Il nostro inquilino segreto. La coscienza. Psicologia e psicoterapia 9788862202152

Nonostante la crescita esponenziale del sapere scientifico la coscienza continua a essere una realtà elusiva e misterios

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Il nostro inquilino segreto. La coscienza. Psicologia e psicoterapia
 9788862202152

Table of contents :
Indice
Il Libro
Presentazione
Capitolo 1. Una domanda imbarazzante: «La coscienza, che cos’è?»
La vaghezza
Un’egocentrica debolezza
Reificazioni e generalizzazioni
Un costrutto positivista di senso comune?
Ancora sulla polisemia
La coscienza inventata
Capitolo 2. A spasso con un fantasma: la coscienza di sè
Pensieri molesti
Cartografi ed esploratori: ognuno con le sue mappe
Una definizione al fantasma
Un fantasma multiplo
Fantasmi, cucchiai e chimere
Lo strano abitante di Loch Ness
Effetti realistici
Scettici e pragmatisti
Invenzioni indefinite
Sdoppiamenti e molteplicità
Difficoltà e limiti concettuali
Finalmente una foto
Frammenti di coscienza
Il monoteismo della coscienza
Coscienza: matrici generative
Capitolo 3. Quattro ipotesi sull’origine della coscienza
Capitolo 4. Può il linguaggio dar forma alla coscienza?
Linguaggio e coscienza, una premessa
Menti con linguaggio
Menti senza linguaggio
Tutti jaynesiani?
Metafora e conoscenza
Illustri antesignani
Una rivoluzione nelle scienze cognitive
Può il linguaggio dar forma al pensiero?
Può il linguaggio dare forma alla coscienza?
Coscienza, tra biologia e cultura
Capitolo 5. L'evoluzione della cultura
Premessa e ‘istruzioni’
Introduzione
Ma Crick ha letto Jaynes?
Segni e simboli: la proposta della modeling system theory
Segni della vita
Permanenza delle proprietà
Cosa sono i qualia?
«Non è la pietra che si trova nell’anima, ma la sua forma»
Rappresentazioni, sistemi segnici, intenzionalità
Uso-menzione
Capitolo 6. Il sé come relazioni sociali interiorizzate. L'applicazione della teoria jaynesiana ai problemi dell'agentività
Premessa autobiografica
Il problema dell’agentività. Come la società mette un sé al nostro interno
I parametri della psiche. L’imperativo dell’autorizzazione: l’individuo come Agente
Dall’autorizzazione all’auto-autorizzazione. Come impariamo ad avere un Sé
La spazializzazione dell’autorizzazione: l’interiorità psicologica
Tre tipi di mentalità
Un'antica mentalità: la mente bicamerale
Vestigia di un'antica mentalità: molteplici psicologie
Metafora e loci of control: la concettualizzazione della molteplicità psicologica
Vestigia di un'antica forma mentale: ipnosi e possessione spiritica
Conclusione
Appendice
Capitolo 7. Ascoltare voci: sdoppiamenti e dissociazioni nella coscienza di sé
Premesse
Eventi attivanti e configurazioni semio-percettive
Cosa insegnano le allucinazioni psichedeliche
L’uditore di voci è sempre uno psicotico?
Riportare l’ignoto oltre il già noto
Punti di vista
Reperti soggettivi e clinici
Polifonie
L’ipotesi subvocale
Schemi linguistici
I generi discorsivi codificati
Credenze costruttive
Capitolo 8. Psicoterapia delle voci e dei pensieri persecutori
Conflitto tra voci di dentro: un caso
Il Trattamento: La tecnica
Glossario
Gli autori

Citation preview

Il Libro Nonostante la crescita esponenziale del sapere scientifico la coscienza continua a essere una realtà elusiva e misteriosa. Con il termine coscienza si indica l’esperienza che facciamo del mondo attraverso noi stessi e di cui gli altri ci attribuiscono vari gradi di consapevolezza senso-percettiva e di controllo. Pur essendo noti alcuni dei meccanismi neurologici che la rendono possibile, la conoscenza di questi meccanismi rimane insufficiente o inadeguata a comprendere la sfuggente natura psicologica della coscienza. Difficoltà che secondo molti studiosi è dovuta a un insuperabile problema epistemologico. Nel saggio Il nostro inquilino segreto sono raccolti i lavori di un gruppo internazionale, costituito da ricercatori e clinici, che si richiama all’opera di Julian Jaynes. Gli autori esplorano le differenti forme di cosa voglia dire ’essere coscienti’, le identificano con i linguaggi usati e le azioni in cui siamo impegnati. Da ciò la pluralità delle sue possibili configurazioni. La coscienza non è una ’cosa in sé’, un oggetto psichico, ma il nome che diamo a una classe di ’operazioni’ interattive. Tra cui, ad esempio, il riflesso delle relazioni che intratteniamo con noi stessi, con gli altri e il mondo. Il risultato di questo ’dialogo’ sistemico contribuisce a costruire i diversi modi di essere e di sentirsi coscienti.

Alessandro Salvini è attualmente direttore scientifico dell’Istituto di Psicologia e Psicoterapia di Padova (Psicopraxis) e delle Scuole di specializzazione in psicoterapia interazionista di Padova e di Mestre. È stato professore ordinario di Psicologia clinica all’Università di Padova, e Presidente del Collegio dei professori universitari di Psicologia clinica delle Università italiane. Svolge attività clinica e di ricerca. I suo lavori e interessi scientifici riguardano i settori relativi all’identità e comportamenti devianti, agli stati modificati di coscienza e ai metodi della psicoterapia. Roberto Bottini si è laureato in Psicologica Clinica all’Università di Padova e ha conseguito il dottorato in Antropologia ed Epistemologia della Complessità all’Università degli Studi di Bergamo. Attualmente conduce attività di ricerca presso la New School for Social Research di New York. Le sue ricerche vertono soprattutto sui rapporti tra pensiero e linguaggio, l’evoluzione della coscienza e la percezione e rappresentazione del tempo.

Saggi di Terapia Breve collana diretta da Giorgio Nardone

Con contributi di Julian Jaynes, Marcel Kuijsten, Brian J. McVeigh, Giorgio Nardone, Angelo Recchia Luciani e Maria Quarato.

In copertina: credit Secret Lives, 1988 (olio su tela) by Kirby, John (b.1949) Private Collection/ The Bridgeman Art Library

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Grafica: GrafCo3

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Ponte alle Grazie è un marchio di Adriano Salani Editore S.p.A. Gruppo editoriale Mauri Spagnol © 2011 Adriano Salani Editore S.p.A. – Milano ISBN 978-88-6220-437-8

Prima edizione digitale 2011 Realizzato da Editype s.r.l. Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

Presentazione Questo volume si presenta come un’opera interdisciplinare in cui il problema della coscienza viene affrontato da molteplici punti di vista. Tuttavia, gli autori dei diversi contributi condividono tra loro importanti presupposti epistemologici e metodologici riguardo allo studio della coscienza, linee guida che a mio avviso rendono effettivamente possibile il confronto tra discipline. Un confronto, e un arricchimento reciproco, che credo sia necessario per lo studio della mente e della coscienza. Nei primi due capitoli i curatori Bottini e Salvini coinvolgono il lettore nel tentativo di dare una risposta all’interrogativo su cosa sia la coscienza e in particolare la coscienza di sé. Come in un percorso zen, l’importante non è trovare la risposta ma riuscire a guardare la domanda da prospettive molteplici. Lo scopo è quello di provocare il lettore perché si faccia un’opinione propria. Nel terzo capitolo Julian Jaynes espone la sua tesi affascinante sull’evoluzione storica e culturale della coscienza, a cui questo libro deve molto. Nel quarto saggio, dal titolo «Può il linguaggio dar forma alla coscienza?», verrà indagato il ruolo del linguaggio nello sviluppo del pensiero cosciente. Jaynes riteneva che il linguaggio fosse necessario per la coscienza, e che quest’ultima fosse quindi una prerogativa del genere umano. Inoltre, essendo la coscienza frutto di un’evoluzione culturale più che biologica, basata su un processo metaforico di carattere linguistico che si apprende attraverso l’interazione comunicativa tra individui, essa deve essere appresa dopo la nascita. In altre parole, dobbiamo imparare a essere coscienti. Nella prima parte di questo saggio, Marcel Kuijsten fornisce un rapido excursus sugli studiosi che, soprattutto negli ultimi trent’anni, hanno fornito teorie e testimonianze a sostegno dell’ipotesi secondo cui il linguaggio è necessario per la coscienza. Nella seconda parte del capitolo, invece, Roberto Bottini approfondisce, alla luce delle scoperte delle scienze cognitive di seconda generazione, il ruolo del linguaggio e della metafora nella costruzione di uno ‘spazio mentale’, funzionale al pensiero cosciente, così come teorizzato da Jaynes. Il problema dell’evoluzione della coscienza viene affrontato da Angelo Recchia-Luciani nel saggio dal titolo «L’evoluzione della cultura». Passando con elegante disinvoltura dalle neuroscienze alla biosemiotica, dall’etologia alla psicologia culturale e alla linguistica, lo studioso traccia una sintesi della complessa storia evolutiva della mente umana, fino al fiorire del pensiero cosciente. L’autore si colloca nella prospettiva ‘emergentista’ che lo accomuna a Jaynes e a molti altri studiosi, convinti che sia possibile, anche sulla base incompleta del sapere che oggi possediamo, intravedere con chiarezza come la coscienza, nella sua forma più complessa, differenziata e umana sia un risultato evolutivo. Nel sesto capitolo Brian McVeigh, sulla scorta della teoria jaynesiana e radicalizzando le posizioni dell’interazionismo simbolico di George H. Mead, riflette sulla genesi sociale di alcuni aspetti della natura umana come la ‘volontà’ e l’‘agentività’. Secondo McVeigh, impariamo a controllare noi stessi in seguito all’interiorizzazione delle relazioni di controllo sugli altri e sulle cose: tutte le nostre azioni o pensieri coscienti devono avere una qualche forma di autorizzazione da un essere sociale, anche se questo essere sociale viene

