Il nuovo Come si legge Il Sole 24 Ore. Per capire il mondo dell'economia e della finanza [10° ed.] 9788863452570

Secoli di storia ci hanno insegnato che lo sviluppo dell'economia non procede mai in modo continuo e regolare, ma a

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Il nuovo Come si legge Il Sole 24 Ore. Per capire il mondo dell'economia e della finanza [10° ed.]
 9788863452570

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il nuovo

Come si legge

10a EDIZIONE AGGIORNATA E AMPLIATA

Per capire il mondo dell’economia e della finanza a cura di Fabrizio Galimberti, Riccardo Sabbatini, Gian Luigi Simone Prefazione di Roberto Napoletano

il nuovo COME SI LEGGE IL SOLE 24 ORE

Gli Autori Isabella Bufacchi è caposervizio presso la redazione romana del Sole 24 ORE. Roberto Capezzuoli è uscito a fine 2010 dal Sole 24 ORE dove rivestiva l’incarico di vicecaporedattore della redazione “Materie prime” Angelo Drusiani fa parte del team di gestione di Banca Albertini Syz & C. Marco Liera è fondatore di YouInvest, organizzazione di informazione e formazione finanziaria con sedi a Milano e Lugano Maria Adelaide Marchesoni è giornalista iscritta all’Albo dei pubblicisti e collabora con Il Sole 24 ORE. Carlo Messedaglia è condirettore centrale di Banca Esperia. Antonella Olivieri è inviato del Sole 24 ORE. Luca Paolazzi è direttore del Centro Studi Confindustria. Pierangelo Soldavini è vicecaporedattore del supplemento “Nova24” del Sole 24 ORE. Francesco Tabacchi è dottore commercialista a Torino. Elia Zamboni è vicedirettore del Sole 24 ORE e direttore responsabile di tutte le guide e pubblicazioni professionali e di settore del gruppo Il Sole 24 ORE.

il nuovo COME SI LEGGE IL SOLE 24 ORE Per capire il mondo dell’economia e della finanza A cura di Fabrizio Galimberti, Riccardo Sabbatini, Gian Luigi Simone Prefazione di Roberto Napoletano

Testi di Isabella Bufacchi, Roberto Capezzuoli, Angelo Drusiani, Fabrizio Galimberti, Marco Liera, Maria Adelaide Marchesoni, Carlo Messedaglia, Antonella Olivieri, Luca Paolazzi, Riccardo Sabbatini, Pierangelo Soldavini, Francesco Tabacchi, Elia Zamboni

ISBN 978-88-6345-257-0

© 1993, 2011 Il Sole 24 ORE S.p.A. Sede legale e amministrazione: Via Monte Rosa 91, 20149 Milano Redazione: Via C. Pisacane 1, 20016 Pero (MI) Per informazioni: Servizio Clienti 02.3022.5680, 06.3022.5680 Fax 02.3022.5400 oppure 06.3022.5400 e-mail [email protected] Fotocomposizione: Compos 90 S.r.l., Milano Stampa: Grafica Veneta, Via Malcanton 2, 35010 Trebaseleghe (PD) Prima edizione: giugno 1985 Decima edizione aggiornata: ottobre 2011 Tutti i diritti sono riservati. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, e-mail [email protected] e sito web www.aidro.org

Sommario

9

Prefazione di Roberto Napoletano

11

Introduzione di Fabrizio Galimberti

Parte Prima ECONOMIA, IMPRESA E FISCO 17

1. XXI secolo: il globo e la crisi di Fabrizio Galimberti La rivoluzione industriale, 19 - La globalizzazione, 23 - La finanziarizzazione, 39 - La percezione del rischio, 41

51

2. Indici e indicatori di Luca Paolazzi e Francesco Tabacchi I numeri indici, 52 - Inflazione e costo della vita, 55 - Andamento dell’economia nazionale, 60 Andamento del mercato del lavoro, 68 - Altri indicatori economici, 71

76

3. Fondamentali e bilanci di Maria Adelaide Marchesoni e Antonella Olivieri Il bilancio e l’andamento dell’economia, 77 - La riclassificazione dei bilanci, 78 - Gli indici di bilancio, 84 - I multipli di mercato, 87 - La struttura di un gruppo aziendale, 91

94

4. La vita delle società di Riccardo Sabbatini La corporate governance, 94 - Lo statuto, 98 - L’assemblea, 101 - Amministratori e organi di vigilanza, 103 - La mobilità del controllo, 109

113

5. Spese ed entrate dello Stato di Elia Zamboni Le spese, 114 - Le entrate, 115 - Il fisco, 122 - Le riforme tributarie, 126 - Le imposte dirette, 129 - Le imposte indirette: IVA e dintorni, 138 - Le tasse sulla produzione e le altre entrate tributarie, 141 - L’autotassazione, 143

Parte Seconda FINANZA E MERCATI 153

6. La protezione del risparmio di Riccardo Sabbatini A tutela del risparmiatore, 153 - Alla ricerca del prezzo giusto: l’informativa societaria, 158 - La correttezza nei comportamenti degli intermediari, 165 - La gestione dei conflitti d’interesse, 169 La protezione ex post, 171

176

7. Il mercato valutario di Pierangelo Soldavini L’evoluzione del mercato, 176 - I sistemi monetari internazionali, 179 - Moneta e cambio, 180 - Il mercato dei cambi, 182 - Il mercato a termine, 187 - I derivati su valute, 191 - La lunga strada verso l’euro, 193

199

8. Il mercato monetario di Isabella Bufacchi Il mercato monetario e la Banca centrale, 201 - L’Eurosistema, 205 - I tassi di Eurolandia, 207 Come si sposta la moneta, 218 - La riserva obbligatoria, 221 - La novità dell’Eurosistema, 222 - I derivati del monetario, 225

233

9. Il mercato obbligazionario di Angelo Drusiani e Carlo Messedaglia Alla ricerca di fondi, 234 - I titoli di Stato, 238 - Gli altri titoli pubblici, 245 - La vita di un’obbligazione, 247 - Le obbligazioni strutturate, 254 - Euromot e mercati esteri, 261 - Obbligazioni e cartolarizzazione, 265 - I derivati su obbligazioni, 272

276

10. Il mercato azionario di Antonella Olivieri La Borsa di oggi, 277 - Il mercato telematico azionario, 283 - Le sezioni della Borsa, 289 - Imparare a dare gli ordini, 291 - Gli indici di Borsa, 295 - I derivati di Borsa, 300 - Le Borse estere, 311

315

11. Il risparmio gestito di Marco Liera I fondi comuni di investimento mobiliare aperti, 317 - Le gestioni patrimoniali, 332 - Le polizze vita, 333 - Previdenza e fondi pensione, 339 - I fondi chiusi, 343

344

12. Il mercato delle merci di Roberto Capezzuoli Le tipologie di contratti, 346 - I mercati a termine, 347 - I mercati delle merci in Italia, 351 - Le Borse merci, 353

359

Indice analitico

Prefazione

Il cuore dell’economia, ci insegna l’antica Grecia che ha generato questa parola, è l’amministrazione delle cose domestiche. Con una saggezza purtroppo ignota ai moderni greci, ai quali oggi imputiamo l’infausta primogenitura nella devastante crisi dei debiti sovrani, questa radice etimologica evidenzia il legame indissolubile, costitutivo e diretto che l’economia ha con la vita concreta, con la gestione delle famiglie e con il (buon) governo del patrimonio. Questa relazione stretta tra grande e piccolo, tra tendenze macro e ricadute micro, tra sommovimenti mondiali e situazioni individuali si è ormai imposta con drammatica evidenza. Nella realtà complessa della globalizzazione, che ha dapprima spalancato immense potenzialità di sviluppo e poi propagato incontrollabili tensioni, non c’è più nulla che possa essere considerato a noi estraneo o lontano. Tutto è vicino, tutto è interconnesso, tutto ci avvolge, tutto è domestico. Innescata dai venti di una nuova recessione e sfociata nella tempesta dei debiti di Eurolandia, la grande crisi del 2011 non è solo un brivido da ottovolante per i mercati finanziari, sempre più sofisticati e frenetici nel vortice dei loro algoritmi, o una temporanea battuta d’arresto per la crescita internazionale. È una crisi che, come dimostrano le tensioni estive sugli spread dei BTP, precipita nelle nostre vite e infrange certezze consolidate. Scuote la moneta, i risparmi, il lavoro, le imprese, la nostra visione di Stato iper-protettivo e la nostra percezione del futuro. E impone nuovi modelli, meno debiti illusori, meno garanzie a buon mercato, meno squilibri tra generazioni. Nella stagione dell’incertezza la risorsa primaria è la conoscenza. Comprendere ciò che succede nel grande mare dell’economia significa capire qualcosa per sé, trovare un punto di riferimento personale e cominciare a orientare verso approdi più sicuri la propria difficile navigazione tra gli affanni della quotidianità. Dal 1985 c’è un libro che si incarica di divulgare le grandi cose dell’economia e di spiegare il loro riflesso nella nostra vita. Da subito è stato un caso di successo e via via, un aggiornamento dopo l’altro, si è imposto come un fenomeno

10 . PREFAZIONE

editoriale di lunghissima durata. Ventisei anni dopo, Come si legge Il Sole 24 ORE giunge adesso alla decima edizione. Il contenuto si rinnova, come spiega Fabrizio Galimberti nell’introduzione, per tenere il passo con i nostri tempi tumultuosi, ma lo spirito è sempre lo stesso: allineare una dopo l’altra, con semplicità di stile e chiarezza di impostazione, le nozioni essenziali dell’economia e coinvolgere il lettore nella comprensione dell’attualità quotidiana. Uno spirito, questo, che è in perfetta sintonia (fine tuning è di moda dire oggi) con l’autentica vocazione del Sole 24 ORE: effettuare ogni giorno – attraverso le sue firme, che ritrovate in questo libro, le sue sezioni, le sue rubriche e il suo doppio canale carta-web – un grande lavoro sui fatti e sui trend, per esplorarli, documentarli e mettere in luce le loro reali dimensioni. Il nostro quotidiano vuole continuare a essere la “parola chiave” sui grandi temi dell’informazione economico-finanziaria. Una “password” sicura, utile e alla portata di tutti. Fedele, soprattutto, alla sua promessa: cogliere con tempismo le novità, divulgarle con precisione tecnica e spiegare senza sosta che cosa cambia. Per accompagnare i lettori verso la giusta rotta. Roberto Napoletano Direttore Il Sole 24 ORE

Introduzione

Nell’ideogramma cinese che disegna la parola “crisi” ci sono due caratteri: il primo rappresenta un pericolo, il secondo un’opportunità. Ma non sempre i pericoli vengono avvertiti in tempo: nell’introduzione a una passata edizione (2007) di questo volume si leggeva che l’economia andava bene: «Tutto questo avviene in un periodo di netta ripresa dell’economia mondiale. Il 2005, il 2006 e il 2007 sono anni di crescita e anche Europa e Italia ne sono state contagiate». Niente lasciava presagire che proprio allora stesse incominciando quella che è stata chiamata la Grande recessione, la più grave crisi che abbia colpito l’economia mondiale nel dopoguerra. Una crisi che ha colto tutti di sorpresa e che ha insegnato umiltà a chi cerca di prevedere i fatti delle economie. Ma proprio perché l’economia si è rivelata imprevedibile, raddoppia il diritto/dovere di cercare di capirla. Un diritto/dovere che abbiamo come cittadini, come risparmiatori, come consumatori. E Come si legge Il Sole 24 ORE testimonia da molti anni questo sforzo di comprensione. Una comprensione che è tanto più necessaria in quanto stiamo ancora vivendo, a quattro anni dall’inizio della crisi, i pericolosi strascichi che ha lasciato, la coda velenosa di deficit e debiti pubblici che la battaglia contro la recessione ci ha dato in lascito, una difficile eredità per la quale non possiamo invocare il beneficio d’inventario. La Grande recessione è venuta dopo alcuni “anni d’oro” dell’economia mondiale, e forse non per caso. Le crisi economiche, come scrisse Joseph Schumpeter – uno dei massimi economisti del Novecento –, non sono come le tonsille, che si possono togliere evitando così per sempre le tonsilliti: sono piuttosto parte del ciclo respiratorio dell’economia, che inspira l’ossigeno dell’espansione e poi butta fuori le tossine (anidride carbonica) accumulate nella fase della crescita (più poeticamente, Schumpeter scriveva: «Sono come il battito del cuore, appartengono all’essenza stessa dell’organismo»). Secoli di storia economica ci hanno insegnato che lo sviluppo dell’economia non procede mai in modo continuo e regolare, ma a scatti e spasmi. Ma torniamo al “respiro” dell’economia. L’espirazione è forte e lunga se l’inspirazione è stata altrettanto forte e lunga. Fuor di metafora, se la fase prece-

12 . INTRODUZIONE

dente alla crisi ha visto una crescita elevata e prolungata, è probabile che anche l’afflosciamento che segue sia altrettanto pronunciato. Clément Juglar, un economista francese del XIX secolo, scrisse: «L’unica causa della depressione è la prosperità». Le sue teorie, poi riprese e lodate da Schumpeter, furono a lungo misconosciute; e Juglar aggiunse: «La ricchezza delle nazioni può essere misurata dalla violenza delle crisi che subiscono». Giudizio, questo, duro da accettare negli anni in cui mordeva la recessione. Ma, nondimeno, un giudizio fondamentalmente esatto. Questa crisi ha colpito l’economia mondiale dopo il biennio di crescita più elevato dal dopoguerra: una ciliegina su un più lungo periodo che gli economisti hanno chiamato la “Grande moderazione”, un periodo di bassa inflazione, di bassi tassi di interesse e di crescita tranquilla, senza i saliscendi dei decenni precedenti. Insomma – sembra dirci la vicenda dell’economia – le crisi periodiche sono un prezzo da pagare, e il prezzo è tanto più doloroso quanto più ”allegro” è stato il precedente periodo di espansione. Un periodo di espansione che aveva visto anche l’Europa allungare la marcia. Pur se il Vecchio continente era in ritardo rispetto alle aree più dinamiche (Stati Uniti, Cina, India, Russia...) non era un semplice pezzo di sughero sulla corrente del ciclo internazionale. Profonde ristrutturazioni, sotto lo stimolo dell’unificazione monetaria da un lato, degli imperativi della tecnologia e della globalizzazione dall’altro, e ora anche sotto la sferza della crisi, stanno cambiando il volto produttivo dell’Europa e dell’Italia. Di questo cammino delle economie Come si legge Il Sole 24 ORE è da molti anni guida e interprete. Questo libro tiene banco da più di venticinque anni e ha saputo aggiungere a un folgorante successo iniziale la tenuta di un cavallo di razza: segno che risponde a un bisogno vero di un pubblico che è giustamente assetato di economia. L’informazione economica è la “materia prima” dell’economia. L’espressione non è esagerata, perché la teoria economica non si stanca di affermare che un mercato può funzionare solo se c’è concorrenza e la concorrenza ha bisogno del massimo d’informazione: sul prodotto, sui produttori, sui finanziatori, sui consumatori... E in una benefica interazione, è il mercato stesso a chiedere un’informazione sempre più libera e completa: un’informazione che Il Sole 24 ORE, giornale dell’economia e non giornale di parte, si è sempre impegnato a fornire. Sarebbe riduttivo pensare che il bisogno di capire i fatti economici è legato solo a questioni di portafoglio. Le ragioni profonde di questa sete stanno nella sensazione di impotenza che tanti provano guardando al dispiegarsi dei fatti dell’economia. Il mutuo costa più di prima? Salgono i prezzi? Il figlio laureato non trova lavoro? Il cittadino guarda al mondo che lo circonda e trova, nelle cattive notizie come nelle buone, ragioni di sopraffazione: si sente domi-

INTRODUZIONE . 13

nato da forze che non capisce, che non controlla, che volano alto o basso ma in ogni caso a un livello diverso dal suo. Se in un Paese scoppia uno scandalo come quello italiano delle tangenti dell’inizio degli anni Novanta, è facile incolpare il governo, i politici, la classe dirigente. Ma se scoppia la crisi economica, chi incolpare? Gli stessi parlamentari, gli stessi ministri danno la colpa alla crisi come si potrebbe dar colpa alla grandine o al terremoto. E il cittadino si sente frustrato dal non poter “guardare in faccia” il responsabile di questa sofferenza economica. La risposta, naturalmente, sta nel fatto che l’economia obbedisce a leggi proprie, che sono diverse da quelle approvate dal Parlamento, e ancora diverse dai (ma certo non incompatibili coi) Dieci Comandamenti. Alcune di queste leggi sono note, altre emergono faticosamente dai fatti non spiegati, come è successo con la Grande recessione che ha costretto a mettere in discussione alcuni postulati sul funzionamento dei mercati. Ma in ogni caso, capire queste leggi non vuole dire essere certi di poterle dominare. L’economia è fatta dai comportamenti di milioni di individui, e nessuno può essere dittatore dell’economia. Le pretese delle “economie di comando” dei Paesi socialisti sono state spazzate via dalla storia. Ma se capire non basta per dominare, basta per non essere dominati. Cioè a dire, la comprensione dei meccanismi dell’economia restituisce il cittadino al ruolo di spettatore intelligente, e non di oggetto passivo. Di più, questa comprensione permette di giudicare la compatibilità fra i propri comportamenti e i risultati che si vogliono ottenere. Basta qualche esempio: • chiedere aumenti di stipendio che l’impresa non può sopportare mette in pericolo lo stipendio stesso; • evadere le tasse può voler dire pagare rate più salate sul mutuo, se il deficit pubblico obbliga a far salire i tassi di interesse; • andare a cercare il prezzo migliore senza accontentarsi del primo che viene proposto e rifiutando gli aumenti che paiono ingiustificati non è solo una ricetta per rafforzare il bilancio familiare, ma è un comportamento che obbliga il sistema distributivo a diventare più efficiente. Come si legge Il Sole 24 ORE è allora un manuale che insegna l’economia? La definizione è troppo ambiziosa. Quest’opera collettiva si propone soprattutto di partire dai fatti quotidiani dell’economia – i BOT, le tasse, le azioni, l’euro, il costo del denaro e così via – per spiegare i meccanismi e le rotelle di queste transazioni che ognuno prima o poi si trova ad affrontare. Dietro ai titoli azionari ci sono i bilanci, ci sono imprese che pulsano di vita e obbediscono a regole e imperativi, e di queste imprese e di questi bilanci bisogna capire ragioni e numeri. Capitoli speciali e capitoli generali si danno il cambio per passare dal

14 . INTRODUZIONE

particolare al generale e viceversa, per offrire al lettore un filo d’Arianna in un mondo e in un linguaggio dell’economia che diventano sempre più specialistici e complicati. Queste esigenze del lettore cui abbiamo cercato di rispondere sono oggi più forti che mai. E non tanto per ragioni congiunturali dell’oggi, legate a una crisi che ha squassato (e agita ancora) l’economia mondiale, ma anche per ragioni strutturali dell’oggi e del domani, legate all’internazionalizzazione crescente dell’economia italiana. Molti anni fa sono stati liberalizzati i movimenti delle merci, e qualsiasi italiano ha potuto comperare una Volkswagen o una Peugeot. Poi sono stati liberalizzati gli investimenti, e qualsiasi italiano ha potuto acquistare un’azione della Volkswagen o della Peugeot. Poi ancora – nel 1990 – sono stati liberalizzati tutti i movimenti di capitale, e a qualsiasi italiano è stata data la possibilità di aprire un conto corrente a Wolfsburg o a Sochaux. Tutto questo ha anche ampliato gli orizzonti dell’incertezza e il numero di bussole con le quali ci dobbiamo inoltrare nella “terra incognita” dell’investimento senza frontiere. Questa globalizzazione oggi bussa anche alla porta delle scelte di lavoro. Le delocalizzazioni, cioè il trasferimento all’estero di fasi produttive o di intere imprese non riguardano solo l’industria: anche molti lavori impiegatizi, attraverso i prodigi della telematica, possono essere sottratti all’America o all’Italia ed essere svolti in India o nei Caraibi. Sono problemi ma sono anche opportunità; e, di nuovo, capire quello che succede è la prima condizione per dominare e non essere dominati, cogliere le opportunità e non essere schiacciati dai problemi. Una guida, una bussola, un “manuale per l’uso” dell’economia. Questo vuole essere la nuova e decima edizione di Come si legge Il Sole 24 ORE. Con l’augurio che i lettori si trovino a usarlo per scegliere e cogliere i frutti di un’economia che vuole ritrovare i sentieri dello sviluppo. Fabrizio Galimberti

Parte Prima

Economia, impresa e fisco

1

XXI secolo: il globo e la crisi di Fabrizio Galimberti

Chi ben comincia è a metà dell’opera, dice uno di quei proverbi che sono la saggezza dei popoli. Da questo punto di vista – bisogna confessare – l’economia del XXI secolo non è cominciata bene. Prima, proprio all’inizio del secolo, avevamo dovuto inaugurare il millennio con la crisi delle dot.com, quando le quotazioni di tante società internet, che avevano nei bilanci solo il verde della speranza e il rosso dei conti, avevano raggiunto il calor bianco, per cadere infine nel buco nero del fallimento. E quel crollo borsistico si era portato appresso una recessione, sia pur fra le più miti degli ultimi decenni. Ma quella crisi era stata solo una “prova”: in quegli anni, e già dai tardi anni Novanta, stava covando, e sarebbe andata maturando ancora per qualche anno, un’altra planetaria mattana: la lunga galoppata dell’economia americana era basata sul debito e gli squilibri si andavano accumulando. Così come una famiglia, neanche un Paese può continuare indefinitamente a consumare più di quel che produce, e in America il continuo lievitare dei debiti privati e pubblici faceva presagire tempi difficili. Nella pentola della finanza mondiale sobbollivano gli ingredienti per una crisi, di cui i sommovimenti del 2000-01 erano stati solo un assaggio.

Le crisi vengono e le crisi passano. Ma ogni sommovimento dell’economia ha fattezze diverse, anche se le origini si trovano negli eccessi delle fasi espansive precedenti.

18 . ECONOMIA, IMPRESA E FISCO

La Grande recessione Quei nodi vennero al pettine nel 2007, ma con forme e virulenze che colsero molti di sorpresa. Mentre era possibile prevedere che l’America avrebbe un giorno dovuto fare i conti col troppo debito, era difficile conoscere il giorno del redde rationem, ed era ancor più difficile sapere quale forma avrebbe preso questa resa dei conti. Ma questo giorno alfine venne: in una “notte di mezza estate”, a fine luglio 2007, cominciò non un sogno ma un incubo. L’incubo di una crisi che ha squassato l’economia mondiale e che continua a intorbidire acque e sonni di famiglie e imprese, evocando lo spettro lontano della Grande depressione degli anni Trenta. Questa crisi, che possiamo battezzare la Grande recessione, è andata spiegando il suo potere distruttivo dal 2008 e ha raggiunto un triste massimo nel 2009, quando l’intera economia mondiale, per la prima volta nel dopoguerra, è tornata indietro, mettendo il segno “meno” davanti alle statistiche dell’attività economica, senza distinzioni di paralleli e di meridiani. Anche quei Paesi che, come la Cina, sono riusciti a continuare a crescere, hanno rischiato molto: come una bicicletta, la Cina rischia di cadere se rallenta troppo. Quello che ha colpito, in questa Grande recessione, è il fatto che è giunta completamente inaspettata, per quanto riguarda l’intensità della caduta e l’estensione geografica. Anche la faticosa ripresa, che è cominciata nel 2010, è stata anomala. Un’anomalia che non fa parte dei normali meccanismi del ciclo, ma che è la reazione al “troppo debito” precedente. Il debito è una leva, avrebbe detto Archimede, che è capace di sollevare l’economia. Ma il troppo debito fa fare un ruzzolone. Poi, quando cerca di risollevarsi, l’economia si accorge che deve smaltire quell’eccesso di debito, e per farlo è necessario risparmiare. Ma risparmio vuol dire spendere di meno, e l’intero sistema economico deve quindi procedere avendo davanti i venti contrari di una scarsa propensione a spendere e a rimettere i soldi in circolo. Questo processo è chiamato dagli economisti deleveraging: togliere, cioè, quell’effetto leva che era andato troppo in là. E c’è di più: la forte ondata recessiva era stata giustamente combattuta dai governi con riduzioni di imposte e aumenti di spesa: quando i privati non spendono e l’economia minaccia di cadere in una spirale di involuzione, bisogna che sia lo Stato e spendere e a rimettere i soldi in circolo. Ma questo ha portato a forti deficit e debiti pubblici. L’eccesso di debito privato è in via di correzione, ma lo smaltimento si prolunga perché è il settore pubblico a dover procedere al deleveraging per ridurre il suo debito: un altro vento contrario che affatica l’economia. E naturalmente, dato che nel mondo c’è una professione – quella degli economisti – che studia l’economia e spesso e volentieri cerca di capire dove va e fa delle previsioni nero su bianco, la triste sorpresa della Grande recessione ha

XXI SECOLO: IL GLOBO E LA CRISI . 19

messo sul banco d’accusa anche quella professione. Ma in fondo, non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Guardiamo alle due diverse accezione del termine “economia”. L’economia e l’economia: in italiano, a differenza dell’inglese, non ci sono due parole diverse per denotare l’economia come scienza (economics) e l’economia come fatto produttivo (economy). Diventa quindi difficile spiegare come nei secoli l’economia sia andata sempre litigando con l’economia: nel senso che l’economia come scienza, che doveva spiegare l’economia come fatto, veniva spesso presa in contropiede da fatti che non si piegavano alle teorie. In questo XXI secolo l’accelerazione nel cambiamento delle strutture portanti del sistema economico ha ancora messo in crisi la teoria economica, che sta cercando, specie sul terreno cruciale dello sviluppo economico – spiegare “la ricchezza delle nazioni” –, di mettere insieme un nuovo consenso su che cosa fa un Paese ricco o povero. In questo capitolo parleremo della “Nuova economia” del XXI secolo, guardando a quattro fattezze distintive del nuovo: la rivoluzione industriale in corso, la globalizzazione, la finanziarizzazione e gli scenari di cambi e tassi in questo mondo diverso. E così facendo cercheremo anche di spiegare come è sorta questa crisi epocale della Grande recessione, e magari come ne potremo uscire.

La rivoluzione industriale “Nuova economia”, abbiamo detto. L’espressione naturalmente non è nuova, ed è anche, nella mente di molti, un po’ screditata. La Nuova economia, con la N maiuscola, venne identificata con la bolla azionaria scoppiata a cavallo del secolo, con le quotazioni delle società internet, che avevano raggiunto livelli assurdi, scontando i profitti non solo di questa vita ma anche dell’aldilà. La “N” del nuovo veniva usata e abusata per affermare che eravamo entrati in una nuova era, che i modelli di valutazione delle aziende usati fino a quel momento non contavano più, che l’importante era saltare sull’autobus delle imprese tecnologicamente avanzate, perché quell’autobus avrebbe raggiunto in poco tempo ridenti vallate in cui crescevano profitti rigogliosi... Dalla prima alla quarta rivoluzione industriale Quelle spensierate previsioni sono state smentite, ma non erano basate sul nulla. Erano basate su una nuova, vera e importante fattezza dell’economia: l’avvio di una nuova ondata di rivoluzione industriale. Quando si parla di “rivoluzione

20 . ECONOMIA, IMPRESA E FISCO

industriale” il pensiero di solito corre a quella della seconda metà del Settecento. Ma a partire da quei tempi, altre rivoluzioni industriali sono andate emergendo, con caratteristiche non dissimili, nel loro germogliare e nel loro diffondersi, da quella originaria. Ci fu, un secolo dopo la prima, una seconda rivoluzione industriale basata sulle ferrovie, l’elettricità, il telegrafo. Poi, nella prima parte del Novecento, l’avvento di automobili (motorizzazione di massa), telefono, cinema e televisione cambiò di nuovo il volto dell’economia. Nella seconda parte del Novecento la quarta rivoluzione industriale vide l’arrivo delle materie plastiche, grandi progressi nella farmaceutica e la nascita dell’elettronica. La quinta rivoluzione Finalmente, a cavallo del secolo e ancora oggi, la quinta rivoluzione industriale, forse la più profonda e la più tentacolare: la rivoluzione telematica (informatica + telecomunicazioni), un drastico calo nel costo dell’informazione e del trasporto dell’informazione. Tutto qua? In questa modesta definizione – un calo nel costo dell’informazione – c’è molto di più di quanto sembri. Che cos’è un’impresa se non informazione organizzata a scopi produttivi? I processi produttivi non sono altro che conoscenza – e quindi informazione – volta a creare, distribuire e commerciare beni e servizi. E quando il costo di organizzare questa informazione viene a ridursi, per merito dei computer, è tutto il processo produttivo a trarne beneficio: scende il costo di produzione e questo si traduce in prezzi minori (minori in assoluto o minor aumento rispetto a quello che si sarebbe verificato altrimenti) e quindi più potere d’acquisto e più benessere.

Tutte le rivoluzioni, anche quella tecnologica degli ultimi decenni, portano con sé nuove problematiche che vanno risolte.

XXI SECOLO: IL GLOBO E LA CRISI . 21

Una rivoluzione orizzontale Da questo punto di vista i benefici della quinta rivoluzione industriale vanno ben al di là di quelli diretti dei nuovi prodotti (i computer, grandi e piccoli, e tutti gli altri prodotti, dai palmari ai telefoni cellulari, agli MP3 ecc.) che usano l’elettronica. L’auto per tutti fu una grande invenzione, così come le materie plastiche; ma i benefici furono locali, consistettero nei vantaggi – certamente immensi – legati all’uso di questi nuovi prodotti. La rivoluzione informatica, invece, è una “rivoluzione orizzontale”: non consiste solo nei vantaggi che derivano dall’uso dei prodotti dell’elettronica, ma nel fatto che l’informatica si applica al sistema produttivo intero (dai bottoni all’agricoltura, all’aeronautica ecc.) e quindi rivolta come un guanto tutti i prodotti, tutti i beni, tutti i servizi. Da questo punto di vista la quinta rivoluzione industriale può essere comparata, nella sua “pervasività”, nella sua “orizzontalità”, solo alla seconda, quella dell’elettricità. Guardiamo al grafico per capire quante “gambe” ha questa nuova ondata di rivoluzione industriale in cui ci troviamo a vivere. Ha un “inizio mobile”, nel senso che gli anni sull’asse orizzontale si contano a partire da quando l’innovazione fu introdotta. L’asse verticale, invece, misura la percentuale di famiglie presso cui l’innovazione è diventata parte della vita quotidiana. È una percentuale che naturalmente cresce col passare del tempo. E ne deve passare parecchio: per esempio, ci sono voluti cinquant’anni dall’invenzione della televisione affinché la sua penetrazione raggiungesse in pratica tutte le famiglie. E, a più di cento anni dall’introduzione dell’automobile o del telefono, c’è ancora spazio di crescita. In questo contesto, fra le innovazioni “giovani”, la penetrazione del pc, del telefono cellulare o di internet, ha ancora molto cammino da fare, anche se, a differenza delle altre, che hanno avuto lunghi

LA PENETRAZIONE DELLE INNOVAZIONI

% di famiglie che le utilizzano

Le innovazioni più recenti, come internet e telefonia mobile, hanno ancora molta strada da fare per raggiungere i livelli di penetrazione delle grandi innovazioni del passato.

100 90 Energia elettrica Telefono 80 Televisione Radio 70 Automobili 60 50 40 Internet 30 Viaggi aerei 20 Telefonia 10 mobile 0 0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100 110 120 Numero di anni trascorsi dall’invenzione

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periodi di incubazione, queste “novità” sono partite col piede giusto e rapido. E, quando si pensa che in questo caso l’innovazione non è solo di prodotto, ma anche, come si diceva prima, di processo, si comprende come la “quinta rivoluzione industriale” andrà a segnare il XXI secolo. Ce ne sarà una sesta? Non è affatto escluso, perché la rivoluzione informatica di prodotto e di processo sta agendo da acceleratore, in pratica, in tutti i campi del progresso tecnico e scientifico. Ed è consolante vedere che anche in questi anni amari della Grande recessione ricerca e innovazione non si sono fermate. La fertilizzazione incrociata delle nuove tecniche fa balenare la possibilità di creare nuovi materiali, di fare straordinari progressi nella biotecnologia, nella farmacologia e in altri campi ancora. Quando si parla di innovazione si pensa a oggetti e gadget, ma la telematica offre enormi miglioramenti anche nei servizi, dalle banche alle assicurazioni, dalle cure mediche all’ingegneria. E non si parla solo della possibilità di far leggere le radiografie fatte in Francia a un radiologo di Nuova Delhi, ma anche, per fare un esempio, alla messa in rete di dati medici di ogni cittadino, cosicché se un italiano si ammala a Chicago la sua storia medica può essere immediatamente richiamata dal computer dell’ospedale americano. Rivoluzioni e illusioni Si diceva prima che la Nuova economia è stata macchiata dall’associazione con la bolla azionaria della fine degli anni Novanta. Ma lungi dall’offuscare la verità dell’ondata innovativa, la bolla la conferma, perché la triste verità è che nel passato queste “rivoluzioni industriali” si sono quasi sempre associate a simili illusioni. Proprio perché le novità sono dirompenti, gli investitori (che ripetono sempre gli stessi errori) pensano che il “nuovo” porterà ad alti profitti, come i primi cercatori d’oro che, arrivati su un filone appena scoperto, fanno man bassa di metallo e ricchezze. Il problema sta nel fatto che i profitti non dipendono tanto dalla “novità” quanto dalla “apertura”: cioè, è vero che il nuovo porta a un profitto, ma se tanti altri imprenditori si infilano nel varco aperto dai pionieri e si fanno concorrenza fra loro, i profitti, come predice la teoria economica, si assottigliano rapidamente. A chi vanno allora i benefici del “nuovo”? Vanno, come è giusto, a tutta la società e non solo ai produttori: il nuovo si traduce in maggiore produttività e quindi minori costi unitari di produzione e quindi minori prezzi, con vantaggio di tutti. E intanto la concorrenza accanita porta a diminuire il numero dei produttori, man mano che i deboli escono e i forti si consolidano: all’inizio del Novecento c’erano nel mondo centinaia di produttori d’automobili; il fatto che la maggior parte sia uscita o fallita non vuol dire che la diffusione dell’automobile si sia arrestata. Al contrario, ha continuato a crescere, e i benefici si sono diffusi fra tutti i compratori di auto.

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La globalizzazione La seconda fattezza distintiva dell’economia del XXI secolo è la globalizzazione, ed è strettamente legata alla rivoluzione informatica di cui abbiamo appena parlato. Una rivoluzione che abbiamo più propriamente definito “telematica”, perché deriva da un matrimonio felice fra informatica e telecomunicazioni. Il carattere cruciale di questa rivoluzione produttiva è stato, come si è detto, di aver abbassato il costo dell’informazione, includendovi anche quella componente chiave che è il costo di trasporto dell’informazione. Ecco che la telematica ha annullato le distanze e ha reso possibile, in tutti i campi della produzione di beni e servizi che non richiedono un maneggio fisico (come nel caso del taglio di capelli), di decentrare in tutto o in parte il processo produttivo. Ecco che il trattamento delle richieste di rimborso alle assicurazioni mediche americane può essere fatto da gente che lavora nei Caraibi, trasmettendo gli input e gli output di questa “produzione” lungo le invisibili ed eteree autostrade della telematica. Ecco che la contabilità dei biglietti della British Airways può essere fatta in India. Ecco che lo sviluppo di programmi per calcolatori può essere fatto 24 ore su 24: il software in lavorazione può essere trattato 8 ore in America, poi altre 8 in Cina e altre 8 in Nuova Zelanda, con il programma in divenire che viene trasmesso in tempo reale all’una o all’altra delle squadre che si alternano lungo latitudini e longitudini. Un fenomeno antico «Il mondo è un villaggio»: questa espressione stenografica della globalizzazione è ormai diventata quasi proverbiale, e sembra assurgere a emblema di un mondo che è rotolato nel XXI secolo dopo aver schiacciato le frontiere con le liberalizzazioni (nei movimenti di capitali, di merci e di servizi) e annullato le distanze con i prodigi della telematica. Sembra, abbiamo detto. Perché la globalizzazione non è un fenomeno nuovo. «Il mondo è una città» disse (nel 1875!) Carl Meyer von Rothschild. L’occasione non era lieta, perché i mercati azionari in Europa e in America stavano crollando in sintonia... E qualche decennio più tardi, John Maynard Keynes avrebbe ricordato con nostalgia il bel tempo andato... In Conseguenze economiche della pace, pubblicato nel 1919, Keynes ricorda «quello straordinario episodio nel progresso dell’uomo che venne a finire con il 1914». «L’abitante di Londra – scrive Keynes – poteva ordinare per telefono, sorseggiando a letto il tè della mattina, qualsiasi prodotto del globo intero, in qualsiasi quantità desiderasse, e confidare in una consegna ragionevolmente sollecita, sull’uscio della propria casa; poteva con gli stessi mezzi e negli stessi tempi investire i propri soldi nelle risorse naturali e

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nelle nuove intraprese in ogni angolo del mondo, e condividerne senza sforzi o disturbi gli eventuali frutti; oppure poteva decidere di legare la sua fortuna a quella dei titoli emessi da Stati o municipalità in ogni continente [...]. Poteva avventurarsi all’estero, usando trasporti non cari e confortevoli, verso qualsiasi Paese e qualsiasi clima, senza passaporti o altre formalità. Poteva mandare un incaricato alla banca per ritirare qualsiasi quantità di metalli preziosi di cui avesse bisogno, e poteva poi andare all’estero, senza conoscenza di altre religioni, altre lingue o altri costumi, portando nelle tasche oro coniato, e sarebbe stato molto sorpreso e annoiato alla minima interferenza. E infine – ed è questa la cosa più importante – considerava questa situazione come qualcosa di normale, certo e permanente, e qualsiasi deviazione da questo stato di cose come un’aberrazione e uno scandalo». Dieci anni dopo, nel 1929, la “globalizzazione” conobbe la tristezza della crisi. Prima fu “globale” il contagio dell’implosione di Wall Street del 1929, poi i Paesi si chiusero a riccio, aggravando la Grande Depressione degli anni Trenta con la spirale viziosa del protezionismo. Esplosione o implosione? La globalizzazione è in effetti un fenomeno che può sia esplodere sia implodere. Quando la libertà degli scambi viene cercata e accettata, la globalizzazione si estende a macchia d’olio, gli scambi balzano da bilaterali a multilaterali, la ragnatela del commercio avviluppa sempre più Paesi e i fili della ragnatela si irrobustiscono. Ma il processo è altrettanto possente nell’altra direzione. Quando, come negli anni Trenta, i Paesi si chiudono, gli scambi si demoltiplicano con spaventosa rapidità e ogni riduzione genera altre cadute che percorrono e inaridiscono i fili della ragnatela. La nuova globalizzazione a cavallo fra il XX e il XXI secolo ha avuto tuttavia caratteristiche diverse da quelle di inizio Novecento. In una parola ha beneficiato della ritirata dello statalismo. Il crollo dell’impero sovietico alla fine degli anni Ottanta, la faticosa transizione dei Paesi dell’Europa orientale dal socialismo reale al mercato, la lunga marcia dei due Paesi più popolosi del mondo – Cina e India – verso l’economia di mercato, hanno fatto sì che nello spazio di due decenni la forza-lavoro mondiale si sia in pratica raddoppiata. Ove con l’espressione forza-lavoro ci si riferisce a quella dei Paesi che operano in un regime di economia di mercato. I semi della crisi Ciò che abbiamo appena detto è importante perché serve a spiegare le ragioni remote della Grande recessione. Con la caduta del Muro di Berlino e la caduta di altri statalismi in Cina, India e altri Paesi, la globalizzazione ha messo a

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IL MONDO SI APRE O SI CHIUDE? Alla fine del Novecento, dopo cinquant’anni di apertura multilaterale degli scambi, e dopo un decennio di liberalizzazione dei movimenti di capitale, il mondo sta tornando ad assomigliare a quello di cent’anni prima, descritto da Keynes. Ma in certi cruciali aspetti ne siamo ancora lontani, come presto si accorgerebbe chiunque volesse girare il mondo senza passaporto e con un sacchetto di monete. Né questo è il solo problema. Eccone alcuni altri. Rispetto alla fine dell’Ottocento, le economie, malgrado i progressi nella liberalizzazione degli scambi sono dappertutto più chiuse: nel 1879, per esempio, ben il 95% delle importazioni tedesche non pagava alcun dazio. Secondo uno studio recente, se l’Europa non è una “fortezza”, poco ci manca. I livelli di protezione nell’agricoltura e in altri settori costano all’incirca il 7% del PIL europeo. In molti Paesi gli investimenti privati dall’estero non sono trattati su basi non discriminatorie (vi è la “paura dello straniero” che limita la possibilità per i capitali esteri di assumere partecipazioni di controllo). Anche a livello del movimento dei capitali nel loro complesso, un “indice della mobilità dei capitali”, preparato dal Fondo monetario internazionale, suggerisce che i movimenti di capitali in quota di PIL siano ben al di sotto dei livelli degli anni Ottanta dell’Ottocento. L’emigrazione internazionale è strettamente controllata, quasi dappertutto. Nel XIX secolo la libertà di movimento delle persone portò all’emigrazione di 60 milioni di europei verso le Americhe, l’Australia o altri luoghi. Gli Stati Uniti si riempirono di immigrati: secondo il censimento del 1900, il 14% della popolazione americana di allora era nato all’estero, contro un 8-9% di oggi.

In un mondo senza confini Il Sole 24 ORE dedica ogni giorno spazi a tutti gli altri mercati anche per evidenziare le opportunità che si aprono per le aziende del nostro Paese.

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disposizione dei lavoratori di tutto il mondo beni e servizi a basso prezzo, facendo leva sul basso costo del lavoro dei Paesi emergenti. Ma allo stesso tempo quest’ingresso di miliardi di lavoratori nell’economia di mercato ha avuto lo stesso effetto che avrebbe nei mercati dell’alluminio la scoperta di immensi nuovi giacimenti di bauxite. Il prezzo dell’alluminio scenderebbe, e così cala anche il prezzo del lavoro (salari e stipendi) dato che nei Paesi di antica industrializzazione – Europa, America del Nord, Giappone… – i lavoratori si trovano, direttamente o indirettamente, a competere con i nuovi arrivati che offrono il proprio lavoro per un “pugno di riso”. Questo non vuol dire, naturalmente, che salari e stipendi occidentali si siano adeguati a quelli cinesi, ma che si è creata una pressione al ribasso sul costo del lavoro nei Paesi “emersi”. Salari e stipendi sono rimasti fermi o sono cresciuti poco. Nell’altalena della distribuzione del reddito, meno redditi da lavoro vuol dire più profitti. Le imprese – finanziarie e non – se ne sono avvantaggiate perché da una parte hanno visto rallentare il loro costo del lavoro, dall’altra hanno riorganizzato le loro “catene di offerta” andando a cercare in giro per il mondo i prodotti e i semilavorati là dove costavano meno, dall’altra ancora hanno sfruttato i prodigi della telematica risparmiando anche sui servizi: come detto in precedenza, hanno spostato in Paesi a basso costo tanti servizi informatici, di contabilità, di trattamento di rimborsi assicurativi e financo di lettura di cartelle radiologiche, per citarne solo alcuni. Il credito facile I cambiamenti nella distribuzione dei redditi minacciavano conseguenze su quella che gli economisti chiamano la “domanda effettiva”, cioè la domanda di beni e servizi che si sviluppa nell’economia. Dato che i redditi da lavoro vengono spesi quasi tutti, mentre i redditi da profitti hanno un contenuto di “domanda effettiva” più basso, una redistribuzione dei redditi avversa al lavoro rischia di ridurre la domanda effettiva. Perché questo non succeda bisogna che i lavoratori non riducano la loro spesa, e questa “esigenza” crea spazio per nuovi strumenti di debito che permettono alle famiglie di continuare a spendere come prima, indebitandosi. Questi nuovi strumenti hanno quindi permesso, in primis alle famiglie americane, di innalzare il loro livello di debito ai massimi storici, hanno consentito di aumentare la domanda di case con i famosi mutui subprime, e a sua volta questa maggiore domanda di case ha innalzato i prezzi delle abitazioni, permettendo alle famiglie di usare le case come un bancomat: un sistema finanziario (troppo) sofisticato permetteva di rifinanziare i mutui con enorme facilità e di dare prestiti addizionali avendo a garanzia l’accresciuto valore delle case (e confidando incautamente che i prezzi delle case non sarebbero mai scesi).

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La tragicommedia della crisi Le cifre in gioco erano imponenti – parliamo di molte migliaia di miliardi di dollari. I mutui, sia quelli facili che quelli normali, furono spacchettati e trasformati in obbligazioni (cartolarizzazioni) e di questi nuovi titoli, uniti ad altri creati dalla fervida fantasia degli ingegneri finanziari, si riempirono le tasche banche, società finanziarie e altri investitori in giro per il mondo (negli USA circa il 70% dei mutui immobiliari erano stati trasformati in obbligazioni). A questo punto si erano create le condizioni per una “tragicommedia” in sei atti.

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Primo, la percentuale di mutui subprime in sofferenza cominciò ad aumentare. Secondo, i titoli cartolarizzati che avevano dietro quei mutui cominciarono a perdere di valore. Terzo, molti fondi di investimento e altre società create apposta dalle banche avevano comprato quei titoli che perdevano di valore finanziandosi con denaro a breve. Ma i finanziatori di quei fondi, quando si resero conto che quei soldi erano stati investiti in titoli che andavano perdendo di valore, decisero di non rinnovare le linee di credito. Quarto, i fondi che avevano in pancia quei titoli dovevano restituire i soldi e l’unica maniera per farlo era quella di “far cassa” vendendoli. Quinto: vendendo alla disperata quei titoli ormai “tossici” il loro prezzo si abbassa ancora, e quindi riparte la spirale dal secondo punto. Sesto: paura e sfiducia balzarono da un titolo all’altro e da una banca all’altra come fiamme che si propagano in un bosco secco. Il problema era quello dell’ignoranza: nessuno sapeva dov’erano esattamente quei titoli tossici e quanti ce n’erano. Il grande albero della “nuova finanza” aveva sviluppato una chioma così folta che, come nella foresta amazzonica, quasi non si vedeva più il cielo e la “trasparenza” – virtù cardinale dei mercati – era ormai sostituita dall’opacità. E l’intrico di rami e ramoscelli era così fitto che non solo non si capiva quanti scheletri ci fossero negli armadi, ma neanche dove fossero gli armadi.

L’economia ha bisogno di fiducia e di certezze. In un mondo finanziario ormai globale lo sgretolamento della fiducia non poteva non far danno all’economia reale. Che succede quando si entra in una stanza buia? La prima reazione è quella di immobilizzarsi. E nel buio della crisi finanziaria l’economia si è immobilizzata: il contagio è passato dalla finanza all’economia reale. Imprese e famiglie hanno tirato i remi della spesa in barca e nel mondo intero hanno iniziato a stridere i freni del ciclo.

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Peggiora la distribuzione del reddito Una caratteristica del periodo che ha preceduto la crisi, specie in America, è stata proprio l’accrescersi della disuguaglianza dei redditi. Da una parte, come detto, c’è stata una pressione al ribasso sui redditi da lavoro (dovuta non solo alla globalizzazione ma anche alle nuove tecnologie, che svantaggiano i lavoratori con meno istruzione), e dall’altra c’è stato questo aumento dei profitti che veniva a premiare la parte più ricca della popolazione, segnatamente nell’industria finanziaria. La piramide dei redditi, insomma, ha visto allo stesso tempo più ricchi e più poveri. Tutto questo non deve certamente essere letto come un atto di accusa alla globalizzazione. Se invece di guardare alle disuguaglianze all’interno di ogni Paese considerassimo tutto il mondo come un solo Paese, vedremmo che la disuguaglianza nei redditi della popolazione mondiale non è cresciuta, anzi si è ridotta: e questo grazie alla forte crescita dei Paesi emergenti, che ha portato centinaia di milioni di persone fuori dalla povertà. Un aumento della disuguaglianza all’interno di ogni Paese non è incompatibile con una diminuzione della disuguaglianza a livello globale. Ma ciò non toglie che quel che influenza la fiducia è la disuguaglianza vista all’interno del Paese, e quel che ha reso la Grande recessione così dura è che la sfiducia si alimenta anche del senso di ingiustizia associato ai “più ricchi, più poveri”. La globalizzazione può invertirsi? La globalizzazione a cavallo del secolo – ritorno, come ricordato sopra, a quella dell’inizio del secolo scorso – potrebbe, come già è successo, essere di nuovo seguita da un periodo di chiusura delle frontiere? Le sofferenze legate alla Grande recessione andranno a generare nel corpo sociale e politico un movimento di ripulsa verso la globalizzazione, un’ondata di protezionismo?

Cambiano i tempi e anche i “poli” di crescita e sviluppo non sono più gli stessi.

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Storicamente, i “corsi e ricorsi” non sono affatto inevitabili e la storia difficilmente si ripete nelle stesse forme. Oggi, dopo la crisi del socialismo reale, è la globalizzazione che è diventata “oggetto del contendere” fra due blocchi contrapposti, dei sostenitori del libero scambio e dei no global. La globalizzazione del tardo XX secolo, che riprende le spinte del primo Novecento, è essenzialmente il portato di due grandi tendenze: la tendenza a una sempre maggiore libertà degli scambi e la rivoluzione tecnologica, che a sua volta ha la dimensione del progresso tecnico normalmente inteso e di una specifica rivoluzione telematica che annulla le distanze. I meriti della libertà degli scambi L’allargamento nella libertà degli scambi, l’abbiamo detto, non è una novità. È piuttosto la reazione al protezionismo della prima metà del XX secolo. E questo allargamento ha accompagnato, nel dopoguerra, la più straordinaria stagione di sviluppo nella storia dell’umanità. Se dovessimo rappresentare, nella tela dei secoli, l’andamento dell’attività economica nel mondo, vedremmo una linea piatta per millenni, che comincia ad alzarsi nel XVIII secolo con la prima rivoluzione industriale, che sale esitante, con alterne vicende, fino alla metà del XX, e che si impenna poi esponenzialmente negli ultimi cinquant’anni. Merito della libertà degli scambi? Anche, certamente. Lo sviluppo economico è un fenomeno complesso e quindi ha cause complesse, ma tutte le analisi concordano nell’attribuire alla progressiva caduta delle barriere doganali – priIL RUOLO DEI PAESI EMERGENTI Oggi la globalizzazione viene giustamente identificata con il ruolo crescente dei Paesi emergenti nell’economia mondiale. Ma la fine dell’Ottocento già vide il Regno Unito e la Francia investire moltissimo – una frazione del reddito nazionale più grande di quella di oggi – nei Paesi “emergenti” di allora: gli USA, il Canada, l’Australia, per non parlare delle colonie in Africa e in Asia. Le grandi reti ferroviarie americane e australiane furono finanziate da capitale straniero, soprattutto inglese. Alla fine dell’Ottocento capitali stranieri finanziavano un terzo degli investimenti interni in Nuova Zelanda e in Canada, e un quarto in Svezia. Possiamo confrontare queste cifre con quelle del Fondo monetario, che dicono come all’inizio di questo secolo circa un decimo degli investimenti dei Paesi emergenti sia finanziato dall’estero. Oggi, per esempio, in una casa media americana si ritrovano beni e oggetti di tutte le parti del mondo, ma le attività finanziarie di quella stessa famiglia tendono a essere concentrate in strumenti domestici. Questo riflette una liberalizzazione molto più recente dei movimenti di capitale rispetto ai movimenti delle merci.

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ma quelle tariffarie, poi, con meno successo, quelle non tariffarie – una congrua parte del merito. Ci potremmo allora chiedere: se la libertà degli scambi è capace di gesta così straordinarie, perché in quella “età dell’oro” citata da Keynes non si era avuto quello straordinario sviluppo del reddito e della ricchezza registrato invece nel secondo dopoguerra? La globalizzazione in quella fase era certamente più spinta di quella di oggi, ma dobbiamo ricordare che, come abbiamo detto, lo sviluppo economico è un processo complesso cui concorrono più cause. La globalizzazione di fine Ottocento/inizio Novecento fu bruscamente interrotta, sia dalle guerre coloniali sia da quelle sino-giapponese e russo-giapponese del 1904, sia, soprattutto, dal primo e dal secondo conflitto mondiale. Nel secondo dopoguerra, invece, proprio come reazione agli orrori e alle devastazioni del conflitto, ci furono l’impeto della ricostruzione e molti decenni di pace: ciò che permise al lievito della liberalizzazione di far montare la torta degli scambi, del reddito, della ricchezza. Il ruolo della concorrenza... La globalizzazione, tuttavia, è un fenomeno più composito della semplice libertà degli scambi. Si ha globalizzazione quando, oltre all’abolizione delle barriere al commercio internazionale, si ha anche una moltiplicazione degli attori e dei concorrenti. Se permanesse la vecchia dicotomia fra nazioni industriali, fondate sulla trasformazione, e Paesi arretrati, che esportano materie prime e importano manufatti, non ci sarebbe vera globalizzazione, ma semplicemente un piano inclinato del commercio internazionale che procede lungo la via obbligata delle convenienze: materie prime contro manufatti. Si ha globalizzazione, invece, quando aumenta la concorrenza fra prodotL’ATTRATTIVA DEI PAESI EMERSI I “Paesi emersi”, quelli che sono diventati concorrenti globali, fanno concorrenza anche negli insediamenti: esiste, cioè, non solo una comunanza di tecniche produttive, ma an?che una comunanza possibile di tutti quegli altri elementi che devono essere presenti per un insediamento. Andare a produrre in un altro Paese non vuol dire impacchettare dei macchinari nel Paese A, disfare i bagagli nel Paese B e cominciare a produrre dopo aver assunto un po’ di gente. Vuol dire che vi deve essere nei due Paesi un idem sentire per quel che riguarda i valori di mercato, il quadro giuridico, la certezza dei contratti, i rapporti con i poteri pubblici, le relazioni industriali. Vuol dire, anzi, che alla presenza di quelle precondizioni di base si aggiungono elementi di attrattiva che fanno sì che alcune di queste condizioni configurino un vero e proprio vantaggio rispetto a quello che è ottenibile nel Paese di partenza.

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ti simili in diverse nazioni. Perché vuol dire che la “bacchetta magica” degli scambi ha aiutato i Paesi emergenti ad affrancarsi dal primo stadio di sviluppo economico – quello fondato sullo sfruttamento di materie prime o sui bassi costi del lavoro – e a diventare concorrenti di rispetto lungo l’intera gamma dei beni e dei servizi. ... e quello della delocalizzazione È questa, allora, la globalizzazione? Ancora no. Il “globale” vero abbisogna di un altro passo. Il passo, per usare un’altra parola lunga, della “delocalizzazione”. Si ha vera globalizzazione quando la concorrenza si sposta da quella fra prodotti a quella degli insediamenti. Che cosa vuol dire? Che il produttore, mettiamo, di scarponi da sci di Montebelluna non si deve solo preoccupare della concorrenza di scarponi da sci fabbricati in Romania, ma può tranquillamente contemplare la possibilità di spostare la propria produzione in Romania. Da notare che è diverso dall’andare a impiantare una nuova fabbrica in Romania. Anche all’inizio del Novecento un’azienda inglese o tedesca poteva decidere di espandere la propria produzione andando a costruire caldaie in Egitto. Ma in quel caso la produzione era aggiuntiva rispetto a quella nella madrepatria, dove rimaneva saldamente installato il quartier generale. Nella globalizzazione di oggi, invece, è possibile contemplare la migrazione di aziende intere o di interi rami d’azienda. Ed è possibile grazie all’altra componente della globalizzazione: quella tecnologica e telematica (e quindi culturale, perché la facilità di comunicare trasmette anche valori e cultura). Globalizzazione, allora, vuol dire che i Paesi si fanno concorrenza sugli insediamenti così come si fanno concorrenza sulle camicie, sulle auto o sulle biciclette. Cercando di offrire, oltre ai vantaggi tradizionali (come quelli dei salari più bassi) anche quelli di una manodopera più istruita, di relazioni industriali cooperative, di un fisco non solo più leggero ma più ragionevole negli adempimenti; insomma, di un “sistema-Paese” (espressione coniata proprio in seguito alla globalizzazione) più attraente.

Sradicamenti parziali Ora, è vero che in pratica non succede quasi mai che un’intera azienda si sradichi da un Paese e vada altrove. I legami con il territorio, i problemi di lingua e di “straniamento”, l’esistenza di reti consolidate di fornitori e di clienti, fanno sì che le decisioni di “delocalizzazione” si pongano nella stragrande maggioranza dei casi solo al margine: cioè, per quel che riguarda le espansioni produttive, impiantare una fabbrica addizionale rispetto a quelle esistenti. Oppure, si pongono per quanto riguarda “sradicamenti parziali”: per esempio, una fase di lavorazione (una fabbrica marchigiana di pantaloni può decidere di mandare il

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tessuto in Tunisia per il taglio e di reimportare poi i pantaloni “grezzi” per le finiture). Imprese globalizzate Ma la globalizzazione è vera e reale anche quando è solo potenziale. Questo è un punto molto importante, perché va al cuore del problema quando questo, da fatto economico, diventa fonte di tensioni sociali e politiche. Prendiamo la fabbrica marchigiana di pantaloni a cui si è accennato sopra. E supponiamo che questa non delocalizzi (né in toto né al margine), conservi tutte le fasi di lavorazione in Italia, e rimanga quindi a tutti gli effetti un’impresa al 100% italiana. Ebbene, nondimeno, quell’impresa è un’impresa “globalizzata”. Perché? Perché potenzialmente potrebbe delocalizzare. Cioè a dire, gli assetti economici, tecnologici, sociali del mondo rendono possibile la delocalizzazione, che non è relegata nel mondo dei sogni, ma diventa una delle opzioni, aperte e presenti, dell’impresa stessa. Questa “delocalizzazione potenziale” colora i rapporti sindacali e sociali, perché diventa parte di un negoziato esplicito o implicito: per esempio, ispira moderazione salariale e flessibilità negli orari e in altre condizioni di lavoro. In Germania molte grandi imprese hanno ottenuto grosse concessioni dai sindacati con la minaccia di portare certe produzioni nella Repubblica Ceca o in Ungheria. Il ruolo della tecnologia Anche qui, niente di nuovo sotto il sole. I prodigi dell’informatica e della telematica ci sembrano davvero prodigi, ma tali sembravano, a cavallo del XX secolo, anche il telegrafo e il telefono, le macchine per la stampa, i giornali di massa, le nuove ferrovie e le nuove rotte marine. Il periodo precedente alla prima guerra mondiale fu testimone di un salto di qualità nella “informazione globale” non molto differente – in proporzione alla situazione preesistente – da quello attuale. Vi furono pensatori che guardavano alle nuove tecnologie come alla promessa di un’era di pace e di prosperità. E nel 1907, a Praga, fu firmato un patto fra Paesi in cui si rinunciava alla guerra come mezzo per dirimere le contese. Tutto questo fu scardinato dalla prima guerra mondiale, dalle tensioni che ne seguirono (le riparazioni “impossibili” richieste alla Germania) e che sarebbero poi culminate in una seconda orribile guerra. Il che ci porta a riflettere sul fatto – già prima menzionato – che il terzo elemento della globalizzazione è una situazione di pace che si prolunga nel tempo (quale appunto nell’ultimo mezzo secolo) e che dà tempo alle forze possenti della globalizzazione di permeare i comportamenti e le istituzioni. La tecnologia del tardo XX secolo è però un elemento essenziale e autono-

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LE NUOVE FRONTIERE DELLA COMUNICAZIONE La telematica permette di lavorare e di interagire in modo veramente diverso. Per esempio, se siete a Bologna, e telefonate all’assistenza tecnica per un computer che avete appena comprato, non è detto che parliate con qualcuno che sta a Bologna o in Italia; il tecnico che vi aiuta potrebbe benissimo stare in Irlanda o a Singapore, dove la società di computer trova conveniente concentrare le help line, raggruppando sotto lo stesso tetto le varie competenze linguistiche e lavorando a turni sull’arco delle 24 ore per tenere conto dei fusi orari nelle diverse parti del mondo. Ancora: ci sono delle società di assicurazioni mediche, per esempio in America, che fanno fare tutto il trattamento delle richieste di rimborso nei Caraibi. I documenti che arrivano vengono scannerizzati e trasmessi nei Caraibi con linee a banda larga; in questo modo l’esame dei rimborsi – una fase del “ciclo produttivo” ad alta intensità di lavoro – viene fatta là dove il lavoro costa poco. Ancora: una società di software che debba rispettare una scadenza per un nuovo programma potrebbe organizzarsi in modo da passare il programma in via di completamento a squadre di programmatori in diverse parti del mondo, che sfruttano i fusi orari per lavorare 24 ore e passarsi alla fine del turno l’un l’altro il programma in costruzione. Insomma, siamo in una “economia dei servizi”, in una “economia della conoscenza” e tutte le attività che non richiedono il tornio o la zappa possono essere svolte a distanza. La British Telecom conta di avere entro breve tempo il 10% della forza lavoro che opera stando a casa (telelavoro), collegata via internet o per linee dedicate. Così, il dipendente della British Telecom potrebbe anche decidere di andare ad abitare in Argentina (chi scrive queste righe commenta le vicende economiche italiane e internazionali per Il Sole 24 ORE, pur abitando in Australia).

mo della globalizzazione. Un elemento che è allo stesso tempo causa ed effetto di questo processo. Possiamo distinguere vari elementi di questa tecnologia che hanno fatto cambiare il volto delle attività produttive nel mondo e ne hanno esaltato le tendenze globalizzanti. Prodotti più piccoli e più leggeri È stato osservato che il PIL americano è più elevato di almeno venti volte rispetto a un secolo fa, ma pesa circa lo stesso. Cioè a dire, traducendo nelle unità fisiche di peso il complesso dei beni e servizi finali prodotti dalla nazione, si constata che le “tonnellate di PIL” non sono aumentate. Questo riflette, naturalmente, il ruolo crescente dei servizi, leggeri e immateriali, rispetto alle merci. Ma riflette anche il fatto che per le merci stesse vi è stata una riduzione di peso. Le automobili, per esempio, pesano meno di prima, grazie all’impiego di leghe leggere. In molti casi la plastica ha sostituito il metallo. Un lettore di CD

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pesa una frazione di quel che pesava un antico grammofono. E infine, i calcolatori elettronici, che informano gran parte dell’attività produttiva moderna, sono andati facendosi sempre più leggeri e potenti. Comunicazioni in tempo reale La possibilità di trasmettere informazioni ovunque e in tempo reale sta cambiano il modo di operare dell’economia. Con internet, per esempio, un’azienda che abbisogni, mettiamo, di guarnizioni, può senza alcuna spesa bandire un’asta telematica, chiedendo ad aziende di tutto il mondo di sottoporre offerte e specifiche. Via internet si possono comperare libri, CD e molto altro, tagliando sui costi di distribuzione. E anche nel mondo della cultura la tecnologia permette una diffusione impensabile in occasione dell’altra ondata di innovazioni (telegrafo, telefono) di inizio Novecento. Il ruolo fondamentale della telematica La punta di diamante della rivoluzione tecnologica, e quella che è più in presa diretta con la globalizzazione, è però proprio la telematica, il “matrimonio” fra comunicazioni e informatica. La telematica annulla le distanze, e permette, per esempio, a un’impresa di lavorare in strettissimo contatto con i propri fornitori anche a un continente di distanza: scambiandosi disegni o progetti, risultati di test, parlandosi “faccia a faccia” in videoconferenza. Non solo pro? Anche se un’azienda non abbraccia l’opzione della delocalizzazione, nondimeno quella possibilità irrompe nel mondo reale perché cambia – lo abbiamo ricordato sopra – i comportamenti dell’impresa, e attraverso di essi modifica la società italiana o quella di qualsiasi altro Paese. Per esempio, l’impresa resiste ad aumenti salariali minacciando di andare altrove; per esempio, impedisce l’aumento della pressione fiscale o forza più efficienza nei servizi pubblici con la stessa “spada di Damocle” della delocalizzazione. Ma se la “globalizzazione potenziale” può essere un’arma in favore dell’impresa, la “globalizzazione effettiva” è anche un fucile puntato contro: l’esistenza dei concorrenti impedisce aumenti di prezzo, minaccia i margini di profitto e costringe quindi l’impresa a reinventare continuamente se stessa perché in qualche parte del mondo c’è sempre una minaccia concorrenziale. Una corsa al ribasso? Il fattore appena menzionato – l’impresa che resiste agli aumenti salariali o a miglioramenti di condizioni di lavoro, o addirittura cerca di diminuire i salari o peggiorare le condizioni – è il bersaglio preferito dagli avversari della globaliz-

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zazione. Questa – dicono – porta a una continua “corsa al ribasso”, una concorrenza verso bassi salari e bassa protezione sociale, con la “scusa” che bisogna competere con i Paesi poveri. La storia però dimostra che anche nei Paesi più aperti, come gli Stati Uniti, la globalizzazione non ha impedito l’aumento del benessere e la riduzione del tasso di disoccupazione. La debolezza dell’economia mondiale nel 2011 – una debolezza peraltro limitata ai Paesi di antica industrializzazione – non deriva dalla globalizzazione ma da una Grande recessione (con la coda velenosa dei debiti pubblici) che ha radici diverse. E i lavoratori, ammettendo che perdano come lavoratori, guadagnano come consumatori dato che hanno accesso ai beni e servizi importati a prezzi minimi che è possibile trovare sul mercato mondiale. Nella realtà, il mondo del lavoro nel suo complesso non perde a causa della globalizzazione: questa semplicemente accelera un processo che esiste da sempre, cioè lo spiazzamento progressivo delle produzioni più esposte alla concorrenza internazionale e la loro sostituzione con produzioni nuove, in segmenti più elevati di valore aggiunto. Distruzione creativa In questo processo di “distruzione creativa”, per usare un’espressione di Joseph Schumpeter, vincono i Paesi più flessibili, cioè quelli in cui, grazie alle istituzioni del mercato del lavoro, alla mentalità corrente e all’azione pubblica, lo spostamento di risorse da settori in declino a settori in espansione avviene con il minimo di attriti. Vi sono certamente molti casi in cui la globalizzazione – con le connesse pressioni concorrenziali, effettive e potenziali – è responsabile di serie crisi settoriali, con elevate sofferenze umane e sociali. Ma di solito la globalizzazione è una causa prossima, non remota. Il vero problema sta nelle rigidità, private e pubbliche, che di fatto impediscono quella mobilità e quella capacità di riadattamento necessarie per ridisegnare le configurazioni produttive. In breve Joseph Alois Schumpeter, economista austriaco naturalizzato americano, fu un economista classico nel senso più nobile del termine: invece di prendere come date le cornici di fondo dell’economia – quali il progresso tecnico, le istituzioni, le convenzioni contrattuali – indagò le interrelazioni fra queste e lo sviluppo economico. I concetti di “distruzione creatrice” che sono alla base dell’analisi delle grandi ondate di innovazione, il carattere discontinuo di questi “grappoli di invenzioni”, lo studio assiduo del ciclo economico e i grandi affreschi economico-sociali sulla storia del capitalismo costituiscono i contributi più duraturi di questo grande studioso.

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I vantaggi per i Paesi emergenti... Infine, bisogna guardare alla globalizzazione anche dal punto di vista dei Paesi emergenti. Di solito, il dibattito sulla globalizzazione adotta il punto di vista dei Paesi industriali, e se ne discutono vantaggi e svantaggi. Ma per i Paesi emergenti, i vantaggi sono chiaramente superiori visto che la globalizzazione permette l’aumento del benessere. È senz’altro vero che in moltissimi casi quei lavoratori sono pagati pochissimo, ma questo fatto, che spesso desta scandalo, deve essere confrontato con l’alternativa: cioè con la miseria da sottoccupazione nell’agricoltura, a cui quei lavoratori cercano di sfuggire con il passaggio nelle fabbriche. Spesso si passa dalla miseria contadina a quella urbana, ma l’esperienza di molti Paesi dimostra che è solo un passaggio inevitabile verso situazioni di maggior benessere. Sta ai governi di quei Paesi, pungolati dalle sollecitazioni che vengono dal processo politico democratico (naturalmente, la globalizzazione è positiva solo se si accompagna alla possibilità, sia nei Paesi “vecchi” sia in quelli nuovi, per i lavoratori e i consumatori, di rivelare le loro preferenze in un contesto di democrazia), di assicurare che la competitività non si accompagni allo sfruttamento. Per esempio, con opportune regolamentazioni del lavoro minorile o con la provvista di una rete minima di sicurezza sociale. ... e per quelli industriali L’evidenza statistica ci dice che l’instaurarsi della globalizzazione si è accompagnato a un peggioramento della distribuzione del reddito, o quanto meno a un arresto di un processo di maggiore eguaglianza. Questo peggioramento è evidente negli Stati Uniti, e meno in Europa, ma ovunque ha portato molti a puntare il dito contro questo amaro prezzo pagato. La maggioranza degli studi ha però individuato un altro colpevole di questa diseguaglianza: la tecnologia. La rivoluzione tecnologica ha favorito la parte di popolazione più istruita, innalzando la richiesta di questo tipo di conoscenze, e ha fatto calare la domanda di abilità generiche, riducendo quindi i salari relativi dei possessori di queste ultime. Anche questa situazione non è nuova nella storia: si è sempre verificata, man mano che la tecnica creava nuovi prodotti, nuovi bisogni e nuove professionalità. Ciò che è diverso è l’accelerazione del passo tecnologico. E la distribuzione del reddito è peggiorata negli Stati Uniti più che in altri Paesi perché la rivoluzione tecnologica e informatica è partita ed è andata accelerando dagli e negli USA; e perché le frontiere porose fanno degli Stati Uniti, data la portata dell’immigrazione legale e illegale, un “datore di lavoro d’ultima istanza”, assicurando quindi una presenza costante e massiccia di immigrati che fuggono condizioni di vita più di-

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sagiate e che, presentandosi sul mercato del lavoro americano, tengono basse le remunerazioni per i lavori a bassa abilità. Certamente, queste tendenze al peggioramento della distribuzione del reddito, sia quest’ultima dovuta alla globalizzazione o alla tecnologia, devono essere contrastate: agendo però più sugli effetti che sulle cause. Bisogna irrobustire la rete di sicurezza sociale per aiutare i lavoratori spiazzati dalla tecnologia o dalla globalizzazione, senza cedere a tentazioni luddiste di contrastare il progresso tecnico o di avvolgersi nel manto del protezionismo. Crisi di crescenza Come tutti i cambiamenti strutturali, la globalizzazione si porta appresso le “crisi di crescenza”, come nel caso della crisi asiatica del 1997. Malgrado quello che abbiamo descritto, tuttavia, non è certo al principio della libertà globale dei movimenti di capitali che si può far risalire la responsabilità di quel che è successo. In alcuni casi, anzi, si potrebbe dire che il problema stava in “non abbastanza” liberalizzazione. Per esempio, in quei Paesi, mentre non vi erano limiti all’ingresso di capitale finanziario, vi erano limiti all’investimento diretto, sia nelle banche sia in certi settori e certi tipi di grandi imprese. Nel sistema bancario, protetto da scalate ostili o da acquisizioni amichevoli, venivano allora a prevalere considerazioni diverse da quelle di mercato. Insomma, la grande lezione della globalizzazione stile “anni Novanta” è che per raccogliere i benefici della globalizzazione bisogna avere un sistema UN “GIOCO” A SOMMA POSITIVA La globalizzazione minaccia, secondo alcuni, l’esistenza stessa del “Paesenazione”, date le limitazioni imposte alla sovranità in materia economica e finanziaria. Ma si trattava in ogni caso di una sovranità illusoria. La globalizzazione, complici i progressi della tecnologia, ha chiamato il bluff di quei governanti che pensavano si potesse sopravvivere con politiche autarchiche e autoritarie; e ha costretto i “Paesi vecchi” a fare i conti con l’irrompere dei “Paesi giovani”, desiderosi di innalzare il proprio tenore di vita facendo leva su una situazione di partenza di costi più bassi. Ambedue le sfide presentano rischi e opportunità; e possono essere vinte facendo leva sulla flessibilità, oliando lo spostamento di risorse da settori a settori, da regioni a regioni, non avendo paura del cambiamento e migliorando le istituzioni volte ad alleviare gli attriti nell’allocazione delle risorse, da quelle preposte alla tutela della concorrenza a quelle responsabili della sorveglianza dei mercati finanziari. L’importante è avere ben presente che il “gioco” dello scambio globale è in fondo un gioco a somma positiva, in cui tutti possono guadagnare. Questo è stato l’insegnamento della storia, e anche i più recenti “strappi” della globalizzazione non hanno portato nessun elemento che permetta di cambiare questo giudizio.

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bancario e finanziario robusto e “ben temperato”, istituzioni di vigilanza efficienti e un sistema di valori e di governo rispettoso dell’economia di mercato. Riforme strutturali I pericoli della globalizzazione hanno insomma riportato l’attenzione su quella che gli economisti chiamano “la sequenza”: cioè la corretta messa in opera di riforme strutturali. L’apertura degli scambi di capitali e di beni richiede una corretta sequenza, che vede prima la costituzione di un mercato dei capitali aperto alla concorrenza, efficiente e trasparente, e poi la libertà dei capitali. E per quanto riguarda quest’ultima, la libertà degli investimenti diretti è anche più importante di quella degli investimenti finanziari, perché gli investimenti diretti – in pratica, prese di partecipazione o di controllo in imprese bancarie e non, o stabilimento di nuove imprese – vogliono dire trapianto di managerialità, diffusione delle best practices (le “migliori pratiche” esistenti), pressione concorrenziale eccetera. Un processo irreversibile La globalizzazione di oggi – ci siamo chiesti prima – è un fenomeno irreversibile? O, come quella di ieri, potrà essere ricacciata indietro da delusioni e ripiegamenti? La risposta è che con ogni probabilità si tratta di un fenomeno irreversibile, se non altro a causa della tecnologia. Non è tecnicamente possibile tornare indietro, e se la tecnologia permette di fare certe cose, non è possibile, a meno di non tornare verso uno Stato di polizia, impedire che venga usata. Basti pensare a internet e alla circolazione di informazioni, scambi,

La globalizzazione ha portato centinaia di milioni di persone fuori dalla povertà, ed è un fenomeno culturalmente e tecnologicamente irreversibile.

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compravendite, aste e investimenti oggi possibile, per non parlare del lavoro a distanza. Basti pensare ai viaggi di massa della nostra epoca e alla compenetrazione delle culture e dei modelli di comportamento in fatto di consumi. Basti pensare ai Paesi industriali in rapido invecchiamento e alla necessità che le pensioni siano pagate da investimenti in “Paesi giovani”, per evitare che i lavoratori attivi dei “Paesi vecchi” siano soggetti a una crescente pressione fiscale e contributiva.

La finanziarizzazione Non è – confessiamolo – una bella parola. Ma questa “finanziarizzazione” è un altro dei tratti unici dell’economia del nostro incipiente secolo. Certamente, viene da lontano, nel senso che l’importanza della finanza – “economia della carta” – rispetto alla produzione – “economia della lamiera” – è andata crescendo almeno a partire dal dopoguerra. Il grafico riportato sotto si riferisce agli Stati Uniti, ma è rappresentativo dell’intera comunità dei Paesi avanzati, e anche di quelli emergenti. Debiti e PIL Quando si legge sui giornali che l’Italia ha un grosso debito pubblico e si usa, come parametro di riferimento, l’ammontare del prodotto nazionale (il PIL), sembra scandaloso che questo debito assommi a più del 100% del PIL. Ma è bene ricordare che per l’Italia, come per gli altri Paesi, il debito privato è molto più alto del debito pubblico. Come si vede dal grafico della pagina successiva, il debito privato USA è arrivato a sfiorare il 300% del PIL. E questo è il segno distintivo della finanziarizzazione dell’economia. È un bene, un male? Lubrificanti e scivoloni Essenzialmente, questo avanzare della finanza, nella sua interpretazione migliore, non fa altro che aumentare la quantità di lubrificante nell’economia. La moneta, si sa, facilita le transazioni nello spazio: evita il baratto, permettendo a due contraenti di saldare debiti e crediti in un “numerario” da tutti accettato e riconosciuto (la moneta “fiduciaria”). Facilitare le transazioni nel tempo è più complesso: come si sa, pagare o riscuotere sull’unghia è meno controverso che concedere credito o incorrere in un debito. Ma, naturalmente, lo si fa egualmente. Dalle vendite a rate ai mutui, il debito “è l’anima del commercio”. Ma, come detto all’inizio, di debito si può anche morire, e negli Stati Uniti il debito era cresciuto troppo, per le ragioni dette sopra. Il lubrificante, quando è troppo, può portare a scivoloni.

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USA (DEBITO PUBBLICO E PRIVATO) (in % del prodotto interno lordo) 350 pubblico privato

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Il debito privato negli USA ha sfiorato il 300% del PIL. E anche negli altri Paesi è molto più alto di quello pubblico.

Fonte: elaborazione del Sole 24 ORE su dati Federal Reserve e US Department of Commerce

Cala il rischio. O no? La vera limitazione all’uso di debiti e crediti per saldare le transazioni sta nel rischio: il rischio, per il creditore, di non essere pagato; o, per il debitore, di pagare ma a costo di una dolorosa “stretta della cinghia” o addirittura della rovina finanziaria. Ebbene, l’avanzare della finanza ha permesso a un numero sempre maggiore di agenti economici – dalle famiglie alle imprese – di estendere le loro transazioni nel tempo, di comprare e vendere a debito o a credito. Come è stato possibile? Prendendo per le corna il rischio – quel fattore limitativo delle transazioni nel tempo – e imparando a gestirlo meglio: in pratica, suddividendolo su un numero maggiore di investitori. In fondo, è un’estensione del principio dell’assicurazione. Così come l’assicurazione facilita la compravendita di un’auto con la polizza RCA o furto (molti esiterebbero a usare un’auto se sapessero che mettendo sotto qualcuno potrebbero perdere tutto il loro patrimonio), nello stesso modo la moderna gestione del rischio permette di creare sempre più transazioni nel tempo. Prendiamo una banca che concede mutui, e ne ha concessi per, mettiamo, un miliardo di euro. Quella banca corre un rischio: che i mutuatari non paghino, e se anche la banca è garantita dall’ipoteca sulla casa, questa garanzia non serve a molto se i prezzi delle case dovessero crollare. Ma la banca, dopo aver concesso i mutui, può emettere un prestito obbligazionario garantito da questi mutui. A questo punto vende le obbligazioni, incassa il ricavato (col quale può fare nuo-

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vi prestiti, immobiliari o no) e quindi trasferisce il rischio su chi ha comprato le obbligazioni. Naturalmente, il rischio che esisteva prima esiste anche adesso: se c’è una crisi economica o se i prezzi delle case crollano e i mutuatari non pagano, qualcuno ne soffre. Ma mentre prima la “sofferenza” era concentrata sulla banca, adesso è stata diffusa su una vasta platea di possessori di obbligazioni. È come pensare a un macigno di una tonnellata che cade su una rete di sicurezza: la potrebbe facilmente bucare; ma se questo macigno viene trasformato in mille sassi da un chilo l’uno, la rete di sicurezza può resistere. Ma se il rischio così cala, si può rischiare di più. Facendo scendere il prezzo del rischio, la domanda di rischio aumenta. Il rischio nel sistema finanziario mondiale era più ampiamente suddiviso, ma la quantità totale di titoli a rischio era drammaticamente aumentata. La fantasia della finanza Insomma, la finanziarizzazione dell’economia ha portato a migliorare la gestione del rischio e a permettere anche a chi prima non aveva accesso al credito di poter ugualmente “scambiare nel tempo”: comprare qualcosa, da una fabbrica a un frigo, a una barca o un’auto, pagando poi in varie forme. E non si tratta solo di debito, ma anche di partecipazione all’impresa. La finanza ha creato tanti titoli ibridi, che stanno a metà fra le azioni e le obbligazioni; è diventata un supermercato in cui gli investitori possono trovare tutte le combinazioni di rischio e rendimento alla portata di tutti i portafogli e di tutte le gradazioni di “spiriti animali” – dal più timido al più avventuroso – che albergano nell’animo del risparmiatore o dell’imprenditore.

La percezione del rischio Nel momento in cui ci si rese conto che nel sistema economico c’era troppo rischio, la marcia indietro si fece massiccia e pericolosa. Quando la percezione del rischio scende, i riflessi sui mercati sono come una marea che solleva tutte le barche, viene ad aumentare il valore di tanti attivi, la gente si sente più ricca, spende più volentieri, consuma e investe, si intraprendono progetti e le cose che andavano bene vanno ancora meglio. Finché arriva il momento in cui questa propensione al rischio passa i limiti, qualcosa comincia ad andare storto, e improvvisamente... Questa faccenda del rischio non ama le mezze misure. Basta poco per trasformare l’avventura in sventura. Basta battere gli occhi e il bicchiere mezzo pieno appare mezzo vuoto. È stato come se gli attori dell’economia avessero guardato al rischio, fino a metà del 2007, con degli occhiali un po’ appannati. Un giorno qualcosa li spinge a pulirli, li inforcano di nuovo, e vedono il ri-

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L’EURO IN CRISI? La maggiore stabilità valutaria ha fra i suoi elementi anche quella riduzione nel numero delle valute che si associa alla creazione di una valuta nuova. In effetti, per rendere più stabili i rapporti fra 13 monete che cosa c’è di meglio che congelarle nel rigor mortis e sostituirle con una sola? È questo quel che è successo con l’Unione monetaria europea che, partita con 11 Paesi, è passata a 13 con l’ingresso della Grecia e della Slovenia, nel 2009 a quota 16 (si sono aggiunti Cipro, Malta e Slovacchia) e nel 2011 a quota 17 (Estonia). La moneta unica europea ha visto la luce il 1° gennaio 1999. Una luce dapprima virtuale, ché, anche se i cambi fra le valute componenti erano fissi, l’euro non esisteva ancora come moneta fisica: le banconote e le monete metalliche cominciarono a circolare il 1° gennaio 2002. E, volendo considerare quest’ultima la data di nascita, bisogna dire che non c’è stata una “crisi del settimo anno”. L’euro era – e in parte lo è ancora – una scommessa. Una scommessa perché mai nella storia si aveva esperienza della fusione di tante monete in una sola, senza che fosse intervenuto l’imperio di una conquista. Come avrebbero reagito i corpi vivi di tanti sistemi produttivi diversi? La teoria economica non soccorre: l’analisi delle “aree monetarie ottimali” descrive i requisiti che deve avere un’area geografica per funzionare bene con una moneta unica. Alcuni erano presenti per l’area euro, altri no: per esempio, la mobilità del lavoro nell’Unione europea esiste in teoria, ma in pratica, data la diversità di lingue e istituzioni, non si può dire che sia facile per un falegname o un avvocato francese andare a lavorare in Danimarca o in Grecia con la stessa agevolezza con cui un falegname e un avvocato americani si possono spostare dal Wyoming all’Arizona. La moneta unica irrigidiva poi tante politiche monetarie in una sola. Questi fattori portavano dei vantaggi in tema di minori costi di transazione e di ispessimento del mercato dei capitali, ma anche l’impossibilità di manovrare tassi e monete in base ai bisogni dell’economia. Gli aggiustamenti che non erano più possibili su quei due fronti, dovevano quindi essere compensati da maggiore flessibilità su altri: su quello delle politiche monetarie, per esempio, o su quello, appena citato, della mobilità dei fattori di produzione, in ispecie il lavoro. Le economie dell’euro si sarebbe agevolmente adattate a queste crescenti rigidità e a questi nuovi bisogni di flessibilità? C’è stata la crisi, almeno per alcune economie dell’area, ma prima del famoso settimo anno. Un malessere orizzontale ha colpito le economie dell’area immediatamente dopo il passaggio alla nuova moneta fisica, all’inizio del 2002. Questa transizione ha portato a molti aumenti di prezzo ingiustificati, aumenti che, per il modo in cui si sono registrati e per il tipo di beni e servizi (più servizi che beni) oggetto di queste impennate, si sono manifestati non tanto come inflazione ma piuttosto come redistribuzione del reddito verso categorie meno esposte ai rigori della concorrenza. Questa lamentela circa gli effetti dell’euro sul sistema dei prezzi non si è manifestata

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solo in Italia: è stata viva e presente un po’ in tutti i Paesi dell’euro, perfino in Germania. Nel 2007, tuttavia, la polemica si è acquietata, mentre sono cominciati a emergere i benefici dell’euro: primo, un livello dei tassi d’interesse mediamente ben più basso. In Spagna e in Italia i tassi sono scesi ai livelli degli anni Sessanta, alimentando anche una corsa all’investimento immobiliare che ha fatto alzare i prezzi delle case a livelli mai raggiunti. Intanto, sul mercato finanziario, si sono manifestate le economie di scala. Il mercato obbligazionario ha acquistato tale spessore e tale solidità da rivaleggiare con quello americano, incoraggiando le aziende a cercare capitali attraverso l’emissione di obbligazioni. In campo valutario, la scena è stata dominata dal dollaro, che ha approfittato del difficile periodo di transizione delle economie dell’eurozona. Queste crescevano poco, perché la moneta unica richiedeva, si è detto, flessibilità negli altri strumenti della politica economica, ma questa doveva superare vari ostacoli sociali e istituzionali. L’America continuava invece su un sentiero di crescita più elevato, e questo confronto favoriva il dollaro che per qualche anno ha umiliato l’euro. Ma quando il periodo di transizione si è avviato, l’euro ha ripreso a salire e nel 2007 ha toccato nuovi record. In effetti, fin dall’inizio l’euro aveva molte frecce potenziali al suo arco, dato che la stazza delle economie sottostanti garantiva che la domanda di euro sarebbe salita per il mondo, sia come moneta di fatturazione, sia, soprattutto, come valuta di riserva. La crescente emorragia di dollari legata all’immenso deficit corrente USA veniva tamponata da un reinvestimento negli Stati Uniti delle riserva valutarie che i Paesi controparte del deficit americano venivano accumulando. Ma ci sono dei limiti all’accumulo di dollari, e una normale diversificazione consiglierebbe ai detentori di riserve di denominarle anche in altre valute: a questo punto l’euro diventava la destinazione privilegiata di capitali in cerca di diversificazione valutaria. Al settimo anno – il 2009 – non vi è stata crisi dell’euro, ma ha infuriato un’altra crisi, la Grande recessione. E a questo stress test l’euro ha risposto bene. Non ci sono state particolari tensioni in campo valutario e nessun politico responsabile ha proposto di sciogliere l’Unione monetaria per ridare libertà ai Paesi dell’euro. Ma la coda velenosa dell’aumento dei debiti pubblici di seguito al “pronto soccorso” dei governi dopo lo scoppio della Grande recessione ha creato un’altra crisi, la “crisi dei debiti sovrani”. Questa crisi ha portato molti commentatori a deplorare l’avventura dell’euro come un’iniziativa sconsiderata, ma la verità è un’altra. La più forte recessione del dopoguerra, con i suoi effetti molto diversi da Paese a Paese, ha creato molte tensioni, ma nel complesso l’euro ha retto e la crisi stessa ha avuto un risvolto positivo: ha costretto i Paesi dell’unione a mettere in comune molte risorse finanziarie per assicurare il risanamento delle finanze pubbliche dei Paesi in crisi, e ha fatto fare così un salto di qualità all’integrazione europea.

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schio più chiaramente. E a questo punto non possono che scatenarsi gli effetti di un generale “riprezzamento” del rischio. Il processo è inverso a quello descritto sopra; e, come una marea che ritirandosi lascia in secco tutte le barche, il riprezzamento fa calare il valore delle attività finanziarie nel mondo. E intanto l’inflazione… Quali sono, dal punto di vista pratico, per il cittadino lavoratore-produttore-investitore, le conseguenze di questi nuovi volti dell’economia? Rivoluzione industriale, globalizzazione e finanziarizzazione hanno molte e importanti conseguenze. Cominciamo dall’inflazione. Nei decenni passati l’inflazione è stata una costante spina nel fianco. Si suole dire che l’inflazione danneggia i creditori e avvantaggia i debitori. Ma in realtà danneggia entrambi perché, anche se i debitori ripagano il debito in una moneta svalutata, devono pagare un tasso d’interesse più elevato, che tiene conto dell’inflazione. E le cose stanno ancora peggio, perché l’inflazione introduce nelle decisioni economiche il tarlo dell’incertezza: storicamente, un’inflazione elevata è anche un’inflazione variabile, talché l’incertezza viene compensata da un tasso d’interesse ancora più alto, che aggiunge al costo del denaro anche un “premio al rischio”. Ma ecco la buona notizia: nell’economia del XXI secolo l’inflazione non sarà più un problema. Per due ragioni. La prima è legata alla rivoluzione industriale in corso, una rivoluzione che, come abbiamo detto, rivolta come un guanto i modi di produrre, crea nuove figure professionali, esalta la creatività e l’iniziativa industriale, abbassa il punto di pareggio dei conti aziendali. Insomma, da una parte abbassa, con produttività e innovazione, i costi di produzione, e dall’altra erode il potere di fissazione dei salari del lavoro organizzato. Il modus operandi di questa ondata della Nuova economia sta nel risparmio di costi, che implica minori prezzi. Prezzi “calmierati” La seconda ragione è in presa diretta con la globalizzazione. L’offerta dei Paesi emergenti calmiera i prezzi perché permette di far arrivare sui mercati dei Paesi “ricchi” prodotti con migliori rapporti qualità/prezzo. Basti pensare alla Cina e all’India, due Paesi che negli anni prima della Grande recessione erano andati crescendo a tassi del 9-10% l’anno, e anche nel corso della crisi hanno rallentato il passo ma non di molto. Fra Cina e India ci sono 2,4 miliardi di persone che sono entrate nell’economia di mercato, e questa massa d’urto – un urto di domanda e di offerta – sta forzando una redistribuzione internazionale del lavoro, che ha come tratto distintivo una pressione al ribasso sui prezzi di molti consumi di massa e un’apertura di mercati vergini alle esportazioni, ad alto valore aggiunto, dei Paesi di vecchia industrializzazione.

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I deficit pubblici e l’inflazione Nel corso della Grande recessione i governi e le Banche centrali hanno messo in opera una gigantesca operazione di “pronto soccorso”: aumenti di spesa, riduzioni di imposte, prestiti alle banche, acquisti di titoli sul mercato, garanzie ed esborsi hanno creato un mare di liquidità che sguazza nelle riserve delle banche e nelle tasche degli investitori. La preoccupazione è quindi legittima: questo mare di liquidità finirà per creare inflazione? Certamente, nel breve periodo, no. La voglia di spesa è poca (appunto per questo l’economia è in recessione) e quindi l’inflazione è vicina a zero e la tanta moneta creata ristagna nelle banche e nei portafogli. Quando l’economia dovesse riprendersi, tuttavia, tutto quel combustibile monetario potrebbe portare a eccessi di spesa e quindi rinfocolare l’inflazione. È un pericolo di cui le Banche centrali sono ben consce, ma le “strategie di uscita” da questa situazione esistono. Queste exit strategy prevedono di asciugare le pozze di liquidità che sono state create: alcune si esauriscono da sole, altre potranno essere prosciugate vendendo titoli sul mercato o anche, come vorrebbe la Federal Reserve americana, dando alla Banca centrale la facoltà di emettere titoli destinati alla gestione della liquidità. Le Borse dopo la crisi L’investimento azionario è stato penalizzato dalla Grande recessione. Vuol dire che dobbiamo cancellare le ragioni che consigliavano di investire in Borsa come strategia di difesa del risparmio nel medio-lungo periodo? Per rispondere a questa domanda, passiamo di nuovo in rassegna quelle ragioni. Primo, l’ondata epocale di innovazione, che ha ancora molto spazio per dipanarsi, innalza il tasso di produttività dell’economia intera, e questo vuol dire, almeno inizialmente, una distribuzione del reddito che tende a favorire i profitti. È vero, come abbiamo detto prima, che l’esperienza delle epoche passate insegna che i profitti, in una situazione di concorrenza, tendono ad appiattirsi man mano che altre imprese entrano nei campi fertili appena dissodati, ma è anche vero che il processo, con la rivoluzione telematica che si diffonde e ramifica, è continuo. Sempre nuove innovazioni creano opportunità di profitto, che vengono presto sfruttate abbassando i margini; ma ogni fotografia dell’esistente fa vedere che c’è un proficuo cambiamento in divenire, e la “giacenza media” dell’innovazione profittevole è consistente. La seconda ragione dell’attrattiva degli investimenti nell’apparato produttivo del Paese sta nel fatto che, con un’inflazione bassa, sono diventati meno rischiosi: un fattore di rischio nei calcoli dell’imprenditore – la volatilità nel potere d’acquisto della moneta – è stato ridotto, per quanto possa sembrare audace parlare di abbassamento del rischio nel mezzo della Grande recessione. Questo abbassamento del premio di rischio innalza anche strutturalmente le

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valutazioni di Borsa: il confronto con i rendimenti obbligazionari si fa più attraente per l’investimento azionario, il tasso al quale sono scontati i profitti futuri è più basso e quindi giustifica quotazioni più alte. Maggiore stabilità valutaria I nuovi volti dell’inflazione hanno anche riflessi sulle valute. Quando un investitore decide del giardinetto dei propri portafogli, tiene conto del rischio cambio. Ma nel XXI secolo il rischio cambio sarà meno pronunciato. Intanto, il fatto che l’inflazione in giro per il mondo sarà più bassa e più uniforme rimuove uno degli elementi che spiegano la volatilità delle valute. Poi, c’è una tendenza alla riduzione del numero di valute: che non si vede solo in casi clamorosi come quello dell’Unione monetaria europea, ma anche in casi di “dollarizzazione” (cioè il caso di Paesi che ufficialmente – come l’Ecuador – o ufficiosamente – come la Liberia – adottano il dollaro come propria moneta) o di “eurizzazione”. Anche in Asia, nei Paesi del Golfo e nell’America Latina si tende a creare aree di stabilità monetaria. Meno inflazione, insomma, e più stabilità valutaria: due aree di rischio – rischio per i risparmiatori e rischio per gli imprenditori – vengono circoscritte, con effetti benefici per le decisioni di investimento reale e finanziario. Regole da rifare Le misure di contrasto alla Grande recessione prese dagli Stati sono state imponenti. E grazie a queste è probabile che nel 2010 il mondo uscirà da questa crisi. Ma per non ricadervi non basta prendere misure congiunturali: ci vogliono anche riforme strutturali, e in special modo quelle attinenti alla regolazione del sistema finanziario. Questa regolazione ha lasciato gonfiare un “sistema bancario ombra” (società finanziarie che non erano soggette alla vigilanza bancaria) libero di creare strumenti di debito pericolosi e non sperimentati. Alla fine del 2007 gli attivi detenuti in America dal “sistema bancario ombra” erano di oltre 10 trilioni di dollari: una cifra superiore agli attivi detenuti dal sistema bancario tradizionale. La vigilanza deve quindi, in USA e altrove, allargare il suo raggio d’azione. Soprattutto, bisogna rivedere le regole che, anche nel campo della tradizionale sorveglianza del sistema bancario, dettavano limiti all’operatività stabilendo un rapporto minimo fra il capitale della banca e gli attivi: le “regole di Basilea”. Basilea 1-2 Questi “recinti del rischio” si chiamano, per le banche, “Basilea 2” (versione rivista di “Basilea 1”), e, per le società di assicurazione, “Solvency 2” (versione rivista di “Solvency 1” – si veda il riquadro). “Basilea 2” si chiama così perché la Banca dei regolamenti internazionali nel

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cui ambito sono stati negoziati gli accordi ha sede a Basilea. Questi stabiliscono che le banche devono avere un capitale pari almeno all’8% del loro attivo (questo rapporto si chiama capital ratio). Cioè a dire, se i prestiti e i titoli in possesso delle banche sono pari a 100, il loro capitale deve essere pari almeno a 8. Ci sono regole dettagliate su come calcolare l’attivo e su che cosa è considerato “capitale”, ma qui basta dire che per calcolare l’attivo non si addizionano semplicemente prestiti e titoli. Ogni categoria di prestito e ogni categoria di titoli viene “pesata” per un coefficiente di rischio. Perché si usano questi pesi? Il capitale è una “garanzia” per premunirsi contro la perdita di valore dell’attivo. Ma se una banca ha usato i soldi per acquistare, mettiamo, BOT a 3 mesi, la possibilità che questo titolo non venga rimborsato alla scadenza è praticamente zero. E allora la procedura di calcolo assegna un peso “zero” ai titoli pubblici a breve scadenza. Un altro esempio: per i mutui, che hanno una garanzia reale (la casa), il peso è del 50%; per i prestiti alle imprese, che sono più rischiosi, il peso è del 100% (vengono conteggiati al valore pieno). Insomma, una banca può avere un attivo, conteggiando tutto al 100%, di 200 e un capitale di 8: in questo caso il suo rapporto capitale/attivo è del 4% (o, guardando le cose all’inverso – rapporto attivo/capitale – la sua “leva finan-

SOLVENCY 1 E 2 Le tensioni finanziarie legate alla crisi attuale hanno portato alla ribalta non solo le questioni di vigilanza bancaria ma anche quelle relative alla vigilanza su un’altra grossa componente del sistema finanziario: le assicurazioni. La normativa UE in materia di solvibilità delle imprese di assicurazione è stata delineata negli anni Settanta dalla prima generazione di direttive assicurative e ha assunto un’importanza maggiore con le direttive di terza generazione degli anni Novanta, che hanno introdotto il sistema del “passaporto europeo” (autorizzazione unica) per gli assicuratori. Tali direttive imponevano alla Commissione europea di procedere a un’armonizzazione minima delle norme in materia. A questa fase normativa, chiamata Solvency 1, è seguita una seconda fase, Solvency 2, che ha lo scopo di estendere la normativa di Basilea 2 al settore assicurativo, coprendo i tre tipi di rischio: di credito, di mercato e operativo. Gli accantonamenti per garantire la solvibilità variano fra un limite inferiore che è il minimum capital requirement (MCR) e il solvency capital requirement (SCR). L’SCR, chiamato anche “target capital”, risolve il problema del circolo vizioso che veniva a crearsi per le assicurazioni in crisi, che non avendo liquidità per gli accantonamenti, vendevano azioni pur di diminuire il patrimonio sul quale era calcolata la percentuale da accantonare.

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Lancette dell’economia Dal 5 novembre 1986 Il Sole 24 ORE pubblica ogni mese (a firma di Fabrizio Galimberti e Luca Paolazzi) “Lancette dell’economia”: alcuni grafici sugli aspetti chiave della congiuntura italiana, europea e internazionale, accompagnati da un ampio commento. Con questo servizio il giornale ha inteso rispondere al bisogno, sempre più diffuso, di un’informazione ordinata e tempestiva sulle vicende dell’economia. Un bisogno sentito anzitutto dalle piccole e medie imprese, dai professionisti e dai commercianti, che conoscono il polso dei loro mercati, ma che hanno bisogno di auscultare anche il battito dell’intera economia. Le puntate delle “Lancette dell’economia” più recenti sono poi consultabili sul web all’indirizzo www.ilsole24ore.com/lancette.

Qui sono raffigurati gli andamenti degli ordini e della produzione nell’industria. Gli indici sono quelli elaborati dall’Eurostat, sia per la produzione industriale sia per gli ordini all’industria. Vengono presentati come medie mobili di tre termini per far meglio risaltare le tendenze sottostanti.

I prezzi (fonte Economist) del petrolio e delle altre materie prime sono riportati in euro, sotto forma di numeri indici, per l’Italia e per l’Eurozona, e in DSP (diritti speciali di prelievo) per il grafico relativo alla “triade” USA-Eurozona-Giappone (i DSP sono calcolati come media ponderata di dollaro, euro, yen e sterlina).

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Per i lettori affrettati, poche righe di sommario ritagliano un conciso riassunto del testo.

È il grafico che cambia ogni volta e illustra un aspetto saliente degli accadimenti del mese.

I tassi di interesse reali (cioè deflazionati con l’andamento dei prezzi) sono importanti perché determinano le decisioni di spesa di famiglie e imprese. Quando, per esempio, un’impresa decide di fare un investimento, tiene in conto, oltre al costo nominale dei finanziamenti, anche delle prospettive di inflazione: di quanto, cioè, potrà aumentare i prezzi dei suoi prodotti così da ripagare il servizio del debito. La variabile da usare per i tassi reali dovrebbe quindi essere l’inflazione attesa piuttosto che quella presente, ma di solito quella attesa viene approssimata al tasso di inflazione attuale.

I grafici relativi ai tassi di interesse riguardano per la “triade” (USA-Eurozona-Giappone) i tassi dei titoli pubblici a 10 anni, nella versione nominale e reale (cioè deflazionati con i prezzi al consumo). Per l’Eurozona, vengono presentati i tassi a breve (EONIA, overnight) e a 10 anni (titoli pubblici), sempre nella versione nominale e reale. Per l’Italia, sono raffigurati, per i tassi a breve, i tassi netti dei BOT a 12 mesi, nominali e reali (deflazionati con i prezzi al consumo), e per i tassi che rappresentano il costo del denaro per le imprese, i tassi medi sugli impieghi, nominali e reali (deflazionati, in quest’ultimo caso, con l’indice dei prezzi alla produzione).

