli condotti in cattività: misericordia (e) anche grazia (eleos kai charis) siano a voi>> (78,1-2). Mneialricordo: «Ricordo fra­ telli, miei, l'amore di colui che ci ha creati [ ... ]>> (78,3). Proposi/io: lettera di consolazione: «Per questo soprattutto mi è stata cura di )asciarvi le parole di questa lettera, prima di morire, perché foste consolati dei mali che vi sono successi>> (78,5). Notificazione: «Dunque, fratelli miei, sappiate prima cosa è capitato a Sion, che salì contro di noi Nabucodonosor, il re di Babilonia>> (79 1 ): e narra la caduta di Gerusalemme (cc. 79-80). «Ma udite anche una parola di consolazione>> (81,1) e seguono tre capitoli, in cui l'autore fonda '

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la sua parola di conforto sulla fedeltà di Dio che interverrà a libera­ re. I cc. 84-85 sono di esortazione: (84 1). La conclusione della lettera infine somiglia da vicino alla l Ts di Paolo: «Quando dunque riceve­ rete la lettera, leggetela nelle vostre assemblee con sollecitudine e meditatela, soprattutto nei giorni dei vostri digiuni. E rammentate­ vi di me, tramite questa lettera, come anch'io mi rammento di voi, in essa e sempre>> (86,1-3). Ultimamente molti studiosi si sono concentrati sulla determina­ zione del genere delle lettere paoline prendendo ispirazione dai numerosi tipi epistolari dell'antichità greco-romana, attestati per es. dallo Pseudo Demetrio che nell'opera Typoi episto/ikoi elenca 21 generi e dallo Pseudo Libanio che in Epistolimaioi Charakteres arri­ va a catalogarne 41, ma di questi solo 12 corrispondono ai generi di Demetrio. Nell'elenco di Demetrio si possono notare i segue nti: ph i likos (di amicizia). systatikos (di raccomandazione), paramythetikos (di consolazione e incoraggiamento), nouthetetikos (di ammonizio­ ne), epainetikos (di lode), symbortleutikos (di consiglio), apologeti­ kos (di difesa). L'elenco di Libanio, più analitico e dettagliato, enu­ mera in chiusura un genere misto (mikte) che trova indubbiamente cittadinanza nelle lettere paoline, per es. in l Cor. Così non sono mancati esegeti che hanno definito lTs ora consolatoria. e consola­ toria di marca apocalittico-sapienziale, precisa J. Bickmann, ora let­ tera parenetica; Fil lettera di amicizia (typos plzilikos). 2Cor 1 -7 let­ tera apologetica di autoraccomandazione, Gal lettera di petizione. Ancor più l'interesse per la determinazione del genere delle let­ tere di Paolo è stato al centro degli studi di marca retorica, oggi imperanti in molti settori della ricerca biblica, di quella paolina in particolare, fino a diventare una moda un po' ripetitiva e scolastica. La convinzione di partenza è che le lettere dell'apostolo sono, se non proprio orazioni, un genere misto di elementi epistolari e di sostanza retorica; anzi, quanto al corpo epistolare, sono comprese come veri e propri discorsi retorici inquadrati in una cornice episto­ lare. Antesignano fu in materia Betz con il suo commentario alla Lettera ai Galati. intesa quale arringa giudiziaria tenuta da Paolo a propria difesa contro le accuse degli avversari di Galazia davanti al tribunale delle stesse comunità galate. In seguito sono fiorite nume­ rose letture retoriche degli scritti epistolari paolini all'insegna dei tria genera dell'oratoria classica: giudiziale, deliberativo, epidittico o ,

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dimostrativo. Ma grande è la confusione sotto il cielo, se tot capita tot sententiae: Gal non è un discorso giudiziale, bensì epidittico per gli uni (Pitta), deliberativo per gli altri (Smit), senza dire di chi parla di struttura binaria di rimprovero-petizione (rebuke-request: Longenecker e Hansen); l Cor, l'insieme della lettera, è da classifi­ care come appartenente al genere deliberativo (Mitchell), ma è troppo generico; 2Cor appartiene al genere giudiziale (Kennedy), ma 2Cor 1 0- 13 è ritenuta di genere misto: deliberativo all'inizio, giu­ diziale nel c. 1 1 e nella prima parte del c. 12, ancora deliberativo in 12.1 9ss (Peterson); Rm è di genere epidittico per gli uni (Aletti), deliberativo per gli altri (Mason), protrettico per altri ancora (Aune); lTs è stata intesa come discorso deliberativo (Kennedy). ma epidittico da altri (Hughes) e un paradoxon enkomion secondo Wuellner. A sua volta Aune ritiene dominante nelle lettere cristia­ ne antiche il genere deliberativo (p. 199). Anche la dispositio retorica delle parti del discorso in proe­ mium, narratio, argumentatio con in testa la proposi/io, e infine peroratio, spesso applicata alla struttura delle lettere paoline, si rivela di regola una forzatura: troppo libero e creativo Paolo per rientrare docilmente in canoni retorici, frutti peraltro di teorie sco­ lastiche propagandate da manuali, per es. la Rhetorica ad Alexandrum (IV secolo a.C.) e la Rhetorica ad Herennium (86/82 a.C.), ma anche il De Oratore di Cicerone e 1'/nstitutio oratoria di Quintiliano. Oserei dire che si tratta di camicie di forza imposte a scritti non coartabili in tali ferree categorie, caratterizzati piuttosto dalla grande varietà di situazioni concrete dei destinatari e dello stesso mittente e dalla molteplicità degli intenti perseguiti nelle risposte epistolari. Per questo, ispirati dalla Rhetorica di Aristotele, fautori del rhe­ torical criticism - Aletti su tutti - disattendendo la dispositio retorica, hanno concentrato lo sguardo sulla presenza negli scritti paolini di precise e formali argomentazioni, strutturate secondo lo schema di propositiones (protheseis), distinte magari in principali e subordinate, e probationes (pisteis), arricchite a volte da refutationes e concluse di regola con perorationes finali e sintetiche. Il grande filosofo ha scritto: «Due sono le parti del discorso: è infatti necessa­ rio prima esporre l'argomento intorno a cui si parla, quindi dimo­ strarlo (apodeixai) [ .. ] Di queste due parti la prima è la proposi­ zione (prorhesis), la seconda è l'argomentazione (pistis): così come uno può distinguere da un lato l'impostazione di un problema, dal­ l'altro la sua dimostrazione (apodeixis)» (3,13,1414, 29 36). Ora non .

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si può negare che l'applicazione di questa tecnica di lettura ha dato ottimi frutti in ordine alla comprensione dell'epistolario paolino; basti accennare agli studi, sempre di Aletti, sulla Lettera ai Romani; ma molte parti degli scritti di Paolo non appaiono formali argumen­ tationes, per es. i primi tre capitoli di lTs, che sono un prolungato e ripetuto ringraziamento in forma narrativa con cui l'apostolo inten­ de rispondere, come vedremo, ai bisogni concreti della comunità macedone, soprattutto all'esigenza di essere rassicurata sul destino ultimo. Altrettanto si dica, di regola. delle cosiddette sezioni esor­ tative di l Ts, Gal e Rm, come concede lo stesso Aletti_ l n generale, sull'imperante rhetorical criticism mi sembra di poter condividere le valutazioni critiche di Classen nel suo studio > (p. 26). Mollo opportuna soprattutto appare la precisazione di R. Penna: nell'analisi delle lettere paoline ci si deve attenere al loro genere epistolare, da non confondere con quello retorico, pur tenendo in seria considerazione le risorse retoriche soprattutto dell'elocutio, preziose per comprendere la parola dell'apostolo. Ultimamente alcuni studi hanno individuato il focus della ricer­ ca nell'evidenziare la natura propria delle lettere di Paolo come lin­ guaggi di comunicazione: l'apostolo e i destinatari sono a faccia a faccia e intessono un dialogo impegnativo, di cui le lettere sono frut­ to. Sia pure con una buona dose di unilateralismo, Dabourne affer­ ma che l'apostolo non è un pensatore, bensì un comunicatore e rile­ va che il Paolo della più diffusa esegesi è un pensatore penetrante, ma un povero comunicatore. Da parte sua confessa di aver trovato in lui un pastore e un predicatore dotato di una profonda compren­ sione del vangelo per affrontare questioni pratiche di vita cristiana (p. 179). Quando noi leggiamo il testo come comunicazione, trovia­ mo che egli fu un efficace comunicatore. La lettura tradizionale del­ l'apostolo è guidata dall'interesse per il suo pensiero a spese della sua comunicazione (p. 181). Di conseguenza è come comunicatore che noi dobbiamo leggerlo, cogliendone l'intento di influire sulle menti e sulle volontà dei suoi destinatari (vedi anche Bickmann, Funk, Mitternach, Makhloufi - Penicaud). Più che guardare al pen­ siero che sta sullo sfondo dei suoi scritti, oggetto, dice Dabourne, di 47

lettura causale, ci si deve concentrare sull'influsso che il mittente intendeva esercitare sull'uditorio. Di fatto nella sua ricerca mono­ grafica su Rm 1 -4 egli parla di lettura teleologica, cioè che fa i conti con il cambiamento nell'uditorio che l'apostolo vuole effettuare con il suo scritto: se la lettura teleologica di una lettera risponde alla questione: dove va questo?, quella causale risponde alla questione: da dove viene questo? (p. 212). Per finire, una menzione merita l'analisi dei testi paolini che ricorre alle risorse non tanto della retorica classica, quanto di quel­ la moderna, espressione di linguaggi più universali, della quale manuale esemplare è quello di C. Perelman - L. Olbrechts-Tyteca. Da parte mia vorrei sottolineare come le lettere paoline s'inse­ riscano in una fitta rete di rapporti tra mittente e destinatari che le qualificano sul piano della comunicazione. Potrei parlare del loro essenziale contesto sociale: nascono in un certo tempo, in un dato luogo, per circostanze precise, momento ed espressione di una rete di scambio comunicativo tra Paolo e le comunità destinatarie. In questo senso parlo di occasionalità che distinguo, con le parole di Beker, da casualità e incidentalità (Paul the Apostle, 23-24): capita qualcosa ai destinatari ma anche al mittente, di regola già interrela­ ti, che suscita l'esigenza e la necessità di scrivere.

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Capitolo IV

Un pensare provocato

Bibl. R.S. AscoUGII, Pau/'s Macedonian Associations. The Social Contexl of Philippians and l Thessalonians, Tiibingen 2003; G. BARBAGliO, «La legge mosaica nella Letlera ai Galati», in R. FABRIS (ed.). La parola di Dio cresceva (At 12,24): Scritti in onore di Carlo Maria Martini nel suo 70• compleanno. EDB. Bologna 1998, 391-410; T.L. DaNALDSON, «"The Gospel lhal l Proclaim among the Gen l iles" (Gal 3.2): Universalistic or lsrael centred?». in L.A. JERVIS - P. RICHARDSON (edd . ), Gospel in Pau/. Studies on Corinthians, Galatians and Romans, Sheffie ld 1 994, 166193; H. KosKENNIEMI, Studien zur Idee und Phraseologie des griechischen Briefes bis 400 n. Chr. Helsinki 1 956; S.J. KRAFTCHICK, «Death 's Parsing: Experience as a Mode of Theology in Paul» , in Pauline Conversations in Context. FS C.J. Roet:el. Sheffield 2002. 144-166; A.T. LINCOLN, «From Wralh to Justification: Tradilion. Gospel and Audience in the Theology of Romans 1 : 1 8-4:25», SBL 1993, Seminar Papers, 194226; P. 0AKES, Philippians: From People to Leller, Cambridge 2001; R. PENNA. ,.( dif­ famatori di Paolo in Rm 3,8», in L 'apostolo Paolo. 1 35 - 1 49; L. TH U RÉN , Derhetorizing Pau/. A Dynamic Perspective on Pauline Theology and the Law, Tiibingen 2000; VouoA, «Der Galaterbrief»; WREDE, «Paulus».

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Ritengo che nella sua attività di teologo epistolarista l'apostolo debba essere collocato sull'asse binario di un Paolo provocato e, di conseguenza , di un Paolo provocatore. Il suo pensare nasce da que­ sta e da quella situazione dei suoi interlocutori, in concreto dalla dinamica della comunicazione epistolare, non all'interno della camera oscura della sua mente intenta a riflettere per il proprio pia­ cere intellettuale di pensare o sollecitata semplicemente da una per­ sonale esigenza di razionalità. Si può citare in merito Wrede: (p. 74). Ora il primo anello della rete comunicativa che porterà allo scritto epistolare è, in gene­ rale, la storia passata della comunità che ne sarà la destinataria, sto­ ria intessuta di relazioni più o meno strette con l'apostolo prima presente e quindi assente. In particolare e più direttamente la pro­ vocazione gli viene da una situazione attuale dei destinatari, a lui nota per bocca di informatori orali ma anche per via epistolare. Ci 49

basti citare lCor 1,1 1 : «Quelli di Ooe mi hanno riferito a vostro riguardo, fratelli miei, che ci sono contese tra voi>> e 7 ,l: . Si tratta di situazioni che richiedono il suo intervento di fondatore delle comunità o anche di apostolo cui è stata affidata la missione nel campo aperto dei genti­ li, come Roma. Per uno sviluppo dei riferimenti che seguono riman­ do al mio volume La teologia di Paolo. A Tessalonica si era tristi per la sorte di parenti o amici decedu­ ti, ma anche si soffriva per l'ostilità dell'ambiente, per non dire del peso della lontananza dell'apostolo, visto che destinatari e mittente erano accomunati nel desiderio di rincontrarsi (l Ts 3,6). I credenti di Macedonia avevano «accolto la parola con la gioia dello Spirito Santo pur tra mille tribolazioni>> ( l ,6) ; (2,14); «Voi stessi lo sapete bene, è questa la nostra sorte. Trovandoci tra voi ve l'avevamo pure predetto che avremmo subi­ to avversità, come puntualmente si è verificato e ne siete venuti a conoscenza>> (3,3·4); >), i creden­ ti gentili erano sul punto di farsi e forse si erano già registrati alcuni cedimenti in proposito: (1,6-7); > (5, 1 -2). A Roma non dovevano mancare difficoltà di comprensione del suo vangelo della libertà dalla circoncisione e dalla legge mosaica e gli si addebitava una predicazione evangelica che portava al lassi­ smo morale, da una parte, e al misconoscimento dell'elezione di Israele e della fedeltà divina al popolo eletto, dall'altra: dubbi e/o accuse che richiedevano una sua spiegazione e magari una decisa autodifesa. In proposito si rivelano eloquenti gli interrogativi di 3.lss, soprattutto quello del v. 8 attribuito ex professo a dell'apostolo: > (7, 1 1b), anche per i buoni uffici di Tito spedito a Corinto con lo scritto. Paolo intercede chie­ dendo clemenza per l'innominato (2,6-8). Ma la presenza di missio­ nari giudeo-cristiani rivali nella comunità su cui esercitavano un'in­ fluenza decisiva, lo obbliga a elaborare, prima, una riflessione teo­ logica approfondita sulla diakonia (2,14-7,4), poi a saldare, una volta per tutte, i conti con quei mestatori per ricuperare la comuni­ tà e mettere fuori gioco quei boriosi > (4,1). Ma in proposito si deve registrare l'ipotesi contraria di Vouga che considera Gal «Una breve e chiara presentazione della sua interpretazione del cristianesimo>> (p. 258). Qualcosa di analogo si può registrare nella sua reazione alla pre­ senza concorrenziale di innominati missionari giudeo-cristiani a lui subentrati nella Chiesa di Corinto. 2Cor 9-1 1 è chiara testimonian­ za di animo esacerbato, a volte furioso, in ogni modo assai combat­ tivo e aggressivo; in breve egli non scrive affatto con serenità olim­ pica. «Questi tali sono falsi apostoli, operai fraudolenti, travestiti da apostoli di Cristo. Nessuna meraviglia: Satana stesso si traveste da angelo luminoso; dunque nulla di straordinario se anche i suoi ser­ vitori si travestono da servi tori della giustizia. La loro fine sarà con­ forme alle loro opere>> ( 1 1 ,1 3- 1 5). In breve, la soggettività di Paolo ha influito sulle sue prese di posizione. Naturalmente le sue risposte pastorali e soprattutto il suo pensa­ re teologico non possono non risentire di tale tumulto di emozioni: c'è in lui, a volte, massimalismo, un parlare sopra le righe; spinge il suo pensiero nella sfera del paradosso; quanto dice in negativo della legge, per es., è non solo ingiusto, ma anche impensabile (Barbaglio, «La legge mosaica>> ). Tuttavia Thurén rileva come I'unilateralismo del pensare argomentativo, evidente in questa lettera, sia una neces­ sità per la situazione retorica, cioè in rapporto al suo intento pratico di fermare la deriva dei credenti di Galazia (p. 94 ). In realtà è un Paolo alterato quello che scrive nella Lettera ai Galati, per non dire di 2Cor; la sua riflessione teologica non potrà che apparire somma­ ria, affetta da palese parzialità, sbilanciata verso un polo del proble­ ma a detrimento dell'altro, bisognosa di precisazioni e anche di una qualche retractatio, ciò che si può toccare con mano nella Lettera ai Romani. Il suo appare, in realtà, un estremo tentativo di arrestare il regresso a cui sono incamminate le comunità di Galazia, tentativo di un Paolo estremista! Niente è tralasciato per raggiungere lo scopo; il fine, direbbe Machiavelli, giustifica i mezzi e questi devono essere commisurati al fine perseguito.

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Capitolo V

Un pensare «provocatorio» e dialogico

Bibl. G. BARBAGLIO. •"E tutti in Mosè sono stati battezzati nella nube e nel . mare . ( I Cor 10,2)». in P. TRAGAN (ed.), Alle origini del ba/tesimo cristiano (Studia Anselmiana 106). Roma 1991, 167- 1 9 1 : lo . . •Paolo. l suoi scritti e le Scritture»: J. 8JCKMANN, Kommunikation� CoLLJNS, ((Reflections,�: N .A DAHL. «The Missionary Theology in the Epislle to the Romans», in Studies in Pau/, Mi nneapolis 1 977, 70-94; B. H A vs. Echoes o[ Scripwre in the Leuers o[ Pau/, Ne w Have n 1989; PERELMAN -

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0LBRECHTS-TYTECA, Tra/lato; J.L. WHJTE, Ught From Ancient Lellers, Philadelphia

1 986.

Variamente provocato, dunque, Paolo intende metterst tn comunicazione con questo e con quel destinatario e lo fa per iscrit­ to, surrogato, come dice White, della sua presenza apostolica (Light, 19). Lo Pseudo Demetrio. citando Artemone, editore delle lettere di Aristotele, afferma che la lettera è come l'altra parte di un dialogo: einai gar tén epistolén hoion to heteron meros tou dialogou (De e/ocutione 223). E ancora: (ibid. ) Salvo precisare che questa affermazione di Artemone è par­ ziale. (De elocutione 224). Ma non è l'unica differenza: si tratta invero di un dialogo a distanza e ciò non può non influire. In realtà i dialoganti sono sepa­ rati dallo iato non solo dello spazio ma anche del tempo, perché la parola del mittente risuona all'orecchio del destinatario solo giorni e giorni dopo la dettatura della lettera. Per lo stesso motivo non si dà immediata reazione al parlare dell'epistolarista: nessuna possibilità di interloquire, obiettare, presentare riserve, far valere il proprio punto di vista. Inoltre manca allo scritto il fattore della presenza del locutore: tono della voce, pause sapienti nel parlare - lo stesso Paolo in Gal si rammarica di non poter parlare vis-à-vis con i desti.

