Il nuovo dio della musica
 8806484621, 9788806484620

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EINAUDI LETTERATURA 66

GIANNOTTO BASTIANELLI IL NUOVO DIO DELLA MUSICA

Copyright © 1978 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

Giannotto Bastianelli

IL NUOVO DIO DELLA MUSICA A cura di Marcello de Angelis

Introduzione

a Luigi Rognoni

La stesura del Nuovo dio della musica occupa il biennio 1925-27 dell’attività di Giannotto Bastianelli ed è rimasta in­ compiuta: solo poche righe della quarta parte, abbozzate prima della partenza per Tunisi dove avrebbe trovato la morte. Du­ rante i quattro anni di silenzio che separano II nuovo dio della musica dall’ultimo volume pubblicato, L’Opera e altri saggi, Bastianelli aveva portato alle estreme conseguenze talune co­ stanti del suo pensiero critico, rintracciabili fin dalla Crisi mu­ sicale europea del 1912, considerando le vicende della musica e dell’estetica contemporanea alla luce di un vasto piano di re­ visione, sulla scorta anche di precise indicazioni e atteggiamen­ ti di alcuni settori della cultura del tempo. La sua violenta presa di posizione contro la degenerazione del linguaggio musicale imputabile, secondo lui, a una malattia romantica ancora in atto (salvo poche eccezioni), si radicalizza, infatti, sul terreno di un’esperienza religiosa conflittualmente vissuta a livello esistenziale da un lato, partecipe, dall’altro, delle idee circolanti negli ambienti della reazione cattolica al­ l’idealismo. Tuttavia — per dirla con Garin - se si deve consi­ derare Bastianelli uno di quelli che oscillano fra la fede e le angosce delle speranze deluse, il suo «libello» scagliato con­ tro l’idealismo ottocentesco non fu una dissertazione a vuoto sulla crisi, un passivo e inerte lamento. Isolato, sì, ma tutt’altro che comodamente seduto; lo dimostra, del resto, la causti­ cità del suo linguaggio combattivamente impegnato contro ogni forma di sterile rassegnazione.

«Io sto per cominciare un nuovo libro II nuovo dio della musica - scrive a P. Odorico Caramelli1 - e sono felice di sen­ 1 Odorico Caramelli (1884-1962), francescano, compositore allievo di Pizzetti al Conservatorio di Firenze, fu per oltre un cinquantennio titolare e orga-

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tirmi migliorare ogni giorno di piu (ormai mi posso conside­ rare in convalescenza, ma sono stato atrocemente) per potermici dedicare con tutto il mio solito entusiasmo - questa vol­ ta - con un’esperienza musicale vastissima». Ma il lavoro procedeva faticosamente: «Della mia gravis­ sima malattia nervosa rimangono - e purtroppo difficilmente scompariranno del tutto - residui talvolta inquietanti, uno spasimo indescrivibile, [...] dolori di stomaco e disturbi funzionali cardiaci spesso insopportabili. Lo scrivere in tali momenti mi diviene un atto penosissimo. [...]. Anche se non scrivo (o non leggo) è come se lo facessi. Secondo i medici ciò dipende dall’abuso sempre da me fatto di vita acutamente ce­ rebrale. [...]. Il medico dei medici è Dio». Per stabilire la consistenza reale del problema religioso nel­ l’ultimo Bastianelli e fissarne per così dire la genesi, è impor­ tante precisare - lui stesso ce lo dice - che non si trattava as­ solutamente di conversione1. Rimane tuttavia il fatto (e an­ cora ci soccorrono le sue parole) che in un preciso istante della sua vita si verificò una svolta decisiva senza la quale sarebbe impossibile entrare nella fase che precede e accompagna l’ela­ borazione del Nuovo dio della musica', il trauma psicologico all’indomani di un’aggressione subita a Bologna2. Intanto l’amico Caramelli lo esortava a passare qualche tempo nel con­ vento di San Francesco sulle colline fiesolane e l’idea lo attiranista della chiesa annessa al convento di San Francesco a Fiesole (cfr. p. bargellini - b. m. bacci - fra Giuseppe - a. m. f., Testimonianze per un musicista: Padre Caramelli, in «Giornale di bordo», settembre 1968, pp. 563-69). Le let­ tere che cito sono tratte dal fitto carteggio inedito con Bastianelli tenuto nel pe­ riodo 1924-26 e sono di estremo interesse per capire la genesi del Nuovo dio del­ la musica e lo svolgimento degli ultimi anni di vita dell’autore. 1 «Non credere però che il titolo si riferisca a questa mia trasformazione re­ ligiosa. Nuovo dio della musica è inteso da me (che non ho nessuna voglia di sbandierare conversioni e roba simile) un dio che soppiantò Dionisos ormai bal­ buziente del sinfonismo ottocentesco e in genere d’ogni estrinsecazione roman­ tica della musica» (lettera a P. Caramelli, 11 novembre 1925). 2 «Non dimenticherò mai che in un’ora della mia vita in cui tutti (salvo po­ chissimi) come cani mi si gettarono sopra per finirmi giacché ero divenuto iner­ me (un idealista direbbe: colpa mia!), ed essi, ciechi, obbedivano a quello stesso istinto per cui una muta di cani se ode un cane guaire o se lo vede in pericolo, non si sa perché si getta su di lui; ebbene, io non dimenticherò mai la divina pol­ la di preghiera che sgorgò a un tratto dal mio intimo verso un Divino che mi trascendeva e che sentivo ” che aveva sf gran braccia ” da accogliere tutto che a Lui si rivolgeva con slancio puro e integro. Una conversione allora? Adagio Biagio, si dice a Firenze, mia patria spirituale se non di sangue. Mi si permetta di non fare... il papiniano. Per convertirsi per davvero occorre essere migliori di me. Forse Giovanni Papini lo è e del resto ci vuol poco» (g. bastianelli, Èrcole al bivio, nel «Resto del Carlino», 30 luglio 1922).

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va pensando che in «perfetta letizia» avrebbe compiuto il pro­ getto del volume, iniziato, nell’estate del 1925, nella pace di un altro eremo francescano: la Verna \ Inoltre sentiva con ur­ genza il bisogno di lasciare temporaneamente Cento il cui «cli­ ma» lo opprimeva: «Ti ringrazio del tuo invito a Fiesole invito che ha fatto sanguinare la mia nostalgia toscana esule in pianure monotone (qui di bello non v’è che il cielo - ciel di pianura, piu spaziato d’un oceano come mi figuro visto da un aeroplano) — la gente ancor piu monotona e piatta dei luo­ ghi da essa abitati. Gente che io definisco w gli americani d’Ita­ lia”. Si sente vicina la città dell’ingorgo materialisticamente pratico: Milano!» Si dedica a una febbrile lettura di testi filosofici e teologici: «Nella solitudine mi sono messo con ar­ dore a studiare. E studiare a quest’età significa lavorare con­ cretamente. Io siccome credo alla filosofia se non altro come metodo, ho prima di tutto fatto una critica della teologia - co­ sa che mancava completamente dal mio organismo intellettua­ le»1 2. Tale parentesi di approfondimento e meditazione, oltre a ritardare la partenza per Fiesole, procurò una momentanea interruzione del Nuovo dio*. «Il mio libro è per il momento sospeso in quanto a realizzazione sulla carta - ma (oltre a sen­ tire che a giorni sarà matura la parte nuova) non ne è sospesa l’appassionata preparazione. [...]. Risentirà esso del doloroso e fervido travaglio di purificazione morale per mezzo della fe­ de? [...]. Il libro che scrivo - sebbene indirettamente - direttamente essendo libro di cultura e di polemica musicale - segna in certo qual modo le tappe della mia presente autobiografia; ed è infatti concepito come a brevi capitoletti - quasi pagine staccate di un diario; [...] è in un’atmosfera di valori musicali ch’io vivo questo mio rinnovamento spirituale. [...]. E come i valori della vita, anche i valori della musica vi sono coraggio­ samente capovolti — o, se più vi piace rimessi in piedi — Pale­ strina sopra Beethoven, la Messa di Papa Marcello, piena del­ lo spirito d’eternità, sulla Nona sinfonia ispirata all’ode di 1 Come risulta dal carteggio col Caramelli il volume fu iniziato alla Verna il 25 agosto 1925. In quell’occasione strinse amicizia con padre Vigilio Guidi, organista titolare del convento (cfr. g. bastianelli, Padre 'Vigilio e il «suo» organo, in «La Nazione», 24 luglio 1926). 2 Sono d’accordo con la Donadoni che gli Appunti filosofici inediti riguar­ dino proprio queste letture (cfr. g. bastianelli, La musica pura-Commentari musicali e altri scritti, a cura di M. Omodeo Donadoni, Olschki, Firenze 1974, pp. 352-60).

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Schiller». Siamo nella primavera del 1926 e il nucleo essen­ ziale del libro è già delineato. Scorrendo la biografia di Giannotto, sappiamo che il sog­ giorno nel convento di San Francesco non si risolse davvero — come era accaduto alla Verna - in contemplazione e medita­ zione e, invece di chiarezza, portò maggiori complicazioni al fondo della sua inquieta personalità. Del resto nessuno meglio di lui era cosciente delle difficoltà che avrebbe dovuto attraver­ sare e che tale scelta comportava, ripresentandosi inesorabile la memoria del passato, localizzata soprattutto nel tentativo di suicidio nel giugno 1924. Questa fede velleitaria, anziché can­ cellarne il ricordo, ne aggravava le circostanze psicologiche fa­ cendolo vivere in un inquietante senso di colpa e di vergogna: «Per ora studio e lavoro e vivo piu solitario che posso - so­ prattutto guardo bene dal gridare al trionfo e dal dimenticare il mio orribile passato». Alla fine dell’autunno 1926, espulso dal convento, aveva ripreso a scrivere a casa di Bacci, presso il quale si era rifugia­ to. Durante la drammatica permanenza a Capri - stretto dal bisogno - cercava di ottenere, per il tramite di Caramelli, un contratto con una casa editrice fiorentina \ chiedendo un an­ ticipo alla consegna della prima e della seconda parte già com­ piute. Saltando ai mesi immediatamente successivi alla tragica morte di Bastianelli, vediamo Augusto Hermet - amico di Giannotto fin dai tempi della «Voce» e ora direttore di una collana musicale per conto dell’editore Bolla di Milano - inca­ ricarsi di provvedere all’edizione corredata da un commento in­ troduttivo. Nel 1929 il libro era già in bozze ed Hermet infor­ ma Galeazzo Falzoni Gallerani, nipote di Bastianelli: « Il libro del suo povero zio Giannotto II nuovo dio della musica uscirà entro il prossimo mese di settembre. La correzione delle bozze da me compiuta è stata ben lunga e faticosa». Intanto Giovanni Bolla, per pubblicizzare l’imminente uscita del volume, conce­ de a Giovanni Da Nova, direttore del «Bollettino Bibliografico Musicale», di pubblicarne un capitolo1 2. Tuttavia, malgrado tanta attesa, II nuovo dio della musica non compare nelle libre­ 1 Da una lettera a P. Caramelli del 16 dicembre 1926 risulta che la casa edi­ trice in questione era la Vallecchi. 2 g. bastianelli, La crìtica come crisi degli artisti, in «Bollettino Bibliogra­ fico Musicale», Milano, maggio 1929, pp. 9-14. Altri «frammenti» del libro comparvero postumi: id., Per una riforma del Melodramma, in «La Fiera lette­ raria», 2-9 ottobre 1927.

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rie. E lecito supporre che l’editore si trovasse in difficoltà eco­ nomiche. Hermet nel 1932 si rifà vivo col Gallerani: «Bolla mi ha scritto due settimane fa, e subito gli ho risposto assicuran­ dolo riguardo alla introduzione e alla chiusa del libro: tutto è pronto da quattro anni ed io spedirò a lei il manoscritto perché lo consegni subito all’editore. Il volume tanto atteso potrà finalmente uscire nell’occasione quanto mai propizia del Mag­ gio musicale fiorentino. È assolutamente necessario, come ho detto a Bolla, ch’io riabbia tutte le prime bozze corrette (che lei ha veduto) per la revisione sulle ultime bozze: rivedere sul semplice manoscritto sarebbe impossibile». Le bozze furono effettivamente spedite e la revisione cominciò, ma le condizioni economiche di Bolla si aggravarono e tutto il materiale rimase in casa di Hermet, dove è stato da me ritrovato, fortunatamen­ te intatto, insieme con alcune pagine manoscritte e con quelle seconde bozze di cui parlava Hermet; queste, aggiunte alle pri­ me rinvenute in casa, mi hanno dato la possibilità di ricompor­ re il volume.

Il nuovo dio della musica è un’opera dalla struttura com­ plessa e disorganica, con passaggi a volte quasi incomprensibili. Lo stile di Bastianelli, già di per sé contorto (basterebbe pen­ sare ad alcune pagine della Crisi musicale europea o piu ancora dell’Opera), raggiunge qui punte volutamente «ermetiche», come lui stesso avverte fin dal primo capitoletto, Intenzioni di intimità, dove nutre seri dubbi circa la pazienza del lettore nel seguire il filo del ragionamento e auspica per il futuro editore guai circa le vendite. Le frasi si susseguono come pensieri inter­ rotti dall’uso frequente delle lineette che non sono parenteti­ che ma segnano una pausa del discorso. I capitoli potrebbero, inoltre, avere una loro vita autonoma se non fosse per la mate­ ria autobiografica, anch’essa buttata lì episodicamente via via che l’argomento trattato fornisce occasione di ricordo e di ri­ flessione critica. Come aveva scritto a Caramelli egli intendeva capovolgere, mediante un «doloroso travaglio», i valori della musica e quelli della vita. Tutto quanto aveva realizzato in qua­ si vent’anni di attività di critico militante veniva rimesso in di­ scussione. Se II nuovo dio della musica si sviluppa sulle posizioni più stimolanti della Crisi musicale europea non bisogna trascurare l’importante ciclo degli scritti sulla «musica pura» (intesa sta­

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volta decisamente in senso filosofico e non edonistico come in gioventù1), comparsi sulla «Critica musicale» nel 1922, nei quali Bastianelli mostra di aver assimilato diverse prospettive critiche e metodologiche di fronte al vario dispiegarsi delle esperienze contemporanee. «L’unico fatto stilistico degno ri­ gorosamente di chiamarsi musica - scrive nel primo dei saggi in questione - è la musica strumentale indipendente dalla pa­ rola; oppure è una musica curiosamente concepibile (per quan­ to non ve ne sia ancora, ch’io sappia traccia d’esistenza) per voci sole senza parole, ossia espressa con voci adoprate come puri strumenti vocali». L’aver posto il problema della «musica pu­ ra» in questi termini significava allinearsi e addirittura saltare gli aspetti più avanzati di alcuni esponenti della generazione dell’Ottanta i quali, sulla scia di qualche isolato musicista (qua­ le, nell’ottocento, Pietro Raimondi) o di certe posizioni di Ferruccio Busoni, si erano prefissi di liberare la musica da ogni elemento meramente suggestivo. Tentativi che si collegavano direttamente a quelle zone della polifonia vocale quattro-cin­ quecentesca in cui Bastianelli scorgeva la fonte più diretta alla quale le nuove generazioni avrebbero dovuto attingere. Tale ri­ cognizione, sollecitata nelle pagine della Crisi, non era certo un invito a operazioni di tipo filologico-restaurativo, ma nasceva da un’esigenza interiore di semplificazione del linguaggio mu­ sicale per stabilire un nuovo codice etico e quindi un diverso processo di comunicazione fra gli uomini. Per questo la nuova musica si sarebbe dovuta concepire prescindendo da qualsiasi modello ottocentesco, simboleggiato dal «vecchio» Dionisos, per assurgere - mediante un’operazione di scavo critico sui ma­ teriali offerti dal mondo presente - a una sfera estetica d’ordi­ ne superiore, antiretorica, antiaccademica, momentaneamente chiusa a ogni tentazione di farne parte agli altri. E, caso mai, se gli altri ci sono, devono necessariamente essere gruppi ristretti di persone in grado di capire il verbo esoterico, incomunicabile, della nuova lingua artistica. Ed ecco che Bastianelli fa calare 1 In una lettera a Cecchi del 1907-908 aveva detto delle proprie composi­ zioni: «Musica pura scritta per il gaudio della vita». Ma nelle Note di un criti­ co musicale a una mostra futurista, in «Il Marzocco», 14 dicembre 1913 (in­ cluso in Saggi di critica musicale, Studio Ed. Lombardo, Milano 1914, pp. 108113), dava la seguente definizione: «Credo che tutti i lettori di critica musicale abbiano sentito spesso parlare di musica pura, di una musica cioè che non ha bisogno, per essere compresa, di riferirsi alla realtà visibile e tangibile, al mondo dei movimenti, dei gesti, dei colori e delle forme plastiche: di una mu­ sica insomma che ha la sua ragion d’essere in se medesima e nel suo sviluppo organico e naturale».

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dall’alto della sua costruzione mitologica il «cerebrale» Her­ mes, l’unico in grado di sconfiggere Dionisos e instaurare l’or­ dine morale richiesto dalle necessità. Tuttavia la completa vit­ toria su Dionisos sarebbe avvenuta solo con un successivo pas­ saggio e, cioè, elevando il cerebralismo a categoria estetica tra­ scendentale in cui il processo creativo avrebbe ricevuto il mas­ simo della interiorizzazione, identificato da Bastianelli nell’atto religioso. E, guardando al passato, atti profondamente religiosi scaturiscono dai discantisti medievali, dal mistico gregoriano, da Monteverdi: la Messa di Papa Marcello di Palestrina supera lo Stabat Mater di Pergolesi, sublime ma fortemente vena­ to di sensualità. La Missa Solemnis di Beethoven viene guar­ data, salvo alcune parti, con sospetto. Tuttavia Beethoven con Spontini il «napoleonide» per eccellenza - è grande per la sua bontà, per il messaggio altamente morale che si sprigiona dalla sua immensa personalità di uomo libero. E Verdi, parabo­ licamente raffigurato nelle vesti di un antico pastore preroma­ no, fondando il linguaggio della sana semplicità contadina, si contrappone a Wagner la cui musica è l’esempio piu lampante della malattia che sta per corrodere la coscienza artistica degli uomini appartenenti alle generazioni tardoromantiche. Di qui prende vita quella che Bastianelli chiama la «controriforma del melodramma» che, opposta alla riforma wagneriana, dovrà teter conto, oltre alla rivalutazione del canto (naturalmente non in senso «belcantistico» ma come comprensione della parola), di uno spazio appositamente concepito: i cosiddetti «teatri pic­ coli», secondo quanto suggerivano negli stessi anni Bragaglia e Pirandello. Il suo ideale era l’opera breve, asciutta, essenziale, sul modello delle Sette Canzoni di Malipiero che egli, tra i primi, comprese e valutò con straordinaria acutezza. Fu «So­ latia» ad ospitare pochi mesi prima della sua morte uno dei capitoli più stimolanti del Nuovo dio della musica, quello, ap­ punto, riguardante la personalità del musicista veneziano. Nel fondare il mito Dionisos-Hermes è evidente il richiamo a Nietzsche, ma in termini rovesciati: là dove la cristianità era combattuta dalla paganità, si tratta qui di ricostruire il piano dei valori religiosi ad opera di un ipotetico riformatore o grup­ pi di riformatori (vorremmo dire rivoluzionari) tutt’altro che atteggiati superomisticamente, e anzi intimamente gelosi di sé e delle proprie appartate conquiste. «La romantica volontà di potenza ha due poli, - avverte infatti Bastianelli, - uno indivi­ dualistico e solipsistico - ch’io direi punto di partenza; l’altro

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dirò così per reazione egoisticamente altruistico - w democrati­ co ” per modo di dire - come punto di arrivo». A Bastianelli interessa la fase iniziale, solipsistica di questo dio, che viene sulla terra a instaurare un ordine privato ma sincerissimo nella sua azione purificatrice, opposto a quell’incitatore « agli uriacci o fragori plateali che romanticamente (democraticamente) pare impossibile — un uomo di cosi gentile gusto aristocratico ci ha voluto far apparire: Federico Nietzsche». Grazie alla sua discesa il gusto «chitarronesco» e «improwisatorio» di tanta musica italiana falsamente democratica dovrà cedere il passo a un intimo processo di rinnovata vitalità espressiva. Tale pro­ cesso riguardava sia l’artista sia il critico la cui attività di giu­ dice lo costringeva a mettersi nelle stesse condizioni di «ispira­ zione» che avevano reso possibile la realizzazione di una data opera. «Io ho sempre pensato che per parlare degnamente di una creazione bisogna per lo meno essere investiti da un soffio di ispirazione non meno potente di quello che gonfiò lo spirito del creatore nella durata della creazione», leggiamo sul «Resto del Carlino» nel 1919; ma tali idee che riflettono, in fondo, la sua metodologia critica, le troviamo disseminate un po’ dapper­ tutto scorrendo i suoi scritti. In Interpretazione e critica musi­ cale del 1914, dopo una lettura dello Ione platonico, invocava una «mania d’amore» e una «Charitas suprema» che permet­ tessero di abbracciare la totalità dell’opera d’arte per eliminare da una parte il privilegio di zone piu o meno poetiche all’inter­ no di una composizione e aderire dall’altra, con pari interesse, « travalicando le barriere della propria pigra sensibilità », a Bee­ thoven, Chopin, Schumann, Bellini, Verdi, Debussy, Schon­ berg, Strauss, Stravinsky e «identificarsi perfino coi rozzi di­ scantisti medioevali». Per questo se la prendeva con «certi mi­ serandi critici decadenti i quali, non avendo piu la energia spi­ rituale per comprendere la vastità d’una ampioquadrata archi­ tettura tematica, vanno blaterando che la vera bellezza non è contenuta che in certi frammenti, più lirici (secondo loro) del restante svolgimento, svolgimento i cui sviluppi sarebbero su­ perflua e pesante costruzione accademica e tradizionalistica» \ La polemica anticrociana è fin troppo evidente. Tuttavia nel Nuovo dio della musica l’asse si sposta più che altro sulle con­ dizioni sociali in cui il critico si trova a operare ribadendo quel1 g. bastianelli, Il programma del 20 concerto sinfonico al Teatro Comu­ nale , nel «Resto del Carlino», 25 ottobre 1919. Interpretazione e critica mu­ sicale è compreso in «Harmonia», luglio 1914.

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la distinzione fra critica e giornalismo che era già contenuta nella premessa alla raccolta Saggi di critica musicale: «Io sono convinto che, in realtà, vera critica d’arte e giornalismo siano irreparabilmente inconciliabili. Giornalismo è soprattutto vita pratica e passionale; critica è, o dovrebb’essere, al contrario, vita intima intellettiva e disinteressata». E uno dei grossi me­ riti dei Saggi, oltre alla loro concretezza storicamente circostan­ ziata, consiste proprio nell’aver cercato di ravvicinare quanto piu possibile i termini opposti di giornalismo e critica. Bastia­ nelli nel Nuovo dio, convinto che nulla sia piu «intellettualisti­ camente vuoto» del giornalismo, ribadisce la ferma volontà di essere se stessi a ogni costo per fondare una critica vera che «non serva giornalisticamente per farsi leggere dal pubblico disorientato d’oggidi e dagli interpreti piu disorientati del pub­ blico». Tale era sempre stata, del resto, la sua posizione fin da­ gli anni dell’esordio sul quotidiano fiorentino, quando scrive­ va: «Il critico musicale, anzi meglio: il giornalista critico musi­ cale, è concepito nella vita italiana (e anche estera, specialmen­ te francese) in un modo affatto economico. L’impiegatuccio in una ditta commerciale, invece che il difensore sereno e cauto dei diritti dell’Estetica. Mi spiego: che cosa si domanda al cri­ tico, un giudizio o una reclame? Una reclame camuffata da giu­ dizio». La posizione moralistica di Bastianelli (ma forse sareb­ be meglio chiamarla coerenza morale) non si smentisce mai. Ma nel Nuovo dio della musica - e questo è uno degli aspetti piu interessanti del libro - religione e morale, una volta assunte dall’individuo in «ermetica» esperienza interiore, dovranno proiettarsi dentro la società per formare un’ipotetica plaga di umanità saggiamente distesa e contemplante: l’idealismo neo­ platonico assume così le caratteristiche di una straniante utopia che viene a porsi non a caso nel momento in cui il fascismo con­ solidava il proprio potere politico. E dall’impatto col primo fascismo Bastianelli non potè — come tanti — che trarre conse­ guenze sbagliate, pensando si trattasse di condurre una crocia­ ta a favore dei deboli per la rigenerazione morale della nazio­ ne: «In questo senso sono anch’io fascista; ma in un senso tut­ to speciale e delicatamente morale: e cioè nell’intento di oppor­ re all’ipertrofia dell’azione che sta divenendo la vera malattia dell’Europa convulsa e assillata dal disordine economico un’o­ pera di chiarimento continua... di quegli ideali religiosi e mo­ rali che tanto si vanno retoricamente decantando dagli istrioni ufficiali. La malattia intellettuale dell’ottocento fu l’arte con

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tutte le annesse degenerazioni spirituali, e la vita ne era l’anti­ doto. La malattia del Novecento è quello che ci pare sarà - o è almeno per ora - la lotta per la potenza; la politica con tutte le annesse degenerazioni materiali» \ Nella violenta requisitoria contro l’Ottocento siede per pri­ ma sul banco degli imputati la rivoluzione francese, causa di tutti i mali, generatrice di quel Dionisos sfrenato che aveva in­ gannato tutti mietendo le sue vittime: moti risorgimentali, ple­ bi in via di bolscevizzazione e tutta quella visione « colossale» e «inferocita» dei mezzi sonori che si esplicò soprattutto nella musica tedesca del periodo romantico, aderendo - lo dice Ba­ stianelli - alla linea politica imperialista di quella nazione. Ri­ spunta fuori l’antico odio che aveva caratterizzato in modo piu o meno violento tutta la querelle classico-romantica nel nostro paese contro la cultura «d’oltremonte», rinvigorita dai rigurgi­ ti nazionalisti che il fascismo, all’indomani della conclusione della prima guerra mondiale, alimentava sfruttandone gli aspet­ ti deteriori. Bisogna dire che l’apertura europea di Bastianelli, e la sua naturale disposizione ad andare controcorrente in virtù di un occhio critico sempre attento e combattivo, gli impedì di confondersi con quella che lui stesso definiva la «casta politi­ ca» sorta sul «sacrificio di tutti coloro che non avevano voluto per nulla assoggettarsi». Anche se la sua dichiarazione di essere «ottuso alla politica» può non essere convincente perché - nel­ la maggior parte dei casi - sottende un impegno politico ben preciso, egli fu assimilato piuttosto nella sfera degli intellettua­ li isolati, delusi, antidemocratici perché una certa situazione li respingeva ai margini della società con la quale, di fatto, non avevano nulla da spartire. Sembra di sentire il riverbero delle parole di Boine quando, prendendosela anche lui con la rivolu­ zione francese (la «bestiale rivoluzione francese»), aggiunge­ va: « Senti ora il plebeo dappertutto. Senti il torbido, il caotico, il colossale (peggio il sociale, il manuale, il comune). È venuta a galla dalla feccia d’ogni razza una primordiale gente di mostri che non trova ancora né equilibrio né forma. Siam tutti incerti siam tutti in sospeso; in questa inquietudine di tentamenti pre1 Lettera a P. Caramelli, senza data, riportata da m. omodeo donadoni, Scrit­ ti inediti di Giannotto Bastianelli, in «Nrmi», maggio-giugno 1971, p. 474Nota puntualmente la Donadoni: «Critico rimaneva sempre, e anche se nel suo avvilimento, come desiderava l’obbedienza imposta dal convento o dall’offi­ cina, si dichiarava in qualche momento fascista (fascista non coi violenti che desiderano menare il manganello, ma si coi deboli e coi disorientati che de­ siderano essere battuti)».

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vale nei migliori lo spavento e l’angoscia, nella maggioranza una grossolanità elementare» \ Uscito fuori dall’ambiente del «ribellismo» vociano, Bastianelli ne fu in qualche misura con­ dizionato, e anche positivamente. Tutti dettavano più o me­ no eroicamente le loro leggi per uscire dalla malattia storica della crisi: Slataper che si prefiggeva di recuperare un nuovo tipo di uomo, inquadrato in una diversa dimensione etica oscil­ lante fra volontarismo e religiosità; Jahier che si scagliava con­ tro il modo sfacciato con cui taluni sbandieravano narcisisticamente la propria crisi (i «falsi martiri» di Bastianelli sono in definitiva quelli che per Jahier «ogni momento fanno scarico della loro vita chiacchierandola in pubblico»); e infine il gesto suicida di Meichelstaedter che di fronte alla retorica dei valori costituiti fonda l’utopia di una società arcaica irrangiungibile, da contrapporsi anche ai ritmi produttivi dell’industria negatori della libera e «umana» espressione individuale. Lontani dai problemi del mondo del lavoro, lontani dalle «masse» con le quali non riuscivano a comunicare, per molti di coloro che eta­ no sopravvissuti all’urto della guerra non restò che la stra­ da di un appartato e quasi «rabbioso» isolamento. Nessu­ no, infatti, come Bastianelli, malgrado apparentemente prote­ stasse il contrario, sentiva la necessità del confronto con gli al­ tri, della verifica all’esterno. Ma questo contatto lo voleva rin­ novato, diverso da prima, sulla base di quella chiarezza razio­ nale, momentaneamente «ermetica», appesantita, tuttavia, da due indiscutibili limiti: il gravame cattolico e Tesser caduto in parte nel tranello del fascismo, che aveva abilmente manovra­ to le proprie carte presentandosi all’inizio come il partito del­ l’ordine. Se II nuovo dio della musica, le cui conclusioni sono tutt’altro che «ottimistiche», rappresenti anche una grossa anticipa­ zione del movimento degli «ermetici», è una questione che si potrebbe porre. Certo le intenzioni di Hermes che, alla fine, non ha niente a che vedere con la Chiesa cattolica costituita ma «aspira», nel suo ultimo stadio, a una religiosità d’ordine supe­ riore, farebbero pensare a questo e porterebbero un nuovo con­ tributo alla composizione dei filoni mistici che pure esistono nell’esperienza degli ermetici. Purtroppo il volume è rimasto incompiuto proprio nella 1 g. boine, Plausi e botte, in Peccato e le altre opere, a cura di G. Vigorelli, Guanda, Parma p. 302.

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quarta parte, là dove si suppone che Bastianelli indicasse la via da seguire e i connotati linguistici esatti attraverso i quali il «nuovo dio » avrebbe dovuto esprimersi. Sotto la sua protezio­ ne Hermes aveva preso il Malipiero delle Sette Canzoni, certo Casella, alcuni aspetti di Wolf Ferrari, Pizzetti, in gran parte scaduto rispetto al passato, Strauss, Debussy, Stravinsky; non troviamo il nome di Schonberg più volte difeso e - con una inaspettata anticipazione di Adorno — distanziato da Stravin­ sky, essendo quest’ultimo più soggetto alle leggi del mercato e, di conseguenza, «meno musicista» \ Rimane il fatto che biso­ gnava recuperare lo spirito (non la «forma» s’intende) del «piano nobile» della storia della musica che era il Cinquecento e, più indietro, quei «primitivi» che Lionello Venturi proprio nel 1926 andava rivalutando e difendendo come il momento mistico delle arti figurative. Come più di una convergenza si potrebbe rintracciare con le posizioni di Fausto Torrefranca, malgrado le ripetute polemiche intercorse fra i due a comin­ ciare dalla questione pucciniana sulla «Voce». Da evitare co­ munque il «pianterreno» della roboante musica romantica e le varie sue diramazioni novecentesche: Alfano, Zandonai, Respi­ ghi. Ma la verità è che la confusione regna dappertutto e l’uni­ co dato di fatto riscontrabile e certo è l’atomizzazione estetica, il caos linguistico, la « torre di Babele », in una parola. Il nuovo dio della musica si chiude infatti su questa pessimistica metafo­ ra che rappresenta lo stato di precarietà e di incertezza in cui si trovano gli uomini e, nella fattispecie, i musicisti, che dopo aver toccato il fondo della loro nebulosa esperienza di malati decadenti, si dovranno avviare sulla strada della chiarificazione razionale, liberandosi, al momento opportuno, anche della pre­ ziosa guida di Hermes come una larva abbandona il proprio bozzolo. Al di là degli aspetti paradossali e contraddittori (certe boutades, come quella di una presunta incapacità di Beethoven a trattare il coro, sono piuttosto frequenti)1 2, al di là degli scatti temperamentali e della violenza verbale, Il nuovo dio della mu­ sica appare percorso da una continua ansia di ricerca e sembra, a tratti, di assistere a un tragico gioco in cui Hermes si veste da Dionisos e viceversa. È una maschera - quella di Dionisos dalla quale Bastianelli sembra non riuscire a liberarsi, al limite 1 Cfr. p. 206, cap. xxiv, n. 4. 2 Ravel del resto definì la Mista Solemnis un lavoro «inferiore».

INTRODUZIONE

XVII

dell’ossessione e dello sfinimento. Sono del resto significative le poche parole scritte a Caramelli prima di lasciare l’Italia alla volta di Tunisi: «Dio è stanco di me. La mia volontà si è spez­ zata». È una drammatica dichiarazione di sconfitta e, nello stes­ so tempo, un messaggio che riassume il significato più autenti­ co della presenza di Giannotto Bastianelli nella storia dell’este­ tica e della critica musicale moderna, altrimenti traducibile nel motto da lui stesso usato: «Quid est veritas? » MARCELLO DE ANGELIS

Firenze, giugno 1976.

Cronologia della vita e delle opere

20 giugno. Nasce a San Domenico di Fiesole, presso Firenze, da una famiglia d’origine livornese. Il padre Ettore, notaio, aveva sposato nel 1863 Anna Sgallini - appartenente alfa ricca borghe­ sia labronica - dalla quale aveva avuto altri quattro figli: Pietro (1866), Paolo (1868), Giulia (1874) e Graziella (1881). Nel 1880, a causa di un improvviso dissesto finanziario, i Bastianelli erano stati costretti a lasciare Livorno per il capoluogo toscano. Insie­ me con la sorella minore Graziella, Giannotto viene affidato alle cure della balia, Rosa Scudieri, essendo la madre affetta da una grave malattia nervosa. 1895-1903 Compiuti privatamente gli studi elementari, frequenta il ginnasio nel vicino collegio-convitto della Badia fìesolana, quindi il liceo nella sede fiorentina dei Padri Scolopi. Intanto i Bastianelli erano scesi in città. Giannotto prende lezioni private di musica, caldeg­ giato dal padre che, buon dilettante e fervente wagneriano, lo porta spesso con sé al Teatro Comunale di Bologna, dove ascolta i Maestri Cantori diretti da Toscanini e il Sigfrido con il tenore Borgatti, rimanendone vivamente colpito. Da «loggionista» segue con lo spartito in mano gli spettacoli della «Pergola» e del Teatro Verdi.

1883

1903

Consegue la maturità classica al liceo «Dante» e si iscrive allTstituto di Studi Superiori di Firenze, sezione Filosofia e Filologia, avendo per compagni - fra gli altri - Cecchi, Michelstaedter, Arangio-Ruiz, Pereyra. Gino Bellio e Giuseppe Buonamici gli im­ partiscono regolari lezioni di composizione e pianoforte. La casa di via Faentina si trasforma ben presto in un vero e proprio « ce­ nacolo». Gli amici (particolarmente assidui erano Cecchi, Michel­ staedter, Slataper, Bacci, Jahier, Hermet) si raccolgono, infatti, intorno al pianoforte di Giannotto per assistere alle «smusicate», i cui programmi vengono registrati nel prezioso «diario» di Bac­ cio M. Bacci: Brahms, Debussy, Haydn, Beethoven, Franck, Fre­ scobaldi, Zipoli, Rossi, Peri, Monteverdi, Strauss, Dukas. Emilio Cecchi, che non ha mai nascosto il valore culturale di tali incon­ tri, parlerà in seguito di « libera cattedra di musica classica » vivi­ ficata dalla «intima attività creatrice» di Bastianelli. Una cattedra itinerante che si muoveva nelle aule e nei corridoi dell’università, nelle lunghe passeggiate quotidiane o - per dirla ancora con Cec-

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CRONOLOGIA DELLA VITA E DELLE OPERE

chi - «dovunque fosse reperibile un pianoforte valido, un pubbli­ co colto, appassionato, senza la minima mondanità».

1904 Primo concerto pubblico al circolo ricreativo di Fiesole, sotto il patrocinio del barone Alessandro Kraus jr, discendente da una illustre famiglia tedesca trapiantata a Firenze nell’ottocento, ot­ timo musicista e collezionista di strumenti antichi. 1905 Morte del padre. Lo studio notarile passa al secondogenito Paolo. 1908 Durante un soggiorno estivo a Montereggi - dove i Bastianelli avevano affittato una villetta fin dal 1895 - conosce Bruno Cicognani con cui stabilisce un legame di amicizia fraterna durato tutta la vita. Scrive poesie {Poemi e musiche) e maturano le pri­ me composizioni: Poema per orchestra, Quartetto per archi e pianoforte, due Sonate per pianoforte. A Montereggi frequenta anche Mario Pratesi, ospite nella vicina villa « Il Nido » della mar­ chesa Paolina Alamanni Niccolini, e il parroco don Leonildo Boc­ ci: «Scrivo fughe che piacciono molto al giovane parroco di quas­ sù che sembra un resuscitato-credente dei tempi di Bach».

1909

4 febbraio. Inizia la collaborazione sulla «Voce» con l’articolo Paul Dupin: Jean Christophe, dedicato al musicista francese che aveva messo in musica alcune parti del celebre romanzo di Ro­ main Rolland. Attratto dal pensiero crociano fin dalla comparsa dell’Estetica, non gli risparmia le critiche soprattutto per quanto riguarda le analisi dei poeti e l’incomprensione nei confronti di Baudelaire, Mallarmé, Pascoli. Dei giudizi espressi su quest’ul­ timo terrà conto Cecchi nel fondamentale saggio sul poeta roma­ gnolo, a riprova del fertile scambio di opinioni che caratterizzava la cultura fiorentina degli anni dieci.

1910

Conclude brillantemente gli esami universitari (tra i suoi profes­ sori Rajna, Vitelli, Villari) e abbozza una tesi di laurea su Verdi che non discuterà mai. Attratto dai corsi di grammatica compa­ rata tenuti da Ernesto Giacomo Parodi, pensa a uno studio della Armonia come una glottologia musicale, che concretizzerà in una serie di saggi comparsi tre anni piu tardi sulla «Nuova Musica». Presso Ricciardi esce il Pietro Mascagni che solleva polemiche ma anche giudizi lusinghieri: «Un libro pensato e che fa pensare», scrive Gino Bellio. Collabora alle «Cronache letterarie» con den­ si saggi su Strauss {Salome e 11 Cavaliere della Rosa) e Schumann. A novembre muore la madre.

1911

Dimora per breve tempo in via della Robbia, nella casa dove ave­ va abitato lo scultore Dupré. Conosce Pizzetti e insieme vengono presentati a Romain Rolland, che li considerava «les deux jeunes musiciens les plus intéressants de Florence». Sulle «Cronache letterarie» esce il manifesto Per un nuovo risorgimento, sotto­ scritto da Bossi, Pizzetti, Malipiero e Respighi, dove si auspica la rinascita della musica italiana sull’esempio della scuola nazionale russa e del « genio » Musorgskij.

1912

La crisi musicale europea - dedicata a Baccio M. Bacci - gli procu­ ra vasta rinomanza. Insieme con Fausto Torrefranca (con cui in­

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XXI

treccia sulla «Voce» un’aspra polemica a proposito del Puccini e l'opera internazionale)' è considerato il più vivace esponente della giovane critica musicale italiana. Debutta alla Società Filar­ monica nella doppia veste di compositore-esecutore con la Prima Sonata per pianoforte' la Sonata per pianoforte e violino con Lui­ gi Carlo Bastogi e il Quartetto per pianoforte e archi (Bastogi, Maglioni e Baragli). Arnaldo Bonaventura, dopo aver lodato le qualità del pianista, vi rileva un «fervore di modernità», soprat­ tutto nella parte armonica. Allarga le collaborazioni al «Marzoc­ co» e a «Musica». 1913

Giugno. Concerto al Conservatorio di Venezia in duo con Gioac­ chino Maglioni. In programma la Sonata in do diesis op. 4 per pianoforte («eseguita con perfezione tecnica dall’autore, fu atten­ tamente ascoltata e fu gradevolmente gustata per la varietà e si­ gnorilità dei temi, per un accentuato movimento originale, nuo­ vo») e la Sonata in fa per pianoforte e violino («oltre a essere uno scrittore di fama sicura Bastianelli s’awia ad affermarsi un com­ positore robusto e personale»). Autunno. Concerto alla Ton-Halle di Zurigo. Dicembre. Clamoroso fallimento del fratello Paolo che, «lascian­ do un vuoto di alcuni milioni oro», si rifugia all’estero senza farsi più vedere. Bastianelli ne è traumatizzato: «le sue condizioni pra­ tiche divennero precarie, infine quasi disperate; e la sua produ­ zione fu sempre più subordinata alle occasioni giornalistiche» (Cecchi). «Pauvre Bastianelli! Ce que vous dites de lui me peine. Puisse ce malheur méme lui étre un stimulant puissant! » (Rol­ land).

1914 «Perdo ogni ora di più il senso della vita sociale - scrive a Gui - lavoro, lavoro, soprattutto scavo dentro di me». 2 febbraio. Invitato da Casella esegue con lui a Parigi per la «Société Musicale Independante» il Concerto per due pianofor­ ti. Porta avanti il progetto di una rivista di spartiti musicali con­ temporanei, «Dissonanza», cessata tuttavia dopo tre numeri per dissapori sorti con il condirettore Pizzetti sul problema delle scelte (Bastianelli voleva spingersi alle esperienze più avanzate). «Non posso fare a meno di grammatica e di sintassi», sostiene Pizzetti. Invitato a scrivere su «Lacerba», interviene acutamen­ te in difesa di Schonberg. Pubblica il volumetto II Parsifal di Wagner e la preziosa raccolta Saggi di critica musicale (Musicisti d'oggi e di ieri), dedicata a Bruno Cicognani.

1915

15 febbraio. Alla morte di « Jarro » (Giulio Piccini) diventa criti­ co titolare della «Nazione», incarico che manterrà fino al 1918. Sulla «Voce» derobertisiana «presenta all’Italia il nuovo sona­ tista Alessandro Scriabin» di cui aveva già parlato su «Lacerba». Abita ora in un appartamento «con loggia» in via San Gervasio 741916 Marzo. Tiene un recital al «Cova» di Milano durante una serie di manifestazioni dedicate ai giovani musicisti italiani. Sulle pagi­ ne della «Nazione» se la prende con i programmi «invecchiati»

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CRONOLOGIA DELLA VITA E DELLE OPERE

delle stagioni liriche fiorentine, proponendo la rappresentazione di opere diverse dalle solite (Gioconda, Tosca, Bohème, ecc.), qua­ li, ad esempio, Boris, Ariane et Barbableu, Elettra, Salome.

19T7 Nominato insegnante di armonia, composizione, estetica e storia della musica nella «Nuova Scuola di Musica» istituita a Firenze da Eugeni* Galewska, al termine dei corsi offre un concerto di chiusura in cui viene eseguito il Trio in la minore per pianofor­ te violino e violoncello di Ravel, da lui precedentemente presen­ tato in prima italiana all’università popolare. A dicembre viene chiamato alle armi e, dopo un concerto d’ad­ dio, parte, destinato alla caserma di Avenza. 1919

Gennaio. Inizia la collaborazione al «Resto del Carlino» come titolare della rubrica musicale, recensendo da Roma la prima ita­ liana del Trittico di Puccini. A novembre, a Bologna, subisce un’aggressione da parte di alcuni membri dell’orchestrale che - da poco riunitisi in Società - si erano ritenuti danneggiati per una sua stroncatura della Nona di­ retta da Guarnieri. Intanto ad aggravare la sua posizione di fronte all’opinione pubblica, oltre alla marcata vis polemica e alla schiet­ tezza dei suoi interventi, c’era la «vergogna» dell’omosessualità. In segno di solidarietà Missiroli - direttore del giornale - fa pub­ blicare l’opuscolo Critica e pubblico, contenente gli articoli, la cronaca dei fatti, le numerose lettere e telegrammi di stima nei confronti del critico e in difesa della libertà di stampa. Tuttavia Bastianelli ha subito un trauma decisivo per la sua vita futura e lascia Bologna per Siracusa («i meravigliosi ozi siculi», scrive a Cicognani), dove completa lo studio Sull’Opera.

1920 A metà gennaio abbandona «quei divini posti» e torna a Firenze, ospite di Baccio M. Bacci e della moglie Tilde. Compone la So­ nata per violoncello e pianoforte e la Suite in omaggio alle ma­ schere italiane. Compare tra 1 fondatori della rivista «L’Enciclo­ pedia» insieme con Primo Conti, Raffaello Franchi, Pavolini e Agnoletti. 1921

Presso Vallecchi esce L’Opera e altri saggi di Teoria Musicale. Trasferitosi a Cento, dalla sorella Giulia, spera di poter passare a Milano. Prega perciò Cecchi di raccomandarlo. Ottiene di en­ trare al «Convegno», la rivista di Enzo Ferrieri che organizza an­ che manifestazioni musicali. In queste occasioni presenta concerti di Ravel e Casella. Una monografia su Bellini, progettata per con­ to dell’editore Facchi, non vedrà mai la luce.

1922

Per interessamento di Riccardo Bacchelli rientra al «Resto del Carlino»: « Il " Carlino ” mi serve più da revanche morale che da altro, tanto però mi obbliga a vivere presso Bologna mentre il mio sogno è sempre andare vicino a Milano». Pubblica su «Criti­ ca musicale», diretta da Luigi Parigi, una densa serie di saggi sulla «musica pura» e sulla rivista di studi religiosi «Bilychnis» un lungo articolo su La polifonia religiosa, il canto gregoriano e la Chiesa Romana nel Medioevo e nel Rinascimento.

CRONOLOGIA DELLA VITA E DELLE OPERE

XXIII

1924

Si aggravano le sue condizioni di salute. Nel tentativo di recupe­ rare una certa serenità parte nuovamente per la Sicilia ma a Ca­ tanzaro, in giugno, tenta il suicidio. Si risveglia al manicomio di Crotone, e dopo alcune cure viene rimandato a Cento.

1925

Agosto. Nel convento francescano della Verna, presso Arezzo, comincia a stendere II nuovo àio della musica. Si ritira quindi a lavorare in una pensione di Casalecchio sul Reno, ma non paga il conto e viene denunciato con il sequestro di tutti i suoi averi, compresi i manoscritti e i libri. Il processo è evitato dai fratelli, che provvedono a saldare il conto. Il materiale viene restituito.

1926 Dopo aver ripreso il lavoro a Cento, accetta l’insistente invito di padre Odorico Caramelli di trascorrere qualche tempo nel con­ vento di San Francesco a Fiesole. Cacciato dal convento (forse per essere stato colto in rapporti intimi con un frate), su consi­ glio di Bacci e d’accordo con la famiglia parte per Capri dove continua a lavorare al Nuovo dio. 1927

In poco tempo la somma destinata al suo sostentamento non gli basta piu. Chiede denaro. Bacci, irritato, non gli risponde. Arre­ stato per vagabondaggio viene rimandato a Firenze con il «foglio di via». È in condizioni penose e senza un soldo. Fa brevi appari­ zioni al celebre caffè delle «Giubbe Rosse»: «Era capace di stare fuori di casa due o tre giorni di seguito senza dormire e senza mangiare, errabondo per la campagna. [...]. Poi qualcuno lo ri­ conduceva a casa in uno stato pietoso» (Viviani). Rapini lo aiuta anche economicamente. «Soiaria» pubblica un estratto del Nuovo dio della musica (Malipiero) e un breve intervento contro le illu­ sioni cinematografiche. Ma Bastianelli non riesce a concludere il volume: «Dio è stanco di me. La mia volontà si è spezzata», scri­ ve a Caramelli. In settembre si reca a Tunisi insieme col pittore Franchetti. Suona nei locali notturni. Per un diverbio lascia l’amico e si stabilisce in un albergo di rue d’Espagne. La sera del 19 settembre viene trovato agonizzante. Due giorni dopo muore all’ospedale italiano «Garibaldi», senza aver ripreso conoscenza, per sospetto avvelenamento. Sull’ipotesi del suicidio la stampa avanza alcune riserve. Le richieste d’informazioni fatte all’istituto di Cultura di Tunisi e alla locale ambasciata italiana non hanno ottenuto che risposte negative. L’articolo Una morte misteriosa (in «L’Unione», 23 settembre 1927) riporta, infatti, le dubbie dichiarazioni di un tunisino, suo intimo amico, secondo il quale Bastianelli avrebbe incassato la mattina del 19 la somma di mille franchi e si sarebbe ritirato la sera nella sua stanza in compagnia di una donna.

Opere di Giannotto Bastianelli

Opere edite. Pietro Mascagni, Ricciardi, Napoli 1910. Poemi e Musiche, Pulini, Montevarchi 1910. Dal Terzo Libro di Poemi e Musiche, Pulini, San Giovanni Valdarno 1910. La crisi musicale europea, Pagnini, Pistoia 1912 [ora ristampato con una introduzione di G. Gavazzeni, Vallecchi, Firenze 1976]. Il Parsifal di Wagner, Gonnelli, Firenze 1914. Saggi di critica musicale, Studio Ed. Lombardo, Milano 1914. Critica e pubblico, ed. a cura del «Resto del Carlino», Bologna 1919. L'Opera e altri saggi di Teoria Musicale, Vallecchi, Firenze 1921. Il Natale del Redentore, Rinaldi, Firenze 1927. Il nuovo dio della musica, postumo, Einaudi, Torino 1978. Opere inedite. Manuale Storico-Estetico di Armonia, in Crisi musicale europea. Proba­ bilmente i saggi apparsi sulla «Nuova Musica» fra il 1913 e il 1914 intorno alla Armonia intesa come una glottologia musicale facevano parte di questo progetto. La coltura tragica, primo volume, contenente saggi di opere musicali di vari autori, ivi. L'Opera - studio estetico, in Saggi di critica musicale. Fino dal 1914 Ba­ stianelli pensava dunque a uno studio sull’opera comparso solo nel 1921. Trattato di armonia (come saggio di riduzione dell’armonia a una glot­ tologia musicale), ivi. La coltura tragica, saggi di critica filosofica, ivi. La Vita Vecchia, romanzo lirico, in L'Opera e altri saggi. La musica modernissima italiana, ivi. Forse parte di questo progetto è confluito nei Commentari, a cura di M. Omodeo Donadoni, Olschki, Firenze 1974, pp. 77-96. L'opera italiana da Bellini a Boito, da una lettera a Cecchi del 4 ottobre 1920.

XXVI

OPERE DI GIANNOTTO BASTIANELLI

La musica pura (seguito allo studio sulla teoria dell’opera), da una let­ tera a Cecchi del 13 ottobre 1921. L'armonia come una glottologia musicale, ivi. Tangenti giornalistiche, lettera a Cecchi del 4 ottobre 1920. Libro sopra Verdi e in generale sull'opera dell'800, lettera a Prezzolini, settembre-ottobre 1910. La riforma dell'armonia, lettera a Bruno Cicognani del 4 gennaio 1920. Lettera personalissima, ivi. Cfr. anche L'Opera cit., pp. 62 e 104. Composizioni musicali. Prima Sonata per pianoforte, Venturini, Firenze 1910. Seconda Sonata per pianoforte, ivi. Terza Sonata per pianoforte, in «Dissonanza», 1914 fase. ni. Sonata per violino e pianoforte, ivi.

Nota bibliografica

M. silvani, Giannotto Bastianelli: Pietro Mascagni, in «La Rinascita Musicale», luglio 1910. g. BELLio, Un libro su Pietro Mascagni, in «Musica», io luglio 1910. F. Longo, Francia e Italia nel movimento musicale, ivi, 11 febbraio'1912. A. Bonaventura, Da Firenze, ivi, 31 marzo 1912. Recensione al primo concerto di Bastianelli. 1. pizzetti, La musica di Giannotto Bastianelli, in «La Nuova Musica», io aprile 1912. id., La crisi musicale, in «La Voce», 26 settembre 1912. A. damerini, La logica estetica di G. Bastianelli, in «Musica», 26 gen­ naio 1913. F. B. pratella, Contro il «grazioso» in musica e di altro ancora, in «Lacerba», 15 maggio 1913. Polemica con Bastianelli a proposito del «grazioso». anonimo, G. Bastianelli al Liceo di Venezia, in «Musica», 8 giugno 1913. o. chilesotti, L. Parigi: La nouvelle critique musicale italienne, in «Rmi», 1914. aa.vv., La musica contemporanea in Europa, Bottega di Poesia, Milano 1925. g. pannain, nel saggio Estetica e musica nella recente cultura italiana, prende in esame DOpera e altri saggi confutando in parte le «contorte» argomentazioni di Bastianelli. gaianus, Bastianelli critico, nel «Resto del Carlino », i° ottobre 1927. r. franchi, Giannotto Bastianelli, in «Soiaria», ottobre 1927; poi inclu­ so in Memorie critiche, Parenti, Firenze 1938. l. Parigi, Giannotto Bastianelli, in «Il Pianoforte», 1927. d. PETRiNi, Doperà nel pensiero di Giannotto Bastianelli, in «La Rasse­ gna Musicale», 1929. e. cecchi, Lettere di Giannotto Bastianelli, in «Circoli», 1935. Cecchi pubblica alcune lettere di estremo interesse riguardanti il periodo 1909-12. A. hermet, La ventura delle riviste, Vallecchi, Firenze 1941. f. flora, Storia della letteratura italiana, 2 voli., Mondadori, Milano 1950. L’unico accenno all’attività poetica di Bastianelli.

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NOTA BIBLIOGRAFICA

M. mila, Le correnti musicali nell’ultimo cinquantennio in Italia, in «Ulisse», 1951. M. marangoni, Capire la musica, Garzanti, Milano 1953. L. AMBROSiNi - G. de robertis - A. grilli, Epistolario di Renato Serra, Le Monnier, Firenze 1953. In una lettera del marzo 1915 Serra giu­ dica interessante ma «troppo specialistico» l’articolo di Bastianelli sulla «Voce» a proposito delle Sonate di Skrjabin. p. fragapane, Spontini, Sansoni, Firenze 1954. g. gavazzeni, La musica e il teatro, Nistri e Lischi, Pisa 1954. e. cecchi, Eiorentini del primo Novecento, in «Nuova Antologia», apri­ le 1955; poi incluso, col titolo Amici, in Libera cattedra di storia della civiltà fiorentina: l’8oo e il 900, Sansoni, Firenze 1957, ora anche in Letteratura italiana del Novecento, Mondadori, Milano 1972, pp. 665-77. uno dei ricordi piu vivi della personalità di Bastianelli, uomo e artista. l. ronga, Bach Mozart Beethoven, Neri Pozza, Venezia 1956. A. casella, I segreti della giara, Sansoni, Firenze 1957. Riferisce l’epi­ sodio del concerto con Bastianelli a Parigi, sul quale cfr. anche Al­ fredo casella, «Symposium», a cura di G. M. Gatti e F. D’Amico, e g. f. malipiero, II filo d’Arianna, Einaudi, Torino 1966. M. bontempelli, Passione incompiuta, Mondadori, Milano 1958. Alcuni articoli raccolti nel volume riguardano Bastianelli, le cui capacità fu­ rono individuate da Bontempelli fin dall’inizio; valga per tutti Cri­ tici musicali, in «Marzocco», 2 ottobre 1910. g. chiavacci, Introduzione alle Opere di Carlo Michelstaedter, Sansoni, Firenze 1958. Chiavacci riferisce dell’entusiasmo di Michelstaedter nell’ascoltare Beethoven suonato da Bastianelli. M. borghi, Baccio Maria Baccì, tipografia San Giuseppe, Roma 1958. È il volumetto-catalogo per i 70 anni di Bacci con notizie biografiche. b. cicognani, Le fantasie, Vallecchi, Firenze 1958. Cicognani ci restitui­ sce un efficace ritratto di Bastianelli nel periodo di Montereggi. L. ronga, L’esperienza storica della musica, Laterza, Bari i960. «La Voce» 1908-1916, a cura di G. Ferrata, Landi, Roma 1961. L’anto­ logia include il saggio «vociano» di Bastianelli su Mozart. A. della corte, La critica musicale e i critici, Bona, Torino 1961. f. d’amico, I casi della musica, il Saggiatore, Milano 1962. A. viviANi, Giubbe Rosse, Barbera, Firenze 19642. h. Giordan, Romain Rolland et le mouvement fiorentin de La Voce, Mi­ chel, Paris 1965. Utili testimonianze su Bastianelli contenute nel carteggio di Rolland. L. pestalozza, Introduzione alla Antologia della Rassegna Musicale, Feltrinelli, Milano 1966. G. prezzoline II tempo della «Voce», Longanesi-Vallecchi, Milano-Firenze 1966. l. ronga, Arte e gusto nella musica, Ricciardi, Napoli 1966. A. PiROMALLi, Michelstaedter, La Nuova Italia, Firenze 1968.

NOTA BIBLIOGRAFICA

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E. tubini, L’estetica musicale dal Settecento a oggi, Einaudi, Torino 19682. f. T. Marinetti, Lettere ruggenti a F. Balilla Pratella, a cura di G. Lugaresi, Quaderni dell’osservatore, Milano 1969, Interessante per i ri­ ferimenti a Bastianelli e i suoi rapporti col futurismo. r. mariani, Socialità nel gusto di Mascagni, conferenza tenuta al Conve­ gno di studi sul verismo musicale, Castell’Arquato (Piacenza), 8 no­ vembre 1969 [contenuta in r. mariani, Verismo in musica e altri stu­ di, a cura di C. Ozoelli, Olschki, Firenze 1976, pp. 98-105]. B. M. bacci, R. Rolland Pizzetti e Bastianelli, in «Giornale di bordo», dicembre 1969. L. Dallapiccola, Appunti Incontri Meditazioni, Suvini Zerboni, Milano 1970. Una breve nota relativa alla «Pagina di Diario» del 2 gennaio 1942 in cui l’Autore confuta il parallelo Strauss-Rabelais istituito da Bastianelli nella Crisi, M. OMODEO donadoni, Scritti inediti di Giannotto Bastianelli, in «Nrmi», giugno 1971. La Donadoni pubblica brani di una prima stesura del Nuovo dio della musica. b. m. bacci, Parigi 1913, in «Giornale di bordo», 1971. Bacci riporta una lettera a Bastianelli del 12 aprile 1913 e una breve scheda biografica. M. de angelis, Giannotto Bastianelli e la critica italiana nel primo Nove­ cento, in «Lo spettatore musicale», gennaio-febbraio 1972. g. luti, La letteratura nel ventennio fascista, La Nuova Italia, Firenze 1972. Chigiana, Olschki, Firenze 1972. Il volume raccoglie gli Atti della Tavola Rotonda su Giannotto Bastianelli nell’ambito della XXVIII Settima­ na musicale senese, con interventi di L. Pinzanti, L. Baldacci, M. Mi­ la, F. D’Amico e comunicazioni di R. Bacchelli e M. de Angelis. In­ clude inoltre studi su G. Bastianelli di G. Prezzolini, M. Omodeo Do­ nadoni e M. de Angelis, alcuni inediti e articoli ristampati. g. Martinotti, Ottocento strumentale italiano, Forni, Bologna 1972. m. omodeo donadoni, Bastianelli e Skrjabin, in «Paragone», agosto 1972. M. de angelis, Componenti metodologiche nella critica italiana del pri­ mo Novecento, in «Lo Spettatore musicale», novembre-dicembre 1972. id., Contro il «grazioso» in musica. Documenti sul futurismo musicale fiorentino, in «Il Ponte», gennaio 1973. La polemica fra Bastianelli e i futuristi. r. LUPERiNi, Letteratura e ideologia nel primo novecento italiano, Pacini, Pisa 1973. L’impegno culturale di Bastianelli valutato da un critico marxista. p. agostini bitelli, I miei amici musicisti, Montanari, Cento 1973. Con un prezioso ricordo di Bastianelli durante il drammatico soggiorno a Casalecchio. l. baldacci, Libretti d’opera e altri saggi, Vallecchi, Firenze 1974. Con­ tiene il denso e acuto saggio La mente critica di Giannotto Bastianelli, preparato per la Tavola Rotonda a Siena.

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NOTA BIBLIOGRAFICA

g. bastianelli,

La musica pura. Commentari musicali e altri scritti, a cura di M. Omodeo Donadoni, Olschki, Firenze 1974. Il volume pre­ senta inediti e un’abbondante scelta di articoli e saggi fra i quali l’importante serie sulla Musica pura, comparsa nella «Critica musicale» nel 1922. G. gavazzeni, No« eseguire Beethoven, il Saggiatore, Milano 1974. Gavazzeni riporta ricordi di Bastianelli registrati durante colloqui con Bacchelli e Gui. L. PiNZAUTi, Puccini: una vita, Vallecchi, Firenze 1974. Con una breve «scheda» di Bastianelli e i suoi giudizi per la prima italiana del trit­ tico. Scritti musicali di Silvio Benco, a cura di G. Gori e L. Gallo, Ricciardi, Milano-Napoli 1974. In una nota all’articolo Contro il tempo che fugge, i curatori invitano a un confronto fra le colte posizioni di Ba­ stianelli e quelle di Benco su Strauss. G. prezzolimi, La Voce 1908-1913, Rusconi, Milano 1974. U. carpi, La Voce: letteratura e primato degli intellettuali, De Donato, Bari 1975. e. cecchi, Taccuini, Mondadori, Milano 1976. r. bacchelli, Disperazione d’uomo e d’artista, in «Corriere della Sera», 29 giugno 1976. Bacchelli fornisce utili particolari sull’aggressione bolognese e àtri commoventi ricordi personali. Si raccomandano anche le voci enciclopediche di F. D’Amico in Enci­ clopedia dello spettacolo e di R. Meloncelli, in «Dbi», nonché quella in corso di stampa della « Grove » a cura di J. Waterhouse.

Avvertenza Durante la complessa e faticosa correzione delle bozze mi sono attenu­ to scrupolosamente all’originale manoscritto; che purtroppo però non possiedo interamente. Là dove non avevo il conforto dell’originale, ho cercato di sciogliere «ad sensum» i numerosi enigmi del testo. Ho co­ munque riportato in nota l’intera frase cosi come si presentava nelle boz­ ze e riprodotto parole incomprensibili e fuorviami entro parentesi qua­ dra. Il lettore potrà così verificare la mia interpretazione. Nella ricostru­ zione del periodo, ho ritenuto indispensabile eliminare l’uso delle lineet­ te, che avrebbero reso ancor piu sibillino il discorso. Per quanto riguarda vocaboli come accestire, àpata, sprocco, panciafichismo ecc., ho creduto opportuno aprire una nota esplicativa. L’uso frequente dei toscanismi (estiva, ubriacatura, abbiosciare ecc.) è stato ovviamente rispettato, mentre ho aggiunto Vacca alla voce del verbo avere, avendo Bastianelli l’abitudine di usare Va accentata. Quanto alla divisione del volume, l’autore aveva indicato il titolo del­ la prima e della quarta parte; di conseguenza, la seconda e la terza sono state intitolate prendendo spunto dal contenuto della sezione. Così per i titoli mancanti dei capitoletti.

nota

BIBLIOGRAFICA

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Desidero ringraziare tutti coloro che mi hanno messo a disposizione documenti, lettere o rilasciato preziose interviste: Baccio M. Bacci, Bru­ no e Dante Cicognani, Suso Cecchi d’Amico e Fedele d’Amico, Leonetta Cecchi, Giuseppe Prezzolini, Riccardo Bacchelli, Vittorio Gui, Primo Conti alcuni purtroppo oggi scomparsi. Un ringraziamento del tutto particolare ai congiunti di Bastianelli, a Luigi Hermet per la generosa collaborazione e a Massimo Mila che ha cre­ duto nella validità dell’inedito spronandomi alla pubblicazione.