concepito come ‘io’ o ‘me’. Si tratta di un contributo importante perché infrequente. Difatti esiste la diffusa tendenza, quando si parla di coscienza, di considerarne gli aspetti neurobiologici e di trascurarne le condizioni sociologiche e gli artefatti semiotici da cui ciò di cui siamo coscienti riceve l’imprinting necessario. Spesso gli esperti delle scienze cliniche della psiche, generalizzando, classificano come allucinazioni uditive e sintomi psicotici il fenomeno dell’udire voci, anche quando non è accompagnato da altri problemi psicologici. Agli uditori di voci non sembra sempre adeguato utile e proficuo applicare il classico schema descrittivo/esplicativo ‘del normale e del patologico’ o ‘del sintomo e della malattia’, riconducendo l’ignoto al già noto, ovvero a un procedimento diagnostico categoriale, con effetti iatrogeni, stigmatizzanti e denigratori, inadeguato per la conoscenza e la terapia. Attraverso i risultati delle loro indagini, e da una prospettiva clinica, Alessandro Salvini e Maria Quarato hanno indagato quella particolare esperienza che gli uditori di voci ospitano come presenza cosciente e riflessa: ‘altro da sé’ sotto forma di voce parassita ed estraniata, ma per loro più che reale. La coscienza in certi momenti e in certe persone si sdoppia. La coscienza esplicita non riconosce più quella implicita, e questa ospita – non si sa come – voci altre e non solo. Nell’ultimo capitolo Giorgio Nardone e Alessandro Salvini presentano un caso singolare: la terapia di una persona perseguitata e posseduta da voci e dalla coscienza critica di sé. A parte il caso singolare di Julian Jaynes, gli psicologi accademici hanno manifestato da sempre un interesse occasionale e una sorta di ritrosa prudenza verso il tema della coscienza. Subendo prima l’interdizione storica del comportamentismo e delle psicologie positiviste in genere, sono stati lieti di lasciare le questioni che ruotano intorno alla coscienza alle spiegazioni riduzioniste dei neurofisiologi, evitando così l’accusa di volersi interessare di questioni metafisiche e di fare della filosofia della mente. Solo dopo l’avvento di una nuova generazione di studiosi è stato riconosciuto alla filosofia della mente il diritto di occuparsi di ciò che la psicologia, presa da eccessi sperimentali, e ‘confusione concettuale’,1 aveva da tempo trascurato. Ma nel frattempo buona parte dei filosofi della mente sono migrati verso le neuroscienze condividendone spesso le tesi radicali più riduzioniste, antipsicologiche, e in definitiva antifilosofiche, forse in questo suggestionati dai successi delle neuroscienze visti dal punto di vista dell’uomo della strada e forse ancora più preoccupati di salire sul presunto carro del vincitore, quello delle scienze della natura, scendendo dallo scomodo carro delle scienze della cultura. Nel desiderio di avere un unico dio scientifico, il ‘monoteismo metodologico’ può far dimenticare l’‘incommesurabilità’ tra saperi e paradigmi, e quindi la relatività e il pluralismo che giustifica ogni forma di sapere con i suoi metodi e linguaggi sempre relativi alla porzione di realtà convenzionale di cui il ricercatore si occupa. L’imbarazzante e spinoso tema della coscienza non solo è stato trascurato dalle psicologie accademiche, ma anche dalla psicoanalisi troppo impegnata sul fronte dell’inconscio, dando per scontato che il ‘conscio’, quello del senso comune, fosse più che evidente di per sé, dimenticando che il diavolo esiste in funzione dell’idea di un dio, e che ogni polarità concettuale crea l’altra, e che ogni dualismo finisce per produrre pensieri reificanti, e discorsi su ciò che è vero e ciò che è falso o giusto e sbagliato. Ciò è comprensibile se si considera che la psicoanalisi è stata creata, adottata e praticata da menti positiviste, spesso inconsapevoli della loro condizione storica e tributo epistemico. Ma nel tema della coscienza si sono imbattuti anche molti psicoterapeuti, e da loro è stato recentemente recuperato con altre prospettive, che vanno nella direzione aperta da Julian

Jaynes. Gli stati mentali e le identità multiple, l’udire le voci, come modificare le ferite autovalutative inferte alla ‘coscienza di sé’, come addentrarsi nei cosiddetti ‘stati modificati di coscienza’, e utilizzarli, implicano la necessità di confrontarsi per motivi pratici e contingenti con alcune tematiche della coscienza e le molteplici versioni che offre. L’ipnosi, il sogno, l’estasi religiosa e psicotropa, la trance, gli effetti dei linguaggi performativi, le sinestesie, le memorie autobiografiche, gli stati crepuscolari, i processi dissociativi e le akrasie. Le affiliazioni emotive di gruppo e molti altri problemi relativi agli stati di coscienza collettiva sono temi che violano un altro tabù della psicologia ufficiale, irriducibilmente ostile alla psicologia transpersonale e alla cosiddetta ‘mente estesa’, cui possono essere riferite ad esempio le forme di coscienza situazionali, di ruolo, interpersonali, iniziatiche e terapeutiche. Molti giovani psicoterapeuti di terza generazione, sensibili alla necessità di dare coerenza e fondatezza epistemologica al loro lavoro intellettuale, e di fronte al mistero con cui la professione li porta a confrontarsi, hanno finito per riportare il tema della coscienza al centro dei loro interessi, nel tentativo di aggirare ora l’imbarazzante dualismo mente-corpo, ora i monoteismi della coscienza, affrancandosi dal considerarla un oggetto, una cosa in sé, suscettibile di logiche dualistiche, deterministe e fattuali. Per questi e altri motivi, alcuni modelli di psicoterapia, afferenti a un paradigma olistico e pragmatista, si sono inoltrati già da tempo, e con i loro mezzi, nei territori della coscienza. Da un lato troviamo il movimento delle psicoterapie transpersonali e umanistico-esistenziali, dall’altro il costruttivismo interazionista, strategico e sistemico. Per molte di queste ragioni, nell’ultimo capitolo Nardone e Salvini, da psicoterapeuti ‘esploratori’, non nascondono le loro simpatie per una prospettiva pragmatista e relativista, ritenendola non la più ‘vera’, ma la più adeguata alla natura dei problemi di cui si occupano. Per i curatori di questo libro il tema della coscienza ricorda quello dell’impossibilità di separare la danza dal danzatore, da cui anche la necessità di un pensiero atto a comprendere la danza evitando di cercarla solo nella dissezione empirica del suo corpo. Dimenticando la costante presenza del soggetto relazionale nella costituzione di ciò che chiamiamo coscienza. Come ha scritto E. Schrödiuger, un fisico famoso nel suo libro Mind ant Matter, a proposito della nostra tendenza a escludere il soggetto, l’osservatore partecipante della costruzione scientifica degli eventi: «perché l’io stesso è quella visione del mondo. È identico all’intero e perciò non può essere contenuto in esso come sua parte». Anche quando pensiamo alla coscienza ci dimentichiamo delle operazioni che facciamo per percepirla e configurarla come tale. Enrico Molinari Professore ordinario di Psicologia clinica all’Università Cattolica di Milano

Qualche problema

Capitolo 1 Una domanda imbarazzante: «La coscienza, che cos’è?» Alessandro Salvini, Roberto Bottini

La vaghezza Una delle maggiori difficoltà che si incontrano in ogni conversazione sulla coscienza consiste spesso nel capire di cosa si stia parlando. La molteplicità dei significati attribuiti alla parola ‘coscienza’ s’incontra non solo nei discorsi di senso comune, ma anche nelle teorie sociali, scientifiche e nella ricerca filosofica. La ‘coscienza’ (di classe) di cui parla il marxista non è la stessa ‘coscienza’ (sensoriale) di cui parla l’anestesista, mentre ciò su cui s’interroga il neurobiologo corrisponde solo parzialmente alla coscienza di cui si occupa lo psicologo. Avere la coscienza sensoriale del proprio corpo è diverso dal senso d’identità e dal sapere chi siamo. Sapere che abbiamo il braccio alzato non significa essere sempre coscienti del significato che ha per altri. Non giova neanche richiamare l’antico detto secondo cui la coscienza è quella cosa che conosciamo benissimo finché non ci viene chiesto di spiegarla. Ma questo vale anche per altri concetti, come il pensiero, le idee, l’amore, la libertà, la dignità, la gelosia, la fede e altro ancora, suscettibili di usi polisemici. Si tratta di un elenco molto lungo di parole, di cui fa parte anche la coscienza, la cui ‘vaghezza’ le espone al paradosso che i logici del linguaggio chiamano ‘sorite’, riprendendo un problema sollevato da Eubulide di Mileto, contemporaneo di Aristotele, quando si chiese quanti chicchi sono necessari per poter dire di avere un mucchio di grano. Eubulide voleva mettere in discussione la molteplicità del reale dichiarandosi a favore della sua continuità. Problema che oggi sembra erodere molte certezze su come costruiamo i predicati relativi agli eventi mentali che assumiamo come reali e unici, discontinui o discreti, e la cui esistenza concettuale sembra essere indipendente da noi. Potremmo chiedere agli addetti ai lavori: «Ma com’è possibile distinguere la mente dalla coscienza?» Dai complicati paradossi sollevati dal ‘sorite’, e in cui non ci addentriamo, origina il problema della ‘vaghezza’ che non turba solo i logici, ma anche tutti noi quando nominiamo certe entità di cui è difficile delimitare il confine, siano queste entità morali o fattuali, semantiche o fisiche, come può esserlo il tentativo di stabilire il punto preciso in cui una nuvola inizia o cessa di essere tale, o il momento esatto in cui un bambino diventa adulto, o quando si cessa d’amare qualcuno. Quindi se non c’è un confine all’estensione di un predicato, diciamo che un certo termine è vago. Se chiedete a qualcuno, e nella maniera più rispettosa possibile: «Ma lei è un diverso?», quello di rimando potrebbe chiedervi a sua volta: «Scusi, ma diverso da chi?» Difficile dargli torto: dovreste ammettere la vaghezza normativa dei criteri di giudizio e della capacità discriminativa dell’aggettivo ‘diverso’, e non rispondergli con il tono diagnostico e fatuo del clinico da salotto televisivo: «Noto dalla sua risposta che lei ha delle resistenze emotive ad accettare la sua diversità». Il presunto ‘diverso’ vi manderebbe a quel paese. Anche i criteri normativi e categoriali di molta diagnostica psichiatrica potrebbero risultare scompaginati dal vento congiunto della ‘polisemia’ e della ‘vaghezza’. In questo campo l’autorità del clinico o dell’accademico consiste anche nel vantaggio di poter eludere domande irrispettose e rivendicare per sé il diritto a stabilire l’esistenza, la natura e i confini della normalità e delle entità psichiche e diagnostiche che nomina. Ma solo i numeri e i termini di sostanza, genere e specie naturale hanno un’estensione che non li espone a essere vaghi. D’altro lato la vaghezza è una risorsa linguistica se si accetta che sarà l’uso pragmatico, convenzionale, operativo e contestuale a stabilire l’estensione e il significato di una parola, dovendo però rinunciare a trasformarla in un fatto oggettivo. Rinuncia che gli

psicologi e le altre professioni della mente si sono ben guardate dal fare, accodandosi a una tradizione empirista e positivista nell’intento di accreditare le proprie discipline tra quelle scientifiche. Ma, nonostante questa vaghezza, sarebbe possibile e utile depennare il concetto di coscienza dalle scienze della psiche, come fecero i comportamentisti? La storia ci dice che il termine coscienza gode ancora di buona salute, mentre il comportamentismo è passato a miglior vita, trasferito nei libri di storia della psicologia.