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natari (4,20) -, impressione degli ascoltatori stampata sui loro volti e ben visibile, impossibilità di cambiare direzione, strada facendo, se ci si accorge che l'uditorio è disattento, poco partecipe e niente affat­ to propenso a lasciarsi guidare. In breve, abbiamo una molteplice separazione: spaziale, temporale, acustica e ottica, come fa notare Bickmann (p. 72). Comunque, anche con la riserva che si tratta di un dialogo a distanza senza la possibilità di un immediato botta e rispo­ sta, si può tuttavia essere d'accordo con Collins: «Il logos di Paolo è chiaramente parte di un dialogos» ( >, ancor meglio >. Del Dio creatore (e della sua rivelazione nel crea­ to) Paolo parla solo nel contesto dell'imparzialità del giudice divino (l ,18-3,8), a sua volta finalizzata, con un argomento a pari, a eviden­ ziare l'imparzialità dell'iniziativa di grazia del Padre in Gesù Cristo verso tutti gli uomini, giudei e greci, su piede di perfetta parità. In realtà l'unica teologia paolina di cui si possa fondatamente parlare è quella contenuta nei suoi scritti; in breve, la teologia di Paolo è la teologia delle sue lettere. Un pensiero teologico dell'apo­ stolo altro da quello presente nelle sue lettere è pura congettura soggettiva, in ogni modo per noi zona oscura e inattingibile. Thurén a ragione rileva che il solo obiettivo controllabile per un esegeta è di esaminare la teologia paolina presente nei testi (p. 1 7). Se poi, come appare doveroso, vogliamo sollevare la questione della sua coerenza e unitarietà, si deve cercare in ciò che egli dice epistolar­ mente, nelle contingenze della sua comunicazione epistolare, come ama esprimersi Beker, e non uscirne per individuare un supposto suo sistema teologico preesistente e preformato. In altre parole, se le lettere ci offrono degli abbozzi teologici (cf. Barbaglio) e, d 'altra parte, si presuppone che egli sia un pensatore coerente e non un opportunista manipolatore a piacimento dei dati di fede, ci si dovrà domandare dove stia la coerenza del suo pensare. Credo che si debba procedere per gradi. Di regola non sono pro­ blemi teorici il primo e immediato campo di comunicazione. Paolo 70

infatti intende rispondere a esigenze più concrete dei destinatari per convincerli e persuaderli a cambiare mente e volontà. L'esortazione, l'ammonimento, il rimprovero o anche la lode, la consolazione e l'incoraggiamento, la proposizione di exempla tra­ scinanti e persino toni minacciosi sono, normalmente, il primo e immediato registro della sua parola comunicativa. L' intento è, in prima istanza, di carattere pastorale e spesso, ma non sempre, si tra­ duce in imperativi formali o anche in formule, più o meno equiva­ lenti, di preghiera e sollecitazione. Soprattutto più che comandare egli esorta, sollecita, incoraggia, consiglia; lo prova l'uso prevalente, se non del tutto esclusivo, dei verbi erotan (richiedere), parakalein (esortare, incoraggiare), deisthai (pregare), nouthetein che indicava il ruolo educativo del padre; invece raro è diatassesthai (stabilire) e del tutto assente entellein (precettare ). E lo fa da padre amorevole e responsabile dell'educazione dei suoi figli, come egli stesso testi­ monia per es. in lTs 1,11-12 della sua presenza a Tessalonica, uno stile non scomparso nei suoi scritti: . In concreto, in lTs intende manifestamente consolare e inco­ raggiare i credenti della Chiesa macedone che vivevano una situa­ zione di depressione per il destino ultimo di alcuni di loro che erano deceduti, per questo creduti tagliati fuori dalla parusia finale di Cristo e, di conseguenza, esclusi dalla sua azione di dei sopravvissuti nei cieli. Sconcerto disperante anche perché poteva capitare a loro stessi di non essere coinvolti da vivi nell'evento fina­ le di salvezza aspettato a brevissima scadenza. Paolo mira a far sì che non siano più preda della tristezza (me lypesthe) come lo sono gli altri uomini privi di speranza (4.13); positivamente vuole addur­ re ragioni di conforto: (4,17); (5,1 1). I mperativi che fanno il doppio con quello squisitamente etico di vivere da santi (4,1-12 e 5,12ss), gli uni e l'altro caratterizzati dalla speranza nella venuta finale di Cristo a salvare i suoi: (5,23). In I Cor 1-4 l'apostolo intende esortare la comunità a superare le divisioni e a ritrovare le strade della concordia e dell'unità: (1 ,10). E siccome le divisioni erano causate dal culto della personalità dei grandi leader, vissuti come padri spirituali donatori di gnosi o sapienza, ma anche retori > (14,1). In I Cor 15 l'intento pratico primario non si esprime in impera­ tivi o esortativi, è invece implicito nella comunicazione: prendendo atto dell'esistenza nella comunità di «alcuni di voi>>, dice, che nega­ no la risurrezione dei morti (v. 12), l'apostolo si rivolge non a loro bensì al «voi>> comunitario, all'insieme della Chiesa, per dissuader­ la dal condividere la posizione negatrice di detta minoranza e per rafforzarne la speranza saldamente fondata sulla fede nell'evento della risurrezione di Cristo. Nella Seconda lettera ai Corinzi esorta la comunità a staccarsi da suoi rivali e riconoscere l'autenticità della sua diakonia: gli è stata affidata da Dio e da Cristo ed egli si è comportato da diakonos scrupoloso e fedele a favore dei credenti senza fame motivo di vanto personale, in breve ne è stato all'altezza (hikanos!hikanotes). E in tale apologia non mancano toni pressanti: ( 10,1). >. Egli si presenta qui espli­ citamente. come modello di fedeltà al vangelo della libertà, un mo­ dello offerto già a lungo nella narrazione dei primi due capitoli della lettera, caratterizzati dal motivo del suo ethos. A scanso di malintesi però precisa che è una libertà da vivere con senso di responsabilità: «Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati alla libertà. Soltanto che que­ sta libertà non si tramuti in pretesto per la "carne"; al contrario, per mezzo dell'amore mettetevi gli uni a servizio degli altri>> (5,13). 74

Nella Lettera ai Romani vuole fugare dubbi, vincere incertezze e forse anche difendersi da critiche riguardo al suo vangelo dell'ini­ ziativa definitiva di grazia di Dio in Cristo morto e risorto a favore di tutti indistintamente, ebrei e gentili: tutto ciò appare sotteso alle sue parole e si evidenzia con chiarezza negli interrogativi di 3,lss, ma anche nelle domande di 6,1 .15; 7,7; 9,14; 1 1,1.11 e nelle relative risposte: secca e scandalizzata a quelli: «Non sia mai!», motivata e argomentata a queste ultime.

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Capitolo VII

Un pensare motivante e argomentante

Bibl. BARBAGLIO, Lo teologia di Paolo; K. BARRETT, •Paulus als Missionar und Theologe», in ZTK 86(1989), 18-32; DABOURNE, Purpose and CarLl'e in Pauline Exegesis: O. HOFIUS, '(Paulus - Missionar und Theologe)), in FS P. St11lrlmacher. Gollingen 1997. 224-237; HOaNER, •La teologia di Paolo»; P.W. MEYER. •Pauline Theology: A Proposal far a Pause in lls Pursuit» . in E.E. JOHNSON - D.M. HAY (edd . ), l'auline Theology. Mi nneapolis 1997, IV, 140-160; PERELMAN - 0LBRECHTS-TYTECA, Tra/Ialo dell'argomentazione; J .P. SAMPLEY, •From Text lo Tought World. The Route lo Paul's Ways>>, in BASSLER (ed .), Pauline Theology, I, 3-14; THURÉN, Derhelorizing; W. WuELLNER, •Pau! as Pastor: The Function of Rhetorical Questions in First Corinthians», in A. VANHOYE (ed . ), L 'apo/re Pau/: Personnalilé, slyle el con­ ception du ministère, Leuven 1 984, 49-77.

Il pastore d'anime Paolo avrebbe anche potuto, per un verso, fermarsi alle suddette esortazioni e, per l'altro, limitarsi a respinge­ re, indignato (me genoito!), le false deduzioni traibili o anche tratte dai suoi orientamenti, gettando magari sul piatto della bilancia la sua autorità apostolica: ve lo dico io che questo dovete fare e que­ st'altro evitare e non ritenete che io giunga a conseguenze inam­ missibili nella mia presentazione del vangelo; credete a me che sono portavoce di Dio! Non lancia appelli con cui muovere a un'azione cieca - l'appello si rivolge alle mani -, priva cioè di comprensio­ ne e di conoscenza. Al contrario, per essere convincente, oltre che persuasivo, egli s'inoltra nel sentiero delle motivazioni più valide, adducendo ragioni attivanti l'intelligenza dei destinatari delle sue lettere; in breve, ali 'imperativo fa seguire l'indicativo che lo giusti­ fica davanti alla mente degli interlocutori. Dice bene Wuellner che il Paolo pastore è, nello stesso tempo, educatore ( «Paul as Pastor>> ) . In breve, si cura di argomentare la sua prima parola, quella pasto­ rale, ed è appunto in questo modo che si fa pensatore teologico. Hiibner lo ha definito a ragione «apostolo teologante>> e «teologo argomentante>> e spiega: >. Paolo non appare un opportunista della peggiore specie; in realtà, come dirò più avanti, egli si appella sempre alla normatività del vangelo riletto nei suoi strati più pro­ fondi e nelle deduzioni che logicamente se ne traggono: dunque un lavoro di intus legere, per un verso, e, per l'altro, deduttivo di ciò che esso comporta. Con l'avvertenza che l'argumentatio si distingue dalla demonstratio, perché quella ha per scopo di convincere e per­ suadere liberamente, mentre questa pretende di essere cogente: «La natura stessa della deliberazione e dell'argomentazione s'op­ pone alla necessità e all'evidenza, perché non si delibera dove la soluzione è necessaria, né s'argomenta contro l'evidenza. Il campo del! 'argomentazione è quello del verosimile, del probabile>> (Perelman - Olbrechts-Tyteca, 3); «L'argomentazione dà delle ragioni, ma non delle ragioni cogenti>> (ibid. , 538). Così è motivando l'imperativo negativo: (me lypesthe) di 4,13 che si fa teologo della speran­ za dei credenti di Tessalonica. Di fatto premette la diagnosi del male: la loro condizione disperante dipende dall'ignoranza circa il positivo destino ultimo dei credenti: se la loro mente è nell'oscurità più fosca, il loro sguardo sul futuro non potrà che essere di profon­ da depressione: «Non vogliamo che voi, fratelli, continuiate ad esse­ re nell'ignoranza (agnoein) circa la sorte di quelli che dormono il sonno della morte>>. D'altra parte egli riconosce che la fede dei tes­ salonicesi è lacunosa (cf. 3,10: ta hysteremata tes piste6s). Ecco dun­ que la sua riflessione teologica illuminante le loro menti, che pren­ de l'avvio dall'evento della risurrezione di Cristo per sostenere un parallelo con i credenti deceduti: «... così Dio (il risuscitatore di 78

Cristo crocifisso) condurrà con lui mediante Cristo i morti (.. ); e i morti che sono in Cristo saranno risuscitati per primi>> (4,14.16). E non fa mancare ulteriori precisazioni sul pari destino ultimo di sal­ vezza per i credenti che saranno vivi alla parusia di Cristo e per quelli che sono già deceduti. Anche la lunga > (6.15). In l Cor 7, quanto al problema concreto se sposarsi e avere rap­ porti sessuali o meno perseguendo l'ideale encratistico, Paolo lascia libertà di scelta: a questo mondo tutto è relativo; il valore dominan­ te, l'assoluto, per i credenti è l'appartenenza totalizzante a Cristo che risulta dalla partecipazione alla sua morte e risurrezione: (v. 23). Oltre tutto l'evento cristiano ha cambiato i connotati al tempo: non un lento e indefinito fluire, bensì la sua contrazione; esso non ha portato la fine dei giorni, bensì ha dato inizio ai giorni della fine; per questo vale il «come se non>>. «> (vv. 27-30). In l Cor 8-10, circa il problema del mangiare le carni sacrificate agli dèi idolatrici, Paolo prende posizione soprattutto richiamando «i forti>> ma anche illuminando tutti. Anzitutto indica i termini essenziali della professione di fede cristiana presentando un mono­ teismo cristologico, come si dice: «Un solo Dio/ un solo Signore>> (8,6). Inoltre la doverosa attenzione alla fragilità del fratello da parte degli illuminati, perfettamente consapevoli della nullità degli dèi pagani, trae giustificazione dall exemplum di Cristo, esempio di amore oblativo fino alla morte per il fratello debole (8,11). Infine l'esortazione a > (4,9); «Ditemi un po', voi che volete essere sotto il dominio della legge: non intendete ciò che dice la legge?» (4,21 ) . Il suo fare teologia, non meno dei suoi scritti, ha indubbiamente un marcato timbro dialogico. .

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Capitolo VIII

Un pensare ermeneutico o interpretativo

Bibl. J.M. BASSLER, >: (p. 703). Da parte sua Plevnik, a conclusione di uno stu­ dio panoramico delle più significative proposte, interpretando la categoria, spesso usata, di , substrato o sfondo apocalittico (Pau{ the Apostle, 75 e 60): queste le sue paro­ le per indicare il fattore di coerenza della teologia paolina nella contingenza delle comunicazioni epistolari. In una formula: > ( 1,6-7). E anche dal ver­ sante dell'annunciatore si può dire che è stato un evento di grazia: Dio aveva affidato il vangelo a Paolo e questi, insieme con i suoi col­ laboratori Silvano e Timoteo, con lealtà assoluta l'ha predicato a Tessalonica: «Voi stessi sapete, fratelli, che non fu vuota di efficacia la nostra venuta tra voi. Anzi, benché in precedenza colpiti e insul­ tati a Filippi, come sapete, il nostro Dio ci diede il coraggio di annun­ ciarvi il vangelo di Dio tra molte lotte. Il nostro appello non era det­ tato da intenti ingannevoli o disonesti, né ricorreva alla frode. Ma come Dio ci esaminò ritenendoci degni che ci fosse affidato il van­ gelo, così noi lo annunciamo: non come chi voglia piacere agli uomi­ ni, bensì a Dio che mette alla prova i nostri cuori>> (2,1 -4). Non c'è dubbio, pensa con fine intuito Paolo, i credenti di Tessalonica sono stati e sono beneficiari dell'elezione divina, che costituisce la ragione dell'evento di grazia del vangelo proclamato e accolto a Tessalonica e parimenti ne svela il significato profondo. Egli lo ha colto per induzione teologica: alla loro origine di creden­ ti sta la gratuita e libera iniziativa divina di carattere elettivo. E beneficiari dell'elezione divina, possono sperare. Anche in lTs 4,13-18 interpreta il vangelo, visto però qui come narrazione degli eventi salvifici della morte e risurrezione di Cristo. Parte dalla seguente formula di fede tradizionale, ben nota ai suoi interlocutori: (4,14a). È una cer­ tezza di fede che accomuna mittente e destinatari (noi), non passa­ ta ma attuale (verbo al presente), da cui deduce con una proposi­ zione comparativa che però non esprime una formale certezza di fede, come la precedente. bensì mette in campo direttamente l'a­ zione di Dio: (4,14b). Il suo pensare si sviluppa sul binomio comparativo , E la 92

conseguenza pratica, che tuttavia disvela l'intento primo dell'epi­ stolarista, appare a chiusura del brano: (4,18). Pure nella l Cor elabora una teologia ermeneutica del vangelo visto nel suo essenziale contenuto cristologico. In particolare nei cc. 1 -4 intende chiarire teologicamente il rapporto tra vangelo e sapien­ za retorica, radice del culto della personalità dei leader e causa, in ultima istanza, delle divisioni verificatesi in seno alla Chiesa corin­ zia. A questo scopo parte da un dato elementare di fede, oggetto dell'annuncio del vangelo, la morte di Gesù (cf. lCor 15,3), ma lo riformula in modo nuovo, parlando di croce di Cristo (1,17) e di Cristo crocifisso ( 1 ,23), ma anche di > ( 1Cor 1-4) (così anche in 2Cor). Non sembra che si possa parlare di vangelo tradizionale, nor­ mativa per tutti i credenti, e delle sue interpretazioni come di una libera elaborazione teologica che si può accettare o anche rifiutare. Non per nulla in Gal il suo vangelo equivale alla «verità del vange­ lo>> (2,5.14). In realtà, Paolo comprende la tradizione non come grandezza fissa. immutabile, chiusa una volta per sempre, bensì quale tradizione aperta e viva che egli continuamente interpreta per i suoi diversi interlocutori. A buon diritto Beker afferma: «Per Paolo la tradizione è sempre tradizione interpretata>> (Pau/ the Apostle, 33), e ancora: «Egli fonde tradizione e la sua interpretazio­ ne>> (p. 127; cf. tutto il capitolo «Tradition and Gospel>>, pp. 109131). E Wengst ha ragione di rilevare che l'apostolo fa del suo van­ gelo la norma della tradizione, non viceversa (p. 149). Il motivo è che egli fa risalire la sua ermeneutica del vangelo, almeno il suo cen­ tro focale, alla rivelazione divina, come appare con tutta chiarezza in Gal: il suo vangelo, quello della libertà dalla legge per i gentili, «non è a misura di uomo, perché neanch'io l'ho ricevuto da un uomo né mi è stato insegnato; l'ho invece ricevuto per rivelazione di Gesù Cristo>> ( 1 ,1 1-12). Meno coraggioso, invece, ci pare Hiibner quando afferma, ore rotundo, che «l'annuncio non è teologia, e la fede non è convinzione teologica>>, precisando però subito dopo: «Ma il confine tra annuncio

e teologia, tra fede e convinzione teologica, è labile» (, 36). Donaldson invece accentua la diversità tra il paradigma delle convinzioni di fede e l'elaborazione teologica dell'apostolo. Direi che per Paolo, non un interprete bensì l'interprete apostolico del vangelo, c'è sovrapposizione, meglio specificazioni dell'unico vangelo che è sempre lieto annuncio per i diversi destinatari. E non si tratta di semplici nuove formulazioni, bensì di riletture in profon­ dità dell'evento salvifico di Dio in Cristo, come ha ben rilevato Eichholz, annunciato a questo destinatario, qui, ora e accolto nella fede come lieta notizia per sé. Le nuove formule sono soltanto stru­ menti espressivi dell'iniziativa di grazia del Dio di Gesù Cristo che si fa lieta notizia ai diversi ascoltatori visti nella loro spe­ cifica situazione. In breve, l'evento salvifico si modula sulla soggetti­ vità dei destinatari e sulla sua significatività per la loro esistenza. Attraverso il suo pensare teologico di carattere interpretativo Paolo trasforma il vangelo generale e fondamentale espresso dalla tradi­ zione protocristiana (cf. per es. I Cor 15,3-5) in vangelo specifico per i diversi interlocutori delle sue lettere. In altre parole, sembra di dover dire che il vangelo indistinto per tutti gli uomini gli pare un 'a­ strazione; deve concretizzarsi nelle varie forme di vangelo-per i cre­ denti di Galazia, Tessalonica, Roma, Corinto, Filippi. E qui dice molto bene Beker: non accomodamento del vangelo alle diverse occasioni, ma interpretazione creativa (Pau/ the Apostle, 33).

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Parte seconda

Paolo pensa e interpreta il vangelo di Cristo

Capitolo IX

Il vangelo della gratuita elezione divina (lTs 1-3) B ibi. A . BA DIOu , San Paolo. L a fondazione dell 'universalismo, Cronopio, Napoli 19«J9; G. BARBAGLIO, «Analisi formale e letteraria di l Tess. l -3•�. in Testimonium Christi: Seri/li in onore di Jacques Dupont, Paideia, Brescia 1985, 35-56: lo .. Lo prima /el/era ai Corinzi: lo., La teologia di Paolo, 1 -55; BECKER, Paolo l'apostolo dei popo­ li: R. BORSC'HEL. Die Konstruktion einer christlichen /dentiliit: Paulus und Gemeinde von Thessalonich in ihrer hellenistich-romischen Umwe/1, Bodenheim 2001; C. voM BROCKE, Thessaloniki-Stadt des Kassander und Gemeinde des Paulus: Eine friihe

chrisrliclu• Gemeinde in ihrer heidnil·clten Umwe/1, T!ibingen 2001; J. CHAPA, «ls First Thessalonians a Letter of Consolation?», in NTS 40(1994), 150-160: K.P. DoNFRIED, «Shifting Paradigms: Paul. Jesus and Judaism», in Pau/, Thessa/onika and Early Christanity, 1-20; R. HOPPE , «Der erste Thessalonicherbrief und die antike Rhetorik. Eine Problemskizze», in BZ 41 ( 1 997), 229-237; P. !OVINO, La pri""' le11era ai Tessalonicesi, EDB, Bologna 1992: T.H. 0LBRIC'HT, «An Aristotelian Rhetorical Analysis of l Thessalonians>>, in D.L. BALCH ET ALli (edd.), Greeks, Romans and Christians: Essays in Honor of Abraltam J. Malherbe, Minneapolis 1 990. 21 6-236; C. SENIT, La première Épitre de Saint Pau/ au.r Corinthiens, Genève 1990: F. VoUGA, An die Galater, Tiibingen 1988.

È una lettura interpretativa del vangelo quella che Paolo offre soprattutto in l Ts 1-3: annunciato e accolto, è disvelativo del Dio di Gesù Cristo che sceglie dei gentili di Tessalonica. Egli si rivolge ai cristiani della capitale della Macedonia per rincuorarli, rassicurarli, consolarli, come si è detto sopra: ne avevano bisogno per far fronte a un ambiente ostracizzante, minaccioso e persino persecutorio (1,6; 2,14; 3,3-4), ancor più per ragioni interne, per i dubbi e le incertez­ ze che nutrivano sul destino finale dei deceduti e di loro stessi (cf. !Ts 4,13). A tal fine rilegge la storia del suo incontro - suo e dei collaboratori Timoteo e Silvano - con i destinatari dello scritto, vista e presentata sotto il segno di uno stretto rapporto duale (Barbaglio, «Analisi formale>>). In realtà, ciò che unisce i due poli della vicenda è l'esperienza à double face dell'evento della pre­ dicazione evangelica risuonata a Tessalonica e accolta con fede. Ed è per questo che il mittente della lettera ringrazia ripetutamente Dio: «Ringraziamo sempre Dio per tutti voi>> (1 ,2); «Ecco perché noi non cessiamo di ringraziare Dio>> (2,13); «Quali grazie possiamo 101

rendere a Dio per voi...?» (3,9). l Ts 1-3 si presenta, di fatto, come una narrazione «eucaristica>> non riducibile a prologo introduttivo, bensì parte integrante del corpo della lettera in cui Paolo argomen­ ta presentando ai suoi interlocutori una prima valida ragione di con­ forto. Lo fa interpretando appunto l'evento di evangelizzazione che ha avuto luogo a Tessalonica nel duplice versante propositivo e accogliente.

l. PENSARE L'ESPERIENZA È su un 'esperienza viva e personale, di lui e degli interlocutori, che egli riflette comprendendola con intelligenza di fede. Ha ragio­ ne J. Becker a definire la teologia di Paolo «teologia dell'esperien­ za» (Erfahrungstheologie) (p. 360; p. 396 nell'edizione originale). Anzitutto il suo pensare appare constatativo: egli rileva ciò che è avvenuto. Non si tratta di qualcosa di banalmente quotidiano, tanto meno d'insignificante. Nella narrazione di lTs 1-3 infatti traspare sorpresa e stupore: è stata semplicemente straordinaria sia la pro­ posizione del vangelo per bocca di Paolo e dei due collaboratori, sia l'accettazione da parte di coloro che formano ora «la Chiesa dei tes­ salonicesi che è in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo>> (1,1). Quelli venivano da Filippi dove erano stati «colpiti e insultati>>, non per questo però si erano demoralizzati, facendosi annunciatori del vangelo a Tessalonica con coraggio e tra molte lotte (2,2). Da parte loro gli ascoltatori > (Dt 32,15); > (ls 44,2). Da parte sua Paolo riferisce ancora tale appellativo ai credenti di Roma (agapetois Theou: 1 7) e in 9,25 della stessa lettera cita libe­ ramente Os 2,23 riferendola però con originalità ai gentili: . Senza dire di Rm 9.13 dove, per indicare l'elezione divina ,

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di Giacobbe a preferenza di Esaù cita queste parole di Dio attestate in Gen 25,23: >: 5,3), in realtà destinati a un futuro di rovina (5,3) o di condanna eterna ( 1,10; 5,9). Si è operata una metamorfosi profonda, sono diventati gli eletti di Dio, hanno acquisito una nuova identità spirituale, non per propri meriti, ma per intervento divino libero e gratuito. A questa prima peculiarità si abbina naturalmente un 'altra, altrettanto qualificante. Nella testimonianza delle Scritture ebrai­ che Israele è popolo eletto in quanto discendente di Abramo, lo si è visto anche in un passo citato del Deuteronomio; per Paolo inve­ ce i cristiani di Tessalonica sono gli amati e gli eletti di Dio in quan­ to credenti nel vangelo di Cristo. Come ha acutamente rilevato Vouga nel suo commento a Galati, l'apostolo ha operato una radi­ cale dissociazione delle persone dalle loro qualità razziali, religiose e anche morali: beneficiari della scelta divina sono i soggetti carat­ terizzati come tali che hanno accettato personalmente il vangelo, accettazione da questo suscitata, dunque anch'essa grazia. Al con­ trario non hanno pesato per nulla i privilegi di stirpe (discendenza da Abramo), di religione e di morale (appartenenza al patto con Dio, circoncisione, possesso della legge); e altrettanto vale dei rela­ tivi handicaps. 106