IL NUOVO DIO DELLA MUSICA

Parte prima La crisi della critica

I.

Intenzione d’intimità

Il difetto di un po’ tutti i nostri libri di pensiero sta nell’inipastoiato sussiego del loro tono: tono cattedrati­ co, da tesi di laurea, da discorso accademico, da articolomattone, da concione avvocatesca. Certo con un libro d’e­ sperienza eccezionale e quindi — per i piu - di conclusioni, anche nella loro legittimità e spontaneità, eccezionali, il fatto di rivolgersi a un numero di persone selezionato dal­ la stessa materia e perfino dal criterio con cui verrà espo­ sta, fa sì che pretendere in qualsiasi modo a un successo librario è star sicuri d’ottenere il risultato opposto. Tutta­ via, in quest’epoca di scarsissima potenza d’applicazione e — in quanto alle cose dell’intelletto — di morbosa indisci­ plinatezza dispersiva, m’è accaduto spesso di sentir dire — d’un competente in qualunque materia — che lo si capi­ sce più quando parla che quando scrive. E di questo — che potrebbe anche voler dire come oramai si sia perduta l’arte di saper leggere — non va poi data tutta la colpa all’epoca svagata e che so io. La viva parola sarà sempre più attuale d’ogni scritto per brillante e convincente che sia e qualunque scrittore quando parla con chi lo può capi­ re o deve finire per capirlo, cioè con quelli che credono in lui o con quelli ch’egli si propone di persuadere a credere in lui, si darà tutto, meglio che quando scrive, in abbando­ no d’intimità all’oggetto che vuol definire, né lo raffredde­ ranno preoccupazioni di trattar bene la materia; ma quel che ha da dire gli sgorgherà vivace e attraente in tutta la naturalezza delle prime scoperte e nel fresco e rivelatore giuoco di chiaroscuri e di risalti con quelle contingenti e

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LA CRISI DELLA CRITICA

superflue questioni a latere, che si dicono oziose, ma che in realtà ogni buon maestro del pensiero sa non esser me­ no necessarie al tema dominante d’una qualsiasi ragione di muoversi perché un bel corpo esperimenti la sua elasti­ cità. Ora con questo non vorrei dire che spontaneità deb­ ba coincidere con improvvisazione — sarebbe superficiali­ tà. Però - in tutti i casi - anche e in ispecie tenendo pessimisticamente conto che se da un lato l’epoca si va facendo sempre più distratta e svagata (per esempio, dal­ la politica, dallo sport), dall’altro la buona materia si va facendo sempre più riposta e rara come i filoni d’oro in un terreno troppo sfruttato, la miglior tecnica dello scrive­ re - oggi almeno - è di lasciare un po’ andare la penna secondo le anfrattuosità e gli sbalzi dei passaggi sottinte­ si o ellittici che si usano nel discorrer tra amici. Cogliere il pensiero nella sua più calda e anche agitata intimità - il pensiero come la musica non è detto abbia sempre la fre­ nata ordinatezza d’una fuga di Bach, ma può anche sgorga­ re con il fremito in apparenza caotico d’un allegro di Bee­ thoven o con la rapida ma esauriente parabola d’un mo­ mento musicale di Schumann — coglierlo insomma, code­ sto pensiero, nel sempre vario palpito della sua più vitale intimità - ecco forse il modo più onesto di comunicarlo ai ben disposti. E dicendo intimità, anzi ribadendovi so­ pra, scanso sempre più l’idea anche lontana che di questo pensiero si voglia fare, pubblicandolo, qualcosa per tutti - per chi capisce e per chi no - da università popolare. Intimità vuol dire sincerità non ostentata, assenza di pro­ sopopea, ribrezzo della retorica; anche vuol dire semplici­ tà, se non proprio di quella sancta dei fanciullini, per lo meno di quella aristocratica nel migliore e sereno senso della parola. E per ciò stesso non esclude una certa dottrinarietà sopportata - anche da chi scrive — come inevitabi­ le. Termini e concetti in uso o di moda - volerli soppianta­ re con idee e parole troppo soggettive, si rischia di non esser capiti neppure da chi li ha presi in odio perché con­ venzionali. Tuttavia nel modo con cui germina e produce la sua messe di riflessioni e di giudizi una mente fervida e coraggiosa, ci sarà sempre un tale miracolo d’istinto musi­

INTENZIONE D’INTIMITÀ

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cale, di senso armonico, di disposizione alla folta polifo­ nia logica (mi si passino le immagini tolte al linguaggio musicale), che sarebbe avventatezza e mancanza di carità verso se stessi non cercar di rispettare il più possibile, le quasi irrimediabili genealogie dei pensieri e le loro un po’ sempre impervie gerarchie — i pensieri, come le armonie e i temi nella musica, si evocano fra loro con mutua in­ fluenza d’attrazioni vorrei dire medianiche e tutte le pre­ sunte regole per ben ragionare — valga per tutte la cele­ bre procedura del sillogismo - hanno finito per confessar­ si impari al loro compito che è di servire non di tiranneg­ giare il pensiero (il pensiero è una musica, non un’opera­ zione di calcolo; è una musica, se non proprio orecchiabi­ le alla Ponchielli, per lo meno polifonica e complessa, seppur retta da un intimo e libero lirismo). Imporre cosi a priori lo schema dispotico e violentatore della trattazione quanto si voglia adoprato con la vir­ tuosità d’un dialettico consumato porta inevitabilmente ad incappare nell’odiosa saccenteria della dimostrazione. Una prosa circospetta e persino restia (ci sono giorni che i concetti ci urgono da un profondo più profondo del solito, ma non perderemmo meno il momento giusto a volerne prorogare l’escavazione al giorno dopo) — insom­ ma la prosa coraggiosamente cerebrale, piena zeppa d’i­ dee e, più di tutto, d’insinuazioni sottintesi accenni sugge­ rimenti, perfino dimenticanze di cose —; la prosa d’uno che non è schiavo della democratica ambizione di appari­ re un grande scrittore, ma si propone d’aprirsi con gli altri senza pigliarli per le maniche, piuttosto un po’ con l’ironia di chi spesso non fu capito - parlando a troppi di cose per pochi non poteva esser capito — e ci s’è abituato; ecco ciò che più di tutto ci vuole per comunicare (non so se il meglio che sia o che sia stato possibile in tempi diversi dal nostro ma certo quello che, come ho già detto, oggi mi pare il meglio possibile) tutto il buono che anche sulle cose pessime ci riesce di pensare — ed è quel tutto che costa di più. Ammesse dunque le spezzature imprevi­ ste, gli incisi anche i più arditi e magari, apparentemente almeno, arbitrari, le digressioni che irritano i placidi ama­

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LA CRISI DELLA CRITICA

tori dei rettifili. Ammesso anche, come succede ai padri di famiglia per i loro figliuoli, accanto a qualche bel perio­ do snello e slanciato (dato che oggi ci riesca di generarne ancora), un periodo — che ci volete fare? è venuto così! — un po’ rachitico, che piu ci si sta attorno, piu vengon fuo­ ri cose belle e difetti — è nei rachitici che generalmente sovrabbonda l’intelligenza. Scrivere con tutte le gradazio­ ni della sincerità, dal fluido al condensato, così come ci vien fatto di pensare, con facilità o con difficoltà - sem­ pre con convinzione. Che fare oggimai che siam venuti su con così scarsa preparazione di disciplina (oh frutti, in tutti i campi, della rousseauiana soggettivistica anarcoide libertà ottocentesca!) che fare - domando - se non addur­ si, alla men peggio, o almeno cercare d’addursi, a virtu i nostri difetti irrimediabili? E dunque, siamo così corag­ giosi da aver tanta umiltà per fare il miglior uso che si può di certe irregolarità che la scuola non ha valso ad estirpare dal nostro stile e l’esempio dei liberissimi e trop­ po autodidatti maestri moderni dello scrivere ha in noi ormai, in modo indelebile ribadito. E ciò un po’ rassegna­ tamente — se volete — dimessamente, senza la boria di voler essere capiti ad ogni costo, né per sentirsi dire; «co­ me vi siete spiegato bene! », ma affinché capiamo bene — noi — prima di tutto. Dato che non è davvero più possibi­ le che ci fingiamo d’essere quello che non siamo più — dei grandi, degli atletici scrittori, sebbene dei dispersivi rincorritori di un tema o, al massimo, degli escavatoti di poz­ zi artesiani d’idee, abbiamo almeno un po’ di modestia, si­ gnori trattatisti, dopo che, oltre tutto, ci arroghiamo — chissà poi con quanta giustizia — di saperne più degli altri sopra un dato argomento! E così pure - fante de mieux — condiscendiamo ad un uso un po’ più disilluso e paziente di quella traditrice libertà di cui non sappiamo più far senza, ma che almeno ci serva a saltare il più one­ stamente possibile di palo in frasca, giusto quando pro­ prio senza quella frasca là, il palo sarebbe troppo sterile e ignudo! Insomma — come oggi molto si dice, ma poco si riesce - cerchiamo d’« esser noi» più che si può, a costo anche d’abbassare la voce al punto che gli altri, non sen-

INTENZIONE D’INTIMITÀ

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tendoci piu, siano costretti a raddoppiare d’attenzione. In certi casi, quando (come vorrei far io in questo libro) scrivendo si discorre piu che non si badi al piacere di filare dei bei periodi starei per dire cantabili, ci vorrebbe a momenti la didascalia che si usa per la recitazione d’un dramma: — «come parlando a se stesso». Giacché giova subito dichiararlo: se qualcosa di buono, secondo la mia esperienza, ha compiuto la nostra isterica umanità moder­ na, è stato proprio quel suo risoluto impegnarsi, a riguar­ do di qualunque oggetto, soggettivamente — troppo, sia pure, ma con pieno coraggio della propria soggettività — al punto da farne saltar fuori l’esigenza d’un’oggettività piu vasta e piu esauriente di quella che apparve definiti­ va ai filosofi tradizionalisti — un’oggettività che tenga con­ to della nuova coscienza di sé che ormai ha acquistato il soggetto dopo tanto martirio, appunto — d’autocoscienza — nuova coscienza di sé che non nega anzi esige una subor­ dinazione anche piu di prima aderente a ciò che oggi si chiama «oggetto degli oggetti», assoluto oggetto — e che è, cattolicamente, Dio. Insomma la verità, anche quella in apparenza piu lontana da noi, piu estranea a noi, non è mai eterna, sibbene così interna, così in noi, che neppure il midollo della nostra spina dorsale le si può approssima­ tivamente paragonare. I piu fieri nemici d’ogni immanen­ za assoluta ed assolutamente prigioniera del presuntuoso microcosmo umano — i teologi — non pongono già la voce della Rivelazione Divina in alto, in mezzo al cielo, come un immenso altisonante che promulghi il comando d’un despota conculcatore, ma ammettono ch’essa sgorghi in mezzo al cuor nostro zampillante più tacita e gelosa d’un segreto d’amore. Eppure si vedrà — ed anche questo è bene dirlo subito — che ad onta di questo mio immenso rispetto per la bellezza dell’intimità e per il buon diritto della realtà interiore su quella esteriore, rispetto che or­ mai mi pone in guardia contro ogni scrittore, pittore, mu­ sicista, pensatore e perfino uomo d’azione che l’abbia per qualunque ragione — codesto buon diritto — violato, io sento profondamente la legittimità della crisi antisoggetti­

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LA CRISI DELLA CRITICA

vista e antindividualista traversata oggi dall’Italia — in ciò alla testa di tutte le nazioni del mondo. Questo esordio ci voleva per spiegarmi bene e subito come scrivere questo libro. A me è toccata la ventura di fare per una dozzina d’anni il giornalista1, e - volente o nolente — di parlare al pubblico e un po’ dunque per il pubblico — e quindi spesso col tono sforzato che ci vuole per farsi sentire da molta gente. È naturale che ora, in questo libro - in casa mia cioè e non coram popolo - io parli come più mi vien fatto di parlare. Dopo qualche pagina, il lettore o farà l’abitudine a come tratta il padron di casa, o prenderà il cappello e se n’andrà — ossia chiuderà il libro. Per quanto dubito fortemente che il sa­ pore polemico e mordace della mia strana conversazione non abbia a trattenere specialmente coloro che avran volu­ to farmi visita per dimostrarmi alla prima occasione che non la pensano — non l’hanno mai pensata — come me. Per tutto ciò il libro potrà benissimo aver l’aria d’un giornale d’appunti intorno all’oggetto che più mi ha ap­ passionato tutta la vita — la musica — ma alla musica in quanto centro d’assimilazione e di trasformazione di tut­ te le mie attitudini spirituali — la musica, dirò cosi, come punto geodinamico della mia coltura. Voglio dire che pur essendo un coltivatore devoto e premuroso della musica, non tralascio per i suoi fiori - e per i belli e per i men belli — di mettere in pratica il dettato del mistico: «Sappi vedere in ogni fiore tutta la Creazione»; anzi, dopo d’a­ ver riconosciuto nella realtà magica dell’opera d’arte — e quindi anche della musica — l’iniziazione a tutti gli enig­ mi e misteri della vita umana, gli interessi che essi in me suscitano, pur non alterandone la graduatoria dei piani secondo cui si dischiarano nel mio spirito, mi faccio scru­ polo di non voler mai lasciarli in ombra del tutto. Non per nulla ho detto di volermi permettere tutte le più alme­ no in apparenza oziate e divertite digressioni - e ciò a vantaggio del soggetto stesso, che come si vedrà, per com­ prenderlo alla fine in poche parole, bisognerà prima aver­ cene spese intorno parecchie. Altro pregiudizio del tratta­ tista è quello dell’economia generale d’un lavoro per cui

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II

talvolta col voler servire al pubblico soltanto ciò che si crede imbandigione solida e nutriente, se ne scarta trop­ po rigidamente qualunque contorno. Chi ha pratica di li­ bri di pensiero sa che il più delle volte noi cogliamo all’im­ provviso la quintessenza del loro argomento niente affat­ to dall’esposizione del tema principale per messa bene in luce che sia, ma per la vivificazione prodotta dal più in apparenza estraneo dei suoi accessori. Un libro, allora — soprattutto analitico, diffusivo, di­ spersivo - in cui ogni pensiero tende a fare un cammino centrifugo. - Come? — mi pare di sentirmi obbiettare. Dichiarate la vostra epoca distratta e svagata e poi voi stesso — con tutte le vostre pretese d’intimità - vi mette­ te a scrivere un libro più disordinato e svagato dell’epoca stessa? Risponderò: — L’epoca è dispersiva e centrifuga dirò così in larghezza e in altezza — il mio libro lo sarà in profondità. L’epoca tende a diffondersi «al di fuori», — ad essere esteriore, — il mio libro tenderà ad irraggiarsi «al di dentro» — ad essere interiore. E così sarà un libro d’abbondante fantasticheria critica, se fantasia e critica non fossero due termini il cui ravvicinamento costituisca — per i più — un paradosso. Ma dai più in questo genere di cose che non servono a vangare la terra o a mandare avanti un’industria, c’è sempre da aspettarsi che tutto quello che non è un’opinione da ripetersi a pappagallo come le canzonette di moda (in questo momento Valen­ cia) sia in odore di paradosso.

II.

Elefantìasi dell’ultima critica italiana1

So bene che oggi siamo stufi d’analisi, siamo in legitti­ mo sospetto della critica. La critica è soprattutto negazio­ ne2, spregiudicatezza, vaglio, valutazione e, quando non metta in forse la stessa esistenza estetica dell’opera d’ar­ te, ne può sempre con irriverente indifferenza compromet­ tere il fascino a volte secolare insinuando un’obiezione ovvia quanto si vuole, ma non per questo meno inquietan­ te e corrosiva proprio perché sempre lasciata per il passa­ to sottintesa al punto d’essere come ignorata dai piu: che quell’opera d’arte, anche se pienamente sentita e stupen­ damente realizzata, ha cionondimeno contorni oltre i qua­ li non è, ha cioè la sua prigione di limiti al di là dei quali sarebbe follia desiderare che essa giungesse — il che non toglie che la critica non ne faccia, determinandoli, deside­ rare il superamento, come se — per quanto inevitabili — costituissero difetto. E difetto in un certo senso — a torto od a ragione — finiscono per costituire. Nulla esiste di perfetto nelle manifestazioni dell’attività umana. L’infini­ ta domanda della vita infinitamente in noi trascende la finitezza delle realizzazioni con cui si cerca di rispondere più o meno potentemente ad essa domanda. La critica — che è poi la nostra potenza d’arricchire di sempre più va­ ste negazioni (e neppur queste mai però complete ed esau­ rienti, ma sempre relative alla nostra fondamentale insuf­ ficienza3) - ci fa comportare con le opere d’arte come coi nostri conoscenti per il loro valore più cari, di cui da pri­ ma non vediamo che le buone qualità; poi — a forza di viverci insieme in comunione d’intimità — siamo costretti

L’ULTIMA CRITICA

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a vedere nella piu o meno potente struttura della loro personalità un limite che vorremmo ardentemente ch’essi superassero e superassero proprio in ragion diretta del­ le esigenze che quello stesso loro valore — e l’entusiasmo che in noi ne divampa - ci autorizza ad avere nei riguardi della loro attività. In questo senso la critica non può non coincidere colla nostra fondamentale scontentezza sem­ pre pronta a scaturire e imminente a scalzare la base ai monumenti che in cuor nostro innalziamo a idoli spesso tanto abbacinanti quanto effimeri4. Per tutto ciò - e per tant’altro ancora - è impossibile che la critica non risulti alla fin fine qualcosa di fastidio­ so, qualcosa di deprimente e d’offensivo — e tanto più quando divenga moltissima, diciamo pure troppa. E dav­ vero in questi ultimi tempi la critica era divenuta esorbi­ tante, invadente, arrogante. Come tutte le mode contagio­ se peggio d’una malattia infettiva ha finito per suscitare in Italia una reazione che, insieme con la reazione alla strapotenza della stampa (in regime democratico, niente­ meno che il quarto potere!) ha suscitato perfino - sinto­ mo dei tempi piu risentiti — esplosioni di violenza. Senza voler dar ragione né torto alla prepotenza che — in linea d’asserzioni spirituali — non modifica in nulla la giustizia dell’asserto, è un fatto che — in parte per ragioni costituti­ ve, in parte per esagerazioni ed arbitri dei suoi attuatoti, la critica faceva troppo aperta professione di demolizio­ ne. O, almeno, di questa sua che per i profani è attitudi­ ne alla stroncatura perpetua — e cioè alla ricerca, quando non di peggio, del limite e alle piu o meno minatorie insi­ nuazioni che il critico traeva dall’esistenza di questo limi­ te nella personalità dell’artista criticato — ci si serviva, ahimè, spesso e volentieri — magari soltanto da parte di chi leggeva — per intenti affatto estranei all’idealità della critica stessa. E ciò soprattutto nel giornalismo dove, vo­ lente o nolente il critico compie, per le affermazioni anche della più disinteressata impersonalità, una reazione un po’ simile a quella operata da un acido su certe sostanze chi­ miche - ne fa un precipitato, dirò cosi, di contingenza. In virtù di che l’osservazione negativa anche la più esente

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LA CRISI DELLA CRITICA

da malanimo personale, stampata sopra un giornale, assu­ me, agli occhi degli interessati, un valore pratico più gra­ ve d’una offesa in una pubblica via. Tutto sommato — avesse o no ragione, caso per caso, la critica degli ultimi tempi — un torto, davanti a se stessa, finiva sempre per averlo — e ciò indipendentemente dal modo anche nobilissimo con cui veniva attuata - di non esser cioè, ormai, altro che critica. Voglio dire: ogni gior­ no dell’ultimo ventennio si può affermare che tramontas­ se la promessa d’un artista e in sua vece sorgesse la minac­ ciosa penna d’un critico nuovo. Nessuna meraviglia se ce ne siamo disgustati come d’una irremissibile condanna di Sisifo. Non è lecito insomma che da prima due o tre; poi cinquanta; poi cento giovani debuttino non male in arte (credo si contino sulle dita i critici d’arte moderni che all’inizio della giovinezza non abbiano attirato una certa benevola attenzione, magari degli amici, con qualche spe­ cimen artistico più o meno originale e riuscito); e subito dopo, com’è normale che si lascino i calzoni corti per i lunghi, per lo meno da principio si diano tutti a precisare perché si sentano diversi dagli altri artisti - la qual cosa in tempi più innocenti avveniva spontaneamente senza tanto apparato di faticose e metodiche ricerche estetico­ filosofiche, con la semplice e modesta «imitazione dei buo­ ni modelli», sui quali si cercava d’apprendere l’eccellen­ za stilistica, senza finir per fare di loro la vivisezione critica. Così pure non è lecito che tutti codesti transfughi del­ l’arte per seguire la scienza della critica — abituandosi, per merito e colpa di questa vivisezione analitica con una specie di crescente frenetica voluttà a spersonalizzarsi e a mettersi dal punto di vista (come dicono i seguaci della critica idealistica) di tutti almeno i conosciuti e conoscibi­ li artisti, si adoprino - poi - tutti a scadenza fissa - da analizzatori del fatto — a divenire a dirittura filosofi dell’at­ to (in questo caso estetico). E finalmente non è lecito che — detti transfughi dell’ar­ te — dall’esser critici e divenuti tali, i più, per un moven-

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te personale in sostanza anticritico, abbiano addirittura (sempre a scadenza fissa) a deviare in pensatori — e pensa­ tori, tutti — guardate caso! — secondo il verbo e il rito di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile — pensatori cioè secondo un fine antipersonale, ipercritico ed universale — come sarebbe quello di cogliere nella sua intimità essen­ ziale e pura funzionalità ideale l’estetica creatività dello spirito umano, ma non per questo infine meno soggettivi­ stico. Insomma è peggio che illecito che da un pezzo in qua non un artista venga piu in Italia a maturazione semplicemente unicamente artistica; ma che in tutta questa critto­ gamica famiglia di critici e di semifilosofi — i quali, manco a dirlo, costituiscono già la loro rispettabile sottoclasse sociale con relative mansioni per lo piu esplicate attraver­ so la cattedra per eccellenza di tutti, il giornalismo — ci si metta a litigare per fare (bella figura!) a chi è più critico negandosi reciprocamente — com’è pacifico in tutte le cor­ dialissime categorie di professionisti — diritti d’autorità e quindi d’esistenza, oppure, tutti in questo caso alleati, si mettano d’accordo per contagiare della loro stessa malat­ tia chi per avventura ne sia immune o — da poco infetto — dia inquietanti segni di poterla scampare. E certo, anzi, sotto il punto di vista di questo (mi si perdoni l’orribile neologismo) «invaticamento» generale, viene la voglia di domandarci quando il fenomeno dovesse continuare, se non sarebbe bene, — come si è inventato di dare il ramato alle viti contro la filossera, — che s’inventasse anche qual­ che speciale ramato contro la critica — e comincerei a dar­ lo ai cervelli di chi mostri d’avere in gioventù, e in Italia ce ne sono parecchi, tendenze artistiche per non vederse­ le subito subito accartocciarsi in scrittori di critica este­ tica!

III.

La macchia d’olio dell’ultima critica in Italia

L’ultima nostra critica, consapevolmente o no, consen­ ziente o ribelle, era una delle piu tipiche manifestazioni magari come lievito d’opposizione - di quell’idealismo cri­ tico che è stato, si può dire, la postrema propaggine del soggettivismo kantiano spuntata in Italia durante la fiera fermentazione del Risorgimento (basta citare Bertrando Spaventa e Francesco De Sanctis) e — dopo un’interruzio­ ne di arido positivismo — ripresa e sviluppata fino all’esau­ rimento dai primi del Novecento a tutto ieri. E se dopo ogni sbornia d’idealismo — da quello greco di Platone a quello teutone di Hegel — sempre è accaduta una reazio­ ne di positività realistica, sarebbe trarre una conseguenza troppo meccanica il supporre oggi necessario in Italia il ritorno a qualcosa — come un positivismo arieggiarne (tan­ to per intenderci) all’oggettivismo scientifico di Spencer. Piuttosto si tende, almeno per ora, a un imprevisto trapas­ so dal soggettivismo trascendentale divoratore della real­ tà nell’autocoscienza del pensiero (immanentismo) a un oggettivismo tutt’altro che scientifico, sibbene trascenden­ tale (realismo religioso) a sua volta trascendentale nel sen­ so che ammette il soprannaturale; quindi oggi a rigore la parola trascendentale non è propria, avendo ormai preso un significato soggettivistico con conseguente repugnanza alle audacie introspettive dell’autocoscienza e con aper­ to ritorno a una fede intesa soprattutto come normativa dell’azione — una fede più sentita che pensata (anche la fede ammette che la ragione s’inoltri con cautela oltre la mistica soglia dei misteri, ma a un certo punto almeno

LA MACCHIA D’OLIO

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necessariamente preferirà il sentimento all’indagine) — in una parola: la fede cattolica Si può dire che fino a ieri si cercasse il maximum d’introspezione e, intellettualistica­ mente, il minimum d’azione; oggi si vuole il minimum d’introspezione e cristianamente il maximum d’attività realizzatrice. E se è vero che le opere della mente costitui­ scono la piu concreta affermazione pratica dell’artista e del pensatore e le opere pratiche la piu ideale creazione dell’uomo d’azione, oggi si tende a preferire queste a quel­ le. Al contrario fino a ieri — e cioè fino alla formidabile palingenesi rivoluzionaria della guerra — nel campo del­ le opere stesse della mente si preferiva la riflessione sulle opere altrui alla produzione di opere d’arte originali; don­ de si spiega il successo della critica. Qui, per non fare una di quelle lunghe glosse a piè di pagina che ci alienano metà delle più devote adesioni spi­ rituali, apro una digressione. Oggi — al modo stesso che non soffia più vento favorevole per la critica, si combatte una strenua crociata contro la filosofia (intendi soprattut­ to come sistema). Quindi l’uso che qui fo di terminologia filosofica mi disgusterà subito un buon quoziente di quei non molti lettori che il destino forse mi prepara, facendo­ mi prendere per un filosofo — Dio ne scampi — «idealista critico»; e fino a idealista — a parte la fondamentale obbie­ zione a filosofo — intendendo per idealista, così alla buo­ na, uno che sia capace di vivere e morire per un’idea oggi in tempo di fascismo ci si arriverà senza troppe obbiezio­ ni — ma davanti poi a critico ci si ritrarrà arricciando il naso se è possibile, peggio che davanti a professore, acca­ demico, topo di biblioteca, dottrinario, e a qualunque al­ tro termine sinonimo delle più fastidiose forme della reto­ rica umana. Filosofo idealista lo sono stato: tre o quattro libri miei stanno là a testimoniarlo2 — e se filosofo non sia nel mio caso termine proprio, almeno critico appartenente al mo­ vimento idealista non dico di esserlo più, ma debbo dire d’esserlo stato e — confesso — così convinto e persuaso come se mi potessi vantare di qualche cosa, mi vanterei d’essere - in tutte le capate che prendo. Ma dell’ideali­

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smo critico, se non d’ogni filosofia, conviene ormai parla­ re al passato — ché per esso è avvenuto quello scatto tan­ to inavvertibile quanto decisivo dopo del quale sentiamo — non sapremmo dir come — che una crisi sta per passare. E che l’idealismo soggettivista e immanentista fosse crisi, ce la indica chiaro quella sua qualificazione di critico. An­ zi è probabile che, riconoscendo il termine critica come correlativo di crisi — che ormai richiama alla mente qual­ cosa di patologico — esso venga una volta o l’altra ad assu­ mere lo stesso significato di riprovazione che ha nel lin­ guaggio comune il termine — in se stesso innocente - di paradosso e i suoi correlativi. In quanto poi a quest’uso d’una terminologia ostica a chi non è iniziato se ha da far di meglio o di peggio che iniziarsi alla filosofia — da me stesso me ne son dovuto dare il permesso d’usarla, dicen­ do fin dal principio che in questo libro non verrà esclusa una certa dottrinarietà sopportata anche da me - anzi purtroppo da me prima di tutti! - come inevitabile; co­ me piu sopra ho scritto - termini e concetti in uso e di moda, volerli soppiantare con idee e parole troppo perso­ nali e soggettive, si rischia di non esser capiti neppure da chi li ha presi in odio perché convenzionali. E chiudo la parentesi più lunga del solito. Il movimento criticheggiante s’iniziò da prima non so­ lo come proposito di valutazione estetica dell’opera d’ar­ te in genere, ma più specificatamente come revisione este­ tica di tutti i valori dell’arte non solo presente, ma per quanto possibile, passata. A ridestare in Italia la fortuna della critica d’arte idealistica intesa come l’aveva già at­ tuata in pieno Risorgimento Francesco De Sanctis, fu come si sa — Benedetto Croce e se, ciò sembri eccessivo a chi ebbe noioso come il fumo agli occhi il pesante arma­ mentario hegeliano del filosofo abruzzese e ripugnante co­ me crasso sentor di provincia quello che gli parve gusto da letterato carducciano nutrito di maccheroni napoleta­ ni, rifletta che chi dopo di lui ha fatto critica (d’ogni ar­ te) magari con intenti anticrociani, oppure con assoluta indipendenza dal caposcuola, non ha fatto che approfitta­ re di codesta fortuna in gran parte meritata. Forse che

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Ardengo Soffici - il quale, affatto inattaccabile al crocianismo anzi, più che refrattario, ad esso nettamente contra­ rio, col gusto calmo e con la prosa limpida ha cercato forse di rinnovare in tempi sconvolti di romanticismo de­ cadente l’equilibrio estetico del Rinascimento fiorentino - non pubblicò i suoi famosi saggi intorno all’impressioni­ smo francese sulla crocianissima «Voce» (che fu definita dall’«Impero» un «movimento di professori» — definizio­ ne che ha suscitato l’indignazione del Soffici stesso, tutt’altro che professore)? Forse che Renato Serra, caposcuola a sua volta dei critici letterari anticrociani, non pubblicò il suo delizioso saggio sul Pascoli nei cahiers della stessa «Voce», quella vecchia, non quella nuova di Malaparte3? E recentemente non abbiamo veduto Vincenzo Car­ darelli che, per esser reo d’averci dato una sua compren­ sione, certo più pragmatisticamente artistica che intellet­ tualisticamente critica, del Leopardi - ch’egli ha visto più da critico profetico che da critico storico -, si è trova­ to contro la lancia in resta e fieri custodi del nuovo palla­ dio filosofico, critico e storico italiano, Benedetto Croce e il suo nemico fratelsiamese Giovanni Gentile? Gli opposi­ tori, anche se il tempo darà loro ragion piena sugli avver­ sari, abusano un po’ sempre della popolarità del movimen­ to che osteggiano. Come i teorizzatori delle eresie — proce­ da o no da loro il trionfo delle future filosofie — rientrano nella storia della teologia; così è destino che i moderni critici d’arte italiani rientrino - ci abbiano colpa o no nel movimento idealistico-critico: critico per lo meno, se non più tanto idealista - e cioè, se critico, a fortiori sog­ gettivista; che non v’è critica senza introspezione, né in­ trospezione senza almeno una parziale autocoscienza.

IV.

Degenerazione della degenerazione critica

Ma quasi a correggere il quasi inevitabile pericolo che l’idealismo critico, come ogni forma di soggettivismo estremista, ha d’irrigidirsi in individualismo solipsista, He­ gel e seguaci, tra cui Croce e Gentile, avevano posto come criterio di realtà la Storia, e cioè l’identificazione del sog­ getto pensante con l’infinita autogenesi della Storia - la quale cosi altro non sarebbe stata che una manifestazio­ ne continua e inarrestabile dello stesso Soggetto Trascen­ dente che essendo immanente ed essendo pensiero — Ver­ bo, Logos — in essa veniva a riconoscersi nella logica eter­ na delle sue attuazioni. Non ci ho colpa io se la sublime compiacenza dell’antichissimo Dio della Genesi, il quale — dopo aver fatto cielo e terra - contempla compiaciuto la sua creazione e conviene che «è buona», si è potuta sen­ z’altro identificare (in tempi fortunatissimi di autocoscien­ za tutta spiegata) con la stessa compiacenza che prova l’uo­ mo escogitando spiegazioni piu o meno antropomorfica­ mente plausibili delle cose - come se le avesse davvero fat­ te lui\ Sarebbe come se un eretico affermasse che Gesù è, si, vero Dio e vero uomo, ma che l’uomo e il dio in lui non hanno due nature distinte, sibbene ch’egli è dio - in quan­ to uomo!! Certo che una delle tante curiose conseguenze di questa strana aberrazione del pensiero umano fu anche che il critico se poteva comprendere cosi profondamente i segreti dell’opera d’arte, ciò voleva dire che — quell’ope­ ra — era come se l’avesse fatta lui, fare e intendere essendo originariamente sinonimi, anche se il fare e poi l’intendere avvengano in due distinte persone — che colui che fa com-

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prende in sé colui che intende, e colui che intende colui che fa (e in un certo senso è vero, ma non nel senso che lo pensano i soggettivisti). Ma — in questa sua pericolosa illazione - che se uno intende quello che un altro fa, è come se fosse quell’altro; e, quel tanto che lo comprende, addirittura, quell’altro - il critico doveva star bene atten­ to a non prendersi tutta la responsabilità delle visioni avute dagli artisti, una gran parte della responsabilità do­ vendosi da lui riversare — eh? su chi? — sulla Storia; e anzi la Storia essendo tutto, generatrice e figlia di se stessa, noumeno e fenomeno, soggetto che soggettiva e oggetto che s’insoggetta, tutta la colpa delle visioni artistiche (del­ le opere d’arte cioè) avrebbe finito per averla la Storia. Ma qui teniamo conto solo della storia con l’«s» piccolo ossia fermiamoci alla distinzione tra stimolo storico e rea­ zione della fantasia artistica. Infatti, come quando ci si desta da un sonno in cui ci sentivamo trafiggere il fianco dal pugnale d’un sicario e tra letto e ciccia ci troviamo un pungente minuzzolino di pan secco causa occasionante del­ la nostra affannosa immaginazione; così — dietro alle por­ tentose allucinazioni dell’arte il minuzzolo di pan secco non sarebbe altro che la Storia — intendi realtà storica — causa, dirò così, biografica e autobiografica (la storia au­ tocreatrice della propria interpretazione fantastica!) — vuoi della Divina Commedia, vuoi del Don Chisciotte, vuoi d’ogni altro capolavoro, che è, sì, creazione d’una fantasia individuale, ma creazione stimolata. Insomma, il critico doveva essere anche uno storico — e che razza di storico! Il male fu che mentre il Croce con l’hashish hege­ liano della sua Estetica si traeva dietro quell’entusiastico manipolo di giovani disoccupati senza l’esplosività dei quali ogni nuovo condottiero della mente e del braccio lancerebbe invano i suoi melodrammatici appelli per l’as­ salto di qualche vecchia rocca da distruggere e da sostitui­ re con nuove almeno in apparenza costruzioni, egli — come già il De Sanctis — ebbe, sì, la filosofica precauzione di raccogliere nel letto procusteo degli artisti i corpuscoli irri­ tanti e consimili stimoli alle estasi e agli incubi; ma i suoi discepoli a poco a poco preferirono profondarsi nel riso-

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gnamento dei sogni piuttosto che far collezione di noie e sventure fossili e di tutto quel piu o meno comune intrec­ cio di fastidi che hanno fatto d’ogni artista un uomo su per giu come tutti gli altri, spesso peggiore degli altri. Tut­ tavia agli inizi del movimento in questione si ebbe una cer­ ta volontà di vasti quadri d’assieme storico (più spesso, af­ freschi e molto alla buona). Ne cito uno per tutti - d’Emilio Cecchi — La storia dei poeti inglesi dell’ottocento1 (o un titolo su per giù consimile), storia lasciata in asso pri­ ma del secondo volume dall’autore, il quale deve essersi accorto che se gli riusciva assai brillantemente di filare una bella pagina d’esegesi estetica su qualche poema che gli era stato caro fin dall’adolescenza, era un altro paio di maniche quando si trattava di dare la sensazione che quei poemi obliosi e melodiosi fossero anche documenti psico­ logici d’un’epoca e d’un popolo, alla cui rievocazione sa­ rebbe stata necessaria ben altra severità di metodo o, per lo meno, d’intuizione storica. Invece, tale potente sensa­ zione dà indubbiamente la Storia della letteratura italia­ na del De Sanctis — sebbene forse non soddisfi più ormai né le esigenze obbiettive degli storici, né le sempre più raffinate esigenze soggettivistiche degli esteti. Ma nell’ul­ tima critica il soggettivo prese ben presto il sopravvento sull’oggettivo. De Sanctis e Croce ne avevano cercato, da buoni hegeliani, il difficile equilibrio — ma nel pareggiare i due piattelli della bilancia s’erano dimenticati troppo che la vera arte è a suo modo più vera (nel senso almeno di più bella) della storia. Se ne ricordarono anche troppo i nuovi critici, tanto più che sopravvenne il Gentile a di­ mostrare che dietro l’arte c’era bensì la Storia, ma che pretendere di fare storia organica e metodica dell’arte era lo stesso che voler trovare un criterio di conseguenzialità nell’involontarietà del sogno. Tuttavia non direi che - di codesta inviolabile intimità e indipendenza dell’opera d’arte — codesti nuovi critici se ne ricordassero proprio a fin di bene. Se ne ricordarono soprattutto per impazienza di lunghi studi e per l’urgenza che ebbero di trasformarsi da storici in cronisti dell’arte. Infatti ben presto la mono­ mania critica trovò più adeguato alla sua tendenza all’im-

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provvisazione il rapido essai di carattere giornalistico. Giacché — giova ricordarlo - in quel tempo di nazionale vocazione filosofica il giornalismo — da quel... demolibe­ rale monopolizzatore pratico (commerciale) di tutte anche le piu contraddittorie correnti spirituali che è - aperse la terza pagina e la rubrica dell’arte alla nuova moda critica e il manipolo di giovani disoccupati v’entrò colla foga d’una massa d’aria ch’entri nello spazio d’un vuoto pneumati­ co. E nulla è infatti piu intellettualmente pneumaticamen­ te vuoto del giornalismo, o, meglio, di quello pseudo gior­ nalismo che è, per il solito, la terza pagina dei grandi quotidiani \ Che quello vero - gazzettesco, cronistico, po­ litico — ha una sua particolar pienezza dirò così pragmati­ stica che, se mai, a volte è proprio destinata con la sua brutalità a riempire il vuoto pneumatico che c’è nei cervel­ li dei cosiddetti intellettuali che poi d’intellettuale non ci hanno che la camminatura e i libri sotto il braccio al caf­ fè, perché li vedano tutti.

V.

La critica come crisi degli artisti

Una confessione personale: l’autore di questo libro ri­ corda bene lo stato in cui ci siamo trovati un po’ tutti noi ruminatoti d’astrazioni e di dispensieri della coltura, quin­ dici o vent’anni fa, quando per tutta la penisola si sparse l’illusione ebbra perfino d’un misticismo sui generis — l’hegelianismo, com’ho detto, è paragonabile all’hashish - che la critica idealistica dovesse rinnovare il gusto arti­ stico e — chissà? — nientemeno che la vita italiana; ed effettivamente qualcosa di simile ha finito per prodursi ma in modo affatto imprevisto. Dopo cioè un’ubbriacatura di soggettivismo protestante il rude spintone della guerra (chi l’avrebbe mai detto?) ci ha fatto ridestare in pieno realismo aristotelicamente cattolico! E anche l’auto­ re di questo libro, sia pure da un suo particolare punto di vista, dire così, pragmatico-musicale (egli voleva fare il compositore e le sue prime promesse furono tutt’altro che disprezzate), gettò giù la sua brava sintesi storica del­ la musica, o meglio - la sintesi di ciò che noi europei intendiamo esclusivamente per musica — quella pensata per blocchi polifonici di svariatissima disposizione ritmi­ ca e contrappuntistica. Tutti sanno infatti che anche la musica melodica moderna riposa, sia o no realizzato l’ac­ compagnamento, sopra una spessa base di plurisonorità costruita secondo leggi armoniche destinate a regolare, in senso verticale, gl’intervalli in profondità (gli accordi) leggi ignote ai greci e ai latini, i quali pensavano la musi­ ca come la linea unica d’una monodia tracciata secondo i rapporti meramente graduali, in senso orizzontale, di più

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scale (tropi, modi). Il ritmo non era allora immanente alla musica, ma le era eterogeneo, ossia impostole dalla prosodia e dall’accentuazione verbale e perfino la musica strumentale, salvo quella di danza o di guerra — che come aveva ritmo proprio, poteva forse avere una maggiore complessità armonica — era monodica e, se accompagna­ va le voci, lo faceva all’unisono. Oggi di queste leggi ar­ moniche destinate, com’ho detto, a regolare in senso verti­ cale gli intervalli in profondità, ogni musicista veramen­ te moderno tende ad avere una sua coscienza affatto sog­ gettiva; donde la crescente impopolarità della musica mo­ dernissima, il cui successo almeno in quanto ad imme­ diatezza d’effetto sulla folla — riposa piu che altro sull’ec­ citazione ritmica e coloristica; ma donde anche la sua spes­ so mirabile esattezza d’espressione e la sempre più inti­ ma originalità. La differenziazione della tecnica cresce in ragione diretta dell’aumento d’individualità. Giacché non è la folla che comanda all’artista, ma l’artista alla folla. E per questo insisto fin dal principio — che sarà uno dei capisaldi estetici da difendersi oggi in Italia piu fatico­ samente che in altri tempi, per esempio durante il secolo xix, epoca di larghissima licenza individualistica — in op­ posizione col contrasto (degli artisti che per esser tali deb­ bono essere fieramente soggettivi e individuali) con la co­ siddetta «realtà» della vita, la quale ormai si va orientan­ do — ed è gran bene sia così sebbene per ora si tratti di movimento unilaterale - verso una robusta e disciplinata reazione ad ogni forma di soggettivismo sia filosofico (reli­ gioso) che pratico (politico) e, purtroppo, anche in certo qual modo artistico. Torniamo alla sintesi storica della musica dall’autore di questo libro già circa quindici anni fa perpetrata. Chi la volesse vedere - oh, anche troppo ampia ed hegeliana­ mente eroica! — la potrà trovare tutta fumigante di panlo­ gismo storico (nonostante alcuni strani slanci di supera­ mento) nella mia Crisi musicale europea, nel qual libro insieme con una vivace e — fino ad ora non superata affer­ mazione fiduciosa della musicalità d’avanguardia come unica fonte viva di rinnovamento musicale (oh, comico

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spavento dei parrucconi d’allora! ’) una pagina anch’essa tutt’altro che superata mi sembra trovarla là dove viene intuita — ch’io sappia per la prima volta con piena (o qua­ si) coscienza dei valori necessari a spiegarla e allora, in tempi di mentalità positivistico-massonica, affatto misco­ nosciuti — la musicalità religiosa medievale, musicalità che, in ritardo rispetto ai seguaci dell’umanistica fioriti specialmente tra poeti e pittori ed architetti, si manifesta con potenza sublime d’intimo ardor religioso nei grandi polifonisti vocali cattolici dei secoli xv e xvi, da Orlando di Lasso e da Palestrina ai loro minori fratelli i madrigali­ sti, da Gesualdo da Venosa a Claudio Monteverdi, i quali pur cantando l’amore profano, si conservavano misticamente medievali e ingenuamente cavallereschi. Né l’hegeliano — hegeliano almeno in quanto alla sua fede in una organicità della storia — né l’hegeliano di quella prim’ora simpatica perché combattiva, potè sottrarsi come tutti gli altri dall’essere preso in forza dal giornalismo e fini per divenire lui pure un irritato scrittore d'essais critici e d’i­ roniche note di cronaca artistica — condizione, ohimè, non meno triste e piccoloborghese di quella d’ogni altro impiegato, anzi peggiore, perché condannante alla lenta mutilazione d’ogni più schietta intima libertà sotto il pro­ gressivo addomesticamento alle esigenze del pubblicismo — intima libertà spirituale che negli altri impiegati non è richiesta almeno come condizione sine qua non per prepa­ rarsi a un impiego che, come il giornalismo, dovrà poi costringere a contraddirla continuamente. E infatti — per farsi critici — occorrerà la massima possibile spregiudica­ tezza; per fare i cronisti artistici occorrerà il massimo pos­ sibile compromesso con tutti gli infiniti pregiudizi dei più. Così — riguardo a questa contraddizione irrimediabi­ le tra la libertà di critica e le esigenze reclamistiche del giornalismo — è infatti da notarsi come i migliori rappre­ sentanti del recente indirizzo monocritico — quanto più in­ telligenti tanto meno di necessità soddisfatti del loro con­ tradditorio mestiere - cerchino di calmare la scontentez­ za nel caso più benevolo della acrobatica specializzazione cui sono condannati accampando la speciosa esaltazione

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d’una loro qualsiasi importante o trascurabile qualità nel fatto niente più che concomitante alla critica che esser do­ vrebbe - ed è in sostanza magari in minima parte per l’interferenza deviatricedi motivi pratici — l’azione princi­ pale da loro esercitata. E c’è il critico letterario che quan­ do non può sottintendere d’essere un noto poeta o un romanziere diffuso, insinua col suo fare brillante e disin­ volto: «Del resto, guardate, anche facendo della critica, questa m’awien di farla per disgrazia, giacché io sono so­ prattutto un grande scrittore!» - come se il modo con cui scrive potesse giustificare la precarietà pubblicistica di quel che scrive. E c’è il critico musicale che trova il modo d’awertirci: «Ma insomma, voi sapete o dovreste sapere il conto in cui tengo la critica, giacché io sono — soprattutto - un compositore! » e, magari, non ha più un minuto libero per scrivere una nota, o se la scrive, sente da se stesso che il suo massimo difetto è di non scriverne mai. E se Benedetto Croce avesse avuto tanto spirito da non gloriarsi di certe diagnosi in parte veraci ma inquina­ te da sensibilità eccessivamente ottocentesca — diagnosi pronunciate con sufficienza e sussiego d’oggettività tali ch’egli ha sentito il comico bisogno... di compiacersi d’es­ sere stato paragonato dai suoi ammiratori (in quanto a diagnostica infallibilità) a un celebre medico della scuola napoletana - avrebbe sempre potuto dire: «Ma, dopo tut­ to, io sono un vero filosofo (e questo, sebbene io sia agli antipodi del suo sistema, credo lo sia veramente) — e vi prego di prendere queste mie note critiche come l’esemplificazione delle mie inconfutabili teorie sull’arte». E infat­ ti anche da parte del pubblico sarebbe difficile sapere se esso dia retta ad imo scrittore di critica d’arte perché co­ stui se n’intende praticandola egli stesso - oppure perché la veda praticare bazzicando teatri concerti studi di pitto­ ri compagnie di letterati. Ho già detto che il maggior contributo alla recente ele­ fantiasi della critica d’arte lo recarono gli artisti stessi — musicisti e non musicisti — o, se sembri più esatto, i tem­ peramenti più artistici in cerca di strade per arrivare. Quindici o vent’anni fa troviamo in Italia una netta divi­

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sione tra artisti per lo più incolti o quasi (eccettuati i poeti) e critici — ossia, filologi in letteratura, nelle altre arti critici francamente dilettanti e, per quel che riguarda il giornalismo, cronisti di penna più o meno versatile e improwisatrice. E se anche in un primo tempo i critici ufficialmente imposti per tali erano apparsi alla ribalta su­ bito e soltanto critici — e cioè né artisti né filosofi - la crittogama critica prese anzi a diffondersi anche tra gli artisti in efficienza, dirò così, di servizio e con nessuna velleità di diventare filosofi (sebbene, come ho dimostra­ to sopra, venissero indirettamente a contribuire alla diffu­ sione della critica idealistica). Sono pure d’ieri, se non d’oggi proprio, quelle combriccole di caffè — i cosiddetti cenacoli — dove gli artisti avevano presa l’abitudine, inve­ ce d’appartarsi nei propri studi e nelle proprie case, di bivaccare pigramente discutendo senza fine di cose d’ar­ te. Si può anzi dire che i caffè, le riviste e la terza pagina dei giornali fossero lentamente divenute, nell’ultimo ven­ tennio, le uniche scuole da cui indirettamente sgorgava quel tanto d’arte cerebralissima e riflessa che i caposcuo­ la e i loro seguaci ancora riuscivano a creare. Certi movi­ menti d’arte moderna si sono formati o per lo meno pro­ pagati in quelle vere e proprie celle d’incubazione esteti­ ca che furono avanti guerra i caffè e in quei veri e propri bollettini di diffusione e di propaganda editi dai vari grup­ pi artistici - voglio dire le riviste o addirittura i manife­ sti, non meno delle riviste impregnati di criticismo — un esempio per tutti: i gruppi, le riviste, i manifesti del futu­ rismo. Perfino il futurismo avrebbe rapporto con l’elefantiasi della critica idealistica italiana? Indirettamente sì. Se la critica non avesse ormai perva­ so e — anche a loro insaputa — appassionato tutti gli spiriti (e domando ancora una volta: - chi fu a scatenare questa moda, se non Croce?) chissà se i futuristi avrebbero mai coi loro per quanto violenti non meno perciò riflessi e ideo­ logicamente astratti manifesti, corroborato d’intenzioni le loro fattive realizzazioni artistiche. Intenzioni diffuse allo scopo di spiegare in astratto quel che si voglia realizzare in

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concreto—hanno sempre una base critica e persino polemi­ ca. E la critica, ripeto, se interessava tanto in Italia, ciò era sempre in ragione di quella invadente crittogama che è l’autocoscienza del soggettivismo critico, traboccante d’ol­ tralpe sull’ancora inconscia Italia, a ondate di più o meno amletiche meditazioni dalle terre ormai classiche del pa­ thos filosofico — le terre di Kant, di Fichte, di Schelling, di Hegel, di Schopenhauer e dei minori pensatori roman­ tici.

VI.

Intermezzo ironico

Dalla lettera d’un critico musicale': «...ma il pubbli­ co, caro amico, non è giusto con noi critici; non sa, per noi critici onesti, che travaglio, che angoscia sia vivere la nostra missione di comprenditori d’ogni più ingenuo o complesso stato d’anima estetico. Egli, il signor pubbli­ co, guarda solo a quando si stronca l’artista tale, a quan­ do si tosa l’esecutore tal altro, a quando si fa giustizia d’un’opera indegnamente fortunata. Ci crede crudeli, fe­ roci, antropofaghi. Ricordo che quando, dopo Caporetto, fui anch’io chiamato sotto le armi insieme con tutti gli altri scarti fisici della vita, tale era l’odio contro di me che un ignoto scrittorello ’ su di un giornalucolo musicale mi dedicò un trafiletto così concepito: "il critico musi­ cale tal de’ tali è stato chiamato sotto le armi: finalmente chi ha tanto stroncato, sarà stroncato anche lui! ” Risi di così amorevole commento, ma mi domandai se l’antropo­ fago ero io o - piuttosto - non era lui. Non sapeva, quel mio carissimo confratello (Ì piu benigni nella vita ci son sempre i compagni di via), non immaginava nemmeno che colui il quale probabilmente gli aveva mandato a mon­ te con qualche critica bene assestata chi sa quali mire obli­ que a scrocco dell’arte, per assumersi la non leggera re­ sponsabilità di scrivere quella - e tutte le altre sue criti­ che - aveva dovuto passare, e tuttora passava, attraverso al piu incredibile intimo martirio cui sia condannato un uomo fornito d’individualità propria: quello di dover es­ sere tutti; di prendersi la persona di tutti (si capisce: di tutti quelli che sono della sua arte), di non poter piu esse­

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re soltanto e semplicemente se stesso; insomma, se vuoi, un martirio pirandelliano! Pensa tu, che pure hai pratica di tali complicate psicologie: se io ripasso nella memoria la mia vita da quando ho fatto i miei studi musicali ad oggi, non ricordo - e questa confessione so che può avere benissimo un sapore di tragica comicità - non ricordo che un primo periodo in cui mi sentii sic et simplidter di vivere la mia personalità musicale - soltanto la mia. E stato per ascoltare le voci altrui - anzi peggio: è stato per fare professione d’ascoltare con orecchio esperto le voci altrui che a poco a poco non ho ascoltato piu la mia voce interna, quella voce che ogni musicista sa d’aver piu cara d’ogni altra perché sola gli crea quella che per lui è l’uni­ ca musica che ci sia — quella che, a lasciarlo fare, andreb­ be cercando perfino nella musica degli altri, giudicando senz’altro brutta quella che per lo meno non le somi­ gliasse. Cattivi scherzi può fare l’ipertrofia della intelligenza! Tu certo, poiché so che l’hai provato, puoi immaginarti il processo per cui, prima quasi senza accorgermene e soltan­ to per un sano bisogno egoistico, poi sempre piu volendo­ lo fare, costringendomi metodicamente a farlo, poi non potendolo più non fare, mi misi a spiegare sulla carta co­ m’erano le persone musicali di quegli autori, rievocando­ li, perdendo in quella rievocazione qualunque mia perso­ nalità attiva che non fosse quella di rimanere piu o meno fresco ed astrattamente artista nella ricreazione delle ope­ re altrui come se tutte fossero mie, spersonalizzandomi e identificandomi sempre piu con tutti i grandi e - per for­ za - anche i piccoli musicisti, con le loro caratteristiche melodiche armoniche ritmiche timbriche — stilistiche in una parola - coi loro tic e accenti tipici, con le loro nevra­ stenie armoniche o coloristiche, con le loro idiosincrasie dinamiche; Debussy ha finito per essere un nevrastenico dell’armonia3, Strauss del colore strumentale3; in Schu­ mann la ritmica si risolveva nel martellare maniaco d’un’idea fissa’ — e via di seguito... La mia critica era violenta? Ma non si sapeva che quando andavo a sentir interpreta­

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LA CRISI DELLA CRITICA

re Beethoven, io ero lui, anzi oserei dire (tu m’intendi certo) ero - almeno fin dove poteva capirne di lui la mia capacità — più di lui e che chi male lo eseguisse strazia­ va lui in me e io mi rivoltavo come fossi lui, anzi come più dello stesso maestro si rivolterebbe il discepolo6? Ma non si sapeva che come avevo dovuto (per essere seguace di tutti!) bruciarmi innumerevoli volte nella vampata del­ le altrui — e quindi mie — ispirazioni sempre nuove e diver­ se — abissi ci sono tra una e un’altra persona musicale che io varcavo violentando la vertigine di tragedie in cui quel che era il più gran bene per gli uni poteva essere il più gran male degli altri (la serena fede nella trascendenza divina di Palestrina sarebbe stata viltà e schiavitù per la rivoluzionaria fede dell’individualista Beethoven); così mi tocca — o mi toccava, che io sono come una macchina acquistata da un giornale perché produca le richieste foto­ grafie spirituali degli spettacoli e dei concerti - mi tocca, dico, a soffrire per tutte le offese a quelle persone musica­ li con cui m’immedesimavo da parte di chi non capiva eseguendo e da parte di chi non capiva ascoltando? Puoi ridere, se vuoi, di questo sfogo. Ma oggi, dopo che per tanti anni ho vissuto risuscitando in me tanti e tanti sgorghi flussi eruzioni alluvioni di vita musicale, mi trovo come si deve trovare l’artista drammatico che altro non ha fatto tutta la vita che identificarsi con personaggi di dramma e di commedia, e che l’abitudine ad essere altri — e quali altri\ gli altri più reali di tutti, immutabili ed eterni come mai non possono essere gli uomini nella corruttibile realtà d’ogni giorno! — gli è rimasta ormai anche nella vita più comune e più spicciola, dove egli sarà sempre un istrione, e io sempre un critico! Infatti la mia attitudine e il mio esercizio a comprendere, a intuire, a legger dentro, ad analizzare, a identificarmi — amante rarissimamente del tutto dimentico in un oggetto divina­ mente degno del mio amore - con anime prigioniere del­ la più misteriosa prigione che ci sia — i suoni, — mi s’è fatta tale uno spasimo che la mia stessa vita di tutti i giorni mi è divenuta un martirio d’attenzione solcato tal-

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volta da rapimenti lirici come se assistessi ad una rappre­ sentazione’. Potrei darle un titolo molieriano: Le juge tnalgré soil Qualcosa di simile deve provare un vecchio confessore nevrastenico».

VII.

Il retto della medaglia

Sia pure. Tutto il male che si voglia dire della critica e della critica più negativa, caparbia e altezzosa che mai ci sia stata, appunto perché eccessivamente e con metodistica e opaca sufficienza fiduciosa in se stessa - la critica filosofica o idealistica che dir si voglia. Ma, per ciò alme­ no che si riferisce alla musica, se noi confrontiamo lo sta­ to del gusto musicale di venti o trent’anni fa a quello oggi diffuso nel pubblico più dinamico e nei musicisti mi­ gliori e, in parte, in quelli anche peggiori, dovremo rico­ noscere che non tutto il male è venuto per nuocere se — da tanto abuso di critica e di discussioni sui valori stranie­ ri misconosciuti e nostrani dimenticati (purtroppo più questi di quelli) — una differenza, almeno in certe zone selettive del pubblico, ne è sorta e ormai più radicale di quel che non si sospetti. Certo, nelle città di provincia e nello spirito dei retrogradi le cose saranno di poco muta­ te — per quanto non si tratti che di accidie fermate e rica­ dute nel passato in certo modo inevitabili. Tuttavia, an­ che i più testardi dei vecchi e quei de’ giovani che nasco­ no candidati alla mentalità automatica del pedante — e perfino le folle degli agrari e degli operai dall’ipertrofico cuore ancora inconsciamente nostalgico di demagogiche teatralità garibaldine — si rassegnano non senza sempre meno efficaci proteste e cospirazioni a subire quel che c’è di nuovo nell’aria e che io chiamerei volentieri (se il termi­ ne non avesse preso una sfumatura iniquamente diaboli­ ca) «futurismo en arrière et en avant». Stato d’anima, questo futurismo esigente l’avvenire anche dal passato,

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che nei suoi eccessi d’estrema destra e d’estrema sinistra tende — da una parte — a preferire francamante gli ancora inesausti e suggestivi «primitivi» agli ormai, almeno per ora, disseccati e spolpati artisti d’epoche o troppo perfet­ te o troppo recenti. In arte infatti come in armonia vige la legge per cui la tonica dissona dalla seconda mentre s’accorda con la terza e, ancora piu suggestivamente, con la quinta: quindi per noi sarà piu feconda l’audizione d’un mottetto d’Orlando di Lasso, d’un madrigale di Ge­ sualdo da Venosa o d’un ricercare di Gerolamo Frescobal­ di, che quella d’una fuga di Bach, d’una sinfonia di Bee­ thoven o di una ballata di Chopin. Dall’altra parte — code­ sto disincantato futurismo cosi del prima come del poi alle novità facilmente nate a uso fungaglia sul terreno del­ l’ultima tradizione — per esempio Anima allegra del pucciniano Vittadini1 — fa preferire francamente le audacie tut­ te d’un pezzo e che siano la prima e l’ultima parola d’un argomento a cui nessuno abbia pensato; come la crepusco­ lare Fedra2 di Ildebrando Pizzetti o le scintillanti Sette canzoni e ^Ottava canzone dell’ironista musicale Gian Francesco Malipiero3. Le a tutti care ed accette «virtù mediane» - in arte la virtus per stare in medio corre ri­ schio di rasentare il gusto ebraico degli impresari e dei direttori d’orchestra internazionali - sarebbero, per esem­ pio, al passato Bach e Mozart — sebbene il secondo si sia riabilitato servendo in Germania (anche attraverso il vi­ vo tramite dell’italiano suo recente collega in Settecento Wolf-Ferrari) da ironico e signorile schernitore della gof­ fa prepotenza wagneriana; oppure, sempre a mo’ d’esem­ pio, sarebbero Beethoven e Wagner, i quali ultimi due non importa se al lor miglior tempo sconvolgessero i cuo­ ri giovani come il piu gagliardo grido della vita: il loro torto è ormai d’esser piaciuti troppo - d’avere abusato della nostra fede in loro. E al presente altre virtu, non meno mediocri che a tutti care ed accette, sarebbero gli ibridi Strauss e Mascagni e — dei nuovi se non novissimi — il debusstraussista e mascagnano Zandonai o chi altro si provi — per ingrazionirsi e vecchi e giovani — con diver­ sa ricetta a coniugare Wagner con Debussy, Puccini con

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Moussorgsky*, Catalani e Leoncavallo con Strawinsky5. Ma insomma lo stato d’anima tra sentimentale e melo­ drammatico in cui guazzavano quasi tutti i musicisti e mu­ sicomani italiani dell’epoca umbertina sotto la demagogi­ ca influenza prima, dei romantici, poi dei cosiddetti veri­ sti della «giovane scuola italiana» (non sono, quelli e que­ sti, due diverse manifestazioni di uno stato parossistico antitaliano perché antiestetico ed antiestetico perché antitaliano?) — tale stato d’anima o belante od urlone — è ormai vinto o per lo meno sta agonizzando nei centri mu­ sicali di rifiuto, anche perché - fortunatamente — rappre­ sentanti vivi e ancora vitali non ve ne sono piu. Leonca­ vallo6 e Puccini sono morti, Mascagni decade in un falso crepuscolo d’ibridismo italo-teutonico - ed era realmente il piu aurorale di tutti — e Giordano conta come non ci fosse ridotto com’è in Cena delle beffe7 al balbettio arte­ fatto d’un vecchio che ha tentato con sofistico successo non so qual cura d’un taumaturgo Voronoff della musica. Qualcosa insomma agonizza: i plateali abbandoni recipro­ ci del musicista alla folla e della folla al musicista - e le opere che, suscitate da stati d’anima democraticamente re­ torici, miravano quasi soltanto a suscitare stati d’anima democraticamente retorici. E qualcosa sorge: una scaltrez­ za acre, lucida ed avida di vita sincera a costo d’essere arida, una coscienza sempre piu spregiudicata e disposta ormai ai piu audaci sdoppiamenti - cerebralista per dire una parola incriminata ma cui oggi dovremmo dare un sapore tutto nuovo e non saprei proprio più - dopo tante esperienze d’ormai incancellabile cerebralismo sia avan­ guardista che retroguardista, perché ancora disgustevole. S’ha un bel dire, ma anche senza concedere ai critici sover­ chia importanza d’iniziative fecondatrici - deve aver pur fatto il suo effetto quel terribile bagno astringente a cui abbiamo costretti per oltre un ventennio gli spiriti anche più refrattari - nella critica così detta soggettiva od ogget­ tiva - o almeno creduta e voluta essere l’una e l’altra insieme di queste due belle cose. E il passato più prossi­ mo — per noi quell’oppressivo Ottocento che ce lo siamo trovato tra i piedi fin da bambini intangibile e insufficien­

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te come (per usare un ormai luogo comune) lo Statuto Albertino — non è più passato prossimo — è inequivocabil­ mente passato remoto. Come per l’aria alla men meglio si può dire che ci sia una nuova estetica, così c’è anche un nuovo senso storico - un nuovo storicismo che ha cessa­ to di spolverare e di catalogare le opere d’arte come i cadaverici articoli d’una collezione da museo, ma li rivive e li pianta sul muso alla gente con lo stesso piacere creati­ vo con cui un artista giovane ci rivelerebbe una sua crea­ zione. E non faccia meraviglia se dopo aver parlato di futurismo, così, a due passi di distanza io parli di quello storicismo che gli dovrebbe stridere in faccia come il dia­ volo davanti alla croce. Innegabilmente anche il senso sto­ rico - il nostro sesto senso d’uomini dalla maligna giovi-’ nezza secolare — si è futuristizzato ed è ormai impossibile che perfino i più radicali odiatori del passato non diano alla repulsione per ogni necrofilia artistica una sfumatura riflettente a volte in modo deliziosamente paradossale le nuove affinità elettive che i critici hanno scoperte tra l’ani­ ma moderna e quella arcaica o men nota di compositori finora soffocati dall’ombra invadente di quei più recenti se non modernissimi compositori, che si potrebbero para­ gonare ad alberi cresciuti ormai nella storia della coltura troppo più di quel che non comportasse la loro robustez­ za — alberi che ora noi andiamo sia pure un po’ astiosa­ mente sfrondando, se non addirittura abbattendo con alle­ gra irriverenza. Si dica quel che si voglia, ma pur avendo sinora più distrutto che ricostruito, la nostra critica mo­ derna ha avuto la sua bella parte attiva e fattiva nel gran­ de risveglio che — accanto alla rivoluzione politica — si delinea in certo qual modo nella vita anche artistica ita­ liana.