Un’egocentrica debolezza Se a questo punto il lettore affaticato o annoiato non è saltato al capito successivo, vuol dire che ha compreso che il mistero inizia proprio dalla parola con cui cerchiamo di condensare ciò che sentiamo quando pensiamo a noi stessi. La pretesa di racchiudere tutto questo nella parola coscienza non ci soddisfa, ma non abbiamo alternative. Anche se sentiamo la necessità di sfuggire all’idea che la coscienza sia un’entità psichica tra le altre, «un oggetto freddo e astorico che cadrebbe nei laboratori come dal cielo» (Latour, 2005). Appena si oltrepassa la soglia della percezione della sua assenza e dei meccanismi che la rendono possibile, i contorni della sua presenza si fanno vaghi. Parziali o inadatti si rivelano i criteri scientifici tradizionali atti a comprenderla. Di fronte alla ‘coscienza infelice’ e alla necessità di prendersene cura sono state disegnate numerose mappe e attuate molte pratiche, religiose, filosofiche, psicoterapeutiche, ognuna delle quali ha creato una propria scienza della mente/coscienza, spesso con risultati migliori per i fini che perseguiva. Proprio per questo, quando usiamo il termine ‘coscienza’ possiamo offrire un esempio di egocentrismo cognitivo, presumendo che la parte da noi nominata stia per il tutto e l’argomentazione prescelta stabilisca di per sé la configurazione ‘vera’ dell’oggetto nominato. Debolezza egocentrica in cui inciampano sia l’uomo della strada, sia lo scienziato, il filosofo della mente e i curatori di coscienze religiose. Un altro problema sorge quando constatiamo la non coincidenza tra l’esperienza implicita che abbiamo di essere coscienti e la sua descrizione esplicita. Tema che ripropone il salto tra comprensione e descrizione, che poi ritroviamo nello iato tra i cosiddetti ‘discorsi constatativi’ e ‘performativi’. Quelli constatativi guidati da criteri disgiuntivi, categoriali ed esplicativi, sono guardati a vista da enunciati bivalenti, come vero o falso. Mentre i performativi sono costruiti attraverso attribuzioni di qualità e atti comunicativi propri delle retoriche persuasive. Se da un lato stabiliamo i caratteri e le proprietà oggettive, ad esempio relative agli stati e gradi di coscienza, dall’altro configuriamo la coscienza attraverso gli effetti che ospita, che produce e che la connotano: in quest’ultimo caso la coscienza sarà allora una certa esperienza felice, conflittuale, estatica, estraniata, alienata, confusa o altro. Il terapeuta e i suoi clienti, ma anche il teorico e lo scienziato della qualità, come chi si occupa della gioia e degli affanni saranno interessati a questo aspetto fenomenico. La coscienza è un artefatto singolare: alcuni la configurano e la studiano guidati da intenti e argomenti denotativi, pensando agli elementi che la costituiscono o le funzioni che la spiegano. Per loro la coscienza è una sorta di monolite psichico, per altri invece è un costrutto con cui nominiamo di volta in volta una pluralità di esperienze (o di artefatti) non solo individuali ma anche transpersonali. Per usare un’analogia, i costrutti connotativi della coscienza di sé emergono e si differenziano ogniqualvolta usiamo o modifichiamo gli specchi dell’autopercezione, come ci capita non solo con gli specchi di casa, ma anche con quelli concavi e convessi del luna park. Questi specchi possono essere neurochimici, percettivi, semiotici e simbolici, attivati da una qualche relazione e in un certo contesto. Ciò implica in noi un’intenzionalità interpretativa attraverso cui possiamo modificare o generare un particolare stato di coscienza, come quando contempliamo un panorama, ascoltiamo della musica o cerchiamo un’esperienza insolita, magari attraverso l’uso di sostanze psicoattive, ma anche attraverso attività fisiche estreme, forme di meditazione,

esperienze spirituali o altro. È noto come diverse culture abbiano inventato numerose pratiche psicologiche e sociali, con l’ausilio o meno di droghe, che possono intensificare, limitare, destrutturare o dissolvere certi aspetti della coscienza. Di fronte a tutto questo, chiedersi che cosa sia la coscienza sperando in una definizione breve, circoscritta, oggettiva e generalizzabile, può sembrare pretenzioso o inutile. Né possiamo risolvere frettolosamente il problema se cerchiamo di identificare la coscienza con alcuni aspetti funzionali del sistema nervoso (trasmettitori biochimici e circuiti neurofisiologici) o con la sua organizzazione senso-percettiva (gli schemi interpretativi e selettivi dell’informazione) o con il sistema linguistico e discorsivo (attraverso cui la rappresentiamo, denotiamo e connotiamo). Nell’angolo più remoto della speculazione è possibile rintracciare un altro dubbio che tormenta alcuni studiosi: «Se accettiamo l’idea dei logici secondo cui nessun sistema può definire se stesso, si fa strada il sospetto che la coscienza così come la rappresentiamo sia una sorta di miraggio autoindotto, insomma un’illusione concettuale». Tale problema è simile a quello secondo cui il cervello non può comprendere se stesso, vincolato com’è dalle sue stesse possibilità conoscitive (o rappresentazionali). Insomma: come dire che, data la posizione degli occhi, non siamo in grado di guardarci la nuca o il coccige, e ancor meno il perineo. Ma non possiamo neanche accedere al mondo ultrasonico dei pipistrelli. Il limite potrebbe essere nel fatto che il cervello non può spiegare se stesso perché non è in grado di produrre le capacità cognitive che gli servirebbero. Come si è detto, una sorta di coscienza infelice pervade gli studiosi della coscienza costretti a parlare di un tema generale che risente della finestra, dell’esperienza e della convenzione scientifica e filosofica da cui si affacciano. Abbiamo accennato che il senso e l’esperienza della coscienza cambiano a seconda dell’uso che se ne fa, e questo rende difficile affacciarci in modo simultaneo da due finestre: un po’ come guardare con il telescopio ottico o con un radiotelescopio una bella stella rossa che alle nostre latitudini fa mostra di sé nei cieli estivi, come Antares nella costellazione dello Scorpione. Con i due strumenti ricaviamo due immagini molto diverse dell’astro. Ma anche tre neurobiologi, partendo da presupposti osservativi diversi, hanno disegnato negli ultimi quarant’anni altrettante mappe di ciò che chiamiamo ‘coscienza’: è sufficiente confrontare i lavori di Jhon Lilly, Gerald Edelman e Jhon Eccles, i quali, di fronte a certi problemi, si sono dovuti trasformare, e con risultati molto diversi, in filosofi della mente, psicologi ed epistemologi. Se poi ci aggiungiamo la prospettiva clinica di un neurologo/antropologo/psicologo come Oliver Sacks, ci troviamo di fronte a configurazioni della coscienza molto diverse da chi considera la coscienza un oggetto in sé, indipendente dallo sguardo di chi la vive, la configura e la studia. È anche vero che il termine coscienza è un termine infelice, perché vittima di un’astrazione categoriale unificante, in cui lo studioso deve immaginare ciò di cui sta parlando ricollegandolo alla propria esperienza, a una certa convenzione scientifica e linguistica che finisce per creare la ‘cosa in sé’. Affrontando il problema da un’altra prospettiva, possiamo invece chiederci: «Come mai conosciamo il significato di certe parole, fino a quando qualcuno non ci chiede di definirle?» Cercare una risposta a questa domanda non sarebbe un inutile esercizio intellettuale: per parole come ‘libertà’ e ‘fede’ molti hanno messo a repentaglio la loro esistenza e quella altrui, e per molte altre sarebbero disposti a farlo. A nostro avviso, parole che implicano ‘forme di consapevolezza senza sapere’ e dai confini semantici fluidi hanno anch’esse a che

vedere con la coscienza cognitiva, emotiva, storica, culturale e altro ancora. Essere consapevoli di qualcosa implica una qualche forma di relazione con se stessi, gli altri e il mondo. Per complicare le cose e non cadere in una sorta di solipsismo psicologico e di soggettivismo intimistico, una relazione anche con se stessi implica la presenza di un codice comunicativo/interpretativo che, per quanto privato appaia, non è separabile da un sistema di segni culturalmente trasmesso, e per larga parte socialmente condiviso. In un libro sulla ricerca delle leggi fisiche della vita, Che cos’è la vita, il biofisico Mario Ageno ha dimostrato con buoni argomenti che l’attività principale del cervello umano è quella di parlare con se stesso e di essere costruito per la relazione sociale, da cui l’effetto ‘emergente’ evolutivamente differenziato sarebbe proprio la coscienza: il risultato di un’interazione comunicativa. Si potrebbe dire che, da un misto di semiosi biologica e semantica relazionale, attraverso il sistema nervoso attivato dalla compresenza di forme di relazione specie-specifiche, emerge cangiante e mutevole il fantasma nella macchina reso tale dal termine coscienza. Abbiamo bisogno di pensare che il fantasma esista, di per sé e in sé per far quadrare il nostro bisogno di denotare e connotare un’entità, che rimane inafferrabile come cosa empirica. Quindi, parlare della ‘coscienza inventata’ non è solo una provocazione: la coscienza può essere considerata come il risultato di un processo cognitivo piuttosto che una cosa in sé indipendente dai discorsi che la costituiscono.

Reificazioni e generalizzazioni Per il giovane psicologo alle prese con la propria carriera accademica la parola ‘coscienza’ coincide spesso con quanto è riuscito a rintracciare nell’enciclopedia lessicale di Internet, o nella rassegna di tutto ciò che è stato scritto da altri autorevoli psicologi e neuroscienziati. Si tratta di un argomento come un altro, di cui vale la pena di occuparsi in base al credito e all’attenzione che gode in quel momento nella propria comunità scientifica. Ai suoi interessi la coscienza finisce per apparire come qualcosa di simile a una delle tante entità e funzioni psichiche di cui potrebbe occuparsi. Un buon modo per costruirsi una rispettabile reputazione di specialista. Preoccupazione che esime il nostro giovane psicologo dall’interrogarsi sugli schemi di ragionamento che sta utilizzando, propri e altrui. È sufficiente una doverosa citazione di chi è venuto prima di lui, facendo incetta di ricerche qualificate, evitando ogni dubbio epistemico, che peraltro nessuno gli chiede. Abbiamo già visto come il concetto di ‘coscienza’ sia quanto mai utile per l’economia discorsiva, una sorta di riduttore che le fa perdere la sua polisemia per acquisire i connotati certi degli oggetti empirici. Un riduttore che semplifica, riassume, circoscrive quella complessità vaga e priva di confini, con cui identifichiamo l’eterogeno flusso della consapevolezza, separandolo da ‘quel’momento e da ‘quella certa situazione’. Per i noti effetti del processo di categorizzazione, tutto ciò che collochiamo in una classe, e a cui attribuiamo un nome, finisce per esistere di per sé facendoci dimenticare l’espediente cognitivo che abbiamo utilizzato, presumendo che la coerenza categoriale degli eventi psichici stia nelle proprietà delle cose nominate piuttosto che nelle scelte, nei costrutti e nei repertori dell’osservatore. Si costituisce così, per la coscienza come per altri concetti ‘mentalisti’, un prototipo concettuale su cui va a innestarsi il ‘generalizzabile’ e la ‘reificazione’: nel primo caso si estende il concetto a una classe sempre più ampia di fenomeni e di giudizi (assumendoli come fatti in sé) consentendo poi di pensare al fenomeno o al giudizio come a una ‘cosa’ (reificazione), e utilizzando gli stessi procedimenti mentali che riserviamo al mondo degli oggetti fisici, come quando ci chiediamo: «La coscienza, che cos’è?» In certi casi la risposta non s’impegna direttamente sul fronte della domanda, per così dire l’aggira, e la coscienza viene identificata con un salto logico con ciò che la rende possibile, quindi come una sorta di epifenomeno dell’attività cerebrale. Nei casi più radicali il concetto di coscienza viene rifiutato in quanto metafisico, senza tuttavia potersene liberare fino in fondo, poiché anche la risposta riduttivamente più biologica non avrebbe senso sottraendola al referente dell’esperienza psichica o del comportamento, eventi di cui è possibile dire qualcosa solo attraverso il linguaggio: eventi incomprensibili senza atti semiotici e comunicativi. Nei casi più semplici un tracciato biolettrico ci può dire il grado di attivazione di un’area celebrale, che rimane inadeguato per capire se il sorriso sia di scherno o di saluto, o inadeguato a distinguere tra un’attività immaginativa, meditativa o contemplativa: tutte cose che possono avere a che fare con la coscienza, che in questo caso è una configurazione interattiva, non riducibile alla somma dei suoi elementi costitutivi che cerchiamo di isolare nelle cose semplici, nei percetti delle consapevolezze elementari, o nei correlati neurologici. Se qualcuno ci dice: «Vorrei riuscire a capire che cos’è una sinfonia», non possiamo pensare di cavarcerla mostrandogli musicisti, direttore d’orchestra, strumenti musicali, o gli effetti sonori dovuti alle leggi fisiche dell’acustica. Al più potremmo descrivere una sinfonia, per