Dell'elezione divina d'Israele Paolo parlerà più avanti nella Lettera ai Romani, e lo farà per sottolineame, anzitutto, la gratuità e la libera iniziativa di Dio nei confronti degli eletti, e poi, con par­ ticolare forza, l'irrevocabilità. Così in 9,1 1 specifica la deliberazione (h€ kat' eklogen prothesis) di Dio a favore di lsacco, causata non dalle opere, bensì dal volere elettivo e «Vacante», come aggiunge subito dopo al v. 12: (ouk ex ergon al/'ek tou kalountos). All'interrogativo di 1 1 ,1: , cioè il popolo eletto, risponde con un netto no, non senza addurre buone ragioni: benefi­ ciario dell'elezione gratuita (kat' eklogen charitos) è il resto d'Israele, individuato nei giudeo-cristiani ( 1 1 ,5-7); ancor più, no­ nostante il rifiuto in massa del vangelo, gli israeliti non hanno per­ duto l'elezione divina, qui collegata strettamente con l'amore di Dio: > (ton eklekton en Kyrio-i). Quale il rapporto tra le due? A questo punto si precipiterebbero le cose se, seguendo la nefasta teoria della sostituzione, si concludesse che l'e­ lezione in Cristo sostituisce quella d'Israele: popolo eletto di Dio ormai è la chiesa e non più Israele. Una deduzione che Paolo stesso respingerà in Rm 9-1 1 , dove sarà affrontato per la prima volta il problema della persistenza dell'elezione del popolo d'Israele, posto drammaticamente dall'infedeltà dei giudei che in massa hanno respinto il vangelo. In 1Ts il pensare di Paolo si è posto un evidente limite; non è andato oltre. Perché? Tutto preso dalla scoperta esaltante del Dio di Gesù Cristo che ha prescelto degli esclusi, non ha avuto occhi per un interrogativo che aveva tutta la forza per imporsi alla sua atten­ zione. Oppure, ci ha pensato, ma la questione non gli appariva utile per lo scopo della sua comunicazione epistolare con la Chiesa di Tessalonica. È del tutto arduo pronunciarsi per l'una o l'altra ipote­ si; resta il fatto e valeva la pena rimarcarlo. 107

2. DALLA CATEGORIA DELL'ELEZIONE A QUELLA DELLA VOCAZIONE Un confronto utile si può stabilire anche con la tradizione pao­ lina, in concreto con il testo di Ef l ,4, che qualifica l'elezione divina come scelta eterna e pretemporale: ( !ovino, 96). Possiamo dire che Paolo pensa a una scelta storica, non eterna, come conferma un passo di l Cor 1,26-28 che analizzeremo più avanti. Del resto nella stessa l Ts non manca il motivo della chiamata divina; si deve rilevare come il pensare di Paolo tradisca un'eviden­ te espansione: non gli basta una categoria teologica importante come l'elezione; la doppia con quella parallela di vocazione. In 4,7 colloca l'iniziativa di Dio all'origine dell'esistenza cristiana dei tes­ salonicesi: > (5,23). Sempre in contesto morale, infine, l'apostolo sottolinea il fine escatologico 108

della vocazione: i missionari a Tessalonica operarono perché i tes­ salonicesi si comportassero «in modo degno di quel Dio che vi chia­ ma (ka/ountos) al suo regno e alla sua gloria» (2,12). Sorprende la forma presente del verbo ricorrente in 5,24 e 2,12 (così anche Rm 9,12: Gal 5,8) e ci si interroga sulla diversità con l'aoristo di 4,7 («vi ha scelti» in passato). Si deve dire subito che la vocazione divina dei credenti si riferisce alla loro adesione al van­ gelo, frutto dell'azione di Dio che li ha chiamati efficacemente a cre­ dere. Una conferma ci viene da altri passi paolini: Rm 9,24: I Cor 1 ,9; 7,21-24; Gal 1,6; 5 13. La parola «vocante>> di Dio non è pura voce risuonante all'orecchio dell'altro, provocato sì alla risposta, eppure statico di fronte al sì, al no, all'astensione, bensì energia creativa di ciò a cui il >. Senza dire che già in ls 44,2 possiamo leggere questo incoraggia­ mento di Dio in prima persona: «Non temere, Giacobbe mio figlio e Israele l'amato (ho egapemenos), che io ho scelto (exelexamen)>>. Parafrasando si potrebbe dire: Paolo incoraggia la comunità di Tes­ salonica a essere salda nella speranza perché «popolo elettO>> di Dio.

4. SVILUPPI DEL SUO PENSARE NELLA l CORINZI Sul vangelo che disvela l'elezione e la vocazione divina, Paolo riprenderà a riflettere nello scambio epistolare con i corinzi, dunque in una nuova situazione degli interlocutori e sua. Nella Chiesa di Corinto un settore, quantitativamente minoritario ma forza traente, come sembra. esaltava l'abilità di linguaggio dei retori (sophia logou: 1 Cor 1,17), «l'eccellenza di parola o di sapienza» (2,1), (2,4) . Per questo andava orgoglioso di Apollo, (cf. At 1 8,24), mentre guarda­ va con sufficienza o addirittura disprezzava Paolo che ne era privo (2,1ss). In una parola, l'esperienza cristiana era vissuta come esibi­ zione orgogliosa di umane che finivano per discriminare tra > (1,21) incentrato nel (1,23), che in modo paradossale, ma vero, è ( 1,24). Un ribal­ tamento perfezionato in 2,6-16 in cui egli si presenta portatore di , bensì sapienza di Dio, , a lui divinamente rivelata. E come esempio di tale antitesi Dio-mondo, adduce l'esistenza stessa della comunità corinzia. Anzitutto una semplice constatazione statistica proposta agli interlocutori: 111

«Guardate alla vostra vocazione (klesis). fratelli: non ci sono molti sapienti secondo il metro umano di valutazione (lett: secondo la carne], non molti potenti, non molti nobili>> ( 1 26) . Poi un'interpre­ tazione teologica del fatto in chiave di principio generale della alternativa seguita dal Dio eleggente che ha mostrato il suo vero volto nella parola della croce ( 1 .18): «Eppure Dio ha scelto (exele­ xato) proprio ciò che del mondo è insensato (ta mora) per svergo­ gnare i sapienti (tous sophous), ciò che del mondo è debole (ta asthene) per svergognare quello che è forte (la hischyra), ciò che del mondo è ignobile e quello che è disprezzato (ta agenelta exouthene­ mena) Dio ha scelto, insomma quello che non è (ta me onta), per mettere fuori gioco quello che è (ta onta)>> (1,27-28). Come si vede, in questo passo Paolo parla indifferentemente di vocazione ed elezione; lo fa perché si equivalgono: i cristiani corin­ zi sono stati chiamati secondo «la politica divina dell'elezione>> (Senft, 43), che privilegia quanti contano poco o nulla nel mondo. Inoltre l'elezione e vocazione divina dei corinzi appare strettamen­ te collegata all'annuncio del vangelo, proclamato a Corinto e accol­ to con fede. È la stessa prospettiva di l Ts 1 .4-5. ma rispetto a que­ sto testo 1 Cor 1 ,26ss non manca di originalità. Anzitutto è nella parola della croce, simbolo di stoltezza e debolezza agli occhi del mondo, che Dio ha scelto e chiamato. Il criterio dunque dell'elezio­ ne e vocazione non sarà l'eccellenza dei beneficiari, che anzi sono privi per lo più di qualità umane e terrene, quali sapienza, intelli­ genza e nobiltà di natali - in l Ts si trattava di gentili -. Ancora, qui Paolo non si accontenta di rilevare un «caso» di elezione/voca­ zione divina di esclusi, ma enuncia un principio generale: nello sce­ gliere il Dio di Gesù Cristo segue costantemente questo criterio controcorrente e «Stolto>> se misurato sulla scala assiologica degli uomini. Infine egli, guardando dentro il mondo interiore di Dio che si è manifestato nel far risorgere Gesù crocifisso, scorge una miste­ riosa intenzionalità: affermare se stesso contro l'orgogliosa e titani­ ca esibizione della propria potenza e saggezza da parte degli uomi­ ni; in breve lui è sempre il Creatore e questi creature. Detto altri­ menti, il rapporto religioso è contrassegnato essenzialmente dalla grazia e si concretizza, per i credenti, nell'andare fieri (kauchasthai) di Dio e della sua iniziativa salvifica a favore degli immeritevoli. (1 ,29-31). .

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Un passo analogo è Gc 2,5 che però tradisce una spiccata con­ notazione socio-economica: . Di nuovo in 1 Cor, al c. 7, Paolo riprende il filo del suo pensiero, sempre ancorato all'interpretazione del senso profondo del vangelo disvelativo dell'azione eleggente e vocante di Dio. Il contesto epi­ stolare riguarda il problema se a quanti sono giunti a credere in Cristo si richieda la scelta celibataria, comunque l'astensione da rapporti sessuali (v. 1 ) . Nella risposta l'apostolo allarga il quadro al cambiamento culturale-religioso (circoncisione/incirconcisione) e sociale (schiavitù/libertà), e fa valere il principio conservativo dello stare nella situazione in cui la persona si trovava ali 'atto della sua chiamata divina alla vita di fede (7,17.24). E questo perché egli valu­ ta come indifferenti, certo rispetto al destino di salvezza e perdizio­ ne, non solo gli stati di vita matrimoniale e celibatario, ma anche l'essere circonciso o meno, il versare in condizione di schiavitù o libertà sociale: (v. 1 9); e al di là della possibilità, per lo schiavo, di farsi liberto, esor­ tato ad afferrarla oppure a non curarsene, secondo la diversa inter­ pretazione del v. 2 1 , Paolo afferma con forza: in ogni modo, ciò che veramente conta è il rapporto nuovo con Cristo, l'appartenenza a lui e il riconoscimento della sua signoria: (v. 22). Un 'appartenenza esclusiva perché di tutta la persona, cosicché ,J credente, che riconosce Gesù come suo Signore, non deve piega­ re le ginocchia davanti a nessun «signore>> umano: (v. 23). Il pensare di Paolo si rivela qui, per un verso, antiumanistico, cioè non valutativo della migliore condizione sociale, e dall'altro ridimensiona radicalmente le diversità etnico-religiose e degli stati di vita degli uomini. Ancora una volta egli dissocia la persona dalle sue qualità di vario genere, persuaso che quella si qualifica nella sua scelta di appartenenza personale a Cristo e di conseguente libertà esistenziale nei confronti dei padroni di questo mondo. In breve, l'e­ lezione/vocazione divina cambia l'identità personale dei prescelti e chiamati, non le loro connotazioni etnico-religiose e sociali, neppu­ re il loro stato di vita. Lo esprimerà con grande efficacia retorica in Gal 3,28: (p. 170).

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Capitolo X

Il vangelo della croce (l Cor 1 -4)

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l . A CORINTO Tra i credenti della Chiesa corinzia, di certo influenzati dall'am­ biente, specialmente in quanti appartenevano a un certo livello 115

sociale, una minoranza ma che faceva pesare la sua superiorità sugli altri, non è difficile ipotizzare una fascina/io eloquentiae. Ne fanno fede alcune tipiche espressioni della lettera: «Con sapienza di paro­ la>> (en sophia-i logou: 1 ,17b) : > (1 ,22-24). Commentando questo versetto, Weder afferma a ragione che la croce è un «non-segno>> (p. 241) che contrasta le attese di potenza dell'uomo giudaico e parimenti quelle dell'uomo greco che anela ad essere sapiente. Dunque nella croce di Cristo Dio capovolge la scala dei valori umani correnti; Nietzsche parlerebbe di «trasvalutazione dei valori umani>> (L'Anticristo, 62), dei «Valori aristocratici>> (ibid. , 61), facen­ do valere gli antivalori. Di conseguenza accoglierlo vuoi dire per i credenti «rinnegare se stessi>>, per usare una celebre parola di Gesù di Nazaret. Non però la negazione dell'uomo in chiave nichilistica, ma la negazione di un uomo superman, creatore di se stesso e auto­ sufficiente sul piano esistenziale, non bisognoso di alcun Dio per conseguire un destino di vita vera, sicuro nei suoi punti di forza: pre­ stigio, onore, potere, senso di superiorità e magari di arroganza. E nello stesso tempo vuoi dire l'affermazione di un Dio di liberante 122

misericordia che non discrimina tra «potenti>> e «deboli>>, tra «sapienti>> e «idioti>>. In breve, un Dio crocifisso e, insieme, un Dio di grazia incondizionata. Nel vangelo della croce infatti tutto è gra­ zia; ogni vanto dell'uomo autocratico è escluso e resta soltanto, come possibile e doveroso, il vantarsi dell'agire divino (cf. 1,29-30), a cui i credenti devono il fatto di essere nella sfera d'influsso di Cristo (en Christo-i), fonte per loro di sapienza, giustizia, santificazione e redenzione ( 1 ,30). (Barbaglio, La teologia di Paolo, lOls). Ora è sulle conseguenze di tale verbum crucis/ho logos ho tou staurou [formula originalissima ricorrente solo qui nel NT] che Paolo insiste nella sua comunicazione con i suoi interlocutori. Egli aveva già annunciato Cristo crocifisso, anzi il suo paradossale vangelo della croce era stato non solo comunicato ma anche accettato da loro: «Anch'io, fratelli, alla mia venuta da voi ( . ] non ho ritenuto di sape­ re altro tra voi che non fosse Gesù Cristo e questi crocifisso [ . ]. E mi comportai a questo modo, perché la vostra fede non poggiasse sulla sapienza umana, bensì sulla potenza di Dio>> (2,1-2.5). Ma evi­ dentemente, come attesta l Cor 1-4 e un po' tutta la lettera, essi non avevano sintonizzato la loro vita su questa scandalosa lunghezza d'onda, che comportava la messa in discussione di se stessi e della loro cultura, per abbracciare uno stile di vita sub signo crucis e, ancor prima e ancor più, acquisire una mentalità controcorrente capace di piegarsi con amore verso chi sta in basso e di non ostentare il proprio essere in alto. I credenti di Corinto avevano alle spalle una socializ­ zazione tipica dell'ambiente affascinato da sapienza, potere e nobil­ tà di origini e spregiativo degli infimi; necessitavano dunque, alla luce della metafora della croce, di una «risocializzazione>>, per nulla o insufficientemente intrapresa in passato con la loro adesione al vangelo di Cristo crocifisso annunciato da Paolo. Sempre con termi­ ni sociologici così si esprime Brown: la croce e la relativa predica­ zione crea una grande dissonanza cognitiva che mette in discussione le certezze su Dio, se stessi e il mondo, e Paolo con il suo scritto intende dislocare i corinzi da un certo tipo di sapienza e ricollocarli in un nuovo mondo assiologico segnato dall'evento della croce (pp. 157s: cf. in proposito anche la monografia di Pickett). Mi sembra poi necessario precisare che il suo pensare è sì para­ dossale, ma si muove con acutezza tra le suddette antitesi che non assumono mai l'aspetto di contraddizioni insolubili, perché egli sa ..

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distinguere i diversi punti di vista o meglio le diverse valutazioni e nelle caratteristiche formule genitivali esprime l'opposizione tra questo possessore di sapienza e quell'altro. Cosl, ripetiamo, alla sapienza di Dio è contrapposta quella del mondo (tou kosmou) ( 1 ,20-21). quella di questo eone e degli arconti di questo eone (2,6-7). La parola della croce è insensatezza per quanti la rifiutano, ma potenza di Dio per quanti vi si affidano in forza della stessa poten­ te parola ascoltata ( 1 , 18). Cristo crocifisso è pietra d'inciampo per i giudei e insensatezza per i greci, ma per i chiamati da Dio alla fede, siano essi giudei o greci, è potenza e sapienza di Dio (l ,24) . In breve, Paolo intende sottolineare come il Dio di Gesù Cristo che si è espresso nell 'evento della croce, sia colto e valutato in maniera antitetica secondo il metro usato. Con la mentalità commisurata sui suddetti valori umani, l'uomo ritiene privi di senso la sua parola evangelizzatrice, la croce o il Cristo crocifisso che egli annuncia e lo stesso Dio che dà questa lieta notizia e insieme salva quanti vi si affidano. Nell'adesione di fede, invece, gli ascoltatori del vangelo paolina, sollecitati efficacemente dalla > ( 1 1 ,6) Che cosa dunque egli vede di sbagliato nei valori umani corren­ ti nella società corinzia e romana di quel tempo, ma anche presenti quali stereotipi un po' ovunque lungo il corso millenario della sto­ ria? La loro affermazione come valori assolwi su cui misurare la realtà. valutare l'uomo e creare un'immagine di Dio e di Cristo a propria somiglianza, che chiudono la persona ad altre prospettive e a un'altra scala di valori, quella disvelata nell'evento del crocifisso. A un Dio legittimante potenti e sapienti di questo mondo, Paolo oppone un Dio che si piega con amore su quanti stanno in basso cui dona una nuova identità. Certo, non sa risparmiare sconfitte e morte, ma si fa presente con potenza risuscitante là dove sono con­ fitti i crocifissi della terra: , come ha cantato Maria nel Magnificai (Le 1,51-52). Nietzsche lo ha accusato di essere (L'Anticristo, 46). In realtà, Paolo ha voluto affermare che i non privilegiati di questo mondo sono i privilegiati di Dio. Il carattere urtante di questa teologia è avvertito acutamente sempre dal filosofo tedesco che si rifiuta di accettare , quando il concetto di Dio > la legge: «Ora lo statuto della legge non è quello della fede, bensì il seguente: Chi li praticherà, i precetti, vi troverà la vita>> (3,12}. In 1 Cor 1-4 il valore dell'uomo non sta nelle sue qualità culturali, sociali e religiose, in breve in grandezza e potenza, bensì nel suo essere persona di cui Dio si prende amorevolmente cura a qualsiasi livello sociale e culturale egli appartenga.

3. DAL PENSARE INTUITJVO AL PENSARE ARGOMENTATIVO Paolo ha dunque letto dentro il vangelo tradizionale della morte di Cristo per i nostri peccati abissi di significato di tale evento da lui interpretato con la metafora della croce, non con la sua rappresenta­ zione: metafora culturale espressiva, nel contesto romano e giudaico, di ignominia e debolezza e insieme metafora teologica del sapiente e potente intervento salvifico e risuscitatore di Dio. Ma, come è sua abi­ tudine, non si è fermato all'intuizione, campo di visione degli occhi della fede. Se quando intus legit mostra il piglio del profeta, avverte però forte il bisogno, suo e dei suoi interlocutori, di argomentare, più in generale di acquisire e presentare un'intelligenza del creduto (in­ tellectrts fidei) che soddisfi la sua mente e quella dei corinzi. Ma tutto ciò egli fa con intento apologetico, difesa strenua di lui evangelista della parola della croce. Data la suddetta situazione sto­ rica e retorica dello scritto - svalutazione del suo ruolo a fronte della supervalutazione dell'eloquente Apollo - si capisce che per­ sonalizzi il problema e anche la soluzione. Egli vede che ne va di lui come autentico evangelista e del suo vangelo, due facce di un'unica medaglia. Ecco dunque la sua tesi enunciata in 1 ,1 7: «Cristo mi ha mandato (apostellein) ( ...] ad annunciare il vangelo (euaggelize­ sthai), non però con sapiente parola (en sophia-i logm1 ). per evitare che la croce di Cristo risultasse svuotata (del suo contenuto salvifi­ co)>>. Il testo insiste sulla parola annunciatrice, cioè sulla comunica­ zione verbale dell'evangelista Paolo, che egli anzitutto qualifica in termini negativi: «non con eloquente eloquio>>, tipico di un oratore attrezzato retoricamente e teso a convincere gli ascoltatori, che può essere tradotto «non con una retorica manipolatrice» (Thiselton, 143}. « . . . il suo linguaggio di annunciatore non deve essere in anti­ tesi con l'oggetto annunciato: se questo porta lo stigma della sto!127

tezza, quello deve essere in sintonia, puro dalla ricerca retorica che potrebbe erigersi a mezzo potente e sapiente di convinzione, men­ tre la risposta adeguata all'annuncio evangelico è la fede, cioè l'af­ fidamento da "stolti" umanamente parlando al Dio presente opera­ tivamente nell'annuncio>> (Barbaglio, «La sapiente stoltezza», 29). Ora se vogliamo tradurre in termini positivi quanto dice con propo­ sizione negativa, possiamo affermare che lo scopo della sua scelta di evangelista è preservare la forza salvifica della croce di Cristo, cen­ tro focale del suo annuncio, come appare a11'inizio del v. 18: > (p. 88). Con la sua sapienza, qui la capacità di conoscere il creatore attraverso il creato, di fatto l'uomo non l'ha riconosciuto, come Paolo chiarirà in Rm: (1,19-21). «Si tratta del fallimento non di un periodo della storia umana, m a coestensivo al tempo: l'uomo ha smarrito le vie che por­ tano all'incontro con Dio; è il suo peccato originale. La reazione di Dio però non è stata di castigo o di condanna, che avrebbe chiuso la storia in una immane catastrofe, e neppure di abbandono del mondo al suo triste destino. Rifiutato, non ha risposto con un sim­ metrico rifiuto; ha reagito con la libera e sovrana decisione (eudo­ késen) di farsi incontro salvificamente all'umanità fallita > (Barbaglio, La teologia di Paolo, 104). Un modo di procedere di singolare saggezza e forza che, nel confronto, offusca ogni sapienza e saggezza umana (1,25). A questa ragione di fondo Paolo aggiunge poi due argomenta­ zioni . Il primo exemplum messo in campo è la stessa esperienza nativa dei credenti di Corinto ( 1 ,26-31). Li invita a con­ siderare il senso di quanto è capitato: hanno accolto l'annuncio evangelico, e vi legge la presenza determinante della mano di Dio che li ha chiamati efficacemente a credere (klésis). Ma la maggio­ ranza di loro, come già si è visto sopra. non brillava per peso politi­ co (dynatoi), per sapienza di mente e di parola (sophoi), per subli­ mità di natali (eugeneis). In una parola, valevano assai poco dal punto di vista dei correnti valori umani della società. Eppure pro­ prio loro Dio ha scelto (exelexato) . Insensibilmente Paolo è passato dal tema della chiamata a quello dell'elezione, che sta logicamente alla base della vocazione divina a credere. Ma il suo interesse è per il criterio seguito qui dal Dio eleggente, un criterio sub signo crucis: scelta di grandezze stolte (ta mora), deboli (ta asthené), plebee (ta agené), disprezzate (ta exouthenémena), addirittura nulle (ta me onta). Certo, Dio ha scelto pure i pochi cristiani corinzi di medio e alto livello; ma se non ha fatto alcuna preferenza per loro, avendo scelto anche e soprattutto tra gli infimi, vuoi dire che altro è stato il metro seguito nel chiamare e scegliere, appunto la sua incondizio­ nata grazia che si è piegata sugli immeritevoli e che trova nel van­ gelo della croce il suo sigillo. I cristiani di Corinto fanno parte di quei giudei e soprattutto di quei gentili che Dio ha chiamato con efficacia a superare la pietra d'inciampo e il senso d'insensatezza 130

propri della parola della croce, e ad affidarsi alla sua azione media­ ta dal crocifisso (cf. l ,23-24). Il principio generale mostrato sopra in 1 ,18-25 trova nell'esistenza stessa della comunità corinzia una dimo­ strazione paradigmatica. Non è tutto; Paolo chiarisce anche la finalità dell'azione vocan­ te ed eleggente del Dio del crocifisso: coprire di vergogna (kataischynein) i sapienti, quanto è umanamente forte, ciò che vale agli occhi «del mondo», in concreto togliere loro qualsiasi ragione di orgoglioso vanto di autocrati religiosi davanti a lui che riserva a se stesso l'iniziativa della salvezza da accogliere come un puro e immeritato dono di grazia: (1,29-31). Una finalità divina che l'apostolo scopre attestata in Geremia, dun­ que motivata ex sacra Scriptura. Un secondo exemplum della croce come via seguita dal Dio di Gesù nel processo di salvezza (2,1-5) è lo stesso Paolo, annunciato­ re del vangelo. Si è fatto presente a Corinto da persona insignifi­ cante, timorosa e tremante, in breve da antiretore, visto che l'ora­ tore era una figura imponente: «E io mi presentai a voi in stato di debolezza e timore e tremore (en astheneia·i kai en phobo-i kai en tramo-i)>> (2,3). La sua parola poi era ben lontana dal luccichio reto­ rico degli oratori che s'imponevano all'attenzione degli ascoltatori e li trascinavano ad accettare il loro punto di vista; anzi comunicava un crocifisso come notizia gioiosa: «Anch'io, fratelli, alla mia venu­ ta da voi non venni ad annunciare il mistero di Dio con sovrabbon­ danza di parola o di sapienza (ou kath 'hyperbolen logou e sophias). Non ho ritenuto, in effetti, di sapere altro tra voi che non fosse Gesù Cristo e questi crocifisso>> (2,1-2). In una parola, lo stigma della ver­ gogna e della debolezza affondava nelle carni della sua persona e della sua parola annunciatrice. Eppure il suo vangelo ha fatto brec­ cia nelle menti e nei cuori di non pochi. A chi e a che cosa si deve tale efficacia, si domanda? Nessun equivoco è possibile: la sua paro­ la ha dato origine a una comunità di credenti non per il brillio, ine­ sistente, della «sapienza>> umana, vale a dire della sua eloquenza abbagliante, bensì per la potenza di Dio operante mediante lo Spirito: «Inoltre la mia parola e il mio annuncio non fecero ricorso a parole di sapienza capaci di persuadere, bensì alla dimostrazione resa dallo Spirito, cioè dalla potenza divina. E mi comportai a que131

sto modo, perché la vostra fede non poggiasse sulla sapienza umana, bensì sulla potenza di Dio>> (2,4-5).