Vili.

Dài alla critica quello che è della critica

Come non convenirne? L’ingenuità di certi una volta diffusi e inappellabili giudizi oggi non contenterebbe più né meno un professore di fagotto o di trombone - è risa­ puto che, in fatto di coltura, se i musicisti sono i più can­ didi d’ogni altra sorta d’artisti, i suonatori di legni e d’ot­ toni, anche sapendo leggere e scrivere, sono addirittura il candore dell’analfabeta in persona. Passò quel tempo in cui si scherniva Rossini ’, perché autor d’opere buffe tut­ te infioccate di gargarizzi, - gli «esercizi» di Rossini, co­ me si qualificavano le ironiche acrobatiche agilità scintil­ lanti del grandissimo comico dai cavallottiani seguaci del­ la «giovane scuola italiana» — o, dai più avanzati, si odia­ va Verdi perché non era Wagner, Mozart perché non era Beethoven, Donizetti perché era «troppo melodico». An­ zi qui permettetemi una domanda: — O Beethoven, e più ancora Wagner stesso, che cos’erano se non (come tutti gli ottocentisti) degli scialacquatori di melodia, buona o cattiva, schietta o forzata, fremente demagogica ad ogni costo? Strane queste resipiscenze antimelodiche in gente che non sopporterebbe una pagina di Debussy! A par­ te che è ineluttabile che l’Ottocento, adoratore di parossi­ stiche ebbrezze passionali, non riveli ad ogni piè sospinto le sue paradossali frenesie melodistiche — non sarebbero forse stati i compositori dell’ottocento dei veri e propri «cocainomani della melodia»? -, a parte tutto questo io trovo, se mai, la vera melodia di Donizetti assai meno vol­ gare per quanto meno nutriente, di quella addirittura ple­ bea di Verdi (carattere plebeo del resto in cui consiste

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forse il massimo pigmento della sua saporosità selvag­ gia2). E - giacché siamo in tema d’arcadiche «fedi criti­ che» del passato - passò anche quella beata età, diremo così, dell’oro critico, in cui tutta la musica in Italia si riduceva in quattro geni ufficialio gli altri? i tantissimi altri, tra cui, se non erro, Palestrina? - e, cioè, a Rossini, Bellini, Donizetti e Verdi, che i piu arditi critici musicali collocavano in aulica cornice sulle pareti della storia arti­ stica italiana di fronte ai quattro poeti altrettanto naziona­ li quanto paradossalmente estranei a quella quaterna otto­ centesca - Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso. E né pure è più il tempo sia pure un po’ più evoluto e cosciente — da epoca di socialismo e di germanofilia trionfante - in cui le colonne d’Èrcole della storia musicale consistevano in Haydn e in Mozart, oltre i quali (anche se in teoria non lo si diceva, così era di fatto) nessun compositore poteva né doveva essere esistito, né si capiva poi donde sbucasse­ ro fuori, anche per codesti inguaribili tedescofori, Giovan­ ni Sebastiano Bach e quel Domenico Scarlatti che il ro­ manticismo pangermanista non era riuscito ad espellere dalla letteratura pianistica. Né men che mai è più il tem­ po ormai evolutissimo e coscientissimo da parte della cri­ tica, ma, da parte del pubblico, ancor sempre refrattario a qualunque gerarchia di valori estetici un po’ più nobili e davvero nazionali che non fossero il fanatismo facilone per le opere di Puccini (tutte, si guardi bene — e cioè compresevi abilità granghignolesche o lacrimogene quali Tosca e Butterfly) e il feticismo isterico per la celebrazio­ ne di non so quali feste frescobaldiane a Ferrara, la gente si domandava se la musica del grande organista del Cin­ quecento - più fresco e più virgineamente mistico del barocco e metodista Bach — fosse musica tedesca! A que­ sto proposito ricordo infatti, e domando scusa se sono costretto a basarmi su di una personalissima esperienza, ricordo infatti il pandemonio che si scatenò quando quin­ dici anni fa - che ancora ci teneva a balia la Germania, o c’era tanta brava gente che proprio in casa nostra ci tene­ va a balia per conto della Germania — io per la verità storica dell’altrui e della nostra musica discesi in campo

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con la mia critica, quanto si voglia allora in tutti i sensi acerba e impronta, giurando e spergiurando agli italiani — ch’evidentemente dovevano prendermi per un che diva­ ga — non esser vero che tutta la grande musica sia Beetho­ ven e in genere quella dei romantici sia cattolici che prote­ stanti e metodisti austrotedeschi — giacché austriaci o te­ deschi, cattolici (in questo caso pseudocattolici) o prote­ stanti, tutti li affratellava il comune ribelle individuali­ smo di pretta marca romantica, Allemagne di Mada­ me de Stael (una delle donne piu colpevoli della storia) al Contratto sociale di Rousseau; quindi misconoscitore di Roma. Credo mi si volesse addirittura linciare, perché imperterrito io sostenevo che bisognava andar bene ol­ tre quel Settecento che un altro critico musicale, Fausto Torrefranca, s’affaticava donchisciottescamente a risusci­ tare3 ma — ohimè! — non in se stesso e cioè come fase classicisticamente conclusiva (in musica) del nostro giova­ nile rigoglioso Rinascimento, fase conclusiva secondo la quale Mozart in ordine di tempo dopo Domenico Scarlat­ ti sarebbe il più puro compositore di classicistica e umani­ stica «arte per l’arte» di grande stampo italiano anche s’egli fosse austriaco — ma come preparazione, attraverso (fra gli altri) al Sammartini, del solito ottocentesco e ro­ mantico e sinfemetico punto d’arrivo: Ludvig van Beetho­ ven — quanto si voglia sublime spirito fiammingo - e fiam­ mingo come Orlando di Lasso e César Franck4 - però intimamente traviato dalla vicinanza (subita sia pure con­ sciamente) della protestante Germania di Kant e dalle li­ bertarie illusioni della Rivoluzione francese. Ma no! ma no! — sostenevo io e sosterrò sempre: era più addietro; ben oltre il Settecento; oltre il Seicento; oltre Bach e Handel; oltre Scarlatti e Corelli - che c’era stata (ed oggi a mala pena se lo sporadico coro di una cappella romana rinconduca tra noi e all’estero il miracolo dell’arte polifo­ nica, si comincia a risentire immortale) l’epoca più vasta di tutte le massime epoche musicali, quella quattro e cin­ quecentesca dei portentosi mistici cattolici, degli Orlan­ do di Lasso, dei Palestrina, dei Victoria Frescobaldi Mon­ teverdi, dei polifonisti vocali fiamminghi e italiani — co-

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struttoti d’immense romaniche cattedrali d’ampie note candide come marmi - e dei primitivi creatori ex novo della musica polifonica strumentale, altro miracolo d’ar­ te che, per trovarne uno consimile, ci obbliga a risalire verso un’altra primavera del mondo: la nascita nell’Ellade delle solari arti magicamente dalla bellezza plastica su­ scitate; invece, con Cavazzoni (oggi dopo la mia tenace propaganda ripubblicato5) Frescobaldi, Merulo, Monte­ verdi, nasce nel mondo l’arte piu pervasa di vita interio­ re che ci sia, non illuminata neppure dalla rappresentazio­ ne della parola — la musica dei suoni astratti, l’arte più cristiana di tutte le arti moderne. Ed io un po’ più tardi sempre in ordine alle scoperte che andavo facendo sulla rettificazione dei nostri e degli altrui valori musicali — quando scoccò ancora incerta l’ora, con la guerra, della nostra rivendicazione mondiale, a sudare le sette camicie per dimostrare su per le scettiche colonne dei giornali6 che durante la nostra così eroica ma anche così disgrazia­ ta guerra si faceva un cattivo servizio all’Italia ostinando­ si a contrapporre Rossini e Bellini — grandi (il secondo grandissimo) ma con metà della loro opera improwisatoria e insignificante — Donizetti, Verdi, Ponchielli, Boito, Catalani, Leoncavallo, Puccini, Mascagni, a Mozart, Haydn, Beethoven, Mendelssohn, Schumann, Wagner, Brahms, Strauss; e non nomino Weber e Schubert — Meyerbeer’ lasciamolo là, troppo, com’era, internaziona­ le: «la ventarola del tempo musicale dell’Europa» —; dei quali Weber e Schubert la faciloneria romantica in quanto a impeto improwisatorio non avrebbe poi molto ad invi­ diare il democratico sacrifizio della forma alla cosiddetta ispirazione - e per ispirazione in questo caso intendi: vo­ lontà di trovare frasi e ritmi popolari—sacrifizio che ha re­ so i romantici specialmente viziosi di estemporaneità. I po­ poli austrotedeschi hanno avuto la loro tarda e non invi­ diabile età se non dell’oro, dell’argento nel secolo xix e in parte del secolo xviii — Schùtz * Bach ’ Hàndel predeces­ sori sporadici e significativi in senso inversamente proba­ tivo a quello creduto dai tedeschi; giacché non furono grandi perché prepararono le vie a Beethoven e a Wag­

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ner, ma perché non tradirono i nostri sublimi modelli. L’Italia un’analoga e, ripeto, ben più vasta epoca musica­ le non l’ha purtroppo avuta negli operisti cronologicamen­ te corrispondenti ai succitati musicisti austrotedeschi, i quali - dobbiamo riconoscerlo, qualunque sia la loro de­ viazione storica ed estetica (ché deviazione ci fu) — furo­ no sempre, strano a dirsi, più dei romantici nostri fedeli al gran principio dell’estetica classica e cattolica conqui­ stato: la realizzazione formale-, per cui quei nostri operi­ sti seguirono gli autori di musica tedesca strumentale - e con quel mostro di sproporzioni ciclopiche che è Riccar­ do Wagner pur tremendo per il suo imperiale barbarico volontarismo sonoro. Il nostro vero «secol d’oro» per la potenza spirituale del pensiero delle arti delle scienze è stato - com’ho già detto e come non sarà mai detto abba­ stanza — il magnifico mondiale Cinquecento e in parte i sempre più a ritroso virginei Quattro e Trecento - tutti e tre secoli — almeno in musica — non soltanto sublimi per le non ancora esauste scoperte e iniziative formali, punto di partenza d’ogni civile estetica musicale, ma — per ciò che riguarda il significato e la profondità della concezio­ ne - incorrottamente e insuperabilmente intimi. Può for­ se la profondità del sentimento nei più celebrati principi dell’intimità romantica — si chiamino essi Beethoven e Wagner - reggere il confronto della - sublime d’abissale interiorità — musica di Palestrina? Della qual musica nel Rinascimento architettata con quella robusta potenza che solo Dante ha di rendere latinamente manifeste le più vertiginose medievali astrazioni dello spirito contem­ plativo, ciò che più stupisce è com’essa sia su per giù con­ temporanea al sorriso solare della pittura di Raffaello: seppure ripensando al mistero magicamente ambiguo d’u­ no dei capolavori dell’epoca, dalla leonardiana Vergine delle rocce o alla crepuscolarità apocalittica della Sistina, essa non ci sembri più tanto in contrasto con quelle che certo erano le sempre più esteriori tendenze delle allora trionfanti arti plastiche paganamente allucinate dal rina­ scente miraggio della bellezza fisica, ohimè non più potu­ ta godere con l’ingenuo naturismo dei Greci - il velo inte­

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riore del pensiero reso per sempre inquieto dalle sopran­ naturali rivelazioni cristiane sul mistero dell’anima e del corpo ondeggiando ormai inabolibile con ombre d’enig­ ma tra le abbacinanti apparizioni della natura e gli occhi anche piu umanisticamente avidi di piacere plastico e cro­ matico. Infatti quando piu tardi con il trapasso dai com­ positori sacri — quali il Palestrina — o soltanto mistici — come Gesualdo da Venosa — a quelli piu propriamente profani la musica nella prima metà del Seicento si pose in pari collo spirito antimedievale del Rinascimento, a poco a poco insieme con tutte le altre arti inclinò a divenire scetticamente armonia pura, impersonalità canora inemo­ tiva e decorativa come il celliniano intaglio del cesellato­ re, «arte per l’arte» insomma, a noi compiaciuti indaga^ tori di tormentate psicologie, estranea e spesso sazievole con la sua allontanante e quasi astratta oggettività di stro­ fi di ritmi di svolazzi nella linea architetturale Difetto questo — e in parte qualità — dalla fine del secolo xvi a tutto il Settecento comune ad ogni manifestazione del ge­ nio italiano che, dopo d’avere nel Medioevo robustamen­ te scavate e messe a nudo colla potenza dell’ascesi le piu misteriose radici dell’anima perdute nell’intimità religio­ sa, le dimenticava o per lo meno le trascurava per innamo­ rarsi artisticamente della carne e scientificamente della na­ tura. Due forme d’una stessa estetica volontà d’oggettivazione in cui si sbizzarriva e s’isolava egoisticamente il sem­ pre piu cinico individualismo italiano che di tutto anche della politica (che pure mette in questione i destini tempo­ rali degli uomini) e anche della religione (che pure mette in questione i destini oltremondani di milioni d’anime umane) aveva finito per fare un fascinoso giuoco d’esteti­ ca o — ad onta delle sempre meno pericolose tirate d’orec­ chio della Chiesa — una spregiudicata questione di curiosi­ tà scientifica. Lo strano è che non fu un italiano, ripeto, a darci la piu universale opera di musica concepita nello spirito del nostro Rinascimento; non fu il «virtuoso», troppo unila­ terale ed astrattamente musicale prodigioso clavicembali­ sta Domenico Scarlatti né alcuno dei galanti clavincemba-

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listi francesi. Fu W. A. Mozart un delicato ed armonio­ so austriaco di quando in Vienna transitoriamente con­ fluì la raminga cattolica tradizione del sacro romano impe­ ro e ripararono le apollinee muse pellegrine cui il germani­ co e dionisiaco romanticismo preparavasi a scacciare erro­ neamente in nome dell’offesa e conculcata intimità uma­ na — non quella eternamente grande che s’inabissa nella poesia di Dante; non quella che come la divina Grazia «da sì profonda | fontana stilla, che mai creatura | non pinse l’occhio infino a la prima onda», ma quella del «pri­ vato esame» protestante, in ben piu disarmonica maniera soggettivo dell’irreligioso e cinico individualismo italia­ no. E siccome la rivoluzione romantica non sarebbe riusci­ ta a soffocare codeste belle muse doppiamente immortali (mi si conceda il linguaggio umanistico) e per esser nate nell’Ellade dai miti luminosi e per avere avuto due volte imperialmente diritto di cittadinanza da Roma, le trasfor­ mava — come vedremo in ebbre ... seguaci d’un folle Dionisos, il dio per eccellenza del teatro musicale romantico.

IX.

Italianità del mio antiromanticismo

Questo io sostenevo e mi toccava a volte a tacere, poi­ ché c’era - e purtroppo ci sarebbe ancora - chi con male intenzionato od angusto nazionalismo insinuava ch’io dei. nostri musicisti romantici volessi dir male per disfatti­ smo. Era invece — ed oggi lo posso affermare con orgo­ glio giacché affrontar bastardi e lividi pregiudizi antinazio­ nali o pseudonazionali non è meno combattere per la buo­ na causa che recidere reticolati ed espugnare trincee era invece eroico e intransigente amore di forti tradizioni italiane quello che mi faceva vedere e dire ciò che oggi ripeto con sempre maggior sicurezza di concetto. Nel no­ stro periodo romanticheggiante è contraddizione tra l’i­ stinto delle nostre piu genuine tradizioni — che son classi­ che e cattoliche — romane come oggi si sa finalmente ridi­ re, e le pose e le sfrenatezze e le sciatterie della reazione al classicismo, seppure siano mai stati del tutto romantici Donizetti, Verdi, Ponchielli, Catalani e — di romantici­ smo ormai sempre piu decaduto in mediocre sentimentali­ tà più o meno piccolo-borghese — Puccini e Mascagni. Anzi, si potrebbe benissimo affermare che dove vollero e credettero di esserlo, non furono nemmeno — in quanto italiani — se stessi. Tutta questa brava gente può magari esser cara oggi a noi come agli impresari per ragioni di diversa, dirò cosi, gratitudine-, ma sono, quasi tutte code­ ste ragioni, estranee ai canoni della nostra estetica latina: potentissima disciplina della realizzazione incarnatrice del fluido piu irreale ed incorporeo che ci sia - il sogno; la qual disciplina fece di Dante, di Palestrina, di Leonardo,

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saldi architetti classicamente sdegnosi del caotico e dell’in­ forme. Ho detto caotico e informe e cioè di quelle barbari­ che e subumane tendenze, emananti suggestività magiche e miraggi quanto si voglia allucinatoti, ma tendenze desti­ nate colla loro repulsione al «fren dell’arte», a trascinare fino all’assurdo d’ogni anarchia morale e stilistica la demo­ cratica rivolta romantica. Ma che forse il feticismo per il nostro - perdonatemi la frusta immagine amministrativa — «patrimonio artistico» (e voi poi sapete quale intendo qui io: l’ultimo, quello pili facile a sfruttare) deve in eter­ no assomigliare alla timida gretteria del decaduto signo­ rotto provinciale che pago d’esser riuscito a liberare dalle ipoteche l’avito palazzo gentilizio, si contenta di stare al pianterreno perché non saprebbe piu abitare decorosa­ mente al piano nobile come il suo grado lo richiedereb­ be? E in questo caso il nostro piano nobile è il Cinquecen­ to, il pianterreno è l’Ottocento. Toltine Rossini e Bellini per non del tutto rinnegata educazione settecentesca par­ tecipi d’un’italianità non ancora prostituita agli «immor­ tali principi dell’89» (è noto come Rossini dopo aver con­ cesso alla liberalesca moda — piu tardi si chiamerà meyerbeeriana — col Guglielmo Teli, si chiudesse in un ironico silenzio), i nostri musicisti piu propriamente ottocentisti sono in gran parte qualcosa che parve essere e non fu, e che quindi sarà una volta o l’altra scancellata dalla nostra vera storia della musica, che è quanto dire dalla storia universale della musica. Infatti in tutti costoro quel che c’è di propriamente romantico, antiformale, improvvisatorio, e cioè di extra-nazionale, è la parte meno sana loro e — dovesse per ciò stesso qualcuno di essi, come il Ponchielli, risultare così romantico da dover esser tutto quan­ to scancellato - la parte meno italiana. Quando si cesserà di confondere «italianità» con «improvvisazione» spes­ so sciatta e chitarronesca (il che non vuol dire liutistica) brutale più che passionale, scurrile più che sensuale? Il genio italiano è, sì, di getto, ma non per questo deve espettorare le sue ispirazioni coll’estemporaneità servile d’un brindisi al padron di casa (in questo caso il pubblico delle platee e dei loggioni) o coll’impeto torrentizio d’u­

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na demagogica orazione da comizio. L’arte — anche se Omero e Dante siano vissuti di carità — è in se stessa sovra­ namente aristocratica. È certo la voce piu potentemente individuale che domini con la forza della sua intimità in­ violabile e incorruttibile ad ogni lusinga pratica — l’oro nulla può sulla divina libertà del sogno — la stridula Babe­ le delle angosciose e disperate contraddizioni collettive. Al contrario - frutto d’un’epoca sostanzialmente antireli­ giosa e quindi inquinata da tendenze dispersive — l’arte dei romantici fu essenzialmente democratica, o se parve come quella di Wagner imperialista, lo fu com’era impera­ tore Napoleone — impotente a comprendere la funzione universale d’un impero attuandolo cioè come l’effimera preminenza d’una violentissima volontà personale roman­ ticamente rivoluzionaria sopra un ammassamento milita­ rizzato (ma intimamente disorganizzato) d’altre volontà parziali seppur tutte in sostanza a lei identiche nella caoti­ ca aspirazione all’arbitrio e alla rivolta. Si può anzi dire che se Napoleone avesse avuto autocoscienza critica co­ me ne ebbe Riccardo Wagner, al modo stesso che l’auto­ re della Trilogia scrisse pagine interessantissime attorno al rapporto che correva a suo tempo tra Arte e Rivoluzio­ ne *, avrebbe potuto scrivere un Impero e Rivoluzione in cui ci avrebbe forse svelato il suo enigma politico. E co­ me Napoleone faceva schiavi i popoli, non li governava, Wagner non persuade — confonde e schiaccia. Le opere dei romantici sono quindi - quali più quali meno - deformazioni contingenti dell’arte compiute auto­ biograficamente sotto le stretta della passione giornaliera che può, se nobile e sincera come in Beethoven e Verdi, ispirare il grido più presto esausto quanto più disperatamente violento, ma che non lo lascia mai sublimarsi in quell’eterno miracolo della forma che sembra ad ogni fie­ ra domanda delle nuove generazioni trovare nel profon­ do della propria intimità lo sgorgo inesauribile di sempre nuove risposte e di imprevedute rivelazioni. Deformazio­ ni quanto si voglia praticamente necessarie in epoca per esempio di propaganda rivoluzionaria francese e — da noi — di propaganda garibaldina e mazziniana per la nostra

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indipendenza; come, durante l’ultimo conflitto europeo, con meno spontanee e poetiche ma non meno sentimenta­ li esagerazioni si faceva la propaganda contro la Germa­ nia. Ma non per questo deformazioni meno destinate a scomparire di circolazione allorquando si arriverà a com­ prendere con quella diffusa convinzione che si estrinseca nei fatti piu che nelle parole - e cioè, in questo caso, promovendo edizioni ed esecuzioni dei nostri antichi mas­ simi musicisti - come noi italiani non dobbiamo affannar­ ci a contrapporre uno pseudo (per sua fortuna) roman­ tico - come Verdi — a un vero (per sua sfortuna) romanti­ co — come Wagner —; ma si saprà contrapporre Palestri­ na a Wagner e in linea generale la vocalità polifonica quat­ tro e cinquecentesca, stillante di divina intimità — italia­ na e anche fiamminga, ma soprattutto nostra, perché cat­ tolica — e ancora in gran parte la nostra latina istrumentalità architettonicamente armoniosa nel Seicento e nel Set­ tecento agli in gran parte decadenti sinfonisti austrotede­ schi del secolo xix. Musicalità pienamente italiana, ripe­ to, non fu neppure quella di Verdi, primitivo cantore con­ tadino che, toltogli il ferraiolo romantico, se da una par­ te scuoteva le folle con quella sua travolgente fierezza di capitano di ventura decaduto in brigante, le incantava se­ gretamente con quella sua anima antichissima e paterna di vecchio re pastore preromano2. Musicalità religiosamente e imperialmente italiana ebbe sopra tutti i nostri musicisti Palestrina, a cui, è doveroso riconoscerlo, osò di nuovo guardare, dopo secoli d’oblio, soltanto Riccar­ do Wagner ma per dedurne la scenografia illusoria d’un tempio di cartapesta: il tempio protestante del San Graal (di ben altra materia è costruita la basilica di San Pietro); e non è senza significato che per quel tempio che doveva rappresentare la mistica catarsi della massiccia volontà di vivere tedesca, Wagner volesse riprendere, a quel che si dice, lo stile architettonico della cattedrale di Siena3. Qualcosa di vero ci può essere, se il pedissequo istinto bavarese della imitazione ha fatto ricopiare a Monaco tali e quali - monumenti e ambienti della miglior epoca italiana. Per tornare alla reintegrazione dei valori storici

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musicali, i tedeschi ebbero, nella musica vocale, e gliela lasceremo senza disprezzi ma anche senza invidie, la dura gutturale accentuazione che se ha insegnato con Wagner il modo di rendere enfatica e martellatamente metallica la monteverdiana invenzione della nuova declamazione musicale, nella sua sostanza tecnica è rimasta schiava con goffo errore (sempre di imitazione) di quella frastagliata strumentalità tedesca nell’ottocento senza dubbio con sproporzionata esuberanza ramificante come una cupa fo­ resta del Nord. Che giova non dimenticare come la no­ stra prima musica strumentale nascesse imitando il coro polifonico religioso ed avesse sempre per suo ideale la vocalità - la vera vocalità; donde la canora venustà del­ l’arte di Corelli e di Vivaldi, di Scarlatti e di Mozart. Mentre al contrario la musica vocale tedesca (vedere l’or­ rido modo di trattare i cori, per esempio, in Beethoven) ebbe semper per costante ideale la strumentalità — quan­ do se n’eccettuino Mozart ed affini da inquadrarsi, com’è detto, nella grande tradizione italiana. Non per nulla il sinfonismo è fenomeno soprattutto austrotedesco e ro­ mantico, esso che se non è — come pangermanisticamente si è preteso — il meglio che in musica si possa fare — alme­ no è quel che di meglio in musica gli austrotedeschi, con una rivoluzione germinata da una nostra transitoria crisi di decomposizione e ricomposizione, abbiano finora sapu­ to dare.

X.

Il pubblico dei vivi oggi piu critico della critica stessa1

E verso il presente? Ho detto che l’accanita e lancinan­ te critica moderna — nonostante tutto il male che se ne voglia dire - ci ha resi piu vigili, piu guardinghi, piu spre­ giudicati, piu pronti alla arditezza del giudizio, piu co­ scienti in una parola; stato d’anima che, dopo tutto, con­ cede, almeno per ora, un’abbastanza allegro scetticismo da non farcela poi prender troppo se una combutta di sensali dell’arte continua a propinarci le più pestifere por­ cherie. Infatti, dinanzi alla propagazione artificiosa di cer­ ti malanni sociali, quali le già citate Cena e Nerone2 e poi Giulietta e Romeo3 e poi Turandot*, verrebbe da credere che il buon pubblicQ moderno abbia uno stomacaccio da struzzo che gli permetta d’inghiottir tutto senza gustar nulla — e l’ambrosia e lo sterco, la freschezza della carne nutriente e la materia in via di corruzione. In parte è vero, ché il pubblico è sempre stato composto di vivi e di morti e tutto il guaio sta qui: che vi sono epoche accidio­ se in cui i morti prevalgono sui vivi. Ma non credo sia del tutto illogico immaginare che il rapporto in un tempo non lontano sia per essere invertito. Infatti codesto pub­ blico, se proprio non decide apertamente di volersi ap­ prossimare soltanto alla scarsa messe di vero grano che anche oggi, in epoca di cosi strana e faticosa transizione germina nei campi dell’arte (accenno a Fedra, Débora5, Belfagor6, Sette Canzoni, ecc.), ad ogni modo - per chi sa che cosa bolle in pentola - mi ha anche un po’ l’aria d’ac­ cettare i Neroni e le Cene e roba simile con quel paziente spirito d’ironia con cui dal più divino critico d’ogni passa-

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to che s’ostini a volersi salvare senza meriti, una volta per tutte fu detto: «Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti! » D’altronde se il successo spesso dipende dal piu volubile degli dèi — il Caso — e giuoca con le infatua­ zioni e le previsioni degli uomini come un maligno giulla­ re benelliano con la fatuità e le debolezze dei suoi tragica­ mente burlati padroni, la persistenza e il consolidamento della stima e della sfiducia in un uomo o in un’opera ha un suo misterioso ritmo d’arcana giustizia che - senza far­ ci incendiare le hegeliane dinamiti di certo ottimismo di moda - può per lo meno consolarci con la mistica fede in un «abisso di consiglio» sia pure — in tutto dall’intender nostro scisso — tuttavia pur sempre consiglio, e cioè non mero caso e capriccio. La verità, come sempre, è molto piu riposta e in nes­ sun modo possiamo per le cose d’arte avvistarla ponendo­ ci da un punto di vista soltanto pratico. Il pubblico della musica presente e bella è sempre stato, tuttora permane, e sempre sarà quel pubblico veramente attuale, come sem­ pre è attuale (ossia di quella eterna attualità ch’è la bellez­ za) la musica di cui esso ha fame e che non ha a che fare con i trucchi irrimediabilmente passatisti cari agli editori e agli impresari. Esso non va a teatro soltanto per vanità o per altri motivi estranei all’arte. Esso, davvero aperto alle rivelazioni perpetuamente imprevedibili del bello, è quel raro sì, ma unico pubblico che da che mondo è mon­ do-in mezzo a quell’altro, che non fa che far numero — abbia contato qualche cosa nei riguardi della piu gelosa e permalosa di tutte le manifestazioni spirituali - l’arte! — E così esso sta, è vero, nascosto in mezzo al gran pubbli­ co come l’anima sta dentro il corpo, ma se non c’è, o non coincide con la claque, è vano che l’autor compiaciuto o il cronista compiacente tengano conto del numero di chia­ mate a velario aperto o chiuso. Ora bisognerebbe esser ciechi per non accorgersi che codesto pericoloso pubblico — che è in generale fatto di molti giovani e di pochi vec­ chi più giovani dei giovani, non rado divenendo nei ri­ guardi della produzione artistica contemporanea (còme meglio mi verrà fatto d’illustrare in seguito), non solo ne­

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gli scopi, dirò cosi invisibili ed interiori, ma anche nel modo visibile d’essere — è per necessità pubblico di sele­ zione. Esso, anche se un giorno uscendo dallo stato em­ brionale sarà destinato pur lui - oggi ristretta aristocrati­ ca avanguardia - a farsi numero, è divenuto, o sta dive­ nendo ben diverso da quello che i romantici s’eran creati o che, — esso pubblico, - aveva forse creato i romantici. È un pubblico piu giovane, piu agile, cacciatore allegro e maligno dei luoghi comuni, disgustato dalla infatuazione quasi direi settaria inevitabile nel pubblico democratico d’un Ponchielli o in quello sia pure piu raccolto, ma non per questo meno emballé, d’un Wagner. Ci voleva infatti altrettanto buono stomaco per digerire il piombo roven­ te della «cavalcata delle Walchirie», ci voleva uno stoma­ co sano per lo meno (tenendo conto della diversità degli stomachi) quanto per sopportare la sozza infiammatrice di quella canzone da facchini ubbriachi che è la pira e che pure - si guardi bene - un tempo ebbe una sua fiera risvegliatrice baldanza garibaldina e anche una sua violenza vocale estremamente caratteristica. Ora codesto nostro pubblico di vivi e di giovani in poli­ tica approva - e lo si vede dalla fede con cui, mentre scrivo, si sta ammirevolmente disciplinando — la soluzio­ ne della questione sociale nel modo anche piu popolare (e appunto per ciò supremamente aristocratico?) di quel­ lo che neppure Marx potesse ebraicamente sognarsi. Ma ora che l’individuo, in quanto produttore di ciò che è ne­ cessario per la piu balda ed eroica salute del corpo, è seve­ ramente subordinato agli interessi della specie; per ciò che riguarda la vita piu intima che ci sia, quella delle arti, codesto altrettanto vigoroso pubblico di giovani non sop­ porta subordinazioni di sorta se non quelle esclusivamen­ te inerenti all’arte. Codesto pubblico è insomma perfetta­ mente convinto che — da un punto di vista rigorosamente estetico, non fu Dante che servi al Medioevo — a questo potevano bastare i trésor alla Brunetto Latini, ma il Me­ dioevo che servi a Dante; come non fu Baudelaire che servi al romanticismo (a questo bastava, ed era di trop­ po, il ventoso Victor Hugo); ma fu il romanticismo che

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servi a Baudelaire. Che se la specie pretendesse ancora Battaglie di Legnano o Gioconde o Piccoli Marat \ l’indivi­ duo artista - oggi più di prima minacciato dalla vasta borghesizzazione delle folle organizzate (e, in quanto all’ar­ te, ogni conquista del progresso — quando questo è fatto fine materialistico a se stesso, è — l’America insegni! — un regresso dell’individuo), ha tutto l’innocente diritto di chiamare intorno a sé i pochi eletti e dire: «Sentite que­ sta mia nuova cosa; dopo decideremo il modo magari di farla piacere, se è possibile, anche a tutti». E ciò per can­ tare magari il sentimento più universale, o che dovrebbe essere, per definizione, il più universale di tutti: la fede religiosa, la quale può e non può esser espressa in una forma comprensibile da tutti, e meno che mai comprensi-, bile in ogni tempo da tutti (chi comprende oggi più Pale­ strina che pure a suoi tempi fu modello di semplicità?) Infatti, perché Michelangelo potesse affrescare la Sistina o Raffaello le Stanze, era stato il favor popolare (stavo per dire — il suffragio popolare), o l’intelligenza aristocra­ tica dei grandi mecenati cinquecenteschi a riconoscere il loro genio? Vero che oggi - se lo Stato non provveda l’arte quando non voglia ricadere in mano dei soliti «sen­ sali dell’arte», dipende per ora (vedi il Teatro di Tori­ no 8) dal più balzano dei mecenati collettivi: lo snobismo. Comunque, ecco perché se non ancora altro che sporadica­ mente nel teatro di musica, almeno — per esempio — nel teatro di prosa (Pirandello informi) si rifugge dai grandi teatrissimi democraticamente omnibus e si ritorna agli ari­ stocratici piccoli teatri9, ove nel secolo xvi sorse - oggi si direbbe cerebralmente — l’opera, ossia almeno nella sua primitiva concezione - il monumento ideale per eccel­ lenza del monumentale - fastoso fino al barocco — Rinasci­ mento. La fantasia, scacciata dalla organizzatissima Scala, si ri­ fugia da quell’eterna anarchica cospiratrice che è, negli indipendenti sotterranei di Bragaglìa10 ? Ho detto che questa tendenza selezionatrice a tutela e difesa della fantasia - la cui istruttività nessun fine prati­ co può controllare come nessuna disciplina può infrenare

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LA CRISI DELLA CRITICA

l’involontarietà del sogno (altro che parzialissimamente ha fatto indirettamente e per scopi esclusivamente prati­ ci, i quali, cioè, non hanno niente a che fare con l’arte che sotto questo aspetto è istintività pura e come tale, quan­ do sia vera arte, sempre rispondente alla più pura legge morale) — si è manifestata per ora, quasi a reazione all’e­ poca prevalentemente affaristica e plutocratica, nel tea­ tro di prosa. Debbo però notare essere stato proprio in musica che, per evitare ad un’opera d’arte di più ardua eccezione [concezione] il contatto con l’automatismo soffo­ catore delle folle in via di socializzazione, e magari pro­ prio quando quell’opera d’arte tendeva romanticissima­ mente — napoleonicamente — a soggiogare ed ubbriacare dispoticamente il sentimento di quelle folle, siamo nel secolo scorso ritornati - in un caso solo, è vero, ma cele­ berrimo — al teatro apposito. Il teatro di Bayreuth, prossi­ mo com’ognun sa alla villa di Wagner, fu in certo qual modo l’antesignano dei moderni teatrini alla Pirandello, o più modestamente, alla Bragaglia - un teatro dove, man­ catogli il mistico mecenatismo di Luigi di Baviera, un au­ tentico patriota tedesco come Wagner affidava la sua va­ sta opera non all’amore della sua razza (come potè fare più innocentemente il genio indigete “ della prim’ora di nostra indipendenza, Verdi) — ma contraddittoriamente alle sue democratico-patriottiche aspirazioni ad un racco­ gliticcio pubblico snobistico, cui bastò una raffica di tem­ pesta sociale perché si sbandasse. Vero è che molto ro­ manticamente si volle vedere nel teatro di Bayreuth la resurrezione dei teatri antichissimi ove si celebrarono i tragici riti greci sacri al dio Dionisos. Ma oggi il romanti­ co Dionisos orgiastico ed enfatico agonizza e tutt’altro nu­ me — se si vuole più euripideo che eschileo - sta proiettan­ do il suo strano ambiguo fantasma sullo schermo irrequie­ to del moderno individualismo artistico.

Parte seconda [Dionisos]

XI.

Ultima incarnazione di Dionisos

Infatti, in tema di romanticismo e di rinascita della tra­ gedia greca calza a puntino riprender qui un vecchio mito rimesso a nuovo nel secolo scorso ed oggi a quanto pare di nuovo invecchiato per essere, il dio in quel mito cele­ brato, ipostasi d’un impeto vitale ormai esaurito. Come tutti sanno, o potrebbero sapere, tanta è la popo­ larità del mito cui alludo, fu il libro piu «per tutti» del­ l’autore d’un celebre libro «per tutti e per nessuno» che nella coltura europea di fin dell’ottocento e di principio del Novecento fece rinascere Dionisos — l’ebbro iddio travolgitore orgiastico d’anime — a inspiratore e suscitatore della musica romantica. L’autore era Federigo Nietzsche e il suo libro piu «per tutti» l’Origine della tragedia. Nell’Origine della tragedia — titolo di libro che, oggi, a citarlo, fa venire un po’ la stessa deferente malinconia che si prova a nominare V Emile o la Nouvelle Héloise di Rousseau — il Nietzsche, non certo il primo ma sicuramen­ te il piu seducente degli scrittori che nel secondo romanti­ cismo furono troppo artisti per essere filosofi e troppo filosofi per essere artisti, tracciò uno di quei miti così squisitamente culturali e [di] tanta influenza letteraria da diventate ben presto luogo comune di tutti i cronisti arti­ stici dei giornali. Egli osservò che delle due divinità inspi­ ratrici, secondo lui, dell’arte greca, Apollo dio delle pure arti solari e visive — architettura, statuaria, pittura e poe­ sia epica — e Dionisos dio della mistica rappresentazione rituale nella quale i luminosi numi ed eroi indigeti dell’Ellade venivano fasciati dall’inquietante ombra dei misteri

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[dionisos]

religiosi immigrati dal finitimo Oriente. Dionisos dal tir­ so incitante, se non piu alle orgie di vino e di lussuria, almeno alle liriche sbornie d’anime, nel sinfònismo ro­ mantico specialmente wagneriano risorgeva in un tumul­ to di musiche esaltate ed esaltanti. E il nuovo tiaso era l’orchestra orgiasticamente pulsante nella ritmica eroica di Beethoven o nell’enfasi sonora di Wagner. Il mito, com’ho detto, ebbe larghissima fortuna. Ga­ briele D’Annunzio, nazionale importatore di tutte le piu snobistiche novità straniere, nel I libro delle Laudi — ra e propria enfatica sinfonia d’eloquenza verbale nono­ stante i suoi alcionici momenti di melodia lirica - lo tra­ dusse in poesia e contribuì a divulgarlo fino alla sazietà; E così «la furibonda enfasi sonora» del sinfonismo (è proprio una innocente definizione dannunziana) ubbriaco fino al delirio tutti gli adolescenti d’allora, me compreso, già cotti a metà dalla iniziazione estetica d’un curioso li­ bro dal titolo preraffaellita La beata riva1 d’un esteta ami­ co di D’Annunzio e finalmente portati a completa cottu­ ra dal Fuoco dello stesso D’Annunzio. Il T'ristano e Isot­ ta con le notturne allucinazioni (dionisiache se altre ve ne furono) dell’ansante duetto coronato da un delirio di spirali sinfoniche, miete vittime non soltanto nella musi­ ca, ma in tutte le altre arti che un sottile esegeta inglese disse — lo san tutti e tutti han fatto di quest’aforisma un uso da farlo diventare un altro pessimo luogo comune di più - aspirare «allo stato di musica»2. E, sempre a propo­ sito dell’ancor verde fortuna di questa designazione: dio­ nisiaco, in occasione d’un’opera che ha avuto la più bril­ lante ventura ch’oggi si possa ad opera nuova augurare quella di fare accapigliare giovani e vecchi, un critico (l’o­ pera era II Diavolo nel campanile di Adriano Lualdi3; il critico, Alceo Toni4), scriveva: «La musa comica, come quella drammatica, ba avuto sinora pel teatro d’opera lo stesso volto infiammato e ispirato: entrambe inducono al­ le espansioni dionisiache più che al cogitare socratico»3. Ricorderò che nello stesso mito nietzschiano Socrate co­ me padre della scienza e della scepsi filosofica — la ricerca oggettiva del vero — era dal Nietzsche contrapposto ad

ULTIMA INCARNAZIONE DI DIONISOS

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Apollo dio della serena bellezza greca, estranea alle sofisti­ cherie dei filosofi e — a maggior ragione — a Dionisos dio della divina follia che spinge l’uomo ad obliarsi misticamente nei trascendenti misteri della generazione e della morte. Piu tardi Nietzsche, guastatosi con Wagner, si con­ siderò lui solo il sacerdote del nuovo o vecchio Dionisos. Il che non muta in nulla la triste realtà che l’arte roman­ tica fu piu che inspirazione, scatenamento orgiastico, anar­ chia di sensibilità e di mezzi tecnici e che Federigo Nietz­ sche fu il primo a darne la formola. Ora io non vorrei proprio giurare che Dionisos siasi proposto di attuare tale mistica reincarnazione in tempi in cui l’homo faber di Bergson meditava il telegrafo sen­ za fili e giuocava con l’elettricità come Prometeo non si sarebbe mai arrischiato di fare con la folgore di Zeus. Tuttavia, se ci teniamo proprio a far disertare a Dionisos gli aperti teatri greci che, come quelli di Siracusa e di Taormina, han per fondale azzurrino il cielo e il mare siciliani, chiamiamo pure dionisiaco il lirico agitato pa­ thos romantico. È questione d’intendersi e una formola a volte è un à tout utilissimo. Piuttosto dobbiamo allora riconoscere che la fase viva di codesto pathos è ormai virtualmente sorpassata. Ma si come vi sono ancora spiri­ ti nobili se non geniali che si ostinano ad alzare incensi a questo strano caotico nume greco-orientale nell’Ottocento sulla terra tornato in veste di rivoluzionario romanti­ co, ammetteremo che il gran nome, non ancora del tutto rimorto, agonizza se mai piuttosto dolorosamente nelle opere di qualche raro attardato wagneriano più o meno in odore d’ortodossia di rito — anzi ormai niente piu affat­ to wagnerianamente ortodosso, che in arte la fede degli estremi epigoni ammette ciò che è severamente interdet­ to ai fedeli d’una religione costituita — l’evoluzione del dogma.

XII.

La nuova agonia del dio

Comunque, ammessa la reincarnazione, che mai vole­ va Dionisos, datore d’irrefrenabile gioia-dolore, dai musi­ cisti dell’Ottocento? Detto in meno parole che si può, voleva il far grandio­ so e teatrale, il cantar vasto, lo scatenare negli uditori sussulti titanici di passioni rivoluzionarie e di amori ribel­ li fino alla esaltazione ed alla morte. La quale nell’antica tragedia (o se non proprio la morte, una catastrofe analo­ ga), quantunque fosse dal Fato ineluttabilmente imposta a scioglimento del dramma - la mistica catarsi purificatri­ ce — non so poi se per ribrezzo del brutto, o, piuttosto, per pio orror religioso, era tenuta gelosamente nascosta come occulti si tengono i misteri rivelabili ai soli iniziati. Ma l’anima moderna avvezza a contemplare la morte eb­ bra di divinità del Crocifisso, piu misticamente misterio­ sa d’ogni morte d’eroe e di semidio greco, dai misteri sacri medievali in giu non doveva troppo scandalizzarsi della morte - dall’operista sulla scena liricamente celebra­ ta ed ostentata - di Siegfried e d’Isotta, né della incendia­ ta ruina del Walhalla di tutti gli dèi fumiganti in un’im­ mane marcia funebre crepuscolare. E la stessa vena legge­ ra della ridente opera comica doveva inturgidarsi di san­ gue spesso ritmato da un battito degno dei polsi d’un Efe­ so in momento di vulcanica allegria. Basti ricordare il ma­ stodontico «preludio» dei Maestri Cantori che ha ormai finito per stuccarci coi suoi troppo clangenti metalli, o se vogliamo riferirci a musiche di stile più innocente e meri­ dionale, la circolarità vocale a vortice del «Mi par d’esser

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colla testa | In un’orrida fucina» del Barbiere di Siviglia. Il riso non ha più la settecentesca grazia pacata ed arguta di Serpina o di Cherubino, né il brio un po’ sempre cadenza­ to in ritmo di danza per nulla volgare o per lo meno non mai violento e violentatore delle Nozze di Figaro e del Flauto magico-, ma è riso che scuote un po’ farabuttescamente l’ampie spalle di Figaro che danza, la chitarra alla mano, in mezzo alle capricciose architetture sivigliane soffuse dalla «bella aurora», oppure si gonfia e straripa con onda prepotente nella tempestosa baruffa norimberghese cui la luna nordica spenge romanticamente in una frescura odorosa di gelsomini. Ora — si tratti di romantici autentici o d’epigoni sem­ pre meno legittimi — un fatto deve ormai soprattutto sal­ tare ai nostri occhi ben bene sbendati dopo tanta e nau­ seante indigestione d’arte ottocentesca: e cioè il crescen­ do d’enfasi, di fragore, di gonfiatura — di retorica in una parola - che ognuno può constatare nella musica, dai due grandi napoleonidi Beethoven e Spontini1 — e vorrei ag­ giunger loro Rossini - passando per Wagner e Verdi, fi­ no a Strauss e Mascagni. È evidente che a Dionisos du­ rante questa unisecolare reincarnazione poco o nulla im­ portava se la celebrazione dei suoi misteri (che in Grecia si erano estrinsecati in gravi tragedie e in comici drammi satireschi) avesse, nonostante la dovuta drammaticità, una certa sevèrità di rito religioso seppure orgiastico in senso di profondamente emotivo e travolgente. Anzi, a quanto pare, egli tornando sulla terra in quel secolo che Oriani pomposamente (dionisiacamente?) chiamò «mon­ diale» - l’Ottocento — ha tenuto più di tutto alla più im­ pressionante e sfacciata teatralità, a fare colpo sulle mas­ se — e ciò sempre e sempre più — fino all’assurdo delle cacofonie a «pugni nello stomaco» e al cataclisma stru­ mentale dei demagogici finali a tutta orchestra dopo il cui tempestare davvero «trema agli umani il cuore»! Cosi, per ciò che riguarda gli epigoni dei romantici — tali i padri, tali i figli — ossia per chi sia abituato a sentire con l’impeto napoleonico e più o meno istrionico di Bee­ thoven e di Wagner (il primo molto meno sano, sebben

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infinitamente piu sano del secondo nonostante quel che universalmente si creda), o con l’eccitazione isterica di Schumann e di Strauss e la tendenza ai trucchi — questo sia detto soltanto di Strauss —, riconosco essere difficilissimo, se non impossibile, non ricadere nella declamazione fasto­ sa d’enunciati tematici altisonanti e nell’ostentazione non meno altisonante del piu comune e volgare (se non in Schumann certo in Strauss e... non parlo di Mascagni) fra­ sario musicale. E se proprio non sempre si tratti di altisonanza, l’epigone romantico nella sua monomania bacchica tende di solito a gonfiare i modesti ruscelli dei suoi spunti melodici e ritmici non mai troppo peregrini, in torrenti — ohimè — spesso trascinanti in un con le pagliuzze d’oro disperse nei gorghi d’un molto spumeggiante strumentale, melma e pietroni e macigni. Sta bene che Riccardo Strauss recentemente col Borghese gentiluomo2 e prima con qual­ che pagina velina e trasparente del Cavaliere della Rosa3 e dell’Arianna a Nasso\ abbia voluto limitare l’uso delle grandi artiglierie nella sua orchestra. Ma dalla massa degli strumenti quale apocalittica batteria non seppe resistere dal puntare contro il pubblico di pescicani rossi e bianchi e di plebi in via di bolscevizzazione nella sua Sinfonia delle Alpi mai prima forse emulato se non dal suo conge­ nere Gustavo Mahler (pace alla tonante anima sua!) E se gli artisti romantici della prim’ora dicevano: — Qui nous delivrera des Grecs et des Romains? —, i musicisti moder­ nissimi potrebbero esclamare: - chi ci libererà dalla «Ca­ valcata delle Valchirie»? Agonia mostruosamente titanica quella di codesto id­ dio dall’orgia verbale, coloristica, ritmica e timbrica. Egli muore — o rimuore — in un crepuscolo, sì, ditirambico, ma sul gusto tronfio e barocco del kolossaal alemanno. Chi intuona il grandioso seppur vacuo ditirambo sono gli ormai vecchi compositori tedeschi o tedeschizzanti, i qua­ li vedono ancor tutto «mondiale» o «colossale», e la for­ za del ritmo e l’antico affastellato dei contrappunti e la complicazione inferocita dei mezzi sonori, al modo stesso che i loro compatriotti nonché (per i tedescofili) insupera­

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bili maestri di vita, videro mondiale la politica e colossa­ le la guerra — politica e guerra dionisiache? — e, perden­ do, trasmisero qualcosa del loro immenso — e come tale troppo vago — sogno imperiale a tutti i popoli vincitori.

XIII.

Dionisos demagogo

Il dio del rombo orgiastico e del pathos romantico riempie di sé tutto il secolo xix e, almeno della sua ago­ nia, la parte dirò cosi piu ufficiale a noi finora toccata del secolo xx. Appena — allo spuntare dell’ottocento — si fa presente, lo seguono le rosse torme della Rivoluzione francese debitamente militarizzate dal genio imperiale di Napoleone. Vero è che i musicisti primi ad essere inebria­ ti dal nuovo ideale della ribellione del demos e - almeno in terre austro-germaniche — della superiorità d’ogni fie­ rezza ed asprezza popolare tedesca — ed anche non tede­ sca — intimamente protestante (tale fu in sostanza il feno­ meno estetico del romanticismo) vero è, dico, che tali musicisti discesero da prima dalle sale inaccesse dell’aristo­ crazia. Ma, ahimè, dove mai esularono le stilizzate auree sagge musiche di Haydn e del divino Mozart, il più puro artefice dell’«arte per l’arte» che la musica abbia possedu­ to! Negli ormai perfettissimi contrappunti, tramandati dai secentisti e dai settecentisti specialmente italiani con lo stesso superstizioso spirito di conservazione con cui i discendenti delle dinastie faraoniche a forza di selezioni e di sublimazioni si tramandavano un tipo elettissimo d’arte del vivere e del governare iniziatica e stilizzata fino alla depauperazione, ecco che Beethoven dalla faccia fremente ed offesa fa violentemente circolare un nuovo sangue infiammato e irruente che li gonfia — quei filigrana­ ti e pur robusti contrappunti — e li deforma fino a spezzar­ li (come avviene nel celebre finale della [Nona Sinfonia ‘], negli ultimi Quartetti e nelle ultime Sonate1)-, più spesso però riesce a servirsene per innalzare metastasiani e - al

DIONISOS DEMAGOGO

tempo stesso - napoleonici trofei le cui bandiere (al tem­ po almeno di Beethoven) sbattevano al vento augurale di mille ribelli speranze (finale altrettanto celebre della Quinta per non citare che uno dei pezzi piu noti). Il rein­ carnato Dionisos era figlio della Rivoluzione francese questa celtica sorella dello Sturm und Drang di pretta ori­ gine protestante e quindi democratico - e, come tale, am­ biva non a piacere o a compiacere soltanto agli aristocrati­ ci, anzi al contrario - e soprattutto - a scuotere e a far colpo sulle masse o, se più piace, a quel «terzo stato» che finalmente era giunto ad espandersi alla superficie della storia. L’anima del nascente sinfonismo è, nonostante l’in­ volucro ancora in Beethoven quasi sempre settecentesco e gentilizio, borghese e popolare e la sua forma prediletta si riassume nella vasta trascinante oratoria perorazione or­ chestrale. Beethoven è il primo, ch’io sappia, a inventare la ripresa fortissimo a tutta orchestra d’un motivetto ma­ gari leggero e, comunque, refrattario alle eroiche amplifi­ cazioni: si ricordi nel finale dell’Eroica il temino da con­ certo per pianoforte (che tale era in origine) sulla fine del pezzo ripreso per aumentazione, con un procedimento iperbolico già da Ouverture del Tannhauser3. Così i vasi dei teatri d’opera e le sale delle Società filar­ moniche si andavano trasformando. Non era più il tempo in cui un melomaniaco imperatore austriaco entusiasma­ to dal Matrimonio Segreto di Cimarosa si poteva far bissa­ re tutta l’opera per sé solo. Non era più il tempo in cui un principe o un magnate privato poteva tenersi ai pro­ pri stipendi un genio come Haydn onde avere la musica necessaria né più né meno delle tappezzerie a decorargli i saloni di ricevimento. La musica dopo essere stata per le chiese, dopo essere stata per le reggie, passava al servizio del terzo stato se non addirittura della plebe delle arene — il che finì come vediamo benissimo per accadere. I tea­ tri si slargavano, divenivano per tutti e nel corso di quel secolo che, com’ho detto, Oriani (ottimista a volte come lo possono essere soltanto gli idealisti hegeliani) appella mondiale - difatti: pour tout le mond - [si apprestavano] ad accogliere con sé il pubblico adatto ad applaudire la

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Gioconda di Amilcare Ponchielli, il cui libretto, scritto da uno dei più illusi e delusi epigoni del romanticismo4, segna davvero il trapasso del dramma ancora nei limiti dell’arte, al drammaccio da arena tipo Pia dei Tolomei5 o il Povero Fornaretto6. E a questo proposito, anzi, si ricor­ dino gli ironici versi: «Si drizzan le orecchie facili quan­ do la variopinta trilla nota de la Gioconda» del Carducci. Un poeta che ci teneva, in terra ancora di gorgheggiatoti, ad ostentare indifferenza musicale e, per di più, un poeta democratico fino al midollo, vide meglio nei riguardi del­ la musica ponchiellesca — che i crìtici musicali d’allora e moderni impresari i quali riesumatori desolatissimi per l’impoverimento crescente di quella fonte di facili guada­ gni ch’era il melodramma popolare di Donizetti e di Ver­ di, di Puccini ed affini, si attaccano ora alle briciole risec­ chite del banchetto. Ciò sia detto con sopportazione di chi va in estasi dinanzi al Figliuol Prodigo7 ed anche alla Dejanice* e a quante altre opere ottocentesche vogliansi sottrarre all’irreparabile giustizia d’una storia che in fat­ to di melodrammi fu anche troppo dì maniche larghe. Ma lo stato d’anima rivoluzionario (ciò che in politica oggi si chiama con allegro sorriso «liberalismo» e meglio dovrebbe chiamarsi «licenzismo» per le caotiche confusio­ ni che compì di tutti i valori della vita) non scoppiò tutto in un punto. Fu un’amplissima conflagrazione di sobbalzi, scossoni, colpi di spalle e di testa se non addirittura pugni e cazzotti, coll’andar del tempo tanto più diffusi quanto in potenzialità meno efficaci. Si confronti YEroica beethoveniana con Vita d'eroe di Riccardo Strauss. Perno di en­ trambe le composizioni è YIch di Beethoven e YIch di Strauss; ma se dirò così a riverbero d’incubo o succubo storico — nell’una si profilerà il fantasma di Napoleone, nell’altra potremo facilmente nello sfondo vedere l’istrionica silhouette di Guglielmone coll’elmo a chiodo, il Dio dei boches a suo permanente servizio e in uno sfondo an­ cor più storico, la camarilla della tavola rotonda. Tutta­ via il trapasso tra l’uno e l’altro Ich contiene tutto un crescendo di degenerazione individualistica e se Beetho­ ven cancella la sua dedica a Napoleone, Strauss non si

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cura nemmeno di accennarne una a quel suo imperatore non men di lui poseur in fatto d’eroismo retorico ed esal­ tato — eppure una tal dedica sul frontespizio del catastrofico poema sinfonico straussiano a un cotale catastrofico im­ peratore poteva starvi benissimo, come — in quanto a vio­ lenza individualistica di ribellione romantica alla vita — la dedica a Napoleone Sull’Eroica beethoveniana ci pote­ va rimaner benissimo. Giacché evidentemente tra l’impe­ rialismo e l’individualismo del secolo xix c’era lo stesso rapporto che corre tra lo specchio e l’oggetto riflesso, e tutto sta a determinare se era l’individualismo a riflettere l’imperialismo o viceversa. Ma altrove ho già scritto’ che quel che costituisce la forza innegabilmente posseduta dallo stile dei primi ro­ mantici Goethe, Beethoven e nel pensiero Kant — stile in gran parte ancora sano ed esente da pose e da trucchi capziosi — è la loro dura preparazione secondo severe clas­ siche regole tradizionali non importa se a poco a poco infrante, o credute d’infrangere — non certo mai del tut­ to ignorate o dimenticate. Alcuni temi di Beethoven e su per giu di tutti i musicisti romantici (persino di quelli in cui non ci se n’accorge più, come in Wagner in Strauss in Mahler) non sono che assai modesti temi di pretta marca settecentesca; si pensi al ben quadrato tema del primo tempo della grande sonata con fuga in si bemolle per pia­ noforte op. 106: nudo e bruco potrebbe stare in un duet­ to comico di Cimarosa; Beethoven non l’ha che imburbanzito e sonorizzato secondo le nuove tendenze incipiente­ mente di moda. Io oso dire che metà per lo meno, se non più, della grande fama di Beethoven va ascritta all’assolu­ ta adesione dell’autore della Nona — che termina, com’ognun sa, con un inno polimetro alla Libertà rivoluziona­ ria debitamente trasformata in innocente Gioia dalla pudi­ bonda censura austriaca — agli ideali del suo tempo, si chiamino morali o politici, religiosi e filosofici. È strano come sia comune credere — data la troppa scroccata inde­ terminatezza della musica - che il musicista sia una spe­ cie d’abitante d’altro pianeta, errante sulla terra a non so quale miracolo mostrare; e — naturalmente — d’un piane-

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ta la cui vita sia non solo diversa dalla nostra, ma anche migliore e platonicamente trascendente la nostra (nei tem­ pi antichi non era del resto diffuso il bel mito dell’origine astrale della musica?) Ma io credo che non le si tolga niente della sua divina bellezza, forse la più bella raggiun­ ta da tutte le arti già manifestatesi ed ancora manifestabi­ li, vedendovi dentro quello che per forza c’è: la personali­ tà d’un uomo come tutti i suoi miseri effimeri fratelli più o meno dipendente, qualunque sia la potenza della sua elevazione ed affermazione individuale, dal clima morale in cui storicamente visse Tornando a Beethoven certo che maggiore fu il suo ge­ nio e maggiormente quel clima storico e morale egli, nel­ le ore di grazia della sua vita, quando cioè più divinamen­ te era se stesso, seppe trascendere. E sotto quest’aspetto sempre resterà — chi ne può dubitare? — nell’opera virile e commossa di Beethoven tanto da farlo, al di sopra d’o­ gni contingenza, umanamente grande nel consesso degli spiriti più grandi. Ma spessissimo accade che di un gran­ d’uomo i contemporanei e immediati successori trovino più bello e più vivo ciò che forse è più effimero. Beethoven meno grande là dove più rivoluzionario, li­ bertario e romantico? Sembrerà [un] paradosso, ma, per quel che riguarda il romantico, chi arriverà a dire tutta la retorica di quella sua maschera di gesso pendente da ob­ bligatorio panneggiamento di velluto tappezzieresco sul pianofortuccio verticale di ogni professoressa del medesi­ mo? È vero che persino di Cristo oggi si fanno degli orri­ bili «santini» con suwi l’immagine d’un biondo barbato pastore, roseo e sentimentale, oleograficamente paluda­ to come un eroe da teatro di burattini e con al ginocchio una pecorina più stupida del naturale; ma il male si è che Cristo tali scempiaggini che rasentano la diffamazio­ ne non se le merita, mentre forse Beethoven non solo la famigerata maschera ma perfino il romanticissimo qua­ dro del Balestrieri11 (cui a quel che pare fece da modello una delle più infelici e nobili vittime del decadentismo romantico, il violinista fallito Giuseppe Vannicola “) — co­ desto borghese sentimentale quadro del Balestrieri e code­

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sta pessima contraffigurazione mascherata, trofeo, Puna e Paltra della piu enfatica scapigliatura romantica - Bee­ thoven dico, è nella natura della sua aspirazione che se li meritasse. E inoltre in quanto al suo rivoluzionarismo, nel­ le opere maggiori o credute tali, Beethoven scambia per as­ soluto un relativo che ai suoi tempi parve a tutti un più nuovo e inaudito assoluto estetico. Ben diverso è l’assolu­ to estetico di Eschilo o di Dante o di Palestrina. L’asso­ luto estetico (e anche non estetico) di Beethoven suona spesso a vuoto, manda ormai un impolverato sentor di retorica; e il finale della Nona sinfonia (e anche il primo tempo nonostante l’intuizione stupenda della mormoran­ te immensità con cui s’apre — e anche i freddi retorici squilli eroici dell’ultima parte dell’adagio - che pure è la zona più pura di tutta la sinfonia) è parente d’un’altra retorica musicale — e questa napoleonica per eccellenza: la retorica della Vestale di Spontini. E se la Vestale oggi ci attira come [ci attirano] i cimeli d’un museo napoleoni­ co, la Nona sinfonia io la vorrei mettere in un museo di memorie riguardanti l’epoca della ormai insopportabile Rivoluzione francese. E com’è che in questo museo, se potrebbero benissimo starvi le più libertarie tra le trage­ die di Schiller e quel suo inno alla libertà che servì appun­ to di canovaccio per il finale beethoveniano, non capireb­ be in nessun modo il primo e tanto meno il secondo Faust di Goethe? Ciò non avviene forse perché Goethe nonostante professasse di credere in un durabile rinnova­ mento del mondo mercé la liberale [sua] proclamazione e supervalutazione dei diritti dell’uomo al disopra e a [dan­ no] dei suoi doveri; e nonostante fosse pari a Beethoven nell’aver, quegli con la Nona, egli col Faust, procreato un «capolavoro sbagliato», aveva già tendenzialmente supe­ rata con la larghezza critica della sua intelligenza se non con la potenza della sua fantasia troppo dilettantesca la sufficienza astratta di codesta posizione socialmente ed esteticamente insostenibile? In Beethoven si vide e si amò il romantico e il ribelle - la mitologizzazione dell’uomo sofferente - più che l’arti­ sta, il sordo e colui che, repubblicanamente, al fianco del



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Goethe cortigiano per scetticismo, ai bagni di Toeplitz, in Boemia, sdegnava inchinarsi al passaggio della Corte imperiale - piuttosto che il musicista. Come tale Beetho­ ven risulta spesso incerto tra il vecchio e il nuovo, incom­ pleto, disunito di stile; con errori di tecnica - il pessimo uso del coro nella Nona e nella Missa Soletnnis e gli ecces­ si soggettivistici delle ultime Sonate — in fatto di tecnica pianistica; violinistica - degli ultimi quartetti, con imper­ fezioni di forma, spezzature, frammentarietà, parentesi, eccessi e manchevolezze cui non basta a colmare e ad equi­ librare il soccorso artificioso d’ideologie, le quali poi per sé stanti sono ben lontane da mostrare l’impronta d’una di quelle fedi trascendenti ed eterne che nella parola o nel momento melodico a volte più semplice sembra squar­ ciare come un lampo rivelatore l’oscurità in cui viviamo. Ma il più strano è stato questo — che Beethoven passa per l’eroe della sincerità e dell’immediatezza musicale. Orbene pochi - non dico sempre, ma in momenti che mi­ nacciavano d’essere i più significativi della sua vita stori­ ca — hanno «posato» più di lui! Posato per esempio nelle marce [sic] funebri; posato in certi ovvi passaggi dal mino­ re al maggiore adoprati con ostentazione fumista; posato soprattutto nella baroccheria macchinosa di quei caotici templi che il musicista — e non solo con la Nona — ha volu­ to innalzare alla più balzana ed anarchica delle deità con­ template nella frigida mitologia della ragione umana - la libertà - libertà ben diversa da quella per esempio che Dante sa non poter essere oltrepassata dalle originarie li­ mitazioni dell’uomo. Si ammetterà per lo meno che ci sono come precedenti all’opera d’arte, ideologie e ideologie - ideologie simpati­ che e ideologie antipatiche. Seppure non sia bello doman­ dare ai romantici quali sono le ideologie che si richiedo­ no per intendere la musica di Palestrina - o di Mozart per citare due geni assolutamente estranei l’uno all’altro ma entrambi perfetti — Palestrina musicista religioso, Mo­ zart musicista e basta, innocentemente musicista, al mo­ do stesso che Raffaello fu sopra tutto innocentissimamen ­ te pittore e honni soit qui mal y penseì Giacché mi si

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dovrà ben concedere — sia detto en passant — l’assoluta innocenza della vera arte, anche di quella che o sia o sem­ bri profana — o, come oggi si dice, la radicale amoralità dell’arte, non potendosi la più bella arte piegare al servi­ zio di qualunque demonstratio theoretica - ma se mai la più nobile idea morale di cui sia invasata nella pratica della vita vissuta la volontà d’un artista, in quanto o per quel tanto che si trasforma in arte passa essa — semmai — al servizio della Fantasia, che solo manifestandosi come tale, serve agli intenti occulti della Provvidenza. È possi­ bile infatti che in questa mania tutta romantica di voler far dell’arte - d’ogni opera d’arte fare un vangelo di vita — è possibile che i pensatori non arrivino mai a capire che non è necessario che il santo compia il suo miracolo secon­ do il processo con cui lo scienziato compie le sue esperien­ ze — secondo cioè il metodo razionale e scientifico — cosi non è necessario che il pittore dipinga — con un pennello teologico, o il musicista diriga — con l’aspersorio? I santi non hanno a che vedere con i bigotti dei gabinet­ ti scientifici — ma nemmeno gli artisti con i sagrestani — o con i loro farisaici parenti - i bigotti della morale, a qua­ lunque setta appartengano. Il vero santo e il vero artista - si parva licet... — sono in diversa direzione refrattari al male, il secondo superandolo, annientandolo in certo qual modo nell’atto stesso che lo investe col soffio arden­ temente purificatore della ispirazione’, il primo superando­ lo continuamente con la ventata ardentemente purificatri­ ce della sua aspirazione, al Sommo Bene. E se l’ispirazio­ ne del bello è innocenza suprema, è (come bene ha detto Papini) ricordo della [ritorno alla] sintesi primitiva e se l’aspirazione al Sommo Bene è — infinitamente più — la creazione dell’uomo vivente secondo l’« immagine di Dio», la incomparabile superiorità del santo sull’artista (ammettendo che le due condizioni di spiritualità potesse­ ro, non saprei sotto quale aspetto, paragonarsi) non po­ trebbe forse consistere nel fatto che l’artista risogna — per quanto glielo consente la sua umanità — la Realtà suprema di Dio, mentre il santo l’attua direttamente nella vita vis­ suta?