frammenti costitutivi, ma non riusciremo a mettere qualcuno nelle condizioni di ascoltarla e quindi di saperla riconoscere. Il corpo di un ballerino non spiega la danza che mette in scena. Facciamo un esempio improbabile. Siamo a Parigi nel 1827, in un atelier di un giovane pittore, Géricault. Sta dipingendo La zattera della Medusa. Se avessimo le immagini della sua attività metabolica cerebrale non potremmo sapere cosa stia facendo, i sentimenti che sta provando, le emozioni estetiche che vuole suscitare, i codici espressivi dell’epoca, i prestiti di altre scuole pittoriche, gli elementi innovativi e personali e altro ancora, tra cui la coscienza di sé che ricava da ciò che sta facendo in termini di senso e significato. Le immagini fornite dalla risonanza magnetica funzionale, e opportunamente ricostruite dal ricercatore, niente potrebbero dirci rispetto ai contenuti evocati dal dipinto. Che è la trasposizione pittorica di un reale fatto di cronaca: i sopravvissuti al naufragio di un brigantino, che hanno mangiato i loro compagni morti, e ora sono in attesa di essere salvati. Il quadro non esprime l’orrore, ma il senso tragico e romantico di un’epoca che si annuncia: la ‘tonalizzazione’ della coscienza riflessa da un sistema di segni e di codici. Ma anche queste informazioni sarebbero insufficienti per capire se il pittore sia l’autore o un suo imitatore. E se l’imitatore stia facendo una copia o un falso: ancora una volta segno e intenzione sono strettamente legati al contesto. La psicologia dell’arte non è riducibile alle neuroscienze. Il termine coscienza è monco se lo si separa da parole come intenzione, contesto e significato. Un’immagine nello specchio reclama come minimo la compresenza dello specchio, di chi si osserva, e di coloro che sono presenti attraverso chi si osserva, e molto altro ancora. Quello che chiamiamo coscienza non può che essere il risultato di un sistema interattivo che genera proprietà (emergenti) non rintracciabili nelle sue parti costitutive. Considerando che le parti non sono accessibili all’osservatore che di volta in volta, necessariamente, può solo affacciarsi sul sistema da una finestra epistemica piuttosto che da un’altra finestra che può essere neurobiologica piuttosto che semiotica, corporea o simbolica, finestre cognitive che possono appartenere a differenti livelli epistemici o dimensioni di realtà, irriducibili l’una all’altra. Semplificando e utilizzando un’analogia possiamo pensare alla coscienza come a un ipotetico centro gravitazionale, la risultante di forze attrattive tra corpi celesti, matematicamente descrivibili ma prive di una materialità empirica. La risposta alla domanda su che cosa sia la coscienza si trova spesso in un labirinto di strade senza uscita, come partite a scacchi giocate su scacchiere e con regole diverse. Tutto ciò rende difficile stabilire non solo che cosa sia, ma anche che cosa s’intenda ‘veramente’ con il termine coscienza. Anche se a questo punto i non prevenuti saranno d’accordo che non si tratta di una ‘cosa’. E le difficoltà sembrano aumentare quando gli studiosi di differenti discipline disputano, ognuno guardando con i propri strumenti, su cosa sia la coscienza e chi debba occuparsene. Il rischio, come è accaduto per la ‘follia’, è che se una linea di pensiero o una professione prevale sulle altre, si finisce per confinare il molteplice e l’inesplicabile entro i suoi e non disinteressati domini professionali. Già da molti secoli il pensiero induista ha affrontato il problema dell’Uno e del Molteplice, sviluppandolo a favore del secondo. Il sanscrito dispone di una ventina di vocaboli distinti per ciò che «da noi si accatasta alla brava, alla cieca nella parola coscienza», come ci ricorda Elémire Zolla. Del resto sappiamo bene quanta differenza ci sia tra la coscienza di chi siamo, colta e riflessa nello sguardo giudicante di chi ci osserva ed esamina, e la coscienza che

abbiamo del nostro corpo in relazione alla sua posizione nello spazio. Se la seconda è una consapevolezza prevalentemente neurosensoriale, ma che certe attività e professioni specializzano e affinano, l’altra è una consapevolezza situazionale, semantica e sociale, governata da regole attributive.

Un costrutto positivista di senso comune? Col senno di poi, avremmo potuto considerare l’idea di delegare l’introduzione a questo volume a un sociologo marxista, a un anestesista, a un neurofisiologo, a un filosofo morale o anche a uno psicologo transpersonale, esperti di altrettante versioni di ciò che chiamiamo coscienza. L’intento è quello di rimettere in discussione il tema della coscienza al fine di offrirlo alle prospettive offerte dai capitoli successivi. Ma come si è già accennato, la domanda su cosa sia la coscienza ci intrappola entro gli schemi di un pensiero fattuale, attraverso cui abitualmente, e con un certo successo, definiamo e spieghiamo molti eventi e fenomeni del mondo fisico. Il pensiero fattuale ci induce a configurare la coscienza come una cosa, un oggetto, un’entità psichica, insomma qualcosa la cui rappresentazione non può sottrarsi agli schemi di pensiero e quindi di ragionamento che riserviamo al mondo dei fatti empirici. Un po’ come accade a certa psicoanalisi, il cui residuo positivista le impone una sorta di ingenuità epistemica, quando trasforma il termine ‘inconscio’ da aggettivo in sostantivo, e i discorsi che ruotano intorno all’inconscio sono condizionati dal pensarlo attraverso analogie spaziali, facendolo di volta in volta un luogo della psiche o un contenitore. Il problema della reificazione affligge anche taluni psicologi clinici quando pensano di misurare effettivamente la personalità, il narcisismo o l’autostima, pensandole come entità psichiche realmente esistenti, collocate nella testa delle persone, e non come enunciati convenzionali che, se creduti ‘veri’, possono produrre effetti reali, come le diagnosi psichiatriche, le percezioni e i sentimenti di disappunto o vergogna, la giustificazione di certe scelte giuridiche o l’attribuzioni di stereotipi. Si tratta di costrutti o artefatti che, creduti veri, generano degli osservatori i cui percetti sono preordinati dalle forbici discorsive e attributive guidate dai generi interpretativi e narrativi che usano. Si tratta di costrutti utilizzati per rispondere a esigenze dettate dal senso comune o da una qualche teoria determinista su come funzionano i rapporti tra caratteristiche psichiche e comportamento. Pensare che il narcisismo, l’autostima o la personalità o la coscienza esistano come ‘cose’, e non come costrutti interpretativi convenzionali, facilita l’idea o l’illusione di poterle indagare con i metodi della scienza empirica. Quando ci solleviamo al di sopra delle cose concrete, una sorta di autoinganno epistemico si cela nei nostri procedimenti discorsivi al punto da farci apparire parole come felicità, psiche, attesa o inquietudine come cose certe e vere, tangibili ed esistenti, e indipendenti da chi le prova e le nomina, dando loro la stessa consistenza degli oggetti del mondo fisico. Si tratta di uno dei tanti effetti dell’epistemologia del senso comune, e di quella positivista che assimila gli enunciati mentalisti a quelli materiali. Se l’epistemologia positivista-empirista è pertinente e adeguata ai problemi e agli oggetti di alcune scienze, ad esempio quelle mediche, come può esserlo per la neurologia, l’anatomia patologica o la chirurgia vascolare, può essere inadeguata per entrare in altri livelli o configurazioni del reale, come può esserlo per la fisica quantistica, la semiotica o la psicoterapia, cui necessitano altri paradigmi e altre strategie di pensiero. Gran parte di ciò che indichiamo con il termine ‘coscienza’ riguarda costrutti ipotetici, più che realtà in sé, le cui possibilità conoscitive si collocano anche al di fuori del paradigma e dei metodi delle classiche scienze positive. Per capire uno stato alterato di coscienza e comprendere i processi di autoinduzione di un’estasi religiosa sarà più adeguato riferirsi al

sistema socio-semiotico di una dottrina religiosa, che utilizzare qualche tecnica d’indagine elettrofisiologica. Se la psichiatria si considera una pratica medica entro il paradigma necessariamente positivista della medicina, è ovvio che cerchi una coincidenza tra norme naturali e norme morali, tra attività psichica e comportamento, tra devianza e malattia, tra prototipi diagnostici e modi di essere e agire, e sia portata a cercare spiegazioni e a generalizzare i propri sistemi tassonomici. In questo caso (ma solo in modo analogico) lo psichiatra si conforma a un modello medico che non può dar conto degli aspetti culturali e psicologici per i quali necessita un altro modo di conoscere, un diverso sapere e una diversa forma mentis: l’agire della persona non è più imputabile a una causa, alla malattia, ma alla persona stessa e al sistema di regole e significati che cerca di controllare in vista di uno scopo o un bisogno. Altrettanto si potrebbe dire per la psicologia sperimentale rispetto alla semiotica delle emozioni, alla pragmatica della comunicazione o al comportamento intenzionale e sociale. L’uso dei paradossi in psicoterapia è incomprensibile per una logica comportamentista, implica procedimenti di pensiero, che come i koan delle pratiche zen richiedono altre forme d’intelligenza, che a loro volta implicano teorie locali della mente, valide nei risultati ma non ontologicamente vere. Ancora una volta «la mappa non è il territorio»: ciò che ci aiuta a trovare la strada non è ancora l’ombra romantica della siepe che cerchiamo. I modi attraverso cui i vari esperti parlano della coscienza finiscono per configurare come reale e conoscibile ciò di cui parlano, con il risultato di uniformarla ai metodi adottati a partire dal linguaggio che usano. A questo punto sembra non esserci via d’uscita, salvo abbandonare l’idea di dover cercare la ‘vera essenza’ della coscienza, ovvero la sua ‘effettiva verità’. Se invece cerchiamo di capire ‘come’ perveniamo a dare un significato a quel tipo di esperienza che chiamiamo di volta in volta, e in modo convenzionale, ‘coscienza’, e a comprenderne la molteplicità delle possibili e potenziali versioni, possiamo rimetterci in cammino. Ad esempio cercare il giardino romantico che il botanico non riesce a vedere e che il giardiniere ignora, e che non sfugge all’occhio di due innamorati: ovvero le qualità emergenti del territorio che la mappa non menziona. Tali si rivelano i paesaggi della coscienza, di cui si possono studiare le strutture costitutive, ma non i possibili contesti di significato che il ‘flusso di coscienza’ compone e scompone costantemente. Avere il mal di denti o sapere di essere quella certa persona implica differenti configurazioni di ciò che chiamiamo coscienza. La sua plasticità denuncia, se lo vogliamo, proprio la sua funzione operativa e pragmatica, e non potendola afferrare nella sua globalità, l’unico modo per parlarne sembra essere quello di affidarci a diverse forme di rappresentazione e di linguaggio. La ricerca biologica tende a identificare la coscienza con i meccanismi e i processi neurofisiologici che la rendono possibile, restituendole così l’oggettiva e vera realtà delle strutture e dei processi costitutivi. Ma la biologia di certi arbusti come il viburno, la fotinia e il pitosforo non riesce a spiegarci la siepe che vediamo, le regole del confine, l’armonia formale e simbolica, le relazioni cromatiche tra i diversi tipi di foglie, il loro valore convenzionale ed estetico. I quali esistono solo laddove c’è qualcuno che sia in grado di vederli. La siepe è al tempo stesso un artefatto botanico e un costrutto estetico, un’esperienza senso-percettiva e un’interpretazione emotiva. Una macchina fotografica non spiega il senso di una fotografia se le si sottrae lo sguardo del fotografo. Ciò che sperimentiamo come ‘consapevolezza situata’ non può escludere il codice costruttivo e