4. DAL PAOLO RAZIOCINANTE AL PAOLO APOCALITTICO: RIDEFINIZIONE DELLA SAPIENZA Trascinato dalla foga apologetica del suo dire, l'apostolo capo­ volge infine le parti in gioco. Lo avevano disprezzato per la sua povertà di mancato retore preferendogli Apollo? «Punto nell'orgo­ glio - non un vano orgoglio umano ma l'orgoglio di servitore scel­ to per grazia dal Dio di Gesù Cristo - , reagisce affermando che egli possiede una sapienza speciale, quella di Dio, non quella del mondo, la sapienza del misterioso suo progetto divino. Non l'ha potuta però comunicare ai credenti di Corinto, almeno a quelli che menavano vanto della loro superiorità, incapaci di valutaria e accoglierla. L'assenza della sapienza nell'incontro tra l'apostolo e i credenti di Corinto. da lui presi di mira, non è imputabile a lui, ma a loro. Attaccati anima e corpo alla sapienza umana, si sono preclusi l a via di ascoltare lo Spirito, l'unico capace di conoscere "le profondità di Dio", quelle nascoste nel suo disegno salvifico mediato da Cristo, di disvelarle e di comunicarle con parole adeguate, suggerite dal lui stesso>> (Barbaglio, , 31). Non intende, come afferma Weder, lasciarsi usurpare dai corinzi la sapienza; la rivendi­ ca ma con un significato > (vv. 9-10). Come per gli uomini è il proprio spirito a cono132

scere quanto è nascosto nel loro intimo, così (3,1 -3). Vorrei essere chiaro: Paolo tratta sempre della sapienza di Dio, opposta alla sapienza del mondo e degli uomini e incentrata in Cristo crocifisso, ma la intende con formalità diversa: oggetto non di semplice annuncio (keryssein), ma di parola profetica (lalein) e come tale riservata ai credenti aperti al soffio dello Spirito, è la sapienza del divino. Per questo confessa di non aver potuto comunicarla ai credenti boriosi di Corinto, non per una pre­ sunta disciplina dell'arcano. bensì per motivi pedagogici (Conzelmann, 77), data la loro persistente incapacità. Hanno rice­ vuto l'annuncio di Cristo crocifisso e vi hanno creduto, ma poi si sono lasciati guidare da logiche di rivalità e settarismo, chiudendosi così all'animazione ispirante dello Spirito e dunque alla possibilità di percepire la parola profetica dell'apostolo e di accogliere il di­ svelamento delle (2,10), sapiente architetto della salvezza di (2,9).

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Capitolo XI

Il vangelo della libertà dei gentili (Gal)

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È l'interpretazione del «Vangelo di Cristo>> (1,7) che Paolo espone nella Lettera ai Galati. Nella sua riflessione ermeneutica es­ so si fa lieta notizia per i gentili di Galazia - e per tutti i gentili, co­ me emergerà dalla Lettera ai Romani - in quanto annuncio della loro libertà dalla circoncisione e dalla legge mosaica. Libertà-da dunque, ma anche libertà-per, cioè totale affidamento della propria vita a Cristo: > 135

(2,4). Li coinvolge per quello che sono, senza che debbano rinun­ ciare alla loro «gentilità>> e farsi giudei, altri da se stessi, integrati nel popolo dei circoncisi. Così la loro diversità etnico-religiosa non è un handicap da superare attraverso l'assimilazione ai circoncisi, ma un dato culturale riconosciuto e ininfluente in campo salvifico. Detto in termini teologici, alla salvezza cristiana sono efficacemen­ te chiamati da gentili, come parimenti lo sono i giudei - nessun ob­ bligo di farsi gentili, cioè annullare il segno della circoncisione -, gli uni e gli altri sulla base della stessa fede in Cristo. Lo si vedrà abbondantemente in seguito, il pensare di Paolo appare qui incen­ trato, come essenziale modalità dei beni salvifici donati alle perso­ ne, nel sì alla fede in Cristo, adesione personale, e nel no alla cir­ concisione e alla legge, connotazione etnico-religiosa. È la prima dissociazione tra le diverse presenti nella Lettera ai Galati e che la caratterizzano, contro cui si erge la rivolta di Nietzsche: «>, mettendo in atto le risorse della propria mente e cercando di far breccia nelle menti e nelle volontà dei suoi interlocutori. Di fatto chiarisce, argomentando con passione, qual è il «SUO>> vangelo già annunciato in Galazia ( l .R. l l ) e che ora inten­ de presentare con più forza nel suo scritto, vangelo alternativo all' «altro vangelo>> (1,6) proposto in modo costrittivo dagli agitato­ ri. Il fulcro della sua argomentazione sta appunto nel giustificare, agli occhi delle comunità galate, il proprio annuncio e demolire «l'altro>>. È questo confronto (sygkrisis in termini retorici), che si risolve in netta antitesi, tra autentico vangelo, il suo, e falso vangelo, quel136

lo dei sobillatori, che guida il suo pensare. Infatti contro la lettura di molti studiosi, nei vv. 6-7 egli non afferma che il suo è l'unico van­ gelo esistente. dunque quello dei sobillatori di Galazia non è affat­ to vangelo, bensì che > (2.4). Ecco un'altra dissociazione propria della Lettera ai Galati: libertà/ schiavitù, parallela alla precedente fede/legge. Inoltre stabilisce uno stretto rapporto tra vangelo della libertà e verità del vangelo (2,7.14): difendere quella infatti vuoi dire garanti­ re che il suo annuncio evangelico è veramente grandezza divina. Infine, presenta un confronto, concluso con un verdetto di parità ad maiorem sui g/oriam, tra sé e Pietro e parimenti tra i loro due van­ geli, >, che introduce un 'altra breve autobiogra­ fia nel tessuto delle argomentazioni.

2. ESPOSIZIONE DOTIRINALE DEL SUO VANGELO (GAL 2,15-21) Pur mantenendo qualche aggancio formale con il genere narra­ tivo precedente - dal punto di vista formale è un discorso che Paolo tiene a Pietro e compagni nello scontro di Antiochia -, l'au141

tobiografia lascia ora il campo a una definizione dei contenuti sote­ riologici del suo vangelo (2,15-2 1 ) , anche se quest'ultimo, come tema, d'ora in poi scompare dal dettato di Galati, salvo in 4,1 3 che fa riferimento alla evangelizzazione della Galazia. Egli esprime la comune convinzione di fede (eidotes) che gli serve per denunciare il loro comportamento ad Antiochia come schizofrenico dopo le deci­ sioni dell'assemblea gerosolimitana, ma soprattutto per contrastare «l'altro vangelo>> dei sobillatori di Galazia: «nessun uomo è giustifi­ cato per le opere della legge, ma solo mediante la fede in Gesù Cristo>> (v. 16a). È un assioma generale («nessun uomo>>), giustifi­ cato, nella sua parte negativa, con la citazione scritturistica di Sal 143,2 liberamente inteso: «dalle opere della legge [aggiunta di Paolo) nessun mortale potrà essere giustificato>> (v. 16c). Si noti come ex abrupto egli introduca qui la categoria teologica della giu­ stificazione destinata ad avere un peso rilevante nella probatio dei cc. 3-5, senza però assurgere a unico contenuto del suo vangelo; e lo fa sotto il duplice segno della dissociazione e dell'affermazione esclusiva: si ottiene solo per la fede in Cristo. Forse essa specificava oggettivamente «l'altro vange­ lo>> dei sobillatori di Galazia e Paolo è stato abile a rubar loro que­ sto cavallo d i battaglia per farne una caratteristica oggettiva del suo annuncio: ma è anche possibile che sia stato lui a farsi forte di que­ sta arma teologica. I tre elementi dell'assioma richiedono una doverosa chiarifica­ zione. Categoria di chiaro stampo biblico-giudaico, la giustificazio­ ne prende senso all'interno del rapporto di alleanza stipulato da Dio con il suo popolo per rimarcare la fedeltà di quello a questo e la giu­ sta collocazione del secondo, alleato per grazia, davanti al primo. Paolo la riprende esprimendo l'iniziativa di Dio giustificante - i verbi passivi usati «è giustificato>>/ «Siamo giustificati>>/ «sarà giusti­ ficato»/ «essere giustificato>> sono passivi teologici e dunque sottin­ tendono il complemento d'agente «da Dio>> - e affermando che nel processo giustificativo l'uomo è nella posizione di beneficiario, non di attore: nessuna autogiustificazione. Ma fin qui nulla di nuovo rispetto alla tradizione giudaica; l'originalità del suo pensare sta tutta nella modalità in cui la giustificazione si attua: «per la fede in Cristo»/ «non per le opere della legge>>. Queste sono in generale ciò che la legge mosaica prescriveva agli israeliti, introdotti per grazia nel patto dall'iniziativa di Dio e impegnati a osservarle come condizione non per entrarvi, ma per restarvi. Naturalmente nella contesa con i sobillatori di Galazia e 142

nella comunicazione con i galati in primo piano c'era «l'opera>> della circoncisione. Paolo ne contesta la valenza soteriologica per vari motivi che esporrà più avanti. La fede è da lui intesa come ascolto obbediente dell'annuncio evangelico e adesione all'evento salvifico che vi è proclamato, la storia di Gesù morto e risuscitato. Per questo si qualifica come fede in Cristo [così. nonostante tutto, intendiamo la formula pistis lésou Christou, parallela alla costruzione verbale ] e adesione a lui. L'ipotesi concordistica di Vanhoye che mette insieme la fede in Gesù e la sua affidabilità, non mi pare molto convincente, visto che mai altrove questa affidabilità appare negli scritti paolini. Infatti subito dopo in 3,1-2, rievocando l'evan­ gelizzazione dei galati, dice come gli evangelisti abbiano presentato Cristo crocifisso e questi ascoltato con fede l'annuncio (akoe piste6s ). Determinante, come si vede, è la dimensione cristologica, con la sottolineatura del senso e del ruolo soterici di Gesù, qui sin­ tetizzati nel linguaggio giuridico di giustificazione. Di lui, in ultima analisi, si tratta, ancor prima che di noi: in termini scolastici, la sote­ riologia paolina è sotto il segno della cristologia. (Barbaglio, La teologia di Paolo, 438s). L'assioma, in realtà, è servito a Paolo per richiamare la loro comune decisione di credenti giudeo-cristiani: , noi che (vv. 16b,15). È un argomento a fortiori: a maggior ragione ciò varrà dei gentili, intende dire. Con tutta probabilità però è a lui che si deve l'esplicita affermazione del­ l'esclusione della legge e della circoncisione, che egli considera una 143

necessaria implicazione della fede in Cristo, non vista però dai giu­ deo-cristiani conservatori. Dice ottimamente Murphy O'Connor, ispirandosi per altro al commento di Mussner: , 380). Ma dopo una breve risposta ai cristiani segnati da rigido conser­ vatorismo - aderendo per fede a Cristo al di fuori della legge non si rimane affatto nel peccato, ma si diventa giusti, altrimenti si ver­ rebbe a dire che questi è a servizio del peccato, un'assurdità (me genoito) (v. 17) - passa dal noi all'io; di fatto presenta la sua espe­ rienza di ebreo giunto a credere, che considera paradigmatica per tutti i credenti. Ha vissuto un passaggio esistenziale che ha voluto dire per lui morte e insieme vita, un transfert radicale i cui estremi sono la legge e Cristo. altra dissociazione caratteristica della Lettera ai Galati. In concreto, è morto alla condizione di schiavo sotto il giogo della legge per giungere a una vita nuova a servizio di Dio. meglio di m istica comunione con Cristo conseguita in forza del bat­ tesimo, cui allude come sacramento di partecipazione alla morte e risurrezione di Gesù (cf. Rm 6), vivendo quindi la vita stessa del Risorto: > (vv. 19-20a). Il sorprendente si può comprendere alla luce di 4.4: Cristo si è sottomesso alla legge (hypo nomon) e di 3,13: sulla croce è stato colpito dal verdetto di maledizione emesso dalla legge, liberandocene. «La solidarietà del credente con Cristo lo coinvolge in questo paradosso: la legge male­ dice il crocifisso, non perché personalmente trasgressore ma in quanto solidale con i trasgressori e i con-crocifissi, questi sì male­ detti perché ne hanno trasgredito le prescrizioni, ma in questo modo essa collabora all 'esautoramento infertole da Cristo>> (Barbaglio, La teologia di Paolo, 446). Sempre con occhio attento al ruolo di Cristo, richiama infine la tradizionale convinzione di fede della valenza soterica della sua morte, interpretandola in modo assai originale come amore ablati­ vo per lui stesso. Di fatto ne personalizza la portata (cf. i pronomi di prima persona singolare) e precisa il carattere salvifico al di fuori. credo, della concezione espiatoria presente in un filone della tradi­ zione protocristiana che parlava di «morte per i nostri peccati>> 1 44

( 1 Cor 15,3; 1Pt 3,18). Confessa infatti: (hyper emou: a mio vantaggio spirituale).

3. GIUSTIFICAZIONE «RAZIONALE» DEL SUO VANGELO IN CHIAVE CRISTOLOGICA Paolo non si accontenta di presentare l'assioma suddetto «la giu­ stificazione solo per la fede in Cristo>>; le esigenze razionali della sua mente e quelle retoriche della comunicazione epistolare con i gala­ ti, che intende persuadere e convincere della validità del suo vange­ lo di libertà, lo portano a ragionarci sopra. Come si è visto, l'esclu­ sione delle opere della legge non è motivata essenzialmente da carenze della legge in sé, neppure dai comportamenti umani d'infe­ deltà - non osservanza di fatto o addirittura impossibilità di osser­ varla (così molti esegeti) o dalla sua osservanza legalistica (Bultmann). Dipende dal riconoscimento del ruolo salvifico di Cristo, il luogo dell 'iniziativa «Ultima>> di grazia di Dio: è il media­ tore dei giorni della fine e, come tale, non può essere completato dal di fuori. Avendo una sua costitutiva autosufficienza salvifica, non gli si può abbinare un secondo fattore di salvezza. nella fattispecie la circoncisione e la legge mosaica, pena il suo annullamento. Vale il dilemma . Dire che è qualcosa d'importante, ma insufficiente e dunque da completare, come probabilmente si dice­ va nelle Chiese gala te, significa misconoscere la sua vera identità. In breve, Paolo butta a mare la legge per salvare Cristo. Di qui il suo ricorso alla refutatio quando mostra che la posizio­ ne opposta è erronea, perché porta «logicamente>> - una logica agganciata a una precisa conoscenza di fede - a conseguenze inam­ missibili appunto in campo cristologico: «Non annullo la grazia di Dio; se infatti si ottiene la giustificazione mediante la legge [ciò che appunto finivano per dire, a suo giudizio, i sobillatori di Galazia), allora Cristo è morto inutilmente>> (2,21 ). Tuttavia così come viene affermata, tale consequenzialità è tutt'altro che logica, tanto è vero che no.n era per nulla chiara ai sobillatori di Galazia e ai galati che erano sul punto di condividerne «l'altro vangelo>>. In realtà, come spesso avviene nel pensare di Paolo, nel suo ragionamento è pre­ sente una premessa implicita, tipica del sillogismo di marca entime­ matica: nella sua argomentazione di fatto qui egli sottintende il valore escatologico e dunque totalizzante ed esclusivo della morte di Gesù. In questa prospettiva e solo in questa, abbinando la legge 145

a Cristo lo si vanifica, perché si toglie alla sua morte la valenza di evento decisivo, . La razionalità o Iogicità del suo argomentare sta tutta nell'evidenziare la validità dell'aut-aut e l'insostenibilità dell 'et-et. L'esclusione della legge è dunque vista da lui come esigenza cristologica. Lo ha ben detto Penna: l'apostolo «sviluppa non una toralogia ma una cristologia>> (, 5 10). Ma si deve precisare: anche i cristiani della sua generazione cre­ devano che l 'evento di Cristo, morte e risurrezione e parusia futura, costituisse l'eschaton, la realtà definitiva della storia di Dio con il mondo e l'umanità. Basti citare da Gal 4,4 una formula tradiziona­ le di fede: , per non dire della confessione della risurre­ zione del crocifisso implicante la risurrezione generale attesa per . Solo però all'acutezza della sua mente deve essere riconosciuto il merito di aver mostrato che dunque Cristo è fattore esclusivo di salvezza, il tutto e non una parte (solus Christus). Nella Lettera ai Galati di fatto il suo pensare ritorna più volte in forma di refutatio sulla suddetta convinzione cristologica da lui approfondita. Così leggiamo in 5,2: . A differenza di >, come traduce bene Agamben (p. 92): disattivata in rapporto appunto al suo potere sal­ vifico: (5,11). Per qual motivo? Così estenuata, la croce di Cristo non è più scandalosa perché resta tale e quale le croci innalzate sulla terra in ogni tempo, una pena tremenda e infamante, e non assurge, scan­ dalosamente, a luogo della potenza salvante di Dio. Le si toglie la sua valenza salvifica perché facendo dipendere la giustificazione dalle qualità delle persone - l'essere circoncisi, avere la legge divi­ na, clausola del patto, far parte del popolo de li 'alleanza -, si fini146

sce logicamente, così pensa Paolo, per attribuire all'azione giustifi­ cante di Dio in Cristo un criterio altro da quello effettivamente seguito: giustificare quanti portano lo stigma della croce, cioè sono privi di qualsiasi qualità etnico-religiosa da far valere, ridotti addi­ rittura a nullità (la mé onta), come egli afferma in l Cor 1,28-29: > sotto il dominio della legge (3,10) o di (4,8). Dopo esservi entrati sola fide prestata all'annuncio evangelico di Paolo, se ora intendono affidarsi alla legge mosaica, vuoi dire che si sono estromessi dal processo della gratuita iniziativa di Dio incar­ nata nella storia di Cristo. È per ottenere un più incisivo effetto retorico che egli parla di rottura con Cristo e di verur meno alla gra­ zia come di una realtà avvenuta: se ne guardino! Ma anche l'altra conseguenza inammissibile richiede di essere precisata: si tratta della grazia «eristica>>, di una grazia non qualsiasi ma qualificata, propria dell'azione salvifica di Dio in Cristo. Anche il patto sinaitico nel giudaismo del tempo era com­ preso e vissuto all'insegna della grazia di YHWH, che aveva intro­ dotto gratis gli israeliti nel patto, prescelti non per i loro meriti bensì per la promessa di Dio ad Abramo. Lo ha ben evidenziato Sanders e non l'ha tenuto presente nel suo commentario A. Vanhoye che addebita alla posizione giudaica autogiustificazione e legalismo. Dunque la contrapposizione tra il vangelo di Paolo e > (Gal 6,15). La situazione del mondo è radicalmente cambiata, meglio rinnovata; il vecchio mondo. in cui contava la circoncisione a discapito dell'incirconcisione, quella privilegio e questa handicap, è crollato e ne è sorto uno nuovo (kaine ktisis), in cui conta !', l'esistere cioè nella sua sfera d'influsso spirituale, come appare in un passo parallelo: > e ha un 'evidente portata cosmi­ ca. L'accostamento delle due dimensioni si spiega perché Paolo, fede­ le alla sua tradizione biblico-ebraica, vede l'uomo inserito essenzial­ mente nel mondo e questo in strettissimo rapporto con quello. «Piut­ tosto che un "aut-aut" la lettura attenta del passo paolina giustifica un "et-et": soteriologia antropologica e apocalittica cosmica non si esclu­ dono l'una l'altra: il rapporto è di convergenza e stretta connessione [ ... ) . Kaine ktisis ha qui diretta valenza antropologica: l'uomo diventa "nuova creatura". Ma tale è non come isola felice e coscienza interio­ re, bensì quale abitante di un mondo nuovo: la kaine ktisis dice essen­ ziale rapporto a kaina>> (Barbaglio, «Creazione>>, 206s). La Lettera ai Galati in modo particolare testimonia come Paolo pensi il suo vangelo alla luce dell'epocale dissociazione tra passato e presente (un tempo: pote e adesso: nyn), un modo di esprimersi che si abbina alla contrapposizione apocalittica tra vecchio e nuovo mondo. Vi insiste a ragione Martyn nel suo commento. Non è una riflessione generica, egli la vede intrinseca allo scopo della sua comunicazione con i galati, e qui sta la sua originalità rispetto alla convinzione comune della fede protocristiana: per lui la circoncisio­ ne e, in generale, la legge mosaica e il patto mosaico appartengono al passato, al vecchio mondo; tenerli in vita sarebbe un puro ana­ cronismo. Cristo è portatore di novità radicale e, insieme, vuoi dire rottura con il passato, con il passato mosaico però per l'esattezza, non con il passato di Abramo, che per questo in verità non può esse­ re visto come passato, se inteso qualitativamente, a cui Dio ha annunciato un pre-vangelo (proeuaggelizesthai: 3.8 ). La scansione dei tempi trova, di regola, diverse formulazioni in Galati. «Quanti traggono il loro essere dalle opere della legge (hosoi ex ergon nomou eisin) sotto soggetti alla maledizione>>, ma Cristo «Ci ha riscattato dalla maledizione della legge>> (3,10.13). La dissociazione è caratterizzata più che sul registro cronologico su quello esistenziale: affidamento alla legge, tentazione attuale dei credenti di Galazia, e affidamento a Cristo; tale transizione è paral­ lela a quella dalla maledizione al riscatto dalla maledizione. 149