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Così il sogno dell’artista sarà sempre per sé solo aegrì somnia — ma la pratica del santo sarà addirittura Vaegri salvatio et redemptio. Ma la musica - salvo il caso dello stesso Beethoven, di Wagner e in generale di quasi tutti i migliori compositori dell’ottocento — era stata sempre a quanto pare per sua natura o per la sua tardiva entrata nel consesso delle altre arti al fianco della multimillenaria poesia — l’ultima a ri­ sentire d’un movimento che perciò si veniva in essa a ma­ nifestare quando nella vita sociale e nelle altre arti era in un certo senso esaurito. Così il Medioevo in musica si prolungò ben oltre il Rinascimento e Palestrina è su per giu contemporaneo di Leonardo da Vinci - e se non pro­ prio di Shakespeare poco ci manca. Così in piena immi­ nenza di Rivoluzione, francese fiorisce Mozart, il piu per­ fetto compositore di musica pura che il Rinascimento mai sia riuscito a creare in Italia, giacché Corelli Vivaldi Scarlatti (il piu grande di tutti) Pergolesi, ecc., hanno avuto la sfortuna d’obbedire al classico impulso dell’arte per l’arte, quando le splendide Signorie dei luminosi Mece­ nati Italiani avevano ceduto il campo a sfruttatrici domi­ nazioni straniere compresa quella degli spagnoli o agre­ sti signorotti sempre piu anacronistici. Si comprende be­ ne come un tal genio — il più grande della musica se per musica s’intenda umanisticamente la musica pura sorges­ se e splendesse in Vienna dove a quel tempo l’imperiali­ smo austriaco raggiungeva un raro e sia pure momenta­ neo componimento di nord e di sud della classica vetusta forma latina e dell’ancor giovane barbarica romantica ma­ teria tedesca. L’arte di Mozart è il più latino e quindi cattolico connubio di civiltà romana e di verginità nor­ dica. Con Beethoven l’equilibrio (certo ben difficile) si rom­ pe. La barbara verginità nordica prevale su quella civil­ tà. La materia romantica - il dionisiaco - si sfrena dalla forma classica inesorabilmente cattolica. E se Beethoven tenti d’esprimere religiosamente questo suo bisogno di ribellione (più che di vera libertà) meglio non sa che aderi­ re alle gelide formule trapelanti dai culti segreti illumini-

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sti allora in voga. Né vale che intanto questo suo bisogno sia solcato da rabbiosi accenti titanici. L’insurrezione del titano Prometeo è colpevole finché non si sublima nella riconciliazione. Ma Beethoven molto romanticamente mo­ ri (se non è leggenda) alzando il suo pugno contro il cielo. Il suo titanismo musicale non ha che un’attenuante: che tutti al tempo suo erano stanchi della gretta schiavitù d’allora, ridicola fino all’osceno perché asservita ad una slom­ bata prepotenza vile ed avvilente. Ma questa è una scu­ sa e, come tale, relativa alla contingenza. Ecco perché Beethoven nelle cose maggiori o credute tali non giunge mai completamente ad immergere nella musica le ideologie libertarie e le illusioni puerilmente idilliache. Una riprova si ha nel fatto che oggi quelle ideo­ logie fanno ancora preferire, ai piu intossicati di romanti­ cismo dionisiaco, la Nona sinfonia a quella Missa Solemnis certamente più significativa, ma che forse anche per una profonda ragione estetica (troppo egli era colorista per subordinare la multicolore orchestra all’omogeneità delle voci! ) non valse a far dimenticare — di lui che voglio­ no cattolico più che non riuscisse ad esserlo - l’inno alla libertà repubblicana. E terminerò questa specie di requisitoria non contro Beethoven ma contro i pregiudizi dirò cosi romanticofili della critica beethoveniana, dicendo che io sono stato nel­ la mia adolescenza - e anche dopo per forza d’abitudine un frenetico ammiratore della Nona sinfonia. Ma oggi, codeste non so poi quante beate illusioni di quella età romantica per sua natura, cadute in me sotto i colpi d’u­ na realtà spietata e d’una critica più spietata ancora — quella sinfonia mi fa l’effetto un po’ equivoco d’una com­ posizione d’occasione. C’è in quel finale qualcosa come l’intonazione — a parte la differenza di genio e di caratte­ re — della Mascheroniana di Vincenzo Monti. Il che non toglie che io, come critico musicale non debba insorgere ed un noto episodio bolognese sta là a testimoniare con­ tro chi non la interpreti con la dovuta ivresse romantica e dionisiaca.

XIV.

La vera originalità di Beethoven

Ma qui mi par di veder tutti quei bravi musicologi che, cresciuti nel culto della sinfonia e di Beethoven e dì codesta nobilissima (non saprei davvero negarlo) religio­ ne, si son fatti una inesauribile fontana d’estasi ed ima pratica d’abilissime comunioni spirituali - guardarmi di traverso come [si] guarderebbe un eretico, o meglio, un apostata. Mi affretto a pregare che non mi si fraintenda. Io — è vero — scopro, ho il coraggio di dichiararlo, in que­ sto celebrato principe dell’intimità — precisamente in ra­ gione dell’esagerata celebrazione di tanta sua intimità — larghissime tare d’esteriorità e quindi ho l’ardire critico di denunciarne gravi mende (che non [si] sa poi perché da parte della critica non avrebbero ad essere riconosciu­ te); e cioè mende di pose funebri o sentimentaloidi — alla Victor Hugo insomma; di tendenza agli sbracciamenti de­ magogici — nonostante la buona educazione stilistica ac­ quistata bazzicando quei veri gran signori dello stile che sono prima di tutti i suoi immediati modelli Haydn e Mo­ zart — poi Hàndel e tanta altra brava gente specialmente italiana. Ora se io faccio a Beethoven tali riserve, ciò non vuol dire ch’io voglia diminuire (se pur vi riuscissi) di lui ciò che indubbiamente rimarrà grande — e che (oh, que­ sto poi no!) non è precisamente quello che è parso per almeno un secolo di esecuzioni e di decantazioni il me­ glio del suo atteggiamento spirituale, guardiamo un po’ — con esattezza - al di là della retorica beethoveniana — quella molta del maestro e quella incalcolabilmente mag­ giore, (come sempre accade) degli adepti - tra cui terribil­

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mente arciretore l’iperbolico in tutto Riccardo Wagner e, quel ch’è peggio, traditore delle idealità dello stesso maestro. Io credo che alla critica — a quella vera che non serve giornalisticamente per farsi leggere dal pubblico di­ sorientato d’oggidì e dagli interpreti piu disorientati del pubblico, ma cerca di soddisfare prima di tutto all’esigen­ za immanente nella sua stessa funzione spirituale che è di ricostruire a costo di qualunque negazione, se occorre, la vera personalità dell’artista coi suoi pregi e i suoi imman­ cabili difetti secondo quella che ci sembri la più onesta, completa, serena criteriologia storica ed estetica — io cre­ do, dico che alla critica, al di là di codesta retorica beetho­ veniana invecchiata come tutte le retoriche, resti ancora, anzi interamente da fissare la vera figura interiore del mae­ stro. La qualcosa non potevasi fare durante il fervore del­ la sua influenza, diremo cosi, più attuale, che è stata lun­ ga e meritata se mai influenza di genio lo fu. Non è quan­ do si ama fino all’idolatria una persona che se ne può dare un giudizio se non definitivo, almeno non turbato dagli egoistici particolarismi della volontà di offerta e di dedizione s’intende, per avere il contraccambio di un ac­ crescimento, d’un possesso. Sibbene a mente calma per il ritorno della serenità nel cuore — serenità che non è indif­ ferenza ma ricordo ormai quieto e veramente posseduto — dei sentimenti provati. Ora ogni amore umano, nell’at­ to che è amato, è cieco ed egoistico. Di Beethoven fino a ieri ce ne siamo serviti per le nostre personalità (come accade di tutti gli artisti fin che dura quel periodo storico del loro assorbimento da parte dell’epoca su cui hanno riversato quanto avevano assorbito dalla zona della stes­ sa epoca in cui fiorì la loro dominatrice individualità); e ce ne siamo serviti più che non abbiamo servito con la nostra bella figura di romantici, di ribelli, di democratici, d’individualisti — di religiosi «a modo nostro» (leggi: in sostanza o protestanti o dilettanti di fedi). Gabriele D’An­ nunzio ha cantato d’un altro famoso romantico — di Ver­ di — interpretando il sentimento di noi italiani in proces­ so d’autonomizzazione politica e culturale verso il nòstro grande bardo nazionale, il bardo del «Va’, pensiero, su

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l’ali dorate» e di «O Signor, che dal tetto natio» - ha cantato, come ognun sa: «Ci nutrimmo di lui come del pane». Lo stesso potrebbero dire di Beethoven tutti gli euro­ pei dell’agitato e sbrigliato secolo xix. Pane fu a tutti la musica di Beethoven, a tutti e grandi e piccoli ottocenti­ sti, artisti statisti scienziati — perfino uomini religiosi (ma ci furono delle lungi-veggenti eccezioni — Leone Tol­ stoi, per esempio nella Sonata a Kreutzer seppe vedere il pathos di ribellione sostanzialmente antireligioso perché individualista che c’è nella romanticissima musica di Bee­ thoven; è vero che la predica veniva da un pulpito discre­ tamente circondato, pur esso, da un’aureola di esagerazio­ ne romantica. La musica di Beethoven persino fu pane — certo, non mai indipendentemente dai calcoli economistici dell’altro pane, ma insomma sia pure allo scopo di dare il.pane alle leghe rosse dei lavoratori dell’orchestra - pa­ ne fu, dico, mirabile dictu! — ai socialisti. Pane insomma a tutti gli ottocentisti, perché «Ottocento» fu rivoluzio­ ne ad ogni costo, magari, pur di far rivoluzione, contro la rivoluzione; e forma e contenuto in Beethoven son soprat­ tutto rivoluzione, rottura di gioghi formali, infatuazione per la dea Libertà, insurrezione (in nome della sincerità e della natura) di passioni ribelli ad ogni freno morale con la scusa che tale freno fosse ipocritamente stereotipato e con la curiosa idea — molto rousseauiana a dir vero — che il freno d’una passione si debba trovare secondo vorreb­ be natura nella logica stessa della passione — ossia nella logica meno logica che ci sia. Ma la critica se ha davvero orecchi per udire — conscia ormai a sazietà di codesti limiti beethoveniani che parve­ ro sogno di assoluta libertà d’artista e spesso, troppo spes­ so non erano che insubordinazione vana e pletorica e rom­ bo di titanismi moralmente in sostanza colpevoli - la criti­ ca, dico, quel che di nuovo e quel che più conta, è in grado di rilevare nel rispetto d’un più completo ed essen­ ziale giudizio sul maestro inauguratore del romanticismo musicale, è quanto di virilmente buono sfavilla in così tragico cozzo tra «la ragione» [...] è «il sentimento»; coz­

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zo, ahimè!, per se stesso sterile almeno se affermato così e risolvibile non con un’espressione artistica ma con un superamento pratico, morale. Ora tutti i romantici (spe­ cialmente quelli delle successive ondate), non solo per l’abbandono d’un solido stile di vita interiore si trovaro­ no sbattuti in una terribile battaglia tra la ragione e il sentimento, ma — peggio ancora — se ne compiacquero fino a credere a poco a poco che la vera vita non stesse nel superamento abituale di tale dissidio — ripeto in se stesso, e, peggio, considerato fine a se stesso, affatto steri­ le — in vista della conquista d’un’intima libertà superiore; ma dovesse consistere morbosamente nel goderne fino — spesso — ad accentuarlo artificialmente. Tuttavia ben di­ verse sono le reazioni istintive delle loro anime a codesto stato di perenne dissidio insuperabile perché male impo­ stato fin dal suo inizio, anzi amato e ricercato come tale fino, com’è già detto, a procurarselo artificialmente. E ci fu chi ne trasse accanimento disperato di sensualità — alla guisa di colui che per dimenticare i suoi mali, s’ubbriaca —; chi mollezza di snervamenti antivirili; quasi tutti, insom­ ma, una tendenza a far di sé quel che fece Heine o il Rol­ la del De Musset — uno schiavo della propria schiavi­ tù al disordine morale scambiato per libertà interna ed esterna. Quello che invece è e sempre sarà augusto in Bee­ thoven, non sono le sue pose, non sono le esagerazioni dei suoi sentimentalismi, le sue pagine gemutlich, non il suo titanismo di ribelle, non il suo individualismo in aper­ ta contraddizione con la quadratura del suo cattolicismo purtroppo corroso dall’allentamento dei freni morali cui si abbandonava intorno a lui l’epoca in progresso di disso­ luzione. Ciò che di Beethoven sarà eterno ed eternamen­ te commuoverà e scuoterà i piu puri e segreti recessi del­ le anime umane è il tono profondamente virile della sua bontà. Egli sente con la sua dolorantissima sensibilità lo sfacelo a cui è incatenato facendo parte — e quale parte! — della società del suo tempo; sembra con la potenza divina­ toria (e anticipatrice) del genio intuire molte delle aberra­ zioni future a cui tale sfacelo darà luogo; talvolta sembra anticiparle lui stesso compiacendosene con pose da giova-

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ne Werther e perfino esaltandosene; ma c’è in lui direi quasi una «insanabile bontà» che gl’impedisce di fare del suo male storico uno degl’infiniti trucchi paradossalmen­ te capziosi e squisitamente perfidi di cui saranno perpetra­ tori tanti e tanti ottocentisti e di cui era già stato maestro il suo illustre contemporaneo Goethe. Puro — intimamen­ te eroicamente sostanzialmente puro — era quest’uomo dai vasti precordi paterni che avevano degli impulsi d’a­ more e dei fremiti d’ira sublimi. E se di Mozart si disse che trasformava in musica tutto quel che toccava, di Bee­ thoven- dovrebbe dirsi che trasformava in bontà tutto — anche i suoi mali, anche i mali altrui, anche (per quel ch’era possibile) gli errori della sua posizione spirituale turbata ed inquinata dalle fisime del secolo. E c’è qualco­ sa del santo, dell’uomo particolarmente visitato dall’ispi­ razione della divina bontà — in questa radicale impossibili­ tà di Beethoven - di non aver timbro e voce ed accento che non fossero umanamente, dolorosamente buoni. Ma tuttavia - tono di bontà istintivamente umana, non celestiale (com’è in Palestrina o più ancora in qual­ che polifonista quattrocentesco e trecentesco) — umana nel più rude senso virile. Voce d’un Bene istintivo, natura­ le, che sempre zampilla come una polla inesauribile nel profondo di questo immenso martire d’una folle speran­ za irrealizzabile, la totale terrena facilità delle anime libe­ rate eguagliate fraternizzate in una, ahimè, utopica riscos­ sa di dipendenze che nessuna orda di popolo sollevata da illusione di giustizia può infrangere dall’esterno — né, tan­ to meno, da un più aderente, ma non mai perfetto inter­ no, nessuna per quanto illuminata genialità d’autocrate pastore di popoli - ma che solo una liberazione compiutamente interiore per mezzo d’un amore e d’un timore so­ prannaturale può insegnare a tradurre in disciplina di vi­ ta e con ciò a dominare nel modo più umanamente libero ed onesto possibile. C’è un segreto nella musica di Beetho­ ven che sembra sfuggito quasi forse sempre ai suoi esege­ ti. I suoi temi in realtà — soltanto per la conduttura este­ riore più ampia, spesso più gonfia e violenta e sgarbata — più romantica e democratica insomma — che quella raffina­

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ta, leggera ed aristocratica dei predecessori perfetti stili­ sti del Settecento —, non differiscono poi molto dalla so­ stanza davvero musicale dei temi cari agli autori classicamente compassati e vigilati dello stesso Settecento. Non per nulla Beethoven — com’essi — più che un romantico, si chiama e si crede ormai dai più un classico. E classico è ancora nella costruzione armonica, nel decoro delle inven­ zioni non mai troppo vistose — come poi saranno quelle di Wagner e un po’ di Schumann. Ma ogni suo tema sem­ bra avere in sé una doppia voce; una specie di seconda sonorità austera, nobile, casta, discreta, che spesso s’ingen­ tilisce d’una soavità che, salvo rari casi in cui Vivresse romantica lo sconvolge fino alla demenza, non è smance­ ria. E il timbro da vero intimo di codesta seconda voce è quello che volentieri chiamerei il timbro psicologico del­ la bontà virile. È questo timbro psicologico, internissimo, «voce di voce» se si potesse dire, che forma la vera — sem­ plice come un elemento, e difficilissima a scoprire sebbene dall’interno profondamente attiva — originalità dei temi beethoveniani. Una bontà sui generis, tragica, disperata di vera saggezza, disperata della sua stessa inconscia ribellio­ ne al bene, ribellione non per amore di male, ma per amo­ re della ribellione stessa - appunto - per amore di quella insania che fu nell’ottocento l’unilateraEtà soggettivisti­ ca che doveva portare al neopaganesimo hegeliano, all’in­ dividualismo mistico di Wagner, all’immoralismo esteti­ co di Nietzsche, all’anarchismo di Stirner — e chi più ne ha, si compiaccia pure ad aggiungerne di più. Insomma in questo cristiano non più genuinamente cristiano, in questo cristiano traviato da eccessività di sentimento, da orgoglio titanico, da ribellione alla condanna che il Signo­ re gli aveva imposto e che se l’avesse accettata senza squas­ samenti imprecatori, lo avrebbe fatto — un altro fratello angelico di Gesù, la bontà piange — a rovescio - il pianto di Cristo nell’orto di Getsemani; piange perché sa che non tutti saranno capaci di purtroppo tradire l’umiltà d’u­ na verace coscienza di sé con un titanico sogno di super­ bia e d’orgoglio — tuttavia rimanendo al pari di lui che

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era buono come il mistico «angelo decaduto» così caro ai poeti romantici, virilmente fedeli alla bontà. E anzi mi meraviglio come tale bontà non sia venuto in mente di raccostarla alla bontà d’un altro grande cuore d’ottocentista, nonostante i ruggiti e gli squassamenti byroniani pieno d’istintiva sublime carità — il cuore di Giuseppe Verdi.

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Giacché se noi confrontiamo la musica di Beethoven e di Verdi con quella degli altri celebrati autori dell’Ottocento, vedremo che l’originalità del grande sinfonista e del grande operista possono perfino sembrare povere in sorpresa di temi e di tecniche musicali in confronto di quelle o pianistiche di Schumann e di Chopin od orche­ strali di Berlioz, o a quelle soprattutto eccitanti e sconvol­ genti e dominatrici di Wagner e dei suoi epigoni: per esempio, oggi — o meglio ormai ieri — Riccardo Strauss il quale, se ha seguito Wagner nelle ricerche coloristico-strumentali, in quanto a temi si è ridotto per vero dire alla bassa originalità della volgarità, la quale sia detto en pas­ sant c’è già a iosa nell’opera di Wagner; per quanto, co­ me vedremo, è proprio nel romanticissimo Wagner che riappare - sia pure sotto una forma ben poco simpatica: quella del sistema personalistico della declamazione into­ nata e del leitmotiv — il principio dell’inevitabile aristocra­ zia formale dell’arte. L’uno e l’altro - e il colosso di Bonn e il grande di Busseto, seppure in una direzione anch’essa eccessivamen­ te fiduciosa dell’importanza in arte della popolarità —, sembrano possedere un solo carattere dell’originalità, il più innocente di tutti: quello della semplicità. Certo il con­ fronto, come tutti i confronti, regge fino a un certo pun­ to. Ammettendo nell’uno e nell’altro un fondo comune di tendenze e di aspirazioni politiche (o se più piaccia socia­ li, giacché può far sorridere il considerare Vandante della Quinta sinfonìa o il coro dei Lombardi quasi un échan-

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tillon di musica liberale), si potrebbe dire di Beethoven o di Verdi quello che è stato detto della satira politica del Giusti rispetto — che so io? - a quella dello Heine: che la satira del Giusti ha sapore troppo locale, paesano, provinciale; quella dello Heine essere più europea ed uni­ versale. Beethoven cosi sarebbe «europeo», Verdi un por­ tato del Risorgimento italiano... Permettetemi qui una in­ terruzione: - Mi si potrebbe obbiettare che io ribatto troppo sopra questa dipendenza dell’ispirazione beethoveniana dalle aspirazioni storico-politiche del tempo: «Sta’ a sentire la musica di Beethoven e goditela e ad altro non pensare». Già! - Ma, rispondo io: perché una musica si comprende, si ama, s’identifica con noi se non perché è ispirata da sentimenti, riflette nei suoi ritmi i moti dell’a­ nimo che coincidono colle aspirazioni che sono per cosi dire chiuse in noi, segrete a noi stessi e che vibrano all’i­ neffabile richiamo di quella musica? Ora, se proprio le aspirazioni che suscitarono i moti abituali dell’animo di Beethoven non mi dicono più nulla, ma anzi mi suscitano repulsione e persino sdegno, come continuare a godere di quell’arte il cui contenuto non mi appare più grande, vero e perciò attraente come un tempo? E ora come nega­ re che noi quasi tutti siamo un po’ figli dell’ottocento? E come negare che, ritrovando ormai la nostra vera indi­ vidualità e originalità (anche attraverso la maturazione dell’ambiente storico in cui siamo immersi), ci liberiamo dalla tirannia di codesta educazione e dei gusti che com­ portava? — E ora torniamo a bomba. Dicevamo dunque che Verdi sarebbe un provinciale e Beethoven un europeo. Ma io temo che proprio la generi­ cità (il luogo comune) dell’aspirazione violenta beethoveniana alla libertà che fu verbo della Rivoluzione francese e — di conseguenza — di tutte le rivoluzioni di svecchia­ mento compiutesi in Europa nella prima metà dell’Ottocento, nuoccia romanticamente al puro valore estetico del­ le affocate musiche dionisiache di chi scrisse il primo tem­ po della Kreutzer-Sonate, di più che non nuoccia la contingenzialità patriottico-propagandista, non solo non voluta superare ma accettata francamente come scopo sociale del-

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la propria arte da Verdi, per ciò almeno che riguarda le aspirazioni del suo melodramma — sia pure romantico e dionisiaco, improvvisatorio e democratico se altri mai ve ne furono Infatti come bardo piuttosto pletorico della liberazione dell’individuo europeo, Beethoven — con tan­ ti altri spiriti dell’ottocento: Schiller, Byron, Shelley, Hu­ go, Carducci, ecc., ecc. — può finire anche per diventare ridicolo la sua parte — ed oggi lo sta divenendo o lo sta per divenire irreparabilmente, specie in paesi come il no­ stro in via di superamento d’ogni individualismo soggetti­ vista — per un ritorno istintivo alle conquiste religiose e - a quanto si spera e si vuole ardentemente — anche politi­ che della razza e, per essa, dell’umanità. La limitazione del suo scopo di drammaturgo vate e suscitatore col can­ to di energie nazionali che si sono servite degli ideali poli­ tici, filosofici ed artistici del romanticismo per raggiunge­ re il loro scopo di remozione d’uno stato di cose sociali incredibilmente in Italia ingiusto ed assurdo — in un cer­ to senso rende l’utopistico del contenuto ed il precario della forma nell’opera di Verdi meno grave e pericoloso - o in certo qual modo piu esteticamente e moralmente scusabile di quello che non accade per contenuto e forma nell’opera di Beethoven. Infatti, liberata l’arte beethoveniana di tutte le impalcature eccessivamente ed esterior­ mente romantiche — attraverso quella sua divina tonalità forte e profonda di bontà, che scorgiamo noi? Un buon uomo del terzo stato (e spesso addirittura della plebe — ricordisi il folklore dello scherzo della Pastorale) stufo di settecentesche incipriate artificialità aristocratiche — ar­ dente di sincerità fino alla villania, un po’ grossolano amante dei semplici piaceri della campagna un po’ con lo spirito naturalistico alla Rousseau allora di moda, un po’ ozioso, un po’ strambo, squilibrato anzi che no, forse nel fondo (come molti romantici) colle donne e con la vita esageratore per orgoglio della propria delicatezza d’i­ persensibile — fino alla timidezza. C’è insomma in questo ribelle romantico il vuoto tutto individualistico — d’una piuttosto comica e quasi direi mezzo già nietzschiana e dannunziana «fede nella Vita» (col V maiuscolo) — qua­

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si essa potesse mai essere, di per se stessa e se vissuta con impeto ed abbandono, superatrice ed assolvitrice della vo­ lubile ingenuità ragazzesca nell’esaltarsi dinanzi al genio enigmatico di Napoleone - per poi maledirlo e gettarlo a terra appena scorto in quell’enigma politico la nota domi­ nante dell’egoismo, da ultimo grande capitano di ventura del Rinascimento; oppure superatore ed assolvitore della non minore ingenuità consistente nella comune credenza - che nell’aria ci fosse il polline d’una nuova storia in gestazione, storia anche per uomini piuttosto disincanta­ ti come Goethe sperata e nell’illusione della speranza af­ fermata categoricamente migliore di quante ne esistero­ no per il passato. Piu modesto, ma meno vago — meno «civile» — più brigantesco, se si vuole, ma più sanamente «contadino», il carattere di Giuseppe Verdi. C’è in esso meno fumisme e più storia, storia sacrosanta e miracolo­ sa se bene riferentesi non a tutta l’umanità (leggi: a tutta l’Europa, petulantemente stimantesi la testa dell’umani­ tà), ma ad un sol povero popolo oppresso e sfruttato da incredibilmente anacronistici sistemi amministrativi. Co­ si noi non abbiamo difficoltà ad ammettere il melodram­ ma di Verdi ah! — ben più improwisatorio e più empirica­ mente asservito alla fede in un miracolo storico (del re­ sto poi realmente avvenuto il nostro Risorgimento), che non i fremitanti peani sinfonici di Beethoven. Sebbene per converso - in fatto di improvvisazione e dì utopisti­ che speranze — dobbiamo pur confessare che Beethoven scherza davvero poco, un po’ in tutta la sua opera, ma spe­ cialmente in quella Nona sinfonia che pure per tanta se­ rie di anni e per tanti spiriti nobilissimi ha potuto signifi­ care il caotico vaticìnio di non so quale veniente umanità migliore! E noi che usciamo dalla grande guerra, ne sap­ piamo qualche cosa di come fosse divenuta migliore code­ sta umanità «liberata» dal dogma religioso e scambiante ormai per diritto dell’uomo la liberalesca licenza d’ogni possibilità - o meglio impossibilità vitale - comprese quelle dell’assurdo morale e della retorica sentimentale. Tuttavia, lasciando stare il più e il meno, il meglio e il peggio dei due irruentissimi romantici, è impossibile non

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scorgere nei loro accenti violenti, nei loro ritmi popolari talvolta fino alla volgarità, nell’impeto dionisiaco del lo­ ro pathos, nella bontà purissima dei loro caratteri — qual­ cosa di comune. Sembra che al principio del secolo, al di là delle Alpi, il dolorante «angelo sordo affamato d’amo­ re» lanci un appello di rivolta contro la schiavitù dell’a­ nima umana sulla terra prigioniera di una carne infelicis­ sima e martoriata — ed in semplicità che ha qualcosa di santo, con l’ondeggiamento lento e profondo, solcato da accenti di inenarrabile dolore (il veramente incommensu­ rabilmente bello primo tempo del Chiaro di luna) prepa­ ri le insorgenti prodigiose ondate ascensionali di arpeggi del virile finale. E sembra che a metà del secolo un altro spirito selvaggiamente puro - refrattario alle ipocrisie del­ la falsa civiltà - un fratello di Byron, di Shelley, di Mazzi­ ni, di Garibaldi, lanci la sua ribelle risposta collo shake­ speariano quarto atto del Trovatore, in cui attraverso al fremito romantico sembra talvolta — oh, molto più che nella agghindatacela Pastorale beethoveniana — scintilla­ re il verde primitivo di lontane epiche pastorali, che solo la ribelle nostalgia del genio rude di un contadino della Val Padana poteva evocare. E se il Dionisos di Beetho­ ven ha talvolta l’accento dedamativo d’un’orazione di bruto — e porta fieramente in capo il rosso berretto grigio della rivoluzione regicida e deicida, il Dionisos che ispira Verdi sembra più democraticamente, ma anche più paesa­ namente portare — il nero mazziniano cappello a cencio all’italiana. Ma nella musica spesso approssimativa dell’uno e del­ l’altro seguace del fumido Dionisos ottocentesco s’effon­ de lo stesso immarcescibile profumo di bontà che talvolta sembra convertire le loro ispirazioni in canti religiosi into­ nati da popoli peregrinanti per l’aspro deserto d’un imper­ vio periodo storico di faticosa transizione voluta ostinatamente interpretare dai più grandi pensatori gonfi d’illusio­ ni e di orgoglio - i sistemi dei filosofi ottocenteschi spe­ cialmente germanici si possono paragonare a mistici poe­ mi fumosi di romanticismo — per una delle vette di con­ quista più definitiva che in tutta la sanguinata marcia dal-

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la culla misteriosissima al porto altrettanto misterioso l’u­ manità abbia mai raggiunta. Che se in Beethoven la reli­ giosità spesso si inquina d’estranee tendenze più franca­ mente pagane (il gran corale centrale dell’ultimo tempo della Nona; il progetto d’una Decima sinfonia sintetizzan­ te, a quel che si dice, Dionisos e Cristo, la Storia antica e la Storia moderna) — in Verdi la provincialità stessa della sua situazione di vate d’un popolo non angusto d’anima ma compresso da angustia d’animi - e finalmente in via di redenzione — lo costringe ad aprire il varco ad onda­ te di preghiera che coincidono col sentimento religioso di tutti i componenti quel suo buon popolo per la massima parte colonico. Così Beethoven è — perfino nella sua Missa Soletnnis (salvo il portentoso Et incarnatas est) — uno pseudocattolico cui ha nuociuto il troppo illuministico, progressista, individualisticamente romantico ambiente viennese, ancorché la sua istintiva inesauribile bontà non lo faccia mai trascendere a manifestazioni eccessivamente soggettivistiche (la qual cosa accadrà, dopo, a quasi tutti i suoi successori se ne eccettuiamo l’àpata2 Brahms e, pri­ ma di lui, per ragioni diversissime, il misterioso Mendels­ sohn). Mentre in Verdi i colonnati d’una religione profon­ damente cristiana sembrano cattolicamente consolidarsi al contatto del popolo che — se vuole risorgere — vuole, sì, scavalcare i troni insugheriti che lo sovrastano ma non lo dominano più, ma non vuole per nulla al mondo che subisca scosse sacrileghe la sedia del Pontefice del suo Cristo.

XVI.

Titanismo in Beethoven, rassegnazione cristiana in Dante

Certo, non avendosi che detto bene — tutto bene, sperticamente bene — di Beethoven, sembrerà che io goda a dirne male con la fobia critica di chi - secondo la infecom da moda d’oggidì — piu demolisce che non ricostruisca. Eppure, una volta penetrati nel mio concetto che l’ar­ te classica latina, cattolica è la sola che abbia realizzato, per esempio con Dante, l’ideale dell’arte del pensiero del­ la vita — quell’ideale vero, quello unico, quello emanato da Cristo, ideal faro (anche romano) di verità e quindi di civiltà; l’arte barbara germanica protestante ribelle ro­ mantica, malamente e disordinatamente popolare, è quel­ l’arte che ha idealizzato (o creduto d’idealizzare) un reale che non era per se stesso cosi reale da poter essere real­ mente idealizzato. Ora io non ho colpa se vagliando rigo­ rosamente alla luce di questa criteriologia estetica e mora­ le che è tanto vera e semplice da sembrar quasi nuova e futurista, anche l’arte di Beethoven con l’eccessivo valo­ re che vi si dà alle passioni - non è egli l’autore per anto­ nomasia della Appassionata — sono costretto dalla logica del fatto, se non dalla spinta delle simpatie un tempo e a volte oggi stesso anche mie a collocarla nella seconda cate­ goria, dove il «vergine» ci è scambiato, naturalisticamen­ te rousseauianamente, per barbaro. Chi ha letto il capito­ lo precedente e, com’ho detto fin dalle prime pagine del presente libro, non si è alzato indignato prendendo il cap­ pello per andarsene via, sono sicuro che per lo meno mi dirà: «ma lei vaneggia! Verdi a fianco di Beethoven! ! Ma Verdi è un cattivo artista, mentre Beethoven sarà sempre

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l’autore del sublime andante e scherzo della Quinta sinfo­ nia; dell’allegretto della Settima ecc., ecc.). Rispondo: — il ravvicinamento con Verdi è fatto da un punto di vista squisitamente intimo e chi non lo capisce ancora dopo quanto ho detto sulla bontà di Beethoven a cui piu anco­ ra che allo Shelley potrebbesi applicare l’appellativo di «cuor dei cuori», non lo capirà più. E pazienza! Artistica­ mente posso convenire che Verdi è improvvisatorio più di Beethoven, sebbene anche questi — in fatto di sfiata­ menti dell’ispirazione - non abbia scherzato. Tuttavia s’io penso alla totalità dei valori estetici che si è abituati ad attribuire a Beethoven, capisco che tale ravvicinamento debba fare orripilare i puritani della «musica pura». Ma siccome si è anche abituati a voler vedere in Beethoven il più grande genio della musica - tale da contenere tutte le risposte a tutte le domande — e a collocarlo accanto ai più alti spiriti dell’umanità; come dianzi ho fatto un ravvici­ namento che veniva spontaneo (tra Beethoven e Verdi) ad uno come me che contempla ormai come un cafarnaum storico già esaurito quel povero secolo xix che vol­ le essere un’epoca d’arrivo, e non fu che una tragica e molto logora era di transizione; cosi opererò a proposito di Beethoven una disgiunzione. Così per ridere, si è usi a chiamarlo «il Dante della musica». Ahi! ahi! fa che le gi­ nocchia cali! Dante è per ora il più grande poeta esistito. Il più grande genio della musica Beethoven non lo è — anzi è mio modesto ma fermo parere che per ora la musica non abbia ancora dato altezze di spiriti pari a quella di Dante; e ciò per ragioni costitutive o per lo meno stori­ che, della stessa arte dei suoni — l’ultima nata e saliente alla perfezione espressiva raggiunta dalle altre arti, spe­ cialmente la poesia e l’architettura. Neppure Palestrina può avvicinarsi a Dante, poiché se mai il suo valore d’arti­ sta religioso epico lo avvicinerebbe — tenendo, s’intende, conto, senza però esagerare, della sua scaltrezza cosciente ed umanistica d’artista in certo qual modo condizionato dall’atmosfera del Rinascimento — lo avvicinerebbe, di­ co, all’oggettività dell’arte d’Omero; e in quanto a virgineità mistico-religiosa a taluna delle chansons de geste —

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o a qualche innografo epico-religioso della Palestina o del­ l’india. Ma siccome il raffronto, anzi il pareggio, tra Dan­ te e Beethoven può meglio illuminare il nucleo di concet­ ti che vo svolgendo nell’arte in genere e in quella musica­ le dell’ottocento in particolare, non mi dispiace di porli per un momento sullo stesso piano — ma allo scopo di far vedere quanto l’uno - il Beethoven - non sia degno di stare al fianco dell’altro. Beethoven — «umano, troppo umano '», «cuor dei cuo­ ri», autore dell’Appassionata. La sua concezione della vi­ ta riconoscibilissima (lo dico per gli ingenui che doman­ dano ancora: ma che dalla musica si può sapere chi è un uomo?), riconoscibilissima non dalle parole, ma dallo scatto, veramente superbo e travolgente dei ritmi, e dai valori armonici e melodici, è un’esaltazione orgiastica del dolore in quanto umano, in quanto passione impossibile mai a superarsi se non con un atto risoluto di liberazione che su questa terra — dall’abbandono orgiastico al dolore soltanto, — è scritto che non possa avvenire. Beethoven in sostanza è un illuso. Adorabile, inebriante, sia pure, la sua sanguinante illusione — ma è un illuso. Egli sperò (co­ me tutti i figli del Settecento e i primi ottocentisti, né dico nulla dei secondi dei terzi e di quanto a forza di abbandono a se stessi prepararono la tragedia morale del primissimo Novecento) che gli uomini possano per virtu di passione - di passione fino a se stessa, (ossia concepita soltanto umanamente, divelta da qualunque umiliazione di trascendenza — passione deificata in una parola), possa­ no, dico, un bel giorno rivivere V età dell’oro. Ma leggete, se avete orecchi da intendere, l’arcadico finale della Missa Solemnis\ Quanto ottimismo costellato di aggraziati nèi settecenteschi e quanto latte e miele di dolcezza pasto­ rizia non vi languideggiano! Dante ha i suoi limiti — storici — anche lui. E chi non ne ha? Per Francesca per esempio ripete i luoghi comuni dell’amorosa scienza del suo tempo — la «gaia scienza» provenzale? Ma inquadra la passione in quanto slancio anche eroico (Titanismo di Capaneo) — nell’inferno. In­ quadra quello stato divino - sulla terra — che è il sentirsi



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fragili verso le passioni, ma d’osare perfino — ed è il piu santo grado d’umiltà - d’offrire il martirio purificatore di questa fragilità a Dio nel Purgatorio. E nel Paradiso con­ cepisce la vera beatitudine senza trionfi tiepoleschi (fina­ le della Quinta sinfonia), senza prepotenze già in certo sen­ so wagneriane ma nella pace del Cielo - in quel tanto di luce d’assoluto che a noi uomini originariamente tarati da un mistero di decadenza irreparabile in se stessa è ripa­ rabile solo riguardo a noi uomini con la fede redentrice nella Charitas, nella Grazia, nell’Amore di questo Spirito Santo puro di derivazioni per virtu di Perfetta Personali­ tà — assoluto come neppure gli hegeliani riescono a conce­ pirlo. Finché la sacra rassegnazione cristiana di Dante sarà anche umanamente più vera, più realizzabile delle smance­ rie per le aspirazioni rivoluzionarie del primo Ottocento (che ci volevano, si, storicamente, ma se ci volevano stori­ camente, avevano dunque un valore storico come le sman­ cerie di Dante per le teorie dell’amore dugentesche; ossia avevano un valore contingente); finché il Paradiso sarà da chi anche è soltanto artista più della Missa Solemnis (e non dico della Nona sinfonia)-, finiamola se non ci vo­ gliamo fare perpetuamente la figura di ciechi e da abbar­ bagliati da speranze irrealizzabili, col porre Beethoven ac­ canto a Dante.

XVII.

Dionisos pianista

Continuiamo. Riccardo Wagner (e con lui tutti i wa­ gneriani) ce l’aveva a morte col pianoforte. Poiché dal suo punto di vista romantico e democratico per eccellen­ za - l’arte per il popolo; l’arte come una religione, la piu vasta - cattolica? - di tutte, religione i cui riti dionisiaci in modo superlativo sieno le rappresentazioni drammati­ che cui assista il gran popolo (vedremo piu tardi quale incredibile contraddizione si celasse in tale estetica demo­ cratica) —; dal suo punto di vista, dico, Riccardo Wagner pieno com’era del dio dominatore dell’epoca, non poteva ammettere che le orgie del nume si potessero celebrare — solitariamente al pianoforte. Per lui l’arte pianistica era onanismo vero e proprio. A tale discredito dell’istrumento immortalato dalle scintillanti trouvailles tecniche di Chopin, di Schumann e di Liszt1 lo traevano le sue ideolo­ gie mistico-filologico-politiche, la sua rousseauiana adora­ zione della natura (Siegfried è l’Emile tedesco) e la sua interpretazione romantico-nazionalista del mito — in quan­ to essenza dell’arte - e di quella tragedia greca che soprat­ tutto servivagli a modello dell’opera sua. Tuttavia se noi consideriamo attentamente la psicolo­ gia di quei superromantici che sono Chopin e Schumann, non è affatto difficile accorgersi che anch’essi sembrano ambire con la loro musica tutta rombi declamatori e scat­ ti di prepotenza individualistica ad una esaltazione del trionfo di se stessi, ad una vera e propria esacerbazione al di sopra del pubblico della romanticissima volontà di potenza; quasi mai ad una comunicazione di sé obliosa,

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ad una transfusione interiore del proprio stato d’anima nel pubblico pur sempre rispettosa della personalità al­ trui; come accade per l’arte classica, antisoggettiva per eccellenza; citerò ad esempio gli aristocratici, urbani, di­ screti claviccmbalisti sia francesi che italiani: Couperin, Rameau, Domenico Scarlatti. Tanto l’uno che l’altro — Chopin piu improwisatorio se non proprio piu naturale e spontaneo, Schumann certo piu meditato e posseduto per interiore disciplina e per aristocrazia di una discendenza artistica di cui difettava Chopin, ma anche certamente piu cerebrale e riflesso sembrerebbe a tutta prima (e un po’ di vero ci può esse­ re) che non abbiano saputo superare la contraddizione che corre tra i loro magnifici scatti d’esaltazione oratoria e il modesto mezzo, rispetto almeno all’orchestra moder­ na, messo a loro disposizione. Certo, nessuno piu di loro seppe — riempiendolo dei tumulti, dei vortici, delle confla­ grazioni di una straordinaria intuizione della vibrazione sonora — potenzializzare il monocromo pianoforte. Il qua­ le se dai loro uditi megalomani veniva preferito di gran lunga al dispregiato clavicembalo, era perché, piu di code­ sto strumento dalle stagliate sonorità, occorreva loro un mezzo di produzione sonora atto al rimbombo, all’esplo­ sione tonante, alla fusione delle dissonanze in un unico amplissimo fascio di vibrazioni, piu che al tintinno preci­ so e un po’ acido che sembri punteggiare la linea ben dise­ gnata dei contrappunti gelosi della propria autonomia. La Polonaise in la bemolle di Chopin, il secondo tem­ po della Fantasia di Schumann, lo studio cosiddetto «per la caduta di Varsavia» di Chopin, il finale degli Studi sinfonici di Schumann producono anche su di un ristret­ to pubblico di élite, tra le moderne mura d’una sala da concerto (dove un’orchestra assordirebbe come una ban­ da che faccia le sue prove in uno stanzone chiuso), il soli­ to fenomeno esortatorio e demagogico che può romantica­ mente produrre una sinfonia di Beethoven o un’opera di Verdi sul pubblico piu popolare d’un grande teatro d’ope­ ra. Dal pianoforte dei due celebri lirici sembra effondersi il rosso chiaror fiammeggiante d’uno dei consueti tiasi

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del Dionisos ottocentesco. Tuttavia non tutti i torti ave­ va Wagner a denigrare cosi beffardamente il pianoforte — e la nuova musica a titoli — o senza titoli (come le roman­ ze senza parole di Mendelssohn), ma pur sempre ad inten­ zioni letterarie — intenzioni ch’egli amava più realistica­ mente, massicciamente concretate addirittura nell’azione scenica piuttosto che lasciate allo stato intenzionale come nel Karnaval o nella Kreisleriana di Schumann, o nelle tante musiques de scène dei vari Mendelssohn o Schu­ mann. In ogni ottocentista - se se ne eccettuino il pacato Brahms, «l’umanista del romanticismo» (com’ebbi già a chiamarlo), ed il Mendelssohn migliore sempre aristocrati­ co nella forma nonostante lo spesso ingenuo ed ovvio ro­ manticismo di certo suo contenuto - in ogni ottocentista cova sempre l’impeto d’un oratore da comizi e il momen­ to più eccitantemente vivace anche dei più patetici e no­ stalgici e solitari cantori del doloroso lato idillico-sentimentale inerente allo stato d’anima romantico sarà pur sempre Vallegro dai vasti ritmi balzanti e trascinanti le anime degli ascoltatori nel vortice ribelle della rivolta rivolta magari soltanto intima, rivolta di sentimenti ai duri gorghi morali o — se non contro quelli — contro la stessa natura. Che romanticismo è soprattutto inesausta volontà di rivolta, a qualunque costo - a costo d’esser ri­ volta - contro la rivolta stessa; che è quello che forse, tra le file dei postremi romantici, sta succedendo un po’ oggi. Ma qui cominciano a crepitar le contraddizioni tra le gigantesche scosse dei ritmi pianistici dei due romantici e - se non del tutto e sempre in Chopin, sempre e del tutto in Schumann - la psicologia disordinata e convulsa che forma il substrato di codesta arte pianistica. Sta bene: Chopin e Schumann, in diversissimo modo, sono soprat­ tutto dei deboli, dei vinti della vita che tendono ad isolar­ sene e ad obliarla nelle orge oppiate d’hashish d’una fanta­ sticheria per lo più a sfondo morbido e decadente. Biso­ gna perciò rassegnarci a considerarli dei malati di volon­ tà e dei cercatori, nello spasimo orgiastico dei suoni e dei ritmi, [di] un compenso alle repulse che hanno ricevuto nella vita pratica cui sono moralmente e fisicamente infe­

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riori, nonostante i conati d’un eroismo altrettanto impe­ tuoso che volubilmente e rapidamente si esaurisce, cona­ ti d’eroismo che però testimoniano d’una iniziale grandez­ za d’animo non mai mancante nei veri romantici — in quel­ li della prima e seconda ondata — ma conati se mai tenden­ ti, piu che a disciplinarsi, a svampare nei fuochi di benga­ la della megalomania piu esaltata. Ora, l’essere dei malati di volontà non toglie a Chopin e a Schumann che non sorga — ed anzi, più orgiastica e scatenata che non avven­ ga in Beethoven in Verdi in Wagner - il fiotto d’una va­ sta aspirazione di potenze - di contatto-dominio non con Vanima dell’ascoltatore bensì con una moltitudine di ascoltatori per cui «valga la pena» di spendere appariscen­ ti e impressionanti violenze di mezzi più che persuasivi, perorativi quando non addirittura imperativi; il contattodominio insomma con la «folla». La romantica volontà di potenza ha infatti due poli: uno individualistico e solip­ sistico — ch’io direi punto di partenza; l’altro dirò così per reazione egoisticamente altruistico - «democratico» per modo di dire — come punto d’arrivo. È allora che il pianoforte - se suonato col dovuto stimmung romantico sotto le dita fastose dei pianisti imperialmente romantici — alla Liszt e alla Busoni — «sembra» come si suol dire «un’orchestra», e romba vibra tuona tumultua di fragori fino a che il pubblico sia pure in guanti e in isparato bian­ co non s’entusiasma e freme e fluttua e prorompe nell’ac­ clamazione allo stesso molto democratico modo d’una ple­ be inferocita dalle seduzioni esortatorie d’un oratore estemporaneo che la ecciti alla rivolta. Se poi si pensa che tali effetti il pianista e compositore se li può ripetere con la stessa orgia ed ebbrezza di fanatismo - da sé solo in un tranquillo e borghese studiolo; e che invece consimi­ li effetti grandiosi ed intenzionalmente popolari nessun mortale (se non quel prodigiosamente maniaco re Luigi di Baviera) se li può procurare per sé solo con una orche­ stra, la quale ad ogni modo sarà sempre composta da un certo numero di professori sia pure ridotti a funzionare impersonalmente da canne d’organo sotto la individuale registrazione del maestro concertatore; è impossibile non

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accorgersi che, in questo caso, Dionisos ci fa la figura di un pazzo malinconico, che prenda una sbornia, non in compagnia, ma da solo; seppure non vogliasi scomodare per un piu energico paragone Onan, l’eroe biblico della voluttà solitaria, e che la musica esaltata ed esaltante di Chopin e di Schumann (di cui per lo meno esiste un ma­ gnifico Concerto con accompagnamento di orchestra, men­ tre i concerti di Chopin non hanno valore stilistico) sia musica che assomigli — a ragione veduta — alla malinconi­ ca sbornia d’un solitario, penso non ci volesse il parossi­ smo della tendenza che aveva Wagner ad essere il Napo­ leone della rivoluzione romantica ottocentesca — per ac­ corgersene. Bastava pensare all’estrema personalità della tecnica pianistica dei due grandi illustratori del pianofor­ te moderno, tecnica che ha fatto si ch’ormai per arte di suonare il pianoforte nei conservatori non si sa piu pensa­ re che si possa altrimenti sonare — che come sonavano Chopin, Schumann — e al massimo Liszt. Ne seppe qual­ che cosa il povero Debussy colpevole d’aver voluto fare della musica per pianoforte che sfuggisse alla tirannia del pianismo romantico. Ed anche qualche cosa ne seppe un altro grande scopritore d’una sua personalissima tecnica pianistica - lo Scriabine2 specialmente delle ultime quat­ tro sonate. Ma con Schumann appare nello svolgimento del roman­ ticismo ottocentesco uno specialissimo atteggiamento arti­ stico insito nel romanticismo, o — per conservare fedeltà all’ipotesi mistica che di esso ci siamo finora serviti — nel restaurato culto di Dionisos l’orgiastico - atteggiamento artistico che sarà di grande non saprei dire importanza, certo di molta influenza per l’avvenire della musica — vo­ glio dire il cerebralismo estetico.

XVIII.

Dionisos eautontimoromenos 1

Già — si può dire — fosse in Beethoven lo stesso tale pericoloso atteggiamento del cerebralismo romantico. Ep­ pure romanticismo fu libero sgorgo d’ispirazione — me­ glio: più che libero, licenzioso fino all’estemporaneità impromptu così caro a Chopin, oppure al «momento musicale»2 cosi caro a Schumann; alla polluzione ritmi­ ca, e melodica, in una parola. Ma è ovvia legge psicologi­ ca che ogni eccesso [di] licenza implica un’opposta reazio­ ne d’aridità e di faticosità. Così [chi] troppo s’abbandona al facilismo, sarà colto dalla nausea della sterilità, più che non accada in colui che per lunga consuetudine di discipli­ na interiore sappia dominare gli eccessi, spesso tanto più vacui, quanto più irresistibili, della sua vita interna. La necessità di un freno che nei romantici era stata tradita, delusa, derisa, giuocata in tutti i modi, rinasceva nel pro­ cesso stesso della loro licenziosità formale, ma rinasceva in modo indiretto e del tutto, praticamente se non intellet­ tualmente, negativo. Rinasceva con la riflessione, con la autocritica e con tutte le arbitrarie e paradossali illazioni e deduzioni — sintomo di licenziosità esteriore esse stes­ se, tratte dal romantico delle sue crisi di coscienza (che com’è stato ben notato dal Croce - nella vita morale si traducevano in un esagerato culto naturistico delle passio­ ni e dei sentimenti); illazioni e deduzioni che poi corri­ spondevano a veri e propri «rimorsi estetici» per i pecca­ ti artistici da impenitente romantico (leggi «uomo eccessi­ vo e indisciplinato»), le orge della sua fantasia. Ora, an­ che per chi come me distingue nettamente (categorica-

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mente) la ferrea concatenazione scientifica del pensiero ri­ flesso oggetto del logos in una parola - dalla spontaneità, dal gettito in certo modo libero e incrollabile, soggettivo, della fantasia e del sogno, la fantasia per esser tale non dovrà certo avere il rigido concatenamento del pensiero propriamente detto - ma neppure si dovrà mai permette­ re l’abuso e l’orgia - piu di quello che, per non avvizzir­ mi in viziosità, non lo comporti l’istinto sessuale. Bensì l’uno e l’altro per raggiungere il loro scopo — che è genera­ re bellezza — godranno se, obbedendo alla grande legge dell’economia naturale, raggiungeranno il massimo resul­ tato col minimo mezzo; nel caso diverso, tradiranno lo scopo, si fermeranno a mezza strada o oltrepasseranno il limite, degenereranno in retorica. Dove la vita interiore è troppo soggettiva (caso fre­ quente presso gli artisti e soprattutto presso i romantici), l’arbitrio, il capriccio, la bizzarria finiscono per dominare le manifestazioni di codesta vita interiore. Ed ecco Bee­ thoven che nelle ultime Sonate e nei Quartetti e nella Nona e nella Missa Soletnnis, soccorre con interpretazio­ ni arbitrariamente personali la mancanza d’una equilibra­ ta e completa realizzazione dei suoi desiderata musicali ed extra musicali. Nasce così — se non proprio del tutto in lui, nei suoi epigoni — il piu strano ambiguo capzioso feno­ meno d’aberrazione estetica moderna — voglio dire il cere­ bralismo. L’artista a poco per volta, sempre e sempre piu esageratamente in preda alla pur necessaria «irrealtà» del suo sognar cose per se stesse reali ma tramutate in irrealtà di fantasma dal mistero della loro reviviscenza nell’immaginazione, finisce per amare l’irrealtà per l’ir­ realtà — come se essa fosse l’unica, la vera sua realtà — ossia trasportando «a freddo», anche là dove non ci sta, il criterio di trasformazione irreale della realtà. Mi spie­ go. Se noi cantiamo con le debite parole una frase musica­ le di Les adieux, noi siamo nel dominio naturale dell’irreal­ tà fantastica - riflesso fantastico della realtà vissuta. Os­ sia codesta realtà vissuta d’una voce d’addio è un proces­ so spontaneo di facoltà mnemonica che si trasforma in atto ricreatore della fantasia, condensata in una voce di

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sogno artistico, in un atto irreale che (come appunto av­ viene nel sogno) ha la sua speciale realtà ormai essenzial­ mente letteraria-musicale, una sua vita irreale del tutto distaccata da ciò che avviene nella vita vissuta. Beethoven invece con un artificio cui nessuna abitudi­ ne può rendere razionale prende quella successione d’ac­ cordi, e gli dà un valore onomatopeico che poi deve inve­ stire di sé tutta la costruzione musicale che ne seguirà. È assolutamente arbitrio cerebrale pretendere che tutti sap­ piano che, anche staccati dalla parola, quegli accordi con­ servino il significato oggettivo che a lui, soggettivamen­ te, stanno a ricordare (si guardi bene che diverso è il caso d’un titolo che spesso può nascere dall’essenza stessa del pezzo intitolato). E difatti, da codesto temine onomato­ peico (per modo di dire) ne trae una sonata assai bella, modello già come musica, di raro pathos beethoveniano per ciò che riguarda [il] contenuto psicologico - ma a cui soltanto riflessamente, cerebralmente — si può dare un contenuto narrativo, inviluppato in un’atmosfera di sugge­ stione quanto si voglia poetica, ma non per questo meno dipendente dalla confusione tra la realtà obbiettiva della musica — e l’irrealtà del tutto soggettiva di ciò che a Bee­ thoven è parso vedervi. Si tratta insomma d’un secondo processo d’interpretazione - o processo collaterale ed estraneo - inserito riflessamente sullo spontaneo proces­ so di manifestazione puramente fantastica, che si va pro­ ducendo nel compositore mentre compone la sua sonata. Evidentemente egli non è cosi preso dalla sua ispirazione musicale da dimenticarsi tutto, da «oggettivare» tutta la sua soggettività in ebollizione per entro a una forma che la esaurisca senza residui d’intenzioni né insoddisfazioni di concretezza. In tempi più innocenti il creatore si senti­ va assorbito - tutto - nell’austero rispetto della naturalez­ za della forma per raggiunger la quale non si vergognava d’adoprare regole, sistemi, esclusioni di fatti estranei al suo scopo, regole, sistemi, leggi cui un buon romantico leggi: un buon ribelle, un buon rivoluzionario — recalci­ tra d’accettare come limite necessario infrangibile. Acca­ drà così che il creatore del buon tempo antico — dell’epo-

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ca delToggettività come i deliziosi titoli watteauiani alle deliziosissime composizioni clavicembalistiche di Coupe­ rin e Rameau (quanto però piu grande e classico Domeni­ co Scarlatti con la sua refrattarietà alle indicazioni di descrittività musicale!), sarà [ri]compensato dalla sua umil­ tà e dimenticanza di tutto se [stesso] di fronte al sublime mistero dell’ispirazione che - attraverso a lui - s’incarna nella forma. Il creatore dell’ottocento invece — cioè del­ l’epoca della soggettività superacuta (nonostante le sem­ pre meno ammirevoli parentesi d’oggettività - la piu gran­ de di tutte e la più antidionisiaca: Brahms3) - sarà punto dal suo orgoglioso volersi tener desto e presente a se stes­ so durante l’inconsapevolezza divina del sogno estetico tutto quello che si può tener desto presente allo spiritò in istato di rapimento, — quando sia invece necessario ob­ bedire ad una legge trascendente la nostra volontà abitua­ le; la volontà d’aderire, con il dovuto rispetto alle pro­ spettive generali e con l’odio per la licenza tecnica, il più possibile al soffio del misterioso spirito \ La quale arbitra­ ria presenza di sé stesso in tale momento del tutto ineffa­ bile e in certo senso imperscrutabile, manifestasi col me­ scolare continuamente al miracolo augusto dell’ispirazio­ ne trascendente come fenomeno addirittura soprannatura­ le (cosi sa chi l’ha provata) la sufficienza delle sue pretese personali — il ricordo delle sue personali contingenze — la angustia [di] chi riguarda troppo da vicino la propria auto­ biografia (più sopra ho già scritto che l’arte dei romantici è troppo autobiografica). Ed ecco che il bellissimo slancio deWallegro della sonata Les adieux di Beethoven e l’ango­ scia delle sincopate sospensioni nell’andante e il brio spen­ sieratamente infantile del finale (di quella puerilità buo­ na che c’ingioconda tanto in Beethoven), a causa dell’in­ serzione affatto pretenziosa e riflessa e arbitraria (una del­ le tante pose romantiche cui sopra ho accennato), assume uno sbiadito giallore di vecchia stampa puzzolente di muffa e di polvere — o d’una lettera dall’inchiostro scolori­ to scoperta nel sentimentale epistolario di qualche giova­ ne Werther. L’essere coscienti quando non si richiede che l’abban­

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dono semplice di se stesso — o, come dice Flaubert, quan­ do soprattutto si richiede «dimenticar se stessi nell’ope­ ra propria» - trasforma proprio i romantici proprio code­ sti araldi pomposissimi e multiloqui della ispirazione e del­ la spontaneità in barba a tutti i parrucconi (leggi quei deli­ ziosi e sicuri artisti che erano i settecentisti seguaci imper­ territi della regola e del metodo) in ingenui della più bel­ l’acqua. Il cerebralismo più acuto infatti — si guardi alla pittura futurista — coincide con gli infantilismi dei maumau o — il che è lo stesso - in Europa la civilissima - dei dadaisti. E si sa che — a porre le mani innanzi — le teorie destinate a difendere i frutti d’ogni cerebralismo [...] non si sono peritate a riannodare — con la scusa del primitivi­ smo - che so io? persino religioni di negri, feticci del centro Africa e tutto il folkloristico primitivismo d’ogni genere etnico e geografico. Letterarietà e ipercritica cui ci ha portati a poco a poco il radicale vizio soggettivistico delle aspirazioni romantiche. Ma la musica di Beetho­ ven s - come a più riprese qui e altrove ho notato - era venuta su alla scuola incipriata ma nella sostanza ferrea­ mente e scolasticamente rigorosa dei settecentisti e il fiu­ me ruinoso (più spesso ahimè torrente avventizio e caoti­ co) della sua ispirazione finisce sempre per scorrere inca­ nalato negli ordini d’una per lo meno ambita potenza for­ male. Nessuna meraviglia però se egli provasse tanta am­ mirazione per un giovane ben tedesco e ben romantico, improvvisatore della forza di Schubert — arte più demo­ craticamente ed effimeramente popolare potrebbe esiste­ re? — ammirazione delle brevi folkloristiche (in questo caso boeme) polluzioni melodiche, [...] per quanto Beetho­ ven fosse più dello Schubert amante esperto del grande stile tramandato ai romantici più in gamba dai settecenti­ sti che non coltivavano e non potevano coltivare che l’oggettivo stile del Rinascimento italiano erede di tutto quan­ to in fatto di stile e costituzione musicale era stato creato dalla mente ben fatta dei greci e dei latini. Anzi dirò di più: dalla riflessione pseudocritica delle improvvisazioni bohémiennes schubertiane; dalle superfetazioni lettera­ rie che lo Schumann (sassone questo) critico romantico

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se altri mai ve ne fu, traeva dal ruminamento della musi­ ca estemporanea dello Schubert, nasce la famosa «poesia musicale» (com’è stata chiamata dagli esteti tedeschi) — la musica dell’autore della Kreisleriana e del Karnaval. La Kreisleriana\ Chi non conosce l’umoristica storia del pirandelliano direttore di sinfonie irreali, come può capire questa suite di delicati preziosismi musicali, solipsi­ stici fino all’isterismo e di cerebralissime (cerebrali nono­ stante le brevi esplosioni di schietta spontaneità) interpre­ tazioni fantastiche che ogni fantasia d’ascoltatore e di can­ tore altrettanto solipsisticamente deve — «d’obbligo» — ordire sui momenti ritmico-melodici di Roberto Schu­ mann? Il Karnaval\ Tutto il desiderio rientrato di vita di que­ sto morboso nella vita, fallito, fratello in quanto a pathos umoristico di Heine, si sfoga in questa sbrillantata suite con un’orgia di lampi di sogni evanescenti, appena appar­ si tosto scomparsi — come un fiotto di veli dipinti cui dietro traspaiono altri veli dipinti si che non si dà quasi mai all’occhio di fissarne uno compiutamente, ma l’ambi­ guo giuoco ambiguamente si svolge con l’instabilità e l’in­ conseguenza eccitata del sogno d’un ebbro o d’un debilita­ to di nervi. Impossibile concepire nulla di più romantico - di meno realizzato architettonicamente — e ben si com­ prende come presso i romantici meno semplici (per costo­ ro idoli di prima forza furono Beethoven, Verdi, Chopin e oggi Strauss) il Karnaval abbia avuto uno di quei succes­ si che doveva sbalordire i «filistei» amatori della regolari­ tà e della solidità in certo senso pratica e che erano nemici giurati d’ogni stato d’animo «d’eccezione». Ed è bene av­ vertire che davanti a loro avevano ragione i romantici alla Direttor Kreisler (a volte un male nuovo ha in sé i germi d’un Rinascimento di cui è sprovvisto il male vec­ chio); sebbene spesso e volentieri codesti rivoluzionari e sovvertitori della realtà avessero poi torto di includere tra i filistei anche coloro che non un panciafichismo6 inci­ priato volevano nella vita ma una virile fermezza che, ri­ spetto ai filistei, è anche più rivoluzionaria della nevraste­ nica instabilità romantica.