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ziaria”, o leverage ratio, è di 25). Ma se quei 200 di attivo sono composti per 50 da titoli pubblici a breve (peso 0%, conteggiati zero), per 100 da mutui (peso 50%, conteggiati 50) e per i restanti 50 da prestiti alle imprese (peso 100%, conteggiati 50), l’attivo “ponderato” di quella banca è pari a 100 (0 + 50 + 50), e quindi il rapporto – il capital ratio – sale a 8, rientrando nei limiti. Qui ci sono due problemi, che la riforma della regolamentazione dovrà affrontare. Il primo sta nel fatto che questi limiti sono stati ampiamente elusi. Le banche avevano creato delle società-veicolo (SIV- structured investment vehicle) che non venivano consolidate nel bilancio della società-madre. Queste società si finanziavano sul mercato del denaro all’ingrosso e investivano in titoli a scadenza lunga: un’attività rischiosa che finiva nel “sistema bancario ombra” e che sottraeva quegli attivi alle regole di Basilea. L’altro problema è che quelle regole sono pro-cicliche, nel senso che aggravano le tendenze del ciclo. Quando le cose vanno bene, i titoli delle banche acquistano valore e queste plusvalenze fanno aumentare il capitale e permettono quindi alle banche di prestare di più, stimolando ulteriormente l’economia, fino al possibile insorgere di bolle speculative. E la cosa contraria accade quando le cose vanno male. Una riforma della regolazione dovrebbe quindi far sì che i capital ratio siano anti-ciclici, rendendoli più restrittivi (aumentandoli) nei periodi di boom e allentandoli nei periodi di debolezza dell’economia. Una crisi salutare La Grande recessione e la crisi da debiti sovrani non sono venute solo per nuocere. Hanno svolto e stanno svolgendo una grossa funzione catartica, sia forzando imponenti ristrutturazioni industriali sia riaccordando il pianoforte culturale. L’economia di mercato era sempre stata una mezzadria fra pubblico e privato, ma il pendolo era andato oscillando verso l’estremo del mercato e del privato. La scienza economica aveva già cominciato a riorientarsi – vedasi i premi Nobel assegnati negli anni prima della Grande recessione a economisti anomali, che intingevano la penna nella psicologia, nella sociologia, nella storia, nei “fallimenti del mercato”. Ma troppi politici e grand commis (quegli “uomini della pratica” che di solito, come scrisse un grande economista del Novecento, John Maynard Keynes, «sono schiavi di qualche economista defunto») avevano creduto alle sirene del “mercato che si aggiusta da solo”. La crisi, insomma, sta portando a un salutare riequilibrio dei ruoli, e la rivalutazione del ruolo pubblico non è confinata al “pronto soccorso” della recessione e alle riforme della regolazione: si sta estendendo a quei valori di equità nella distribuzione e di solidarietà nel tessuto sociale che sono al centro della convivenza civile, della stabilità economica e per ciò stesso di una crescita sana.

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Indici e indicatori di Luca Paolazzi e Francesco Tabacchi

L’inflazione, la produzione industriale, il fatturato... Ormai anche la televisione ci propina quasi giornalmente tavole e grafici con le notizie economiche che scandiscono i ritmi del gran corpaccio dell’economia italiana. Ma che cosa c’è dietro a quei numeri? E di quali numeri si tratta? Quando si dice che l’inflazione è del 2%, che cosa si vuol dire esattamente? Come si è calcolato quel 2%? In questo capitolo si parlerà di indici e indicatori. Di indici, perché la grandezza che riassume nella stenografia di un numero un fenomeno complesso come l’inflazione si chiama, appunto, numero indice. E di indicatori, perché a loro volta questi numeri diventano “indici” puntati sulla congiuntura, segnali sul cruscotto statistico che ci dicono la velocità e la temperatura dell’attività economica, le lancette di un barometro che registra e presagisce il bello e il cattivo tempo...

LE STATISTICHE IN RETE • AIECE (Association of european conjuncture institutes): www.aiece.org • Banca d’Italia: www.bancaditalia.it • Banca Mondiale: www.worldbank.org • BCE (Banca centrale europea): www.ecb.int • FAO (Food and agriculture organization): www.fao.org • FMI (Fondo monetario internazionale): www.imf.org • ICE (Istituto nazionale per il commercio estero): www.ice.it • ISAE (Istituto di studi e analisi economica): www.isae.it • ISI (International statistical institute): www.cbs.nl/isi • ISTAT (Istituto nazionale di statistica): www.istat.it • OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico): www.oecd.org • OMS (Organizzazione mondiale della sanità): www.who.int • UNECE (United nations economic commission for Europe): www.unece.org • WTO (World trade organization): www.wto.org

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I numeri indici Si immagini di dover rispondere alla seguente domanda: quale variazione ha subito in un anno il prezzo di un bene? Per rispondere potrebbe essere sufficiente calcolare la differenza (assoluta) tra il prezzo del bene al termine dell’anno (pt) e il prezzo di inizio anno (p0). La risposta sarebbe dunque data dall’espressione: pt – p0 = variazione del prezzo del bene in un anno. Ma se, invece che di un solo anno, ci fosse stato chiesto di determinare la variazione del prezzo del bene per una serie di anni (t = 0, 1, 2, ..., n), è certo che una successione di differenze assolute tra i prezzi annuali sarebbe stata poco utile per comprendere la dinamica del prezzo di quel bene nel tempo.

COME SI CALCOLA LA VARIAZIONE DELL’INDICE: UN ESEMPIO Si supponga che il prezzo di 1 litro di latte (grandezza considerata) negli anni 2006 e 2007 sia stato rispettivamente di € 1,32 e 1,35. Se si indica con p il prezzo del latte e si considera il prezzo 2006 come base del numero indice si otterrà: 2006/2007

=

p2007 1,35 = = 1,023 = 2,3% (variazione percentuale) p2006 1,32

Si noti che l’indice 2006 posto a sinistra di I rappresenta il periodo preso a base, mentre l’indice 2007 a destra di I fa riferimento al periodo oggetto di calcolo. Nel caso considerato, il numero indice è maggiore dell’unità e sta dunque a indicare un aumento del prezzo del bene pari al 2,3%. Se il rapporto avesse dato come risultato l’unità, ciò avrebbe indicato che i due prezzi considerati erano uguali e dunque non vi era stato nell’anno né incremento né diminuzione. Infatti se p2006 = 1,35, allora: 2006/2007

=

1,35 =1 1,32

Ultimo caso da considerare è quello di un rapporto quoziente inferiore all’unità: in questa ipotesi non avremo aumento del prezzo del bene nell’anno, ma una sua diminuzione. Infatti se p2007 = 1,30, allora: 2006/2007

=

1,32 = 0,985 1,30

La diminuzione è misurata dalla differenza tra 1 – 0,985 = 0,015 = 1,5%.

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Molto più utile, invece, è fare riferimento alle variazioni (o differenze) relative ai prezzi di ciascun anno rispetto a un anno scelto quale base di computo. Si tratta, in pratica, di costruire rapporti aventi al numeratore i prezzi del bene per i diversi anni considerati pt (t = 0, 1, 2, ..., n) e al denominatore il prezzo dell’anno base (p0). Tali rapporti rappresentano le variazioni relative dei prezzi del bene (con base p0 = 100) e vengono chiamati numeri indici. Che cos’è un numero indice Si può definire numero indice quel numero che misura le variazioni di una o più grandezze nel tempo, avendo scelto come unità di misura il loro valore a una data stabilita. Si tratta, dunque, di puri numeri, derivati dal rapporto fra due valori di una stessa grandezza. Il valore posto a denominatore della frazione è detto “base” del numero indice. Se si mantiene immutata la base di riferimento, i numeri indici così calcolati sono chiamati “numeri indici a base fissa”. Se al contrario la base viene variata di volta in volta, tali numeri sono detti “numeri indici a base mobile” (e di essi non si tratterà in queste pagine). Numeri indici semplici e composti Si è visto come sia possibile confrontare tra loro gli andamenti nel tempo dei prezzi (p) e lo stesso dicasi per quantità (q) e valori (v) di singoli beni. Se però si volesse sapere, per esempio, di quanto è variato in media, dal 2002 al 2003, il prezzo di tutti i beni alimentari presenti sul mercato italiano, si incontrerebbe un nuovo ostacolo, avendo a disposizione tanti numeri indici quanti sono i singoli beni, ma nessun indice che li rappresenti sinteticamente. Si tratta, in sostanza, di costruire un numero indice dei prezzi che esprima da solo la variazione d’insieme dei prezzi dei beni alimentari nel periodo considerato. È quindi necessario passare dai numeri indici semplici (o elementari) a quelli composti. Con quale procedimento si può effettuare questo passaggio? Il più usato è quello illustrato di seguito.

Metodo delle medie ponderate di indici semplici Questo procedimento evidenzia la diversa importanza dei beni che sono oggetto di rilevazione. Nel caso di indicatori di grandezze economiche la diversa importanza (peso) dei beni viene evidenziata con riferimento al volume delle transazioni degli stessi. Il volume avrà rilievo sotto l’aspetto fisico, con riferimento alla quantità (q), ovvero sotto l’aspetto economico, con riferimento ai valori monetari (p × q = prezzo unitario del bene moltiplicato per la sua quantità).

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La media usata più frequentemente è quella aritmetica, per cui si parlerà di numeri indici composti costruiti con media aritmetica ponderata degli indici semplici dei prezzi. I pesi (quantità o valori) potranno riferirsi o all’anno base o a un anno tipico o, ancora, all’anno oggetto di rilevazione. L’indice che se ne ricava è detto “indice di Laspeyres” (I L) ed è a base fissa e ponderazione fissa.

GLI INDICI PIÙ SIGNIFICATIVI Alcuni indici di particolare interesse, direttamente o rielaborati, compaiono con periodicità tra gli articoli del Sole 24 ORE. • Inflazione e costo della vita, misurati attraverso le variazioni degli indici dei prezzi al consumo per l’intera collettività (NIC), degli indici dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati (FOI) e dell’indice dei prezzi al consumo armonizzato (IPCA). • Andamento dell’economia nazionale, misurato dagli indici della produzione industriale, del fatturato, degli ordinativi nazionali ed esteri, della consistenza degli ordinativi, del commercio con l’estero, delle vendite al dettaglio, del settore alberghiero (quest’ultimo attraverso la rilevazione sugli arrivi e le presenze turistiche in alcuni momenti caratteristici dell’anno) e del terziario. • Andamento del mercato del lavoro, misurato dagli indicatori relativi all’andamento dell’occupazione in generale, in particolare nelle grandi imprese dell’industria e dei servizi, e delle retribuzioni e del costo del lavoro (OROS). • Altri indicatori economici, come variazioni del prodotto interno lordo, bilancia commerciale, e così via.

È sempre importante fare dei paragoni con il passato, anche per decidere che politiche adottare in futuro per la crescita e lo sviluppo. E gli indici sono di grande aiuto in proposito.

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Inflazione e costo della vita L’ISTAT (Istituto nazionale di statistica) pubblica diversi numeri indici dei prezzi al consumo che misurano le variazioni nel tempo dei prezzi di un paniere di beni e servizi acquistabili sul mercato e destinati al consumo finale delle famiglie. Gli indici dei prezzi al consumo Gli indici dei prezzi al consumo calcolati utilizzando la formula di Laspeyres e pubblicati dall’ISTAT sono tre:

• • •

l’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività (NIC); l’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati (FOI); l’indice dei prezzi al consumo armonizzato tra i Paesi dell’Unione europea (IPCA).

Il primo, NIC, considera l’Italia come un’unica grande famiglia di consumatori, facendo così la media tra abitudini di spesa evidentemente molto differenziate; il secondo, FOI, considera i comportamenti di consumo dell’insieme delle famiglie che fanno capo a un lavoratore dipendente (extra-agricolo) ed è l’indice usato per l’adeguamento periodico dei valori monetari, per esempio gli affitti; il terzo, IPCA, si riferisce alla stessa popolazione di riferimento del NIC ed è stato

I PARAMETRI ISTAT Gli indici dei prezzi al consumo elaborati dall’ISTAT prendono in considerazione i seguenti parametri. • I prezzi dei beni e servizi sono prezzi effettivi: non vengono considerati prezzi virtuali o prezzi imposti. • I prezzi riguardano beni di consumo: restano esclusi quelli di investimento. • I prezzi si riferiscono sempre ai consumi delle famiglie: di conseguenza, non comprendono quelli relativi alle imprese e alla pubblica amministrazione. • I prezzi riguardano i consumi delle famiglie residenti nel territorio nazionale: sono inclusi stranieri temporaneamente residenti ed esclusi residenti temporaneamente assenti. • I prezzi si riferiscono a transazioni realizzate mediante operazioni monetarie: non rilevano, quindi, quelle effettuate a titolo gratuito, gli autoconsumi e via dicendo.

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EURO, INFLAZIONE E ISTAT Con la sostituzione dell’euro alla lira, e in particolare in coincidenza con il changeover (inizio 2002), si è diffusa la convinzione nell’opinione pubblica di una serie di rincari ingiustificati che avrebbero portato a un’accelerazione dell’inflazione, non rilevata però dalle misure ISTAT. Addirittura c’è chi ha parlato dell’utilizzo di un tasso di conversione improprio di un euro=mille lire (anziché 1936,27), che avrebbe perciò comportato un’inflazione del 100%. Questa opinione, oltre a non essere solo italiana (fenomeni di “caro-euro” sono stati al centro del dibatto pubblico anche in Francia e Germania, per esempio), si è profondamente radicata e fa ormai parte dell’immaginario collettivo. Vale perciò la pena di rimanere sul tema del rapporto tra inflazione e introduzione dell’euro, affrontandolo da due angoli: • esiste un nesso causale tra introduzione dell’euro e aumento del livello dei prezzi? • perché l’euroinflazione percepita dai consumatori sembra non corrispondere a quella rilevata dall’ISTAT? Per quanto riguarda la prima domanda, la risposta di massima è: no, non esiste nesso causale tra introduzione della moneta unica europea e aumento del livello dei prezzi. Certo, in corrispondenza dell’entrata in vigore dell’euro si sono verificati alcuni fenomeni di “aggiustamento” dei prezzi, vuoi per arrotondamenti dovuti al cambio di moneta e applicati, quasi sempre in eccesso, ai prezzi dei beni in libero commercio (per quelli regolamentati, fissati per legge, si è, invece, rilevata una lieve riduzione); vuoi per uno “scarico” anticipato sul prezzo dei beni dei costi legati alla conversione in euro (nuovi registratori, corsi di addestramento, adeguamento dei programmi informatici, ristampa dei listini ecc.); vuoi ancora per un “effetto sorpresa” trasferito, dai venditori, sui prezzi dei beni e servizi approfittando dell’iniziale fase di apprendimento, da parte dei consumatori, dei prezzi denominati nella nuova moneta e della mancanza, per loro, di punti di riferimento e comparazione (ben presenti, al contrario, con i prodotti espressi nelle vecchie lire). La somma di questi eventi, secondo uno studio dell’FMI, può aver contribuito per circa un quarto dell’inflazione 2002, con una cifra vicina allo 0,5%, come già previsto e anticipato dal Comitato euro nazionale. I dati ISTAT segnalano un aumento dei prezzi al consumo (esclusi i tabacchi) nel 2002 del 2,5% rispetto al 2,8% del 2001. Ma allora, e veniamo alla seconda domanda, perché il commercialista di Torino (per non scomodare la casalinga di Voghera) ha la sensazione che

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“la vita sia più cara” rispetto a quanto afferma l’ISTAT? Anche qui i motivi sono più d’uno. In primis per l’elemento soggettivo che caratterizza inevitabilmente le osservazioni, necessariamente limitate nel tempo e nello spazio, dell’individuo rispetto all’indice dei prezzi calcolato dall’ISTAT (che è il risultato, come abbiamo visto, della media ponderata di oltre 400.000 quotazioni mensili). Soggettività che porta ognuno di noi a creare un proprio paniere (parziale) di beni e servizi che viene certamente monitorato con grande cura e costanza ma che, sicuramente, difetta dei crismi statistici per diventare l’indice di prezzi dell’intera collettività (o anche solo delle famiglie facenti capo a un lavoratore dipendente). Questa parzialità nella rilevazione e nella conoscenza della dinamica dei prezzi porta però ognuno di noi alla sgradevole (e statisticamente infondata) sensazione che i prezzi pagati al mercato, in pizzeria, al bar o nel negozio di abbigliamento siano “fuori controllo”, in quanto non riscontrabili nell’indice calcolato dall’Istituto nazionale di statistica. A ciò si aggiunga, almeno per quanto riguarda i prodotti alimentari non lavorati (come frutta e verdura fresche), che nel 2002, e ancor più nel 2003, stante l’eccezionale e anomala estate, gelate prima e siccità poi hanno compromesso buona parte dei raccolti, causando aumenti dei prezzi oltre la media. Ma incolpare di ciò l’euro sembra davvero eccessivo! A questo si aggiunge il fatto che, come detto, l’arrivo della moneta unica ha azzerato la nostra memoria dei prezzi e quando ora confrontiamo i listini con quelli ante euro lo facciamo pescando in modo alquanto approssimativo nei ricordi. Un esempio di ciò è dato dal prezzo del biglietto del cinema. Fate un test su voi stessi e provate a ricordarvi quanto costava entrare in un cinema di prima visione nel dicembre 2001. Se rispondete 7.000 lire siete in compagnia con la metà degli italiani, stando a uno studio condotto dalla Banca d’Italia. Peccato che il prezzo vero era di 13.000 lire. È evidente, perciò, che quando la metà degli italiani confronta i 7,5 euro attuali con la sua memoria (corta) di 7.000 lire parla di raddoppio del costo della vita e di cambio un euro=mille lire. E questo è solo un esempio. Analoghi esperimenti potrebbero essere fatti per il prezzo della pizza o delle zucchine. Purtroppo la verità è che l’avvento della moneta unica è coinciso con un rallentamento della crescita economica mondiale ed Eurolandia non ha fatto eccezione, anzi. Con conseguente incertezza e riduzione della propensione alla spesa, che hanno ingenerato nei consumatori una maggiore attenzione rispetto alla dinamica dei prezzi dei beni e servizi acquistati.

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EURO, INFLAZIONE E ISTAT (segue) Per concludere, un’annotazione personale collegata alla proposta dell’introduzione della banconota da 1 euro in sostituzione della moneta metallica (e viene da chiedersi: perché non anche per la moneta da 2 euro?) per farla sentire meno “spicciolo” evitando di sprecarla o sottovalutarla. Nei primi giorni dell’introduzione dell’euro si pagava un caffè al bar con la moneta da 1 euro lasciando in mancia i 20 centesimi per non trovarseli in tasca... non avevamo ancora compreso che quei 20 centesimi corrispondevano a 387,25 vecchie lire. Solo i ringraziamenti troppo eloquenti del cameriere hanno fanno riflettere... Va aggiunto, però, che l’errato uso dell’euro come misura del valore (cioè come numerario) avviene prima di mettere mano al portafogli ed è quindi indipendente dal taglio delle monete e delle banconote. Infatti, la progressiva svalutazione della lira ci aveva abituato a considerare nella lettura dei cartellini dei prezzi solo le migliaia: 10.000 lire venivano sintetizzate con 10 migliaia. Oggi, quando leggiamo un prezzo in euro, facciamo la stessa operazione mentale e associamo 10 (o 20 o 30 ecc.) alle migliaia precedenti, mentre in realtà il valore monetario di quel bene è quasi il doppio. Ciò porta a sopravvalutare implicitamente il potere d’acquisto delle nostre retribuzioni e dei nostri risparmi, inducendo comportamenti di spesa non sostenibili.

Esiste un nesso causale fra inflazione e arrivo dell’euro? Perché l’inflazione percepita dai consumatori sembra non corrispondere a quella rilevata dall’ISTAT?

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sviluppato per assicurare una misura dell’inflazione comparabile a livello europeo. Infatti, tale indice viene calcolato e pubblicato dall’ISTAT e inviato mensilmente all’Eurostat che provvede a elaborare, sulla base degli indici armonizzati dei singoli Paesi UE, l’indice sintetico europeo. L’IPCA è quello che conta per le decisioni di politica monetaria adottate dalla Banca centrale europea, che considera la dinamica dei prezzi in tutta la zona euro e non nei singoli Paesi (che dal 2009 sono 16) che la compongono. I tre indici hanno in comune:

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la rilevazione dei prezzi; la metodologia di calcolo; la base territoriale; la classificazione del paniere, articolato in 12 capitoli di spesa.

Il paniere viene aggiornato periodicamente dall’ISTAT ed è rintracciabile sul sito internet dell’Istituto. Le differenze fra i tre indici I tre indici hanno in comune la rilevazione dei prezzi, il metodo di calcolo, la base territoriale e la classificazione nei dodici capitoli di spesa. Differiscono su specifici aspetti. Per esempio, NIC e FOI, pur avendo un identico paniere, hanno una differente ponderazione dei beni e servizi, a seconda dell’importanza che i diversi prodotti assumono nei consumi della popolazione di riferimento. La differenza più rilevante fra i tre indici riguarda comunque il concetto di prezzo utilizzato: il NIC e il FOI considerano sempre il prezzo pieno di vendita, l’IPCA, invece, tiene conto, a determinate condizioni, anche delle riduzioni temporanee di prezzo (conseguenti, per esempio, a saldi, sconti e promozioni).

Le rilevazioni dell’ISTAT forniscono precise e puntuali fotografie dei diversi aspetti della vita economica di imprese e famiglie.

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LA SIGNORA ROSSI E L’INFLAZIONE È opinione piuttosto diffusa, e ha anche formato oggetto di accese discussioni (in relazione all’adozione dell’euro come moneta nazionale), che l’andamento dei prezzi rilevato dall’ISTAT diverga sensibilmente dall’aumento dei prezzi percepito dai consumatori. Come mai? La spiegazione può essere rintracciata proprio nel meccanismo sopra descritto di costruzione del numero indice, che è una media ponderata di prezzi di beni e consumi raggruppati nel paniere. Ora, se è sicuramente vero che, per esempio, le patate dal dicembre 2002 al dicembre 2003 sono aumentate del 21%, è altrettanto vero che il “peso” dell’acquisto di patate nel paniere è solo dello 0,2%, con la conseguenza che forti rincari di alcuni prodotti di scarso peso nel paniere, quando questi prodotti siano più frequentemente acquistati e perciò più facilmente osservati e memorizzati dal consumatore, non si traducono in corrispondenti innalzamenti del livello dell’indice generale dei prezzi. Peraltro l’ISTAT, sulla scorta anche di analisi condotte a livello Eurostat che hanno evidenziato come in coincidenza del changeover i beni di acquisto più frequente avessero registrato rincari superiori alla media, ha diffuso nell’ultimo Rapporto annuale la variazione dei prezzi suddivisi in base alla frequenza degli acquisti, che conferma i risultati di quelle analisi. Infine, sempre l’ISTAT ha elaborato un’analisi che ha ricalcolato i panieri dei prezzi al consumo a seconda della tipologia della famiglia, concentrandosi in particolare su quelle più svantaggiate per livello di reddito e condizione abitativa. Ma da questa analisi non emerge una particolare penalizzazione, in termini di più forte dinamica inflativa, per le famiglie deboli.

Andamento dell’economia nazionale Per tenere sotto osservazione gli andamenti economici di breve termine servono indicatori di carattere congiunturale disponibili tempestivamente; è quindi necessario, per la loro produzione, selezionare un campione di unità (nella fattispecie imprese) all’interno dei soggetti rilevanti. D’altra parte, per rendere tali indicatori non solo tempestivi ma anche rappresentativi dell’effettivo andamento delle variabili d’interesse, è necessario monitorare periodicamente i loro criteri di costruzione, procedendo a un aggiornamento dei campioni di unità prese a riferimento, nonché delle informazioni richieste. I principali indicatori adottati per il monitoraggio dell’andamento dell’economia nazionale sono i seguenti: • gli indici della produzione industriale; • gli indici del fatturato e degli ordinativi dell’industria e, solo per il fatturato, in alcuni servizi;

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gli indici della produzione nelle costruzioni; gli indici delle vendite al dettaglio; gli indici di fiducia; gli indici del commercio estero.

L’indice della produzione industriale Il nuovo indice della produzione industriale, calcolato da gennaio 2009 con base di riferimento 2005 = 100, misura la variazione nel tempo del volume fisico della produzione industriale in senso stretto (sono escluse le costruzioni).

In breve L’ISTAT provvede regolarmente ad armonizzare i metodi di rilevazione e la natura degli indicatori con i metodi e gli indici prodotti dagli altri Paesi dell’Unione europea, secondo i regolamenti comunitari. Questa armonizzazione è tanto più importante con l’allargamento dell’Unione (dal gennaio 2007 i Paesi che la compongono sono diventati 27, mentre dal gennaio 2008 i Paesi dell’Eurozona sono 15) e con il completamento del mercato unico: uno spazio economico necessita di strumenti statistici coordinati e armonizzati per l’interpretazione delle dinamiche congiunturali.

L’indice viene calcolato sulla base di una rilevazione mensile condotta su un campione di circa 4.300 imprese (per un totale di poco più di 9.000 flussi mensili di produzione) selezionate per ottenere la migliore copertura possibile della produzione industriale senza, per altro, gravare le imprese di eccessivi carichi per rispondere ai questionari. Per alcune specifiche produzioni si utilizzano anche altre fonti, come i dati di produzione di energia elettrica rilevati da Terna (la società che gestisce la rete elettrica nazionale) e quelli della produzione siderurgica forniti dall’associazione di categoria. Come si costruisce Per la costruzione dell’indice (che parte da numeri indici di voci di prodotto sintetizzati per attività economica secondo la formula di Laspeyres) è stato definito un paniere di prodotti rappresentativo dell’universo delle produzioni delle imprese industriali, ricorrendo alla classificazione Ateco 2007, utilizzata per la realizzazione di tutte le principali statistiche economiche e coerente con quella adottata dagli Stati membri della UE (Nace Rev. 1.1). Il nuovo paniere si compone di 541 voci di prodotto (quello in base 2000 = 100 ne considerava 548) delle quali 452 già presenti nel precedente paniere,

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31 nuove, 18 sintesi di 48 precedenti, 27 disaggregazioni di 14 precedenti e 19 escluse. Il passaggio dagli indici elementari agli indici di classe, da questi agli indici di gruppo, di divisione, di sottosezioni e sezioni Ateco fino all’indice generale, viene effettuato tramite il ricorso ad Le variazioni da un mese all’altro della produzione appropriati “pesi” che tengono industriale, come quelle di altre variabili economiche, possono essere dovute a fattori stagionali (per esempio, un conto dell’importanza economiindice della produzione di panettoni scatterà verso l’alto ca dei prodotti, delle classi, dei prima di Natale). Esistono quindi filtri statistici per gruppi e così via. eliminare dai dati la componente stagionale e rilevare le Proprio al sistema ponderale tendenze soggiacenti. Un indice così corretto si chiama applicato alle singole voci di “destagionalizzato”. prodotto e ai diversi livelli di aggregazione della classificazione Ateco 2007, si riferisce la seconda novità dell’indice. Infatti, la revisione del sistema dei pesi è avvenuta in ossequio al regolamento comunitario, che si basa principalmente sul valore aggiunto al costo dei fattori. E l’ISTAT ha adottato i dati di valore aggiunto al costo dei fattori riferiti all’anno 2005 e provenienti dalle indagini annuali sulla struttura e competitività delle imprese. Per esempio, i nuovi pesi danno maggiore importanza alla produzione di beni alimentari, mentre calano macchine e apparecchi meccanici, e settori tradizionali del “made in Italy” come il tessile e l’abbigliamento. Gli indici del fatturato e degli ordinativi dell’industria Gli indici del fatturato e degli ordinativi dell’industria sono calcolati, a partire da gennaio 2009, con base fissa 2009 = 100, e sostituiscono quelli precedenti con base 2000 = 100. I primi misurano l’andamento nel tempo dell’ammontare delle vendite delle imprese industriali (limitatamente alle sezioni Estrazioni di minerali e Attività manifatturiere della classificazione Ateco), i secondi segnalano la dinamica del valore delle commesse che le imprese ricevono da clienti nazionali ed esteri (e valgono, dunque, solo per i settori industriali che di norma lavorano su commessa) e rappresentano un prezioso indicatore anticipante, nel breve periodo, del futuro andamento della produzione industriale. La scelta del campione di imprese coinvolte nella rilevazione (il cosiddetto panel) è stata fatta con il duplice obiettivo di assicurare la massima copertura, in termini di fatturato, per ciascun gruppo di attività economica, senza appe-

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CHE COS’È IL FATTURATO Secondo la definizione utilizzata ai fini della rilevazione ISTAT, per fatturato si intende l’ammontare del valore risultante da tutte le fatture emesse nel mese per vendite sul mercato interno e su quello estero, al netto dell’IVA fatturata ai clienti e degli abbuoni e sconti esposti in fattura e al lordo delle spese (trasporti, imballaggi e così via) e delle altre imposte (per esempio, imposte di fabbricazione) addebitate ai clienti. Sono comprese anche le vendite di prodotti non trasformati dall’impresa e le fatture per prestazioni di servizi e per lavorazioni eseguite per conto terzi su materie prime da essi fornite.

santire le imprese interpellate nell’onere di risposta (al contempo creando una “riserva” di imprese pronte a sostituire quelle che, per qualsiasi motivo, dovessero essere in futuro escluse dalla rilevazione). Le imprese osservate per la determinazione dell’indice del fatturato sono circa 7.000 (erano 6.300 per l’indice 2000 = 100) e sono state scelte tra le unità produttive con almeno 20 addetti presenti nell’universo di riferimento dell’indagine sui conti economici delle imprese. Anche il sistema dei pesi è stato rivisto alla luce delle disposizioni contenute nei regolamenti comunitari e delle raccomandazioni emanate da Eurostat al fine di semplificare e armonizzare, dal punto di visto metodologico, la costruzione degli indici europei per i diversi livelli di aggregazione. I coefficienti di ponderazione per la costruzione degli indici sintetici del fatturato sono stati determinati con riferimento al valore delle vendite realizzate sul mercato interno e su quello estero, per gruppi di attività economica (classificazione Ateco 2007). Le informazioni sono state ricavate dalle rilevazioni sui risultati economici delle imprese relative al 2005. Sempre dal fatturato, desunto dalla medesima fonte, sono stati calcolati i pesi degli ordinativi.

In breve Per permettere agli analisti di meglio valutare i comportamenti delle imprese industriali – e quindi interpretare più correttamente la fase congiunturale, depurata della componente stagionale – l’ISTAT provvede a diffondere gli indici della produzione industriale, del fatturato, degli ordinativi e della loro consistenza, in forma “destagionalizzata”. Le variazioni annue, dette tendenziali, sono però calcolate sui dati grezzi o, al più, su quelli corretti per le giornate lavorative di calendario.

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In breve Oltre agli indici del fatturato e degli ordinativi dell’industria, vengono diffusi anche i seguenti indici destagionalizzati (attraverso la procedura Tramo-Seats, versione giugno 1998): indici generali del fatturato totale, nazionale ed estero, indici generali degli ordinativi totali, nazionali ed esteri, fatturato totale per raggruppamenti principali di industria.

Gli indici della produzione nelle costruzioni Questi indici, con base 2005 = 100, sono trimestrali e vengono pubblicati a partire dal 2009. L’indice mensile di produzione nelle costruzioni (IPC) ha come campo di osservazione tutta l’attività delle costruzioni riferita sia alla produzione di nuovi fabbricati sia alla manutenzione. L’indice è definito secondo la nuova classificazione delle attività economiche Ateco 2007, versione italiana della Nace Rev.2. La metodologia utilizzata per il calcolo dell’IPC è di tipo indiretto: l’andamento dell’output viene stimato a partire da misure dell’evoluzione degli input produttivi (le ore lavorate, gli input intermedi e il capitale fisico), sulla base della funzione di produzione del settore. Gli indici di fatturato dei servizi La parte preponderante delle attività produttive (oltre il 70%) è composta in Italia dal terziario. Non ci sono però molti indicatori disponibili per valutare l’andamento congiunturale di questo settore. Tra i pochi ci sono gli indici trimestrali di fatturato per alcune attività dei servizi elaborati e diffusi dall’ISTAT entro 90 giorni dalla fine del trimestre di riferimento. I servizi monitorati sono: commercio all’ingrosso, manutenzione e riparazione di autoveicoli, trasporti marittimi, trasporti aerei, servizi postali, attività di telecomunicazione e informatica. Per gli altri comparti gli indici sono in fase di realizzazione. Gli indici sono in base 2000 = 100. Le variabili oggetto di stima sono il fatturato e il numero di addetti. Il campione varia a seconda del comparto sia perché le indagini sono partite in momenti differenti sia perché ciascun comparto presenta caratteristiche molto diverse dagli altri. Gli indici di fiducia Le decisioni economiche vivono nel futuro e dipendono quindi dalla visione del domani che hanno gli operatori, imprese e famiglie. Perciò è importante sondare il loro stato di fiducia e verificare la percezione soggettiva che hanno del quadro economico. Le variazioni di questa percezione spesso anticipano le svolte negli indicatori reali, i quali peraltro sono disponibili sempre con un cer-

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to ritardo. Gli indici di fiducia, invece, vengono rilasciati nello stesso mese di riferimento. In Italia l’ISAE compie, tra le altre, due indagini mensili, entrambe coordinate a livello europeo. La prima è effettuata presso i consumatori, attraverso un campione di 2.000 unità, estratto dagli abbonati del telefono; l’intervistato è una persona maggiorenne che contribuisca alla formazione del reddito della famiglia; il questionario comprende 15 domande con risposte di tipo qualitativo di cui nove sono utilizzate per elaborare un sintetico indicatore di fiducia. La seconda indagine si rivolge alle imprese manifatturiere attraverso un panel ragionato di 4.000 soggetti, con 18 domande di natura qualitativa, integrate trimestralmente da altri quesiti; le domande relative a livello degli ordini totali, livello delle scorte, attese a breve termine della produzione sono usate per calcolare l’indice sintetico di fiducia. Sia l’inchiesta presso i consumatori sia quella presso le imprese manifatturiere sono stratificate in modo da essere rappresentative a livello di grandi ripartizioni territoriali. Accanto a queste due inchieste principali, e più seguite anche nei commenti economici, l’ISAE conduce mensilmente la rilevazione di indicatori di fiducia nelle costruzioni, nelle vendite al dettaglio e nei servizi di mercato (“servizi alle famiglie”, cioè alberghi e ristoranti, trasporti, agenzie di viaggio, poste e telecomunicazioni, attività immobiliari, “servizi finanziari”, cioè banche, assicurazioni, attività ausiliarie delle assicurazioni, “servizi alle imprese”, cioè noleggio di macchinari e attrezzature, informatica, ricerca e sviluppo, contabilità, studi di mercato, consulenza, ingegneria e progettazione, pubblicità, agenzie di collocamento e allestimento fiere, smaltimento rifiuti). A fine mese la Commissione europea diffonde la propria rielaborazione delle inchieste qualitative condotte nei Paesi membri e compone un indicatore di sentimento economico complessivo sia per la singola economia nazionale sia per l’insieme della UE e dell’UEM (si veda il sito http://ec.europa.eu/ economy_finance/indicators/businessandconsumersurveys_en.htm). Gli indici del valore delle vendite al dettaglio I nuovi indici del valore delle vendite al dettaglio vengono diffusi da gennaio 2005 con riferimento alla nuova base 2005 = 100 (che sostituisce la precedente con base 2000 = 100). La rilevazione mensile delle vendite condotte dall’ISTAT si riferisce al fatturato realizzato dalle imprese commerciali operanti tramite punti di vendita al minuto in sede fissa, autorizzati alla vendita di prodotti nuovi, con esclusione dei generi di monopolio, delle rivendite di autoveicoli e combustibili e delle riparazioni. Restano quindi esclusi i punti vendita di beni usati, gli ambulanti, i mercati e le vendite al dettaglio realizzate tramite canali di vendita “virtuali” (vendite telematiche, via internet ecc.).

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Il ribasamento dell’indice si è reso necessario per tenere conto dei cambiamenti intervenuti nella struttura del comparto distributivo al dettaglio del nostro Paese. Gli indici del commercio con l’estero In un mercato sempre più globalizzato e interdipendente è importante conoscere la dinamica degli scambi commerciali di un Paese con l’estero, specie per valutare le sue capacità di adattarsi ai mutamenti degli scenari economici internazionali mantenendo, o migliorando, la competitività dei propri prodotti. Le statistiche fornite dall’ISTAT (indici del commercio con l’estero) sono il risultato di due rilevazioni che hanno come oggetto gli scambi dell’Italia con i Paesi dell’Unione europea e con i Paesi extra UE. L’ISTAT pubblica tra l’altro un annuario, Commercio estero e attività internazionali delle imprese, in collaborazione col ministero dello Sviluppo economico.

Come vengono calcolati Gli indici del commercio estero sono prodotti utilizzando la tecnica del concatenamento di indici a base mobile (a differenza degli indici precedentemente analizzati costruiti con base fissa), per cui l’anno di riferimento in cui sono espressi assume un valore puramente convenzionale. Per completezza d’informazione si segnala che le nuove serie mensili degli indici dei valori medi unitari (daremo a breve una spiegazione del “valore medio unitario”) e dei volumi sono espresse con anno di riferimento 2005 = 100, mentre quelle precedenti erano calcolate con riferimento all’anno 2000. Inoltre, i nuovi indici sono costruiti utilizzando la nuova classificazione Ateco 2007, invece della precedente Ateco 2002 (come per gli altri indici esaminati). Gli indici mensili a base mobile sono calcolati secondo la formula di Fisher in cui l’anno-base è rappresentato dall’anno immediatamente precedente a quello di osservazione. I singoli indici mensili di Fisher di ciascun anno t in base (t–1) vengono in seguito ricondotti a un anno di riferimento t = 0 (definito, seppur impropriamente, anno base) attraverso opportuni coefficienti di concatenamento. La scelta dell’utilizzo di indici a base mobile, anziché fissa, nasce dalla necessità di incorporare rapidamente negli stessi sia le modificazioni qualitative e quantitative dei prodotti scambiati sia le variazioni della classificazione delle merci. Modificazioni che, nel commercio estero, sono molto rilevanti e che verrebbero recepite con eccessivo ritardo da indici a base fissa. In occasione del cambio dell’anno di riferimento l’ISTAT ha apportato agli indici in esame alcune innovazioni relative sia alle classificazioni adottate sia alle metodologie di calcolo. Per quanto riguarda le classificazioni, l’aver incorporato i significativi cam-

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biamenti portati dall’introduzione delle nuove classificazioni ufficiali delle merci e delle attività economiche (Ateco 2007), ha comportato:



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una non perfetta confrontabilità con le serie precedenti, che tuttavia sono state ricostruite a partire dal 1996. La non confrontabilità dipende dalla tassonomia molto diversa e dal fatto che il calcolo degli indici di settore è sensibile alla composizione merceologica, che è mutata con il passaggio dall’una all’altra classificazione; una maggiore articolazione che meglio riflette i cambiamenti strutturali avvenuti nell’economia italiana negli ultimi anni; una modificazione della precedente classificazione per raggruppamenti principali di industrie, e in particolare con il passaggio di alcuni beni da durevoli a strumentali (o di investimento). In riferimento alle importazioni, ciò riguarda il 24% dei beni durevoli per l’interscambio extra-UE e l’11% per quello UE, mentre dal lato dell’export le quote cambiano al 16 e al 10% rispettivamente.

Le nuove serie di numeri indici comportano alcune novità:

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si tiene conto delle nuove unità di misura stabilite dai regolamenti europei; il numero di indici elementari sale da 165.000 a 220.000 per una più dettagliata stratificazione; viene introdotto l’aggregato Unione monetaria europea con la serie storica ricostruita al 1996.

Va ricordato che nel calcolo dei numeri indici dei valori medi unitari:



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i valori medi unitari mensili si ottengono considerando solo i movimenti relativi alle esportazioni e importazioni dirette (rimangono esclusi i movimenti di beni in regime temporaneo a scopo di lavorazione o riparazione, nonché le reimportazioni e le ri-esportazioni, considerate, invece, nei precedenti indici); sono esclusi alcuni beni che per le loro caratteristiche molto specifiche avrebbero fornito valori medi unitari di scarso significato economico; il concatenamento degli indici a base mobile avviene attraverso un coefficiente di raccordo rappresentato dalla media annuale dei valori medi unitari mensili a base mobile (secondo quanto suggerito e praticato da Eurostat).

I valori medi unitari sono il risultato della divisione tra i valori e le quantità e perciò sono influenzati dal cambiamento della composizione, del tipo e della qualità delle merci oggetto di scambio internazionale. Un aumento della qualità dei beni commerciati si traduce in un incremento dei valori medi unitari.

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Ma questo aumento non va scambiato per un rincaro dei prezzi. Invece, l’ISTAT ha introdotto nel 2008 nuove serie di prezzi alla produzione dei prodotti industriali venduti sul mercato estero, che inizialmente hanno abbracciano il periodo 2002-07 e che sono suddivisi per area euro e area esterna all’euro. Si tratta di serie in base 2005 = 100 e riclassificati con Ateco 2007. È un’importante novità che consentirà, una volta a regime, di avere un miglior quadro dell’andamento in volume delle esportazioni italiane e di confrontare le diverse politiche di prezzo seguite dalle imprese sui mercati esteri e su quello interno. Infatti, l’ISTAT ha anche iniziato a diffondere indici dei prezzi alla produzione praticati sul mercato interno, oltre naturalmente, a un indice complessivo dei prezzi alla produzione che abbraccia i mercati sia interni che esteri.

Andamento del mercato del lavoro L’indagine sull’economia di un Paese (strutturale e congiunturale) non può prescindere da un’analisi della composizione della sua forza-lavoro e della sua dinamica. L’ISTAT, a tal fine, pubblica alcuni indicatori significativi. Rilevazione delle forze-lavoro La rilevazione campionaria sulle forze-lavoro (comprendente persone occupate e disoccupate) viene condotta continuativamente con cadenza trimestrale a partire dal 1959. Agli inizi di giugno 2004 l’ISTAT ha concluso e presentato i lavori compiuti per il passaggio dalla rilevazione trimestrale sulle forze-lavoro (RTFL), effettuata in una specifica settimana per ciascun trimestre, alla rilevazione continua sulle forze-lavoro (RCFL), distribuita su tutte le settimane dell’anno. Ciò in linea con quanto stabilito dal regolamento 577/98 del Consiglio dell’Unione europea e recepito da tutti i Paesi UE (a eccezione della Germania che inizia nel 2005). La modifica della periodicità rappresenta un radicale rinnovamento nella rilevazione campionaria sulle forze-lavoro, pur non modificandone l’obiettivo che resta quello di fornire le stime ufficiali degli occupati e delle persone in cerca di occupazione.

In breve Il tasso di occupazione è il rapporto tra gli occupati e la popolazione in età da lavoro (convenzionalmente 15-64 anni), mentre il tasso di disoccupazione è il rapporto tra le persone in cerca di occupazione e le forze-lavoro.

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Ed è proprio nel criterio classificatorio degli occupati che sta la fondamentale innovazione introdotta: con l’abbandono del criterio soggettivo-autopercettivo dello status del soggetto intervistato e l’introduzione del criterio oggettivo dello svolgimento, da parte dello stesso, di una o più ore di lavoro nella settimana che precede l’intervista. Si è inoltre proceduto ad arricchire l’offerta informativa rilevando, per esempio, le collaborazioni coordinate e continuative o di prestazioni d’opera occasionale e il lavoro interinale, tenendole distinte sia dal lavoro dipendente che da quello autonomo. La rilevazione campionaria interessa 1.246 comuni italiani. Dalla lista anagrafica di ciascun comune viene estratto un campione casuale semplice di famiglie. Complessivamente vengono estratte 76.800 famiglie a trimestre pari a oltre 300.000 famiglie all’anno per un totale di 800.000 individui (circa l’1,4% della popolazione complessiva nazionale). Data la crescente importanza della presenza di popolazione con cittadinanza non italiana, l’ISTAT dedica uno spazio apposito nella rilevazione e nella diffusione dei dati alle persone immigrate, calcolando per esse lo stesso tipo di indicatori normalmente usati per l’insieme della popolazione residente. Va infine notato che la caratteristica di base della rilevazione è quella di essere calibrata sulla popolazione residente; i lavoratori che non sono iscritti all’anagrafe, perciò, non vengono colti da questa indagine. Ciò spiega perché, con le regolarizzazioni degli stranieri presenti, si è avuta un’accelerazione della crescita dell’occupazione. Tuttavia, si tratta di persone con una maggiore mobilità sul territorio e ciò rende più difficile tenerli sotto osservazione sul piano statistico (le anagrafi comunali non vengono aggiornate in modo costante e tempestivo). Più recentemente, e limitatamente alle grandi cifre degli occupati, dei disoccupati e dei relativi tassi di occupazione e di disoccupazione (per sesso e per classe di età) l’ISTAT fornisce anche una rilevazione mensile. Gli indicatori del lavoro in grandi imprese dell’industria e dei servizi La rilevazione, con frequenza mensile, di occupazione, orari di lavoro, retribuzioni e costo del lavoro nelle grandi imprese, interessa circa 1.160 imprese (ricavate dall’archivio ASIA – Archivio statistico delle imprese attive – relativo all’anno 2005) con almeno 500 addetti nella media dell’anno base e che svolgono la loro attività in uno dei settori dell’industria o dei servizi distributivi e alle imprese (settori di attività economica da B a N della classificazione Ateco 2007, corrispondenti a industria e servizi privati, a esclusione di quelli alla persona e alle famiglie, e con l’introduzione del settore delle costruzioni, prima escluso).

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Come vengono calcolati Gli indici sono calcolati come rapporto tra i dati mensili e i corrispondenti valori medi dell’anno base (a partire da gennaio 2005, media 2005 = 100; la precedente era 2000 = 100). Il grado di copertura aggregato, rispetto al numero complessivo delle posizioni di lavoro dipendente risultante dall’archivio ASIA 2005, risulta pari al 20,4% (15,7% nell’industria e 24,7% nei servizi). Si è data ancora maggiore rilevanza, anche nei comunicati stampa, agli indici destagionalizzati dell’occupazione, delle ore lavorate pro capite, della retribuzione e del costo del lavoro per ora lavorata, permettendo di seguire con maggiore precisione l’evoluzione delle grandezze riferite alla retribuzione, non influenzate dal diffondersi dei rapporti di lavoro part-time (a tempo sia determinato che indeterminato). Gli indici rispecchiano l’andamento dell’occupazione delle aziende appartenenti al panel delle imprese soggette all’indagine, ma non necessariamente di quello dell’universo delle aziende con oltre 500 addetti perché soggetta alle variazioni derivanti dal saldo tra entrate e uscite dalla soglia dimensionale, che non vengono colte. Gli indicatori OROS L’ISTAT pubblica trimestralmente anche gli indicatori OROS (Occupazione, retribuzione e oneri sociali), che vengono stimati ricorrendo all’integrazione dei dati amministrativi di fonte INPS con le informazioni desunte dall’indagine mensile sul lavoro nelle grandi imprese. L’universo oggetto di rilevazione è costituito da tutte le imprese, con dipendenti, che hanno corrisposto nel trimestre di riferimento retribuzioni imponibili a fini contributivi e che operano nell’industria e nei servizi (sezioni da C a K della classificazione Ateco 2002).

In breve L’ISTAT fornisce mensilmente i seguenti indici relativi all’andamento del mercato del lavoro nelle grandi imprese dell’industria e dei servizi (dati grezzi e destagionalizzati): • occupati alle dipendenze per settore di attività economica, al lordo e al netto della cassa integrazione; • ore medie effettivamente lavorate per dipendente per settore di attività; • ore di cassa integrazione guadagni per settore di attività economica; • ore di straordinario e di sciopero nell’industria e dei servizi; • retribuzioni lorde medie per dipendente e per ora lavorata per settore di attività economica; • costo del lavoro medio per dipendente e per ora lavorata per settore di attività economica.

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In breve Le ULA (unità di lavoro dipendente equivalente a tempo pieno) sono unità di misura del volume di lavoro prestato nelle posizioni lavorative (quadri, impiegati, operai, commessi, apprendisti e lavoranti a domicilio; esclusi i dirigenti), calcolate riducendo il valore unitario delle posizioni lavorative a tempo parziale in equivalenti a tempo pieno. Per posizione lavorativa si intende un contratto di lavoro tra una persona e un’unità produttiva (impresa) finalizzato allo svolgimento di una prestazione lavorativa a fronte di una retribuzione. Le posizioni lavorative rappresentano, quindi, il numero di posti di lavoro occupati indipendentemente dalle ore lavorate.

La definizione di dipendente comprende, ai fini di questa rilevazione, operai, impiegati e apprendisti, a prescindere dal tipo di contratto stipulato (tempo indeterminato, determinato, stagionale ecc.) e dal tipo di prestazione lavorativa (tempo pieno o parziale). Restano esclusi i dirigenti. Come vengono calcolati Da luglio 2003 gli indicatori OROS sono calcolati con base di riferimento 2000 = 100. In occasione del ribasamento sono stati utilizzati i nuovi dati, in base 2000, della rilevazione mensile ISTAT sulle grandi imprese ed è stata migliorata la stima definitiva delle variabili riferite alle agenzie di lavoro interinale (che confluisce nel calcolo degli indici del settore K: Altre attività professionali e imprenditoriali). Infine, l’acquisizione telematica delle dichiarazioni da parte dell’INPS nel 2004 ha portato a un significativo ampliamento del campione. Vengono presentati tre indici di valori:

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indice delle retribuzioni lorde medie per unità di lavoro equivalenti a tempo pieno (ULA); indice degli oneri sociali medi per ULA; indice del costo del lavoro medio per ULA, come sintesi dei due precedenti.

Gli indicatori OROS sono gli unici disponibili per rilevare la dinamica delle retribuzioni e del costo del lavoro di fatto (mentre esiste un’apposita rilevazione per misurare l’andamento delle retribuzioni contrattuali).

Altri indicatori economici In ultimo restano da approfondire alcune tabelle che Il Sole 24 ORE pubblica con diversa periodicità.

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LE STATISTICHE E L’EUROPA Gli Stati membri dell’Unione europea stanno omogeneizzando i criteri di raccolta dati e costruzione degli indici al fine di poterli utilizzare per l’elaborazione di medie e statistiche a livello europeo. Eurostat è il nome dell’istituto europeo che provvede all’elaborazione delle statistiche dell’Unione europea fornendo dati utili alla comprensione della sua congiuntura. L’istituto, creato nel 1953, dal 1958 è diventato una Direzione generale (DG) della Commissione europea. Il suo scopo istituzionale consiste nel fornire dati statistici alle altre Direzioni generali e alla Commissione per permettere loro di definire, rendere operative e analizzare le politiche comunitarie. Lo sforzo e il ruolo maggiore di Eurostat in questi ultimi anni è consistito nel gestire e pubblicare statistiche comparabili a livello europeo, cercando di arrivare a un linguaggio statistico “comune” relativamente a concetti, metodi, strutture e norme tecniche. La mission di Eurostat non è raccogliere dati (a ciò provvedono gli istituti di statistica dei singoli Stati membri), ma consolidarli e controllare la loro comparabilità in forza di una metodologia armonizzata. Una tappa fondamentale in questo percorso è rappresentata dall’articolo 285 del Trattato di Amsterdam (giugno 1997) che conferisce, per la prima volta, una base costituzionale alla statistica comunitaria. Il Consiglio dell’Unione europea adotta la legge statistica nel febbraio del 1997: si tratta di un regolamento che definisce la ripartizione delle responsabilità tra le autorità statistiche nazionali e comunitarie, stabilendo, inoltre, le condizioni fondamentali, le procedure e le disposizioni generali in materia di statistiche ufficiali a livello UE. Frutto di questi interventi è stata la nascita del Sistema statistico europeo (SSE) i cui lavori (coordinati con organizzazioni quali l’OCSE, il FMI e la Banca mondiale) riguardano principalmente i settori rilevanti per le politiche comunitarie e il loro sviluppo. Il cuore dell’SSE è il Comitato del programma statistico (CPS), presieduto da Eurostat, che raggruppa i responsabili degli istituti nazionali di statistica di tutti gli Stati membri. Il CPS esamina i principali programmi e azioni concertati per soddisfare i bisogni di informazioni della UE, stabilendo un piano quinquennale che è reso operativo dalle autorità nazionali sotto il controllo di Eurostat (quello attualmente in vigore è il 2003-07). Nel programma, le implicazioni statistiche delle principali politiche comunitarie sono raggruppate come segue: • Unione economica e monetaria (tutte le statistiche richieste dalla fase III della UEM e dal Patto di stabilità e crescita); • allargamento della UE (incorporazione nell’SSE degli indicatori statistici di importanza fondamentale per le trattative di adesione e l’integrazione dei Paesi candidati);

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• competitività, sviluppo durevole e agenda sociale (in primis statistiche su mercato del lavoro, ambiente, servizi, condizioni di vita e migrazioni); • indicatori strutturali (come richiesto dal summit di Lisbona). I principali progetti realizzati in questi ultimi anni riguardano: • il sistema europeo dei conti (concetti e regole contabili che gli Stati membri devono applicare per analisi e raffronti delle economie nazionali); • Intrastat (per valutare gli scambi commerciali nell’ambito del mercato unico europeo); • Prodcom (nomenclatura delle statistiche dell’industria; si tratta della prima nomenclatura armonizzata dei prodotti); • la nuova inchiesta comunitaria sulla forza-lavoro; • gli indici dei prezzi al consumo armonizzati (misura l’inflazione nella UE e uno dei criteri di convergenza per la partecipazione alla UEM). Al CPS si affianca il Comitato statistiche monetarie, finanziarie e della bilancia dei pagamenti (CMFB), che coopera con l’Eurostat, la BCE, le Banche centrali degli Stati membri, gli istituti nazionali di statistica e la Direzione generale II (Affari economici e finanziari) della Commissione europea. Il CMFB assiste la Commissione sulle questioni inerenti le statistiche monetarie, finanziarie e della bilancia dei pagamenti. Si occupa principalmente di definire i concetti, seguire e valutare gli strumenti statistici necessari per l’UEM. Il CMFB suggerisce, per esempio, i criteri per la definizione e il calcolo del deficit e del debito pubblico. Il sito Eurostat fornisce un numero notevolissimo di informazioni statistiche. Per esempio è consultabile on line, e senza costi, una “mini guida pratica” (disponibile in inglese, francese e tedesco, cliccando alla voce “tutti i servizi” la sottovoce “scaricamente gratuiti”), che offre una finestra sulle attività e le offerte di servizi reperibili nel sito. Inoltre, attraverso una suddivisione tematica è possibile indagare, statisticamente, tutti gli aspetti della società europea. Sempre dalla home page, alla voce “dati” si può accedere alla sezione “dati gratuiti” suddivisa nelle seguenti macrocategorie: • indicatori a lungo termine (Gli europei, Economia ed ecologia, Imprese e loro attività); • indicatori strutturali (Situazione economica generale, Impiego, Innovazione e ricerca, Coesione sociale, Ambiente); • indicatori a breve termine (Bilancia dei pagamenti, Inchiesta sulla congiuntura e i consumi, Prezzi al consumo, Commercio estero, Industria, commercio e servizi, Mercato del lavoro, Indicatori monetari e finanziari, Conti nazionali).

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La bilancia commerciale Con cadenza mensile vengono pubblicati i dati relativi alla bilancia commerciale, cioè il conto che ricapitola le importazioni e le esportazioni di beni e servizi di un Paese durante un determinato periodo per metterne in evidenza il saldo, che può essere attivo, passivo o in pareggio a seconda che il valore delle esportazioni sia superiore, inferiore o pari a quello delle importazioni. E per analizzare la dinamica delle vendite all’estero e degli acquisti oltre confine. Un tempo la fonte essenziale per analizzare l’evoluzione della bilancia commerciale di un Paese era costituita dalle dichiarazioni doganali, che consentono anche lo studio dei flussi commerciali per grandi categorie di vendita, indispensabile per valutare il significato dell’evoluzione complessiva della bilancia commerciale. Con l’arrivo del mercato unico europeo e la scomparsa delle dogane intra UE le statistiche su una fetta importante (circa il 60%) degli scambi commerciali sono basati sulle dichiarazioni IVA. La bilancia dei pagamenti Sempre con cadenza mensile viene diffusa la bilancia dei pagamenti, vale a dire l’insieme dei conti che registrano, sinteticamente, la situazione degli scambi di un Paese con l’estero, sia nel cosiddetto settore reale (scambio di merci e servizi) sia per quanto riguarda i movimenti di capitale, riconducibili alle diverse motivazioni. In corrispondenza a questi due tipi di interscambio vi sono i conti delle partite correnti e i conti del movimento dei capitali. Il primo gruppo di conti (partite correnti) riguarda non soltanto il commercio visibile (merci), ma anche le partite invisibili, relative a servizi, turismo, noli e trasferimenti unilaterali (come le rimesse degli immigrati), oltre alla remunerazione dei fattori produttivi di altre nazioni in Italia e italiani in altre nazioni (come, per esempio, i redditi da lavoro di operai che stanno costruendo una diga all’estero). Il saldo del commercio visibile viene chiamato “bilancia commerciale”. Il secondo gruppo di conti (movimenti di capitale) si riferisce ai flussi di capitali esteri in entrata (passività finanziarie sull’estero) e a quello dei capitali nazionali in uscita (attività finanziarie sull’estero). La peculiarità, rispetto alla bilancia corrente, è che i movimenti di capitale vengono registrati con segno opposto: un ingresso di capitali, che comporta un debito verso l’estero, ha il segno positivo. La differenza tra entrate e uscite delle partite correnti rappresenta il saldo della bilancia corrente, come pure la differenza tra capitali in entrata e quelli in uscita esprime il saldo del movimento di capitali.

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Andamento del PIL e del conto economico delle risorse e degli impieghi Ogni tre mesi viene analizzato l’andamento del Prodotto interno lordo (PIL) e del conto economico delle risorse e degli impieghi. Il primo è una grandezza che serve a misurare il polso di un’economia. Infatti, nella contabilità nazionale indica l’insieme dei beni e dei servizi prodotti sul territorio nazionale in un determinato periodo di tempo, a prescindere dalla nazionalità dei produttori. Detto insieme è costituito dalla somma del valore aggiunto ai prezzi di mercato di tutte le attività produttive. Il secondo riporta fra le entrate, cioè le risorse, i valori del Prodotto interno lordo (per “lordo” si intende al lordo degli ammortamenti) e delle importazioni di beni e servizi e, fra le uscite, cioè gli impieghi, i valori dei consumi delle famiglie, i consumi collettivi, gli investimenti lordi (investimenti fissi e formazione di scorte) e le esportazioni di beni e servizi. In Italia una stima preliminare del PIL trimestrale viene diffusa dopo 45 giorni dalla fine del trimestre di riferimento, mentre per avere i dati su tutto il conto delle risorse e degli impieghi occorre attendere 70 giorni. I dati sul PIL sono soggetti a revisioni per una molteplicità di ragioni, anche se queste avvengono con una periodicità non inferiore all’anno. Conto economico trimestrale delle amministrazioni pubbliche L’andamento dei conti pubblici è sempre stato un importante indicatore del buon governo e dello stato di salute dell’economia. Ma è diventato cruciale nell’ambito dell’Unione europea dopo la firma del Trattato di Maastricht (1992) per la realizzazione dell’Unione monetaria europea e come forma di monitoraggio reciproco tra i Paesi. Oltre alle stime annuali, l’ISTAT realizza, in ottemperanza a due regolamenti europei, statistiche trimestrali di finanza pubblica. La ridotta disponibilità di informazioni infrannuali non permette di replicare integralmente gli schemi adottati normalmente. Si tratta perciò di conti più limitati come numero di voci e ottenuti facendo abbondante ricorso a elaborazioni econometriche. I dati vengono diffusi grezzi, cioè senza depurarli dei fattori stagionali, che sono invece molto importanti soprattutto per l’andamento delle entrate (considerate le scadenze fiscali). Tra le più importanti voci del bilancio pubblico, la versione sintetica dei conti trimestrali comprende: redditi da lavoro dipendente, consumi intermedi, prestazioni sociali in denaro, interessi passivi, investimenti fissi lordi, altre uscite in conto capitale, dal lato delle spese; imposte dirette, imposte indirette, contributi sociali, altre entrate correnti, imposte in conto capitale e altre entrate in conto capitale, tra gli incassi; infine il saldo corrente, il saldo complessivo – chiamato indebitamento netto – e il saldo primario (cioè al netto della spesa per interessi).

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Fondamentali e bilanci di Maria Adelaide Marchesoni e Antonella Olivieri

Le crisi economico-finanziarie hanno determinato profonde e violente correzioni dei listini che di fatto hanno riportato in auge, per le scelte di investimento, l’analisi fondamentale, cioè quella metodologia che analizza i risultati aziendali e la loro proiezione nel tempo. È proprio durante le crisi di mercato che abbiamo vissuto in questi anni, oltre ai momenti nei quali la volatilità diventa una regola, che è essenziale una maggior attenzione e selettività degli investimenti. La selettività si coniuga con la conoscenza, lasciando sempre più spazio allo studio, che in questo contesto altro non è che l’analisi dei fondamentali delle società verso le quali si ha intenzione di indirizzare i propri risparmi. Molte decisioni economiche, come l’acquisto di un’azienda, la fusione o trasformazione di una società, la concessione di credito, vengono prese dopo un attento esame della situazione economico-patrimoniale e finanziaria dell’impresa, attraverso la lettura del suo bilancio. Un potenziale investitore intenzionato a impiegare i propri capitali in azioni può cercare di formulare una valutazione sulla quotazione dei titoli da acquistare, rapportandola ai dati economici fondamentali dell’impresa emittente. Il soggetto preposto a tale attività è l’analista finanziario, una figura professionale sviluppatasi negli Stati Uniti e poi diffusasi in Europa a partire dalla

L’analisi dei bilanci e dei fondamentali di una società è molto utile per decidere dove investire i propri risparmi.

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Gran Bretagna, cioè nei due Paesi economicamente e finanziariamente più evoluti del globo terrestre. L’analista ha il compito di “stimare il valore di un’azienda” e attribuire un valore ai titoli che la rappresentano, le azioni. E per farlo lavora prioritariamente sul futuro, ma si avvale di modelli che affondano le loro radici nel passato e più precisamente nella contabilità aziendale e quindi nei bilanci che ne rappresentano la sintesi estrema.

Il bilancio e l’andamento dell’economia Il bilancio si potrebbe definire una fonte primaria di nutrimento per l’analista, ma proprio per questo deve essere credibile e veritiero: due condizioni indispensabili e come tali oggetto di cure anche da parte del legislatore, delle autorità di controllo, degli stessi operatori e spesso anche della magistratura. Tornando all’analisi fondamentale, l’analista deve considerare una serie di variabili macroeconomiche determinanti quali la dinamica dei tassi e le attese sull’evoluzione dei prezzi delle materie prime, oltreché propensioni al consumo, al risparmio e all’investimento eccetera. Quindi una serie di variabili da concatenare fra di loro con la precisa finalità di determinare il “prezzo equo” o fair value della società sulla base di struttura patrimoniale-reddituale, qualità del business, prospettive di crescita, situazione congiunturale e dinamica attesa sulle principali variabili sopra indicate. Ma non solo. Occorre considerare altri elementi quali la rischiosità dell’attività esercitata nel contesto macroeconomico, all’interno del quale si inseriscono anche le considerazioni attinenti al rischio Paese, oltreché quelle relative a tassi di interesse, valute, prezzi delle materie prime, e così via. A ciascuna di queste variabili viene assegnato un peso in funzione della particolare struttura economico-patrimoniale della società oggetto di valutazione. Per esempio, una società molto indebitata sarà particolarmente sensibile alla variabilità dei tassi di interesse; se il debito è espresso in valuta, l’incognita è doppia poiché si innesta anche la variabile cambi. Questa variabile è poi determinante per le aziende che realizzano una parte significativa dei ricavi all’estero con valute diverse dalla propria o presentano un’elevata incidenza dei costi espressi in una valuta, sempre diversa da quella in vigore nell’area; per esempio, il dollaro o lo yen per le società europee. Si tratta di variabili sulle quali si innesta una pluralità di combinazioni possibili, come pressoché infiniti sono gli strumenti finanziari predisposti per coprire i rischi, i cosiddetti derivati o strutturati. L’analisi è completa quanto accanto al quadro economico generale l’analista considera i settori ai quali appartengono le aziende in cui si vorrebbe investire e quindi l’analisi sarà rivolta ai settori con le migliori prospettive di crescita.

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La riclassificazione dei bilanci Un’informazione chiara e completa è sicuramente il presupposto indispensabile per valutare un’azienda, ma il punto di partenza per l’analisi economica di un’impresa è la riclassificazione dei bilanci societari. La lettura di un bilancio richiede cioè la predisposizione di adeguati schemi, che permettano la presentazione delle voci contenute nei prospetti contabili in aggregati aventi maggiore significatività. Il Sole 24 ORE facilita questo compito, pubblicando i bilanci societari in forma riclassificata, in cui vengono evidenziati gli aggregati utili per la costruzione di indicatori economici significativi. La metodologia di riclassifica dei valori di bilancio dello stato patrimoniale ha come obiettivo principale quello di determinare una netta distinzione tra fabbisogno finanziario (impieghi) e mezzi di copertura (fonti). Se la riclassifica fa, invece, riferimento al conto economico, l’obiettivo è di mettere in evidenza gli aggregati economici che determinano i risultati reddituali intermedi della gestione caratteristica. Gli schemi sono differenziati in relazione all’attività svolta da ciascuna società. Esistono, infatti, quattro categorie a cui possono essere ricondotte le imprese analizzate: industriale, finanziaria, bancaria e assicurativa. Per ciascuna categoria, in occasione dell’assemblea che approva il bilancio di fine esercizio, viene pubblicato un prospetto denominato “Sintesi di bilancio”, dove vengono evidenziati gli aggregati economici e patrimoniali più significativi. Il lettore può effettuare un confronto temporale in quanto i dati di bilancio sono riclassificati sulla base di criteri omogenei. Quando non è possibile il IL CALCOLO DEL VALORE AGGIUNTO Il valore aggiunto è l’incremento di valore che un’azienda aggiunge, con l’impiego dei fattori produttivi, al valore dei beni e dei servizi che acquista dall’esterno. Si ottiene detraendo dal valore della produzione il valore delle materie prime, o dei semilavorati acquistati e utilizzati, e quello dei servizi acquisiti dall’esterno.

Fatturato 130 + Variazione delle rimanenze di prodotti in corso di lavorazione, semilavorati e finiti 15 + Variazione dei lavori in corso su ordinazione 5 + Incrementi di immobilizzazioni per lavori interni 5 + Altri ricavi e proventi (inclusi i contributi in conto esercizio) 10 = Valore produzione (A) Acquisti Rimanenze iniziali materie prime – Rimanenze finali materie prime Costo dei servizi acquistati

165 80 30 25 40

= Costo produzione (B)

125

Valore aggiunto (A – B)

40

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confronto temporale, a causa di operazioni straordinarie, avvenute nel corso dell’esercizio, quali incorporazione di altre società o rami aziendali, cessioni, acquisizioni e altro, viene presentata la sintesi dell’ultimo esercizio con una nota esplicativa dell’operazione straordinaria. Nell’appuntamento settimanale, il sabato nell’inserto “Plus24”, viene fatta un’analisi più approfondita che riguarda società tra loro competitor, ovvero attive nelle stesso settore benché con dimensioni diverse. Oltre all’indicazione dei dati più significativi dell’ultimo bilancio annuale vengono presentati i multipli di mercato, i giudizi operativi sul titolo e il target price (prezzo obiettivo). L’informazione a disposizione del lettore viene completata con un commento di analisi tecnica sull’andamento dei titoli con l’indicazione della tendenza futura. Vengono inoltre delineati i punti di forza e di debolezza dei due gruppi analizzati. Il bilancio delle imprese industriali L’impresa industriale ha come oggetto tipico la produzione di beni attraverso la trasformazione delle materie prime, o dei semilavorati, in prodotti finiti. La serie storica della sintesi dei bilanci riclassificati delle imprese industriali mette in evidenza i principali aggregati reddituali e patrimoniali.







Capitale investito: è costituito dalla somma delle immobilizzazioni nette e del capitale circolante netto, ricavato quale differenza tra attività a breve (al netto delle attività finanziarie e disponibilità liquide) e passività non finanziarie (inclusi i fondi per rischi e oneri). Posizione f inanziaria netta: questa voce, se negativa, fornisce una misura dell’indebitamento finanziario netto, cioè dell’ammontare dei debiti di natura finanziaria contratti dall’azienda, da cui vengono sottratte le disponibilità finanziarie. Se positiva, indica che le attività finanziarie più che compensano l’esposizione debitoria. Cash flow: questo aggregato, chiamato anche autofinanziamento, è un indicatore di redditività, in quanto formato dall’utile netto e dagli ammortamenti accantonati nell’esercizio. Esprime la capacità per un’azienda non solo di produrre utili, ma di provvedere alla sostituzione di impianti e macchinari, quando obsoleti, mediante l’imputazione a bilancio di adeguati ammortamenti; ricorrendo quindi all’autofinanziamento e non a capitale di debito.

Nel bilancio dell’impresa il conto economico, in particolare, mette l’accento sul valore aggiunto, che indica la nuova ricchezza prodotta dall’impresa. Il valore aggiunto viene destinato alla remunerazione dei fattori impiegati nel processo produttivo (lavoro, capitale, attività imprenditoriale, attività statale).

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Imprese industriali: gli aggregati EBITDA (earnings before interest, taxes, depreciation and amortization) è un margine reddituale che misura l’“utile” di un’azienda prima della gestione finanziaria (interest), delle imposte (taxes), delle componenti straordinarie, delle svalutazioni (depreciation) e degli ammortamenti (amortization). In sostanza, questa voce di bilancio verifica la capacità dell’azienda di vendere i propri prodotti (o di offrire i propri servizi) a un prezzo che consenta di coprire i costi operativi sostenuti (per consumo materie, servizi, costo del personale).

È dato dalla somma tra utile netto e ammortamenti. Esprime la capacità per un’azienda non solo di produrre utili, ma anche di provvedere alla tempestiva sostituzione di impianti e macchinari, quando obsoleti, mediante l’imputazione a bilancio di adeguati ammortamenti (e quindi ricorrendo all’autofinanziamento e non a capitale di debito).

È la fonte durevole per eccellenza in un’azienda e comprende anche gli interessi di terzi. È costituito dal capitale sociale, dalle riserve e dagli utili dell’impresa non distribuiti.

Alla determinazione del capitale investito concorrono le immobilizzazioni nette (immateriali, materiali e finanziarie), vale a dire l’attivo investito in modo “stabile” per il raggiungimento degli obiettivi aziendali, e il capitale circolante netto, ricavato quale differenza tra attività a breve (al netto di attività finanziarie e disponibilità liquide) e passività non finanziarie (inclusi i fondi per rischi e oneri).

EBIT (earnings before interest and taxes) non è altro che il margine operativo lordo dedotti gli ammortamenti e gli accantonamenti. Verifica perciò la capacità dell’azienda di vendere i propri prodotti/servizi a un prezzo che consenta di coprire non solo i costi operativi sostenuti, ma anche il “deprezzamento” degli impianti o macchinari utilizzati e gli accantonamenti a fronte dei vari rischi aziendali.

È il risultato finale e tiene conto sia dei risultati della gestione caratteristica sia di quelli della gestione “finanziaria”, nonché dell’incidenza delle imposte e dell’attribuzione a terzi (azionisti di minoranza delle società non controllate integralmente) della quota di utile o di perdita di loro competenza. Se l’aggregato è negativo, indica l’indebitamento finanziario totale al netto delle disponibilità liquide.

Il bilancio delle imprese finanziarie Le imprese finanziarie hanno per oggetto tipico della loro attività la gestione del fattore produttivo “capitale”. Queste imprese, infatti, si approvvigionano di capitale attraverso varie forme (capitale proprio, debiti, e così via) per investirlo in operazioni finanziarie come l’acquisto di partecipazioni, la concessione di prestiti, l’acquisto di titoli di Stato o di altri titoli di credito (obbligazioni, certificati di partecipazione, e via dicendo).

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Imprese finanziarie: gli aggregati L’aggregato comprende le partecipazioni che non rientrano nel perimetro di consolidamento integrale ma vengono consolidate con il metodo del patrimonio netto.

Rappresentano i crediti finanziari e tutte le altre attività di natura diversa dalle partecipazioni e con scadenza a medio-lungo termine.

Rappresenta la componente di attivo fisso per lo svolgimento dell’attività.

L’aggregato comprende le quote utili delle partecipazioni valutate a patrimonio netto.

Rappresenta l’utile o plusvalenza realizzato con la cessione di partecipazioni. In caso di perdita la voce è denominata minusvalenze da cessione.

Il risultato caratteristico La gestione caratteristica delle imprese finanziarie mette in evidenza i proventi caratteristici (dividendi, interessi attivi, commissioni e proventi diversi, utili netti su negoziazioni titoli e cambi) e gli oneri caratteristici (finanziari, spese generali e diverse, ammortamenti e accantonamenti, perdite nette su negoziazioni titoli e cambi). La differenza tra questi due aggregati mette in luce il risultato ante imposte. Viene inoltre evidenziato il carico fiscale, oltre agli eventuali accantonamenti o prelievi da riserva effettuati prima della definizione dell’utile da ripartire. L’utile netto Dedotte le imposte sul reddito dell’esercizio, si perviene all’utile netto, destinato, in sede di riparto utile, a essere accantonato a riserva e/o a essere distribuito sotto forma di dividendo, previa approvazione dell’assemblea dei soci. Oltre ai dati del bilancio, per le società finanziarie viene presentata anche la posizione f inanziaria netta, che espone la differenza tra attività finanziarie a breve scadenza e l’insieme dei debiti aventi natura finanziaria. Se negativo, l’aggregato rappresenta l’esposizione finanziaria netta dell’impresa.

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Il bilancio riclassificato delle imprese bancarie L’attività caratteristica delle imprese bancarie consiste nell’intermediazione del denaro. Le banche raccolgono denaro (fondi), soprattutto, ma non esclusivamente, dai privati, e lo impiegano concedendo prestiti, nelle varie forme tecniche, agli imprenditori e ai privati stessi. In questi ultimi anni i principali aggregati economici delle aziende bancarie hanno modificato la loro composizione. Oltre all’attività bancaria propriamente detta (erogazione del credito), le banche hanno individuato altre forme di ricavi, per esempio sotto forma di commissioni per la gestione del risparmio o per attività di consulenza alle imprese.

Imprese bancarie: gli aggregati È la somma degli impieghi verso clienti e banche con gli investimenti in titoli e partecipazioni. Comprendono i finanziamenti alla clientela e alle partecipate non bancarie, i prestiti personali, le operazioni di leasing e factoring, i mutui ipotecari. Tale voce nel conto economico genera i ricavi dell’attività tipica bancaria. È la somma delle immobilizzazioni tecniche e immateriali, al netto degli ammortamenti relativi.

Rappresenta il risultato tipico di un’attività bancaria derivante dalla gestione del denaro; il risultato è determinato dal differenziale sui tassi di interesse.

L’aggregato comprende la provvista da clienti, banche, i titoli in circolazione, vale a dire le diverse forme di raccolta diretta di un istituto bancario.

Rappresenta l’ammontare delle emissioni in titoli effettuate da un istituto di credito.

Rappresenta il saldo tra le commissioni attive e quelle passive derivanti dalle attività di gestione e negoziazione.

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Come l’introduzione degli IAS, tra le principali novità in materia di bilanci bancari vi era la classificazione e la valutazione degli strumenti finanziari (IAS 32/39). Quindi, crediti, debiti, titoli e contratti derivati devono essere contabilizzati in base alla finalità per la quale questi strumenti sono detenuti dall’impresa. Con lo IAS 39 si identificano quattro categorie: attività e passività valutate a fair value rilevato a conto economico (in sostanza le attività e passività gestite con finalità di trading e le attività che, a prescindere dalla finalità di detenzione, la società decide di valutare a fair value); attività disponibili per la vendita (anche queste devono essere valutate a fair value); attività detenute fino alla scadenza; crediti e passività finanziarie non di negoziazione. Le ultime due categorie vanno valutate al costo o al costo ammortizzato (che prevede l’ammortamento progressivo del differenziale tra il valore di iscrizione e il valore nominale di un’attività o una passività sulla base del tasso effettivo di rendimento). I risultati della valutazione degli strumenti di trading vanno imputati a conto economico, mentre quelli relativi alle attività disponibili per la vendita sono imputati a una riserva del patrimonio netto fino al momento del realizzo. Il bilancio riclassificato delle imprese assicurative L’attività istituzionale delle imprese di assicurazione consiste nella raccolta di “premi” dai propri clienti, verso i quali si obbligano a fornire determinate prestazioni. In particolare, la gestione assicurativa si divide in ramo danni, se la prestazione consiste nel risarcimento del danno generato da un sinistro, e ramo vita, nel caso in cui l’impresa si obblighi a pagare un capitale o una rendita al verificarsi di un evento attinente alla vita umana, ma la prestazione della compagnia assicurativa può anche essere connessa all’andamento di indici azionari (polizze index linked e unit linked) o all’andamento di Organismi di investimento collettivo di valori mobiliari (OICVM). La peculiarità della gestione assicurativa è costituita dal fatto che i ricavi (premi) sono anticipati rispetto ai costi (pagamenti per sinistri e spese connesse). Questa inversione del ciclo finanziario comporta un duplice ordine di conseguenze. Un primo riflesso sul bilancio è la necessità di effettuare ingenti accantonamenti passivi, che prendono il nome di riserve tecniche. In secondo luogo, la consistenza dei fondi di cui le compagnie si trovano a disporre rende necessaria una rilevante gestione patrimoniale. Le imprese di assicurazione gestiscono, infatti, consistenti investimenti che ricoprono la funzione di costituire una garanzia per gli impegni assunti verso gli assicurati. Le peculiarità della gestione si trovano riflesse tanto nello stato patrimoniale quanto nel conto economico.

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Imprese assicurative: gli aggregati L’aggregato è costituito dai premi emessi al netto dei premi ceduti in riassicurazione. L’aggregato comprende tutte le spese relative alla liquidazione dei sinistri. Rappresenta il risultato netto del complesso degli investimenti e comprende i redditi netti derivanti da immobili, titoli a reddito fisso, partecipazioni e azioni, altri investimenti finanziari. Rappresenta il complesso degli investimenti e comprende gli immobili, i titoli a reddito fisso, le partecipazioni e le azioni, e gli altri investimenti finanziari.

La voce comprende le provvigioni, le spese di acquisizione, quelle amministrative nonché gli interessi passivi relativi all’attività assicurativa. Inoltre, nella voce sono incluse le spese amministrative di società non assicurative.

È il risultato finale del gruppo al netto dell’incidenza fiscale. Nel bilancio consolidato è espresso al netto dell’utile (perdita) di competenza di terzi.

La voce comprende le riserve tecniche nette rami danni (riserve premi e sinistri) e le riserve tecniche ramo vita (riserve matematiche) e rappresenta l’ammontare degli stanziamenti effettuati al fine di far fronte agli impegni verso gli assicurati.

Gli indici di bilancio La lettura di un bilancio attraverso la sua riclassificazione è il primo passo da compiere per formulare un giudizio sull’azienda; quello successivo consiste nell’interpretazione delle varie voci. L’approfondimento dell’analisi può essere condotto con l’ausilio di indici, cioè di rapporti tra voci dello stato patrimoniale e/o del conto economico, che forniscono numerose informazioni sulla solidità, sull’equilibrio patrimoniale e finanziario e sulla capacità di produrre reddito della società. Gli indici che si possono costruire sono innumerevoli e variano in funzione delle finalità dell’analisi, che può avere uno dei seguenti obiettivi:

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• • •

la capacità reddituale dell’azienda, e quindi gli indici esprimono un giudizio sull’equilibrio economico; la situazione finanziaria puntuale dell’azienda, e quindi la capacità di far fronte alle uscite finanziarie; la capacità di mantenere le condizioni patrimoniali per attuare le politiche di sviluppo.

L’analisi per indici permette un confronto temporale e può essere applicata sia sui dati storici sia su quelli prospettici. Può portare a risultati apprezzabili a una condizione: che non siano avvenuti mutamenti radicali nella gestione dell’azienda per effetto di scorpori (spin-off), fusioni, acquisizioni, o altri eventi che minerebbero la loro significatività. Gli indici di struttura Il giudizio sulla struttura viene formulato analizzando lo stato patrimoniale. Se si calcola l’incidenza percentuale delle singole poste dell’attivo sul totale dell’attivo stesso, si può formulare un giudizio sul grado di rigidità o liquidità del capitale. Il ventaglio degli indicatori che possono essere costruiti è molto ampio; di seguito sono illustrati i principali esempi di come possa essere condotta l’analisi dell’equilibrio tra impieghi e fonti di finanziamento.







Indice di indipendenza finanziaria: è il rapporto tra il capitale netto e le attività complessive, e segnala in che misura la società si finanzia con mezzi propri piuttosto che con mezzi di terzi. Maggiore è l’autonomia finanziaria dell’azienda, minori sono sia i rischi connessi al mancato rinnovo dei finanziamenti esterni sia l’impatto negativo sulla redditività aziendale dovuto agli oneri finanziari. Indice di copertura delle immobilizzazioni: è un altro importante indicatore di equilibrio finanziario ed è dato dal rapporto tra il patrimonio netto (cui possono essere aggiunte le passività a medio e lungo termine) e il totale delle attività immobilizzate. In una situazione equilibrata, le immobilizzazioni devono trovare copertura finanziaria con risorse durevoli. Indice di solvibilità: è un indice dato dal rapporto tra disponibilità liquide (escluso il magazzino) e passività correnti, che misura la solvibilità dell’azienda.

Gli indici di redditività Gli indici di redditività sono finalizzati a rapportare il reddito ottenuto da un’impresa ai mezzi impiegati per produrlo. Si ottiene così una misura della capacità reddituale dell’impresa in termini relativi.

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ROI: l’indice

di redditività del capitale investito (dall’inglese return on investment) rapporta il risultato operativo al totale del capitale investito nella sua produzione. Viene preso in considerazione il solo utile operativo, evidenziato nel conto economico riclassificato, che rappresenta il risultato della gestione caratteristica a prescindere da quella non caratteristica, finanziaria, nonché dalle imposte dell’esercizio. ROE: l’indice di redditività del capitale proprio (dall’inglese return on equity) misura in termini percentuali la redditività del capitale di proprietà rappresentato dal patrimonio netto. L’indice permette, quindi, di giudicare la bontà della remunerazione dell’investitore. ROD: l’indice di redditività dei mezzi di terzi (dall’inglese return on debt) misura percentualmente la remunerazione spettante al capitale di terzi che l’impresa assume quale fonte di finanziamento, dando contestualmente la misura del costo dei finanziamenti esterni. L’indice si ottiene rapportando gli oneri finanziari al capitale di terzi, considerato quale media tra capitale iniziale e finale dell’esercizio. Teoricamente l’indice dovrebbe contrapporre gli oneri finanziari sia espliciti sia impliciti al totale del capitale di terzi (totale passivo escluse le passività non onerose). Tuttavia, le difficoltà che spesso si incontrano nel ricavare tali dati impongono di considerare nel calcolo solo gli oneri finanziari espliciti e di rapportarli al totale dei debiti finanziari.

Gli indici bancari Per i bilanci bancari, in considerazione della particolarità dell’attività caratteristica di tale tipologia di imprese, gli indicatori più significativi riguardano la redditività e la solvibilità.

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Indice di efficienza (cost/income ratio): rapporta i costi di gestione al margine di intermediazione e consente di valutare l’efficienza della gestione. Indice di solvibilità: esprime l’entità del patrimonio netto relativamente ai mezzi amministrati, ed evidenzia l’adeguatezza della garanzia supplementare dei mezzi propri per fronteggiare il rimborso dei fondi raccolti.

Gli indici assicurativi Relativamente all’attività delle compagnie di assicurazione, le aree nevralgiche da monitorare sono le seguenti.

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Eff icienza della gestione tecnica: tra gli indicatori più significativi, figura il rapporto tra sinistri di competenza e premi di competenza, utilizzabile in particolare per i rami danni. Contenimento dei costi di struttura: l’incidenza degli oneri di acquisizione e

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delle spese generali può essere misurata in rapporto all’ammontare dei premi netti. Redditività della gestione patrimoniale: può essere misurata rapportando i redditi prodotti dalla gestione degli investimenti sia alla consistenza media degli investimenti stessi sia al flusso di premi netti. Solidità della struttura patrimoniale: in particolare è importante verificare l’adeguatezza delle riserve create per fronteggiare gli impegni futuri nei confronti degli assicurati, rapportando, per esempio, l’ammontare delle riserve tecniche nette ai premi netti. Loss e combined ratio

Il loss ratio è il rapporto tra i sinistri avvenuti e i premi incassati nello stesso esercizio e periodo amministrativo. Si ottiene rapportando gli oneri tecnici danni/premi danni al netto delle riassicurazioni. Il loss ratio è uno degli indicatori di economicità della gestione tecnica delle assicurazioni e quello che viene tenuto maggiormente in considerazione per la buona gestione e profittabilità dell’impresa assicurativa. Eventuali squilibri dell’indicatore vanno tempestivamente analizzati per porre i più adeguati correttivi per una stabilizzazione dell’indicatore ai parametri che l’impresa di assicurazione si è prefissata in base alle statistiche e agli studi effettuati e tenendo conto di elementi che rientrano nella base del calcolo delle probabilità, come la legge dei grandi numeri che consente all’assicuratore di prevedere l’andamento di rischi futuri dei propri assicurati al fine di ben calibrare il premio da far pagare al contraente dell’assicurazione. Il combined ratio è un indice di redditività delle assicurazioni. Si ottiene dalla somma di due indici (loss ratio + expense ratio) e rivela l’efficienza dell’impresa nella gestione dell’attività. Valori del rapporto superiori a 100 segnalano un deterioramento della sinistralità o un aumento dei costi: i premi non riescono a coprire la somma di sinistri e spese e la gestione tecnica viene quindi svolta in perdita. Se invece il rapporto è inferiore a 100, la gestione tecnica genera un utile, che va a sommarsi al risultato della gestione finanziaria.

I multipli di mercato Dai bilanci l’analista prende soltanto una parte delle informazioni che servono per determinare il valore di un’azienda. Tuttavia il suo vero lavoro è stimare la capacità futura dell’azienda di conseguire utili e di rinnovarsi attraverso gli investimenti.

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Il rapporto fra prezzo e utili Tra i multipli di mercato più conosciuti vi è il rapporto prezzo/utili (P/U oppure, detto all’inglese, P/E, price/earnings), dato dal rapporto tra il prezzo di Borsa e l’utile netto dell’azienda stimato per i prossimi anni. L’utile per azione ovvero EPS (earnings per share) viene calcolato dividendo il valore dell’utile netto per il numero di azioni in circolazione con esclusione delle azioni proprie. In linea di massima, più basso è il P/U, maggiore è l’appetibilità di un titolo, mentre più questo indicatore è elevato, più è probabile che il titolo sia sopravvalutato. Per capire se il P/U di un’azione sia alto o basso, si possono effettuare due tipi di confronti. Innanzitutto, esaminando l’andamento dell’indicatore nel corso del tempo. Per esempio, se negli ultimi anni il P/U della società XY è stato in media pari a 15, e ora è pari a 12,98, o la società XY è sottovalutata, oppure gli analisti prevedono per quest’anno un livello di utili inferiore a quello degli anni precedenti. Un altro criterio consiste nel confrontare il P/U della società con quello di aziende concorrenti. Il rapporto fra prezzo e cash flow Un altro indicatore simile al P/U è il rapporto tra prezzo e cash flow (P/CF), dove il cash flow è solitamente la somma tra utile netto e ammortamenti, cioè le risorse finanziarie generali all’interno dell’azienda e disponibili per dividendi o investimenti. Questo indicatore pone a confronto quotazione di Borsa e redditività dell’azienda, eliminando le distorsioni legate alla politica di ammortamento dei beni aziendali adottata dagli amministratori (cioè al modo in cui, per esempio, il costo di un macchinario o di un immobile viene “spalmato” su un certo numero di anni), che a volte possono voler deliberatamente comprimere o gonfiare l’utile netto (rispettivamente aumentando o riducendo all’osso gli ammortamenti). Il rapporto fra prezzo e mezzi propri Il rapporto prezzo/mezzi propri (P/MP o, all’inglese, price/book value, P/BV) mette in relazione i mezzi propri di una società ovvero la Ogni sabato “Plus24” mette a confronto due aziende attive nello stesso settore e i loro fondamentali in modo che i risparmiatori abbiano un quadro esaustivo delle realtà aziendali e possano investire in maniera più consapevole.

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somma del capitale sociale (che rappresenta in bilancio le azioni in circolazione presso i soci) e le riserve formate da quelle obbligatorie e quelle derivanti dalla mancata distribuzione di utili. Spesso, gli analisti “correggono” poi i mezzi propri per cercare di quantificare meglio quella che è, nella sostanza, la “ricchezza” della società. Se il rapporto P/MP è pari a 1, significa che il prezzo di Borsa di un’azione riflette esattamente il valore dei mezzi propri della società; se è superiore a 1, significa che il prezzo di Borsa è più alto dei mezzi propri; se è inferiore a 1, vuol dire che il prezzo di Borsa è più basso del valore patrimoniale della società, e dunque (ma non sempre) potrebbe essere conveniente acquistare le azioni. È da tenere presente che il prezzo di Borsa segue da vicino l’andamento degli utili, ma è molto meno attento al patrimonio netto di un’azienda, cioè ai mezzi propri. Questo è particolarmente vero per le azioni del settore industriale, mentre nel valutare le azioni di banche e compagnie assicurative il rapporto P/MP assume un significato maggiore. Queste società, infatti, hanno un ricco patrimonio di titoli e di immobili, che ha notevole influenza sui loro prezzi di Borsa. Il rapporto fra prezzo e fatturato Il rapporto tra capitalizzazione di Borsa e fatturato indica quante volte il mercato “conta” il giro d’affari di un anno. È un indicatore che può servire di raffronto quando le aziende cambiano proprietà, oppure in presenza di società di nuova costituzione che non hanno un livello di redditività stabilizzato, oppure che sono in perdita. EV/EBITDA e EV/EBIT Importato dal mondo anglosassone, è uno degli indicatori di Borsa che va per la maggiore anche in Italia. È dato dal rapporto tra enterprise value (“valore dell’impresa”) e l’EBITDA (earnings before interest taxes depreciation and amortisation, in pratica equivalente al margine operativo lordo). L’enterprise value si calcola in due modi, a seconda del livello di indebitamento della società oggetto di analisi. Nel caso di società indebitate, l’EV è la somma tra capitalizzazione di Borsa e indebitamento finanziario netto. Nel caso di società non indebitate, l’EV si ricava sottraendo alla capitalizzazione di Borsa la liquidità netta in cassa. In questo modo si calcola il prezzo teorico (senza premi) che un acquirente dovrebbe pagare per rilevare un’impresa senza debiti e senza liquidità in cassa. L’EBITDA è in sostanza il risultato della gestione, essendo pari al fatturato meno il costo del venduto. Il rapporto tra EV ed EBITDA dice quante volte è “prezzata” nel valore dell’azienda la redditività lorda.

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I METODI DI VALUTAZIONE Fra i modelli utilizzati dagli analisti per attribuire un valore alle società e quindi ai titoli che la rappresentano, le azioni, vi è il metodo del discounted cash flow, cioè i flussi di cassa attualizzati. Definizione dalla quale si desume che le variabili da prendere in considerazione sono: il tasso di sconto, i flussi di cassa, il tasso di crescita dei flussi di cassa e il tempo inteso come numero di anni futuri da considerare. Una variabile, quest’ultima, che dipende prevalentemente dal settore di operatività dell’azienda. Così per le public utilities come Snam Rete Gas o Terna, la cui visibilità è decisamente alta oltreché lunga: il numero di anni presi in considerazione può arrivare sino a venti. E ancora più ampio può essere l’orizzonte per società che operano in regime di monopoli naturali dati in concessione, come le autostrade. In questo caso la durata può essere strettamente connessa all’arco temporale della concessione, mentre la visibilità è funzione del traffico (che rappresenta una proiezione come derivata del prodotto interno lordo) e delle tariffe (che rappresentano la vera variabile in quanto dipendente da molti fattori, fra i quali anche la politica). Per le società industriali tradizionali il tempo preso in considerazione è sempre collegato alla visibilità, che però è collegata ai piani industriali, al cui termine può essere assunta una crescita costante. Ma c’è pure dell’altro: il metodo del discounted cash flow può essere applicato a molti modelli diversi, che variano in funzione della situazione patrimoniale e finanziaria della società, della rischiosità dell’attività e del settore, delle prospettive di crescita dei business eccetera. ■ Equity valuation Valutazione del capitale azionario. È adottato quando l’indebitamento non è particolarmente elevato e vengono utilizzati i flussi di cassa che residuano dopo il pagamento di tutte le spese, le imposte e gli interessi sul debito. Il tasso di sconto è ricavato dal costo del patrimonio, che a sua volta dipende dal rischio implicito nell’azienda in oggetto. ■ Firm valuation Valutazione dell’azienda nel suo complesso. Si utilizzano i flussi di cassa espressi prima del pagamento degli interessi sul debito, mentre il tasso di sconto è rappresentato dal WACC, cioè il costo complessivo del capitale come emerge dalla combinazione fra il costo del capitale proprio e quello di terzi. ■ Dividend growth model È sostanzialmente simile all’equity valuation, solo che anziché utilizzare i flussi di cassa si utilizzano i dividendi distribuiti.

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Analogo è l’utilizzo di un altro indicatore che si ottiene sostituendo all’EBITDA l’EBIT. L’EBIT – earnings before interest and taxes – è in sostanza l’utile operativo dell’azienda. Yield Un ulteriore indicatore è lo yield (rendimento), dato dal rapporto tra il dividendo e il prezzo di un’azione. È una misura della redditività di un’azione, e in particolare esprime in termini percentuali il guadagno che un investitore potrebbe ottenere ogni anno incassando il dividendo distribuito dall’azienda. Anche in questo caso è opportuno fare confronti o con l’andamento passato dello yield, oppure con gli yield di azioni appartenenti a società dello stesso settore.

La struttura di un gruppo aziendale Un gruppo aziendale consiste in un’unica entità economica che nasce quando due o più aziende allacciano rapporti, generalmente attraverso il possesso di azioni o quote del capitale. Caratteristica fondamentale di un gruppo è l’esistenza di un unico soggetto economico che indirizza la gestione dell’attività aziendale, pur in presenza di autonomia giuridica, dal momento che ogni azienda mantiene il proprio status giuridico. Le società controllate La legge delinea tre fattispecie di società:



società controllate per disponibilità, diretta o indiretta, della maggioranza dei voti nell’assemblea ordinaria;

GLI INTERESSI DI MINORANZA Nel caso in cui le partecipazioni non siano totalitarie, nasce l’esigenza di evidenziare il valore di patrimonio netto e di utili o perdite delle controllate che non appartengono al gruppo. Gli interessi dei terzi minoritari sono inseriti, nello stato patrimoniale, nella voce “interessi di minoranza”, comprensiva della quota di patrimonio e di utile non di competenza del gruppo, mentre nel conto economico la quota di utile di terzi viene sottratta dall’utile complessivo così da permettere l’evidenziazione dell’utile di competenza del gruppo.

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Società holding (capogruppo) che detiene direttamente o indirettamente le quote di capitale delle società partecipate.

Sono i principali azionisti della società. Vengono riportate le quote di partecipazione sul capitale ordinario possedute da ciascun azionista e in misura superiore al 2%.

Nell’organigramma vengono riportate alcune note esplicative che riguardano le società partecipate. Per esempio, eventuali modifiche della struttura di controllo, operazioni straordinarie quali l’incorporazione di una società. Viene inoltre indicata l’eventuale esistenza di un patto di sindacato, la quota conferita al patto stesso e la scadenza.

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società controllate per l’influenza dominante derivante dalla disponibilità, diretta o indiretta, di voti nell’assemblea ordinaria, pur se minoritaria; società controllate per l’influenza dominante che deriva da vincoli contrattuali.

Le società collegate Il concetto di “influenza dominante” è esteso anche alle società collegate. Il nuovo criterio si va ad aggiungere alla presunzione semplice, per cui una società viene considerata collegata quando la partecipazione supera il 20% del capitale della stessa (10% se si tratta di società quotata in Borsa).

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Il bilancio consolidato Per bilancio consolidato si intende stato patrimoniale, conto economico e nota integrativa del gruppo, e come tale incorpora la situazione reddituale e patrimoniale di tutte le imprese che fanno parte del gruppo stesso. Il bilancio consolidato, quindi, è il documento che meglio permette di conoscere e valutare la situazione patrimoniale e finanziaria di un gruppo e il suo andamento economico. L’analisi del solo bilancio della società controllante non è, infatti, sufficiente per diversi motivi. Innanzitutto la società controllante potrebbe presentare un risultato positivo, mentre a livello di gruppo potrebbe emergere una situazione negativa o viceversa. In secondo luogo, non sono rari i casi in cui la controllante svolge il ruolo di “cassaforte” del gruppo, mentre il ruolo produttivo e industriale è svolto dalle controllate operative. In questo caso la holding redige un bilancio secondo la tipologia delle imprese finanziarie, mentre solo il bilancio consolidato rappresenta la situazione industriale, mettendo in evidenza l’attività caratteristica del gruppo. Il bilancio consolidato deve includere tutte le imprese controllate, anche quando l’attività svolta sia dissimile, siano controllate legalmente o di fatto e anche nei casi in cui il controllo è temporaneo. Unica eccezione, il caso in cui la controllata sia sottoposta a procedure concorsuali. Per le società escluse dall’area di consolidamento integrale può essere utilizzato il metodo del patrimonio netto, che si applica per le imprese sulle quali la capogruppo esercita un’influenza significativa o rilevante. Un altro metodo di consolidamento è quello denominato proporzionale, che si applica per le società in cui controllo e responsabilità gestionali sono ripartiti tra più soggetti, per esempio le joint venture, che recepiscono nel bilancio consolidato i valori reddituali e patrimoniali della partecipata in base alla quota di capitale posseduta. Un ulteriore metodo è quello definito del costo, utilizzato per le società in cui la capogruppo non ha una partecipazione di controllo.

Le analisi dei fondamentali sono indispensabili per anticipare l’andamento di un titolo.

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La vita delle società di Riccardo Sabbatini

All’inizio c’era la società familiare in cui la proprietà e il controllo di un’azienda coincidevano in una sola persona, normalmente il suo fondatore. Ma quando l’impresa ha iniziato a crescere e ha varcato le Colonne d’Ercole del suo ambito locale non ha potuto fare a meno di emanciparsi da quella cultura patriarcale in cui aveva mosso i primi passi. Con il passaggio all’età adulta, la vita di una società è diventata molto più complessa, articolata in numerose funzioni e centri di responsabilità. Con l’obiettivo di promuovere l’efficienza dell’attività produttiva, che rappresenta la fondamentale missione aziendale, sono nate numerose strutture di direzione e di controllo. Progressivamente si è giunti a una separazione tra la proprietà e il controllo dell’azienda, ciò che caratterizza le moderne società per azioni (SPA). La separazione tra proprietà e controllo si realizza, soprattutto, quando l’impresa per crescere ha bisogno di capitale superiore a quello che possono impiegare gli azionisti fondatori. In questa complessità si rispecchiano i diversi soggetti che sono interessati al successo dell’iniziativa imprenditoriale: la platea degli azionisti, innanzitutto, che ha apportato all’impresa i capitali necessari per assicurarne la crescita. Ma non solo. Vi sono le banche che hanno aperto linee di credito per finanziare gli investimenti, i lavoratori materialmente incaricati dell’attività produttiva, i manager, i fornitori e gli altri creditori dell’impresa, gli investitori presso i quali sono state collocate le sue obbligazioni.

La corporate governance La composizione del gran numero di interessi, spesso contrastanti, che entra in gioco nella vita di una società, è l’obiettivo della corporate governance, vale a dire del governo societario di un’impresa. I principali organismi attraverso i quali tale dialettica si sviluppa sono: l’assemblea degli azionisti, il parlamento di una società; il consiglio di amministrazione, il suo organo esecutivo; il collegio sindacale e la società esterna di revisione ai quali sono affidate le funzioni di controllo.

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La tradizionale distinzione tra i modelli di corporate governance è quella – probabilmente superata nelle sue manifestazioni più radicali – tra il sistema “anglosassone”, orientato al mercato borsistico, e quello cosiddetto “renano”, bancocentrico. Il sistema anglosassone Il sistema anglosassone, cosiddetto monistico, è proprio di quei Paesi (Stati Uniti, Gran Bretagna) nei quali i mercati azionari sono tradizionalmente più sviluppati. Le funzioni di amministrazione e controllo sono concentrate in un solo organismo, il consiglio di amministrazione (board), i capitali vengono raccolti in Borsa attraverso la quotazione delle azioni, la proprietà è fortemente dispersa e il controllo contendibile. Gli amministratori non sono tutti uguali. Nel board siedono i membri esecutivi, tra i quali l’amministratore delegato SOCIETÀ CHIUSE E SOCIETÀ APERTE Il Codice civile stabilisce con precisione le regole da osservare per un ordinato funzionamento degli organismi che interagiscono nella corporate governance, e sottopone a una specifica disciplina le imprese che «fanno ricorso al mercato del capitale di rischio». Cioè quante dispongono di azioni quotate in mercati regolamentati o comunque «diffuse fra il pubblico in misura rilevante» (art. 2325-bis). Il progressivo sviluppo dei mercati finanziari, sempre più integrati e internazionali, determina un solco sempre più profondo tra le cosiddette “società chiuse”, caratterizzate da un limitato numero di soci, a proprietà stabile, prevalentemente finanziate dal credito bancario, con limitati interessi esterni da tutelare (principalmente i crediti accordati da fornitori e finanziatori), e le “società aperte” al mercato dei capitali, che ricercano in Borsa o sul mercato obbligazionario le risorse necessarie a finanziare la propria crescita. Nel linguaggio anglosassone si dice che una società “diventa pubblica” (go public) quando chiede l’ammissione in Borsa. È un’espressione che ben chiarisce come, approdata sul listino, debba sottoporsi a uno scrutinio esterno conforme, appunto, alla sua natura pubblica. Con gli ultimi interventi del legislatore è stata promossa una maggiore trasparenza per questo tipo di società, oltre a rendere più incisiva la tutela dei soci minori. Sono interventi che trovano una loro giustificazione anche nell’accresciuta concorrenza tra le piazze finanziarie. Poiché le Borse nel mondo sono sempre più accessibili e un gran numero di alternative si presentano a chi voglia acquistare un’azione, nel mercato domestico o in quelli esteri, ecco che i criteri di funzionamento delle “società aperte” debbono rispondere a precisi standard internazionali per poter attirare i capitali. Tutto ciò non annulla le differenze tra i diversi schemi societari esistenti nel mondo, ma li rende progressivamente compatibili, comunicanti.