«Prima però che venisse la fede noi eravamo sotto custodia della legge [ ... ]. Così la legge è diventata il nostro pedagogo in attesa di Cristo [ ...], ma, venuta la fede. non siamo più sotto il dominio del pedagogo>> (3,23-25). Il passato, antecedente all'oggi dei credenti, è solo passato, non pregiudica il presente: in una parola, non è più. Non si tratta di tempo puramente cronologico, materiale, bensì di passato e presente intesi come condizioni diverse d eli 'esistenza della persona. A buon diritto Agamben parla di tempo che noi stessi siamo, non di tempo in cui siamo che è il tempo cronologico (p. 68). «Così anche noi, quando eravamo minorenni, eravamo schiavi sotto il dominio degli elementi del mondo. Ma quando il tempo giunse al suo zenit, Dio mandò il suo figlio per riscattare quelli sotto la legge e per la nostra adozione a figli [ ...] . Così non sei più schia­ vo, ma figlio>> (4,3-5.7). «Nel vostro passato (tote) d'ignoranza di Dio, invece, foste asserviti a dèi che tali non sono per natura. Ora (nyn) però che avete conosciuto Dio, o piuttosto siete stati da lui conosciuti>> (4,8-9a). Paolo ne deduce l'assurdità di un risucchio nella loro condizione passata: «come potete ritornare ancora agli elementi deboli e miseri con la volontà di esserne di nuovo schiavi?>> (4,9b). L'affermazione di 3,28: > (3,2). Dunque la giustificazione non costituisce l'unico contenuto del vangelo e non può essere definita il grande tema della Lettera ai Galati; in realtà, come avremo modo di vedere, l 'apostolo si riferisce, più in genera­ le, all'esperienza salvifica dei credenti da lui variamente tematizza­ ta: giustificazione, dono dello Spirito, benedizione divina, liberazio­ ne, riscatto, discendenza abramitica e figliolanza divina, vita, ecc. 150

(cf. Theissen). Lo scopo è di mostrare - questa l'essenza del suo vangelo annunciato ai galati e, nello stesso tempo, ciò a cui tende la sua comunicazione epistolare - che i beni salvifici si ottengono sola fide, sine operibus legis. Altro elemento importante della pericope: subito dopo Paolo afferma una nuova dissociazione che avrà gran­ de importanza nei cc. 5-6 della lettera: lo Spirito e la «carne>>. È in realtà l'antitesi tra dinamica dell'agape e dinamica dell'egocentri­ smo, con implicita correlazione tra e affidarsi alla circonci­ sione o alla legge: (3,3). Molto sviluppata invece l'argumentatio ex sacra Scriptura (cc. 34), incentrata nella figura prototipica di Abramo. Paolo sceglie nella Genesi alcune attestazioni che fanno al suo caso, evitando accura­ tamente il c. 22 (il sacrificio di !sacco) e completandole con altri passi biblici, ma anche riscrive ermeneuticamente un capitolo importante della storia del grande patriarca, la sua unione con due donne, Sara e Agar, che gli hanno dato due figli, !sacco e lsmaele. Nel giudaismo del tempo si guardava a lui come al padre d'Israele, ma assai importante era anche l'esemplarità della sua persona. La discendenza abramitica era infatti indispensabile per appartenere, a pieno diritto, al popolo di Dio e lo si esaltava sl come credente nel Dio unico ma anche quale uomo fedele alla sua volontà, addirittura eroico nella piena disponibilità a sacrificare l'unico figlio (Gen 22). Paolo l'assume come punto focale della sua argomentazione scrit­ turistica o perché era il cavallo di battaglia dei sobillatori di Galazia, oppure per sua iniziativa. - È l'insegna della sua argomentazione. Tra i gentili di Galazia che hanno creduto, ricevendo così il dono dello Spirito, e il grande patriarca c'è una corrispondenza: gli uni e l'altro hanno creduto e per questo sono stati giustificati. Interpretiamo la particella «come>> in senso comparativo: allo stesso modo di Abramo, non come introduzione a una citazione: . Il rapporto però in seguito andrà ben oltre il paragone, che tuttavia non è senza importanza. Se il punto di partenza del suo ripensare la figura di Abramo è comune a quello della tradizione biblico-giudaica - la figliolanza abramitica è necessaria per aver parte alle promesse divine, di cui il patriarca è depositario -, in modo originale egli ne ridefinisce la figura e insieme la discendenza, mettendo l'una e l'altra sotto il segno della fede, con esclusione della circoncisione e, più in gene­ rale, della legge mosaica. E lo fa Scrittura alla mano, guidato da un .

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criterio nuovo di lettura, quello cristologico: rilegge infatti la storia di Abramo attestata nei testi sacri alla luce della storia di Gesù, luogo dell'iniziativa definitiva di Dio a salvezza degli uomini, È un processo interpretativo giustificato dal fatto che il vangelo di Cristo ha la sua corrispondenza essenziale nel pre-vangelo annunciato ad Abramo (3,8). Se sopra la prospettiva paolina era di timbro apoca­ littico, ora è in senso storico-salvifico che afferma una continuità con il passato, non però con il patto del Sinai, bensì con la promes­ sa giurata da Dio ad Abramo il credente, una continuità basata sulla fede in Cristo, il figlio per eccellenza di Abramo. Non si tratta di una elucubrazione astratta, bensì di una rilettu­ ra con la mente attenta alla crisi delle Chiese di Galazia. Ecco dun­ que l'altra costante del suo pensare in Gal 3-4: come collegare dei gentili ad Abramo mostrando che anch'essi, pur non essendo del suo sangue, sono realmente suoi figli? In altre parole, come mostra­ re che la sua famiglia è multietnica, perché abbraccia parimenti giu­ dei e gentili? Ma non manca l'interesse per la legge che passava, di certo nel giudaismo ma anche da parte dei sobillatori della Galazia. per fattore indispensabile ai fini di accedere alla figliolanza e all'e­ redità abramitica. Una volta messa da parte: non ex operibus legis, sed sola fide. Paolo non poteva evitare di parlarne, precisandone la natura e soprattutto la collocazione lungo l'asse della storia del dise­ gno salvifico divino. Si capisce così l'interrogativo di 3,19: che apre la sezione di 3,19-29. Genesi - Paolo si basa su 15,6; 12,3; 13,17. Il primo: Abramo è particolarmente utile ai fini della sua argomentazione, per­ ché collega strettamente fede e giustificazione, appunto quanto esprime il suo vangelo e, parimenti. il prevangelo annunciato al patriarca: (3,8). Egli sottintende che la giustificazione di Abramo e dei gentili avviene con esclusione delle opere della legge, un sottinteso che espliciterà più avanti con un'altra importante citazione biblica, Ab 2,4: (3, 1 1 ) Dato il contesto mi sembra legittimo leggere così il passo profetico: a Paolo interes­ sa il legame tra fede e giustificazione, legame esclusivo; non vi entra, dice, e non vi può entrare la legge, il cui statuto, la pratica, è altro da quello del credere, l'affidarsi a Dio e alla sua azione: (3,12). Che fede voglia qui dire affidarsi, emerge con chiarezza dalla suddetta cita­ zione di Gen 1 5,6: Abramo credette a Dio, cioè alle sue promesse. YHWH infatti gli aveva garantito che non il servo Eliezer ma un figlio del suo sangue ne sarebbe stato l'erede (15,4) e che il numero della sua discendenza avrebbe eguagliato quello delle innumerevo­ li stelle del firmamento ( 15,6). Lo stesso significato ha la fede dei gentili in Cristo; per questo Paolo può farla corrispondere a quella di Abramo. Ma sarà Rm 4 a entrare esplicitamente in argomento. Dall'attestazione di Gen 15,6 l'apostolo deduce subito ciò che più gli importa: la discendenza abramitica per fede: «Riconoscete dunque che figli di Abramo sono proprio quelli che traggono il loro essere dalla fede (hoi ex pisteos)» (3,7). È una conclusione affretta­ ta: logicamente avrebbe dovuto concludere alla giustificazione in forza della fede, appunto come Abramo. Ma egli salta i necessari passaggi logici intermedi per arrivare subito alla tesi o propositio che intende dimostrare ex Scriptura. Riprenderà infatti il motivo poco più oltre per una puntuale giustificazione «logica». Il secondo passo genesiaco citato è 12,3: «In te saranno benedet­ te tutte le nazioni (panta ta ethne)» (3,R). Si noti che Paolo sostituisce la formula di Gen 12,3: «tutte le tribù della terra (pasai hai phylai tes ges)» con la suddetta ricorrente nel passo parallelo di Gen 18,18: > (vv. 27-28). Dunque figli di Dio nel Figlio, ma anche «discendenza di Abramo, gli eredi secondo la pro­ messa», proprio perché formanti un solo essere con «il discendente» del patriarca (v. 29). Sempre per chiarire il motivo di figliolanza ed eredità divina Paolo sviluppa il paragone del figlio minorenne che, quanto all'ere­ dità, «pur essendo padrone di tutto, non differisce in nulla da uno schiavo, ma è soggetto a tutori e amministratori fino al giorno fissa­ to dal padre» (4,1-2). Sottintesa è l'antitesi tra figliolanza (di un figlio maggiorenne) e schiavitù, che sfocerà più avanti nella relativa contrapposizione tra libertà e schiavitù. E per Paolo vale sempre il principio che tali beni salvifici, figliolanza ed eredità, sono dati da Dio per fede, non per le opere della legge. Ecco la presentazione della realtà comparata: «Così anche noi [è il noi generale dei cre­ denti] da minorenni eravamo schiavi sotto il dominio degli elemen­ ti del mondo» (4,3). Questa espressione (ta stoicheia tou kosmou) per se stessa indicativa degli elementi naturali: aria, acqua, terra e fuoco, di cui si compone l'universo, pur essendo più adatta a defini­ re il culto idolatrico, adorazione di realtà mondane, è usata da Paolo 157

per segnalare anche la soggezione alla legge. Infatti egli passa insen­ sibilmente dalla sottomissione agli elementi del mondo del v. 3 alla sottomissione alla legge del v. 4, ed è chiaro che le due formule (hypo ta stoicheia tou kosmou/ hypo nomon: vv. 4.5) esprimono sud· ditanza e dipendenza. Ancor più definisce le due situazioni di dipendenza come schiavitù: (v. 3) e il riscatto di quelli sotto la legge al v. 7, come si vedrà, è inteso come transfert dall'es· sere schiavo. Si conferma qui il suo punto di vista antropologico condiziona­ to dalla propria cristologia: al di fuori di Cristo tutta l 'umanità è in stato di sudditanza schiavistica agli oggetti del suo culto, la legge o gli idoli. Il suo vero interesse però è per l'altra faccia della medaglia: «Ma quando il tempo giunse al suo zen it, Dio mandò il suo figlio» (v. 4). Dunque lo snodo liberante è opera dell'iniziativa salvifica divina, non per autoredenzione: «nato da una donna, nato sotto il dominio della legge, per riscattare quel· li che sono sotto il dominio della legge e perché noi ricevessimo l'a­ dozione filiale» (vv. 4-5). Il figlio di Dio non ha semplicemente assunto la natura umana, come recita il dogma cristologico di Calcedonia: è diventato uomo al modo umano, per generazione (nato da donna). ed è diventato un uomo etnicamente e cultural­ mente determinato, cioè un ebreo sottomesso alla legge mosaica. Si potrebbe parlare di una sua umanizzazione ebraizzante. Ma in pro­ spettiva c'è anche la croce, come è attestato in 3,13: divenne un maledetto per noi finendo crocifisso per solidarietà con i trasgres­ sori della legge, per questo maledetti. Più importante ancora è la duplice finalità di tale evento che mira a un radicale mutamento della condizione dei suoi simili, giu­ dei o gentili che siano. Anzitutto esso dice riscatto (exagorm:.ein) dei sottomessi alla legge, un riscatto non dal di fuori, ma dal di dentro; Cristo partecipa realmente alla condizione di persona sotto la legge (hypo nomon), non però per subirla bensì per capovolgerla. Già in 2,19 Paolo aveva detto che Gesù coinvolgendo i credenti nella sua morte in croce, li fa morire alla legge, cioè al suo dominio, e vivere di vita nuova. In secondo luogo fa sì che «noi [tutti i credenti) rice­ vessimo il dono dell'adozione divina». Ma procede: «E che siate figli è provato dal fatto che [o: E perché siete figli) Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo figlio, il quale grida: Abbà, Padre !» (vv. 4-6). All'invio del figlio è abbinato quello dello Spirito del figlio, stretta­ mente connessi. Il primo non sorprende, perché comune nella tra158

dizione protocristiana, attestato nei sinottici (Mc 9,37; M t 10,40; Le 9,48; 10,16; Mt 15,24; Le 4,18.43), per non dire del Vangelo di Giovanni, mentre originalissimo è l'invio dello Spirito, che specifica la figliolanza divina ottenuta per partecipazione a quella prototipi­ ca e fontale di Cristo, il figlio; per questo Paolo lo definisce con for­ mula originale «lo Spirito del suo figlio». I n breve pneumatologia, teologia e cristologia sono strettamen­ te connesse: il credente diventa figlio di Dio non solo nel suo esse­ re, ma anche in quanto animato da spirito filiale creato dallo Spirito, riassunto qui nel grido esclamativo: Abbà, Padre!, che esprime una familiarissima dimestichezza nel rapporto con Dio. Questo termine aramaico, risalente senz'altro all'uso delle comunità giudeo-cristia­ ne di Palestina, appartiene originariamente a Gesù, come testimo­ nia Mc 1 4,36. II suo esempio fu imitato dai cristiani di lingua ara­ maica, estendendosi quindi alle comunità di lingua greca, come appare in questo passo di Gal e in quello analogo di Rm 8,15. La conclusione a cui Paolo voleva giungere già dall'inizio è la nuova identità del credente, introdotto in forma diretta con un tu coinvolgente: (4,7). Figliolanza abramitica e figliolanza divina camminano parallele nel pensare di Paolo: l'una e l'altra sola fide e per cooptazione soli­ daristica in Cristo, figlio di Dio (hyios) e discendente prototipico (sperma) di Abramo. Ancora più unite, fino a essere la stessa, sono poi l'eredità promessa da Dio ad Abramo e quella accordata, sem­ pre da Dio, ai figli: il rapporto è qui tra promessa e compimento. Quali figli di Abramo sono gli eredi? (4,21-31) - La figliolanza abramitica richiede ancora un 'ultima precisazione, perché di fatto il patriarca ebbe due figli da due donne diverse, lsmaele ed !sacco, che si diversificano, sottolinea Paolo, per la loro origine: anzitutto le madri sono l'una una schiava, l'altra una libera; inoltre essi sono stati generati l'uno , l'altro invece giurata da Dio ad Abramo che andava verso la morte senza un erede del suo sangue (4,21-23). Soprattutto per l'apostolo è interessante rilevare come l'eredità abramitica sia riser­ vata a !sacco con netta esclusione di Ismaele. Ed ecco la sua ardi­ mentosa o tipologia, noi diremmo, cioè la trasposizione di realtà della storia passata a quella attuale che capovolge il senso ovvio e storico del testo genesiaco, secondo cui sono gli israeliti i figli di Abramo e Sara e dunque gli eredi della promessa. > (4,28), doppiata dali 'applicazione conclusiva al «noi>> di tutti i credenti, figli della libera: > (v. 21). '

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Capitolo XII

Il vangelo dell'apocalisse dell'imparziale giustizia di Dio (Rm 1-4)

Bibl. J.N. ALETII, Commimt Dieu est-il fuste?; Io., •Romans», in W.R. FARMER (ed.), The International Bible Commentary: A Catholic and Ecumenica/ Commentary for the Twenty-First Cenlllry, Minneapolis 1998, 1553-1 600; lo .. «Romains 4 et Genèse

1 7 . Quelle énigme et quelle solution?», in Bib 84(2003), 305-325; BARBAGLIO, La teo­ logia di Paolo, 503-596; DABOURNE, Purposeand Cau.> (p. 84). Per questo l'apo­ stolo insiste sull'inescusabilità e indifendibilità di quanti peccano d'idolatria: «Non possono dunque avanzare alcuna scusa (anapolo­ getous), perché, pur avendo conosciuto Dio [attraverso il creato]. non gli tributarono, come gli si deve, né lode né grazie>> (1 ,20-21 ) o anche del censore ipocrita, «il modello di chi "predica bene e raz­ zola male">> (Pitta, 121) (cf. 2,1). E ancor più, tre volte nel c. l egli ripete la formula: > (vv. 21-23). È quanto in fondo, ragione motivante di questa filippica, dice la Scrittura citata esplicitamente: (v. 24; cf. Is 52,5). Ma la circoncisione, altro privilegio giudaico, non va forse oltre alla fedeltà pratica?, potrebbe sussumere il giudeo. Paolo è pronto a rintuzzare anche questa difesa del privilegio giudaico: (v. 25). Di nuovo il principio del fare la vince su quello dell'avere, e così l'apo­ stolo distingue tra circoncisione della carne e circoncisione del cuore, distinzione di chiara ascendenza profetica, doppiata da quel­ la parallela tra esterno (en t6-i phanero-i) e interno (en t6-i krypt6i). Di conseguenza (v. 26). In questo modo egli ridefinisce l'identità autentica del giudeo e della circoncisione che ne è il vanto, distinguendo nello stesso tempo tra la legge scritta (gromma), distinta dalla legge (nomos), e lo Spirito: «Essere giudeo infatti non dipende dall'apparenza ester­ na, né autentica circoncisione è quella che appare ne Ila carne. Al contrario, è la realtà nascosta che fa il vero giudeo, e autentica cir­ concisione è quella del cuore, che si ha per mezzo dello Spirito, non mediante la legge scritta>> (vv. 27-29).

3. DIFESA DIALETTICA DA OBIEZIONI E FRAINTENDIMENTI (3,1 -8) Ma in questo modo non fmisce per vanificare del tutto lo spe­ ciale statuto storico-salvifico dei giudei e misconoscere l'importan­ za del segno nella carne della loro alleanza con Dio? È il primo 170

della cascata di interrogativi che nascono naturalmente da quanto è stato appena detto e che dovevano essere nelle menti dei giudeo­ cristiani conservatori di Roma e non solo (3,1 -8): «Qual .è dunque il di più (lo perisson) del giudeo o quale l'utilità della circoncisione?» (v. 1), se questi davanti a Dio giudice conta come un gentile e se la sua circoncisione è, per se stessa, declassata addirittura a incirconci­ sione, come Paolo ha detto appena sopra? Il brano, in realtà, è costi­ tuito da obiezioni incalzanti e da risposte perentorie, a volte con l'i­ norridito «Non sia mai !», arricchite da brevi motivazioni. Romanello definisce bene il brano (p. 259). Il problema generale riguarda Dio e il suo rapporto speciale con il popolo d'Israele. Ora Paolo resta fermo sulla sua posizione esposta sopra: parità tra giudeo e gentile essendo Dio giudice imparziale, ma vi aggiunge l'altro polo, la priorità del giudeo, essendo Dio fedele. Già l'aveva affermato nella proposi/io di 1,16: >. Sottinteso è di certo il riferimento alle due metà del mondo, giudei e gentili. In altre parole, la giustizia di Dio si attua a beneficio di tutti su piede di perfetta parità; una duplice parità, la prima in negativo ( v. 23): «tutti hanno peccato>> con azioni peccaminose, che richiama il «tutti soggetti al Peccato>> (cf. v. 9) - il peccato è la fonte da cui scaturi­ scono i peccati -, con l'aggiunta significativa di un'aggravante: «e sono privi della gloria di Dio>>, cioè dello splendore divino che illu­ minerà i credenti il giorno della loro «glorificazione>>; l'altra in posi­ tivo: «giustificati (dikaioumenoi) gratuitamente (dorean) dalla sua grazia (te-i autou chariti) per mezzo della redenzione (dia tes apoly­ troseos) che si compie in Cristo Gesù>> (v. 24). Effetto della giustizia divina è la giustificazione dell'uomo, la rettificazione cioè della sua posizione di fronte a Dio, che avviene sotto il segno della fede: è il credente, non l'osservante della legge mosaica, che si rapporta ret­ tamente al Dio di Gesù Cristo. E Paolo sottolinea con forza, anche ripetendosi, il carattere d'incondizionata grazia dell'azione giustifi­ cante divina, proprio perché essa avviene «al di fuori della legge>> e «mediante la fede in Gesù Cristo>>. L'aveva già evidenziato nella comunicazione con i galati. Elemento nuovo invece è la connessio­ ne con la categoria teologica, ma culturalmente di origine tribale, ben nota nelle Scritture ebraiche, del riscatto, cioè del recupero di una persona alienata da parte del parente prossimo (go 'el) vincola175