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Finché la condanna tragica di tutti i cerebrali non fissa la fantasia di Schumann proprio in ciò che a lui sembrava l’infelicità suprema: l’inseguimento di qualcosa di ostina­ to, e che non erano purtroppo le astratte oggettive leggi della fuga o della forma-sonata quali la intesero i sani e ben respiranti Mozart e Haydn e via, almeno per un cer­ to tempo, Ludwig van Beethoven, ma il martellare dispe­ rato e acerrimo d’una «idea fissa» musicale. Chi non ricor­ da, di questo mago della volubilità, lo strazio di quelle ultime composizioni sterili, aride, atrocemente, disperatamente monotematiche?

XIX.

Risposta telefonica ad un interprete

— Pronto. - Pronto. - Parla con XY. Quanto ci ha letto iersera su Chopin e su Schumann ha finito per farmi girare la testa. Ma, mio caro signore, se dovessimo dar retta a lei, che cosa potremmo piu suonare? Rossi, Scarlatti, della Ciaja ', Piat­ ti, Rameau, Couperin, Mozart, Haydn o qualche altro se­ centista o settecentista con tanto di barba, molti dei qua­ li - lei m’insegna - starebbero meglio sul clavicembalo che sul pianoforte. È vero che ella ammette si possa so­ nare anzi si debba sonare tra i veri moderni anche De­ bussy, Ravel, i sei francesi, Scriabin, Malipiero ecc. Ma in­ somma che ci resta? Lei sa che il pianoforte per me è tutto. Iersera, avanti la sua terribile lettura, mi ha fatto gli elogi per come io sonavo Chopin, Schumann, Liszt, Bach-Busoni, Franck e via di seguito. A ripensarci, la sua lode finisce per diventare una corbellatura. Insomma io lo mando da quel pianista giovane che sono e tale che ho il coraggio di eseguire anche di quella poca musica dei nuovi e dei nuovissimi — a farsi benedire! Altrimenti mi spieghi in poche parole la sua contraddizione. — Pronto! — Risponderò con meno parole che posso. Non c’è contraddizione. Lei suona bene, gliel’ho già scrit­ to quando facevo il giornalista2. Anzi lei è tra i nostri giovani pianisti che fanno onore alla scuola pianistica ita­ liana, sebbene purtroppo la sua tecnica porti ancora il nome d’un metodo straniero. A interpretazione di musi­ che pianistiche straniere, metodo straniero. Dunque non

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ho mentito. Ho la santa disgrazia di non mentire che da­ vanti agli imbecilli — quando cioè il parlar fiero sarebbe dare le margherite ai porci. Lei non è tra questi... (Signori­ na, non levi la comunicazione; faccia conto che parli d’al­ ti affari di banca! Come? È troppo che si parla? — Beh! resta a sentire tanti discorsetti lunghi e con curiosità, che se questo non la interessa, poi io e il mio amico le manderemo un mazzo di fiori o un pacchetto di gianduiot­ ti!) Tornando a lei; pronto! pronto!; signor XY, accetti un consiglio. Perché si fa invitare dalle belle signore intel­ lettuali alle letture dei libri nuovi che hanno sapore di scandalo? Stia a casa [a] studiare ancora il suo Chopin e il suo Liszt, o magari vada a far la corte a qualche sua bella allieva. La critica è per pochi e meno che mai per i piani­ sti. Agisce sull’umanità come le prediche dei moralisti che lei certo avrà sulle scatole. Non è preventiva. È - al massimo — quella seminagione paziente e metodica che avviene nelle stagioni fredde e che non sono gli amanti in passeggiata che hanno occasione di ammirare, ma dei cui resultati si accorgono quando piante e fiori sono in piena féerie primaverile — e allora tutta la campagna è un verzie­ re e l’amore è forse il suo piu bel fiore — in attesa, ben inteso, di trasformarsi a suo tempo in frutto concreto. E giacché mi ha telefonato, tenga solo a mente questa oh poi facile profezia — magari come morale della favola. Lei un bel giorno sentirà tanta nausea a sonare Chopin Schu­ mann Liszt come il pubblico a sentirla ripetere fino alla sazietà. E poi lei che fa il pianista e, lo fa bene, non legga troppi libri, non s’infrusagli di letteratura. Conti­ nui a fare l’interprete — che è una bella e santa naturale vocazione che Dio concede a pochi eletti e ad eseguire quel che si sente di poter sonar bene (Signorina! ormai sono sicuro che non leva la comunicazione giacché si dev’esser accorta che a impiegarla al telefono è stata la mia bizzarria di scrittore!) Non legga dunque troppi libri, sal­ vo quelli di musica — si capisce. La trasformazione che è implicita nelle mie dirò così teorie piuttosto apocalitti­ che, avverrà da se stessa. Un bel giorno ella, stimatissimo XY si troverà tra le mani tutto un repertorio nuovo. O

risposta telefonica

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se non lei che galoppa verso la trentina e comincia a met­ ter su pancia, qualche suo allievo. Pertanto (la prego am­ mirare come aulicamente abuso della sua pazienza, ma è ormai anch’ella creatura mia, come la signorina del telefo­ no). Pertanto, signor XY, ella allora s’accorgerà di come non sono così imperituri i nostri carissimi ottocentisti austro-boemo-polacco-ungaro-tedeschi. La tecnica? Ma la tecnica nasce a suo tempo dall’arte che viene creata e che a sua volta risponde a bisogni intimissimi d’un’epoca (me­ glio se vi risponde in un modo da esser di tutte le epo­ che. Ma in musica non c’è stato nessuno). Non ci crede? Pensi — nel campo dell’opera - a quanto sia buffo dover constatare che non vi sono più cantanti per cantare la musica di Rossini, Bellini, Verdi. Sa che cos’è? È che or­ mai il pubblico — le cito parole note a lei ch’è dannunzia­ no - per quel campo inesauribilmente arabile che è la musica chiede per istinto «nuovo seme a novel semina­ tore». Chi è il novel seminatore? Ma ci penserà la vita a indi­ carlo: forse nessuno forse una moltitudine. Ad ogni mo­ do continuare a seminare nel pubblico Chopin, Schu­ mann, Liszt, c’è il rischio come chi volesse seminare due o tre volte lo stesso grano dove è già cresciuto fino ad accestire3. Stia in pace. Non mi legga. Non faccia il pianista lettera­ to. Lasci che la vita ci pensi lei a suggerirle quel che deve suonare; e per ora — non si faccia scrupolo a sonare Cho­ pin e Schumann e compagnia ottocentesca. Sappia — se ciò la può consolare — che tra le tante cose esilaranti di questa nostra epoca così scontenta da contentarsi di tut­ to, c’è anche un «ritorno all’Ottocento». Una moda che sarà utilissima — finché dura — a lei mio caro signore XY col quale ormai rompo davvero e in definitivo la comuni­ cazione.

XX.

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Il lettore, che ai tempi d’oggi dopo tante iniezioni d’u­ morismo amaro, non può essere che — per definizione — un raffinato maligno, s’aspetterà da ciò che io appioppi a Wagner una delle tante etichette prevedibili da chi finora mi ha letto — per lo meno — con un minimo di scaltrezza. Wagner dunque per me sarebbe il «Dionisio imperiali­ sta» — il musicista che in musica — fatte le debite traslazio­ ni da un rivoluzionarismo nazionalistico — ad altro d’al­ tra nazione - da quello francese a quello tedesco (e vice­ versa). È come portarvi, in fatto di aspirazioni politiche tedesche e affini, dalla democrazia francofila di Beetho­ ven a quella popolaresca e francamente tedesca di Schu­ bert; che nella rivoluzione democratica e imperialistica [Beethoven] fece la parte di Francia (e d’altrove in certo tempo). Wagner concepì e attuò un’arte imperialistica; imperialistica nei mezzi, imperialistica nella sostanza, fre­ mebonda di quel che poi il suo amico nemico — il filosofo di Dionisos — ebbe a chiamare «volontà di potenza», im­ perialistica insomma per chi sa di storia — in rispondenza alle aspirazioni mondiali del popolo tedesco - imperiali­ sta anche rispetto alle eccessività disordinate dei rivolto­ si del romanticismo. No, lettor saputissimo. Ch’io pensi tutte queste cose è cosi implicito nella materia del mio libro, che l’ho già scritto per incidenza qua e là e non c’è bisogno che ne faccia uno sviluppo completo come si usava ai bei tempi del crocismo, quando Borgese scriveva per tesi di laurea la Storia della critica romantica in Italia1 (che si ha un

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bel dire è sempre un gran bel libro) e — scusate se mi cito - io mi sfogavo con la costruzione panlogistica della Sto­ ria musicale tracciata forse con qualcosa di più e di meno cbe l’aderenza assoluta al neohegelismo italiano — nella già da me citata varie volte Crisi musicale europea. (Mi cito troppe volte? Che volete? Ogni studioso ci tiene a qualche suo lavoro più che agli altri: io a quella — mi sbaglierò - ma ci tengo ancora, nonostante ne abbia del tutto capovolto molte tesi, ci tengo come un contadino può tenere al primo campo che ha scassato). Per tornare a Wagner, egli, a differenza di quei romantici che si lascia­ vano trascinare dal flusso dell’esteriorità e per comporre pretendevano ad ogni costo d’entrare in istato di ebbrez­ za, fu un orgiastico, si, un dionisiaco, anzi il dionisiaco per eccellenza, e tale che ispirò a Nietzsche l’idea della rinascita d’un culto a Dionisos. Orge notturne del Trista­ no e Isotta, vortici fumiganti del gran duetto del Sieg­ fried, iperboli musicali con sottolineamento di quei metal­ lici, ottoni barbaricissimi che sono stati così abusati da lui e dai suoi seguaci sì ch’ormai ascoltare V Ouverture dei Maestri Cantori ai nuovi musicisti fa l’effetto che do­ veva fare a un poeta alessandrino e - addirittura a un mosaicista bizantino — la lettura d’una tragedia di Eschilo o vedere una statua di uno scultore greco-romano del miglior tempo dell’impero. Wagner era un orgiastico, ma fu anche un volontarista. Volle un’arte che naturalmen­ te, come tutti i fatti dell’intelletto troppo voluti, risultò cerebralista all’eccesso — e il suo volontarismo in un’epo­ ca d’improwisatori ebbe il suo valore ed una grande im­ portanza. Dionisos ha militarizzato i suoi tiasi. Ed è vano negare che Wagner — colto fino alla filologia, filosofo fino alla teosofia teologica, iniziato — in arte fornito di una meravi­ gliosa genialità, cerebralizzò il campo meno almeno in ap­ parenza suscettibile di riforme dopo le innocenti felici spontaneità solari degli italiani. E Wagner fa proseliti col suo duro volontarismo e il suo complesso cerebrali­ smo proprio fra chi ostentatamente come il Verdi dell’Otello gli volta le spalle e come accade oggi negli antiwagne­

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riani per disperazione Debussy e Pizzetti (il che vedremo meglio nella terza parte di questo libro). Nel melodramma - concepito in altri tempi come risur­ rezione di quell’illusione che i filologi umanisti ebbero della tragedia greca — non si guardava ormai troppo più a che funzione avesse il poeta, né a quale il musicista; non importa (come noterò dopo) se da questo fosse nato qual­ cosa di metastasianamente armonioso che aveva anch’esso il suo valore: le esagerazioni della spontaneità sono esagerazioni e non sono meno delle esagerazioni della ce­ rebralità a cui dopo l’esempio wagneriano siamo giunti a un male anche peggiore. Wagner, e in fondo gli torna ad onore, seppe anche attraverso alle fumiganti caligini dei tiasi dionisiaci fare anche della bella poesia — dato che nel melodramma c’è poesia e musica — e poi cercar di fare della musica. Fino a che punto il Dionisos ottocentesco amator delle iperboli gli permettesse di raggiungere il suo intento è stato detto troppe volte perché io lo ripeta. Ma, insomma, come poeta Wagner risentì i miti del suo popolo con una forza e una amorevolezza letterarie che ha del miracoloso, sì che l’esempio è stato così abbacinan­ te che dopo di lui ogni musicista-poeta se ha voluto fare il «dramma musicale» ha dovuto fare i conti (il più spesso a scrocco di un poeta di professione fosse Maeterlinck o D’Annunzio o Benelli) con la poesia che stia in piedi an­ che da sé sola. Come musicista da buon tedesco incappò nel sistema - non per nulla era protestante e oggettivisticamente amante del metodo come tutti i protestanti. Ma è un fatto che questo sistema (dei leitmotive) gli [ri]fece mettere in onore la vera polifonia snodata, abbondante, spesso ammirevole, quella polifonia essenzialmente cri­ stiana che l’umanismo con le sue smanie della regolarità in questo caso strofica aveva nella musica ucciso. Né par­ lo della colorazione musicale per impasto di sonorità. Al­ tro merito di Wagner è stato quello - sia pur sempre sulla linea del romanticismo (egli s’illudeva di essere in musica un seguace di Shakespeare) di aver cercato di dar­ ci un taglio dell’atto con sceneggiatura spesso piena di poesia che fosse un po’ meno convenzionale e un po’ me-

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no democratico di quello - convenzionale fino a quel cer­ to punto da non sdegnare il popolo e da contentare le nostalgie di rivoluzione del terzo stato di Meyerbeer2. Peccato che Wagner fosse protestante e cioè intima­ mente piu romantico e più democratico dello stesso Me­ yerbeer! Ridete? Eppure tutto il male sta qui: egli fu co­ sì affetto di romanticismo che alla fine fece quel che fece­ ro tutti i protestanti e i romantici sieno di razza o di contagio: degenerò in verista, pur lasciando spesso fiori­ re dal cuore meravigliosi sogni di poesia e blandizie traso­ gnate da idealista sì che né pur Platone avrebbe sdegnato averlo per allievo.

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So che vedendomi così benevolo (in confronto [a] quel­ lo che non ho detto a Beethoven) per il mago di Bay­ reuth, si griderà [—] specialmente da chi ha interesse a far finta di non avere a che fare con ogni sorta di derivazione wagneriana e specialmente a ciò che fu chiamato, a propo­ sito di Debussy: wagnerisme à rébours [-], «Al wagneria­ no! al wagneriano!» E allora sarà bene metter subito le cose a posto e dire che uno dei miei bei desideri sarebbe veder sorgere in Italia una controriforma del melodramma. L’idea ispirerà pochissima fiducia: mi si domanderà: — ma che lo scrittore ha scambiato la musica per una que­ stione religiosa, che ci viene a parlare di riforma e di controriforma? Ma la colpa - senza voler cascare in una delle malattie piu esose del mozzicone di Novecento in cui debbo vive­ re e la quale è (come ho detto) quella di atteggiarsi a ritardatario ottocentista — la colpa, lettore saputissimo, non è mia, è colpa vecchia ed illustre del piu gran nemico del melodramma italiano: lo stesso Riccardo Wagner. Rifacciamo un po’ da questo punto di vista e un po’ alla buona la storia della questione. Peggio per chi non capirà come, su[lla] base dell’ottocento tedesco, io difen­ da piu quel che non si fosse potuto immaginare Wagner; e poi, di fronte a Rossini, gli faccia fare una cattiva figura. S’era ai tempi beati di Rossini, nel primo quarto di secolo decimonono. La furiosa raffica napoleonica era pas­ sata e la Santa Alleanza aveva restaurato un po’ dovun-

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que — e da noi piu che altrove - il «buon governo». Rivo­ luzione francese — ideali eroici di conquiste imperiali (per conto e vantaggio altrui) — meglio di tutto ciò: fer­ menti d’indipendenza - cose certo bellissime o bruttissi­ me, ma non so quanto per allora direttamente interessan­ ti la massa degli italiani ignari, almeno i piu, della formi­ dabile potenza di resurrezione che già covava nelle fibre in risveglio della nazione pur sempre allo stato d’espres­ sione geografica. Sorgesse un genio capace di far straripa­ re dalla sua fantasia le canore melodie e i ritmi meridiona­ li di tutta una razza adoràtrice della musica se altre mai ve ne furono — e il nostro pubblico, almeno per il momen­ to, non chiedeva di meglio. E il genio sorse lampeggiò divampò, percorse e conquistò, prima, l’Italia, quindi ad una ad una le nazioni d’Europa — non diversamente (co­ m’ha notato lo Stendhal) da Napoleone. E il genio fu Ros­ sini. Non esco dal seminato: un po’ di baglior rosso dionisia­ co c’è ancor qui. Innegabilmente un certo fiato piu impe­ rativo ed irruente che non si sprigionasse dalle dolcezze leziose degli operisti del Settecento, gonfia la musica del grande marchigiano o romagnolo che fosse, ed ogni tanto sembra lanciarla alla conquista d’un fortissimo con l’incal­ zare dei vasti crescendo di note in falangi bene ordinate e irresistibili come battaglioni correnti all’assalto — i cele­ bri crescendo rossiniani. Sotto quest’aspetto Rossini ha, si, rispecchiato qualche riflesso della folgore napoleonica — coloro che piu la riverberarono tra i musicisti furono Spontini e Beethoven. Ma, in realtà, nessuno fu piu codi­ no di lui. Codino nella concezione del melodramma (seb­ bene come musicista apparisse rispetto a Cimarosa ed a Paisiello un innovatore) — e qui, a mio parere, ebbe ragio­ ne. Codino nella politica, e qui il suo antiliberalismo (di­ rò meglio: il suo scettico legittimismo d’uomo tutto pre­ so dalla sua vita d’artista) non lo pone certo, come Bee­ thoven, tra gli spiriti d’avanguardia di quell’epoca. Infat­ ti le sue opere — pochissime eccettuate e soprattutto quel Guglielmo Teli che è la sua massima, ma anche unica con­ cessione allo spirito dei tempi — nacquero all’ombra di

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quelle vecchie e statiche corti che per tradizione conserva­ vano, almeno come lustro se non con intelligenza, l’uso di proteggere artisti ereditato dalle signorie dei grandi mecenati cinquecenteschi. Anzi Rossini fu così codino, co­ m’ho detto, non solo in musica ma anche in politica - è nota la pessima accoglienza che gli fecero i liberali bolo­ gnesi quand’egli si propose di fissare la sua definitiva di­ mora nella loro città - ch’egli deve in sostanza il suo enor­ me successo al ritorno in Italia dello statu quo avanti Na­ poleone e, volere o no, all’ora di tranquillità che si sparse quando — rimesso al posto dall’Austria il vecchio mosai­ co delle dominazioni posticce e pericolanti - si ridiffuse la calma del tradizionale quieto vivere. Poiché la novità del suo modo d’intendere il teatro non metteva certo in imbarazzo la censura — come accadrà per Beethoven, rima­ sto oggi si direbbe liberale se non proprio repubblicano in tempo di reazione, al quale, com’ho già detto, verrà ingiunto di mutare nel Peana finale della Nona sinfonia la pericolosa parola «Libertà» in ima innocua «Gioia» che ci sta come un carnevalesco lampioncino alla venezia­ na al posto di qualche fatidico sole dell’avvenire. E Rossini si mise a ridere. E non certo per compiacere a questo o a quello, ma perché il riso l’aveva in cuore, la lucidità ridente avendola egli ereditata dallo spirito sere­ no del Rinascimento giunto ormai — nel suo immortale modello preferito, in Mozart non italiano ma educato al­ l’estetica italiana — alla piu perfetta realizzazione musica­ le. Si mise a ridere con la sua musica olimpicamente gio­ viale per i vecchi teatri principeschi e granducali che in fatto di buon gusto e d’esperienza artistica la sapevano più lunga certo dei Metropolitan e dei Manhattan del nuo­ vo mondo o di qualche mastodontico teatro del vecchio se non, addirittura, del tempio snobistico di Bayreuth. Si mise a ridere con quella spensierata e un po’ enigmatica innocenza che sembra una prerogativa soltanto dell’arte mediterranea - prerogativa invano invidiataci, fin dal tem­ po di Goethe a quello di Nietzsche — dagli abitatori di terre più meditative e monotone. E amò, da giovinetto, la sorridente perfezione, formatasi sui grandi modelli ita-

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liani di Haydn e di Mozart. Ma niente di settecentesco voleva. Voleva — come tutti i veri uomini di teatro — un’o­ pera per i suoi contemporanei, e siccome questi contempo­ ranei si sentivan traditi dai disordini bellici e dalle impul­ sività francesi, un’opera di giocondità. E tanta ne ebbe Rossini di questa giocondità, da adornare di fantasia ri­ dente i soggetti delle opere serie e tragiche e perfino reli­ giose. Il suo capolavoro è II Barbiere, ma musica ingioiel­ lata e scintillante di gaiezza se ne trova in tutte le sue opere di tema severo — come in Semiramide e in Otello, Se ne trova, debitamente metamorfosata in solennità fa­ stosa e brillante — dove non si innalzi con sublimi e reli­ giosi colpi d’ala — perfino nel Mose e nello Stabat. Egli — con quella noncuranza olimpica che soltanto un bigotto metodista protestante scambierebbe per superficialità — arriva ad appendere ghirlande di fiori gai sinanco alla so­ lenne architettura schilleriana del Guglielmo Teli. Vero è che codesta impressione di olimpica giovialità ci vien data anche dalla tecnica brillantissima con cui Ros­ sini trattava la voce e la sua fede nei miracoli di questa tecnica a sua volta proveniva dai suoi principi estetici di operista italiano per cui voce finiva per identificarsi con musica. Infatti quello che Rossini si proponeva — al di là di qualunque altra preoccupazione - era la funzione meli­ ca del compositore di melodrammi. Mi spiego. La prima parte del vocabolo melo-dramma è melos — e vuol dir can­ to — poesia scritta con lo scopo esclusivo d’esser cantata. Dramma quindi per cantanti, non per attori. E quello che Rossini s’era proposto, tutti i nostri autori di melo­ drammi sempre se l’eran proposto dalla fine del Cinque­ cento in giu — sia pure con non rari giri di vite per frena­ re gli eccessi della musica tendente a una troppo astratta canorità. La nostra «opera in musica» è così una cosa sola col mezzo tecnico che la esprime - la voce. E la voce — il canto - indipendentemente dal suo rapporto molto ipo­ tetico con la realtà (in natura gli uomini non parlano can­ tando melodie ed anche il recitativo secco è sempre una convenzionalità deliziosamente stilizzata e irreale), assu­ me una sua essenza astratta, puramente musicale. Il ti-

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po del libretto che ai tempi di Rossini - nonostante le svariate eccezioni e qualche timido prodromo di romanti­ cismo — ancora in Italia trionfava, era pur sempre quello, estremamente stilizzato, del Metastasio, poeta cesareo e codino, se altri mai di simile risma ve ne poterono essere. Gli eroi di tale dramma squisitamente atteggiati a manne­ quins impersonali e ridotti a dire cose lievi e musicali di per se stesse e soprattutto tali da non intralciare la linea perfetta della melodia, sembrano a poco a poco nei mo­ menti di più acuta estasi musicale confondersi cogli arabe­ schi e le prospettive anch’esse astratte e stilizzate degli scenari fantasticamente irreali. Classicismo e serenità. Il melodramma - figlio del Rinascimento - finisce per coinci­ dere con un affresco architettonico di Raffaello — il pitto­ re più armonioso del Rinascimento. Invano Gaspare Spontini, l’operista di Napoleone, aveva con due capola­ vori - la Vestale e il Fernando Cortez - cercato di dare una più fiera concretezza storica e realistica all’idealità (oggi si direbbe metafisica) del melodramma italiano. Ros­ sini — anche se da lui abbia preso la trouvaille dei galop­ panti napoleonici crescendo - ritorna alla musica bella per se stessa, senz’altro scopo che di abbellire tutto — sog­ getti vivi soggetti archeologici — coll’idealizzazione ineffa­ bile del canto. Così la trama dei melodrammi dev’essere di tutti e per tutti quintessenza d’astrazioni drammatiche convenzionali e universali come gli schemi d’una mitolo­ gia. Ogni soggetto nuovo, che incontrasse o per l’essenzia­ lità d’un tipo o per una scenica idealizzazione quasi direi matematica della realtà, tendeva a far proseliti come oggi una scoperta scientifica. Non per nulla per il suo capolavo­ ro Rossini si è valso d’un tema già noto: il Barbiere di Siviglia di Beaumarchais musicato in precedenza e con for­ tuna da Paisiello. La potenza della fantasia non si esplica per lui escogitando situazioni drammatiche e sceniche mai viste o agitando passioni più ribelli dell’ordinario — ma prendendo qualche vecchio cespite — o qualche nuovo, ma sempre cespite di serra, non mai sprocco2 di bosco — e coprendolo con meravigliose fioriture di rose fresche, di melodie fragranti di giovinezza.

XXII.

Ancora Wagner

Contro quest’opera in apparenza convenzionale, ma nella sua anima musicale eternamente giovane — Riccar­ do Wagner, come ognun sa, appuntò tutto il suo odio Riccardo Wagner della grave razza di Lutero e come lui profondamente impregnato dallo spirito di ribellante pro­ testa contro ogni espressione di psicologia cattolica e clas­ sica. Cosi l’opera di Rossini e in genere l’opera italiana (concepita nella brillante e calda sensibilità del Rinasci­ mento, non è poi vero sempre scettico e machiavellico) — prolungatosi in musica piu che nelle altre arti — rappresen­ ta per lui la corrotta vecchiaia dell’arte latina. E come Lutero contro la corruzione del cattolicismo oppose la sua celebre riforma, tre secoli dopo, Wagner, contro l’opera in musica italiana e in particolare quella di Rossini così felice d’essere italiana, oppone la sua non men celebre riforma del melodramma. L’opera italiana concepiva l’or­ chestra come un semplice e parco - se pur robusto — soste­ gno dell’edificio canoro e aveva condotto al massimo del virtuosismo il bel canto? Wagner riduce al minimo la par­ te del cantante (e cioè a un declamato musicale in cui la nota è subordinata come accento e come colore espressi­ vo alla sillaba) e conduce al massimo sviluppo l’orchestra. Artisticamente quello che c’importa di più è che la ri­ forma wagneriana tagliava alle radici il più importante mezzo espressivo della nostra opera in musica - il canto. La sostituzione del commento orchestrale - continuo pe­ sante sproporzionato sino all’informe—alla lieve armonio­ sa architettura vocale del melodramma, ne trasforma radi-

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esimente l’essenza. Di un’opera idealmente classica quindi equilibratamente italiana e cattolica - ne fa un’ope­ ra realisticamente romantica - e quindi intimamente tede­ sca e protestante (il tanto decantato sentimento della na­ tura nei romantici si riduce in sostanza a un realismo ripu­ gnante all’aristocrazia della nostra estetica). Abolite le arie i pezzi d’assieme i cori, il cantante diviene attore ed enfaticamente declama intonando le sue parole — che or­ mai esso potrebbe soltanto dire a voce naturale come in un melologo. La musica scacciata dalle gole dei cantanti si rifugia in orchestra e — d’idealizzatrice e lirica — si fa descrittrice e imitativa nel modo piu realistico ed elemen­ tare che mente d’artista grezzo e corrotto al tempo stesso potesse immaginare (alludo al sistema dei motivi condut­ tori — quintessenza di goffo metodismo germanico). Così Wagner crede d’aver dato il colpo di grazia al melodram­ ma italiano e d’aver creato il modello imperituro di quelV Opera d’arte dell’avvenire *, di cui egli si credeva il pro­ feta. Ma l’avvenire rapidamente mette a nudo l’errore ini­ ziale di questa riforma: l’aver preteso di rendere schiava della realtà l’arte più ideale e idealizzatrice di tutte: la musica. La riforma wagneriana infatti si apre e si chiude con Wagner - gloriosamente quanto si voglia - ma sem­ pre in quella sede d’eccezione da cui sono scaturite le mi­ gliori manifestazioni artistiche del romanticismo. I suoi continuatori infatti, dopo aver sviluppato fino all’assur­ do il descrittivo sinfonico, hanno battuta la testa contro l’assurdo che vuol essere fondamentale nella teorica wa­ gneriana: l’esagerata realistica antimusicale preponderan­ za data dal musicista al poeta. Con Strauss e Mascagni — i più originali epigoni di Wagner — l’orchestra è pletorica, invadente, arbitraria. Ma, specialmente col secondo, sia­ mo in un teatro d’opera dove ancora le voci degli artisti cantano — dando se vogliamo soverchia ed enfatica impor­ tanza a parole che spesso non la meritano - ma insomma cantano e, con Mascagni almeno, cantano spesso divina­ mente. Ma ormai siamo purtroppo arrivati all’estremo op­ posto. Quello che oggi i cantanti, intonandolo, dicono, ha tale importanza che il pubblico che va all’opera non sa

ANCORA WAGNER

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pid se questa gli piace perché c’è ancora un rimasuglio ra­ chitico e isterico di musica o perché, piuttosto, si sente afferrato dalla forza drammatica, spesso potente, del li­ bretto-poema per lo piu scritto da un celebre — sia il D’Annunzio o il Benelli e, all’estero, l’Hoffmannsthal, il Maeterlinck o il Wilde. Al tempo di Rossini può darsi che Wagner potesse sembrare d’aver ragione quando os­ servava — dal suo realistico punto di vista - che la musica nel melodramma italiano era troppo fine a se stessa. Oggi se Rossini rinascesse, si prenderebbe una allegra rivincita osservando a sua volta che — dopo la riforma wagneriana — nel dramma musicale le parole sono troppo «fine a sé stesse» e potrebbero benissimo stare con o senza la musi­ ca. Anzi - conoscendo il gusto un po’ ironico di Rossini — penso ch’egli preferirebbe andare a sentir la Cena delle beffe in teatro di prosa anziché in teatro di musica — quando non gli piacesse piu di stare in casa a cucinare un piatto piu gustoso dei pasticci operistici moderni. Un ritorno a Rossini, allora? - No, per carità! I ritor­ ni sono più cerebrali delle stesse riforme e anche noi, come già Rossini, dobbiamo scrivere non per i nostri non­ ni ma per i nostri contemporanei. D’altronde ai geni de­ gli uomini non è concesso ciò che — secondo ci annunzia il Vangelo — può permettersi soltanto il Genio di Dio: compiere il miracolo d’una seconda venuta sulla terra. Piuttosto - finirla una buona volta con la mania delle riforme troppo personali e ormai ridotte per la loro fre­ quenza — a un luogo comune. Quando tutti si credono in diritto di riformare, si arriva all’anarchia. Riforma wagne­ riana ha voluto soprattutto dir questo: diritto — molto democratico in verità — a tutti gli operisti, grandi e picci­ ni, geniali o speculatori, di continuare sulla via aperta dal maestro di Bayreuth per capovolgere i valori del melo­ dramma italiano. E se invece ci proponessimo di rimetter­ li in piedi, codesti poveri valori, con la testa all’in su — la musica il melos - e le gambe all’ingiù - la base, lo schema poetico, il dramma^ Ma, scusate! Perché proprio la musi­ ca - ossia, essendovi cantanti sulla scena, il canto - do-

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vrebb’essere sacrificato ad una poesia che, dopotutto, sta­ rebbe centomila volte meglio da sola? Infatti, concepire il libretto - composto di parole essenzialmente meliche (ossia: da esser cantate) - come pretesto a un bel quadro scenico-musicale: ecco una idealizzazione della realtà che — se non siamo intossicati di piatto realismo - non fa per nulla ai pugni con la logica. Mentre non comprenderemo mai come una musica secca, arida e descrittivamente reali­ stica (ossia antimusicale per eccellenza) possa servire di pretesto ad un poema drammatico già bell’e compiuto di per se stesso. Forse che il melodramma italiano è trop­ po idealistico, irreale, innaturale? Ma, in arte, cercare quella che comunemente s’intende per natura, per realtà, per vero - e fu errore, inconscio, dei romantici, conscio, dei loro legittimi figli, i veristi - è come chiedere a Pin­ daro la pianta d’una palestra di ginnastica o versi al diret­ tore d’una fabbrica di bottoni automatici. E allora, visto che la via della riforma wagneriana fini­ va in un vicolo cieco, non resta che imboccare bravamen­ te la nostra antica via maestra, che in questo caso si chia­ merà della Controriforma. - Ohibò, mi si dirà, passatismo, reazione, ottocentismo! — E chi vi ha detto che una controriforma italiana rispetto alla generazione compiuta nel campo dell’opera in musica dal romanticismo e da Wagner (die Francesco De Sanctis ben giudicò «un corruttore della musica») vo­ glia dire regresso, o non piuttosto progresso? E chi vi ha detto che i migliori operisti i quali oggi più sembrino «ri­ formatori» — come il Pizzetti, superatole insieme col De­ bussy della retorica sinfonica di Wagner - non siano, a guardarli bene, i più sereni sicuri classici «controriforma­ tori» nonostante, purtroppo, alcuni loro postumi di wagnerismo visibili specialmente nella scelta a librettista d’un poeta troppo verbale e troppo verboso — magari lo stesso compositore se abbia la ventura, o la disgrazia, d’esser anche poeta? D’altronde noi moderni - dopo la monotonia di tanti e sempre insufficienti record nella corsa alla novità - sia­

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mo ormai abbastanza smalizziti da non ignorare che è pro­ prio sulla via d’una controriforma che un genio autentico può attuare in ispirilo di conservazione la piu formidabi­ le delle riforme.

XXIII.

[Cristo a braccetto a Dionisos]

Abbiamo un po’ perduto di vista Dionisos? Tornando a lui devo ripetere ancora che cosa voleva Dionisos, dato­ re d’irrefrenabile gioia-dolore, dai musicisti dell’Ottocento? Ripeterò le mie stesse parole: «il fare grandioso e teatrale, il cantar vasto, lo scatenare negli uditori sussulti titanici di passioni rivoluzionarie e d’amori ribelli fino al­ l’esaltazione e alla morte». Dionisos nell’ottocento fu il dio della passione democraticamente ostentata, del tiaso di gente ebbra di sensualità violenta. Nessun piu comico sacrifizio musicale al dio della pas­ sione orgiastica di quello da mezzo e a fine del sempre contraddittorio e ineffabile Ottocento — sacrifizio compiu­ to da due geni indubbiamente in fondo all’anima religio­ si, ma nella sensibilità infetti da passionalità orgiastica e, — manco a dirlo, - tedescofila: Franck1 e Perosi2. Ho detto tedescofila e avrei potuto dire, piu certo per il secondo che per il primo, wagneriana. Tuttavia Franck specialmente risenti l’influenza di Beethoven e molto di Schumann (ritmo sincopato del secondo tempo della So­ nata per violino ; ma si guardi bene che non mancano esempi di wagnerismo; osservate il ritmo ultrawagneria­ no della quinta Beatitudine). Perosi poi per colpa di Wag­ ner fu addirittura ossessionato dalle mille anime dei can­ tanti metalli dopo il croscio dei quali trema - come si sa — a$,i umani il cuore. In conclusione tutti e due furono anime candide e appassionate, due veri e propri primitivi dell’ottocento - cui il secolo, prima dei clamorosi ribelli, poi dei lumacosi decadenti, offuscò col suo fumigare dioni­

[cristo a braccetto a dionisos]

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siaco e poi con le lassitudini solite a seguire le orge — i quali due geni sentirono troppo la musica come voluttà individualistica, anzi addirittura come vibrazióne erotica (e non in senso mistico), per quanto da buoni cattolici ebbero almeno il buono (o cattivo?) gusto di essere, se non proprio universali, eclettici e, spesso il più possibile internazionali. A Cesar Franck, il più geniale dei due, giovò molto e al tempo stesso molto nocque il martirio di dover fare per volontà del caro padre il concertista ottecentesco strombazzatore e demagogico di professione. È certo che a far musica da concerto — la quale piaceva fino ad un certo pun­ to, giacché egli la sua vocazione nobilissima d’organista e di musicista religioso la covava ben chiara e irrefrenabile in sé — è certo che a far musica da concerto Franck impa­ rò tutte le astuzie retoriche onde éparer le bourgeois (co­ sa molto necessaria in pieno secolo di trionfo della borghe­ sia). La qual tendenza si ritrova in tutta la sua musica, nonostante le oasi di santa bellezza scritta dirò così non senza intenzione di fare il concorrente dei compositori­ esecutori alla Liszt o semplicemente alla Schumann e alla Chopin. Basta citare il finale della Sonata per violino o quella — d’indubbie intenzioni religiose - del Preludio, corale e fuga per pianoforte. Ch’egli avesse in sé del reli­ gioso non sarò certo io a negarglielo; ma che in lui ci fosse l’ottocentista, anzi peggio l’epigone (epigone fino a un certo punto, dato il tempo in cui nacque) dei grandi ottocentisti chiacchieroni poseurs e democratici — nessuno dei suoi allievi, che poi del resto (come il D’Indy3) si sono rivelati per wagneriani della specie più insopportabi­ le (accenno specialmente ai melodrammi del D’Indy), sa­ prebbe scancellarlo dal gusto critico d’ogni persona di buon senso. Perosi. Il tasto, qui in Italia, dopo l’apoteosi che recen­ temente gli si è fatta probabilmente per ragioni politiche, - il tasto a proposito del caro fresco ruscellante ingenuo e ispiratissimo maestro di Tortona è più delicato, anche perché il Franck fu un povero modesto organista che non essendo riuscito a soddisfare le ambizioni del padre, vis­

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se ritirato a Parigi facendo l’organista a Santa Clotilde senza far parlar molto di sé, mentre l’infelicissimo Perosi, per la stupenda posizione fattagli da Papa Sarto — uno dei papi più santi che si abbia avuto negli ultimi tempi commosso dal calore della sua musica e dalla violenza che si chiudeva in quel suo minuscolo corpo, cui l’arte della direzione di pretto tipo wagneriano dava a volte qualcosa più che il raptus del grande genio, nonché com­ preso delle buone e sagge intenzioni di restituire al canto gregoriano la sua intima sacra severità [...]: l’infelicissimo Perosi, dico, per una tragedia cui non è rispettoso indaga­ re trattandosi oltreché di un sacerdote, di un genio, ha seguito le caotiche sorti di molti artisti specialmente del secolo xix. S’è spento a poco a poco in una confusione che ha del rossor della porpora cardinalizia e del tiaso cristiano al tempo stesso. Ma in quanto a tasti delicati non è precisamente mia specialità — sono fiesolano e di sangue livornese — guardar­ mi molto in modo da non urtare le adorabili suscettibili­ tà delle combutte. Dunque che Perosi sia malato, io ne sono più dispiacente di quel che non si creda. Ma i fatti sono i fatti e la logica dei fatti è più spietata d’un credito­ re. Sarebbe bella, perché sono diventato cattolico come meglio mi riesce di esserlo, al modo stesso che un tempo fui idealista come meglio mi riuscì di esserlo, io dovessi far l’ipocrita (in fatto di critica) e trovare religiose musi­ che come Anima e Corpo di Emilio del Cavaliere (di cui un brano estatico ho potuto riudire in San Francesco di Bologna or non è molto), e la lefte del Carissimi, la Resur­ rezione di Lazzaro e, peggio, quella di Cristo! Ma meglio — romantico per romantico — meglio, centomila volte me­ glio, la Infanzia di Cristo di quell’altra anima d’ottocenti­ sta tormentato che fu il Berlioz (raccomando specialmen­ te V Osanna degli angeli e il finale a voci sole). E si badi bene: le due Resurrezioni di Perosi sono opere geniali; ma infarcite di dionisiaco fino all’imitazione della stru­ mentazione di Wagner e fino - horresco referens! - allo strombazzamento coloristico e ritmico d’un mascagnismo che avrà valso a Perosi il favor delle nostre folle, ma che

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proprio poco ha a che vedere con l’essenza contenuta inti­ ma e raccolta d’un vero e proprio oratorio. Insomnia quel­ lo che scrissi su Perosi quand’ero idealista, — mi attirai contro tutta la canea dei giornali sedicenti cattolici, — ora che sono cattolico anch’io e sul serio mi sento in dovere di ridirlo e con piu forza; nonostante che (e questo avrà a che vedere colla mia conversione al cattolicesimo) io lo trovi ormai un innocentissimo democratico «primitivo ot­ tocentesco», parente del gran Verdi e del nostro canoro Mascagni. Da un bel tipo di studioso che cerca di trovare il buo­ no e il cattivo un po’ da per tutto con uno spirito di conciliazione che fa pensare al vecchio Giolitti, mi è sta­ to scolasticamente obiettato che, in quanto al caso Perosi, io confondo arte sacra e arte religiosa. Arte sacra sareb­ be quella degli antichi ricercati di Cavazzoni e dei moder­ ni compositori di fughe alla Cherubini o alla Bossi; arte religiosa - invece — gli Stabat, gli oratori ecc. Ciò non muta lo spirito della cosa. Arte sacra o arte religiosa deve avere una stessa sostanza (sebbene si rivolga a classi diver­ se di persone), dev’esser, insomma, religiosa; ci deve da­ re non solo i colori e i sapori delle cose, credute belle non in se stesse, ma — come accadeva nei grandi mistici com­ preso Dante — in ragione della loro sorgente che non può essere [che] divina. Dante dipinge le cose che sogna nel mondo di là con i colori del mondo di qua; ma la deriva­ zione di questi colori non è soggettivistica, è oggettivisti­ ca. Voglio dire che non è l’uomo che si crede d’esserne autore (sia pure a sua insaputa, come per riflesso succede nel povero Perosi); ma in tutto quello che vede ci dev’es­ sere l’affettuoso e umile riconoscimento che tutto è fatto da Dio. Ora in Franck, e peggio in Perosi — questo non accade. In Perosi Cristo a volte sembra il piu protestante Wotan che si possa immaginare. E chi non ci crede non ha che a stare a sentire il clangor di ottoni wagneriana­ mente metallici che Cristo si tira quasi sempre dietro a sé come la marsigliese il presidente della Repubblica di Francia. Insomma, Cristo a braccetto a Dionisos. E non ci ho a

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che far io se questa brutta avventura anche nella musica sacra o religiosa è stato l’umanesimo e la Rivoluzione fran­ cese e il soggettivismo protestante a tirarcela addosso. Siamo sdrucciolati in materia religiosa. E ora io dirò il paradosso che finirà per far chiudere il libro a tutti gli intelletualoidi, alle signore col canino infioccato, ai segua­ ci dei troppi poeti di troppa eccezione, ai mistici della «sensibilità». La vera religione dell’ottocento è stata l’arte. D’altron­ de: gli ottocentisti avevano tutti i torti? La filosofia era divenuta una piaga più purulenta di quella che l’avvol­ toio di Giove scavava nel fegato di Prometeo. La politica ci portava a gambe levate verso quello che è accaduto — il più tremendo e se non nei particolari nella generalità inu­ tile cataclisma mondiale avvenuto da Napoleone ad oggi. Il socialismo, quando non lo si volesse considerare politi­ ca, rompeva l’anima con l’eterno spauracchio d’una care­ stia a scadenza fissa quale neppure le pagine più tetre del­ la Bibbia abbiano mai minacciato. Plutocratismo, intri­ go, discussioni scolastiche anche se condotte con vagabon­ do metodo d’artisti affiliati alla scapigliatura - e orgoglio orgoglio orgoglio che faceva riempire i caffè ai buoni bor­ ghesi, non si sa — loro così realmente laboriosi ed econo­ mi - per qual ragione aspiranti a codesto eden della fan­ nulloneria, e rispondere altezzosamente dai camerieri al­ le ordinazioni nei pomeriggi delle belle domeniche italia­ ne. La religione, quella vera, quella che invece di rendere l’uomo animato da quella vulcanica forza centrifuga che si chiama il progresso, lo può in se stesso concentrare e rendergli l’anima - questa sostanza cui invano la chimica cerca di analizzare o di surrogare o di rimettere in efficien­ za come un chirurgo fa di uno stomaco di un dispeptico [o] Woronoff dei testicoli d’un vecchio — render l’anima simile in durezza e limpidità al diamante, la religione, di­ co, trabalzando sotto le nuove invasioni barbariche d’un ribelle petulante sufficiente soggettivismo individualisti ­ co, arrivò perfino a prendere il nome di «democrazia cri­ stiana» credo che contraddizione in termini più di que­ sta, fra ciò [che] nei più torbidi tempi della Grecia e della

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Francia volle dire popolaccio al potere e - nell’universo — cristiano (ossia gerarchia, gradazione di valori) non vi sia mai stata. Che restava alle uniche tra le persone che, nel­ la società moderna, per due o tre anni — finché non si erano fatta la famosa posizione — non tradivano il legitti­ mo istinto della vera vita - voglio dire i giovani (non quelli con gli occhiali a stanghetta o con una rendita da permetter loro di prendere presto quel comodo uso di di­ menticare la vita che è il giuoco ecc. ecc.) che restava — a quei pochi giovani con una scintilla di vitalità in corpo nel periodo piu cretinamente regolato sul liberalismo in­ glese, della vita italiana — se non l’arte, oppure il coltiva­ re la propria cara «sensibilità»? Ma, ohimè! non crediate che io voglia riesumare le boutades della Voce e di Lacerba. È precisamente a una con­ clusione opposta che voglio arrivare. Che cosa s’intese per arte nell’ottocento? Eccitazione della sensibilità. Si esciva da una sinfonia di Beethoven con gli occhi lustri e una maledetta voglia di farne di tutti i colori. Lascio l’esa­ me della cosa a uno psicologo obiettivo. Finché si arrivò addirittura a portare quello che i tedeschi chiamano perversitàt sulla scena, con l’esaltazione della necrofilia nel­ la spaventosa — dionisiaca fino al pazzesco — Salome di Strauss4, cui fa pendant il quadro omonimo di Franz Stuck!. L’arte dell’ottocento è stata la grande guastatrice dei nervi e la riduttrice all’impotenza sia fisica che mo­ rale per tutti i giovani migliori. Fu detto da Nietzsche che Wagner fu il minotauro cui ogni anno si sacrificava­ no le migliori giovinezze d’Europa. Io estenderei la defini­ zione a tutta l’arte dell’Ottocento. Mai secolo amò nella musica, nella poesia, nella pittura, nella scultura, nell’ar­ chitettura (seppure di questa ce n’è stata) — altro che il pagano!, lo spasmodico, l’anormale, il sadico, il decaden­ te ecc., ecc. I capolavori estetici dell’Ottocento sono i veri prolegomeni alla cocaina, all’hashish e ad ogni sorta di stupefacenti ed eccitanti e deprimenti. Guai a quell’ar­ tista che non avesse fatto l’immoralista, il titanello ribel­ le, colui che rovescia antiche leggi (cioè le leggi del buon senso) per porre una sua legge arcana (ossia la non legge

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dell’anormalità). Finché siamo arrivati — condotti da Dio­ nisos ormai ammalato di senilità — alle archeologie misti­ co-erotiche del Vittoriale dannunziano, cui erano state preludio reclamistico i cafonismi da museo della Capponcina. Moralismo? Reazione di un decadente fallito? Poco m’importa di sapere come si giudichino i miei giudizi. La verità è che l’arte stessa, a forza di voler essere un eccitan­ te o un deprimente, nell’ottocento ha finito per non esse­ re piu arte. Nei tranquilli cieli del presente eterno (la terra è oggi un abbarruffio in cerca di una legge di discipli­ na - e mi dispiace di essere ottimista in questo caso: ma credo che in Italia si sia trovato con modi se si vuole un po’ bruschi il verso di farlo); nei tranquilli cieli del pre­ sente eterno io vedo Dionisos — che nella tragedia greca, se non sbaglio, si avvicinò molto a Cristo — tornarsene su nel suo tarlato Olimpo (ormai sotto il protettorato del­ l’Inghilterra) fumando una sigaretta oppiata e con l’aria d’un gran signore che un ruffiano poco esperto abbia invi­ tato ad un’impresa di corruzione di minorenni — inutil­ mente. Dunque, ritorno all’Ottocento? Ritorno al Settecen­ to? Ritorno al Cinquecento? Ritorno alla Grecia? all’E­ gitto? alla civiltà del Messico (quell’antica, non quella — democratica - d’oggi)? Piano, lettori. Aspettate che nel­ la terza parte di questo libro abbia analizzato come me­ glio mi riuscirà lo stato d’animo espresso dalla vera arte moderna — quella poca e solitaria che si eseguisce un po’ in segreto e tra affiliati, come un rito pericoloso, da Pizzetti, Malipiero, Casella, Respighi, Alfano, Zandonai e dai loro seguaci; dopo di che — anche in fatto di vera religio­ ne dirò quali sono le conclusioni che traggo dalla mia non so se piu critica, certo tessitura di parole di vita sof­ ferta e sanguinata: parole scritte da uno che fu artista ottocentesco con sprazzi di preveggenze novecentesche, critico giornalista crociano-gentiliano, e oggi dai piu si crede quello che è — uno che guarda la vita con forza e severità a causa della profonda fede (trascendente e cri­ stiana si guardi bene, non secondo il verbo estetico-immo-

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ralistico espresso da Nietzsche) e che ha sofferto un lun­ go martirio - lungo almeno di vent’anni - perché Dio gliela rivelasse, questa fede ineffabile - quale deve vigo­ reggiare almeno in lui secondo le sue povere forze. E poi, egli non vuol fare il messia. Vuol dire quel che la sua lunga esperienza gli dà se non altro l’autorità di dire. Altrimenti se egli si desse al messianismo estetico come han fatto tanti artisti e persino critici dell’ottocento, ri­ tornerebbe a Wagner e compagni. Invece, come si vedrà, la conclusione di questo libro è cosi pessimista e forcato­ la, che non so quanti immoralisti dalle vene ardenti e in procinto d’essere iniziati ai misteri della cocaina o della morfina, lo vorranno non dico accettare, ma comprende­ re. Quello che vi può garantire lo scrittore è che la sua volontà, nonostante egli sia stato un dispersivo della for­ za di trecentomila cavalli, è cosi dura, logica, inflessibile che, se Dio l’aiuta, avrà il coraggio di arrivare alle ultime conseguenze, sia nel pensiero (forse nell’arte) che nei fatti. La parola d’ordine dell’ottocento a forza d’arte è sta­ ta: «sensibilità»; anche questa benedetta parola ha un suo significato innocente e insostituibile, che, appunto perciò, mi guarderò dal sostituire, ma l’adoprerò io come tutti fanno. Per sensibilità ottocentesca intendo il porre come un fatto da adorare l’eccessività del sentire — la sen­ sibilità che finisce per diventare sensualità. Vedremo se ciò sia civile e quindi cristiano. Nel secolo xix si soleva dire: «all’artista è permesso tutto» — e non solo dirlo ma metterlo in pratica. Non sarebbe il caso di enunciare in un libro di franca reazione come questo un qualsiasi pro­ gramma: tuttavia anche per l’artista - e proprio per il suo bene estetico - è l’ora di tornare al vecchio substine et ab stine. Il nostro popolo è sulla via di dar l’esempio a tutta l’Europa d’una riforma morale e cattolica. Non sarebbe il caso di applicare all’arte quello che il Manzoni applicò alla questione dell’amore nei Promessi Sposi? Non dubi­ tate: anche se si restringono i freni alla libertà degli arti­ sti, in Italia dell’arte se ne farà sempre tanta [...].

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Tutto ciò non toglie che quella poca d’arte che ancora si fa — estremamente cerebrale, individualista, pseudoari­ stocratica —, nata in un’epoca in cui tutto e tutti si «orga­ nizzano» per il benessere della specie (ed è bene sia cosi, almeno per il momento: la colpa è delle passate esagera­ zioni individualistiche), bisogna che il critico, l’uomo di gusto, l’artista (chiamatelo come vi pare) la svisceri, la liberi (se sia il caso) dalla ganga democratica e ne parli con un rispetto e una delicatezza anche piu sottile di quel che non si facesse dai liberali del Risorgimento e dell’epo­ ca umbertiana e giolittiana per l’arte del Verdi e dei gran­ di artisti popolari del secolo xix. Ed è ciò che facendo tacere per un po’ gli scrupoli morali ed estetici, mi propon­ go di fare nella terza parte di questo libro. In un’epoca d’antindividualismo è curioso, anzi con­ traddittorio, che si debba parlare dei musicisti piu indivi­ dualisti — personali — che mai forse vi siano stati. Da ciò forse a tempo e luogo trarrò deduzioni morali che interes­ seranno — forse — chi non si contenta di vivere come le oche — alludo ai poveri ed anche da me troppo bistrattati intellettuali - e trarrò pure deduzioni pratiche che potreb­ bero interessare chi ha a cuore come la cosa pubblica ma­ teriale cosi la cosa pubblica intellettuale per scarsa — ma cosi bella e rara e in parte già cosi italiana! — che sia.

Parte terza [Il nuovo dio della musica]

XXIV.

[Claude Debussy pioniere della nuova musicalità]

Ho combattuto tanto in vita mia il triste fanatismo degli italiani per le cose d’Oltralpe che farà una brutta impressione il vedere come io parli del nuovo dio della musica agitatore di nuovi crotali e suscitatore di nuovi tiasi — io cominci proprio da un francese — francese come cantò D’Annunzio, della «douce France». Il francese — meglio il latino — è Claude Debussy, ormai universalmen­ te celebre del resto come si conviene a qualunque autenti­ co genio latino e quindi intimamente «classico». Ma a chi fosse cosi fegatoso da prendersela perché oso fare l’elo­ gio d’un francese, dirò che quel che importa a me è di rilevare - matematicamente direi quasi (tanto le immagi­ ni non costano nulla) il punto, come si dice in termine marinaresco, a cui siamo arrivati nella navigazione musica­ le. È questione di storia, o se volete, in questo caso, di geografia estetica. Siamo ancora nel secolo xix? Spero che nessuno l’oserebbe affermare purché non volesse fare la figura di quell’ineffabile Don Ferrante che fini per mori­ re di peste prendendosela con l’influenza delle stelle. L’in­ fluenza dell’alemanna costellazione ottocentesca è finita, è finita anche per chi come Wolf Ferrari cerchi di rievocar­ la sotto la specie d’un arcaismo fra ottocentesco e sette­ centesco '. Claude Debussy; diamo un’occhiata un momento all’o­ pera di questo grande pioniere della musicalità novecente­ sca che i begli spiriti chiamano «futurismo». Dirò che non ho da parlarne che dal punto di vista mio, delle rela­ zioni che corrono in musica tra l’Ottocento e il Novecen-

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[il nuovo dio della musica]

to. Come artista, di Debussy si è parlato tanto che gli è toccato il supremo onore d’essere ormai preso come auto­ re da insegnarsi dai professori piu cauti e più ben calzati dalle scarpe di piombo accademico della prudenza; e so­ prattutto gli è toccato quel divino onore che non hanno che gli immortali, e cioè di morire per risorgere beati almeno nei cieli dell’arte, come si risorge nei veri cieli, e si risorge nei cieli dell’arte forse ad immagine molto palli­ da ed aleatoria della resurrezione che avverrà nel cielo dei cieli. Cosi sarebbe ingenuo mettersi ancora ad espor­ re un qualsiasi nuovo punto di vista attorno all’opera di Debussy. Di libri su codesta opera ce n’è ormai come per tutti gli arrivati e benedetti dalla morte corporale una bi­ blioteca. Aggiungerei legna al bosco. Io non ho da dire che questo. Dopo i torrentizi ottocentisti, egli fu il primo (il primissimo fu quella specie di Edgar Poe della musica che è Modesto Moussorgsky2, s’intende mutatis mutan­ dis, ossia mutata la fecondità, che in Poe fu prodigiosa, e in Moussorgsky, per quanto alcoolico come lui, piuttosto scarsa); dopo i torrentizi ottocentisti Claude Debussy ca­ pì che bisognava invece tornare ai ruscelli gelosamente custoditi e regolati come si legge nel placido Virgilio. E l’opera di Debussy è ormai là, esempio di classicità, di sicurezza e leggerezza di mezzi a tutti i romantici, che avevano finito con Richard Strauss per kaiserizzare la mu­ sica. Fu un cerebrale? D’accordo. Non ci furono che i ro­ mantici - quelli veri — i quali credettero che si potesse fare dell’arte soltanto quando fiammeggia il fuoco, in lo­ ro e un po’ in tutti spesso fatuo, dell’ispirazione. Claude Debussy, in quanto all’arte fu un ruminatore fino al cini­ smo — quel cinismo estetico che oggi fa gridare alle mas­ se: «gli intellettuali alla lanterna», come un tempo si gri­ dò, per altri settecenteschi stilizzatoti della vita: les aristocrates à la lanterne. E tanto era disgustato, come ogni cerebrale, della folla e dei democratici compromessi tra arte e folla - che non solo lottò per farsi un’arte ma, in quanto a trovarle un francescano posticino al sole, si era rassegnato a tenersela chiusa sibi et paucis-, e se non fosse-

[CLAUDE DEBUSSY]

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ro stati questi paucì che le pagine limpide di quella bell’ar­ te - segreta come uno zampillar di polle in un prato armo­ nioso — gliel’avessero strappate di mano (è la vera paro­ la), chissà se si avesse mai conosciuto la musica divina di Claude Debussy. Giacché, quando egli venne su, gli editori e gli impresa­ ri - gli eterni pescicani dell’arte — pretendevano come sempre, e come sempre democraticamente, dettar legge al genio. È in sostanza una delle tentazioni di Satana a Gesù: «Di nuovo il diavolo lo portò su di un monte assai elevato e mostrandogli tutti i regni della terra e la loro magnificenza, gli disse: Io ti darò tutto ciò se, cadendo a’ miei piedi, mi adorerai». Ma l’artista vero come il santo vero (in una direzione categoricamente diversa) deve piut­ tosto morire che dar retta a certe seduzioni. Chi la segue, avrà i regni — ma dopo non si parlerà mai più di lui altro che dai collezionisti di fossili. Del resto il Vangelo dice: beati quelli che piangono perché dopo saranno consolati. Chi è consolato subito, si può esser sicuri che sconterà quella facile consolazione per l’eternità. Cerebrale? Ho già detto come in Schumann, in Wa­ gner, in Beethoven stesso «l’artista dell’avvenire» (per adoperare la celebre formula futurista wagneriana) aveva bisogno di trovarsi un piano, personalissimamente scoper­ to e impiantato su soggettivi presupposti, su cui costrui­ re la sua opera individualistica. Debussy, cinicamente ri­ spetto alla folla, non rispetto all’arte, ha il coraggio di prendersi sulle spalle questa nuova croce dell’artista mo­ derno, il quale non può creare (e creare come sempre si crea quando l’ispirazione, come la Grazia, arriva non si sa donde) se non si è avanti prestabilito un tutto suo pia­ no d’azione (l’adeguazione della musica alla poesia per Beethoven, il sistema dei leit-motive per Wagner, il siste­ ma dei toni interi per Debussy, la riesumazione delle mo­ dalità greche per Pizzetti), piano d’azione per cui — si noti bene — ci vogliono degli iniziati, i pauci a cui dianzi accennavo. È cerebralismo? non si può negarlo, per quan­ to, quando quei tutti relativi o relativamente tutti che è scritto lassù debbano diventare gli ammiratori incondizio­

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[il nuovo dio della musica]

nati d’un artista, e per acquistar pratica e amore con l’ar­ te d’un musicista, hanno sopportato le varie fasi d’inizia­ zione — dopo va a finire che sorgono a poco a poco tali entusiasti che guai a trovar nel loro idolo quel limite che non può umanamente non esserci, e che nel presente caso è: il cerebralismo. L’ho chiamato - il cerebralismo — il nuovo dio della musica. Certo l’immagine è tolta da quanto avvenne du­ rante l’Ottocento per il pathos dionisiaco. Ora - per la verità - un’ipostasi dell’aristocratico cere­ bralismo (tipo quello del democratico romanticismo), la mia fantasia mitologizzatrice, — oh!, ben inferiore a quel­ la di Federigo Nietzsche, - non la sa trovare; e neppure mi ci scervellerò a trovarla. Basta che il lettore, quando dico il «nuovo dio della musica» intenda il dio che presie­ de all’arte del Novecento cominciata ad albeggiare in fin di Ottocento, - in fin di romanticismo, - intenda cioè il simbolo del famoso cerebralismo. Non mi fermo oltre a riguardo di Debussy. Ripeto: molto se n’è parlato. Anch’io — e fui tra i primi — ne ho parlato in bene e in male come si conviene di tutte le cose umane. Che avrei d’aggiungere di nuovo? Posso ri­ cordare solo a titolo di quella cronaca personalissima la quale ha l’inimitabile sapor di vita vissuta, che, quando egli mori, io ero soldato e scrissi — proprio durante il bivacco d’una marcia - un epicedio, ohimè giornalistico, dal titolo: «in morte d’un pigmeo-gigante» 3. Cosi, letto­ ri spaventatissimi, è oggi per gli artisti — per i veri artisti. Bisogna rassegnarsi a considerare i nuovi musicisti, Scria­ bine, Strawinsky’, Debussy, Ravels, Pizzetti, Malipiero, i «sei» francesi, i nuovi svizzeri e tedeschi, e gli altri no­ stri moderni italiani di tendenze piu eclettiche - ma sem­ pre ansimanti alla ricerca della originalità, della propria personalità, come si dice - bisogna, dico, rassegnarsi a considerarli degli atletini cui la feroce lotta con la fiera dalle mille teste — la folla - non si conviene piu. E allora siccome la fiera dalle mille teste si riproduce con troppa facilità, mentre gli artisti sono un raro dono del cielo; e giacché oggi il cielo ce li manda cosi solitari, isolati, e pur

[CLAUDE DEBUSSY]

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cosi concentrati e compatti - cosi intimi -, pensiamo piut­ tosto che la loro concentrazione ha qualcosa del classico. Odi projanum vulgus et arceo, cantava il poeta classico per eccellenza. Occorrerà insomma, giacché nulla accade a caso in questo mondo, che ci sia una soluzione anche a quest’apparente contraddizione — contraddizione tra de­ gli artisti (si noti bene non lirici ma che amano, sentono autenticamente il teatro) e la folla che invece chiede sem­ pre di piu panem et circenses. Il pane purtroppo (lo sa chi sta al governo) è lo stesso per cui ora si soffre care­ stia, ora si sguazza nell’abbondanza. Ai circenses ormai si può dare il loro nuovo nome: operette e soprattutto cine­ matografo 6 con annessa orchestrina che a volte suona me­ glio dell’orchestra dei teatri d’opera, per la semplice ragio­ ne che suonando in quell’orchestrine lì i sonatori sono retribuiti meglio e con piu regolarità che nelle sempre piu ardue stagioni d’opera delle plutocratiche e dionisia­ che grandi città.