interpretativo del mondo cui siamo interessati. Potremmo dire che la coscienza è potenzialmente resa possibile da un sistema nervoso, ma affiora come consapevolezza attraverso un sistema d’interazioni. Quindi si manifesta come un effetto sistemico, ma non può essere rintracciata – così come la sperimentiamo – in nessuna sua parte costitutiva. Come vedremo nel capitolo successivo la funzione pragmatica e comunicativa di ciò che chiamiamo coscienza di sé può essere apprezzata quando si transita dalla consapevolezza di avere un corpo ai significati sociali che il corpo gestuale e dialogico interpreta. Quindi la coscienza di sé, nella molteplicità delle sue possibili configurazioni, affiora come il risultato di operazioni pragmatiche e semantiche contribuendo a costituirla nei nostri discorsi e consapevolezze percettive come se fosse un fatto, pur non avendo sostanza materiale ed empirica. Le malattie del cervello possono danneggiare, limitare o cancellare molte forme di consapevolezza o di coscienza, ovvero il meccanismo fondamentale che le rende possibili. Un libro può essere cancellato in parte o tutto, ma la storia che racconta è nella relazione scrittore-lettore, e non nella carta stampata, nell’inchiostro tipografico o nella sintassi. Il sistema nervoso, pur rendendoli possibili e ospitandoli, non contiene il segreto dei costrutti di senso e di significato, contrattati e depositati nel sapere che sta tra le persone, nei legami semantici che queste generano con se stesse, gli oggetti, gli altri e il mondo. Quella certa siepe e la sua panchina, rispetto ai significati che evoca, non consente a tutti di averne la medesima rappresentazione e coscienza.

Ancora sulla polisemia Ritornando alla polisemia che affligge ciò che chiamiamo coscienza, può essere opportuno riportare un aneddoto: «Ho sempre l’impressione che quando si cerca di spiegare la coscienza non si riesce mai a dire nulla. Recentemente mi sono comprato un libro, appena uscito in Austria, che si intitola: Das Bewußtsein (la coscienza). Costa 75 dollari, ma ho voluto investirli, perché mi sono detto: pago volentieri 75 dollari per sapere finalmente che cosa è la coscienza [...] Ho gradito molto che i redattori non avessero scritto, come al solito, una prefazione di sessanta pagine. E poi ho trovato molto interessante la frase: ‘Rimane il fatto che ogni autore intende con il termine coscienza una cosa differente’. E quando ho visto la lista degli autori – erano più di venti, ognuno dei quali parlava di qualcosa di completamente diverso – mi sono detto: La coscienza appartiene alla categoria dei fenomeni in via di principio indecidibili, privi di una risposta. Perciò posso assumermi la responsabilità di chiamarla come voglio. Responsabilità che consiste [...] nel dare una definizione operativa di ciò che assumo sotto l’ambiguo termine di coscienza». Il racconto è di Einz von Foerster, famoso cibernetico, che ci invita ad assumerci le nostre responsabilità e a evitare note oltremodo prolisse. Raccomandazione da cui ci siamo allontanati. Lo faremo, ma non prima di aver fatto una breve incursione nel panorama attuale riguardante il problema della coscienza, traendone qualche spunto e richiamo. In filosofia il problema della coscienza è centrale soprattutto da Cartesio in poi. Se i filosofi precartesiani si soffermano raramente su termini come ‘coscienza’ o ‘cosciente’, i filosofi successivi raramente evitano di farlo (Lormand, 1996). Secondo Cartesio, «essere coscienti consiste sia nel pensare che nel riflettere sui propri pensieri», una definizione che ci tornerà utile. Non ci volle molto perché dalle discussioni sulla natura della coscienza si passasse a formulare il famoso problema mente-corpo, chiedendosi come fosse possibile che la mente immateriale potesse sorgere da, e agire su, un corpo materiale. Cartesio propose una soluzione che passò alla storia come dualismo cartesiano, secondo cui mente e corpo sono altrettante entità separate e irriducibili che in qualche modo interagiscono tra loro. La scienza moderna tende a rigettare quest’ipotesi e propende piuttosto per una soluzione materialista, secondo la quale la mente e la coscienza sono in ultima analisi riducibili alla materia e alle leggi della fisica, e quindi indagabili secondo il tradizionale metodo scientifico. Per questo molti filosofi della mente hanno deciso di parteggiare per la cosiddetta teoria dell’identità. Quindi non c’è nessun ‘fantasma nella macchina’, parafrasando la famosa espressione di Gilbert Ryle. La definizione dello statuto ontologico della coscienza tra spirito e materia rimane un importante problema metafisico, che volenti o nolenti ci porta a dover transitare per un singolare albergo cosmopolita: la riflessione epistemologica. Come sosteneva Gregory Bateson (Bateson, 1976), «nella storia naturale dell’essere umano l’ontologia e l’epistemologia non possono essere separate» e lo studioso non dovrebbe trascurare l’effetto delle convinzioni e teorie che guidano la sua concezione del mondo mentre si chiede se la coscienza sia ‘spirito’ o ‘materia’.

La parola ‘coscienza’ deriva dalle parole latine cum e scire, che possiamo rendere col significato di ‘conosciuto insieme’. Nell’uso comune il significato originale di condividere una conoscenza con qualcuno si è trasformato col tempo nel significato di condividere una conoscenza con se stessi, ed è proprio questo essere ineluttabilmente privata e soggettiva che ha permesso alla coscienza di fare la sua fortuna tra i filosofi. Anche se qualcuno, e giustamente dal nostro punto di vista, ha osservato che ‘la coscienza è sempre coscienza di qualcosa’, implicando un’intenzione e una relazione. E con questo confessiamo, da un punto di vista psicologico, che una prospettiva semiotica e pragmatica ci sembra non la più vera, ma la più adeguata per configurare alcuni problemi che ci preme capire. Negli scritti di molti specialisti, il termine coscienza è stato utilizzato in modo variegato, per indicare soprattutto: la consapevolezza morale e responsabile, la conoscenza in generale, l’intenzionalità, il libero arbitrio, l’introspezione o l’esperienza soggettiva, la vigilanza sensoriale, l’autoregolazione percettiva e altro ancora. È forte la necessità, tra filosofi e scienziati, di definire una volta per tutte cosa sia veramente la coscienza. Se per Cartesio non fu poi così difficile darne una definizione, con la leggerezza autoritaria che soltanto ai padri è consentita, per la maggior parte dei filosofi moderni non è così. Secondo alcuni, riflessione e introspezione sono una sorta di ‘marchio di fabbrica’ della coscienza (Dennet, 2006), e condividono con Cartesio l’idea che il mistero della coscienza stia nella capacità di pensare e di riflettere introspettivamente sui propri pensieri e sul mondo. Secondo altri, invece, riflessione e introspezione sono processi mentali, sicuramente coscienti, ma che non presentano particolari difficoltà d’indagine, anche se non siamo ancora riusciti a spiegarli del tutto. Altri ancora li considerano inesistenti o illusori (Lyons, 1986). Ciò che è veramente difficile (l’hard problem) è spiegare come possa avere luogo l’esperienza soggettiva in sé, l’autentico atto generativo e marchio di fabbrica della coscienza. Secondo alcuni autori, quando parliamo di coscienza abbiamo sempre a che fare con un’esperienza personale (seppure storicamente e socialmente influenzata) che non si esaurisce semplicemente nel fare un’introspezione o nel riflettere su noi stessi e sui nostri pensieri. Il vero mistero consiste nell’essere in grado di «provare di essere in una data esperienza in un dato momento», la cui consapevolezza fenomenica è soltanto nostra. Disorientati? Facciamo dei semplici esempi. È mattina presto. Vediamo il sole salire timido dietro i palazzi, udiamo il rumore delle auto, il cinguettio degli uccelli e sentiamo l’aroma del caffè appena preparato che si diffonde nella stanza. Tutte queste sensazioni sono nostre, e sono esperienze private che nessun altro può vivere allo stesso modo: il soggetto percipiente, che configuriamo come io, è la componente imprescindibile di tali esperienze. Non si tratta solo di un percetto meccanico quantitativo, ma anche qualitativo, in cui si distingue tra l’aggettivo che si limita a definire un oggetto e l’aggettivo che impegna l’intimità del soggetto, attuando ciò che Gaston Bachelard ha chiamato «tonalizzazione dell’esperienza». Con cui, per esempio, si cerca di riportare alla coscienza qualcuno che l’abbia persa facendogli sentire suoni, voci, racconti familiari e dotati di significato, o come quando ci impegniamo a rievocare in modo vivido un ricordo-sensazione. La tonalizzazione dell’esperienza è quel particolare profumo del caffè, non separato dall’intimità della propria stanza, dalla particolare ‘rossità’ della tazzina rossa che teniamo tra le mani... Non sappiamo di preciso cosa possa provare un’altra persona di fronte allo stesso rosso, ma sappiamo cosa proviamo, o abbiamo sentito: che è parte del sapere cosa si prova a essere se stessi in un determinato momento, stato e