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(chief executive officer), e i membri cosiddetti indipendenti, ai quali fanno capo sempre più spesso le funzioni di controllo aziendale e che fissano le retribuzioni dei manager. Il sistema renano Nel sistema dualistico o duale, detto anche renano – così chiamato perché la sua più compiuta espressione si è sviluppata in Germania e, almeno in parte, in Francia – le funzioni di direzione e controllo sono separate in due distinti organismi: il consiglio di amministrazione e il consiglio di sorveglianza. Quest’ultimo organismo, nominato dagli azionisti ma anche dai lavoratori, ha il compito di indicare le linee guida d’indirizzo aziendale, di nominare e revocare gli amministratori. Molto meno diffuso, in questo contesto, è stato tradizionalmente il ricorso in Borsa delle società, le cui fonti di finanziamento erano assicurate dalle banche spesso partecipanti al capitale delle imprese. La proprietà è molto meno contendibile e le società, normalmente, hanno solidi azionisti di riferimento. La “terza via” italiana La progressiva unificazione dei mercati finanziari europei ha avuto l’effetto di stemperare i tratti di maggiore diversità del capitalismo continentale. Il ruolo della Borsa, per esempio, è cresciuto un po’ dappertutto e sta acquisendo un’importanza centrale proprio nella patria del sistema “renano”. Nel dicembre del 2010 la Deutsche Börse aveva raggiunto il terzo posto tra quelle europee (alle spalle del circuito Euronext e della Borsa di Londra) con una capitalizzazione pari a 1.066 miliardi di euro. Nel panorama dei principali Paesi industrializzati, l’Italia presenta significative

I rating che le società specializzate attribuiscono a Paesi e aziende influiscono in maniera determinante sull’andamento dei mercati finanziari.

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peculiarità. Il numero delle società domestiche quotate è assai modesto in relazione alla forza dell’economia: a fine 2010 erano appena 286 in confronto alle 1.624 di Londra o le 1.058 di Francoforte. Un’altra specificità riguarda il modello di controllo delle quotate che rende tradizionalmente poco contendibili gli assetti proprietari. In aggiunta, come abbiamo visto, con una percentuale elevata di capitale normalmente detenuta dai principali azionisti, le imprese italiane sono caratterizzate da una struttura piramidale che collega in un’unica catena societaria un gran numero di unità, permettendo l’esercizio del controllo con modeste quote di capitale. È il sistema chiamato “a scatole cinesi” (si veda il riquadro). Per quanto riguarda la composizione e il ruolo degli organi societari, il modello italiano rappresenta una sorta di soluzione intermedia tra i due principali sistemi di corporate governance. Vi è un organo specifico, il collegio sindacale, al quale sono affidati i controlli sull’operato del management, che però non IL MECCANISMO DELLE “SCATOLE CINESI” Supponiamo che il maggiore azionista di un’impresa A detenga il 51% del capitale. Ebbene, se questa società possiede a sua volta il 51% di un’impresa B, il primo azionista le controllerà entrambe con una quota diluita di capitale (il 51% della prima e il 25,5% della seconda). Inserendo nella catena altre unità, l’effetto di “leva proprietaria” aumenta ancora. I principali inconvenienti di un simile reticolo stanno nelle potenziali penalizzazioni subite dagli azionisti di minoranza delle società controllate. Il socio di maggioranza può, infatti, porre in atto tecniche per trasferire la maggior parte degli utili del gruppo in capo all’unità nella quale detiene la quota azionaria più elevata, così da ricevere elevati dividendi. Inoltre, una simile struttura è caratterizzata da un’elevata opacità agli occhi degli investitori che si trovano in difficoltà nell’assegnare un giusto valore alle diverse unità che fanno parte della stessa catena. Un altro strumento che può essere piegato alle medesime esigenze è quello delle azioni proprie, cioè dei titoli di propria emissione che una società può detenere acquistandoli sul mercato. All’estero questo meccanismo (buy back) è quasi sempre seguito dall’annullamento delle azioni e rappresenta un modo, in casi di eccesso di capitale, per aumentare i dividendi agli azionisti (gli stessi utili vengono distribuiti tra un minor numero di titoli). In Italia, invece, le azioni proprie sovente non vengono annullate e per il loro tramite gli azionisti, a cominciare dal maggiore, incrementano i loro diritti di voto in assemblea per il fatto che le azioni proprie non votano. A fini antiscalata, nella primavera del 2009 la percentuale massima di azioni proprie detenibile da una società è stata elevata dal Parlamento dal 10 al 20%. In pratica chi detiene una partecipazione del 40% può incrementare fino al 50% la sua quota di diritti di voto rendendo la società incontendibile.

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dispone dei penetranti poteri (nomina e revoca degli amministratori) dei consigli di sorveglianza tedeschi. Con l’obiettivo di avvicinare la disciplina delle società quotate italiane a quella in vigore nei Paesi di più consolidata tradizione borsistica, il Parlamento ha approvato nel 1998 il TUF, ovvero il Testo unico sui mercati finanziari (decreto legislativo 58/98). Questa legge cornice ha introdotto, limitatamente alle società quotate, significative innovazioni alle norme del Codice civile. Un intervento ancora più penetrante è giunto, nel gennaio del 2004, con la riforma del diritto societario che ha significativamente aumentato la libertà di scelta delle società di assumere gli assetti di corporate governance considerati più idonei per raggiungere i propri obiettivi. In pratica, in alternativa al modello tradizionale, gli statuti potranno prevedere un sistema di governo interno di tipo monistico o dualistico. Nei paragrafi che seguono le componenti fondamentali della vita delle imprese verranno descritte sulla base di questi nuovi indirizzi regolamentari, con particolare riferimento alla disciplina delle società quotate. Per le questioni di maggior rilievo saranno segnalate le differenze esistenti con la disciplina delle società non quotate.

Lo statuto La “carta costituzionale” di una società è lo statuto nel quale sono indicati l’oggetto dell’attività, il numero di azioni emesse e il loro valore nominale, gli organi societari e le particolari caratteristiche della propria vita associativa. Nello statuto, per esempio, deve essere indicata l’esistenza di particolari azioni diverse da quelle ordinarie, l’eventuale possibilità di ricorrere al voto per corrispondenza, l’esistenza di limiti al possesso di azioni o vincoli all’esercizio del diritto di voto. L’atto costitutivo svolge una fondamentale funzione segnaletica, come una sorta di biglietto da visita dell’impresa nei confronti della comunità degli investitori. È per definizione la sede dell’autoregolamentazione, cioè delle regole alle quali, in aggiunta a leggi e regolamenti, la società si sottopone per migliorare la propria reputazione e attirare di conseguenza un maggior numero di investitori. I nuovi elementi obbligatori La nuova riforma del diritto societario ha notevolmente ampliato le possibilità di dettaglio di questa “istantanea”. Se gli elementi da indicare obbligatoriamente nell’atto costitutivo sono sostanzialmente rimasti gli stessi, molto ampia è la lista delle informazioni che possono essere introdotte a discrezione dei soci. È obbligatorio indicare:

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I CODICI DI AUTOREGOLAMENTAZIONE Spesso un’impresa si sottopone volontariamente, e lo indica nello statuto, a regole che vengono dall’esterno. Prendono la forma di codici di best practices (migliori regole) per la più efficiente conduzione di un’azienda, elaborati in continuazione dalle più disparate istituzioni finanziarie internazionali. Tra i più famosi vi sono il Codice Cadbury britannico, frutto di un lungo confronto tra le società della Gran Bretagna, il Codice Vienot in Francia, le regole di corporate governance di Calpers, il fondo pensione degli insegnanti della California, la più grande cassa pensionistica statunitense (gestisce un patrimonio di oltre 200 miliardi di dollari e investe soltanto nelle società che seguono i suoi indirizzi). Spesso i codici sono molto minuziosi ed esigenti; precisano, per esempio, in che modo deve essere organizzata la struttura dei controlli interni, i criteri da seguire per la remunerazione dei manager, perfino a quale età è preferibile che vadano in pensione. Anche la Borsa italiana ha, dal 1999, un suo codice di autoregolamentazione, il Codice Preda, dal nome dell’ex presidente di Piazza Affari, Stefano Preda, che ha avviato l’iniziativa. I principi e le norme contenute nel codice intendono promuovere i migliori standard nei meccanismi di funzionamento dei consigli di amministrazione – è stata introdotta la figura dei consiglieri indipendenti e suggerita la costituzione dei comitati consultivi specifici per il controllo interno (audit committee), la remunerazione degli amministratori e la scelta dei consiglieri – e nei rapporti tra questi e gli azionisti. Le disposizioni del codice sono state rafforzate nel 2006 e ancora nel 2010 con principi specifici riguardanti i compensi dei manager. L’adesione del codice è volontaria ma l’accoglimento di alcune delle sue norme è vincolante perché una società possa essere quotata nel segmento di Borsa definito “ad alti requisiti” (Star). Inoltre, con la legge della tutela del risparmio (2005) è stato imposto alle società di dare pubblicità all’eventuale adesione a codici di autoregolamentazione spiegando i motivi di scostamenti da alcune delle loro regole. In pratica è stato recepito per legge il principio “aderisci o spiega il perché” (comply or explain) già largamente in uso per i principali codici internazionali.

Oltre alle regole che le aziende si autoimpongono, le autorità monetarie si adoperano per trovare norme che assicurino il corretto funzionamento dei mercati.

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denominazione sociale; comune della sede sociale; attività che costituisce l’oggetto sociale; ammontare del capitale sottoscritto e di quello versato; numero ed eventuale valore nominale delle azioni, loro caratteristiche e modalità di emissione e circolazione; valore attribuito ai crediti e ai beni conferiti in natura; norme secondo le quali gli utili devono essere ripartiti; benefici eventualmente accordati ai soci o ai fondatori; sistema di amministrazione adottato, numero degli amministratori e loro poteri indicando chi detiene la rappresentanza legale; numero dei componenti del collegio sindacale; nomina dei primi amministratori e sindaci, ovvero dei componenti del consiglio di sorveglianza e, quando previsto, del soggetto al quale è demandato il controllo contabile; importo delle spese per costituire la società; nomina dei primi amministratori; durata della società (se è costituita a tempo indeterminato, occorre indicare il periodo entro il quale i soci possono esercitare il recesso – non più di un anno).

Nell’ambito di questi “paletti”, la libertà statutaria diviene molto più ampia che nel passato. Oltre a emettere i più svariati tipi di azioni, strumenti finanziari o a disciplinare differenti modalità di esercizio del diritto di voto, gli azionisti possono indicare nello statuto se intendono rafforzare gli strumenti a protezione dei soci di minoranza. In particolare, possono essere stabilite percentuali più contenute di quelle di legge per proporre denunzia al tribunale contro gli amministratori quando vi sia il sospetto di gravi irregolarità nella gestione. Oppure abbassare le soglie per impugnare i bilanci. Gli statuti possono poi prevedere criteri diversi da quelli legali per la determinazione del valore di liquidazione delle azioni in caso di recesso. Oppure, nelle società quotate, escludere il diritto di opzione nei limiti del 10% del capitale preesistente, a condizione che il valore dei titoli corrisponda al loro valore di mercato. Nell’atto costitutivo della società è possibile anche indicare maggioranze più elevate di quelle legali per l’assemblea chiamata a votare il bilancio o a nominare gli amministratori. Oppure consentire deleghe di voto, il voto per corrispondenza o elettronico. Oppure attribuire all’organo amministrativo, al consiglio di sorveglianza o al comitato per il controllo interno la gestione delle delibere concernenti alcune ipotesi di fusione.

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Agli amministratori può essere attribuita la possibilità di aumentare il capitale sociale fino a un ammontare determinato, per un massimo di 5 anni. Ma può essere inibito loro di deliberare sull’emissione di obbligazioni convertibili. Infine una società, attraverso lo statuto, può decidere di presentarsi agli investitori come maggiormente contendibile e aperta, applicando le norme dell’ OPA sulla neutralizzazione (si veda il paragrafo sulla disciplina dell’ OPA ) che la legge ha invece escluso a livello generale. O al contrario protetta da takeover indesiderati derogando alla regola della passività (si veda dopo).

L’assemblea L’assise degli azionisti rappresenta il momento più importante della democrazia societaria, l’occasione in cui i soci di un’impresa vengono chiamati a pronunciarsi sui principali atti della vita societaria. L’assemblea può essere convocata in sessione ordinaria o straordinaria. La convocazione avviene su iniziativa degli amministratori, con un avviso da pubblicare sulla Gazzetta Ufficiale. I soci possono partecipare all’assemblea personalmente oppure – se lo statuto lo consente – per corrispondenza, o ancora delegando il proprio voto o prendendo parte alla discussione, senza essere presenti fisicamente, con l’ausilio di mezzi

L’articolo 2364 del Codice civile stabilisce che l’assemblea ordinaria, riunita di norma una volta all’anno, delibera su: approvazione del bilancio; nomina degli amministratori, dei sindaci e del presidente del collegio sindacale; determinazione dei compensi per amministratori e sindaci; materie affidate dallo statuto alla sua giurisdizione e argomenti sottoposti dagli amministratori alla sua valutazione. Con altre norme il Codice allarga la potestà dell’assemblea ordinaria a: revoca degli amministratori, acquisto di azioni proprie, determinazione degli utili da distribuire agli azionisti. All’assemblea ordinaria possono prendere parte solo i possessori di azioni ordinarie. Può essere convocata anche su iniziativa di una minoranza che rappresenti almeno il 10% del capitale sociale, o una percentuale inferiore se indicato nello statuto. Nelle società che adottano uno modello dualistico, l’assemblea nomina i componenti del consiglio di sorveglianza approvandone i compensi, delibera sulla distribuzione degli utili e nomina il revisore contabile. In pratica, rispetto alle società che mantengono una struttura tradizionale di corporate governance è sottratta agli azionisti l’approvazione del bilancio annuale.

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La possibilità di ricorrere alla delega di voto nelle società quotate è stata formalmente ampliata con il Testo Unico della Finanza (1998) e, più ancora, con il recepimento della direttiva europea sui diritti degli azionisti (2010). La nuova disciplina ha liberalizzato la sollecitazione delle deleghe favorendo la nascita di società ad hoc (proxy) specializzate nella raccolta di deleghe. La normativa ha semplificato gli adempimenti previsti in precedenza e che finora avevano scoraggiato il ricorso alla delega, una pratica ancora sconosciuta tra le società quotate italiane.

I soci possono essere convocati dagli amministratori in sessione straordinaria quando si tratta di prendere decisioni che, appunto, esulano dalla normale gestione aziendale. È il caso, per esempio, delle modifiche proposte allo statuto della società, delle operazioni straordinarie sul capitale (aumento o diminuzione, fusioni e incorporazioni), delle emissioni di obbligazioni. In aggiunta ai soci delle azioni ordinarie, anche i possessori delle azioni privilegiate possono prendere parte alle assemblee straordinarie. I detentori di particolari categorie di azioni (quelle di risparmio), esclusi dalle assemblee ordinarie e straordinarie, possono però convocare un’assemblea speciale per nominare un proprio rappresentante. Quando una decisione presa dal management è suscettibile di determinare un pregiudizio ai loro interessi, la convocazione dell’assemblea speciale è obbligatoria e, perché la decisione in discussione possa essere attuata, è necessario un quorum di almeno il 20% di voti favorevoli.

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di telecomunicazione. Le modalità telematiche di partecipazione sono state estese con il recepimento della direttiva europea approvata sui “diritti degli azionisti”.

Amministratori e organi di vigilanza Gli scandali societari esplosi all’inizio del nuovo secolo, in USA (Enron) come in Italia (Parmalat), hanno messo in evidenza clamorose mancanze nei sistemi di controllo interno volti a impedire abusi dei manager. Negli Stati Uniti la conseguenza dei dissesti (Sarbanes-Ouxley Act) è stato un drastico giro di vite negli strumenti di vigilanza all’interno (amministratori indipendenti) e all’esterno della compagine societaria (revisori contabili). In Italia, dove la riforma ha preceduto e non seguito gli scandali, è mancata la stessa determinazione. Nonostante questo alcuni istituti, mutuati dall’esperienza anglosassone, sono stati introdotti nell’ordinamento. La principale novità del riordino legislativo è stata, come sottolineato in precedenza, la possibilità per le società di adottare modelli di corporate governance alternativi a quello tradizionale italiano. E, con essi, hanno fatto la loro comparIL RUOLO DEGLI AMMINISTRATORI In Italia, dove tradizionalmente anche le società quotate hanno un azionista di controllo e la proprietà è scarsamente contendibile, il ruolo degli amministratori è generalmente subordinato all’influenza dei soci forti. Ma altrove, dove prevalgono i modelli di proprietà diffusa (la public company anglosassone) gli amministratori giungono a detenere un potere quasi assoluto e lo scopo dei meccanismi di corporate governance diviene quello di attivare idonei meccanismi di controllo. Per tornare all’Italia, in considerazione del mandato fiduciario che i proprietari affidano ai manager, il Codice civile si preoccupa soprattutto di assicurare che non vengano pregiudicati gli interessi di terzi coinvolti nell’impresa (creditori, fornitori) soprattutto in caso di dissesto aziendale. Con il Testo unico, è stato elevato anche il livello di protezione degli azionisti di minoranza, che non scelgono la maggioranza degli amministratori ma che ugualmente subiscono le conseguenze delle loro decisioni. E la legge di tutela del risparmio (2005) ha introdotto l’obbligatoria presenza di amministratori scelti dalla minoranza attraverso l’elezione per lista dei CDA. Una caratteristica che in precedenza era limitata alle società privatizzate. La normativa primaria ha fissato nel 2,5% del capitale la soglia che un socio (o un gruppo di soci) deve possedere per presentare una lista ma ha demandato alla Consob il compito di articolare percentuali diverse in relazione alla capitalizzazione delle società.

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sa nel Codice civile anche nuovi concetti e definizioni tra cui soprattutto quello di amministratore indipendente. Un ruolo che prima era presente soltanto nei codici di autoregolamentazione e al quale la legge fa affidamento per contenere i possibili abusi dei manager esecutivi. Pertanto, in luogo di un organo amministrativo – che in precedenza appariva sostanzialmente indifferenziato nella sua composizione, e che nella pratica finiva per avallare le scelte degli amministratori delegati e degli azionisti forti della società – si è inteso costruire organi più articolati in cui convivono diverse figure. I manager esecutivi veri e propri (tra i quali l’amministratore delegato) a cui sono affidate le deleghe di gestione, gli amministratori non esecutivi e quelli che, oltre a non ricoprire incarichi di gestione, possono vantare requisiti di indipendenza nei confronti del management e degli azionisti di controllo della società. Più recentemente hanno fatto la loro comparsa nell’ordinamento anche i consiglieri di minoranza, eletti con un meccanismo di voto per lista, allo scopo di promuovere una maggiore presenza di investitori istituzionali nei board. Infine, con una legge varata dal Parlamento nel giugno 2011, è stato imposto il vincolo di nominare nei board una percentuale minima di donne (“quota rosa”). Sarà del 20% dal 2012 e del 30% dal 2015. Responsabilità Le possibili combinazioni e distribuzioni dei poteri, comunque, possono essere le più disparate, e la materia è normalmente disciplinata nello statuto societario. In ogni caso, indipendentemente dal ruolo che occupano, tutti gli amministratori devono adempiere ai loro doveri con la competenza professionale che la loro carica impone. Sono chiamati a rispondere dei danni causati dall’inosservanza di tali doveri e, più in generale, sono solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto alcunché per impedirne il compimento (art. 2392 c.c.). La legge stabilisce altresì che ciascun amministratore dia notizia agli altri membri del consiglio e al collegio sindacale di eventuali suoi interessi (per conto proprio o di terzi) esistenti in una determinata operazione societaria. Qualora svolga l’incarico di amministratore delegato, la legge gli impone di astenersi dalla relativa delibera (art. 2391 c.c.). Dal 2011, inoltre, è stata introdotta una disciplina specifica per le operazioni in conflitto d’interesse (si veda il capitolo “La protezione del risparmio”). Quando gli azionisti ritengono che gli amministratori abbiano colpevolmente pregiudicato con la loro condotta gli interessi societari, possono proporre in assemblea un’azione sociale di responsabilità nei loro confronti rimuovendoli dall’incarico. L’azione di responsabilità può essere promossa anche da una minoranza di azionisti purché detengano complessivamente almeno il 5% del capitale (art.

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2393-bis c.c.) o anche una percentuale inferiore, se previsto statutariamente. Il controllo della società è affidato a organi specifici. Collegio sindacale È l’organo societario al quale la legge affida la vigilanza del rispetto dei principi di corretta amministrazione della società. I sindaci – il loro numero non è inferiore a tre nelle società quotate – assistono alle riunioni del consiglio di amministrazione, controllano che gli amministratori non eccedano dalle deleghe che sono state loro affidate, si pronunciano sull’adeguatezza della struttura organizzativa e sull’efficacia delle strutture di controllo interno. Possono anche svolgere indagini e avvalersi del personale della società. Eventuali irregolarità sono segnalate alla Consob e, nei casi più gravi, sono oggetto di denunce in tribunale. Il collegio è nominato dall’assemblea. Nelle società quotate le minoranze hanno diritto a essere rappresentate con uno o più sindaci (1 su 3 o 2 su 5 in relazione alla composizione dell’organismo di controllo) ed eleggono il presidente del collegio. La normativa stabilisce un tetto alla cumulabilità degli incarichi. In particolare, non possono essere occupati contemporaneamente più di cinque incarichi in altrettanti organi di controllo (collegio sindacale o consiglio di sorveglianza nel modello dualistico). Il sistema monistico Nel modello cosiddetto monistico, particolarmente diffuso nelle società inglesi e statunitensi, non è presente un organo specifico (che nel sistema tradizionale è rappresentato dal collegio sindacale) a cui è demandato il controllo degli amministratori. Esiste un solo organo gestorio al cui interno almeno un terzo degli amministratori deve essere in possesso dei re-

La vigilanza e la presenza di indipendenti all’interno degli organi societari dovrebbe essere garanzia di trasparenza e corretta amministrazione. Ma non sempre è così, come dimostra, tra i tanti, il caso Parmalat.

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quisiti di indipendenza previsti dalla legge. All’interno del consiglio di amministrazione viene nominato un “comitato per il controllo sulla gestione” formato soltanto da amministratori indipendenti. Nel caso di società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, il comitato deve essere formato da almeno tre membri uno dei quali (per le quotate) deve essere eletto dalla minoranza. Il comitato per il controllo sulla gestione ha sostanzialmente gli stessi compiti che, nel modello tradizionale, vengono svolti dal collegio sindacale. In particolare, vigila sull’adeguatezza della struttura organizzativa della società, del sistema di controllo interno e del sistema amministrativo e contabile. Il sistema dualistico Al pari del modello tradizionale italiano, sono previsti due organi: il consiglio di gestione incaricato dell’amministrazione e un consiglio di sorveglianza. Quest’ultimo organismo assorbe, in aggiunta alle prerogative in materia di controlli di legalità e di adeguatezza della struttura organizzativa interna propri del

I SOCI MINORI I soci minori hanno diversi strumenti per farsi sentire. Per esempio, azionisti che rappresentano almeno il 2,5% del capitale di una società possono richiedere l’integrazione dell’ordine del giorno di assemblee già convocate (art. 126-bis TUF) o addirittura imporre la loro convocazione se rappresentano almeno il 10% del capitale (art. 2367 c.c.). Inoltre, le delibere discusse all’assemblea straordinaria possono essere approvate soltanto con una maggioranza qualificata dei due terzi del capitale rappresentato (art. 2368 c.c.). Gli azionisti di minoranza possono denunciare al collegio sindacale fatti censurabili sui quali l’organo di controllo deve avviare immediate indagini. Per esercitare il diritto occorre detenere almeno il 5% del capitale sociale, una percentuale che scende al 2% nelle società quotate (art. 2408 c.c.). Gli amministratori che «abbiano compiuto gravi irregolarità nella gestione» possono essere denunciati in tribunale da quanti detengono almeno il 10% del capitale sociale, o il 5% nel caso delle società quotate (art. 2409 c.c.). In alcuni casi previsti dalla legge (art. 2437 c.c.), i soci possono esercitare il diritto di recesso, cioè possono riconsegnare le azioni alla società ricevendo in cambio un corrispettivo che, nelle società quotate, è pari alla media semestrale dei titoli. Hanno diritto a esercitare il recesso i soci che non hanno concorso alle delibere riguardanti, per esempio, la modifica dell’oggetto sociale, il trasferimento della sede, cambiamenti statutari riguardanti diritti di voto o vincoli alla circolazione delle azioni.

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ALLA RICERCA DELL’INDIPENDENZA Sempre più spesso ci si affida agli amministratori indipendenti per controllare i comportamenti dei manager esecutivi. La legge impone che vi sia almeno un consigliere indipendente in un CDA o almeno due se il consiglio è formato da più di sette membri. Ma quali caratteristiche debbono avere e come si fa ad accertarne l’effettiva autonomia, l’indipendenza nei confronti di chi ha in mano le leve del potere aziendale? Il Codice civile (art. 2399) stabilisce i requisiti essenziali dell’indipendenza ma limitatamente al sindaco oppure a un membro di un consiglio di sorveglianza (per le società che adottano un sistema dualistico di corporate governance). Il membro di un organismo di controllo, in particolare: • non deve essere fallito (o condannato a una pena che comporta l’interdizione dagli uffici pubblici); • non deve essere il coniuge o un parente (entro il quarto grado) degli amministratori esecutivi della società e di società controllanti o controllate; • non deve essere legato alla società da un rapporto di lavoro o da un rapporto continuativo di consulenza o prestazione d’opera retribuita, ovvero da altri rapporti di natura patrimoniale che ne possano compromettere l’indipendenza. Requisiti di autonomia ancora più penetranti sono stabiliti nel codice di autoregolamentazione della Borsa italiana per gli amministratori. Anche in questo caso l’indipendenza è definita “in negativo” valutando l’assenza di condizioni ostative. In particolare, non può fregiarsi del titolo chi, tra l’altro, controlla l’emittente, vi esercita un’influenza notevole o partecipa a un patto di sindacato. Oppure chi, nei tre anni precedenti, ne è stato un esponente di rilievo. O, infine, chi ha con la società (o ha avuto nell’esercizio precedente) una «significativa relazione finanziaria, commerciale o professionale». La sussistenza dei requisiti di indipendenza deve essere verificata ogni anno dai consigli di amministrazione.

Non sempre le società adottano i migliori standard di corporate governance, ma se non lo fanno devono spiegare il perché applicando la regola del “comply or explain”.

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collegio sindacale, anche compiti che nel modello tradizionale sono svolti dall’assemblea degli azionisti. Per esempio, nomina e revoca i componenti del consiglio di gestione, approva il bilancio di esercizio e il bilancio consolidato, promuove – se necessario – l’azione di responsabilità nei confronti del consiglio di gestione. E può anche chiedere informazioni al consiglio di gestione sull’andamento delle operazioni sociali e anche su determinati affari. Il consiglio di sorveglianza è composto di almeno tre membri nominati dall’assemblea degli azionisti uno dei quali, per le società quotate, dev’essere espressione delle minoranze. Tutti i membri dell’organo di controllo devono possedere i requisiti di indipendenza previsti dalla legge per i sindaci. Ciò che, in verità, contrasta con la caratteristica di “camera dei grandi azionisti e portatori d’interesse” che il consiglio di sorveglianza ha nella sua terra d’origine, la Germania. Una deroga, in Italia, è prevista per le società non quotate. In questo caso i membri del consiglio di sorveglianza sono esonerati dal rispetto della regola che impedisce la presenza di coniugi e parenti degli amministratori. Con questa disposizione il legislatore ha voluto rendere possibile il ricorso a un simile modello societario da parte di società familiari che ancora non hanno fatto la scelta di approdare al listino di Borsa. Le società di revisione Con l’entrata in vigore del Testo unico, i poteri di controllo contabili sulle società quotate sono stati sottratti ai collegi sindacali e affidati in esclusiva alle società di revisione esterne. I sindaci, in ogni caso, continuano a vigilare sui bilanci delle società non quotate in cui l’intervento del revisore esterno non è obbligatorio. Le società di revisione (di accounting, secondo la terminologia anglosassone) hanno il compito di controllare i bilanci delle società (annuale e semestrale) verificando che questi siano redatti secondo corretti criteri contabili. Il giudizio può essere positivo senza rilievi o con rilievi, oppure negativo. Infine – è il caso più grave – il revisore può trovarsi nell’impossibilità di esprimere un giudizio; in questo caso ne informa immediatamente la Consob. La certificazione dei bilanci è obbligatoria per le società quotate, per le banche, le assicurazioni e le società d’intermediazione mobiliare. Le società abilitate sono iscritte a un apposito Albo tenuto dalla Consob. I revisori sono responsabili in solido (e illimitatamente) per i danni conseguenti da propri inadempimenti. I revisori vengono nominati dall’assemblea su proposta dell’organo di controllo. Il loro incarico dura 9 anni e non può essere rinnovato alla stessa società se non sono trascorsi almeno 3 anni dalla conclusione del precedente contratto. Per evitare l’insorgere di conflitti d’interesse i revisori non possono svolgere determinati incarichi di consulenza (per esempio in tema di registra-

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zione delle poste contabili o di sistemi di controllo interno) contemporaneamente all’attività di accounting.

La mobilità del controllo In una società dall’azionariato disperso (modello anglosassone di public company) un manager che gestisce male una società viene rimosso alle assemblee dei soci o, prima della scadenza, viene costretto a fare le valigie per l’intervento di influenti investitori istituzionali (fondi comuni d’investimento o fondi pensione) o altri soci forti che fanno sentire la loro voce quando i conti aziendali non sono in linea con le loro aspettative di redditività. Ma che cosa accade quando un singolo azionista giunge a detenere una partecipazione tale da rendere la società difficilmente contendibile? In quel caso gli altri soci sono alle prese con un difficile dilemma. La società di cui erano diventati azionisti in un altro contesto, con manager che conoscevano e che apprezzavano, muta improvvisamente sotto i loro occhi. Arrivano nuovi, ingombranti padroni e con loro nuovi dirigenti, che vanno a occupare le poltrone chiave dell’impresa. Che cosa possono fare quando non si fidano dei nuovi arrivati? La disciplina dell’OPA È per dare una risposta a queste domande che è nata la disciplina delle offerte pubbliche di acquisto (OPA), un meccanismo che consente agli azionisti di una società di esercitare il diritto a cedere la propria partecipazione quando cambia “permanentemente” il controllo dell’impresa. La normativa italiana adattata alle prescrizioni della direttiva europea stabilisce che un azionista, qualora giunga a detenere una partecipazione superiore al 30% in una società quotata – una percentuale che prefigura una quota di controllo scarsamente contendibile – deve lanciare un’OPA su tutte le azioni residue disponibili sul mercato. Il prezzo al quale si impegna a ritirare i titoli deve essere almeno pari a quello al quale è avvenuto il passaggio di mano del pacchetto di controllo. Normalmente la partecipazione di maggioranza di una società viene ceduta privatamente dai vecchi proprietari convenendo con l’acquirente un prezzo superiore a quello di Borsa, incorporando così il cosiddetto “premio del controllo”. La normativa sull’OPA pertanto ottiene l’effetto di allargare all’intera platea degli azionisti i benefici del “premio”. L’offerta pubblica si definisce preventiva se, prima ancora di acquistare il controllo, chi intende scalare una società formula un’offerta di acquisto sull’insieme dei titoli. In questo caso, ovviamente, il prezzo dell’offerta è deciso libe-

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ramente. È ammessa anche la possibilità di lanciare un’offerta parziale, purché abbia per oggetto almeno il 60% del capitale sociale e l’operazione sia stata autorizzata preventivamente dagli azionisti della società bersaglio. Questi vincoli, introdotti dal Testo unico sui mercati finanziari, trovano una giustificazione per il fatto che in un’OPA parziale si può essere costretti ad adottare il meccanismo del riparto, qualora le adesioni superino il numero di azioni che l’acquirente si è impegnato a rilevare. E che pertanto i vecchi azionisti possano rimanere in possesso di titoli dei quali si intendevano liberare. Se, in seguito a una prima offerta totalitaria, lo scalatore giunge a detenere un percentuale di capitale sociale superiore al 90%, deve consentire agli altri azionisti di consegnare i propri titoli a meno che non ripristini il flottante (si veda il capitolo “Il mercato azionario”) e lanciare un’ulteriore OPA, chiamata residuale, per completate l’acquisizione. Con in mano una quota superiore al 95%, scatta addirittura il diritto all’acquisto delle azioni ancora non consegnate. Il documento informativo Un passaggio fondamentale è la pubblicazione di un dettagliato documento informativo – disponibile in banca o su internet – in cui sono precisati i termini dell’offerta, le caratteristiche dell’acquirente, i suoi programmi futuri, le prospettive di redditività dell’azienda. E anche le condizioni per il suo successo. Per esempio il raggiungimento di una determinata percentuale di capitale oppure l’autorizzazione di eventuali autorità di controllo. Per strano che possa sembrare l’obiettivo di questa informativa potrebbe essere quello di evitare che gli azionisti aderiscano alla propria offerta. Se con l’OPA si garantisce il diritto di exit agli azionisti, il suo fallimento si può interpretare come un’espressione di fiducia nei confronti del nuovo management.

Con la nuova disciplina dell’OPA è stato introdotto il “diritto al ripensamento” con la riapertura dei termini dell’offerta.

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Ovviamente, nel caso di OPA preventive (che normalmente vengono lanciate in mancanza di un accordo con il management o con coloro che in quel momento detengono le maggiori partecipazioni azionarie) si sviluppano altre dialettiche, e nella decisione di un socio di aderire o meno all’offerta, indipendentemente dal suo giudizio sugli scalatori, influisce anche la sua previsione sul successo o meno dell’assalto. Per limitare la cosiddetta “pressione a vendere” – che si manifesta quando un socio, pur giudicando insoddisfacente il corrispettivo, aderisce ugualmente per evitare di ritrovarsi con titoli poco liquidi all’indomani di un’OPA vittoriosa – i regolamenti della Consob hanno introdotto anche la possibilità di una riapertura dei termini dell’OPA, dando così agli azionisti una seconda opportunità. Le adesioni all’OPA Nel periodo di adesione all’OPA ciascun azionista si può recare alla banca presso la quale ha in custodia i suoi titoli e firmare un apposito modulo, conferendo al contempo i suoi titoli. Se l’offerta raggiunge la percentuale di capitale sociale minima indicata nel prospetto l’offerente provvederà al pagamento del corrispettivo. Diversamente le azioni saranno restituite agli originari proprietari. La legge prevede anche la possibilità di OPA concorrenti qualora un altro soggetto sia interessato al controllo della stessa società. In quel caso, ovviamente, scatta un dettagliato sistema di possibili rilanci. Con la nuova disciplina comunitaria, non soltanto le offerte pubbliche sono divenute, come abbiamo visto, più costose, ma saranno anche più difficili a farsi, soprattutto se disegnate su scala continentale e non soltanto nazionale. La nuova legge consente infatti misure difensive dalle OPA ostili (quelle non gradite dal management) da parte dei Paesi che intendano proteggere le loro aziende da attacchi sgraditi. È il risultato di una direttiva che, frutto di un laborioso compromesso, in effetti non realizza l’obiettivo di assicurare regole uguali per tutto il continente. Introduce tra l’altro un diritto alla reciprocità che ciascuno Stato può incorporare nel suo ordinamento per far sì che le sue imprese possano elevare barriere antiscalata, se chi le sta assaltando può difendersi allo stesso modo a casa sua. Così come può essere limitata la cosiddetta “regola della passività” (passivity rule) con la quale gli amministratori di una società sotto scacco non possono intraprendere misure difensive senza essere stati autorizzati dai loro azionisti riuniti in assemblea. Infine, può essere disposta una deroga anche nei confronti della regola della neutralizzazione in virtù della quale, in caso di offerte pubbliche, non hanno efficacia eventuali norme societarie per restrizioni al diritto di voto o al trasferimento dei titoli.

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Molti Paesi che hanno utilizzato le opzioni “protezionistiche” consentite dalla direttiva, per esempio la Francia e la Germania le hanno giustificate con la necessità di tutelare settori strategici dell’economia nazionale. Soprattutto dagli assalti dei nuovi protagonisti della finanza mondiale, hedge fund o fondi di private equity, che hanno risorse tali da poter assaltare gruppi di grandi dimensioni, spesso scaricando sull’oggetto delle loro attenzioni i debiti contratti per realizzare l’acquisizione. Sul fronte opposto, la contendibilità delle aziende continua a essere considerata da molti economisti un ingrediente necessario dei mercati finanziari per assicurare l’efficienza del management. Sotto questo profilo, la struttura proprietaria delle società in molti Paesi (per esempio in Italia) non incoraggia i passaggi di mano nel controllo. A fine 2010 quasi due società quotate su tre risultavano controllate, di diritto (129) o di fatto (49), da un unico azionista. I patti di sindacato Negli ultimi anni, comunque, la quota del controllo “solitario” nella capitalizzazione complessiva di Borsa è significativamente diminuita mentre, al contempo, sono cresciute le forme di controllo coalizionale realizzate (in 53 società quotate a fine 2010) attraverso un patto di sindacato. Sono così definiti quegli accordi “privati” tra azionisti, volti a dare stabilità al controllo dell’impresa oppure a garantire un diritto di prelazione. È questa una caratteristica della piazza finanziaria milanese con la quale si sono affermati col tempo modelli coalizionali di controllo. A giugno 2011 risultavano pubblicati nella banca dati della Consob 139 patti parasociali riguardanti circa la metà delle società quotate. Il Testo unico della Finanza ha imposto la pubblicità di questi accordi e il rispetto di alcune regole di condotta. Le tipologie di patti individuate dalla legge sono cinque, distinguendo tra quelli che: istituiscono obblighi di preventiva consultazione tra gli aderenti; pongono limiti al trasferimento delle azioni apportate al patto; prevedono l’acquisto concertato di titoli; hanno per oggetto un coordinamento per il voto alle assemblee sociali o, infine, l’esercizio di una “influenza dominante” sulla società. Simili accordi non possono avere una durata superiore a tre anni, ma possono essere rinnovati alla scadenza. La legge stabilisce che, in caso di offerta pubblica di acquisto, gli aderenti ai patti possono esercitare il diritto di recesso.

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Spese ed entrate dello Stato di Elia Zamboni

Di uno Stato si possono offrire numerose definizioni: storico-geografica (che privilegia il significato delle vicende che ne hanno modificato i confini nel corso degli anni), culturale (che mette in primo piano i tratti comuni delle tradizioni, della lingua e delle arti nelle diverse forme) e sociale (una forma organizzata per garantire i diritti e il benessere dei cittadini). Tutte e tre le definizioni sono vere e nessuna delle tre è separabile artificialmente dalle altre, ma indubbiamente la terza è quella più vicina alla percezione collettiva dello Stato. Forse è retorico definire lo Stato come la “grande famiglia di un popolo”, ma è proprio questa l’immagine più realistica. Ogni famiglia ha le sue regole, magari non scritte, ma morali: si preoccupa dello stato di salute dei propri componenti, crea per loro le condizioni di un benessere personale e non solo economico, cerca di costruire per i figli un futuro sereno. Per realizzare questi obiettivi ricerca prima di tutto la serenità e fa i conti con un vero e proprio bilancio economico, fatto di entrate (gli stipendi o i redditi di altre attività) e di uscite (gli alimentari, la casa, i trasporti, la salute, l’istruzione, gli imprevisti). Quando il saldo tra le entrate e le uscite è positivo (ogni famiglia è comunque “costretta” ad averlo quantomeno in pareggio) si possono destinare i risparmi a futuri investimenti. Il bilancio è sicuramente più complesso per uno Stato, se non altro per le migliaia di voci che lo compongono. Vediamole, partendo dalle entrate e passando poi al fisco con tutte le sue imposte dirette e indirette.

Come i conti di una famiglia, anche quelli dello Stato dovrebbero tornare.

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Le spese Osserviamo la società italiana. I più giovani studiano e, almeno in gran parte, frequentano scuole statali; i più anziani non lavorano più ma riescono (quasi sempre) a vivere grazie alla pensione che ricevono (che, nella maggioranza dei casi, viene erogata dallo Stato o da un ente pubblico); i più sfortunati (per esempio quelli che non possono lavorare) vengono curati in ospedali pubblici o, se non sono malati, ricevono sussidi che assicurano loro la sopravvivenza. Osserviamo ora i fatti che avvengono attorno a noi o di cui, almeno, veniamo a conoscenza. Se qualcuno deve scrivere a un’altra persona può inviare una lettera, utilizzando un servizio perlopiù gestito dallo Stato. Chi si sposta usando il treno o i mezzi locali, utilizza ancora un servizio pubblico. Cambiamo argomento. Se un individuo viene danneggiato da un altro si può rivolgere alla polizia per chiedere protezione e, contemporaneamente, può chiedere a un giudice che i suoi diritti vengano tutelati e che il colpevole sia punito. Se una calamità naturale (un terremoto, un’alluvione, una grande nevicata ecc.) colpisce una determinata regione, gli abitanti di quella zona ricevono aiuti dallo Stato. Se il territorio nazionale corre qualche pericolo, allora sono le Forze armate nazionali che si incaricano di proteggere la sicurezza dei cittadini. Il costo dei servizi pubblici In tutti gli esempi che abbiamo citato, lo Stato appare come organizzatore di servizi pubblici (la scuola, l’assistenza sociale, la sanità, l’amministrazione della giustizia ecc.) che rappresentano elementi caratteristici di qualunque Paese moderno. Tutti questi servizi, però, costano. Infatti i professori, gli impiegati, i medici, i postini, i ferrovieri, i poliziotti, i giudici, i militari sono tutte persone che devono percepire un adeguato compenso per il loro lavoro. Ma non basta: anche la costruzione degli ospedali, delle scuole, dei tribunali,

Dalla scuola alla sanità, dalla giustizia alle poste: servono ingenti sforzi finanziari per gestire i servizi pubblici.

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delle autostrade o l’acquisto dei treni, delle navi, delle armi e di tutto ciò che serve per far funzionare macchine, apparati, strumenti e via dicendo costa e, purtroppo, costa molto. I servizi pubblici, quindi, richiedono ingenti sforzi finanziari che nel loro complesso costituiscono le “spese” dello Stato. Spese che, non va dimenticato, tendono sempre più ad aumentare. Infatti uno Stato moderno, democratico e sociale (come si dice adesso) è caratterizzato proprio dal voler permettere a tutti i cittadini di condurre una vita dignitosa. Una volta, indubbiamente, i governi non si preoccupavano molto dei malati, degli invalidi o dei vecchi. In questi ultimi anni si sta inoltre sempre più affermando il principio che uno Stato, se è veramente democratico, non deve accontentarsi di guardare a ciò che succede entro i suoi confini, ma deve anche preoccuparsi della sorte di coloro che vivono in altri Paesi (soprattutto in quelli più poveri del cosiddetto Terzo mondo). Tutto ciò, però, costa, e costa molto. Questa frase l’abbiamo già ripetuta. Eppure, a rischio di essere monotoni, dovremmo tenerla sempre ben presente. È vero che in questi ultimi anni sono aumentati coloro i quali ritengono che lo Stato debba via via abbandonare alcuni settori nei quali è attualmente impiegato e per alcuni servizi – dall’energia elettrica alle telecomunicazioni, dalle poste alle autostrade – è stato avviato un processo di privatizzazione. Anche in quest’ottica è perfettamente inutile chiedere che lo Stato assuma ulteriori impegni di tipo sociale, senza tenere contemporaneamente conto del fatto che ogni richiesta di questo genere presupponga necessariamente l’impiego di ingenti oneri finanziari. Perché, se un’iniziativa costa, occorre prima di tutto pensare al modo di procurarsi i fondi necessari per la sua realizzazione. In altre parole: a ogni spesa deve corrispondere un’entrata. Sappiamo tutti che l’Italia non può essere considerata un campione di efficienza. Prima, elencando alcuni servizi pubblici, avremmo dovuto adoperare molti condizionali. Tutto ciò, però, dal punto di vista della spesa ha poca importanza. Infatti i servizi pubblici costano anche quando funzionano male o non funzionano del tutto. Anzi, a essere esatti, essi costano tanto più quanto peggio funzionano.

Le entrate Uno Stato moderno, per poter assicurare ai cittadini tutti i servizi di cui hanno bisogno, deve sostenere ingenti spese che, ovviamente, presuppongono adeguate entrate. L’avverbio che abbiamo appena usato (ovviamente) richiede forse una precisazione. Qualcuno, infatti, potrebbe ritenere che uno Stato, quando si

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tratta di assicurare i fondi necessari a coprire le sue spese, non abbia gli stessi problemi che caratterizzano qualsiasi comune mortale. Infatti, chi ignora tutto dell’economia, potrebbe pensare che poiché uno Stato ha il potere di “stampare” la carta moneta, per sostenere una nuova spesa non deve far altro che produrre nuova moneta. Nulla di più sbagliato: anche uno Stato, come qualsiasi privato cittadino, deve pagare le sue spese con moneta “buona” e, cioè, non fasulla e tirata con la fotocopiatrice. Purtroppo non è questa la sede per approfondire tale argomento, che richiederebbe, da solo, almeno un volume della stessa estensione di questo. Ci limiteremo, quindi, a pregare il lettore di concederci un po’ di fiducia e di accettare questo principio: anche uno Stato, per sostenere delle spese, deve disporre dei fondi necessari a pagarle. Uno Stato, quindi, per pagare tutti i servizi pubblici offerti ai cittadini ha bisogno di incassare. Da dove provengono le entrate? In alcuni casi si tratta di incassi che sono equivalenti a quelli di un qualsiasi privato. Per esempio, anche lo Stato possiede degli immobili che dà in affitto a terzi, riscuotendone i relativi canoni, oppure ha delle industrie i cui prodotti vengono venduti, oppure fa prestiti che vengono remunerati in base a un certo tasso di interesse, oppure ha qualche bene (fabbricati, terreni ecc.) che può vendere ad altri. Tutte queste entrate, però, sono ben poca cosa rispetto alle spese che lo Stato moderno deve sostenere. D’altra parte non va dimenticato che le stesse spese vengono sostenute a beneficio dei cittadini che sono i veri fruitori dei servizi. Morale: lo Stato non può far altro che chiedere ai cittadini tutto ciò che gli serve per poter organizzare e gestire i servizi pubblici. Entrate tributarie ed extratributarie In pratica, con questo discorso, abbiamo suddiviso le entrate pubbliche in due grandi gruppi: le prime, che potremmo considerare analoghe a quelle che ha ogni privato cittadino, e le seconde che, invece, sono caratteristiche dello Stato. Cominciamo a considerare queste ultime che, come vedremo, sono quelle più rilevanti; esse prendono il nome di “tributarie”, mentre le prime vengono chiamate, in contrapposizione alle precedenti, “extratributarie”. Un intervento di moderazione della pressione fiscale potrebbe garantire migliori condizioni per gli investimenti e lo sviluppo.

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Che cosa sono le entrate tributarie? Una prima risposta, molto vaga e, soprattutto, imprecisa, potrebbe essere questa: esse corrispondono alle tasse che devono essere pagate dai cittadini. In realtà, come vedremo, il termine “tasse” è inesatto. Esso, in linea generale, richiama alla mente figure di gabellieri che portano via qualcosa al suddito indifeso per permettere al signore di condurre una vita agiata, a spese di chi non ha alcun mezzo per far valere i suoi diritti. Oggi (in uno Stato democratico qual è quello italiano e, soprattutto, in presenza di una Costituzione che difende veramente i nostri diritti e protegge il più debole dai soprusi del più forte) la situazione è ben diversa. In particolare, poi, è proprio il termine “tasse” a essere del tutto scorretto. Tale argomento, comunque, proprio per l’importanza che riveste ai fini di una tranquilla convivenza sociale, merita un particolare approfondimento. Tasse, imposte e contributi Lo Stato, per garantire i suoi servizi, deve sostenere delle spese; queste spese, per poter essere sostenute, presuppongono delle entrate; le entrate non possono che provenire dagli stessi cittadini che sono fruitori dei servizi. Questo “circolo vizioso” ormai dovrebbe essere ben chiaro ai nostri lettori. Se, però, andiamo a osservare i servizi offerti dallo Stato vediamo che essi possono essere suddivisi in due grandi gruppi:

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servizi divisibili, offerti a un singolo cittadino che li richiede esplicitamente; servizi indivisibili, prestati all’intera collettività senza che vi sia alcuna possibilità di distinguere fra chi li richiede e chi si disinteressa di essi. L’IDENTIKIT DELLE ENTRATE

Imposte sulla produzione, consumi, dogane e monopoli: 9,41%

Lotto, lotterie ed altre attività di gioco: 2,93%

Imposte sul patrimonio e sul reddito: 53,71%

La ripartizione percentuale delle entrate nel periodo gennaio-dicembre 2010.

Tasse e imposte sugli affari: 33,95%

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Tasse e imposte Questa distinzione ci permette immediatamente di distinguere fra due diversi tributi che lo Stato richiede ai suoi cittadini:

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le tasse, che corrispondono al pagamento che deve essere fatto da un singolo cittadino per usufruire di quel particolare servizio; le imposte, che sono i tributi che lo Stato richiede per poter sostenere le sue spese indivisibili. Il nome stesso ci dice chiaramente quale sia la natura di tali somme. Poiché in questo caso si tratta di spese che non possono essere addebitate all’uno o all’altro cittadino (ma devono essere sostenute da tutti) e poiché, d’altra parte, non succede mai che un singolo richieda esplicitamente quel servizio, lo Stato, per poter trovare i fondi necessari a coprire quel genere di spese, è costretto a “imporre” (da cui il termine “imposta”) il pagamento a tutti i cittadini.

SERVIZI DIVISIBILI O INDIVISIBILI? Un classico esempio di servizio che interessa tutta la collettività, è quello garantito dalle Forze armate, servizio che però non viene esplicitamente richiesto da un particolare cittadino, né tanto meno viene svolto a favore del singolo. Si tratta, quindi, di qualcosa di indivisibile, realizzato indistintamente a favore di tutti. Da un punto di vista del costo ciò equivale ad affermare che la relativa spesa che deve essere sostenuta dallo Stato per organizzare e gestire la difesa nazionale non può essere imputata a un cittadino piuttosto che a un altro. Se consideriamo il servizio postale, ci troviamo in presenza di una situazione diametralmente opposta. In questo caso, infatti, lo Stato si preoccupa di gestire un servizio che, se in linea teorica è aperto a tutti, in realtà serve esclusivamente a coloro che intendono spedire corrispondenza, pacchi, somme di denaro e via dicendo. In altre parole, il servizio postale è perfettamente divisibile in quanto produce effetti solamente per coloro che si rivolgono all’amministrazione postale chiedendo che venga loro recapitata una lettera o un pacco o così via. In questo secondo caso, quindi, è logico che lo Stato chieda che la relativa spesa sia sostenuta solo da coloro che intendono usufruire del servizio, e non dall’intera collettività. Ma non sempre è facile stabilire se le spese relative a un servizio siano divisibili o indivisibili. Consideriamo per esempio, il servizio scolastico. Se fissiamo la nostra attenzione sull’insegnamento universitario, a prima vista saremmo portati a ritenere che le spese che lo Stato sostiene in questo settore sono perfettamente divisibili. Infatti solo chi frequenta l’università

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Questa distinzione dovrebbe essere abbastanza chiara anche se essa, proprio per la sua schematizzazione, è eccessivamente rigida rispetto alla situazione reale. Infatti, mentre sul piano teorico è abbastanza facile distinguere fra spese divisibili e indivisibili, nella realtà le cose sono meno semplici. Contributi A proposito di certi servizi giudicabili divisibili solo in prima approssimazione, come quelli di cui si parla nel riquadro di queste due pagine, le relative spese sono coperte solo in parte da specifiche tasse, mentre l’onere restante viene posto a carico della collettività e quindi coperto grazie al gettito delle imposte. In questi casi, proprio per mettere in evidenza tale caratteristica, non si usa neppure il termine tasse ma si preferisce adoperare una parola diversa: contributo. Consideriamo l’esempio pratico di una nuova autostrada. È evidente che l’ampliamento della rete viaria è un fatto che interessa l’economia di tutta la

sembra trarre vantaggio da questo fatto e, di conseguenza, le relative spese dovrebbero essere addebitate a lui che dovrebbe pagare le corrispondenti tasse (e, infatti, le somme che devono essere pagate da tali studenti prendono proprio il nome di tasse di frequenza, laurea, diploma ecc.). Se però si esamina la situazione con maggiore attenzione, ci si accorge che in realtà il fatto che in un Paese esista un’università efficiente non rappresenta un vantaggio solo per coloro che frequentano la scuola stessa e che, grazie al relativo titolo di studio, possono inserirsi nel mondo del lavoro con maggiore probabilità di successo. Una scuola efficiente favorisce l’intera collettività in quanto fa progredire la ricerca, rende competitive le imprese, migliora il livello dei servizi, permette a tutti di poter disporre di prodotti di più elevata qualità e così via. Per concludere: il servizio “scuola” è sicuramente divisibile, ma se si considerano anche gli effetti secondari che esso produce sull’intera collettività ci si accorge che sarebbe opportuno considerarlo anche di tipo indivisibile. Infatti, se da un generale innalzamento del livello di scolarizzazione di una nazione deriva un vantaggio per tutti, sarebbe ingiusto farne pagare il costo soltanto a coloro che frequentano le scuole. Il problema, in questo caso, viene risolto facendo pagare agli interessati delle tasse, che pur rappresentando un onere per i singoli che chiedono di frequentare quella particolare scuola, non coprono però esattamente il totale delle spese che lo Stato deve sostenere. In pratica, cioè, in questi casi la tassa non corrisponde all’effettivo costo, ma rappresenta solamente una parte di tale costo.

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nazione e, quindi, è giusto che tutti i cittadini ne sopportino il relativo onere. Però è anche vero che coloro che risiedono vicino al tracciato della nuova arteria (soprattutto vicino alle uscite) trarranno un vantaggio diretto maggiore di chi, invece, lavora a centinaia di chilometri di distanza. Ecco, quindi, che tutti dovranno pagare qualcosa (attraverso le imposte), però coloro i quali trarranno maggiore vantaggio dall’iniziativa dovranno pagare un ulteriore contributo. La parafiscalità Imposte, tasse e contributi costituiscono le entrate tributarie o fiscali. Da un po’ di tempo, però, si parla anche di parafiscalità, cioè di qualcosa che non dovrebbe essere riconducibile esattamente al fisco ma che, in realtà, tende sempre di più ad assumere caratteristiche di natura tributaria. Qualcosa del genere, per esempio, è avvenuto nel campo della sicurezza sociale. I fondi per la sicurezza sociale Com’è noto, ogni lavoratore, quando cessa la sua vita attiva, ha diritto a godersi il meritato riposo riscuotendo una pensione. Analogamente chi è malato deve essere curato e, soprattutto, deve poter avere i mezzi di sussistenza anche se, in quel particolare momento, non può produrre reddito. Per garantire ai cittadini tali servizi è allora necessario organizzare dei fondi che permettano di prelevare i capitali necessari nel momento del bisogno. Fondi che, però, devono essere alimentati dagli stessi lavoratori (nel momento in cui essi hanno la relativa disponibilità finanziaria). Tali fondi sono gestiti dalle assicurazioni sociali (o istituti previdenziali) che, almeno in teoria, dovrebbero autofinanziarsi. In altre parole: le somme necessarie a pagare le pensioni, le rette ospedaliere, le medicine e via dicendo dovrebbero essere pagate dagli stessi lavoratori con i loro versamenti, eseguiti trattenendo una certa percentuale dei loro stipendi. A puro titolo di cronaca diremo che, in generale, anche questi versamenti (malgrado abbiano caratteristiche abbastanza dissimili da quelle viste in precedenza) prendono il nome di contributi. Se effettivamente le cose stessero in questi termini, un fondo pensioni o un fondo malattia non dovrebbe costare nulla alla collettività, in quanto esso dovrebbe essere finanziato soltanto da coloro che in seguito beneficeranno del fondo stesso. Cioè, il mantenimento di tali fondi non dovrebbe rappresentare alcun onere per lo Stato e, quindi, non dovrebbe avere alcun punto di contatto con il fisco (che, come abbiamo detto, è quello che assicura le entrate tributarie necessarie per pagare le spese a carico dell’intera collettività). La situazione, in realtà, è molto diversa. Un’analisi, anche solo approssimati-

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va, di questi problemi richiederebbe molto più spazio di quello che abbiamo a disposizione. In questa sede, quindi, dobbiamo accontentarci di mettere in evidenza come in Italia, in realtà, i grandi istituti previdenziali pubblici non riescano a coprire le loro spese con le entrate percepite dagli stessi assicurati. Ciò porta come conseguenza che, anche in questo campo, si debba fare sempre più spesso ricorso ai finanziamenti pubblici e, quindi, all’utilizzazione di soldi “di tutti” e non dei soli beneficiari. I contributi pagati dai lavoratori, perciò, tendono sempre più a perdere le loro naturali caratteristiche per diventare vere e proprie imposte e, come tali, dovrebbero rientrare nel campo fiscale. È proprio in questo senso che ormai tutto ciò che riguarda i contributi sociali viene compreso in un generico termine di “parafiscalità”.

PREVIDENZA O ASSISTENZA? Il settore previdenziale è stato uno di quelli che, con il passare del tempo, hanno spinto alle stelle le spese dello Stato e, quindi, il debito pubblico. Per rimediare almeno in parte all’inconveniente, lo Stato è stato costretto ad aumentare sempre più i contributi sociali (per le pensioni e le malattie) pagati dai lavoratori. Morale: in certi casi i cittadini attivi sono costretti a pagare somme nettamente superiori a quelle che dovrebbero essere versate se il sistema fosse in equilibrio. In pratica succede questo: il cittadino che lavora non paga soltanto la “sua” assistenza malattia o la “sua” futura pensione, ma paga anche le cure mediche o le pensioni di chi, in passato, non ha mai versato alcun contributo. Praticamente, cioè, la previdenza si è andata confondendo sempre più con l’assistenza. Così facendo, però, si è trasformata la previdenza/assistenza in un fatto sociale, posto a carico dell’intera collettività.

La previdenza è stata al centro di numerosi interventi legislativi nel corso degli ultimi anni.

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Il fisco Gli esattori del fisco, fin dai tempi dell’impero persiano, sono stati considerati un simbolo della rapacità dello Stato che, solo per soddisfare i bisogni (o addirittura i capricci) dei signori, calpestavano qualsiasi diritto dei sudditi portando via loro anche quanto risultava indispensabile per la semplice sopravvivenza. Oggi la situazione è cambiata. Lo Stato deve sostenere delle spese che sono indispensabili perché i cittadini possano usufruire di certi servizi e, ovviamente, queste spese devono essere pagate dalla collettività. Tutti, però, hanno il diritto di sapere in che modo vengono spesi i loro soldi e, soprattutto, hanno il diritto di pretendere che gli stessi soldi non siano sprecati e che tutti, in relazione alle loro possibilità, contribuiscano alle stesse spese. I principi base È evidente che alla base di qualsiasi sistema fiscale devono essere posti dei principi, sanciti da una legge, che offrano ai cittadini tutte le garanzie possibili. Non solo, ma proprio per l’importanza dell’argomento, gli stessi principi non possono essere affermati da una legge qualsiasi ma debbono potersi rintracciare nella legge fondamentale che, come è noto, per tutti gli Stati moderni è la Carta costituzionale. Molti articoli della nostra Costituzione affermano principi che giocano un ruolo fondamentale dal punto di vista del sistema fiscale.

ADAM SMITH E I PRINCIPI DEL SISTEMA FISCALE L’economista inglese Adam Smith già nel XVIII secolo enunciò alcuni principi fondamentali relativi al sistema fiscale, che sono validi anche oggi. Eccoli: • principio della giustizia, secondo il quale ogni contribuente deve concorrere al pagamento delle spese pubbliche in funzione delle sue reali possibilità; • principio della certezza, che afferma che l’imposta non va stabilita arbitrariamente di volta in volta dallo Stato, ma deve essere fissata per legge e, soprattutto, deve essere determinata in misura tale che il cittadino sappia sempre qual è il suo onere; • principio della comodità, che prevede che il contribuente venga messo in grado di adempiere al suo dovere secondo modalità che siano le più agevoli possibili; • principio dell’economicità, che si riferisce al fatto che l’accertamento e la riscossione delle entrate tributarie devono essere realizzati in modo da avere un costo minimo al fine di rendere massimo il gettito per lo Stato.

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L’articolo 2 afferma che «la Repubblica [...] richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Ciò, quindi, vuol dire che tutti i cittadini indistintamente sono obbligati a sopperire alle necessità della collettività e, in particolare, devono partecipare al pagamento delle spese pubbliche. L’articolo 3 dice che «tutti i cittadini [...] sono eguali davanti alla legge» e, quindi, nel secondo comma afferma che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che [...] impediscono il pieno sviluppo della persona umana». L’eguaglianza davanti alla legge si traduce, dal nostro punto di vista, in eguale obbligo, da parte dei cittadini, anche di fronte al Fisco. Il fatto, poi, che la Repubblica debba rimuovere gli ostacoli economici che potrebbero impedire lo sviluppo della personalità umana, vuol dire che la legge deve cercare di eliminare le disparità e, quindi, tendere a ridistribuire il reddito fra tutti; cosa, questa, che può essere ottenuta proprio agendo sulla leva fiscale. L’articolo 23 recita: «nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge». Ecco il principio della legalità: qualsiasi tributo deve essere stabilito dalla legge, che deve fissarne presupposti, importo, modalità di pagamento ecc. L’articolo 53, infine, è quello che entra più specificatamente nel cuore del problema affermando che «tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva» e che «il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Esaminiamo, separatamente, queste due frasi che sono veramente un caposaldo del nostro sistema fiscale.

La capacità contributiva Nella prima frase dell’articolo 53 della Costituzione compare il termine “capacità contributiva”. Di che cosa si tratta? Accettato il principio che il carico tributario debba essere ripartito equamente fra tutti i cittadini, sorge il problema di come realizzare concretamente tale equità. A questo proposito i teorici hanno formulato varie teorie che, come sempre, presentano aspetti positivi e negativi. In molti casi, per esempio, si è cercato di introdurre il cosiddetto concetto del “sacrificio” che deve essere sopportato dai contribuenti, e si è dissertato intorno al tipo di sacrificio che deve essere richiesto ai diversi soggetti: se uguale o minimo o proporzionale. Altre teorie, invece, hanno preso a base un concetto totalmente diverso e, cioè, quello della capacità contributiva intesa, in linea generale, come capacità di concorrere alla spesa pubblica. Già da questa definizione emerge un primo punto importante: per poter pensare di concorrere alla spesa pubblica occorre, in primo luogo, aver già provveduto a tutti i propri bisogni di sussistenza. Ciò

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porta come conseguenza che, se è vero che l’onere tributario deve essere sopportato da tutti i cittadini, è anche vero che esso non può colpire chi non è nemmeno in grado di provvedere alla propria esistenza. In altre parole, il nostro sistema prevede la totale esenzione per i redditi minimi e tiene anche conto delle generali condizioni socio-economiche del contribuente e dei suoi carichi familiari. Tutto ciò, come vedremo, si traduce sul piano pratico in un gioco di esenzioni e detrazioni d’imposte che hanno proprio il compito di alleggerire l’onere di chi ha le minori possibilità finanziarie e di chi ha i più pesanti carichi familiari. La progressività fiscale Un’altra conseguenza dell’articolo 53 della Costituzione, esplicitamente prevista dal secondo comma dello stesso articolo, è rappresentata dal fatto che il nostro sistema impositivo è di tipo progressivo. In linea teorica un sistema impositivo può essere di tipo proporzionale (quando tutti pagano la stessa aliquota), di tipo progressivo (quando la percentuale effettivamente pagata sul proprio reddito aumenta al crescere dello stesso) e di tipo regressivo (quando la percentuale pagata diminuisce all’aumentare del reddito). La nostra Costituzione ha scelto quello che indubbiamente appare come il meccanismo più equo: il metodo progressivo che, in sostanza, afferma che colui che ha maggiore reddito deve pagare imposte calcolate in base ad aliquote più elevate. Vedremo più avanti, parlando dell’IRPEF, che cosa esattamente significhi tutto ciò. Imposte dirette e indirette Abbiamo già visto come esistano tipi completamente diversi di tributi, e precisamente, trascurando i contributi (che, come abbiamo posto in evidenza, han-

In breve Il ministero dell’Economia e delle Finanze, che è delegato alla gestione della politica tributaria, tiene ovviamente sotto controllo la dinamica delle entrate, affinché siano adeguate alla più generale politica di bilancio e perché nello stesso tempo si possano cogliere anomali scostamenti. Questa azione di monitoraggio trova una periodica rilevazione nelle statistiche mensili, che il Dipartimento per le politiche fiscali predispone e che Il Sole 24 ORE regolarmente riporta. Analogamente viene tracciato ogni anno il consuntivo dell’anno precedente; anche in questo caso Il Sole 24 ORE pubblica i dati.

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no caratteristiche tutte particolari), abbiamo parlato di tasse e imposte. Essendo le tasse direttamente commisurate al servizio richiesto dal privato all’ente pubblico, è comprensibile che il vero potere dello Stato si eserciti a proposito delle imposte. In altre parole, le considerazioni che abbiamo svolto nel precedente paragrafo a proposito dei principi che regolano l’imposizione tributaria sono valide, soprattutto, quando si parla di imposte. A questo proposito, però, sarà bene specificare che le stesse imposte a loro volta si suddividono in due grandi gruppi che prendono, rispettivamente, il nome di imposte dirette e indirette. Le imposte, per quanto detto fino a ora, dovrebbero colpire la capacità contributiva dei cittadini. Poiché tale capacità è un concetto molto astratto, occorre individuare qualcosa che traduca in termini concreti la capacità stessa. Ciò è, abbastanza facilmente, individuabile nel reddito e nel patrimonio. Ecco allora che come logica conseguenza le imposte colpiscono proprio, dal punto di vista più generale, reddito e patrimonio. Più esattamente, però, si dovrebbe dire che le imposte colpiscono i redditi perché, come vedremo, anche il concetto di reddito è troppo astratto in quanto le fonti di guadagno nella realtà possono essere di natura quanto mai variabile (e di tale natura è indispensabile tenere conto anche sul piano fiscale). Per quanto poi concerne le imposte che colpiscono il patrimonio (che vengono chiamate “imposte patrimoniali” o, più semplicemente, “patrimoniali”), va specificato che, almeno in teoria, nel nostro sistema fiscale non esistono tributi del genere in quanto tutti quelli previsti dovrebbero colpire esclusivamente i redditi. La differenza tra imposte dirette e indirette Veniamo adesso alla differenza tra dirette e indirette.

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Alcune imposte sono calcolate proprio sul reddito o sul patrimonio, cioè esse colpiscono direttamente quello che dovrebbe essere l’oggetto dell’imposizione. Esse, quindi, vengono dette dirette. Altre imposte, invece, colpiscono solo indirettamente il reddito, in quanto, agendo su quelle che si chiamano le manifestazioni del reddito, per esempio sui consumi, non vengono calcolate proprio sul reddito, ma su qualcosa che da esso deriva.

Questa, però, non è la sola differenza. Ce n’è un’altra altrettanto importante: le imposte dirette, infatti, vengono pagate allo Stato direttamente da coloro che devono sopportare il carico tributario, mentre quelle indirette possono essere pagate allo Stato anche da qualche altro soggetto che, poi, si rivale sul vero destinatario dell’imposta.

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Per concludere, ricorderemo che nel sistema fiscale italiano (come d’altra parte anche in tutti gli altri Paesi) si è assistito in questi anni a un graduale spostamento di importanza dalle imposte indirette a quelle dirette. Fino a pochi anni fa, infatti, il maggiore gettito per le casse dello Stato era assicurato dalle indirette. Via via il rapporto è cambiato e oggi si è totalmente capovolto. Basta un solo dato per comprendere quale sia la situazione: in Italia nel 1970 il gettito delle imposte dirette non arrivò al 30% del totale, oggi, invece, le stesse dirette assicurano la maggioranza del gettito.

Le riforme tributarie La prima riforma in Italia fu quella operata da Quintino Sella nel 1861-62, che ebbe il compito di riunificare i molteplici sistemi fiscali vigenti nei vari Stati. Altre riforme furono fatte successivamente, ma in realtà il sistema tributario italiano rimase inadeguato e, soprattutto, legato a principi che non tenevano conto dell’evoluzione della società italiana che, superata la fase prettamente agricola, tendeva a diventare sempre più una società industriale. Così, con la fine della seconda guerra mondiale, la proclamazione della Repubblica e l’emanazione della nuova Costituzione, si sentì sempre più la necessità di rivedere completamente l’intero sistema e da allora si sono susseguite una serie di riforme. Vediamole sommariamente fino ad arrivare alla situazione attuale. Anni Cinquanta Nel 1951 viene introdotta l’obbligatorietà della dichiarazione annuale dei redditi dal ministro delle Finanze Ezio Vanoni. Anni Settanta È la prima vera riforma organica e complessiva. Varata ufficialmente nel 1971, compie una vera rivoluzione nel campo delle imposte dirette. Vengono aboliti vecchi tributi e al loro posto introdotti IRPEF, IRPEG, ILOR eccetera. Meno rivoluzionaria, la riforma nel settore delle imposte indirette, dove alcuni vecchi tributi vengono mantenuti (come per esempio le imposte sulle successioni e donazioni, di registro, di bollo ecc.) ma che vede la comparsa dell’IVA (imposta sul valore aggiunto) al posto l’IGE (imposta generale sulle entrate). Anni Novanta La riforma degli anni Settanta non riesce a raggiungere gli obiettivi che si era prefissa e ancora oggi si può dire che nessun intervento generale e organico è

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stato adottato per correggere l’inefficienza del nostro sistema fiscale. Comunque nel 1997, il Parlamento delega il Governo a emanare norme che su alcuni punti specifici ritoccano profondamente la legislazione tributaria. Gli obiettivi erano il riequilibrio e la razionalizzazione del prelievo, nonché la riorganizzazione dell’amministrazione finanziaria, anche per avviare un’efficace azione di contrasto all’evasione fiscale. La cosiddetta “riforma Visco” – dal nome del ministro che realizza l’operazione – appare, per così dire, ancora in cantiere. Seppur tracciata nelle sue linee essenziali e operativa dal 1998, subisce dal principio numerosi interventi correttivi. Vediamo le novità di maggiore rilievo: • viene realizzata l’unificazione di versamenti e dichiarazioni fiscali. Anche grazie a questa novità i contributi possono ora compensare i debiti e i crediti fiscali e contributivi; • viene avviato un processo di unificazione delle basi imponibili ai fini fiscali e previdenziali; • viene introdotta un’unica certificazione per attestare al dipendente i redditi percepiti, le ritenute subite e i contributi versati dal datore di lavoro; • vengono completamente rivisti i criteri e il sistema di applicazione delle sanzioni amministrative; • viene istituita l’IRAP (imposta regionale sulle attività produttive) e riordinate le aliquote, gli scaglioni e le detrazioni dell’IRPEF. Per l’ICI e altri tributi locali viene avviato un processo di riforma per attribuire maggiore autonomia agli enti locali; • viene riordinata la tassazione dei redditi da capitale. Tutte le tipologie di reddito (plusvalenze e interessi) fino al 31 dicembre 2011 sono state tassate con la ritenuta del 12,50% ed è riconosciuta la piena compensazione delle eventuali perdite. Dal 1° gennaio 2012 tutto viene uniformato al 20% con la sola

Nella riforma presentata nell’estate 2011 vi è la proposta di una riduzione del numero di imposte e aliquote.

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esclusione dei titoli di Stato che restano al 12,50%. Il contribuente può scegliere fra tre metodi di tassazione: il regime del risparmio gestito, quello del risparmio amministrato e quello della dichiarazione. • viene ridefinita la disciplina fiscale degli enti non commerciali del settore non profit e delle onlus, le organizzazioni non lucrative di utilità sociale. Primi anni Duemila Ogni Governo imposta una sua politica fiscale, adattandola anche alle esigenze della finanza pubblica. Durante il secondo Governo Berlusconi (2001-06), il Parlamento approva un provvedimento molto ambizioso che mira a un riordino complessivo e radicale del sistema fiscale. Gli obiettivi sono, da un lato, la semplificazione e la razionalizzazione delle leggi tributarie, per approdare a un sistema basato su cinque sole imposte, dall’altro la riduzione della pressione fiscale. In realtà, il progetto rimane in gran parte sulla carta, con la sola eccezione della nuova imposta sulle società (che ha sostituito l’IRPEG) e dell’avvio della riforma dell’IRPEF. A quest’ultimo riguardo, due successivi interventi legislativi (nel 2003 e nel 2005) hanno rimodulato i meccanismi del prelievo sulle persone fisiche, senza tuttavia mai approdare a un sistema basato su due sole aliquote (23% fino a 100.000 euro di reddito e 33% oltre questa soglia) come prevedeva la delega fiscale. Il primo modulo della riforma prevedeva, anche l’introduzione di un’area di esenzione (la cosiddetta no-tax area), la previsione di una clausola di salvaguardia e nuove deduzioni d’imposta. Il secondo modulo ha invece portato vantaggi per i contribuenti con redditi medio-alti. Quanto alle società, dal 1° gennaio 2004 è stata introdotta l’IRES (imposta sul reddito delle società) che è andata a sostituire l’IRPEG e che ha eliminato la DIT (dual income tax). Viene introdotta un’aliquota unica (attualmente del 33%), oltre alla tassazione consolidata di gruppo e a una serie di norme rivolte a contrastare la sottocapitalizzazione delle imprese. Con l’entrata in carica del Governo Prodi, nel maggio del 2006, si provvede a un nuovo intervento sull’IRPEF, con l’intento di alleggerire il prelievo sui redditi medio-bassi. Con l’entrata in carica del terzo Governo Berlusconi, nel maggio 2008, l’intervento più rilevante riguarda la soppressione totale dell’ICI sulla prima casa, che porta al completamento un percorso già avviato dai governi precedenti (con il Governo Prodi, l’imposta comunale sugli immobili era stata di fatto cancellata per il 60% dei proprietari di abitazione principale). Allo stesso tempo sono state gettate le basi per il federalismo fiscale, un meccanismo che consentirà a regime una maggiore autonomia finanziaria a

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Regioni ed enti locali, a fronte della richiesta di una più elevata responsabilizzazione sul fronte delle spese. All’interno del federalismo municipale (il decreto attuativo relativo alla fiscalità dei Comuni) è stata introdotta anche la cedolare secca sugli affitti: il prelievo sui canoni proprietari di immobili locati prevede due aliquote, una al 21% per il canone libero e una al 19% per il canone concordato.

Le imposte dirette IRPEF L’incontrastata dominatrice del panorama fiscale italiano continua a essere l’IRPEF, cioè l’imposta sui redditi delle persone fisiche. Almeno due diverse ragioni giustificano questa asserzione. In primo luogo, infatti, va notato che è proprio l’IRPEF l’imposta che colpisce (o meglio, come vedremo, che dovrebbe colpire) l’intero reddito di tutti i cittadini con un prelievo progressivo. In questo senso, quindi, è proprio l’IRPEF l’imposta che realizza il principale dettato costituzionale in tema di equità fiscale. In secondo luogo va osservato che è sempre questa imposta quella che, concretamente, produce il maggiore gettito per le casse dello Stato. Esaminiamo adesso le caratteristiche di questo tributo che è nato per effetto del DPR 597 del 1973 ma che, da allora, ha subito profonde modifiche. Modifiche che sono state raccolte nel Testo unico delle imposte sui redditi approvato col DPR 917 del 1986, che tuttavia, nel corso dei suoi quindici anni circa di vita, ha sopportato svariate centinaia di modifiche.

Nel Fisco del futuro una diversa modulazione delle imposte indirette dovrebbe garantire l’attenuazione delle aliquote dell’imposta sul reddito.

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DETRAZIONI DI IMPOSTA E DEDUZIONI DAL REDDITO Le detrazioni di imposta, veri e propri sconti accordati dalla vigente legislazione, sono quelle che hanno il compito di alleggerire il carico fiscale per i contribuenti che hanno i redditi minori e per quelli che hanno i più pesanti carichi familiari. Basti, per esempio, ricordare che c’è una specifica detrazione concessa a chi ha la moglie a carico, e altre che aumentano al crescere del numero dei figli minorenni o inabili al lavoro. Il fisco, inoltre, riconosce un valore particolare ad alcune spese effettuate dai contribuenti. E di fronte a determinati esborsi consente di ottenere uno sconto fiscale. A volte – specificatamente nel caso degli oneri deducibili – ciò avviene attraverso la riduzione del reddito imponibile sul quale calcolare l’IRPEF. Così, per esempio, vengono sottratti dal reddito i contributi previdenziali obbligatori. Oppure non concorrono alla formazione del reddito (e vengono quindi dedotte) le erogazioni liberali a favore di istituzioni religiose e i contributi per i Paesi in via di sviluppo. Altre volte, invece – e siamo nel caso delle spese che danno diritto a una detrazione – lo sconto deriva da una riduzione dell’imposta da versare. Gli interessi passivi pagati per il mutuo contratto per acquistare o costruire l’abitazione principale danno diritto a una detrazione; le spese sanitarie e farmaceutiche non rimborsate dal Servizio sanitario nazionale danno lo stesso diritto, così come accade per le spese di istruzione, solo per citare alcuni esempi. Il sistema degli sconti e delle agevolazioni sarà sottoposto a una profonda revisione. La manovra estiva 2011 ha fissato un percorso per la razionalizzazione dei regimi di esenzione, esclusione e favore fiscale che si sovrappongono alle prestazioni assistenziali. Così, se entro il 30 settembre 2013 non saranno stati approvati i decreti della delega fiscale delineata dal Governo proprio con la manovra estiva 2011, scatterà un taglio lineare su tutte le agevolazioni fiscali a favore di persone fisiche e imprese: le attuali 483 tax expenditures dovranno essere ridotte del 5% nel 2013 e del 20% nel 2014, per un totale stimato, rispettivamente, di 4 e 20 miliardi di euro.

Com’è strutturato L’IRPEF è un tributo che deve essere pagato da tutte le persone fisiche residenti nello Stato italiano (quindi anche dagli stranieri che vivono abitualmente nel nostro Paese), da quelle non residenti in Italia per la parte di reddito prodotto nel nostro Paese. L’imposta deve essere pagata sul reddito complessivo netto, vale a dire sull’insieme dei redditi prodotti da ogni singola persona, dopo aver però detratto le spese che hanno permesso la produzione dello stesso reddito. Tali spese possono essere:

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calcolate analiticamente come, per esempio, succede per gli imprenditori individuali e i professionisti che possono togliere dai loro incassi e dai ricavi gli stipendi pagati ai dipendenti, le spese sostenute per la gestione dello studio e per l’acquisto delle relative macchine eccetera; calcolate forfettariamente in base a una certa percentuale variabile a seconda della professione o attività esercitata (questo sistema, introdotto in un secondo momento, prende il nome di “sistema forfettario” e interessa imprenditori e professionisti di minori dimensioni); determinate per legge in misura fissa (è quello che succede per i lavoratori dipendenti).

Va comunque precisato che la legislazione considera diverse classi di redditi per ognuna delle quali stabilisce norme diverse di calcolo ed, eventualmente, agevolazioni differenti. I diversi redditi sono:

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fondiari (derivanti dal possesso di terreni e fabbricati); da capitali (derivanti dal possesso di azioni, di depositi ecc.); da lavoro (suddivisi nei due grandi gruppi: da lavoro “dipendente” e da lavoro “autonomo”); da impresa (caratteristici di chi gestisce un’attività commerciale o industriale); diversi (quelli non rientranti nelle precedenti categorie). Come si calcola

Il meccanismo di calcolo dell’IRPEF è il seguente:

• • •



si considera ogni singolo reddito calcolando il relativo imponibile in base alle norme vigenti, e tenendo talvolta conto delle relative spese di produzione; si sommano tutti i redditi arLE ALIQUOTE DEL 2011 rivando a quello complessivo; si tolgono dal precedente Aliquota ammontare altre speciali Fino a 15.000 euro 23% spese (oneri deducibili) speDa 15.000 fino a 28.000 euro 27% cificatamente previste dalla Da 28.000 fino a 55.000 euro 38% Da 55.000 fino a 75.000 euro 41% legge ottenendo il reddito Oltre 75.000 euro 43% complessivo imponibile; L’aliquota superiore si applica sulla fascia di reddito si calcola l’IRPEF corrisponche supera la soglia dell’aliquota precedente. Così per un dente al suddetto imponibile reddito di 100.000 euro a essere assoggettati al 43% utilizzando la tabella delle saranno 25.000 euro mentre 75.000 sono compresi aliquote in vigore (è proprio negli scaglioni precedenti.

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questa tabella che, introducendo percentuali sempre più alte al crescere del reddito, realizza la progressività); dall’imposta ottenuta al punto precedente (imposta lorda) si tolgono le cosiddette detrazioni d’imposta, ottenendo così alla fine l’IRPEF netta, che è quella che deve essere versata allo Stato.

I due elementi che garantiscono il rispetto del dettato costituzionale sono la tabella delle aliquote (che, come abbiamo detto, assicura la progressività) e le detrazioni d’imposta. La dichiarazione dei redditi L’obbligo tributario ai fini IRPEF si assolve presentando la propria dichiarazione dei redditi (il famoso modello Unico) e versando direttamente allo Stato l’imposta dovuta. La scadenza per tale adempimento è fissata di anno in anno, tra giugno e luglio dell’anno successivo a quello nel quale i redditi sono stati prodotti. Lavoratori dipendenti, pensionati e collaboratori coordinati e continuativi possono presentare la loro dichiarazione dei redditi (che prende il nome di modello 730) ad appositi CAF, centri di assistenza fiscale, con il vantaggio di vedersi subito riconosciuta in busta paga o nell’assegno della pensione la compensazione tra debiti e crediti fiscali. Il rimborso, quindi, viene erogato direttamente dal datore di lavoro o dall’ente previdenziale. In realtà il momento di presentazione della dichiarazione dei redditi non coincide con il pagamento di tutta l’imposta dovuta. Infatti, al fine di avvicinare al massimo il pagamento dell’imposta alla produzione del reddito, sono state introdotte specifiche norme che prevedono trattamenti diversi per differenti redditi. Così, per esempio, ai lavoratori dipendenti l’imposta viene direttamente trattenuta dal datore di lavoro mese dopo mese; molti lavoratori autonomi, all’atto del pagamento di una parcella, subiscono una trattenuta di acconto; tutti i titolari di redditi diversi da quelli da lavoro dipendente devono pagare un acconto entro il mese di novembre sui redditi prodotti nello stesso anno. Su questo punto, comunque, torneremo più avanti, quando parleremo della cosiddetta autotassazione. La dichiarazione dei redditi rappresenta tradizionalmente l’atto più importante nel rapporto che lega i contribuenti allo Stato: il cittadino presenta ogni anno i suoi redditi, riporta le ritenute che sono state operate, espone gli oneri deducibili ed eventuali crediti d’imposta, provvede a saldare i conti se le ritenute operate sono state inferiori a quelle dovute, o chiede il rimborso se ha pagato più del necessario.

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Le riforme fiscali La riforma entrata in vigore nel 1998 ha modificato le abitudini dei contribuenti impegnati nella presentazione delle dichiarazioni fiscali e con i relativi pagamenti.





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Unificazione delle dichiarazioni: i contribuenti presentano un solo modello di dichiarazione che raccoglie al suo interno la denuncia dei redditi, dell’IVA, dell’IRAP, dei sostituti d’imposta (solo per i soggetti che hanno fino a un certo numero di sostituti) e dei dati previdenziali. Presentazione della dichiarazione: i modelli devono essere consegnati alle poste, alle banche convenzionate, ai CAF oppure ai professionisti abilitati. I contribuenti possono anche presentare il modello di dichiarazione all’agenzia delle Entrate attraverso internet. Servizio telematico: sono i soggetti elencati sopra a trasmettere in via telematica la dichiarazione fiscale all’Agenzia delle Entrate. Modalità di controllo: l’invio telematico dei modelli consente all’amministrazione di acquisire i dati delle denunce praticamente in tempo reale, e quindi di controllare in modo più efficace i modelli. Inoltre, sono gli stessi intermediari abilitati alla trasmissione telematica che verificano la correttezza formale delle dichiarazioni già nella fase di presentazione. IL SERVIZIO TELEMATICO PER IL MODELLO UNICO Il modello Unico deve pervenire all’amministrazione finanziaria attraverso il servizio telematico. In pratica, l’acquisizione della denuncia fiscale da parte dell’Agenzia delle Entrate avviene in via telematica (per la precisione, attraverso la rete di internet). Ciò ha prodotto grandi vantaggi all’amministrazione perché, grazie all’invio on line del modello Unico, il ministero può disporre in tempi molto rapidi di tutti i dati delle singole dichiarazioni, così da velocizzare notevolmente sia la fase della liquidazione (vale a dire il calcolo delle imposte dovute) sia quella del controllo delle denunce stesse. Per il contribuente ciò comporta l’obbligo di consegnare il modello: • a uno sportello bancario o postale; • a un intermediario abilitato (professionisti, associazioni di categoria, CAF). In entrambi i casi, la località di consegna del modello è assolutamente svincolata dalla residenza o dal domicilio fiscale del contribuente, il quale può effettuare questa operazione presso un qualsiasi sportello o un qualunque presso qualsiasi intermediario, senza riguardo alla propria residenza; • direttamente tramite il servizio internet “Uniconline” dell’Agenzia delle Entrate.

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Unificazione dei versamenti: tutti i pagamenti al fisco e agli enti previdenziali sono unificati. Per i pagamenti deve essere utilizzata una delega chiamata modello F24. È inoltre possibile rateizzare i versamenti relativi alle dichiarazioni annuali. Compensazione tra debiti e crediti: tutte le imposte versate con l’F24 possono essere compensate tra loro. In pratica, tutti gli importi a credito del contribuente possono essere utilizzati per pagare i debiti fiscali e contributivi. Dal 2007, la possibilità di compensare debiti e crediti è stata estesa per tutti i contribuenti anche all’ICI (imposta comunale sugli immobili). Per evitare un ricorso indebito a questa opportunità, nell’ultimo biennio sono state introdotte regole più stringenti e dal 1° gennaio 2011 è scattato il divieto di compensazioni in presenza di debiti tributari per cartelle esattoriali scadute e non pagate oltre 1.500 euro.

IRES Fino al 31 dicembre 2003 andava considerata l’imposta sul reddito delle persone giuridiche (IRPEG) che, come dice il nome, era un tributo analogo all’IRPEF, con la differenza fondamentale che colpiva le persone giuridiche, cioè le società (per azioni, in accomandita per azioni, a responsabilità limitata) e le cooperative residenti in Italia o che svolgono, anche solo in parte, la loro attività nel nostro Paese.

LARGO ALLE “AGENZIE” Dall’inizio della XIV legislatura, il ministero delle Finanze è andato in pensione. O meglio: è stato accorpato con il ministero del Tesoro. Il nuovo “soggetto” ha quindi preso il nome di “ministero dell’Economia e delle Finanze”. La struttura che si occupa, in particolare, delle Finanze, è diventata il Dipartimento per le politiche fiscali. Inoltre, con i provvedimenti di riforma delle amministrazioni dello Stato sono stati creati quattro nuovi organismi di gestione, denominati Agenzie – Entrate, Dogane, Territorio, Demanio – che svolgono le attività tecnico-operative che prima erano di competenza del ministero delle Finanze. In particolare, tutte le funzioni relative alle gestione, all’accertamento e alla riscossione dei tributi – precedentemente svolte dal Dipartimento delle entrate del ministero – sono ora state affidate all’Agenzia delle Entrate, a cui è stata affidata un’ampia autonomia regolamentare, amministativo-patrimoniale, organizzativa e finanziaria. L’Agenzia svolge la propria attività sulla base di una convenzione con il ministero dell’Economia e delle Finanze ed è soggetta al controllo contabile della Corte dei conti.

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Dal 1° gennaio 2004 l’IRPEG è stata sostituita dall’IRES (imposta sul reddito delle società). Non è cambiato il principio generale per determinare la base imponibile, che continua a essere fondato sull’utile dichiarato nel conto economico. Sono, però, state introdotte numerose novità che vanno a modificare il calcolo dell’imponibile. Innanzitutto è stata introdotta un’aliquota d’imposta unica (nel 2009 fissata nella misura del 27,5%); inoltre è stata eliminata la DIT (dual income tax) oltre all’imposta sostitutiva sulle operazioni societarie straordinarie (fusioni, scissioni, conferimenti ecc.) alle quali si applicano le regole fiscali ordinarie. Oltre a un nuovo regime di tassazione dei dividendi e delle plusvalenze viene introdotta la tassazione consolidata di gruppo. Per contrastare la sottocapitalizzazione delle imprese, sono stati introdotti meccanismi di sorveglianza particolari, che possono impedire quelle forme di finanziamento da parte dei soci attuate solo per ottenere un vantaggio fiscale. Infine, va segnalata l’introduzione della participation exemption, in base alla quale diventano irrilevanti ai fini fiscali le plusvalenze realizzate su partecipazioni societarie. IRAP Con il decreto legislativo 446/97, attuativo della legge 662/96, è comparsa sulla scena fiscale una nuova imposta con un forte connotato federalista. Si tratta dell’IRAP, nuovo tributo regionale in sostituzione di un numero consistente di altri tributi e contributi. È stata infatti prevista, a partire dal 1998, la soppressione di: contributi sanitari, tassa sulla salute, imposta locale sui redditi (ILOR), imposta comunale per l’esercizio di imprese e di arti e professioni (ICIAP), tassa sulla concessione governativa per l’attribuzione del numero di partita IVA, imposta sul patrimonio netto delle imprese.

IRAP E RIPARTIZIONI REGIONALI Il reddito tassato è quello prodotto nella regione. Se un’impresa svolge l’attività produttiva presso stabilimenti e uffici dislocati nel territorio di diverse regioni, la regola generale da adottare è quella della ripartizione della base imponibile tra le varie regioni in proporzione al costo del personale dipendente operante presso i diversi stabilimenti e uffici. La dichiarazione deve essere unica ai fini dell’IRAP e delle imposte dirette. Pertanto la presentazione delle dichiarazioni deve essere effettuata all’amministrazione finanziaria e il versamento deve avvenire secondo le scadenze usuali.

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L’IRAP si applica indipendentemente dalla forma giuridica, dal tipo di attività e dalla destinazione dei beni o dei servizi prodotti. Sono quindi colpiti: imprese, artisti e professionisti, enti commerciali, enti non commerciali pubblici e privati, Stato e amministrazioni locali, produttori agricoli. Tuttavia, la Corte costituzionale – con un’importante sentenza, la n. 156 del 2001 – ha fissato un principio che potrebbe cambiare profondamente i criteri di applicazione dell’imposta. In particolare, la Corte, pur riconoscendo la legittimità dell’IRAP, ha sollevato dubbi sulla sua applicazione ai professionisti senza “autonoma organizzazione” (per esempio, quelli che non hanno dipendenti oppure dispongono di dotazioni strumentali di scarsa rilevanza). Il legislatore non è mai intervenuto per chiarire che cosa si debba intendere con tale espressione. Il risultato è un enorme contenzioso: dal 2005 a oggi, oltre un milione di contribuenti ha chiesto il rimborso dell’imposta pagata all’amministrazione finanziaria per un valore complessivo di oltre 2 miliardi di euro. In moltissimi casi, a dare concretezza alla decisione della Corte costituzionale ci hanno pensato i giudici della Corte di cassazione che hanno addirittura allargato ad altri contribuenti – gli agenti di commercio, per esempio, o le micro-imprese come piccoli artigiani, tassisti, coltivatori diretti – le aperture fatte dalla Consulta verso i professionisti. Resta però il fatto che, a oggi, per i “piccoli contribuenti”, l’unica via per non pagare l’imposta è quella del contenzioso fiscale.

Ogni lunedì in allegato al Sole 24 ORE, “L’esperto risponde” ai quesiti dei lettori sui temi più svariati.

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Per quanto concerne la base imponibile, si deve segnalare che è un’imposta che colpisce il valore aggiunto: non essendo i percettori di redditi da lavoro dipendente e i collaboratori soggetti passivi d’imposta, i compensi a loro erogati non sono deducibili. Pertanto, semplificando, la logica dell’IRAP porta a determinare una base imponibile come somma tra gli utili, il costo del personale dipendente e gli interessi passivi. Un’ulteriore questione che si profila all’orizzonte è quella della deducibilità dell’IRAP dalle imposte dirette. La legge istitutiva dell’imposta stabilisce che l’indeducibilità dell’IRAP da IRES e IRPEF. Tuttavia, sulla questione è atteso il giudizio della Corte costituzionale che, se favorevole alle tesi dei contribuenti, potrebbe introdurre il principio della deducibilità dalla base imponibile delle imposte dirette. Vale la pena di ricordare che con una legge approvata a fine 2008, i contribuenti possono già dedurre dall’imponibile delle imposte dovute una quota forfettaria pari al 10% dell’IRAP pagata. Dal 2008, l’aliquota ordinaria di imposta è pari al 3,9%. Le Regioni hanno la facoltà di modificare, entro certi limiti, la misura del prelievo e di prevedere esclusioni per particolari soggetti. Maggiorazioni dell’aliquota IRAP sono applicate, come sanzioni fiscali, nelle Regioni che hanno maturato un extra-deficit in campo sanitario. ICI Dal 1993, con la riforma dei trasferimenti statali agli enti locali, questi ultimi vengono responsabilizzati con la restituzione di un’autonomia impositiva che poggia sull’introduzione dell’ICI (imposta comunale sugli immobili) che colpisce fabbricati, terreni agricoli e aree fabbricabili. La misura del prelievo è stabilita dai singoli comuni, all’interno di una “forchetta” di aliquote che ha il 4 per mille del valore catastale come minimo e il 7 per mille come massimo. RIDUZIONI E AUMENTI DELLE ALIQUOTE ICI Con la riforma sugli affitti (n. 431/98) è stato stabilito che ogni comune può deliberare aliquote ICI più favorevoli per i proprietari di immobili che siano affittati come abitazione principale sulla base dei contratti tipo, concordati in sede locale tra le organizzazioni sindacali dei proprietari e degli inquilini. In questi casi il Comune ha la facoltà di ridurre l’aliquota ICI anche al di sotto del 4 per mille. Il Comune può però decidere di penalizzare i proprietari di immobili non affittati, aumentando l’aliquota ICI anche oltre il massimo del 7 per mille. L’aumento dell’aliquota ICI – fino a un limite massimo del 9 per mille – può però essere stabilito solo a determinate condizioni: il rincaro dell’imposta, infatti, potrà essere deciso solo per gli immobili non affittati per i quali non risultano essere stati registrati contratti di locazione da almeno due anni.

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Come accennato, con l’entrata in carica del nuovo Governo Berlusconi, nel maggio 2008, è stata definitivamente soppressa l’ICI sulla prima abitazione. L’imposta continua, quindi, a esistere – si calcola che generi un gettito di quasi 8 miliardi euro – ma non deve essere più pagata dai proprietari della sola abitazione principale.

Le imposte indirette: IVA e dintorni Come abbiamo accennato prima, le imposte indirette non colpiscono direttamente il reddito ma soltanto le sue manifestazioni. La principale imposta indiretta del nostro sistema tributario è l’imposta sul valore aggiunto (IVA). Per l’entità del gettito e per l’estensione della platea dei contribuenti che la devono pagare (tutti i consumatori e, quindi, tutti i cittadini) l’IVA è il secondo tributo, in quanto viene immediatamente dopo l’IRPEF. IVA Prima di parlare dell’IVA, però, meglio introdurre il concetto di “valore aggiunto”. Consideriamo un artigiano che produce un certo bene. Per poter realizzare i suoi prodotti deve sostenere delle spese e, alla fine, vendendo quanto ha costruito, ricava una certa cifra. Supponiamo che quell’artigiano per produrre un singolo oggetto che vende a 100 debba spendere 70. Ecco, in queste due cifre è contenuto il concetto di valore aggiunto. Partendo da 70, grazie al suo lavoro, quell’artigiano ha venduto per 100. Quindi, il suo lavoro ha aggiunto agli iniziali 70 altri 30, portando il valore del tutto a 100. Il valore aggiunto perciò è proprio quel 30, cioè la differenza fra il prezzo di vendita (100) e le spese sostenute (70). L’IVA è proprio il tributo che colpisce tale valore aggiunto. Cioè va pagata su quel 30 di cui si è detto sopra. A questo punto, però, sorge un problema. Come si può praticamente far pagare il tributo solo sul valore aggiunto? La soluzione apparentemente più semplice dovrebbe essere quella di seguire un ragionamento analogo a quello da noi fatto nel nostro esempio. Cioè, calcolare il valore aggiunto introdotto da un certo produttore e, quindi, applicare la relativa aliquota su tale valore. In realtà, però, tale procedimento risulterebbe molto complicato e, soprattutto, avrebbe un difetto di fondo. Vediamo di che cosa si tratta riprendendo in esame il nostro esempio precedente. Avevamo detto che quell’artigiano spendeva 70. Supponiamo per semplicità che quell’artigiano avesse sostenuto tutta la sua spesa di 70 comprando qualcosa da un unico fornitore. Ma anche questo, a sua volta, avrebbe avuto un suo

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LE ALIQUOTE IVA L’IVA è un’imposta proporzionale. Esistono però aliquote diverse a seconda dei beni e servizi. Con la legge finanziaria per il 1998 è stata profondamente modificata la struttura delle aliquote, al fine di uniformarla alle previsioni comunitarie. Quel provvedimento ha infatti offerto l’occasione per avviare un processo di armonizzazione generale con l’Unione europea, anche sulla collocazione dei diversi prodotti o servizi all’interno delle tre aliquote (che in precedenza erano quattro: 4, 10, 16 e 19%). • Aliquota super ridotta: vi rientrano tutti i beni di prima necessità, ovvero latte, pane, burro, margarina, olio, formaggio, pasta, frutta fresca, libri, prime case non di lusso e giornali. • Aliquota ridotta: in questa fascia sono stati collocati zucchero, salse, brodi, zuppe, cereali soffiati, spezie, insieme a tè, miele, pesce fresco, crostacei (a eccezione di aragoste, astici e ostriche, passati al 21%), gas metano per cottura cibi, farmaci, carni bovine e suine. • Aliquota ordinaria: riguarda calzature, prodotti tessili, abbigliamento, materiali per edilizia, dischi, nastri, vino e lavori di edilizia, birra, caviale, benzina, metano per auto, oro e preziosi, pellicceria, software, televisori, sigarette e tabacchi, tappeti orientali, elettrodomestici, telefono fisso e telefonino. La manovra estiva del 2011 ha aumentato l’aliquota ordinaria, che è passata dal 20 al 21%, mentre sono rimaste invariate le altre due: 4% per la super ridotta e 10% per la ridotta.

valore aggiunto. Diciamo, per esempio, che costui ha venduto a 70 ciò che ha pagato 50 (cioè ha aggiunto, a sua volta, un valore di 20). Per concludere la catena, supponiamo che colui il quale ha venduto al fornitore dell’artigiano la merce del valore di 50 non abbia speso nulla e, quindi, quel 50 per l’ultimo anello di questa catena sia tutto valore aggiunto. A questo punto veniamo all’imposta. Il primo vende la merce a 50 e, non avendo speso niente, calcola l’imposta su tutto il 50. Il fornitore dell’artigiano, quindi, paga l’IVA su 50 e aggiunge un valore di 20. L’artigiano compra pagando 70, ma paga l’IVA solo su 20. Infine, quando il consumatore finale compra dall’artigiano a 100, paga l’imposta su 30 che costituisce il valore aggiunto dall’artigiano. In definitiva, quindi, l’imposta su quell’importo di 100 è stata pagata da tre persone: dal fornitore dell’artigiano (su 50), dall’artigiano (su 20) e dal consumatore (su 30). Ma l’IVA, in quanto imposta (anche se indiretta), deve colpire il reddito (o, meglio, la manifestazione del reddito) e dunque va pagata dal consumatore in quanto tutto il ciclo di produzione è stato compiuto per far arrivare a lui quel bene (infatti è stato lui alla fine a pagarne tutto il valore complessivo).

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Per ottenere il risultato di far pagare tutta l’imposta al consumatore finale, l’IVA funziona nel modo seguente. Ogni anello della catena paga l’IVA su tutto il valore di ciò che acquista, e la incassa su tutto il valore di ciò che vende. A scadenze prefissate, poi, versa allo Stato la differenza fra IVA incassata e pagata. Il consumatore finale, invece, non può far pagare a nessun altro l’IVA che lui stesso ha sborsato. Le altre imposte indirette Oltre a quelle che elenchiamo di seguito, nell’insieme delle imposte indirette rientrano alcune fra le più celebri imposte richieste dallo Stato: per esempio, quelle relative alle cosiddette concessioni governative (riguardanti il rilascio di patenti, licenze, brevetti); all’abbonamento a radio e televisione; alla circolazione di autoveicoli, motoveicoli, natanti eccetera. A essere esatti questi tributi, nella maggioranza dei casi, dovrebbero essere chiamati tasse e non imposte, ma i limiti fra l’una e l’altra sono abbastanza vaghi.