XXV.

[I teatri piccoli]

Infatti è un fenomeno che ormai si manifesta nei cen­ tri artistici piu importanti dell’Europa (proprio in quelli peggiori e babilonici in un certo senso: i contrari produco­ no i ghiribizzi abbaglianti dei poli positivi e dei poli nega­ tivi quando il caso li fa conflagrare). In Italia s’è avuto già due esempi ormai illustri: per la prosa raggruppo due casi per loro similarità in uno solo: il teatro di Bragaglia, teatro, mentre scrivo, ancora ritto sui trampoli magici di non so quali trouvailles pratiche che per se stesse valgo­ no una delle tante commedie che cosmopoliticamente vi si dànno o davano mentre cominciavo questo libro; il tea­ tro di Pirandello, morto dopo essere stato l’esempio del piu illustre, in Italia, échantillon di teatro individualisti­ co. Per la musica il teatro Scribe rimesso a nuovo (sem­ pre mentre scrivo) sotto il nome di «Teatro di Torino», e sotto gli auspici di un mecenate1 tipo quello che aiutò a battere il tamburo letterario ottocentesco nella anch’essa abbastanza celebre rivista letteraria «La Ronda». Al­ la Scala si ammanniva ormai il povero Strawinsky (si no­ ti bene il peggior Strawinsky: quello del Rossignol2, non trascurando è vero Petruska ma dandola nell’atmosfera in cui si potrebbe dare «la danza delle ore» della Gio­ conda)-, alla Scala si dava perfino il primo atto di Turandot (di pretta derivazione moussorgskiana) e si davano la Fedra1 e la Debora4 di Pizzetti con quel realismo sceno­ grafico ottocentesco che è tradizione di quel grande tea­ tro democratico romantico e che potè segnare il massimo del cattivo gusto in fatto di brutti colori, di simbologia

[l TEATRI PICCOLI]

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nostalgica del ballo Excelsior — col Nerone di dolorosa memoria. Ma Debussy, Strawinsky, Pizzetti, Malipiero, Wolf Ferrari (non che — siamo larghi di maniche — il Puccini del Gianni Schicchi5) hanno bisogno di uno spa­ zio più ristretto per essere intesi-, hanno bisogno, ohi­ mè!, di un pubblico specialissimo. È insomma — nella mu­ sica — il teatro d’arte che si vuole, neganti o pronubi gli impresari vecchio stile e le plebi debitamente pretenziose per il fatto che hanno un po’ di quattrini in tasca. Il primo esempio di questo teatro d’arte nella musica fu quello d’un seguace perfettamente convinto di Dionisos, sì, ma tuttavia scatenante le sue orge sinfoniche sull’ari­ da piattaforma d’una delle prime fatiche erculee del mo­ derno cerebralismo — il sistema melodistico all’eccesso dei leit-motive e della declamazione musicale, del melo­ dramma concepito come sintesi di molte belle cose tra cui la scenografia e soprattutto ispirato — anzi presiedu­ to — dalla poesia; l’autore cui alludo era Richard Wa­ gner; il teatro, quello di Bayreuth - teatro esclusivamen­ te per iniziati. Ora io domando: il Pelleas et Mélisande, nonostante la sua francese reazione a Wagner, ma in so­ stanza un Wagner à rébours (come ha detto acutamente Romain Rolland), è possibile metterlo bene in luce — co­ me dicono i pittori - se non in un teatro piccolo, apparta­ to, esteticamente aristocratico, dove tutti sappiano a prio­ ri che cosa volesse Debussy e che cosa egli intendesse per arte — cioè la più irreale delle illusioni, per la quale colo­ ro che vanno a teatro o per vedervi II padrone delle ferrie­ re 1 o per sentirvi la sopranominata Gioconda di Ponchielli soffrono languore allo stomaco come per la mancanza d’un piatto di tagliatelle sostanzioso quanto volete ma con un tal condimento di ragù che una porzione d’abbacchio arrosto diviene al confronto leggerina leggerina. — Prego osservare che in queste mie frecciate contro il dionisiaco rivoluzionario popolaresco dell’Ottocento non tocco Ver­ di; Verdi è come Shakespeare che a quanto pare era arri­ vato a folgorare per istinto col folklore drammatico i suoi pubblici. Cosa ohimè che non è concessa ai cerebra­ li, sieno pure della nobile e smargiassona forza di Ri-

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[il nuovo dio della musica]

chard Strauss. Recentemente ebbi la fortuna di sentire VAmleto da un guitto cafone quanto volete ma che era arrivato, corpo di bacco!, a tentare di razionalizzare nien­ te di meno l’apparizione dello spettro (su per giù come ha tentato di fare per le voci di Giovanna d'Arco Ber­ nard Shaw). Tuttavia questo guitto cafone infarinato di letteratura, quando era alle prese con i terremoti psicolo­ gici, ora terribili ora blandi, dell’uomo del dubbio per eccellenza (il predecessore titanico dei multivoli romanti­ ci ottocenteschi), gettava fuoco e fiamme vere, diveniva un pirogeno vulcano in eruzione specialmente nel dialo­ go con Ofelia, con la madre, e perfino nel famoso monolo­ go To be or no to be — e non è a dire quello che succedes­ se non dico nei palchi fioriti di belle signorine della città che non nomino, ma nel loggione cosi pieno stipato, che faceva temere un crollo non so poi come riparabile dal­ l’impresa che, se voleva quattrini, non ne avrebbe voluto spendere uno. Dunque vuol dire che con mezzi istintivi (come faceva Moussorgsky) l’aristocrazia suprema dell’ar­ te si ricongiungeva con la democrazia suprema. Mediato­ re della congiunzione davvero iperbolica era il genio; quel vecchio genio che Socrate chiamava il daimon, Kant ÌTch, e Gesù Cristo il Padre che sta nei cieli oppure i’Ego qui sum resurrectio et vita. So che qui sarò colto in fla­ grante protestantesismo; ma nessuno mi potrà toglier dal­ la testa che Chi ha saputo umiliandosi divinamente far­ si uomo restando Iddio, fu tale da saper sciogliere con energia supremamente individualistica (e perciò stesso al di là dell’individualismo) le aporie contemplate da un la­ to soprannaturalmente, dall’altro abbassandosi fino alla nostra bassezza orgogliosa e tronfia di sufficienza. E il più divino miracolo cui mi inchino reverente e che mi dà la forza di risuscitare tutte le volte che l’essere anch’io troppo uomo mi ricondurrebbe all’animalità è l’Eucaristia.

XXVI.

[Ancora sui teatri piccoli]

Le contraddizioni piu stridenti a volte si manifestano perché non si sa guardare ciò che sembra contraddizione, «con occhi semplici». Questo regno del nuovo dio della musica, dio individualistico per eccellenza (al contrario di Dionisos, conduttore di moltitudini), m’è accaduto di trovarmelo aperto e per un’opera che non ha nulla a che fare con Dionisos e che è stata scritta proprio per voler dare uno schiaffo al wagnerismo dionisiaco, cioè per ride­ re con arguzia, per tornare a Mozart, al primo Rossini (specialmente quello del «teatro dei piccoli» — tanto per intenderci —), a Paisiello, a Cimarosa - insomma a tutti gli operisti «dell’epoca della tabacchiera». L’opera cui ac­ cenno è i Quattro Rusteghi1 di Wolf Ferrari — opera di nitida reazione a Wagner, si, ma che bisogna ascoltarla non come la Favorita o i Puritani e cioè soltanto o alme­ no principalmente con orecchio di musicista, ma con lo stesso rispetto della poesia e colla stessa debita vigilata pazienza con cui si ascoltano le opere di Wagner. E in essa, come in quelle, se c’è poesia, sarà poesia comica — però si badi bene: si tratta non di lazzi pulcinelleschi o stenterelleschi, ma di Goldoni, ed è mia vecchia incrollabi­ le opinione che sia poesia drammatica tanto quella tragi­ ca e dalle gotone enfiate, quanto il piccolo dramma salace e leggiadro in cui nell’aristocratico Seicento e Settecento emersero Beaumarchais, Goldoni e — cosi per ridere - Mo­ lière, il quale però tutti sanno che per capire d’esser capi­ to da tutti leggeva i suoi drammi alla serva. Fatto sta che, sebbene siamo agli antipodi del Pelléas,

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[il nuovo dio della musica]

deA’Arianne et Barbebleu2 e della Fedra — anche per i Quattro Rusteghì ci vuole un teatro piccolo, un teatro intimo, un pubblico che si sappia avanti tutto divertire alla commedia cui la musica fa da sottolineatura, una mu­ sica che sulla commedia non prenda mai il sopravvento. Ora tutto ciò non toglie che in Wolf Ferrari la musica, per quanto educatissima ancella della poesia, educata si­ no a farle da ruffiana (secondo cioè accadeva per le giova­ ni sapienti cameriere delle grandi dame del Settecento), fosse musica tutta piena di ritmi chiari - direi di fossette nel mento e di nei — di metodicità aggraziata, di recitativi dalle volute leziose ma ben inquadrate dalle ferree leggi della vecchia architettonica battuta-, insomma musica net­ tamente ispirata a ciò che si chiama «il vecchio» e che secondo l’umore del critico musicale e del buongustaio eclettico può venire intesa vuoi per la musica del Settecen­ to, vuoi per la famosa musica dell’Ottocento. La questio­ ne è che infiniti possono essere i travestimenti del moder­ no individualismo cerebralistico. Chi ha orecchie fini si accorgerà ben presto che nelle deliziose scene dei Quat­ tro Rusteghì, oltre alle mille reminiscenze classicistiche, vi si possono trovare perfino dei pizzichi di acidità moder­ ne saputi spargervi con la scaltrezza dell’antiquario che ti rifà il mobile antico in modo da dar gusto agli occhi e alle natiche degli habitués dei nuovi mobili. Né parlo della strumentazione che a volte sarebbe difficile poter dire se è stata influenzata da o se ha influenzato il grande chimi­ co dell’orchestrazione tedesca di fin d’Ottocento e di prin­ cipio di Novecento — voglio dire Richard Strauss. Ma torniamo al teatro piccolo; e teatro piccolo per sua natura autentico, direi «teatro piccolo in natura» — per­ ché teatrino di provincia, dove da se stessa vige (probabil­ mente dal tempo dei principati) la legge, oggi modernissi­ ma, del mecenatismo - e dell’intimità da parte del pubbli­ co. Non cito né il teatro né la città. È la verità: in nessuna delle grandi città italiane dove ho sentito i Quattro Rusteghi (Milano, Bologna, Firenze), in nessuna ho potuto gu­ stare - con grazioso concorso di ironie fortuite ed anche nella dovuta atmosfera di arguto e cortese buon gusto — i

[ancora

sui teatri piccoli]

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Quattro Rusteghi, opera che ripeto io amo (per quello che si possono amare le saputissime creazioni del nuovo dio della musica) non meno del Pelléas, dell’Heure espu­ gnale, della Fedra e delle adorabili 7 + 1 Canzoni di Gian Francesco Malipiero. Oh! come dimenticare il pettego­ lato argutamente mosaicistico fra la scena e l’orchestra, squisitamente, intessuto dal Wolf Ferrari—del quale auto­ re, giacché ci sono, raccomando ancora, se non altro, quel gioiello di spirito e di verve musicale che è V Ouverture delle Donne Curiose — oh! come dimenticare tutto quel «ciaccolar» argutamente goldoniano, gustato in fondo a un palchetto padronale dove pareva che pochi mesi avan­ ti si fosse eseguita spontaneamente dalle belle signorine di cui ero ospite la incantevole commedia goldoniana Le smanie per la villeggiatura dello stesso Goldoni! O vita di provincia, dove si fa di tutto per mettere in equilibrio la santa e proficua solennità delle opere e dei giorni seria­ mente vissuta dai contadini moderni che son sempre quel­ li di Virgilio, di Teocrito o, per essere piu in carattere, di Esiodo - e quel vespaio d’esigenze credute dalle dette si­ gnorine e rispettive famiglie fi dernier cri dell’ultima mo­ da, che va a finire in cotali cittaduzze (cosi, oh cielo con­ servatrici!) per divenire piu futurista che a Milano o a Roma. Salto il malcapitato che abbia un vestito di taglio un po’ vecchio e un paio di scarpe tali da non far sgrana­ re gli occhi d’invidia ai viveurs della cittadina, dove il destino lo infogna. Ma quei teatrini — durante le stagioni cosiddette di fiera — come funzionano! Quattro o cinque maggiorenti, e naturalmente danarosi, si mettono d’accordo sotto — in generale — il primato, «d’uno che se ne intende» (osteg­ giato quasi sempre da un altro che crede d’intendersela più di lui) e il resultato si è che metton su, a forza di litigi in comune e in caffè, degli spettacoli che difficilmen­ te si potrebbero sentire al Costanzi (non dico alla Scala perché in questi ultimi anni - mercé quell’arbiter musicae che è Toscanini3, secondo il possibile e sia pure con alcuni infortuni sul lavoro - si è fatto sul serio). Quando poi la buona ventura faccia scegliere per uno di questi

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[il nuovo dio della musica]

spettacoli di provincia i Quattro Rusteghi, è proprio il caso di dire che il cacio è piovuto sui maccheroni — che in Toscana soglionsi metamorfosare in paste asciutte, nella Romagna e nell’Emilia in tagliatelle. Gli scenari non sa­ ranno strabilianti come quelli della Scala? Meglio. L’illu­ sione goldoniana è più perfetta. Goldoni e più ancora Mo­ lière si eseguivano con i lumi a olio e le candele. Ma co­ me sono affiatati quei cantanti che il direttore d’orche­ stra (in generale un direttore coi fiocchi, che all’occorrenza sa anche fare da regisseur) ha saputo racimolare, istrui­ re, fondere con l’orchestra che molto spesso — essendo, com’ho detto, la stagione autunnale di fiera — vanta tra i suoi suonatori degli eccellenti elementi scritturati duran­ te l’inverno nei migliori teatri del vecchio e nuovo mon­ do. Tutto sommato sentire i Quattro Rusteghi goldoniano-wolferrariani in una di queste cittaduzze di provincia è il colmo dell’ironia individualistica d’un seguace — a mezzo — del nuovo dio della musica. E, all’uscita, per chi abbia la prudenza di scansare i due o tre (siamo larghi, tanto non costa nulla) caffè della «città» insolitamente animati - quali silenzi autunnali per la campagna non si godono, e come la Gondoliera veneziana cantata da Mari­ na e poi deliziosamente confezionata dalla orchestra wolferrariana nell’intermezzo a scena aperta, come, dico, ta­ le gondoliera veneziana, autentica se è possibile più di quelle di Mendelssohn, ti ripullula nella memoria lungo le acque solitarie e serene del bel fiume che dà ubertà e magnificenza alla campagna, dove - a stagione teatrale finita — i laboriosi terrazzani ricominciano la loro vita per un istante interrotta dalle melodie dai ritmi dai ludi sceni­ ci, presi nella loro testa non si sa se per antichi o moderni — dell’un po’ goethiano Wolf Ferrari — e dove nelle stan­ ze dai buoni odori domestici e provinciali brilla una ser­ pentina rossastra lampadina elettrica davanti all’immagi­ ne di sant’Antonio.

XXVII.

[Gian Francesco Mafipiero]

E proprio Goldoni (Commedie goldoniane: La Botte­ ga da caffè-, Sior Tòdaro Brontolone Le baruffe chiozzotte) ha ispirato al piu birichino spregiudicato antiottocentesco dei compositori moderni italiani tre particole d’ope­ ra comica di raffinato buongusto1 e da teatri cosi piccoli da chiamarli — addirittura — teatri per piccoli. Che cosa ne penserà Goldoni di vedersi ridotta cosi la parrucca inci­ priata a capigliatura «à la garsonne»? Certo che il nuovo dio della musica si dev’essere divertito un mondo consi­ gliandogli di lasciarsi «rinvenezianizzare», prima, da un tardo nipote di Mozart e di Cimarosa (alludo ad Erman­ no Wofi Ferrari), quindi da un fratellastro di Stra­ winsky. Soltanto Mr de Voltaire oppure Einrich Heine avrebbe potuto ripetere il dialogo corso tra il sullodato «nuovo dio della musica» e Carlo Goldoni. Le tre particole sintetico-melodrammatiche sieno o no il non plus ultra del cerebralismo musicale moderno, per chi ha imparato (e ha finito per invaghirsene) qualcosa delle freschezze inviperite e delle trouvailles vocali, orche­ strali e sceniche e soprattutto della signorile ironia di Ma­ lipiero, non valgono forse le Sette Canzoni con l’aggiunta di quell’O/ftWM Canzone che è, credo, uno dei piu abba­ glianti miracoli italiani ed esteri compiuto dal cerebrali­ smo moderno. Fa piacere parlare di questo ormai euro­ peo compositore nostrano che (mi ricordo) era tenuto da principio anche dai suoi commilitoni novecenteschi in ger­ me, vent’anni fa, per un su per giu non temibile concor­ rente. Malipiero, dati i limiti che il suo ironico dio ha

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[il nuovo dio della musica]

saputo suggerirgli e il suo gusto aristocratico accettare, invece, a poco a poco ha saputo imporsi in terra straniera e di li trionfare fra noi — italianissimo com’è —, a giocondarci con le sue frizzanti freschezze e con la sua incalcolabi­ le sapienza musicale, non mai fatta pesare come usavasi spesso fare dagli atleti un po’ da fiera del secolo xix, bensì, con armonica leggerezza e con chiarezza che a volte ha della rarefazione, fattaci tintinnire negli orecchi e negli animi con sonorità di zecchino. Io non scorderò mai un suo Quatuor, eseguito con scandalo insigne da uno di quegli indiavolati - eppure mirificamente affiatati come una troupe di equilibristi quartetti che ci vengono d’Oltralpe più dalla parte zinga­ resca dell’ex impero austroungarico che dalla parte lati­ na, di terra di Francia, anche se ebbi a udirlo in una delle più barbogie sale da concerti del nostro italico regno2.1 maligni vi trovavano dell’isterismo popolar-strawinskiano. Ma alla fin fine non suonava divinamente quella roba in apparenza indiavolata, in realtà limpida, scintillante e perfino popolare come certe voci di mare e di fanciulle echeggiami nei divini calli di Venezia? A leggerla da sé quella musica può sembrar nulla o poco. A sentirla esegui­ ta a dovere ne sprizzano felicità non poi dissimili — si guardi! — da quelle che si provano nelle feste campestri; oppure vi tremano accenni di malinconie lancinanti che solo un grande ironista — è ormai risaputo — sa destare con quella grazia di chi molto spregiudicatamente irride, ma al momento opportuno dimostra d’avere più cuore di un sentimentalone borghese che fa professione di buoni sentimenti ed è poi il più angusto egoista che ci sia. E del resto il successo — non osato osteggiare dai taciturni e tacitati benpensanti, nella sala barbogia dalle cui pareti pendono i ritratti di tutti i musicisti, con la loro brava data di nascita e di morte e perfino con in bianco la data di morte di quei musicisti che non si sa se sono ancora vivi, o non ancora nati — fu clamoroso. Malipiero è — come tutti i novecentisti, e tale già fu Wagner loro predecessore, come ho accennato — «un poe­ ta musicale». Ma lo stesso gusto raffinato e niente affatto

[GIAN FRANCESCO MALIPIERO]

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decadente, ma ansioso di verginità, lo manifesta oltre che nella musica, nella poesia. Egli è il primo in tutta Europa che ha osato concepire un teatro che - antiottocentescamente — non sia davvero teatro. Quello che ho chiamato «teatro da camera», un tempo forse si [sarebbe chiama­ to] teatro granducale. Le Sette Canzoni sono sette scene, l’una indipendente dall’altra. Piccoli drammi in sintesi, in cui uno sfondo melodico (sissignori, melodico), in gene­ rale una «canzone», spesso bellissima nonostante le deri­ vazioni ora medievali, ora popolari (originalissima, la pri­ ma), fa da amalgama realmente musicale. Ora sarà la ma­ linconia dorata del cantastorie provenzale che incontra in sé un triste dramma d’amore; ora sarà la canzone (meno bella) dell’innamorato sotto la finestra dell’amata, che poi s’arrabbia di non essere ascoltato, e salito su in iscena trova la casta innamorata in atto di vegliare la madre mor­ ta, e tutti i fiori che aveva portato alla bella vanno a fini­ re sul cadavere con un atto di rispetto e d’amore insie­ me; ora sarà un magnifico movimento orchestrale descri­ vente lo scoppio d’un incendio, mentre il campanaro se ne sale sul campanile e di lassù canta una canzone porno­ grafica del tempo della Pleiade, una canzone alla Villon; ora sarà la mattina delle ceneri — e il contrasto tra la can­ zone delle beghine e della Compagnia della buona morte colle ultime materie anche vocali delle maschere, è sem­ plicemente ben indovinato. C Ottava Canzone è addirittura Pirandello sulla scena musicale. Sull’irrealtà del palcoscenico, i palcoscenici - co­ me un giuoco di rifrazione di specchi — si moltiplicano. Irrealtà - realtà? — i palcoscenici su cui si presenta un personaggio sono due. Ma ognuno di questi palcoscenici a rifrazione ha il suo pubblico ed ogni pubblico il suo per­ sonaggio. Cosi Nerone - oh! quanto diverso da quello di Boito! - ironizza su di una serie di cantilene una delle quali somiglia alla [...] ballata «del mal che avea quel prete», Ha quale] insieme con le altre due liriche polizianesche, è tra le migliori cose del Malipiero; cosi, dicevo, Nerone ironizza davanti a un pubblico giovanile immagi­ no simbolizzante i futuristi; mentre i vecchioni (che

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[il nuovo dio della musica]

avrebbero ancor essi il loro palcoscenico il cui sipario pe­ rò non si alza mai) protestano contro l’ironico immorali­ smo neroniano con ululati scimmieschi, finché nel palco­ scenico di mezzo (quello reale?) compare Orfeo e decla­ ma «un saluto al vostro secolo imperturbabile ed ecletti­ co» (il famoso Novecento?) e con modi dalla seconda e dalla prima delle tre liriche polizianesche — ripeto, testi­ moniami uno dei piu vivaci momenti di autoscoperta del Malipiero - finisce per dottamente ed umanisticamente addormentare il pubblico ufficiale (quello schierato pres­ so la ribalta) e che è un pubblico del Settecento: della quale confusione tra realtà e irrealtà ne approfitta non il Malipiero, né tanto meno il pubblico sulla scena né quel­ lo in teatro, ma il divo Orfeo che si mette a fare all’amo­ re tra la sonnolenza generale con la regina, che molto com­ puntamente assieme all’augusto coniuge, non si sa se si­ lenziosamente rappresentativo o addormentato, ha assisti­ to imperturbabile cosi alle smargiassate di Nerone, agli urli dei suoi ammiratori e detrattori, nonché all’arcadica esibizione di Orfeo. In questo secolo di convulsioni isterico-soggettivisti ­ che si parla tanto di Strawinsky e lo si eseguisce con gioia in Italia ove, salvo qualche caso sporadico, piace o per lo meno è piaciuto maledettamente. O perché non si deve rendere i dovuti onori a questo nostro chiaro spiritoso originale (originale come si può essere oggi) musicista che si è rassegnato a poco a poco ad essere del suo seco­ lo? Giacché con loro buona pace gli ottocentisti in oggidì faranno sempre la figura degli arretrati e dei laudatores temporis acti. Mi dimenticavo di dire che nell’anno francescano Mali­ piero ha composto un San Francesco d‘Assisi ’ che, ben­ ché lasciato in disparte, a parer mio, in tanta gara di «vo­ lersi far belli allo splendore eterno di Frate Sole», reste­ rà l’unica cosa di genio — oh! dio, si capisce, novecente­ sco - che sia stata prodotta in mezzo alla caterva di produ­ zioni francescane con cui i compositori hanno voluto ono­ rare il centenario del Serafico. Per quanto il modo con cui dal Malipiero è musicato

[GIAN FRANCESCO MALIPIERO]

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Povertate poverella umiliate è tua sorella abbia carattere squisitamente popolare e medievale, si, ma abbia anche la disgrazia di ricordare l’intonazione delle parole ironica­ mente puerili di Nerone nella Ottava Canzonet «Io ho rotto il fuscellino per un tratto e sciolto il grupo». Il che, precisamente, non edifica, come avviene in altre parti del lavoro maliperiano. Che però — ripeto - tutto sommato, rimane l’unica cosa geniale che musicalmente il centenario francescano abbia prodotto.

XXVIII.

La rinascita delle modalità discendenti

Amico, o per lo meno conoscente, lettore: in un libro sulla musica si parla di cose musicali, e tu mi dirai che parlo di troppe cose extramusicali. Eccoci infatti ad una questione novecentesca musicalissima - che riguarda in modo diretto l’inauguratore del Novecento musicale Clau­ de Debussy e un nostro illustre italiano, Ildebrando Pizzetti, nonché un po’ tutti coloro che andando sia pure per i fatti loro o altrui hanno tenuto d’occhio principal­ mente Claude Debussy. La questione è la rinascita delle modalità discendenti o negative. Mi spiego in meno paro­ le che posso. Dalla fine del Cinquecento a quasi tutto l’Ottocento epoca di dissoluzione invece che di ricostruzione in tutti i sensi — si senti nella musica tre modi principali: il modo diatonico assoluto ascendente o positivo, altrimenti det­ to «maggiore»; il modo diatonico (fino a un certo punto) relativo ascendente o semipositivo, altrimenti detto «mo­ do minore». Era un «modo minore» molto discutibile d’altronde, giacché tendeva cromaticamente ad adoprare accordi che sarebbero stati altrettanto bene sul modo mag­ giore che sul modo minore: uno per tutti l’accordo di dominante per cui bisogna alterare cromaticamente la ya (partendoci dal la, sol diesis che al ritorno è bequadro). Sintesi o meglio conciliazione dei due modi - e in breve tempo i musicisti finirono per accorgersi e nel secondo Ottocento ad abusarne: cito prima Wagner, poi Strauss - conciliazione dei due modi era il modo cromatico ascen­ dente o positivo e al tempo stesso con una buona dose di

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negatività; nel qual modo cromatico, specialmente nella seconda metà dell’ottocento si usarono gli accordi non solo appartenenti promiscuamente al modo maggiore e al falso minore, ma si era arrivati a una tale promiscuità che molti ingenui compositori credettero definitivamente tra­ montato il senso tonale ed annunziarono solennemente l’atonalità. Ora, il senso tonale è come la logica: può, quando di formale diventa formalistica, suscitare le piu rigide reazio­ ni. Il fatto sta che la reazione nella musica pretesamente atonale oggi c’è; cosi io non saprei per qual miracolo — forse per quello stesso miracolo con cui statuti e leggi di vita medievale e premedievale stanno ritornando a galla a tutto danno delle leggi e statuti di vita del «mondiale» secolo xix - questa reazione nei musicisti piu significati­ vi del Novecento — di quelli che ho detto sono piu ispira­ ti dal «nuovo dio della musica» — si va producendo in un senso affatto diverso anzi antagonistico a quello prevedu­ to con tutte le escandescenze e esagerazioni atonali e le antirealtà cromatiche ascendenti. Durante tutto quel pe­ riodo che va dal mille (sono date all’incirca, luoghi comu­ ni di cui ormai non si può fare a meno) a tutto il Cinque­ cento, un altro senso tonale - con non minori soprassalti ed estravaganze di quello che non accada oggi - decade­ va. Ed era il senso tonale discendente. Facciamo un esem­ pio il piu semplice possibile. La scala piu battuta del no­ stro modo maggiore — ascendente per eccellenza — è do, re, mi, fa, sol, la, si, do con una sensibile discendente (piu debole) tra il terzo e quarto grado, ed una sensibile ascendente (ben più potente) tra il settimo e l’ottavo gra­ do: si, do: quella che contava più di tutto era la sensibile ascendente si, do; l’altra sensibile discendente (fa, mi) cercava di farle opposizione, ma non faceva che rinforza­ re la potenza saliente del si al do. Nel Medioevo (canto gregoriano ed anche musica pro­ fana) e soprattutto nella musica greco-latina le cose anda­ vano perfettamente a rovescio. Il modo più importante era il modo oggi detto minore (quello però che non sareb­ be la, si, do, re, mi, fa, sol, la); era il vero modo minore,

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dico — forse l’oriente le sue ambigue malinconie e specialmente l’Egitto, era troppo vicino alla Grecia e questa a Roma? Questo modo minore è — se noi chiamiamo positi­ vo ed ascendente il modo maggiore, quale si è adoperato nell’occidente dalla fine circa del Cinquecento a tutto cir­ ca l’Ottocento — negativo e discendente: mi, re, do, si, la, sol, fa, mi, nel qual modo e scala, come si vede, c’è un semitono discendente potentissimo, conclusivo: fa-mi‘, e un semitono ascendente si-do che i greci sentivano mol­ to meno. Alla fine del Cinquecento si stabili la predomi­ nanza, nel modo ascendente, d’una cosiddetta appunto no­ ta dominante, ed essendo esso modo ascendente, essa fu (sempre nella scala di do) il sol che è spinto, vattelappe­ sca perché, verso il do. I greci al contrario (e tutti gli epigoni del loro sistema musicale per eccellenza melodi­ co) avevano essi pure la loro nota dominante — e cioè, partendosi dal mi fino al mi basso — il la che, per l’attrazio­ ne insita (vattelappesca perché! ! io non amo scervellarmi e fare teorie scientifico-empiriche, constato fatti e basta) nel fa che cala al mi, ha una potente spinta discendente al mi. Naturalmente in questo modo che ho chiamato negati­ vo o discendente, c’è, o c’era o ci sarà anche una sensibile di minore importanza, come ho già detto, saliente dal si al do. Questo sistema tonale che resuscita, studiato e adopera­ to modernamente, presenta a rovescio tutte le forme del sistema delle modalità ascendenti. E se, cioè, avrà un mo­ do diatonico assoluto, discendente negativo (ossia vera­ mente minore), come il sistema tonale ascendente ha un relativo minore ascendente (quindi pseudo-minore) che ha del cromatico per la sua ambiguità, cosi esso avrà un modo semipositivo o semicromatico che sarà — si ricordi che il presente relativo minore è ad una 3“ minore sotto del modo maggiore—che sarà alla 3“ sopra del modo diato­ nico minore discendente o negativo. Il quale se, come ab­ biamo convenuto, è mi, il suo relativo semipositivo è sol, fa, mi, re, do, si bemolle, la bemolle, sol-, e - risalendo - sol, la naturale, si, do, re, mi, fa, sol. Finalmente avre­ mo (ah! lettore, come mi diverrai sempre più crudelmen­

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te amico dopo tutta questa zavorra teorico-musicale!), finalmente avremo un cromatico negativo o discendente dove mentre nei modi ascendenti è di buona regola scrive­ re la scala cromatica (per esempio di do) sempre con i bemolle, salvo il famoso fa diesis sensibile che porta a sol dominante di do, analogamente sarà buona regola scrive­ re la scala cromatica con i diesis, salvo — partendosi da mi - il si bemolle che fa da sensibile in questo caso discen­ dente che dà (tono di mi discendente) sul la. Non mi prolungherò piu su queste — per i profani — sventure tecniche della musica. Mi resta solo, e importan­ tissima, l’osservazione che in Debussy e in Pizzetti, e pu­ ramente per caso a volte in Malipiero (e in altri moderni a causa dell’influenza debussista e pizzettiana in Italia), quel famosissimo accordo di 9a (senza il fondamentale), del qual accordo si è parlato tanto, non è che l’accordo della nuova dominante dei modi discendenti: — di 9“ in quanto con armonie di 3® simultanee sottoposte non erasi mai adoprata e antichissima in quanto, ripeto, era la domi­ nante dei modi greci, latini e medievali. Si abbia anzi un istante la pazienza di considerare che in questo, o questi modi discendenti, anche gli accordi che modernamente ve se ne fanno sgorgare, avranno il loro fondamentale in alto e si produrranno per terze sottoposte, e cioè assolutamente «all’ingiu». Ecco come il famoso accordo debussi­ sta e pizzettiano (nel tono di mi discendente - ossia il vecchio tono relativo minore di la ascendente), accordo formato dalle terze apparentemente sovrapposte si, re, fa, la, creduto dai nostri ineffabili teorici una 9a senza il fondamentale sol, insomma un frammento di 9a di domi­ nante del modo maggiore (positivo ascendente nel mio linguaggio), non è che il nuovo pallido accordo («all’in­ giu») di dominante del modo discendente di mi. Cosi l’ac­ cordo pure comunissimo sia in Pizzetti che in Debussy fa diesis, la, do, mi, non è affatto un accordo di 9®, ma è l’accordo «rovesciato» di tonica (e cioè col fondamentala all’in su) del modo discendente diatonico negativo puro. Capisco che c’è da non capirci piu niente. Ma ciascuno

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è padrone di non capir nulla neppure nella teatralità di Pirandello. Tuttavia non è a che far io se esiste questa resipiscenza di modalità antiche greco-latine medievali e se ad esso spontaneamente Debussy, più riflessamente il Pizzetti hanno applicato il sistema degli accordi — ossia vi hanno applicato ciò che oggi propriamente s’intende per «armonia». Quello che è certo si è quell’impressione di grigio che produce negli ottocentofili la musica di De­ bussy e di Pizzetti e anche un po’ quella di Malipiero, sebbene costui sia, come Strawinsky armonicamente, più uno che subisce la reazione all’Ottocento che non la risol­ va. È uno insomma che crede - beato lui! - alla possibili­ tà fatòatonalità. Invece saldamente tonale in modo tan­ to antico che sembra nuovo, sono Debussy e Pizzetti e i loro più diretti epigoni.

XXIX.

Pizzetti

Debussy risentì per istinto le modalità discendenti. In parte. Ché sentì anche molto, per riflessione, le modalità arabe (le scale con intervalli aumentati e quindi la famo­ sa scala esacordale). Certo che il tono generale della musi­ ca debussiana è grigio (con iridescenze affaticate) ed egli è un intimista. Il nostro Pizzetti si è messo sulla stessa strada. Già la storia della sua formazione musicale ce lo dice; avanti d’essere Pizzetti, fu brahmsiano, e — tra gli ottocentisti — Brahms fu il piu «intimista» di tutti, perfino dello stesso Beethoven. Oggi come oggi, certo, il Pizzetti è uno dei musicisti piu rappresentativi della musicalità italiana. Egli, queste famose modalità discendenti, le modalità gre­ che, le ha riscoperte, studiate, appropriate a quel tanto di resipiscenza greco-medievale e a quel tanto d’intimità reli­ giosa o per meglio dire «mistica» che già fin da Beetho­ ven poteva essersi nella musica manifestato, e che rifiorì profondamente nello stesso Wagner, pure così napoleoni­ camente imperatorio e demagogico, cesareo addirittura, in un senso tutto ottocentesco: i suoi successi sulle platee e la conquista del mecenatismo di Luigi di Baviera insegni­ no. Questa ricerca pizzettiana dell’intimità «mistica» o, semplicemente, dell’intimità, [viene] ottenuta con mezzi tecnici prima di tutto in armonia con il completo riaffiora­ mento nell’anima moderna delle modalità discendenti o elleniche (non arabe per carità! — alla melodica misura greca le aumentazioni degli intervalli quale trionfa nel sistema modale arabo sarebbe sembrata un’esagerazione,

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e Debussy, nonostante tutto il buon gusto, vi è cascato fino agli occhi), in secondo luogo a mezzo di effetti in sordina coloristico-timbrici in generale, come in Debussy pacati miniati pazienti - da coccolarseli in perfetto racco­ glimento come fanno le madri che con la bocca sulla boc­ ca colgono il primo formarsi delle sillabe umane sulle lab­ bra del loro bambino - questa ricerca pizzettiana, dico, ha portato il maestro parmigiano ad essere forse il piu intimista musicale esistito da almeno tre secoli. E dico da almeno tre secoli perché durante questi tre secoli (dalla fine del secolo xvi a tre quarti del secolo xix) la musica, come ho detto alquante e svariate volte, si «umanizzò», divenne drammatica, a battute e tirate oratorie; mentre per l’innanzi era stata, almeno in Europa, intima, religio­ sa, esprimente — per quel tanto che le è permesso da natu­ ra — sentimenti umani (direi meglio: la dinamica dei senti­ menti umani, piu preciso ancora, il pathos ritmico degli avvenimenti che è in tutte le cose anche non umane), ma tutto ciò esprimendolo con una incrollabile dipendenza dal trascendente, da quella divina Irrealtà (irrealtà per noi che non concepiamo la realtà altro che di ciccia e di sangue, o al massimo di piante debitamente concima­ te) la quale è poi, per noi credenti, la vera Realtà, l’Eterna Ispirazione che in noi produce la nostra transeunte ma immutabile aspirazione a Dio. Così non esito in que­ sta musica europea (dei secoli avanti la fine del xvi seco­ lo) a mettervi anche gran parte di quella greca e forse - a stare ai teorici — egiziana. Certo che la musica che accom­ pagnava le tragedie specialmente di Eschilo e di Sofocle doveva essere tutto quel che di più mistico si può immagi­ nare. Ma allora il lettore legittimamente si domanderà: «Dunque l’ispiratore della tragedia greca, Dionisos l’or­ giastico, non era quell’incitatore all’esteriorità e al gestico­ lamento e peggio che ci hai voluto fare apparire nella tua carica a fondo contro l’Ottocento?» La risposta è facile: il Dionisos greco (Aristofane volentieri ne eccettuereb­ be il Dionisos umanissimo e un po’ avvocatesco di Euripi­ de) era sotto certi aspetti — in arte e non solo in arte — il precursore di Gesù (dico ciò culturalmente, non — per

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carità! - teologicamente!), ad ogni modo non era quell’in­ citatore agli uriacci o fragori plateali che romanticamente (democraticamente) - pare impossibile - un uomo di co­ si gentile gusto artistico ci ha voluto fare apparire: Federi­ co Nietzsche. C’è una bella differenza dal dio dell’ascesi sofoclea di Edipo Re al Dionisos ottocentesco che — co­ me ho già detto - fu figlio del protestantismo e della rivo­ luzione francese; un Dionisos che finirebbe, se non agoniz­ zasse, per presiedere, nella vecchia e isterica Europa, alle gare automobilistiche e agli sport in genere. Tutta roba che — se è bene d’altra parte che la gente venga su sana — non bisogna confónderla con la severità ascetica della tra­ gedia, come ha fatto un musicista moderno, romantico, nonostante le sue pose futuriste e novecentoidi, il quale ad un certo punto della sua opera ha messo come strumen­ to d’orchestra il motore di una motocicletta. Pizzetti in questo senso ottocentesco e antidionisiaco per eccellenza. È ritornato alla musica dalle modalità di­ scendenti, dalle tonalità raccolte, dal dolore concentrato e piu amante del silenzio che dell’espressione espansiva. Al postutto non è molto originale. Siamo d’accordo — in lui c’è perfino del Puccini (del Moussorgsky e del De­ bussy è logico che ci sieno). Ma anche in Beethoven c’era dell’Haydn e del Ferdinando Ries; c’era cioè in lui tanto un po’ del maestro che dell’allievo. Non esageriamo wag­ nerianamente la importanza dell’originalità. Volle il ca­ so che il Pizzetti, per le sue tre prime manifestazioni arti­ stiche di mole piu considerevole - i cori per la Nave1 (bellissimi), la Fedra (in gran parte bellissima anch’essa, specie il primo atto), la musique de scène per la Pisanella1 (dove c’è una sarabanda per archi che è la migliore composizione strumentale pizzettiana, assieme ad altre gemme della deliziosa partitura) — che il Pizzetti — debita­ mente trasformato, così per ridere! - in Ildebrando da Parma, s’incontrasse con uno spirito il piu dionisiaco (in senso nietzschiano), fragoroso enfatico esuberante, irre­ quieto fino a confinare col capitano di ventura, che ci abbia dato l’arte moderna: Gabriele D’Annunzio. Il con­ nubio generò un malinteso fortunato e sfortunato al tem­

[il nuovo dio della musica] po stesso — come del resto succede per tutti i matrimoni; tuttavia dobbiamo riconoscere che forse le cose piu belle di Pizzetti datano durante quel connubio, da quei suoi indimenticabili Pastori3 — oserei dire la piu bella lirica moderna - alla Fedra, che se giace per ora negli scaffali di Casa Ricordi, è che non si è capito ancora che per certe opere d’arte piene di sottintesi, freschezze, pazienti inten­ zioni, oasi di raccoglimento, di miniature, ci vogliono per­ ché risultino a dovere - come dicevo — i teatri piccoli, i teatri d’arte». Date la Fedra in un teatro piccolo (tanto più che non ha davvero come Salome o come Francesca una orchestrazione assordante) — e non se ne perderà una parola. La qualcosa, come si sa, in Pizzetti, è importantissima. Egli — anche in questo meno originale di quello che non si creda - mentre, sulle orme di Debussy, ha fatto una tremenda guerra al napoleonismo ottocentesco di Wagner e al suo barocco sistema dei motivi conduttori lo ha poi — come Debussy — seguito nella riforma del declamato. Sol­ tanto, essendo italiano, è andato più in là. Non solo i modi greci ha ripresi, ma concependo la musica drammati­ ca come ancella della poesia, e sentendo nella parola tut­ to quello che c’è di più musicale — soprattutto l’accento nella Fedra ci ha dato pagine di una bellezza severa e commovente, con il giuoco degli intervalli (intonazione secondo i modi discendenti greci) e con la dipendenza as­ soluta dell’accentuazione musicale da quella verbale (co­ me accadeva nella musica greca, nel canto gregoriano, come non è in fondo riuscito a fare — perché troppo musici­ sta — Wagner, e tanto meno Strauss, come non facevano affatto i nostri melodiosi sei-settecentisti e in gran parte ottocentisti), facendo risaltare i ritmi e la loro espressio­ ne poetica in modo veramente ammirevole, ritmi ed espressione poetica che ci sono a bizzeffe in qualunque poesia ed anche in qualunque prosa del nostro grande principe della plastica verbale - Gabriele D’Annunzio.

XXX.

Pizzetti pizzettiano

Ma il matrimonio durò poco. Il marito - D’Annun­ zio - era infedelissimo. Pizzetti d’altronde - come [le] mogli emancipate - volle cominciare a fare da sé. E ci diede — a parte un intermezzo di liriche greche popolari moderne, bellissime, piene, sempre del miglior Pizzetti — ci diede, dico, la Debora e Jaele che non vale la Fedra. L’ottocentismo melodrammatico, nonostante il rigori­ smo pizzettiano in fatto di declamazione e di strumenta­ zione, comincia a rifarsi sul povero reazionario maestro che non ha avuto l’intelligenza di rassegnarsi a quel che ho detto ci voleva per lui: i teatri piccoli, antidemocrati­ ci, magari un po’ snobistici. Inoltre come musicista cade in ripetizioni — sia pure di se stesso. Il soggetto della Debora è poi di un dannunzianismo che, ohimè, comincia a mostrar tracce d’arteriosclerosi. Pagine belle ve ne so­ no ancora qui; ma nel suo vino ormai Pizzetti ha messo molt’acqua. Insomma fino a sentir la musica (meglio si chiamerebbe la melopea) asservita alle potenti plastiche parole di un Gabriele D’Annunzio ci stiamo volentieri ma quando queste parole sono di un Pizzetti (o di un suo aiuto anonimo ben inferiore in quanto a potenza verbale al D’Annunzio), allora cominciamo ad accorgerci che in un teatrone democratico e realistico in fatto di scenari come la Scala, la diafana platonica musica pizzettiana, che sta alle parole come la vite agli olmi, non sorretta ed eccitata da ritmi belli verbalmente per se stessi e da imma­ gini di nutriente plasticità, spesso s’impadula in mara­ sma. Insomma secondo il mio parere le cose veramente

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belle di Pizzetti sono i cori per la Nave, la Fedra (purché, ripeto, la si eseguisca in un teatro apposito) le liriche per canto e pianoforte (non dirò tutte, ma quasi), gran parte della Pisanella-, il resto è, come ho detto, vino con ormai molta, a volte moltissima, acqua. Ho parlato dei cori della Nave. Il Pizzetti, non solo studioso di modalità greche — forse un po’ secondo la mo­ da estetico-archeologica messa in voga dal D’Annunzio di venti anni fa — è stato anche un grande studioso di polifonia quattro e cinquecentesca. Così, oltre alla ripre­ sa dei modi discendenti e del declamato alla greca ed alla gregoriana (che ognun sa esser, se non la stessa cosa, per lo meno d’immediata figliolanza bizantina), egli è un eccel­ lente riesumatore della grande polifonia vocale dei nostri secoli musicalmente piu mirabili: il secolo xv e il secolo xvi. I cori per la Nave (non si sa perché tenuti da parte); la «trenodia» della Fedra, un pezzo di polifonia vocale ormai giustamente celebre; i brani del primo atto della Debora, polifonici, s’intende, ma con accompagnamento strumentale: «madre, tu lo sai, come nemici ci tratta il nostro dio»; sono pagine straordinariamente belle, raccol­ te, intime, — religiose. Religiose? Qui c’è da domandarsi se la religiosità pizzettiana non somigli un po’ a quella degli intimisti deca­ denti che sono certo affamati d’ascesi ma poi non riesco­ no ad inquadrarsi in una solida intelaiatura religiosa. Il Pizzetti in realtà è uno dei soliti cerebrali moderni con tendenze pessimistico-religiose, ma che ha per sola religio­ ne — pagana - l’arte. Rientra quindi nell’ottocento? Pur­ troppo in parte sì. Anche i suoi rari esempi di musica strumentale - che risentono l’atmosfera wagneriano-debussista cui abbiamo accennato - hanno bagliori abbastan­ za persuasivi (pur sempre diafani e pallidi) nella assai ben quadrata e al tempo stesso romantica sonata per violi­ no1, poi diviene eccessivamente personale nella sonata per violoncello*. Nel trio l’ultimo tempo col suo finale melodicissimo, dall’accompagnamento a tranquilli accor­ di ribattuti che meravigliano in un così arguto ricercato­ re di novità o per lo meno di rinnovamento, sembra un

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disperato tentativo di ritornare ottocentesco mentre c’è nella natura del Pizzetti tanto Novecento. In quanto poi ad annacquatura completa del vin pretto pizzettiano fino a diventare vinello, consiglio leggersi l’ardua messa per voci sole composta dal maestro nel 19223. Paragonatela coi cori della Nave e vedrete se io maligno o constato sem­ plicemente dei fatti. Ci sono altre composizioni del Pizzetti; per esempio, La sacra rappresentazione di Abramo e Isacco \ È opera di transizione, e poi io non faccio qui un vero e proprio saggio critico alla Benedetto Croce. Parlo del nuovo dio della musica che pare ami soprattutto i giovani. Egli — novecentista com’è - appena uno passa la trentina si diver­ te a giuocargli dei brutti scherzi: lo scherzo peggiore che tira è la stanchezza. Del resto non è escluso che il Pizzetti [metta da parte] queste sue manie oratorie e demagogiche, romantiche, ottocentesche e ritorni quel delicato squisito platonico musicista che è. E si persuada che il piu grande musicista dell’Italia moderna è - non ci ho colpa io, ma forse ne sono fiero pensando alle inesauribili risorse della mia raz­ za — un uomo pratico e politico. La pratica ha preso il sopravvento sulle cose dell’intelletto. Il nuovo dio della musica al massimo potrà trovare gregari e adoratori nei segreti teatri snobistici e in provincia. Certo quello ch’e­ gli sa ispirare è il meglio che relativamente si abbia nel mondo dei nuovi compositori. Chi si ostina a ottocenteggiare è come uno che abbia la curiosa mania di leggere i giornali del 1890 nel 1926. Ma alla gran luce del sole oggi i popoli e quindi gli stessi individui cercano soprat­ tutto, avanti tutto, un nuovo equilibrio pratico e morale e non ha voglia di stare ad ascoltare messe di requiem vuote di sentimento religioso ed appena qua e là berliozianamente punteggiata di trouvailles insufficienti; trii se­ squipedali sia pure fiammeggianti (ben di rado!) di spraz­ zi d’ardente dolore; opere che sembrano una ostrica trop­ po magra per quanto assai saporita in una valva cosi gran­ de - il teatro della Scala - che, facendocela pagare a peso, la spesa non vale la delusione.

XXXI.

Zandonai prima di guerra e Zandonai dopo guerra

Un ottocentista — forse col Montemezzi l’ultimo, Car­ ducci direbbe il postremo, almeno nel teatro, perché per esempio nella musica sacra, c’è il Refice1 — un ottocentista capace di riempire i democratici teatri romantici, era fino almeno a tutto l’anteguerra - e lo sarebbe ancora se non si fosse messo a fare del commercio da cui prima l’entusia­ smo della gioventù e una certa facilità di successi lo ave­ va trattenuto — era invece lo Zandonai. Egli era il musici­ sta all’antica «capace di musicare la lista del bucato»; un musicista all’antica — ma con degli strani ibridismi (alme­ no prima della guerra) che lo impreziosivano novecentescamente e che lo rendevano caro, dopo tutto, al nuovo dio della musica. Lo Zandonai di dopoguerra è abomine­ vole2. Il suo ottocentismo democratico lo mise sull’avvi­ so nei riguardi della commercialità e volle addirittura — altro che cedere ai suoi istinti ottocenteschi e democrati­ ci!, volle addirittura bolscevizzarsi. Abbasso i preziosi­ smi armonici e strumentali!, abbasso i poemi di pura e troppa poesia! Veramente di quest’opere-poemi Zando­ nai ce n’ha una sola: la Francesca da Rimini dannunzia­ na 3; almeno Montemezzi, francamente piu ottocentesco, ma meno fortunato di lui, e meno ibrido (non faccio qui l’elenco delle opere del Montemezzi, se no dovrei citare anche il Giovanni Gallurese*, ottocentesco al punto da trovare la più bella frase dello spartito sulle parole: «Oh! libertà! bel sogno inebriante della vita!»), al suo attivo, di opere su poemi drammatici d’eccezione ce n’ha due: VAmore dei tre Re5 di Benelli e la Nave6 di Gabriele D’Annunzio. Riccardo Zandonai da principio ci sireneg-

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giò tutti con la sua spontanea amalgama di novecentismo (piu straussiano che debussista) e col suo facilonismo da allievo di Mascagni. Delizioso quel suo Grillo del focola­ re1 — lasciamo là la M.elenis*, raffazzonamento, a quel che mi dicono, di un suo saggio d’istituto, roba abomine­ vole per certo Bellissima sebbene... ambidestra peggio che ambigua — ossia da servire a chi sperava in una perma­ nenza ottocentesca della musica, vedendo un po’ in Zandonai il solito Giosuè che arresta il sole, e che come il popo­ lo adorava il suo Mascagni e il suo Puccini - bellissima, dico, quella sua Conchita ’, forse la sua migliore creazio­ ne scenicamente, strumentalmente ed armonicamente e nonostante la perfetta innocenza con cui l’autore ha musi­ cato un episodio sadico-franco-spagnolo tratto da La fem­ me et le pantin di Pierre Louys. Tuttavia — malgrado il sadismo dell’argomento, d’altronde diluito in un libretto di tipo vecchissimo ed arciromantico, lo Zandonai con la sua musica fresca e schietta metteva nell’opera zampilli romantici mascagnani preziosismi orchestrali allora der­ nier cri. Un’innocenza se non maggiore analoga, lo Zando­ nai la mostra nella sua opera — su poema drammatico (tan­ to per cambiare!) di Gabriele D’Annunzio: la Francesca da Rimini. Piace perché il poema è parnassianamente ed archeologicamente bello e perché in gran parte, nonostan­ te anzi, coll’aiuto del titillamento prodotto dagli ibridi­ smi preziosissimi (qualcosa come la musica di Mascagni coi capelli tagliati alla garsonne), la partitura è davvero ispirata. Ma forse mai musicista si trovò davanti alla poe­ sia d’un gran poeta - sia pure malato di decadentismo e d’archeologia — come un provinciale si trova a letto per caso con una cocotte d’alto bordo, quanto lo Zandonai nel musicare con foga ottocentesca e democratica le paro­ le raffinatissime e bistrate di Gabriele D’Annunzio. E se - presso il gran pubblico - in Fedra la vite è la musica e l’olmo la poesia, in Francesca la vite è la poesia e l’olmo la musica. Alla fine dell’ultimo atto di Francesca l’interes­ se cade - anche l’ultim’atto di Conchita non vale, del resto; chi l’ha vinta, in Francesca, è la poesia e la musica non ne può piu. Seppure non si ripete in Zandonai quel

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fenomeno che si manifestò in molti operisti di razza del nostro piu schietto e scettico teatro musicale: in Cimarosa, in Rossini, in Mozart (pardon se lo metto nel nostro teatro); che - in generale l’ultim’atto era un po’ sempre tirato via — tanto la gente alla fine aveva l’antiwagneriana abitudine di alzarsi e far rumore avanti che tutto fosse finito. Comunque, chi dimenticherà la freschezza di certi colo­ rismi ispano-orchestrali di Zandonai nella Conchita? In quanto alla ambiguità melodico-mascagnana della roman­ za del tenore «va sul mattino e cogli rose intorno», non ho ragione di preferire del Mascagni pretto e sincero, quel­ lo tutto scrosciante di ruscelli di vena, dell’Irà? Chi dimenticherà certe squisitezze di Francesca (lasciamo an­ dare la demagogia timpanistica del finale del terzo atto che è proprio quello che fa balzare le plebi)? Tutto som­ mato, rispetto alla novissima scuola dei francesi e dei te­ deschi, novecentisti prematuri i primi, epigoni postremi dell’ottocento i secondi, Francesca da Rimini, anche in virtu del suo splendido poema-libretto, — che lo Zando­ nai ha avuto per innocenza la suprema abilità di non pren­ dere troppo dannunzianamente sul serio e quindi, come musicista, di fare il comodo suo, — è probabile che sia l’unica opera su parole di D’Annunzio destinata a rimane­ re come la scia d’una cometa dalle sfumature delicate su di un cielo serotino, nel teatro musicale italiano chi sa ancora per quanto tempo romantico e democratico, per forza d’inerzia. La Francesca riguardo a codesta musica cosiddetta «d’eccezione» forse rappresenta ciò che per la famosa «giovane scuola» (Mascagni e Puccini) rappresen­ tò l’Andrea Chénier di Giordano e un po’ l’Adriana Lecouvreur di Cilea. Poi - dopo guerra — venne a suppurazione il caos demo­ cratico liberale. La democrazia si mise ad uccidere la de­ mocrazia. Zandonai credette interpretare i nuovi tempi abbandonando quanto c’era di novecentesco e di cerebra­ le nelle sue possibilità musicali. E vennero quelle opere insignificanti (almeno le prime due) che sono: La via del­ la finestra, di cui dissi a suo tempo un certo bene “ speran-

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do, dopo il delizioso fuoco fatuo del Gianni Schicchi pucciniano, in un ritorno all’opera buffa o commedia musica­ le, ma della quale — della Via della finestra — penso che vale sempre meno ogni giorno che passa; poi quell’opera oratorio-romantica-awocatesca che è la Giulietta e Ro­ meo, opera di nessun valore. Zandonai ha perso oggi ogni pudore. Bada a zavorrare le sue aereonavi, illuso che abbiano gran spinta per volare. Ma la zavorra la vince sulla spinta. La terza opera, I Cavalieri d'Ekebù[è] fran­ camente più romantica delle due ultime opere di dopo guerra e qua e là ha sprazzi di vecchia luce sentimentale e riaffioramenti di passione. Ma si tratta di un’operona de­ stinata, si, a riempire la valva della Scala — ma la musica è come un’ostrica a larghe falde, ma non più fresca — è rimane indigesta. Bisognerebbe che lo Zandonai avesse an­ cora abbastanza danari non solo per andare ad abitare su di una spiaggia più feconda d’ostriche sane; ma anche per rifornirsi di quel tanto di pepe novecentesco che insie­ me con la carnosità della sua sana musica ostrichesca, ci titillò fino all’entusiasmo nel Grillo, in Conchita e in Fran­ cesca. Ho accennato a Montemezzi. È musicista austerissimo e inimìcissimo del pepe novecentesco. Tuttavia non ha saputo esimersi dal cedere alla moda di cercare i librettipoema di autori poeti. Il meglio che gli riuscì fu L'Amo­ re dei tre Re. Per la Nave non resta che il libretto-poe­ ma; la musica è un sapiente e pesante ragù fatto da un cuoco a corto d’argomenti. Un rilievo curioso: L'Amore dei tre Re è del 1913, la Francesca è del 1914. Beh! vi sono dei declamati, non alla Pizzetti, ma con orchestra corposa e con taglio di disegni musicali più obbedienti alle ragioni musicali che a quelle poetiche. Ebbene i due declamati si somigliano a volte (a parte la saporosità seduttrice della fantasia in Zandonai più che in Montemezzi) e si somigliano in mo­ do da fare impressione. Dì chi la colpa? Della somiglian­ za o influenza della musa di Zandonai su quella di Monte­ mezzi, o piuttosto della figliazione di quella di Sem Benelli da quella di D’Annunzio?

XXXII.

Parla il nuovo dio della musica

L’autore di questo libro con la sua consueta modestia ha detto a un certo punto che avrebbe voluto avere la fantasia mitografica di Federigo Nietzsche per inventare per Me — ossia pel nuovo dio della musica — una figurazio­ ne mitologica altrettanto celebre e fortunata di quella che il cantore dell’Origine della tragedia inventò per la musica ottocentesca. Ora come ho detto l’autore è trop­ po modesto e da un pezzo ha deposte tutte le sue velleità di poeta che ebbe da adolescente1 (Wagner nei Maestri Cantori dice che «l’aprii canta da sé»); — cosi io voglio prendere per lui la parola e dire chi son io. Dionisos — il dio ottocentesco — aveva il vizio di bere e come ogni buon alcolico ha finito per dover andare in quella grande Casa di cura, che è ormai l’Olimpo. E poi, su, chez nous, si era visto che aveva finito per trescare con un Dio che dà a noi dei pagani una noia terribile — Cristo. Ora, Giove — il direttore della su lodata Casa di cura — ha preso da parte Me e un altro dio famoso per le arti: Apollo, e ci ha pregati d’intervenire dopo il nuovo fallimento di Dioni­ sos a ispiratore delle arti belle sulla terra. Io vi dico subi­ to: sono Hermes. «All’aurora nato a mezzo il giorno be­ ne citareggiava Hermes» cantò un antichissimo poeta gre­ co e infatti fui io che inventai la cetra. Allora, dopo la pro­ posta di Giove, tra me e il mio compagnone bellissimo ma troppo calmo (specialmente tenendo conto che sia­ mo in tempi d’automobili e d’aeroplani e di sport ad ol­ tranza), abbiamo fatto una confabulazione. Io gli ho det­ to: «Giove non intende che l’arte abbia a divenire, come

PARLA IL NUOVO DIO DELLA MUSICA

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nel Medioevo, cristiana; ma te, compagno mio, con la tua calma e con quella serenità che ti distinguono, se discen­ di sulla terra c’è il rischio che perfino i ragazzi ti prenda­ no per una reincarnazione d’Oscar Wilde e ti menino del­ le santissime botte. Per salvare ancora un po’ d’estetica pagana ci vuole un dio astuto, che magari sia anche il dio degli inganni e dei trucchi. Lascia, Apollo, andar me. Il principale vedrai che ne sarà contentissimo». Ed Apollo, che è la serenità greca in persona, sorrise impercettibil­ mente, mi voltò le bellissime spalle — e io venni sulla terra. Io, Hermes, sono maestro di trovate e sulla cetra, quan­ do le mie occupazioni onorate mi lasciano libero, ho sco­ perto tante di quelle astuzie (armonici, suoni di lusso, possibilità imprevedute di sonorità) che perfino un poeta — un poeta piuttosto esageroso e dionisiaco la sua parte — s’è accorto essere io il vero ispiratore dell’arte modernissi­ ma. Non si ha da leggere che l’inno che costui con ansito molto di dattili e di spondei ottocentescamente disposti, ha voluto e saputo alzarmi nel suo primo Libro delle Lau­ di. Così il Novecento artistico vien su sotto i miei auspici un po’ in tutta l’Europa, da Bernard Shaw a Luigi Piran­ dello. Per Ercole! ho ancora da farla con i postumi dell’al­ colismo dionisiaco, ma io me ne servo — com’è mio uso — a mio pro. Così, già, nonostante il suo romanticismo deli­ rante, ho preso sotto la mia protezione Richard Strauss e glien’ho ispirati dei grilli solleticosi in teatro e in orche­ stra sola! Così nonostante il suo misticismo un po’ cabali­ stico (ma quindi fatto per venire a patti colla mia scienza ermetica) ho preso anche sotto la mia protezione Claude Debussy che, ognun sa, insieme con Strauss è l’inaugura­ tore del Novecento musicale. Pizzetti, anticristiano-cristianeggiante anzi ebreizzante, con quella sua aria di gat­ ta morta, e perfino Wolf Ferrari è cosa mia. Piu tardi, quando ridarò la parola all’autore, gli farò accennare ap­ punto a quegli autori che amano conservare nelle loro acrobazie cerebrali qualche traccia d’alcolismo dionisiaco, seguendo così le orme di Strauss. Ma sono tutti come li voglio io - ingegnosissimi, artificiosissimi — anzi, come

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Alfredo Casella, giungono addirittura al piu gelido umori­ smo2. Anch’io, vi confesso, ho paura di Cristo. Ma trovo che Giove mi ha scelto bene per inviarmi sulla terra in tempo di pescicani che afiondano o fanno i morti e son piu vivi di prima, di uomini politici che vanno avanti prometten­ do e non mantenendo o cambiando le carte in tavola. Dall’altra volta che venni sulla terra ad oggi ho trovato gli uomini su per giu gli stessi — avari, sufficienti, creduli in un piacere [che fosse loro concesso] quando meno se l’aspettavano e, al tempo stesso, per la legge del rispar­ mio, materialisticamente (eh! per colpa di quei fanfaroni sia pure in buona fede che erano i titani), dopo l’età del­ l’oro [che fosse] il più spesso possibile un surrogato [del piacere]. Ora, io non vi so nemmen dire come, in fatto di surro­ gati, io m’intendo di capelli femminili tagliati a maschio, d’intimità trepidanti con una bella punta d’acido in fon­ do — la poesia di Sem Benelli, un po’ la musica di Pizzet­ ti? Sono insomma Hermes. Ma ho una paura maledetta, anche più che di Dioni­ sos, di tutto quel che è semplicità. Cerco d’imitarlo - Cri­ sto, non Dionisos - ma è proprio allora che porto disgra­ zia ai medium della mia ispirazione. Intanto domando scusa all’autore e gli ridò libera la parola perché dal suo punto di vista — ahimè! sempre più cristiano (lo so, lo so) - continui a parlare di quei pochi miei adepti che in Italia mi seguono ed agglomerano in antri ascosi e segreti come catacombe o coloro (anch’essi pochi) che hanno quattrini o — come le cocottes e generi affini - la possibilità di procurarseli. A dirla fra noi, ho paura che in un grande sconvolgimento di popolo mi rom­ pano il clipeo e le ali che ho ai piedi (unici indumenti che Giove, alla moda greca, mi permetta - e badate che con questi variabili climi abitati dagli italioti mi verrebbe spesso la voglia di rubare una bella pelliccia a qualche pescecane o a qualche viveur), non solo, ma ho paura che nel detto possibile sconvolgimento di popolo anche mi rompano qualche parte del mio corpo, e mi mandino in

PARLA IL NUOVO DIO DELLA MUSICA

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frantumi i graziosi templi - che sopra per distrazione ho chiamato antri segreti ed ascosi - dove faccio ermetica­ mente eseguire la musica da me ispirata. E anche — sem­ pre in un possibile cataclisma popolare (c’è il barometro di Giove che mi ispira poca fiducia riguardo alle variazioni sociali) - abbiano a nominare, stanchi e seccati dall’alcoli­ smo cui li aveva abituati Dionisos, i miei vespertini raggiri musicali «cerebralismi» e «intellettualismi», e chiamino tutti i popoli a gran voce VAgnello della pace a ridettar musiche pure e al tempo stesso popolari. Allora sono dav­ vero buggerato. E dire che le mille volte cerco di camuffar­ mi in lui, ma è un camuffamento pericoloso data la terribi­ le furberia dei poliziotti moderni - dei poliziotti dell’arte: i critici.