situazione. Anche questa è un’esperienza soggettiva che indichiamo con la parola coscienza. Qualcos’altro, a noi inaccessibile, lo sperimenta il surfista che fa un salto acrobatico sulle onde ricadendo in perfetto equilibrio: la sua coscienza è un insieme fluido di sensazioni con differenti matrici generative, tra cui il controllo senso-percettivo-motorio, la sensazione estetica e l’ammirazione che pensa di provocare negli altri, la mescolanza di tutte queste cose percepite, immaginate e comunicate. Per alcuni psicologi la coscienza rimane un bel problema anche all’interno del proprio campo di ricerca, poiché, si dice, se anche riuscissimo a spiegare, con i metodi empirici e sperimentali, cosa sono e come avvengono memoria, percezione, apprendimento, attenzione e tutte le altre funzioni mentali (comprese anche la capacità riflessiva e introspettiva), resterà sempre fuori qualcosa: l’esperienza in sé, che, essendo irriducibilmente soggettiva, sembra sfuggire inesorabilmente alla possibilità di essere compresa con i classici metodi empirici e sperimentali: l’arcobaleno sfugge alla possibilità di essere catturato con il retino per le farfalle, e non c’è niente da fare per quanto si sia metodologicamente bravi a usarlo nei modi più elaborati possibili. Un modo per oltrepassare il mistero della coscienza sta semplicemente nell’accorgersi che non c’è nessun mistero! La coscienza, intesa come ‘soggettività cosciente’, non è un elemento extra, una qualità irriducibile e indipendente del nostro essere umani, e non è separabile dal resto delle funzioni neurologiche e cognitive: infatti, una volta comprese queste ultime non resterebbe fuori proprio niente. Solitamente questo approccio fiducioso e ottimista assume una forte connotazione ‘realista’ sostenendo che, poiché non esistono entità extra di carattere irriducibilmente soggettivo, tutto può essere comunque ricondotto a processi fisico-chimici, e non ha senso preoccuparsi di una ‘coscienza in sé’, poiché si tratta semplicemente di un’illusione. Piuttosto si dovrebbe spiegare come mai abbiamo l’impressione di vivere esperienze coscienti, cioè, perché e in che modo produciamo quest’illusione. In entrambi i casi, l’approccio di base consiste nel postulare una verità esterna, reale e indipendente, in cui le cose esistono di per sé, e che se qualcosa può far parte di tale realtà o è riconducibile a essa, allora esiste come tale, altrimenti non esiste ed è ancora un’illusione che non interessa alla scienza. Ma il problema della coscienza può essere considerato in questo modo? È evidente che si parte da un presupposto autoritario, e un po’ paranoide, assumendo in via di principio che il mondo coincida totalmente con le nostre credenze, opinioni, assunti e strategie di pensiero: posizione del realista e del materialista, che ritroviamo associati nel postulare una realtà ultima cui tutto può essere ricondotto o spiegato. Ogni forma di monismo scientifico riduzionista può divenire una sorta di monoteismo ideologico, e con Anselmo d’Aosta fatto santo, dimostrare per via razionale l’esistenza di Dio, ponendo la ragione empirica al servizio della metafisica. Tra le varie forme di realismo, soprattutto quella materialista sembra avere argomenti convincenti: la realtà esterna è un fatto che abbiamo di fronte in ogni momento e, se proprio vogliamo dirla tutta, anche la coscienza, la nostra esperienza soggettiva (come il nostro Sé, la nostra volontà...) è un fatto, non un’illusione. Ma cercando un’altra strada si può pensare che il modo migliore per capire non consista nel dare una definizione o spiegazione della coscienza, né arruolarci negli opposti partiti di chi la considera un fatto ‘reale’ e chi un’‘illusione’, ma di considerarla un’invenzione, una sorta di finzione discorsiva di cui abbiamo bisogno, un espediente per cercare di capire ciò che ci succede ogni volta che

entriamo in relazione con una porzione del mondo, nella costante mutevolezza dei flussi e configurazioni dell’esperienza. La forma del cucchiaio concettuale e linguistico che usiamo è importante, perché non solo ci aiuta a comprendere il mondo, ma ci precede in questa comprensione, dal momento che il mondo non può che assumere la forma del nostro cucchiaio, soprattutto quando il mondo di cui parliamo è un nostro artefatto convenzionale, immaginativo, relazionale, simbolico e normativo.

La coscienza inventata Il primo passo da fare per rendere accettabile questa prospettiva sta nel dimostrare che credere in una realtà esterna, che esiste indipendentemente da quello che facciamo o pensiamo, è pura metafisica. È in sostanza un atto di fede, come credere in Zeus o al Flying Spaghetti Monster.2 Ci sono molti modi per mostrarlo,3 e nel corso della storia è stato fatto diverse volte (Vico, Kant, Berkeley, Nietzsche, Piaget, ecc.). Tra le dimostrazioni più semplici ed eleganti troviamo quella che fece Silvio Ceccato, sul finire degli anni Cinquanta del secolo scorso. Normalmente siamo disposti a pensare che esista una realtà esterna, e che questa sia oggetto dei nostri pensieri e della nostra conoscenza. Tuttavia, il nostro pensiero, la nostra conoscenza, non agisce direttamente sugli oggetti in sé (una sedia, un cane), ma, nel migliore dei casi, con il prodotto dei nostri organi di senso (quando vediamo, tocchiamo o sentiamo qualcosa) oppure con delle idee; se in questo momento comincio a pensare alla mia vecchia zia, che vive al di là dell’oceano, in pochi sarebbero disposti a credere che il mio pensiero possa in qualche modo interagire con l’oggetto fisico ‘mia zia’, piuttosto con la sua immagine, o il suo concetto (la cosa risulta più chiara per quelle idee o concetti che non hanno un corrispettivo fisico ben definito, come quando pensiamo alla democrazia o all’amore). Nell’atto della conoscenza quindi, in qualche modo, ricostruiamo gli oggetti del mondo esterno, vincolati dagli organi di senso che utilizziamo per ricostruire un’interpretazione utile o finalizzata del mondo, ad esempio olfattivo, come può esserlo in modo diverso per le ‘mappe olfattive’ di un coniglio e un cane oppure costruendo un mondo di analoghi e di concetti astratti cui conferiamo proprietà simili alla varietà dei nostri criteri interpretativi. La conoscenza di senso comune, ma anche scientifica, consiste in prima istanza nel confrontare la nostre rappresentazioni con il mondo dell’esperienza sensibile cui siamo interessati: se non coincide, la nostra idea sarà falsa, sbagliata. Veritas est adaequatio rei et intellectus, diceva sant’Agostino. Ma il tentativo di basare una teoria della conoscenza sul confronto tra la cosa da conoscere, considerata nella sua realtà autonoma, e la rappresentazione della stessa all’interno della nostra testa, sulla quale agiscono i nostri pensieri, si rivela infruttuoso. Del resto non si capisce come possa essere attuato il confronto tra la cosa conosciuta (interna) e la cosa reale (esterna), dato che, come già aveva notato Socrate, soltanto la prima, ovvero il prodotto degli organi di senso, è presente al soggetto, mentre la seconda resta, per definizione, inconoscibile. A quale livello di conoscenza può dunque portare il confronto tra due termini, di cui uno incognito? Come si giungerebbe mai a sapere, infatti, che essi sono fra loro eguali o differenti? Il sogno di conoscere le varie dimensioni e livelli di ciò che chiamiamo realtà, indipendentemente dai nostri procedimenti mentali e intenzioni, può rivelarsi un limite come già da tempo ha mostrato la fisica quantistica, minando le solide fondamenta positiviste della scienza classica. Si può decidere di credere in modo convenzionale a una realtà oggettiva, oppure si può cercare di dimostrarne l’esistenza in maniera indiretta ma, come già sosteneva Kant, l’esperienza non ci può insegnare nulla sulla natura intrinseca delle cose. L’immagine del mondo dotata di significato che si forma nella nostra testa non è la copia di niente, nel nostro tessuto nervoso non ci sono né valzer né chiese gotiche. Quindi noi ci avvaliamo di codici di traduzione, ovvero costruiamo attivamente attraverso i nostri organi di senso delle configurazioni probabili di eventi dotati di significato: l’ambiente, come il ‘paesaggio’, così come di volta in volta siamo

interessati a percepirlo o a costruirlo, è una nostra invenzione. Ancora una volta la «mappa non è il territorio», anche se può diventarlo come avviene per gli artefatti umani, come il nostro modo di pensare, di agire, di configurare gli eventi, e per molti altri aspetti che rientrano nei registri della consapevolezza cosciente, come l’esperienza di noi stessi, degli altri, dei loro oggetti e del mondo. Come si spiega quindi che sperimentiamo un mondo, per molti aspetti straordinariamente stabile, in cui esistono oggetti durevoli, scandito da regolarità e rapporti di causa-effetto apparentemente infallibili? E come mai questo mondo è lo stesso per tutti? Sono state proposte diverse teorie che lo spazio a disposizione ci impedisce di trattare estesamente, ma la cui base comune si riassume considerando tre importanti ovvietà: 1) operiamo in modo molto simile a livello sensoriale (la realtà percepita da un cane o da una rana4 non è uguale alla realtà percepita da Homo sapiens sapiens), 2) diamo molta importanza a quello che fanno gli altri; 3) andare d’accordo rende la vita più facile. La nostra ‘teoria del mondo’ si basa su costanti conoscitive che vanno dalle configurazioni innate del nostro apparato sensoriale alle categorie negoziate nell’interazione simbolica con gli altri. Ed è proprio la nostra teoria del mondo a generare la costanza delle percezioni e la fiducia in una realtà data: le proprietà del reale si fondano su un sistema di accordi intersoggettivi. Un sistema che palesa tutta la sua precarietà conoscitiva appena ci si muove verso gli strati più elevati o più bassi della ‘realtà’: un tavolo può divenire il medium di un complesso sistema di comunicazioni simboliche, o una nuvola di atomi. Sia che si tratti del prodotto dell’attività senso-motoria guidata da configurazioni percettive specie-specifiche evolutesi filogeneticamente nel tardo pleistocene, sia degli effetti di credenze e normative di carattere storico e sociale, determinate da categorie negoziate nell’interazione simbolica con altri individui. È sempre il come e il perché conosciamo a stabilire il cosa conosciamo, non viceversa. Una volta abbandonati l’apparente ragionevolezza e il buonsenso artificiale del realismo metafisico, il problema fondamentale della scienza e della filosofia diventa quello di comprendere in che modo costruiamo la continuità e le regolarità più o meno stabili del mondo in cui viviamo. Le cose si complicano ulteriormente quando oggetto di conoscenza non sono né una sedia, né un tavolo e neppure la vecchia zia, bensì concetti astratti come ‘mente’, ‘volontà’ o ‘coscienza’. Cioè gli elementi che sono alla base della conoscenza stessa: «In che modo conosciamo è un problema di gran lunga più difficile. Per risolverlo la mente deve uscire da se stessa, per così dire, e osservarsi al lavoro; perché a questo punto non abbiamo più di fronte fatti che palesemente esistono indipendentemente da noi nel mondo esterno, ma processi mentali la cui natura non è affatto esplicita». (Watzlawick, 1988) Gli psicologi, come gli scienziati e i filosofi che si occupano della mente, si trovano di fronte a realtà costruite per le quali l’accordo interpersonale è più fragile di quanto lo sia per la percezione di una sedia; realtà il cui grado di realismo è dato esclusivamente dagli effetti che producono nell’esperienza di chi le sperimenta. Se tre persone vedono la stessa molecola diciamo che è reale, ma se tre persone ‘vedono’ la stessa idea è difficile stabilire di che realtà si tratti. La coscienza sembrerebbe essere una realtà concettuale, o di