Successioni e donazioni Abolita dalla legge 18 ottobre 2001, n. 383, con la Finanziaria del 2007 la tassa sulle successioni e sulle donazioni è stata ripristinata, seppur con un sistema teso ad assoggettare al prelievo solo i patrimoni più consistenti. In particolare, è prevista una franchigia di 1,5 milioni di euro per il beneficiario handicappato, 1 milione di euro per successioni tra genitori e figli, e 100.000 euro per successioni tra fratelli. La franchigia si applica a ogni singolo erede. Va aggiunto che la nuova imposta sulle successioni garantisce di fatto l’esclusione dalla tassazione per le aziende familiari. I trasferimenti ai discendenti sono infatti esonerati dal concorrere alla formazione del valore imponibile. Registro È l’imposta che si paga per far registrare, cioè trascrivere nei pubblici registri, atti, contratti, accordi e così via. In certi casi questa trascrizione è obbligatoria in quanto la legge la impone (è, per esempio, il caso di un contratto di compravendita di un immobile); in altri, invece, la registrazione, pur non essendo obbligatoria, è richiesta dai contraenti (o anche solo da uno di essi). Per ottenere tale registrazione deve essere pagata la relativa imposta. Di bollo Tipico tributo sugli affari, l’imposta di bollo si paga ogniqualvolta si deve compiere qualche atto che richiede l’uso di certe domande o di determinati

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stampati o documenti. Così, per esempio, per chiedere l’iscrizione a scuola occorre usare un apposito foglio (detto, appunto, di carta bollata) con un bollo che dimostra che è stata pagata la dovuta imposta. Analogamente, tale tributo viene pagato sulle cambiali, sugli assegni, sui certificati di stato civile e così via. La manovra correttiva 2011 ha ridisegnato l’applicazione dell’imposta di bollo sul deposito titoli: il valore del bollo parte da 34,20 euro se i titoli depositati presso l’intermediario finanziario non superano i 50.000 euro per arrivare fino a 680 euro per i volumi superiori a 500.000 euro. Dal 2013 scatterà un ulteriore aumento per i depositi da 50.000 euro in su: l’imposta massima applicabile sarà pari a 1.100 euro per la fascia più alta (quella superiore a 500.000 euro di titoli detenuti). Ipotecarie e catastali Sono le imposte che devono essere pagate ogniqualvolta si devono compiere trascrizioni o correzioni o cancellazioni relative a operazioni ipotecarie o volture catastali.

Le tasse sulla produzione e le altre entrate tributarie Un tipo di tributi che sono sempre esistiti e che possono anche giocare un ruolo determinante nel quadro generale della politica economica di un Paese sono le imposte di fabbricazione e i dazi doganali. Imposte di fabbricazione Le prime, come dice chiaramente il nome, sono dei tributi che devono essere pagati da tutti coloro che fabbricano certi prodotti. Per esempio, in Italia esistono imposte di fabbricazione sugli oli minerali (benzina, petrolio, nafta), sullo zucchero, sulla birra, sugli alcoolici e così via. È evidente che questi tributi, oltre a produrre un gettito più o meno elevato, hanno anche la caratteristica di favorire un dato settore produttivo o danneggiarne un altro. In questo senso essi sono un’ottima arma di politica economica interna. Dal punto di vista del gettito va detto che, in Italia, assume grande importanza l’imposta di fabbricazione sugli oli minerali (anzi, a essere esatti, in molti casi certe spese dello Stato sono state pagate proprio dagli automobilisti, con l’aumento del prelievo fiscale sui carburanti). Le altre imposte di fabbricazione oggi esistenti in Italia, invece, hanno scarsissima importanza. Molte di esse

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erano state introdotte per motivi che, attualmente, non valgono più. Questo è uno dei tipici settori del nostro sistema tributario che andrebbe totalmente rivisto. Dazi doganali Sono dei tributi che devono essere pagati per poter importare nel territorio nazionale prodotti provenienti dall’estero. Evidentemente, anche questi tributi sono una potentissima arma nelle mani del Governo, in quanto è proprio col gioco dei dazi doganali che si può favorire o sfavorire un certo tipo di importazioni. Va comunque precisato che, ormai, in questo campo i singoli Governi hanno ben poca possibilità di manovra. Infatti i tributi in questione vengono decisi di comune accordo tra tutti i Governi all’interno di unità sovranazionali. Per quanto ci riguarda, per esempio, la nostra politica doganale è decisa nell’ambito dell’Unione europea. Altre entrate tributarie Oltre ai tributi che abbiamo elencato e ad altri analoghi sui quali, per ragioni di spazio, non ci siamo potuti soffermare, esistono anche altre entrate dello Stato che, pur non essendo riconducibili a imposte e tasse, sono egualmente considerate entrate tributarie. Fra queste ricorderemo i monopoli e la gestione di alcuni giochi.

Monopolio È un’attività prettamente commerciale o industriale che lo Stato decide, grazie al suo potere, di esercitare da solo vietandola ai privati. Tale è in Italia, per esempio, il monopolio dei tabacchi. Altri monopoli esistenti in passato (si pensi a quello del sale) oggi sono stati aboliti. Giochi Anche la gestione monopolistica di certi giochi è un’attività che lo Stato esercita in forza del suo potere di vietare che altri lo imitino; tipico, a questo proposito, è il lotto e tutto ciò che concerne i concorsi/pronostici e le cosiddette lotterie nazionali. Su questo argomento, comunque, va detto che sarebbe ora che lo Stato la smettesse di occuparsi di questioni del genere. Forse una volta i monopoli e la gestione dei giochi potevano produrre gettiti significativi nelle finanze di uno Stato. Oggi la situazione è ben cambiata. E, forse, le spese sostenute per mantenere in vita il relativo apparato sono superiori agli stessi incassi. In qualsiasi caso poi sarebbe ora che lo Stato evitasse di fare il biscazziere gestendo attività (come, per esempio, il lotto) che se fossero ge-

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stite da un privato provocherebbero l’intervento della giustizia penale e farebbero attribuire a quel privato la qualifica di disonesto.

L’autotassazione I sistemi di pagamento dei tributi sono estremamente vari e, molto spesso, anche complicati, soprattutto per ciò che concerne le imposte. Per le tasse, infatti, la situazione è in genere più semplice, perché basta che colui il quale chiede il servizio provveda a pagare la somma relativa, documentando poi (nei modi previsti) che il pagamento è effettivamente avvenuto. Per molte tasse, per esempio, all’atto del pagamento si riceve un bollo (o marca) che poi va applicato su qualche documento. Questo succede con le tasse postali, con quelle per ottenere il rilascio dei passaporti, delle patenti, e così via. In altri casi la tassa è già compresa nel prezzo del documento che si acquista e, quindi, viene versata allo Stato dallo stesso venditore (è il caso della carta bollata o dei libretti di assegni, delle cambiali e via dicendo). In altri casi, invece, il pagamento deve avvenire direttamente presso un ufficio dell’amministrazione finanziaria. Il contribuente si presenta con la sua pratica, l’ufficio controlla i dati e procede alla cosiddetta liquidazione, cioè stabilisce l’importo della somma che deve essere pagata. È quello che succede con l’imposta di registro, con quella sulle successioni, con i dazi doganali e così via. Le imposte sul reddito Il problema più complesso è quello relativo al pagamento delle grandi imposte e, soprattutto, al pagamento dell’imposta sul reddito. Infatti, in questo caso, dovrebbe verificarsi una successione del genere:

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accertamento (l’ufficio accerta, cioè viene a conoscenza del reddito); notificazione (l’ufficio comunica al contribuente quanto ha accertato); liquidazione (in base ai dati accertati viene stabilita qual è l’imposta); tassazione (il contribuente paga).

È evidente, però, che in presenza di un procedimento così laborioso le varie fasi richiedono molto tempo e, di conseguenza, il momento della produzione del reddito viene a essere molto lontano dal momento in cui si paga la relativa imposta. Per accelerare i tempi, in Italia il primo passo venne fatto intorno agli anni Cinquanta, quando venne introdotta la dichiarazione annuale. Ogni contri-

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buente, ogni anno, presenta una sua denuncia dei redditi, dicendo che cosa ha guadagnato l’anno precedente. In questo modo il processo inizia da un documento ben preciso: la dichiarazione. La semplice autodichiarazione, però, se rappresentò un bel passo avanti, era ancora poco. Infatti, con la riforma degli anni Settanta fu introdotta quella che può essere definita la vera grande invenzione che ha permesso di alzare al massimo le entrate fiscali: l’autotassazione. In pratica, cioè, il contribuente non solo dichiara i suoi redditi, ma provvede anche al pagamento immediato della relativa imposta. La successione di operazioni elencate prima (accertamento, notificazione e così via) riguarda ormai soltanto l’intervento successivo dell’amministrazione per rettificare eventuali dichiarazioni infedeli. Solo che, avendo il contribuente già pagato (se non tutto, almeno in parte), quelle operazioni possono svolgersi con tutta calma. Il pagamento delle imposte sul reddito La dichiarazione dei redditi deve essere presentata nell’anno successivo a quello in cui sono stati prodotti i redditi. Tale dichiarazione va fatta compilando il modello Unico. Con la presentazione del modello devono anche essere pagate le imposte risultanti dalla dichiarazione. In linea generale, quindi, tutte le imposte relative a un certo anno dovrebbero pagarsi entro il mese di giugno/luglio dell’anno successivo. È indubbiamente un bel successo, nell’avvicinamento tra i momenti di produzione del reddito e il pagamento dell’imposta, rispetto a ciò che avveniva prima. Ma il legislatore è riuscito a fare di più.

I sostituti d’imposta In pratica esistono molti sistemi che fanno sì che al momento della presentazione della dichiarazione dei redditi si abbia già quasi completamente pagato quanto dovuto. Per quanto riguarda il reddito da lavoro dipendente, il pagamento dell’IRPEF avviene, mese dopo mese, mediante una trattenuta che il datore di lavoro fa sulla busta paga del dipendente e, successivamente, versa allo Stato (a causa della sua funzione il datore di lavoro prende il nome di “sostituto d’imposta”). Per quanto riguarda i redditi percepiti da un lavoratore autonomo da parte di un’azienda, deve essere effettuata da quest’ultima una trattenuta sulla somma pagata al professionista; si tratta della cosiddetta “ritenuta d’acconto” che assume, appunto, le caratteristiche di anticipo sull’IRPEF da pagare, ed è attualmente pari al 20%.

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Anticipi e conguagli Per tutti i redditi, o, meglio, per tutti i contribuenti, è infine previsto, entro la fine di novembre, un generale versamento di acconto sulle imposte relative all’anno in corso. Questo meccanismo di autotassazione è tipico delle imposte dirette (IRPEF, IRES, IRAP), ma essendo il sistema più efficiente per garantire un buon gettito allo Stato, è stato anche utilizzato per l’IVA, cioè per la principale imposta indiretta. In pratica, cioè, anche per l’IVA esiste una dichiarazione annuale con cui il contribuente denuncia il suo volume d’affari (ai fini IVA). Anche qui il pagamento avviene già durante l’anno in cui si producono i redditi: nel caso di aziende molto grosse, l’IVA deve essere versata mensilmente, mentre per coloro che hanno giri di affari più ridotti i versamenti possono essere trimestrali. Ovviamente alla fine dell’anno, in sede di dichiarazione annuale, si procede a eventuali conguagli. Il contenzioso Abbiamo sempre supposto che i rapporti fra cittadino e fisco siano calmi e tranquilli. È evidente, però (e tutti lo sanno), che la situazione è ben diversa. Siccome a nessuno piace pagare le tasse, c’è in qualsiasi contribuente una certa tendenza a minimizzare i redditi e a massimizzare le spese. D’altra parte, quasi come ovvia reazione al precedente comportamento, c’è sempre, da parte del fisco, la tendenza opposta: massimizzare i redditi e minimizzare le spese. E quando non ci si mette d’accordo? E, soprattutto, quando il contribuente ritiene di essere vittima di un’ingiustizia? Che possibilità di difesa ci sono per il cittadino contro una amministrazione infinitamente più potente di lui? Le possibilità ci sono, esplicitamente previste dalla legge e, anzi, riteniamo che proprio questo paragrafo dovrebbe interessare particolarmente tutti i contribuenti. Parleremo allora del contenzioso, cioè di tutto l’insieme di procedure che si possono innescare per discutere (contendere) con il fisco. In generale, quando si vuole litigare con qualcuno (restando nei confini della legge) bisogna rivolgersi a un tribunale che ha proprio la funzione di ascoltare i pareri dei contendenti e quindi decidere di chi è la ragione. Al tribunale ci si può rivolgere qualunque sia l’argomento del contendere. Esiste, però, un’eccezione che riguarda proprio i rapporti fra contribuenti e fisco. Infatti, a causa dell’importanza e della delicatezza delle controversie di questo tipo, è stata addirittura costituita un’apposita magistratura. Si tratta delle Commissioni tributarie, che sono chiamate a decidere delle liti che insorgono fra contribuente e amministrazione.

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UNO STATUTO PER I DIRITTI L’obiettivo è quello di far compiere un salto di qualità nei rapporti tradizionalmente difficili tra contribuente e amministrazione finanziaria. Lo Statuto dei diritti del contribuente, in vigore dall’estate 2001, interviene a 360 gradi con un vero e proprio decalogo per il legislatore in campo tributario. Così viene vietata l’istituzione di nuove tasse per decreto legge e vengono fornite indicazioni su come si deve scrivere una legge fiscale. L’amministrazione deve poi assicurare il diritto di informazione del contribuente e la conoscenza degli atti tributari. Ma la legge chiarisce anche che non possono essere puniti gli errori del contribuente che non abbiano causato danni all’erario oppure siano stati provocati dalle condizioni di incertezza della normativa. Ampio spazio è poi dedicato all’estensione del diritto di interpello, della possibilità cioè di ottenere dal fisco una sorta di interpretazione autentica delle disposizioni che interessano un caso che stia particolarmente a cuore al cittadino. Le verifiche andranno effettuate rispettando un tetto massimo di tempo (30 giorni, 60 nei casi più complicati) e senza arrecare un danno all’attività dell’impresa controllata. Inoltre il periodo di permanenza non può essere superiore a 15 giorni in tutti i casi in cui la verifica sia svolta presso la sede di imprese in contabilità semplificata e lavoratori autonomi. A vigilare sul rispetto di queste come di altre misure è chiamata una nuova figura che oramai è stata istituita in ogni Regione: il garante dei diritti del contribuente. Il garante dovrà segnalare, tra l’altro, i casi sul territorio che arrechino maggiore pregiudizio ai contribuenti e potrà attivare l’autotutela (quel procedimento, cioè, attraverso il quale l’amministrazione riconosce un proprio errore e ne elimina le conseguenze).

Le Commissioni tributarie Dal 1° aprile 1996 esistono due livelli di tali Commissioni: provinciali (le Commissioni con sede in ogni capoluogo di Provincia) e regionali (le Commissioni con sede in ogni capoluogo di Regione). È stata invece soppressa la Commissione tributaria centrale con sede a Roma, che opera ora solo sulle vecchie liti. Un contribuente, quindi, quando ritiene di aver subito un’ingiustizia da parte del fisco può rivolgersi (presentando un ricorso) alla Commissione tributaria provinciale. Da questo momento ha inizio il processo tributario che può andare avanti anche per moltissimi anni. Infatti, se la decisione della Commissione non è soddisfacente per i contendenti, si può presentare ricorso alla Commissione regionale. In questo ultimo caso i gradi del contenzioso possono arrivare addirittura a tre: infatti, avverso la decisione della Commissione regionale si può presentare ricorso alla Corte di cassazione.

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LE VIE DEL CONTENZIOSO

L’iter delle controversie tributarie

L’accertamento

Il ricorso

Il Fisco invia avviso di accertamento o cartella esattoriale

Entro 60 giorni il contribuente presenta ricorso alla Commissione tributaria provinciale

Patrocinio gratuito

Il primo grado

È assicurata l’assistenza gratuita ai non abbienti

L’autodifesa

Obbligatoria l’assistenza in giudizio da parte di un difensore abilitato

L’autodifesa è ammessa solo per cause semplici e di modico valore

La sospensione Nel ricorso il contribuente può chiedere la definizione preventiva della controversia

Il patteggiamento

Su istanza del contribuente la Commissione può sospendere l’esecuzione dell’atto impugnato

Se l’ufficio del fisco non accetta il “patteggiamento”, la controversia procede per vie ordinarie

Se l’ufficio del fisco aderisce all’istanza, la controversia è definita in via abbreviata

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La sentenza In questo caso la decisione della Commissione provinciale chiude definitivamente il giudizio

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Le spese processuali

Dopo il dibattimento e la riunione in Camera di consiglio, la Commissione provinciale emette la sentenza

Se la Commissione respinge il ricorso, il tributo oggetto della controversia deve essere pagato interamente

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La parte soccombente è condannata al rimborso delle spese liquidate con la sentenza

Il secondo grado Contro la sentenza della Commissione provinciale è ammesso ricorso alla Commissione regionale

L’ultima mossa Contro la sentenza della Commissione regionale è ammesso il ricorso in Cassazione

Dopo il dibattimento e la riunione in Camera di consiglio, la Commissione regionale emette la sentenza

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La Cassazione negli ultimi anni ha istituito un’apposita sezione alla quale è stato affidato il compito di esaminare e decidere tutti i ricorsi in materia tributaria. Da segnalare che la manovra correttiva dell’estate 2011 ha introdotto una nuova procedura per le liti fino a 20.000 euro di valore per avvisi di accertamento emessi dall’agenzia delle Entrate. A partire dal 1° aprile 2012 il contribuente dovrà presentare un reclamo, che può contenere anche una proposta di mediazione con il fisco. Se entro i successivi 90 giorni dall’istanza non viene raggiunta un’intesa tra le parti, il reclamo aprirà la strada al ricorso vero e proprio presso la Commissione tributaria provinciale. L’evasione fiscale Non si può concludere questa chiacchierata sul sistema fiscale senza fare un cenno (pur breve) all’argomento che, in questo campo, è al centro dell’attenzione generale. L’evasione fiscale, intesa come tentativo (più o meno riuscito) di nascondere i propri redditi all’amministrazione finanziaria, è un comportamento da sempre presente nell’attività dei soggetti economici. Però va osservato che essa era comprensibile (e, in qualche caso, addirittura giusta) in presenza di governi dittatoriali che avevano l’unico scopo di sfruttare i cittadini: la stessa evasione, invece, assume significati ben diversi in uno Stato democratico qual è il nostro.

L’obbligo tributario e la Costituzione L’obbligo tributario è sancito dalla nostra stessa Carta costituzionale e, soprattutto, ciò che noi paghiamo allo Stato viene speso per garantire a tutti i cittadini i servizi di cui hanno bisogno e, contemporaneamente, per attenuare le disparità esistenti a livello economico, sociale eccetera. Da questo punto di vista, quindi, l’evasore non può che essere considerato alla stregua di un qualsiasi criminale che si mette contro la legge e, quindi, fuori dalla società. Anzi, a essere esatti, l’evasore fiscale dovrebbe essere considerato un criminale peggiore di altri perché non ruba solo a un singolo cittadino, ma all’intera collettività. Questo discorso non farebbe nemmeno una grinza se fossero verificati i presupposti che abbiamo enunciato all’inizio, cioè se il nostro sistema fiscale fosse giusto, certo, semplice, realizzato in modo tale da non arrecare fastidi inutili ai contribuenti e, soprattutto, se le spese sostenute dallo Stato fossero tutte giustificate da precisi fini etico-sociali. Ma tutto ciò in Italia succede? Noi, come abbiamo ampiamente visto, possiamo vantarci di possedere una Costituzione quasi perfetta. L’arroganza dello Stato può essere contrastata con gli strumenti che la Costituzione prevede. Già diverse volte è successo che leggi (anche di fondamentale importanza) siano state cancellate per l’intervento della Corte costituzionale. Le stesse massime

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autorità dello Stato sono sempre soggette al controllo della collettività grazie, per esempio, all’esistenza di una stampa libera che trova, sempre nella Costituzione, le maggiori garanzie alla sua attività. Di passi avanti la nostra società, non solo rispetto a qualche secolo fa ma anche rispetto a ciò che accadeva, per esempio, fra le due guerre mondiali, ne ha fatti parecchi. Da questo punto di vista, quindi, dovremmo dire che la nostra società funziona bene. Qualche ombra, però, c’è sempre, e proprio in questi anni si devono segnalare due aspetti particolarmente negativi. Una legislazione troppo prolifica e qualche volta caotica, che non agevola i cittadini (e i contribuenti in particolare), ma talvolta addirittura sembra voler ostacolare la loro attività economica, è il primo di tali aspetti negativi. Il secondo è da ricercarsi nel livello (qualitativo e quantitativo) della spesa pubblica che non può certo essere definita, in blocco, di sicuro valore etico-sociale. Evasione totale e parziale In presenza di questi fatti, quindi, se la vera e propria evasione fiscale non può essere giustificata nel suo complesso, si deve, però, ammettere che il cittadino molte (troppe) volte può trovare validi alibi morali per coprire il suo comportamento non eccessivamente rispettoso della legislazione fiscale. Anche perché, sia ben chiaro, quando si parla di evasione, bisogna distinguere fra quella che si chiama “evasione totale” e quella, invece, solo “parziale”.

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L’evasione totale è caratteristica di chi, pur avendo redditi (molte volte, purtroppo, anche rilevanti), non paga assolutamente nulla allo Stato, in quanto, come contribuente, è assolutamente sconosciuto all’amministrazione. L’evasione parziale, invece, è quella di chi paga già tributi ma riesce a nascondere qualcosa al fisco. In questo caso, cioè, vengono dichiarati molti redditi, anche se ne vengono nascosti altri.

In breve Il problema dell’evasione fiscale è sicuramente uno dei più gravi che devono essere affrontati dalla società italiana e che potrà essere risolto cercando di “snidare” gli evasori e punendoli per il danno che fanno all’intera collettività. Va anche considerato, però, che esistono all’interno delle nostre leggi troppe anomalie che facilitano proprio le persone che non intendono adempiere al loro dovere fiscale. In altre parole: la nostra società ha già percorso molta strada anche grazie alla Costituzione, ma molta ne resta da fare, e dovrà essere necessariamente percorsa alla luce dei suoi principi.

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Tra elusione e abuso del diritto Il diritto tributario distingueva in modo netto tra evasione ed elusione fiscale. Con quest’ultimo termine si intendono tutti i tentativi che hanno lo scopo di ridurre il proprio carico fiscale sfruttando opportunamente (e legalmente) le agevolazioni, esenzioni, facilitazioni e via dicendo concesse dalla legge. In pratica, l’elusione indica il comportamento di chi, grazie alla conoscenza della legge, e agendo in modo “sostanzialmente corretto”, cerca di versare alle casse dello Stato il minimo indispensabile. Negli ultimi anni, però, questi comportamenti sono finiti sotto l’osservazione del Fisco. Così, nell’ordinamento tributario esiste oggi una disposizione normativa che prevede la possibilità per l’amministrazione di contestare al contribuente comportamenti elusivi. Si tratta dell’articolo 37 bis del DPR 600/1973 e riguarda le imposte sui redditi. Ma che cosa prevede questa norma? In sostanza, il contribuente non può opporre all’amministrazione atti e fatti privi di valide ragioni economiche, diretti esclusivamente ad aggirare le norme dell’ordinamento tributario per ottenere riduzioni d’imposta o rimborsi non spettanti. In pratica, se perseguo un certo obiettivo solo per pagare meno imposte, senza essere guidato da una motivazione di tipo economico, allora sto facendo qualche cosa che il Fisco può contestare. In effetti, in passato, la Corte di cassazione ha considerato elusivi solo i comportamenti qualificati come tali da una legge dello Stato: in caso contrario, si doveva parlare di legittimo risparmio di imposta. Tuttavia, nel 2005, alcune sentenze della Suprema Corte (sentenze n. 20816, n. 20398, n. 22932) sottolineano che anche in assenza di strumenti antielusivi, il giudice deve ritenere nulle, per difetto di causa o per frode alla legge, determinate operazioni effettuate al solo scopo di ottenere un risparmio d’imposta. In questo caso si deve parlare di abuso del diritto. Posta in questi termini, però, la questione diventa particolarmente penalizzante per i contribuenti. In pratica, ogni volta che si cerca – anche con mezzi assolutamente legali – di risparmiare sulle imposte, si rischia di commettere una violazione, sia essa di tipo elusivo oppure di abuso del diritto. Per questo motivo, il Parlamento si è impegnato a intervenire per limitare il potere di sindacabilità dei comportamenti che sembra ora essere stato attribuito all’amministrazione finanziaria.

Parte Seconda

Finanza e mercati

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La protezione del risparmio di Riccardo Sabbatini

Il nuovo secolo non è iniziato sotto buoni auspici per gli investitori. Non soltanto i primi due anni del 2000 hanno visto la bolla speculativa dei titoli tecnologici sgonfiarsi rapidamente, trascinando nella sua caduta le Borse di tutto il mondo. Grandi colossi sono caduti (Worldcom ed Enron in USA, Vivendi in Francia). Anche in Italia gli scandali di Parmalat e Cirio hanno minato la fiducia degli investitori. Poi, nell’estate del 2007, è iniziata la crisi finanziaria innescata dai mancati pagamenti dei mutui subprime negli Stati Uniti, che per intensità ed estensione è stata paragonata alla Grande crisi degli anni Trenta del secolo scorso. Tutte vicende che hanno visto milioni di risparmiatori perdere d’un colpo i loro investimenti, per scorrettezze degli intermediari cui si erano affidati o, semplicemente, per un andamento avverso dei mercati. Si è scoperto improvvisamente quanto le normative in vigore, a dispetto della loro complessità e pervasività, fossero ancora carenti. E, in tutto il mondo, è iniziata una faticosa lotta contro il tempo per colmare le lacune.

A tutela del risparmiatore Il risparmio in Italia è un bene protetto. L’articolo 47 della Costituzione «incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme», ma sul significato di questo principio sono sorti nel tempo molti equivoci. Numerosi investitori hanno dolorosamente toccato con mano che quella tutela non significava, né poteva significare, una garanzia sul capitale impiegato nelle più diverse attività. Proba-

«La mano del mercato», diceva Adam Smith. Ma la totale mancanza di regole può essere dannosa.

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bilmente è anche il termine “risparmio” che contiene in sé un’ambiguità. Da un lato (è il suo significato macroeconomico) allude infatti alla certosina attività di chi scansa una parte dei suoi redditi e li mette al sicuro in vista di future necessità. Ma quando l’attenzione si sposta sui frutti del risparmio, sulla performance degli investimenti effettuati, quella supposta sicurezza si dimostra sempre più evanescente. E allora la tutela del risparmio è soltanto sulla carta come tanti principi della Costituzione repubblicana? Dipende. Se per protezione si intende la garanzia sul mantenimento del patrimonio o sulla sua redditività nel tempo, questa non c’è o, almeno, è limitata ad attività “non rischiose” come un deposito bancario oppure un accantonamento di TFR. In questi casi sono sorti negli anni specifici istituti, il fondo di garanzia sui depositi e quello sulle liquidazioni, volti ad assicurare una protezione legale a quelle destinazioni del risparmio. Ma, quando un investimento incorpora anche il più piccolo rischio finanziario o attuariale, il risultato riposa soprattutto sulle scelte consapevoli di chi lo effettua. Tra l’altro la difesa dei consumatori è soltanto uno dei valori tutelati per legge. Con il recepimento della direttiva europea sui servizi finanziari (Mifid) il legislatore italiano ha indicato i seguenti “obiettivi” per l’attività delle autorità di vigilanza: salvaguardia della fiducia nel sistema finanziario; tutela LA DIRETTIVA EUROPEA SUI SERVIZI D’INVESTIMENTO La nuova direttiva europea sui servizi d’investimento ha ulteriormente allargato il perimetro delle attività svolte dagli intermediari soggette a regolamentazione. Nella nuova lista sono entrati anche i servizi di consulenza che in Italia potranno essere offerti anche da persone fisiche soggette alla vigilanza della Consob. Questo è il nuovo elenco dei servizi sottoposti al controllo delle autorità di vigilanza. ■ Sezione A: servizi e attività di investimento • Ricezione e trasmissione di ordini riguardanti uno o più strumenti finanziari. • Esecuzione di ordini per conto dei clienti. • Negoziazione per conto proprio. • Gestione di portafogli. • Consulenza in materia di investimenti. • Assunzione a fermo di strumenti finanziari e/o collocamento di strumenti finanziari sulla base di un impegno irrevocabile. • Collocamento di strumenti finanziari senza impegno irrevocabile. • Gestione di sistemi multilaterali di negoziazione.

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degli investitori; stabilità e buon funzionamento del sistema finanziario; competitività del sistema finanziario; osservanza delle disposizioni in materia finanziaria. Le finalità di vigilanza sulla trasparenza e i comportamenti degli intermediari è svolto dalla Consob, la commissione nazionale per le società e la Borsa, istituita nel 1974, che a fine 2007 disponeva di un organico di 535 dipendenti, fa parte del network europeo delle autorità di vigilanza (Committee of European Securities Regulators). Con il tempo anche il termine di risparmiatore è stato progressivamente sostituito con quello di investitore consapevole (well informed investor) che rappresenta un postulato fondamentale della moderna regolamentazione dei mercati finanziari. Perché questa persona possa compiere le scelte giuste è necessario che le caratteristiche e i rischi dei prodotti finanziari siano trasparenti e facilmente comprensibili, che le regole che presiedono al collocamento siano chiare ed efficaci. Ed è necessario che chi le viola sia rapidamente sanzionato. È in quest’ambito che si colloca ai giorni nostri la tutela costituzionale del risparmio. E per capire se il livello della protezione è adeguato, seguiamo il nostro risparmiatore/investitore (lo chiameremo il signor Mario) nelle fasi più delicate della scelta dell’investimento da effettuare.

■ Sezione B: servizi accessori • Affitto di cassette di sicurezza e amministrazione di strumenti finanziari per conto dei clienti, inclusi la custodia e i servizi connessi come la gestione di contante/garanzie collaterali. • Concessione di crediti o prestiti agli investitori per consentire loro di effettuare un’operazione relativa a uno o più strumenti finanziari, nella quale interviene l’impresa che concede il credito o il prestito. • Consulenza alle imprese in materia di struttura del capitale, di strategia industriale e di questioni connesse, nonché consulenza e servizi concernenti le concentrazioni e l’acquisto di imprese. • Servizio di cambio, quando questo è collegato alla prestazione di servizi di investimento. • Ricerca in materia di investimenti e analisi finanziaria o altre forme di raccomandazione generale riguardanti le operazioni relative a strumenti finanziari. • Servizi connessi con l’assunzione a fermo. • Servizi e attività di investimento, nonché servizi accessori del tipo di cui alle sezioni A o B dell’allegato 1, collegati agli strumenti derivati di cui alla sezione C, punti (5), (6), (7) e (10), se legati alla prestazione di servizi di investimento o accessori.

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Tre tipi di investitori La Mifid e la direttiva di dettaglio approvata nel 2006 (nel corso di questa trattazione non si farà distinzione tra questi due atti legislativi) disegna una struttura a geometria variabile nello stabilire le norme di comportamento degli intermediari in relazione alla fisionomia dei loro clienti e delle controparti. La normativa comunitaria articola gli obblighi regolamentari a un livello di dettaglio sconosciuto nella precedente legislazione ma, proprio per questo, prevede robuste eccezioni per quelle categorie di investitori professionali per le quali una normativa troppo “protettiva” risulterebbe inutile se non addirittura dannosa. Tre sono le categorie possibili di clientela.

Clienti al dettaglio (retail) È il nostro signor Mario quello che, seppure soggetto alla “presunzione” di una cultura finanziaria di base, godrà del livello massimo di protezione e standard di trasparenza. Solo i clienti al dettaglio hanno diritto ad avere dettagliate informazioni sul prezzo totale (prezzo più commissioni) dei servizi d’investimento erogati dagli intermediari. In particolare, sono rigidamente regolamentate le informazioni connesse al marketing dei prodotti o dei servizi finanziari offerti. I FONDI DI GARANZIA I soldi depositati in banca dai piccoli “risparmiatori” sono a prova di fallimento. Già da molti anni è stato istituito nell’ambito del sistema bancario uno specifico fondo di garanzia che, in caso di fallimento di un istituto di credito, copre i correntisti fino a 103.291 euro. Analoghe finalità svolgono anche il fondo di copertura dei contratti di Borsa, che garantisce la corretta esecuzione delle compravendite, e quello di garanzia delle SIM che, in caso di insolvenza degli intermediari finanziari, garantisce a ciascun investitore un indennizzo che può raggiungere i 20.000 euro. Anche sui trattamenti di fine rapporto (TFR) è in vigore una rete di protezione, gestita dall’INPS. In caso di insolvenza del datore di lavoro, il lavoratore può rivolgersi al fondo di garanzia dell’istituto di previdenza che ha lo scopo di garantire il pagamento delle somme maturate. Perché la domanda sia accolta deve essere presentata entro il termine di prescrizione di 5 anni. In seguito agli scandali societari sono stati istituiti altri fondi di garanzia. Il primo, disposto dalla legge finanziaria per il 2006, si propone di utilizzare i fondi “dormenti” nelle banche (quei soldi racchiusi in conti correnti che nessuno rivendica più da anni) per indennizzare le vittime delle frodi finanziarie. Il secondo, in attuazione della legge sul risparmio (2005), si propone di risarcire i danni causati agli investitori dalle scorrettezze degli intermediari.

LA PROTEZIONE DEL RISPARMIO . 157

Tra le tante disposizioni c’è quella di indicare su base quinquennale i risultati dello strumento finanziario offerto. Dettagliate informazioni debbono poi essere comunicate al cliente sulla natura del contratto e sulla gestione di eventuali conflitti d’interesse. Il servizio di gestione dei portafogli deve essere accompagnato da una esplicitazione del livello di rischio entro il quale il gestore può esercitare la sua discrezionalità. Con il maggiore dettaglio, inoltre, l’impresa d’investimento deve fornire al cliente informazioni sugli strumenti finanziari e sul loro livello di rischio. È obbligatorio per gli intermediari fornire il prezzo totale (comprensivo di tutte le competenze e le commissioni) dello strumento finanziario o del servizio di investimento richiesto. In pratica, quando il signor Mario si recherà in banca per acquistare un’azione, lo sportellista non si dovrà limitare a comunicargli il prezzo di mercato di quel titolo (e in quale piattaforma verrà eseguito lo scambio) ma il costo totale così da far risultare evidente per il cliente il vantaggio di eseguire l’ordine in quella determinata piattaforma. Il corrispettivo è anche l’architrave che la direttiva identifica per attuare gli obblighi di best execution da parte degli intermediari. Investitori professionali Sono i clienti che «possiedono l’esperienza, le conoscenze e la competenza necessarie per prendere le proprie decisioni in materia di investimenti e valutare correttamente i rischi che assumono». Tipicamente sono banche, imprese d’investimento, assicurazioni, fondi d’investimento, fondi pensione, negoziatori in conto proprio di merci o derivati su merci, singoli membri di una Borsa, società di grandi dimensioni (bilancio superiore a 20 milioni di euro, fatturato netto superiore a 40 milioni o fondi propri superiori a 2 milioni), governi. O anche clienti individuali che, a richiesta, si considerano tali e hanno effettuato con continuità in un trimestre almeno 10 operazioni, con un portafoglio di almeno 500.000 euro. Per tutti questi soggetti gli “internalizzatori” – cioè gli intermediari che eseguono in proprio gli ordini della clientela (si veda anche il capitolo

A ciascun tipo di investitore corrisponde un tipo di protezione, indubbiamente diversa. Le operazioni messe in atto da un piccolo risparmiatore saranno diverse da quelle attuate da società e investitori professionali.

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sul mercato azionario) – sono esonerati dalla regola delle quotazioni irrevocabili potendo offrire prezzi migliori di quelli esposti nel book di contrattazione. Inoltre gli intermediari sono esentati dagli obblighi informativi legati al marketing del servizio offerto. In relazione alla natura professionale di questa fascia di clientela le imprese d’investimento devono adattare le informazioni sugli strumenti finanziari e sui rischi che incorporano. Per i clienti professionali non c’è l’obbligo di fornire informazioni sul costo totale dello strumento finanziario e del servizio. Il test dell’adeguatezza è semplificato e quello di appropriatezza è considerato virtualmente assolto. Le politiche di best execution per gli investitori professionali possono prevedere priorità differenti (per esempio le esigenze di rapidità nell’eseguire un ordine o la liquidabilità di un investimento) rispetto al valore del corrispettivo totale. Controparti qualificate Gran parte dei soggetti qualificati come clienti professionali (ma non i clienti individuali “esperti”) possono assumere lo status di controparti qualificate nell’ambito di determinati servizi d’investimento (tipicamente l’esecuzione di ordini e la negoziazione in conto proprio). I vantaggi della semplicità e della rapidità nei rapporti con gli intermediari sono bilanciati da una rete di protezione più rarefatta. In particolare, alle controparti qualificate non si applicano le norme sull’adeguatezza e appropriatezza, sulla best execution e le disposizioni per la gestione degli ordini.

Alla ricerca del prezzo giusto: l’informativa societaria «Comprereste una macchina usata da quest’uomo?». Come per ogni altra transazione economica, l’acquisto di un prodotto finanziario presuppone un elemento di conoscenza e di fiducia. Se qualcuno ne sa più degli altri o tiene consapevolmente nascosto un aspetto importante della merce che sta vendendo – ciò che gli economisti chiamano un’asimmetria informativa – il consumatore ne riceve un danno. Non è in gioco soltanto la tutela degli investitori ma, più in generale, la stessa integrità dei mercati, la loro possibilità di svolgere con efficacia la funzione di intermediare i risparmi privati per finanziare le attività produttive. La teoria finanziaria presuppone che il prezzo dei titoli (azionari o obbligazionari) incorpori il giudizio della comunità degli investitori sul valore effettivo dell’azienda e sulle sue prospettive reddituali. Ma perché questo si realizzi è necessario che ogni aspetto rilevante nella vita aziendale possa essere conosciuto dal mercato. Ecco allora che un capitolo importante, forse il principale, della

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moderna protezione del risparmio è rappresentato dalle norme volte ad assicurare standard elevati di comunicazione finanziaria. L’evoluzione dei mercati ha progressivamente ampliato il numero dei soggetti sottoposti agli obblighi di comunicazione. Fino a poco tempo fa una società controllava pressoché per intero il circuito informativo che poteva influenzare l’andamento dei suoi titoli. Ma oggi è sempre meno così perché entrano spesso in gioco altri interlocutori suscettibili di modificare il giudizio del mercato su un’azione: manager, analisti finanziari, agenzie di rating, autorità pubbliche, giornalisti finanziari. Ecco allora che la regolamentazione è stata progressivamente estesa ed è diventata col tempo sempre più pervasiva. Iniziamo dagli obblighi informativi in capo alle società emittenti. Gli obblighi informativi Le imprese, soprattutto se quotate, sono sottoposte a una mole imponente di obblighi informativi. Leggi e regolamenti, nel corso degli anni, hanno progressivamente ampliato la soglia di visibilità di una società con l’intento di ridurre le asimmetrie informative che possono manifestarsi a favore di alcuni soggetti e a danno di altri. Ogni aspetto rilevante nella vita aziendale è stato preso in esame e sottoposto a un set minimo di obblighi informativi. Naturalmente gli obblighi di informativa pubblica sono proporzionali al grado di apertura dell’azienda al mercato dei capitali. Per le società “chiuse” la necessità di rendere conto delle proprie attività è sostanzialmente limitata alla redazione dei bilanci, un obbligo volto a proteggere soprattutto la platea dei finanziatori e fornitori. Quanto più l’azienda fa appello al mercato per finanziare la propria crescita, tanto più cresce il numero dei documenti che deve mettere a disposizione. Gli obblighi di informativa riguardano la società e i prodotti finanziari da essa emessi (obbligazioni, azioni).

In breve È spesso obbligatorio pubblicare annunci a pagamento sui giornali. Il Sole 24 ORE è il quotidiano più utilizzato per questa funzione: per rendere noto, per esempio, un prospetto informativo, la costituzione di un patto di sindacato e così via. Con l’avvento di internet, comunque, questo tipo di pubblicità sta cedendo il posto alle comunicazioni che vengono rese disponibili sui siti delle società.

Il prospetto informativo La proposta di vendita (sollecitazione) di qualunque strumento finanziario, diffuso presso il pubblico, deve essere accompagnata da un prospetto informativo

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PROSPETTO INFORMATIVO: LE REGOLE E LE ECCEZIONI Il prospetto informativo è un documento che può raggiungere dimensioni imponenti, anche di diverse centinaia di pagine, con il quale ogni aspetto dell’investimento viene dettagliatamente esaminato per quanto riguarda le caratteristiche dell’emittente e quelle dello strumento proposto. Particolarmente importante per l’investitore è un paragrafo riguardante i rischi dell’investimento nel quale sono indicati i pericoli a cui si va incontro nell’acquisto; dai rischi finanziari veri e propri a quelli di controparte relativi a possibili default, ai potenziali conflitti d’interesse ai quali sono esposti l’emittente o gli intermediari che curano l’operazione. Il documento, disponibile presso la sede sociale dell’emittente e presso gli intermediari che curano l’operazione, è normalmente reperibile anche sui siti web delle società. E deve essere obbligatoriamente fatto conoscere agli investitori che acquistano uno strumento finanziario al momento dell’emissione. Un’esenzione dalla disciplina del prospetto è espressamente prevista per i titoli di Stato e per le offerte che si rivolgono a non più di 150 investitori. Documenti così ponderosi possono anche scoraggiare gli investitori e, nei fatti, divenire inservibili. Si spiega così un processo di progressiva semplificazione. Nel luglio del 2011, per i fondi comuni d’investimento, è entrato in vigore in tutta Europa un prospetto semplificato (KIID, key investor information document). Si affianca al documento standard e contiene in 3 pagine le caratteristiche essenziali del prodotto offerto agli investitori. Con la direttiva europea sui prospetti informativi, recepita nell’ordinamento italiano nel 2006, è stata armonizzata a livello continentale la normativa sulle informazioni da fornire al pubblico. I prodotti finanziari, forniti di un prospetto autorizzato dal regulator del Paese d’origine, possono così essere liberamente commercializzanti negli altri Stati dell’Unione. La lingua dei prospetti “internazionali”, a livello europeo, è divenuta l’inglese, e soltanto una loro sintesi è tradotta nella lingua del Paese di ciascun consumatore. La direttiva, inoltre, consente di articolare diversamente la struttura dei documenti informativi. In caso, per esempio, di emissioni multiple – è frequente nei collocamenti di bond bancari – la società può redigere un prospetto base accompagnandolo di volta in volta con la scheda della specifica emissione. La regola generale è che la Consob (o un’altra authority europea competente) approva la pubblicazione dei prospetti. I funzionari della commissione vigilano sulla completezza dell’informazione, sulla sua coerenza e sulla sua comprensibilità linguistica. Non fanno invece un controllo sulla veridicità dei dati, che rimane sotto la responsabilità delle società emittenti e degli intermediari che le assistono. Sempre più spesso, comunque, i prospetti sono redatti e resi pubblici dagli emittenti senza un preventivo via libera del regulator, che si limita a stabilire gli schemi-tipo e a sanzionare ex post chi non li rispetta. Ciò accade per i prodotti assicurativi, per i fondi d’investimento e per le obbligazioni bancarie di ridotto ammontare (75 milioni).

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che, in aggiunta al prezzo, chiarisca al risparmiatore la natura dell’investimento che si appresta a compiere, i suoi rischi e il rendimento atteso, in aggiunta ad altre informazioni che riguardano l’emittente. Gli obblighi informativi sono particolarmente penetranti nel caso di quotazioni di titoli azionari che, per la loro natura, hanno un profilo di rischio maggiore per i risparmiatori. In questo caso l’emittente non deve semplicemente accludere al prospetto i propri bilanci certificati, ma deve anche dare conto dei propri progetti futuri e delle iniziative, imprenditoriali o finanziarie, che ha in animo di assumere per sviluppare la società. Ma che cosa accade successivamente quando un’azione (o un’obbligazione o un fondo d’investimento), in seguito al collocamento, inizia a essere scambiata in Borsa? In questo caso le informazioni disponibili al risparmiatore riguardano: i bilanci della società, la cosiddetta informativa continua, l’informativa sulle cosiddette partecipazioni rilevanti e sugli assetti di controllo dell’impresa. I bilanci Il linguaggio di una società è soprattutto quello che si esprime nei suoi bilanci. Sono questi i principali documenti predisposti dagli amministratori, resi pubblici a scadenze periodiche, nei quali si rispecchiano tutte le componenti che hanno un’influenza sui conti aziendali. Attraverso i bilanci la platea degli azionisti può rendersi conto della salute di un’impresa, della sua capacità di creare valore e distribuirlo. Questa fondamentale funzione segnaletica fa ben comprendere perché leggi e regolamenti dedichino alla redazione dei bilanci un’attenzione particolare. La legge stabilisce che le società quotate hanno l’obbligo di sottoporre il bi-

La protezione del risparmio non comporta automaticamente una garanzia sul capitale investito. Ma l’informazione aiuta a compiere scelte più oculate.

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lancio annuale al giudizio di una società esterna di revisione, che valuta la corretta imputazione delle voci contabili. Al revisore viene sottoposto anche il bilancio semestrale che, rispetto a quello annuale, presenta una struttura semplificata. Il Testo unico dei mercati finanziari ha ulteriormente rafforzato l’informativa contabile introducendo, a carico delle quotate, l’obbligo di redigere anche un bilancio trimestrale. Più recentemente la direttiva sulla trasparenza (transparency) ha fatto venir meno l’obbligo delle trimestrali, sostituite da resoconti sull’andamento della gestione. L’informativa continua L’andamento delle azioni di una società quotata è influenzabile da una gran numero di informazioni che possono modificare le aspettative degli investitori sulla sua redditività futura. Considerate rilevanti non sono soltanto le informazioni sui bilanci e sugli utili previsti dalla società. Anticipazioni sulle possiSE IL TITOLO È EMESSO ALL’ESTERO Che accade quando un’azione o un’obbligazione sono emesse all’estero? Fino a oggi, se quei prodotti erano collocati in Italia su sollecitazione degli intermediari, uno specifico prospetto informativo doveva essere redatto in lingua italiana e messo a disposizione degli investitori. C’era, però, un’ipocrisia di fondo. Se infatti la sollecitazione non era dell’intermediario ma, formalmente, dello stesso investitore – il quale, per esempio, richiedeva specificatamente allo sportello bancario un’azione, un’obbligazione o un fondo comune non armonizzato con la disciplina comunitaria – non c’era obbligo di prospetto. È quanto è avvenuto per esempio per le obbligazioni argentine. Con il recepimento della direttiva sul prospetto informativo questo vuoto normativo è stato colmato, almeno per l’area dei prodotti comunitari. Per quanto riguarda specificatamente le obbligazioni emesse sul circuito internazionale (i cosiddetti eurobond – si veda anche il capitolo 9), quand’anche i prodotti siano quotati su un mercato regolamentato, le note informative – si chiamano offering circular – sono scritte in inglese e soprattutto volte a soddisfare le esigenze di un pubblico di investitori professionali a cui quei prodotti sono normalmente rivolti in prima battuta. Fino alla legge sul risparmio (2005) il loro successivo collocamento presso il pubblico dei risparmiatori avveniva in condizioni di opacità e scarsa protezione. Quand’anche quei piccoli investitori avessero potuto prendere visione dell’offering circular (ciò che comunque non era obbligatorio perché la disciplina dei prospetti è vincolante per la sottoscrizione dei bond all’emissione, nel mercato primario, e non per gli scambi che avvengono successivamente, sul cosiddetto mercato secondario) non ne avrebbero tratto grande giovamento in considerazione appunto del suo carattere specialistico.

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bili alleanze dell’impresa, acquisizioni o dismissioni, avvio di nuovi business, scoperte scientifiche o brevetti tecnologici: tutte notizie che possono determinare scostamenti consistenti sui corsi di Borsa. È dunque necessario che l’intera platea dei risparmiatori sia informata di simili eventi senza che qualcuno possa avvantaggiarsi di eventuali asimmetrie informative. Il Testo unico e i successivi regolamenti attuativi della Consob hanno stabilito una disciplina stringente per la comunicazione al pubblico delle cosiddette notizie price sensitive, vale a dire quelle idonee a influenzare sensibilmente il prezzo di titoli quotati. Queste, normalmente, sono oggetto di uno specifico comunicato. Naturalmente le informazioni riguardano eventi che dipendono dalle scelte degli organi amministrativi dell’impresa o di chi la controlla. La Consob può ottenere informazioni aggiuntive e anche richiedere che vengano rese pubbliche. Soggetti agli obblighi informativi non sono soltanto gli emittenti ma anche quanti li controllano. E regole di comportamento sono

La nuova normativa assoggetta agli obblighi di prospetto l’offerta al pubblico di prodotti finanziari collocati inizialmente (in Italia oppure all’estero) presso una platea di investitori istituzionali, entro i 12 mesi successivi al collocamento iniziale. In assenza della pubblicazione di un prospetto il piccolo investitore può far valere la nullità del contratto e i soggetti presso i quali è avvenuta la rivendita rispondono dei danni arrecati. Nonostante gli aggiustamenti normativi, l’obiettivo della protezione degli investitori non può dirsi interamente realizzato. Quando infatti i prodotti finanziari, inizialmente destinati agli investitori istituzionali, vengono offerti ai privati (anche per il tramite di piattaforme di scambi) gli obblighi informativi vengono spesso elusi. A rendere problematica la redazione di un prospetto è il fatto che viene a mancare l’elemento del prezzo uguale per tutti, una caratteristica dei prodotti finanziari al momento dell’emissione ma che non si realizza quando gli scambi sono multipli e a prezzi differenti. Inoltre, gli obblighi informativi dovrebbero ricadere sull’intermediario (che rende disponibili al pubblico quegli strumenti) e non più sull’emittente. La banca che, per esempio, vende un’obbligazione è senz’altro abilitata a pronunciarsi sulle sue caratteristiche ma non sull’andamento dell’emittente (è quest’ultimo che ha la titolarità sui “suoi” dati). A colmare questa difficoltà sono intervenute recentemente le norme della Mifid, che impongono agli intermediari di informare i clienti sullo strumento finanziario oggetto di una transazione (anche per svolgere il test sull’appropriatezza). Cosa che ha introdotto la prassi di agili “schede prodotto” messe a disposizione della clientela.

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previste anche per le istituzioni quando diffondono al pubblico dati o statistiche “idonei a influenzare sensibilmente” il prezzo di titoli quotati. Simili informazioni – stabilisce la legge – vanno divulgate “in modo corretto e trasparente”. La società, se considera pregiudizievole la comunicazione di alcune notizie riservate, può opporre un rifiuto alla pubblicazione che l’autorità di controllo può accogliere sempreché – sottolinea la legge – la mancata informativa non possa indurre in errore il pubblico su fatti giudicati essenziali. A differenza di quanto accade in altri ordinamenti, la Consob non consente alle società di rispondere con un “no comment” a eventuali rumor di Borsa. Ciò che spesso pone quest’ultime nel difficile dilemma se confermare notizie la cui diffusione preferirebbero ritardare (per esempio in caso di acquisizioni o OPA in fase di preparazione) oppure negarle con il rischio di mettere il mercato fuori strada. Insomma, per una società quotata, le esigenze di informazione agli investitori hanno il sopravvento sul diritto al riserbo della stessa impresa. Norme così vincolanti sono giustificate dall’obiettivo di ridurre al minimo i casi di insider trading, ossia di abusivo utilizzo di informazioni “privilegiate”. Partecipazioni rilevanti Un’informazione che tipicamente può influenzare i prezzi di Borsa (price sensitive) è quella riguardante gli assetti proprietari di una società quotata. Molto spesso l’ingresso in un’azienda di nuovi soci o, al contrario, la decisione di alcuni vecchi e tradizionali soci di dismettere la propria partecipazione, può rappresentare un importante segnale sul cammino che la società si appresta a intraprendere. È questa la ragione per cui la legge ha imposto una completa trasparenza per le partecipazioni superiori al 2% nel capitale di una società quotata. Sotto questo profilo la legislazione italiana è all’avanguardia perché, normalmente, negli altri Paesi il tetto sopra il quale gli azionisti debbono rivelare la propria identità è più alto: varia dal 3 al 5% quello previsto dalla direttiva comunitaria. La legge impone anche di rendere visibili le partecipazioni che una quotata detiene in società non quotate se eccedono il 10% del capitale. Incluse negli obblighi di trasparenza sono infine le posizioni costruite con strumenti derivati. Per esempio un’opzione call, che attribuisce il diritto di acquistare un’azione sottostante. Le azioni del management Anche le azioni possedute dal management sono sottoposte a obblighi di trasparenza. Ogni anno, in uno specifico capitolo del bilancio, sono indicate le retribuzioni degli amministratori, le azioni della società detenute dagli stessi nonché i piani di incentivazione collegati a stock option (che l’assemblea degli azionisti deve approvare) con informazioni riguardanti il loro eventuale esercizio.

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Gli obblighi informativi sono stati estesi anche alle contrattazioni effettuate dai manager sulle azioni della propria società (il cosiddetto insider dealing) che, se rilevanti, devono essere rese note al mercato. Una piena trasparenza su simili transazioni svolge in primo luogo una funzione segnaletica. Si può infatti supporre che un amministratore delegato che stia vendendo le azioni della sua società sia convinto che il loro prezzo non sia destinato a crescere sensibilmente nell’immediato futuro. Diversamente terrebbe quei titoli in portafoglio.

La correttezza nei comportamenti degli intermediari Quando il signor Mario si reca in banca per decidere cosa fare dei propri risparmi o riceve una telefonata del suo promotore finanziario che gli consiglia un investimento, la possibilità di “fare la cosa giusta” riposa non soltanto sulla sua capacità di raziocinio e sulla qualità delle informazioni a disposizione, ma anche sulla correttezza dell’intermediario che si trova di fronte. La legge e i regolamenti della Consob stabiliscono a carico di quest’ultimo stringenti regole di comportamento. In particolare – è prescritto dal Testo unico della finanza – costui deve agire nell’interesse del cliente, riducendo al minimo i rischi di conflitti d’interesse e assicurando un “equo trattamento”. Inoltre deve acquisire le informazioni necessarie perché l’investitore sia pienamente informato dell’operazione finanziaria che sta effettuando. Il documento sui rischi degli investimenti In particolare, l’intermediario autorizzato, precisano i regolamenti della Consob, prima della conclusione del contratto, deve consegnare al cliente un documento redatto dalla stessa autorità di vigilanza, concernente i rischi degli investimenti finanziari. In quelle avvertenze (disponibili anche sul sito www.consob.it) sono indicati in generale tutti i fattori che possono influenzare il prezzo di uno strumento (azioni, obbligazioni, derivati ecc.) o compromettere la performance di un fondo comune d’investimento o di una gestione patrimoniale. Suggerendo, sempre in generale, le tecniche che possono essere adottate per ridurre al minimo i pericoli (per esempio attraverso la diversificazione del portafoglio). Ma non solo. Informazioni sull’investitore Gli intermediari hanno l’obbligo di fornire al cliente notizie appropriate sulla propria impresa d’investimento, sui servizi che eroga e sulle sue strategie, sulle

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sedi di negoziazione dove esegue gli ordini, sui costi e gli oneri connessi alle sue prestazioni. La direttiva Mifid ha introdotto una specifica procedura per sottoporre i clienti (soprattutto quelli al dettaglio) ai test dell’adeguatezza e dell’appropriatezza. Vediamo di che si tratta.



Test dell’adeguatezza: quando effettua una consulenza in materia d’investimenti o gestione del portafoglio l’intermediario ottiene dal cliente informazioni necessarie sulle sue conoscenze ed esperienze d’investimento, sulla sua situazione finanziaria, sulla sua propensione al rischio. Tutto ciò al fine di consigliare gli investimenti adatti al cliente. Se l’investitore rifiuta di fornire

I RISCHI DEGLI INVESTIMENTI La Consob ha censito ben 13 rischi (derivati a parte) che incombono su quanti movimentano il loro patrimonio allo scopo di accrescerlo. D’altra parte, una vera alternativa non c’è: a tenere i propri soldi sotto il materasso c’è praticamente la certezza di veder diminuire i propri averi a causa dell’inflazione. Non c’è altra strada allora che tenere sotto controllo i fattori suscettibili di influenzare l’esito dei nostri investimenti. L’authority di vigilanza ha suddiviso i rischi finanziari in 4 categorie. ■ La variabilità del prezzo dello strumento finanziario È la principale incertezza che incombe su chi investe. Non esiste un vero antidoto se non l’essere consapevoli del diverso grado di esposizione al rischio dei vari prodotti finanziari. • Titoli di capitale e di debito. A parità di altre condizioni, un titolo di capitale (per eccellenza un’azione) è più rischioso di un titolo di debito (per esempio, un’obbligazione) perché chi lo possiede è maggiormente esposto all’andamento economico di una società. • Rischio specifico e generico. Il rischio specifico, relativo alle caratteristiche peculiari di un emittente, può essere fronteggiato con la diversificazione. Il rischio generico è invece quello di mercato che, per le azioni, è rappresentato dalla variazione dell’indice di riferimento, mentre per le obbligazioni è funzione della dinamica dei tassi d’interesse. • Rischio emittente. I prezzi delle azioni riflettono le aspettative del mercato sulle prospettive di guadagno delle imprese emittenti. Nel caso di un’obbligazione il rischio misura la possibilità dell’impresa di ripagare il debito. • Rischio d’interesse. Un’obbligazione si adegua in continuazione all’andamento dei tassi d’interesse. Se questi scendono, il prezzo del titolo sale, e viceversa. Quanto più lunga è la vita residua dell’obbligazione tanto maggiore sarà l’effetto sul prezzo di un repentino mutamento dei tassi.

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le informazioni richieste, i servizi finanziari (consulenza e gestione di portafogli) non possono essere prestati. Test dell’appropriatezza: quando l’intermediario offre servizi diversi da quelli di consulenza e gestione del portafoglio deve comunque provvedere ad accertare il livello di conoscenza ed esperienza finanziaria del suo interlocutore. Sulla base di questa verifica, se ritiene un prodotto o servizio finanziario inadatto al cliente, ha l’obbligo di comunicarglielo in forma scritta. Se il cliente rifiuta di sottoporsi al test, l’intermediario gli segnala che quel servizio finanziario potrebbe rivelarsi inappropriato; tuttavia, può ugualmente prestarlo.

• Diversificazione. È il sistema più efficace per attutire il rischio. Ne sono un esempio classico i fondi comuni d’investimento (si veda il capitolo 11). ■ La liquidità È l’attitudine di uno strumento finanziario a trasformarsi rapidamente in moneta contante senza perdita di valore. Dipende dalle caratteristiche del mercato in cui lo strumento è trattato. A parità di altre condizioni, un’azione o un’obbligazione scambiate su un mercato regolamentato sono più liquide di strumenti finanziari non quotati. La rilevanza di una simile caratteristica è apparsa evidente nel corso della crisi finanziaria innescata dai mutui subprime nel corso della quale interi segmenti dei mercati finanziari hanno rapidamente perso valore a causa, appunto, della loro il liquidità. Chi intendeva disfarsene, cioè, non trovava controparti disposte ad acquistarli, se non a fronte di sconti poderosi. ■ La divisa Se uno strumento finanziario è denominato in una moneta diversa da quella di riferimento per l’investitore, una modifica nel rapporto di cambio può comportare effetti rilevanti sull’investimento. ■ Gli altri fattori generali di rischio Un investitore deve informarsi sulle salvaguardie previste per le somme di denaro depositate per l’esecuzione delle operazioni; il ritorno degli investimenti finanziari va misurato al netto di oneri e delle commissioni; non tutti i mercati finanziari offrono lo stesso livello di garanzia e di tutela; il malfunzionamento dei sistemi automatici di contrattazione può avere un impatto sull’esecuzione degli ordini. Così come eseguire un ordine al di fuori di mercati organizzati può comportare l’assunzione di ulteriori rischi in relazione all’affidabilità dell’intermediario chiamato a eseguire direttamente l’ordine e a condizioni più rarefatte di liquidabilità delle posizioni.

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Soltanto in caso di servizi di esecuzione di ordini o ricezione e trasmissione di ordini della clientela (cioè di comprare un determinato titolo), l’intermediario può soprassedere ai test di adeguatezza e appropriatezza, ma solo se vengono soddisfatte queste condizioni: l’ordine deve riguardare azioni quotate, quote di fondi d’investimento o altri prodotti finanziari non complessi (per esempio non prodotti derivati); il servizio è prestato su iniziativa del cliente che è stato chiaramente informato sull’esonero dai test di adeguatezza e appropriatezza. La regola della best execution Effettuata la scelta dell’investimento, l’altro momento importante in cui è messa alla prova la correttezza di un intermediario è l’esecuzione dell’ordine di acquisto o vendita. Anche in questo caso norme specifiche sono state introdotte dalla direttiva Mifid a tutela dell’investitore. In particolare, la nuova disciplina stabilisce che gli intermediari devono adottare tutte le misure ragionevoli per ottenere “il miglior risultato possibile” a vantaggio del proprio cliente quando ne eseguono l’ordine. È quella che nel mondo anglosassone viene chiamata la best execution. Fino all’entrata in vigore della direttiva comunitaria, quando era ancora in vigore l’obbligo di concentrare in Borsa gli scambi sui titoli quotati (si veda il capitolo sul mercato azionario), la best execution si considerava virtualmente assolta eseguendo gli ordini dei clienti su un mercato regolamentato. La cessazione di quell’obbligo, con la possibilità di utilizzare le sedi di negoziazione più disparate, ha reso più complesso il rispetto del principio. Ciascuna impresa d’investimento deve adottare una sua strategia per l’esecuzione degli ordini, specificando, per ciascuna categoria di strumenti finanziari, dove intende acquistare o vendere titoli. La scelta delle sedi di negoziazione va fatta al fine di «ottenere in modo duraturo il miglior risultato possibile per l’esecuzione degli ordini». Per ciascun tipo di prodotto finanziario va dunque precisata le sede di negoziazione. La nuova normativa lascia irrisolte alcune importanti questioni. In primo luogo, se il principio della best execution ha una portata generale, l’obbligo di fornire quotazioni sui prezzi degli strumenti finanziari è stabilito soltanto sui titoli azionari. Pertanto risulterà complicato per un intermediario scegliere la sede migliore di negoziazione, per esempio per le obbligazioni, se non riesce, a priori, a confrontare i prezzi delle diverse sedi. Inoltre poiché, anche per le azioni, manca un obbligo di concentrare in un’unica banca dati europea (o almeno nazionale) le quotazioni di tutti i mercati e sedi di negoziazione, diventa arduo scegliere la migliore. Tutto è affidato alle virtù sal-

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vifiche del mercato, che assume la forma di programmi (smart order router) in grado di collegare gli intermediari alle migliori sedi di negoziazione, consentendo loro di eseguire gli ordini ai prezzi migliori.

La gestione dei conflitti d’interesse Anche nella finanza, come a teatro, sarebbe meglio avere “una sola parte in commedia”. Sarebbe meglio, ma non sempre è possibile. Lo sviluppo e l’integrazione dei mercati suscitano in continuazione conflitti d’interesse potenzialmente suscettibili di distrarre amministratori di società e intermediari dai loro doveri professionali. Qualche esempio? Il manager che affida una commessa a una società nella quale ha una partecipazione azionaria. Oppure una banca che colloca titoli di un soggetto al quale contemporaneamente eroga il credito. E che dire di un analista che diffonde un report su un’impresa contemporaneamente assistita dalla sua maison finanziaria nell’ambito di un aumento di capitale? O, infine, del giornalista che scrive un articolo su una società posseduta dal suo editore? Sono tutti casi nei quali la devianza da comportamenti corretti è incoraggiata da robusti interessi antagonisti. Alcuni dei più recenti dissesti finanziari hanno dimostrato che questa componente svolge spesso un ruolo importante e ben si spiega, pertanto, perché la regolamentazione è stata negli ultimi anni progressivamente rafforzata. Le armi prevalentemente utilizzate sono (raramente) il divieto il svolgere attività in conflitto, la separazione all’interno della stessa società delle unità potenzialmente confliggenti (le cosiddette mura cinesi) e, soprattutto, un’ampia informazione agli investitori circa i potenziali interessi divergenti.

Con l’arma della trasparenza viene circoscritto il rischio di conflitti.

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I conflitti delle società L’obiettivo di una società quotata è (tra gli altri) quello di massimizzare i profitti a vantaggio di azionisti e investitori. Ma può accadere che questa finalità sia distratta dagli interessi che possono far valere i controllanti, i suoi amministratori o quanti sono comunque in grado di influire notevolmente sull’azienda. Sono le cosiddette parti correlate le cui transazioni sono oggetto di un regolamento approvato nel 2010 dalla Consob al fine, appunto, di evitare comportamenti scorretti. L’arma scelta dal regolatore è stata quella della trasparenza che si coniuga a un particolare regime autorizzativo per le operazioni di maggiore rilevanza: quelle con importo superiore al 5% di uno tra più parametri (capitalizzazione, patrimonio netto, attivo totale, passività totale). In questi casi le transazioni debbono ottenere il consenso di uno speciale comitato formato solo da amministratori indipendenti. O, in caso di diniego, dall’assemblea, che decide con il voto favorevole della maggioranza dei soci “non correlati”. Anche per le altre operazioni, sempreché superiori a una soglia di esiguità, entra in gioco il comitato di indipendenti tuttavia, in quel caso, il parere è obbligatorio ma non vincolante. I conflitti per gli intermediari Le normative comunitarie impongono agli intermediari di adottare ogni misura ragionevole per evitare conflitti d’interesse. Qualora non sia possibile impedirli del tutto, l’impresa d’investimento ha l’obbligo di “informare chiaramente” i propri clienti. Per definire quali interessi possono essere in conflitto, il legislatore di Bruxelles ha identificato alcuni criteri-tipo. In particolare, “legami pericolosi” insorgono quando l’impresa: ha la possibilità di guadagnare a spese del cliente; ha un interesse distinto da quello del cliente; ha un incentivo finanziario a privilegiare un cliente a spese di un altro; svolge la stessa attività del cliente; riceve un incentivo, da un terzo, per il servizio prestato al cliente. Le regole per analisti e giornalisti finanziari Analoghi strumenti regolamentari sono in vigore anche per gli analisti finanziari. L’esistenza di eventuali interessi in conflitto deve essere resa nota con chiarezza nei report finanziari, in modo che gli investitori possano valutare con precisione il grado di affidabilità di quelle analisi. La direttiva Mifid include norme per distinguere le ricerche dal marketing finanziario, per separare l’attività di chi redige i report dagli altri servizi finanziari eventualmente svolti nella stessa società e per limitare i conflitti d’interesse in cui gli stessi analisti possono essere coinvolti, prevedendo disposizioni, per esempio, che impediscono loro di investire sugli stessi strumenti finanziari oggetto degli studi, o di ricevere regali da chi è sotto il loro giudizio.

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Regole analoghe esistono anche per i giornalisti, il cui Ordine professionale ha varato un codice di condotta specifico per la stampa economica e finanziaria.

La protezione ex post Che cosa accade quando tutto questo imponente apparato regolamentare non funziona? Quando il nostro signor Mario subisce un danno per la violazione di norme comportamentali o perché non è stato informato a dovere sulle caratteristiche di un investimento? Una legge – recita un vecchio proverbio cinese – deve in primo luogo persuadere, poi assicurare una deterrenza e, soltanto alla fine, punire. Ecco allora che un buon sistema regolatorio si riconosce non soltanto dall’adeguatezza formale delle sue normative ma anche, e soprattutto, dalla capacità di promuovere corretti comportamenti dei soggetti ai quali si rivolge e, in caso di violazioni, di punire i colpevoli così che quelle norme assicurino appunto un’effettiva deterrenza nei confronti degli illeciti. Questa capacità di enforcement – è questo il termine utilizzato a livello internazionale – è un aspetto tradizionalmente debole del sistema italiano, anche per i tempi biblici della giustizia (penale e civile) che un investitore deve sopportare se sceglie di rivolgersi a un magistrato affinché riconosca le sue ragioni. Incamminiamoci allora in questa lunga trafila nella quale la tutela costituzionale del risparmio è spesso messa a dura prova. A chi rivolgersi Se “il conto non torna” un investitore può innanzitutto rivolgersi agli uffici reclami o rapporti con la clientela di cui normalmente dispongono gli intermediari (banche, assicurazioni, SGR, SIM). In ambito bancario è stata istituita nel 1993 la figura dell’ombudsman, mutuata dall’esperienza dei Paesi del Nord dove esiste da circa due secoli. Il termine letteralmente significa “persona che fa da tramite”. In pratica, il suo compito è quello di esaminare su richiesta dei clienti i reclami che non sono stati accolti dalle banche riguardanti operazioni o servizi prestati da queste ultime. Cinque sono i membri del collegio dell’ombudsman: il presidente scelto dal Governatore della Banca d’Italia, due consiglieri nominati dall’ABI, uno eletto dal Consiglio nazionale forense e l’ultimo dal Consiglio dei dottori commercialisti. Il loro responso arriva entro 90 giorni e, se favorevole al cliente, la banca è invitata a comportarsi di conseguenza. Possono essere ammessi all’esame dell’ombudsman soltanto i reclami (relativi a un danno dichiarato non superiore ai 10.000 euro) per i quali non sia già stata avviata un’iniziativa giudiziaria o interessato un collegio arbitrale. In attuazione di una disposizione contenuta nella legge sul risparmio, nel 2007 so-

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no state introdotte nell’ordinamento procedure specifiche di conciliazione e arbitrato, realizzate con la regia della Consob, per facilitare la risoluzione delle controversie tra investitori individuali e intermediari, insorte sull’osservanza dei principi di comportamento a cui questi ultimi sono tenuti. Peraltro, un meccanismo di conciliazione, anche in materia finanziaria, era già previsto da una precedente normativa (decreto legislativo n. 5/2003). Un altro sistema che ha dimostrato di funzionare meglio di molti altri è quello delle lettere ai giornali che dopotutto rappresentano le “persone che fanno da tramite” tradizionalmente più conosciute dagli investitori. Il Sole 24 ORE, per esempio, pubblica ogni sabato su “Plus” la rubrica di lettere chiamata “Sportello reclami” in cui vengono ospitati i principali casi di malefatte segnalate dai lettori. Gli intermediari chiamati in causa sono invitati a rispondere per iscritto. Cosa che naturalmente fanno con tempestività per ridurre il danno reputazionale che la pubblicazione sul giornale comporta. Se queste vie bonarie di conciliazione non funzionano il signor Rossi può interessare direttamente l’autorità di vigilanza sotto la cui giurisdizione rientra il comportamento dell’intermediario ritenuto censurabile. Gli uffici che normalmente hanno la maggiore frequentazione con gli investitori sono l’ufficio rapporti con il pubblico della Consob, lo sportello reclami dell’ISVAP (regulator assicurativo), l’ufficio per la pubblicità ingannevole dell’Antitrust (l’autorità garante della concorrenza e del mercato). Stimolati anche dagli esposti degli investitori, gli uffici delle autorità di vigilanza svolgono istruttorie per comportamenti che sono stati giudicati scorretti e comminano le relative multe. La legge dispone l’inversione dell’onere della prova nei procedimenti civili relativi al risarcimento di danni causati nell’ambito della prestazione di servizi di investimento. È l’intermediario in questo caso, e non il cliente, a dover di-

Il Sole 24 ORE dedica ampi spazi alle azioni intraprese dalle authority sul “risparmio tradito”.

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mostrare di essersi comportato con la diligenza richiesta. Ciò che, naturalmente, è difficile da dimostrare se nel frattempo è intervenuta una sanzione. Molto dettagliate sono poi le norme sulla vigilanza dei revisori contabili per i quali la Consob può disporre la sospensione dall’attività o addirittura, nei casi più gravi di inadempienza, la cancellazione della società dall’elenco di quelle autorizzate a fornire servizi di revisione contabile. I reati finanziari Se le violazioni di più lieve entità sono normalmente fronteggiate con procedure sanzionatorie – che presentano il vantaggio di tempi relativamente brevi per la conclusione dei procedimenti – le fattispecie più gravi sono invece punite penalmente. L’abusivismo finanziario è colpito con una pena detentiva che può raggiungere i 4 anni (art. 166 del Testo Unico della Finanza, il TUF). La gestione infedele dei portafogli (art. 167 TUF) comporta una pena detentiva di 3 anni e l’ostacolo alle funzioni di vigilanza delle autorità (art. 170-bis TUF) fino a 2 anni. Con particolare durezza il legislatore ha introdotto norme per reprimere il falso nei prospetti informativi che può comportare a carico dei soggetti responsabili una pena detentiva fino a 5 anni (art. 173bis TUF)

Insider trading e manipolazione Particolarmente importanti, per il danno che possono arrecare all’ordinato svolgimento dei mercati finanziari e dunque agli investitori, sono i reati di insider trading e di manipolazione, oggetto della direttiva comunitaria sul market abuse. Per insider trading si intende l’uso privato di informazioni privilegiate, cioè quelle notizie che, se rese pubbliche, potrebbero influire “in modo sensibile” sul prezzo di uno strumento finanziario. Il legislatore di Bruxelles, rispetto alla previgente legislazione italiana, ha ampliato il numero di soggetti che possono essere incolpati. Non più soltanto coloro che svolgono la propria attività nell’ambito delle società emittenti (amministratori, dipendenti, azionisti, consulenti ecc.), ma anche chi disponga di un’informazione privilegiata a causa di un’attività criminale (tale fattispecie è stata presa in considerazione dopo gli attentati terroristici a Manhattan del 2001) o chiunque ne entri in possesso sapendo che si tratta di un’informazione privilegiata. Quanto alla manipolazione di mercato, questa si verifica quando un soggetto pone in essere operazioni o ordini di compravendita che forniscano o siano suscettibili di fornire al mercato indicazioni fuorvianti circa la domanda, l’offerta o il prezzo di uno strumento finanziario. In pratica, mentre l’insider trading rappresenta un utilizzo privato di una notizia vera (e riservata), la manipolazione consiste nella diffusione (dalla quale un soggetto normalmente trae

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vantaggio) di una notizia falsa. La nuova normativa introduce anche un obbligo di denuncia all’autorità di vigilanza da parte di intermediari che ritengono di poter incorrere in ipotesi di reato quando l’investitore chiede loro di svolgere operazioni finanziarie atipiche o sospette. E non è tutto. Al fine di armonizzare i sistemi di repressione degli illeciti, che sempre più spesso assumono caratteristiche transfrontaliere, la direttiva comunitaria ha imposto agli Stati membri di dotarsi almeno di un efficiente apparato sanzionatorio (da affiancare, dove esistono, alle norme penali) gestito da autorità di vigilanza dotate di effettivi poteri d’indagine (tra gli altri quelli di disporre ispezioni, mettere telefoni sotto controllo, effettuare sequestri di beni). Per l’Italia, dove i reati di manipolazione e insider trading sono sempre stati disciplinati dal Codice penale – i tempi lunghi dei procedimenti hanno fatto sì che le sentenze passate in giudicato si contino sulle dita – le modifiche hanno introdotto una sistema misto, sanzionatorio-penale, con una procedura a doppio binario. All’istruttoria amministrativa della Consob (l’iter deve concludersi entro un anno dal suo avvio) si affianca, nel casi di rilevanza penale, l’azione dei magistrati. Una risposta sempre più globale L’internazionalizzazione dei reati finanziari – l’effetto dei fenomeni di globalizzazione degli intermediari e dei mercati – rende indifferibile un coordinamento dei regulator su base sovrannazionale. Un esempio? Il dissesto del gruppo agroalimentare italiano Parmalat ha coinvolto migliaia di investitori resi-

La globalizzazione fa sì che anche le regole del mercato finanziario debbano essere coordinate a livello internazionale, a difesa degli investitori.

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denti in molti Paesi, che avevano acquistato azioni e obbligazioni del gruppo di Collecchio. Questi ovviamente hanno avviato iniziative giudiziarie per recuperare almeno qualcosa delle somme investite. Ciò ha posto delicati problemi giuridici per decidere il foro competente e la disciplina da applicare. Questioni analoghe sono insorte anche nelle richieste di risarcimento presentate dal commissario straordinario della Parmalat a grandi intermediari internazionali (tra cui spiccano i nomi di Citibank, Bank of America, Deutsche Bank) considerati complici nelle malefatte degli amministratori. E problemi analoghi sono sorti, con la crisi dei mercati del 2008, con alcune grandi insolvenze (Lehman Brothers) che si sono lasciate dietro una lunga scia di perdite e di ricorsi giudiziari. La preferenza del legislatore europeo, in materia di insider trading, per un regime sanzionatorio gestito dai regulator nazionali, ma nell’ambito di un network continentale, rappresenta anche una soluzione per giungere a un’effettiva armonizzazione in un contesto di forte differenziazione dei sistemi giuridici da Paese a Paese. In questo scenario, la direttiva dispone nuove forme di collaborazione tra le authority europee di vigilanza che possono scambiarsi informazioni e anche chiedere l’intervento altrui per violazioni di legge compiute da propri residenti ma i cui effetti abbiano superato i confini nazionali. Forme analoghe di collaborazione informativa, anche se non così vincolanti come quelle realizzate in Europa, sono in vigore anche a livello più globale. Ovviamente, gli scambi informativi debbono garantire il segreto d’ufficio, essere circoscritti alle indagini sui reati finanziari (per esempio, i dati non possono essere utilizzati per avviare un contenzioso fiscale) ed essere realizzati da autorità autonome dal potere politico e in possesso di sufficienti poteri d’indagine. Il problema di un “ordine sulla finanza internazionale” si è posto con prepotenza nel periodo 2007-09 con l’insorgere della crisi finanziaria originata dai mutui subprime statunitensi. Improvvisamente i risparmiatori di tutto il mondo hanno scoperto a loro spese che nelle quote “innocenti” dei loro fondi d’investimento o delle loro polizze assicurative potevano annidarsi asset illiquidi, se non addirittura “tossici” (il termine utilizzato per definire particolari forme di prodotti strutturati o derivati) finiti nei loro portafogli al termine di un lungo viaggio.

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Il mercato valutario di Pierangelo Soldavini

Nel 1989 la caduta del Muro di Berlino ha sanzionato la realtà di un mondo globalizzato e sempre più interconnesso aprendo la strada alla creazione di un’area valutaria unica attorno all’euro, il più grande esperimento economico della fine del Novecento il cui esito appare ancora non del tutto consolidato. Ora si guarda a un altro muro che mostra qualche crepa: la Grande Muraglia, che per secoli ha rappresentato l’isolamento della Cina, non ha impedito negli ultimi anni l’apertura del mondo alle merci e ai capitali cinesi. Ora si guarda al momento in cui l’inclusione di Pechino nell’economia globale sarà sanzionata in maniera definitiva attraverso la conversione totale dello yuan. Perché ogni grande trasformazione economica prima o poi coinvolge anche le monete. È stato così con l’ondata di liberalizzazioni che ha progressivamente coinvolto tutti i Paesi sviluppati nell’ultimo scorcio del secolo scorso, che ha portato a un aumento della concorrenza a livello globale e a una crescente integrazione e interdipendenza tra i vari mercati, come dimostra il sempre maggior peso assunto proprio dalla Cina e da altri Paesi emergenti nello scenario economico mondiale.

L’evoluzione del mercato Anche i mercati finanziari, e tra questi quello valutario, si ritrovano completamente trasformati. L’espansione dell’economia di mercato ha allargato il panorama valutario a nuove monete che si sono via via affacciate alla convertibilità e che hanno iniziato a “sciogliersi” nell’euro. È sufficiente dare un’occhiata alla rilevazione indicativa quotidiana della Banca centrale europea: a fianco delle monete tradizionali si trovano non solo le valute di Paesi dell’Est, come la corona ceca, il fiorino ungherese o lo zloty polacco, ma novità assolute, “figlie” della disintegrazione dell’ex mondo comunista, come la lita lituana. Come se non bastasse, l’inarrestabile innovazione tecnologica e l’accresciuta sofisticazione degli strumenti finanziari hanno aggiunto l’ultimo –

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I mercati valutari La pagina tabellare del Sole 24 ORE dedicata ai mercati valutari, pubblicata quotidianamente dal martedì al sabato, si è aggiornata per tenere il passo con la continua evoluzione dei mercati finanziari, con l’obiettivo di “fotografare” nella maniera più precisa e completa possibile questo enorme flusso di capitali che dà vita a un mercato senza soste e a quotazioni che si modificano in continuazione. Proprio per questo le informazioni sull’andamento dei cambi sono state concentrate e integrate per facilitarne la consultazione, privilegiando soprattutto l’omogeneità delle fonti di tabelle e rilevazioni, in modo da fornire ai lettori dati coerenti e comparabili.

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dibattuto – tassello di una vera e propria rivoluzione che si è concretizzata nell’inarrestabile integrazione dei diversi mercati. Tanto idolatrata prima per i suoi meriti di redistribuzione delle risorse e facilitazione nei flussi finanziari, quanto demonizzata in seguito: quei movimenti senza controllo, moltiplicati dall’effetto leva creato dai prodotti derivati, sono i primi imputati della crisi finanziaria esplosa nel corso del 2008, accusati di aver indebolito sempre più i legami dei mercati con la realtà economica sottostante. In effetti, anche la costante crescita del commercio mondiale di beni e servizi, a cui si devono in prima battuta gli scambi tra monete, ha contribuito all’evoluzione di un mercato valutario, che ha raggiunto una dimensione davvero globale e che si configura sempre più come l’esempio di mercato “perfetto”. In primo luogo per l’enorme volume di scambi, arrivati a sfiorare i 4.000 miliardi di dollari giornalieri, che garantiscono una liquidità senza paragoni negli altri mercati. Ma anche per il gran numero e la varietà degli operatori – dalle Banche centrali alle grandi banche fino ai singoli trader –, per il decentramento geografico e, soprattutto, per la continuità temporale: con il passaggio da un’area all’altra, il mercato valutario assicura un’operatività di 24 ore al giorno, esclusi i weekend. A completare il quadro di un modello unico sono la varietà di fattori che determinano le quotazioni delle monete, dalle scelte di politica economica e fiscale ai tassi d’interesse, dagli eventi politici alle prospettive di crescita, e il livello ridotto dei margini di profitto sugli scambi. La crescita dei flussi Tutti questi attori hanno avuto l’effetto di far lievitare gli scambi sui mercati valutari nel corso dell’ultimo decennio. Stando ai dati forniti dalla Banca dei regolamenti internazionali (BRI), la media giornaliera degli scambi complessivi, pari a poco meno di 600 miliardi di dollari nel 1989, è cresciuta costantemente fino a raggiungere nel 2010 la quota di 4.000 miliardi, in crescita del 20% rispetto a tre anni prima. Neanche la crisi che ha coinvolto l’intero settore finanziario a partire dal 2008 e che ha avuto l’effetto di frenarne le attività a livello globale ha quindi avuto l’effetto di ridimensionare i movimenti sui mercati valutari. Anzi, la crescita dei volumi negoziati è stata guidata dalle istituzioni non bancarie (hedge fund, fondi comuni di investimento, fondi pensione, assicurazioni ecc) che hanno puntato sul mercato valutario proprio sfruttando le caratteristiche di liquidità e di operatività per cercare di controbilanciare le perdite accusate su altri mercati. A oggi quasi la metà degli scambi valutari (1.900 miliardi quotidiani) sono riconducibili a questi soggetti. E la diffusione degli strumenti per tale mercato è testimoniata dalla comparsa di applicazioni per telefoni cellulari dedicati alla negoziazione in mobilità.

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I sistemi monetari internazionali Nelle economie primitive gli scambi di merci avvenivano tramite il baratto. A mano a mano che le economie si sviluppavano e si aprivano all’esterno fu creata una “terza merce”, uno strumento di scambio che fungesse da intermediario nei rapporti commerciali. Il progredire degli scambi e l’interdipendenza sempre più stretta tra gli Stati ha costretto poi a risolvere il problema dei pagamenti internazionali, identificando una merce o una valuta che potesse essere utilizzata come mezzo di pagamento universalmente accettato. I problemi scaturivano dal fatto che diverse autorità, nazionali e locali, rivendicavano il diritto di emettere moneta con evidenti problemi derivanti dalla pluralità e dall’affidabilità di tutti questi strumenti. Il percorso storico Il primo sistema monetario internazionale degno di questo nome è stato quello aureo o gold standard, che funzionò dal 1880 al 1914. Il sistema ebbe un’importante funzione di correzione degli squilibri nelle bilance dei pagamenti nazionali, ma fu messo in crisi dallo scoppio della prima guerra mondiale. Seguì, tra le due guerre, un periodo di “disordine monetario”, che contribuì non poco alla grande crisi del 1929. Nel 1944, gli accordi di Bretton Woods formalizzarono la nascita del gold exchange standard. Nonostante gli elementi di flessibilità, l’accordo mostrò i suoi limiti strutturali: da un lato le parità fisse rendevano più difficile l’aggiustamento degli squilibri della bilancia dei pagamenti, dall’altro la domanda di liquidità

In breve Nel regime detto gold standard del filosofo inglese David Hume il ruolo di mezzo di pagamento internazionale era assegnato all’oro: ogni Paese definiva il contenuto aureo della propria valuta e si impegnava ad acquistare o vendere oro a quel prezzo (parità aurea). Il risultato era un sistema di cambi fissi. Nel gold exchange standard al metallo giallo si affiancava anche una valuta forte, il dollaro USA. In questo nuovo regime, infatti, le parità delle diverse monete erano sempre fissate in termini di oro, ma solo a un Paese era riservato l’obbligo della convertibilità: gli Stati Uniti, che si impegnavano a cambiare, senza limitazioni, oro in dollari, o viceversa, al prezzo fisso di 35 dollari per oncia (31,104 grammi). Solo nei casi di squilibrio strutturale un Paese poteva, previa autorizzazione del Fondo monetario internazionale, modificare la parità della propria valuta.

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del sistema internazionale trovava, di fatto, soddisfazione solo nei Paesi con valute forti, Stati Uniti in testa. Fino a quando, il 15 agosto 1971, il presidente americano Richard Nixon mise fine al sistema sospendendo la convertibilità del dollaro in oro e aprendo di fatto la strada alle fluttuazioni libere. Coordinamento delle politiche economiche I maggiori Paesi industrializzati hanno cercato di neutralizzare gli effetti negativi dell’assenza di un sistema monetario di riferimento favorendo un coordinamento delle rispettive politiche. A partire dagli anni Ottanta, con il Gruppo dei 5 (Stati Uniti, Germania, Giappone, Francia e Gran Bretagna), allargato poi a Italia e Canada e in seguito alla Russia (G-8) e ai Paesi emergenti (G20), le grandi potenze hanno cercato – con alterne fortune – di coordinare le politiche economiche e di favorire rapporti di cambio coerenti con il riequilibrio delle rispettive bilance dei pagamenti. Sempre più spesso i comportamenti concreti dei Paesi hanno contraddetto le dichiarazioni di principio, senza riuscire a spingere nel senso voluto le aspettative degli operatori, tanto più in un mercato in cui si muove una liquidità così elevata da contrastare. C’è da tenere conto, inoltre, che i movimenti dei capitali internazionali sono sempre meno determinati dalle esigenze commerciali: oggi la motivazione speculativa è di gran lunga la prima causa degli scambi valutari. La ricerca di rendimenti più alti per gli investimenti sposta quindi attualmente i capitali in tempi brevissimi e in maniera massiccia sulla base dei differenziali dei tassi d’interesse, dell’andamento delle singole economie e delle aspettative sull’andamento futuro dei cambi, che i mercati tendono ad anticipare in maniera sempre più frenetica.

Moneta e cambio La moneta è il biglietto da visita di un Paese. In quella semplice banconota variopinta è contenuto molto più di una semplice immagine. In trasparenza, nella sua filigrana, possiamo leggere la struttura invisibile del Paese, lo stato di salute dell’economia, la stabilità politica, la solidità finanziaria, il grado di fiducia esterno, il livello di risparmio, i consumi interni, la capacità produttiva, le potenzialità delle esportazioni. Il tasso di cambio I giudizi su tutti questi aspetti, la “pagella” del Paese, si trasformano in un valore espresso dai mercati finanziari, il tasso di cambio, che non è altro che un

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prezzo: il prezzo di una moneta in termini di un’altra moneta. Non si tratta quindi di un valore assoluto, ma di una relazione. Proprio perché la moneta non ha un valore intrinseco, ma valutabile solo nei confronti delle altre monete. Nella realtà, quindi, ci sono numerosi tassi di cambio, uno per ogni coppia di valute. Occorre così stabilire quale delle due valute considerate prendere come base di riferimento. Ci possono quindi essere due modalità di quotazione: incerto per certo e certo per incerto. La prima tecnica esprime il cambio come rapporto tra una quantità variabile (e quindi incerta) di valuta nazionale e una quantità fissa (quindi certa) di valuta straniera. Per esempio, il rapporto irrevocabile di conversione per l’euro è stato fissato in 1.936,27 lire e, visto che l’euro è ormai la valuta legale anche per l’Italia, l’8 luglio 2011 il dollaro valeva 0,7021 euro (che è poi il rapporto contrario a quello prevalente sui mercati). La seconda tecnica, al contrario, utilizza il rapporto tra quantità fissa di moneta nazionale (certa) e quantità variabile di moneta straniera (incerta). Sempre l’8 luglio, l’euro era scambiato per 1,4242 dollari: è questo il rapporto di cambio cui siamo abituati normalmente a far riferimento. Tra le due modalità di quotazione c’è quindi un rapporto di reciprocità. Con l’incerto per certo un aumento del cambio indica un peggioramento del rapporto tra valuta nazionale e valuta estera (deprezzamento), mentre con il certo per incerto segnala un miglioramento della moneta nazionale (apprezzamento). Il cambio a pronti... Un’altra nozione fondamentale è la distinzione tra cambio a pronti (o spot) e cambio a termine (o forward). Le operazioni a pronti consistono in un acquisto o una vendita di valuta estera con ritiro e pagamento delle quantità trattate il secondo giorno lavorativo successivo alla data della compravendita.

L’EURO BATTE DOLLARO E STERLINA Fino all’avvento della moneta unica europea il privilegio dell’utilizzo della quotazione certo per incerto era una prerogativa del dollaro USA, di alcuni Paesi dell’ex impero britannico (sterlina britannica, sterlina irlandese, dollaro australiano e dollaro neozelandese) e della moneta virtuale europea, l’ECU. Dal gennaio 1999, a dimostrazione della forza d’attrazione e del prestigio della nuova area monetaria europea fin dalla sua nascita, sia il dollaro sia la sterlina hanno dovuto cedere il passo all’euro, che ha adottato questa tecnica di quotazione nei confronti di tutte le altre valute, anche se fino all’ultimo la comunità finanziaria londinese ha insistito per non perdere il vecchio e consolidato status.

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IL CROSS RATE Il cross rate (o cambio incrociato) è la quotazione tra due monete che si ottiene tramite una terza valuta. Facciamo un esempio per chiarire. L’8 luglio 2011 l’euro era scambiato in chiusura di seduta a quota 1,4244 dollari e 114,96 yen. Il rapporto tra questa quotazione e quella dello yen individua il cross rate del dollaro in termini di yen: 114,96 Eur/Yen : 1,4244 Eur/Usd = 80,70 Usd/Yen In Italia, prima dell’euro, tutte le quotazioni della lira nei confronti di monete diverse dal dollaro USA costituivano cross rate.

... e a termine Nelle operazioni a termine, invece, il ritiro e il pagamento si effettuano a partire dal terzo giorno lavorativo successivo alla data della compravendita. Si tratta quindi di un acquisto o di una vendita di valuta con consegna “differita”, anche se il prezzo di negoziazione – il cambio a termine –, le quantità scambiate e la scadenza sono comunque fissate all’istante.

Il mercato dei cambi L’insieme delle transazioni valutarie dà vita al mercato dei cambi, che può essere definito come il mercato in cui gli individui, le imprese e le banche comprano e vendono le valute estere.

Ogni giorno i mercati finanziari attraverso la quotazione delle valute danno il loro giudizio sui singoli Paesi che le rappresentano.

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GLI OPERATORI DEL MERCATO Possiamo individuare quattro livelli di operatori sul mercato valutario: • gli utenti tradizionali – importatori, esportatori, turisti e investitori – che cambiano la propria valuta nazionale per effettuare pagamenti relativi alle loro transazioni internazionali, a cui si aggiungono operatori indipendenti e speculatori, individui, fondi e investitori professionali che scambiano valute alla ricerca di profitti sul breve periodo; • le banche commerciali, che operano alla stregua di stanze di compensazione fra chi utilizza e chi riceve valuta estera (ma che possono aprire anche posizioni in proprio); • gli intermediari finanziari (broker), che operano per conto delle banche, pur potendo anche loro operare in proprio; • le Banche centrali, che operano come venditori o acquirenti di ultima istanza e che possono intervenire sia direttamente sui mercati sia indirettamente con gli strumenti di politica monetaria, per modificare il corso della propria valuta.

La costante variazione delle quotazioni è frutto dell’incontro tra la domanda di valuta estera, rappresentata dalle importazioni di merci e servizi, dai trasferimenti unilaterali verso l’estero e dalle uscite di capitali, con l’offerta, costituita dalle esportazioni e dalle entrate di capitali che comportano cessione di valuta estera. I protagonisti del mercato sono costantemente in contatto, in tempo reale, tramite telefoni, fax, videoterminali e sistemi tecnologici avanzati, attraverso cui si concordano le transazioni. La rilevazione della BCE La quasi totalità delle transazioni non avviene in strutture fisiche, quali le Borse valori, ma questo non ha impedito che gli scambi si siano concentrati su alcune piazze finanziarie di primaria importanza. In passato assumeva particolare rilevanza la procedura del fixing, che fissava a metà giornata i corsi ufficiali delle principali valute. Oggi il fixing ha perso buona parte della sua rilevanza a causa della trattazione “in continua”. Anche in Italia c’era un listino ufficiale delle valute, sospeso il 19 settembre 1992 dopo l’abbandono da parte della lira degli obblighi di intervento connessi al Sistema monetario europeo. Con l’avvento dell’euro all’inizio del 1999, la rilevazione della Banca d’Italia è stata sostituita da quella della Banca centrale europea (BCE) che indica i cambi di riferimento dell’euro nei confronti di 34 valute.

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Una finestra sull’economia La tabella “Indicatori reali” fornisce agli operatori ulteriori elementi interpretativi, offrendo un quadro sintetico dei principali dati relativi alla congiuntura e alle politiche monetarie dei Paesi del G-7 e dei principali Paesi europei.

Viene indicato, laddove esiste, il livello del tasso ufficiale di sconto, vale a dire il tasso applicato dalle Banche centrali alle operazioni di risconto a cui ricorrono gli istituti di credito.

Diritti speciali di prelievo (DSP), unità di conto dell’FMI, sono assegnati a ciascun Paese membro in proporzione alle rispettive quote di partecipazione. Si tratta di un’unità “paniere” composta da cinque valute. I DSP nacquero con la funzione di surrogare il dollaro come moneta di riserva, ma non sono mai riusciti ad affermarsi in questo ruolo; sono utilizzati principalmente nei contratti di assicurazione sui trasporti internazionali.

Il PIL è indicato sia sotto forma di variazioni percentuali trimestre su trimestre precedente (T/T), sia anno su anno (A/A).

Il tasso d’intervento sul mercato monetario è ormai considerato il vero tasso di riferimento per il costo del denaro: in questa colonna è rilevato in prevalenza il tasso pronti contro termine o, in mancanza di esso, un tasso equivalente.

Per la produzione industriale e per i prezzi al consumo vengono indicati il mese di riferimento e la variazione anno su anno; il dato relativo alla disoccupazione rappresenta il tasso dei senza lavoro sulla popolazione attiva. Tutti i dati sono espressi in percentuali.

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La tecnica di quotazione

Denaro e lettera Finora abbiamo parlato di cambio in termini di un prezzo unico. Nella realtà del mercato, invece, esistono due prezzi per ogni tasso di cambio e per ogni tipo di scadenza. I principali operatori, in continuo contatto tra loro, espongono infatti un primo prezzo (corso denaro o bid) a cui sono disposti ad acquistare la valuta e un secondo (corso lettera o ask) a cui sono disposti a venderla. Tali quotazioni variano in continuazione, di concerto con le mutate condizioni che caratterizzano il mercato valutario. Facciamo un esempio. Una banca richiesta della quotazione spot dell’euro in termini di dollari può fornire un prezzo di 1,4240/1,4244: il che significa che tale istituto è disposto, in quell’esatto momento, ad acquistare euro al cambio di 1,4240 dollari per un euro e a venderli al cambio di 1,4244 dollari. Lo spread La differenza tra il denaro e la lettera è detta spread. Lo spread assicura liquidità al mercato, costringendo gli operatori a quotare il prezzo di una valuta sia per il venditore sia per il compratore, e tende ad allargarsi in situazioni di mercato caratterizzate da particolare nervosismo o da incertezza relativa a una specifica valuta che portano a oscillazioni improvvise e ampie delle quotazioni.

La parte tabellare del Sole 24 ORE dedicata ai “Mercati valutari e monetari” si apre con un commento sull’andamento del mercato dei cambi del giorno precedente.

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Le tabelle dei cambi e l’analisi

La tabella indica alle 17, orario indicativo di chiusura della seduta europea, i “cambi incrociati” delle principali valute internazionali sulle corrispondenti piazze valutarie. Convenzionalmente si intende che le quotazioni della corona danese, di quella svedese e di quella norvegese siano da considerarsi per 10 unità, e quelle dello yen e della corona ceca per 100 unità.

La tabella riporta i cambi delle valute meno utilizzate sui mercati internazionali, ma comunque utili per esigenze commerciali e turistiche. Si tratta di valori indicativi, espressi sia in euro sia in dollari USA. Per facilitarne la lettura le valute sono suddivise per continenti. La terza colonna riporta la variazione percentuale dell’euro sulla valuta locale rispetto all’ultima scadenza dell’anno precedente.

Anche “Plus24” ospita il sabato spazi di approfondimento dedicati al mercato dei cambi.

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Il mercato a termine Accanto al mercato a pronti si è sviluppato il mercato a termine, sul quale si negoziano valute per consegna differita. La caratteristica fondamentale di tali contratti è che il loro regolamento, cioè la consegna e il pagamento delle quantità trattate, si effettua a partire dal terzo giorno lavorativo successivo alla data della stipulazione, mentre i termini del contratto (scadenza e prezzo di negoziazione) sono fissati al momento della sua conclusione. La differenza tra quotazioni a pronti e a termine rappresenta il “costo” dell’operazione, da ricondurre, in sostanza, al differenziale dei tassi d’interesse tra le due valute coinvolte, espresso in termini omogenei al tasso di cambio. La domanda e l’offerta di valuta estera a termine sono attribuibili alle operazioni di copertura dei rischi di cambio, alle speculazioni sui cambi e agli arbitraggi coperti sui tassi d’interesse. I contratti a termine come copertura dei rischi di cambio In un mondo come quello attuale, l’abilità degli operatori e degli investitori nel coprire le loro operazioni agevola in maniera determinante il flusso internazionale di scambi commerciali e di investimenti. Se la copertura a termine fosse impossibile, si avrebbero minori flussi di investimenti e di commercio a livello globale, con gravi conseguenze sull’economia mondiale. Se questa è l’esigenza primaria del mercato valutario a termine, il moltiplicarsi e la sempre maggiore sofisticazione degli strumenti a disposizione ne hanno aumentato l’utilizzo da parte degli speculatori, che agiscono in modo diverso da chi ha l’esigenza di coprirsi. Mentre un operatore commerciale o industriale cerca di mettersi al riparo dal rischio di cambio, lo speculatore professionista lo accetta e,

I RISCHI DI CAMBIO Prendiamo l’esempio di un importatore italiano che debba effettuare un pagamento in dollari USA a tre mesi per la merce ricevuta. Costui corre un rischio, connesso al cambio, che deriva dal fatto che fra tre mesi l’euro potrebbe essersi deprezzato rispetto al dollaro e che, quindi, acquistando i dollari alla scadenza pattuita, sarebbe costretto a un esborso maggiore. Nel caso contrario di un apprezzamento dell’euro, per l’importatore ne deriverebbe un beneficio, dovendo pagare meno. Le esigenze commerciali tendono però a privilegiare la certezza dell’esborso pattuito, e si preferisce quindi determinare fin da oggi l’acquisto a termine dei dollari necessari per il pagamento della merce, senza far ricorso a prestiti o a vincoli di fondi.

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anzi, lo ricerca, tentando di trarne profitto. Se infatti lo speculatore prevede che una specifica valuta si apprezzerà, potrà aprire una cosiddetta “posizione lunga”, acquistando a termine la valuta estera senza immobilizzo di capitali: al termine di tale periodo, se la sua previsione si sarà rivelata corretta, riceverà la valuta al cambio a termine concordato e la rivenderà immediatamente sul mercato spot a un tasso di cambio più alto, lucrando la differenza. Se invece le previsioni si riveleranno sbagliate andrà incontro a una perdita. Le scadenze Le scadenze comprese entro il mese sono conosciute come scadenze a breve termine (short maturities). Le scadenze più lunghe possono riferirsi a periodi temporali precisi (quelle tradizionali di riferimento per il mercato sono 1, 2, 3, 6 e 12 mesi) oppure a date future cosiddette “spezzate” (broken dates). Nel caso di periodi precisi, la scadenza si intende a partire dalla data di regolamento a pronti (secondo giorno lavorativo successivo alla data della compravendita). Il cambio a termine Il prezzo di negoziazione si chiama cambio a termine (forward rate). Se il tasso di cambio a termine è superiore a quello attuale a pronti, si dice che c’è un “premio a termine”. In caso contrario, se cioè il tasso a termine è inferiore a quello a pronti, si dice che c’è uno “sconto a termine”. I tassi di interesse delle valute Il premio o lo sconto a termine esprimono il differenziale dei tassi di interesse a termine delle due valute sul mercato interbancario delle eurodivise, un mercato finanziario vastissimo che si è sviluppato a partire dalla metà degli anni Cinquanta, dove sono quotati i depositi in varie valute detenuti presso banche al di fuori del rispettivo Paese di emissione.

PREMIO O SCONTO? Se il cambio spot dell’euro è quotato a 1,4244/1,4245 dollari e il cambio a tre mesi a 1,4275/1,4277 dollari, in termini convenzionali si dice che l’euro fa “premio” sul dollaro, mentre il dollaro fa “sconto” sull’euro. Nella pratica le quotazioni del cambio a termine avvengono mediante l’indicazione del premio (o dello sconto) della valuta straniera: il cambio a termine sarà così ricavato aggiungendo il premio (o sottraendo lo sconto) al cambio a pronti.