XXXIII.

Ottorino Respighi

Avanti che Hermes prendesse per me la parola, parlai di quei musicisti italiani novecentisti che avevano rivolto i loro occhi - da giovani gli occhi sono sempre da innamo­ rati - a Debussy e piu tardi un po’ a Strawinsky - eccet­ tuato Zandonai che, se si guarda - derivazioni franco-tede­ sche a parte - è sì un ibrido ma in fondo in fondo finché ha potuto è rimasto con del sangue drammatico ottocente­ sco in corpo, ed oggi, per esempio, è imitato a tutta possa dal maestro Refice (Transitus sancti Francisci) '. Ora par­ lerò di due santi padri della influenza tedesca - e non piu soltanto wagneriana, ma piu moderna — in Italia, dionisia­ ci per quanto ermetici, ossia per pochi, e che han posto, da giovani ben s’intende, «quando vedevano Elena in ogni femmina», piu che su Debussy e su Strawinsky gli occhi prima su Wagner, com’è accaduto a tutti, e, com’è accaduto soltanto ad una frazione, su Richard Strauss. Gli autori sono Ottorino Respighi e Franco Alfano. Ma è di Ottorino Respighi che voglio ora parlare. È un uomo di gusto, un colorista di polso, e al tempo stesso un buon ostinato faiseur... Latinamente la corren­ te tedesca wagneriano-straussiana se l’è incorporata in mo­ do che nei centri italiani dove Wagner ha fatto strage, il popolo stesso (le cosiddette «masse») arriva all’entusia­ smo davanti ai suoi speciosissimi tentativi di connubio tra Dionisos e Hermes. Nei poemi sinfonici respighiani, e specialmente in quelle Fontane di Roma in cui l’orche­ stra non potrebbe esser trattata piu da maestro né me­ glio conseguita l’idea straussiana (straussiana, mahleria-

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na, bruckneriana, ma soprattutto straussiana) di trasbor­ dare i canoni della descrittività coloristica e plastica wag­ neriana (a rigore si dovrebbe citare anche Liszt e Ber­ lioz) nel poema sinfonico, che in sostanza non è spesso che la vecchia sinfonia in quattro tempi rimessa a nuovo, è un fatto che vi sono ruggiti muggiti estuazioni di sonori­ tà, tintinni sibili chiaccherii delicatezze sussulti di fragori che finiscono (come in Strauss, ma con piu misura seppu­ re con meno abbondanza e vigorosità) per inchiodarci vo­ lentieri sulla sedia ad ascoltare. Già piace d’illustrare con tutta la ermetica sapienza moderna i divini e così diversi scrosci delle fontane di Roma (io ricordo con piacere ai lettori una bella lirica di Emilio Settimelli2 sullo stesso argomento) che, sebbene viste attraverso lenti comprate nella fabbrica di Strauss, spruzzano irrompono mugolano sciacquano in modo che si sente, come l’autore per quan­ to bolognese le abbia amate e vissute romanamente. For­ se non direi lo stesso dei Pini di Roma. A volte in arte repetita non iuvant. È il solito modello straussiano (co­ me le Fontane) del poema sinfonico per grandissima e catastrofica o per piccola e lillipuziana orchestra, ma li giochi non sono riusciti sgargianti questa volta come la prima. Ottorino Respighi è un musicista compiuto. Al modo stesso di Richard Strauss non ha idee, ma sa far musica quadrata polifonicamente secondo le penultime e un po’ invecchiate ricette che la Germania ai bei tempi del suo tentativo d’impero culturale sparse per il mondo (per la verità non dispregia anche l’ermetica orchestrale france­ se sempre un po’ passatotta — ossia dell’epoca di Debussy e di Ravel). I suoi momenti d’intimità somigliano come due gocce d’acqua ai momenti aristocratico-banali co­ me nella Sinfonia domestica straussiana. Se la Germania tornasse a rivendicare il suo gran sogno d’impero mondia­ le ottocentesco, sono certo che — a parte le solite cabale de­ gli amorosi colleghi — Ottorino Respighi, che ha nella faci­ lità a scrivere (basta guardare quell’orripilante Ciaccona2 su tema di Frescobaldi: povero Frescobaldi!) qualche punto di contatto con Max Reger (per quanto sia in una

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[il nuovo dio della musica]

direzione affatto diversa da lui), sono certo che potrebbe essere consacrato dalle onorificenze dell’ex kaiser o del suo nobile figliuolo (in realtà l’ex kaiser come in politica così ìn musica era tanto ottocentesco da preferire Leonca­ vallo quand’era diventato bolso sul serio, a Richard Strauss). In Germania del resto si è valorizzata al tempo della fu alleanza con noi, molta musica italiana che nel nostro paese — pur essendo ottocentesca — andava poco: per esempio il Falstaff. Il libretto scritto da un tedèscofilo della forza, mancata sia pure, di Arrigo Boito, piu che la musica sinceramente italiana di Verdi quantunque vec­ chio (ma pur sempre piu giovane, nonostante alcune chiazze d’abbiosciamento senile, di tanti istericamente giovani moderni4), ebbe il potere — forse c’entrava di mez­ zo anche l’anglosassone Shakespeare - di fare un bel suc­ cesso in Germania. Piacque perfino a Strauss che come i tedeschi da Goethe in qua aspira disperatamente o mor­ bosamente alla meridionalità. Ora Respighi, dopo il suc­ cesso delle opere comiche dell’italo-veneto-mozartiano Wolf Ferrari, del Rosenkavalier e della parte comica delYArianna a Nassa, ha voluto lui ritentare il teatro (l’ave­ va già tentato con altre tre opere, una ancora, credo, da rappresentarsi) e l’ha voluto ritentare con una commedia che ai culturali tedeschi, abituati ai mattoni di Gold­ mark 5 e di Pfitzner ‘, doveva piacere ed è piaciuta. Così si è rifatto dei due non grandi successi bolognesi ormai lon­ tani ottenuti con Re Enzo7 e con Semirama quest’ultima è straussiana quanto volete, ma qua è là ispirata. L’opera, ultima mentre scrivo, cui alludo è il Belfagor. Ma se di riflesso, come pure in Semirama (Re Enzo non lo cono­ sco), vi sono scintilli! versicolori e funambolismi orche­ strali su temi molto meno consistenti di quelli di Semira­ ma, in Belfagor non c’è che un brio affaticato che si regge solo sulla trovata (culturale) del libretto cinquecentescomorsellianoUn tal teatro, in realtà, suona a vuoto. Re­ spighi ha saputo scegliere uno di quei libretti che oggi sono in voga — perfino con piu o meno gesuitici rapporti col cattolicismo — e ci ha messo intorno, sopra, dentro,

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una salsa dalle mille spezie. Eh! che Dio lo benedica! La­ sciamolo in pace. C’è spesso dell’humour e della sentimen­ talità in questa sua opera ed è bene che faccia con modera­ ta trionfalita il giro dei teatri tedeschi. Hermes cattolico ne è contentissimo, e un giorno o l’altro chi sa che Belfagor arcidiavolo reverendissimo non ritorni onusto di allo­ ri teutoni (o per lo meno dai teutoni ordinati, in Italia) nella Roma che tutti gli stili accoglie perché è matrice e riassorbitrice di tutti gli stili.

XXXIV.

Franco Alfano

Ben altra ansia di superarsi, di rinnovarsi, di ritrovarsi si comunica dalla musica di Franco Alfano. Egli è infatti un convertito. Intendiamoci come: musicalmente. Da pri­ ma tenne alto all’estero, in Germania soprattutto, le idea­ lità naturalistiche della «giovane scuola italiana». Fece in­ somma l’italiano, anzi il meridionale, all’estero. L’opera che piu gli dette nome fu Resurrezione ', tolta dal roman­ zo di Tolstoi. Un altro lavoro che ebbe esito straordina­ rio fu il ballet su soggetto partenopeo (egli è napoletano) eseguito a Parigi centosessanta sere di seguito: Napoli*. Ma, di natura ricca e complessa e soprattutto inconten­ tabile, si sentì attratto dalla musica sinfonico-dionisiaca: leggi ottocentesca tedesca. Infatti egli è un sinfonista. La sua conversione del resto era implicita nei suoi studi com­ piuti, se non avviati, al Conservatorio di Lipsia. Da tutto questo travaglio di tendenze disparate: canto all’italiana — sinfonismo tedesco — epigonismo dionisiaco wagneria­ no, sono nate tre opere (non conosco II principe Zilak*)-, L’ombra di Don Giovanni* e La leggenda di Sakùntala5, e ultimamente Madonna Imperia *, nelle quali l’ombra esa­ gitata di Dionisos sfuggente si confonde spesso con l’om­ bra agile e audace di Hermes, il dio novecentesco della musica. Franco Alfano è ormai decisamente in musica un tede­ scofilo. Il suo culturale Dionisos wagneriano (in lotta con l’ambiguo Hermes) ha sì ancora lampi d’italianità de­ mocratica; ma in fondo i due culti sono così nemici? Non direi. Certo fa impressione curiosa in tanta raffinatezza

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strumentale (nella sua penultima opera ci sono diafane tracce perfino di Debussy e di Ravel alla maniera che li potrebbe sentire un tedesco, ossia nella Leggenda di Sakuntala), udir riaffiorare all’improvviso banalità da epi­ gone ottocentesco italiano come la volgarissima frase «La vita in ebbrezza infinita, piu oltre più oltre nel se­ gno» (il ritmo dei versi è boitiano, la musica è vocalmente mascagnano-pucciniana). Ma vena d’italianità in mezzo a foreste nordiche affaticate da uno scirocco da palcoscenico si sente - e si benedice -, nella melodia delicatissima e ae­ rea «O nuvola leggera, che vaghi pei cieli, sul mar». Qui tutto diviene lievità armonia soavità — peccato che il rit­ mo dell’accompagnamento sia il solito ^^Incantesimo del venerdì santo nel Parsifal e l’italiano sul tedesco (o tedescofilo) trionfa specialmente quando il coro lontano, come nei vecchi pezzi concertati di Bellini, corona il bel pezzo con quell’ampiezza di battute e quindi di note tenu­ te, in generale precedute da appoggiature acciaccature rit­ mo di gruppetti in valore> che sono una delle caratteristi­ che di questo musicista straordinariamente dotto e che — anche lui come tanti altri oggi (per esempio il Pizzetti) — ripristina forme e modi di stile vecchissimi e un tem­ po comunissimi facendoli apparire completamente nuovi. Nulla infatti di più ingegnoso, in un tempo in cui si ama­ no gli scossoni, i pizzicotti eccitanti e magari i pugni nel­ lo stomaco, di queste vibranti note d’abbellimento conce­ pite e scritte in valore. (Un esempio celebre ce n’era già nella prima pagina della Cathedrale engloutie di De­ bussy). Esse scattano d’improvviso, nel secolo del Grand Guignol e della cocaina scuotono i nervi e per le voci e gli strumenti - le parti insomma — subito dopo o si riposa­ no in blandizie di battute indolenti o continuano la loro polifonia ben tessuta e nutritissima. Teatri piccoli? No: per Alfano non ci vogliono; nono­ stante che il suo più bel successo (quello di Madonna Im­ peria) l’abbia avuto in un teatro piccolo. Si sa che io fo una crociata per convincere i musicisti moderni italiani a disertare la Scala e rassegnarsi all’aristocrazia snobistica dei teatri piccoli, ma la sua orchestra è parossistica e de­

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[il nuovo dio della musica]

mocratica come quella — mutatis mutandis — di Strauss. Dionisos in lui rigurgita ancora, ma l’odor di mosto che tramanda fa sentire che le viti sono venute su con tutti gli intrugli della chimica moderna. Se mai, teatri raccolti, attenti, preparati da iniziazioni di vario genere, come del resto accadeva per il grande idolo d’Alfano (almeno di due, quattro o cinque anni fa) — Riccardo Wagner. Quello che importa è notare in questa natura composi­ ta e combattuta le pagine oneste di splendido colorito or­ chestrale. Io credo che ci sia una specie di «fantasia tecni­ ca», cerebrale quanto volete ma che ci ha dato a volte le più belle combinazioni stilistiche dei cosiddetti classici. Il fenomeno si sta ripresentando anche oggi che novecentescamente a Dionisos succede Hermes, nonostante sia troppo indaffarato per scancellare del tutto le tracce ro­ mantiche delle sbornie dionisiache. Bisogna perdonargli — è il dio della rapidità e dei ripieghi. Per tornare ad Alfa­ no, in quanto colorista credo che in Italia nessuno sappia orchestrare — s’intende in direzione wagneriano-straussiana — così piccantemente come lui. Nella sua orchestra irideggia la gola dei colombi, i luccicori versicolori della con­ chiglia madreperlacea che si trova sulla riva del mare. Peccato che, accostando all’orecchio — dell’anima — que­ sta tortile conchiglia, essa ci dà solo il rombo del mare sinfonico, ma il mare, il mare vero, è ormai una eco. Gli è per ciò che di questo onesto appassionato vibran­ te musicista sono dal gran pubblico sconosciute pagine come il voluttuoso second’atto de\L Ombra di Don Gio­ vanni - o momento meraviglioso su ritmo quinario d’ha­ banera1 . —, la prima e la terza delle Liriche su parole di Rabindranath Tagore ’, il primo tempo (come strumenta­ zione) e l’adagio del Quartetto ‘ (anche come «idee» musi­ cali), certe parti della Sonata per violino ’, un po’ enfati­ ca, se si vuole, e dionisiaca — alla Permeilo ”—e gran parte di Sakuntala. (D’Imperia non posso ancora parlare). Non il finale di Sakuntala. Wagner riprese e cantò i grandi aspri miti dei «Nibelungi», sia pure dionisiacamen­ te e cioè avanti ancora che di per se stessa ci fosse stata un’epica moderna che cantasse le enormi barbare figure

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di Sigfrido, di Brunilde, di Siglinda, di Sigmundo, degli eroi, degli dèi e dei pigmei tedeschi — si sa come nella riconcezione mitologica e soggettiva wagneriana riposi un fondo teologico meno protestante di quel che non si creda (ecco un bello studio da fare per chi sappia ficcar lo viso a fondo nelle opere d’arte e perfino in ciò che si chiama comunemente musica). Alfano ha voluto fare qual­ cosa di quello che tentò di fare sulla traccia di Wagner Filippo Pedrell11 per le origini epiche della Spagna — an­ che se l’unica cosa bella che ne rimane non è sua: è un portentoso mottetto del Victoria interpolato nella trilo­ gia I Pirenei Niente di meno Franco Alfano ha voluto scavalcar tutti e cantare le origini della razza ariana (secon­ do alcuni scienziati, tedeschi e italiani sono ariani; così cantava anche Carducci «I grandi Aria padri»). Ed è an­ dato a finire col prendere il suo soggetto da un dramma­ turgo indiano (Kalidasa), nel qual soggetto — che pare già volesse trattare anche l’idolo d’Alfano, Riccardo Wagner — codesto tal drammaturgo indiano, che toglieva, come già Eschilo, Sofocle, Euripide per l’epica omerica, i suoi soggetti dalla epica italiana — quella piu bella, quella del «Mahabarata» - scrisse un dramma sesquipedale, spro­ porzionato come tutte le cose indiane, in cui era cantata la gesta di Sakùntala e del bel re che andando a caccia la doveva far madre di tutta la suddetta stirpe ariana e dira­ mazioni. Ognun vede come per Alfano in quanto a Sakùntala, a parte lo spasimo cerebrale del musicista, si tratti ormai d’una rifrittura ottocentesca della smania scozzese-franco-tedesca di andare a scavistolare origini, ar­ cheologie ed atavismi che interessano appena un piccolo nucleo di iniziati alla filologia. Per Wagner la cosa fu di­ versa — ma il suo gran fiato di re barbaro degenerato in compositore d’opere era diverso. Invece il peana con cui Alfano termina Sakùntala si basa su di un temino miseruccio anzi che no, che potrebbe essere stato in origine debussista tanta è la sua diafana arcaicità debolina; oh, è vero, una bella zona d’accordi mistici ma finisce per sbottare in uno degli - si spera - ultimi, anzi postremi finaloni ro­ boanti con cui l’ottocentesco Dionisos si era messo dema-

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[il NUOVO DIO DELLA MUSICA]

gogicamente a sbalordire le masse democratiche — finaloni uso fine del prologo di Mefistofele e Inno al Sole mascagnano. Parola d’onore! era più simpatica, a parte la inge­ nuità della strumentazione, la danza dionisiaca dell’ylWeluia nel finale della Resurrezione di Lazzaro di Don Loren­ zo Perosi.

XXXV.

La torre di Babele

Abbiamo visto assieme Pizzetti e Malipiero, Wolf Fer­ rari — abbiamo visto a fianco di Ottorino Respighi Fran­ co Alfano —, abbiamo visto tutti i più strani téte-à-tète, i più inopinati cotés-à-cotés, le più strane combinazioni. Per la mia modesta fatica resta ferma l’idea che ho già detta, semplice come l’uovo di Colombo: che questi nove­ centisti sono ispirati da un dio bizzarro e volubile: il dio Hermes. Oh il nostro ebbro Dionisos è morto e ben mor­ to. Aveva del fiato, ma era esagerato e le folle lo seguiva­ no freneticamente. Il gran vento romantico le trascinava verso un sogno irrealizzabile. Hermes forse le trascina an­ che lui: ma gli specchietti con cui le attira sono in realtà fuochi di paglia: il resultato è che la fantasia vagola per labirinti impervi e non si sa quale pietosa Arianna ridareb­ be il filo perché Teseo possa rinvenire la via per tradire la stessa Arianna e piantarla acciocché a Nasso avesse a tro­ varla Dionisos per la felicità sua e per la infelicità di Fe­ dra. Ma tutto ciò non ha a che vedere che di straforo con il temino di questo capitoletto — l’ultimo della terza par­ te di questo libro. Cioè intendiamo dire che la confusione è al colmo: ognuno vuol far da sé e il resultato è che occorre che tutti questi seguaci di Hermes si rassegnino a far eseguire la loro torturata musica in teatri appositi per ciascuno. Stra­ no. In un’epoca in cui le «masse» si amalgamano miracolo­ samente come le madrepore e la specie trionfa, l’individuo bizandneggia, si distacca dal reale, crea piccole camarille, emana illusioni che affatturano gruppetti di altri indivi­ dui non meno distaccati dalla realtà. E Hermes ride di questo frantumamento, di questo atomismo estetico che

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[il nuovo dio della musica]

è un riverbero di un atomismo intellettuale tragico, per­ ché Hermes è perfido — ah! ben piu perfido di Dionisos che aveva, come si sa, se non altro, il cor cordium. E il cuore (ce l’insegna Carducci) è un muscolo pericolosissi­ mo — anzi, sempre secondo il Carducci, vile. Il fatto sta che le «masse» cercano come nel Medioevo un costruttore di templi — per tutti, di color guelfo si direbbe, per attenersi all’immagine medievale. La musica d’oggi non dà alle masse che «frammenti» personali sem­ pre piu individualistici. Nel corso di questa terza parte ho scelto le individualità piu, non oso dire importanti, almeno piu clamorose. Ma di quanti altri vorrei parlare! Consiglio di entrare nel labirinto. Incontrerete musicisti che vi si aggirano alla ricerca del filo d’Arianna, ma il filo non c’è piu. Il filo ci sarebbe e un filo d’oro, ma non lo può dare Arianna, non è filo pagano. Di questo nuovo o antichissimo filo - se la Provvidenza m’assisterà — spero parlare nella quarta parte del libro. Citare nomi, opere? Vittadini1, Frazzi2, Castelnuovo’, Pedrollo4, Veretti5, ecceterissima. Ma non vorrei far tor­ to a nessuno, e chissà quanti ce ne sarebbero da citare. Tutti però disorientati, figli e padri di tendenze affaticate e contraddittorie. Il resultato è lo stesso e la specie chie­ de musica «per tutti», mentre l’individuo la dà per po­ chi, per pochissimi, a volte per sé solo. Dionisos è tornato nell’Olimpo — e a lui che gliene importa? Hermes giuoca sempre con tutto e con tutti, come quando trafugò e na­ scose i famosi buoi, e chi sa di mitologia si può divertire, di lui, a ricordare altri scherzetti del genere, Oggi, nella vecchia irrequieta Europa, si è divertito ad inventare un nuovo giuochetto, in musica — in arte almeno. Cioè que­ sto che per ora parrà sibillino: mentre tutti cercano di farsi «uno solo», una compagine madreporacea, egli giuo­ ca con ^ispirazione individuale, la quale già Dionisos, ren­ dendola di troppo ebbra, aveva cominciato a far tendere al solipsismo. Ma quello che importa oggi non è l’ispirazione da qual­ che cosa - ma -1’aspirazione a qualche cosa. Mi spiegherò meglio nella parte quarta.

Patte quarta Dall’arte alla religione

I.

L’individuo erroneo in lotta con il rigoglio della specie

Mai veramente tragedia piu affaticata e sanguinante fu agita sulle scene dell’Europa tutta, qual è quella cui assi­ stiamo e a cui prendiamo una parte a volte dolorosissi­ ma. Ho molto calcato sul tema dell’acutizzazione della sensibilità a causa della sopravalutazione dell’individuo. Vi sono anzi stati dei mistici [...].

Note

Capitolo primo p. io

1 II 14 febbraio 1915 Bastianelli divenne titolare della rubrica mu­ sicale sulla «Nazione», incarico che mantenne per quattro anni. Quindi passò al «Resto del Carlino» (1919-24) dove aveva già saltuariamente collaborato. Ricordiamo, fra gli altri, l’articolo Italianità musicale, 4 dicembre 1913 (già comparso sulla «Na­ zione», 21 ottobre 1915 col titolo Opere italiane) in cui auspica­ va la fondazione di un teatro stabile per la diffusione dell’opera italiana del Settecento. Capitolo secondo

1 Da questo capitolo ha inizio la prima parte del volume intitolata La crisi della critica, come rileviamo da una lettera a P. Caramel­ li del 14 novembre 1925: «Scrivo infatti nella Ia sezione del nuo­ vo volume intitolato Crisi della critica', "si tende almeno per ora...” » (cfr. sotto cap. ni, nota 1). 2 Viene rielaborato il concetto hegeliano di negazione della negati­ vità. 3 « I critici erano e sono talvolta dogmatici come sacerdoti, o sono come graziosamente scrive anche a proposito di me il carissimo amico Pratella, dei " padri eterni ” » (g. bastianelli, Il gusto e la cultura musicale in Italia, nel «Resto del Carlino», 12 maggio 1922). 13 4 Più avanti parlerà esplicitamente di feticismo per l’oggetto os­ servato.

12

Capitolo terzo

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1 Bastianelli riporta qui il passo della lettera citata a P. Caramelli a cominciare dalle parole «si tende, almeno per ora...» fino a «fede cattolica». La missiva continua cosi: «Nessuno (o almeno pochi) in Italia è stato forse come me cosi persuaso soggettivista nel pen­ siero e individualista nella pratica - ciò mi ha trascinato fino al­ l’atto più egoistico che ci sia: l’attentato alla mia stessa vita. Dopo esserci creduti padroni assoluti dell’universo col pensiero

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- universalità del pensiero stesso che ha immanente tutta la Real­ tà (ma è poi la vera realtà?) - indirettamente può benissimo sem­ brare atto di vita necessario e razionale anche la negazione vio­ lenta della vita. Giacché per mia dolorosa esperienza io so che se soggettivismo idealistico non coincide affatto in teoria con in­ dividualismo - in pratica è quasi impossibile che tale forma di soggettivismo (ripeto, padrone dispotico della realtà e dellTo in quanto esso esiste in ragione del non-Io) non finisca per dege­ nerare in individualismo e del piu solipsistico e catastrofico che ci sia». Il brano è un punto di riferimento di grande interesse per capire Fattuale posizione di Bastianelli e la sua lotta - del tutto parti­ colare, come vedremo - contro l’«individualismo». 17 2 «Da molti e molti anni non ebbi altra fede, almeno di quelle da esibire come un’etichetta, che l’idealismo hegeliano Dopo il compimento di un libro a base idealistica (L'Opera cit.), ma di conclusioni assolutamente musicali [...], per ben tre anni avevo quasi del tutto taciuto [...]. Rifacendo capolino ai balconi di quel­ lo spassoso paese che è l’Italia, ho trovato un sacco di cose cam­ biate. [...]. Insomma all’idealismo prima-guerra sono spuntate due evidentissime corna le quali, naturalmente, gliele hanno fatte gli idealisti piu arrabbiati di ieri. E sono (le corna, non gli idealisti), lo dico subito senza piu tenere sulla corda il lettore con i miei preamboli e le mie parentesi: il Relativismo e il Misticismo» (g. bastianelli, La fermentazione del tino, nel «Resto del Carli­ no», 26 settembre 1922). 19 3 Intende De Robertis. A proposito del saggio in questione Bastia­ nelli cosi ne parlava a Emilio Cecchi in una lettera del 1909: «Per questo Serra è prezioso. Un analista sottile, come egli è sta­ to del Pascoli, non l’avremo forse piu. Egli difetta in questo: 1) Vede le piu brutte poesie un po’ sempre con gli occhi abbacinati dalla gran luce delle belle; 2) Non sa superare la gioia di dire ciò che prova, palpitando all’unisono col Pascoli, per porre quella personalità nel momento storico in cui s’è svolta. Ma i critici sin­ ceri come il Serra son quasi rari come i poeti». Bastianelli, che aveva preso a un certo punto le debite distanze dal Croce, tutta­ via mal tollerava la «gazzarra» anticrociana ritenendo che tutti, bene o male, erano debitori del Croce col quale bisognava fare i conti: «Ora, secondo il mio debole parere, com’era piuttosto volgare quindici anni fa (ed oggi sarebbe anche peggio) ostinarsi a cercare in Croce un altro duce di coscienze al cui soldo si po­ tesse comodamente passare onde non rimanere in perpetuo o dannunziani o in disperata ricerca di qualche estero o arcaico du­ ce di coscienze, così è piuttosto volgare imbrancarsi con chi oggi continua la gazzarra anticrociana protestando ad ogni piè sospin­ to contro il passatismo del filosofo napoletano, la alemannità del­ la sua filosofia e, soprattutto, la sua mancanza di sensibilità este­ tica» (g. bastianelli, Ragazzate letterarie, nel «Resto del Car­ lino», 29 maggio 1919).

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Capitolo quarto 22

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1 Quando nel 1915 comparve il primo volume della Storia della letteratura inglese nel secolo xix di Emilio Cecchi, Bastianelli de­ finiva il lavoro del suo ex compagno d’università uno « splendido saggio» e «primo esperimento a grandi proporzioni di quella no­ vissima attività italiana che è la critica filosofica» (opposta alla critica storica del D’Ovidio, D’Ancona, Rajna, Comparetti) alli­ neata sulle posizioni di Borgese, Serra, Torrefranca e De Robertis. (g. bastianelli, Una storia italiana della letteratura inglese, in «La Nazione», 29 ottobre 1915). Oggi tuttavia Bastianelli, sulla base delle nuove conquiste filosofiche compiute in direzione dell’attualismo gentiliano con implicazioni relativiste e neoposi­ tiviste di marca spenceriana, sente che il lavoro manca di un’approfondita indagine «storica». 2 Tuttavia pochi anni prima contro il « cataclisma di tutte le forme letterarie» opponeva l’articolo di giornale giudicandolo un «ge­ nere letterario veramente moderno, originile e caratteristico dei nostri tempi» (g. bastianelli, L’articolo, nel «Resto del Car­ lino», 8 dicembre 1921).

Capitolo quinto 26

1 Quando poi non era lui a prendersi del parruccone come scher­ zosamente racconta: «Quante volte nei centri musicali di piu ar­ rabbiato (e a suo modo sacrosanto) modernismo - Milano, Bolo­ gna, Firenze, Roma - non mi è accaduto di passare io, ammirato­ re e giustifìcatore di Strawinsky, Scriabine, Debussy [...], Schon­ berg e Casella, quante volte, dico, non mi è accaduto di passar da parruccone (io! !)» (g. bastianelli, Il gusto e la cultura cit.). So­ prattutto Bastianelli si era alienato le simpatie (se mai ce ne furo­ no) dei futuristi malgrado i suoi brillanti articoli su «Lacerba» in favore di certe avanguardie. Capitolo sesto

1 È una lettera inviata dallo stesso Bastianelli a Baccio Bacci. 2 Purtroppo non è stato possibile reperire il nome di questo «ca­ rissimo confratello». «La Nazione», invece, dedicò ampio spazio al «concerto d’addio» offerto da Bastianelli prima di partire per le armi. 31 3 «Egli è forse l’uomo di tutta Europa che oggi abbia, dopo Strauss, sia pure a forza di infiniti calcoli e di scarsissimi lampi fantastici, spinto piu innanzi la tecnica (specialmente armonica) della musica». E, proprio per questo, meritava di essere studiato specialmente nei Conservatori: «Le buone parrucche degli Isti­ tuti musicali coi loro relativi aborti di scolari eternamente addie­ tro alle vere correnti musicali e eternamente nemici della piu eie-

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mentare cultura [...], non potranno mai nemmeno sognare accan­ to a quali tesori di scoperte tonali e ritmiche e contrappuntistiche e orchestrali essi vivono ignorando Debussy» (g. bastianelli, Debussy, in «La Voce», 18 marzo 1909). Piu precisamente chia­ rirà il suo punto di vista su Debussy nella breve Nota («esclusi­ vamente per musicisti! ») posta al termine del volume Sull’Ope­ ra: «Ma il musicista che più d’ogni altro ci offre inquietanti pun­ ti interrogativi è Claude Debussy. Egli è apparso un formidabile innovatore armonico, ma a conti fatti sono persuaso che egli sia al contrario il più formidabile deviatore e corruttore della musica che si possa immaginare. [...]. Sono un negatore del genio di De­ bussy? No. Soltanto lo scancello dal novero dei musicisti puri, puri stilisticamente. Appartiene alla schiera dei poeti musicali, Liszt, Wagner, Berlioz e oggi Strauss, Strawinsky, Pizzetti» (id., Il linguaggio armonico in Wagner e Debussy, in L’Opera cit., pp. 163-65). 4 Lasciata «all’ignoranza dei critici musicali la definizione troppo comoda di epigono di Wagner», Bastianelli, che aveva definito «complicatissima» la posizione di Richard Strauss, si proponeva di scoprirne e tracciarne i limiti: «In realtà, dentro questi limiti [...], nessuno più di me sa gustare certi aspetti dell’ingegno musi­ cale di Strauss. [...]. Ciò non toglie che nel suo tutto l’opera straussiana non risulti sbagliata e doppiamente. Prima sbagliata esteticamente; in secondo luogo, perché il contenuto a cui s’ispira non ha ormai che una ragione commerciale d’essere sfruttato» (id., Riccardo Strauss, in «La Voce», 18 febbraio 1909). Ed an­ cora: «Che m’importa se con violenta ferocia barbarica scrosci la compagine clangente dell’orchestra militarmente perfetta del­ lo Strauss? Mi si citi un solo tema dello Strauss che dica qual­ cosa di vivo, di intimo a lui, di profondo [...], e che non sia altro che la traduzione d’un’immagine letteraria in un gesto musicale che come tutti i gesti, compresi quelli dannunziani, sono puro atteggiamento sorretto da radici fittizie?» (id., Il tema musica­ le, in «La Nuova Musica», 5-20 gennaio 1911). 5 «Lo Schumann non oltrepassò mai lo stato dell’uomo che, chiu­ so in se stesso, non sa vedere altro che il suo male, ma invece di cercar di varcarlo, di goderlo, magari, anche negli altri, vi si culla solitariamente e melanconicamente all’infinito» (g. bastianelli, Roberto Schumann, in «Le Cronache Letterarie», 21 agosto 1910). Di qui la ripetizione di un identico stato d’animo, l’idea fissa tematica, appunto, che Bastianelli aveva chiamato in una let­ tera a Cecchi del 1907 (in «Circoli» cit., pp. 135-36) la cosciente pazzia «della sua tragica diversità dagli altri uomini». Ma questo non lo faceva essere «un romantico dei volgari, né un superuomo folle. I suoi non son frammenti (come un tempo avevo giudicato, erroneamente attratto dal paragone col Nietzsche); ma opere d’arte compiute, anche se brevi». Cosi nelle bozze: «[...] coi loro tic di accenti tipici, con le loro nevrastenie armoniche o coloristi­ che - Debussy ha finito per essere un nevrastenico dell’armonia, Strauss del colore strumentale -; con le loro idiosincrasie dina­ miche - in Schumann la ritmica si risolveva [...].

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6 È evidente l’allusione all’episodio bolognese causato, come si sa, dalla sua violenta critica alla Nona di Beethoven diretta da Guarnieri. 33 7 È significativa, per capire le condizioni psicologiche di Bastianelli in questo periodo, una lettera del 17 dicembre 1926 a Bacci: «Se i miei nervi sono scongegnati, il mio specchio interiore è ancora intatto. Vero è che quel che vi si riflette assume spesso deforma­ zioni isteriche. [...]. Ma ricostruiamo fin dove è possibile la visio­ ne di stanotte. Era irta di simboli. Le zanzare si trasformavano in giornalisti. [...]. Non riesco a lavorare, a fissare la mia attenzione su qualcosa. Sono disfatto. Bisogna aspettare le soluzioni della sorte. Non c’è da fare altro. Immobilità e silenzio».

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Capitolo settimo

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1 Franco Vittadini (1884-1948). Compositore e direttore d’orche­ stra, Anima allegra fu il suo primo lavoro teatrale su libretto di G. Adami tratto dai fratelli Quintero e rappresentato a Roma nel 1921. 2 Fedra, dal celebre lavoro di D’Annunzio, fu rappresentata alla Scala di Milano il 20 marzo 1915 sotto la direzione di Gino Marinuzzi. Erano gli anni del «sodalizio» con Bastianelli che portò alla fondazione di «Dissonanza» (1914). Parallelamente Pizzet­ ti teorizzava i principi del rapporto musica-parola fissandoli nel volumetto La musica dei Greci (1914). Via via che il lavoro pro­ cedeva Pizzetti lo passava al pianoforte con Bastianelli che scrive­ va: «Sento quasi una primavera musicale intorno a me. [...]. Nel­ la segregazione in cui il destino mi ha fatto vivere fìn’ora, è stata solo l’opera del Pizzetti che ho potuto vedere con maggiore com­ pletezza. [Pizzetti] è soprattutto un prosatore, un parlatore mu­ sicale. In lui non esistono scatti passionali, voli pindarici; [...] talvolta lo sentiamo troppo prosatore, troppo antistrofico} [...] per questo il Pizzetti riesce straordinariamente nella musica ver­ bale, nella musica fusa con la parola (La crisi cit., pp. 182-85). Nell’imminenza della rappresentazione dedicherà all’avvenimen­ to un lungo articolo su «Musica» (In attesa della «Fedra» di DfAnnunzio e Pizzetti alla Scala, 15 marzo 1915) e all’indomani della «prima» un intervento altrettanto denso sul «Marzocco» (Le bellezze della «Fedra» di Ildebrando Pizzetti, 28 marzo 1915). 3 Bastianelli era legato a Malipiero da una profonda stima e ammirazione per l’opera di svecchiamento da questi compiuta nella vi­ ta musicale italiana. Troviamo inoltre più di una convergenza sul piano delle scelte estetiche. Basterebbe pensare al comune inte­ resse per la musica dei «primitivi» e per l’arte di Monteverdi. I lavori di Malipiero improntati per lo più alla massima semplicità e concisione, lontani comunque dai clamori del melodramma ot­ tocentesco, vennero considerati da Bastianelli fra i pochi che, nello squallido panorama del decadentismo europeo, sapessero indicare una via di autentica rinascita per la musica italiana. Si spiega, così, come Bastianelli fosse rimasto colpito dal conciso

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ed essenziale ductus espressivo delle Sette canzoni che con l’ot­ tava - Orfeo - chiudevano il ciclo ddl’Orfeide (1919-22), iniziato con la Morte delle maschere. Bastianelli conosceva probabilmen­ te la partitura fin dal 1922, anno in cui comparve per le edizioni Chester di Londra, ma non ne parlerà che nel febbraio del 1927 su «Soiaria», rimaneggiando il cap. xxvii del Nuovo dio della musica. Ciò fa supporre che avesse assistito alla esecuzione delle Sette canzoni al «Teatro di Torino» il 18 maggio 1926 sotto la direzione di Vittorio Gui. 36 4 Nel cap. xxv, p. 136, parlerà di Turandot come di una «pretta derivazione moussorgskiana». Ancora su Musorgskij cfr. p. 206, cap. xxiv, nota 2. 5 Cfr. p. 206, cap. xxiv, nota 4. 6 «Per giudicare l’artista non è colpa mia se debbo inquadrarlo in quel vasto movimento di idee e di tendenze estetiche che fu il verismo e di cui egli fu seguace convinto fino alla morte. Dicono che tutti gli ismi si spiegano male al pubblico, e, soprattutto, che spiegano male al pubblico l’opera su cui tali ismi sono messi come etichetta [...]. Il Leoncavallo fu seguace anche lui del veri­ smo zoliano, ma ebbe, ed è ovvio dirlo, la sua personalità. [...]. Quello che è certo si è che, verismo o non verismo, il suo piu pieno e caldo momento d’ispirazione il maestro napoletano lo raggiunse nei Pagliacci» (g. bastianelli, La morte di Ruggero Leoncavallo, nel «Resto del Carlino», io agosto 1919). 7 Dall’omonima tragedia di Sem Benelli, fu rappresentata alla Sca­ la di Milano il 20 dicembre 1924 sotto la direzione di Toscanini. Capitolo ottavo

1 «Ebbene, sarà un’esagerazione, ma [...] lasciatemi nella illusione che II Barbiere sia un po’ tutto il Bello fresco e inestinguibile, il mattino che sorge limpido e innocente, sia la perfezione delle per­ fezioni. So benissimo di contraddire a Benedetto Croce, a Adria­ no Tilgher e... a me stesso. So di dirla grossa. Ma io bevo questa musica alata come un elixir di pura giovinezza e, dopo, mi sento rinnovato e nessuna opera d’arte del teatro musicale arriva a dar­ mi tanta felicità gioiosa» (g._ bastianelli, Il Barbiere di Siviglia, nel «Resto del Carlino», 13 giugno 1923). 39 2 Di fronte alla divisione della critica in coloro che sostenevano il valore delle prime opere di Verdi e in quelli, invece, che le deni­ gravano perché «triviali», «plebee» in favore dei suoi ultimi la­ vori, Bastianelli replicava: «Ora chi è che ha ragione delle due schiere di critici, forse i primi, forse i secondi, forse una terza schiera di critici irriflessi, piu istintivi accettatoti o rigettatori che critici, voglio dire il pubblico? Penso che nessuno dei tre abbia ragione [...] giacché la linea di svolgimento dell’opera verdiana, con tutte le sue piu varie vicende e anche contraddizioni, somi­ glia proprio a un’unica strada montanina qua e là bagnata di poz­ zanghere anche fangose, ma tutta sparsa di fiori spontanei, selva-

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tic! Non vi sono che gli amanti dei quadretti di genere che ne scelgono questo o quel solo tratto, o gli amanti dei panorami definitivi ed ufficiali che ne prediligono fl solo sbocco sulla vetta che la conclude. In realtà tutta la strada ha la sua ragion d’es­ sere [...] e tutta è degna di condurci alla meta, ossia al Falstaff» (g. bastianelli, Verdi vecchio 0 Verdi nuovo?, in Saggi cit., pp. 198-202). 40 3 Le ricerche del Torrefranca sul Settecento confluirono nel volu­ me Le origini italiane del Romanticismo musicale (Bocca, Torino 1930) dopo una lunga gestazione dovuta anche alla pausa della guerra. Bastianelli aveva definito Fausto Torrefranca il creatore della critica musicale e ne aveva intuito il valore fin dalla com­ parsa della Vita musicale cit., che recensiva in due tempi sulla «Nuova Musica» (5 marzo e 5 aprile 1911): «A me sembra che del pettegolo furor critico-letterarieggiante che la povera Esteti­ ca crociana ha avuto la disgrazia di procurarci, ben ci compensi questo caldissimo libro d’un giovane spirito, che, generato dal pensiero crociano, non vuol rimanere a scroccare e a sperperare le ricchezze paterne, ma con pochi altri animosi, osa staccarsi dal padre e continuarne originalmente l’impresa gloriosa». Le pole­ miche tuttavia non mancarono. A parte la divergenza d’opinione sul valore della musica del Settecento, le discussioni toccarono anche il melodramma all’indomani della pubblicazione del Puc­ cini e Vopera internazionale (Torino 1912), volume giudicato «fremebondo» dal Bastianelli. 4 Cfr. p. 203, cap. xxni, nota 1. 41 5 Girolamo Cavazzoni, musica sacra, ricercari e canzoni, a cura di G. Benvenuti, Milano 1919. Collana «I Classici della musica ita­ liana», VI (Bastianelli lo recensiva sul «Resto del Carlino» del 3 ottobre 1919). Oltre ai continui riferimenti sull’opera del Cavaz­ zoni contenuti nella Crisi musicale, ricordiamo in particolare l’ar­ ticolo Girolamo Cavazzoni in «Il Marzocco», 16 marzo 1913 (in­ cluso in Saggi cit., pp. 117-22) dove sosteneva che «il Cavazzoni fu uno dei primi non certo a portare sull’organo, ma certo a per­ fezionare [i] diversi tipi di fugato di stile vocale per organo, chia­ mati non ancora fughe, sibbene ricercari, canzoni e inni». Tali osservazioni anticipano con sorprendente chiarezza certe conclu­ sioni della critica piu recente. Scrive infatti Oscar Mischiati nella prefazione ai due volumi Girolamo Cavazzoni, Orgelwerke, Ma­ gonza 1959-61: «Senza voler entrare in merito alle origini del ri­ cercare organistico [...], si può dire che il ricercare di Girolamo presenta analogie con la forma del mottetto vocale polifonico; come questo, nasce dall’allineamento e dal concatenamento di piu sezioni svolgenti ciascuna in forma fugata un singolo elemento tematico. Ma se ne differenzia profondamente nella scrittura: i motivi ricevono ciascuno un trattamento imitativo piu esaurien­ te, assumendo un’importanza tematica vera e propria, e i transi­ tori momenti ad imitazione diventano autentiche sezioni fugate». Quell’unità tematica rilevata del resto anche dal Testi (La musi­ ca italiana nel Medioevo e nel Rinascimento, Bramante, Milano 1969, II, pp. 621-22) quando analizza il Recercar quarto, lo

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stesso che era stato preso in esame da Bastianelli (g. bastia­ nelli, Girolamo cit., p. 121). 41 6 Ricordiamo soprattutto gli articoli comparsi sulla «Nazione»: Gli artisti e la guerra (2 giugno 1915); La musica del momento (i° luglio 1915); La coltura italiana e la coltura francese (6 agosto 1915); La coltura italiana e la coltura tedesca (21 agosto 1915); La coltura italiana e la coltura europea (13 settembre 1915); La guerra e l'arte italiana (6 ottobre 1915). 7 In occasione di una ripresa degli Ugonotti diretti da Leopoldo Mugnone al Comunale di Bologna, Bastianelli diceva di sentire per l’opera di Meyerbeer «una curiosità grandissima mista a una certa simpatia» (Giacomo Meyerbeer, nel «Resto del Carlino», 7 novembre 1922). 8 Nel 1913 Bastianelli leggeva lo studio di André Pirro su Heinrich Schiitz, edito a Parigi nello stesso anno (g. bastianelli, Hein­ rich Schutz, in «Il Marzocco», 20 luglio 1913; poi incluso in Saggi cit., pp. 157-62). 9 Si veda, a questo proposito, La critica e Bach, in «La Voce», 24 luglio 1913, e Bach e Brescobaldi, in «La Nuova Musica», 25 luglio 1913 (inclusi in Saggi cit., pp. 136-42 e pp. 143-49). 43 10 La serie di saggi sulla «musica pura», che dovevano costituire la base di un più approfondito studio sull’argomento, peraltro mai portato a termine, uscirono su «La Critica Musicale» del 1922 e precisamente: Che cosa dobbiamo intendere per «musica pura» (pp. 1-7); Differenziazioni delle tre grandi zone stilistiche della «musica pura» europea, I: L'epoca dello stile strumentale misti­ co (pp. 33-40); L'epoca dello stile barocco (pp. 66-74); Il Ro­ manticismo e il Sinfonismo (pp. 93-103); Il tramonto della musi­ ca pura (pp. 209-16). 44 11 «[Mozart] il piccolo delizioso omettine dalla parrucca candida, dal codino infioccato, dal grazioso gracile volto di giovinetto aba­ tino, e dall’anima straordinariamente sottile arguta complessa precisa nitida, anima così musicale che, secondo un detto celebre, tutto in musica trasformava ciò che avvicinava. E ciò che egli av­ vicinava, anzi ciò in cui egli viveva immerso, era nientemeno che il formidabile contenuto del Settecento. [...]. Mozart che non fu certo un romantico, pure bevve dall’ambiente ideale che lo nu­ triva, quasi l’infanzia più gentile di questo grande momento uma­ no. [..,]. Questo perfettissimo artista dal contenuto deliziosamen­ te sereno, arguto, sorridente e d’una saggezza quasi direi ogni tanto turbata da una dolcissima sentimentalità, da un fremito lie­ vissimo di passione, del tutto ignorato da Haydn, ci deve essere vicino e fraterno» (g. bastianelli, Mozart e l'arte moderna, in «La Voce», 13 gennaio 1910; compreso nella raccolta La Voce, 1908-1916 cit. p. 141). Ma sia Haydn che Mozart «piegano la musica ad esprimere in forme conquistate dalla latinità qualcosa che non è affatto latino; e, cioè, la giovinezza del mondo teutone, meditabondo e sognatore, mistico e cavalleresco» (id., Le tre me­ tamorfosi della musica tedesca, in «Lacerba», 15 novembre 1914)-

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Capitolo nono 1 R. wagner, Die Kunst und die Revolution, in Gesammelte Scbriften und Dichtungen, a cura di H. von Wolzongen e R. Sternfeld, XII volumi, Lipsia 1911, vol. Ili; compreso in id., L'arte e la rivoluzione, trad. it. di M. Mangini, Guaraldi, Firenze 1973. Una precedente traduzione di G. Petrucci si trova inclusa in id., Arte e politica tedesca, Campiteli!, Foligno 1925. 48 2 La grandezza di Verdi consisteva per Bastianelli nella arcaicità del suo linguaggio, quasi un modello archetipo da rintracciare a monte della «travolgente fierezza» con la quale aderiva allo spi­ rito del Romanticismo. A questo proposito ed a conferma delle mutate opinioni di Bastianelli sul Romanticismo, troviamo scrit­ to in Verdi e la coscienza nazionale («Musica», 23 novembre 1913): «È inutile declamare, come oggi troppo spesso si fa, con­ tro fi romanticismo: in arte esso preferì all’equilibrio, alla misura e alla linea pacata, il ritmo brutale, il colore eccessivo, le antitesi troppo meccanicamente violente. Che c’importa? Romanticismo fu nuovo salto in avanti dell’umanità: fu progresso di dolore e di fede. E come faremo noi a negare che ne siamo tutti figli e con­ tinuatori? Giuseppe Verdi fu il nostro musicista romantico per eccellenza. Amò i ritmi eccitanti, la melodia passionalissima, il colore elementare e a volte infuriarne il popolo come il rosso pan­ no che sfrena il toro all’assalto; ed amò nella genesi psicologica del dramma, piu che i contrasti, le antitesi audaci e inebrianti. Fu il nuovo rappresentante di quella passionalità e impulsività italiana che nel Tintoretto aveva mutata la danza statuaria della plastica classica in un’orgia di movimento». 3 Nel 1913 dopo la «liberazione» del Parsifal dal vincolo di Bay­ reuth, Bastianelli aveva tenuto una conferenza sull’ultimo lavoro di Wagner, raccolta successivamente in un volumetto (Il Parsifal cit.).

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Capitolo decimo 50

1 L’inizio di questo capitolo corrisponde con alcune varianti a uno dei «frammenti» del Nuovo dio della musica pubblicati da M. omodeo donadoni, Scritti inediti cit., pp. 469-81, e precisamente a quello riportato a p. 480 che comincia con le parole «Ho detto che la critica idealistica...» Sul problema delle «varianti» rispet­ to al testo definitivo, mi ero soffermato in un breve scritto In­ troduzione a uno studio critico su «Il nuovo dio della musica», in «Chigiana», XXVIII, 1972, pp. 105-22. La Donadoni mi rim­ provera in G. bastianelli, La musica pura cit., p. 11, di non ave­ re tenuto conto che Bastianelli aveva l’abitudine di modificare in continuazione il contenuto dei suoi scritti. Per quanto mi riguar­ da avevo solo l’intenzione di mettere a raffronto i due brani fa­ cendo notare le differenze, a volte sostanziali, e questo per chia­ rire meglio il senso del discorso bastianelliano.

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50 2 II Nerone di Boito era stato rappresentato postumo alla Scala di Milano sotto la direzione di Toscanini il i° maggio 1924. Proba­ bilmente Bastianelli era presente allo spettacolo in quanto nel cap. xxv parla di «Nerone di dolorosa memoria». Di questo la­ voro - all’indomani della morte di Boito (io giugno 1918) - sem­ brava imminente la realizzazione scenica tanto che Bastianelli si affrettò a esaminarne il testo per il momento solo limitatamente al libretto (Il «Nerone» di Arrigo Boito, in «La Nazione», 25 giugno 1918); premesso che «finché non avremo veduto l’opera in teatro con orchestra e cantanti non potremo farcene un’idea chiara», Bastianelli continuava: «Per la macchinosità, per la retorica del tema, per la natura poco simpatizzante del suo pro­ tagonista, per una certa confusione causata dalla soverchia eru­ dizione - è il peggiore dei libretti del Boito». Quindi conclude­ va: «Bisogna avere il coraggio di dirlo: il Nerone è una macchi­ na drammatico-scenica di gusto molto discutibile e un centone di versi non direi precisamente di peregrina bellezza. Inoltre do­ po il Pelléas, la Salome, VArianne e Barbableu [...] come si reg­ gerà sulla scena questo postumo pastiche romantico appesantito di paganesimo erudito? » 3 Rappresentata al Costanzi di Roma il 14 febbraio 1922 sotto la direzione dell’A. Sul «Convegno» (marzo-aprile 1922, pp. 178179), Bastianelli lo definisce «melodramma sciocchissimo e catti­ vo; [...] e, si guardi bene, con tutta la mia pazienza critica - che ormai dovrebbe essere celebre come la castità di D’Annunzio - io non ho saputo trovare niente di buono nel rumoroso ed enfatico spartito, se ne eccettui qualche sprazzo nel finale del primo atto (un duetto del resto piuttosto esagerato in bocca a due amanti si­ gnorilmente e medioevalmente adolescenti); nella prima scena del secondo atto, di cui il bello slancio musicale vien menomato dalla fesseria di quel giocherello del torchio di origine troppo fa­ cilmente dannunziana; e nel canto arcaicizzante del cantastorie badiamo, a esser proprio condiscendenti! - canto precedente quel volgarissimo e clangentissimo intermezzone (chi è stato quel cre­ tino che vi ha sentito un carattere verdiano?) Ma tutto il resto: tempestio di declamazioni testarde di Tibaldo, orchestrine e or­ ganetti dietro le scene, tentativi di gridi passionali di Giulietta e di Romeo al secondo atto; è miserevolmente fallito. Viene conti­ nuamente la voglia di dire tra uno sbadiglio e l’altro: e chi se ne frega? Ma dove il vuoto diviene languore senza limiti, è nel finale, ove, a mio parere, ci si meraviglia che un buon arruffianatore come lo Zandonai sia caduto in un errore drammatico cosi grossolano: la scena in cui i due adolescenti innamorati fanno l’estrema corbelleria coronatrice di tutte le altre, già fatte, ossia quella di morire con un’inconsideratezza che oggi non piacerebbe più neppure alle sartine nutrite dai romanzi di Guido da Verona. Lì il convenzionalismo in onore presso lo Zandonai esigeva per lo meno il procedimento sentimentalone d’una bella scena uso finale àeBAida. E che c’entra quell’apoteosi a cori interni, (che il solito critico cretino ha dichiarato d’ispirazione francescana!!) e a stornellucci veneto-mascagnani, apoteosi d’altronde disumana, per­ ché prolunga in modo inverosimile la non poi piacevolissima ago-

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nia dei due amantini, sia pure illuminata da un sole inverosimile quanto... francescano? » 50 4 La rappresentazione postuma di Turandot avvenne alla Scala di Milano sotto la direzione di Toscanini il 25 aprile 1926. Bastia­ nelli che in quel periodo si trovava a Cento, vi assiste in qualità di «osservatore» per un progetto di rappresentazione nella cit­ tadina emiliana. Il giudizio fu complessivamente sfavorevole par­ ticolarmente per il secondo atto. 5 Bastianelli fu inviato dal «Resto del Carlino» ad assistere alla «prima» di Débora e Jaéle alla Scala il 16 dicembre 1922 sotto la direzione di Toscanini. Sulle colonne dello stesso giornale erano inoltre comparsi due articoli di presentazione della nuova opera di Pizzetti (8 e 15 dicembre). Il lavoro complessivamente lo de­ luderà ad eccezione di alcune parti corali: «Sebbene abbia sen­ tito la Débora ben tre volte e l’abbia letta al piano precedentemente ben quattro volte - mi dichiaro renitente... alla corsa [ave­ va detto che avrebbe fatto un excursus attraverso l’opera]. C’è poco da correre. Il prim’atto, che è con il terzo (ma questo a de­ bita distanza), il migliore dell’opera - al contrario di quello che mi era parso al pianoforte - si apre con un ampio tema all’uniso­ no diafano e inconsistente come il ricordo d’un sogno. Tutti i te­ mi dell’opera hanno in generale, presi a sé, una strana apparenza quasi medianica di sogno, perfino i piu concreti come quelli guer­ reschi affidati alle trombe e ai corni. Strumentalmente il Pizzetti potrebbe essere definito uno smaterializzatore della musica. Poi comincia, intrecciata e talvolta anche intralciata da detriti di cori la solita salmodia pizzettiana. Tutti recitano e dicono i casi loro come se fossero in chiesa, come tanti eccellentissimi canonici a coro [...]. Conclusione? Non andate a vedere Debora con lo spar­ tito come feci io alla prima prova che sentii, ma col libretto. Giacché, com’ho detto, è la poesia e la poesia di un libretto bello (a parte certe lungaggini) che in essa conta» (g. bastianelli, La prima rappresentazione della «Débora e Jaéle» di Ildebrando Pizzetti, nel «Resto del Carlino», 17 dicembre 1922). 6 Su libretto di C. Guastalla dalla commedia di E. L. Morselli, fu rappresentato il 26 aprile 1923 alla Scala sotto la direzione di An­ tonio Guarnieri e cadde clamorosamente. In un articolo del i° gennaio 1924 sul «Resto del Carlino», Bastianelli aveva definito il lavoro di Respighi un’opera di «intenti retrivi». 53 7 II Piccolo Marat, su libretto di G. Forzano, andò in scena al Costanzi il 2 maggio 1921, diretto dall’A. Il melodramma di Ma­ scagni fu l’occasione di uno dei più clamorosi capovolgimenti di opinione mai incontrati durante la lettura delle critiche di Bastia­ nelli. Scriveva infatti sul «Convegno» (Note di musica; il Pic­ colo Marat, ottobre 1921, p. 480): «[Il Marat] ... del più pretto, infatuato, clamoroso, enfatico Mascagni che si possa immaginare: di quel Mascagni che un tempo, ohimè lontano, ci poteva commuovere con la sua schietta sensualità [...]. Perduta la gio­ ventù è rimasta la sgualcita smania di piacere. Tutto era permesso all’arte mascagnana fuorché di invecchiare!» Ma appena due anni dopo vediamo comparire uno sconcertante articolo sul «Re­

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sto del Carlino», a meno che non vogliamo azzardare una inter­ pretazione in chiave ironica: «Quel gioiello, oserei dire rossi­ niano che è la Marcia dei diavoli neri (atto terzo) che io pongo senz’altro accanto al coro delle lattivendole nella Lodoletta e ac­ canto alla Monferrina di Amica e alle danze delle Maschere. Bra­ ni di musica in cui ripullula tutta la freschezza del nostro Genio [..J. Abbiamo sentito l’autore di Cavalleria rusticana ritrovare se stesso [...]. Perdoni il grande maestro se la mia penna osa de­ scrivere la gioia che ho provato [...]. Il pubblico passa di emozio­ ne in emozione ed è impossibile che il successo non salga, se è possibile, di alcuni gradi» (g. bastianelli, Il magnifico succes­ so del «Piccolo Marat» diretto da Mascagni al Comunale, nel «Resto del Carlino», 14 novembre 1923). Cfr. p. 208, cap. xxv, nota 1. Bastianelli si schiera con quella che Silvio D’Amico chiamava la «voga del tempo nel primo decennio di pace» e cioè la prolife­ razione dei piccoli teatri. Fra i teatrini d’avanguardia (uno lo aveva fondato anche Piran­ dello), quello che durò di piu (circa dieci anni) fu il Teatro degli Indipendenti diretto a Roma da Anton Giulio Bragaglia (18901960). « Il Teatro [...] ha sede presso la Confederazione delle Arti e dello Spettacolo e svolge un’attività decisamente importante, avanzata per quel tempo. È precisamente il primo teatro stabile italiano impostato con qualche criterio di modernità; cioè il pri­ mo teatro che abbia esposto una locandina con il programma completo della stagione, che abbia tentato di instaurare un certo tipo di rapporto con il pubblico e che abbia proposto un reper­ torio non ancorato ad angusti schemi provinciali» (c. fontana, Il teatro e il fascismo, in e. crispolti - b. hinz - z. birolli, Arte e fascismo in Italia e in Germania, Feltrinelli Milano 1974, pp. 173-76; si veda anche sull’argomento il recente studio di A. c. Alberti, Il teatro nel fascismo. Pirandello e Bragaglia, Bulzoni, Roma 1975). Di eroi divinizzati e adorati come numi tutelari del luogo (come i nostri santi patroni).

Capitolo undicesimo

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1 Sotto questo titolo, Angelo Conti (1860-1930) scrisse nel 1900 il proclama dell’estetismo italiano. L’arte viene considerata come «la riva lungo la quale scorre il fiume della dimenticanza». 2 Si tratta di Georg Bernard Shaw (1856-1950), autore del celebre The Perfect Wagnerite, Londra 1898; trad. it. di C. Castelli e T. Diambra sull’ultima edizione inglese (1922), Il wagneriano perfetto, Sonzogno, Milano 1933. 3 Da un racconto di E. A. Poe fu rappresentata il 22 aprile 1925 alla Scala sotto la direzione di Vittorio Gui. 4 Alceo Toni (1884-1969), compositore e critico. Fu titolare del­ la rubrica musicale sul «Popolo d’Italia» dal 1920 al 1943.

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5 Nel «Popolo d’Italia», 23 aprile 1925; incluso in A. pate e violinate, Alpes, Milano 1931, p. 128.