second’ordine (Salvini, 1998), il cui statuto ontologico di carattere negoziale, determinato socialmente e storicamente, mette in crisi la prospettiva realista. Per quanto sia determinata alla base da un certo tipo di sistema nervoso e di apparato senso-motorio, e per quanto scaturisca da una relazione intenzionale (cioè dotata di significato variabile, in un contesto variabile, sia esso naturale o sociale) con il mondo, la coscienza si costituisce come tale soltanto nell’interazione con l’Altro. Essa è generata in un contesto simbolico (non necessariamente linguistico) prodotto, a sua volta, dall’interazione comunicativa fra individui in cui gli stessi processi comunicativi possono essere rivolti a se stessi mentre sono rivolti agli altri. Questo vale anche per la ‘coscienza’ nel senso basilare di esperienza fenomenica o soggettiva. L’attribuzione di senso e significato che è prodotto dei rapporti interpersonali tra individui, e i processi comunicativi autodiretti risultano in ultima analisi indispensabili, poiché il ‘soggetto’ necessario all’esperienza fenomenica può costruirsi soltanto in presenza dell’Altro generalizzato (G.H. Mead) e non degli altri ‘biologicamente’ presenti/assenti al nostro apparato percettivo. E ogni generalizzazione passa attraverso un’interpretazione, necessariamente arbitraria, che tuttavia non possiamo fare da soli. Questa configurazione di frontiera, dal biologico allo psicologico e dalla percezione alla coscienza, è un modello che necessita di conferme, e verrà trattato ampiamente in questo volume, così come il ruolo del linguaggio nel processo costitutivo della coscienza. Sicuramente il linguaggio ha un ruolo decisivo nella problematizzazione della coscienza, che è il motivo per cui noi siamo qui, ora, a scrivere e curare questo libro. Se il lettore incuriosito si fa un’opinione, oppure la cambia, a proposito alla coscienza e al suo essere consapevole, è la prova migliore di quanto linguaggio e coscienza abbiano in comune, dal momento che rispetto agli oggetti empirici, sensorialmente accessibili, discutere di cosa sia la coscienza non è indipendente dal sistema teorico e concettuale che usiamo, compreso il linguaggio di senso comune. Susan Blackmore dice giustamente che «possiamo affermare di avere a che fare con la coscienza solo quando ci domandiamo ‘che cosa si prova a essere...’», anche se filosofi e anestesisti potrebbero trovare, non senza ragioni, che si tratti di una prospettiva semiologica limitante. Naturalmente filosofi e scienziati hanno col tempo ristretto l’eccesso di referenza che il vocabolo ‘coscienza’ porta con sé. Ma un accordo generale indipendente dai repertori discorsivi che lo costituiscono è impossibile. Ritorna qui prepotente la massima di Wittgenstein secondo cui i limiti del linguaggio sono i limiti del mio mondo, e la scienza, più che un avvincente sequela di scoperte, sembra consistere sempre più in un’assunzione di responsabilità intorno alla rilevanza dei mondi che seleziona. Assumendo quanto detto fin qui come presupposto, risulta quasi senza senso sostenere che, una volta spiegate oggettivamente tutte le funzioni della mente, resterà sempre e comunque fuori il problema della coscienza di sé. Facendone un ingrediente extra della natura umana e con un carattere irriducibilmente soggettivo che non può essere spiegato dalla scienza oggettiva. Infatti, per far avverare questa profezia è sufficiente avanzare spiegazioni oggettive del fenomeno e, per quanto accurate siano, sostenere sempre come lascino fuori la soggettività (e come potrebbero fare altrimenti!). Al contempo, però, si deve sostenere che quella qualità soggettiva esiste ‘di per sé’, poiché viene in qualche modo posseduta, vissuta, enunciata e percepita, facendola coincidere con i suoi indicatori neurobiologici (in quanto reificata), cioè condivide una o più delle caratteristiche delle proprietà oggettive, quindi esiste, non è un’illusione! Così facendo, pur

scongiurando una deriva fisicalista di stampo riduzionista, ci si concede un’impostazione ‘fenomenista’ che sostiene comunque la priorità del dato rispetto alle categorie dell’osservazione. Il percorso è più o meno questo: 1) si stabilisce l’esistenza di una realtà oggettiva, 2) si stabilisce poi che la scienza utilizza metodi oggettivi quali unici mezzi sicuri per pervenire alla verità, 3) si concettualizzano elementi precedentemente denotati come soggettivi (la coscienza, la soggettività) utilizzando criteri di oggettività (questo processo viene solitamente chiamato reificazione), 4) si crea quindi un ibrido che ha una natura soggettiva ma proprietà oggettive, 5) tra i criteri d’oggettività si enfatizza quello di «esistenza a se stante» (magari cercando/creando conferme nella propria esperienza), esistenza che tuttavia non può essere provata salva veritate attraverso metodi oggettivi, poiché l’oggetto d’indagine è intrinsecamente soggettivo, 6) ci si pone qualche questione ontologica e si stabilisce il mistero. Verrebbe da dire: il gioco è fatto! In realtà, appare chiaro che non ci troviamo di fronte a un mistero, ma che il mistero lo abbiamo costruito passo dopo passo, probabilmente senza accorgercene, e costruire qualcosa per poi stupirsi o farsene un cruccio ha il sapore circolare delle ovvietà. Come disse Nietzsche: «Se qualcuno nasconde una cosa dietro un cespuglio, proprio là nuovamente la cerca e anche la trova, allora in questo cercare e trovare non v’è molto da elogiare: ma è così che stan le cose con il cercare e trovare la verità all’interno della circoscrizione-ragione». (Nietzsche, 1873). La coscienza può essere pensata come se fosse un fatto, perché, come ci ha insegnato Silvio Ceccato, l’unico statuto ontologico cui un fatto può ambire è proprio la condizione di «essere già stato fatto». E in questo piccolo gioco di parole si esprime forse la svolta paradigmatica necessaria per dare una definizione operativa della coscienza. La coscienza è un ‘fatto’ proprio perché ‘la facciamo’ di continuo. Più che una cosa, o uno stato, è un ‘operatore’, come potrebbe essere ad esempio la matematica, il prodotto culturale che per pervasività e importanza più si avvicina alla coscienza, come sottolinea Julian Jaynes. Secondo Jaynes, se vogliamo veramente fare progressi nella scienza della coscienza dobbiamo distinguere ciò che chiamiamo ‘coscienza’ da tutti gli altri eventi mentali che chiamiamo ‘percezione’, ‘cognizione’ o, col più vago dei termini, ‘esperienza’. Si tratta quindi di definire la coscienza prendendosi la responsabilità della scelta teorica e semiotica che è stata fatta. Non è un compito da poco. Gli autori che hanno contribuito a questo volume condividono l’idea che la definizione operativa della coscienza data da Julian Jaynes nel suo famoso lavoro Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza sia una tra le migliori tra quelle disponibili, pur accogliendo l’idea del valore strumentale e situazionale, tattico, delle definizioni degli enti psicologici, compreso il concetto di coscienza. Jaynes ci ha fornito una definizione denotativa della coscienza come «tutto ciò che è suscettibile di introspezione» (Jaynes, 1984); mentre la definizione connotativa è: «Un analogo Io che narratizza in uno spazio mentale funzionale» (Jaynes, 1984). Più estesamente possiamo affermare con Jaynes che la coscienza

«non è una cosa, un deposito o una funzione, ma piuttosto un’operazione. Essa opera per analogia, attraverso la costruzione di un analogo ‘spazio’, con un analogo ‘io’ che è in grado di osservare tale spazio e di muoversi metaforicamente in esso. La coscienza opera su ogni forma di reattività, seleziona da un tutto aspetti pertinenti, che narratizza e concilia tra loro in uno spazio metaforico in cui tali significati possono essere manipolati come cose nello spazio. La mente cosciente è un analogo spaziale del mondo e gli atti mentali sono analoghi di atti corporei». Questa definizione acquisterà in chiarezza nel capitolo in cui la teoria jaynesiana viene spiegata in modo sintetico ma efficace dal suo stesso ideatore. I saggi che seguono sono allo stesso tempo uno sviluppo e una messa alla prova di questa teoria alla luce dei progressi recenti compiuti nelle scienze cognitive, nella linguistica, nella semiotica, nella biologia, nelle neuroscienze, nell’antropologia e nella psicologia clinica. L’intento dichiarato è quello di fornire un contributo multidisciplinare allo studio della coscienza, un approccio reso possibile e, speriamo, effettivo, proprio grazie alla condivisione di alcuni assunti di fondo che dovrebbero evitare una dispersione su temi legati tra loro soltanto da etichette linguistiche.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI BATESON, G. (1976), Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano. DENNETT, D.C. (2006), Sweet Dreams. Illusioni filosofiche sulla coscienza, Raffaello Cortina Editore, Milano. ECCLES J. (1979), The Human Mistery, Springer International, New York. JAYNES, J. (1984), Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, Adelphi, Milano. LATOUR, B. (2005). Il culto moderno dei fatticci, Meltemi editore, Roma. LILY J. (1979), The Center of the Ciclone, Bantam Books, New York. LORMAND, E. (1996), «Consciousness», In Edward Craig (ed.), Routledge Encyclopedia of Philosophy. Routledge. LYONS W. (1986), The Disappearence of Introspection, The Mit Press, Cambridge; trad. it., La scomparsa dell’introspezione, Il Mulino, Bologna, 1993. NIETZSCHE, F.W. (2006), Su verità e menzogna, Bompiani, Milano. (Ed. Originale, 1873) SALVINI, A. (1998), Argomenti di Psicologia clinica, Upsel Domeneghini Editore, Padova. WATZLAWICK, P. (1988), Premessa al volume La realtà inventata, a cura di Watzlawick, P., Feltrinelli, Milano.