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Il prezzo di tali operazioni è rappresentato da un tasso di interesse, la cui quotazione (denaro/lettera sulle rispettive scadenze) è indicata nella tabella “Tassi interbancari” per la cui spiegazione si rinvia al capitolo 8, dedicato al mercato monetario. Tali quotazioni a termine incorporano in sostanza le attese del mercato sull’andamento futuro della valuta e dei tassi di interesse di tale moneta. Rischi e garanzie A differenza delle operazioni a pronti, le negoziazioni a termine comportano l’assunzione di rischi relativi alla controparte. In caso di insolvenza alla scadenza pattuita, infatti, si dovrà dare corso alla liquidazione dell’operazione ai prezzi di mercato del momento, il che comporta comunque un rischio di cambio. Proprio per questo è entrato nell’uso, nelle operazioni tra banca e cliente, chiedere a garanzia un importo percentuale dell’ammontare dell’operazione a termine (per esempio, il 10 o il 20% della somma negoziata).

IL CALCOLO DEL PREMIO E DELLO SCONTO Premio e sconto non rappresentano il frutto di una previsione, ma derivano dall’applicazione di una formula matematica che può essere così semplificata:

Premio/sconto =

Cambio spot × gg di durata del contratto × differenziale di tasso 36.000

dove il denominatore (360 giorni l’anno per cento) serve per rendere il risultato su base annua. Analogamente il differenziale di tasso è ottenibile con la formula inversa: Differenziale = Premio/sconto × 36.000 : durata del contratto Cambio spot Il cambio a termine risulta così equivalente a un acquisto spot aumentato o diminuito del differenziale di tasso. Il modello di riferimento è quello del cost of carry, letteralmente costo del trasporto, il costo netto derivante cioè all’operatore dall’aver “congelato” il proprio capitale fino all’esecuzione del contratto. Per esempio, un importatore che dovesse acquistare dollari tra un mese potrebbe evitare il rischio di cambio con un acquisto spot. In tal caso “parcheggerà” questi dollari in un conto che renderà sulla base dei tassi di interesse del dollaro, ma dovrà allo stesso tempo rinunciare agli euro. Il suo “costo” sarà quindi pari alla differenza fra i tassi di interesse sull’euro e sul dollaro.

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La fotografia dei mercati I dati forniti da entrambe le tabelle sono rilevati dal circuito Reuters alle ore 17, rendendo così agevole la consultazione e, soprattutto, il confronto tra le quotazioni.

Quotazioni spot denaro/lettera alla chiusura della seduta europea, così come sono rilevate dall’agenzia Reuters alle ore 17, che potrebbero essere differenti rispetto alle rilevazioni BCE.

Codice relativo alla valuta per accedere al servizio Audiotel.

In questa parte sono indicati i cambi a termine, sempre denaro/lettera e sempre nella forma certo per incerto, rilevati sulle principali scadenze utilizzate dal mercato: a 1, 2, 3, 6 e 12 mesi. Nella riga sottostante alle quotazioni di ciascuna valuta e per ciascuna scadenza è indicato il differenziale rispetto al cambio spot, vale a dire il premio (se positivo) o lo sconto (se negativo) che ciascuna valuta gode nei confronti dell’euro.

La tabella riporta i cambi spot e a termine dell’euro nei confronti di 11 tra le maggiori valute internazionali. Le quotazioni sono sulla base della modalità certo per incerto, vale a dire di un euro pari a quantità variabile di altre divise.

Come quella sull’euro, la tabella riporta, con gli stessi criteri, le quotazioni a pronti e a termine del dollaro USA nei confronti delle stesse valute. Anche il dollaro utilizza la modalità di quotazione del certo per incerto per tutte le monete, con l’eccezione di sterlina, euro e dollaro australiano.

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I derivati su valute All’operatività a termine di carattere tradizionale si è andata affiancando negli ultimi anni la convulsa crescita dei prodotti derivati, strumenti finanziari sempre più sofisticati il cui valore, come dice il nome, “deriva” da quello di un’attività sottostante, che può essere reale (una merce) o finanziaria (tassi d’interesse, valute, titoli di Stato, azioni). I contratti a termine nascono dall’esigenza di coprire i rischi connessi alle oscillazioni future dei prezzi e si sono sviluppati quindi in primo luogo sul mercato delle merci e, di riflesso, su quello valutario. Quello che inizialmente era solo un accordo tra compratore e venditore per una consegna differita nel tempo si è poi trasformato in una forma di “scommessa sul futuro” che ha iniziato a vivere di vita propria dando luogo a un mercato, quello dei prodotti derivati, autonomo rispetto a quello dei beni reali o finanziari da cui derivano. Il mercato dei derivati over the counter su cambi e tassi d’interesse ha registrato una flessione degli scambi in seguito alla crisi finanziaria del 2008, assestandosi comunque a quota 3.150 miliardi di dollari al giorno (dati BRI, 2011) per un valore nominale complessivo delle posizioni in essere sul mercato pari a 63.000 miliardi. I future I future sono contratti a termine per quantità e su scadenze standardizzate. La Banca d’Italia definisce il future «il contratto derivato standardizzato con il quale le parti si impegnano a scambiare a una data prestabilita determinate attività oppure a versare o a riscuotere un importo determinato in base all’andamento di un indicatore di riferimento».

In breve Dal 1972, presso l’International monetary market (IMM) del Chicago Mercantile Exchange, sono iniziate ufficialmente le contrattazioni su strumenti finanziari derivati, sulla base di regole omogenee e della standardizzazione di contratti, quantità e scadenze. Da allora i derivati hanno conosciuto un’evoluzione impetuosa, attribuibile soprattutto al fatto che, accanto all’efficace copertura dei rischi, essi rappresentano un ottimo strumento a disposizione della speculazione. A rendere conveniente il ricorso a un derivato è il cosiddetto leverage o “effetto leva”, vale a dire la possibilità di controllare con modeste quantità di denaro una somma molto maggiore dell’attività sottostante.

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I future valutari hanno per oggetto valuta estera e si differenziano dai normali contratti a termine per essere rigidamente standardizzati in fatto di scadenze e di importi di una specifica valuta. Per questa loro rigidità, che mal si concilia con le esigenze degli operatori, la loro rilevanza sui mercati valutari è limitata dal tradizionale, e più flessibile, mercato a termine. L’evoluzione di carattere speculativo di questi strumenti ha portato al risultato che spesso, alla scadenza, non si arriva alla consegna fisica del bene pattuito, ma si accredita semplicemente la differenza (positiva o negativa) tra il valore del mercato a pronti e il prezzo pattuito nel contratto a termine. Le opzioni L’altra grande “famiglia” di prodotti derivati è rappresentata dalle opzioni, contratti che danno all’acquirente il diritto, ma non l’obbligo, di acquistare (call option) o di vendere (put option) un determinato bene per un prezzo prefissato (prezzo d’esercizio) a una data futura (opzione di tipo europeo) o entro una data futura (opzione di tipo americano). Come compenso del diritto d’opzione, il compratore paga al venditore un premio che rappresenta il prezzo dell’opzione. È solo questo diritto a essere oggetto di contrattazione e non anche il prezzo del bene sottostante, come accade invece per i future. LE OPZIONI VALUTARIE Le opzioni valutarie hanno come bene di riferimento il rapporto di cambio di una valuta estera. Facciamo un esempio per chiarire. Un importatore che dovrà effettuare fra tre mesi un pagamento di 1 milione di dollari può decidere di acquistare un’opzione call con prezzo d’esercizio di 1,0710 dollari per un euro, pagando subito un premio di 0,0215 dollari per euro (per un totale di 21.500 dollari). Se alla scadenza il cambio del dollaro sarà inferiore al prezzo d’esercizio – supponiamo sia di 1,15 per un euro – l’importatore abbandonerà l’opzione e potrà acquistare i dollari sul mercato a condizioni migliori, perdendo così solo i 21.500 dollari di premio. Se invece il cambio del dollaro sarà pari a 1,03, potrà esercitare l’opzione limitando il suo costo a 1,0710 dollari per un euro (cui bisogna comunque aggiungere il prezzo del premio).

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I RISCHI DEI DERIVATI Secondo la più recente rilevazione della Banca dei regolamenti internazionali, gli scambi quotidiani di derivati su valute hanno raggiunto nell’aprile 2001 una media di 575 miliardi di dollari, con una crescita superiore al 50% rispetto a tre anni prima. Dato che conferma il ruolo crescente di questo comparto. È da tenere comunque presente che le contrattazioni su derivati valutari si svolgono normalmente over the counter (OTC), cioè al di fuori del mercato. Le operazioni vengono infatti effettuate direttamente fra intermediari professionali, al di fuori delle strutture regolamentate dei mercati. Il totale disordine delle legislazioni dei diversi Paesi per quanto riguarda il trattamento fiscale e l’iscrizione a bilancio dei derivati, unito ai rischi connessi al forte carattere speculativo e di “leva finanziaria” di questi strumenti, hanno fatto scattare negli ultimi anni l’allarme tra gli organismi di controllo internazionali in seguito alla scoperta di casi clamorosi di rilevanti perdite accumulate su tali strumenti da parte di singoli operatori istituzionali.

Questo limita il rischio dei compratori al premio pagato, che va perduto se alla scadenza non risulta conveniente esercitare il diritto alla conversione. Il venditore è invece esposto teoricamente a rischi illimitati, derivanti dalle oscillazioni dei prezzi del bene sottostante, contro i quali opererà le coperture del caso. Nella pratica gli operatori formulano diverse ipotesi sul prezzo futuro del bene sottostante, a ciascuna delle quali (strike o base) è associato un premio. Il domestic currency swap Un altro strumento a termine molto utilizzato dalle banche è il domestic currency swap, che consiste nel contratto con cui due controparti, titolari l’una di una posizione debitoria, l’altra di una posizione creditoria nella stessa valuta e sulla stessa scadenza, eliminano il rischio di cambio connesso a tali posizioni, senza interferire nei sottostanti rapporti con l’estero, che ciascuno esegue autonomamente sul mercato.

La lunga strada verso l’euro Dall’ECU all’euro Fin dall’inizio della sua esistenza l’Europa comunitaria ha cercato di trovare la strada per armonizzare le politiche dei Paesi membri in materia di cambio e di bilancia dei pagamenti. I primi tentativi hanno dato vita, il 13 marzo 1979, al

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Sistema monetario europeo (SME), un sistema a cambi semi-fissi con la possibilità di aggiustamenti tra le varie valute partecipanti, che viene “pensionato”con la rivoluzione della moneta unica europea, di cui è risultato peraltro un discreto strumento propedeutico. Le Banche centrali dei Paesi aderenti allo SME avevano l’obbligo di difendere con gli interventi necessari le parità bilaterali della propria valuta: ogni moneta aveva infatti un margine di oscillazione che non poteva essere infranto, pena il rischio di un riallineamento. Originariamente il margine di fluttuazione era fissato al 2,25% al di sopra e al di sotto della parità bilaterale, anche se ad alcune valute era stata concessa, in via provvisoria, una banda di oscillazione del 6%. Armonizzazione delle politiche monetarie e fiscali I frequenti riallineamenti nello SME ne avevano denunciato il principale elemento di debolezza: il voler stabilizzare i tassi di cambio tra i Paesi membri all’interno di una fascia di oscillazione ristretta, senza però armonizzare allo stesso tempo le rispettive politiche monetarie e le discipline fiscali. Per conseguire una maggiore integrazione tra le diverse politiche economiche, l’Europa ha intrapreso verso la fine degli anni Ottanta, parallelamente al processo di unificazione della Germania, un cammino mirato all’obiettivo dell’Unione economica e monetaria (UEM), a cui spetta il ruolo di “apripista” per l’unione politica. Il percorso e i suoi gradi di realizzazione vengono fissati nel dicembre 1991 dal Trattato di Maastricht. Dopo una prima fase mirata genericamente alla convergenza delle performance economiche dei Paesi membri, da perseguire mediante un maggior coordinamento delle politiche monetarie e fiscali e l’abbattimento delle barriere alla libera circolazione dei capitali, il secondo stadio ha portato alla creazione del-

BANCA CENTRALE EUROPEA: GLI ORGANI DIRETTIVI Il massimo organo decisionale della BCE è il Consiglio direttivo, formato dai sei banchieri centrali europei a cui si aggiungono i governatori delle Banche centrali dei Paesi aderenti all’UEM: ciascuno di loro ha un voto espresso come banchieri centrali europei e non come rappresentanti dei singoli Stati. Il Comitato esecutivo, o Direttorio, composto da sei banchieri centrali, tra cui un presidente e un vicepresidente, assicura la gestione quotidiana della Banca, soprattutto per quanto riguarda le operazioni sui mercati e il finanziamento del sistema bancario, coordina il lavoro del Consiglio direttivo e ne applica le decisioni.

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l’Istituto monetario europeo, embrione della futura Banca centrale europea (BCE), incaricato di accentrare maggiormente le politiche macroeconomiche dei Paesi membri. La nascita dell’euro La terza e ultima fase ha portato all’Unione monetaria vera e propria, con la nascita, il 1° gennaio 1999, della moneta unica europea, denominata euro, con un valore pari a un ECU. Una moneta rimasta “virtuale” fino al 1° gennaio 2002, quando è stata introdotta al posto delle vecchie valute europee, definitivamente scomparse. La politica monetaria dell’euro è affidata al Sistema europeo delle banche centrali (SEBC), una struttura di tipo federale con al centro la BCE, che ha come compito prioritario la stabilità dei prezzi nei Paesi dell’UEM. L’ammissione all’euro L’ammissione dei singoli Paesi alla moneta unica fu presa sulla base del rispetto dei cinque criteri di convergenza stabiliti nel Trattato di Maastricht:

• • •

il tasso di inflazione non deve superare di più di 1,5 punti percentuali quello medio dei tre Paesi con inflazione più bassa; i tassi di interesse a lungo termine non possono essere superiori di oltre due punti percentuali alla media dei tassi dei tre Paesi che hanno ottenuto i migliori risultati in termini di inflazione; il tasso di cambio deve rispettare le normali bande di oscillazione dello SME per almeno due anni e non aver subito svalutazioni della parità centrale su iniziativa del Paese;

Il progetto di unione monetaria si scontra con la mancanza di un’unione politica e di un efficace e reale convergere delle politiche di bilancio.

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• •

il rapporto tra disavanzo pubblico e prodotto interno lordo non deve superare il 3%; l’intero debito pubblico non deve essere superiore al 60% del PIL.

Sulla base delle verifiche sono stati inizialmente ammessi all’unificazione monetaria 11 Paesi (Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna), mentre ne sono rimasti esclusi 4: di fronte a problemi interni, Danimarca, Gran Bretagna e Svezia hanno preferito attendere, pur rispettando i criteri. La Grecia, che allora non soddisfaceva i parametri di convergenza, ha aderito in un secondo momento: la dracma è entrata a far parte dell’euro dal 1° gennaio 2001. In anni più recenti anche la Slovenia, la Slovacchia e l’Estonia hanno coronato con successo i loro sforzi, insieme a Paesi più piccoli come Cipro e Malta, portando a 17 gli aderenti all’area euro. Il patto di stabilità e crescita Al fine di garantire l’ulteriore convergenza per quanto riguarda i conti pubblici, i Paesi di Eurolandia sono legati al rispetto del “patto di stabilità e crescita”, che fissa impegni vincolanti per mantenere il rigore di bilancio e le convergenze economiche, il cui rispetto dovrebbe essere garantito mediante strategie sia preventive (i meccanismi di sorveglianza e allerta) sia dissuasive (le sanzioni). I Paesi dell’area euro sono così obbligati non solo a rispettare la soglia del 3% nel rapporto deficit/PIL, e il tetto del 60% per il debito pubblico sul PIL, ma anche a chiudere nel medio periodo il bilancio con «un saldo prossimo al pareggio o in surplus». Per tenere sotto controllo il percorso dei singoli Paesi, tutti gli Stati, anche quelli che non aderiscono all’euro, devono sottoporre ai ministri UE i rispettivi programmi di stabilità, vale a dire le strategie per arrivare al pareggio di bilancio. Nell’ambito di queste regole rigide, ai governi è stato lasciato un margine di manovra discrezionale per rispondere a inattese difficoltà economiche, in particolare nel caso di recessione economica dei singoli Paesi. L’applicazione concreta del “patto di stabilità” ha dato vita ad accese polemiche in tutta Europa, concentrate soprattutto sull’eccessiva rigidità del meccanismo. Anche al di fuori delle regole automatiche, i ministri finanziari non sono riusciti ad applicare le sanzioni pur in presenza di “sforamenti” del limite del deficit, mentre il meccanismo di sorveglianza ha dimostrato scarsa efficacia, come testimoniato dai rischi di default di Grecia, Irlanda e Portogallo. La discussione si è riaccesa in occasione della crisi dei mercati finanziari del 2007-08 e degli onerosi piani decisi dai governi per il salvataggio delle

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loro banche. La conseguente crisi del debito di alcuni membri scoppiata nel 2010 ha rianimato le polemiche legate agli interventi di sostegno ai singoli Paesi e al mancato rispetto dei vincoli di bilancio. Tanto da far temere che questa crisi possa travolgere lo stesso progetto della moneta unica. Il nodo delle politiche fiscali appare in effetti il problema da cui emerge quello che molti considerano un difetto che mina alle fondamenta il progetto di unificazione monetaria europea: una moneta che è espressione di Paesi caratterizzati da politiche economiche differenti, sia pur inserite in una prospettiva di convergenza e di coordinamento. I Paesi esclusi Le valute dei Paesi esclusi dalla moneta unica rimangono comunque “agganciate” all’euro con un meccanismo di cambio (il cosiddetto “SME 2”) simile al vecchio Sistema monetario europeo: la partecipazione allo SME 2 rimane uno dei requisiti per il futuro ingresso nella moneta unica. All’interno di tale sistema, oltre alla corona danese, con una banda d’oscillazione del 2,25% rispetto alla parità centrale, sono presenti una serie di valute in gran maggioranza dell’Europa orientale: lat lettone, lita lituana, lira cipriota e lira maltese. Restano invece sempre isolate e fuori dallo SME 2, sia la sterlina sia la corona svedese: pur senza compromettere le possibilità di una futura adesione alla moneta unica, entrambi i Paesi preferiscono infatti per il momento mantenere le mani completamente libere.

Nel 2011 l’Unione europea si è trovata ad affrontare una situazione che non era stata prevista dai Trattati di Maastricht: la possibile insolvenza di alcuni suoi Paesi membri.

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La creazione di una terza area forte L’Unione monetaria europea ha avuto comunque l’effetto di creare una terza area valutaria “forte” – quella dell’euro – accanto al dollaro e allo yen. Un’area economica che dopo più di dieci anni di esistenza si è imposta a livello globale. Secondo le rilevazioni della BRI, il dollaro rimane di gran lunga la moneta più utilizzata negli scambi globali e il suo peso è stato accresciuto dall’arrivo della moneta unica europea, visto che nell’aprile 2007 la valuta americana risultava una delle controparti nell’85% degli scambi valutari. L’introduzione dell’euro è riuscita alla fine a compensare il peso delle singole valute europee che l’hanno costituito: l’euro figura nel 39% delle operazioni, una quota che sostanzialmente eguaglia quella delle singole valute precedenti (40%). Anche se il ruolo del dollaro appare sovradimensionato nella sua funzione di riferimento per il commercio mondiale, gli investimenti e le materie prime (una sopravvalutazione che la Banca mondiale ha stimato nell’ordine del 20%), non è facile che l’euro arrivi a sopravanzarlo in tempi brevi dato che il biglietto verde rimane la moneta di riferimento per le riserve valutarie dei singoli Paesi e il veicolo per gli scambi tra le economie in via di sviluppo. In ogni caso, l’euro ha creato un’area economica integrata che si candida come potenza economica globale. Stando ai dati del Fondo monetario internazionale, i Paesi dell’area euro rappresentano il 14,6% del PIL mondiale, non molto lontani dal 19,7% degli Stati Uniti e comunque ben più del Giappone (5,8%). Al di là dei numeri, però, il progetto dell’euro ha mostrato negli ultimi anni i suoi limiti strutturali di fronte alla crisi del debito di alcuni Paesi membri. Il piano di aiuti di emergenza faticosamente concordato per casi del genere non risolve (anzi, in qualche modo evidenzia) il problema della debolezza del coordinamento economico e politico dei Paesi dell’Unione. Al punto da mettere in dubbio la prosecuzione dell’Unione monetaria così com’è stata pensata finora, aprendo il dibattito sull’eventualità, non prevista nei Trattati di Maastricht, sulla possibile uscita di alcuni Paesi o su progetti alternativi, come l’ipotesi di un “doppio” euro. Molto dipenderà, oltre che dall’andamento dell’economia europea, dalla capacità dei governi dei dodici Paesi di Eurolandia, della Commissione di Bruxelles e della Banca centrale europea di Francoforte, ora guidata dall’italiano Mario Draghi, di confermare la credibilità del progetto e di rafforzare la convergenza delle rispettive politiche. D’altra parte – lo abbiamo spiegato all’inizio di questo capitolo – il tasso di cambio esterno di una moneta si basa non solo su considerazioni puramente economiche, ma anche di carattere più “politico”.

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Il mercato monetario di Isabella Bufacchi

Dove andranno i tassi d’interesse? Saliranno o scenderanno? Chi non si pone, prima o poi, questa domanda? Si guarda all’andamento dei tassi prima di decidere un investimento in titoli obbligazionari o azionari, o al momento di fissare le condizioni di un mutuo o di un prestito personale. Il costo del denaro, rappresentato per l’appunto dai tassi d’interesse espressi in percentuale su base annua, influisce sulla competitività delle aziende, sul prezzo dei prodotti. E il controllo stesso dell’inflazione esercitato dalle Banche centrali attraverso la leva dei tassi a breve termine ha un impatto rilevante sul potere di acquisto di tutti, lavoratori e pensionati, investitori istituzionali e risparmiatori. Dove andranno i tassi? Tassi e rendimenti si muovono per un’infinità di ragioni. Basta elencarne alcune per rendersi conto della complessità della materia: aspettative sull’andamento dell’inflazione (i rendimenti dei titoli di Stato e delle obbligazioni a breve e lungo termine si alzano o si abbassano anche sulla base delle aspettative di inflazione al rialzo e in calo – e in base alle anticipazioni del mercato sulle prossime mosse delle Banche centrali), tensioni sul cambio nei mercati valutari (le Banche centrali aumentano i tassi per proteggere le proprie divise), crisi di liquidità del sistema (le Banche centrali abbassano i tassi), instabilità politica e deterioramento nella fiducia che un Paese possa ripagare il suo debito (i rendimenti dei titoli di Stato lievitano con il deterioramento dell’affidabilità creditizia del Paese debitore). Come orientarsi, allora, in questo mare scosso da mille correnti? Un primo punto di riferimento è il mercato monetario, dove le banche e gli istituti finanziari monetari si prestano denaro per brevi periodi, dove confluiscono le operazioni finanziarie relative alla base monetaria, cioè la circolazione e la quantità di moneta e di attività finanziarie più liquide, quelle che più facilmente possono essere trasformate in moneta. I tassi del mercato monetario, che sono a breve termine, hanno un alto valore segnaletico e influiscono su tassi a lungo termine, rendimenti delle obbligazioni e andamento del mercato azionario.

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Il mercato monetario Le tabelle del Sole 24 ORE dedicate al mercato monetario riportano tutti i principali tassi di riferimento: quelli fissati dalla Banca centrale e quelli rilevati sul settore interbancario in un momento preciso della giornata in base all’incontro della domanda e dell’offerta tra banche. Le scadenze spaziano dall’overnight, il tasso più breve (che compare nella tabella liquidità), all’Euribor a 12 mesi. Gli swap sui tassi di interesse contrappongono il tasso variabile interbancario a 6 mesi a un tasso fisso da uno a trent’anni.

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Il mercato monetario e la Banca centrale Il mercato monetario, che con i suoi tassi spazia dal brevissimo termine (l’overnight) ai 12 mesi, è il veicolo attraverso il quale vengono trasmessi gli impulsi della politica monetaria adottata dall’istituzione che ha il compito di gestirla: la Banca centrale, la “banca delle banche”. Presso la Banca centrale le banche detengono conti proprio come il cittadino detiene il suo conto corrente presso un istituto di credito. La stella polare per chi naviga sui mercati finanziari è la Banca centrale, che riveste un ruolo fondamentale, assieme a quello degli operatori finanziari, nella formazione dei tassi a breve termine del mercato monetario. I tassi della Banca centrale si ripercuotono, con un effetto domino, sui tassi applicati dalle banche nei prestiti alla clientela privata e alle imprese, ovvero sul costo del denaro e quindi su tutta l’economia del Paese. Il valore della moneta dipende infatti dal suo potere d’acquisto, cioè quanti beni può acquistare. La funzione della Banca centrale è soprattutto quella di mantenere un equilibrio tra la quantità di moneta in circolazione e i beni che può acquistare. Per realizzare gli obiettivi che si prefiggono – per esempio la stabilità dei prezzi, della valuta o della crescita economica – le Banche centrali dispongono di una serie di strumenti; tra questi uno dei più efficaci è proprio quello di fissare uno o più tassi di mercato monetario: cioè i tassi ai quali la Banca centrale presta denaro alle banche oppure ai quali remunera il denaro depositato dalle banche. Si tratta dei tassi ai quali la Banca centrale finanzia il sistema bancario, inietta o drena moneta, entro un arco temporale breve. La liquidità Il punto di partenza del costo del denaro è la liquidità. La liquidità del sistema, la materia prima delle attività finanziarie, ha di per sé un impatto sui tassi: è una questione di domanda e di offerta. Quando il sistema è molto liquido (cioè vi è molta moneta in circolazione), i tassi a breve termine tendono a scendere; per contro, quando la liquidità scarseggia, i tassi a breve subiscono una pressione al rialzo. Una delle più gravi crisi di liquidità del sistema è scaturita dal terremoto finanziario provocato dai mutui americani subprime a partire dall’estate del 2007 fino agli inizi del 2009. Questi mutui sono stati cartolarizzati e trasformati in obbligazioni per essere trasferiti dalle banche agli investitori. Ma il rischio trasferito in questo modo non è stato sempre adeguatamente valutato dagli operatori e dalle agenzie di rating. Il timore di mispricing (cioè di un prezzo sbagliato) ha contagiato altre cartolarizzazioni e tutti i prodotti strutturati facendone crollare i prezzi su un mercato secondario comunque illiquido: colpiti i bilanci delle banche e i portafogli dei gestori di fondi e di patrimoni. Le perdite realizzate e non realizzate (ipotetiche) dei titoli cartolarizzati o struttu-

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rati sono lievitate. Due fondamentali incertezze hanno paralizzato il mercato interbancario: A quanto ammontano le perdite? Dove si trovano? Nei bilanci di quali banche? Questi dubbi si sono trasformati in un micidiale crollo di fiducia nella solidità delle banche, hanno fatto schizzare all’insù i tassi interbancari e quindi hanno danneggiato enormemente la cinghia di trasmissione tra i tassi delle Banche centrali, i tassi del mercato interbancario e i tassi applicati a imprese e famiglie dagli istituti di credito. Le banche hanno iniziato a incontrare serie difficoltà nel raccogliere fondi a medio-lungo termine tramite l’emissione di obbligazioni e soprattutto per quasi un anno si è praticamente interrotto il finanziamento a breve termine tra banche attraverso il mercato interbancario. I tassi interbancari (in Europa l’Euribor) sono schizzati alle stelle e il differenziale tra questi e i tassi applicati dalle Banche centrali (una ventina di centesimi di punti percentuali, in situazioni normali) è cresciuto a dismisura. Ne ha risentito anche la normale operatività bancaria. Per esempio, le rate dei mutui a tasso variabile sono salite quando è aumentato l’Euribor per colpa della crisi di fiducia tra banche anche in mancanza di modifiche dei tassi da parte della Banca centrale europea. Poi quelle stesse rate sono crollate in assenza di tagli della BCE, quando l’Euribor è tornato su livelli pre-crisi. Giocare d’anticipo Capire il funzionamento e le dinamiche del mercato monetario aiuta a capire come e perché si muovono i tassi d’interesse a breve termine. Saper seguire e comprendere il comportamento delle Banche centrali è dunque fondamentale per comprendere il funzionamento dei mercati finanziari. È per questo che le Banche centrali stabiliscono pubblicamente e chiaramente i propri obiettivi, sia quelli finali sia quelli intermedi: per evitare che le aspettative sull’andamento dei tassi espresse dal mercato divergano dalle mosse effettivamente ponderate dalla Banca centrale e poi concretamente eseguite. I mercati finanziari si muovono soprattutto in funzione delle aspettative, perché uno dei compiti principali degli operatori finanziari è proprio quello di anticipare gli andamenti dell’economia: le attese sugli interventi delle Banche centrali influiscono sulla formazione dei tassi. Quando una Banca centrale alza i tassi a breve, la sua mossa può essere interpretata in due modi:

• •

il mercato crede che il rialzo sarà in grado di anticipare le pressioni inflazionistiche, e di conseguenza i tassi a medio-lungo termine (dai 10 ai 30 anni) scendono riflettendo l’aspettativa di tassi futuri più bassi; il mercato teme che il rialzo sia effettuato in presenza di un’inflazione già proiettata all’insù, e in questo caso i rendimenti a medio-lungo termine ten-

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dono a salire, anticipando successivi rialzi dei tassi. Quando una Banca centrale alza (o abbassa) i tassi, è importante capire a che punto si è del ciclo dei rialzi (o dei ribassi): i “tagli” o gli aumenti dei tassi sono «come acini d’uva, vengono a grappoli», secondo un vecchio detto dei tesorieri. Il mercato infine valuta la tempestività della Banca centrale e scommette se si trova “dietro la curva” (dei rendimenti) oppure davanti, insomma se è in ritardo o in anticipo rispetto all’andamento dell’inflazione, dell’economia. La crisi 2007-2011 Per l’intera durata della crisi finanziaria scaturita nel 2007, le principali Banche centrali dei Paesi industrializzati sono state impegnate in strette consultazioni e hanno collaborato ad azioni congiunte mai intraprese in precedenza per l’immissione di liquidità nel sistema finalizzata all’allentamento delle tensioni nei mercati finanziari. L’8 ottobre 2008, in un’azione concertata di allentamento delle condizioni monetarie, hanno abbassato i tassi in simultanea le seguenti Banche centrali: BCE, Federal Reserve, Banca nazionale svizzera, Bank of Canada, Bank of England, Sveriges Riksbank. La gravità della crisi finanziaria del 2007-09, alla quale si è aggiunta una violenta recessione, ha ampliato il dibattito sugli strumenti di politica monetaria delle Banche centrali. Quando i saggi guida arrivano allo 0% o vi si avvicinano molto, le Banche centrali in un certo senso perdono uno strumento d’intervento importante di allentamento della politica monetaria. Un’alternativa a quel punto può essere rappresentata dal quantitative easing: la Banca centrale espande il suo bilancio attraverso la concessione di prestiti anche alle imprese non finanziarie con l’acquisto di titoli di Stato e obbligazioni sul mercato. Se questi acquisti vengono effettuati creando moneta (“stampando moneta”), co-

La tabella (che viene analizzata nel dettaglio nel capitolo dedicato al mercato valutario) riporta quotidianamente il tasso ufficiale di sconto e il tasso di intervento. Il primo è il tasso applicato dalle Banche centrali alle operazioni di risconto a cui ricorrono gli istituti di credito. Il tasso di intervento è, invece, ormai considerato il vero tasso di riferimento per il costo del denaro.

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me nel caso della Federal Reserve e della Bank of England, la liquidità nel sistema aumenta senza limiti di tempo e dovrà essere drenata con operazioni in senso opposto. Se invece, come nel caso della BCE, gli acquisti dei titoli sul mercato vengono “cristallizzati” con il drenaggio contestuale di liquidità, allora il loro impatto è temporale e non si stampa moneta. Dall’agosto 2008 al luglio 2011 il bilancio della Federal Reserve è lievitato su livelli senza precedenti. Le attività totali hanno superato la quota dei 2.800 miliardi di dollari contro gli 870 del dicembre 2007. Il 7 maggio del 2009 la BCE ha annunciato un programma di acquisto di obbligazioni bancarie garantite o covered bond, speciali cartolarizzazioni garantite da crediti bancari e anche dal patrimonio stesso delle banche. Questo intervento (covered bond purchase programme – CBPP) ha avuto l’obiettivo di «promuovere un allentamento delle condizioni di credito e di migliorare la liquidità in questo importante segmento di mercato». Tra il 6 luglio 2009 e il 30 giugno 2010, l’Eurosistema ha effettuato acquisti definitivi di covered bond in euro fino a un valore nominale di 60 miliardi. Il 10 maggio 2010, in risposta alla crisi del debito sovrano europeo, la BCE ha lanciato un nuovo programma di acquisto di titoli obbligazionari di debito privato ma soprattutto di debito pubblico chiamato Securities markets programme (SMP). Questa volta la BCE ha affrontato il malfunzionamento di alcuni mercati dei titoli di Stato per «migliorare il meccanismo di trasmissione della politica monetaria». Fino al marzo 2011, la BCE ha acquistato un totale di 74 miliardi di titoli di Stato dell’eurozona, ma non ha fatto sapere quali. Il mercato ha stimato che siano stati acquistati i bond governativi dei tre Paesi aiutati con sostegno finanziario da UE e FMI con piani di salvataggio: titoli di Stato greci per 45 miliardi e titoli di Stato irlandesi e portoghesi per 30 miliardi. Dall’8 agosto all’8 settembre (quando questo libro è andato in stampa), la BCE ha acquistato altri 70 miliardi, questa volta quasi o tutti titoli di Stato italiani e spagnoli su durate prevalentemente tra 5 e 10 anni. La Banca centrale europea ha mal digerito questa funzione di acquisto titoli sul mercato secondario e nella primavera del 2011, con l’aggravarsi della crisi greca, aveva sospeso questi interventi straordinari per poi riprenderli in estate a causa del crollo dei prezzi di BTP e bond e l’impennata dei rendimenti su tassi quasi insostenibili per la dinamica del debito pubblico italiano e spagnolo. Non spetta alla BCE infatti contribuire con operazioni di mercato all’adozione di sane politiche fiscali nei Paesi dell’eurozona perché questo obiettivo è essenzialmente politico. La Banca centrale europea è guardiano della stabilità dei mercati e mantiene sotto controllo l’inflazione: per questo incoraggia l’equilibrio dei conti pubblici, la sostenibilità del debito pubblico degli Stati dell’eurozona.

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L’Eurosistema La Banca centrale europea (BCE) è stata istituita il 1° giugno 1998 ed è operativa dal 1° gennaio 1999 con la nascita dell’euro. È responsabile della conduzione della politica monetaria nell’area dell’euro. Assicura una rapida ed efficace esecuzione delle operazioni interbancarie, decide le emissioni di banconote, gestisce e detiene le riserve in valuta estera, effettua operazioni sul mercato dei cambi acquistando e vendendo valuta. Il suo compito consiste «nel preservare il potere d’acquisto dell’euro, mantenendo la stabilità dei prezzi per il bene comune nell’area dell’euro». L’Eurosistema è composto dalla BCE e dalle Banche centrali nazionali dei 17 Paesi che hanno adottato la moneta unica, mentre si parla di SEBC, ovvero di sistema europeo di Banche centrali, quando ci si riferisce alla BCE e alle Banche centrali nazionali di tutti gli stati membri della UE, indipendentemente dal fatto che abbiano adottato l’euro. Sono due sistemi che coesisteranno fino a quando vi saranno membri dell’Unione non aderenti all’euro. La BCE si definisce «il capitano della squadra dell’Eurosistema». L’Eurosistema è l’autorità monetaria dell’area della moneta unica europea: ha come obiettivo principale la stabilità dei prezzi ma, nella veste di autorità finanziaria, salvaguarda anche la stabilità del sistema finanziario e ne promuove l’integrazione in Europa. Il consiglio direttivo della BCE ha definito la stabilità dei prezzi come «un aumento sui dodici mesi dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo (IAPC) per l’area dell’euro inferiore al 2%» e ha specificato che deve essere preservata «su un orizzonte di medio termine».

LA STRUTTURA DELLA BCE

PRESIDENTE

Il Consiglio direttivo è responsabile della formulazione della politica monetaria. Il Comitato esecutivo la mette in pratica secondo gli indirizzi del Consiglio.

CONSIGLIO DIRETTIVO (obiettivi intermedi)

COMITATO ESECUTIVO (decisioni quotidiane)

CONSIGLIO GENERALE (organo consultivo)

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Un sistema unico al mondo L’Eurosistema è diretto dal Consiglio direttivo e dal Comitato esecutivo della BCE. Il primo è formato da tutti i membri del Comitato esecutivo e dai governatori delle Banche centrali nazionali degli Stati membri che hanno introdotto l’euro. Il Comitato esecutivo è composto dal presidente, dal vicepresidente e da quattro altri membri nominati dai capi di Stato o di governo degli Stati membri che hanno adottato l’euro. Armonizzare i dati Per compilare le statistiche monetarie e bancarie, la BCE raccoglie i dati provenienti dalle istituzioni finanziarie e monetarie (le cui passività contribuiscono alla creazione della moneta) dei singoli Paesi. Per permettere la compilazione di statistiche monetarie comunitarie è stato necessario procedere a particolari armonizzazioni per quanto riguarda la scelta delle istituzioni e per la tipologia di informazioni che le istituzioni devono fornire (su base mensile o trimestrale). Obblighi, regole e controlli Anche le controparti nelle operazioni di politica monetaria del SEBC devono soddisfare specifici criteri di idoneità. Queste istituzioni anzitutto sono assoggettate al regime di riserva obbligatoria. Le banche devono detenere un certo livello di liquidità: questo contribuisce a stabilizzare i tassi d’interesse del mercato monetario e accresce la dipendenza della banche con la BCE. Le istituzioni che risultano esenti dagli obblighi di riserva non sono controparti autorizzate del SEBC nelle operazioni svolte su loro iniziativa e nelle operazioni di mercato aperto. Le controparti nelle operazioni di politica monetaria devono essere finanziariamente solide e assoggettate a forme di controllo da parte delle autorità nazionali. Cresce il ruolo dell’M3 Come spiega la stessa BCE, data l’origine monetaria della dinamica dei prezzi nel medio-lungo periodo, si possono desumere informazioni utili sull’evoluzione futura dei prezzi dagli andamenti della quantità di moneta detenuta dal pubblico. Questi costituiscono perciò un importante strumento di orientamento per la conduzione della politica monetaria. Di conseguenza, al momento della fondazione della BCE il Consiglio direttivo ha deciso di attribuire all’aggregato monetario ampio M3 un «ruolo di primo piano nella strategia di politica monetaria, attraverso l’annuncio di un valore di riferimento per il suo tasso di crescita annuale». Il valore di riferimento è stato inizialmente fissato al 4,5% come tasso di crescita annuo.

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LE DIVERSE MASSE MONETARIE Ecco le definizioni di M1, M2 e M3 fornite dall’Eurosistema. •

M1 o aggregato monetario ristretto: formato da contante (banconote e monete) e saldi che possono essere subito convertiti in contante o usati per pagamenti, cioè i depositi a vista. • M2 o aggregato monetario intermedio: in aggiunta all’M1, comprende i depositi con scadenza fino a 2 anni e i depositi rimborsabili con preavviso fino a 3 mesi. • M3 o aggregato monetario ampio: comprende in aggiunta all’M2 (e quindi anche all’M1) alcuni strumenti negoziabili emessi dal settore delle istituzioni finanziarie monetarie (IFM), cioè dalle Banche centrali, dagli istituti di credito e da altre istituzioni finanziarie come i fondi di investimento monetario.

Gli aggregati monetari vanno dai più ristretti, come la moneta della Banca centrale o base monetaria (che consiste nel circolante nella forma di biglietti e monete e nei depositi presso la Banca centrale) ai più ampi, che comprendono il circolante, i depositi presso le banche commerciali e alcuni tipi di titoli. La variabile M3, uno dei pilastri su cui si basa la politica monetaria della BCE, è un indicatore di difficile calcolo.

I tassi di Eurolandia Sono tre i tassi di riferimento nella zona dell’euro: vengono fissati dal consiglio direttivo della BCE. 1) il tasso delle operazioni di rifinanziamento, strumento chiave per la liquidità del sistema; 2) il tasso dei depositi overnight con l’Eurosistema; 3) il tasso dei prestiti overnight accordati alle banche dall’Eurosistema. Le funzioni della moneta Il mercato monetario costituisce quel “bacino della liquidità” formato – nella definizione della Banca centrale europea – dal contante (banconote e moneta), dai depositi a vista e dai depositi interbancari con scadenza fino a un massimo di due anni. La moneta svolge diverse funzioni: mezzo di scambio di beni e servizi, unità di conto in termini di prezzo dei vari beni e servizi, e riserva di valore, anche a scopo di risparmio.

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Anche con l’avvento dell’euro, il mercato interbancario dei depositi continua a essere quel mercato all’ingrosso con scadenze dall’overnight ai 12 mesi utilizzato soprattutto dalle tesorerie delle banche per sistemare gli scompensi, gli eccessi o i deficit temporanei dei fondi, della liquidità. La tabella riporta il tasso interbancario applicato al trasferimento di fondi tra due controparti, lo stesso giorno in cui avviene la contrattazione.

Per i cittadini di Eurolandia, l’impatto del mercato monetario e delle oscillazioni dei tassi a breve termine della moneta unica sulla vita di tutti i giorni è notevole: sia sul lato delle passività (per esempio, i mutui a tasso variabile indicizzati ai tassi interbancari) sia sul lato delle attività (per esempio, gli investimenti in BOT, o titoli obbligazionari a breve o con cedola variabile indicizzata ai tassi interbancari). I tassi interbancari I tassi fissati dalle Banche centrali hanno un forte e immediato impatto sui depositi interbancari, cioè sui tassi d’interesse applicati dalle banche alle controparti bancarie che prendono oppure danno liquidità, dall’overnight ai 12 mesi. Il mercato interbancario è dunque una componente importante e centrale del mercato monetario: i suoi tassi, che prendono spunto dal costo del denaro fissato dalla Banca centrale, sono determinati anche dalle aspettative degli operatori sulle prossime mosse della Banca centrale, e quindi sulle attese di rialzo o ribasso dei tassi a breve termine futuri. La crisi di liquidità del sistema negli anni 2007-09 ha messo in risalto un’altra importante componente dei tassi interbancari: il rischio di solvibilità della controparte bancaria. Nel pieno della crisi il differenziale tra il tasso Euribor a 3 mesi e il tasso di rifinanziamento della BCE ha superato i 110 centesimi di punto percentuale (1,10%): nel gennaio 2009 il ritorno alla normalità è stato rappresentato dal restringimento di questo gap a 25 centesimi (tasso BCE al 2% ed Euribor a 3 mesi al 2,25%).

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A loro volta, i tassi interbancari, che rappresentano il costo della raccolta a breve termine (del denaro, della liquidità) sopportato dalle banche, si ripercuotono sui tassi applicati dalle banche alla clientela: la remunerazione del certificato di deposito, il mutuo ipotecario, il prestito e il prime rate, ovvero il tasso applicato alla clientela migliore (per esempio le aziende industriali con la massima affidabilità creditizia). I tassi fissati dalla Banca centrale diventano un punto di riferimento anche per quanto riguarda il rendimento dei titoli di Stato. Il sistema delle garanzie Tutte le operazioni sul mercato aperto per la gestione della politica monetaria della BCE sono eseguite dalle Banche centrali nazionali con le rispettive controparti bancarie nazionali: è una procedura di carattere unicamente procedurale e amministrativo visto che le decisioni sull’aggiudicazione, sugli importi e sulla definizione dei tassi di queste operazioni vengono prese a livello centralizzato dalla BCE. In linea con quanto accade nelle Banche centrali di tutto il mondo, l’Eurosistema offre liquidità al settore bancario solo a fronte di garanzie. Ai sensi dell’articolo 18/1 dello Statuto del SEBC/BCE, tutte le operazioni di credito (cioè di finanziamento) devono essere effettuate a fronte di adeguate garanzie, cosiddette collaterali. Il concetto di adeguatezza delle garanzie deriva dalla necessità per l’Eurosistema di tutelarsi contro possibili perdite. Inoltre l’accesso alla liquidità della BCE deve fondarsi su principi di trasparenza e parità di trattamento. Il primo sistema di garanzie adottato dall’Eurosistema è stato realizzato su due liste per assicurare un ordinato passaggio all’euro e per ridurre al minimo i costi di adeguamento per i sistemi bancari nazionali. Sono state individuate due liste di attività stanziabili per tener conto delle diverse strutture esistenti a livello nazionale.

Lending facility, tasso overnight al quale le banche controparti dell’Eurosistema possono ottenere finanziamenti overnight presso la BCE.

Deposit facility, tasso overnight al quale le banche controparti del SEBC possono depositare fondi presso la BCE overnight.

Il mercato monetario dell’euro ruota intorno al tasso stabilito dalla BCE nelle operazioni di rifinanziamento principali, ovvero nei pronti contro termine effettuati su base regolare ogni settimana.

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La lista di “primo livello” comprende strumenti di debito negoziabili (per esempio, titoli di Stato oppure obbligazioni con elevato rating) che soddisfano particolari criteri di stanziabilità definiti dalla BCE e validi per l’UEM; la lista di “secondo livello” comprende altri strumenti, negoziabili e non, che hanno particolare importanza per i mercati finanziari e sistemi bancari a livello nazionale, previa autorizzazione della BCE. L’Eurosistema ha tuttavia deciso di sostituire questo sistema su due livelli con un sistema basato su una lista unica. La transizione verso la lista unica è graduale: la prima fase, che ha riguardato le attività negoziabili, è stata attuata nel maggio 2005. La seconda, consistente nell’inclusione dei prestiti bancari, è iniziata nel gennaio 2007 e vedrà la sua conclusione nel gennaio 2012. La lista unica è una risposta agli svantaggi del sistema di garanzia a due livelli e conferma l’elevato grado di integrazione dei mercati finanziari già raggiunto all’interno dell’area euro. La preoccupante crisi di liquidità nella zona dell’euro iniziata verso la fine del 2007 ha costretto la Banca centrale europea a “sostituirsi” – sia pur temporaneamente – al mercato interbancario per tentare di evitare che la stretta del credito tra banche si trasferisse all’economia e che il credit crunch (stretta creditizia) colpisse imprese e famiglie. La BCE ha quindi aumentato gli importi delle operazioni di rifinanziamento. Alcuni esempi: si è passati dai 450 miliardi di euro di agosto 2007 fino agli 820 miliardi nella media degli ultimi due periodi di mantenimento del 2008, per poi tornare a quota 640 miliardi all’inizio del 2009. Come conseguenza di questa decisione di ampliamento della liquidità fornita al mercato, la Banca ha esteso la lista dei titoli che possono essere consegnati come garanzie collaterali alle operazioni con controparte BCE e sono stati allentati quanto possibile i requisiti di ammissibilità, che richiedono almeno un rating a livello minimo. A causa della crisi del debito sovrano europeo, la BCE ha poi temporaneamente abbassato il rating minimo dei collateral, i titoli in garanzia, passando dalla A- alla BBB-. Quando però tutti i rating dei titoli di Stato greci sono stati declassati al di sotto della BBB-, cioè quando sono entrati nella categoria dei rating speculativi (non-investment grade), la BCE ha annunciato che la Grecia avrebbe avuto un trattamento eccezionale: i titoli di Stato greci sono stati accettati come collaterale nelle operazioni BCE al di là del rating. Allo stesso tempo però la Banca centrale ha definito una soglia minima: i bond in default non possono essere utilizzati come collaterale. Questo vincolo ha eretto un muro tra la BCE e le ipotesi di ristrutturazione del debito greco con condivisione delle perdite tra i creditori privati così come proposte dagli stati dell’Eurogruppo: una perdita di qualsiasi entità nei bilanci delle istituzioni finanziarie e degli investitori, sia pur accettata su base volontaria, provoca

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infatti una dichiarazione di default, selective default o restricted default da parte delle agenzie di rating riconosciute dalla BCE. La Banca d’Italia ha lanciato un’iniziativa finalizzata al problema della liquidità e al rafforzamento dei mercati monetari. Al fine di favorire una ripresa delle contrattazioni sui circuiti interbancari, la Banca d’Italia – in collaborazione con la società E-MID e con l’Associazione bancaria italiana – ha realizzato un apposito segmento per lo scambio interbancario di fondi collateralizzati nella piattaforma E-MID, che ha assicurato il completo anonimato nelle contrattazioni e che è stato supportato da uno schema di garanzia. In questo nuovo mercato chiamato MIC (mercato interbancario collateralizzato) la Banca d’Italia infatti ha provveduto a valutare il collateral (garanzia) prestato dalle banche, a verificare il rispetto delle negoziazioni e ad assicurare il puntuale regolamento delle operazioni nel caso di inadempienza di un operatore, rivalendosi successivamente delle garanzie conferite. Questa iniziativa, decollata a metà gennaio 2009 per durare fino alla fine del 2010, è stata messa a punto per «consentire agli operatori di scambiarsi fondi minimizzando i rischi di controparte e di liquidità». La partecipazione delle banche è stata limitata e vincolata in base al patrimonio di vigilanza delle stesse, ma potrebbe essere ampliata in chiave europea. Le operazioni dell’Eurosistema Il 22 dicembre 1998 il Consiglio direttivo della BCE ha adottato due decisioni, fissando così le fondamenta del mercato monetario della moneta unica europea. Questi due pilastri rappresentano l’essenza del modo di operare dell’Eurosistema e forniscono quindi i punti di riferimento per poter capire e seguire la gestione della politica monetaria nell’area euro.

Operazioni di mercato aperto Lo strumento più importante è rappresentato dalle operazioni di mercato aperto per la bce. Servono a:

• • •

influenzare i tassi d’interesse; regolare la liquidità del mercato monetario; segnare l’orientamento di politica monetaria.

E sono suddivise in quattro categorie:



operazioni di rifinanziamento principali, ovvero operazioni temporanee di immissione di liquidità con frequenza e scadenza settimanale; il tasso mini-

212 . FINANZA E MERCATI

• • •

mo di offerta di queste operazioni, effettuate tramite sistema di asta, è un saggio guida per il mercato. Rappresentano la più importante operazione di mercato aperto; operazioni di rifinanziamento a più lungo termine, sotto forma di operazioni temporanee finalizzate all’immissione di liquidità. Hanno frequenza mensile e solitamente la liquidità ha durata di 3 mesi; operazioni di regolazione puntuale (f ine tuning) che, senza una scadenza prestabilita, servono a regolare la liquidità del mercato, a controllare l’evoluzione dei tassi d’interesse, ad attenuare squilibri di liquidità; operazioni di tipo strutturale tramite emissione di certificati di deposito. Operazioni attivabili su iniziativa delle controparti (standing facilities)

L’Eurosistema prevede operazioni attivabili su iniziativa delle controparti, cioè delle istituzioni finanziarie come le banche: sono finalizzate a immettere o assorbire liquidità overnight e porre un limite alle fluttuazioni overnight. Si suddividono in due categorie:

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operazioni di rifinanziamento marginale (marginal lending facility), con le quali le banche ottengono liquidità overnight dalle Banche centrali nazionali a fronte di garanzie o collaterali; operazioni di deposito utilizzabili dalle banche per costruire depositi overnight presso le Banche centrali nazionali. Durante la crisi di liquidità del 2007-09, a metà del gennaio 2009 i depositi presso la BCE hanno toccato un massimo storico pari a 315 miliardi di euro. Prima della crisi, a fine giugno 2007, i depositi erano appena di 1 miliardo di euro.

Il ruolo delle operazioni di mercato aperto Per la BCE le operazioni di mercato aperto rivestono un «ruolo di primo piano nella politica monetaria per controllare i tassi d’interesse a breve termine, gestire le condizioni di liquidità sul mercato monetario e segnalare l’orientamento della politica monetaria». Tra queste, l’operazione più importante è quella del pronti con-

In breve Per garantire la massima trasparenza della programmazione, la BCE pubblica un calendario delle operazioni che verranno svolte nel corso dell’anno. Gli operatori italiani erano invece abituati a interventi principali da parte della Banca d’Italia effettuati nelle date di effettivo fabbisogno di fondi nel sistema: per gli operatori italiani, quindi, la programmazione della liquidità e lo studio di un calendario hanno rappresentato una grande novità.

IL MERCATO MONETARIO . 213

tro termine: la BCE finanzia regolarmente il sistema bancario offrendo moneta a prestito. Le operazioni di pronti contro termine, i cosiddetti P/T conosciuti anche in Italia con il nome inglese di repos (repurchase agreements), consistono in un duplice contratto di compravendita di titoli o attività finanziarie entro un arco temporale breve, stipulato tra due controparti: un acquisto di titoli in contanti (a pronti), utilizzati per essere rivenduti a termine e quindi per impiegare liquidità, oppure una vendita di titoli a pronti, venduti per essere riacquistati a termine e quindi per raccogliere liquidità. I pronti contro termine sono quindi al tempo stesso uno strumento di investimento e un mezzo di finanziamento. L’operazione viene effettuata sia al dettaglio sia all’ingrosso. Nel primo caso, i P/T diventano strumenti per l’intermediazione del risparmio dove la clientela delle banche impiega fondi, mentre la banca raccoglie liquidità a breve termine. Nel secondo, i P/T sono operazioni strettamente di mercato interbancario che servono a intermediare la liquidità tra grandi operatori e gestire anche i rischi finanziari. Il tasso al quale questi fondi vengono prestati e la dimensione stessa dei finanziamenti hanno un grosso impatto sul mercato monetario: in base alla legge della domanda e dell’offerta, se c’è moneta in abbondanza i tassi tendono a scendere, mentre se la liquidità è scarsa la pressione sui tassi è al rialzo. Il meccanismo è semplice: iniettando o assorbendo moneta con i P/T, la Banca centrale rende noto il proprio orientamento sui tassi d’interesse e sul costo del denaro per gestire la politica monetaria. I P/T della BCE possono essere a

IL FORTE SVILUPPO DEI P/T Il mercato dei pronti contro termine è stato inaugurato in Italia nel 1979 dalla Banca d’Italia, che ha eseguito le prime operazioni per controllare nel brevissimo termine l’afflusso di liquidità al sistema bancario e il livello dei tassi. All’epoca, le banche e le società finanziarie iniziarono a effettuare P/T tra di loro e con la clientela. Il mercato si è sviluppato lentamente, in mancanza di chiarezza giuridica e fiscale. Alla fine degli anni Novanta, in attuazione del decreto del Tesoro del 24 ottobre 1997, le operazioni di pronti contro termine sono entrate sul circuito telematico del Mercato telematico secondario dei titoli di Stato (MTS). Il mercato dell’euro ha dato un forte impulso allo sviluppo di questo strumento. L’ICMA (International capital market association) stimava alla fine del 2010 il mercato totale del pronti contro termine attorno ai 5.900 miliardi di euro.

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tasso fisso oppure a tasso variabile: i due metodi hanno un valore segnaletico diverso e seguono procedure di assegnazione dei fondi diverse. A tasso fisso Nel P/T a tasso fisso, la BCE dà un segnale forte perché fissa in anticipo il tasso della sua operazione di finanziamento principale. L’elemento variabile è costituito dall’ammontare dell’operazione che non viene reso noto al momento dell’annuncio dell’asta ma, solo successivamente, quando vengono divulgati pubblicamente i risultati. In un’asta a tasso fisso, quindi, la BCE stabilisce preventivamente il tasso e le controparti specificano l’importo che intendono negoziare al tasso d’interesse fissato. Le banche partecipanti alle aste devono stimare al meglio la liquidità del sistema per poter prevedere l’ammontare che verrà finanziato o iniettato: in un sistema molto liquido, la BCE tenderà a fissare un ammontare inferiore a quello in scadenza. La BCE non opera per soddisfare le esigenze dei singoli Paesi, ma utilizza gli strumenti di politica monetaria facendo riferimento al mercato monetario dell’euro nel suo insieme. PRONTI CONTO TERMINE A BREVE E MEDIO TERMINE DELLA BCE Breve termine

Medio termine

Scadenza

solitamente a 1-2 settimane

a tre mesi (98 giorni)

Frequenza

con regolarità ogni settimana seguendo il calendario indicativo, pubblicato almeno con tre mesi di anticipo rispetto all’anno a cui si riferisce

con regolarità ogni mese seguendo il calendario indicativo reso noto almeno tre mesi prima dell’inizio dell’anno a cui si riferisce

Annuncio

lunedì

il primo martedì del periodo della riserva obbligatoria

Asta

martedì (si svolge in 24 ore dell’annuncio alla certificazione dei riparti (individuali)

il primo mercoledì del periodo di riserva obbligatoria

Regolamento

mercoledì

il primo giovedì del periodo di riserva obbligatoria

Garanzie

le banche partecipanti devono stanziare a garanzia dell’acquisto dei fondi attività collaterali (di primo e secondo livello)

le banche sono tenute a partecipare fornendo garanzie collaterali di primo e/o secondo livello

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Un’altra caratteristica del P/T a tasso fisso è il riparto: tanto più bassa è la percentuale del cosiddetto allotment (assegnazione) tanto maggiore è la richiesta di fondi al tasso fisso dell’operazione. La percentuale del riparto tende a essere elevata quando il sistema è molto liquido o quando le banche scommettono su un imminente ribasso dei tassi. A tasso variabile Nelle aste a tasso variabile, le controparti della BCE specificano l’importo e il tasso d’interesse al quale sono disponibili a operare con le Banche centrali nazionali. In questo tipo di P/T, l’Eurosistema può adottare la procedura d’asta a tasso unico oppure a tasso multiplo. Le operazioni di fine tuning La BCE si è inoltre dotata di una ricca serie di strumenti di intervento veloce che consentono di agire rapidamente per regolare la liquidità del mercato e anche, come stabilito dall’Eurosistema stesso, per «controllare l’evoluzione dei tassi d’interesse principalmente al fine di ridurre gli effetti di fluttuazioni impreviste della liquidità sui tassi d’interesse stessi». Per consentire la massima rapidità d’intervento, la frequenza non è regolare e le scadenze non sono standardizzate. La BCE può decidere di effettuare un’operazione di fine tuning sul mercato aperto coinvolgendo tutte le banche dell’area dell’euro, oppure può optare per procedure bilaterali rivolgendosi a una stretta cerchia di banche primarie residenti in Eurolandia. Il corridoio dei tassi Le operazioni su iniziativa delle controparti della BCE, cioè le banche, hanno la funzione di «fornire e assorbire liquidità overnight e indicare in termini generali le intenzioni che nel medio periodo informano la condotta della politica monetaria». Sono uno degli elementi più innovativi della politica monetaria europea per gli operatori italiani. La BCE fissa un corridoio di tassi overnight (standing facilities), che sono sopra e sotto il tasso delle operazioni di rifinanziamento principali. Questa banda è costituita da un tetto minimo, che è il tasso al quale le banche controparti possono effettuare depositi overnight presso le Banche centrali nazionali, e da un tetto massimo che è il tasso al quale le banche controparti possono ottenere liquidità overnight presso le Banche centrali nazionali. Di conseguenza, le oscillazioni del tasso overnight sul mercato interbancario nell’area dell’euro sono in linea di massima delimitate dalle bande di questo corridoio. Nella fase di avvio dell’euro, le standing facilities hanno assunto un ruolo segnaletico molto importante sulla condizione della liquidità nel sistema in Euro-

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L’overnight, il tasso interbancario applicato alla compravendita di liquidità nell’arco della giornata con regolamento la giornata lavorativa successiva, è divenuto un tasso di riferimento.

EONIA (euro overnight index average) è la media ponderata dei tassi overnight comunicati alla BCE da un campione di banche operanti nell’area dell’euro.

EONIA rappresenta la media dei tassi di finanziamento overnight comunicati alla BCE da un pool di 57 banche. Non viene rilevato sugli scambi effettivamente conseguiti, ma sulle proposte di tasso quotate dalle banche. Viene calcolato dalla BCE nel tardo pomeriggio e reso noto attorno alle 19, ora dell’Europa continentale: è un tasso arrotondato a tre decimali con divisore a 360 giorni. Per conoscere l’importo giornaliero del tasso occorre dividere il valore comunicato per 360 giorni.

Tassi overnight per il mercato italiano calcolati dall’ATIC, l’Associazione dei tesorieri.

landia. Queste operazioni di rifinanziamento su iniziativa delle controparti fanno emergere gli squilibri, ovvero la carenza o l’eccesso di liquidità, perché i tassi delle lending facilities e delle deposit facilities sono i “peggiori” disponibili nell’Eurosistema, rappresentando per l’appunto il tetto minimo e il tetto massimo. Il ricorso alle standing facilities per importi elevati segnala un problema nel reperimento o nell’impiego della liquidità sul mercato interbancario: problema che può essere dovuto a un’effettiva scarsezza o abbondanza di liquidità a livello di Eurosistema, oppure a un’inefficiente distribuzione e circolazione della liquidità, ovvero il mancato travaso di liquidità da un Paese all’altro. Già prima della recente crisi di liquidità, nel dicembre 2005, la BCE ha deciso di aumentare da 30 a 40 miliardi di euro i volumi offerti in ciascuna delle operazioni di rifinanziamento a più lungo termine (da non confondersi con le operazioni di rifinanziamento principali). La quantità media di liquidità immessa sul mercato attraverso queste operazioni è risultata nel 2006 in forte aumento rispetto al 2005 (da 88 a 116 miliardi di euro). Anche il numero delle banche partecipanti alle aste è lievitato (da 151 nel 2005 a 162 nel 2006). Nel dicembre 2006 la BCE ha deciso di elevare ulteriormente a 50 miliardi di euro l’importo offerto in queste operazioni per soddisfare la maggiore domanda di liquidità. Le misure non convenzionali La crisi finanziaria iniziata nel 2007 e la crisi del debito sovrano europeo hanno generato gravi tensioni in tutti i canali di trasmissione della politica monetaria, attraverso i quali le decisioni sui tassi d’interesse della BCE influiscono sull’economia e sui prezzi: questo è stato riconosciuto da Francoforte. Hanno compromesso il meccanismo di trasmissione dai tassi di interesse ufficiali ai tassi del mercato monetario e ad altri tassi del mercato bancario. I rendimenti

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LE MISURE NON CONVENZIONALI ADOTTATE DALLA BCE (agosto 2007-giugno 2011)

La figura è tratta da una pubblicazione della BCE. Le barre scure indicano che le operazioni sono state condotte nel mese specifico, mentre quelle chiare segnalano che non sono state condotte nuove operazioni ma che è rimasta in essere la liquidità offerta nelle operazioni precedenti. Non sono riportate tutte le misure non convenzionali attuate dalla Banca centrale in quanto alcune non sono di facile rappresentazione.

sui titoli di Stato, ha spiegato la BCE, possono fungere da determinante nella fissazione dei prezzi di altre attività e quindi lo sconvolgimento del mercato dei titoli di Stato può modificare il meccanismo di trasmissione. Inoltre le difficoltà che hanno riscontrato le banche nell’accedere al finanziamento sul mercato hanno aumentato il rischio di contrazione dei prestiti bancari e quindi una stretta creditizia. Cosa ha fatto allora la BCE per contrastare queste tensioni eccezionali? Si è attivata in quattro direzioni: 1) erogazione di liquidità a tasso fisso con piena aggiudicazione degli importi richiesti; 2) ampliamento delle attività stanziabili a garanzia; 3) erogazione di liquidità a lungo termine; 4) erogazione di liquidità in valuta estera; acquisti definitivi di determinati titoli di debito. Dall’agosto del 2007 la Banca centrale ha fornito importi più elevati in aggiudicazione nelle operazioni di rifinanziamento principali (ORP) all’inizio del periodo di mantenimento e, mediante le operazioni di rifinanziamento a 3 mesi, è stata stanziata una quota più elevata di liquidità allungando la scadenza della liquidità.

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Dall’acuirsi della crisi nel settembre 2008, con un mercato interbancario letteralmente in tilt, la BCE ha assunto direttamente il ruolo di intermediazione dell’offerta di liquidità alle singole banche passando da aste a tasso variabile ad aste a tasso fisso con piena aggiudicazione degli importi richiesti dalle controparti. L’elenco delle garanzie idonee è stato ampliato a più riprese. Sono state inoltre estese a 12 mesi di durata le operazioni di rifinanziamento a più lungo termine. La durata residua media della liquidità è passata da 20 giorni a prima della crisi a oltre 200 giorni nella seconda metà del 2009. Secondo la BCE «la piena aggiudicazione a tasso fisso della liquidità richiesta dal settore bancario a fronte di un elenco ampliato di garanzie ha aiutato a stabilizzare la situazione di finanziamento delle IMF (istituzioni monetarie finanziarie) nei Paesi più gravemente colpiti dalla crisi del debito sovrano».

Come si sposta la moneta Il sistema dei pagamenti, cioè la procedura per il trasferimento della moneta, è uno snodo centrale della circolazione della liquidità, ed è quindi uno dei perni fondamentali per il buon funzionamento del mercato monetario e interbancario. L’unione di undici monete è stata realizzata nell’arco di poche ore: l’unione di 11, e poi 17, mercati monetari si è rivelata un processo molto più lungo e complesso soprattutto per quanto riguarda il sistema dei pagamenti. Per gestire al meglio la politica monetaria, la BCE ha bisogno di un mercato interbancario efficiente dove gli operatori sono in grado di prendere la liquidità dove questa è maggiormente disponibile. TARGET: un sistema di pagamento “espresso” La distribuzione omogenea della liquidità fra i 17 Paesi partecipanti all’Unione monetaria e tra i 27 partecipanti alla UE è indispensabile. Per questo dal 4 gennaio 1999 è entrato in funzione TARGET (trans-automated real-time gross In breve sta per Trans-automated real-time gross settlement express transfer system (Sistema di trasferimento espresso automatizzato di regolamento lordo in tempo reale). Con il termine “regolamento lordo” si intende che i pagamenti vengono gestiti singolarmente; “in tempo reale” vuol dire che il trasferimento di fondi ha luogo entro un arco temporale brevissimo: in condizioni ottimali TARGET, per esempio, garantisce che un pagamento immesso nel sistema giunga a destinazione da un minimo di pochi secondi fino a un massimo di due minuti.

TARGET

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settlement express transfer system), un sistema di regolamento in tempo reale dei pagamenti interbancari di importo elevato, integrato per l’area dell’euro, che assicura il trasferimento della liquidità da una nazione all’altra e da un operatore all’altro in modo sicuro, affidabile, efficiente e rapido. In particolare, il sistema TARGET è stato ideato per raggiungere tre obiettivi principali:

• • •

soddisfare le esigenze della politica monetaria dell’Eurosistema e agevolare la conduzione della politica monetaria unica; fornire un meccanismo e procedure sicuri e affidabili per il regolamento lordo in tempo reale dei pagamenti transfrontalieri; aumentare l’efficienza dei pagamenti transfrontalieri all’interno dell’Unione europea. TARGET2

A fine 2007 TARGET2 ha sostituito TARGET. Nell’ottobre 2002 il Consiglio direttivo della BCE ha approvato le linee strategiche per lanciare la seconda generazione del sistema, chiamata “TARGET2”: sistema di pagamenti in euro per il regolamento in tempo reale delle transazioni di importo elevato. La nuova piattaforma unica europea ha preso il via con successo il 19 novembre 2007: si avvale di una piattaforma automatizzata unica condivisa, realizzata e gestita dalla Banca d’Italia, dalla Deutsche Bundesbank e dalla Banque de France. Il suo obiettivo è di centralizzare ancora di più il sistema europeo dei pagamenti così da ridurre i costi delle transazioni interbancarie tra Paesi. In sintesi, consente alle banche presenti in più Paesi di operare con un solo conto in moneta della Banca centrale. Si tratta infatti di una piattaforma unica condivisa, e in capo alle singole Banche centrali è previsto il mantenimento delle relazioni con quelle nazionali. Aderiscono a TARGET2 le piazze finanziarie dei Paesi dell’area dell’euro, insieme a Danimarca, Estonia, Lituania, Lettonia e Polonia. La realizzazione del progetto TARGET2 è avvenuta con il completamento il 19 maggio 2008 del processo di migrazione dei sistemi di regolamento lordo domestici dell’Unione europea al sistema: il 19 maggio 2008 dunque ha cessato di operare BI-REL (Banca d’Italia-Regolamento Lordo), il sistema lordo per i pagamenti interbancari di elevato ammontare presso la Banca d’Italia che era entrato a pieno regime il 26 gennaio 1998. BI-COMP e sistemi di compensazione privati Si chiama BI-COMP (Banca d’Italia-Compensazione) il sistema di compensazione dei pagamenti al dettaglio (di importo non rilevante) gestito dalla Banca d’Italia. Dall’8 aprile 2008 il sistema BI-COMP è aperto all’interope-

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rabilità transfrontaliera con altri sistemi di compensazione al dettaglio europei. Dal 28 gennaio 2008 nel BI-COMP vengono regolati anche i bonifici SEPA. In Europa esistono inoltre sistemi di compensazione e regolamento dei pagamenti gestiti da operatori privati, in concorrenza con le Banche centrali, tanto che un terzo del volume dei pagamenti è regolato dal sistema Euro1 gestito dall’Associazione bancaria europea (EBA) e in concorrenza con TARGET. L’EBA possiede anche Step2, un sistema di compensazione dei pagamenti al dettaglio per le operazioni di bonifico transfrontaliere che a partire dal 1° gennaio 2008 tratta anche bonifici e addebiti SEPA. SEPA, il mercato comune dei servizi di pagamento Il mercato comune dei servizi di pagamento, battezzato SEPA (single euro payments area), è decollato con successo il 1° gennaio 2008. Ha come obiettivo la creazione di un’area dove i cittadini, le imprese e la pubblica amministrazione nei Paesi membri della UE siano in grado di effettuare incassi o pagamenti in euro con modalità, diritti e obblighi uguali per tutti. Il concetto di passaporto europeo e di libera circolazione dei cittadini si estende quindi anche ai pagamenti in euro. SEPA mira ad armonizzare gli strumenti (bonifici, addebiti diretti, carte di credito e di debito ecc.) per i pagamenti in euro, aumentando la concorrenza e imponendo economie di scala che dovrebbero portare a una riduzione dei costi per gli intermediari e quindi anche per gli utenti-consumatori. Il 28 gennaio 2008 hanno preso il via i bonifici SEPA (SEPA credit transfer o SCT). Dal 1° novembre 2009 è prevista l’adozione degli addebiti diretti (SEPA direct debt o SDD). L’Eurosistema si sta impegnando affinché sia data maggiore attenzione alla creazione di un ulteriore schema europeo di carte di pagamento.

I sistemi di pagamento europei sono sempre più coordinati a livello comunitario.

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La riserva obbligatoria La riserva obbligatoria (ROB) è l’aliquota dei fondi raccolti dal sistema bancario che viene vincolata presso le Banche centrali. L’impatto delle riserve sul mercato monetario è notevole: crea o amplia un fabbisogno strutturale di liquidità, dal momento che le banche sono tenute a rispettarne i vincoli. In Eurolandia la riserva obbligatoria può essere mobilizzata e quindi svolge anche la funzione di stabilizzare i tassi d’interesse del mercato monetario. Le variazioni della base monetaria, che è la materia prima per la creazione dei depositi bancari, si trasmettono dalle riserve ai depositi e poi ad altre attività finanziarie: le riserve sono considerate quindi uno dei perni del meccanismo di trasmissione della politica monetaria. Si tratta di una di quelle “variabili” che le Banche centrali possono controllare al meglio perché è un’aliquota imposta legalmente. L’Eurosistema richiede agli enti creditizi di detenere riserve obbligatorie sui conti accesi presso le Banche centrali nazionali con la finalità «di stabilizzare i tassi d’interesse del mercato monetario e creare o ampliare il fabbisogno strutturale di liquidità». L’aggregato soggetto a riserva è composto da depositi, titoli di debito, titoli del mercato monetario; l’aliquota di riserva è pari al 2% per la maggior parte delle voci dell’aggregato. La riserva obbligatoria è remunerata al tasso delle operazioni di rifinanziamento principale. La mobilizzazione della riserva Il regime di riserva obbligatoria nell’Eurosistema consente alle istituzioni creditizie di fare ricorso alla mobilizzazione dell’intero ammontare della ROB: il rispetto dell’obbligo di riserva infatti è determinato in base alla media dei saldi di fine giornata, in riferimento a un periodo di mantenimento mensile, dei conti di riserva. Il meccanismo che consente di adempiere all’obbligo considerando il saldo sul conto di riserva relativamente a periodi più lunghi di un giorno, e come nell’Eurosistema pari a un mese, si chiama “mobilizzazione della riserva”. Come puntualizzato dalla BCE, «poiché la mobilizzazione della riserva consente al sistema bancario una certa flessibilità nella gestione della liquidità, le istituzioni creditizie sono in grado di assorbire le fluttuazioni giornaliere del fabbisogno di liquidità e di sfruttare le possibilità di arbitraggio di breve periodo presenti nel mercato monetario. In questo modo la mobilizzazione della riserva contribuisce alla stabilizzazione del tasso overnight nel corso del periodo di mantenimento».

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Le novità dell’Eurosistema Uno dei principi fondamentali stabiliti dal Consiglio europeo per assicurare un passaggio senza traumi dalle valute nazionali all’euro è stato quello della “continuità dei contratti”. La legge delega 433 del 1997 ha conferito al governo il potere di emanare decreti per consentire l’introduzione dell’euro nel rispetto dei principi basilari della neutralità e continuità dei contratti. L’articolo 4 della legge delega entra nel merito della questione specificando che i nuovi parametri di indicizzazione, in sostituzione di quelli vigenti prima dell’introduzione dell’euro, siano definiti secondo criteri di «continuità» e assicurino «l’equivalenza economico-finanziaria».

E-MID, PIATTAFORMA TELEMATICA Il mercato telematico dei depositi interbancari E-MID è considerato un punto di riferimento per il mercato monetario. Prodotto italiano unico in Europa, è stato il primo mercato elettronico per i depositi interbancari e per gli OIS (overnight indexed swap). Le negoziazioni sull’E-MID sono iniziate il 27 febbraio 1990, una novità assoluta per quei tempi. Gli scambi giornalieri sui depositi interbancari sono denominati in quattro valute (euro, dollari USA, sterlina inglese e zloty polacco). Si tratta di un mercato elettronico sotto la supervisione della Banca d’Italia e posseduto dalle banche: i suoi azionisti sono 23 istituti bancari, residenti e non residenti in Italia, e l’Associazione Bancaria Italiana (ABI). A luglio 2011 gli aderenti alla piattaforma E-MID erano 192 di cui 29 Banche centrali, 1 ministero delle Finanze, 101 banche italiane e 61 banche estere. Questa piattaforma elettronica, battezzata inizialmente MID, ha del tutto sostituito in Italia la procedura di scambio di fondi basata su accordi telefonici bilaterali, introducendo un sistema telematico per il raggiungimento dei seguenti obiettivi: • trasparenza – la competitività basata sullo scambio in tempo reale delle informazioni riguardanti la quantità, i tassi e gli interessi di ogni singolo operatore consente di raggiungere una migliore competitività dei prezzi; • efficienza – la fluidità degli scambi è garantita dalle negoziazioni che si effettuano in tempo reale sulla base di una pluralità di proposte; • standardizzazione – il sistema è basato sull’uniformità di regolamento delle condizioni di negoziazione per ogni tipologia di deposito; • liquidità – la concentrazione degli scambi e l’elevato numero dei partecipanti consentono la riduzione degli spread tra quotazioni in denaro e lettera.

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Il governo ha poi emanato il decreto legislativo 24 giugno 1998, n. 213, che aggiunge e puntualizza tre ulteriori passaggi: l’automatismo della sostituzione tra vecchi e nuovi parametri; il criterio discriminante dell’orientamento del mercato; la possibilità di riconoscere con successivo decreto l’avvenuta sostituzione dei parametri. La nascita dell’Euribor L’European interbank offered rate, il tasso interbancario di riferimento dell’area euro, è il tasso al quale le banche si prestano denaro tra di loro. È nato su iniziativa di due associazioni internazionali di categoria: la Financial markets association e la Federazione bancaria europea (FBE) che ha sede a Bruxelles e che rappresenta gli

Numerosi tesorieri e gran parte delle Banche centrali nazionali in Eurolandia ritengono che la distribuzione della liquidità nella zona dell’euro migliorerà ulteriormente nel momento in cui le banche, oltre ad attingere ai fondi interbancari attraverso un circuito telematico paneuropeo, potranno integrarlo con il sistema di regolamento delle operazioni, per una pronta e certa disponibilità dei fondi sui loro conti. E-MID,denominato dalla BCE «sistema ancillare» del circuito TARGET2, ha raccolto questa sfida rendendo disponibili alla comunità bancaria europea i vantaggi dell’esecuzione automatica del regolamento delle negoziazioni in deposito. L’accredito e addebito in tempo reale consente: certezza della disponibilità dei fondi, previsioni più affidabili dei flussi di tesoreria, migliore tracciabilità dei saldi infragiornalieri, miglior impiego della liquidità e finanziamento più rapido e sicuro sul mercato interbancario. Nel novembre 2000 a fianco della piattaforma E-MID è nato E-MIDER, il primo mercato elettronico dedicato allo scambio degli swap collegati all’EONIA, il tasso overnight di riferimento dell’euro. Tale prodotto consente ai tesorieri la copertura dal rischio di tasso d’interesse con un limitato consumo degli affidamenti alle controparti. Il 26 settembre 2011 (dopo l’aggiornamento di questo capitolo) è stato annunciato il lancio di E-MID repo per le operazioni di pronti contro termine. Nel 2009 in collaborazione con la Banca d’Italia, E-MID ha lanciato il MIC (mercato interbancario collateralizzato) con negoziazioni completamente anonime e garantite dal pool di collaterale depositato da ogni partecipante. Nel 2010 MIC è divenuto il mercato permanente per i depositi collateralizzati garantiti da una Cassa di compensazione e aperto a tutti gli aderenti di EMID, domestici e internazionali.

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interessi di oltre 5.000 banche europee. Il primo tasso Euribor è stato pubblicato il 30 dicembre 1998 con valore a partire dal 4 gennaio 1999. È stato il secondo articolo del decreto legislativo 213/98 sui parametri diversi dal tasso di sconto in Italia a guidare il passaggio dal Ribor all’Euribor. L’Euribor è il tasso lettera (offered ), cioè il tasso al quale una primaria banca Ogni sabato su “Plus24” una tabella mette a confronto i rendimenti effettivi lordi è disposta a offrire un deposito interdel mercato monetario a 3 mesi e delle bancario a un’altra banca primaria con obbligazioni governative a 10 anni. scadenza a 1 settimana e da 1 a 12 mesi nell’area euro. Viene calcolato come media semplice per ogni giorno lavorativo stabilito dal calendario TARGET sulla base dei tassi comunicati a mezzogiorno alla FBE da un panel formato dalle banche più attive sul mercato interbancario nell’area dell’euro. I tassi Euribor sono calcolati con divisore a 360 giorni e hanno regolamento 2 giorni. Nella tabella del Sole 24 ORE è riportato anche il tasso Euribor con divisore a 365 giorni per facilitare la continuità dei contratti stipulati con il vecchio tasso Ribor (con divisore appunto a 365 giorni). Euribor è un tasso quotato ma non effettivo perché non si basa sui tassi delle transazioni effettivamente eseguite dalle banche del panel ma su quelli indicativi ai quali le banche ritengono che possano essere offerti fondi a banche internazionali di primario standing creditizio. Nel corso della crisi finanziaria del 2007-09, il tasso Euribor si è impennato rispetto al tasso di rifinanziamento principale della BCE perché ha incorporato il rischio-banca e la sfiducia tra controparti bancarie sull’affidabilità creditizia. Di conseguenza sono lievitate le rate dei mutui e dei prestiti bancari a tasso variabile indicizzati all’Euribor. Euro-Libor o BBA Euro Libor Euro-Libor (Euro London interbank offered rate) è il tasso dei depositi interbancari in euro della British bankers association (BBA): ha le stesse scadenze dell’Euribor, ovvero 1 settimana e da 1 a 12 mesi. Viene fissato sulla base dei tassi quotati sulla piazza di Londra da 16 banche. La BBA esclude i quattro tassi superiori e i quattro inferiori. Il divisore è a 360 giorni. Viene adottato il metodo delle reference banks, quindi si tratta di tassi quotati che non rappresentano transazioni eseguite effettivamente.

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BBA Libor I tassi interbancari BBA Libor vengono utilizzati nei contratti derivati future e option. Sono forniti dalla BBA in 9 valute, oltre all’euro: sterlina inglese, dollaro USA, yen, franco svizzero, dollaro canadese, dollaro australiano, corona danese, corona svedese, dollaro neozelandese. Nel corso della crisi finanziaria 2007-09, il metodo di rilevazione del Libor è finito sotto accusa per presunte manipolazioni delle banche partecipanti al panel della BBA e, in particolare, è stata presa di mira la composizione del panel. L’alto livello del Libor rispetto ai tassi overnight e ai saggi guida delle Banche centrali, però, è stato causato principalmente dall’assenza di prestiti effettivi tra banche e dallo stallo reale e senza precedenti del mercato interbancario. Prime rate Il prime rate è il tasso applicato dalle banche ai prestiti concessi alla migliore clientela: è in linea teorica il miglior tasso che può essere spuntato in banca per ottenere un prestito, e riguarda principalmente gli imprenditori con il miglior merito di credito, ovvero con la maggior capacità di rimborsare il prestito integralmente e puntualmente. Il prime rate ABI è stato rilevato per un ventennio, dal 1984 al 2004, dall’Associazione bancaria italiana: era il tasso nominale contrattuale praticato normalmente alla clientela primaria e applicato sui crediti utilizzati in conto corrente. Dal 31 dicembre 2004 il prime rate ABI ha cessato di esistere in virtù nelle nuove statistiche armonizzate della Banca centrale europea. EONIA

(euro overnight index average) è il tasso di interesse interbancario per un giorno nella zona dell’euro. È la media ponderata dei tassi overnight comunicati alla BCE da un campione di banche operanti nell’area dell’euro. I tassi EONIA ed Euribor riflettono il costo al quale le banche con il miglior merito di credito ottengono fondi sul mercato interbancario. Questi due parametri, abbinati ai tre tassi della BCE, a loro volta contribuiscono a determinare il prime rate. EONIA

I derivati del monetario Nel mercato monetario, l’importanza degli strumenti derivati sui tassi d’interesse è cresciuta enormemente nell’ultimo ventennio. Questi prodotti consentono infatti di ridurre i costi, migliorare i rendimenti e gestire il rischio d’interesse sul segmento del breve termine con maggiore certezza, precisione, elasticità ed economicità. Gli operatori, soprattutto i tesorieri e gli investitori istitu-

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zionali, utilizzano i contratti a termine e le opzioni per migliorare la performance del portafoglio e il risk management delle proprie posizioni. La gamma degli strumenti derivati collegati ai tassi a breve è vastissima e si divide in due grandi famiglie: i prodotti negoziati sui mercati regolamentati, cioè le Borse (financial future e call option oppure put option sui future), e i prodotti over-the-counter (OTC) negoziati fuoriborsa: forward rate agreement (FRA), Interest rate swap (IRS), option (cap, floor, collar ecc.). La differenza tra le due categorie è sostanziale: i future e le opzioni sui future sono contratti standardizzati, con caratteristiche predefinite e uguali per tutti, che vengono scambiati in un mercato regolamentato dove il rischio di controparte viene assunto dalla Cassa di compensazione e garanzia. La trasparenza dei prezzi è garantita dalle quotazioni riportate in tempo reale sul listino della Borsa: il prezzo di chiusura (settlement price) è ufficiale e viene pubblicato giornalmente. Le principali Borse telematiche europee per i derivati quotano una vasta gamma di future e option sui tassi a breve termine dell’euro. Euronext.liffe (nata dall’acquisizione della Borsa inglese da parte di quella francese) ha contratti su EONIA, Euribor, sulla curva dell’Euribor (mid-curve). Sulla sua piattaforma elettronica viene anche negoziato il future swapnote, un contratto per le obbligazioni con prezzi che dipendono dall’andamento della curva swap in euro. Eurex, la Borsa dei derivati tedesca, offre contratti future sull’EONIA e sull’Euribor a 3 mesi. I derivati negoziati fuori Borsa – FRA, swap e opzioni OTC – nascono invece come contratti stipulati privatamente tra due controparti. La standardizzazione ha comunque fatto passi da gigante negli ultimi anni al punto da aver raggiunto standard pressoché analoghi a quelli dei contratti negoziati in Borsa: la trasparenza dei prezzi è divenuta molto elevata e le quotazioni pubblicate giornalmente dai broker o da grandi operatori sulle pagine dei circuiti telematici d’informazione (Reuters, Bloomberg ecc.) rappresentano adesso un punto di riferimento riconosciuto ufficialmente su scala mondiale dagli operatori stessi. Il rischio di credito e di controparte nel caso dei contratti fuori mercato (over the counter, OTC) resta però a totale carico degli operatori, non essendoci il sistema dei margini e la Cassa di compensazione e garanzia che garantiscano l’esecuzione delle transazioni. Esistono numerosi progetti per la creazione di una cassa anche per gli strumenti derivati fuoriborsa. La crisi bancaria e finanziaria del 2007-09 e soprattutto l’inatteso fallimento della banca d’investimento americana Lehman Brothers hanno messo l’accento sul rischio controparte nel mondo dei derivati e anche sulla necessità di basare gli scambi su un buon mercato secondario liquido, con quotazioni reali, per qualsiasi tipo di prodotto finanziario, compresi i contratti derivati. Il volume mondiale dei contratti derivati OTC sui soli tassi d’interesse, calco-

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lato con valori nominali dall’ISDA (International Swap and Derivatives Association), era pari a 463.300 miliardi di dollari USA a dicembre 2010. La creazione dell’euro nel 1999 ha modificato radicalmente il listino delle principali Borse a termine europee, in quanto i contratti collegati ai tassi a breve delle valute partecipanti all’Unione economica e monetaria sono stati cancellati e sostituiti dai future e dalle option sull’Euribor oppure sull’Euro-Libor. Future Il future è un contratto standardizzato legalmente vincolante stipulato in un mercato regolamentato tra due controparti per la consegna oppure per il ricevimento di una particolare attività finanziaria a una data futura prestabilita e a un prezzo concordato al momento dell’accordo. Nel caso del future sui tassi a breve termine, il contratto riguarda il tasso lettera sul contante dei depositi interbancari a 3 mesi oppure a 1 mese. Per l’euro, questo tasso è rappresentato dall’Euribor oppure dall’Euro-Libor. Il prezzo dei contratti future sui tassi a breve termine viene quotato sottraendo il tasso d’interesse da 100. Se il tasso è 2,5% allora il prezzo del future è 97,50 ovvero 100 meno 2,5. Come avviene sul mercato obbligazionario, quindi, quando i tassi salgono, o se si prevede un rialzo, il prezzo scende, e viceversa la diminuzione dei tassi d’interesse, o le attese di ribasso, si riflettono in un aumento della quotazione. Il movimento minimo di prezzo è dello 0,01% (1 tick) e quindi questo significa che il valore di 1 tick viene calcolato moltiplicando l’unità di contrattazione del future (per esempio 1 milione di euro) per 0,00001 (equivalente a 0,01%) e per la durata del deposito interbancario nozionale a 3 mesi (oppure 1 mese) sottostante espresso in anni (cioè 3/12). Per esempio, nel caso dei future sull’euro, si avrà:

1 milione di euro × 0,01% × 3/12 = 25 euro Profitto o perdita? Il contratto future incorpora le aspettative sull’andamento futuro dei tassi a breve; queste cambiano in continuazione, determinando ogni giorno profitti o perdite per chi ha sottoscritto un contratto e ha una posizione aperta. La posizione aperta in future (acquisto o vendita a termine) può essere chiusa in qualsiasi momento prima della scadenza del contratto, attraverso un’operazione di segno opposto. Alla fine della seduta, comunque, tutte le posizioni aperte vengono rivalutate su base giornaliera dalla Cassa di compensazione e garanzia (clearing house) e tutti i profitti e le perdite derivanti dalla variazione registrata sul prezzo di chiusura (settlement price) devono essere regolati con la

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Cassa attraverso il pagamento del cosiddetto “marUnità di contrattazione 1 milione di euro gine”: chi ha subito la perdiMesi di consegna marzo, giugno, ta paga e chi ha guadagnato settembre, dicembre incassa. Quotazione 100 - il tasso Euribor a 3 mesi L’apertura di una posizioMovimento minimo 0,005 ne in future non comporta il di prezzo (1 tick) pagamento dell’intero valoValore di 1 tick 12,50 euro re del contratto ma, unicamente, dei margini iniziali e Ecco le caratteristiche dei principali future sui tassi a 3 mesi e a 1 mese dell’euro. giornalieri (in percentuale prefissata sulla base della grandezza del contratto) presso la Cassa di compensazione e garanzia. I margini giornalieri sono calcolati in modo da coprire la perdita giornaliera potenziale che può verificarsi su un contratto future. Ogni giorno la Cassa provvede a ricalcolare i margini; vengono rimborsati parzialmente a chi guadagna, mentre ne vengono chiesti di aggiuntivi a chi perde. Questi fondi, che contribuiscono ad annullare il rischio di controparte dal momento che la Cassa stessa si pone come controparte di tutti i contratti future trattati sulla Borsa alla quale è collegata, vengono trattenuti dalla Cassa per l’intero periodo durante il quale la posizione rimane aperta e restituiti al momento della chiusura della posizione. Alla data di scadenza, la liquidazione dei contratti che sono rimasti aperti (una grande percentuale delle posizioni aperte viene chiusa per essere riaperta sulla scadenza successiva attraverso la tecnica del cosiddetto roll over) viene effettuata in contanti sulla base dell’unità di contrattazione e secondo il tasso lettera prevalente sul mercato dei depositi interbancari a 3 mesi oppure a 1 mese. CARATTERISTICHE DEL FUTURE SUI TASSI

Opzioni sui future sui tassi a breve Le opzioni sui future sui tassi a 3 mesi oppure a 1 mese sono contratti standardizzati, negoziati in Borsa e stipulati tra due controparti dove l’acquirente dell’opzione, dietro pagamento di un premio, ha la facoltà ma non l’obbligo di acquistare (call) o di vendere (put) una quantità prestabilita di un’attività finanziaria sottostante (in questo caso il future) a un prezzo predeterminato (prezzo di esercizio che in questo caso è il prezzo del future sottostante) in ogni momento entro la data di scadenza del contratto. Un future personalizzato: il FRA Il forward rate agreement (FRA) è un contratto non standardizzato stipulato tra due controparti che consente di determinare anticipatamente il tasso d’interesse attivo o passivo, associato a un’operazione finanziaria (impiego o raccolta)

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QUANDO SI EFFETTUA IL PAGAMENTO Il prezzo del contratto di opzione non viene pagato al momento dell’acquisto: le posizioni in opzioni, come quelle in future, sono rivalutate quotidianamente attraverso il mark to market effettuato dalla Cassa di compensazione e garanzia e vengono in un certo senso liquidate giornalmente generando un flusso di margini positivi (nel caso di profitto) o negativi (nel caso di perdita). Quando l’acquirente decide di esercitare l’opzione, allora deve pagare il premio alla Cassa di compensazione e garanzia, e questa provvede a pagare il premio al venditore, il quale a sua volta deve effettuare il pagamento all’acquirente dell’opzione in base ai termini del contratto esercitato.

per un importo prestabilito e che avrà luogo a una data futura prefissata, per una durata predeterminata. Il forward è quindi una sorta di future personalizzato in base alle esigenze specifiche delle due controparti. Il FRA è uno strumento di gestione del rischio d’interesse a breve termine molto flessibile: consente infatti di determinare anticipatamente il tasso d’interesse che sarà applicato a un prestito e a un investimento – di ammontare predeterminato – che sarà effettuato a partire da una data futura prestabilita. Alla data di regolamento, le due controparti si scambiano un ammontare derivante dall’applicazione, al capitale predeterminato, della differenza tra il tasso d’interesse concordato e la quotazione corrente di un tasso di riferimento di mercato prestabilito (Euribor, Libor ecc.). In pratica due controparti scambiano a termine un flusso d’interesse a tasso fisso (concordato preventivamente) contro un flusso d’interesse variabile, il cui livello è ignoto al momento di sottoscrizione del contratto. Per esempio, si stabilisce oggi il tasso d’interesse fisso che decorre non oggi ma fra 3 mesi: a quella data (il cosiddetto fixing del contratto) le controparti liquideranno tra loro il differenziale tra i due flussi d’interesse, quello a tasso fisso già conosciuto e quello variabile (Euribor oppure Libor del momento). Interest rate swap L’interest rate swap (IRS) è un contratto stipulato tra due controparti in cui ciascuna parte si impegna a scambiare i pagamenti di un prestito contratto in precedenza: chi si è indebitato a tasso fisso paga il tasso variabile e viceversa. Il termine inglese “swap” significa per l’appunto scambio. In un interest rate swap il pagatore del tasso fisso effettua pagamenti parame-

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COM’È NATO LO SWAP I debitori che riuscivano a finanziarsi a condizioni vantaggiose a tasso fisso avevano bisogno di accedere al mercato del tasso variabile a condizioni altrettanto vantaggiose, ma non erano in grado di farlo. E al tempo stesso molti pagatori di tasso variabile si trovavano nella posizione opposta. Lo swap ha consentito a queste due parti, come la parola inglese stessa indica, di scambiarsi le posizioni e i tassi a queste condizioni vantaggiose.

trati sul tasso fisso stipulato nell’accordo dello swap. Il pagatore del tasso variabile effettua invece i suoi pagamenti sulla base di un parametro a tasso variabile, specificato nel contratto swap: per esempio, Euribor a 6 mesi, Libor a 3 mesi, e così via. Il contratto viene stipulato su un capitale nominale di riferimento, che rappresenta nella maggior parte dei casi l’indebitamento sottostante delle due controparti. I motivi di questo accordo possono essere diversi, ma sono tutti riconducibili alle differenti aspettative sui tassi d’interesse. Chi è indebitato a tasso variabile ma teme un rialzo dei tassi, scambia i suoi flussi di pagamento con chi, al contrario, ha contratto un prestito a tasso fisso ma crede che i tassi scenderanno. Il rapporto di credito o di debito originariamente stipulato dalle due controparti non viene annullato e neppure modificato: il contratto swap è assolutamente indipendente dalle posizioni di debito o credito sottostanti delle controparti. Lo swap viene quotato come tasso fisso espresso in denaro e in lettera: il differenziale tra le due quotazioni (bid/offer spread) è di pochi centesimi di punto percentuale perché i flussi e la liquidità di questo strumento sono enormi. Lo swap è nato come strumento derivato trattato fuoriborsa, non standardizzato. La caratteristica che ha reso lo swap lo strumento derivato più diffuso al mondo, sui mercati over-the-counter, è proprio quella della sua estrema flessibilità: lo

In breve Nel 1999, l’interest rate swap è entrato di prepotenza anche nel portafoglio degli investitori istituzionali e dei piccoli risparmiatori italiani attraverso uno strumento obbligazionario innovativo chiamato constant maturity bond o constant maturity swap: si tratta di un titolo che paga una cedola variabile indicizzata non a un tasso interbancario bensì all’andamento del tasso fisso swap sulle scadenze più lunghe, dai 10 ai 30 anni, di cui si parla nel capitolo sui mercati azionari.

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L’OPERAZIONE DI INTEREST RATE SWAP Pagamento interessi a tasso variabile SOCIETÀ “B”

SOCIETÀ “A” Pagamento interessi a tasso fisso Pagamento interessi a tasso fisso Debito con interessi a tasso fisso

Pagamento interessi a tasso variabile Debito con interessi a tasso variabile

swap è uno strumento che funziona al meglio quando viene adattato alle specifiche esigenze delle due controparti. Il boom degli swap sta nella convenienza dello scambio: la domanda e l’offerta, la segmentazione dei mercati non ancora perfetti ed efficientissimi crea situazioni tali per cui è più facile per una società indebitarsi a tasso fisso (attraverso un’emissione obbligazionaria, per esempio) e stipulare conseguentemente un IRS per trasformare il suo indebitamento dal tasso fisso al variabile. Le banche, che hanno la maggior parte della raccolta a tasso variabile, costituiscono un’ottima controparte disposta a pagare i flussi su un indebitamento a tasso variabile, ricevendo in cambio un flusso a tasso fisso. Da questo elementare principio è nato l’interest rate swap raggiungendo in oltre due decenni di operatività a pieno regime un volume di contratti sul mercato globale pari a 364.378 miliardi di dollari USA, secondo i dati della Banca dei regolamenti internazionali (BRI), rilevati a dicembre 2010. La Banca dei regolamenti internazionali e le Banche centrali stanno divenendo sempre più attive nel monitoraggio dell’utilizzo di questo strumento da parte di operatori bancari e finanziari. UN PARAMETRO ESSENZIALE I volumi delle transazioni e l’alto grado di standardizzazione raggiunto dall’interest rate swap hanno reso il tasso fisso dello swap (quotato contro l’Euribor a 6 mesi per l’euro e contro il Libor a 6 mesi per le altre valute) un punto di riferimento per il mercato finanziario, soprattutto quello obbligazionario, che è sempre più a caccia di parametri di riferimento di spessore “globale”. I tassi dello swap che spaziano da 1 a 30 anni vengono quotati dai principali broker del mercato.

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UN ESEMPIO DI UTILIZZO DELL’OIS Il tesoriere di una banca ritiene che i tassi a breve termine siano troppo elevati e prevede quindi una forte discesa dei tassi P/T nei prossimi mesi non ancora scontata dal mercato. Per monetizzare la sua aspettativa, il tesoriere può aumentare gli impieghi, cioè i prestiti, in scadenza a brevissimo termine (overnight) finanziando la sua posizione con le linee di credito a tasso fisso della banca e aumentando quindi le dimensioni del bilancio. La stessa posizione speculativa sull’andamento futuro dei tassi può essere costruita con un OIS, evitando l’utilizzo di linee di credito.

OIS, uno swap a parte Il contratto OIS (overnight indexed swap) consiste nel pagamento di un tasso fisso prefissato contro il tasso medio ponderato composto delle operazioni overnight effettuate sul mercato telematico dei depositi interbancari E-MID. I pagamenti parametrati al tasso variabile sono calcolati sulla base della media giornaliera ponderata del tasso overnight scambiato sul mercato telematico dei depositi interbancari E-MID. Ogni transazione registrata sul segmento overnight è ponderata in base all’ammontare. Nell’OIS, il pagatore del tasso variabile paga il tasso medio ponderato e composto, calcolato cioè in base ai tassi medi ponderati nei giorni lavorativi compresi tra la data iniziale (inclusa) e la data di scadenza (esclusa) del contratto OIS. Per i giorni non lavorativi il calcolo è effettuato in regime di composizione semplice. Come tutti gli strumenti derivati, anche l’OIS può essere utilizzato a scopo di copertura contro il rischio interesse, oppure a scopo di speculazione e arbitraggio per l’ottimizzazione delle risorse, quali la liquidità e le linee di credito. L’OIS viene utilizzato per la copertura di depositi interbancari, di singoli titoli o di un portafoglio globale. Consente inoltre di speculare sull’andamento dell’overnight in relazione al periodo di riserva obbligatoria e di sfruttare disallineamenti sull’interbancario. Con gli OIS, inoltre, si può prendere una posizione sulla base delle proprie aspettative sull’andamento dei tassi a breve senza intaccare la struttura della liquidità della propria società.

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Il mercato obbligazionario di Angelo Drusiani e Carlo Messedaglia

Chiunque contrae un debito, che si tratti di una persona fisica o giuridica (società), assume l’obbligo di restituire a una scadenza prefissata la somma avuta in prestito, maggiorata di una cifra – gli interessi – dovuta per l’utilizzo del capitale ottenuto. Se, a livello privato, il contratto assume raramente un’ufficializzazione, diversa è la situazione per le aziende. Le persone giuridiche, infatti, sono le vere protagoniste del mercato finanziario: la loro attività è supportata dal ricorso a capitale proprio, ma in buona parte anche dall’utilizzo delle tante forme di apertura di credito che il mondo esterno concede loro. La nascita delle obbligazioni è parte integrante del secondo aspetto: rappresentano un titolo di credito emesso da un’azienda privata o da un ente pubblico, per raccogliere i finanziamenti di cui necessita per l’esercizio della sua attività. Dalle obbligazioni prendono origine un diritto, il credito del finanziatore, e dovere, l’obbligo di estinguere il debito contratto da parte di chi ha ricevuto il prestito. Ogni singola obbligazione rappresenta una quota parte del debito complessivo e ogni portatore di obbligazioni ha il diritto di ottenere il pagamento degli interessi e il rimborso della somma prestata. Il prestito viene rimborsato con un sistema definito piano d’ammortamento, che può prevedere sia il pagamento in un’unica soluzione, alla scadenza finale, sia in più rate, nel corso degli anni. Caratteristica fondamentale dell’obbligazione è infatti una durata pluriennale. In momenti di mercato finanziario particolarmente incerti, vi sono emittenti che decidono di collocare titoli con du-

Aziende e Stati vanno sempre alla ricerca di capitali sul mercato obbligazionario per finanziare le rispettive attività.

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rata annuale: questa soluzione, scarsamente utilizzata dalle aziende, rappresenta comunque un’eccezione alla regola sopra ricordata, mentre è prassi consolidata da parte dei debitori pubblici. Il creditore, alla scadenza del prestito, ha diritto non solamente al rimborso della somma rappresentata dall’obbligazione, ma anche al versamento a suo favore degli interessi. Chi contrae un’obbligazione viene definito emittente, e può essere, come anticipato, di origine privata o pubblica.