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Capitolo dodicesimo

1 Con la Vestale e il 'Fernando Cortez Spontini creò «il piu alto monumento artistico ispirato da Napoleone. Per il soggetto profondamente epico, audace e libero, novissimo in un composi­ tore italiano in politica sempre ligio alle pastoie delle censure, e per la vastità davvero eroica dell’architettura, altrettanto nuova e audace in un operista di poco distante da quei settecentisti che facevano le opere a somiglianza d’un museo d’arte, questi due capolavori non temono il confronto con le piu grandi pagine epi­ che di tutta l’arte. E basta [...] ricordare, oltre al sublime finale del secondo atto (di splendido effetto corale strumentale) la mar­ cia funebre e quel tipo di aria a declamazione recitativa con la quale Spontini dà uno degli elementi principali della riforma wagneriana» (g. bastianelli, Echi del centenario napoleonico, nel «Resto del Carlino», 12 gennaio 1922; l’articolo Gaspare Spontini, il più grande musicista italiano ispirato dalla guerra, leggermente modificato, era comparso sulla «Nazione», 8 giugno 1916). Quell’«ampiezza corale» della Marcia funebre rilevata anche in tempi abbastanza recenti da uno dei massimi studiosi dell’arte di Spontini (p. fbagapane, Spontini, Sansoni, Firenze 1954, p. 129). Nel Nuovo dio della musica, Bastianelli pur con­ siderando ancora Vestale e Fernando Cortez due capolavori che avevano « cercato di dare una piu fiera concretezza storica e rea­ listica all’idealità del melodramma italiano» (cap. xxi), immerge Spontini insieme con Beethoven nel mare della retorica napoleonico-dionisiaca; l’Ouverture della Vestale diventa allora un pez­ zo da museo (cap. xin, p. 69). 62 2 Der Burger als Edelmann, musiche di scena da Le Bourgeois gentilhomme di Molière, libero adattamento di Hugo von Hof­ mannsthal, rappresentato al Deutsches Theater di Berlino il 9 aprile 1918. 3 Der Rosenkavalier, su testo di Hofmannsthal andò in scena il 26 gennaio 1911 («Kónigliches Opernhaus» di Dresda) sotto la di­ rezione di Ernest von Schuch. Bastianelli, attento studioso del­ l’arte straussiana, si era procurato immediatamente la partitura tanto da darne, a meno di un mese dalla prima rappresentazione, un ampio resoconto con questa interessante premessa: «Confes­ so che a me, musicista che non solo cerco di non vivere come molti miei confratelli italiani al di fuori di quella ideal repubbli­ ca musicale che in Europa formano i migliori compositori, ma cerco piu di tutto di tenermi al corrente della... politica segreta di questa grandiosa repubblica, ove per esempio rappresentano l’estrema sinistra i francesi e i russi modernissimi e l’estrema de­ stra gli operisti italiani moderni; confesso che a me il program­ ma... politico di Riccardo Strauss è quello che piu genera stupe­ fazione perpetua di sorprese. Poiché è certo che nessuno dei piu codini musicisti, appunto per la sua qualità di parruccone emeri-

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to, può non aver passato un istante di sincera ammirazione per la magnifica abilità orchestrale e contrappuntistica [...], e melodica e armonistica [...] di questo ormai gigante figlio di giganti della musica europea. [...]. Eppure anch’io ho terribilmente, e quasi direi irreparabilmente bestemmiato, con eccesso di rivolta, que­ sto misteriosissimo ed inquietante musicista che è certo una delle piu feconde personalità... della famosa repubblica ideale. Così [...] in un articolo sul valore estetico del tema musicale (cfr. p. 188, cap. vi, nota 4), negavo allo Strauss ogni intimità, contrap­ ponendo ai suoi nuclei generativi musicali, quasi sempre di carat­ tere mimetico e descrittivo, la dolce musica intima e profonda­ mente pura [...] del Debussy. Ma ecco che oggi apro il Cavaliere della Rosa e [...] lo Strauss si diverte subito a darmi una bella smentita. E come se non bastasse la smentita che egli mi ha dato, ecco che dentro di me, male assopiti, risorgono, come suscitati dalla mia presa di possesso definitiva dei caratteri di questa inti­ mità delicata straussiana, i ricordi di altri momenti non rari d’in­ timità che ho già trovati nello Strauss: basti, per tutti, il delizioso notturno della Sinfonia domestica, [...]. Il Cavaliere della Rosa\ la credo assolutamente, nel suo genere, l’opera piu bella che sia apparsa dopo la bellissima Pelléas et Melisande di Debussy e, per ora, la piu bella opera dello Strauss » (g. bastianelli, Il Cava­ liere della Rosa al pianoforte, in «Le Cronache Letterarie», 19 febbraio 1911). 4 Ariadne auf Naxos su testo di Hofmannsthal, rappresentato a Vienna («Hofoper») il 4 ottobre 1916 (nella seconda versione con il prologo; la prima versione era andata in scena al Kónigliches Hoftheater di Stoccarda il 25 ottobre 1912; il 7 dicembre del 1925 fu eseguita per la prima volta in Italia al Teatro di To­ rino sotto la direzione di Vittorio Gui). Procuratasi la partitura della prima edizione, Bastianelli offre ai lettori della «Voce» il risultato della sua accurata analisi accompagnandola con le con­ suete osservazioni critiche: «Ora lo Strauss può certo apparire anche un saltimbanco, un atleta di piazza. E tale gli invidiosi del suo successo sempre piu trionfale in Germania e in Italia con sde­ gnosa piega delle labbra si sono affaticati a dipingerlo. E tale con­ fesso - anch’io l’ho un tempo creduto. Ma una comprensione del­ lo Strauss piu oggettiva e libera d’antipatie personali mi ha con­ vinto che nessun autore moderno come lo Strauss richiede di es­ sere considerato meno semplicisticamente. Voglio dire che a uno spirito veramente desto e educato a raccogliere gli infiniti sensi di un’opera d’arte, lo Strauss offre forse più del Debussy se non più del D’Indy, una vivacissima materia di conoscenza, una pro­ fonda ragione di scepsi critica. [...]. Possibile che un saltimbanco, un virtuoso, insomma, un uomo in mala fede, ci dia delle emo­ zioni cosi persuasive, non ostante la loro ambiguità? O com’è che, preso a sé, ogni tema dello Strauss ci appaia o volgare o ru­ bato (nell’Arianna c’è perfino il tema della Pastorale di Beetho­ ven), mentre che poi, uditi in queirincantevole fluidità di or­ chestrazione tutta propria dello Strauss, ricongiunti al signifi­ cato polisenso e geniale d’ogni sua opera, non solo tutti quei temi si sopportano, ma si amano, ma ci fanno dimenticare la loro pia-

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giaria paternità per un valore appunto tutto ambiguo, tutto na­ scosto ch’essi celano come un oggetto compreso soltanto dagli iniziati? È dunque questa ambiguità che bisogna dissipare, è dun­ que questo segreto che bisogna scoprire. [...]. E dalla solita ambiguità della parodia straussiana, anche in questa Ariadne auf Na­ xos proviamo una voglia matta di crederci, di abbandonarci alla graziosa goethiana figurazione di questo dolce divino umano amore cinto dalla scoppiettante frangia delle risate e dei lazzi del­ le Maschere italiane. Ma ecco che a un tratto la caricatura d’una cadenza settecentesca, la parodia d’un rondò rossiniano, la deli­ cata ripresa un po’ esagerata di un molto sentimentale lied alla Schubert, il commento imprevisto d’un rabbioso incalzar di stri­ denti terzine dei violini, turbano e sconvolgono tutto il nostro buon desiderio d’abbandonarci, di crederci. Allora ci domandia­ mo perplessi: fa sul serio o fa per chiasso il maestro Strauss? [.. J [Strauss] nell’ironia feroce e implacata ha trovato il compenso eroico alla decadenza antieroica che lo circonda e gli penetra nel­ l’anima, ricca forse di grandi speranze, ma impotente, come qua­ si tutte le anime moderne, a ricostruire ciò che seppe genialissi­ mamente distruggere» (g. bastianelli, Mitologia tedesca e umo­ rismo straussiano, in «La Voce», 9 gennaio 1913; incluso in Sag­ gi cit., pp. 39-47). Capitolo tredicesimo

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1 Una volta aveva parlato di «mostruosità» per il finale della No­ na ma ne giustificava la complessità del linguaggio sulla base dei contenuti rivoluzionari di Beethoven all’interno della struttura settecentesca: «Realmente la nona sinfonia [jzc] con la sua im­ mensa architettura non certo armoniosa e specialmente con quel suo ultimo tempo esorbitante dallo spirito della musica pura, ap­ punto perché Beethoven ha avuto bisogno, per suggellare i suoi presupposti etici, della parola, ha qualcosa di mostruoso. Ma non è questo il carattere di tutte le più grandi opere? Anzi specifichia­ mo meglio: non è questo il carattere dell’arte di quei poemi set­ tecentistici (Goethe informi) che pur rimanendo ligi allo stile classico, sentivano prorompere in loro l’ebbrezza libertaria e di­ rei quasi... bolscevica, dello spirito romantico, rivoluzionario quanto mai. Divina mostruosità anzi questa in uomini che in realtà sono gli antesignani perfino del futurismo, ma si serbavano fedeli alla grazia d’una voluta, d’una curva di accordo, di una espressione settecentesca» (g. bastianelli, La Nona di Beetho­ ven al Comunale, nel «Resto del Carlino», i° novembre 1919). 2 «Le sinfonie, le sonate, i quartetti di Beethoven sono forse la li­ rica più lirica che sia mai stata creata da artista umano. Che co­ sa, dunque, ci può e ci deve insegnare Beethoven? - A non esse­ re più wagneriani, a non essere più soltanto descrittivi, narratori, ad essere più musicisti, cioè più lirici. [...]. Al lirismo beethoveniano bisognerebbe tornare, a cantar noi, il nostro io profondo» (g. bastianelli, Ciò che ci può insegnare Beethoven, in «La Vo­ ce», 15 luglio 1909). Nel tempo in cui Bastianelli stendeva queste

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righe, si svolgevano gli incontri musicali di via Faentina con i compagni dell’università. Particolarmente assiduo Carlo Michel­ staedter al quale - come ricorda Gaetano Chiavacci - Bastianelli «faceva dono di frequenti serate al pianoforte, interpretando come un piccolo dio la musica preferita di Michelstaedter, so­ prattutto Beethoven» (g. chiavacci, Opere di Carlo Michel­ staedter, Sansoni, Firenze 1958, p. vili). 3 «La divina ouverture dove i due opposti dirò così morali del­ l’opera - il suo fulcro benefico, l’amore del buono e del bello buo­ no (Elisabetta) e il suo fulcro contrario, l’amore del bello cattivo (Venere) - creano uno dei piu sublimi contrasti musicali che si conoscano: il contrasto tra il prodigioso baccanale” e il non men prodigioso w corale ” dei pellegrini sulla fine ouverture trionfalmente intonato da tutti i * cantanti metalli ” in un’apo­ teosi delle altre masse orchestrali e specialmente degli archi» (g. bastianelli, La prima del «Tannhàuser» al Comunale, nel «Re­ sto del Carlino», 29 novembre 1922). 4 Arrigo Boito. 5 Poemetto romantico in tre canti in ottave di Bartolomeo Sestini (1792-1822) dal quale Donizetti ricavò l’omonimo melodramma rappresentato a Napoli nel 1837. 6 II Fornaretto di Venezia. Dramma storico in cinque atti di Fran­ cesco Dall’Ongaro (1808-73), rappresentato al Carignano di To­ rino nel 1855. 7 Su libretto di A. Zanardini fu rappresentato alla Scala il 26 di­ cembre 1880. Riesumata a Firenze, l’opera fu ripresa all’Arena di Verona. «Il Figliuol Prodigo [...] appartiene forse come poche altre opere al genere dei nostri melodrammi che piu hanno biso­ gno di essere eseguiti come spettacolo scenografico e coreografi­ co. Tutte le opere, per esempio, se le leggiamo o nel libretto o al pianoforte risultano manchevoli in qualche loro parte. Ma questo Figliuol Prodigo risulta peggio che manchevole, vuoto. Infatti con tutta la buona volontà e la simpatia per là memoria di Ponchielli, è impossibile trovarvi nemmeno un lampo di quella, se non altro, vena melodica popolare e di quell’esteriore sbrillantio d’effettacci che [...] straripano ed estenuano nella Gioconda. Il Figliuol Prodigo è irreparabilmente una brutta opera» (g. ba­ stianelli, Il «Figliuol Prodigo» all’Arena di Verona, nel «Re­ sto del Carlino», i° agosto 1919). 8 La terza opera di Alfredo Catalani su libretto di A. Zanardini, rappresentata alla Scala il 17 marzo 1883. 9 II Romanticismo e il Sinfonismo, in « La Critica Musicale », 1922, pp. 93-103. Fa parte del ciclo di studi sulla musica pura. 10 Un’interruzione: in un mio libro (L’Opera, Vallecchi, 1921), ho dimostrato l’inesistenza estetica d’un’autonomia aristotelica delle arti. Qui mi servo del modo di dire comune, d’altronde non rin­ negando la mia opinione in proposito, anzi seguendola rigorosa­ mente col dire " tutte le arti già manifestatesi ed ancora manife­ stabili ”. Ciò dispiacerà agli aristotelici - ma non è detto che da Aristotile ad oggi non si sia fatto alcun cammino nel campo del­

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l’estetica. Oggettivismo non va confuso con ingenuo realismo; molti dei risultati conseguiti dalla nuova e più profonda autoco­ scienza del soggetto, non vanno buttati a mare per aver di nuovo constatato i limiti infrangibili tra il mondo del soggetto e quello dell’oggetto, dell’io e del non-io, sicché un riverbero della legge dell’unità che regge il mondo oggettivo ed assoluto non è erro­ neo ritrovarlo nel mondo certo relativissimo del soggetto. Quel tanto che vi è di conoscenza dell’io - nel soggettivismo antico (Platone, soprattutto) - non è detto che per esser maggiormen­ te oggi approfondito possa menar guasti se lo s’inserisca nelle meravigliose rivelazioni e deduzioni che formano il perfetto si­ stema della conoscenza umana dell’oggetto assoluto - Dio -. Giacché si finirà per vedere che queste illazioni erano già con­ tenute nelle profondità della rivelazione e quindi della filosofia che per eccellenza oggettiva ne sgorgò durante il mirabile Me­ dioevo. Del resto non è detto che il tomismo, pur essendo ed a ragione per ora la filosofia ufficiale della Chiesa cattolica, debba esaurire quell’abisso d’inesauribile verità che è il Cristianesimo» [Nota di Bastianelli]. 68 11 Lionello Balestrieri (1872-1961), allievo di Domenico Morelli. Famoso il ritratto di Beethoven del 1900. 12 Giuseppe Vannicola (1877-1915). Critico musicale e letterario. Fu collaboratore di vari periodici fra cui « Il Leonardo » « La Vo­ ce», «Prose», «Le Cronache Letterarie». Bastianelli gli dedicò un breve trafiletto sul «Convegno» (La critica di Giuseppe Vannicola, dicembre 1921, pp. 551-53). Cfr. anche G. papini, Stronca­ ture, in «La Voce», Firenze 1915, pp. 277-83 e il numero specia­ le dedicato a G. Vannicola, «La Critica Musicale», marzo-mag­ gio 1921.

Capitolo quindicesimo 83 1 Cfr. p. 193, cap. ix, nota 2. 86 2 Sta per apatico nel significato di «pacato» come dirà nel capitolo successivo.

Capitolo sedicesimo

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1 Chiara citazione, come quella che segue poco più avanti «gaia scienza», dei due celebri saggi di Nietzsche. Capitolo diciassettesimo

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1 « Liszt fu anch’egli un pretto figlio del romanticismo esaltato del suo tempo fragoroso ed ultra movimentato. La sua opera ribocca di grandi pose e di sentimenti cosi sublimi che svaporano nella inconsistenza dell’inverosimile [...]. Ma, per parlare soltanto del­ la tecnica pianistica del Liszt, essa è veramente un prodigio di in­

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gegnosità, di gusto, e di abilità. [...]. L’abilità tecnica è un fatto pratico per eccellenza e richiede una genialità sui generis; sic­ ché talvolta le grandi scoperte, o meglio, trovate tecniche posso­ no andare benissimo scompagnate dalle grandi scoperte temati­ che [come è il caso di Liszt]; insisto perciò nella raccomandazio­ ne che i nuovi maestri studino attentamente la tecnica lisztiana se vorranno davvero risolversi a creare una musica pianistica nazio­ nale. Né temano, come può venire in mente a qualche nazionali­ sta intransigente, che la loro tecnica ne divenga meno italiana. Certi scambi di conoscenze estetiche sono sempre avvenuti tra i popoli più originalmente dotati. Un ottimo esempio ci può in questo offrire la Francia, dove ad esempio il Ravel presenta nella sua mirabile tecnica pianistica le tracce manifeste d’una di­ retta e riflessa conoscenza d’esecutore e di critico del pianismo di Liszt. Ma, purtroppo, io dubito che in Italia non si sappia stu­ diare > senza imitare» (g. bastianelli, La tecnica pianistica e Liszt, in «La Nuova Musica», febbraio 1912; sull’uso del pedale, del chiaroscuro e delle risorse timbriche del pianoforte si veda anche id., La transvalutazione del pianoforte, in «Il pianoforte», 15 febbraio 1922). 2 Un’approfondita analisi della Sesta e della Decima Sonata di Skrjabin comparve sulla «Voce» (g. bastianelli, Un nuovo so­ natista: Alessandro Scriabine, in «La Voce», 15 marzo 1915).

Capitolo diciottesimo 96 1 Nemico di se stesso (dalla celebre commedia di Terenzio). 2 Intende «frammento», altrimenti si potrebbe pensare a un «lap­ sus » di Bastianelli che voleva alludere a Schubert, autore dei ce­ lebri Momenti musicali, 99 3 « Brahms l’autore più per musicisti che vi possa essere, in quanto che il suo amore per la forma è disciplinato da un gusto così au­ stero e cosi nutrito di classicità da far ricordare ciò che è per i letterati il piacere puramente letterario di certa poesia, roman­ tica nel fondo, ma tutta stilizzata da ricordi classici. [...]. Grande questa dolorosa musica di Brahms [si riferisce a un Trio non spe­ cificato] e difficilissima all’esecuzione come alla comprensione» (g. bastianelli, Società del quartetto: Il Trio Consolo-SeratoMainardi, nel «Resto del Carlino», 4 marzo 1919). 4 Così nelle bozze: «Il creatore dell’ottocento invece [...] sarà punto dal suo orgoglioso volersi tener detto e presente a se stesso durante l’inconsapevolezza divina del sogno estetico - quando sia necessario obbedire ad una legge trascendente la nostra vo­ lontà abituale, tutto quello che si può tener desto presente allo spirito in istato di rapimento - la volontà d’aderire, con il dovu­ to rispetto, alle prospettive generali con l’odio, per la licenza tecnica, il più possibile al soffio del misterrato spirto». 100 5 Da questo punto fino alla fine del capitolo, cfr. m. omodeo do­ nadoni, Scritti cit., p. 477.

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6 Panciafichista: neologismo effimero coniato da Luigi Bertelli (Vamba): chi evita pericolo di guerra, per serbar la pancia ai fichi. Capitolo diciannovesimo

1 Studiando le origini delle forme musicali, Bastianelli aveva ana­ lizzato anche l’opera di Azzolino Della Ciaja (g. bastianelli, Le «Sonale» del Della Ciaja, in «Il Marzocco», n maggio 1913; incluso in Saggi cit., pp. 130-35). 2 Si possono avanzare solo delle ipotesi sul nome di questo piani­ sta. Tuttavia fra i tanti recensiti da Bastianelli, il piu attendibile sembra essere Eriberto Scarlino (1895-1962) di cui aveva parlato su «La Nazione» (Il concerto del pianista Eriberto Scarlino, i° marzo 1917). Fra l’altro negli stessi anni della stesura del Nuovo dio della musica, Scarlino era titolare della cattedra di pianofor­ te al Conservatorio di Parma relativamente vicino, quindi, a Cen­ to dove si trovava Bastianelli. 105 3 Far cesto, cestire di erbe e piante che moltiplicano i rami.

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Capitolo ventesimo 106 1 g. A. borgese, Storia della critica cit. È la tesi di laurea discussa all’università di Firenze nel 1903 (anno in cui Bastianelli si iscri­ veva nello stesso Ateneo) e pubblicata a Napoli, ed. La Criti­ ca, 1905. 109 2 Cfr. p. 190, cap. vili, nota 7. Capitolo ventunesimo

1 Questo e il successivo capitolo comparvero postumi col titolo Per una riforma del melodramma, in «La Fiera letteraria», 209 ottobre 1927. 114 2 Sterpo. no

Capitolo ventiduesimo 116

1 r. wagner, Das Kunstwerk der Zukunft (1849), in Gesammelte Schriften cit., Ili, incluso in id., L'arte cit., pp. 110-31. Capitolo ventitreesimo

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1 «Fu uno dei primi martiri della nuova religiosità, lasciataci in eredità dal romanticismo. Un precursore, se si vuole, che fu in­ gannato dalle forme che predilesse - in fondo, le forme musicali da lui adoperate sono cosi dinamiche, plastiche e (come ho mo­ strato altre volte su questa stessa rivista) sensualmente barocche,

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che il suo misticismo ne venne continuamente tradito. Ma fu un appassionato, torturato precursore. E lo fu nel senso piu limpido, più schietto, più puro, più infiammato, più francescano, che im­ maginar si possa. [...]. Fu disgraziato, se per fortuna d’un artista vogliansi intendere il consenso e l’applauso dei contemporanei. Come si poteva comprendere in tempi di individualismo a oltran­ za un compositore il cui dramma interiore stava appunto nell’es­ sere schiavo stilisticamente dei romantici individualisti tedeschi - da Beethoven e Schumann ,[...]?» (g. bastianelli, Cesar Franck, in «Il Convegno», dicembre 1922; l’articolo comparve anche contemporaneamente sul «Resto del Carlino», io dicem­ bre 1922). 120 2 «Perosi, molto più di un Verdi e tanto più di un Rossini [ha] sa­ puto riprendere le severe forme dello stile contrappuntistico medievale e dello stile gregoriano: ma i suoi maestri veri non sono i fiamminghi o Palestrina, bensì - semmai - Bach (pieno di barocchismi, come ho mostrato a più riprese) o più di tutto quel­ la rinascita dionisiaca del cristianesimo in terre nordiche che è il romanticismo, di Mendelssohn, - prima, - e poi del gran Mago del romanticismo: Riccardo Wagner. Che ne è venuto? Che ogni tanto quando più si crede di sentire Perosi perdersi trasumanan­ dosi in Dio, il frigido cinismo cattolico gli fa ripullulare graziette barocche e movenze quasi ilari e sentimenti di musica settecente­ sca italiana. [...]. Il Perosi si accorse ben presto che la sua era una musica a doppia natura rispecchiante il problema religioso più sentimentalmente che misticamente (in senso di assoluta religio­ sità). E incominciò la tortura e, com’ho detto, il martirio passivo. [...]. Il compositore e l’uomo ne dovevano essere assillati, uccisi lentamente come da un corrosivo di autoinquisizione. V’era del­ l’eresia francescana in questo ardente temperamento d’artista che pure voleva Dio a suo modo perché a voler Dio gli avevano plasmato la testa fin dal seminario. Ma nel cattolicesimo moder­ no quadratissimo e gelosissimo di sé non vi è più posto per gli annaffiamenti e per le tempeste feconde delle eresie. Esso è or­ mai - e lo ha dimostrato la sua impassibile repressione del mo­ dernismo - qualcosa di fisso, di aristotelicamente immutabile. Né Perosi aveva, componendo la sua giovane musica ignara, l’abilità giornalistica di Giovanni Papini che ha saputo con astuzia pa­ radossale farsi perdonare l’impeto rivoluzionario in grazia d’una sua ben incollata professione d’ortodossia» (g. bastianelli, Lo­ renzo Perosi) nel «Resto del Carlino», 9 giugno 1923; per quan­ to riguarda l’accenno a Papini, si veda anche la recensione alla Storia di Cristo: La consacrazione del paradosso, nel «Resto del Carlino», 22 dicembre 1921). 121 3 Nell’area francese Bastianelli aveva notato l’attività di D’Indy: «forte spirito solitario, che del carattere francese continua non le tradizioni centrali e meridionali, ma le tradizioni nordico-ger­ maniche, la grande religiosità gotica, sulla direzione già prevedu­ ta e seguita da grandissimo Franck » (g. bastianelli, La crisi cit., p. 162; di D’Indy Bastianelli aveva inoltre recensito il Bee­ thoven, Paris 1911: Vincent D’Indy critico di Beethoven, in Sag­ gi cit., pp. 175-83)*

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4 «Opera che, per il suo contenuto poetico, è forse quanto di piu raffinato e vizioso possa aver prodotto ^irrequieta debolezza della vecchia Europa. [...]. Infatti la frenesia del sentimento presso i romantici è oggi degenerata presso i decadenti - estrema propag­ gine del romanticismo bacchicamente sfrenato - in una frenesia della sensazione spesso dolorosa perché violentante la semplicità della natura piu genuina. [...]. E oggi veramente l’arte (dei co­ siddetti decadenti) ha raggiunto un culmine di libertà che da molto tempo non raggiungeva che isolatamente. - Si pensi alla miracolosa solitudine di Giacomo Leopardi! - Così, se questa Salome da un lato ci ripugna per il suo egoistico sadismo doloro­ so, dall’altro ci attrae per la schiettezza quasi esagerata del suo linguaggio, che, a tratti, perde quasi ogni eco di tradizionalità espressiva necessaria ad ogni arte perché sia almeno presto com­ presa, per abbandonarsi tutta ad un soggettivismo d’espressio­ ne che solo riscontriamo nel linguaggio eternamente rivoluziona­ rio dei bambini. [...] Strauss [...] critichiamolo quanto vogliamo [...] ma anche godiamolo insieme coi nostri maggiori pittori e poeti [a lui] profondamente fraterni. Godiamolo in questa sua innocenza di degenerato che ha, in fondo, una semplicità di vi­ sione e d’espressione quasi infantile. Egli è infatti un grande fan­ ciullo perverso sì, ma non per questo privo di quelle doti che ci son più gradite nei fanciulli: la snellezza dei movimenti, la cu­ riosità dello spirito, l’incontentabilità del desiderio, le leggerez­ ze deliziose e armoniose» (g. bastianelli, La « Salome» a Fi­ renze, in «Le Cronache Letterarie», 4 giugno 1911). 5 Franz Stuck (1863-1928), pittore e scultore tedesco. Collaborò a Monaco al periodico satirico «Fligende Blàtter». Si affermò dopo il 1889 con una serie di quadri (Il Peccato, La guerra, La Volut­ tà} dove sono accademicamente combinati il simbolismo mediter­ raneo e funebre di Bòcklin e il colorismo tetro e patetico di Lenbach. Pittore di inquietudini, di patemi e di morbosità tardoromantiche. Recensendo un concerto del pianista Rosenthal (Il concerto Moritz Rosenthal alla «Società del Risveglio», nel «Resto del Carlino», i° aprile 1923), Bastianelli paragonò la sua «esagerata» interpretazione degli Studi Sinfonici di Schumann a un quadro «bistrato» e «sadico» di Franz Stuck: «Il pittore dei volti dagli occhi demoniaci». Capitolo ventiquattresimo

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1 «Nulla di più divertente, in questi giuochi d’uno scettico di gu­ sto trasformatosi più o meno istrionicamente in un amorosissimo analizzatore e restauratore delle finezze goldoniane, di certe sue pagine ove riprende, egli che da giovinetto si era ammalato d’en­ tusiasmo assistendo alle rappresentazioni wagneriane al tempo della maggior fama di Bayreuth, il procedimento stilistico del pezzo concertato melodico da opera buffa del primo Ottocento. E ho detto anche che nessuno meglio del Wolf Ferrari poteva trovare in sé la necessaria freschezza d’immaginazione per com-

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piere tale restaurazione» (g. bastianelli, Ermanno Wolf-Ferra­ ri, in «Il Convegno», agosto-settembre 1921). 132 2 Recensendo il Moussorgski di Michael D. Calvocoressi (Paris 1908) sulla «Voce» (14 luglio 1910), Bastianelli definiva il musi­ cista russo «il mirabile autodidatta, che sdegnoso di qualunque aiuto scolastico-tradizionale volle e seppe da sé solo col proprio cervello scoprire la musica». Ed ancora: «Fu uno dei piu vasti poeti-musicisti che abbiano avuto finora le nazioni; [...] un rap­ sodo di così vasto cuore che ha gettato nel Boris tutta la rozza superstiziosa anima del popolo russo, e che ha creato un’opera così significativa che a chi la legge o la vede empie l’anima di quel sacro stupore emanato dall’energia bronzea dell’Iliade». 134 3 In « La Nazione », 30 marzo 1918. 4 Nel 1915 Bastianelli si domandava se il «furore» per Stravinsky fosse esagerato o no dichiarandosi incapace a risolvere la questio­ ne in quanto «la giustezza o l’esagerazione d’un entusiasmo non sono valutabili da un contemporaneo». Tuttavia riusciva a dare un’interessante collocazione all’arte di Stravinsky diversificando­ la da altri esponenti delle avanguardie europee in questi termini: «Lo Schonberg e lo Scriabine attraverso esperienze diverse con diverse forze battono una via dove il pubblico nuovo oggi non si inoltra piu: una via che va diventando silenziosa e dolorosamen­ te deserta come tutte le vecchie vie dimenticate dove il massic­ ciato sorte fuori e comincia a crescervi sopra la rapida erba del­ l’abbandono. Questa via è quella della musica sola; della musica senza appoggi o esplicativo-illustrativi o simbolico-suggestivi: insomma senza la cosiddetta letterarietà di cui può benissimo fa­ re a meno la musica pura. La via percorsa dallo Strawinsky è in­ vece la via della musica-simbolo, della musica-suggestione, della musica-pittura, della musica-poesia. Ed è la via che oggi va di­ ventando sempre piu battuta, sempre più popolare-, la bella via moderna, allegra di gente di traffico di movimento, la via per dove ci si sente spinti a passare perché vi si respira la felice aria della vita e della fortuna. [...]. Concludendo: Scriabine e Schon­ berg possono piacere poco, perché sono veri, soltanto e troppo musicisti-, Strawinsky piacerà sempre enormemente, perché è qualcosa di diversissimo da un puro musicista: è un musicistapoeta, un musicista-pittore; insomma è tutto fuorché musicista vero e proprio» (g. bastianelli, Ueterna lotta, in «La Nuova Musica», 25 febbraio 1915). Le considerazioni di Bastianelli, scaturite anche dalle discussioni sulla musica pura dibattute in quel tempo (basterebbe pensare a Busoni), mirano a individuare chiaramente due sfere estetiche (ed etiche) ben precise corrispon­ denti al linguaggio dell’interiorità e dell’esteriorità, quest’ulti­ mo destinato naturalmente ad avere molto più successo. Tutta­ via se tale dicotomia potrebbe anticipare addirittura certe suc­ cessive posizioni della critica - primo fra tutti Adorno -, in real­ tà le differenze non mettono in gioco il valore della musica. Da un punto di vista strettamente musicale - intendi conquista tec­ nica - le due correnti sono ugualmente proficue di suggerimenti nell’evoluzione del linguaggio musicale del Novecento. Dice in­

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fatti Bastianelli: «I nostri musicisti modernissimi hanno ormai compiuto un gran passo innanzi rimettendosi in pari con le conquiste tecniche di Strauss, di Debussy, di Strawinsky, di Scriabine, conquistandosi insomma un linguaggio moderno quel linguaggio, si può dire, immanente ad un’epoca (nonostante le differenziazioni nazionali) al quale linguaggio sottrarsi è ana­ cronisticamente impossibile» (id., La situazione della musica ita­ liana modernissima dopo la grande guerra, in La musica puraCommentari cit., p. 94). Quindi - suggerisce Bastianelli - «biso­ gna accettare senza pregiudizi - tanto più che in questa quasi barbara sincerità e libertà nel modellare la materia sonora e rit­ mica e questo servirsi della musica come di un simbolo mimeticosuggestivo fa dello Strawinsky, certo, il massimo europeo com­ positore di ballets, ossia del nuovo genere di teatro verso cui i nuovi compositori, stanchi dell’opera, vanno a poco a poco orien­ tandosi» (id., Igor Strawinsky, ibid., p. 212). 134 5 II 28 e 29 ottobre 1922, Ravel tenne due concerti a Milano ospi­ te del «Convegno». Toccò a Bastianelli presentarlo al pubblico con un breve discorso «d’occasione» in cui, dopo averlo salutato quale «nobilissimo successore di Debussy», ne ricordava i gran­ di meriti per la sprovincializzazione della cultura italiana: «Chi può infatti negare che il Mefistofele, di fronte alle musiche di un Debussy, di un Ravel [...], non ci appaia (per ciò che riguarda la finezza della tecnica strumentale) qualcosa di provinciale [...]? Eppure da quel Mefistofele alla Fedra di Pizzetti, quanto cammi­ no di assimilazione, quale prodigioso lento risollevamento alla su­ perficie universale del miglior gusto europeo non abbiamo com­ piuto in Italia!» (g. bastianelli, Maurizio Ravel, in «Chigiana», 1972, p. 162; incluso anche in id., La musica pura-Com­ mentari cit., pp. 319-20. Si veda anche Saluto a Maurice Ravel in «Convegno», 25 settembre 1922, pp. 527-29). 135 6 Bastianelli considerava il cinematografo una «rivincita estetica» della «piccola borghesia cittadina, cosi poco favorita dai risor­ genti destini medievali (in senso di abuso di privilegi concessi ai nuovi plutocrati, oppure in senso di abusi alla rovescia, abusi stranamente plebei; per esempio il diritto ai circences moderni: podismo, box, foot-ball, corse ciclistiche di resistenza ecc.), [...] una rivincita estetica che compensi i vecchi «amatori dell’arte» [...] della fine del teatro a grandi colpi di scena, della morte di Giacomo Puccini, e del pullulare di certi romanzieri taglienti e ironici - come Bontempelli, Palazzeschi ecc. [...]. No. Io non ne­ gherò niente degli splendori fantomatici ed evocativi, né degli effetti tra sentimentali ed esilaranti del cinematografo. Quando ero più giovane [...] mi sono abbeverato anch’io con entusiasmo. Ma ora una specie di severa volontà di reintegrazione a riguardo dei pochi valori della vita per cui sia ragionevole morale avere idee semplici e concrete, mi va cogliendo. È così che in me si va rigorosamente sfatando anche il mito delle possibilità estetiche del cinematografo. Stando così le cose, mi resta di esso un senso piuttosto malinconico e ironico» (g. bastianelli, Contro le illu­ sioni cinematografiche, in «Soiaria», marzo 1927).

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Capitolo venticinquesimo 1 Riccardo Guaiino (1879-1964), industriale torinese. Fondò la Snia Viscosa; produttore cinematografico (Lux Film) e scrittore frammenti di vita, 1931) «aveva fatto di quel teatro il centro piu importante ed interessante della vita artistica italiana» (a. casella, I segreti cit., p. 237). 2 Ma nell’articolo citato Igor Strawinsky (cfr. p. 206, cap. xxiv, nota 4) aveva parlato di «incantevole Rossignol» giudicandolo tuttavia inferiore al Sacre (p. 212). 3 Cfr. p. 189, cap. vii, nota 2. 4 Cfr. p. 195, cap. x, nota 5. 137 5 II Trittico andò in scena al Metropolitan il 14 dicembre 1918 sotto la direzione di Roberto Moranzoni. La «prima» italiana si ebbe al Costanzi Fu gennaio 1919, direttore Gino Marinuzzi. Bastianelli, inviato dal «Resto del Carlino», nella sua corrispon­ denza giudicò Puccini «il musicista di più sicuro senso teatrale che sia oggi in Europa e si mostra degno con lo Schicchi di ri­ prendere e continuare nella storia musicale la tradizione dell’ope­ ra comica, che dal Barbiere al Falstaff è vanto della nostra arte» (g. bastianelli, Il Trittico del maestro Puccini al Costanzi di Roma, nel «Resto del Carlino», 12 gennaio 1919; si veda anche Polemiche intorno al «Gianni Schicchi», ivi, io febbraio 1919). In seguito continuerà a definire lo Schicchi «piccolo ma auten­ tico capolavoro comico-musicale» (id., Verso Vopera buffa, nel «Resto del Carlino», 26 agosto 1923). 6 Le maitre des forges. Romanzo di Georges Ohnet (1848-1918), pubblicato nel 1882 e ridotto a dramma dall’autore stesso l’an­ no successivo. Improntato a psicologia convenzionale e sentimen­ talismo romantico.

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Capitolo ventiseiesimo

1 Rappresentata al Teatro Municipale di Monaco il 19 marzo 1906. L’analisi di alcune parti dei Quattro Rusteghi compare nell’arti­ colo citato del «Convegno» (cfr. p. 205, cap. xxiv, nota 1). Così giudicava l’« intermezzo»: « Wolf Ferrari scrivendo questo inter­ mezzo s’è proposto di comporre un branucolo di musica riusci­ tissima dal punto di vista dell’effetto, ma di nessuna vitalità mu­ sicale. [...]. Detto intermezzo è un brano di musica così futile e al tempo stesso così pretenziosa che, non so com’è mi fa venire in mente, quantunque non termini con un trillo, sibbene con la ri­ duzione a frammenti pizzicati del primo colon della canzonetta, mi fa venire in mente, dico, quell’orribile stupido verso d’un al­ tro veneto, il Fogazzaro: Oh come muor di gioia il trillo del vio­ lino...» 140 2 Musicato da Paul Dukas (1865-1935) dall’omonimo dramma di Maeterlinck. Rappresentato il io maggio 1907 all’Opéra Comique di Parigi sotto la direzione di Franz Ruhlmann. In Italia

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fu dato alla Scala il 17 aprile 1911. «Il Ducas [nc] ha dato alla Francia moderna un’opera dove l’eclettismo, figlio dello scettici­ smo raggiunge un miracoloso equilibrio di elementi tradizionali e novissimi: VArianne et Barbebleu. Ingiustificabile in quest’ope­ ra la mistura degli elementi vecchi e nuovi, come invece è giusti­ ficabile nello Strauss dove tale mistura riceve una profonda ra­ gione estetica dal caotismo umoristico e paradossale che abbiamo già rivelato, tuttavia VArianne si sorregge per un gusto squisito, veramente francese. C’è nell’opera, è vero, uno sviluppo tematico-wagneriano (di buona lega); ma non ne siamo urtati come di un plagio fuori di stagione, data la bellezza, la plasticità, la mo­ bilità dei temi e, soprattutto, la novità di alcuno di essi. Cosi se nell’opera vi sono brani di svolgimento semistrofico prolisso, o invecchiato (preludio del secondo e terzo atto), in compenso, quanta incantevole baldanza, snellezza, schiettezza di ritmi pro­ sastici non simmetrizzati, zampilla qua e là. E se vi sono sono­ rità, in alcune modulazioni, che troppo ricordano tonalità settecentesco-ottocentesche e specialmente wagneriano-bruckneriane, in compenso quale magnifica sinuosità armonica e quale ot­ timo senso di equilibrio in certe ricerche di nuove aggregazioni di armonici. E, soprattutto, nonostante certa tendenza a volte monotona, all’arioso esagerato e troppo enfatico [in una nota Bastianelli lo paragona alla «monotonia ansimante e enfatica di certa declamazione del teatro dannunziano»], che stupendo uso del recitativo, della declamazione musicale, imbastita dal nuovo senso tonale da cui se non è fiorita, almeno è impregnata tutta l’opera» (g. bastianelli, La Crisi cit., pp. 166-67). 3 « A proposito di Arturo Toscanini il mio povero me ultimamente si è permesso talvolta di spezzare qualche lancia contro di lui pro e contro di certa musica modernissima italiana, che secondo i casi or mi pareva indegna della sua bacchetta, or mi meraviglia­ va la sua perspicacia nello stimamela [$/c] degna. Ma in questo breve portrait del massimo direttore, mi sembra inutile tornarvi sopra. Ha egli diretto quell’inutile oziosa faciloneria che è ITntermezzo della Biglia del Re di Lualdi? Non ha voluto mettere nel cartellone della Scala Sakùntala di Franco Alfano, mentre di straforo ha ficcato quell’indegna squacquarella che è Madame Sans-Géne di Giordano? [...]. Ma la mia ammirazione per quel grande artista che è Arturo Toscanini non muta per ciò. L’artista non ha l’obbligo di essere anche un critico. L’artista può pren­ dere le capate che vuole. [...]. Arturo Toscanini prenderà, come si suol dire, delle famose capate sia pro, sia contro la musica moder­ nissima e forse anche verso quella antica. Ma quando gli sentiamo dirigere il Falstaff o la Traviata o la Manon di Puccini; ma quan­ do sale sul podio e ci dirige al tempo stesso analiticamente ed or­ giasticamente la Nona Sinfonia, oppure i Maestri Cantoria come non inchinarsi? [...]. Non credo di osar troppo definendo, quale direttore, il Toscanini un analista. Egli va dalla parte al tutto. Anzi è nel particolare che consiste il fulcro delle magie sonore ch’egli suscita» (g. bastianelli, Arturo Toscanini, nel «Resto del Carlino», 3 luglio 1923). Proprio sul problema dell’interpre­ tazione toscaniniana si era espresso in un precedente articolo in

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questi termini: «Per ciò che riguarda lo strano problema della transvalutazione del piano che si orchestrizza, osserverò che non è escluso nemmeno il caso contrario, ossia dell’orchestra che vuol dare l’idea dell’unità suprema del pianoforte. Non ho che a ri­ cordare come lode massima fatta alla direzione di Arturo Tosca­ nini è stata quella di concepire e di aver saputo ridurre compatta ed obbediente la sua orchestra “ come un pianoforte ”. E vera­ mente anch’io ricordo d’aver provata questa sensazione specialmente in pezzi di perfetta unità di sonorizzazione (quali Hiberia [nc] di Debussy) in cui non so per quale segreta taumaturgia i di­ versi timbri sembrano non dico fondersi ma innestarsi l’un col l’altro in una specie di amalgama se non proprio di un sol tim­ bro, di una sola sintesi coloristica. I timbri - mi si permetta una immagine - divenivano per opera del Toscanini quasi dei veli di­ pinti da cui trasparissero altri veli, e da essi altri ed altri ancora, in una versicolore vibrazione simile all’iridare del prisma traver­ sato da un unico raggio di sole» (id., La trasvalutazione del pia­ noforte, in «Il pianoforte», 15 febbraio 1922).

Capitolo ventisettesimo

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1 Le Tre Commedie goldoniane furono composte da Malipiero fra il 1920 e il 1922. La prima esecuzione ebbe luogo a Darmstadt il 26 marzo 1926 sotto la direzione di Joseph Rosenstock. Que­ sto capitolo, largamente rimaneggiato, corrisponde al saggio pub­ blicato in «Soiaria» (cfr. p. 189, cap. vii, nota 3) e successiva­ mente incluso in L'opera di Gian Francesco Malipiero, a cura di G. M. Gatti, Treviso 1952, pp. 61-65. 144 2 Si tratta del Primo Quartetto per archi (Rispetti e Strambotti) finito di comporre a Roma nell’aprile del 1920 e pubblicato per le edizioni Chester di Londra nel 1921. La sala cui allude Bastia­ nelli è la «Sala Bossi» del conservatorio «G. B. Martini» di Bo­ logna. I ritratti provengono in gran parte dal lascito Martini. 146 3 II «mistero» San Francesco d}Assisi risale al 1921 e fu eseguito il 29 marzo dell’anno successivo alla Carnegie Hall di New York (Schola Cantorum, direttore Kurt Schindler). Fu ripreso in Italia proprio durante l’anno francescano il 28 marzo 1926 all’Augusteo di Roma sotto la direzione di Bernardino Molinari.

Capitolo ventinovesimo

1 Eseguiti a Roma nel 1908. 2 Rappresentata a Parigi nel 1913. 156 3 Del 1908. 155

Capitolo trentesimo 158

1 Sonata in la per violino e pianoforte (1919); il secondo tempo in do maggiore porta il sottotitolo «Preghiera per gli innocenti», in memoria dei caduti nella grande guerra.

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158 2 Sonata in fa per violoncello e pianoforte del 1921. 159 3 Messa da Requiem per 4-12 solisti. 4 La sacra rappresentazione d’Abram e dTsaac, su testo di Feo Beicari fu rappresentata nella prima versione (la seconda, ampliata, è del 1926) a Firenze nel 1917 (g. bastianelli, L'« Abram e Isac» [szc] con musica di Ildebrando Pizzetti, in «La Nazione», io e 20 giugno 1917). Capitolo trentunesimo 160

1 Licinio Refice (1885-1954). Ordinato sacerdote nel 1910, ha la­ sciato una cospicua produzione di musica sacra. Morì improvvisa­ mente a Rio de Janeiro mentre dirigeva la sua azione sacra Ce­ cilia. 2 Cfr. p. 194, cap. x, nota 3. 3 Rappresentata al Regio di Torino il 9 febbraio 1914 sotto la di­ rezione di Ettore Panizza (g. bastianelli, Dal « Mefistofele» alla «Francesca da Rimini», nel «Resto del Carlino», 24 marzo 1919, e «Francesca da Rimini» di Riccardo Zandonai al Teatro Comunale, ivi, 28 marzo 1919). 4 Rappresentato a Torino nel 1905, è l’opera con cui Montemezzi (1875-1952) si affermò. 5 Rappresentato alla Scala il io aprile 1913 sotto la direzione di Tullio Serafin. 6 Rappresentata alla Scala nel dicembre 1918. Bastianelli, che si trovava a Milano durante le sue «peregrinazioni militari», vi po­ tè assistere e mandare una corrispondenza alla «Nazione»: «Con la Nave siamo indubbiamente in un mondo assai elevato, sia per l’importanza letteraria del soggetto [D’Annunzio], che per l’im­ portanza musicale del compositore. Il Montemezzi s’era già affer­ mato con L'Amore dei tre Re un cercatore di vie proprie sulle travi già cosi logore del palcoscenico musicale italiano. È altra questione se queste vie egli le abbia o non le abbia trovate. Il fatto si è che con lo Zandonai e col Pizzetti, il Montemezzi merita un posto a sé nella quasi anonima e assai scarsa schiera dei gio­ vani operisti italiani. [Tuttavia la musica della Nave] non mi ha dato quella formula nuova che da tanto tempo dai musicisti ita­ liani - ormai scontenti delle formule provinciali (ma quanto an­ cora qua e là sinceramente nazionali) dell’opera mascagnana e pucciniana - si va ansiosamente cercando. [...]. Si tratta sempre dell’ormai rancido atteggiamento di derivanza wagneriano-ro­ mantico-tedesca, anche se come nel Montemezzi, l’atteggiamento si sia svolto, magari per opera personale e indipendente dall’au­ tore, cioè senza la sua volontà di coincidere colle ultime conse­ guenze di quell’atteggiamento raggiante dello Strauss. Chi uden­ do le tortuosità sadiche della musica del secondo atto della Nave - il piu bello forse a mio parere di tutt’e tre - non ricorda il se­ condo tempo dello Heldenleben di Strauss? Ed è curioso notare come la poesia di D’Annunzio non disdegni questa riminiscenza. Del resto Strauss e D’Annunzio non hanno forse la stessa base

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nietzschiana alle fondamenta della loro morale erotica? » (g. ba­ stianelli, Opere nuove e musica vecchia, in «La Nazione», 23 dicembre 1918). 161 7 Da un racconto di Dickens {The Cricket on the Hearth), fu rap­ presentato a Torino nel 1908. 8 Dal poema Melenide (Mélaenis) di Louis Bouilhet pubblicato nel 1851. Rappresentata al Dal Verme di Milano nel 1912. 9 Rappresentata al Dal Verme il 14 ottobre 1911 sotto la direzione di Ettore Panizza. 162 10 Malgrado la simpatia manifestata per l’opera di Mascagni, non esitava a parlare di «oleografia borghesuccia di Iris» sulle pagi­ ne del «Convegno» {postumi musicali della guerra, gennaio-feb­ braio 1922, p. 83). 11 A proposito della «Via della finestra» di Riccardo Zandonai, in «Rivista di Milano», 1919 [l’opera era stata rappresentata a Pe­ saro nell’estate dello stesso anno]. 163 12 Da una leggenda di S. Lagerlof (Gosta Berling), fu rappresentata alla Scala il 7 marzo 1925 sotto la direzione di Arturo Toscanini. Capitolo trentaduesimo

164 1 Bastianelli aveva pubblicato - com’è noto - due volumetti di poe­ sie. 166 2 Riferendosi in particolare alla Siciliana e Burlesca per violino, violoncello e pianoforte (1917), Bastianelli parla di «specimen gustosissimo di modernissimo umorismo musicale. [...]. La Bur­ lesca soprattutto la trovo un piccolo gioiello sfaccettato di trou­ vailles che deve piacere ovunque sia eseguita» (g. bastianelli, Il concerto dedicato ad Alfredo Casella, in «Chigiana», 1972, p. 169). Capitolo trentatreesimo

168 1 Fa parte del trittico francescano eseguito ad Assisi nel 1926. 169 2 Fu tra gli animatori del futurismo. Firmò insieme con Marinetti e Corra il manifesto « Il teatro futurista sintetico » (gennaio-feb­ braio 1915) il cui scopo era di «sinfonizzare la sensibilità del pub­ blico risvegliandone con ogni mezzo le propaggini piu pigre», va­ lendosi della sorpresa, della simultaneità, dell’aggressione immediata, riducendo l’azione teatrale a una serie di sintesi sceniche di pochi secondi. 3 Si tratta della Ciaccona per violino, archi e organo ma su temi di T. A. Vitali (1908); a meno che Bastianelli non volesse allu­ dere alla Passacaglia, Preludio e Fuga in sol minore o la Toccata e Fuga in la minore per organo, ambedue da Frescobaldi e tra­ scritte da Respighi per pianoforte nel 1920. 170 4 g. bastianelli, Il Falstaff, nel «Resto del Carlino», 3 novem­ bre 1923.

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170 5 Karoly Goldmark (1830-1915), violinista e compositore unghe­ rese, naturalizzato austriaco. Nelle sue opere al cromatismo wag­ neriano si uniscono spesso spunti orientaleggianti. 6 Hans Pfitzner (1869-1949), compositore tedesco. Rigorosamente attestato su posizioni tradizionali, combatte le avanguardie, la dodecafonia schónberghiana e l’estetica di Busoni (Il pericolo dei futuristi, 1917; Nuova estetica deirimpotenza musicale, 1920). La sua produzione di epigono wagneriano presenta forti caratteri nazionalistici sulla linea tardo romantica. 7 È la prima opera di Respighi rappresentata a Bologna nel 1905. 8 Secondo lavoro teatrale di Respighi rappresentato a Bologna nel 1910. «Semiràma è già vecchia avanti di nascere. È una delle so­ lite Basiliole e Salome delle quali ormai abbiam piene le tasche. [...]. Il risultato è sempre un po’ provincialesco: ossia è sempre [...] l’attività mediata di chi introduce nel suo paesetto forme nuove, sì, ma dedotte da ciò che vide fare nelle grandi città» (g. bastianelli, Le nuove tendenze dell’opera italiana, in «La Vo­ ce », 24 ottobre 1912; incluso in Saggi cit., pp. 48-58). 9 Ascritto fra i crepuscolari Ercole Luigi Morselli (1882-1921), ri­ trovò invece in Belfagor un atteggiamento di riaccettazione della vita.

Capitolo trentaquattresimo

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1 Rappresentata al Teatro Regio il 30 novembre 1904 sotto la dire­ zione di Tullio Serafin. 2 Nel 1900. 3 Sul libretto di L. Illica, rappresentato a Genova nel 1909. 4 Rappresentata alla Scala nel 1913; rifatta poi col titolo Don Juan de Manara e data il 28 maggio 1941 al Teatro Comunale di Fi­ renze (IX «Maggio musicale») sotto la direzione di Tullio Serafin. Bastianelli l’aveva letta al pianoforte nel 1914 dispiacendosi di non averla potuta ascoltare in teatro essendo stata «vergogno­ samente condannata ad un ostracismo immeritato dopo il succes­ so ottenuto alla Scala» (g. bastianelli, Branco Alfano, nel «Resto del Carlino», 15 aprile 1923). 5 Rappresentata a Bologna il io dicembre 1921 sotto la direzione di Tullio Serafin. La partitura fu rifatta da Alfano essendo anda­ ta distrutta durante l’ultimo conflitto mondiale e rappresentata a Roma il 9 gennaio 1952 sotto la direzione di Gianandrea Gavazzeni. Toccò a Francesco Balilla Pratella, che momentaneamente sostituiva Bastianelli, presentare sul «Resto del Carlino» il nuo­ vo lavoro di Alfano (Il maestro Franco Alfano e la sua «Leggenda di Sakùntala», 6 dicembre 1921). Bastianelli interverrà molto piu tardi in occasione di una ripresa dell’opera: «Per Sakùntala ho potuto constatare [...] la sua gemmante bellezza strumentale, la sua esuberanza musicalissima, basi di tutta la concezione dram­ matica dell’Alfano. Egli infatti non si parte, come fa il Pizzetti, dalla parola, bensì dall’emozione sonora, onde ottenere quelli

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effetti ch’egli stima nobili ed essenziali del suo teatro. [...]. Tale del resto fu la mia impressione quando mi trovai al nostro Co­ munale dinanzi allo scintillio irrequieto e al versicolore miracolo della parte strumentale di Sakùntala» (g. bastianelli, Franco Alfano cit.). Ed ancora sulla strumentazione istituisce un curioso e divertente confrónto fra quanto si faceva a Firenze sotto la gui­ da di Pizzetti e quanto invece realizzato a Bologna con Alfano: «Evidentemente Dio fa maestri e città e poi li appaia. Là, la vec­ chia disposizione dei taccagni fiorentini alla economia per non di­ re alla spilorceria deve trovarsi a suo grado con l’arte del Pizzetti che ha ridotto la musica nel melodramma e specialmente nello strumentale a quel minimo oltre il quale non ci sarebbe che il nulla; qua, il gusto bolognese per piatti colmi di vivande sapo­ rite deve trovarsi altrettanto bene con la nutrita e succulenta or­ chestrazione di Franco Affano. Ma auguriamoci che giammai ca­ taclisma scolastico scambi Affano nel posto del Pizzetti e questo nel posto di Affano; che ne nascerebbero situazioni da superare le ironie e i paradossi d’un qualunque Laforgue o Bernard Shaw della musica - se per caso esistesse» (id., La leggenda di Sakuntala, in «Il Primato», 1923). 172 6 Rappresentata al Teatro Nuovo di Torino nel 1927. 174 7 Comprese nella raccolta del 1918 (le altre sono del 1928; 1936, 1948). Affano compose una quarantina di liriche su testo di Ta­ gore. 8 Quartetto in re per archi del 1918. «Se io non avessi avuto la partitura del detto Quartetto da piu di un anno (l’ebbi sulla fine del ’20) e non me la fossi potuta studiare con pace e meditazione, chissà se oggi potrei dire che esso è una cosa fotte e significativa. [...]. Naturalmente ciò non porta a dire che tutto nel Quartetto dell’Alfano mi appaia oggi riuscito ed accettabile. Siamo in epoca tarda e difficile e le scoperte del genio sembran farsi ogni giorno piu rare e faticate. Ma quando siasi compresa dal di dentro la musica d’Alfano, si vedrà che in essa anche ciò che - come in molta musica modernissima - è puramente ricerca, è sempre co­ ronata da una conquista a suo modo interessante e feconda, se non fresca ed ingenua come le non ricercate conquiste di quegli artisti fioriti in epoche non gravi di saturazione musicale com’è la nostra, che ha alle spalle l’enorme catena dei grandi romantici ottocenteschi e dei loro immediati epigoni, invano voluti dimen­ ticare e scancellare da alcuni moderni vanamente imprecanti con­ tro una presunta infezione ottocentesca. [Segue una breve analisi dei tre tempi. Interessante notare la contraddizione fra quanto qui asserito in difesa dell’ottocento e le posizioni del Nuovo dio della musica}. Siamo dinanzi ad una manifestazione testimoniante una coscienza pura e severa di fronte all’arte. Insomma non cre­ diamo azzardar troppo dicendo che basterebbe questo Quartetto per persuaderci che in Italia c’è chi, senza debolezze e compia­ cenze vane, osa far molto piu, nel genere quartettistico, di quel che fecero i martucciani - ossia portar legna al gran bosco dei quartettisti tedeschi del secolo scorso. Tuttavia gli osanna elogia­ tivi noi che, come l’Alfano, ci sentiamo di avere una intrepida e

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severa coscienza di fronte all’arte, li lasciamo ai chiaccheroni e ai falsi critici» (g. bastianelli, Il Concerto del quartetto Bolo­ gnese, nel «Resto del Carlino», i° aprile 1922). 174 9 Del 1923 (seconda versione). 10 Carlo Permeilo (1877-1942), compositore e didatta, diresse a Mi­ lano la sezione musicale dell’istituto ed. italiano. 175 11 Felipe Pedrell (1841-1922): «Al Pedrell toccò la strana ventu­ ra che è toccata a tutti gli ottocentisti affetti da germaniSmo mu­ sicale in ogni paese: al Fauré, al Saint-Saens e al D’Indy toccò di vedere Debussy e Ravel, al Mancinelli, Scontrino Bossi toccò di vedere il Pizzetti e il Malipiero. A lui, al Pedrell, toccò di ve­ dere Albeniz e Granados» (g. bastianelli, La morte di Pelipe Pedrell, nel «Resto del Carlino», 7 settembre 1922). 12 Dal dramma omonimo di Victor Balaguer, rappresentato a Bar­ cellona nel 1902. Vi ritroviamo tutti gli elementi del vecchio me­ lodramma dominato dal sentimento patriottico con l’uso di ele­ menti desunti soprattutto dal folklore castigliano. «Ricordo la impressione disgustosa che giovanissimo ricevevo dalla sua più nominata che celebre trilogia I Pirenei. Me ne era stato parlato da un martucciano (come da un martucciano, il Bossi, ne fu ese­ guito la prima volta in Italia il prologo a Venezia [nel 1897]), me ne era stato parlato con un entusiasmo che fece accostare me al­ lora wagneriano accanito come tutti gli adolescenti di allora, con una sete schietta. Ma la nuova fontana non mi recava che sapori che conoscevo di già; anzi piu che apparirmi una gioia per me wagneriano, mi parvero quelle intenzioni trilogistico-nazionalistiche, un’offesa al mio grande Iddio Wagner. Unica scoperta che per verità allora compresi poco e che mi fece l’effetto di un epi­ sodio di folklore storico: il sublime mottetto polifonico dell’an­ tica Spagna [...] incluso in mezzo a tanta dolorosa imitazione» (G. bastianelli, La morte cit.).

Capitolo trentacinquesimo

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1 Cfr. p. 189, cap. vii, nota 1. 2 Vito Frazzi (1888-1975), compositore e docente, tenne la catte­ dra di composizione al conservatorio «L. Cherubini» di Firenze dal 1928 al 1956 avendo come allievi, tra gli altri, Valentino Bucchi e Luigi Dallapiccola. 3 Mario Castelnuovo Tedesco (1895-1968). Svolse un’intensa atti­ vità di compositore nel periodo fra le due guerre. Costretto ad abbandonare l’Italia per le persecuzioni razziali, si trasferì nel 1939 negli Stati Uniti dove morì. Bastianelli conobbe Castel­ nuovo nel salotto di Gino Modona dove il giovanissimo musicista fece ascoltare i suoi primi lavori per pianoforte: «Mi entusiasmò, quella musica [Sonata inglese e Cielo di settembre], per la sua in­ credibile precocità e spontaneità» (g. bastianelli, Mario Castel­ nuovo Tedesco, nel «Resto del Carlino», 6 agosto 1922; ripub­ blicato nel «Convegno» dell’ottobre s. a., pp. 602-5).

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4 Arrigo Pedrollo ( 1878-1964), compositore e direttore d’orchestra. Dal 1930 al 1941 tenne la cattedra di composizione al Conservatorio di Milano. 5 Nel 1919 Bastianelli ascoltò alcuni lavori del diciannovenne An­ tonio Veretti durante l’annuale saggio di composizione al Conser­ vatorio di Bologna, rimanendone colpito: «Da giovani di 18 e 20 anni è assurdo pretendere parole nuove e quindi proprie. Pure sprazzi di personalità ho visto balenare un po’ in tutti gli allievi del maestro Franco Alfano [...] e specialmente nei due brani per orchestra del signor Antonio Veretti [Intermezzo Melico e Pan­ tomima)» (g. bastianelli, Il saggio finale al Liceo Musicale, nel «Resto del Carlino», 29 giugno 1919). Tre anni dopo - rac­ conta Bastianelli - «un giorno, all’uscita d’un concerto» una si­ gnora «mi assale e m’inibisce mentre ero inerme per la distrazio­ ne di andare a sentire la musica di un giovanissimo del quale, del resto, avevo già bene auspicato tre anni fa al suo presentarsi in un saggio al Liceo Musicale di Bologna. [...]. Andai. Si trattava di tre Poemi biblici per canto e piano su testo tolto dal Cantico dei Cantici.,. Il salotto se ne eccettuiamo la padrona di casa, me, il novello compositore - un giovane quasi ancora adolescente, pallido, dagli occhi un po’ stanchi, semplicissimo nel modo di presentarsi - e la cantatrice dei poemi, era animato da qualche altra figura di quelle su cui si chiudono volentieri non uno ma due occhi mentre si ascolta la musica. [...]. Mi afferra subito la assoluta innocenza di questa musica. C’è una sensibilità schietta e una spontaneità formale che valgono a farmi dimenticare ogni cautela. Tuttavia un resto di prudenza mi fa attendere. [...]. Ma ecco un episodio superbo che d’un tratto mi fa balenare sul conto del Veretti un’intuizione critica fondamentale: è il passaggio, agitato e drammatico al sommo, sulle parole: «mi trovarono le guardie ecc., ecc. » - e terminate con un efficacissimo rotolare di masse sonore di sostanza prettamente sinfonica. L’intuizione che mi balena ascoltando questo tratto da maestro è che noi siamo davanti a una splendida autentica natura di operista - si capisce, in germe» (id., Un nuovo musicista: Antonio Veretti, in «Il Convegno», maggio 1922, pp. 250-53). Quei Poemi biblici che Bastianelli riascoltò, pochi giorni dopo questo «incontro» priva­ to, nella sala di «Musica Nuova»: «C’è nel Veretti la vena lim­ pida e melodica, la concatenazione normale e spontanea delle parti del pezzo, il risalto lirico della parola ottenuto senza sforzi di ricerche - per sola intuizione lirica. [...]. Salutiamo dunque nel Veretti la scoperta d’un nuovo temperamento musicale [...] e... non ho bisogno di ricordargli di non montarsi il cervello a queste prime approvazioni mie e del pubblico (il Veretti è stato applauditissimo), ma di guardare con tranquilla vigilanza sempre più a fondo dentro di sé e di vivere in spirituale semplicità» (id., Il concerto Diana-Zago-Veretti a «Musica Nuova», nel «Resto del Carlino», 9 aprile 1922). In seguito Bastianelli recensirà la So­ nata come una fantasia per violoncello e pianoforte (1922) che tuttavia giudicherà inferiore ai Poemi biblici (id., Il concerto Bonucci al «Quartetto», nel «Resto del Carlino», 29 aprile 1923).

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Troviamo ancora un breve «medaglione» di Veretti sul «Resto del Carlino» del 13 luglio 1923 (Musicisti novissimi) e la noti­ zia, sempre sullo stesso foglio, dell’interruzione del suo lavoro teatrale Eliduc per l’opera buffa in un atto II medico volante (li­ bretto di Bacchelli; non rappresentato).

Indice

p.V

Introduzione di Marcello de Angelis

XIX

Cronologia della vita e delle opere Opere di Giannotto Bastianelli

XXV XXVII

Nota bibliografica

Il nuovo dio della musica Parte prima La crisi della critica 5 12

x6

20 24

3° 34 38

45 50

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. i o.

Intenzione d’intimità Elefantiasi dell’ultima critica italiana La macchia d’olio dell’ultima critica in Italia Degenerazione della degenerazione critica La critica come crisi degli artisti Intermezzo ironico Il retto della medaglia Dai alla critica quello che è della critica Italianità del mio antiromanticismo Il pubblico dei vivi oggi piu critico della critica stessa

Parte seconda [Dionisos] 57 60

64

11. Ultima incarnazione di Dionisos 12. La nuova agonia del dio 13. Dionisos demagogo

222 P-74 81 87

9i 96 103

106 no

115 120

INDICE

14. La vera originalità di Beethoven 15. Verdi e Beethoven 16. Titanismo in Beethoven, rassegnazione cristiana in Dante 17. Dionisos pianista 18. Dionisos eautontimoromenos 19. Risposta telefonica ad un interprete 20. Wagner 21. Rossini 22. Ancora Wagner 23. [Cristo a braccetto a Dionisos] Parte terza [Il nuovo dio della musicai

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24. 25. 26. 27. 28. 29. 30. 31. 3 2. 33. 34. 35,

[Claude Debussy pioniere della nuova musicalità] [I teatri piccoli] [Ancora sui teatri piccoli] [Gian Francesco Malipiero] La rinascita delle modalità discendenti Pizzetti Pizzetti pizzettiano Zandonai prima di guerra e Zandonai dopo guerra Parla il nuovo dio della musica Ottorino Respighi Franco Alfano La torre di Babele

Parte quarta Dall’arte alla religione 181

i. L’individuo erroneo in lotta con il rigoglio della specie

183

Note

Finito di stampare il 14 gennaio 1978 per conto della Giulio Einaudi editore s. p. a. presso ^Officina Grafica Artigiana U. Panelli in Torino c.l.

4846-2

Scritto fra il 1925 e il 1927 e rimasto fino a oggi inedito, Il nuovo dio della musica è l’opera piu significativa di Giannotto Bastia­ nelli. È infatti specchio non solo del complesso e problematico itinerario biografico-critico dell’autore, ma riflette anche le ansie e le contraddizioni di un’intera generazione di intellettuali. Steso in forma diaristica, a brevi capitoletti, il volume nelle prime due parti è una violenta requisitoria contro l’epoca romantica c i suoi epigoni, che Bastianelli identifica con gli sfrenati seguaci del dio Dionisos. A questi egli oppone il «nuovo dio» novecentesco, il cerebrale Hermes che percorre le partiture di Debussy, Strauss, Stravinsky, Malipiero. Ma anche questa categoria estetico-lingui­ stica dev’essere solo una fase transitoria, che porterà il composi­ tore a una maggiore autocoscienza creativa. L’opera avrebbe do­ vuto comprendere anche una quarta parte, che Bastianelli non scrisse mai. Giannotto Bastianelli nasce nel 1883. Col labori)a «La Voce» e a «Soiaria» e fu critico musicale de «La Nazione» e de «il Resto del Carlino». Ha pub­ blicato: Pietro Mascagni ligio). La crisi musicale europea (1912), Saggi di critica musicale c «lì Parsifal» di Wagner (1914), L'Opera e altri saggi ( 1921 ). Muore nel 1927 a Tunisi.

Lire 6000 (?66o)

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