to dalla legge della solidarietà. Paolo se ne serve per definire l'azio­ ne di Dio mediata da Cristo, tesa a riscattare e fare suoi quanti sono caduti sotto il dominio alienante del Peccato. In altre parole, la giu­ stizia divina e la relativa justifìcatio impiomm hanno una connota­ zione (vv. 25-26a). Vi emerge la concezione della credenza protocristiana che pure si riferiva alla «giustizia di Dio», intesa però giudaicamente come azione di fedeltà al patto stretto con il popolo di cui perdona i peccati, con l'aggiunta di stampo propriamente cri­ stiano della valenza espiatrice della morte di Cristo. Un a dimostra­ zione di giustizia divina in Cristo resa necessaria dal fatto che in pas­ sato Dio nella sua pazienza aveva chiuso un occhio [paresis, diverso da aphesis, perdono] sui peccati degli uomini. che invece ora perdo­ na. Paolo aggiunge di suo «a dimostrazione della sua giustizia (pros ten endeixin tes dikaiosynes autou) nel tempo attuale (en 16-i niìn kairo-i), così da essere giusto (dikaios). cioè [kai esplicativo] giusti­ ficante (dikaiounta) chi trae il suo essere dalla fede in Gesù (ek pisteos Jesou)>> (v. 26b). Sul piano del pensare si rileva qui un suo duplice procedimento: rifacendosi alla credenza tradizionale cristiana ma anche correg­ gendola - il passo contiene materiale prepaolino -, arricchisce la sua ridefinizione intuitiva (intus legere) della giustizia divina rivela­ tasi in Cristo: è azione redentrice e liberatrice degli uomini caduti sotto un dominio alienante, quello del Peccato, e non semplice remissione dei peccati. Inoltre, un contributo non nuovo, essendo già presente in Galati, ma neppure scontato per giudeo-cristiani tra­ dizionalisti, suo probabile , è la portata non solo affermativa, ma anche esclusiva, del credere: «al di fuori della legge»/ «mediante la fede in Gesù Cristo>>! «chi trae il suo essere dalla fede in Gesù>>. Per non dire del motivo della «dimostrazione>> (endeixin) della giustizia divina, che riecheggia quello della sua «apocalisse>> ed «epifania>>. Rispetto a Galati comunque il suo pen­ sare è concentrato sull'iniziativa salvifica di Dio, dunque mostra 176

una centralità teologica indiscutibile, mentre là l'accentuazione era cristologica: qui la cristologia è solo elemento funzionale all'inizia­ tiva salvifica di Dio. Infine, sia pure in modo solo allusivo, vi emer­ ge la ragione teologico-cristologica della sua intelligenza del vange­ lo in chiave di grazia imparziale: l'evento di Cristo. mediatore esca­ tologico e dunque unico, esclude dal processo di giustificazione le opere della legge e dunque il privilegio dei giudei e l'handicap dei gentili. In una parola. l'imparzialità della giustizia di Dio trova il suo fondamento nell'autosufficienza salvifica di Cristo e della sua morte. Non è tutto; Paolo spinge il suo pensiero in avanti sull'asse del vanto (kauchesis) che ancora ne caratterizza la teologia della giusti­ ficazione in Romani. In concreto, come conseguenza di quanto ha detto sopra afferma l'esclusione di ogni possibile vanto della crea­ tura davanti al Creatore; e lo fa con una catena di brevi domande e secche risposte in una concatenazione di sicuro effetto retorico: «Dov'è dunque (oun) il vanto? È stato escluso. In nome di quale ordinamento [nomos in senso improprio)? Delle opere? No, bensì in nome dell'ordinamento della fede>> (v. 27); e a giustificazione ripete la tesi enunciata sopra: «Riteniamo infatti che ogni uomo è giustificato per mezzo della fede (pistei) senza le opere della legge (ch6ris erg6n nomou)» (v. 28). In questo modo precisa di quale esclusione del vanto si tratta. tanto più che in l Cor, citando implici­ tamente Ger 9,32, aveva esortato a «vantarsi nel Signore» ( 1 ,30). 'lon ogni vanto merita il suo ostracismo, neppure quello del giudeo che si vanta di Dio (cf. 2,17); lo dice anche qui quando contestualiz­ za il , attiva nel proclama del vangelo, potenza del suo amore creativo e ablativo. Si noti ancora come la creatività del suo pensare lo porti a varia­ re le definizioni del «rito di passaggio>>. Vi si è accennato sopra, accanto al motivo della giustificazione, centrale nella sezione dei cc. 1 -4, ora colloca la riconciliazione, categoria teologica sua propria di carattere personalistico, che esprime abbattimento del muro di separante inimicizia e creazione di relazioni amichevoli. Egli se ne serve per definire i rapporti religiosi di Dio con gli uomini, domina­ ti dal Peccato (cf. sopra 3,9) e dunque a lui «ostili>>, e lo fa non per affermare un loro sforzo religioso teso con preghiere e riti propizia­ tori a placare un dio irato stornando la sua collera distruttiva - così invece nella cultura greca che traspare anche in 2Mac 8,29: 187

«Alzarono insieme preghiere al Signore misericordioso, scongiu­ randolo di riconciliarsi pienamente con i suoi servi» -, bensì per confessare la sua azione con cui riconcilia a sé gli uomini, trasfor­ mandoli da nemici in amici- Non è lui infatti ad avere bisogno di riconciliarsi, bensì gli uomini. che ne possono fare esperienza solo per la sua azione di grazia. Non per nulla si registra la forma passi­ va del verbo che, non diversamente dali 'analogo «essere giustifica­ tO>>, sottintende il complemento d'agente (divino): (v. 10). Senza dire del v. 1 1 in cui Paolo parla di riconciliazione ottenuta «mediante lui» (Gesù Cristo) . Last but not /east egli mette in campo lo Spirito, donato d a Dio ai credenti e forma concreta dell'amore di Dio che riempie la loro vita interiore (il cuore) e ne qualifica alla radice la vita nuova, come chiarirà il c. 8. Ora questo brano, 5,1- 1 1 , costituisce l'inizio espositivo della nuova sezione dei cc. 5-8, in cui Paolo, rispetto ai cc. 1 -4, allarga e approfondisce l'intelligenza del vangelo da annunciare ai credenti di Roma. Non mancano, in realtà, passi di carattere argomentativo. come là dove fa appello all'amore di Dio quale ragione (hoti causa­ le) della fondatezza della speranza cristiana. che per questo non farà arrossire di vergogna (kataischynein) quanti sperano (v. 5), un amore a sua volta incarnato nella morte ablativa di Cristo (hyper hemonl «per noi») che ne è la manifestazione somma (v. 8). In sostanza però in questo brano con il suo occhio imuitivo egli presenta il vangelo come potenza di Dio all'opera nei credenti, da lui giustificati per gra­ zia e sola fide, creativa in loro di un presente di vita nuova e di fon­ data speranza nella salvezza finale. Lo renderà convincente ai suoi occhi e a quelli della mente degli interlocutori nella complessa argo­ mentazione dei cc. 6-8, che ne è la molteplice probatio, ma anche in 5,12-21 cui riconosciamo valore egualmente probatorio; in senso contrario si è espresso Aletti: > (vv. 15.16). C'è eccedenza, eccedenza qualita­ tiva, a favore di Cristo, che alla sua controfigura (typos: v.14) si rap­ porta non in modo semplicemente riparativo della negatività da Adamo introdotta, bensì come principio di nuova creazione. Come «portatori di destino>> per l'umanità (Kasemann, 143) i due non stanno sullo stesso piano; quello trascende questo. Il pensiero di Paolo parte dalla prospettiva apocalittica deli 'u­ manità dominata dal Peccato e destinata alla condanna eterna. affermata sopra ex Scriprura (cf. 3,9 e L 9: tutti sotto il dominio del Peccato; tutto il mondo colpevole davanti a Dio) e richiamata in 5,111 a proposito del passato remoto dei credenti, che erano «mala­ ti/empi/peccatori» (5,6.8). Ora intende risalire alla radice dell'uma­ na massa damnara, per usare una formula di Agostino; tutto ha avuto inizio con Adamo e la sua disobbedienza che ba determinato spiritualmente il corso della storia. Si registra così un evidente pas­ saggio nel suo pensare: dalla prospettiva esistenziale dei credenti a quella di carattere teologico-apocalittico con l'antitesi Cristo­ Adamo; nello stesso tempo però le due prospettive appaiono stret­ tamente legate, perché egli vede l'esperienza dei credenti dentro la storia del mondo: storia a due facce, l'una di perdizione in forza di Adamo, l'altra di salvezza in virtù di Cristo. Il confronto dei due secondo lo schema strutturale uno-tutto si articola in successive ondate che precisano gli aspetti comparativi di Adamo e di Cristo, presentati di regola come «Uno solo/un solo uomo>> (heisl heis anthr6pos). Di essi si affermano, in stretta con­ nessione tra loro, a) l'atto di un solo uomo, b) da cui risulta per tutti gli uomini una precisa situazione storica, c) ma anche si determina un conseguente destino ultimo. In particolare, l'azione di Adamo è qualificata come caduta (parapt6ma), trasgressione del comanda­ mento divino (parabasis), gesto peccaminoso (il verbo hamar/an6), disobbedienza a Dio (parakoe). La situazione che ne deriva: tutti sono diventati peccatori (hamartoloi), cioè si trovano sotto il domi190

nio della potenza del Peccato (hl! hamartia), che è ben altro che il peccare di fatto con singoli comportamenti e atteggiamenti. E il destino che li attende è la morte (ho thanatos) e la condanna eterna (katakrima e krima). Per il secondo termine di paragone abbiamo l'atto influente di Cristo detto giusta azione (dikai6ma) e obbe­ dienza al Padre (hypakoe). La situazione conseguente è di «giusti­ zia>> (dikaiosyne, dikai6ma, dikai6sis, dikaioun) ottenuta in dono (d6rea, d6rema) per l'iniziativa di grazia di Dio (charis). L'esito ulti­ mo sarà di vita eterna (zoe, z6e aionios). L'apostolo contrappone il regno di giustizia e vita a quello di peccato e morte, ma con un'im­ portante differenza: questo è espresso sempre al passato, a un pas­ sato superato in virtù di Cristo; invece il regno inaugurato da Cristo presenta tutta la gamma cronologica dei tempi del processo salvifi­ co. Anzitutto il passato prossimo di liberazione: (v. 15): (v. 16); «si giunse alla giustizia che dà la vita>> (v. 18); «sovrabbondò la grazia>> (v. 20). Quindi il pre­ sente: «così per l'obbedienza di uno solo la moltitudine è costituita giusta (katasthesontai futuro con valore logico)>> (v. 19); «la grazia mediante la giustizia regni per la vita eterna>>. Infine il futuro del traguardo finale: «mediante il solo Gesù Cristo regneranno nella vita>> (v. 17); al presente regna la grazia «in vista (eis) della vita eter­ na>> (v. 21). «Paolo guarda la storia dall'angolo di visuale del cre­ dente che. beneficiario di una vita di comunione con Dio e in pos­ sesso di una fondata speranza (5,1-11), può guardare indietro al suo passato tenebroso, parte di un mondo destinato alla rovina, da cui ha ottenuto liberazione per grazia e in virtù di Cristo>> (Barbaglio, La teologia di Paolo, 606). Ora con tutti i credenti del suo tempo egli crede che effettiva­ mente la loro situazione di grazia dipende dall'azione di Dio media­ ta da Cristo. Ma l'adesione della sua mente a tale credenza non costituisce per lui un sacrificium intellectus; vuole capirne qualcosa e dare una risposta agli interrogativi che pullulano nella sua testa: come rendere plausibile o semplicemente pensabile che un solo uomo, Cristo, determini la condizione e il destino dell'umanità: il singolare che ha senso decisivo per l'universale? La sua eredità giu­ daica lo aiuta: già a proposito di Adamo, il primo uomo, è si verifi­ cato che uno solo con il suo agire ha influito su tutta l'umanità ada­ mitica. Non ha bisogno di dimostrarlo, lo dà per scontato. La lette­ ratura giudaica del tempo l'attesta più volte. In Sir 25,24 si parla di Eva, ma lo schema rappresentativo uno-tutto è identico: «Da una 191

donna (viene) l'inizio del peccato (arché luunartias), e per mezzo di lei tutti moriamo (di'autén apothnéskomen pantes)». 4Esdra 3,7 così espone il rapporto Adamo-umanità: «a lui desti un solo comanda­ mento. lui lo trasgredì, e subito Tu istituisti la morte contro di lui e contro la sua discendenza». Nello stesso libro possiamo leggere in 7,118: > (v. 12). L'apostolo ammette le due cau­ salità, senza chiarirne del tutto il rapporto, anche se la logica del confronto con Cristo vuole che egli abbia inteso esprimere l'influs· so decisivo dell 'azione negativa di Adamo. Da parte sua Fitzmyer dà valore consecutivo all'espressione greca: : i peccati personali dipendono dunque dalla trasgressione di Adamo. Si veda anche Aletti: . Da parte sua Pitta così si esprime: «Per Paolo, non c'è il pec.

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cato di Adamo e quindi il peccato di tutti ma nel e con il peccato di Adamo c'è quello di tutti» (p. 234). In secondo luogo Paolo non s'interessa tanto del peccato perso­ nale di Adamo, quanto delle sue conseguenze per tutti gli uomini, contraltare dell'universalità della giustizia e della vita offerta in Cristo. Per questo all'inizio del brano ritarda il confronto di Adamo con Cristo e il suo dettato dimentica la comparativa > (v. 20), suggerita però e giu­ stificata dalla logica del suddetto confronto Adamo-Cristo. Paolo dovrà delle spiegazioni e giustificazioni a se stesso e agli altri; lo farà, come vedremo, nel c. 7. La finalità ultima del progetto salvifico divino è comunque posi­ tiva: >. In ambedue si tratta di conseguenze riguardanti le prese di posizione dei giustificati su cui i due fronti si combattono: l'interlocutore retorico, che impersona un noi genera­ le, deduce conclusioni inammissibili di acquiescenza pratica al pote­ re del Peccato, ma Paolo le rifiuta con orrore. Il suo vangelo non porta affatto a condurre una vita di soggezione al Peccato e di scel­ te peccaminose; è pretestuoso, dice, per un verso provocare così l'a­ zione di grazia perché trionfi sempre più sul Peccato e, per l 'altro, appellarsi alla libertà dalla legge per vivere in modo licenzioso. Al contrario, il suo vangelo è fonte di responsabile reattività dei giusti­ ficati di fronte al potere del Peccato, a cui essi > (v. 4). l battezzati non sono ancora usciti definitivamente dall'ombra della morte, come invece ne è uscito Cristo; sono soltanto messi in condizione di condurre un'esistenza qualitativamente nuova (kainotés). La loro risurrezione «Simile alla sua>> è una certezza di fede per il futuro e in stretta connessione con la loro «morte>>, , già spe­ rimentata (v. 5). Ma in che senso parla di morte dei credenti nel battesimo? In breve, chi muore e viene sepolto con Cristo? Ecco la sua precisa­ zione: «Lo sappiamo bene: il vecchio uomo che eravamo fu crocifis­ so con lui, perché fosse distrutto il corpo [il nostro essere mondano) dominato dal peccato e così noi non fossimo più schiavi del pecca­ to>> (v. 6). Muore l'uomo dominato dal Peccato che era il credente nel suo passato remoto, e ne esce un uomo nuovo e libero. La ragio­ ne di tale liberazione provocata dal morire dice riferimento proba­ bile alla concezione rabbinica secondo cui sono annullate le pen­ denze, anche gli obblighi, che il morto aveva (v. 7). Allo stesso modo, dice Paolo, la pendenza della soggezione al Peccato che il battezzato aveva, cade con la sua morte d i comunione mistica e sacramentale con Cristo; egli ne è liberato. Non solo morte-a ma anche, l'altra faccia complementare della medaglia, vita nuova di servizio a Dio al presente e futura vita di risorti; dunque libertà non solo dal dominio del Peccato ma anche da quello della morte, che tuttavia il credente sperimenterà solo in futuro, quando sarà liberato cioè dalla morte seconda o definitiva e risorgerà nello splendore della sua somaticità. (vv. 8-10). Qui il motivo della solidarietà profonda con Cristo, per cui il battezzato muore, ha una vita nuova e spera nella futura risurrezione, cede il passo al paragone: come Cristo così i credenti: 196

>. Vi si noti l'ab­ binamento, che è anche un legame stretto, tra Peccato e cupidigie (epithymiai): quello può influire sulla persona come fonte di desi­ deri egocentrici di possesso e . L'imperativo trae senso e giustificazione dal fatto che il potere del Peccato, tuttora presente, per i giustificati è ora resistibile, perché vi si contrappone vittoriosamente la grazia, potere antitetico che li rafforza: (v. 14). Paolo però all'affermazione abbina il «non sotto la legge>>. Questa, a suo avviso, non è forza capace di contra­ stare il peccato; al contrario, tra le righe si legge che presenza della legge e dominio del peccato vanno insieme. Lo dirà con chiarezza nel c. 7. Il secondo interrogativo con cui egli si confronta trae spunto da probabili critiche o, almeno, da dubbi circolanti circa la sua teologia della liberazione dalla legge. L'estromissione di questa, norma del vivere morale e luce al cammino non solo dei devoti giudei ma anche dei fedeli giudeo-cristiani, non finiva per portare all'amorali197

tà? (cf. 3,8). Paolo respinge con sdegno tale putativa conseguenza del suo pensiero e argomenta in proposito che la scelta di campo è stata già compiuta per grazia di Dio; non resta che esservi fedeli. I credenti sono stati liberati dal dominio irresistibile del Peccato; hanno cambiato di campo e ora sono nell'orbita della giustizia (vv. 17-18); possono e debbono, per grazia, camminare in piena confor­ mità a quello che sono diventati (vv. 19ss). Di fatto l'apostolo dà corpo al suo pensiero con l 'antitesi schiavitù-libertà. ma anche, in modo sorprendente. con l'antitesi opposta di libertà e di schiavitù relative a. Gioco paradossale di parole con i vocaboli libertà e schia­ vitù presi ora in senso positivo e ora in senso negativo, di cui egli è consapevole se mette in guardia i suoi interlocutori: (v. 19). In realtà gli serve per evidenziare che la libertà acquisita per grazia, con la connessa libe­ razione dalla schiavitù del Peccato, è una libertà-per, piena dedizio­ ne e servizio totale; per questo osa chiamarla una schiavitù. Detto drasticamente, si tratta di un cambio di «padrone>>: liberati da uno, se ne fa avanti un altro, opposto però al primo e di ben altra natu­ ra. Ecco le tre più chiare affermazioni di tale paradosso verbale: (v. 18)/ (vv. 5-6). Come forza o dinamica negativa operante nell'uomo Paolo introduce la «carne>> in combutta con la legge, in particolare con la legge scritta, fonte delle passioni pecca­ minose e delle relative azioni (metafora dei frutti), il tutto che sfo­ cia nella morte eterna. E in antitesi al dinamismo egocentrico della carne pone quello dello spirito, novità salvifica rispetto al vecchio ordine di peccato e morte. Tale diade antitetica carne-spirito quali­ ficherà il c. 8. Per finire, non sfugge all'attenzione che il pensare dell'apostolo è qui connotato, come spesso altrove, da una prospettiva antitetica, dal codice della netta opposizione. Non c'è posto nella sua mente per il chiaroscuro; egli ragiona in termini di polarità contrapposte: vita e morte, peccato e giustizia, grazia e legge, legge e fede. Non ama le zone di confine, i campi neutrali, l'intermedio; l'aut aut è la cifra con cui definisce l'esistenza dell'uomo, o di qui o di là. Non sembra possibile negare in lui una buona dose di visione massimali­ sta della realtà umana. 199

4. PAOLO PRECISA E RIBADISCE LA SUA VALUTAZIONE DELLA LEGGE MOSAICA (7,7-25) La svalutazione della legge mosaica è una costante non solo di Galati ma anche dei capitoli precedenti della Lettera ai Romani. Paolo le ha negato il potere di dare vita, vita spirituale (Gal 3,21); l'ha estromessa rigorosamente dal processo di giustificazione, che avvie­ ne sola fide su piede di parità per giudei e gentili (Gal e Rm 1-4). Anzi quanti ne derivano il loro essere sono sotto la maledizione divina (Gal 3,1 O); è stata solo un intermezzo nel corso della storia salvifica di Dio con gli uomini, posteriore alla promessa divina giu­ rata ad Abramo e che finisce con la venuta di Cristo (Gal 3,1 9.24; Rm 5,20 e 1 0,4; telos); «fu aggiunta in vista delle trasgressioni>> (ton parabaseon charin) (Gal 3,19); la sottomissione alla legge è equipa­ rata alla sottomissione agli dèi falsi e bugiardi (Gal 4,9-10): non è stata data, almeno direttamente, da Dio (Gal 3,19-20). In Rm poi l'apostolo afferma che essa svolge un ruolo conoscitivo della situa­ zione negativa dell'uomo: dà piena conoscenza del peccato e del suo nefasto dominio (3,19); la sua presenza fa sì che ci siano le trasgres­ sioni (Rm 4,14); la sua inframmettenza nella storia ha per scopo di aumentare le cadute (Rm 5,20); produce nell 'uomo (v. 8); « (v. 20). E qui Paolo distingue tra «legge di Dio•> di cui l'io. velleitario, si compiace (v. 22), da identificarsi materialmente con > che prospetta all'io il bene (v. 23), e •>, cioè il Peccato che si fa norma de li 'agire umano (v. 23). Una scissione dell'uomo attestata anche nella Medea di Euripide, che così si confessa: «Le passioni sono più forti delle decisioni della mia volontà: per i mortali questa è la causa dei più grandi mali>> (1077-1080). In ambito latino è noto quanto ha scritto Ovidio: trahit invitam nova vis, aliudque cupido, mens aliud suadet: video meliora, proboque, deteriora sequor (Metamorfosi, 7,19-21). Si veda anche Epitteto: ho thelei ou poiei kai ho m€ thelei poiei (egli non fa ciò che desidera e fa ciò che non desidera) (2,26,4). Una situazione disperata, a cui Pitta applica il topos del tragico articolandolo nella tragicità de li 'io e della stessa legge mosaica (pp. 266ss). Ma al grido dell'io, uomo incapace di uscime: «Me infelice! Chi mi libererà dal mio corpo votato a questa morte?>> (v. 24), c'è risposta positiva, come appare nel suo ringraziamento di uomo gra­ ziato: «Siano grazie a Dio per Gesù Cristo nostro Signore!>> (v. 25a). Dunque una tragicità particolare, perché c'è pur sempre il rimedio dell'azione liberante di Dio. «Proprio questa eucaristia ci dice che materialmente è l'io cristia­ no, un io superindividuale, di cui lo stesso Paolo fa parte, come ve­ dremo, che guarda indietro alla passata schiavitù del peccato sfo­ ciante nella morte eterna e ringrazia Dio di esserne scampato per gra202

zia. La storia passata gli appartiene e perciò ne parla in prima perso­ na, anche al presente, come condizione in cui l'aveva ridotto la sud­ ditanza al peccato: un presente storico, potremmo dire [ ... ) . Infine si tratta della storia di credenti che si volgono al loro passato alle prese con la legge mosaica; dunque è in questione l'io di giudeo-cristiani, Paolo compreso. Non si dimentichi infatti che la proposirio del brano concerne appunto la valutazione della legge mosaica, se sia equiva­ lente al peccato. La storia della schiavitù del peccato e del destino di morte è funzionale a spie game il ruolo; questo è il vero problema af­ frontato qui da Paolo, non la valutazione antropologica dell'uomo perduto. Certo, questa non manca, ma come tema subordinato e se­ condario rispetto a quello, troppo spesso dimenticato neli 'analisi del brano 7,7ss, letto, come paradigmaticamente fa Bultmann, in chiave antropologica>> (Barbaglio, La teologia di Paolo, 631 ) . I n chiusura però l'apostolo ritorna a l tema dell'io scisso: «In conclusione, io stesso nella mia mente rendo servizio alla legge di Dio, alla legge del peccato invece nella mia carne>> (v. 25), dove distingue nell'uomo asservito al dominio del Peccato e in balia della dinamica della «carne>>, cioè dell'egocentrismo, una zona ancora sana, relativamente sana, quella della ragione (nous) che tende, anche se velleitariamente, al bene, lo stesso proposto anche dalla legge divina.