Alla ricerca di fondi L’obbligazione permette all’impresa di ottenere i fondi liquidi per sviluppare la propria attività, ma soprattutto a chi dispone di questa liquidità di trovare i canali giusti per investire i risparmi accumulati. Ebbene, queste diverse esigenze hanno un punto di contatto: il mercato finanziario. Esso nasce dall’insieme delle contrattazioni fra chi vende titoli e chi offre denaro: il prezzo che si formerà sarà il punto di equilibrio delle diverse proposte e il punto di riferimento per stabilire il livello degli interessi che il debitore sarà disposto a pagare e che il creditore riterrà sufficientemente remunerativo per i propri investimenti. In questo luogo ideale, che non ha più una collocazione fisica perché ormai completamente telematizzato, si fissano norme scritte e non scritte, spesso in grado di condizionare gli emittenti e i risparmiatori: gli uni e gli altri sanno bene che è difficile ottenere prestiti, pagando interessi inferiori a quelli di mercato, o investire in titoli che offrano rendimenti superiori, a meno che non si decida di assumere un livello di rischio decisamente superiore alla media.

FORTE SENSIBILITÀ AI TASSI D’INTERESSE La crescita dei debiti pubblici mondiali, finanziati in gran parte con emissioni di titoli di Stato, ha fatto aumentare enormemente il valore scambiato sui mercati obbligazionari, intendendosi nella definizione anche l’attività su titoli pubblici. La presenza preponderante di emissioni a cedola fissa fa sì che i mercati siano molto sensibili alle variazioni dei tassi. Ciò favorisce lo svilupparsi di movimenti speculativi di ampio respiro, in grado di condizionare pesantemente le quotazioni. Il rischio prezzi è salito moltissimo rispetto al passato e coinvolge direttamente i grandi operatori, ma, a caduta, anche i risparmiatori medi e piccoli.

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Gli emittenti In un mercato ideale, la presenza degli emittenti dovrebbe essere divisa quasi a metà fra privati e pubblici, seppure con maggiore presenza di questi ultimi, per ragioni legate alla crescita dello Stato sociale negli ultimi anni. In realtà, nel nostro Paese esiste un emittente che potrebbe quasi assumere il ruolo di monopolista: è il ministero del Tesoro che, proprio per il finanziamento dell’attività pubblica, ha contratto un debito complessivo enorme, rappresentato da un numero molto elevato di obbligazioni, definite titoli di Stato. Accanto a questo emittente ve ne sono altri, anche di emanazione pubblica, mentre il mercato risulta carente di obbligazioni private, il cui debitore sia cioè un’azienda non di Stato. In questo senso, bisogna riconoscere che il nostro non solo non è un mercato perfetto, situazione analoga a tanti altri Paesi, ma risulta decisamente sbilanciato a favore del debitore pubblico. I prestiti obbligazionari emessi dal sistema bancario, a partire soprattutto dalla seconda parte del 1996, serviranno a bilanciare parzialmente l’esposizione verso il settore pubblico, ma i titoli di Stato resteranno a lungo il vero punto di riferimento per questo mercato pur evidenziando un livello di rischio emittente elevato. Obiettivi e caratteristiche delle obbligazioni: aspetti fondamentali La differenza fondamentale tra le emissioni pubbliche e quelle societarie non è nelle forme di pagamento degli interessi o di rimborso del capitale, ma nelle finalità che la raccolta di risparmio cerca di perseguire. Mentre il debitore privato finanzia lo sviluppo della propria attività, e può quindi indirettamente migliorare il prodotto interno lordo, grazie alla possibilità di esportare i beni prodotti, quello pubblico potrebbe essere costretto, a volte, a emettere prestiti, sia per sostituire quelli in scadenza, sia per pagare gli interessi complessivi che maturano sul suo debito. Questa ipotesi, pur necessaria e indilazionabile, non produce certo ricchezza aggiuntiva – anche se contribuisce ad accrescere la liquidità disponibile a essere trasferita ai consumi – ma opera un complesso passaggio di denaro all’interno del Paese da chi paga le tasse a chi percepisce gli interessi sui titoli di Stato. Le due figure, in alcuni casi, coincidono: secondo la Banca d’Italia, infatti, il 25% delle famiglie italiane investe in emissioni del Tesoro. Gli aspetti fondamentali delle obbligazioni sono riconducibili a pochi elementi.

Valore nominale È generalmente quello che l’emittente si impegna a restituire alla scadenza del prestito. Vi sono però numerose eccezioni (in particolare per i titoli non di Stato) per le quali il valore di rimborso a scadenza può essere diverso da quello nominale.

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Prezzo di emissione Fatta eccezione per il valore nominale, che rappresenta un dato puramente contabile, tutti gli altri elementi, nel momento in cui il prestito viene contratto, sono condizionati dal tasso d’interesse fissato dal mercato finanziario. Non esiste una scaletta della loro importanza: il prezzo di emissione sarà collegato al valore della cedola, mentre questa assumerà valore fisso o variabile, a seconda delle aspettative che si hanno sull’andamento dei tassi. Il piano di ammortamento e il relativo prezzo di rimborso saranno sensibili alle esigenze che il mercato esprime in quel momento, ma anche al comportamento degli altri emittenti. A questo proposito va ricordato che, grazie alla massiccia presenza di titoli di Stato, la forma di pagamento a scadenza prevalente è quella di unico rimborso al valore nominale. Tecnica, quest’ultima, utilizzata appunto dal debitore pubblico per rimborsare i suoi prestiti. Il prezzo di un’obbligazione è convenzionalmente espresso (anche nelle tabelle del Sole 24 ORE) in centesimi del suo valore nominale. Rappresenta pertanto un’indicazione non assoluta ma relativa dei guadagni e delle perdite. Comprare un titolo a 100 e rivenderlo a 110 significa avere realizzato un guadagno (senza tenere conto di eventuali ratei d’interesse) del 10%, indipendentemente dalla somma investita. Spesso i titoli vengono emessi e rimborsati a 100 (si dice anche “alla pari”), ma vi sono casi (zero coupon) in cui il prezzo all’emissione è più basso del valore nominale. E altri (più rari) in cui il rimborso avviene “sopra la pari”, cioè consegnando all’investitore una somma superiore al valore nominale dell’obbligazione. Aspetto fiscale Come le altre caratteristiche, anche l’aspetto fiscale ha subito numerose modifiche nel corso degli anni, ma la vera data di riferimento è fine settembre 1986, quando tutte le emissioni di obbligazioni italiane, compresi i titoli di Stato, furono assoggettate a regime di tassazione. In particolare, l’imposta colpisce gli interessi maturati e la differenza fra valore di rimborso finale e prezzo di sottoscrizione al pubblico, definito tecnicamente disaggio di emissione. Dal 1° luglio 1998, inoltre, anche sui guadagni, ottenuti sia vendendo i titoli sul mercato sia incamerati al momento del rimborso finale, scatta il meccanismo di tassazione, le cui aliquote (12,50% e 27%) possono essere applicate direttamente dall’intermediario, ma possono anche essere versate dal risparmiatore contribuente, all’atto della dichiarazione annuale dei redditi, sulla base della propria aliquota marginale.

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Da gennaio 2012 solo l’aliquota relativa ai titoli di Stato italiani resterà al 12,50%, mentre per gli altri emittenti il valore salirà al 20%, livello a cui scenderà l’attuale aliquota del 27% applicata ai titoli definiti anomali. Codice numerico Un aspetto tecnico che serve a identificare il titolo obbligazionario è il codice numerico che lo contraddistingue per tutta la sua vita. Denominato codice ABI per lunghi anni e UIC nella seconda metà degli anni Novanta, da gennaio 1997 viene definito codice alfanumerico ISIN, a seguito di accordi internazionali che prevedono l’indicazione alfabetica dello Stato in cui il titolo è stato emesso, seguito da un numero progressivo. Per esempio, il titolo italiano con scadenza 1° aprile 2014 è codificato IT0004707995, dove IT sta naturalmente per Italia. IL CALCOLO DEL CONTROVALORE Per esemplificare il metodo di calcolo del controvalore di un’obbligazione, si ipotizzi il seguente caso: la data di regolamento dell’operazione (definita anche valuta) è il 14 giugno 2011, la cedola lorda del titolo è 4,25% e le date di pagamento degli interessi (definito godimento) sono 1° febbraio e 1° agosto di ogni anno, giorni nei quali verrà pagata una cedola del 2,125% lordo. Il prezzo di mercato del BTP 4,25% con scadenza 1° agosto 2013 è 102,55. Occorre trasformare la cedola da lorda a netta per chi è soggetto IRPEF (le persone fisiche), mentre per le società tassate sulla base del bilancio annuale si calcola il rateo lordo. Per ottenere il prezzo tel quel (controvalore lordo) dell’operazione andrà conteggiato il numero di giorni trascorsi dalla data dell’ultimo stacco cedolare, 1° febbraio 2011, a quella di pagamento, fissata al 14 giugno dello stesso anno. Saranno complessivamente 133 giorni ( 27 a febbraio, perché si esclude il giorno di partenza, 31 a marzo, 30 ad aprile, 31 a maggio, e 14 a giugno). A questo punto, si moltiplicherà il valore della cedola 4,25 per i 133 giorni trascorsi e il prodotto andrà diviso per 181, che corrisponde al numero di giorni complessivi del semestre cui fa riferimento il rateo degli interessi, dividendo poi il risultato per 2, dal momento che 4,25 è il valore della cedola su base annua, mentre il calcolo del rateo è su base semestrale. Il risultato sarà 1,56146, che rappresenta in percentuale il rateo lordo da sommare al prezzo di mercato (corso secco) dei titoli oggetto dell’operazione. Il controvalore lordo dell’operazione sarà 104,11146. Il controvalore netto si otterrà modificando il valore del rateo interessi. Moltiplicando 1,56146 per 12,50% si otterrà l’imposta sostitutiva da applicare ai nettisti (i soggetti IRPEF), pari a 0,19518. Il rateo netto sarà 1,36628 e il controvalore complessivo diverrà 103,91628. La tabella relativa al listino di Borsa riporta il valore del rateo in forma ridotta a due decimali.

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Controvalore L’aspetto contabile rilevante è il calcolo del controvalore di acquisto o vendita: esso viene definito “tel quel” e comprende il prezzo di listino, definito corso secco, e il rateo di interessi maturato fino al giorno di pagamento. Nel caso di obbligazioni che non pagano interessi durante la vita del prestito, le cosiddette emissioni zero coupon, corso secco e prezzo tel quel coincidono. La differenza fra i due prezzi è, come si è detto, il rateo: il suo valore rappresenta la quota parte di interessi maturata dall’ultimo giorno di stacco cedola fino alla data di regolamento dell’operazione, in pratica, fino al giorno di pagamento del valore dei titoli acquistati o di riscossione di quelli venduti. Il conteggio viene effettuato applicando il calendario civile, escludendo il giorno di partenza del calcolo.

I titoli di Stato Lo Stato finanzia il proprio fabbisogno attraverso l’emissione di obbligazioni, definite titoli di Stato, ovvero titoli del debito pubblico. Essi rappresentano, quindi, il vero debito che lo Stato contrae nei confronti dei sottoscrittori. Le quantità e la tipologia delle emissioni vengono stabilite dal ministero del Tesoro, mentre il collocamento avviene con un sistema di asta, effettuato dalla Banca d’Italia. All’asta partecipano direttamente banche e SIM, mentre i risparmiatori accedono indirettamente, tramite gli intermediari o gli sportelli degli uffici postali. La diffusione di questi strumenti del debito pubblico è dunque capillare, perché vi è la possibilità di acquistarli presso un elevato numero di uffici. Le categorie di titoli di Stato sono, al momento, due, sottoscrivibili per un quantitativo minimo di 1.000 euro:

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emissioni senza cedola, Buoni ordinari del Tesoro (BOT) e Certificati del Tesoro a tasso zero (CTZ); titoli con cedola, che possono essere titoli a cedola fissa, Buoni del Tesoro poliennali (BTP), e titoli a cedola indicizzata, Certificati di credito del Tesoro (CCT, CCT Euribor), e titoli con cedola fissa e capitale indicizzato all’inflazione dell’area euro (BTP€I).

I BOT I titoli più noti al grande pubblico sono certamente i BOT e la loro presenza nei portafogli dei risparmiatori è ancora massiccia, al punto che è stata coniata la definizione di “BOT people”, quasi a voler certificare una sorta di dipendenza degli investitori italiani da questi titoli. In effetti, i BOT hanno rappresentato il primo punto di incontro fra Stato e risparmiatori, consentendo poi all’emittente

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pubblico di allargare la propria gamma di offerta e al risparmiatore stesso di utilizzare prodotti diversi per caratteristiche dai tradizionali libretti bancari. Elemento fondamentale dei BOT è la breve durata. Le scadenze previste sono a 3, 6 e 12 mesi. All’atto dell’emissione viene indicata direttamente la data di rimborso, per cui, generalmente, la durata più breve oscilla fra 89 e 93 giorni, la semestrale fra 178 e 182 e l’annuale fra 363 e 367. La denominazione del titolo corrisponde a quella della scadenza seguita, a volte, da T, S o A, che rappresentano rispettivamente l’emissione trimestrale, semestrale e annuale. Il suffisso ha lo scopo di rendere più rapida la rilevazione del titolo che si vuole valutare. Il BOT è il classico prodotto assimilabile a uno zero coupon: ne consegue che il prezzo indicato a listino di Borsa è un prezzo tel quel, perché comprende il rateo di interessi che, pur non espresso visivamente a parte, viene comunque accorpato nel valore del titolo, giorno dopo giorno. Ciò non significa, però, che la maturazione del rateo quotidiano faccia salire automaticamente il prezzo: questo, infatti, è legato all’andamento del mercato, per cui non si può escludere che la variazione di prezzo fra un giorno e quello successivo possa essere diversa dal rateo calcolato sulla base del prezzo di emissione, sia in positivo sia in negativo. A differenza di tutti gli altri titoli di Stato, il BOT addebita ai sottoscrittori l’imposta del 12,50% all’atto dell’emissione. Mentre il prezzo lordo è quello indicato dalla Banca d’Italia al momento dell’asta o dal listino di Borsa, per ottenere il prezzo netto, quello su cui va calcolato il rendimento netto, occorre aggiungere a detto prezzo lordo il valore dell’imposta. Se esso fosse pari a 93, il calcolo dell’imposta andrà riferito a 7, che rappresenta la differenza fra valore di rimborso, 100, e quello di sottoscrizione, 93, in pratica l’interesse lordo corrisposto da quel titolo. Il 12,50% di 7 è 0,875: il dato netto sarà dunque 93,875. Un’altra particolarità differenzia i BOT dalle altre emissioni del Tesoro: il calcolo del rendimento va effettuato sulla base del calendario commerciale, conteggiando esattamente i giorni dell’investimento e rapportandoli ai 360 dell’anno definito appunto commerciale.

In breve A dicembre 1998 fu decisa la dematerializzazione. In altre parole, un decreto ministeriale stabilì che i titoli di Stato non venissero più stampati ma semplicemente accreditati – in caso di acquisto o sottoscrizione – o addebitati – in caso di vendita o rimborso – in depositi titoli intestati ai risparmiatori. Non è, quindi, più possibile mantenere in cassaforte o in altri luoghi titoli materiali. Questa normativa si applica non solo ai titoli del Tesoro, ma anche a tutti gli altri, azioni comprese.

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I CTZ La prima emissione di CTZ fu collocata a febbraio 1995, ma l’interesse suscitato negli investitori fu elevato fin dal suo primo apparire. Qualcuno ha definito questo titolo “bottone”, perché sembra un BOT annuale raddoppiato, ma in realtà è l’unico zero coupon di Stato, almeno per il momento. In effetti, è un vero titolo privo di cedole, perché la sua durata complessiva – 24 mesi in fase di emissione – lo fa rientrare di diritto fra i titoli pluriennali e paga interessi soltanto in un’unica soluzione, all’atto del rimborso finale. Le analogie con il BOT sono comunque evidenti anche in fase di lettura del listino di Borsa, perché non appare il valore della cedola e, di conseguenza, neppure quello del rateo maturato. Come per ogni zero coupon che si rispetti, anche il prezzo del CTZ accorpa corso secco e rateo maturato, con l’avvertenza, che vale per tutti i titoli di questo tipo, che il valore di mercato non è solo la sommatoria del prezzo di emissione e dei ratei maturati giornalmente, ma l’espressione dei rendimenti di mercato. In fase di tassi stabili, i due dati possono corrispondere, ma va ripetuto che ciò non avviene automaticamente. Essendo un titolo pluriennale, l’imposta sostitutiva verrà applicata all’atto del rimborso, per cui sarà dedotta dal valore nominale di 100, calcolandone il valore sulla differenza fra prezzo di emissione e valore nominale stesso. Una delle ragioni che hanno determinato il successo di questo titolo è, come per i BOT, la semplicità di calcolo con cui si ottiene il rendimento a scadenza. Dal momento che non esiste stacco cedolare, e conseguente reinvestimento delle cedole incassate, è sufficiente confrontare il valore a scadenza con la somma versata all’atto dell’acquisto. L’importo ottenuto andrà poi rapportato alla

L’ASSEGNAZIONE DEI TITOLI L’assegnazione dei titoli ha luogo attraverso una vera e propria asta telematica, con la raccolta delle proposte sui terminali della Banca d’Italia, che provvederà a fissare prezzi di collocamento e quantitativi da attribuire a ogni richiedente, e, al tempo stesso, a indicare chi non risulterà assegnatario di alcunché. I metodi delle aste sono differenti, a seconda che si tratti di BOT o di titoli pluriennali. I diversi sistemi che regolano l’assegnazione dei titoli non hanno, tuttavia, effetti particolari sul prezzo che viene addebitato al risparmiatore finale: non importa che l’asta sia competitiva o marginale, perché al pubblico verrà comunicato un unico prezzo che vale per tutti. Al contrario, gli effetti sono rilevanti per gli operatori autorizzati, soprattutto per l’asta dei BOT.

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durata dell’investimento, espressa in numero di giorni di calendario. Il calcolo esatto avverrà applicando la formula degli interessi composti. I BTP L’investimento in titoli come i BTP, la cui durata sia superiore all’anno e al cui servizio sia previsto il pagamento di cedole, fa nascere il problema di calcolo del rendimento a scadenza. La data di rimborso finale più o meno lontana nel tempo fa sì che, nell’arco della vita dell’emissione, l’investitore riscuoterà un numero di cedole tanto maggiore quanto più lunga sarà la durata del titolo e la frequenza di pagamento degli interessi. Ma perché ci si pone il problema del rendimento, a proposito dei BTP, ma non solo per questo tipo di prestiti pluriennali? Perché il dato che uscirà da questo calcolo è condizionato da alcune ipotesi, non sempre confermate a posteriori. Il rendimento definito effettivo a scadenza, riportato nel listino di Borsa, è la som-

LA PARTECIPAZIONE DEI RISPARMIATORI ALLE ASTE I risparmiatori che intendono partecipare alle aste devono indicare al proprio intermediario (banca, SIM, Poste Italiane, agente di cambio) l’intenzione di farlo. Nel caso che l’investitore abbia in portafoglio titoli in scadenza, a fronte dei quali il Tesoro collocherà nuove emissioni, è quasi certo che la banca, la SIM, l’agente di cambio o le Poste Italiane presso cui ha depositato i titoli, gli chiedano, attraverso l’invio di un modulo da restituire firmato, se è intenzionato a sottoscrivere nuovi titoli, partecipando all’asta. Se invece si tratta di una sottoscrizione ex novo, il risparmiatore deve comunicare all’intermediario che è suo desiderio acquistare quei titoli, attraverso il meccanismo d’asta. In ambedue i casi, non accade quasi mai che i risparmiatori indichino alla propria banca o alla SIM il prezzo massimo che sono disposti a pagare per i titoli in emissione: ciò può verificarsi solo per controparti che partecipino per importi molto elevati, ma sono in effetti casi non molto diffusi. La partecipazione dei risparmiatori assume, quindi, un ruolo passivo, e non è casuale che, da quando è possibile acquistare gli stessi titoli a listino il giorno successivo all’asta, vi sia una parte di investitori mediopiccoli che si rivolge direttamente al mercato secondario. Va precisato che il significato di asta varia a seconda che ci si riferisca al mercato primario o a quello secondario. All’asta del mercato primario viene definito il prezzo di collocamento dei titoli di Stato; a quella del mercato secondario il prezzo, giorno per giorno, degli stessi titoli, già collocati, e di altre obbligazioni, pubbliche e private. Ad ambedue i segmenti di mercato possono partecipare direttamente solo gli operatori autorizzati, che consentono ai risparmiatori di entrarvi indirettamente.

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ma dei redditi prodotti da un titolo, calcolati a una data determinata. In pratica, il valore attuale, al momento dell’investimento, dell’insieme delle cedole che verranno incassate e della differenza fra prezzo pagato e valore che si riscuoterà. Le ipotesi a sostegno della formula adottata sono due: il mantenimento in portafoglio del titolo fino a scadenza e l’indicazione di un tasso al quale reinvestire le cedole incassate. La prima non presenta particolari problemi, perché è naturale che se il rendimento viene conteggiato a scadenza, bisognerà prevedere che l’investimento effettuato non subirà modifiche. La seconda influisce direttamente sul risultato che si otterrà: il valore assegnato al tasso, definito tasso interno, viene determinato al momento dell’emissione del titolo ed è condizionato dai rendimenti di mercato in quel periodo. È abbastanza naturale che, nel corso degli anni, il livello dei tassi potrà modificarsi e, di conseguenza, si modificherà quel valore. In pratica, esso varierà in funzione del prezzo di mercato del titolo, a sua volta condizionato dai rendimenti del mercato stesso. Non sarà, dunque, mai un valore univoco, ma un valore convenzionale, calcolato in un preciso istante della vita del titolo e, a causa di ciò, modificabile di volta in volta. La convenzione stabilita è però uguale per tutti i titoli, siano essi di Stato o privati, e pertanto il calcolo dei rendimenti, pur con i limiti che sono stati indicati, ha validità assoluta, perché consente un corretto confronto fra le diverse emissioni presenti sul mercato. Sarebbe preferibile definirlo “rendimento convenzionale a scadenza”, ma nella prassi finanziaria la sua dizione è ormai divenuta rendimento effettivo. Questo valore ha per i BTP un significato univoco, perché le cedole non muteranno fino al momento del rimborso finale. Ben diverso è l’impatto che esso ha con i titoli a cedola indicizzata, come si vedrà più avanti. Caratteristica fondamentale dei BTP è la cedola fissa che ne accompagnerà tutta la vita, fino al rimborso finale: essa viene stabilita in valore unitario annuale, ma pagata con cadenza semestrale, generalmente a inizio mese ma, soprattutto negli ultimi tempi, anche in date intermedie, in particolare a metà mese. Questa peculiarità fa sì che lo strumento protegga il capitale investito, quando i rendimenti di mercato scendono, perché la cedola rimarrà costante, mentre diminuiscono quelle di nuova emissione. Non li proteggerà, nel caso contrario, perché la cedola continuerà a rimanere stabile, quando quelle di nuova emissione salgono. È consigliabile acquistare BTP, se ci si aspetta un calo dei tassi, perché l’economia ristagna o rallenta, ma non lo è, se se ne ipotizza un aumento, perché l’economia è in fase di ripresa. Questa categoria di titoli, definiti appunto a cedola fissa, comprende scadenze abbastanza diverse fra di loro, in sede di emissione: si va da un minimo di 2 anni a un massimo di 30. Le due durate estreme, soprattutto quella più breve, hanno subito modifiche nel corso degli anni per poter avvicinare le tipologie dei nostri titoli a quelle degli altri Paesi emittenti. A metà 2006, il ministero

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del Tesoro ha collocato un prestito con durata 50 anni. Tale collocamento ha avuto luogo in forma privata, destinato a investitori il cui obiettivo è di mantenerli in portafoglio fino a scadenza. Pertanto, questa tipologia di emissioni non circola sul mercato secondario e non è acquistabile dai risparmiatori, dopo il collocamento, come normalmente avviene con le altre tipologie di BTP. I CCT I CCT sono titoli pubblici che vengono definiti “indicizzati” perché la loro cedola, successiva alla prima, è variabile: essi offrono migliori opportunità di difesa degli investimenti quando i tassi aumentano. Esattamente l’opposto di quanto si verifica per i BTP. Due caratteristiche, ambedue collegate al valore delle cedole future, sono fondamentali: il rendimento dei BOT in asta e una maggiorazione da aggiungere al valore base della cedola stessa. In pratica, secondo le più recenti disposizioni, l’asta dei BOT semestrali determinerà il valore delle cedole future: in particolare, sarà il risultato della sottoscrizione che precede il godimento del titolo a stabilirlo. Per fare un esempio, se il CCT avesse stacchi cedolari il 1° agosto e il 1° febbraio, il rendimento in asta dei BOT semestrali di fine luglio servirà a calcolare la cedola 1° agosto-31 gennaio, mentre l’asta di fine gennaio sarà la base per il periodo 1° febbraio-31 luglio. La maggiorazione applicata al dato base ottenuto è espressa in centesimi di punto; il suo valore è mutato nel corso degli anni e non si può escludere che possa mutare ancora in futuro. Dalla fine del 1996, fu fissato a 0,15 semestrali, CCT E INVESTITORI L’indicizzazione delle cedole dei CCT, i rendimenti spesso incerti che caratterizzano i mercati finanziari e l’aggancio sistematico delle cedole al rendimento dei BOT e, più recentemente, al tasso Euribor semestrale, hanno fatto presa su molti risparmiatori e non è casuale che nei loro portafogli la presenza di questi titoli sia inferiore solo a quella dei BOT. Al contrario, gli operatori istituzionali, e soprattutto quelli esteri, hanno decisamente preferito i titoli a cedola fissa a partire dagli anni Novanta. Da un lato, perché vi sono i mercati dei prodotti derivati, collegati direttamente a queste emissioni, che consentono di ridurre il rischio dei prezzi; dall’altro, perché l’attività speculativa, sviluppatasi enormemente negli ultimi anni, trova maggiori opportunità su questi titoli, molto più sensibili ai movimenti dei tassi di mercato. Solo di recente, da quando la cedola futura viene fissata sulla base del tasso Euribor a 6 mesi, anche gli investitori esteri si sono maggiormente interessati ai CCT: l’aggancio puntuale della cedola, determinato non più dal rendimento dei BOT, ma dalla rilevazione di un indice molto diffuso, quale il tasso Euribor, offre loro migliori opportunità di difesa dei titoli dai rischi legati all’andamento dei tassi.

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mentre le prime emissioni di CCT offrivano la maggiorazione di 1 punto sul rendimento dei BOT, ogni 6 mesi. Da fine giugno 2010, il Tesoro italiano ha ulteriormente modificato le caratteristiche dei CCT di nuova emissione. Il parametro di riferimento per il calcolo della cedola è, per questa nuova tipologia di titoli, il tasso Euribor semestrale, cui viene sommata una maggiorazione di 80 centesimi di punto. Il tasso Euribor rappresenta il valore a cui le banche d’area euro si scambiano la liquidità (in questo caso con scadenza a 6 mesi). Ne consegue che sul mercato vengono quotati e scambiati due diversi tipi di CCT, quelli di vecchia emissione, parametrati ai BOT a 6 mesi, e quelli di nuova emissione, parametrati al tasso Euribor semestrale. Legata alla variabilità della cedola, il cui stacco è stato fissato da alcuni anni con cadenza semestrale, è la difficoltà di valutazione del rendimento a scadenza dei CCT. In questo caso, il risultato che si ottiene è veramente convenzionale, perché oltre a fissare ipotesi di reinvestimento cedolare, bisognerà assegnare alle cedole future un valore ipotetico. Per semplicità di calcolo, si assume quello della cedola che si otterrebbe in base all’ultima asta effettuata. I BTP indicizzati all’inflazione I BTP indicizzati all’inflazione sono fra le ultime creazioni del Tesoro italiano. Nati dalle lontanissime ceneri dei CTR – i Certificati a tasso reale, collocati dal Tesoro nel 1983, con durata decennale – e sulle recentissime emissioni del debitore pubblico francese, offrono una doppia protezione del capitale nei confronti dell’aumento del costo della vita. Le caratteristiche di base sono molto semplici: si tratta di titoli a cedola fissa, con durata che, al momento, è fissata in 5, 10 e 30 anni. Anche in Francia, la scadenza più lontana di questa tipologia di titoli è trentennale, mentre nel Regno Unito raggiunge i 50 anni. Ma a caratterizzare la vita di questi prestiti non è il flusso cedolare, bensì il sistema di calcolo, sia degli interessi che maturano,

Soprattutto nei periodi di crisi, la forbice dei tassi si amplia e i Paesi meno solidi ne pagano le conseguenze in termini di interesse da pagare agli investitori.

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sia del capitale che verrà rimborsato. Viene utilizzato un coefficiente di indicizzazione, calcolato sulla base dell’inflazione di riferimento, quella d’area euro, con l’esclusione dell’incremento provocato dal tabacco, che permette, in qualsiasi momento della vita del prestito, il recupero quasi completo del tasso d’inflazione maturato dalla data di inizio godimento del titolo a quella data in cui viene effettuata una qualsiasi compravendita. In pratica, grazie a questo meccanismo, le cedole che verranno riscosse ogni 6 mesi, pur avendo un valore percentuale fisso, potranno mutare, a livello di importo, perché godranno della rivalutazione calcolata dal coefficiente di rivalutazione. Chi manterrà i titoli in portafoglio fino a scadenza incasserà, al momento del pagamento, il valore nominale a suo tempo sottoscritto, rivalutato dell’intera inflazione maturata (sempre al netto degli incrementi provocati al costo della vita dal tabacco). Si tratta, in pratica, di uno strumento che consente al capitale di non soffrire la svalutazione causata dall’incremento del costo della vita. In più, l’investitore incasserà semestralmente le cedole che, a scadenza, rappresenteranno il tasso reale dell’operazione, cioè il guadagno ottenuto sull’inflazione maturata. Sono due le caratteristiche negative di questi strumenti: il parametro di riferimento, l’inflazione di area euro, a volte inferiore a quella italiana, e la quotazione del titolo che, essendo a cedola fissa, potrà risentire negativamente del rialzo dei rendimenti di mercato, esattamente come accade per un BTP classico.

Gli altri titoli pubblici La presenza massiccia di aziende a maggioranza pubblica ha naturalmente avuto riflessi importanti anche sul mercato obbligazionario. Il loro finanziamento è passato spesso attraverso emissioni di prestiti che, in molti casi, sono risultati competitivi al punto che molti risparmiatori li hanno preferiti ai titoli di Stato. Paladine di questo mercato, che si potrebbe definire di nicchia perché gli importi emessi sono decisamente inferiori a quelli proposti dal Tesoro, sono state l’Ente nazionale per l’energia elettrica (ENEL) e l’azienda Ferrovie dello Stato. Minore presenza, ma pur sempre interessante, hanno avuto anche l’ANAS, l’azienda statale che sovrintende al patrimonio stradale pubblico, l’Istituto per la ricostruzione industriale e il Consorzio per le opere pubbliche. Le proposte migliori sono quasi sempre giunte dall’ENEL, che ha spesso innovato sistemi di indicizzazione dei titoli e del rimborso del capitale a scadenza, condizionando le emissioni anche di altri debitori. Non è certo casuale che nei portafogli dei risparmiatori questo emittente trovi un posto di rilievo. Ultime arrivate, fra i titoli pubblici, sono le emissioni di prestiti da parte di comuni, province e regioni – BOC (Buoni ordinari comunali), BOP (Buoni ordi-

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nari provinciali) e BOR (Buoni ordinari regionali) – che finora hanno avuto come destinatari finali non i risparmiatori ma, direttamente, le grandi istituzioni finanziarie, sia italiane sia estere. È una strada, facile e immediata, che consente agli enti locali di collocare i prestiti in tempi brevissimi. Alcune istituzioni destinatarie dei titoli degli enti locali – le banche in particolare – possono, a loro volta, vendere ai propri clienti i prestiti che hanno in portafoglio (ma non è una prassi molto seguita). Una sparuta minoranza di queste emissioni è quotata a listino di Borsa, sul circuito MOT, ma il grado di liquidità dei titoli trattati è molto modesto e, di conseguenza, sono scarsi gli scambi effettuati quotidianamente. Le principali caratteristiche dei Buoni degli enti territoriali I Buoni degli enti locali hanno struttura diversa rispetto ai titoli del Tesoro: la caratteristica che li differenzia è il sistema di rimborso, in un’unica soluzione a scadenza finale per i titoli di Stato, frazionata, a ogni stacco cedolare, per BOC, BOP e BOR . Ciò consente agli investitori di incassare cifre più consistenti a ogni singola scadenza, perché essa comprenderà gli interessi e una quota parte del capitale investito. Le emissioni degli enti locali non sono di breve durata: anche se la denominazione può assomigliare ai BOT, non vi sono con questo titolo punti di contatto, perché le loro date di rimborso finale sono quelle classiche dei prestiti pluriennali. La scadenza preferita è ventennale. L’aspetto più interessante per i risparmiatori è il rendimento a scadenza, superiore a quello dei titoli di Stato: la legge consente il pagamento di un punto in più.

I TITOLI DEGLI ENTI SOVRANAZIONALI Banca mondiale o World bank, Banca europea per gli investimenti (BEI), Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (BERS), ma anche Interamerican development bank, Asian development bank. Sono solo alcuni dei nomi degli enti che operano a tutto campo, in ogni parte del mondo. Essi godono del massimo grado di affidabilità e finanziano la loro attività, anche attraverso l’emissione di obbligazioni. L’emittente di maggior pregio, in area euro, è la BEI, perché colloca un elevato quantitativo di titoli e perché, quasi sempre, propone emissioni interessanti, a volte di tipo strutturato, i cui rendimenti sono simili o di poco superiori a quelli offerti dal Tesoro italiano, pur avendo un miglior grado di affidabilità. Gran parte dei prestiti collocati dalla BEI, anche di altri emittenti, sono quotati a listino di Borsa: gli scambi, anche dopo la fase di collocamento, sono abbastanza liquidi. Non come i titoli di Stato italiano, ma raggiungono un grado di liquidità abbastanza interessante.

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Attenzione però a valutare bene l’investimento, perché il tasso a scadenza è legato al corretto comportamento del risparmiatore. A ogni singolo stacco cedolare, infatti, bisognerà reinvestire non solo l’importo degli interessi, ma anche la quota di capitale rimborsato. Se, al contrario, si farà un diverso utilizzo di tali somme, i presupposti di rendimento verranno completamente disattesi.

La vita di un’obbligazione Cerchiamo di capire come funzionano i mercati nei quali i titoli di Stato e le obbligazioni vengono trattati dal momento dell’emissione (mercato primario) TIPOLOGIE DI PDN AL MOT ■ Tipo prezzo • LIM = Con Limite di prezzo • MER = Senza Limite di prezzo ■ Parametro di tempo • VSC = Valida sino a cancellazione. A fine seduta l’eventuale quantità ineseguita della PDN viene automaticamente cancellata. • VSD = Valida sino alla data specificata. L’eventuale quantità ineseguita della PDN permane nel mercato con priorità temporale originaria fino alla data di scadenza. ■ Parametro di quantità • EQM = Esegui quantità minima. La PDN viene eseguita (anche parzialmente) almeno per il quantitativo minimo; altrimenti la PDN viene cancellata automaticamente. Nel caso di esecuzione parziale, l’eventuale saldo residuo viene riportato sul book di negoziazione. • EOC = Esegui o cancella. La PDN viene eseguita, anche parzialmente, per le quantità disponibili; l’eventuale saldo residuo viene cancellato automaticamente. • TON = Tutto o niente. La PDN, al momento del suo inserimento, è eseguita unicamente per l’intero quantitativo; altrimenti viene cancellata automaticamente. • ECO = Esegui comunque. La conclusione dei contratti avviene automaticamente ai prezzi delle proposte di segno contrario più convenienti. ■ Altre opzioni • Iceberg order. Sul mercato viene visualizzata una quantità parziale della PDN (modalità disponibile solo in continua e solo per PDN LIM).

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Il mercato delle obbligazioni La tabella principale relativa al MOT consente al lettore di fare delle valutazioni di prezzo e rendimento offrendo una serie di dati significativi nelle diverse colonne relative ai singoli titoli di Stato e alle obbligazioni. Per esempio, il dato sulla volatilità, il cui significato è tradotto nella legenda che quotidianamente appare sotto la tabella, può essere facilmente utilizzato a questo proposito. Per la compravendita dei titoli, così come per lo stacco cedola e quindi per la valutazione del rateo di interessi da pagare o incassare al momento della compravendita, è importante sapere che la valuta di liquidazione delle operazioni è il secondo giorno di Borsa aperta successivo a quello di trattazione per i BOT (che fanno parte del mercato monetario e quindi richiedono una monetizzazione particolarmente rapida), mentre per tutti gli altri titoli di Stato e per le obbligazioni è il terzo giorno successivo.

Rappresenta i giorni di stacco cedola, ovvero di pagamento degli interessi. Sono fissi nel caso di obbligazioni a cedola fissa come i BTP, mentre per i titoli indicizzati come CCT e alcune obbligazioni, le cedole variano in base all’andamento dei parametri di riferimento (indicati nel prospetto di emissione del prestito). Nella descrizione del titolo può essere indicata una C (indicizzazione sulle cedole) o una P (indicizzazione sul rimborso).

Nella descrizione del titolo appare la scadenza e, per i CCT, l’eventuale spread (maggiorazione) sui BOT. È anche indicato con un asterisco se l’obbligazione può essere rimborsata anticipatamente dall’emittente esercitando quella che tecnicamente si chiama clausola call.

Identifica con esattezza il titolo e va utilizzato per passare gli ordini con la certezza che, in caso di emissioni con descrizione o scadenza simili, si effettui la compravendita proprio sul titolo desiderato.

Prezzo medio ponderato di tutti i contratti conclusi durante l’intera seduta al netto degli scambi realizzati con la procedura del cross-order.

Il rendimento effettivo netto o lordo tiene conto della differenza tra il prezzo pagato e il prezzo di rimborso, oltre che del reinvestimento delle cedole (ipotizzato al medesimo tasso).

Tasso annuo lordo per i titoli non indicizzati e valore lordo della cedola in corso alla valuta per i titoli a tasso variabile.

Ammontare della cedola successiva a quella corrente. Può essere certa, se vi sono già tutti i dati relativi alle aste dei BOT necessari per il calcolo, o stimata per i CCT, e nel caso viene indicata in neretto, nell’ipotesi che i tassi sui BOT rimangano uguali a quelli dell’ultima asta. Imposta del 12,50% maturata sugli interessi e sull’eventuale disaggio di emissione (differenza tra prezzo di emissione e prezzo di rimborso che ovviamente va tassata).

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Durata media finanziaria. Il concetto di duration è basilare per l’analisi delle obbligazioni e per valutare la reattività dei titoli al variare dei tassi di mercato. Con tale indicatore si rappresenta la media ponderata delle scadenze dei flussi attualizzati offerti da un titolo. In pratica viene calcolato il valore attuale di ciascun flusso, cedole e capitale, cioè il valore a oggi di pagamenti futuri (scontati pertanto al tasso di rendimento del titolo), e di tali valori moltiplicati per il numero di giorni a scadenza, si effettua la media ponderata; le cedole più vicine nel tempo avranno un valore attuale maggiore e quindi un peso maggiore di quelle più lontane; così il capitale a scadenza avrà un valore attuale tanto più piccolo quanto maggiore sarà il tasso di rendimento interno al titolo. La media ponderata di tali flussi così attualizzati, ovvero la duration, sarà logicamente inferiore alla vita residua del titolo.

Percentuale di variazione del prezzo cosiddetto tel quel (prezzo di mercato più rateo) a fronte della variazione del rendimento effettivo di un punto.

Differenza in termini assoluti tra il prezzo minimo e massimo, rilevati nella fase continua, rispetto al prezzo ufficiale.

Controvalore globale scambiato nelle fasi di asta e di sottoscrizione. È un dato molto importante per il lettore perché indica anche il livello di liquidabilità del titolo. A fronte di quantitativi scambiati molto ridotti, può risultare costoso il disinvestimento in termini di oscillazione del prezzo. I titoli meno liquidi, e quindi meno trattati, sono valutati dal mercato a prezzi che esprimono questa minor qualità attraverso rendimenti più elevati. Titoli a lunga scadenza e poco liquidi possono comportare, in caso di inversione nei tassi, cadute nei prezzi molto più marcate di quanto teoricamente necessario per un adeguamento del rendimento e ciò in misura maggiore per quantitativi elevati.

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DIFFICILE VALUTARE IL RENDIMENTO A PRIORI Per i CCT si ipotizza il reinvestimento delle cedole sulla base dell’ultima cedola determinata e ipotizzando tassi dei BOT costanti nel tempo e uguali a quelli registrati nell’ultima asta. Per gli altri titoli obbligazionari a cedola variabile, il calcolo del rendimento si basa su un’ipotesi di cedole future tendenziali: è comunque più difficile stimare le cedole future a causa dei differenti parametri che spesso sono fissati con cadenza mensile. Pertanto, chi volesse acquistare un’obbligazione indicizzata dovrà rivolgersi a un esperto per conoscere le caratteristiche di indicizzazione del titolo osservato e valutare così la verosimiglianza e la coerenza con i tassi di mercato del rendimento indicato dalla tabella. Ma il concetto di rendimento effettivo è solo una stima di quello che sarà in realtà il rendimento a scadenza valutato ex post. Ciò è facilmente intuibile per i titoli indicizzati, per i quali non si può ovviamente conoscere in anticipo quella che sarà l’evoluzione futura degli importi delle cedole, ma anche per i titoli a cedola fissa il normale calcolo del rendimento effettivo è solo una stima di quello che risulterà ex post. Infatti, non è corretto ipotizzare il reinvestimento delle cedole al tasso interno di rendimento calcolato al momento dell’acquisto, in quanto vi è l’implicazione data dalla pendenza della curva dei tassi. E tutto questo senza contare su un possibile cambiamento del livello dei tassi nel tempo e quindi considerando la curva come immobile e costante sino alla scadenza del titolo in esame. Le tabelle servono comunque a operare un confronto tra i titoli a parità di ipotesi di calcolo.

sino alla loro naturale scadenza (mercato secondario). Il collocamento avviene tramite consorzio per le obbligazioni private o bancarie e, come già ricordato, attraverso le aste ufficiali per i titoli del Tesoro. Si può dire che il momento dell’asta stia oggi perdendo importanza per il piccolo risparmiatore. Ormai, solo per i BOT può essere un reale vantaggio aver prenotato i titoli prima del collocamento; in caso di forte riparto, a seguito di una domanda complessiva di gran lunga superiore all’offerta, infatti, le condizioni di prezzo dopo l’asta possono essere peggiori anche perché il mercato secondario degli strumenti a breve termine, quali i BOT, per la maggior parte classati presso le famiglie, è normalmente più povero in termini di scambi rispetto a quanto si verifica per BTP e CCT. Nel caso delle emissioni a medio-lungo termine, come CTZ, BTP e CCT, normalmente si trovano già il giorno dopo l’asta, sul MOT, prezzi allineati a quelli dell’emissione, quando non leggermente inferiori perché al netto di quella retrocessione che sul primario gli intermediari ottengono dal Tesoro.

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EuroMts Il 9 aprile 1999 venne fondata a Londra la società EuroMts Limited che, attraverso la piattaforma elettronica creata in precedenza da MTS Italia, ha dato avvio a un mercato obbligazionario europeo a cui partecipano le maggiori istituzioni finanziarie del continente. Si trattano parte dei titoli governativi di Austria, Belgio, Olanda, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Italia, Spagna, Portogallo e di altri Paesi ancora. Anche qui vi sono primary dealer, che sono azionisti della società, a cui compete l’obbligo di quotare un certo numero di titoli, secondo una rotazione mensile, assicurando determinati livelli di spread tra domanda e offerta. A essi si affiancano degli specialists di primarie banche e istituzioni europee. Sul mercato è assicurato l’anonimato; si ha evidenza del nome della controparte solo dopo avere concluso un contratto e non sul book dove appaiono le quotazioni. Il 16 luglio 2001 si è avuta la fusione tra EuroMts e la italiana MTS SPA che gestisce il mercato di tutti i titoli di Stato italiani. In parallelo sono attualmente funzionanti sul medesimo modello operativo MTS Amsterdam, MTS Belgium, MTS France, MTS German Market, MTS Japan, MTS Portugal, MTS España e altri ancora. MOT Se l’MTS ha portato il mercato secondario all’ingrosso ai massimi livelli di efficienza, tanto da essere notevolmente apprezzato dai grandi operatori internazionali, anche il mercato telematico al dettaglio, il MOT, riservato in particolare al piccolo risparmiatore, ha fatto passi da gigante con punte di scambi giornalieri complessivi che sono giunti a 1 miliardo di euro.

In breve L’opzione call è una facoltà alla quale i risparmiatori prestano spesso poca attenzione e che, invece, può risultare fondamentale per calcolare la convenienza di un investimento. Per esempio, acquistare sopra a 100 un titolo in considerazione delle alte cedole che si presume possa pagare per molti anni prima della scadenza, può risultare un’operazione arrischiata se quell’obbligazione ha incorporata la clausola call che permette all’emittente di rimborsarla anticipatamente al valore nominale (100). In quel caso l’investitore, non solo vede svanire la prospettiva di incassare alte cedole per un lungo periodo, ma si trova probabilmente a subire una perdita in conto capitale tra il prezzo del titolo acquistato (sopra la pari) e quello di rimborso (100).

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Esiste la fase d’asta, che vede per ciascun comparto di titoli la fissazione di un prezzo unico a un medesimo orario. Successivamente all’asta vi è la fase di sottoscrizione, una vera e propria trattazione continua, nella quale è possibile scambiare tutti i titoli a prezzi diversi, in relazione alle differenti condizioni di mercato, dalle ore 9.00 alle ore 17.30. Le obbligazioni private: il valore della quotazione al MOT o al TLX Non si può non rimanere sorpresi dai dati relativi al rapporto tra lo stock di obbligazioni quotate in Borsa rispetto alle consistenze totali di prestiti in essere censiti dalla Banca d’Italia (con esclusione di obbligazioni convertibili e cum warrant). Se nel 1974 essi rappresentavano il 66,5% del totale, a gennaio del 1990 erano scesi al 41,6% per crollare al 23,7% dell’agosto 1995. E andando ancor più a fondo nell’analisi, considerando i soli valori riferibili al sistema bancario, si è scesi dal 60% del 1974 al 10% dell’agosto 1995. Il rapporto non è mutato negli anni successivi. Da un lato, qualche emittente ritiene evidentemente troppo elevati i costi di quotazione, dall’altro l’obbligo di concentrazione in Borsa per gli scambi sui titoli quotati – obbligo che comunque decade con la direttiva Eurosim – ha costituito forse un deterrente all’accesso in Borsa sino alla partenza del MOT. Infatti, sino a luglio del 1994 i titoli si trattavano in Borsa alle grida e con un unico prezzo di listino. Ma con l’avvio della trattazione continua anche per questa parte del mercato è venuta a cadere tale difficoltà e in ogni momento il mercato può accogliere scambi in condizioni di trasparenza. Nel 2004, in aggiunta a quello gestito dalla Borsa Italiana, la Consob ha autorizzato un nuovo mercato regolamentato. È TLX, nato su iniziativa di Unicredito Italiano (successivamente anche Intesa Sanpaolo è entrata nell’azionariato), dove sono quotati titoli di Stato italiani ed esteri nonché una selezione di obbligazioni sovranazionali, societarie e strutturate. A TLX un investitore istituzionale (banca o operatore autorizzato) può accedere anche via internet (www.eurotlx.com). Dal punto di vista pratico, i prezzi dei titoli, in acquisto o in vendita, vengono riportati nelle pagine operative dei singoli titoli ed è possibile venirne in possesso o venderli, semplicemente “cliccando” la proposta che interessa. La potenzialità di TLX, che nel 2009 ha trasformato il suo status in quello di sistema multilaterale di negoziazione, è elevata già ora. Lo sarà ancora di più nel momento in cui la competizione tra le diverse piattaforme di negoziazione, indotta dalla direttiva Mifid sui servizi finanziari, dispiegherà per intero i suoi effetti. La disponibilità di nuove piattaforme di scambi obbligazionari in concorrenza tra loro sta accrescendo tra l’altro la liquidità del mercato a vantaggio degli investitori.

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ANDAMENTI DELLA CURVA DEI RENDIMENTI Normalmente la curva dei rendimenti è inclinata positivamente perché l’investitore richiede un premio al rischio per periodi più lunghi di detenzione in quanto, a fronte di possibili variazioni al rialzo nei tassi, i titoli a maggior scadenza avranno oscillazioni più marcate. Vi sono però fasi di mercato in cui la curva, o parte di essa, è inclinata negativamente: ciò significa che vi sono aspettative di ribasso dei tassi nel lungo periodo e gli operatori sono disposti a investire a tassi inferiori e per scadenze più lunghe per garantirsi in prospettiva rendimenti comunque di un certo livello per periodi maggiori. Infatti, ritengono in qualche misura che investire a breve in rendimenti più elevati temporaneamente sarebbe vanificato da reinvestimenti futuri a tassi ancor più bassi. È ovviamente una semplificazione del problema, anche perché occorre valutare l’inclinazione della curva e la coerenza dei rendimenti dei diversi segmenti, analisi non certo alla portata del risparmiatore. Ma chi vuole far da sé deve soprattutto evitare di commettere errori gravi sapendo che una curva molto ripida e crescente rappresenta una fase in cui il mercato si aspetta probabilmente un futuro rialzo di inflazione e tassi. In tal caso si deve trarre un’indicazione di prudenza che porti a privilegiare i titoli a più breve orizzonte, consentendo così investimenti futuri a tassi crescenti. Di fronte a una curva inclinata negativamente è più opportuno, invece, diversificare l’investimento acquistando le scadenze più lunghe, almeno per una certa parte del portafoglio. La curva dei tassi però si basa, oltre che su fondamentali macroeconomici, anche sulle aspettative future, sulle quali la speculazione opera maggiormente e che si possono dimostrare errate: pertanto, investire sui titoli più lunghi, che hanno potenziale capacità di oscillazione nel prezzo, diventa sempre più attività da professionisti.

Chi acquista titoli obbligazionari rischiosi, perché a tasso fisso e a lunga scadenza, in caso di inversione nei tassi, deve avere la possibilità di uscire dall’investimento con rapidità e a condizioni di mercato. Per le emissioni di piccolo importo (per esempio sotto i 250 milioni di euro nominali) anche la quotazione non assicurerebbe una gran liquidabilità, proprio per mancanza di flottante, ma per i prestiti sopra i 150 milioni di euro il flottante e la presenza sul mercato di operatori in concorrenza possono creare condizioni operative sufficienti. L’attività sul mercato secondario si fa comunque più consistente per titoli il cui flottante è almeno di 500 milioni di euro.

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Oggi anche l’emittente sa che non può più classare prestiti a condizioni non di mercato in quanto a tasso offerto; sa anche che il requisito della quotazione in Borsa è molto apprezzato dagli stessi partecipanti al collocamento. E, in teoria, questo maggior appeal dato dalla futura quotazione potrebbe tradursi in un risparmio del tasso offerto. Inoltre, per tutte le obbligazioni quotate il cui importo in circolazione è elevato, le tabelle del quotidiano riportano i dati necessari a seguire l’investimento, circostanza negata ai possessori di obbligazioni private non quotate, e a operare quindi con rapidità acquisti o disinvestimenti necessari a un migliore impiego del denaro in circostanze differenti di mercato. La questione assume maggior importanza in un contesto di tassi d’interesse molto più ridotti rispetto al passato. Pagare uno spread denaro/lettera superiore, per esempio, ai 50 centesimi ha un significato se i rendimenti sono al 12%, ma ha un peso ben maggiore se i tassi di mercato sono al 4% lordo circa, o ben più bassi, come si sono attestati negli ultimi anni, a partire dal 2008. La Borsa assicura anche per i titoli a minor flottante una teorica riduzione degli spread denaro/lettera: la fase d’asta chiude gli spread per fissare il prezzo unico e assicurare le migliori condizioni a venditore e compratore.

Le obbligazioni strutturate Il forte calo dei tassi di questi ultimi anni, soprattutto per l’Italia, ottenuto grazie alla convergenza monetaria, ha portato gli emittenti a offrire prodotti che incontrassero i favori di un pubblico abituato storicamente a rendimenti molto elevati. Di fronte a tassi di BOT o di BTP triennali scesi anche sino al 2% lordo, già nel corso del 2004, e a livelli inferiori nel 2010, il risparmiatore diveniva giocoforza più aperto alle novità. Senza parlare poi del costante declino dei certificati di deposito, dopo la loro tassazione al 27% per le scadenze più brevi, che obbligava il sistema bancario a ricercare alternative da offrire a chi non desiderasse rivolgersi al risparmio gestito. Si sono così moltiplicate le offerte di obbligazioni strutturate, che incorporano opzioni su tassi o su indici di mercati diversi o presentano strutture cedolari particolari. Questi titoli possono rappresentare buone opportunità in determinate situazioni di mercato, ma nascondono in certi casi insidie che il risparmiatore può non essere in grado di cogliere e che analizzeremo per singolo prodotto. Si tratta comunque di obbligazioni che poi, sul mercato secondario, sono tanto meno liquide quanto più tempo trascorre dall’emissione e tanto più ridotto è l’importo collocato.

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Le fixed reverse floater Le prime obbligazioni strutturate emesse, che hanno incontrato un gran successo tra il pubblico, sono state le fixed reverse floater. Queste obbligazioni a lunga durata (mai inferiori ai 10 anni) si presentano normalmente come delle stepdown (cedole decrescenti con la prima molto elevata rispetto ai tassi di mercato) per i primi anni, per poi diventare reverse, vale a dire indicizzate all’andamento opposto rispetto a quello dei tassi. Che significa? Per esempio, da un valore fisso (14%) si detrae il doppio del tasso Euribor a 6 mesi del momento e si ottiene il valore della cedola. Ciò significa che con tassi Euribor, dopo il quinto anno di cedole step-down, a livello del 6% si ottiene una cedola del 2% [14 – (6 × 2)]. Più i tassi a breve salgono più bassa diviene la cedola sino a divenire zero nel caso in cui i tassi salgano al 7%, mentre non possono esservi cedole negative. È evidente quindi che il titolo, molto più simile a un BTP decennale o trentennale piuttosto che a un CCT, è molto adatto in caso di ribasso dei tassi, mentre diviene quasi una bomba a orologeria quanto più i tassi salgono, quanto più lungo è il titolo e tanto più la curva dei tassi è ripida. Se la parte reverse indicizzata fosse relativa agli ultimi 10 anni di vita dell’obbligazione in un contesto di tassi divenuti più elevati (nell’ipotesi peggiore giunti vicino al 7%) si avrebbero cedole vicine a un valore di zero. E se il mercato non scontasse aspettative di ribasso futuro dei tassi il titolo assumerebbe sul mercato un valore molto prossimo a quello di uno zero coupon decennale. Si pensi che le obbligazioni zero coupon emesse quando i tassi a 10 anni erano a un livello tra il 7 e l’8%, a fine 1996 e inizio 1997, avevano un prezzo vicino a 50. Pertanto, un’obbligazione di questo tipo, che in un contesto di tassi al ribasso può portare all’incasso di cedole molto elevate per i primi anni e a una crescita del prezzo sul mercato (si pensi ai primi fixed reverse floater emessi con un reverse 15% meno 2 volte l’Euribor, con l’Euribor oggi sotto il 2% e cedole conseguenti vicine al 9%), in condizioni di mercato profondamente diverse (tassi a breve in forte crescita) può costituire un rischio davvero eccessivo perché i tassi di mercato di partenza sono storicamente ai minimi. Questa tipologia di strumenti finanziari non viene più utilizzata in fase di collocamento, da parte degli emittenti, che hanno scelto altri sistemi di raccolta del risparmio. Le obbligazioni step-up e step-down Le obbligazioni step-up o step-down presentano flussi cedolari predeterminati ma crescenti (step-up) o decrescenti (step-down) e nel caso delle più note step-down assicurano prime cedole più elevate dei tassi a breve termine perché parametrate a un livello leggermente superiore a quello dei tassi a lunga presenti al momento dell’emissione, ma a scadenza finiscono per offrire rendi-

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menti di poco superiori rispetto ai più liquidi titoli a lunga scadenza che, come i BTP, hanno maggior pregio. In tal caso l’emittente propone al mercato un titolo a condizioni di rendimento peggiori rispetto a quelle che presenterebbe un titolo a tasso fisso di pari scadenza offerto dallo stesso emittente (laddove le condizioni di spread sui tassi swap sarebbero facilmente riconoscibili), grazie al fatto che il risparmiatore sarebbe attratto dalle prime cedole più alte senza sapere che, anche in condizioni di tassi stabili, il prezzo di mercato di tali titoli tenderebbe per i primi anni a scendere per compensare l’anticipo di rendimento fornito dalle prime cedole. I constant maturity bond In caso di irripidimento della curva dei tassi, a prescindere dal livello dei tassi stessi, o in caso di curve a termine più ripide, il prezzo del titolo tende a superare quota 100 mentre in caso di curva dei tassi più piatta, caso che si può verificare qualora i tassi a breve siano più volte saliti sino a scongiurare una crescita futura dell’inflazione (politica monetaria anticiclica), il prezzo tende a scendere sotto quota 100 per compensare cedole più basse rispetto ai tassi a breve. Nel caso di prospettive di recessione e curva che diviene inclinata negativamente, il prezzo di questi titoli può scendere in maniera vistosa. In quest’ultimo caso è molto apprezzata l’esistenza di un floor, ovvero di una cedola minima tanto più difensiva quanto più elevata. Index ed equity linked Vi sono poi gli strutturati, già citati in precedenza, e legati a indici azionari (index linked) e quelli legati a singole azioni (equity linked). Offrono per durate dai 3 ai 5 anni un tasso minimo garantito, decisamente inferiore ai tassi di mercato, e una partecipazione variabile alla media del rialzo del mercato azionario sottostante nel periodo di durata dell’obbligazione. Tale “premio” di rimborso viene eventualmente corrisposto alla scadenza del prestito. Al sottoscrittore vengono offerte condizioni di partecipazione alla media del rialzo (o del ribas-

In breve Per la complessità dei prodotti finanziari oggi sul mercato è necessario che, prima dell’acquisto, gli investitori prendano visione del prospetto informativo (se l’obbligazione è quotata) oppure del foglio informativo (per i titoli non quotati) che l’intermediario è tenuto a consegnare su richiesta e nel quale sono indicati i rischi di quell’investimento simulando diverse ipotesi di andamento dei tassi d’interesse o, nel caso di indicizzazione a un’azione, del mercato di Borsa.

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so qualora il prodotto punti sul ribasso di un indice) tanto più elevate quanto più lunga è la scadenza del prestito e quanto più basso è il tasso minimo garantito. Il rischio, quindi, è solo relativo al costo opportunità di tassi di mercato più elevati rispetto a quelli offerti come minimo garantito. Tarn e cap floater La casistica delle obbligazioni strutturate si è arricchita in passato di nuovi prodotti con frequenza molto intensa. Fra queste proposte offerte al mercato, soprattutto dalla BEI, vi sono due tipologie particolari: tarn e cap floater. Le prime pagano un valore massimo della cedola, sommando i vari flussi per interessi maturati, nell’arco degli anni di vita del titolo. Tale valore viene fissato preliminarmente dall’emittente: se viene raggiunto prima della data di scadenza, il prestito verrà rimborsato anticipatamente. In caso contrario, il rimborso avrà luogo regolarmente. Generalmente, i flussi delle cedole hanno una caratteristica comune: fisse le prime tre, di livello medio-alto, variabili le successive e ancorate a un parametro di riferimento, pari al triplo della differenza tra rendimento degli strumenti decennali e degli strumenti biennali. Il prestito verrà rimborsato prima della scadenza naturale, se la somma delle cedole pagate raggiungerà il valore complessivo di 25. Queste emissioni sono state proposte nel momento in cui il valore del differenziale era sui massimi assoluti: ne consegue che, in futuro, difficilmente questa situazione potrà nuovamente verificarsi. Pertanto, il titolo potrebbe rivelarsi non particolarmente brillante. Il secondo tipo di emissioni strutturate offre cedole variabili e ha come parametro di riferimento il tasso Euribor a 3 mesi, a cui viene sommata una maggiorazione di 0,25 ogni anno. Temendo un eccessivo rialzo dei tassi, l’emittente ha previsto un valore massimo della cedola, cap, per evitare di pagare interessi troppo elevati, ma consentendo all’investitore di incamerare l’intero aumento dei rendimenti di mercato, se dovesse manifestarsi. Covered bond I covered bond (letteralmente “obbligazioni garantite”) di recente emissione (novità disciplinata per la prima volta dall’art. 7 bis della legge 30 aprile 1999, n. 130 introdotta dal decreto sulla competitività del maggio 2005) rappresentano prestiti dotati di una doppia garanzia: un portafoglio crediti della banca, per cui una fetta dell’attivo dell’istituto rimane riservato, vincolato e non aggredibile da terzi creditori, al servizio del pagamento di cedole e capitale del bond emesso, cui si aggiunge la garanzia generale della banca stessa. In sostanza si tratta di una cartolarizzazione di mutui ceduti a una società veicolo che per l’acquisto degli asset chiede un finanziamento alla banca che

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allo scopo emette l’obbligazione stessa. Per questa doppia garanzia il covered bond assume un rating molto alto (quasi sempre AAA) e offre un’elevata liquidità al titolo. A fronte di ciò, chi emette risparmia sul tasso offerto che può essere più contenuto rispetto alle altre obbligazioni emesse dal medesimo emittente. Anche queste obbligazioni presentano quasi sempre tagli da istituzionali (50 o 100.000 euro). Si possono trovare le quotazioni di queste obbligazioni ad esempio sul circuito TLX. Obbligazioni subordinate Le obbligazioni subordinate sono obbligazioni che a differenza di quelle tradizionali o senior, subiscono un peggior trattamento in termini di rimborso nel caso di fallimento dell’emittente: quindi sono debiti di minor pregio e in certi casi si assimilano quasi alle azioni. A fronte di questa caratteristica, offrono rendimenti superiori a quelli delle obbligazioni senior dei medesimi emittenti e per questo sono da maneggiare con maggiore attenzione; naturalmente presentano una maggiore volatilità nei prezzi di mercato. Le autorità di controllo richiedono che le banche rispettino dei precisi criteri di equilibrio tra rischi assunti (impieghi come prestiti o investimenti ecc.) e mezzi propri (azioni più obbligazioni subordinate); alle banche, l’emissione di questi strumenti consente di aumentare gli impieghi e quindi la redditività. In relazione a questo citato equilibrio e in base alle future nuove regole di Basilea 3, vi sarà una stretta per cui saranno assimilate ai mezzi propri solo quelle obbligazioni subordinate dove reale è l’assimilazione alle azioni (in estrema sintesi le obbligazioni Tier 1, quelle con il grado maggiore di subordinazione, verranno assimilate integralmente a capitale solo quando l’investitore rischia non soltanto il mancato pagamento delle cedole, ma anche il valore nominale di rimborso).

I corporate bond sono una valida alternativa ai titoli di Stato e, attraverso il rating, offrono all’investitore differenti profili di rischio/rendimento.

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In sostanza i portatori delle obbligazioni subordinate, a fronte di un rendimento maggiore, accettano di essere trattati peggio degli altri creditori (titolari di conti, depositi e altre obbligazioni), nel caso in cui la banca che le ha emesse si trovi in stato di insolvenza o liquidazione. In questo caso, il ricavato della liquidazione dei beni verrà utilizzato, in via prioritaria, per pagare i creditori ordinari. Una volta che questi ultimi (tra cui chi ha in mano delle normali obbligazioni senior) avranno ricevuto il 100% di quanto loro dovuto, si potrà dividere il residuo tra i portatori di subordinati (tra l’altro rimborsando alcune categorie prima di altre). In altre parole, in caso di fallimento di una banca, l’obbligazionista senior recupera di norma una parte dell’investimento mentre l’obbligazionista subordinato rischia di perdere tutto. Le obbligazioni subordinate di distinguono per tipologia, grado di rischio e redditività (a rischio maggiore corrisponde una remunerazione maggiore). Ecco le diverse tipologie. Tier 1 Si tratta della tipologia più rischiosa, da assimilare a un’azione di risparmio con dividendo/cedola definito a priori. Non hanno scadenza e per questo vengono definite perpetual, ma l’emittente ha la possibilità di rimborsare il titolo (opzione call) di solito al decimo anno e se non vi è il rimborso anticipato deve aumentare la cedola per gli anni a venire (vi sono dei perpetual che dopo il decimo anno a un tasso fisso elevato tipo il 7 o l’8% devono pagare cedole indicizzate all’Euribor + 600 punti o più). La cedola comunque è fissa o variabile fino alla call, mentre è sempre variabile successivamente. Normalmente se la banca non paga il dividendo agli azionisti, la cedola della Tier 1 viene cancellata e persa. Per certi prestiti Tier 1 (e sicuramente anche per tutti quelli emessi dopo Basilea 3) nel caso vengano realizzate perdite che mettono in pericolo la solidità della banca, il capitale nominale viene

In breve I convertible contingent bond, detti coco bond, sono obbligazioni ibride bancarie, convertibili in azioni, che offrono rendimenti molto alti. Vengono convertite in azioni solo se il Tier 1 della banca che li ha emessi scende sotto una certa soglia. Per le banche europee, viene fissata la soglia del 6% stabilita dagli accordi di Basilea 3. Quindi, se il quadro patrimoniale peggiora, il rischio dell’investimento in coco bond aumenta perché l’obbligazione si trasforma automaticamente in un’azione della stessa banca che ha emesso il bond. Quindi si tratta di obbligazioni ad alto rischio trattate per ora solo dagli investitori professionali.

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decurtato, pro quota, di queste perdite. In caso di liquidazione, vengono privilegiati i portatori di Tier 2 (Lower e Upper) e Tier3. Tier 2 • Upper Tier 2. Meno rischioso del Tier 1, ha una scadenza di 10 anni o superiore. Se l’emittente chiude l’esercizio in perdita, le cedole non vengono cancellate, ma solo sospese e pagate, tutte insieme, nel primo anno che si chiude in utile. Di solito non è prevista alcuna remunerazione o capitalizzazione per le cedole eventualmente pagate in ritardo. Il nominale può essere diminuito, in casi straordinari e più limitati che nel caso del Tier 1. In caso di liquidazione vengono privilegiati i portatori di Lower Tier 2 e Tier 3. • Lower Tier 2. La scadenza è usualmente di 10 anni, ma l’emittente ha l’opzione di rimborso al quinto. Se la banca non la utilizza, la cedola viene aumentata in modo consistente. Le cedole sono bloccate solo in caso di una vera e propria insolvenza, mentre il capitale non subisce decurtazioni, se non in caso di liquidazione della banca. Si tratta della tipologia di subordinati più frequentemente offerta e la meno rischiosa, ma il risparmiatore deve tenere presente che non si tratta di una normale obbligazione senior e quindi deve farsi consigliare con attenzione perché i rischi non sono trascurabili quantomeno in termini di oscillazione dei prezzi di mercato. Durante la crisi del 2008 sui mutui e obbligazioni sub-

I titoli strutturati

Dopo le equity e index linked vengono elencate le obbligazioni appartenenti alla categoria “Altre” e le reverse floater.

Dalla quantità scambiata quotidianamente si evince che non si tratta di obbligazioni particolarmente liquide.

Tutti i giorni la pagina dedicata ai “Mercati obbligazionari in Italia” ospita molteplici tabelle, tra cui quella riportata qui sotto in cui vengono presentati i titoli strutturati quotati sul MOT, suddivisi in base alla tipologia. Si tratta di obbligazioni equity linked o index linked, delle vecchie reverse floater e di altre tipologie piuttosto complesse. Si segnala al lettore che in generale queste obbligazioni non sono molto liquide e non è facile il calcolo della parità teorica. In sostanza quindi si tratta di emissioni più adatte a investitori istituzionali che non a privati, difficilmente in grado di fare valutazioni di convenienza se non coadiuvati da consulenti o gestori esperti.

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prime, pure queste obbligazioni Lower Tier 2, anche se emesse da primari e solidi istituti bancari, hanno visto le quotazioni scendere addirittura sotto il prezzo di 90 pure nel caso di prestiti indicizzati all’Euribor (per effetto della crisi e per l’incremento dell’avversione al rischio registrato in quei periodi le obbligazioni Tier 1 invece hanno visto in certi casi i loro prezzi perdere il 50% del valore per timore di futuri mancati pagamenti delle cedole o addirittura di possibili decurtazioni del valore nominale). In caso di liquidazione dell’emittente le obbligazioni Lower Tier 2 vengono rimborsate prima dei Tier 1 e degli Upper Tier 2, trovandosi allo stesso livello dei Tier 3, che invece sono una tipologia poco utilizzata e prevedono solo una sospensione delle cedole, ma non la loro cancellazione. I rischi per l’investitore L’emergere di caratteristiche che favoriscono in misura maggiore l’emittente di obbligazioni strutturate è tipico di questo comparto. Una situazione che dovrebbe suonare come campanello d’allarme per l’investitore, che non deve mai farsi attrarre da flussi cedolari particolarmente elevati, nei primi anni di vita dei titoli, perché, quasi sempre, quelli successivi avranno un andamento di segno opposto. Inoltre, i maggiori flussi iniziali trovano compenso nei prezzi di mercato dei titoli in calo, sino ad assicurare, a livello teorico e a tassi che rispettino quanto espresso dalle aspettative di mercato al momento dell’emissione (tassi forward ), performance di periodo non molto differenti da quelle offerte da titoli a tasso fisso di pari scadenza e di pari merito di credito e importo emesso. D’altra parte, non è pensabile che, in una fase di tassi di mercato bassi, vi sia chi decida di offrire rendimenti molto alti, a meno che non sia assegnatario di un basso grado di affidabilità e sia quindi costretto a seguire questa via. Gli emittenti principali, più noti e patrimonialmente solidi, viceversa, si limitano a pagare i rendimenti di mercato o a offrire, come avviene anche con le obbligazioni strutturate, titoli che potrebbero favorire i sottoscrittori, nel corso degli anni, se il valore delle cedole che pagheranno scenderà, com’è accaduto per le obbligazioni reverse floater, o salirà in misura inferiore al mercato, come potrebbe accadere per tarn e cap floater: ma ciò dipende dall’andamento del mercato e non certo da un extravalore assoluto offerto su queste emissioni.

Euromot e mercati esteri Euromot Nell’Euromot, evoluzione del MOT, si negoziano eurobbligazioni, obbligazioni di emittenti esteri e asset-backed securities (ABS), ed è stata creata una nuova

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L’IMPORTANZA DEL RATING Dopo le vicende che hanno visto molti investitori soffrire per i mancati pagamenti dei titoli argentini, pubblici e privati, di quelli Cirio e Parmalat, particolare attenzione andrebbe riservata al grado di affidabilità degli strumenti finanziari che si sottoscrivono. L’eventualità di un default, cioè di non pagamento delle cedole o di non rimborso del capitale alle scadenze previste, è uno dei principali rischi dell’investimento obbligazionario. La valutazione di quanto un emittente possa incorrere in un simile evento è l’obiettivo del rating, che assegna a ciascun emittente o a una sua specifica emissione obbligazionaria un determinato punteggio (da AAA, il più alto, a D, il più basso) con il quale viene appunto censito il rischio di default. Il pericolo è minimo per gli emittenti con rating AAA, ma diventa molto più alto per quelli con un punteggio D che, in pratica, designa l’anticamera del fallimento. Nei fatti gli strumenti a rating D sono pressoché inesistenti tra gli emittenti italiani, come si può notare dalla tabella del Sole 24 ORE dedicata al mercato obbligazionario e nella quale è contenuta anche l’indicazione del rating.

LE CLASSI DI RATING Investment grade

S&P

Moody’s

Titoli di prima qualità: altamente sicuri (Gilt edge - highly safe)

AAA AA+

Aaa Aa1

Categoria molto elevata - molto sicuri (Very high grade - very safe)

AA AA– A+ A A– BBB+ BBB BBB–

Aa2 Aa3 A1 A2 A3 Baa1 Baa2 Baa3

Non investment grade

S&P

Moody’s

Categoria bassa - titoli speculativi (Low grade - speculative)

BB+ BB BB– B+ B B– CCC+

Ba1 Ba2 Ba3 Ba3 B2 B3

CCC CCC– CC

Caa

C

C

Categoria di fascia medio alta (Upper medium grade) Categoria di fascia medio bassa - titoli piuttosto speculativi (Lower medium grade - quite speculative)

Titoli molto speculativi (Very speculative) Titoli altamente speculativi (Highly speculative) In condizioni difficili - rischiosi (In poor standing - risky) Possibilità di fallimento del debitore - molto rischiosi (Possibility of being in default - very risky) Estremamente rischiosi (Extremely risky)

Ca

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struttura telematica che consente sinergie tra i mercati all’ingrosso e al dettaglio, creando i presupposti perché possa aumentare l’efficienza del mercato in termini di maggior liquidità. Proprio per garantirla è prevista la presenza obbligatoria di specialist, che si impegnano a quotare costantemente determinati titoli in base a uno spread massimo stabilito dalla Borsa italiana e sulla falsariga di quanto avviene sull’EuroMts. Fondamentale caratteristica dell’Euromot rispetto al MOT è che i titoli possono essere regolati oltre che su Monte Titoli anche su sistemi internazionali quali Cedel ed Euroclear. La novità è senz’altro la presenza tra i valori quotati di ABS derivanti da operazioni di cartolarizzazione e che abbiano un elevato merito di credito (come minimo investment grade). In particolare, gli emittenti devono fornire continuamente alla Borsa italiana informazioni relative all’attività di sorveglianza del collaterale e ogni altra informazione necessaria agli investitori circa variazioni intervenute, per esempio, nel piano di ammortamento. I mercati obbligazionari esteri Gli operatori professionali e gli intermediari internazionali che vanno sui mercati obbligazionari esteri cercano di privilegiare la liquidità dell’investimento e la disponibilità di largo flottante. Solo i titoli di Stato dei maggiori Paesi possono soddisfare pienamente tali esigenze, mentre sul mercato delle eurobbligazioni gli importi emessi sono mediamente più bassi, in particolare quelli di emittenti bancari. Con la nascita dell’euro, i risparmiatori italiani hanno visto allargate le possibilità di investimento in un’area, quella continentale, priva di rischi di cambio.

Il Sole 24 ORE dedica spazi anche ai mercati obbligazionari esteri, consolidati (come quello giapponese) ed emergenti (l’indiano, per esempio) in modo che il risparmiatore/investitore abbia una visione globale degli strumenti a disposizione.

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Titoli di Stato degli altri Paesi dell’Unione sono dunque divenuti, a tutti gli effetti, titoli domestici. Per quanto riguarda invece l’euromercato, tra le emissioni più liquide vi sono quelle classate da Stati sovrani in valute differenti dalla loro (così si possono trovare per esempio le Italy Republic, le United Kingdom o le Sweden Kingdom in dollari, in yen o in lire sterline del Regno Unito) e quelli di organismi sovranazionali come BEI o World Bank. Generalmente le obbligazioni degli organismi sovranazionali offrono maggiore sicurezza, grazie all’elevato merito di credito loro assegnato dalle agenzie di rating e che si attesta al valore massimo, tripla A. Come funziona l’euromercato Non esiste un listino ufficiale, ma i prezzi sono stabiliti dalle banche e dai maggiori intermediari che quotano i diversi prestiti sui più noti circuiti telematici d’informazione. Per ciascun tipo di obbligazione vi sono più operatori che intervengono sul mercato, sulla base delle loro strategie, sia in funzione delle tipologie di emissioni scelte sia a fronte di un accordo con l’emittente per cui hanno curato il collocamento di un prestito obbligazionario. I prezzi riportati dal Sole 24 ORE sono quelli indicativi forniti da Reuters. A fronte di migliaia di emissioni con caratteristiche diverse, vi sono prezzi e condizioni di mercato differenti. Si possono trovare titoli a flottante ridotto e di vecchia emissione, che non vengono quasi mai trattati, o titoli molto liquidi come i floater in euro emessi dal Tesoro italiano il cui lo spread denaro/lettera può anche ridursi a pochi centesimi. Per floater si intende un titolo con cedole indicizzate a un tasso a breve, come per esempio l’Euribor, e quindi molto rapido e adatto a seguire l’evoluzione soprattutto in caso di loro salita. Sull’euromercato bisogna peraltro fare molta attenzione a quei titoli che presentano una facoltà call per l’emittente. In tal caso la tabella del Sole 24 ORE presenta un simbolo particolare a fianco dei titoli.Il rendimento presentato in tabella è sempre quello relativo all’ultima scadenza e non può tenere conto di tale facoltà. Con essa, quando si verifica un forte ribasso dei tassi, l’emittente può cogliere l’occasione di ricollocare l’importo attraverso l’offerta di un altro prestito obbligazionario a un tasso facciale più basso. Per questo motivo gli operatori valutano il titolo callable (cioè caratterizzato da una facoltà di rimborso anticipato) sulla prima scadenza teorica e quindi a un prezzo più basso, adeguato alla più breve durata. Chi punta sul ribasso dei tassi e su investimenti a lunga scadenza deve in tal caso evitare questo genere di prestiti o comunque farsi consigliare da un esperto.

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Obbligazioni e cartolarizzazione Abbastanza complesse si presentano le caratteristiche delle obbligazioni che derivano da operazioni di cartolarizzazione effettuate da società private o da enti pubblici. Il processo che dà vita a questo tipo di strumenti prende l’avvio da poste attive presenti nei bilanci aziendali. Si può trattare di crediti, mutui, immobili e, addirittura, bollette telefoniche. Le più importanti voci di bilancio che rappresentano attività possono venire conferite in una società di nuova emanazione, il cui compito sarà quello di trasformare queste attività in denaro contante, attraverso la loro cessione, in forma indiretta, agli investitori, proponendo l’emissione di un prestito obbligazionario, anziché ricorrere all’anticipazione bancaria. Per farlo, offrono un tasso ai sottoscrittori stabilito in funzione del grado di affidabilità assegnato alle poste attive portate in cartolarizzazione. Di solito, i titoli sono suddivisi in più gruppi, perché non tutti i crediti, i mutui o gli immobili hanno identico grado di affidabilità. Le tranche divergono anche per durata e flusso cedolare. L’aspetto più complesso di questi titoli è la durata complessiva. Essa è fissata, a livello teorico, ma potrà variare, se vi saranno ritardi nei pagamenti dei crediti o dei mutui o nella vendita degli immobili, o, viceversa, se vi saranno anticipi nei pagamenti o estinzioni anticipate di mutui. Potrà, quindi, sia aumentare sia diminuire. I naturali sottoscrittori di questi titoli sono gli investitori istituzionali. Molto meno interessati sono invece i risparmiatori tradizionali, che si troverebbero alle prese con uno strumento finanziario di lettura abbastanza complessa. Fra le emissioni più note, in questo campo, vi sono INPS e SCIP, cartolarizzazione, quest’ultima, degli immobili dell’ente previdenziale. Come sono complesse le caratteristiche dei titoli che derivano dalla cartolarizzazione, altrettanto può dirsi dell’iter che le prepara al mercato. Esso nasce con la cessione dei crediti da cartolarizzare a un’azienda che viene creata ad hoc per assolvere a questa funzione. Tale società, il cui oggetto sociale è il collocamento delle obbligazioni, è naturalmente partecipata dall’azienda che si affida a questa operazione di cartolarizzazione per la raccolta di risparmio. Per accedere al mercato, la società creata ad hoc dovrà rivolgersi alle agenzie di rating per far loro valutare il grado di affidabilità dei cespiti dai quali l’obbligazione prenderà corpo. La legislazione è molto rigida e non possono accedere al mercato le operazioni prive del rating. Anzi, qualora l’importo sia particolarmente rilevante, l’emittente ricorre anche al giudizio di tre agenzie specializzate. Quest’azione di scrutinio preventivo sull’affidabilità del debito ha mostrato scarsa affidabilità nel corso della crisi finanziaria iniziata con

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CARTOLARIZZAZIONI, STRUTTURATI E CRISI DEI MUTUI SUBPRIME La crisi del credito che dall’estate 2007 ha riempito le pagine dei giornali e ha portato il mondo in recessione non può essere addossata unicamente alla frenetica corsa ad acquistare case a debito che ha caratterizzato gli ultimi anni negli Stati Uniti. Il fuoco covava sotto la cenere da almeno un decennio ed è stato principalmente alimentato dalla politica monetaria che ha caratterizzato l’intera era Greenspan come presidente della Federal Reserve. In particolare, nei primi anni del nuovo millennio – per evitare le conseguenze nefaste del possibile scoppio della precedente bolla azionaria, quella legata all’enorme sopravvalutazione dei titoli tecnologici, e dello shock conseguente al drammatico 11 settembre 2001 – Greenspan ha portato progressivamente i tassi di interesse all’1%, creando così un contesto favorevole alla speculazione edilizia e all’aumento della leva finanziaria. Il conseguente boom speculativo del mercato immobiliare ha alimentato un “illusorio” effetto ricchezza, dovuto alla crescita del valore teorico del patrimonio immobiliare delle famiglie, che ha consentito di mantenere l’economia americana e la spesa per consumi a livelli elevati, secondo molti insostenibili, nonostante il crollo dei mercati finanziari del triennio 2001-03. La “benzina” a basso costo del denaro facile ha in parallelo drogato il sistema finanziario, portando progressivamente a un’elevata tolleranza verso il rischio e quindi a una sua sottovalutazione, resa evidente dai bassi livelli di volatilità e dalla continua riduzione degli spread creditizi, che, per anni, fino a metà del 2007, hanno caratterizzato i mercati finanziari. Erano anni nei quali si susseguivano megaoperazioni di private equity, con larghissimo utilizzo della leva finanziaria, gli hedge fund chiudevano l’accesso ai nuovi clienti, sommersi dalle domande di sottoscrizioni, le obbligazioni societarie esprimevano differenziali di rendimento risibili rispetto ai titoli del Tesoro. In questo quadro, gli stessi manager di banche e società finanziarie, spinti dalla ricerca di risultati sempre più brillanti, quanto, con il senno del poi, effimeri, hanno spregiudicatamente favorito sempre più le operazioni a debito dei propri clienti, in cambio dei lauti ritorni garantiti per le loro aziende. In particolare – ecco l’origine della crisi – si è facilitato l’acquisto delle case anche ai cosiddetti NINJA (acronimo di no income, no jobs or asset, ovvero nessuno stipendio fisso, nessun lavoro fisso, nessuna proprietà) senza tener conto dei rischi, ma confidando sulla crescita senza fine dei prezzi delle case e delle garanzie collegate e, soprattutto, come si vedrà in seguito, sulla possibilità di sbarazzarsi in fretta e diffondere nel sistema il rischio.

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Si sono così confezionati mutui molto allettanti, pari il 100% del valore degli immobili, con rate inizialmente molto basse, poi crescenti a tassi molto elevati, e trasferendo il rischio dell’eventuale insolvenza su altri investitori. Come? Grazie alle cartolarizzazioni: le banche impacchettavano questi mutui in obbligazioni collocate successivamente sui mercati (soprattutto a investitori istituzionali e ad altre banche allettate dagli elevati tassi offerti con strutture ad alto rating) e così rientravano subito del denaro prestato, che veniva rimesso in circolo finanziando altri prestiti, lucrando altre commissioni e alimentando il circuito senza fine dell’indebitamento sistematico. Questo processo ha gonfiato il mercato immobiliare, dove molti accedevano ai mutui e alle prime leggere rate solo per acquistare a leva, cioè a credito, un bene da rivendere entro pochi mesi a prezzi ancora più alti e quindi con un puro fine speculativo. Il cosiddetto mutuo subprime, lungi dal rappresentare “uno strumento di democrazia economica”, come alcuni hanno sostenuto, si è rivelato un ottimo metodo per più o meno oscure società di finanziamento immobiliare e, a valle, per tutti i più blasonati nomi di Wall Street e della City per gonfiare attivi e utili, diffondendo nel sistema, impacchettati, rischi non più controllati né conosciuti da alcuno. Le conseguenze: prezzi delle case cresciuti ben oltre valori ragionevoli e, soprattutto, un mercato del credito che subiva un continuo peggioramento in termini qualitativi. Inoltre, attraverso le obbligazioni strutturate con all’interno mutui di differente qualità (i cosiddetti CDO ), le conseguenze dello sgonfiamento della bolla immobiliare hanno infettato con velocità sorprendente i bilanci dei sottoscrittori delle obbligazioni. Ma chi erano questi “imprudenti” che sottoscrivevano le obbligazioni in questione? Erano sempre le stesse banche, che con una mano originavano i mutui e con l’altra li impacchettavano e distribuivano – da qui il cosiddetto modello, ora disconosciuto dagli stessi banchieri che l’hanno utilizzato, “originate & distribute”. Ad affiancare le banche, con ruoli diversi, investitori istituzionali come gestori di Sicav obbligazionarie o monetarie, assicurazioni e hedge fund, che avevano in comune la ricerca di extra rendimenti da offrire ai clienti in un mondo ormai caratterizzato da tassi e spread sulle attività a rischio estremamente contenuti. La ricerca del cosiddetto yield enhancement “garantito” da emissioni con rating elevato era diventato una mania, visto che l’industria del risparmio era in difficoltà a offrire prodotti che rendessero di più del banale interesse delle emissioni pubbliche e che garantissero le necessarie commissioni.

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CARTOLARIZZAZIONI, STRUTTURATI E CRISI DEI MUTUI SUBPRIME (segue) Ma cosa sono i cosiddetti CDO (collateralized debt obligation)? Si tratta di uno dei tanti tipi di obbligazioni cartolarizzate (in inglese, ABS, asset backed security), ovvero di bond diversi da quelli tradizionali, collocati attraverso un processo di cartolarizzazione di mutui, e il cui pagamento di cedole e capitale al rimborso dovrebbe essere assicurato dal flusso di cassa generato da un portafoglio di attività finanziarie. In particolare, i CDO sono titoli a reddito fisso che derivano dall’aggregazione di diverse attività soggette a rischio di credito. Nello specifico i mutui ipotecari residenziali con rating dalla AAA alla singola B sono chiamati RMBS (residential mortgage backed securities) e rappresentano quella tipologia di struttura in cui sono stati inseriti, per esempio, proprio i mutui subprime. Com’è possibile che investitori istituzionali, esperti professionisti nella selezione degli investimenti, si siano fatti attrarre da prodotti che oggi sembrano carta straccia (queste strutture non dispongono più di un mercato liquido e se esprimono prezzi possono mostrare valutazioni anche del 7080% inferiori al valore nominale)? E quali sono stati gli effetti della crisi sui bilanci delle banche o sulle performance dei fondi o dei prodotti assicurativi che li contenevano? Partiamo dalla prima domanda. Attraverso il CDO, un insieme di attività di norma illiquide o non scambiabili viene trasformato in un valore mobiliare teoricamente negoziabile, spesso emesso da società costruite ad hoc – i cosiddetti “veicoli fuori bilancio” –, dagli intermediari finanziari originariamente titolari dei crediti. Tali veicoli sono definiti SPV o SIV (special purpose o special investment vehicles). Da notare che la valutazione del rischio/rendimento del prodotto, e quindi del rating assegnato, non si basa né sul merito di credito dell’originator (la banca o società che cartolarizza gli attivi) né su quello dell’SPV emittente, società peraltro completamente indipendente dall’originator e a bassissima capitalizzazione, bensì trae riferimento dai flussi di cassa derivanti dalle attività cedute (es. mutui) e quindi dalla loro qualità. Il rendimento del CDO deriva quindi, ex post, dai flussi ottenuti in termini sia di cedole che di rimborso di quote capitale. Naturalmente nella strutturazione del prodotto si prevede un matching teorico tra tali flussi e il rientro dei debiti sottostanti. Il rating assegnato al prodotto deriva alla fine dalla valutazione del rischio di insolvenza sottostante al portafoglio di attività, rischio che viene “misurato” dalle società di rating prevalentemente con l’ausilio di modelli statistico-matematici, che valutano le probabilità di default delle singole attività e l’impatto complessivo sul portafoglio cartolarizzato, considerando anche il livello di extra copertura delle attività conferite (che normalmente

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deve superare il valore nominale proprio per ridurre i rischi del sottoscrittore). I CDO presentano differenti tranche a seconda della qualità degli attivi contenuti; vi sono così tranche senior, tranche mezzanine e tranche equity, ciascuna delle quali è adatta a differenti classi di investitori con rischio crescente. Il problema rilevante deriva dalla possibilità che le tranche più rischiose possano subire un numero di default superiore a quello previsto dal modello: in questo caso, anche le tranche meno rischiose possono essere “infettate” subendo i danni derivanti da minori flussi di rimborso, come in effetti si è poi verificato. Evidentemente lo scenario peggiore previsto dalle agenzie di rating nell’assegnare il merito di credito ai CDO – che oggi vengono definiti toxic assets per la loro capacità di infettare sino alla morte chi li ha in corpo – non era coerente con lo scenario di “sgonfiamento” della bolla che si stava prefigurando in un mercato immobiliare che, a partire dal 2007, mostrava prezzi in continuo calo. Dopo anni di mercato immobiliare in crescita e di conseguente successo del mercato di ABS, MBS e CDO – sempre più vasto e globalizzato, grazie al basso tasso di default registrato per una tenuta dei modelli preconfigurati e supportato dall’offerta di rendimenti superiori alla media – il circolo da virtuoso è diventato vizioso. Con il rialzo dei tassi di interesse – dovuto ai rischi di inflazione di un’economia USA in crescita e il gioco della speculazione immobiliare che si rivelava un boomerang – aumentava decisamente il numero dei default anche a seguito dei maggiori tassi che i debitori subprime dovevano pagare dopo le prime rate favorevoli. Non solo: il valore garanzia degli immobili, quel 100% finanziato anni prima e diventato 120-130% per effetto del rialzo dei prezzo delle case, invertiva la rotta per tornare a 100% sino a scenderne al di sotto. Con i mancati pagamenti da parte dei debitori, le case venivano progressivamente sottratte ai proprietari dagli ufficiali giudiziari e messe all’asta, accelerando la caduta del mercato immobiliare. L’industria degli MBS e dei CDO subiva una vera implosione e i primi a farne le spese erano, così racconta la cronaca, due subprime mortgage hedge fund di Bear Stearns, dando così l’inizio alla crisi nel giugno 2007, che ha portato al credit crunch. Tutto questo naturalmente perché sul mercato si creavano enormi flussi in uscita su tali prodotti, a prescindere dalla conoscenza del loro contenuto e della qualità degli asset cartolarizzati, con la paura che la percentuale di default dei debitori finali, cioè chi aveva il mutuo e non poteva più pagare le rate ormai cresciute, fosse enorme e non la modesta percentuale implicitamente scontata dai modelli sottostanti.

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l’esplosione della bolla dei mutui subprime in cui i giudizi delle agenzie di rating (si veda anche il lungo box alle pagine precedenti) si sono rivelati ex post eccessivamente accomodanti e ottimistici. Una volta ottenuto, il rating, la società, che già s’era affidata a banche d’affari per definire caratteristiche e modalità di emissione dell’obbligazione, delega loro il compito di collocare il titolo sul mercato primario. Operazione che si concretizza con una serie di presentazioni (road show), che possono aver luogo per gruppi di investitori o

LA CRISI DEI DEBITI GOVERNATIVI Da inizio 2010, quando la crisi del debito di Atene è divenuta di dominio pubblico, l’attenzione degli investitori, e naturalmente dei mercati, si è trasferita in gran parte dalle attese sul futuro andamento dei rendimenti (e dei tassi ufficiali) alla ricerca della sicurezza. In pratica, pur a fronte di rendimenti molto elevati offerti non solo dai titoli greci (la durata biennale è arrivata a pagare il 26% di rendimento teorico a metà maggio 2011), ma anche dalle emissioni governative di Irlanda e Portogallo, gli acquisti hanno privilegiato i titoli di Stato tedeschi, considerati già dal 2007 (primi segnali della lunga crisi finanziaria) una sorta di bene rifugio, quasi un concorrente dell’oro. Il livello raggiunto dai rendimenti da una parte dei titoli dei paesi d’area euro definiti periferici (i rialzi sono stati meno evidenti per le emissioni governative di Italia e Spagna) o raccolti nella denominazione PIIGS (iniziali di Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna) ha fatto sì che i differenziali di rendimento tra questi titoli e quelli tedeschi siano saliti a valori impensabili. Limitando l’osservazione alla durata decennale, il differenziale di rendimento tra il titolo greco e quello tedesco ha toccato il livello di 16,43 punti a settembre 2011 (a cui corrisponde un rendimento teorico del 18,28%), mentre si è attestato a 6,47 e 8,65 punti rispettivamente per i titoli irlandesi e portoghesi. Il differenziale per le analoghe emissioni spagnole è stato di 3,20 punti e di 3,46 per quelle italiane. Ristrutturazione, default sono termini più volte accostati ai titoli del Tesoro di Atene, nonostante Unione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale si siano impegnati, pur fra difficoltà e vivaci discussioni, a finanziare l’esecutivo per consentirgli di far fronte ai debiti pregressi. Le due ipotesi negative hanno trovato una forte resistenza da parte delle autorità monetarie europee, sia per i possibili contraccolpi che avrebbe potuto subire la moneta unica, sia, soprattutto, per i possibili effetti sui bilanci di tante banche d’area euro (con una presenza minima delle banche italiane). Nei loro portafogli di proprietà la presenza di titoli di Stato dei paesi europei è rilevante. Nei bilanci, generalmente, viene riportato, lad-

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per singoli incontri, nel corso delle quali gli intermediari illustrano le condizioni alle quali l’obbligazione verrà proposta agli investitori. A questo punto, come avviene per un’obbligazione di stampo classico, si apriranno le sottoscrizioni, una volta comunicato il prezzo di emissione, che varierà a seconda della durata dell’obbligazione e della cedola offerta: generalmente, l’emittente offre infatti, in contemporanea, più obbligazioni differenziate per scadenza e, spesso, per grado di affidabilità.

dove consentito dalla normativa (e lo è in casi simili a questo), il valore di carico (prezzo d’acquisto) e non di mercato (che sarebbe risultato molto inferiore). Al di là di queste considerazioni di carattere contabile, nei mercati s’è diffuso il timore che l’uscita dalla crisi dei tre paesi maggiormente interessati avrebbe avuto un percorso molto accidentato, perché, a fronte dei prestiti ottenuti, i paesi si sono impegnati a ridurre la tendenza crescente dei debiti pubblici. La via d’uscita era l’approvazione di leggi finanziarie impopolari, molto mal accolte e, di conseguenza, di complessa attuazione. I mercati finanziari, sia nel comparto obbligazionario (limitatamente ai paesi interessati) sia nel comparto azionario (per tutti i paesi d’area euro) sono stati negativamente condizionati dall’evolversi di queste difficili situazioni. Paradossalmente, le perdite maggiori hanno riguardato i titoli governativi dei soli paesi d’area euro, nonostante i debiti dei paesi anglosassoni siano altrettanto elevati. La differenza fondamentale è nelle prospettive: negli Stati Uniti e nel Regno Unito le attese di crescita si attestano mediamente a buoni livelli, mentre appaiono molto meno brillanti nei paesi d’area euro interessati dalla crisi. Una crescita del prodotto lordo che s’attesti al 3% circa consente di ridurre parzialmente la tendenza del debito pubblico ad aumentare, mentre l’opposto avviene per incremento dello stesso PIL a livelli inferiori. Se per USA e Regno Unito i livelli di crescita indicati sono raggiungibili, non altrettanto si può ipotizzare per molti altri paesi. Non v’è dubbio che timori e preoccupazioni abbiano caratterizzato le strategie degli investitori, fino a far loro scegliere, come s’è anticipato, i titoli a basso rendimento, ma a elevato grado di sicurezza. Forse, questa tipologia di comportamento non avrà vita breve, perché chi sceglie titoli di Stato, generalmente, lo fa per godere di un flusso di interessi costante e “garantito”. E le vicende dei paesi d’area euro meno virtuosi hanno lasciato un retaggio tutt’altro che favorevole.

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I derivati su obbligazioni L’Italia è in un certo senso entrata nell’Europa finanziaria dal settembre del 1991, quando fu introdotto da parte del LIFFE di Londra un contratto future sui BTP decennali. Ciò equivaleva a una quotazione dell’azienda Italia in un mercato dove tutti i principali intermediari del mondo erano presenti. Da allora la nostra politica economica è stata “ostaggio” del mercato: a fronte di una legge finanziaria debole il BTP scende di prezzo, causando così un rialzo dei rendimenti delle nuove emissioni. E questo si traduce in un immediato aumento della spesa per interessi dello Stato italiano su uno stock di debito pubblico così ingente. La conseguenza più immediata è stata, ed è, una maggiore attenzione alla componente finanziaria della politica degli esecutivi che si susseguono nel nostro paese. I progressi nella finanza pubblica italiana furono scanditi, in quegli anni, dal continuo rialzo del BTP future: una sorta di indicatore del giudizio dei mercati finanziari internazionali sulla capacità del governo nazionale di tenere sotto controllo il deficit. Ma che cos’è un future sui tassi d’interesse a lungo termine (come sono i BTP italiani al pari dei Bund tedeschi o dei T-Bond statunitensi) e perché è così importante? I future sui tassi d’interesse I future sui tassi d’interesse sono contratti uniformi a termine che costituiscono un efficiente strumento per la copertura delle posizioni in titoli (hedging) o per trarre vantaggio dalla volatilità dei tassi operando attraverso una forte leva finanziaria e a basso costo (speculazione). Attraverso l’acquisto o la vendita del future si può fissare il prezzo per il ritiro o la consegna alla scadenza prefissata di un determinato quantitativo di titoli. Per farlo è necessario versare un margine iniziale molto basso rispetto al controvalore complessivo dei titoli sottostanti per i quali si opererà più avanti nel tempo la compravendita, e per la quale non si vuole affrontare il rischio di oscillazione del prezzo sino a tale scadenza. Ma perché chi ha tali esigenze possa trovare un mercato efficiente e liquido è necessario che sui derivati siano presenti operatori con esigenze diverse, dalla speculazione in giornata su grandi volumi alla copertura di posizioni su titoli. Attraverso una operatività a termine su scadenza trimestrale (marzo, giugno, settembre e dicembre) si possono impostare operazioni rialziste o ribassiste. Rispetto al mercato dei titoli, dove si può vendere solo ciò che si possiede, sui future si può prima vendere e poi ricomprare a prezzi più bassi per guadagnare anche sulle tendenze al ribasso, approfittando del fatto che non vi è alcuna consegna di titoli se non alla scadenza del trimestre. Chi ha i titoli (quelli consegnabili a scadenza a

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Indici e derivati È importante familiarizzare con quelle informazioni che Il Sole 24 ORE dà giornalmente e che rappresentano degli indicatori sintetici dell’andamento del mercato. Imparando a osservare alcuni dati che appaiono nelle diverse tabelle sarà forse più facile orientarsi nella scelta degli investimenti a reddito fisso ed evitare pericolosi errori.

La curva dei rendimenti per l’Italia rappresenta le combinazioni di rendimento e scadenza temporale degli investimenti. La conformazione della curva dà evidenza di quelle che sono le aspettative del mercato circa la futura evoluzione dei tassi di interesse. Ampio spazio è dedicato al tema dei benchmark, gli indici di riferimento con i quali si misurano fondi di investimento e gestioni patrimoniali.

Viene indicata la differenza di rendimento a scadenza, attuale e di un mese prima, offerta sulle diverse scadenze di investimento tra i titoli principali e più liquidi dell’area euro rispetto agli omologhi di Stati Uniti, Giappone e Regno Unito.

Sono rappresentati per i vari Paesi i valori indice dei benchmark calcolati da JP Morgan ed espressi in dollari, con la loro variazione percentuale nei diversi periodi di osservazione, e nell’ultima colonna il differenziale attuale di extrarendimento rispetto ai Treasury americani espressi in punti base (200 punti base equivalgono a un maggior rendimento del 2% assoluto).

Mostra i tassi impliciti nei future su eurodivise. Diventa così abbastanza agevole vedere quelle che sono le attese degli operatori sui tassi a breve di Stati Uniti, Gran Bretagna e area euro. Il prezzo dei future sulle eurodivise mostra, una volta sottratto al valore di 100, il tasso che il mercato prevede per la scadenza del relativo future: si ha così un indice sintetico molto efficace in relazione all’andamento futuro dei tassi a breve.

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fronte della vendita del future) può vendere il future per trasformare un investimento a lungo termine in una operazione a breve termine (copertura) consegnando alla scadenza i titoli avendone già fissato il prezzo nella operazione sul future. Un mercato speculativo La speculazione è attratta dai derivati proprio perché possono consentire grossi guadagni, con esborsi molto ridotti se confrontati a quelli relativi all’acquisto dei titoli sottostanti. Supponiamo per esempio che sul mercato dell’Eurex – partnership nata nel 1996 tra la Borsa a termine tedesca e quella svizzera – si possa acquistare o vendere un future sul Bund decennale pagando un margine iniziale dell’1,4%. Ciò significa che è sufficiente una spesa di 1.400 euro per un contratto che rappresenta 100.000 euro nominali di Bund. A fronte di un acquisto del future si può chiudere l’operazione prima del termine trimestrale con una vendita, lucrando o pagando la differenza nel prezzo, oppure si può giungere a scadenza. In tal caso viene consegnato al compratore uno dei titoli con vita residua tra 8 e 10 anni ricompresi nel paniere di riferimento, e tenuto conto del fattore di rettifica, contro pagamento del controvalore del titolo stesso. Ma questa è una operazione che fanno solo le grosse istituzioni e non certo i privati, i quali chiudono le operazioni molto rapidamente. Spendere 1.400 euro e “giocare” per 100.000 comporta rischi notevoli a fronte di oscillazioni marcate e che possono essere di segno contrario all’operazione impostata. Un mercato prevalentemente speculativo come quello dei future potrebbe essere fortemente instabile e ad alto rischio di insolvenza se non vi fosse un sistema di liquidazione efficiente e rapido come quello assicurato dalla Cassa di compensazione e garanzia. A fronte di una quotazione del future in percentuale, a ogni variazione di 0,01

Ogni sabato, “Plus24” ospita “L’Angolo del Bund” con analisi sul titolo di Stato tedesco, punto di riferimento per le obbligazioni pubbliche europee.

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nel prezzo (tick) corrisponde un pagamento o un esborso teorico di 10 euro (calcolato su 100.000 euro nominali del BTP sottostante). Se il future da 108 euro passa a 107,5 si avrà una differenza di 10 euro per 50 tick, ovvero di 500 euro. Pertanto un’operazione rialzista chiusa con mezzo euro di utile sul prezzo porta a un guadagno di 500 euro su 1.400 euro investiti ovvero del 35%! Parimenti si rischia di subire perdite ingenti, e in tempi ridotti, se si imposta una operazione nella direzione sbagliata. Alla sera la Cassa di compensazione fissa un prezzo di chiusura al quale vengono liquidate tutte le operazioni ancora aperte, proprio sulla base di tale prezzo. E quindi giornalmente dalla Cassa di compensazione stessa vengono pagati i margini, se si è in utile, o richieste le differenze, se si sta subendo una perdita sul prezzo. Per le posizioni aperte, in assenza di ulteriori movimenti, ogni giorno si effettua la liquidazione sulla base delle variazioni tra l’ultima chiusura e quella del giorno precedente e così sino a chiusura dell’operazione, a fronte della quale vi è anche la restituzione del margine iniziale dei 1.400 euro per contratto. La liquidazione giornaliera di perdite e guadagni ancora virtuali, sino a quando non si chiudono le posizioni aperte con operazioni di segno opposto, garantisce la solvibilità degli operatori pur in presenza delle grandi oscillazioni dei prezzi tipiche dei mercati future. L’Eurex L’avvento dell’euro ha anche tolto significato ai mercati locali dei derivati su tassi. I titoli di riferimento dei tassi europei a medio e lungo termine sono divenuti quelli sui titoli tedeschi, massima espressione dei tassi europei. In tale situazione gli operatori italiani, dai tesorieri delle banche ai gestori dei fondi d’investimento, effettuano operazioni di copertura sui BTP utilizzando quasi esclusivamente i future sui titoli governativi tedeschi, trattati all’Eurex, che garantiscono un livello molto elevato di liquidità. Allo stesso tempo sono stati progressivamente abbandonati i contratti future sul BTP trattati sul mercato italiano del MIF e su quello londinese del LIFFE. Pertanto i titoli di riferimento europei nel segmento dei tassi a medio-lungo termine – i cui future sono trattati sempre all’Eurex – sono divenuti l’euro Schatz a 2 anni, l’euro Bobl a 5 anni e l’euro Bund a 10 anni. Questi strumenti consentono agli operatori di cambiare rapidamente l’impostazione del portafoglio sulla base di operazioni effettuate seguendo precisi calcoli matematici: ciò è peraltro possibile nel corso dell’ampio periodo di trattazione giornaliera che parte dalle 8 del mattino e prosegue sino alle 19, dando così l’opportunità di impostare operazioni anche in coincidenza con le trattazioni effettuate sino alla tarda mattinata sui mercati americani.

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Il mercato azionario di Antonella Olivieri

Gente che si sbraccia e urla a squarciagola intorno a un angusto recinto. Un interminabile guazzabuglio di foglietti di carta, un mosaico di numeri che scivolano via su un grande tabellone elettronico. È questa l’immagine della Borsa che per anni è rimbalzata nelle case degli italiani attraverso la televisione. Sembrava una gabbia di matti dalla quale era sicuramente meglio stare alla larga, un labirinto di regole e meccanismi astrusi e complicati, dove gli unici segreti per fare buoni affari erano la fortuna e il passaparola tra gli addetti ai lavori. È singolare come un ingranaggio così importante per il motore dell’economia potesse dare un’impressione così caotica. Eppure la Borsa non è certo un’invenzione del tanto vituperato capitalismo moderno. E si fonda su una legge antica quanto l’uomo. Quella della domanda e dell’offerta: se tutti vogliono comprare una casa in Sardegna, il mercato immobiliare dell’isola impazzisce e i prezzi vanno alle stelle; viceversa, se tutti vogliono vendere, le quotazioni della Sardegna colano a picco. Vecchia quanto l’uomo è anche l’abitudine dei mercanti di darsi appuntamento tutti in uno stesso posto, per commerciare. Dai greci ai fenici, dai cartaginesi ai romani, tutti i popoli antichi avevano un luogo deputato alla conclusione degli affari. Senza uscire dall’Italia, le meravigliose rovine del Foro romano, a due passi dal Colosseo e dal Campidoglio, sono lì a testimoniarlo. La Borsa è proprio questo: un luogo dove si concludono affari. Ma il pittoresco parterre oggi quasi ovunque nel mondo è stato sostituito da un luogo d’incontro virtuale: una rete di computer che collega gli operatori, ciascuno seduto dietro la propria scrivania, a Milano come a Napoli.

Ogni giorno, sul sito e nell’inserto “Finanza & Mercati”, Il Sole 24 ORE offre una panoramica dell’andamento dei mercati borsistici.

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La Borsa di oggi La Borsa valori si chiama così perché vi si scambiano titoli che rientrano nella categoria degli strumenti finanziari: azioni, obbligazioni, titoli di Stato, prodotti derivati. Tecnicamente, la Borsa è sorta in Italia come un mercato organizzato, regolamentato e pubblico: ciò significa che le regole del gioco sono state fissate dalla legge e dagli organi a cui spetta il compito di controllare che tutto funzioni a dovere, cioè la Consob, la Banca d’Italia e la Borsa Italiana. Dal 1998, con la privatizzazione, la gestione del mercato azionario spetta a Borsa Italiana. Intermediari e scambi Il risparmiatore che vuole comprare o vendere titoli deve rivolgersi a un intermediario, il quale si impegna a eseguire in Borsa l’ordine ricevuto dal cliente (salvo diverse disposizioni ricevute dal cliente stesso). In questo modo, i rischi di truffe e imbrogli sono ridotti al minimo, perché le autorità di vigilanza tengono sotto stretta osservazione gli intermediari. Con il recepimento della direttiva comunitaria sui servizi d’investimento (Mifid), in vigore da fine 2007, l’accesso a un mercato regolamentato è stato del tutto liberalizzato. In nome di una maggiore concorrenza con le tradizionali categorie di intermediari, la società di gestione può ammettere tra i suoi membri (a propria discrezione) qualunque soggetto che soddisfi requisiti di onorabilità e professionalità, disponga di un livello sufficiente di capacità di negoziazione, abbia adeguati requisiti organizzativi e risorse sufficienti per il ruolo che deve svolgere. Ma il cambiamento più rivoluzionario è la fine del “monopolio” delle Borse. La normativa UE abolisce infatti l’obbligo di concentrazione degli scambi in Borsa per i titoli quotati. Fino al novembre 2007 il mercato ufficiale in Italia era l’unico punto di riferimento per le contrattazioni degli investitori, con la deroga degli scambi a blocchi per partite di dimensioni rilevanti, in modo da evitare interferenze sulla genuina formazione del prezzo in Borsa. Ora, invece, lo stesso titolo quotato in una Borsa dell’Unione europea può essere negoziato indifferentemente in un altro mercato azionario “ufficiale”, in un cosiddetto sistema multilaterale di negoziazione (i mercati privati promossi perlopiù dalle banche e che nel gergo della Mifid si chiamano MTF, multilateral trading facilities), oppure può essere “internalizzato”. Termine, quest’ultimo, che sta a indicare che l’intermediario (una banca) a cui si rivolge un investitore ha la possibilità di eseguire l’ordine ponendosi come controparte diretta, cioè comprando o vendendo il titolo ricorrendo al proprio portafoglio. Tutto ciò a patto di rispettare determinati requisiti di trasparenza.

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UN PONTE TRA IMPRESA E RISPARMIATORE La Borsa è una sorta di ponte di collegamento tra chi ha capitali da investire e chi invece ha bisogno di denaro per sviluppare la propria attività produttiva. Da un lato ci sono dunque le famiglie; dall’altro, le imprese. Ma la Borsa è anche un mercato, dove si scambiano titoli tra chi vuole monetizzare il proprio investimento e chi invece ha risparmi da investire in quei titoli. Per le imprese, il vantaggio di quotare i propri titoli in Borsa è quello di crearsi una fonte di finanziamento alternativa al prestito bancario, alla quale ricorrere in caso di necessità. Per il risparmiatore, invece, il vantaggio è la possibilità di investire in titoli per far fruttare i propri risparmi, sapendo che in qualunque momento li potrà rivendere perché sono quotati in Borsa, cioè su un mercato al quale si rivolgono tutti coloro che vogliono comprare o vendere titoli. Comprare un’azione significa diventare un imprenditore, anche se su piccola scala, con tutti i rischi che questo comporta. Un’azione, infatti, è un pezzo di carta che rappresenta un diritto di proprietà su una piccola porzione di un’azienda. Per l’azionista di una società il guadagno non è affatto garantito: se la società genera utili, tutto bene, altrimenti sono dolori. In teoria sembra facile investire in Borsa, ma come si fa a scegliere l’azione giusta? Esattamente come si compra la frutta al mercato; la si “tasta”. “Tastare” un’azione significa cercare di capire qual è lo stato di salute di un’azienda, quanti debiti ha (meno sono, meglio è), qual è il patrimonio su cui può contare, come sono accolti dai consumatori i suoi prodotti, quali sono le sue prospettive. Se si vuole approfondire l’analisi, ci si può fare aiutare da un esperto. L’importante è non scegliere a occhi chiusi.

Difficile investire in Borsa se non si hanno i nervi saldi. Soprattutto nei periodi di crisi, le oscillazioni dei prezzi sono simili ai saliscendi delle montagne russe.

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■ Un esempio Mario, Andrea, Gaspare e Riccardo versano 25 euro a testa per costituire una nuova società, la “Anonima SPA”. La società è naturalmente un’entità separata rispetto ai quattro soci che l’hanno costituita, e ha una specie di impegno nei confronti dei suoi soci, che le hanno versato in cassa 25 euro ciascuno. Per riconoscere questo impegno, la Anonima SPA emette 100 azioni, ciascuna del valore nominale di 1 euro, e ne dà 25 a ognuno dei quattro soci. Ciascuno dei quattro soci si trova con 25 azioni, che rappresentano la proprietà del 25% della Anonima SPA. Con il capitale di 100 euro ricevuto dai suoi azionisti, la Anonima SPA inizia a produrre e vendere caramelle. La decisione di entrare nel settore delle caramelle è stata presa dagli azionisti della società, che essendone proprietari scelgono liberamente che cosa la Anonima SPA deve fare. Dopo un anno, la Anonima SPA riesce a conseguire un utile di 20 euro dalla vendita di caramelle, e lo distribuisce ai suoi soci nella misura di 0,2 euro per ciascuna azione. Mario, che possiede 25 azioni, riceverà dunque 5 euro, mentre la stessa somma andrà anche ad Andrea, Gaspare e Riccardo. L’anno successivo gli affari vanno male, e la Anonima SPA perde ben 60 euro. La società è a corto di quattrini e chiede ai suoi quattro azionisti di ripianare le perdite, versando 15 euro ciascuno. La perdita della società, dunque, viene sopportata dai quattro soci. La Anonima SPA è una piccola azienda, ma anche le più grandi come Fiat o Montedison funzionano così. L’esempio sulla Anonima è dunque sufficiente per capire un concetto chiave: il valore di un’azione dipende dalla quantità di utili che la società è in grado di generare. Supponiamo che Andrea voglia vendere le sue 25 azioni, che ha pagato 1 euro l’una. Quale prezzo riuscirà a spuntare? Dipende. Se ci si aspetta che nei prossimi anni l’Anonima SPA faccia molti utili, Andrea potrebbe riuscire a vendere le sue azioni anche a 2 euro l’una; viceversa, se è probabile che la Anonima SPA perda altri soldi, quasi certamente nessuno sarebbe disposto a pagare le azioni di Andrea 1 euro ciascuna (cioè, quanto lui le ha pagate), ma gli offrirebbe molto meno.

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Il nuovo sistema ha determinato una riduzione progressiva (in percentuale più che in cifra assoluta) degli scambi che si effettuano in Borsa. La loro quota sul totale delle transazioni è passata dal 64% del gennaio 2008 al 45% del febbraio 2011 (in Italia si colloca ancora intorno all’80%). Il sistema delle grida Ma come si svolge l’attività in Borsa? In Italia, una volta, le contrattazioni e gli scambi di titoli avvenivano con le stesse modalità in tutte le dieci Borse italiane: Milano (di gran lunga la più importante), Roma, Trieste, Venezia, Napoli, Torino, Genova, Firenze, Bologna e Palermo. A Milano, gli agenti di cambio e i loro procuratori (cioè le sole categorie di soggetti autorizzati a operare direttamente in Borsa prima dell’introduzione della legge sulle SIM del gennaio 1991) si trovavano ogni mattina in Piazza degli Affari, dove ha sede la Borsa. In un grande salone di Palazzo Mezzanotte, le contrattazioni si svolgevano con il sistema dell’asta a chiamata, intorno a recinti detti grida o corbeille. Non essendo possibile controllare il prezzo effettivo al quale venivano conclusi gli affari, i piccoli investitori avevano spesso la sgradevole sensazione che qualcuno facesse “la cresta” sulle loro compravendite.

SAPETE PERCHÉ... ... quando la Borsa sale si dice che il mercato è Toro e quando scende si dice invece che il mercato è Orso? Perché il toro è un animale che attacca dal basso verso l’alto (quindi in direzione del rialzo), mentre l’orso attacca dall’alto verso il basso (quindi in direzione del ribasso). Le azioni delle società più importanti e a maggiore capitalizzazione si chiamano blue chip perché nei casinò le fiches di colore blu sono quelle di maggior valore. Sui tavoli del casinò si consumano vorticosi passaggi di mano di fiches, in Borsa passano di mano le azioni. Ma sempre di passaggi di mano si tratta. Il viola porta sfortuna in Borsa perché il viola è il colore della Quaresima e, nei secoli scorsi, durante la Quaresima i teatranti non potevano tenere i loro spettacoli e dunque facevano letteralmente la fame. Così, il viola è diventato sinonimo di sfortuna nel mondo dello spettacolo. Lo è diventato anche in Borsa perché l’idea di fare la fame è, per chi opera sul mercato azionario, sinonimo di clamorosi rovesci finanziari. Una delle strade più note della finanza londinese è Lombard Street, che si chiama così perché pare che la famiglia italiana Lombardo avesse intrapreso lì la propria attività bancaria.

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Dalle grida al circuito telematico In Piazza Affari il sistema delle grida, considerato poco trasparente, è stato mandato in pensione da tempo, così come in pensione è finito il parterre della Borsa, per lasciare spazio ai computer: oggi gli intermediari non si recano più in Borsa ogni mattina, ma comprano e vendono titoli usando il computer e stando comodamente seduti nei loro uffici. Dal 14 aprile 1994 le azioni italiane quotate in Borsa vengono scambiate su un circuito telematico nazionale, una rete di terminali che collega tra loro tutti gli intermediari. Gli scambi effettuati su Borsa Italiana sono anonimi: gli stessi intermediari non conoscono cioè la controparte con cui negoziano, ma sono garantiti dalla presenza della controparte centrale (la Cassa di compensazione e garanzia) che assicura il buon fine dell’operazione. La Monte Titoli L’evoluzione delle tecnologie ha permesso di “dematerializzare i titoli”: le azioni non esistono più fisicamente come certificati cartacei. Per comprare e vendere azioni è sufficiente che vengano registrati nei computer gli affari conclusi. È questa la funzione che viene svolta dalla Monte Titoli. Quando un titolo viene comprato o venduto, la Monte Titoli registra che (per esempio) il signor Rossi ha venduto alla signora Brambilla, attraverso gli intermediari autorizzati a operare in Borsa, mille azioni della società X. Il trading on line Dai computer ai pc di casa il passo è stato breve. Oggi in Borsa si può andare anche in pantofole, grazie a internet. Comprare e vendere azioni direttamente

I VANTAGGI DEL COMPUTER Rispetto al vecchio sistema dell’asta a chiamata, il computer offre numerosi vantaggi. Il più importante per i risparmiatori è la trasparenza: il computer registra tutto, dall’ora in cui è avvenuta la transazione al prezzo al quale sono stati scambiati i titoli. In questo modo è più facile controllare che tutto vada per il verso giusto, e il risparmiatore ha molte più garanzie. Oltre all’introduzione della telematica, altri elementi hanno contribuito negli ultimi anni ad aumentare la trasparenza in Borsa. Uno di questi è il nuovo regime di liquidazione per contanti, prima introdotto sperimentalmente, poi esteso all’intero listino di Borsa. Oggi tutti i titoli quotati in Borsa vengono scambiati attraverso il circuito telematico, uno dei più avanzati sistemi di contrattazione d’Europa.

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SCAMBI IN CONCORRENZA CON LA MIFID ■ La “politica” per l’esecuzione degli ordini Con la nuova direttiva europea gli intermediari dovranno dichiarare in anticipo la propria politica (policy) per l’esecuzione degli ordini, così da ottenere il miglior risultato possibile (best execution) per i propri clienti. Per esempio, la banca Pallino&Pinco potrebbe comunicare la sua intenzione di eseguire le compravendite sulle azioni italiane sulla Borsa di Milano con l’eccezione dei titoli Geox e Fondiaria-Sai sui quali agirà da internalizzatore. Le compravendite su azioni europee avverranno nei rispettivi mercati, mentre per il Giappone la banca utilizzerà per le sue esigenze il portafoglio di Morgan Stanley. La policy di negoziazione dovrà essere periodicamente verificata, almeno una volta all’anno, per valutarne la tenuta in relazione alle esigenze di best execution. ■ Gli internalizzatori e le quotazioni “irrevocabili” Per svolgere il ruolo di internalizzatori sistematici gli intermediari bancari dovranno dimostrare di negoziare in conto proprio (cioè senza passare per un mercato regolamentato o un MTF) determinati titoli azionari «in modo organizzato, frequente e sistematico». La Mifid gli impone di pubblicare “quotazioni irrevocabili” sui titoli i cui scambi intendono internalizzare. Ma attenzione. La regola vale soltanto sui titoli più liquidi del mercato. Nel luglio del 2011 all’ESMA (authority europea dei mercati) risultavano 798 azioni europee liquide (su un totale di 6.027) di cui 76 trattate a Milano. E in ogni caso l’impegno assunto con le quotazioni irrevocabili vale soltanto fino controvalori pari alla dimensione media degli scambi (standard market size), che il regolamentatore europeo ha segmentato in classi tra 7.500 a oltre 80.000 euro. Inoltre, fra il controvalore di uno scambio medio per il cliente al dettaglio — è stato individuato in un ammontare di 7.500 euro — e la standard market size, l’intermediario può praticare prezzi migliori rispetto a quelli “irrevocabili” esposti nel suo schermo. Ma soltanto se la controparte è un cliente professionale e non retail. ■ Informativa pre-trading e post-trading In uno scenario di maggiore concorrenza, i rischi di frammentazione della liquidità e, pertanto, di un inceppamento del processo di formazione dei prezzi potranno essere mitigati, se non annullati, da un efficiente consolidamento delle informazioni prima e dopo le negoziazioni. Se cioè saranno disponibili su qualche terminale i prezzi su un singolo titolo esposti da tutte le piattaforme che trattano quella azione (mercati regolamentati, MTF o internalizzatori), allora la domanda si indirizzerà verso chi espone l’offerta migliore. Ma non è affatto detto che ciò accada. La direttiva impone la pubblicazione di un set di informazioni pre-trade (le quotazioni) e post-trade (prezzi e quantità di scambi effettuati) ma non impone un obbligo di consolidamento presso, per esempio, un’autorità pubblica. Dopo una lunga discussione è stato deciso di affidare il compito alle spontanee forze del mercato (quali agenzie di stampa come Reuters o Bloomberg), sperando che lo eseguano al meglio e a costi accettabili.

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dalla poltrona di casa, collegandosi on line, è diventata un’abitudine sempre più diffusa anche in Italia. Ma come si fa a investire in Borsa in tempo reale? Se si ha un conto corrente presso una banca che offre il trading on line, basta aderire al servizio via telefono o recandosi personalmente allo sportello. Alcuni operatori consentono di fare richiesta direttamente via internet, compilando l’apposita scheda richiamabile dal sito dell’intermediario. In ogni caso, la prima cosa da fare è inviare un bonifico a favore dell’operatore prescelto per essere abilitati a comprare e vendere titoli in proporzione alla somma stanziata. Quindi, normalmente, il cliente riceve a casa il contratto per l’adesione al servizio che, firmato, andrà restituito alla propria banca. A quel punto, ricevuti i codici e le password per accedere al servizio, basta collegarsi con il pc per accedere alla maschera di compravendita titoli. Generalmente le banche offrono commissioni di negoziazione inferiori a chi utilizza questo canale, piuttosto che quelli tradizionali, per investire in Borsa.

Il mercato telematico azionario Quando si parla di circuito telematico, si intende la rete di computer su cui si scambiano le azioni delle società quotate sul listino ufficiale di Borsa. Si tratta del mercato principale di Piazza Affari, dove il tipo di negoziazione che si svolge è detto “in continua”. Ciò significa che, per tutte le ore in cui la Borsa è aperta, in qualunque momento la domanda e l’offerta di azioni si possono incrociare per concludere compravendite. Gli intermediari inseriscono nei loro computer le “proposte di negoziazione”, cioè manifestano la loro disponibilità a comprare (o vendere) un determinato quantitativo di azioni a un certo prezzo. Sugli schermi degli addetti ai lavori compare la lista delle proposte di negoziazione che sono state immesse nei computer da tutti gli intermediari. Una lista dove le proposte sono rigidamente messe in ordine di prezzo e di tempo (a parità di prezzo, chi ha inserito per primo la proposta concluderà per primo la transazione). Poiché tutti gli intermePer aiutare i lettori, le pagine tabellari diari possono vedere le proposte degli del Sole 24 ORE altri, quando sono interessati ad adededicate ai mercati rire a una proposta intervengono sul azionari riportano computer per concludere la comprauna legenda e anticipano quanto vendita. In alternativa, se è il cervelloverrà approfondito ne centrale della Borsa ad accorgersi su “Plus24” il sabato che nei computer sono state immesse successivo.

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In prima pagina Commento sull’andamento dell’ultima giornata dei mercati azionari.

Andamento dei principali indici internazionali, nonché andamenti di dollaro, brent e oro.

Ultimi valori e corrispondenti variazioni percentuali dei principali indici di Borsa italiana.

Andamento dell’indice FTSE Italia All Share; il primo dato riportato nel grafico è la chiusura del giorno precedente; segue l’andamento dell’indice nell’ultima giornata di Borsa aperta sulla base di rilevazioni effettuate ogni mezz’ora.

Ultimo prezzo di riferimento e variazione percentuale rispetto al giorno precedente dei titoli dell’indice FTSE-MIB.

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Prezzi di chiusura del contratto future Fib su indice FTSE-MIB e variazione percentuale rispetto al giorno precedente. È riportato il prezzo del contratto più trattato, quello con scadenza più vicina.

Indici delle Borse europee e variazione percentuale rispetto al giorno precedente.

Indici delle principali Borse mondiali e variazione percentuale rispetto al giorno precedente.

Quotazione del Bund (obbligazione di Stato tedesca) a 10 anni trattato all’Eurex, e variazione percentuale rispetto al giorno precedente. La scadenza più scambiata è quella più vicina.

Cambi dell’euro rispetto alle principali valute; variazione assoluta (in punti) rispetto al giorno precedente.

Andamento dei prezzi delle principali materie prime sul mercato di Londra.

Indice del Sole 24 ORE sull’andamento del cambio dell’euro rispetto a 22 valute. Se l’indice sale l’euro si deprezza, viceversa si rivaluta se l’indice scende.

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due proposte che possono essere combinate tra loro (per esempio, una di acquisto e una di vendita sulla Fiat), fa in modo che si concluda lo scambio. Le fasi del mercato La giornata di Borsa sul circuito telematico è scandita da una serie di fasi.

Apertura Dalle 8 alle 9 del mattino il sistema incrocia le proposte di negoziazione immesse allo scopo di fissare, per ciascun titolo, il prezzo di inizio giornata, appunto il “prezzo di apertura” determinato alla cosiddetta asta di apertura. Il sistema svolge automaticamente questa funzione e conclude i contratti. Negoziazione in continua Le eventuali proposte ineseguite in tutto o in parte vengono trasferite nella fase successiva, quella della negoziazione in continua (dalle 9 alle 17.25), in cui gli intermediari inseriscono senza sosta proposte di negoziazione nel sistema e concludono gli scambi. Nel corso della giornata il prezzo di ciascun titolo varia in continuazione in funzione della domanda e dell’offerta. Chiusura Alla fine della giornata, dopo le 17.30, il sistema procede alla chiusura in una fase d’asta speculare a quella di apertura in cui si incrociano le ultime proposte di negoziazione compatibili e calcola il relativo prezzo (prezzo dell’asta di chiusura). Alla fine della seduta il sistema calcola anche il prezzo ufficiale della giornata. I limiti di oscillazione dei prezzi Per evitare strappi troppo bruschi (e magari ingiustificati) nelle quotazioni, la Borsa monitora il mercato utilizzando un “prezzo di controllo”: rispetto a questo parametro, i prezzi “validi” non devono scostarsi più del 7,5% (in rialzo o in ribasso) per le blue chip dell’indice FTSE-MIB o del 10% per tutte le altre azioni nel corso della seduta ufficiale e non più del 3,5% (verso l’alto o verso il basso) nel corso della seduta serale chiamata Afterhours. Fino all’asta di apertura il prezzo di controllo è uguale al prezzo di chiusura del giorno precedente. Successivamente, nella fase di negoziazione in continua e in quella di chiusura, il prezzo di controllo diventa il prezzo di apertura della giornata. Se il prezzo di un titolo non sta nei limiti imposti, scatta la sospensione automatica dalle contrattazioni: questo accade appunto quando un titolo è in fortissimo rialzo o al contrario è in caduta. La sospensione, un evento relativa-

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mente eccezionale, accende i riflettori sul titolo: spesso c’è una notizia a riguardo della società emittente che giustifica l’andamento “anomalo” del titolo. L’Afterhours Dalle 18 alle 20,30 si svolge la sessione serale dell’Afterhours, in orari “comodi” per gli appassionati del trading on line, al rientro a casa dalla giornata lavorativa. Non tutti i valori negoziati in Borsa si trovano però automaticamente nel listino serale. I titoli scambiabili sono infatti quelli più diffusi: le blue chip dell’indice principale, le mid-cap e i titoli del segmento Star se assistiti da un operatore specialista che garantisca la liquidità sufficiente. Anche covered warrant e certificates (securitised derivatives) possono essere trattati nell’Afterhours con la presenza di uno specialista. La sessione serale è a sé stante, ovvero non rappresenta la continuazione della seduta ufficiale. Ciò significa, per esempio, che gli ordini eventualmente non eseguiti di giorno non passano automaticamente alla fase serale: se si vuole comprare o vendere nell’Afterhours, occorre reinserirli nel sistema. Nella sessione serale gli indici della Borsa vengono aggiornati solo a scopo informativo. Le contrattazioni si svolgono in continua come di giorno, ma nell’Afterhours non sono consentite per le azioni oscillazioni di prezzo superiori al 3,5%. Essendo di norma presenti solamente gli investitori individuali, i prezzi “serali” tendono comunque a confermare le quotazioni della seduta ufficiale.

Il sabato ampio spazio viene dedicato alla settimana finanziaria appena conclusasi.

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Quale prezzo Il prezzo ufficiale è una media ponderata di tutti i prezzi ai quali sono state scambiate le azioni nel corso della giornata. Per esempio, se in un giorno si sono scambiate 2.000 azioni della società A, mille delle quali a 3,2 euro e mille a 3,3 euro, il prezzo ufficiale delle società A per quel giorno è pari a 3,25 euro. Come si vede, dunque, il prezzo ufficiale è una semplice indicazione che serve per vedere qual è stato il prezzo medio di ciascun titolo durante un determinato giorno. Una maggiore indicazione segnaletica sulla possibile riapertura del mercato nel giorno successivo è fornita dal prezzo di riferimento che, nel principale segmento di Borsa (MTA), è pari al prezzo d’asta di chiusura. Qualora non sia possibile determinarlo, il prezzo di riferimento è posto pari alla media ponderata dei contratti conclusi in un determinato intervallo temporale (10 minuti) della fase di negoziazione continua. La liquidazione Con la liquidazione per contanti (quella attualmente in vigore per tutte le azioni quotate in Borsa), le operazioni negoziate in una certa giornata di Borsa vengono “liquidate” (cioè regolate, con il pagamento del corrispettivo dovuto) dopo un numero di giorni lavorativi fisso e prestabilito. Nel caso del mercato italiano, questo numero di giorni è attualmente pari a tre. Per esempio, un’operazione di acquisto conclusa in Borsa venerdì 1° luglio viene liquidata il merco-

LA LIQUIDAZIONE PER CONTANTI: UN ESEMPIO Supponiamo che il signor Bianchi decida di comprare e vendere le 500 azioni Generali in regime di liquidazione per contanti a tre giorni. In particolare, Bianchi eseguirà queste operazioni con la SIM A: • 5 giugno: acquisto di 500 azioni Generali a 13 euro per azione; • 13 giugno: vendita di 500 azioni Generali a 12,50 euro per azione. Poiché le Generali sono oggi negoziate per contanti, l’operazione di acquisto e quella di vendita non verranno più liquidate nello stesso giorno, ma verranno regolate in due distinte giornate di liquidazione. L’acquisto (effettuato lunedì 5 giugno) sarà liquidato giovedì 8 giugno, mentre la vendita (effettuata martedì 13 giugno) sarà liquidata il venerdì successivo, 16 giugno. Al momento dell’acquisto, il signor Bianchi deve dunque pagare subito, nel senso che, a tre giorni dall’esecuzione dell’operazione, la compravendita viene perfezionata con il trasferimento del denaro al venditore.

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ledì successivo. Il buon esito delle negoziazioni è comunque garantito dalla Cassa di compensazione e garanzia, controllata dalla stessa Borsa italiana. Poiché ogni acquisto va pagato pronta cassa e ogni vendita va onorata con la consegna dei titoli, speculare sulla liquidazione è meno facile di un tempo. Questo non vuol dire, però, che speculare sia impossibile. Semplicemente, bisogna affinare le tecniche e affrontare il problema del finanziamento delle operazioni. In sostanza, per rispettare gli impegni in sede di liquidazione, chi venderà azioni senza possederle dovrà farsele prestare, mentre chi acquisterà azioni senza possedere i capitali necessari dovrà farsi finanziare l’operazione.

Le sezioni della Borsa All’interno della Borsa esistono suddivisioni del listino utili a identificare società con determinate caratteristiche o mercati dedicati a particolari categorie di azioni. Star Sopra i 40 milioni ma sotto il miliardo di euro di capitalizzazione le società quotate possono accedere al segmento Star, se rispettano determinati requisiti. La nascita di questo segmento risale alla primavera del 2001, un’iniziativa (di successo) volta a valorizzare, aumentandone visibilità e liquidità, le piccole e medie imprese di qualità, in passato spesso trascurate dagli investitori a favore delle blue chip sulle quali tradizionalmente si concentrano (non solo in Italia) fino a 2/3 degli scambi. Per essere Star, il flottante sul mercato deve essere pari ad almeno il 35% nel caso delle matricole o ad almeno il 20% nel caso di società già quotate da oltre un anno. Le società Star devono inoltre rispondere a criteri di trasparenza informativa (per esempio, pubblicare regolarmente le relazioni contabili trimestrali) e a requisiti di corporate governance (per esempio, avere un numero adeguato di amministratori indipendenti). Infine, devono nominare un operatore specialista per assicurare liquidità al titolo. AIM Italia L’AIM Italia, nato sulla falsariga dell’AIM londinese, è dedicato specificamente alle piccole e medie imprese. AIM Italia è classificato come MTF (multilateral trading facility): cioè è un mercato non regolamentato che, per venire incontro alle esigenze delle PMI, offre una semplificazione delle procedure di ammissione e di mantenimento in quotazione. Sul fronte opposto, c’è un livello inferiore di protezione degli investitori perché alcune regole in vigore per i titoli scam-

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LE TRE FASI DI UN’OPERAZIONE ■ Il conferimento dell’ordine Il signor Bianchi si reca alla propria banca e conferisce l’ordine di acquistare mille azioni Fiat. L’ordine viene trasmesso all’intermediario abilitato a operare sul circuito telematico di Borsa. ■ L’esecuzione dell’ordine L’intermediario esegue l’ordine sul mercato, immettendo nel circuito di negoziazione una proposta di acquisto di mille azioni Fiat. A seconda delle istruzioni del signor Bianchi, la proposta di acquisto potrà valere soltanto per un determinato prezzo, oppure soltanto fino a un certo livello di prezzo (per esempio, 23 euro). Supponiamo che l’ordine d’acquisto venga effettivamente eseguito sul mercato e che dunque l’intermediario acquisti mille azioni Fiat per conto del signor Bianchi. A questo punto, in base alle regole del gioco della Borsa, il signor Bianchi acquisisce la piena disponibilità dei titoli (ciò significa che, se lo desidera, può rivenderli). Ma l’operazione è tutt’altro che conclusa: l’ordine del signor Bianchi è stato eseguito, ma a questo punto bisogna perfezionare il contratto. ■ La liquidazione È il momento in cui si realizza l’esecuzione del contratto, che consiste nello scambio di titoli contro denaro. Una volta che l’intermediario ha eseguito l’ordine sul circuito telematico, il signor Bianchi diventa possessore dei titoli e ne può disporre come crede. Con la liquidazione dei titoli, da un lato si compiono tutti quei passi formali che, oltre al possesso, ne attribuiscono al signor Bianchi anche la proprietà; dall’altro, chi ha venduto le mille azioni Fiat riceve quale contropartita il denaro pagato dal signor Bianchi per l’acquisto. Va tenuto presente che in materia di liquidazione dei contratti su titoli quotati in Borsa esistono regole standardizzate che valgono per l’intero mercato, cioè per tutte le operazioni e per tutti gli intermediari.

biati sui mercati regolamentati (per esempio quelle sull’OPA o per la repressione di insider trading e manipolazione) non trovano applicazione, se non volontaria, in un MTF. Accanto agli emittenti, figura chiave del mercato sono gli intermediari “specialisti”, ribattezzati Nomad (nominated adviser). A loro spetta il compito di valutare se la società è adeguata alla quotazione sull’AIM e di assisterla una volta entrata sul mercato. Le negoziazioni si svolgono in continua, come per il mercato principale.

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Il sabato “Plus24” presenta un “riassunto” della settimana borsistica.

Novità importante: i risparmiatori retail potranno investire sulle matricole di questo mercato solo una volta quotate sul secondario, dal momento che la fase di IPO – l’offerta iniziale di azioni – è riservata ai soli investitori istituzionali. MTA International Investire all’estero, restando in Italia, si può. Ci sono anche azioni dell’eurozona trattate sul listino di Borsa italiana battezzato MTA International. Vi si possono negoziare società già quotate in un’altra Borsa europea – il cosiddetto dual listing – utilizzando però il canale della Borsa italiana, con i suoi servizi e i suoi costi. L’unica differenza è la liquidazione: i tempi possono essere diversi dai 3 giorni della Borsa italiana, perché il regolamento delle azioni estere segue i tempi del mercato d’origine.

Imparare a dare gli ordini «Vorrei comprare mille azioni Fiat». Sembra la cosa più facile del mondo. Investire in Borsa non è però così semplice. A quale prezzo si vuole comprare? Se si è disposti a spendere qualunque cifra, nessun problema. Ma se il prezzo, com’è naturale che sia, è una questione non da poco, allora è meglio spiegare bene al proprio intermediario come si deve comportare. Nel gergo di Borsa esiste un linguaggio codificato per la trasmissione degli ordini, che consente al risparmiatore di evitare brutte sorprese. Sorprese possibili quando non si precisa il prezzo al quale un’operazione va effettuata, soprattutto quando i titoli sono poco liquidi, attraggono cioè pochi scambi. Ordine a prezzo limitato Il risparmiatore può fissare un limite di prezzo che deve essere rispettato dall’intermediario. L’ordine viene eseguito solo se il mercato esprime un prezzo

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Minimi e massimi segnati dai prezzi delle azioni nell’anno solare in corso, espressi in euro; dati corretti (fattori di rettifica AIAF) per tenere conto di eventuali operazioni sul capitale e dunque confrontabili con i prezzi attuali.

Prezzo ufficiale dell’ultima seduta e del giorno precedente. Il prezzo ufficiale è la media (ponderata per gli scambi) di tutti i titoli trattati nel corso della giornata. Quantitativo medio giornaliero del numero di azioni scambiate negli ultimi 30 giorni e prezzo medio dell’azione negli ultimi 30 giorni.

Listino di Borsa delle azioni, in ordine alfabetico. I simboli a fianco del nome delle azioni sono spiegati nella legenda pubblicata in calce alla pagina, al termine del listino.

Ultimo dividendo distribuito, al lordo di ogni ritenuta fiscale.

Prezzo di apertura delle contrattazioni, prezzo minimo e prezzo massimo della giornata.

Prezzo di riferimento dell’ultima seduta, pari al prezzo dell’asta di chiusura.

Variazione percentuale del prezzo di riferimento rispetto al giorno precedente e all’ultima seduta dell’anno precedente.

IL MERCATO AZIONARIO . 293

La Borsa italiana

Numero di contratti conclusi sul titolo durante la giornata; oggetto di contratto può essere un lotto minimo di titoli, oppure un multiplo del lotto minimo.

Controvalore in migliaia di euro degli scambi dell’ultima seduta sul titolo.

Numero complessivo di titoli scambiati durante la seduta in migliaia.

Capitalizzazione, cioè valore di mercato delle azioni della società, ottenuto moltiplicando l’ultimo prezzo ufficiale per il numero di azioni della società. Per ottenere la capitalizzazione complessiva di una società che ha più tipi di azioni (per esempio ordinarie, privilegiate e di risparmio, com’è il caso della Fiat), bisogna sommare il valore di mercato di tutte le categorie di azioni della società.

Indicatori di Borsa prezzo/utile, prezzo/cash flow e dividendo/prezzo, calcolati sugli ultimi prezzi di Borsa. Per maggiori informazioni si veda anche il capitolo 3 dedicato a fondamentali e bilanci.

Data in cui è stato messo in pagamento l’ultimo dividendo, a partire dalla quale l’azione è stata trattata “ex dividendo”; i dividendi vengono pagati dopo 4-6 mesi dalla chiusura dell’esercizio di bilancio.

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uguale a quello indicato dal risparmiatore o un prezzo più vantaggioso. Facciamo un esempio: il signor Rossi decide di vendere mille azioni Fiat a un prezzo di almeno 7 euro. L’ordine è impartito alle 11 del mattino, quando le Fiat valgono 6,86 euro. Quindi, l’intermediario deve aspettare per eseguire l’ordine. Non appena le Fiat raggiungono o superano 7 euro, l’intermediario effettua la vendita. Se durante la giornata la Fiat non arriva a 7 euro, la vendita non avviene. In genere, quando il risparmiatore passa un piccolo ordine a prezzo limitato, succede che l’intermediario inserisca la proposta di negoziazione nel circuito telematico al prezzo indicato dal cliente (nel caso delle Fiat, 7 euro). Se le azioni raggiungono questo prezzo prestabilito e qualcuno si fa avanti per comprarle, la transazione viene automaticamente conclusa dal computer. Ordine al meglio Il risparmiatore non fissa alcun limite di prezzo. L’ordine viene eseguito subito: il prezzo assegnato è il migliore che si può ottenere in quel momento. Nell’esempio precedente, l’intermediario avrebbe venduto le azioni Fiat a 6,86 euro. In genere, a meno che si tratti di blue chip, non conviene impartire ordini al meglio. Si rischia infatti di vedersi comprare o vendere le azioni a prezzi molto diversi da quelli sperati. Ordine curando Il cliente si affida all’esperienza del suo intermediario e gli dà l’autorizzazione a decidere quando eseguire l’ordine. L’intermediario potrà così scegliere di eseguire in tutto o in parte, o anche di non eseguire affatto. Se quindi il signor Rossi decidesse di acquistare mille azioni Generali e impartisse l’ordine “curando” alle 11, quando il prezzo delle azioni fosse, poniamo,

ESEGUI O... ■ Esecuzione o cancellazione dell’ordine Il risparmiatore vuole ottenere immediatamente l’esecuzione dell’ordine, totale o parziale. Ogni eventuale quantità dell’ordine non eseguita viene cancellata. Se l’intermediario al momento dell’ordine riesce a vendere solo 250 delle 500 Generali, il cliente si ritiene comunque soddisfatto. ■ Esecuzione di una quantità minima Il cliente desidera che venga soddisfatta almeno una certa quantità del proprio ordine, rinunciando altrimenti all’esecuzione. Se il limite posto è 500 azioni Generali, nel caso si verifichino le condizioni sopra esposte l’ordine non andrebbe a buon fine.

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ATTENZIONE AL PREZZO Supponiamo che il signor Verdi intenda acquistare 5.000 azioni Mirato, un titolo poco trattato in Borsa, che ipotizziamo valga 5,54 euro. Se il signor Verdi passa un ordine di acquisto di 5.000 Mirato senza specificare alcun limite di prezzo, può incappare in uno dei trabocchetti del circuito telematico di Piazza Affari. Da qualche parte, potrebbe esserci una proposta di vendita a un prezzo decisamente superiore a 5,50 euro, poniamo 6,45 euro. In condizioni normali, tale proposta non incontrerebbe alcuna contropartita, perché nessuno sarebbe disposto a pagare le azioni Mirato 6,45 euro l’una quando in Borsa ne valgono 5,50. Il computer è però una macchina stupida: esegue quel che gli si dice di fare. Così, l’ordine senza limite di prezzo del signor Verdi si incrocia automaticamente con la proposta di vendita a 6,45 euro. Risultato: il signor Verdi paga le azioni Mirato molto più di quanto avesse preventivato, perché non ha specificato alcun limite di prezzo. Se al contrario avesse detto al suo intermediario di comprare azioni Mirato a un prezzo massimo, per esempio, di 5,60 euro, le cose sarebbero andate in tutt’altro modo. Se ci fosse stato qualcuno disposto a vendere le azioni a quel prezzo, Verdi le avrebbe acquistate al prezzo desiderato. Altrimenti, avrebbe rimandato l’acquisto. Quando si vuole vendere o acquistare azioni, meglio indicare limiti di prezzo e di tempo entro i quali si conferisce all’intermediario l’incarico di concludere la transazione.

13 euro, il suo intermediario potrebbe decidere di aspettare, perché la sua esperienza e la valutazione del mercato lo spingono ad attendere un momento più favorevole. L’ordine, poi, può essere ulteriormente specificato, per esempio precisando l’ora entro la quale deve essere eseguito, pena la sua cancellazione.

Gli indici di Borsa Gli indici di Borsa servono per misurare ogni giorno l’andamento dei prezzi delle azioni. Sono strumenti più o meno sofisticati, che registrano il rialzo o il ribasso medio delle quotazioni in Piazza Affari. Sono un po’ come gli indici dell’inflazione: si guardano quali sono i prezzi dei vari prodotti in un certo giorno (dalla benzina alle sigarette, dai vestiti alle scarpe) e sulla base di questi prezzi si ottiene un numero, che rappresenta l’indice di quel giorno. Dopo un mese di distanza, si va di nuovo a controllare i prezzi degli stessi beni e si ricalcola l’indice. A questo punto si confronta il valore dell’indice di un mese prima e il valore dell’indice di oggi e si misura così quanto è stata l’inflazione nel periodo, cioè quanto (in percentuale) è cresciuto l’indice che misura l’andamento dei prezzi.

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Gli indici italiani e mondiali

Numero di azioni scambiate durante l’ultima seduta di Borsa e corrispondente controvalore in euro.

Tutti i valori ora per ora nonché massimo e minimo registrati nel corso della giornata per FTSE-MIB, Mid Cap e All Share.

Per il MIB storico e gli altri indici, vengono riportate nell’ordine la quotazione del giorno precedente, la relativa variazione percentuale e quella calcolata a partire dall’inizio dell’anno.

In Borsa esistono diversi indici, ciascuno dei quali misura l’andamento dei prezzi delle azioni a modo suo. Per questo, capita molto spesso che l’andamento di un indice sia diverso da quello di tutti gli altri. Vedremo in seguito quali sono i principali indici che vengono utilizzati per misurare l’andamento delle azioni in Borsa. Con premessa che tutti gli indici della Borsa italiana sono ponderati, cioè tengono conto delle dimensioni delle singole società quotate: il comportamento della Fiat, che è molto grossa, avrà sull’indice un’influenza maggiore rispetto al comportamento della Ratti, una società di dimensioni molto minori rispetto alla Fiat.

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Gli indici contrassegnati con # si riferiscono al giorno precedente. Per tutti viene riportata la variazione percentuale nonché quella rispetto all’ultima seduta dell’anno precedente.

Dopo gli indici mondiali, gli altri vengono raggruppati per aree geografiche in modo da renderne più agevole il reperimento.

Nella legenda in fondo alla pagina dedicata ai mercati azionari mondiali, vengono riportati i codici per la consultazione della Borsa in tempo reale, compresi gli indici relativi al calcio europeo.

La misura borsistica delle dimensioni di una società quotata è la capitalizzazione, che si ottiene moltiplicando il numero di azioni in circolazione di una società per il loro prezzo di mercato. Così, per esempio, se le azioni Rossi valgono 1 euro l’una e in circolazione ci sono tre milioni di azioni Rossi, la capitalizzazione (cioè il valore di mercato) della Rossi è pari a 3 milioni di euro. Gli indici nazionali L’unione della Borsa Italiana con il London Stock Exchange ha rivoluzionato anche la famiglia degli indici che misurano le performance di Piazza Affari.

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FTSE-MIB L’indice delle blue chip di Piazza Affari è stato ribattezzato FTSE-MIB, ma a cambiare in questo caso è solo il nome (in precedenza si chiamava S&P/MIB). Il paniere continuerà a comprendere i 40 titoli più “importanti” del listino, tenendo conto solo della capitalizzazione del flottante, cioè del valore delle azioni in circolazione sul mercato al netto delle quote stabili nelle mani dei soci di riferimento o di controllo. Il valore dell’indice delle blue chip viene calcolato ogni 30 secondi, a riflettere l’andamento del mercato, e a fine seduta sulla base degli ultimi contratti conclusi. FTSE Italia All Share Il “vecchio” MIBTEL, che comprendeva tutte le azioni quotate sulla Borsa italiana, viene sostituito dall’indice FTSE Italia All Share. Paniere che raggruppa i sottoindici FTSE-MIB (per le società di grandi dimensioni), FTSE Italia Mid Cap (60 titoli a media capitalizzazione) e FTSE Italia Small Cap (150 titoli di piccola capitalizzazione). Gli indici Mediobanca Mediobanca è stata la prima a introdurre negli indici la ponderazione per flottante sul mercato italiano, criterio poi seguito da tutti i principali provider internazionali di indici. Il sistema di indici di Borsa Mediobanca parte dal 2-1-1996 e copre le società quotate alla Borsa italiana. Il sistema di indicatori Mediobanca comprende un indice generale (all-share); indici settoriali, dimensionali, l’indice relativo al segmento Star e l’indice delle azioni senza diritto di voto (Rnc). Inoltre, per gli investitori più sofisticati, sono disponibili gli indicatori di rotazione, divergenza e volatilità, calcolati a cadenza settimanale. Gli indici senza frontiere Grazie alla globalizzazione dei mercati, all’appartenenza del nostro Paese all’area euro e alla più diffusa propensione all’investimento in strumenti finanziari, si è manifestata l’esigenza di diffondere indici “senza frontiere”, elaborati con criteri di estensione geografica, monetaria e settoriale differenti dagli indici nazionali.

Gli indici FTSE La società che calcola gli indici di Piazza Affari, FTSE Group (50% Borsa di Londra, 50% Financial Times), ha sviluppato una gamma completa di indici che copre tutto il mondo e tutti i settori.

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I Dow Jones Global Gli indici Dow Jones erano nati originariamente per misurare la “temperatura” di Wall Street e oggi emigrati in tutto il mondo. Consultando questi indici ci si può fare l’idea, per esempio, se l’Asia in Borsa si è mossa meglio del Sud America. E, per guardare più vicino, cosa succede in Europa, nell’insieme e nei diversi settori. Anche in Italia sono ormai diventati familiari gli indici DJ Stoxx che rilevano le performance delle blue chip europee dei diversi Paesi dell’area euro o dell’Europa allargata, ripartendo anche i titoli per settore di appartenenza. Così, per esempio, si può confrontare l’andamento della Fiat rispetto a quello del resto del settore auto e controllare se ha corso più o meno degli altri titoli. Lo Stoxx 600 comprende i 600 maggiori titoli europei, l’EuroStoxx 50 le 50 più importanti blue chip dell’area euro. Tutti gli indici Stoxx tengono conto del flottante effettivo sul mercato (cioè la quota non controllata da investitori stabili). Gli indici MSCI Gli indici MSCI, curati da Morgan Stanley, costituiscono un altro importante punto di riferimento per gli investitori globetrotter e per i gestori di tutto il mondo. Anche gli indici MSCI sono organizzati per area geografica, settore, e dimensioni delle società.

La parte finale dell’inserto “Plus24” è dedicata a indici e numeri, e in apertura offre una panoramica generale dell’andamento globale di economia e mercati.

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I derivati di Borsa Complici nomi e sigle oscure, agli occhi del risparmiatore il mondo dei derivati sembra un labirinto inestricabile. Per trovare la via d’uscita bisogna essere rapidi e sapersi muovere tra i mille pericoli della finanza d’assalto. Un’impresa quasi impossibile per chi non ha mai comprato altro che BOT, o al massimo si è avvicinato ai fondi comuni. Ma pur essendo strumenti rischiosi, sono tutt’altro che difficili da capire. L’IDEM Il mercato dei derivati azionari gestito da Borsa italiana si chiama IDEM (Italian derivatives market). Le negoziazioni sull’IDEM avvengono per via telematica, attraverso un sistema elettronico. Sul mercato sono attivi market maker che si impegnano a esporre proposte in acquisto e in vendita per determinati quantitativi di contratti. La loro presenza assicura che gli ordini in acquisto e in vendita possano sempre essere eseguiti in qualsiasi condizione di mercato, contribuendo in tal modo alla liquidità dello strumento. Il future Il future è nato come un contratto a termine, con cui ci si impegna all’acquisto o alla vendita a termine di un bene. Ricordate il film con Eddie Murphy e Dan Aykroyd Una poltrona per due? Murphy e Aykroyd compravano future sul succo d’arancia congelato: pagavano oggi per poter ritirare, a una certa data futura, tonnellate di succo d’arancia. In verità, ai due protagonisti del film quel succo d’arancia non sarebbe mai servito, se non a fare una colossale indigestione. Per questo, pochi minuti dopo averlo comprato, lo rivendevano a prezzi più alti, per lucrare sulla differenza di prezzo. Anche sulla Borsa Italiana sono quotati dei contratti future, ma – a differen-

In breve Per operare sul Fib basta rivolgersi a un intermediario e aprire uno speciale conto (che frutta interessi) su cui versare il margine iniziale e le successive integrazioni giornaliere. Su quello stesso conto ogni giorno verranno accreditati gli eventuali utili, oppure verranno prelevate le perdite. Se l’intermediario è d’accordo, non è necessario versare denaro contante quale garanzia: si possono impegnare anche titoli di Stato. Naturalmente, gli interessi che maturano su questi titoli spettano al cliente.

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I TERMINI TECNICI DEL CONTRATTO FUTURE • Cassa di compensazione e garanzia: è la società del gruppo Borsa Italiana che assicura la compensazione e la conclusione dei contratti stipulati sui mercati a pronti dei titoli azionari e sui mercati degli strumenti derivati. Il suo compito è quello di assicurare il buon fine dei contratti negoziati sui mercati derivati e cash regolamentati, assumendo il ruolo di controparte centrale. • Margini: il margine iniziale (pari al 7,75% del valore del contratto) si versa all’atto dell’acquisto (o della vendita) del contratto. I margini di variazione giornalieri si versano, invece, quotidianamente e sono calcolati in funzione delle oscillazioni di prezzo subite dal future. • Valore del contratto: il regolamento di Borsa Italiana stabilisce che il valore del Fib è pari a 5 euro per ogni punto indice. Se il contratto Fib è, per esempio, a 30.000 punti, il suo valore è di 150.000 euro. • Prezzo: l’oscillazione minima (detta anche tick) è di 5 punti, pari a un valore di 25 euro. Il prezzo sul quale ogni giorno ci si basa per calcolare guadagni e perdite e determinare i margini di variazione da versare è il “prezzo di riferimento”. • Liquidazione: il future è liquidato per contanti, cioè si deve sborsare la differenza tra il valore di acquisto (di vendita) e quello di vendita (di acquisto). • Scadenza: sono contemporaneamente quotate le quattro scadenze trimestrali del ciclo marzo, giugno, settembre e dicembre. Una nuova scadenza viene quotata il primo giorno di Borsa aperta successivo all’ultimo giorno di negoziazione della precedente scadenza. La scadenza più trattata (quella con maggiori scambi) è sempre la più vicina. Alla scadenza del contratto (fissata per convenzione il terzo venerdì del mese di scadenza alle ore 9.10), tutte le posizioni vengono automaticamente chiuse. Ciò significa che chi ha comprato incassa o sborsa la differenza (positiva o negativa) tra prezzo d’acquisto e di scadenza. Chi ha venduto fa esattamente l’opposto. • Prezzo di regolamento: il prezzo di regolamento è pari al valore dell’indice FTSE-MIB calcolato sui prezzi di apertura degli strumenti finanziari che lo compongono, rilevati il giorno di scadenza. • Orario di contrattazione: il mercato future apre alle 9.00 e chiude alle 17.40. • Arbitraggi: sono operazioni speculative effettuate dagli investitori per lucrare sulle differenze tra il valore del future e il valore dell’indice FTSEMIB. Le operazioni più comuni sono il cash & carry (vendita del future e contestuale acquisto di pari ammontare delle azioni che compongono l’indice S&P/MIB) e il reverse cash & carry (acquisto del future e vendita delle azioni del paniere FTSE-MIB).

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za del famoso film – non hanno come sottostante il succo d’arancia o la pancetta, bensì l’indice azionario di Borsa. Il future del mercato italiano si chiama Fib (o miniFib per il contratto di dimensioni minori) ed è un contratto standardizzato che permette di comprare o vendere l’indice di Borsa, a una data futura, per un prezzo prefissato. Chi acquista un contratto future Fib apre una posizione lunga sul mercato (guadagna quando l’indice sale); viceversa, chi vende un contratto Fib assume una posizione corta, ovvero di vendita a termine dell’indice (guadagnando in caso di discesa dell’indice di riferimento). Alla scadenza del contratto non avviene uno scambio dei singoli titoli che compongono l’indice, ma viene regolata la sola differenza monetaria (cash

COME FUNZIONA IL FIB, IL FUTURE SULL’INDICE FTSE-MIB ■ Il signor Rossi compra il future • Il signor Rossi apre un conto dedicato in banca per operare sul future sull’indice FTSE-MIB e compra un contratto del valore di 140.000 euro (il future è a 28.000 punti, ciascuno dei quali vale 5 euro). Supponiamo che la sua banca si limiti a chiedergli di versare un margine iniziale pari al 7,75% e che il signor Rossi versi così 10.850 euro. • Il giorno dopo il future va a 27.500 punti e il contratto vale 137.500 euro. Rossi ha perso 2.500 euro e il suo margine scende a 8.350 euro; deve versarne altri 2.306,3 per riportare il margine a 10.656,3 euro (7,75% di 137.500 euro, nuovo valore del contratto). • Il future sale a 27.750 punti e vale 138.750 euro. Rossi ha recuperato 1.250 euro, ma per ora può incassare soltanto 1.153 euro perché gli altri 96,88 restano sul conto per portare il margine a 10.753,13 euro (il 7,75% del valore del contratto, pari a 138.750 euro). • L’indice sale a 28.200 punti: il future va a 141.000 euro e Rossi guadagna 2.250 euro. Potrebbe incassare la parte che non serve per integrare il margine, ma decide di vendere il contratto. Gli verranno così restituiti 13.003,13 euro, cioè il margine rimasto sul conto dal giorno precedente e i 2.250 euro che ha guadagnato nell’ultima seduta. • Nel periodo in cui il signor Rossi ha posseduto il future, il Fib è passato da 28.000 a 28.200; in termini monetari il suo valore è salito da 140.000 a 141.000 euro. Il signor Rossi ha guadagnato 1.000 euro. Avendo impegnato al momento dell’acquisto 10.850 euro e avendo guadagnato 1.000 euro, nel giro di pochi giorni, il signor Rossi ha ottenuto dal suo investimento un rendimento pari al 9,2% a fronte di una crescita del future pari solo allo 0,71%. È questo l’effetto “leva” dovuto al fatto che con una somma modesta (il margine versato) si dispone di un contratto che vale molto di più.

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settlement) tra il valore del contratto al momento dell’acquisto/vendita e il valore alla scadenza dell’indice sottostante. Ipotizziamo che il signor Rossi abbia aspettative rialziste sull’indice per i prossimi tre mesi. Tale opinione può essere tradotta in decisione di investimento mediante l’acquisto di un contratto miniFib. Supponiamo che il prezzo di mercato del contratto miniFib sulla scadenza più vicina a tre mesi sia pari a 37.000 punti indice. Se il signor Rossi chiude la posizione dopo due mesi, vendendo un contratto miniFib con pari scadenza, che quota in quel momento 41.000 punti, al signor Rossi verranno accreditati 4.000 euro (41.000 – 37.000 punti indice moltiplicati per il valore di un punto indice, pari a 1 euro).

■ Il signor Bianchi vende il future • Il signor Bianchi apre un conto dedicato in banca per operare sul future sull’indice FTSE-MIB e vende (senza possederlo) un contratto del valore di 140.000 euro (il future è a 28.000 punti). Bianchi versa il margine iniziale pari al 7,75%, ovvero 10.850 euro. • Il giorno dopo il future va a 27.500 punti e il contratto vale 137.500 euro. Bianchi ha guadagnato 2.500 euro e ritira dal conto 2.693,8 euro: poiché il valore del contratto è sceso, è sufficiente che sul conto resti un margine di 10.656 euro (il 7,75% di 137.500). • L’indice risale a 27.750 punti e il future va a 138.750 euro. Bianchi ha perso 1.250 euro e il suo margine scende a 9.406,3 euro; deve versare 1.346,88 euro per riportare il margine a 10.753 (il 7,75% del nuovo valore del contratto, cioè 138.750 euro). • L’indice sale a 28.200 punti; il future va a 141.000 euro e Bianchi perde altri 2.250 euro. Potrebbe rimpinguare il margine, ma vista l’aria che tira decide di uscire di scena e per compensare la vendita iniziale del contratto future decide di comprare un contratto a livello 28.200 punti. In questo modo registra la nuova perdita di 2.250 euro e si trova in tasca 8.503,13 euro, cioè il margine rimasto sul conto decurtato dei 2.250 euro che ha perso nell’ultima seduta di Borsa. • Tra il momento in cui Bianchi ha venduto il future senza possederlo e quello in cui lo ha ricomprato (chiudendo così l’operazione), il Fib è salito da 28.000 a 28.200 punti; in termini monetari il suo valore è passato da 140.000 a 141.000 euro. • La differenza di 1.000 euro è la perdita accusata da Bianchi che, avendo all’inizio versato un margine di 10.850 euro e avendo perso 1.000 euro, ha visto il suo capitale decurtarsi dell’8,9% a fronte di una variazione del Fib di appena lo 0,71%.

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IL MINIFIB Il 3 luglio 2000 è nato il miniFib, il contratto future sull’indice delle blue chip del listino di Milano dedicato agli investitori individuali. Con il valore del punto indice uguale a 1 euro, e quindi con una dimensione pari a un quinto di quella del future sull’indice FTSE-MIB, permette di assumere posizioni sull’indice delle maggiori società quotate a Piazza Affari con un impegno economico più contenuto. Ma il rischio è comunque elevato. Dal giorno del suo debutto, il miniFib ha evidenziato un continuo trend di crescita dei volumi. Il contratto è molto popolare tra gli investitori individuali, tanto che il 40% degli scambi sul miniFib è mosso da privati.

Qualora il signor Rossi volesse investire su singole azioni con un contratto a termine, potrebbe farlo tranquillamente negoziando uno dei 37 future sulle principali blue chip italiane. Esistono anche future sulle singole azioni. Il mark to market Il rischio di credito è uno dei rischi a cui si è esposti quando si stipula un contratto ed è riconducibile alla possibilità che la controparte sia inadempiente ai propri obblighi contrattuali. Tale rischio è praticamente inesistente nei mercati regolamentati di future data la presenza della Cassa di compensazione e garanzia (CC&G) che agisce da controparte di tutte le operazioni su future, garantendo la solvibilità delle parti coinvolte in ogni transazione. A tal fine la Cassa richiede a tutti i partecipanti al mercato il versamento di determinati margini di garanzia per ogni operazione in derivati. Tre tipi di margini possono essere richiesti sul mercato IDEM: il margine iniziale, di variazione e infragiornaliero. Il margine iniziale costituisce l’ammontare di denaro che il broker deve versare alla CC&G (e di conseguenza l’ammontare minimo che l’investitore privato deposita al proprio broker) per aprire una posizione in future. Tale margine costituisce la garanzia sufficiente a coprire la teorica perdita giornaliera sulla posizione limitando i rischi d’insolvenza, e viene restituito alla chiusura della posizione. Per il Fib il margine iniziale è stabilito nel 7,75% del valore del future, anche se per prudenza le banche fanno generalmente versare ai risparmiatori un margine di almeno il 10%. Dal punto di vista operativo, ciò significa che l’investitore che apre una posizione in future su azioni non deve pagare il totale controvalore del contratto ma solo una parte. Per qualsiasi strumento quotato sul mercato IDEM, i profitti e le perdite si realizzano giorno per giorno, grazie alla procedura di liquidazione giornaliera delle

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posizioni. A fine giornata, la CC&G calcola i profitti e le perdite generati dalle posizioni in future sulla base del prezzo di chiusura giornaliero e accredita o addebita, sul relativo conto dell’intermediario presso la CC&G, la variazione dei margini. Si tratta del principio del marking to market in base al quale i future vengono regolati giornalmente piuttosto che alla scadenza così da poter meglio valutare l’opportunità di chiudere anticipatamente la posizione. Infine, i margini aggiuntivi infragiornalieri possono essere richiesti a discrezione della Cassa ai propri aderenti, qualora durante la giornata di negoziazione si registrassero ampie variazioni dei prezzi rispetto alla chiusura del giorno precedente. I contratti di opzione Il future è uno strumento di investimento che, se utilizzato con finalità speculative, può essere considerato decisamente rischioso perché le perdite potenziali possono essere virtualmente illimitate. Tuttavia sul mercato sono disponibili anche contratti derivati che consentono a chi li compra di stimare in anticipo la perdita massima che dovrà sostenere qualora il mercato andasse nella direzione opposta a quella sperata: questi strumenti sono le opzioni. Come è possibile conoscere con precisione e sin dall’inizio il rischio massimo di perdita? Il segreto è nel fatto che chi compra un’opzione acquista un diritto, ma non ha alcun obbligo. L’opzione è infatti la facoltà di acquistare o di vendere, entro una certa data, una certa attività finanziaria a un prezzo prefissato. Se alla scadenza dell’opzione non si ritiene il prezzo conveniente, basta lasciar scadere l’opzione senza esercitarla. La perdita così è limitata al prezzo pagato per comprare l’opzione. Le opzioni sono di due tipi: call e put. L’opzione call dà diritto ad acquistare a un certo prezzo, detto strike price o base (così è riportato nelle tabelle del Sole 24 ORE), una certa attività finanziaria sottostante (cioè l’azione o l’indice di In breve La crisi del mercati ha fatto emergere l’effetto delle poderose leve finanziarie (leverage) attraverso le quali le grandi banche internazionali hanno moltiplicato negli anni i loro profitti, ma che sono state anche all’origine delle loro sventure. Per leva s’intende il rapporto tra le attività finanziarie gestite e il proprio patrimonio. Al crescere degli asset, in proporzione ai mezzi propri, il bilancio di una società (soprattutto quello di una banca che per legge deve detenere ratio patrimoniali adeguati) può essere sottoposto a tensioni, anche forti. Per esempio un abbassamento medio delle attività gestite del 5% può comportare l’azzeramento del patrimonio se il leverage è superiore a 20.

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L’OPZIONE MIBO • Tipo di opzioni: call e put, di tipo europeo (esercitabili solo nel giorno di scadenza). • Scadenze trattate: in ciascuna seduta di contrattazione sono contemporaneamente quotate dieci scadenze: le quattro scadenze trimestrali del ciclo marzo, giugno, settembre, dicembre; le due scadenze mensili più vicine; le quattro scadenze semestrali di giugno e dicembre dei due anni successivi a quello in corso; le due scadenze annuali del terzo e quarto anno che seguono quello in corso. Una nuova scadenza mensile (trimestrale o semestrale) viene quotata il primo giorno di Borsa aperta successivo all’ultimo giorno di negoziazione della precedente scadenza mensile (trimestrale o semestrale). • Prezzo: variazione dinamica, a seconda del prezzo dell’opzione; se questo è inferiore a 100 punti indice, il valore dell’opzione varia di un punto indice per volta; se è compreso tra 102 e 500 punti indice, varia di 2 punti indice per volta, e se è superiore a 505 punti indice, varia di 5 punti indice per volta. Ciascun punto indice ha un valore convenzionale di 2,5 euro. Per ciascuna scadenza sino a 12 mesi i prezzi di esercizio sono generati con intervalli di 500 punti indice. Per ciascuna delle quattro scadenze semestrali oltre i 12 mesi i prezzi di esercizio sono generati con intervalli di 1000 punti indice. • Ultimo giorno di contrattazione: le negoziazioni di ciascun contratto in scadenza terminano contestualmente alla scadenza dello stesso, ovvero alle ore 9.05 del giorno di scadenza. • Liquidazione: avviene per contanti sulla base della differenza fra il prezzo di esercizio ed il valore di regolamento dell’indice il primo giorno lavorativo successivo alla data di esercizio del contratto, tenuto conto del numero di contratti esercitati e del valore del moltiplicatore. La liquidazione avviene per il tramite della Cassa di compensazione e garanzia. • Orario di contrattazione: dalle 9 alle 17.40.

Borsa oggetto del contratto di opzione). Se l’esercizio dell’opzione può avvenire in un qualsiasi giorno entro la scadenza del contratto, si parla di opzione di stile americano. Se invece l’esercizio può avvenire soltanto in un giorno prefissato (il giorno di scadenza dell’opzione), si parla di opzione di tipo europeo. Esattamente speculare è l’opzione put, che dà diritto di vendere allo strike price una certa quantità del sottostante. Oltre che per esercitarle, e quindi per comprare o vendere le azioni, l’investitore può acquistare le opzioni anche per rivenderle sul mercato guadagnando sulle oscillazioni dei prezzi. Sul mercato italiano sono trattati due tipi di opzioni collegate a un sottostante “azionario”: l’opzione sull’indice FTSE-MIB e le opzioni sui singoli titoli.

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LE OPZIONI SUI SINGOLI TITOLI • Tipo di opzioni: call e put, di tipo americano (esercitabili in un qualsiasi momento prima della scadenza). • Scadenze trattate: sono contemporaneamente quotate dieci scadenze: le due scadenze mensili più vicine, le successive quattro scadenze trimestrali del ciclo «marzo, giugno, settembre e dicembre» e le quattro scadenze semestrali del ciclo «giugno, dicembre» dei due anni successivi a quello in corso. Una nuova scadenza mensile (trimestrale o semestrale) viene quotata il primo giorno di Borsa aperta successivo al giorno di scadenza. • Attività sottostante: titoli azionari. • Unità di contrattazione: diversa a seconda del contratto (da 100 a 5.000 titoli). • Premio: il premio del contratto è pari al valore del premio dell’opzione moltiplicato per il rispettivo lotto. Per esempio, se il premio dell’opzione sull’azione XY con prezzo di esercizio pari a 31,45 € è pari a 0,6500 €, il premio del contratto ha un valore di 0,6500 € x 500 = 325 €. • Liquidazione: avviene mediante consegna fisica dei titoli alla Stanza di compensazione, per il tramite della Cassa di compensazione e garanzia, tenuto conto del numero di contratti esercitati e del lotto minimo. Il giorno di liquidazione del contratto coincide con il terzo giorno lavorativo successivo all’esercizio anticipato dell’opzione o al giorno di scadenza della stessa. • Prezzo: Il prezzo di regolamento è pari al valore del prezzo di riferimento dell’azione sottostante il contratto rilevato l’ultimo giorno di contrattazione. • Orario di contrattazione: dalle 9 alle 17.40.

I warrant Un modo di puntare sul mercato azionario senza possedere azioni è tramite warrant. Il warrant è un buono che dà diritto a sottoscrivere, entro una certa data, un certo numero di azioni a prezzo prefissato. I warrant solitamente vengono emessi in occasione degli aumenti di capitale delle società quotate. In questo modo, le società intendono incentivare i risparmiatori a finanziarle, sottoscrivendo le nuove azioni derivanti dall’aumento di capitale. Infatti, se il risparmiatore non ha interesse a detenere il warrant, o comunque a utilizzarlo successivamente per sottoscrivere altre nuove azioni, potrà rivenderlo in Borsa. La “prenotazione” cui dà diritto il warrant dura solamente per un certo periodo di tempo, entro il quale il warrant deve essere esercitato a pena di decadenza.

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Quanto vale un warrant? Il valore del warrant dipende da tre variabili: la durata della prenotazione (cioè, il tempo che manca alla scadenza del warrant); il prezzo di Borsa dell’azione che il warrant dà diritto a sottoscrivere; la somma che, esercitando il warrant, bisogna sborsare per sottoscrivere l’azione. Poiché utilizzare il warrant non è un obbligo, ma un diritto, chi lo possiede può venderlo. Per questo i warrant vengono quotati in Borsa: per consentire a chi lo desidera di cederli. In particolare, i warrant sono liquidati per contanti, come le azioni: chi vende incassa dopo tre giorni, chi compra paga subito. Dal punto di vista operativo dimenticarsi di avere dei warrant, come qualcuno fa con le azioni, non è una strategia intelligente. Al contrario delle azioni, infatti, dopo un po’ questi buoni scadono, e perdono interamente valore. La cosa migliore da fare è seguire con attenzione l’evoluzione dei prezzi di Borsa, in modo da scegliere il momento giusto per vendere i warrant, oppure per esercitare il proprio diritto e sottoscrivere le azioni al prezzo prefissato. È bene sapere che la quotazione dei warrant è soggetta a oscillazioni molto più ampie di quelle delle azioni, per un effetto che nel gergo si chiama “leva finanziaria”. La negoziazione è analoga a quella di qualunque titolo quotato sul mercato telematico, il che garantisce una maggior trasparenza e facilità di accesso al prodotto, con conseguente aumento dei volumi trattati. La principale attrattiva per il piccolo investitore è data dall’esiguità del capitale minimo necessario per accedere all’investimento azionario. Inoltre, poiché la massima perdita potenziale è limitata al valore del capitale investito, non è previsto alcun deposito come garanzia a fronte di eventuali perdite. Per quanto riguarda i rendimenti non vi sono limiti di sorta, almeno in teoria. La liquidità del mercato è assicurata dallo status di market maker degli istituti emittenti, che devono continuamente quotare prezzi denaro e lettera. Un certo entusiasmo per questa tipologia di derivati è dunque legittimo, ma per chi decidesse di investire in questo genere di prodotto è d’obbligo comprendere appieno il suo funzionamento e i criteri di scelta rispetto alle caratteristiche che il warrant deve possedere per soddisfare le diverse esigenze di investimento, onde limitare le perdite in conto capitale ai veri imprevisti del mercato e non a grossolani errori nella valutazione. I covered warrant A differenza dei warrant tradizionali i covered sono emessi da un intermediario e non dall’emittente del titolo sottostante. Alla scadenza, inoltre, viene eventualmente corrisposto all’investitore un controvalore monetario e non il titolo azionario effettivo.

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La pagina su indici e derivati Nella pagina dedicata quotidianamente a indici e derivati, vengono presentati i valori degli ETF nonché gli andamenti del FTSE-MIB e di altri future. In quella dedicata al mercato azionario, un’utile tabella riporta le informazioni sui warrant. Contratti future con sottostanti indici. Il prezzo di chiusura è espresso in punti indice nel caso di future su indici e in euro per quelli su azioni. Per i future su indici di Borsa, viene calcolato sulla media ponderata dei prezzi degli ultimi contratti scambiati.

Indicazioni sull’andamento del warrant nell’ultima seduta di Borsa. Le indicazioni sono le stesse che vengono riportate nel listino del mercato azionario.

È il nome del warrant, che indica il tipo di azioni cui si ha diritto se lo si esercita.

Gli ETF sono strumenti finanziari che replicano l’andamento di indici azionari e obbligazionari. Vengono riportati tutti i dati utili al risparmiatore che opta per gli ETF.

Termine ultimo per l’esercizio del warrant.

Prezzo al quale il warrant dà diritto di sottoscrivere l’azione.

Numero di warrant necessari per sottoscrivere un determinato numero di azioni.

Valore teorico del warrant in funzione del prezzo dell’azione sottostante e di una serie di variabili quali il livello dei tassi, i dividendi, la volatilità del prezzo dell’azione. Questo valore è un punto di riferimento per valutare la bontà del prezzo di mercato del warrant.

Codice Audiotel. È il codice da digitare per conoscere al telefono la quotazione del warrant in tempo reale utilizzando l’apposito servizio del Sole 24 ORE.

Minimo e massimo del prezzo del warrant registrato nell’ultimo anno solare e in quello in corso oppure (se successiva) dalla data di prima quotazione del titolo.

Variazione teorica del prezzo del warrant dovuta a una variazione di 1 euro nel prezzo dell’azione sottostante.

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Il prezzo del warrant Il premio o prezzo del warrant è dato da due componenti: il valore intrinseco e il valore del tempo.

Il valore intrinseco Quello di un warrant call si ottiene moltiplicando per il multiplo la differenza fra il livello del sottostante e lo strike price; nel caso di un warrant put si effettua un prodotto fra multiplo e differenza fra lo strike price e livello del sottostante. A tale proposito sarà di aiuto un esempio. Il signor Verdi acquista un warrant call con strike 12 e multiplo 1 sul titolo Starfish, quotato 15 euro; il valore intrinseco sarà: Euro (15 – 12) × 1 = 3 euro Qualora acquisti un warrant put con strike 20, multiplo 1, sul titolo Starfish, il cui livello o prezzo di mercato è in quel momento di 14 euro, sarà: Euro (20 – 14) × 1 = 6 euro In questo esempio abbiamo supposto che il warrant abbia effettivamente un valore intrinseco, ovvero che la quotazione sia superiore o inferiore allo strike, rispettivamente per warrant call e put; questa situazione viene definita di warrant “in the money”, ma non è l’unica possibile. Se il warrant è “at the money”, il livello del sottostante coincide con lo strike; il valore intrinseco è quindi pari a zero, il che significa che esercitando il diritto ad acquistare o a vendere il sottostante il signor Verdi non otterrebbe nulla. Quando il warrant è classificabile come “out of the money” (ossia, nel caso di call la quotazione del sottostante è inferiore allo strike e nel caso di put è superiore), il valore intrinseco del warrant è nullo, poiché si assume che nessuna opzione possa avere un valore intrinseco negativo. Anche se il valore intrinseco è nullo, il warrant può avere un prezzo, che nel caso specifico è dato dal valore del tempo. Il valore del tempo È rappresentato dalla differenza fra il prezzo del warrant e il suo valore intrinseco; in pratica è il valore che il mercato attribuisce alla probabilità che il warrant scada “in the money”, cioè che dal momento in cui è effettuata la stima alla scadenza acquisisca un valore intrinseco. I valori più elevati del valore del tempo si riscontrano in corrispondenza di warrant “at the money”, poiché riflettono una maggiore incertezza rispetto al fatto che il warrant scada “in” o “out of the money”. Considerando il valore del tempo, si capisce che è più vantaggioso rivendere

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un warrant piuttosto che esercitarlo: mentre se si rivende si monetizzano entrambi i componenti del premio, l’esercizio del warrant comporta l’incasso di un importo pari al solo valore intrinseco del warrant in quel momento.

Le Borse estere I mercati finanziari sono ormai tutti interconnessi tra di loro – se cade Wall Street è improbabile che l’Europa festeggi – al punto che si parla idealmente di un unico grande mercato su scala globale. Oggi il risparmiatore ha la possibilità di far viaggiare i propri capitali per scovare le migliori opportunità di investimento e, grazie al collegamento tramite reti telematiche di tutte le piazze finanziarie, 1.000 euro affidati a un intermediario milanese possono di fatto essere trasferiti in Giappone o negli Stati Uniti in pochi secondi ed essere, per esempio, utilizzati per acquistare un’azione, un’obbligazione o una quota di un fondo comune italiano, giapponese, americano o inglese. Attenzione però al cambio, passare da euro a dollaro, a yen o a franco svizzero può aumentare i guadagni, ma anche vanificarli o provocare pesanti perdite nei portafogli, indipendentemente dall’andamento delle Borse. L’intermediario La via più semplice per investire all’estero è quella di rivolgersi al proprio intermediario di fiducia. Spesso le commissioni possono risultare considerevolmente più elevate rispetto a quelle applicate sulla compravendita di strumenti finanziari domestici.

Il sabato viene pubblicata una tabella che riporta le blue chip di tutte le principali borse internazionali con tutte le informazioni che possono essere d’aiuto all’investitore che vuole diversificare il proprio portafoglio.

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Il vantaggio di utilizzare una banca o una società di intermediazione italiana per investimenti all’estero è anche quello di semplificare le problematiche fiscali. In questo caso, infatti, la disciplina è uguale a quella prevista per i corrispondenti prodotti finanziari domestici. Agendo tramite un intermediario estero occorre invece considerare il tipo di tassazione che si applica nel Paese dell’investimento, l’esistenza di eventuali trattati bilaterali per evitare doppie imposizioni e la possibilità di poter usufruire del credito d’imposta per i redditi percepiti all’estero. La diversificazione di portafoglio La ragione principale che spinge un risparmiatore a investire all’estero non è la prospettiva di guadagni più elevati; nella maggior parte dei casi, infatti, le Borse estere rappresentano semplicemente un mezzo per ampliare la gamma delle alternative di investimento. Prodotti finanziari diversi presentano vari livelli di rischio, poiché le variabili che concorrono a determinarne le oscillazioni hanno spesso origini eterogenee; inoltre, i mercati non si muovono contemporaneamente nella stessa direzione. La compensazione di tali instabilità porta a stabilizzare il rendimento del portafoglio nel lungo periodo, obiettivo principale dell’investitore. La diversificazione globale contribuisce a incrementare il rendimento atteso dei propri risparmi, perché permette di concentrare quote dei portafogli sui mercati che si ritengono più profittevoli. Le grandi piazze finanziarie Le quotazioni delle principali azioni trattate nelle Borse estere vengono pubblicate quotidianamente dal Sole 24 ORE nella pagina del mercato mobiliare internazionale, insieme a un’ampia serie di indici che misurano il comportamento dei maggiori mercati azionari mondiali. Investendo sui mercati esteri si ha la possibilità di scegliere le blue chip del mercato, ovvero i titoli delle società leader nel mondo per capitalizzazione borsistica. Le Borse anglosassoni La finanza mondiale parla inglese. I Paesi anglosassoni, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti vantano una tradizione di lungo corso sui mercati azionari. Non si può parlare di Borsa, senza citare Londra e New York.

London Stock Exchange La Borsa di Londra, come strumento moderno di finanziamento delle attività economiche, è nata con la rivoluzione industriale del XVIII secolo.

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Le sue origini si rintracciano nelle contrattazioni organizzate nelle caffetterie da quanti raccoglievano le “scommesse” di investimento in società anonime di capitale. L’incremento di queste negoziazioni informali spinse i broker a concentrare le proprie attività in un luogo fisico chiamato Stock Exchange. Tutto ciò avveniva nel 1773. Da allora è stata una crescita continua fino ai giorni nostri, in cui la piazza finanziaria londinese è diventata di gran lunga la principale del continente europeo. New York Stock Exchange (NYSE) È il più grande mercato azionario al mondo e ha sede in un palazzo colonnato di Wall Street, una viuzza nel cuore di Manhattan da cui ha preso il nome. Nato pochi anni dopo l’indipendenza degli Stati Uniti, nel 1972, ospita tutte le grandi multinazionali americane, da General Electric, a Coca-Cola, a IBM. NASDAQ Il NASDAQ – sigla che sta per National Association of Securities Dealers Automated Quotation – è nato nel 1971 su iniziativa dell’associazione degli intermediari americani per fornire un circuito organizzato di contrattazioni alle moltissime azioni che in precedenza erano trattate fuori mercato. Gli intermediari sono collegati a un circuito elettronico attraverso il quale avvengono gli scambi. Nel 1994, sull’onda del successo della new economy, era arrivato a scambiare più azioni del paludato NYSE. Il NASDAQ è rimasto un “marchio” famoso in tutto il mondo per i titoli appartenenti ai settori più tecnologici, pc, software, internet.

Dall’andamento di Wall Street quasi sempre dipende anche quello delle altre Borse, nel bene e nel male. Il mondo di oggi è interconnesso più che mai.

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Le Borse vanno a nozze Con la globalizzazione dei mercati finanziari, la migrazione dei capitali a caccia delle migliori opportunità e l’evoluzione della tecnologia, anche i listini azionari hanno sentito l’esigenza di allargarsi. A partire dall’introduzione di un’unica moneta in tutta l’Europa continentale, l’euro, sono iniziati così diversi tentativi di mettere assieme Borse di diversi Paesi. Ma, se qualche anno fa, si pensava che nel Vecchio Continente il processo di consolidamento del settore avrebbe fatto nascere una o due super-Borse europee, gli eventi poi hanno preso una piega imprevista con la discesa in campo degli americani. In Europa è stata Parigi la prima a rompere il ghiaccio sul fronte delle aggregazioni, dando vita a Euronext, la “federazione” delle Borse di Parigi, Amsterdam, Bruxelles e Lisbona, che è riuscita ad attrarre nella sua sfera anche il Liffe, il mercato dei future londinese. A fine 2006 Euronext ha poi deciso di fondersi con il New York Stock Exchange. Prossima tappa la fusione con Deutsche Börse, la Borsa di Francoforte che porta in dote Eurex, uno dei più grandi mercati dei derivati al mondo. Anche il “rivale” americano NASDAQ è riuscito ad aprirsi un varco in Europa, conquistando l’OMX (la società che gestisce le principali Borse scandinave), dopo avere a lungo corteggiato Londra. La nascita di questi maxi-poli borsistici ha lo scopo di allargare la platea di investitori per le società quotate, ma ci si aspetta anche che col tempo siano in grado di abbattere i costi per il trading azionario da un Paese all’altro.

Milano si sposa con Londra Piazza Affari ha scelto di unirsi al London Stock Exchange. La Borsa di Milano e la Borsa di Londra sono confluite sotto una holding comune, mantenendo le due piazze autonome sotto il profilo operativo e legislativo. Sarà sempre la Consob perciò a vigilare sul mercato italiano. Il sistema telematico, su cui si svolgono le contrattazioni, è però lo stesso. Fallito il tentativo di aggregare anche TMX, la Borsa di Toronto, si aspettano le prossime mosse del gruppo.

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Il risparmio gestito di Marco Liera

Il risparmio gestito, quello delle gestioni patrimoniali, dei fondi comuni, delle polizze vita e dei fondi pensione, è la forma di investimento più organizzata: quella che consente alle famiglie di soddisfare i propri bisogni finanziari (previdenza, gestione della liquidità, crescita del capitale per vari scopi) e contemporaneamente ai mercati dei capitali di diventare efficienti allocatori di risorse tra i vari emittenti (imprese, governi, enti locali ed enti sovranazionali). In altre parole, il risparmio gestito opera affiché i denari faticosamente messi da parte dalle famiglie vadano nelle tasche di chi se lo merita, in modo da ottimizzare il profilo rischio/rendimento. I soggetti che esercitano le attività di gestione del risparmio (banche, SIM, società di gestione del risparmio, compagnie di assicurazione) sono chiamati investitori istituzionali, in contrapposizione a quelli privati (che sono i singoli risparmiatori).

Anche se si investe in prodotti del risparmio gestito e quindi si è seguiti da un consulente, meglio sempre informarsi. “Plus24” dedica ampi spazi a questi strumenti e all’educazione finanziaria.

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In tutte le sue forme, il risparmio gestito consiste nel passaggio di risorse da una pluralità di investitori (tipicamente privati) a un altro, sempre istituzionale. A quest’ultimo è affidato il compito di gestire le risorse trasferite secondo modalità concordate a priori. In questo ambito, il risparmio gestito si contraddistingue come l’alternativa all’investimento diretto del proprio denaro, che viene realizzato acquistando sul mercato (primario o secondario) singoli titoli (azioni, titoli di Stato, e così via). Gli strumenti del risparmio gestito consentono di delegare questa operatività a un altro soggetto, l’investitore istituzionale, che è specializzato in questa attività e proprio per questo motivo si presuppone riesca a ottenere migliori risultati in termini di rischio/rendimento di quanto possa fare il privato. Questi principi fondatori dell’industria sono stati messi in discussione dalla grande crisi del 2008/09, in cui il risparmio gestito ha accusato – in tutti i principali mercati – risultati profondamente negativi in termini sia di performance che di raccolta netta. La migliore strumentazione a disposizione e i presunti vantaggi cognitivi dei gestori non si sono rivelati sufficienti a minimizzare l’impatto dell’enorme svalutazione di una vasta gamma attivi finanziari. Più in generale, è stato confermato che il valore aggiunto che i gestori creano a favore dei sottoscrittori non solo non è consistente nel tempo, ma soprattutto non è sufficiente a compensare stabilmente i costi di distribuzione che i fondi sono di fatto obbligati a riconoscere ai collocatori (banche in primis), senza l’azione dei quali questi prodotti non riuscirebbero a coinvolgere sufficienti capitali. L’ascesa degli ETF e delle gestioni indicizzate a scapito di quelle attive dipende proprio dalla ricerca da parte degli investitori di strumenti il cui profilo rischio/rendimento è più facilmente intelligibile ex ante e dove c’è maggiore corrispondenza tra valore aggiunto dagli emittenti/gestori e costi applicati.

La “Posta del risparmiatore” su “Plus24” è l’appuntamento settimanale per le risposte alle domande dei lettori, un laboratorio vivente di finanza comportamentale.

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I fondi comuni di investimento mobiliare aperti Il fondo comune è una cassa collettiva dove confluisce il risparmio di una pluralità di risparmiatori, denaro che viene investito in valori mobiliari (titoli di Stato, obbligazioni estere, azioni italiane e straniere, e così via) da Società di gestione del risparmio (SGR) iscritte a un apposito Albo. Lo scopo principale del fondo è quello di ottenere, attraverso una gestione collettiva, vantaggi in termini di rendimenti, minori costi, maggiore potere contrattuale nell’investimento e diversificazione del portafoglio. Il fondo comune non garantisce comunque alcun rendimento: il ritorno per il sottoscrittore dipende dalle attività in cui è investito; un obbligazionario area euro ha un profilo rischio/rendimento in linea con quello dei titoli di Stato, un azionario internazionale con quello delle Borse estere e così via. Le caratteristiche principali Il patrimonio del fondo è gestito “in monte” (a differenza delle gestioni patrimoniali, dove ogni cliente resta proprietario di titoli ben identificati) ed è ripartito in quote. Nel fondo comune il sottoscrittore è quindi proprietario di una fetta del patrimonio – pari in sostanza al versamento effettuato più o meno la plus/minusvalenza realizzata dal gestore – non di questo o quel titolo in cui è investito il patrimonio del fondo stesso. Il valore di una quota (NAV, net asset value), reso noto giornalmente dai quotidiani (e in questo sta la trasparenza del prodotto, che è tale da permettere di verificare con continuità l’andamento del proprio investimento) e sui siti internet delle società di gestione nonché su quelli di aggregatori di informazioni, non è I FONDI E IL TESTO UNICO I fondi comuni di investimento aperti sono stati introdotti nel nostro ordinamento nel 1983. Nel 1992 sono state introdotte le SICAV di diritto italiano e quelle di diritto comunitario. Nel 1998 il Testo unico della Finanza ha introdotto le SGR (società di gestione del risparmio) come unici soggetti autorizzati alla gestione collettiva del risparmio. Successivamente sono entrati in vigore i regolamenti del Testo unico, oggetto di continue modificazioni che hanno introdotto nuove regole di trasparenza per fondi e SICAV e disciplinato le modalità di vendita a distanza (via telefono e via internet), oltre a rivedere i contenuti obbligatori dei prospetti informativi e della rendicontazione periodica.

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altro che il valore di mercato degli impieghi del fondo – al netto delle spese e delle commissioni di gestione – diviso per il numero delle quote in circolazione. Le risorse versate dai sottoscrittori del fondo costituiscono patrimonio separato da quello delle società di gestione: queste ultime sono in buona parte controllate da banche e da compagnie di assicurazioni e soddisfano requisiti di solidità. È in ogni caso opportuno conoscere la compagine azionaria della società di gestione per valutarne l’affidabilità. I titoli che fanno parte del patrimonio del fondo sono custoditi da una banca depositaria, che vigila sull’effettiva esistenza dei valori. Le società di gestione sono soggette alla doppia vigilanza di Consob e Banca d’Italia. Tutto ciò ha fatto sì che, nella loro non particolarmente lunga storia (sono partiti nel 1984), i fondi comuni abbiano anche raggiunto un patrimonio di oltre 600 miliardi di euro senza registrare alcun caso di insolvenza. Nei fondi i costi a carico dei sottoscrittori sono rappresentati dalle commissioni di sottoscrizione (quando esistono). Qualche fondo presenta anche delle commissioni di rimborso. A questi costi, che sono predeterminati, vanno aggiunte le spese a carico del fondo: le commissioni di gestione, le eventuali commissioni di incentivo (applicate quando il rendimento del fondo supera una certa soglia), gli oneri di negoziazione titoli, le commissioni per la banca depositaria, le spese di certificazione e così via. Tutte voci che vanno a decurtare il rendimento per il risparmiatore. I fondi comuni sono aperti: l’ingresso dei nuovi sottoscrittori è libero, così come è consentito in qualsiasi momento rientrare in possesso del proprio investimento, che viene liquidato dalla società di gestione in base al valore della quota. Il patrimonio dei fondi comuni, pertanto, non è fisso, perché può aumentare o diminuire in relazione ai flussi di raccolta e a quelli di rimborso: se le sottoscrizioni superano i riscatti, il patrimonio registra un incremento, in caso contrario subisce una diminuzione. Le cinque macroaree Dal 1° luglio 2003, i fondi comuni sono divisi in cinque macrocategorie (fondi di liquidità, obbligazionari, bilanciati, azionari, flessibili) in base al peso dell’investimento azionario: Assogestioni, l’associazione di categoria delle società di gestione di fondi, ha fissato limiti di investimento per ognuna di esse. Ogni macrocategoria si divide poi in categorie (in totale 42) sulla base di differenti criteri.

Fondi di liquidità Sono i fondi che non possono investire in azioni e destinano tutto il portafoglio a obbligazioni e liquidità. Gli strumenti finanziari detenuti in portafoglio devono avere un rating non inferiore ad A2 (Moody’s) o A (S&P). I fondi di li-

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quidità non possono investire in strumenti privi di rating. La duration massima del portafoglio è di 6 mesi, e non è ammessa la copertura del rischio di cambio. I fondi di liquidità si differenziano in quattro categorie sulla base della valuta di emissione dei titoli in portafoglio: fondi di liquidità area euro, area dollaro, area yen, area altre valute. I fondi di liquidità area euro, in particolare, sono la trasformazione degli ex fondi monetari: investono in strumenti del mercato monetario (BOT, pronti contro termine, titoli di Stato con breve durata residua). Sono quindi adatti a chi non può investire nel lungo periodo, perché magari ha una spesa imminente da fronteggiare. Il loro rendimento è in linea con quello dei BOT: perciò non è elevato, ma al tempo stesso è stabile, perché il valore della quota oscilla di poco; la probabilità che l’investimento si chiuda in perdita, anche a poca distanza dalla sottoscrizione, è minima. Fondi obbligazionari I fondi obbligazionari non possono investire in azioni (con l’eccezione degli obbligazionari misti, che possono investire fino al 20% nelle Borse) e pertanto investono tutto il portafoglio in obbligazioni e liquidità. Si prestano a soddisfare l’esigenza di chi vuole far crescere il capitale nel medio periodo (3-5 anni). Su questi archi temporali, il loro rendimento finale è solitamente superiore a quello dei fondi di liquidità, ma l’oscillazione della quota (volatilità) è superiore. La volatilità degli obbligazionari è tanto maggiore quanto più è lunga la scadenza media dei titoli in portafoglio (duration) e tanto maggiore è l’esposizione al rischio valutario. Un fondo obbligazionario imbottito di BTP trentennali registrerà una volatilità decisamente superiore a quella di un fondo che investe prevalentemente in CCT a 1-3 anni. Si tenga presente che l’esposizione al rischio valutario dipende non solamente dalla percentuale di titoli in valuta detenuti in portafoglio, ma anche dal fatto che questi titoli siano coperti dal rischio di cambio oppure no, comportamento, questo, realizzato con tecniche ad hoc (vendita di valuta a termine, currency swap, e così via), il cui utilizzo dipende dalle strategie del gestore. Assogestioni prevede 16 categorie di fondi obbligazionari di cui 14 specializzate e 2 non specializzate. La classificazione dei fondi obbligazionari specializzati è basata su due criteri: rischio di mercato (valuta del portafoglio e duration superiore o inferiore a 2) e rischio di credito, ovvero giurisdizione dell’emittente (Paesi sviluppati ed emergenti), tipologia dell’emittente (sovrano o impresa), merito creditizio (investment grade o high yield). I loro portafogli consistono in un investimento principale che copre almeno il 70% (o 80%, si veda sotto) del portafoglio, e un

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investimento residuale pari al massimo al 30% (o 20%), che è rappresentato da strumenti obbligazionari con rating non inferiore a Baa3 (Moody’s) o BBB(S&P), e denominati in valute europee (fondi euro), dell’area del dollaro (fondi dollaro), in yen (fondi yen), ovvero qualunque valuta (altri fondi). Ecco gli investimenti principali delle categorie specializzate.









Fondi obbligazionari euro governativi breve termine. Investono almeno l’80% del portafoglio in titoli di Stato e altri strumenti obbligazionari denominati in euro emessi da governi sovrani di Paesi sviluppati o enti sovranazionali promossi dagli stessi governi; la duration del fondo è inferiore o uguale a 2. Fondi obbligazionari euro governativi medio-lungo termine. Investono almeno l’80% del portafoglio in titoli di Stato e altri strumenti obbligazionari denominati in euro emessi da governi sovrani di Paesi sviluppati o enti sovranazionali promossi dagli stessi governi; la duration del fondo è superiore a 2. Fondi obbligazionari euro corporate investment grade. Investono almeno il 70% del portafoglio in obbligazioni emesse da soggetti diversi da quelli governativi e sovranazionali (imprese) con rating non inferiore a Baa3 (Moody’s) o BBB- (S&P) e denominati in euro. Fondi obbligazionari euro high yield. Investono almeno il 70% del portafoglio in obbligazioni emesse da soggetti diversi da quelli governativi e sovranazionali (imprese) senza rating o con rating inferiore a Baa3 (Moody’s) o BBB(S&P) e denominati in euro.

COME SI UTILIZZA LA VOLATILITÀ La volatilità, cioè l’oscillazione nel valore delle quote rilevata in passato, è un dato molto importante perché è un indicatore di rischiosità del fondo comune: più è elevata, più il valore della quota ha oscillato nel periodo preso in esame. Ovviamente, la volatilità è più bassa nei fondi monetari e più elevata in quelli azionari. La misura di volatilità utilizzata è lo scarto quadratico medio del rendimento dei fondi, come raccomandato da Assogestioni. Un esempio può chiarire meglio il concetto. Se un fondo ha avuto un rendimento annualizzato del 10% negli ultimi 3 anni e una volatilità del 4%, significa che chiunque ha sottoscritto il fondo nell’arco degli ultimi 3 anni ha ottenuto un rendimento annualizzato compreso tra il 10% – 4% = 6% (risparmiatore più “sfortunato”) e il 10% + 4% = 14% (risparmiatore più “fortunato”).

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Fondi obbligazionari dollaro governativi breve termine. Investono almeno l’80% del portafoglio in titoli di Stato e altri strumenti obbligazionari denominati in dollari emessi da governi sovrani di Paesi sviluppati o enti sovranazionali promossi dagli stessi governi; la duration del fondo è inferiore o uguale a 2. Fondi obbligazionari dollaro governativi medio-lungo termine. Investono almeno l’80% del portafoglio in titoli di Stato e altri strumenti obbligazionari denominati in dollari emessi da governi sovrani di Paesi sviluppati o enti sovranazionali promossi dagli stessi governi; la duration del fondo è superiore a 2. Fondi obbligazionari dollaro corporate investment grade. Investono almeno il 70% del portafoglio in obbligazioni emesse da soggetti diversi da quelli governativi e sovranazionali (imprese) con rating non inferiore a Baa3 (Moody’s) o BBB- (S&P) e denominati in dollari. Fondi obbligazionari dollaro high yield. Investono almeno il 70% del portafoglio in obbligazioni emesse da soggetti diversi da quelli governativi e sovranazionali (imprese) senza rating o con rating inferiore a Baa3 (Moody’s) o BBB- (S&P) e denominati in dollari. Fondi obbligazionari internazionali governativi. Investono almeno l’80% del portafoglio in titoli di Stato e altri strumenti obbligazionari emessi da governi sovrani di Paesi sviluppati o enti sovranazionali promossi dagli stessi governi, denominati in diverse valute e senza limiti di duration. Fondi obbligazionari internazionali corporate investment grade. Investono almeno il 70% del portafoglio in obbligazioni emesse da soggetti diversi da quelli governativi e sovranazionali (imprese) con rating non inferiore a Baa3 (Moody’s) o BBB- (S&P), denominati in diverse valute e senza limiti di duration. Fondi obbligazionari internazionali high yield. Investono almeno il 70% del portafoglio in obbligazioni emesse da soggetti diversi da quelli governativi e sovranazionali (imprese) senza rating o con rating inferiore a Baa3 (Moody’s) o BBB- (S&P), denominati in diverse valute e senza limiti di duration. Fondi obbligazionari yen. Investono almeno il 70% del portafoglio in titoli di Stato e obbligazioni denominate in yen, senza limiti di duration, di rating e di tipologia di emittente. Fondi obbligazionari Paesi emergenti. Investono in obbligazioni e titoli di Stato dei Paesi emergenti per almeno il 70%, senza limiti di duration, di rating, di valuta e di tipologia di emittente. Fondi obbligazionari altre specializzazioni (classe residuale). Investono solamente in obbligazioni e in titoli di Stato, con politiche di investimento specializzate in fattori di rischio e/o tecniche di gestione fissate nei regolamenti, che non sono rappresentate nelle altre tipologie obbligazionarie.

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Per quanto riguarda le categorie non specializzate, i fondi sono quelli elencati di seguito.

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Fondi obbligazionari misti. Sono gli unici obbligazionari che possono investire in azioni (fino al 20%), il resto in obbligazioni e titoli di Stato in qualunque divisa. Fondi obbligazionari flessibili. Sono caratterizzati da una politica di investimento obbligazionaria total return (a ritorno assoluto), ovvero senza alcun limite all’esposizione ai fattori di rischio caratteristici dell’investimento in strumenti obbligazionari. Fondi bilanciati

Investono in un mix di titoli di Stato, obbligazioni e azioni, in Italia e all’estero con un unico vincolo: la quota del portafoglio investita in azioni deve essere compresa tra il 10 e il 90%. Si adattano a chi vuol far crescere il capitale nel medio-lungo periodo (oltre 5 anni), con un rendimento potenzialmente superiore a quello degli obbligazionari e una volatilità ovviamente maggiore per via della componente azionaria. Sono divisi in tre categorie: bilanciati obbligazionari, bilanciati e bilanciati azionari a seconda del peso delle azioni in portafoglio (rispettivamente: 10-50%, 30-70% e 50-90%). Fondi azionari Investono prevalentemente (almeno il 70% del portafoglio) in azioni e sono adatti a soddisfare l’esigenza di chi vuole far crescere il capitale nel lungo periodo (7-10 anni e oltre). La rischiosità dei fondi azionari, in generale, cresce all’aumentare della specializzazione: i fondi diversificati su più Paesi sono quelli meno volatili. I fondi azionari sono divisi in 18 categorie, caratterizzate da un investimento principale – pari almeno al 70% del portafoglio con emittenti o specializzazioni definite dalle categorie – e da un investimento residuale pari al massimo al 30% del portafoglio in titoli obbligazionari di qualunque emittente e in liquidità nella valuta del mercato di riferimento oppure in euro.

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Fondi azionari Italia. Investono almeno il 70% in azioni italiane. Fondi azionari internazionali. Investono almeno il 70% in azioni internazionali. Fondi azionari area euro, Europa, Pacifico, America e Paesi emergenti. Investono almeno il 70% in azioni di Paesi europei, dell’area euro, dell’area del Pacifico, o dei Paesi nordamericani o dei Paesi emergenti.