5. L'ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA: VITA NUOVA NELLO SPIRITO E GEMENTE SPERANZA NELLA GLORIA (RM 8) Ripresa di 5,1-1 1 ma arricchita con i motivi antitetici sviluppati in 5,12-7,25, cioè grazia e peccato, legge e grazia, legge e peccato, vita e morte, la motivata presentazione del c. 8 è soprattutto carat­ terizzata dal tema centrale dello Spirito. Come dinamismo dello stesso amore di Dio donato ai credenti e principio di un agire qua­ litativamente nuovo dei credenti (en kainotéti pneumatos), era stato già menzionato da Paolo in 5,5 e 7,6; ora lo presenta come fattore qualificante l'esistenza dei giustificati. La trafila del suo pensare «pneumatologico>> è qui tratteggiata sull'arco del tempo, passato, presente e futuro. Anzitutto l'evento di grazia che sta alle spalle dei giustificati: lo Spirito creatore di vita «ti ha liberato (eleutherosen) dalla legge del peccato e della morte>> (v. 2); «avete ricevuto (e/abete) uno Spirito da figli adottivi>> (v. 15). Ne consegue nei credenti una situazione nuova di trasformante parte203

cipazione di segno > (v. 1 3). Conclusa la contrapposizione carne-Spirito, l'apostolo svela un nuovo aspetto dell'esperienza cristiana all'insegna dello Spirito (vv. 14-1 7): l'esistenza da figli di Dio, realtà suscitata dallo Spirito, incar­ nata ritualmente nell'invocazione «Abbà, Padre !», che riproduce un ipsissimum verbum di Gesù di Nazaret (cf. Mc 14,36), e percepibile psicologicamente nella certezza interiore, da parte del credente orante, di questa sua nuova identità di grazia. Sono figli per l'azio­ ne conduttrice dello Spirito e sanno di esserlo per il suo intervento ispiratore nella preghiera. E per completare il quadro, in prospetti­ va la salvezza finale come eredità divina mediata da Cristo: « ... a condizione che sofrriamo con lui (sympaschomen) per essere anche con lui glorificati (syndoxasthomen)» (v. 1 7b). La partecipazione dei figli di Dio all'eredità consiste nella condivisione del destino di Cristo crocifisso e glorificato. È una conclusione che apre alla sezione successiva dei vv. 1 8-30, imperniata nel rapporto tra sofferenza al presente e glorificazione futura, espresso nel v. 18, proposi/io di tutto il brano: (v. 18) (cf. Gieniusz). La probatio della tesi segue tre momenti distin­ ti e complementari corrispondenti alle tre unità legate dal motivo del gemito: gemito della creazione (vv. 19-22), dei figli di Dio (vv. 23-25) e dello Spirito (vv. 26-27), che paradossalmente garantisce la gloria finale, perché si tratta del venerdì santo impensabile senza la pasqua. Così è stato di Cristo, altrettanto sarà dei credenti e del cosmo a essi unito. I v v. 28-30 completano il quadro della fondata e paradossale speranza dei credenti che ora gemono, presentando le tappe della storia della salvezza strettamente concatenate. Paolo intende mostrare la fondatezza della speranza cristiana contro ogni speranza umana: le attuali esperienze frustanti non val­ gono a farla vacillare; è una speranza solida e motivata. Prima ragio­ ne (vv. 19-22): il mondo creato geme (stenazein), soffre i dolori del parto (synodinei) ed è in attesa (hé apokaradokia: alzare la testa e 206

protenderla in avanti; apekdechesthai) della liberazione dal vuoto spirituale (matai6tes) e dalla corruzione (phthora). Secondo motivo (vv. 23-25): il gemito dei credenti che attendono con ferma fedeltà (hypomone): (v. 23). Infine la partecipazione dello Spirito (vv. 26-27) ai gemiti del creato e dei figli di Dio: «Parimenti anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, non sapendo noi che cosa chiedere come si deve; ma lo Spirito stesso intercede con gemiti ineffabili>> (v. 26). Se già il doloroso gemito del mondo e dei credenti è segno premonitore della futura salvezza, a maggior ragione deve infondere fiducia l'intervento dello Spirito, primizia del mondo atteso e sperato donata ai credenti (v. 23), che sostiene e indirizza la tensione dei figli di Dio, in particolare la loro preghie­ ra, altrimenti cieca in rapporto all'esito finale del progetto divino sulla storia. Il ragionamento è qui induttivo e poggia sulla sua prospettiva di fede da cui dipende la speranza: Dio libererà il mondo creato, riscatterà il corpo dei credenti, alla primizia dello Spirito terrà die­ tro il frutto completo della mietitura. Una certezza che affonda le sue radici nella generale attesa escatologica della tradizione giudai­ ca. Su questa egli poggia per smentire che l'alt uale travaglio dolo­ roso insito nel mondo creato e parimenti nella vita dei credenti possa mettere in discussione il felice traguardo finale: una speranza nonostante ! La funzionalità della prospettiva cosmologica dei vv. 19-22 nel contesto della suddetta argomentazione paolina non esclude però l'esistenza di un certo interesse di Paolo in proposito, sia pure subor­ dinato all'escatologia antropologico-ecclesiologica, centro della sua attenzione. In breve, egli parla del cosmo perché esso partecipa della stessa situazione dei credenti: presente di sofferenza paradossalmen­ te garante della liberazione futura. Ultimo motivo a favore della fondatezza della speranza, espres­ so nella breve sezione dei vv. 28-30, è la coerenza di Dio che tiene fede al suo disegno di salvezza (prothesis). La propositio è un'affer­ mazione di principio nota a tutti i credenti: e di seguito abbiamo la probatio: > (Barbaglio, La teologia di Paolo 663), ulti­ mo anello di una catena. In breve. ciò che alla fin fine garantisce la speranza cristiana è la fedeltà del Dio di Gesù Cristo, a cui dunque ci si può affidare nonostante il presente crocifiggente e minaccioso. Di grande effetto retorico. infine, il brano conclusivo 8,31-39. caratterizzato da domande retoriche, cataloghi di avversità e forze contrarie, spirito trionfante che lo percorre, pathos che anima chi scrive. È una vera e propria perora/io in cui Paolo impersona il noi di tutti i credenti all'insegna di un fondamentale «nonostante>>: no­ nostante tutto essi sperimenteranno un futuro di gloria, trionfando su avversità e forze contrarie, perché hanno Dio dalla loro pane. Si può definire (Barbaglio, La teologia di Paolo, 664). Nessun trionfalismo entusiastico. Le due piccole unità (vv. 3 1 -34 e 35- 39) sono introdotte ciascu­ na da un interrogativo retorico: ; > è sottintesa la seguente risposta: niente potrà separarcene (v. 35a), neppure le sette fatiche di mitica memoria: «Oppressione, angoscia, persecuzione, fame, nudità, pericoli, spada?» (v. 35b), illu­ strate anche da una citazione biblica: «Come sta scritto: Per causa tua tutto il giorno siamo messi a morte, siamo stati considerati peco­ re da macello>> (v. 36; vedi Sal 43,23). Il credente si sente sicuro e fiducioso perché è nelle mani di Dio: «Ma in tutto questo noi stra­ vinciamo grazie a colui che ci ha amato>> (v. 37). L'amore di Dio qui menzionato fa il paio con l'amore di Cristo indicato nell'interroga­ tivo iniziale e «include>> il brano: niente «Ci potrà separare dall'a­ more di Dio in Cristo Gesù, nostro Signore>> (v. 39b), neppure le forze contrarie (morte, vita, angeli, potestà, presente, avvenire, potenze, altezza, profondità, qualsiasi altra forza creata) valgono a mortificare l'attesa dei credenti: «Ne sono certo>>.

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Capitolo XIV

Il vangelo della fedeltà di Dio a Israele: (Rm 9-1 1 ) Bibl. ALETil, lsrael et la loi dans la lettre ara Romains, 167-174: 267-294: 295-296: Io., «Romans», 1588-1599: BARBAGLIO, •Paolo: i suoi scritti e le Scritture•; lo., La teologia di Paolo, 666-703; S. CARBONE. «Israele nella letlera ai Romani», in RivB 4 1 ( 1993 ), 139-170; DUNN, La teologia dell'apostolo Paolo. 4!!7 -519; FrrZMYER, Lettera ai Romani, 64().. 754; GASTON, •Romans in Contexl: The Conversation Revisited»; W. KELLER." Gottes Treue - lsraels Heil. Rom 11.25-27 - Die These vom •Sonderweg» in der Diskussion, Stuttgart 1998; PITTA, Lettera ai Romani, 323-4111: E.P. SANDERS, Paolo, la legge e il popolo giudaico, 275-331: F. REFOULÉ, «Cohérence ou incohéren· ce de Pau! en Romains 9· 1 1», in RB 98(1991.), 5 1 -79: G. SAss, Leben aus den Verheissungen: traditionsgesehichtlirhe und biblischtheologische Untersut·ho�ngen zur Rede von Gottes Verheisso�ngen um Friihjudentum und bei dem Apostef Paulus, Giittingen 1995, 408-461 : SIEGERT, Argumentation bei Paulus geuigt an Rom 9-/1; THEOBALD, Der RIJmerbrief, 258-285.

l. LE LINEE GENERALI DEL SUO PENSARE È assai discussa la collocazione della sezione dei cc. 9-1 1 nel complesso della Lettera ai Romani: trattazione a sé stante, magari composta a parte da Paolo e poi inserita nel tessuto epistolare, oppure grandezza integrante dell 'epistola? Dopo 8,33-39, rileva Aletti, >. Che la sezione abbia un incipit abruptus è evidente; tuttavia oggi si riconosce che sia un anello importante e insostituibile nella catena del pensare teologico dell'apostolo esposto in Rm. Per !imitarci ai due autori citati, Aletti afferma che dopo i cc. 5-8 sulla speranza dei 211

giustificati il problema del destino d'Israele s'imponeva all'attenzio­ ne dell'apostolo (ibùL ), e Dunn vi vede «il vero culmine dello sforzo di Paolo» (p. 489), teso a rispondere alla domanda > (v. 9). Ma si veda anche 9,4 in cui tra i doni di grazia di Dio elargiti a Israele menziona le promesse. Per non dire di 9,28 dove cita il seguente passo scritturistico [Is 28,22): (cf. Sass). Si deve però precisare che la questione verte non solo sull'Israele incredulo, ma anche su giudei e gentili che hanno cre­ duto in Cristo, poiché la promessa divina non è ristretta, secondo Paolo, all'Israele etnico, ma estesa al mondo dei gentili. Si veda in proposito 15,8-9: «Dico infatti che Cristo si fece servitore dei cir­ concisi in nome della fedeltà di Dio, perché trovassero conferma le promesse patriarcali e i gentili glorificassero Dio per la sua miseri­ cordia>>. Per questo nella nostra sezione, come del resto in quella iniziale dei cc. 1-4, egli ha di nùra l'Israele che può legittimamente esibire la sua prerogativa di grazia di popolo eletto, ma anche i gen214

tili, privi di qualsiasi privilegio. I due fronti infatti non soltanto sono complementari ma anche l'uno richiama l'altro. E come sopra ha affermato e provato l'equiparazione di giudei e gentili davanti all'a­ pocalisse della giustizia divina in Cristo, così ora equipara in sostan­ za il destino salvifico degli uni a quello degli altri. Ne fa fede l'af­ fermazione conclusiva di 1 1 ,32: «Dio ha rinchiuso tutti gli uomini nella disobbedienza per avere di tutti misericordia». Una totalità però non indifferenziata, bensì cumulativa delle due diverse metà del mondo: «Come infatti un tempo voi [gentili] foste disobbedien­ ti a Dio, mentre ora vi è stata usata misericordia grazie alla loro [israeliti] disobbedienza, così anch'essi [Israele incredulo] al pre­ sente sono diventati disobbedienti in seguito alla misericordia a voi usata, per ottenere anch'essi misericordia» (vv. 30-31). In breve, la salvezza dei gentili giunti a credere in Cristo e la salvezza dell'Israele incredulo sono interdipendenti. Che la salvezza (s6teria) sia l'oggetto della promessa, appare dal contesto della sezione, anche se non esplicitamente dichiarata tale. In 9,27 Paolo riporta da un passo di ls 10,22s la seguente promessa divi­ na: . Lui stesso prega che ( 10,1 ). Ogni uomo. giudeo o greco che sia, il quale confessi con la bocca che Gesù è il Si­ gnore e creda di cuore che Dio lo ha risuscitato dal regno dei morti, ha certa speranza nella salvezza, come attesta la Scrittura: (10,9-13). Per la caduta nell'incredulità di Israele e per la fede di questi la salvezza giungerà all'Israele incredulo ( l l , l lss; cf. soprattutto il v. 26: ). Si deve ancora rilevare che alla propositio di 9,6 fa da pendant quella di 1 1 , 1 : . Essa specifica il beneficiario della fedeltà divina, il popolo dell"ele­ zione, e collega fedeltà ed elezione, come appare esplicitamente subito dopo: (v. 14; ma cf. tutto il brano vv. 14-18). Una misericordia divina che si estende però indiscriminatamente a tutti, giudei e gentili che siano (cf. 1 1 ,32). I n 1 1 ,22 invece si appella alla benevolenza (chrèstotés) di Dio dimostrata ai gentili chiamati alla fede e impegnati a un fermo ancoraggio a questa stessa benevolenza. Per completare il quadro delle linee guida del pensare paolino in Rm 9- 1 1 non si può passare sotto silenzio il motivo della potenza di Dio, capace di raggiungere lo scopo del suo disegno, salvare i cre­ denti. gentili e giudei che siano, e l'Israele incredulo, l'incredulità di questi per il bene di quelli e la fede dei primi per por­ tare a salvamento il secondo. Una potenza a servizio della fedeltà cui dà consistenza pratica e operativa, preservandola dallo scadere a puro velleitarismo. Già nella vicenda dell'esodo Dio si era mani­ festato potente contro il faraone. anzi ne aveva suscitato la resi­ stenza per dimostrare il massimo della sua potenza liberante il popolo (9,17). Non meno potente è stata la sua azione a favore dei (9,22-24). Soprattutto Paolo ricorre alla potenza divina quando prospetta, in chiave metaforica, la soluzione del pro­ blema: > (vv. 15-16). In realtà egli sta rispondendo al suo interlocutore fittizio che gli domanda se nel libe­ ro procedere di Dio che sceglie e chiama non ci sia forse dell'ingiu­ stizia. No, è la sua risposta (v. 14), perché non è qui in predicato la giustizia retributiva, bensì quella dell'accoglienza misericordiosa degli immeritevoli. Ma poi mette in campo l'exemplum del faraone, da Dio espressamente suscitato (exegeirein) a manifesto della potenza liberante a favore dell'Israele schiavo in Egitto, come atte­ sta di nuovo la Scrittura (Es 9,16) (v. 17). E conclude il brano riaf­ fermando la libertà sovrana con cui Dio misericordioso si muove nella storia: (v. 18). Di nuovo un'antitesi, ora tra misericordia verso gli uni e indurimento verso gli altri, dove l 'accento è sul primo polo, la misericordia. Ma con la particolarità del secondo polo che è funzionale al primo: l'indurimento del faraone, attribuito a Dio, ha per scopo di mostrare la sua potenza misericordiosa. A noi che siamo sensibili alla responsabilità soggettiva delle persone, ciò appare ostico; ma Paolo è un uomo di cultura giudaica e di sensibi218

lità biblica, tutto proteso a evidenziare la sovranità libera di Dio operante nella storia. Non è però solo limite culturale di un uomo antico, perché qui, nella logica della sua argomentazione, egli inten­ de rimarcare la libertà elettiva di Dio, per questo non si cura affat­ to di conciliarla con la libertà umana. Né parimenti si pensi di adde­ bitargli una concezione predestinazionistica, magari di sapore ago­ stiniano e ancor più calviniano, problema a lui del tutto estraneo. Tale rilievo ancor più vale per i versetti che seguono, caratteriz­ zati dalla metafora del vasaio, con cui egli risponde sempre al suo interlocutore fittizio che si domanda perché mai Dio dovrebbe anco­ ra rimproverare gli uomini, se non sono in campo né la loro volontà né i loro sforzi, ma solo il suo volere irresistibile (vv. 19ss). Poggiando su Is 29,16: (v. 20), così chiosa: «Il vasaio non è forse padrone dell'argilla per formare dallo stesso impasto sia un vaso pregevole che un vaso a uso spregevole?» (v. 21). Alla doman­ da retorica l'evidente risposta in termini non metaforici è: sì, Dio ha questo potere sovrano e lo esercita a favore dei > (Fitzmyer, 693} a cui mirava la legge mosaica o «la fine e insieme il fine» (Theobald}. Ma la prima non sembra consona: se Paolo con­ trappone le due «giustizie>> e, insieme, le due modalità per ottener­ la, legge e fede in Cristo, come può dire che l'una è finalizzata all'al­ tra? La seconda poi, concordistica, ci appare troppo ricercata. 222

La difficoltà della nostra lettura della legge arrivata al capolinea è che per Paolo, come è emerso in Gal e in Rm 4, mai la legge mosaica è stata via alla giustizia donata sempre per fede a partire da Abramo. Ma qui egli ha di fronte un Israele che. per fedeltà al suo Dio e alla sua tradizione religiosa, non vuole rinnegare il proprio attaccamento aUa legge mosaica, e gli dice: apri gli occhi sul senso dell'evento di Cristo che segna, una volta per sempre, lo spartiacque delle vie che conducono l'uomo a ottenere la giusta collocazione davanti al Dio di Gesù. Mi sembra che egli voglia concedere agli increduli israeliti di essersi attenuti fedelmente al loro passato reli­ gioso. Posso capire, dice, che in passato voi abbiate inteso la legge mosaica come via alla giustizia; oltre tutto, a vostra difesa, potevate riferirvi a un passo di Lv; ma ora, di fronte all'annuncio evangelico dell'iniziativa di Dio in Cristo, la vostra fedeltà alla legge non ha più alcuna giustificazione. Naturalmente egli suppone che legge e fede siano vie allernative, lo ha ben mostrato in Gal e in Rm 1 -4. Ora, nei giorni della fine, quella della fede in Cristo s'impone ed è aperta a chiunque, giudeo e gentile che sia. Non contento di aver motivato in chiave cristologico-escatologi­ ca quanto detto, continua a confrontare e opporre le due > proponendo il suo esempio di «apostolo dei gentili>> che fa onore al suo «servizio» (diakonia apostolica) (v. 13): non ha inteso la sua vocazione missionaria come una diserzione dal campo giudaico; al contrario il suo impegno missionario tra i gentili è stato condotto con la ferma speranza di «eccitare la gelosia dei miei connazionali e portame alcuni alla salvezza>> (v. 14). In piccolo, egli stesso ha ope­ rato in linea con il disegno salvifico di Dio che sfrutta la negatività degli uni per ottenere una positività salvifica per gli altri e usa que· sta per perseguire l'utilità salvifica di quelli. E ripete, con altri ter­ mini, quanto aveva detto al v. 12: «Se infatti il loro rifiuto ha costi­ tuito la riconciliazione del mondo, che altro sarà la loro accettazio­ ne se non vita trionfante sulla morte?» (v. 15). Detto altrimenti, sarà un prodigio inimmaginabile di grazia, paragonabile solo alla risur­ rezione dei morti: vita che scaturisce dalla morte. Solo adesso offre un motivo a sostegno di questo sogno: «Se la primizia è santa, lo è anche tutta la pasta; e se santa è la radice, lo sono anche i rami>> (v. 16). Il probabile riferimento metaforico è al padre d'Israele popolo eletto, ad Abramo: se Dio lo ha fatto suo (santità come appartenenza peculiare a Dio), suoi sono anche i discendenti, paragonati qui alla massa di pasta pronta per fare dei pani, la cui primizia è offerta al tempio - pasta e primizia sono della stessa natura -, e ai rami di un albero che non possono non essere conformi alla propria radice. Paolo continua sull'onda della metafora dell'albero ma pren­ dendo in considerazione specificamente l'ulivo e l'olivastro allo scopo di determinare ulteriormente le relazioni vicendevoli tra gen­ tili credenti e israeliti increduli. «Ma se alcuni rami furono recisi. mentre tu dell'olivo selvatico sei stato innestato tra loro diventando compartecipe della linfa che viene dalla radice dell'olivo, non ti van­ tare contro quei rami. Se poi ti vuoi proprio vantare, non sei tu, sap­ pilo, che porti la radice, ma la radice te>> (vv. 17-18). I gentili cre­ denti, qui direttamente interpellati con un tu generale, sono ora in posizione privilegiata rispetto agli israeliti increduli, ma devono la loro nuova identità alla grazia divina; nessuna autoglorificazione orgogliosa dunque. l'unico motivo valido di vanto è l'iniziativa divi­ na che ha scelto Abramo e ora ha chiamato loro a far parte della 228

discendenza abramitica. Concede che sono il risultato intenzionale della caduta degli israeliti, rami recisi dall'ulivo, mentre essi sono i rami innestati per grazia; perciò bando all'orgoglio e doveroso atteggiamento di timore, perché il loro disinnesto è sempre possibi­ le e la porta resta aperta alla caduta nell'incredulità; la bontà di Dio infatti non annulla la sua severità, già comprovata nel caso degli israeliti increduli (vv. 19-22). Il disinnesto di questi però può essere superato, anzi Paolo afferma che avverrà, facendo qui appello alla potenza illimitata di Dio: (v. 23). Ma farà veramente ciò che gli è possibile fare? Paolo ricorre alla sygkrisis o confronto tra gentili credenti e israeliti increduli con la metafora dei rami dell'olivastro e dei rami dell'ulivo, nella quale tutto gioca a favore di questi ultimi: «Se infatti tu sei stato reciso dall'olivo selvatico cui appartenevi per natura per essere contro natura innestato sull'ulivo buono, quanto più essi, i rami naturali, saranno innestati sul proprio ulivo» (v. 24). Si deve rilevare che i rami dell'olivastro non sono stati innestati al posto di quelli dell'o­ livo, recisi; la cosiddetta teoria della sostituzione della Chiesa, come popolo di Dio, al posto d'Israele, non più popolo di Dio, non trova alcun appiglio nel testo paolino. Anzi la metafora arborea conferma la persistenza d'Israele popolo di Dio, a cui sono stati aggiunti innestati - i gentili, rami dell'olivastro. La Chiesa dei credenti non si pone al posto d'Israele, neppure accanto; piuttosto è inserita nel­ l'unico popolo di Dio esistente. nell'Israele eletto di Dio. Dice bene Beker che la Chiesa dei gentili è un'estensione della promessa di Dio fatta a Israele e non la sostituzione di Israele (Pau/ The Apostle, 332): e Gaston afferma che l'elezione dei gentili non significa la reiezione d'Israele (p. 140). È facile rilevare che in botanica l'innesto avviene in senso con­ trario a come Paolo lo ha presentato. Non ne era esattamente al cor­ rente e si è sbagliato, oppure lo ha stravolto di proposito, spinto dalla consapevolezza teologica della disparità originaria dei gentili e degli israeliti? Sembra più probabile questa seconda lettura: in realtà egli sta prospettando un prodigio divino di grazia che va oltre i limiti e le possibilità naturali: un duplice prodigio, rami deli 'oliva­ stro innestati nell'olivo e rami recisi dell'olivo che vi saranno rein­ nestati. Ne fa fede l'antitesi presente nel v. 24 tra «contro natura» (kata physin) e (para physin), antitesi centrale nell'etica della filosofia popolare o stoica del tempo, ma qui pre229

sentata nella sua valenza naturale: innesto contro natura sull'ulivo di rami appartenenti per natura all'olivo selvatico e reinnesto dei rami naturali dell'ulivo, in passato recisi, sullo stesso ulivo. La prospettiva positiva suli 'Israele incredulo, finora presentata come possibile per la potenza di Dio e anche probabile sulla base di argomenti a fortiori, in realtà espressione di una fennissima speran­ za dell'ebreo Paolo nel futuro dei suoi «fratelli>>, finalmente viene da lui argomentata davanti ai destinatari della lettera (cf. !'«infatti>> dell'inizio del v. 25). Di fatto egli ricorre, come a prova decisiva, alla rivelazione divina di un mistero nascosto e a lui svelato: «Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non siate presuntuosi. Una parte d'Israele perdura nell'indurimento finché non sia entrata la totalità dei gentili; e così tutto Israele sarà salva­ to» (vv. 25-26a). Il mistero a lui disvelato e che ora porta alla cono­ scenza dei credenti di Roma, in particolare agli etnico-cristiani, come indica il «perché non siate presuntuosi>>, che richiama il del v. 18 e il > (v. 28). E restano tali nonostante tutto; la loro incredulità attuale non vale ad annullare la loro identità elettiva, e questo perché il Dio eleggente e vocante non revoca «i doni e la chiamata>> (v. 29). Nella formula «tutto Israele» che sarà salvato combaciano identità etnica o razziale e identità religiosa: promessa, elezione e chiamata divina. Più in generale, come si è anticipato sopra, Dio è fedele al suo sapiente disegno di salvezza che attua non solo con pari misericor­ dia verso gentili e israeliti, ma anche sfruttando la disobbedienza degli uni a favore degli altri e l'obbedienza di questi a favore di quelli (vv. 30-32). Il pathos dell'apertura (9,1-5) si ripete in chiusura sotto forma di inno a Dio che con sapienza ha progettato, sta attuando e attuerà pienamente il suo disegno di salvezza. Il Paolo argomentante lascia la scena al Paolo innicamente ora nte che riconosce l 'inadeguatezza del suo pensare «le insondabili decisioni e gli impenetrabili sentie­ ri» di Dio: J bei Pau/w;, Rezeption und theo­ /ogischer Stellenwert, Wtirzburg 1999; C. GROTIANELU. ll sacrificio, Bari-Roma 1999; M.-L. GusLER, Die friihesten Deuwngen des Todes Jesu. Eine motivgeschichtlit·he Darstellung aufgrund der nerreren exegetischen Forschung, Freiburg Schw.-Gottingen 1977; F. HAHN, «Das Verstandnis des Opfers im Neuen Testament», in K. LEHMANN ­ E. ScHUNK (edd.), Das Opfer Jesu Christi und seine Gegenwart in der Kirche, Freiburg i.Br.-Gottingen 19!!3, 51-91 ; M. HENGEL, Crodfissione ed espiazione, Paideia, Brescia 1988; O. HoFtus. «SOhne und Versohnung. Zum paulinischen Verstandnis des Kreuzestodes Jesu», in Pau/usstudien, TObingen 1989. 33-49; E. KAsEMANN, «Il valore salvifico della morte di Gesù in Paolo», in Prospellive paoline, Paideia, Brescia 1972, 55-92; S. LYONNEr, De vocabu/ario redemptionis. Romae 1960; B.H. McLEAN, The Absence of an Atoning Sacrifice in Paul's Soteriology», in NTS 38(1992), 531 -553; lo., The Cursed Christ: Mediterranean Expulsion Ritua/s and Pauline Soteriology,

Sheffield 1996: MuRPHY O'CoNNOR, «"Even death on a cross"•; R. PENNA, «> (p. 1 1 91 ). Soprattutto non manca chi unisce così strettamente morte di Cristo ed espiazione da fare di questa una permanente specificazio­ ne di quella: la morte espiatoria (der Siihnetod) di Cristo (Gaukesbrink). Di fatto una lettura di timbro sacrificate è stata applicata con forza alla teologia di Paolo da un vasto settore dell'e­ segesi moderna, di cui esempio preclaro è Dunn: «Una delle imma­ gini più possenti usate da Paolo per spiegare il significato della morte di Cristo è quella del sacrificio cultuale o, più precisamente, del "sacrificio per il peccato">> (p. 225). E sarà forse per il suo orien­ tamento cultuale che nella traduzione italiana dell'opera il verbo greco paredoken di Rm 8,32 è stato reso con il termine cultuale «immolare»: «lo immolò per tutti noi>> (p. 237), mentre il significato esatto è «Consegnare alla morte»: lo consegnò alla morte a nostro vantaggio spirituale. Ma nell'edizione originale Dunn è assai più avvertito: «gave him up for us ali» (p. 225). Egli ammette che Paolo conosce altre categorie o metafore interpretative: «Il sacrificio non è l'unica metafora» (p. 237), ma riafferma che «rimane certo quella più importante>> (ibid. ), «la metafora predominante» (p. 243). Inoltre è facile rilevare che spesso non ci si cura di distinguere tra passi prepaolini, espressione della tradizione cristiana più antica che per prima interpretò la morte di Gesù in chiave salvifica, e la rifles­ sione di Paolo che offre una sua lettura del vangelo tradizionale. Però non mancano voci contrarie: per es. Theobald ritiene che espiazione e propiziazione non abbiano alcun rilievo in Paolo (Romerbrief, 176), ma già Kiisemann rilevava tempo fa: «Spesso l'i234

dea della morte sacrificate viene accentuata in maniera eccessiva» (p. 69), affermando, da parte sua, che Paolo «non ha mai designato in maniera sicura la morte di Gesù come sacrificio» (p. 70). McLean poi esclude che nella soteriologia di Paolo sia presente il sacrificio espiatorio di matrice ebraica; in compenso gli attribuisce una lettu­ ra della morte di Cristo alla stregua dei riti apotropaici del mondo greco: vittime sacrificate per ottenere la cessazione di calamità o anche per preservarne la città, in ultima analisi per ammansire la divinità irata. In realtà l'apostolo per esprimere il senso profondo del morire di Gesù non usa mai, di sua personale iniziativa - hilasterion in Rm 3,25-26 è motivo della tradizione prepaolina - termini cultuali tra­ dizionali, come thysia (vittima). prosphora (offerta), latreuein e /atreia (servizio cultuale), hilaskesthai, hilasmos (espiare, propiziar­ si), hierateuein e hierateia (servizio sacerdotale). Questo rilievo è tanto più significativo se si pensa che invece vi ricorre per indicare metaforicamente il culto della vita dei credenti e della sua stessa azione evangelizzatrice, detto anche culto «Spirituale». In Rm 12,12 infatti parla di offerta dei corpi (parastesai ta s6mata) come vitti­ ma vivente, santa e gradita a Dio (thysian zosan hagian, euareston t6-i the6-i) e afferma che questo è il servizio cultuale proprio degli esseri dotati di ragione (ten logiken latreian). In lCor 3,16-17 quali­ fica la comunità di Corinto «tempio di Dio>> (naos theou ) , mentre in l Cor 6.19 altrettanto dice del corpo dei credenti (naos tou hagiou pneumatos). L'aiuto economico dei filippesi poi è da lui accolto quale «profumo fragrante (osmen eu6dias), vittima (thysia) accetta e gradita a Dio» (Fil 4,18). In Rm 15,16 afferma di essere, per gra­ zia, >, non «per Dio>> (Hofius, 38) e se di sacrificio si può parlare, lo si faccia tenendo ben presente che Cristo non fu sacrificato, bensì ha sacrificato se stesso (Murphy-O'Connor, 28). In altre parole, se di offerta si tratta, è 237

stata autoofferta a noil agli uomini, nel senso della sua proesistenza a favore degli uomini, per usare l'ormai celebre formula di H. Schiirmann. Lo conferma il parallelismo tra dare e amare, con l 'io di Paolo come oggetto di amore, attestato in Gal 2,20: «(il figlio di Dio) che mi ha amato e per me ha consegnato se stesso alla morte>> (tou agapesantos me kai paradontos heawon hyper emou)>>. Ma se ne parlerà più avanti. In secondo luogo - ed è l 'aspetto più importante della sua rilet­ tura - l'apostolo passa sopra al tradizionale «per i nostri peccati>>, espressivo per se stesso di purificazione dai peccati o anche di per­ dono, per evidenziare lo scopo - uno scopo non solo inteso ma anche raggiunto - dell'autodonazione di Gesù: la liberazione dal­ l'attuale mondo storico corrotto dal male. Non si equivochi: «il mal­ vagio mondo presente>> non è propriamente una grandezza cosmica. bensì un potere condizionante negativamente l'esistenza umana. E se lo schema mentale sotteso è quello apocalittico (questo mondo! ha'6liim haz.zeh), Paolo lo supera: la morte di Gesù infatti segna non la fine del malvagio mondo presente con la connessa discesa dal cielo di un mondo nuovo (cf. 4Esdra 7), bensì la liberazione dei cre­ denti dal suo dominio schiavistico. Ne fa fede il verbo qui usato, che ricorre nei LXX in senso teologico per indicare la potente azione liberante di Dio dalla schiavitù egiziana (cf. Buscemi). Appare opportuno citare un passo parallelo, sempre di Gal, che chiarisce questo «essere strappati a>>: « . della croce di nostro Signore Gesù Cristo, in virtù della quale il mondo è stato crocifisso per me e io per il mondo>> (6,14). La «crocifissione» o la morte coglie non il mondo in se stesso, bensì nel suo rapporto dominativo con Paolo; non lo annienta, ma gli sottrae la forza di dominare sulla sua esistenza, è messo fuori gioco là dove egli gioca la sua vita. Anche la morte dell'io dell'apostolo è relativa, cioè in riferimento al mondo; egli non ne subisce più l'influsso malefico, è libero. E non si tratta di un io a parte, ma dell'io di Paolo che rappresenta tutti i cre­ denti. Dunque liberazione prodotta dall'autodonazione di Gesù nella morte, non semplice purificazione o espiazione dei peccati. Una volta perdonati, infatti, questi ritornerebbero nell'esistenza dell'uo­ mo, richiedendo ogni volta sacrifici per il peccato, come avveniva nel culto ebraico. In realtà per lui l'uomo al di fuori dell'iniziativa di grazia del Padre di Gesù Cristo è in balìa del Peccato (cf. Rm 1 , 1 8-3,20; 7,6ss). È tale dominio che deve essere spezzato perché le persone abbiano il posse non peccare. Lo fa la morte di Gesù intesa ..

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come evento : ha avuto inizio la svolta decisiva della storia, non più determinata dalla potenza tirannica del Peccato. L'allargamento dell'orizzonte all'iniziativa della grazia liberante di Dio storicizzatasi nel morire di Gesù e la ridefinizione esplicita della potenza negativa e schiavizzante in termini di «il Peccato>>, appaiono chiaramente in Rm 8,3. Dopo aver descritto infatti nel c. 7 l'alienazione dell'uomo dominato , cioè dal peccato e dalla morte che dettano legge nella vita dell'uomo, Paolo vi contrappone il quadro della liberazione in forza di : morte e risurrezione costi­ tuiscono un unico evento salvifico e di certo il «risorse per loro» non può avere alcuna valenza sacrificale ed espiatoria. In proposito si legga Rm 4,25: , dove Paolo interviene sulla tra­ dizione per modificarla e adattarla al suo modo di pensare teologi­ co non improntato ai modelli cultuali e sacrificati. bensì alla catego­ ria giudiziaria della giustizia salvifica di Dio che rettifica i peccatori chiamandoli efficacemente ad affidarsi a lui e al suo gratuito opera­ re in Cristo. Di quale morte di tutti egli parli, lo spiega il v. 1 5 che riprende e chiarisce il senso della deduzione precedente. . Quindi è una morte di carattere esistenzia­ le quella che consegue alla morte e risurrezione di Cristo: morte a un vivere per se stessi, introflesso, secondo il codice del più chiuso egocentrismo; una morte però che, nello stesso tempo, è vita di piena dedizione a Cristo. Ma possiamo anche aggiungere « ... dedi­ zione agli altri>>, visto che nel contesto Paolo confessa di spendersi per i corinzi sollecitato dall'amore di Cristo (cf. v. 13). In breve, l'in­ flusso salvifico della sua morte - e risurrezione - consiste nel far passare i vivi (categoria fisiologica) dall'uno all'altro modo di vita (categoria esistenziale). Ma non è tutto: la morte di Gesù ha avuto un effetto di radicale metamorfosi dell'uomo, perché con il mutamento della dinamica del suo vivere è mutato in profondità anche il suo essere. Di fatto è donata per grazia una nuova identità. Tralasciamo. per amore di brevità, la prima conseguenza, cioè la nascita di un nuovo tipo di rapporto con Cristo e con gli altri: >. Traduzione errata per un duplice motivo: anzitutto la stessa parola hamartia (peccato) sarebbe usata in due sensi diversi nel medesimo periodo, prima come peccato e poi come sacrificio per il peccato; ancor più probativa appare la constatazione che vi si usa l'astratto per il concreto: «diventare giustizia di Dio>> vuoi dire «diventare giusti della giustizia di Dio>>, cioè giusti in forza della sua azione giu­ sta e giustificante; parimenti «lo fece peccato>> non significa né più né meno che rese Cristo peccatore, partecipe cioè di un'umanità peccatrice, lui che ha vissuto in maniera non peccaminosa. Passo analogo è Rm 8,3 analizzato sopra: Dio mandò il suo figlio a condi­ videre l'esistenza umana che era sotto il potere del Peccato. In breve, la salvezza corre sulla direttrice della solidarietà di Cristo con l'umanità peccatrice, e l'effetto salvifico della sua storia culminante nella morte è la giustificazione dell'uomo, cioè la sua giusta collo­ cazione di fronte a Dio, quella da credente, non una semplice puri­ ficazione delle colpe. 242

Ma errata ci appare anche l'interpretazione di McLean secondo cui Paolo darebbe voce a una soteriologia di tipo sostituzionistico: Cristo assume su di sé il peccato dell'uomo, o anche la maledizione, come appare in Gal 3, e lo libera quasi come un capro espiatorio e ad analogia dei riti apotropaici di stampo greco. In realtà, lo ripe­ tiamo, il centro della soteriologia paolina è la partecipazione «misti­ ca>> del credente alla sua morte e risurrezione. L'assenza di ogni concezione sacrificale ed espiatoria della morte di Gesù è confermata in questo contesto dal motivo della riconcilia­ zione, metafora di carattere interpersonalistico che suppone una rot­ tura di rapporti e una loro ricucitura, esattamente un cambiamento (vedi la radice allass-) d'animo e di concreta relazionalità (cf. 5,18-6,2). Come ascendente di questo linguaggio non possiamo rifar­ ci all'AT che privilegia vocaboli cultuali, quali espiazione, sacrificio, purificazione. Si possono citare solo alcuni passi di 2Mac: «(Dio) esaudisca le vostre preghiere e si riconcili (katallageie) con voi» (1,5); pregarono il Signore misericordioso «di riconciliarsi (katallll­ genai) pienamente con i suoi servi>> (8,29); dopo che il tempio era stato in rovina , fu ripristinato in tutto il suo splendore (Barbaglio, La teologia di Paolo, 271s). '

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Ecco le sue parole ai vv. 18-20: «Tutto però viene da Dio che ci ha riconciliati con sé per mezzo di Cristo e ci ha affidato il servizio della riconciliazione, come è vero che era Dio a riconciliare a sé il mondo mediante Cristo, non mettendo in conto [mé logizomenos: categoria commerciale e non cultuale] gli uomini le loro cadute e istituendo tra noi il messaggio della riconciliazione. Siamo dunque ambasciatori per conto di Cristo, è come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo per Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio>>. Come si vede, la riconciliazione comporta il perdono dei peccati. ma non vi esaurisce la sua valenza, dal momento che nel contesto immediatamente precedente Paolo parla di >. L'immolazione dell'agnello contrassegnava infat­ ti la Pasqua e insieme la festa degli Azzimi. Ecco dunque motivata la novità cristiana: «siete pani azzimi, perché il nostro agnello pa­ squale (procedimento tipologico cristiano], Cristo, è stato immola­ to>>. Vuoi dire ai suoi interlocutori: ha avuto inizio il tempo pasqua245

le, avete acquisito un'identità nuova; nuovo, di conseguenza, deve essere il vostro comportamento. Ora non sembra che vi via sottinteso alcun significato espiatorio. Dopo tutto l 'agnello pasquale era, dalla sua origine, collegato con la liberazione, con il riscatto delle tribù israelitiche. E Paolo lo inqua­ dra in un contesto in cui parla della radicale trasformazione dei cre­ denti di Corinto, diventati «nuova creatura» (2Cor 5,17), essi che formano la comunità escatologica dei e dei . 1.5. In I Ts 5,10 il dato tradizionale: è inquadrato da Paolo nella prospettiva della salvezza finale dei cre­ denti. Non per nulla in l Ts motivo teologico portante è la parusia di Cristo ( 1 , 10). Chi scrive è impegnato a dare solidità alla speranza della comunità tessalonicese, in preda alla tristezza per la sorte fina­ le dei morti (4,18), e di quanti incontreranno, vivi, il figlio di Dio che verrà giù dal cielo. Pertanto mostra come la morte di Gesù apra un orizzonte di vita in comunione con lui oltre questo mondo: . Di quell'evento egli mostra così l'effetto ultimo, che però è in linea con l'effetto primo e storico: la nuova identità dei credenti, espressa da Paolo con una terminologia che richiama quella degli scritti qumranici: (vv. 4-5). La loro esistenza di credenti è tutta, dall'inizio alla fine, sotto il segno dell'elezione di Dio che «non ci destinò all'ira che condanna, bensì al possesso della salvezza mediante il Signore nostro Gesù Cristo>> (v. 9). In breve. la sua morte prende posto in questo globale progetto divino di salvez­ za e ne è qualificata.

2. MORTE COME DONO D'AMORE 2.1. In Ga/ 2,20 Paolo personalizza al massimo il senso del mori­ re di Gesù e lo fa in riferimento alla soggettività del crocifisso e al beneficiario. Si tratta, in una parola, dell'io di Paolo confrontato vis­ à-vis con il tu del figlio di Dio: «che mi ha amato e ha consegnato se stesso alla morte per me (rou agapesantos me kai paradonros heau­ ton hyper emou)>>. Rispetto alla formula tradizionale «è morto per i nostri peccati>> (lCor 15,3) l'apostolo evidenzia l'autodonazione (paradidonai) di Cristo, mostra in questa la profondità di senso di 246

un gesto estremo di amore (agapan) e individualizza il destinatario di tale amorosa oblatività. Berényi ha dimostrato, contro la tesi di Popkes, come la formula si debba attribuire a Paolo, un'originalità che esprime bene il suo pro­ cesso interpretativo: piena libertà di Gesù nell'affrontare la tragica morte e decisione di consegnare la sua vita in mano nemica - que­ sto il senso di paradidonai, precisa sempre Berényi -, appunto nelle mani dei crocifissori. Lo ha fatto però non per distruttivo masochismo, bensì per amore, un amore che lo ha spinto a far getto della sua vita a favore degli altri, qui per Paolo. Naturalmente ci si deve interrogare sul senso della formula «per me». La preposizione greca significa >. Questi giustifica i peccatori per fede, al di fuori della legge mosaica, che non vi h a alcuna parte attiva, perché se l'avesse, «allora Cristo è morto inutilmente (ara Christos dorean apethanen)>> (v. 21). La valenza salvifica della sua morte, nel senso spiegato, è dunque un 'affermazione esclusiva: essa sola, basta per se stessa, esclude qualsiasi altro fattore complementare che, intervenendo, la neghe­ rebbe nella sua autosufficienza salvifica. Si noti che tutto è contestualizzato nell'argomentazione tesa a dissuadere i credenti di Galazia dal cedere ai difensori di un altro vangelo che coniugavano. come fattori di salvezza. Cristo e la legge mosaica. Se la morte alla legge e la nuova identità del credente dipendono dalla croce di Gesù, più direttamente dalla «concrocifis­ sione>> con lui, come non aderire al suo vangelo? 2.2. In JCor 8,1-13 Paolo parla ai corinzi, in particolare a quelli che, forti della convinzione che esiste un solo Dio e di conseguenza che le divinità idolatriche sono vere e proprie nullità (lCor 8,4-6). non si facevano scrupolo di partecipare nel santuario pagano (eido­ leion) a festini sacri. In questo modo però scandalizzavano , cristiani scrupolosi che, ossessionati dal pericolo dell'idolatria, ma incoraggiati dall'esempio di quelli, anch'essi vi prendevano parte, però con coscienza non libera, finendo così per peccare. Egli disapprova duramente : sono degli irresponsabili, non ten­ gono in debito conto la coscienza debole dei fratelli meno illumina­ ti e meno liberi. Prendendoli per il bavero con discorso diretto così li apostrofa in tono ironico: (v. 10). Non si rendono conto degli effet­ ti catastrofici che provocano nel