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Fondi azionari Paese. Investono per almeno il 70% in azioni con emittente appartenente al Paese (o, se del caso, a un gruppo ristretto di Paesi) discrezionalmente definito nel regolamento. Fondi azionari settoriali (energia e materie prime, industria, beni di consumo, salute, finanza, informatica, servizi di telecomunicazione, pubblica utilità, altri settori). Investono per almeno il 70% in azioni di qualunque emittente, ma appartenenti a uno o più settori oppure (azionari altri settori) a una qualunque combinazione di due o più settori, come definito dal regolamento. Fondi azionari specializzati altre specializzazioni. Investono per almeno il 70% in azioni specializzate (per tipologia di aziende, criteri di responsabilità sociale e così via). Fondi flessibili

Non rientrano in alcuna delle precedenti categorie e investono senza restrizioni – secondo i criteri fissati dal regolamento – in liquidità, obbligazionario, azionario, euro e non euro a seconda delle aspettative del gestore. Su questi fondi, a differenza di tutti gli altri, non c’è obbligo di confronto con il parametro di riferimento (benchmark). Ulteriori segnalazioni previste da Assogestioni riguardano i fondi etici, indicizzati, a capitale protetto e a capitale garantito. I penultimi sono i prodotti che si propongono l’obiettivo di proteggere il capitale investito, i secondi quelli che garantiscono (con un contratto di assicurazione) il capitale stesso, a scadenze prefissate. In altre parole, i primi hanno un’obbligazione di mezzo, i secondi di risultato. Come operano i gestori L’attività dei gestori (di fondi comuni, ma anche di fondi pensione, di GPM, di polizze vita) si può dividere in tre parti: la prima e la più importante è l’asset allocation, ossia la ripartizione del portafoglio tra azioni e obbligazioni, Italia e altri Paesi, settori e categorie di titoli. A ognuna di queste componenti è assegnato un peso in portafoglio, che può variare in base alle aspettative del gestore sui mercati. Questa seconda attività è definita market timing e consiste appunto nella modifica delle quote iniziali del portafoglio allo scopo di sfruttare appieno andamenti prospettici favorevoli di particolari categorie di investimenti. La terza attività è lo stock picking, la selezione dei titoli da mettere in portafoglio, sulla base di valutazioni fondamentali (analisi patrimoniale e prospettive di crescita degli utili delle aziende).

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I FONDI TASSATI AL 20% (DA GENNAIO 2012) ■ Fondi non armonizzati di diritto italiano Fondi speculativi. Sono gli hedge fund di diritto italiano, gestiti da SGR ad hoc, che prevedono un taglio minimo di investimento di 500.000 euro. Il valore della quota, che cambia mensilmente, è pubblicato quotidianamente sul Sole 24 ORE in coda all’elenco dei fondi e delle SICAV di diritto italiano armonizzati. Gli hedge fund di diritto italiano sono per la quasi totalità fondi di fondi (e quindi meno volatili della media degli hedge fund) e solo una piccola parte single manager. Fondi riservati. Sono i fondi che non sono oggetto di sollecitazione del pubblico risparmio e sono sottoscritti da particolari categorie di investitori (per esempio, fondi destinati a investitori istituzionali). Il valore della quota di alcuni fondi riservati è pubblicato sul Sole 24 ORE. ■ Fondi di fondi Sono fondi che investono in altri fondi comuni, dello stesso gestore (monomarca) o selezionandoli tra quelli disponibili sul mercato (multimanager o multimarca). Il valore della quota è pubblicato quotidianamente sul Sole 24 ORE insieme a quello degli altri fondi di diritto italiano. ■ SICAV (di diritto italiano ed estero) Acronimo di società di investimento a capitale variabile. Il loro funzionamento è del tutto analogo a quello dei fondi comuni, con la differenza che la partecipazione all’investimento è rappresentata da azioni e non da quote. Come per tutte le società, è quindi previsto il diritto di voto nelle assemblee in capo all’investitore. ■ ETF armonizzati Gli ETF (exchange traded fund) sono OICR emessi da banche e altri intermediari finanziari che replicano fedelmente l’andamento di indici dei mercati azionari e obbligazionari. I primi ETF armonizzati sono stati quotati alla Borsa italiana il 30 settembre 2002. I proventi degli ETF armonizzati sono tassati al 20% dal 1° gennaio 2012 (in precedenza al 12,50%). Questi strumenti, negoziabili come le azioni, consentono di prendere posizioni sui mercati finanziari a costi decisamente inferiori a quelli dei fondi comuni. Esistono ETF azionari e obbligazionari, specializzati per settori e aree geografiche con modalità di replica degli indici totalmente passiva o quantitativa (per esempio, selezionando in automatico le azioni ad alto dividendo). Gli ETC (exchange traded commodities) funzionano come gli ETF, ma a differenza di questi non sono OICR: si tratta di titoli senza scadenza che hanno come sottostante materie prime fisiche (per esempio i lingotti d’oro) o contratti derivati sulle materie prime. ETF ed ETC sono trattati al mercato EtfPlus della Borsa italiana, che pubblica anche l’aggiornamento quotidiano dei loro NAV o valori ufficiali.

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Il confronto con i benchmark Dal 2000 i gestori di fondi comuni di diritto italiano, fatta eccezione per i fondi flessibili e per i fondi a obiettivo di rendimento o a gestione protetta, hanno l’obbligo di confrontare le performance con un parametro di riferimento (benchmark) nell’informativa al pubblico. Il parametro è rappresentativo del profilo rischio/rendimento atteso per il fondo e in ultima analisi dei mercati in cui è investito il patrimonio (per esempio, viene utilizzato l’indice Comit per i fondi azionari Italia, l’S&P500 per gli azionari America, e così via). Il confronto fra il rendimento di un fondo comune e quello di un indice di mercato, pur con tutti i limiti del caso, è un modo per valutare la gestione. Restando fra i fondi di diritto italiano, a luglio 2011, un fondo azionario internazionale su 23 aveva battuto l’indice MSCI World in euro a dieci anni con dividendi reinvestiti (che però non tiene conto delle imposte pagate dal fondo). A cinque anni, 1 su 30. Alla stessa data, 3 fondi azionari Europa su 21 avevano battuto l’indice MSCI Europe a dieci anni. A cinque anni, 3 su 35. Nell’obbligazionario euro breve termine, nessun fondo italiano aveva battuto alla stessa data l’indice JPMorgan GBI EMU a tre, cinque e dieci anni. In breve Perché l’asset allocation è un’attività così più importante? Perché studi fatti in America sui fondi pensione (realizzati dalla Ibbotson di Chicago) arrivano alla conclusione che su archi temporali sufficientemente estesi (da 10 anni in su) il rendimento finale di un portafoglio è dovuto per il 91% all’asset allocation, e solamente per il restante 9% al market timing e allo stock picking.

Se adottiamo come “benchmark dei benchmark” i risultati ottenuti dai gestori USA – il mercato più evoluto del mondo – scopriamo che non sono affatto meglio di quelli dei gestori italiani quanto a performance rispetto ai benchmark (si ricordi che le performance dei fondi comuni USA sono al lordo delle imposte, a differenza di quelli italiani fino al 1° luglio 2011). Eppure decine di milioni di famiglie americane possiedono quote di fondi comuni: dal gennaio 1972 al dicembre 2006 solo 48 fondi azionari su 138 (meno del 40%) hanno battuto l’indice Wilshire 5000, rappresentativo di tutto l’universo dei titoli quotati. Per contro, il 53% dei fondi ha reso meno dell’indice di almeno 2 punti all’anno. Ma si tratta di dati che sovrastimano la realtà, perché non tengono conto dei fondi che spariscono dalla circolazione (solitamente per via delle cattive performance). Si può concludere che la legge del benchmark è assai dura da rispettare al di qua e al di là dell’Atlantico.

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Plus24, i fondi comuni e gli ETF Oltre alle pagine sui fondi comuni presenti tutti i giorni nell’inserto “Finanza & Mercati”, ogni settimana “Plus24” dedica numerose pagine al risparmio gestito, ai fondi e agli ETF.

La tabella su SICAV e fondi esteri autorizzati riporta la variazione a un anno e i rendimenti a 3 e 5 anni, nonché il rating attribuito al fondo da CFS. Nella pagina di apertura della sezione “Indici e Numeri” vengono invece illustrate le performance dei fondi italiani a un mese, da inizio anno e da un anno.

“La top 100 dei fondi esteri” è la classifica delle migliori performance lorde a 10 anni di un ampio universo di fondi internazionali, armonizzati e non.

In “Fondi comuni a confronto” vengono pubblicati performance e rating dei fondi comuni di diritto italiano e di un’ampia selezione di fondi esteri armonizzati.

Una tabella è dedicata agli ETF, i titoli che replicano gli indici. Viene riportato anche il rating di Consultique, SIM di consulenza indipendente.

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Perché i gestori di tutto il mondo fanno molta fatica a battere gli indici di mercato in modo consistente? Oltre alle imposte, ai costi a carico del fondo (oneri di negoziazione, di certificazione, commissioni alla banca depositaria, e così via), alle commissioni di gestione (in media un totale del 2,5% all’anno), occorre ricordare che i gestori competono con altri gestori con capacità uguali o superiori di stock picking, ed è impossibile che ogni gestore batta la media. Inoltre, la gestione attiva lascia un grado troppo elevato di libertà e può condurre a volte a scelte contraddittorie. L’indicizzazione (o gestione passiva) funziona perché non è altro che una disciplinata, rigida scommessa su poche azioni a grande capitalizzazione, senza mai cambiare idea. È ovvio che, a parità di altre condizioni, un fondo comune a gestione passiva (indicizzato) deve costare meno di uno a gestione attiva. Soprattutto è importante che, all’atto della sottoscrizione, il risparmiatore venga informato del fatto che il fondo è eventualmente indicizzato. La qualità della gestione di un fondo può essere facilmente identificata con il rating (da 1 a 5 stelle) pubblicato tutti i sabati su “Plus24”. Il rating è assegnato sulla base di due indicatori: il rapporto rendimento/rischio (indice di Sharpe) e la capacità di battere sistematicamente il benchmark (alpha). Sottoscrizione e trattamento fiscale I fondi comuni possono essere sottoscritti presso gli sportelli bancari e dai promotori finanziari delle SIM o delle banche autorizzate all’offerta fuori sede (anche a domicilio dei risparmiatori). Diversi fondi sono sottoscrivibili anche via internet, presso i siti web delle SGR o dei broker on line. Alcuni fondi sono distribuiti prevalentemente tramite banche, altri da reti di promotori, altri ancora da un misto dei due. Diverse banche tradizionali collocano ai propri sportelli solamente i fondi comuni della SGR del gruppo (reti monomarca), mentre esiste un numero crescente di intermediari che consente la sottoscrizione di fondi di una pluralità di case di gestione (reti multimarca). Si tratta delle divisioni on line delle banche tradizionali, della maggior parte dei network di promotori fi-

In breve Cugine dei fondi comuni sono le SICAV (società di investimento a capitale variabile), il cui funzionamento è del tutto analogo ai primi: le SICAV, però, prevedono il diritto di voto per i sottoscrittori delle quote nelle assemblee delle società. Fondi comuni e SICAV, assieme a fondi mobiliari e immobiliari chiusi ed ETF, si definiscono OICR (Organismi di investimento collettivo del risparmio).

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nanziari e dei broker on line. La distribuzione multimarca consente di selezionare i migliori fondi e gestori per ciascuna asset class, minimizzando i costi di transazione e informativi. I proventi dei fondi di diritto italiano (plusvalenze ed eventuali proventi distribuiti) sono erogati ai sottoscrittori al netto della ritenuta del 20% dal 1° gennaio 2012 (in precedenza 12,50%), e non è previsto alcun obbligo di dichiarazione nel modello Unico. Dal 1° luglio 2011 questa ritenuta viene applicata per cassa (anziché per competenza come accadeva in precedenza) anche per i fondi di diritto italiani e per i fondi lussemburghesi “storici”, come accade da sempre per i fondi di diritto estero. La quota dei portafogli dei fondi investita in titoli di Stato o equiparati continua a scontare la tassazione al 12,50%. I costi dei fondi comuni

Costi a carico del sottoscrittore Rientrano in questa categoria le commissioni di ingresso e di uscita, quando previste. Generalmente vanno a remunerare l’attività dei collocatori dei fondi e variano proporzionalmente al capitale investito, con un meccanismo a scaglioni. I prodotti che non contemplano commissioni di ingresso e di uscita si definiscono no-load. I costi a carico del sottoscrittore non vanno a ridurre il valore della quota, ma incidono sul suo rendimento effettivo. Le società di gestione possono indicare nei prospetti delle commissioni di ingresso massime, e lasciarne poi la determinazione alla trattativa tra collocatore e sottoscrittore. Costi a carico del fondo Rientrano in questa categoria le commissioni di gestione, di incentivo e altre voci (oneri di banca depositaria, spese di certificazione, commissioni di trading dei titoli nel portafoglio del fondo) che riducono il valore della quota e quindi incidono negativamente sulla performance. La commissione di gestione È divisa in due parti: la prima, spesso preponderante, va a remunerare l’attività di collocamento. La seconda rappresenta l’effettivo compenso per l’attività di gestione. La commissione di incentivo invece scatta quando la performance del fondo in un dato periodo temporale è superiore a un parametro fissato nel prospetto, che può essere diverso dal benchmark dichiarato. In base alla regolamentazione Consob, nel prospetto informativo devono essere pubblicati, oltre ai vari livelli commissionali, la quota di commissioni di gestione che viene retrocessa ai collocatori e il TER (total expenses ratio), che è

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un indicatore sintetico dei costi totali annui sostenuti dal fondo, in percentuale sul patrimonio. La direttiva Mifid su mercati e servizi di investimento ha introdotto delle limitazioni alla retrocessione delle commissioni di gestione ai collocatori dei fondi, subordinandole all’accrescimento della qualità del servizio fornito ai clienti. Nelle sue raccomandazioni operative, il CESR, il Comitato europeo dei regulator dei servizi finanziari, ha fissato i criteri in base ai quali le società di gestione possono continuare a retrocedere ai collocatori le commissioni percepite. I piani di accumulo Oltre al versamento in un’unica soluzione, i fondi comuni possono essere nella maggior parte dei casi sottoscritti con piani d’accumulo (PAC). Questa formula prevede il versamento di un importo fisso o variabile, a cadenza periodica (mensile, trimestrale, e così via) e per un periodo di tempo prolungato: 5, 10 e 15 anni. I PAC hanno il vantaggio di consentire il frazionamento del risparmio: anche con piccole somme è possibile accedere a una gestione professionale. Inoltre danno la possibilità di acquistare quote di un fondo a prezzi diversi, evitando il rischio di effettuare per intero il proprio investimento quando il valore della quota è a un massimo. Il costo di questo servizio di solito non si differenzia molto da quello del versamento in un’unica soluzione. Infatti, la commissione d’ingresso complessivamente pagata su tutte le rate versate corrisponde a quella dello scaglione del versamento unico. Chi ha un piano d’accumulo può in qualsiasi momento sospenderlo, integrarlo, richiedere rimborsi anche parziali. Possono esistere però delle penalizzazioni. Infatti, per scoraggiare l’interruzione del piano, le commissioni sono solitamente più elevate sui primi versamenti. Bisogna anche fare attenzione ai costi fissi che gravano sui versamenti: talvolta rendono non conveniente il versamento di piccole cifre come 100 euro al mese. In questi casi, è meglio optare per versamenti trimestrali o semestrali. Come si comportano le società di gestione La tendenza tra le società di gestione è quella di offrire famiglie di fondi (o servizi ombrello): all’interno di una famiglia, il passaggio da un fondo a un altro (switch) avviene senza sostenere spese aggiuntive o affrontando spese ridotte, mentre i versamenti successivi al primo possono godere del beneficio d’accumulo (il calcolo delle commissioni di ingresso viene effettuato sulla base dell’aliquota corrispondente alla somma del nuovo investimento con quelli effettuati in precedenza nel fondo stesso o in altri appartenenti alla stessa famiglia). Il disinvestimento dal fondo può essere spesso realizzato utilizzando il rim-

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borso programmato, ossia con il pagamento di una rendita finanziaria costituita da una somma più o meno costante di denaro. In alcuni fondi (tipicamente obbligazionari) una o più volte all’anno gli utili realizzati dalla gestione vengono versati al sottoscrittore (fondi a distribuzione dei proventi). Questi strumenti si adattano a quei risparmiatori che hanno bisogno di fruire di una rendita periodica per integrare i propri redditi. Il provento dei fondi, quando è distribuito, è però incerto nell’ammontare, perché è solitamente pari alla somma delle cedole incassate dal fondo sui titoli in portafoglio con le plusvalenze effettivamente realizzate. La maggior parte dei fondi, tuttavia, non prevede la modalità di distribuzione dei proventi (fondi ad accumulazione dei proventi). I prodotti esteri Oltre ai fondi e alle SICAV di diritto italiano e ai fondi lussemburghesi “storici”, i risparmiatori possono scegliere anche tra i fondi e le SICAV estere armonizzate (ossia che rispettano la regolamentazione in materia dell’Unione europea)

GLI HEDGE FUND E IL PRIVATE EQUITY Gli hedge fund sono veicoli di investimento che raccolgono capitali in forma privata, ossia senza essere sottoposti alla disciplina sulla sollecitazione vigente nei principali Paesi occidentali, per investirli sui mercati con la più ampia flessibilità: possono assumere posizioni lunghe e corte, utilizzare derivati a scopi speculativi, e indebitarsi per aumentare la propria esposizione su determinati strumenti finanziari. In realtà, gli hedge fund si specializzano tendenzialmente in determinate strategie e utilizzano solamente una parte degli strumenti a loro disposizione. Sono generalmente fondi aperti, quindi consentono ai loro sottoscrittori di chiedere il rimborso delle quote su determinate scadenze (per esempio ogni fine mese). La loro operatività ha assunto una crescente importanza sui mercati, conferendo liquidità agli scambi, ma anche generando risultati controversi sulla stabilità degli stessi. Nel 2007 si contavano nel mondo qualche migliaio di hedge fund, con un patrimonio gestito di 1.500 miliardi di dollari. Due terzi degli attivi sono in realtà gestiti dai primi 100 hedge fund. Il patrimonio degli hedge fund e il numero degli operatori si sono considerevolmente ridotti per effetto della grande crisi del 2008, che ha colto di sorpresa numerosi gestori che avevano puntato su attività e strategie sulle quali è improvvisamente mancata la liquidità. Il private equity è invece l’attività dei veicoli di investimento che acquistano partecipazioni in imprese principalmente non quotate (ma anche quotate)

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collocate in Italia. In totale, Assogestioni ha censito (luglio 2011) 3.883 fondi e SICAV distribuite in Italia. In base alla direttiva UCITS IV, dal 1° luglio 2011 i fondi comuni autorizzati in uno Stato membro possono essere gestiti da una SGR insediata in un altro Stato membro e da questo autorizzata, purché siano soddisfatti alcuni requisiti. I fondi armonizzati autorizzati in uno Stato membro possono essere collocati in un altro Stato membro con una semplice comunicazione tra le autorità di vigilanza dei rispettivi Paesi. La direttiva prevede anche che il collocamento dei fondi sia accompagnato dal KIID (key investor information document), un breve documento che deve consentire all’investitore un agevole confronto, soprattutto su costi e profili di rischio (si veda anche il capitolo 6). Fino al 1° luglio 2011 la quota degli OICR italiani e lussemburghesi storici è stata calcolata sempre al netto delle imposte. Ciò suggerisce che le performance degli OICR italiani e lussemburghesi storici, per essere confrontate con quelle degli esteri, debbano essere aggiustate per tener conto del diverso trattamento fiscale.

con le modalità dei fondi chiusi. Pertanto, il rimborso delle quote ai sottoscrittori è possibile solamente alla scadenza del fondo (quindi a 5-10 anni dall’avvio). Spesso però le quote dei fondi chiusi sono trattate su mercati più o meno regolamentati, consentendo ai sottoscrittori di liquidare il proprio investimento prima della scadenza. Il prezzo al quale vengono trattate queste quote è nella maggior parte dei casi diverso dal valore contabile (net asset value, NAV, o patrimonio netto), che viene aggiornato su base semestrale o trimestrale. Tipicamente i fondi chiusi quotano a sconto rispetto al NAV, un fenomeno che è spiegato dalla bassa liquidabilità delle quote e dall’incertezza che caratterizza le valutazioni contabili delle partecipazioni del fondo. I veicoli di private equity si dividono principalmente in fondi di buy-out, che comprano partecipazioni in aziende già operative per valorizzarle e rivenderle successivamente, e fondi di venture capital, che finanziano l’attività delle imprese in fase di avvio (start-up). La quotazione in Borsa delle imprese partecipate è una delle modalità più tipiche di cessione delle partecipazioni dei fondi di private equity. Gli hedge fund e i fondi di private equity, insieme ai fondi immobiliari, appartengono all’area dei cosiddetti investimenti alternativi. Strumenti che mirano a generare rendimenti non correlati con quelli dei mercati tradizionali, anche se sovente caratterizzati da rischi elevati.

332 . FINANZA E MERCATI

Come accade per i fondi italiani, anche negli OICR esteri il risparmiatore è poi tenuto a pagare commissioni (di ingresso e di gestione) che variano a seconda della società di gestione e del patrimonio investito. Occorre, inoltre, tenere conto del cambio applicato, che può essere più o meno sfavorevole rispetto a quello indicativo della Banca d’Italia relativo al giorno dell’operazione. Anche per i prodotti esteri autorizzati, la vendita (affidata sempre a banche e SIM) deve essere accompagnata dal prospetto informativo. Il passaggio tra i vari comparti che compongono le SICAV (switch) è spesso gratuito, o quanto meno agevolato. Va ricordato che dal 1° luglio 2011 gli switch tra comparti di fondi e SICAV assumono rilevanza fiscale: ovvero, prima di essere reinvestite, le somme disinvestite sono soggette a tassazione. La normativa europea UCITS III, recepita nei regolamenti della Banca d’Italia, ha introdotto per i fondi comuni e le SICAV armonizzate la possibilità di investire in una gamma più ampia di asset class, ivi compresi gli hedge fund, i derivati e i depositi bancari, entro certi limiti. Queste possibilità sono state sfruttate soprattutto da fondi flessibili che hanno l’obiettivo di generare rendimenti non correlati ai mercati azionari e obbligazionari. I fondi esteri non armonizzati I fondi esteri non armonizzati (ossia non conformi alle direttive UE) possono essere sottoscritti liberamente dagli investitori italiani. Anche i proventi dei fondi non armonizzati sono tassati al 12,50% dal 1° luglio 2011 (al 20% dal 1° gennaio 2012).

Le gestioni patrimoniali Se il risparmiatore ha la fortuna di possedere già un discreto gruzzolo da parte (sopra i 500.000 euro, per intendersi) e il bisogno da soddisfare è la crescita del capitale nel medio-lungo periodo, può scegliere una gestione di patrimoni mobiliari (GPM). Come funzionano Nelle GPM il gestore costruisce un portafoglio personalizzato con il grado di rischio desiderato. Il rapporto è basato su un mandato che il cliente conferisce all’intermediario (banca, SIM o SGR), che ha l’obbligo di fornire un rendiconto su base trimestrale. Il collocamento dei servizi di gestione patrimoniale offerti dalle SIM è accompagnato dalla presentazione del prospetto informativo, sul quale sono evidenziati i costi, le politiche di investimento e gli azionisti della società. SGR, SIM e banche offrono quasi sempre linee di investimento già predefinite,

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all’interno delle quali, però, vale sempre il principio della personalizzazione e del rapporto diretto con il gestore. Punto, questo, qualificante delle gestioni patrimoniali rispetto ai fondi comuni. Una gestione redditizia ma efficace soprattutto dal punto di vista della diversificazione del rischio richiede un capitale consistente. I fondi comuni, le polizze vita e i fondi pensione forniscono, invece, un maggior grado di diversificazione anche con piccole cifre. Inoltre, i fondi comuni hanno dalla loro una maggiore trasparenza, visto che la valorizzazione della quota viene pubblicata tutti i giorni sui quotidiani permettendo da una parte di controllare con continuità l’andamento del proprio investimento e dall’altra di confrontare i gestori. Al di sotto dei 500.000 euro è difficile ottenere una diversificazione accettabile con un servizio di gestione patrimoniale. In passato il problema veniva risolto sottoscrivendo le gestioni di quote di fondi comuni (GPF), in cui il sottostante è rappresentato da fondi invece che da titoli. Tuttavia, con il recepimento della direttiva Mifid nel 2007 e il conseguente divieto in capo ai gestori di patrimoni individuali di ricevere retrocessioni di commissioni dalle società di gestione dei fondi sottostanti, le GPF sono diventate servizi poco convenienti per l’offerta. I clienti sono stati così dirottati su altri strumenti di investimento. Il private banking Il private banking è l’evoluzione delle gestioni patrimoniali: un servizio di gestione individuale di patrimoni familiari di grandi dimensioni (qualche milione di euro) a elevato valore aggiunto. La possibilità di intervento dell’investitore nelle scelte del gestore è ovviamente amplificata. Alla semplice gestione, inoltre, si affianca un servizio di consulenza legale e tributaria in grado di pianificare sul piano fiscale ed ereditario l’intero patrimonio finanziario della famiglia. Il servizio di private banking si può estendere anche al patrimonio immobiliare di una famiglia e agli oggetti di valore (beni d’arte ecc.).

Le polizze vita Le polizze vita sono strumenti che assicurano la disponibilità di un capitale o di una rendita fra un certo numero di anni. Sono contratti emessi dalle compagnie di assicurazioni autorizzate all’esercizio del ramo vita, iscritte a un apposito Albo. A partire dal 2007, la vigilanza sulla trasparenza delle polizze vita finanziarie spetta alla Consob, quella sulla stabilità all’ISVAP. Tre diverse formule Tre sono le formule delle polizze vita: miste, di capitale, di rendita.

334 . FINANZA E MERCATI

La polizza mista offre una rendita vitalizia (o un capitale) nel caso in cui l’assicurato sia in vita alla scadenza del contratto. In più, garantisce una tutela economica della famiglia dell’assicurato nel caso della sua scomparsa. Questa polizza si rivolge a chi ha dei figli e, in famiglia, è il principale produttore di reddito. Non dovrebbe essere sottoscritta da un single, da una coppia senza figli in cui entrambi i coniugi lavorano, da una coppia con figli grandi o con altre fonti di reddito. In tutte queste situazioni, la formula più adatta dovrebbe invece essere la rendita differita, in cui tutti i versamenti effettuati vanno a costituire la pensione futura, che sarà quindi più elevata. Assicurare un capitale in caso di morte ai propri eredi ha infatti un costo. In una polizza mista una parte del versamento viene sottratta per la copertura caso morte. La terza alternativa è la polizza di capitale differito. Può optare per questa scelta chi è interessato alla crescita del capitale per scopi previdenziali o altro (acquisto abitazione, scuola dei figli) diversificando i propri investimenti e godendo di benefici fiscali. Anche la polizza di capitale concede la possibilità di ricevere una rendita a scadenza. Ma, a parità di condizioni, per i meccanismi delle polizze vita, la rendita ottenibile da una polizza di “rendita” è più elevata di quella che si riceve con una polizza di capitale. È meglio avere le idee chiare fin dall’inizio. Le polizze a prestazioni rivalutabili La maggior parte delle polizze rientra in una tipologia denominata “a prestazioni rivalutabili”. I versamenti effettuati (che nelle polizze vita si definiscono premi) per una polizza di questo tipo confluiscono in una gestione speciale, che investe prevalentemente in titoli di Stato: ogni anno il 75-95% (aliquota di retrocessione) del rendimento ottenuto dalla gestione speciale va a rivalutare i premi versati. Nelle polizze vita collettive (quelle sottoscritte, per esempio, da aziende a favore dei propri dipendenti), le percentuali di retrocessione sono solitamente più generose: in assicurazione vale, infatti, il principio che l’unione fa la forza. Il patrimonio della gestione speciale entra in ogni caso nell’attivo di bilancio della compagnia. Sottoscrizione e costi Le polizze vita possono essere sottoscritte presso gli agenti di assicurazione e loro collaboratori, gli sportelli bancari e i promotori finanziari di banche e SIM. In base al Codice delle Assicurazioni del 2005, tutti i soggetti che collocano polizze devono essere iscritti a un apposito registro (il RIA, Registro degli intermediari assicurativi) per il quale sono fissati requisiti minimi di professionalità e norme di comportamento. Il rendimento minimo garantito di solito dalle polizze non supera il 2% (tasso tecnico). Il semplice confronto dei rendimenti (tenuto conto della percentuale di retrocessione) ottenuti dalle gestioni speciali può essere però fuorvian-

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LE SOLUZIONI ASSICURATIVE AI RAGGI X Prodotto

Definizione

Prodotto

Definizione

Vita intera

Prevede l’erogazione di Rendita immediata un capitale in qualunque o differita a momento avvenga il de- premio unico1/2 cesso dell’assicurato. Può essere stipulata mediante un unico versamento, o con un certo numero di versamenti

Il premio, in genere di una certa consistenza, viene versato in un’unica soluzione e “immediatamente” o dopo un determinato numero di anni (differimento), la compagnia eroga all’assicurato una rendita, finché questo rimane in vita

Temporanea caso morte

Assicura un capitale al Capitalizzazione beneficiario (figli, co- e capitale differito niuge, convivente ecc.) a premio unico1 in caso di decesso dell’assicurato, se questo si verifica nell’arco della durata contrattuale

Prevede la costituzione di un capitale liquidabile alla scadenza del contratto. Il premio viene corrisposto in un’unica soluzione al momento della sottoscrizione

Rendita differita a premi annui, oppure unici ricorrenti1/2

Con più versamenti consente di ottenere, dopo un certo numero di anni, una rendita vitalizia che si rivaluta ogni anno in base a un tasso di rivalutazione stabilito dalla compagnia

In caso di sopravvivenza dell’assicurato alla scadenza del contratto, viene prevista l’erogazione di una rendita vita natural durante (o di un capitale); in caso di premorienza, il pagamento di un capitale ai beneficiari

Capitale differito, capitalizzazione a premi annui, oppure unici ricorrenti1

Mediante versamenti ripetuti nel tempo prevede la costituzione di un capitale liquidabile alla scadenza del contratto (se l’assicurato è in vita per le polizze a capitale differito)

Polizza vita mista a premi annui, oppure unici ricorrenti

1

Le polizze di rendita o di capitale prevedono di solito la controassicurazione, ossia la restituzione dei premi netti investiti rivalutati in caso di decesso dell’assicurato durante la durata del contratto. 2 La rendita può essere vitalizia (erogata per tutta la vita), reversibile (garantisce il trasferimento della rendita a un’altra persona, qualora l’assicurato deceda) o certa per 5 o 10 anni (per esempio, se l’assicurato decede dopo 3 anni, la rendita viene erogata per la residua durata, 2 o 7 anni, al beneficiario). Dopo il periodo di rendita certa, la rendita ritorna vitalizia.

te. Bisogna valutare anche i costi della polizza, in primis il caricamento, che è quella parte di premio che va direttamente nelle casse della compagnia, per coprire le spese generali e di vendita. I caricamenti e la percentuale di rendimento che non viene retrocessa rappresentano i costi della polizza. Le norme sulla

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In breve I punti qualificanti delle polizze vita rivalutabili rispetto ai piani di accumulazione dei fondi comuni sono due: il consolidamento delle prestazioni e il rendimento minimo garantito. Il primo consiste nel fatto che la rivalutazione ottenuta ogni anno viene garantita ai sottoscrittori e non può essere intaccata da eventuali perdite che dovessero essere conseguite negli anni successivi. Il capitale versato più il rendimento costituiscono la base di partenza per il calcolo delle successive rivalutazioni. Il consolidamento riduce l’effetto dell’oscillazione dei mercati finanziari.

trasparenza prevedono che nella nota informativa, oltre al dettaglio dei caricamenti e degli altri oneri, venga esplicitato il costo percentuale medio annuo o ISC (indicatore sintetico di costo), che esprime la riduzione del rendimento per effetto dei costi totali che gravano sulla polizza su diversi orizzonti temporali (5, 10, 20, 30 anni). Premi Le polizze vita di solito vengono sottoscritte sotto forma di piano d’accumulo, ossia con una serie di versamenti annuali, mensili, trimestrali, e così via. I versamenti (premi) possono essere costanti o crescenti nel tempo. I primi consentono una pianificazione finanziaria dei propri risparmi, mentre i versamenti crescenti hanno il vantaggio di tenere il passo con l’inflazione. Le polizze possono anche essere a premi unici, ossia non prevedere piani d’accumulo, ma solo versamenti una tantum. Queste ultime hanno costi (caricamenti) inferiori alle polizze tradizionali a premio annuo. La scelta ottimale, al fine di minimizzare i costi, dovrebbe ricadere sulle polizze a premi unici ricorrenti, ossia una serie di premi unici che si susseguono in modo da creare un piano d’accumulo. Le polizze dell’ultima generazione sono anche più flessibili rispetto a quelle tradizionali: il contratto può essere sospeso o si può chiedere il riscatto del capitale dopo un solo anno. I contratti tradizionali prevedono la possibilità di riscatto dopo tre anni. Occorre sempre valutare le condizioni del riscatto, che generalmente nei primi anni non sono in ogni caso convenienti. Capitale o rendita? Alla scadenza del contratto, le polizze vita prevedono l’erogazione di un capitale o di una rendita. La rendita è una somma di denaro crescente nel tempo in termini nominali che viene pagata annualmente o mensilmente vita natural durante.

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GLI ASPETTI FISCALI DELLE POLIZZE VITA Dal punto di vista fiscale, le polizze vita sottoscritte a partire dal 1° gennaio 2001 si dividono in: a) polizze a contenuto previdenziale (FIP o PIP, forme o piani di investimento previdenziale); b) polizze a contenuto finanziario; c) “polizze assicurative”, così chiamate perché destinate specificatamente alla copertura di rischi attuariali (morte, invalidità, perdita di autosufficienza). Le polizze a) sono rivolte prevalentemente ai lavoratori autonomi, in alternativa ai fondi pensione aperti (per i dipendenti ci sono i fondi pensione di categoria); godono dello stesso trattamento fiscale dei fondi pensione, cioè deducibilità parziale dei versamenti, tassazione dei redditi del fondo all’11% e agevolazioni per la fruizione delle prestazioni (capitale, ma soprattutto rendita). Tuttavia, per fruire di questi vantaggi fiscali, bisogna essere certi di puntare a un investimento previdenziale, cioè liquidabile solamente quando si andrà in pensione. Le polizze b) sono invece sottoscrivibili da chiunque, non godono di alcuna deducibilità in sede di versamento e sono tassate al 20% dal 1° gennaio 2012 (in precedenza al 12,50%). Le prestazioni (capitale o rendita senza limiti) non devono scontare un’ulteriore tassazione. Le polizze c) e quelle b) sottoscritte fino al 31 dicembre 2000 continuano invece a godere del trattamento fiscale previgente: detraibilità al 19% del premio con tetto massimo di 1.291,14 euro (pari ai precedenti 2,5 milioni l’anno), ritenuta del 12,50% sulla differenza tra capitale riscosso e premi versati (con riduzioni per ogni anno di durata superiore al decimo).

Il vantaggio di una rendita assicurativa è quello di offrire la certezza di una somma di denaro sempre crescente per tutta la vita. Lo svantaggio è quello di non poter cambiare idea: una volta scelta la rendita, il capitale non è più disponibile, neanche per gli eredi (è possibile però, a un costo aggiuntivo, la reversibilità della rendita: il che significa che quest’ultima verrà incassata dagli eredi, in caso di scomparsa del primo beneficiario). Le capitalizzazioni sono contratti esclusivamente finanziari, in cui non è prevista alcuna componente legata alla vita umana (possono essere quindi sottoscritte anche da imprese), ma restano prerogativa delle compagnie di assicurazioni, in quanto possono prevedere il rendimento minimo garantito e il consolidamento delle prestazioni. A fronte di un versamento unico (singolo o ricorrente), viene erogato dopo un certo numero di anni un capitale rivalutato.

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Index e unit linked In Italia sono state introdotte negli anni Novanta, mettendo a segno in tempi brevi tassi di crescita molto elevati. Si tratta dei prodotti del ramo III, noti come unit linked e index linked. Più che di prodotti con finalità previdenziali, sono strumenti con i quali è possibile diversificare i propri investimenti, ma meno trasparenti e più costosi dei fondi comuni con i quali dal 2001 condividono lo stesso trattamento fiscale. Dal 2007 la vigilanza sulla trasparenza dei prodotti è passata alla Consob.

Unit linked A questa categoria appartengono le polizze a premio unico i cui premi sono convertiti in quote di uno o più fondi comuni di investimento. Il cliente può scegliere in base alla propria età, alla propensione al rischio e alle disponibilità economiche e può anche modificare, durante la vita del contratto, il suo mix di portafoglio e le condizioni contrattuali. La prestazione garantita da una polizza unit linked è data dalla moltiplicazione del numero di quote del fondo per il valore unitario del fondo stesso al momento della scadenza del contratto. Attenzione, però: rendimento minimo garantito e consolidamento delle prestazioni non sono previsti da questo tipo di contratti assicurativi, che spesso si caratterizzano per una forte componente azionaria, bilanciata e flessibile e, pertanto, espongono i sottoscrittori a tutti i rischi di un investimento finanziario. Index linked Le prestazioni sono correlate all’andamento di uno o più indici delle Borse mondiali oppure a panieri di azioni (equity linked). Sono sottoscrivibili entro una certa scadenza e il premio va versato in un’unica soluzione; in genere hanno una durata tra i cinque e gli otto anni. Alla scadenza del contratto, se l’indice o gli indici di riferimento hanno avuto un andamento positivo, il capitale versato sarà proporzionalmente maggiorato; in caso contrario, il capitale nominale versato viene comunque garantito o elevato in base al rendimento minimo previsto. Ogni giorno sul Sole 24 ORE viene pubblicato il valore delle quote di un vasto numero di fondi sottostanti le polizze unit linked e delle obbligazioni (con relativo rating) sottostanti le polizze index linked. Per i prodotti collocati dal 2009 in poi, l’ISVAP ha imposto alle compagnie di garantire in ogni caso anche le polizze indicizzate che hanno come sottostante un’obbligazione emessa da soggetti terzi.

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Previdenza e fondi pensione Con il tramonto del welfare state, e con esso del sogno di uno Stato che garantisce tutto a tutti, una vasta serie di bisogni finanziari della famiglia (previdenza in primis, ma anche assistenza sanitaria, copertura delle spese scolastiche e così via) viene sempre meno soddisfatta dal sistema pubblico: sempre più spesso grava direttamente sulle spalle del privato. I cittadini possono però risolvere ugualmente queste fondamentali esigenze, utilizzando in prima battuta strumenti collettivi e in subordine formule individuali. Casse collettive per finanziare la pensione Nell’ambito del finanziamento delle prestazioni previdenziali, che saranno garantite in misura sempre minore dallo Stato, il ruolo di primo piano è rappresentato dai fondi pensione: nelle economie più avanzate, dove il modello del welfare state è stato da tempo ridimensionato, questi strumenti hanno raggiunto lo scopo prefissato in modo efficace. Non solo: i fondi pensione, in quanto grandi investitori istituzionali orientati al lungo periodo, hanno dato una spinta notevole alla crescita dei mercati finanziari. Nella funzione di integrazione della previdenza pubblica, a fianco dei fondi pensione si collocano i prodotti individuali: le polizze vita tipicamente, ma anche i piani di accumulazione in fondi comuni. I fondi pensione sono il principale strumento di previdenza integrativa aziendale o collettiva, e rappresentano il secondo pilastro del sistema pensionistico (il primo è la copertura pubblica, il terzo è dato dai piani individuali: polizze vita e piani di accumulazione in fondi comuni). Lo scopo di un fondo pensione è quello di erogare prestazioni previdenziali (principalmente sotto forma di rendite vitalizie da pagarsi in quiescenza) a col-

UNO STATO SOCIALE RIDOTTO Perché il welfare state va ridimensionato? Semplicemente perché è diventato troppo sproporzionato in relazione alle risorse che il sistema economico può trasferirvi. Nell’ambito previdenziale, l’errore è stato quello di aver preteso di garantire a tutti, indiscriminatamente, pensioni largamente sproporzionate rispetto ai contributi versati. Il risultato è che a fronte di fasce di cittadini che vivono di pensioni da fame (e anche qui sta uno degli insuccessi del sistema), la maggior parte dei pensionati non si può certo lamentare dell’ammontare delle rendite pubbliche, se si tiene conto dei contributi versati: ma, per ottenere questo risultato, le generazioni più giovani sono state caricate di un debito che rischia di schiacciarle.

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lettività di persone appartenenti alla stessa azienda, a gruppi di aziende, o a una categoria professionale. In quanto strumenti collettivi, la costituzione e l’esercizio dei fondi pensione chiusi (definiti anche negoziali) non sono frutto dell’iniziativa dei singoli, ma devono essere promossi da imprenditori, sindacati, associazioni e categorie di lavoratori. Il fondo è alimentato dal versamento costante di contributi sia da parte del lavoratore, sia da parte del datore di lavoro. Inoltre, la legge prevede che siano finanziati anche con l’accantonamento annuo al fondo trattamento di fine rapporto (TFR). I capitali dei fondi sono gestiti con politiche di investimento orientate al medio-lungo termine. Gli impieghi tipici dei fondi sono titoli di Stato, obbligazioni estere, azioni italiane e straniere, quote di fondi comuni di investimento, immobili. Contribuzione o prestazione definita? I fondi pensione ricadono in generale sotto due tipologie.

Fondi a contribuzione definita Viene fissato il livello di contributi e la prestazione è legata al rendimento degli investimenti, con o senza rendimento garantito (viene fissato un rendimento minimo). Nel caso dei piani a contribuzione definita, l’ammontare del contributo viene stabilito fin dall’inizio e il livello della pensione non può essere previsto in anticipo, perché dipende dai risultati della gestione del capitale accumulato. Fondi a prestazione definita L’obiettivo in questo caso è assicurare una prestazione determinata con riferimento al livello del reddito o a quello del trattamento pensionistico obbligatorio. I FONDI PENSIONE IN CIFRE Secondo i dati della COVIP (Commissione di vigilanza sui fondi pensione), le forme pensionistiche complementari esistenti a fine 2010 erano 552. Quanto a quelle di nuova istituzione, alla stessa data, risultavano autorizzati 38 fondi negoziali e 69 fondi aperti. Le risorse destinate ai fondi superavano a fine 2010 gli 83 miliardi di euro, di cui 42 convogliati sulle prestazioni dei fondi preesistenti. Nel 2010 l’attivo netto destinato alle prestazioni di fondi di nuova istituzione ha raggiunto i 29,9 miliardi, di cui 22,4 per i fondi negoziali e 7,5 per i fondi aperti. In tutto, le iscrizioni “monitorate”, comprese quelle ai fondi ante-riforma, erano quasi 5,3 milioni a fine 2010. Di queste, 2 milioni riguardano i fondi negoziali.

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Per i piani a prestazione definita, il contributo è in stretto rapporto con il risultato prefissato: ecco perché sono possibili variazioni rispetto al versamento iniziale. La legge prevede che i fondi a prestazione definita siano riservati ai lavoratori autonomi. Fondi aperti e PIP La fonte istitutiva dei fondi pensione negoziali (o chiusi) resta la contrattazione aziendale o di categoria, o la volontà di categorie di lavoratori autonomi. La riforma Maroni, entrata in vigore il 1° gennaio 2007, ha concesso che i lavoratori dipendenti aderiscano con il loro TFR anche alle forme non negoziali di previdenza integrativa, i fondi pensione aperti e i PIP, che in precedenza erano state rivolte esclusivamente ai lavoratori autonomi. I fondi pensione aperti sono

FONDI PENSIONE A CONFRONTO CON INPS E POLIZZE VITA INDIVIDUALI La differenza essenziale tra fondi pensione e INPS sta nel fatto che i fondi pensione funzionano con il meccanismo a capitalizzazione, e quindi accumulano e investono un patrimonio con il quale far fronte al pagamento delle prestazioni future. Nell’INPS e negli altri enti di previdenza obbligatoria, che funzionano con il meccanismo della ripartizione, con i contributi di chi lavora si pagano direttamente le pensioni di chi è in quiescenza, senza accumulazione. Secondo la legge, la gestione del patrimonio dei fondi pensione deve essere affidata a uno o più intermediari autorizzati che soddisfano determinati requisiti di solidità, scelti tra banche, SIM, SGR, compagnie vita e società di gestione di fondi comuni. L’erogazione delle prestazioni può essere effettuata direttamente dal fondo, oppure da compagnie di assicurazioni convenzionate. La vigilanza sui fondi è assicurata da un’apposita Commissione. Diverse dall’attività di gestione dei fondi, per la quale vige un’apposita riserva di legge, sono l’amministrazione e la consulenza ai fondi pensione, aree a cui sono finalizzate società ad hoc all’interno dei gruppi bancari e assicurativi. Inoltre l’attività di amministrazione può essere svolta dagli enti di previdenza obbligatoria (INPS ecc.). La differenza, invece, tra fondi pensione negoziali da una parte e polizze vita individuali e piani di accumulazione di fondi comuni dall’altra sta nel fatto che i primi sono strumenti collettivi, che nascono dalla volontà di gruppi di imprese e lavoratori, mentre la sottoscrizione dei secondi dipende esclusivamente dall’iniziativa del singolo. Vista la scarsa adesione dei lavoratori ai fondi pensione, la riforma Maroni del 2005 ha cercato di incentivare con il meccanismo del silenzio-assenso (applicato nel primo semestre 2007) la destinazione del TFR maturato alla previdenza complementare, e di fissare regole di accesso comuni tra fondi pensione negoziali e forme di previdenza individuale (FIP e fondi pensione aperti).

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costituiti da intermediari autorizzati (banche, SIM, compagnie di assicurazione, SGR) e assomigliano ai fondi comuni di investimento, anche se la prestazione può essere riscossa solamente quando maturano i diritti (cessazione dell’attività lavorativa, maturazione dei requisiti per la pensione complementare di anzianità e di vecchiaia o decesso del contribuente, più la possibilità di fruire di anticipazioni a determinate condizioni). I PIP (polizze individuali pensionistiche) sono polizze vita che godono dello stesso trattamento fiscale dei fondi pensione, ad adesione esclusivamente individuale (a differenza dei fondi pensione aperti che prevedono anche le adesioni collettive). Sono offerte nella tipologia a prestazioni rivalutabili o unit linked. Nell’ambito dello stesso fondo pensione o PIP possono essere realizzate diverse linee di investimento (azionaria, obbligazionaria, e così via), in modo da permettere all’iscritto di scegliere il profilo rischio/rendimento più aderente alle proprie caratteristiche. I rendimenti del fondo devono essere periodicamente comunicati agli iscritti: se l’iscritto a un fondo pensione negoziale non è soddisfatto dell’andamento del proprio fondo, dopo almeno due anni di permanenza può aderire a un fondo aperto o a un PIP, trasferendovi la propria posizione individuale. Esigenza, quella della portabilità della posizione individuale, che viene soddisfatta anche allorché il lavoratore cambia azienda o categoria. Per il trasferimento patrimoniale da fondo a fondo è prevista la neutralità fiscale. Il trasferimento però, nella maggior parte dei casi, avrà come conseguenza la perdita dell’eventuale contributo del datore di lavoro, a meno che questo per accordo aziendale non possa essere trasferito al nuovo fondo. Dal 1° gennaio 2001, i redditi degli investimenti dei fondi pensione sono tassati all’11%. Le prestazioni (capitale fino a un massimo del 50% della posizione individuale e rendita) maturate a partire dal 1° gennaio 2007, al netto della parte corrispondente ai redditi del fondo già tassati, sono sottoposte ad aliquote favorevoli (comprese tra il 15 e il 9%, a seconda della durata del periodo di contribuzione).

Su “Plus24” viene pubblicato il rating esclusivo dei fondi pensione aperti e di quelli negoziali, elaborato dalla SIM di consulenza indipendente Consultique.

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I fondi chiusi A differenza di quanto accade nei fondi aperti, nei fondi mobiliari o immobiliari chiusi non è possibile chiedere il rimborso del proprio investimento (rappresentato da quote), se non dopo anni. I fondi chiusi si adattano alle necessità di investitori con un orizzonte di lungo periodo. Da una parte vi sono infatti le aziende non quotate in Borsa con elevato potenziale di crescita per i fondi mobiliari chiusi, dall’altra gli immobili per i fondi immobiliari chiusi. Si possono monetizzare le quote prima della liquidazione del fondo scambiandole in Borsa (la quotazione è obbligatoria se il fondo è stato collocato anche presso persone fisiche). I fondi mobiliari chiusi... I fondi mobiliari chiusi si rivolgono a risparmiatori in possesso di un consistente e diversificato patrimonio. Si tratta infatti di impieghi generalmente più rischiosi dei fondi comuni aperti azionari, perché puntano su aziende non quotate in Borsa e di dimensioni medio-piccole. I fondi chiusi sono gestiti da SGR e sono sottoposti alla vigilanza di Consob e Banca d’Italia. In Italia, i fondi mobiliari chiusi sono stati istituiti con la legge 344/1993: questa prevede che possano essere collocati anche presso gli investitori privati tramite sportelli bancari o reti di promotori finanziari. Se collocati presso il pubblico, i fondi chiusi sono accompagnati da un prospetto informativo e quotati alla Borsa italiana, segmento MTF (mercato telematico dei fondi). ... e quelli immobiliari Sono gestiti da SGR e sono sottoposti alla vigilanza di Consob e Banca d’Italia. La durata del fondo va dai 10 ai 30 anni. Le modalità di collocamento sono uguali a quelle dei fondi comuni. Le quote dei fondi mobiliari e immobiliari chiusi sono negoziate in Borsa e il prezzo è pubblicato quotidianamente dal Sole 24 ORE, insieme al NAV più aggiornato (net asset value, o patrimonio netto per quota). Tradizionalmente, i fondi chiusi quotano a sconto (anche superiore al 30%) rispetto al NAV, e pertanto, se sottoscritti all’atto del collocamento, si adattano a investitori con un orizzonte di lungo periodo.

La tabella dei fondi chiusi (mobiliari e immobiliari), a cura della società di consulenza indipendente Norisk, consente di valutare convenienza e portafogli.

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Il mercato delle merci di Roberto Capezzuoli

La domanda, l’offerta e la quotazione delle merci sono sempre state variabili importantissime per l’economia di ogni Paese. Hanno fatto costruire strade, sviluppato le comunicazioni, causato guerre. Un osservatorio capace di fornire tempestive informazioni sulle dinamiche espresse dai mercati delle materie prime costituisce, oggi come in passato, una necessità per qualunque sistema economico evoluto. Per una nazione il costo dei combustibili, degli alimentari, dei prodotti destinati all’industria concorre direttamente alla formulazione della bilancia commerciale e indirettamente a indicazioni macroeconomiche quali l’inflazione, per citare solo la più nota. Per un’azienda, invece, conoscere i prezzi delle merci da trasformare, prevederne i movimenti e cautelarsi contro variazioni indesiderate significa amplificare il risparmio sugli acquisti e il guadagno sulle vendite, con un rilevante vantaggio in termini di bilancio e di concorrenzialità. Merci e mercati L’accezione “materie prime” è utilizzata spesso per esprimere un concetto piuttosto vago: ogni azienda (e ogni Paese) può considerare in questa categoria qualunque cosa le serva per alimentare e per far funzionare i suoi impianti di trasformazione. Così per un’impresa siderurgica sono materie prime il minerale di ferro e il carbone con cui caricare l’altoforno, ma anche i rottami usati per il medesimo scopo e, per estensione, l’energia necessaria all’impianto, i microprocessori dei suoi sistemi di sicurezza o addirittura il finanziamento che ha permesso di costruirlo.

Le commodities In sostanza, tutto ciò che può essere comprato o venduto è assimilabile a una merce, con forti similitudini nei contratti d’acquisto o di cessione del bene in oggetto. In questa sede però il campo di osservazione sarà volontariamente limitato alle commodities in senso stretto, cioè ai prodotti di base grezzi, che abbiano subito soltanto le trasformazioni elementari, atte a favorire un loro successivo

IL MERCATO DELLE MERCI . 345

utilizzo industriale. Normalmente per “rame” si intenderà il metallo così come esce dal sistema “miniera, concentratore, fonderia-raffineria”, cioè sotto forma di catodo (lastra raffinata generalmente per via elettrolitica), escludendo quindi sia le forme più grezze (il minerale, oppure il metallo blister, ancora da raffinare), sia lo stadio più avanzato dei semilavorati (fili, tubi, cavi, lamiere o altro). Analogamente il caffè sarà quello in chicchi crudi (ancora da tostare), ma già classificato per qualità e confezionato in sacchi da spedire ai torrefattori. I mercati di scambio I mercati dove si scambiano questi prodotti di base sono ovviamente sotto l’influenza di fattori quali gli stock residui e la produzione (e quindi la maggiore o minore pressione dell’offerta) e i consumi (e quindi la domanda), che vengono generalmente chiamati “fondamentali” e che guidano, almeno a grandi linee e nel medio periodo, le tendenze dei prezzi. Questi ultimi rappresentano però l’indicatore puntuale decisivo, capace da solo di fotografare la situazione del settore, sia che rispetti i fattori fondamentali appena citati, sia che se ne scosti per effetto di qualche anomalo movimento della domanda o dell’offerta. DAL RUM AL COTONE: SI EVOLVE IL FORWARD Il primo esempio che viene ricordato dai libri di testo risale ai mercanti di Amsterdam del XVII secolo, ma potrebbe aver avuto brillanti quanto inconsapevoli precursori in Europa, in Cina o forse in Giappone. L’episodio citato più di frequente è quello di un commerciante in possesso di un contratto forward che prevedeva la consegna di una partita di brandy. Nel periodo trascorso tra la firma del contratto e la sua esecuzione il liquore in città cominciò a scarseggiare, salendo di prezzo, mentre il mercante si dedicò ad altri traffici che comportavano crescenti investimenti. Così il possessore del contratto decise di rivenderlo, naturalmente a un prezzo più alto, monetizzando l’insperato guadagno: uno dei primi esempi conosciuti di profit-taking, o vendita di realizzo. L’episodio isolato e casuale divenne una necessità nel XIX secolo, quando la nascente economia industriale si trovò a fare i conti con le forniture, la loro regolarità e il loro costo. Un contratto forward poteva anche bastare a garantire l’arrivo del cotone grezzo americano verso le filande europee, o quello del rame africano alle prime industrie pesanti, ma per il sistema economico che stava sviluppandosi era ancora meglio poter rivendere in tutto o in parte la merce oggetto del contratto, per allargare il ventaglio delle fonti di fornitura e per dare elasticità alla produzione e ai costi. A essere comprati e venduti furono così sempre più spesso i contratti “cartacei”, con un volume d’affari che nel tempo è divenuto esponenzialmente più ampio di quello relativo ai reali scambi della merce in oggetto.

346 . FINANZA E MERCATI

Le tipologie di contratti Il prezzo, inteso come denaro da pagare per una unità di prodotto, è l’elemento chiave dei contratti di compravendita. Le tipologie di questi contratti sono però differenti. Il contratto spot... La più elementare forma è lo scambio diretto di merce contro denaro, una transazione tra due contraenti, perfezionata in tempi brevissimi sul mercato del disponibile, con consegna immediata della merce. In questo caso il contratto (e per estensione naturalmente anche il prezzo) è detto spot (dall’inglese on the spot, immediatamente) oppure cash (per contanti). ... e il forward Il secondo tipo di contratto prevede invece che la consegna del bene acquistato sia differita nel tempo; si tratta di una compravendita utilizzata da secoli, che ben risponde alla necessità di un acquirente che voglia assicurarsi una determinata merce ancor prima che essa sia disponibile. È per esempio il caso di un mulino che miri a garantirsi una quota dei raccolti di frumento prima ancora che questi vengano mietuti. Il contratto in questi casi è denominato forward (differito), ma continua a prevedere che sia stipulato tra due contraenti e che comporti l’effettiva consegna del prodotto sul mercato del disponibile. Naturalmente l’avvicinarsi della data di consegna rende paragonabili il prezzo spot attuale con quello forward formulato in precedenza. Anche i contratti forward tuttavia non si prestano a essere negoziati “sulla carta” in quanto non sono standardizzati e devono comunque concludersi con la consegna della merce (purché questa sia la volontà di almeno uno dei due contraenti).

Il Sole 24 ORE dedica ampi spazi alle materie prime, sia quotidianamente sia periodicamente nell’inserto “Plus24” del sabato con articoli di approfondimento.

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I mercati a termine Affinché vi fosse un tipo di contrattazione più sofisticato, occorreva qualcosa di differente rispetto alla contrattazione tra due contraenti (principals). Era necessaria un’elevata standardizzazione del contratto, in modo che qualunque interessato potesse sapere con esattezza ciò che prometteva di comprare o di vendere; era necessaria una definizione abbastanza larga, ma precisamente codificata, della qualità del prodotto, del luogo e dei tempi di consegna, dei premi e degli sconti (rispetto al prezzo base) che sarebbero stati applicati per ogni particolare scostamento dai valori standard segnalati sul contratto. Occorreva poi centralizzare gli scambi per facilitarne la compravendita e per formularne il valore in modo più tempestivo e più corretto. E occorreva infine dare a ogni contraente una “sponda” diversa, univoca e dotata di organismi capaci di garantire il corretto svolgimento delle trattazioni e dei pagamenti connessi. Sono nati così i mercati a termine delle merci, con le loro autorità, i loro organismi di controllo, la loro cassa di compensazione (clearing house), i loro magazzini autorizzati allo stoccaggio del prodotto. In queste Borse (Exchange) sono nati gli scambi dei future, contratti a termine propriamente detti. E queste Borse, per l’elevato volume di affari, sono divenute il vero e insostituibile termometro della situazione commerciale relativa alla merce oggetto del contratto stesso. Le funzioni I mercati a termine nel tempo hanno mantenuto la struttura “di servizio”, ma hanno assunto anche funzioni più importanti, indirizzando gli acquisti e le vendite e lanciando segnali capaci di influenzare le intenzioni produttive. L’utilità di queste strutture è innegabile, anche se per qualche osservatore la presenza della speculazione (a cui alla fine degli anni Ottanta si sono aggiunti in forze i fondi d’investimento, capaci di muovere capitali ingenti) e il fiorire di “derivati” agganciati ai future di base possono creare gravi distorsioni.Tuttavia la standardizzazione dei contratti e il forte volume d’affari fanno delle quotazioni espresse dalle Borse merci una guida a cui non si può rinunciare facilmente, tanto che in molti contratti di fornitura di lunga durata i prezzi vengono ancorati a quelli dei mercati a termine. Come si è già accennato, si tratta di mercati cartacei dove la percentuale degli scambi effettivi è marginale, anche se resta caratteristica determinante del future il fatto che la merce di norma può essere effettivamente consegnata a liquidazione del contratto stesso. Solo in alcuni casi il future d’acquisto o di vendita può giungere a scadenza senza essere “pareggiato” da una posizione uguale e contraria, oppure dalla spedizione o dal ritiro della merce. È il caso di contratti che fanno parte di indici, o di future su prodotti per i quali non sia previsto un adeguato punto di consegna (il petrolio Brent all’ICE di Londra è tra questi). In questi casi la liqui-

348 . FINANZA E MERCATI

I mercati delle merci Nella pagina dedicata alle materie prime, Il Sole 24 ORE riporta articoli e tabelle che commentano i principali avvenimenti che hanno interessato i mercati dei prodotti di base e hanno l’obiettivo di informare gli operatori dei vari settori sulle quotazioni delle merci grezze.

Prima delle quotazioni delle principali materie prime, un breve commento offre la panoramica sul fatto saliente del giorno precedente sulle Borse merci.

Oltre agli articoli che approfondiscono i temi del giorno, una serie di notizie in breve per avere il polso dei vari mercati.

Sotto la voce “Varie industria” rientrano prevalentemente le voci relative alla gomma e alla lana. Per quanto riguarda la gomma sono riportate le quotazioni dei vari tipi di caucciù, identificati tramite le sigle commerciali che permettono di riconoscerne la provenienza, la viscosità, le caratteristiche fisiche e meccaniche. Indicatore chiave del settore è la RSS3 (ribbed smoked sheet di viscosità 3), ma vengono quotate anche la SMR (standard malaysian rubber) e altre. I dati sulla lana sono di provenienza australiana e inglese. Attraverso le aste australiane passa almeno il 40% di tutto il commercio mondiale di lana sudicia, e la fibra delle pecore merinos australiane è ambita da tutte le imprese manifatturiere mondiali. L’aggiornamento dei dati è effettuato dopo ogni giornata d’asta e il rilevamento si basa sui prezzi indicatori calcolati da Woolmark, l’ente preposto a controllare il mercato.

IL MERCATO DELLE MERCI . 349

Sotto il commento sull’andamento delle materie prime la tabella delle commodities si apre con “Energia e Combustibili”, con le quotazioni delle voci più rappresentative del settore. L’importanza del petrolio nell’interscambio mondiale è evidente e universalmente riconosciuta: greggio e derivati rappresentano oltre il 55%, in valore, di tutte le importazioni italiane di materie prime. I movimenti di prezzo in questo settore sono quindi anche i più influenti indicatori dell’inflazione “importata”.

Le valute nelle quali vengono espressi i prezzi, come pure le unità di misura delle merci, variano da piazza a piazza e sono indicate di fianco a ogni prodotto. Il mercato di riferimento è indicato dall’acronimo spiegato in fondo alla pagina nella Legenda. La tabella riporta, dove è stabilito dalla Borsa, il prezzo settlement, che rappresenta un’importante indicazione perché è il metro di calcolo per i profitti e le perdite degli operatori, ed è anche la base per fissare i depositi di garanzia, oltre a costituire l’elemento su cui si calcolano (dove esistono) le variazioni limite consentite ai prezzi in una sola giornata. Per l’oro i prezzi sono quelli del mercato bullion (oro fino in verghe o lingotti di metallo grezzo). Platino e palladio devono la loro importanza soprattutto all’utilizzo che se ne fa nell’industria (gioielleria, catalizzatori, odontoiatria, high-tech). Di cereali e semi vengono riportate le quotazioni rappresentative di piazze americane ed europee, sui mercati del disponibile o sui mercati a termine. A essere quotato in dollari per CTW è il riso: il CTW è un’unità che corrisponde a 50,802 chilogrammi.

Tra le voci relative ai coloniali, meritano un cenno quelle del caffè: a Londra sono pubblicati i prezzi settlement relativi al contratto future del caffè qualità coloniale robusta (originario in prevalenza dell’Africa e dell’Indonesia) e a New York quelli del future sulla qualità arabica (in prevalenza caffè sudamericano, più pregiato) e quelli del mercato spot. Per quanto riguarda il bestiame, vi sono i prezzi settlement del Chicago mercantile exchange per suini vivi e pancette e i prezzi spot rilevati a Utrecht per i suini macellati.

Alla voce “Metalli preziosi” sono presenti argento, oro, palladio e platino, le cui quotazioni fanno riferimento alle piazze più rappresentative su cui sono scambiati.

350 . FINANZA E MERCATI

dazione avviene per contanti ed è qui che può generarsi uno scostamento tra mercato a termine e mercato reale. I prodotti trattati In un contratto a termine l’unica reale variabile è il prezzo. A fissarlo sono domanda e offerta, le forze del mercato, la cui continua modificazione è segnalata proprio dalle variazioni del prezzo. Quest’ultimo avrà quindi importanti relazioni con quello dei mercati spot, ma potrà differirne in misura anche notevole. E sarà altamente rappresentativo soprattutto se sarà frutto di una forte liquidità, cioè di un forte afflusso di capitali (ed eventualmente anche di merce fisica). Ne segue che poche materie prime si prestano, almeno in teoria, a essere trattate sui mercati a termine. Sono quelle che attraggono un gran numero di interessati, quindi di norma sono di grande importanza economica, di largo impiego, negoziabili in condizioni di libera concorrenza. È anche per questo motivo che i future sul petrolio e i suoi derivati hanno ottenuto un grande impulso soltanto nella seconda metà degli anni Ottanta, quando il peso dell’OPEC sul volume mondiale di scambi ha cominciato a ridimensionarsi. Da Trieste a Chicago In alcune situazioni i contratti a termine sono stati inaugurati per soddisfare l’esigenza di uno strumento di copertura (per i trasformatori di materia prima) o di fissazione del prezzo (per i produttori). In altri casi le Borse merci (solitamente associazioni di broker) hanno cercato di offrire il più ampio ventaglio possibile di contratti a termine per favorire l’allargamento della clientela e quindi del fatturato. Naturalmente questi tentativi non sempre hanno avuto successo e a volte sono stati abbandonati per evidente crisi di liquidità. Nel nostro Paese i mercati a termine autorizzati a operare hanno preceduto persino quelli inglesi e americani: a Trieste la Borsa merci con sezioni

Nei periodi di crisi i risparmiatori tendono a rifugiarsi nell’oro. È così che nel 2011 le quotazioni del metallo giallo hanno registrato dei nuovi massimi.

IL MERCATO DELLE MERCI . 351

per gli scambi di zucchero e caffè risale al 1855 e a Genova quella dei cereali e del caffè è di pochi mesi successiva. Queste iniziative tuttavia hanno visto cessare l’attività, mentre i mercati anglosassoni hanno via via accresciuto le loro dimensioni: tra i primi si possono citare il Chicago board of trade, nato nel 1859, il New York cotton exchange, del 1870, il London metal exchange, del 1877, il New Orleans cotton exchange, del 1880. L’attività su queste Borse era concentrata in poche ore della mattina e del primo pomeriggio. Nei primi mercati a termine dei Paesi anglosassoni poteva operare solo chi, dopo aver dimostrato il possesso di alcuni requisiti fondamentali, diventava “membri” della Borsa. Ora gli scambi computerizzati e i metodi di accesso diretto al mercato (sempre tramite una ristretta cerchia di broker autorizzati) hanno allargato tempi e possibilità d’intervento. Oggi molti future possono essere trattati ventiquattro ore su ventiquattro, elemento che aggiunge tempestività agli ordini di acquirenti e venditori e facilita le operazioni di arbitraggio “di luogo” (cioè la vendita di un contratto su una Borsa e il suo riacquisto su un’altra). L’espandersi delle possibilità operative rende quindi sempre più importante, ma anche più difficile e impegnativo, il ruolo delle Camere arbitrali, che dirimono le controversie tra operatori. A esse si aggiungono gli organismi di controllo con giurisdizione più ampia, quali l’inglese Securities and investments board e la statunitense Commodity future trading commission.

I mercati delle merci in Italia Nel nostro Paese lo scambio di materie prime avviene principalmente sulla base del cosiddetto mercato fisico, ossia basato sulla reale compravendita delle merci già prodotte e pronte per la consegna, e in misura minore sulla cessione di contratti per consegna futura come avviene per i mercati a termine sulle principali piazze mondiali. Le tabelle relative ai mercati italiani riportano i prezzi delle merci scambiate in due tipi diversi, ma in alcuni casi complementari, di mercati ufficiali: i mercati all’ingrosso e le Borse merci propriamente dette con il loro mercato del disponibile. Si può in parte affermare che le seconde non rappresentano altro che uno stadio di sviluppo più avanzato dei primi. Nelle Borse merci infatti vengono superati gli schemi tradizionali di intermediazione propri dei mercati all’ingrosso basati sulla presenza fisica del prodotto (va comunque ricordato che le merci trattate sulle Borse merci, pur non presenti fisicamente, sono già state prodotte), per passare a un commercio su descrizione di partite omogenee di merci in riferimento a categorie specificate a priori.

352 . FINANZA E MERCATI

LE OPERAZIONI DI COPERTURA Le operazioni speculative costituiscono l’ideale controparte delle operazioni cosiddette di copertura (hedging) con le quali un utilizzatore (ma anche un produttore o un consumatore finale, pur con qualche modifica nel meccanismo complessivo dell’operazione) può garantirsi contro imprevedibili variazioni di prezzo. Un’esemplificazione banale di un’operazione di copertura può essere la seguente: un trasformatore che voglia acquistare 10 tonnellate di zinco necessarie alla sua attività e rivenderle tre mesi dopo, ma intenda cautelarsi contro variazioni di prezzo (per ragioni di bilancio, o per rispettare precisi accordi presi con il cliente finale), acquisterà lo zinco sul mercato spot (se supponiamo che il prezzo in quel momento sia di 1.000 dollari per tonnellata il suo esborso sarà di 10.000 dollari) e contemporaneamente venderà un’identica quantità con scadenza a 3 mesi. Questo contratto, in normali condizioni di mercato, vale qualcosa più dello spot in quanto comprende i costi di magazzinaggio e finanziamento; supponiamo che la vendita frutti 10.500 dollari. Al termine dei 3 mesi, chi ha effettuato l’operazione la chiuderà comprando 10 tonnellate sullo spot per pareggiare il suo contratto a 3 mesi (giunto a scadenza) e vendendo le 10 tonnellate in suo possesso, ancora in base al prezzo del mercato spot. Supponiamo che nel frattempo la quotazione dello zinco sia salita (mettiamo a 1.100 dollari sullo spot). In questo caso un utilizzatore che non avesse effettuato la copertura avrebbe visto rivalutarsi il suo zinco e avrebbe chiuso l’operazione con un guadagno di 1.000 dollari. La copertura invece causa un guadagno di soli 500 dollari (la differenza tra lo spot e il contratto a 3 mesi all’atto della prima operazione, essendo invece la chiusura pareggiata con un acquisto e una vendita sul mercato spot per quantitativi identici). Se invece il prezzo spot dello zinco fosse calato (a 950 dollari, mettiamo) l’operazione si sarebbe chiusa sempre con un vantaggio di 500 dollari, mentre senza hedging sarebbe stata accusata una perdita (ancora di 500 dollari, in questo particolare esempio). Naturalmente al bilancio complessivo occorre aggiungere i costi (anch’essi prevedibili) del broker e del finanziamento, ma appare comunque evidente che il trasformatore si è assicurato un determinato prezzo finale, garantendosi contro le oscillazioni del mercato. Ha rinunciato a un possibile guadagno, ma si è anche cautelato contro un’eventuale perdita.

IL MERCATO DELLE MERCI . 353

In genere il passaggio da un mercato all’ingrosso a una Borsa merci è causato da una molteplice serie di fattori, fra i quali vanno però sottolineati gli elevati costi di partecipazione ai mercati all’ingrosso e di gestione organizzativa dei mercati stessi.

Le Borse merci Le Borse merci si differenziano principalmente dai mercati delle merci per la non presenza fisica delle merci trattate e quindi per il metodo di contrattazione “per descrizione”. È ipotizzabile, e in fondo anche auspicabile, dati gli elevati costi inerenti all’attività dei mercati all’ingrosso, che con il continuo evolversi del commercio anche nel nostro Paese si proceda verso un più diffuso utilizzo di Borse merci a scapito dei mercati all’ingrosso, anche se è vero che per alcune merci ove il requisito di omogeneità, indispensabile per il commercio “su descrizione”, sembra difficile da acquisire, la funzione dei mercati all’ingrosso appare nel tempo insostituibile. Gli esempi citati sembrano comunque confermare anche per l’Italia queste tendenze evolutive della struttura del commercio. Le Borse merci che si svolgono più frequentemente hanno una cadenza settimanale, mentre altre Borse merci hanno luogo quindicinalmente o addirittura mensilmente. A seconda della loro importanza, dei volumi di merci che atIL SOLE 24 ORE E I MERCATI DELLE MERCI IN ITALIA I prezzi delle merci riportati a rotazione nelle tabelle hanno un carattere informativo e si intendono riferiti, salvo diversa e specifica indicazione, alla situazione media di mercato accertata dalle Commissioni paritetiche preposte nel periodo (settimana, quindicina, mese) precedente alla data di rilevazione specificata nelle tabelle. In ciascuna tabella, salvo diversamente specificato, vengono riportati il prezzo minimo e il prezzo massimo rilevato (in alcune tabelle, per esempio nelle tabelle dei prodotti ortofrutticoli del mercato di Milano, è indicato anche il prezzo prevalente). Le fonti sono molteplici, come è indicato nelle intestazioni delle singole tabelle. Anche se come base comune di tutte le rilevazioni vi è il metodo ufficiale ISTAT, è però implicito che alla diversità e alla molteplicità delle fonti si possa associare una diversa metodologia di applicazione del metodo di rilevazione e di elaborazione dei dati ufficiali. Ne consegue che il grado di significatività delle singole informazioni è diverso da caso a caso, trattandosi a seconda dei casi di prezzi ufficiali o ufficiosi, oppure di prezzi di mercati a livello nazionale o di medie di prezzi rilevati su mercati minori a livello locale.

354 . FINANZA E MERCATI

I mercati in Italia La seconda parte della pagina dedicata alle materie prime si concentra sui mercati italiani. Vengono riportate le diverse quotazioni delle materie prime, suddivise in due blocchi principali: “A Milano” e “Sulle altre piazze”.

Le tabelle “A Milano” riportano i valori fatti segnare dalle merci contrattate sulla più importante piazza finanziaria del nostro Paese. Non tutti i mercati delle merci e le Borse merci hanno luogo con la stessa frequenza: alcuni si svolgono durante tutti i giorni lavorativi della settimana (per esempio, il mercato ortofrutticolo), mentre altri hanno luogo solamente un giorno fisso alla settimana. Di conseguenza, le tabelle dei prezzi vengono pubblicate dal quotidiano giornalmente, oppure un giorno fisso alla settimana, solitamente il giorno successivo a quello del mercato stesso. Le merci considerate sono: ortofrutticoli, cereali, mangimi, caseari, carni bovine/equine/ovine/suine, pollami e uova, grassi e salumi, frutta secca, droghe e coloniali, vini, materie prime tessili, combustibili solidi, materie prime per saponerie, legnami, vetri, prodotti siderurgici e altri.

IL MERCATO DELLE MERCI . 355

Il listino della Borsa elettrica italiana è pubblicato dal novembre 2005 e riporta le quotazioni orarie del MWH per il giorno stesso di pubblicazione.

Sono riportate le quotazioni indicative a Milano delle più importanti monete d’oro a corso legale, che non sono però oggetto di trattazioni di Borsa. Quindi, le negoziazioni di compravendita sono sempre “effettive” e spesso soggette a scostamenti, anche notevoli, rispetto alle valutazioni pubblicate.

Le cifre sono da considerare assolutamente indicative, non avendo il sostegno e la garanzia di una Borsa e di una Cassa di compensazione.

Spiega tutti gli acronimi utilizzati per indicare le piazze e tutte le abbreviazioni presenti nelle tabelle della pagina.

Tra gli indici dei mercati a termine, vi sono quelli settoriali e quello generale del Commodity research bureau di New York, che ha base 1967 = 100 e rielabora i dati dei principali mercati a termine mondiali. Altre due indicazioni vengono aggiornate quotidianamente dalla Goldman Sachs, che elabora gli indici, generali e di settore, basati su 1970 = 100 e ponderati sul volume di scambi nelle Borse merci.

I prodotti presi in esame sono 34. L’indice è espresso in euro e dollari correnti, ed è calcolato mediante ponderazione dei prezzi dei vari prodotti considerati per la loro quota 1977 nel commercio mondiale. Per colonna sono rappresentati i valori relativi all’ultimo mese disponibile, paragonato al mese precedente e allo stesso mese dell’anno precedente; per riga sono esposti gli indici settoriali, suddivisi in alimentari, non alimentari, combustibili, totale senza combustibili e totale generale.

356 . FINANZA E MERCATI

traverso i contratti di compravendita fra operatori vengono scambiati nel mercato rispetto ai volumi totali della stessa merce scambiata sul mercato nel suo complesso, esse saranno capaci di esprimere dei prezzi più o meno realmente significativi delle tendenze del mercato. I prezzi riportati nelle tabelle sono quelli fissati dalle apposite Commissioni camerali che si riuniscono alla fine dello svolgimento del mercato e, sentiti i pareri dei principali operatori, indicano il prezzo medio di equilibrio. Per l’illustrazione delle tabelle non è più possibile quindi adottare come per i mercati delle merci il criterio di frequenza temporale delle stesse. Cominceremo invece ad analizzare la tabella che riguarda la più importante delle Borse merci della piazza di Milano: la Borsa dei cereali. Il mercato dei cereali di Milano Il mercato dei cereali di Milano è un libero mercato gestito da un’associazione privata, l’Associazione granaria di Milano, a cui chiunque può associarsi. Ciò significa che non esiste né una Deputazione ufficiale di Borsa nominata tramite decreto del Presidente della Repubblica, né una Stanza di compensazione ufficiale. Per tali sue caratteristiche, è quello che più si avvicina al sistema sul quale sono improntate le più grandi Borse cerealicole mondiali. I membri della Commissione

LE CONTRATTAZIONI AL DI FUORI DI MILANO La piazza di Milano, seppur la più importante, non è l’unica piazza ove si svolgono delle contrattazioni di materie prime. Anche in altre città del nostro Paese si tengono sia dei mercati delle merci sia delle Borse merci. Lo svolgimento di questi mercati è analogo a quello seguito sulla piazza di Milano. Va però ricordato che non essendoci una normativa vincolante a carattere nazionale, gli usi di piazza che regolano lo svolgimento delle contrattazioni possono determinare delle differenze, seppur non sostanziali, da piazza a piazza. Solitamente le piazze minori presentano una varietà merceologica minore rispetto alla piazza di Milano, quando addirittura una piazza può essere specializzata nella trattazione di una sola specie merceologica. I prezzi sono rilevati o dalle locali Camere di commercio o dai Comuni interessati e si riferiscono generalmente alla contrattazione diretta fra produttore e grossista/compratore, e rivestono quindi una minore rilevanza pratica. Anche in queste tabelle vengono riportati il prezzo minimo e il prezzo massimo della merce considerata.

IL MERCATO DELLE MERCI . 357

preposta alla sorveglianza del mercato e alla rilevazione dei prezzi sono nominati (annualmente) con una delibera della Giunta camerale di Milano, su proposta dell’Associazione granaria stessa. In altre città italiane, invece, le Borse merci, e qui il termine assume il suo significato più appropriato, sono state create dalla Camera di commercio della città (per esempio Torino e Verona) o sono state date in gestione a un’associazione privata (per esempio l’Assogranaria di Bologna gestisce su preciso mandato della Camera di commercio la Borsa merci di Bologna). La Deputazione ufficiale di Borsa è quindi nominata tramite DPR su proposta della Giunta camerale. Presso la Borsa dei cereali di Milano ha operato in passato un fiorente mercato a termine per il frumento, il granturco e la crusca, che ha però cessato l’attività per mancanza di interesse degli operatori. Oggigiorno, per la mancanza di una Cassa di compensazione ufficiale, non è possibile indicare se contratti a termine vengano stipulati tra gli operatori. Sembra più che altro che, nella piena autonomia contrattuale delle parti, vengano solamente stipulati dei contratti per consegna reale, sebbene differita nel tempo, della merce. La Borsa dei cereali si svolge presso la sede dell’Assogranaria al World Trade Center nel Palazzo dei Congressi di Milanofiori (Assago) dalle 9.30 in avanti ogni mercoledì. A essa partecipano produttori, commercianti, importatori, agenti d’affari in mediazione, trasportatori, spedizionieri appartenenti ai settori cerealicoli, oleario, risiero e mangimistico. Per numero di operatori partecipanti (i soci dell’Assogranaria sono più di 1.000) e per quantità trattate, è uno dei principali mercati d’Europa. Le contrattazioni possono avvenire in modo “diretto”, ossia tra un venditore e un compratore, oppure attraverso i mediatori che trattano la vendita e/o l’acquisto per conto terzi. La figura del mediatore è diventata via via più importante nel corso degli anni, per le specializzazioni dei vari settori, per la complessità del mercato e per i contratti che essi redigono a garanzia delle parti contraenti.

In breve Per i prodotti provenienti dall’estero, soprattutto da Paesi extra UE, come il Manitoba, il grano Plata, l’Amber Durum, il granone Plata, le farine di estrazione, le farine di carne e di pesce, i prezzi, oltre a seguire le normali fluttuazioni del mercato interno, sono influenzati dalle fluttuazioni sui mercati d’origine, e così pure dal continuo mutamento dei cambi valutari. Questo spiega proprio in relazione ai motivi suddetti certi sbalzi di prezzi non da una settimana all’altra o da un giorno all’altro, bensì da un’ora all’altra.

358 . FINANZA E MERCATI

Anche per questo mercato i prezzi ufficiali sono quelli accertati al termine delle operazioni dal presidente dell’apposita Commissione che, con la collaborazione dei membri della stessa, indica una media delle quotazioni rilevate presso i principali operatori. Il contratto di compravendita per ogni merce è redatto su appositi formulari prestampati, sui quali sono, fra l’altro, indicati: le parti contraenti, l’eventuale mediatore, la quantità, le qualità, le caratteristiche della merce, il prezzo, il luogo di consegna o di ritiro, le condizioni di pagamento (generalmente “a pronti”, cioè entro otto giorni dalla data della stipula del contratto). Per quanto riguarda le condizioni generali, si fa riferimento a specifici contratti standard editi dall’Associazione granaria (termini e modalità di esecuzione, eventuale arbitrato ecc.). Negli ultimi anni si è instaurata una stretta collaborazione fra le principali associazioni granarie italiane che ha portato alla definizione di contratti-tipo aventi un’identica normativa. Questa ha evidentemente facilitato il lavoro degli operatori del settore. Eventuali contestazioni sull’esecuzione dei contratti o sulle merci stesse vengono risolte attraverso le Camere arbitrali istituite presso le diverse associazioni e sono affidate al giudizio di un Collegio arbitrale, composto da due arbitri nominati dalle parti e da un terzo arbitro nominato dagli arbitri di parte. L’arbitrato previsto e disciplinato da un apposito regolamento è quello irrituale o libero: le decisioni degli arbitri hanno valore convenzionale come se fossero concordate fra le parti. Gli arbitri decidono in veste di mandatari amichevoli compositori, ex bono et aequo, con facoltà di transigere.

Indice analitico I numeri posti di fianco alle singole voci si intendono riferiti ai numeri di pagina di questo volume

Agenzia delle Entrate, 133, 134, 148 Aggregato monetario, 206, 207 AIM Italia, 289-291 Analisi fondamentale, 76-77 bilancio societario, 78-84 indici di bilancio, 84-87 multipli di mercato, 87-91 Analisi tecnica, 79 Asta, 211, 214, 238, 240, 241, 243, 244, 248, 249, 286 Autotassazione anticipi e conguagli, 145 contenzioso tributario, 145-148 imposte sul reddito, 143-144 pagamento delle imposte sul reddito, 144 sostituti d’imposta, 144 Banca centrale europea, v. BCE Banca d’Italia, 51, 57, 171 , 182, 191, 211, 212, 213, 219, 222, 223, 295, 238, 239, 240, 252, 277, 318, 332, 343 Basilea 1-2-3, 46-47, 50, 258, 259 BBA Euro-Libor, 224, 225 BCE

corridoio di tassi overnight, 215-216 operazioni di fine tuning, 215 misure non convenzionali, 216-218 politica monetaria, 203, 204 rilevazione del tasso di cambio, 193

riserva obbligatoria, 221 struttura, 194, 205 Benchmark, 273, 323, 325-327, 328 Best execution, 157, 158, 168-169, 282 Best practice, 38, 99 Bilanci contabili bilancio economico nazionale, 113 contabilità nazionale, 75 Bilancio civilistico (di esercizio), 108 bilancio consolidato, 84, 93, 108 gruppo aziendale, struttura, 91-92 indici di bilancio, 84-87 principi contabili internazionali (IAS), v. IAS riclassificazione, criteri generali, 78-79 riclassificazione delle imprese bancarie, 82 riclassificazione delle imprese di assicurazione, 82-84 riclassificazione delle imprese finanziarie, 80-81 riclassificazione delle imprese industriali, 79-80 Bloomberg, 226, 282 Borsa italiana, 99, 107, 252, 263, 277, 281, 284, 289, 291, 293, 296, 297, 298, 300, 301, 324, 343 Afterhours, 287 AIM Italia, 289-290

circuito telematico, 281 derivati di Borsa, 300-311 e Il Sole 24 ORE, 284-285, 292-293, 296 indici di Borsa, 295-298 informativa pre e posttrading, 292 intermediari, 277 liquidazione, 288 MTA international, 291 Monte Titoli, 281 negoziazione in continua, 286 ordini di Borsa, 291-295 prezzo di controllo, 286-287 prezzo ufficiale, 286, 288, 292, 293 sistema delle grida, 280 Star, segmento, 99, 287, 289, 298 trading on line, 281-283 Borse estere aggregazioni di Borse, 314 e Il Sole 24 ORE, 297, 309 Euronext, 96, 314 indici, 297, 298-299 London Stock Exchange, 312-313 NASDAQ, 313 NYSE, 313 Borse merci, 350, 353-358 BOC, v. Buoni degli enti locali BOT, 13, 47, 49, 208, 238-239, 240, 243, 244, 248, 250, 319 BTP, 204, 237, 238, 241-243, 248, 250, 255, 266, 272 , 275, 319

360 . INDICE ANALITICO

indicizzati all’inflazione, 238, 244-245 BTP€i, v. Btp indicizzati all’inflazione BTP future, 272 Buoni degli enti locali, 246 Cambio a pronti (spot), 181, 188 a termine (forward), 182 certo per incerto, 181, 190 corso lettera (ask)/denaro (bid), 185 cross rate, 182 e Il Sole 24 ORE, 177, 186, 190 fixing, 183 incerto per certo, 181, 190 listino ufficiale, 183, 264 spread, 185 tabelle dei cambi, 186 tasso di –, 180-181 Cartolarizzazioni, 27, 201, 257, 263, 265-271 Cassa di compensazione e garanzia, 223, 226, 227, 228, 229, 274, 281, 289, 301, 304, 306, 307, 347 CCT, 238, 242-243, 244, 248, 250, 255, 319 CCT Euribor, 238 Certificato di deposito, 212, 254 Circuito telematico, 281 Collegio sindacale, 105 Conflitto d’interesse, 108, 157, 160, 165, 169-171 Consiglio di amministrazione, 106, 107 responsabilità, 104-105 ruolo degli amministratori, 103 Consob, 103, 105, 108, 111, 160, 163, 164, 165, 166, 172, 174, 252, 277, 314, 318, 328, 333, 338, 343 Contenzioso tributario, 136, 145-148 Contratti a termine, 187-190, 191, 192, 226, 247, 350, 357 calcolo del premio e dello sconto, 188, 189, 190

cambio a termine, 182, 188, 189 rischi e garanzie, 187 scadenze, 188 Controparti qualificate, 158 Corporate governance, 94-98 Corte costituzionale, 136, 137, 148 Corte dei conti, 134 Costituzione, 117, 122, 123, 124, 126, 148, 149, 153, 154 Costo della vita, v. Inflazione Covered bond, 204, 257-258 Covered warrant, 297, 308 Cross rate, 182 CTZ, 238, 240-241, 250 Dazi doganali, 25, 141, 142, 143 Discounted cash flow Delocalizzazione, 31, 32, 34 Denaro/lettera, 189, 190, 254, 264 Derivati del mercato monetario, 225-232 constant maturity swap, 230, 256 forward rate agreement, 228-229 future, 227-228 interest rate swap, 229-231 opzioni sui future sui tassi a breve, 228 overnight indexed swap, 232 Derivati di Borsa, 300-311 contratti di opzione, 305-306 covered warrant, 308 future, 300-304 Idem, 300 mark to market, 304-305 miniFib, 304 opzione Mibo, 306 termini tecnici, 301 warrant, 307-308 Derivati su obbligazioni, 272275 e Il Sole 24 ORE, 273 Eurex, 275 future sui tassi di interesse, 272 Derivati valutari, 191-193 DCF, v.

domestic currency swap, 193 future, 191-192 opzioni, 192-193 rischi, 193 Dichiarazione dei redditi, 125, 128, 132-134, 143, 144, 236, 328 modello Unico, 132, 133, 144, 328 riforme tributarie, 126-129 Diritto societario, riforma del, 98 elementi obbligatori dello statuto societario, 98-101 Disaggio di emissione, 236, 248 Discounted cash flow, 90 Disoccupazione, tasso di, 68 Dividend growth model, 90 Domestic currency swap, 193 Dow Jones Global, 299 Duration, 249, 319 Economia nazionale, andamento della indice della produzione industriale, 48, 54, 61-62, 63, 184 indici della produzione nelle costruzioni, 64 indici del commercio con l’estero, 66-68 indici del fatturato e degli ordinativi dell’industria, 62-63 indici del valore delle vendite al dettaglio, 65-66 indici di fatturato dei servizi, 64 indici di fiducia, 64-65 ECU, 193, 195 E-MID, 211, 222-223, 232 E-MIDER, 223 Enti sovranazionali, titoli degli, 246, 252, 264 Entrate dello Stato contributi, 119-120 fondi per la sicurezza sociale, 120-121 parafiscalità, 120 servizi divisibili e indivisibili, 118-119

INDICE ANALITICO . 361

tasse e imposte, 118-119 tributarie ed extratributarie, 116-117 EONIA (European overnight index average), 49, 216, 223, 225, 226 Equity linked, 256-257, 260, 338 Equity valuation, 90 ETC, 324 ETF, 309, 316, 324, 326, 327 Eurex, 226, 274, 275, 285, 314 Euribor (European interbank offered rate), 202, 208, 223224, 225, 226, 227, 228, 229, 243, 244, 255, 257, 259, 261 Euro crisi del, 42-43, 197, 198 e ISTAT, 56-58, 60 nascita e ammissione, 195-196 patto di stabilità e crescita, 196-197 Euro-Libor (Euro London interbank offered rate), 224, 227 Euromot, 261, 262 EuroMTS, 251, 263 Euronext.liffe, 226 Eurosistema, 205-207, 209, 211216, 219, 220, 221, 222-225 Evasione fiscale, 127, 148-150 EV/EBIT, 89, 91 EV/EBITDA, 89, 91 Fair value, 77, 82 Fatturato, definizione, 63 Federalismo fiscale, 128-129 Financial Times, 298 Finanziarizzazione, 39-41, 44 Firm valuation, 90 Fisco autotassazione, 143-148 capacità contributiva, 123-124 contenzioso, 145-146 dazi doganali, 142 differenza tra imposte dirette e indirette, 125-126 elusione, 150 evasione fiscale, 148-150

giochi, 142 ICI, 137-138

imposta di bollo, 140-141 imposta di registro, 140 imposta sulle successioni e donazioni, 140 imposte di fabbricazione, 141-142 imposte ipotecarie e catastali, 141 IRAP, 135-137 IRES, 134-135 IRPEF, 129-132 IVA, 138-140 monopoli, 142 obbligo tributario, 148-149 principi costituzionali, 122-123 progressività fiscale, 124 riforme tributarie, 126-129 Fisher, formula di, 66 FOI, 54, 55, 59 Fondi chiusi, 331, 343 Fondi comuni di investimento mobiliare aperti, 317-332 asset allocation, 323, 325 azionari, 322-323 bilanciati, 322 costi, 328 di liquidità, 318-319 e Il Sole 24 ORE, 326 flessibili, 323 hedge fund, 330-331 market timing, 323-325 obbligazionari, 319-322 piani di accumulo, 329 private equity, 330-331 prodotti esteri, 330-332 SICAV, 324, 326, 327, 330, 331, 332 sottoscrizione, 327-328 stock picking, 323, 325, 327 tassazione, 324 volatilità, 320 Fondi pensione, 157, 178, 339342 Fondi per la sicurezza sociale, 120-121 Forward rate agreement, 228229

FRA, v. Forward

rate agreement Future sui tassi a breve termine, 227-228 sui tassi di interesse, 272-274 sull’indice FTSE-MIB, 285, 302-304 valutario, 192

Gazzetta Ufficiale, 101 Gestione patrimoniale, 322-323 Globalizzazione, 23-39 GPM, v. Gestione patrimoniale Gruppo aziendale, struttura, 9193 bilancio consolidato, 93 IAS, 82 ICI, 137-138 Idem, 300, 304 Imposte di fabbricazione, 140141 Imposte dirette differenza con le indirette, 125-126 ICI, 137-138 IRAP, 135-137 IRES, 134-135 IRPEF, 129-132 Imposte indirette differenza con le dirette, 125-126 imposta di bollo, 140-141 imposta di registro, 140 imposte ipotecarie e catastali, 141 IVA, 138-140 successioni e donazioni, 140 Imprese bancarie, bilancio riclassificato delle, 82 Imprese di assicurazione, bilancio riclassificato delle, 82-84 Imprese finanziarie, bilancio riclassificato delle, 80-81 Imprese industriali, bilancio riclassificato delle, 79-80 Index linked, 82, 256-257, 260, 338 Indicatori, v. Indici

362 . INDICE ANALITICO

Indici andamento dei conti pubblici, 75 andamento del mercato del lavoro, 68-71 andamento del PIL e del conto economico delle risorse e degli impieghi, 75 bilancia commerciale, 74 bilancia dei pagamenti, 74 numeri indici, 52-54 v. anche Economia nazionale, andamento della Indici di bilancio, 84-87 Indici di Borsa, 298-299 Dow Jones Global, 299 e Il Sole 24 ORE, 284-285, 296, 297, 309 FTSE-Italia All Share, 284, 298 FTSE-MIB, 285, 286, 296, 298, 301, 302-303, 304, 306, 309 Mediobanca, 298 MSCI, 299 Inflazione, 55-59 e globalizzazione, 44, 45 Informativa societaria azioni del management, 164-165 bilanci, 161-162 obblighi informativi, 159 partecipazioni rilevanti, 164 prospetto informativo, 159-161 Insider dealing, 165 Insider trading, 164, 173-175 Interest rate swap, 229-231 Intermediario finanziario documento sui rischi degli investimenti, 165 informazioni sull’investitore, 165-168 regola della best execution, 168-169 Investitori privati, 156-157 Investitori professionali, 157158 IPCA, 54, 55, 59

IRAP, 135-137 IRES, 134-135 IRPEF, 129-132 IRS, v. Interest

rate swap v. Indici paniere, 59 Istituto centrale di statistica, v.

ISTAT,

ISTAT IVA, 138-140

Keynes, John Maynard, 23, 25, 30, 50 Lancette dell’economia, rubrica del Sole 24 ORE, 48-49 Laspeyres, indice di, 54, 55, 61 LIFFE, 272, 275, 314 Manipolazione, 173, 174, 298 Market maker, 300, 308 Massa monetaria, 206, 207 Mediobanca, indici, 298 Mercati delle merci e Il Sole 24 ORE, 348-349, 354-355 Mercati obbligazionari esteri Euromot, 261, 262 Mercato azionario, v. Borsa italiana; Borse estere Mercato del lavoro, andamento del indicatori OROS, 70-71 rilevazione delle forze lavoro, 68 statistiche ed Europa, 72-73 Mercato italiano future, v. MIF Mercato monetario e Il Sole 24 ORE, 200, 203, 208, 209, 216, 224 operazioni di mercato aperto, 211-215 prodotti derivati, 225-232 pronti contro termine, 213 riserva obbligatoria, 221 sistemi di pagamento, 219-220 tassi, 207-211 Mercato obbligazionario aste dei titoli pubblici, 241 derivati su obbligazioni, 272-275

e Il Sole 24 ORE, 248 Eurex, 275 Euromot, 261-262 EuroMTS, 252-263 MOT, 251-254 obbligazioni, obiettivi e caratteristiche, 234-238 obbligazioni subordinate, 258-259 obbligazioni strutturate, 254-261 rating, 262 titoli degli enti sovranazionali, 246 titoli di Stato, 239-245 titoli pubblici, 245-247 TLX, 252-254 Mercato obbligazionario telematico, v. MOT Mercato telematico dei depositi interbancari, v. E-MID Mercato telematico secondario dei titoli di Stato, v. EuroMTS Mercato valutario e Il Sole 24 ORE, 177, 184, 186 spread, 185 Merci, v. Mercati delle merci MIF, 275 Mifid, 154-155, 156, 163, 166, 168, 170, 252, 277, 282, 329, 333 MiniFib, 302-303, 304 Monopolio, 142 Monte Titoli, 163, 281 MOT

e Il Sole 24 ORE, 248-249 tipologie di PDN, 247 valore della quotazione di obbligazioni private, 252-254 MTF, 277, 282, 289, 290, 343 Multilateral trading facilities, v. MTF NASDAQ , 313, 314, NAV, 317, 324, 331, 343 NIC, 54, 55, 59 Nomad, 290

INDICE ANALITICO . 363

Numero indice, 52-54 NYSE, 313

P/MP (prezzo/mezzi propri), 88-89

ROD, 86 contro termine ROE, 86 P/U (prezzo/utili), 88 ROI, 86 Obbligazioni, v. anche Mercato PDN, 247 Schumpeter, Joseph Alois, 11, 12, obbligazionario, Titoli di Stato Piazza Affari, v. Borsa italiana PIL, andamento, 75 35 aspetti fiscali, 237 PIP, v. Fondi pensione Sconto, v. Contratti a termine valore nominale, 235 SEBC, 195, 205, 206, 209 Obbligazioni strutturate, v. anche Polizze vita, 333-338 Portafoglio, diversificazione del, SGR, 171, 317, 324, 327, 331, 332, Mercato obbligazionario 341, 342, 343 165, 166-167, 312 cap floater, 257 SICAV, 317, 324, 326, 327, 330, Posizione lavorativa, 71 constant maturity bond, 256 331, 332 Premio, v. Contratti a termine covered bond, 257-258 SIM, 156, 171, 238, 241, 280, 315, Prime rate, 209, 225 e cartolarizzazione, 266-269 327, 332, 334, 341, 342 Private banking, 323 equity linked, 256 Pronti contro termine, 184, 209, Sistema europeo di Banche cenfixed reverse floater, 255 trali, v. SEBC 213, 223, 319 index linked, 256 Sistema monetario europeo, v. obbligazioni subordinate, SME Rating, 262 58-259 step-up e step-down, 255-256 Registro degli intermediari assi- Sistemi di pagamento Bi-comp, 219-220 curativi, 334 tarn floater, 257 SEPA, 220 Repos, v. Pronti contro termine tier 1-2-3, 259-261 RIA, v. Registro degli intermediaTARGET 1-2, 218-219 Occupazione, tasso di, 68 ri assicurativi Sistemi monetari internazionali Offerta pubblica d’acquisto, v. OPA Ribor, 224 gold exchange standard, 179 OIS, v. Overnight indexed swap Riclassificazione dei bilanci, v. gold standard, 179 SME, 194, 195, 197 Ombudsman, 171 Bilancio civilistico OPA, 109-112 Smith, Adam, 122 Riforme tributarie, 126-129 Opzione Riserva obbligatoria, 206, 214, Società call, 164, 192, 226, 228, 251, amministratori e organi 221 259, 305, 307 di vigilanza, 103-109 Risparmio, protezione del Mibo, 306 assemblea, 101-103 clienti al dettaglio, 156-157 put, 192, 226, 228, 305, 307 codice di conflitti d’interesse, 169-171 sui future sui tassi a breve, autoregolamentazione, 99 controparti qualificate, 158 207-208 corporate governance, 94-98 correttezza degli intermediari, valutaria, 192 informativa societaria, 165-169 Ordini di Borsa, 291, 294-295 158-165 fondi di garanzia, 156 Organi di vigilanza societaria mobilità del controllo, informativa societaria, 158-165 modello anglosassone, 95 109-112 investitori professionali, modello “renano”, 96 patti di sindacato, 112 157-158 società di revisione, 108-109 riforma del diritto societario, protezione ex post, 171-175 Overnight, tasso, 49, 209, 21598 rischi degli investimenti, 216, 221, 223 scatole cinesi, 97 166-167 Overnight indexed swap, 222 soci minori, 106 Risparmio gestito statuto, 98, 100-101 e Il Sole 24 ORE, 326 Parafiscalità, 120 Società di gestione del risparmio, v. anche Fondi chiusi; Fondi Patti di sindacato, 92, 107, 112, v. SGR comuni di investimento Società di intermediazione mobi159 mobiliare aperti; Fondi P/BV (price/book value), v. P/MP liare, v. SIM pensione; Polizze vita Società di investimento a capitale P/CF (prezzo/cash-flow), 88 Rivoluzioni industriali, 19-22 P/E (price earnings), v. P/U ROB, v. Riserva obbligatoria variabile, v. SICAV P/T, v. Pronti

364 . INDICE ANALITICO

Solvency 1-2, 46, 47 Spese dello Stato, 114-115 Statuto societario, v. Società TARGET 1-2, 218-219 Tarn floater, 257 Tassi Euribor, 202, 208, 223-224, 225, 226, 227, 228, 229, 243, 244, 255, 257, 259, 261 Euro-Libor, 224, 227 interbancari, 208-209, 223, 225, 230 overnight, 209, 215, 221, 223, 232 prime rate, 209, 225 Tier 1-2-3, 259-260

Titoli degli enti sovranazionali, 246 Titoli di Stato BOT, 13, 47, 49, 208, 238-239, 240, 243, 244, 248, 250, 319 BTP, 204, 237, 238, 241-243, 248, 250, 255, 266, 272, 275, 319 BTP indicizzati all’inflazione, 238, 244-245 CCT, 238, 242-243, 244, 248, 250, 255, 319 CTZ, 238, 240-241, 250 dematerializzazione, 239 TLX, 252-254 Trading on line, 281, 283

ULA, 71

Unico, modello, 132, 133, 144, 328 v. anche Dichiarazione dei redditi Unit linked, 82, 256-257, 260, 338 Utile per azione, 88 Wall Street, 299, 311, 313 Warrant e Il Sole 24 ORE, 309 Yield, 91 yield enhancement, 267 Zero coupon, 238, 239, 240, 255

16257

Secoli di storia ci hanno insegnato che lo sviluppo dell’economia non procede mai in modo continuo e regolare, ma a scatti e spasmi. E, nella stagione dell’incertezza, la risorsa primaria di cui disponiamo è la conoscenza. Come si legge Il Sole 24 ORE parte dai fatti quotidiani – il costo della vita e il costo del denaro, i Bot, le tasse, le azioni e così via – e spiega i meccanismi delle tante transazioni che ognuno di noi prima o poi si trova ad affrontare. Giornalisti e collaboratori del Sole 24 ORE si alternano nei diversi campi dell’economia e della finanza – bilanci delle società, governance, protezione del risparmio, mercati azionari, obbligazioni, valute e Borse merci – e illustrano le rubriche e le tabelle che il lettore ritroverà sulle pagine di uno dei quotidiani economico-finanziari più venduti in Europa. Fabrizio Galimberti è editorialista del Sole 24 ORE. Riccardo Sabbatini è caposervizio alla redazione “Finanza” del Sole 24 ORE. Gian Luigi Simone è presidente di Studi e Investimenti Mobiliari, società di consulenza mobiliare di Torino.

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