Capitolo 2 A spasso con un fantasma: la coscienza di sé Alessandro Salvini È così difficile sapere cosa si prova, quando osserviamo noi stessi. FERNANDO PESSOA

Pensieri molesti Il tema della coscienza è uno degli argomenti più complicati della psicologia, spesso perfino noioso, come possono esserlo i discorsi sulle persone e i luoghi che frequentiamo da sempre, ma che in fondo conosciamo poco. Fino a qualche tempo fa gli psicologi accademici evitavano il tema per prudenza e per interdizioni varie, mentre per molti psicologi clinici l’inconscio era più interessante della coscienza. Con il risultato di lasciare il tema ai filosofi della mente, spesso afflitti da simpatie riduzioniste. Del resto, gli psicologi ricercatori erano menti educate e destinate alle esigenze del laboratorio sperimentale, non sopportavano di leggere periodi troppo lunghi o di interrogarsi su questioni teoriche, preferendo darsi da fare con metodi e procedure, e affaccendarsi tra strumenti e articoli scientifici. Gli psicologi applicativi e clinici, invece, preferivano somministrare questionari/test, fare diagnosi, tarature di strumenti e congetture psicodinamiche, più che riflettere sulla fondatezza teorica delle loro pratiche. Le cose ultimamente sono un po’ cambiate: coloro che si rifiutavano di parlare della coscienza per partito preso, i cosiddetti ‘comportamentisti’, sono per lo più usciti di scena o si sono rivolti al cognitivismo. Altri scienziati della psiche, invece, si sono accorti che somministrare stimoli, far premere pulsanti, incrociare variabili e affidarsi ai computer non li ha resi più sapienti, meno egocentrici e più felici, mentre l’agire umano – compreso il loro – continua a mantenere i suoi misteri. Nel frattempo l’inconscio e la psicoanalisi hanno perso molto del loro fascino e dei loro adepti, e interessano sempre meno. Come ha sostenuto James Hillman, grande erede di Gustav Jung, «cent’anni di psicoanalisi non hanno reso il mondo un posto migliore in cui vivere», compresi i dipartimenti universitari di psicologia e psichiatria. Gli incubi da cui siamo assediati, più che dalle oscurità dell’inconscio, provengono dalla luce diurna dell’‘ego’, delle piccole coscienze in competizione fra loro, prese tra caso, necessità e ambizioni. Alla cui comprensione oggi presiedono le filosofie dei media, i conduttori televisivi, e quella scienza senz’anima che è l’economia politica. Sappiamo pure che la follia è realmente pericolosa solo se va al potere, e se qualcuno le obbedisce. Più pericoloso della follia può essere il conformismo delle piccole ambizioni, che spesso rende appetibile e motiva a una carriera politica e amministrativa. Insomma, il diavolo veste gli abiti di tutti giorni, i pensieri e le frustrazioni del vicino. L’inconscio è spesso un alibi e serve a giustificare quello che non si riesce a spiegare, oppure la coscienza inconfessabile che le persone hanno di sé. Com’è noto le finzioni imposte dai ruoli sociali sono i vestiti che modellano il sentire e l’agire delle persone, e diventano la loro verità su se stessi e gli altri. Quando va male, si cercano improbabili spiegazioni nella personalità della gente, nella memoria inconscia degli archetipi, nelle cattive madri, negli attaccamenti infantili e nelle patologie dei sentimenti, spiegazioni a cui si crede soprattutto quando si è studenti. In genere il giovane se non è ancora approdato ad una vita lavorativa, non sa ancora quanta parte della coscienza di sé è il riflesso dei rapporti sociali, a cui ruoli professionali, contesti e attese lo consegneranno. L’eccessiva consapevolezza di sé è un altro aspetto del problema: rende spesso agnostici, riduce l’illusorio, allontana dalla televisione, si evitano i centri commerciali, e tutto questo amplifica gli affanni e deprime. Gli esiti possono facilmente essere trasformati in malattia con l’aiuto della diagnostica psichiatrica. Quindi è forse il caso e il momento di interessarci più da vicino dell’appartamento che abitiamo, piuttosto che delle cantine. Sembra giunto il tempo di tornare a William James pragmatista, ai primi del Novecento, vale a dire a una

psicologia della coscienza, ovvero a ciò di cui siamo consapevoli, e anche di come riusciamo a essere consapevoli e di che cosa. Difatti come ha detto una volta Paul Watzlawick con la sua educata ironia, riferendosi all’introspezione e all’inconscio: «Guardarsi dentro rende ciechi». Mentre da un altro versante, quello della neuropsicologia, Arrigo Umiltà ci ricorda che «non è l’incoscio che va spiegato, ma è il conscio». A questo punto si apre un piccolo problema, se il termine ‘conscio’ sia meglio utilizzarlo come aggettivo o sostantivo. Il fatto non è trascurabile, perché influisce su come e cosa pensiamo quando diciamo ‘coscienza’. Per ora lasciamo sullo sfondo questo problema. Tuttavia la parola coscienza è più impegnativa di quello che sembri, resi già inquieti, come fa dire James Joyce, a Sthepen nell’Ulisse (un romanzo sulla coscienza di sé), da quelle ‘parole grosse che ci rendono tanto infelici’. Come appunto pensare o dire, ‘sono cosciente di questo o di quello’. Non dimentichiamo a questo proposito l’azione subdola del verbo ‘essere’ le cui sabbie mobili si estendono fino nei territori della consapevolezza, come ‘predicato di esistenza’ e ‘d’identità’. Difatti quando il verbo essere impone una proprietà, si attua la magia che ci mette in condizione di far esistere qualcosa, solo per il fatto di nominarla. Argomento su cui eviteremo di avventurarci, ma che non ci evita di pensare un’altra cosa: ovvero che ciò che chiamiamo coscienza è l’ombra che accompagna le nostre azioni. Azione e coscienza si implicano reciprocamente e sempre in relazione a qualcosa.

Cartografi ed esploratori: ognuno con le sue mappe In genere si scrive in funzione di un presunto lettore. Questo capitolo è rivolto anche a ipotetici psicoterapeuti e ai loro potenziali clienti istruiti. La psicoterapia è quel particolare sapere e professione che, nei casi migliori, serve a risolvere egregiamente certi problemi dettati da credenze, stati d’animo, eventi biografici disgraziati, tentate soluzioni abortite, relazioni complicate, tormentoni mentali, nefandezze sentimentali, intermittenze della ragione e altro ancora. Ovvero tutto ciò che non controlliamo, e che ci fa soffrire, ci preoccupa in chi è prossimo e ci allarma in chi non conosciamo. Un coacervo di problemi cui l’impotente diagnostica psichiatrica dell’Ottocento e del Novecento ha imposto etichette altisonanti che suscitano impressione e rispetto, illudendo di essere spiegazioni, quando non lo sono. Molti psicoterapeuti sono costretti a occuparsi della coscienza di sé. In particolare di tutto quello che vi ruota intorno, dal senso dell’identità, al dover essere, al giudizio altrui, all’autostima, ai sentimenti ricorsivi, ai pensieri e ai deliri di ruolo, alle immancabili frustrazioni, alle reazioni di stress e ai disturbi alimentari e dell’identità, dalla dismorfofobia al burn-out. Insomma si tratta di esperti che si occupano delle scarpe troppo strette in cui i loro clienti hanno infilato i piedi e a cui non vogliono rinunciare, clienti che pur lamentandosi dei calli, praticano soluzioni che non migliorano il loro disagio ma lo peggiorano, e questo accade a molti non solo negli autolesionisti e in chi tenta il suicidio. I problemi sono sempre complessi ma in fondo chiari. Ciò che è meno chiaro è che cosa sia la coscienza di sé: si ha spesso l’impressione di essere in compagnia di un fantasma. Il punto attorno a cui ruota la psicologia delle persone è senz’altro la coscienza di sé, e le prove non mancano, ma se guardiamo in questo punto centrale lo troviamo vuoto. Punto centrale vuoto, in cui finiamo per collocare un fantasma, un’entità psichica, un costrutto verbale, che chiamiamo appunto ‘coscienza di sé’. Un problema davvero interessante. In questo capitolo andremo alla ricerca di questo fantasma e tenteremo di capire perché ne abbiamo bisogno. Innanzitutto ampliamo un poco la prospettiva. Ad esempio, la neuropsicologia è oggi uno tra i settori di punta della psicologia, e sta offrendo, si spera senza imperialismi, nuove possibilità esplorative e speculative intorno ai fenomeni della coscienza, risolvendo annosi problemi che la neurologia e la psicologia sperimentale non avevano affrontato. È chiaro che il ‘mentale’, pur nella sua autonomia, va agganciato, e senza riduzionismi verso l’alto o il basso, da un lato alla dimensione socioantropologica e linguistica, e dall’altro al dato biologico e neuropsicologico, evitando ovviamente confusioni tra i vari livelli. Il merito di aver fondato la neuropsicologia va in origine ad Aleksander Lurija. Al giovane psicologo russo venne affidato il compito di occuparsi della diagnosi e riabilitazione di centinaia di neurolesi reduci dalle battaglie della Seconda guerra mondiale. Un’occasione per indagare sulle vie nervose delle funzioni psichiche superiori. Col tempo un sempre maggior numero di clinici e ricercatori sono stati attratti dalla neuropsicologia, escogitando col tempo tecniche geniali per indagare, ad esempio, sull’attività mentale dei due emisferi cerebrali, come Michael Gazzaniga. A parte il padovano Vincenzo Malacarne, con le sue ricerche sulla plasticità del cervello (1774), e un fisiologo dell’Ottocento, Angelo Mosso, con le sue osservazioni sull’influenza dell’attività cognitiva nella circolazione del sangue nel cervello (1879) in Italia bisogna aspettare gli

ultimi quarant’anni, quando Bisiach, Umiltà e Pizzamiglio, insieme ad altri, hanno dato contribuiti sistematici alla neuropsicologia, ripristinando il problema neurocognitivo della coscienza, ricollocandolo al centro degli interessi della disciplina. A loro va il merito di aver riproposto l’interrogativo: «Che cos’è la coscienza?» Oltre ai meriti dei ‘cartografi’ e dei ‘diagnosti’ neurocognitivi della coscienza, è opportuno accennare anche ai suoi ‘esploratori’. Coloro che hanno riproposto un sapere più antico, facendosene interpreti e usando anche se stessi come banco di prova. Numerosi studiosi, e di varia provenienza, si sono misurati con i cosiddetti stati alterati di coscienza e gli effetti corporei delle pratiche psicologiche, si sono confrontati con i modelli sistemici e olistici, hanno studiato gli stati meditativi della mente e sviluppato il ricco filone delle psicologie transpersonali, su cui peraltro grava il piacevole sospetto di una scarsa ortodossia accademica. Proprio dai grandi esploratori eretici degli stati alterati di coscienza emergono alcuni interrogativi con cui dobbiamo fare i conti. Tra questi, l’attualità e la continua riscoperta di William James, insigne psicologo della coscienza di Harvard, di Roberto Assaggioli, psicoterapeuta transpersonale, di Albert Hoffman, chimico svizzero, che sintetizzò l’LSD, di Carl Tart, teorico degli stati alterati, di John Lilly, neurofisiologo della deprivazione sensoriale, di Elémire Zolla, raffinato ed enciclopedico studioso delle mistiche culturali, o di Graham Hancock, archeosociologo della mente ed esperto di droghe antiche, come l’ibogaina e l’ayahuasca. Altri ancora fanno parte di questa pattuglia di ‘esploratori’, come Candace Pert, la biochimica che negli anni Settanta, con Salomon Snyder, scoprì i recettori degli oppioidi endogeni (le endorfine/encefaline), facendoci comprendere molte cose, tra cui la predisposizione del cervello a cercarsi ‘aiutini’ chimici esterni quando quelli della propria neurochimica non appagano o non aiutano a sufficienza. Candace Pert è oggi una convinta olistica, che nei neuropeptidi colloca l’interfaccia sistemica che unisce la mente al corpo, attraverso cui i sentimenti agiscono sul soma, facendo peraltro della mente, come ha scritto Delgado, un avvinto uditore del corpo. A questi esploratori potremmo associare una lista nutrita di esperti occidentali e orientali, provenienti da tradizioni mistiche, religioni estatiche e scuole terapeutiche. Come teorici ed esploratori della coscienza e della mente, possiamo aggiungere poeti, visionari, demagoghi, scrittori d’anima, compositori e artisti. Non tutti, ma, ad esempio, coloro che eccelgono nell’arte psicologica della comunicazione performativa (che implica tra l’altro una efficace teoria implicita della mente propria e degli altri). Comunicatori che sono in grado di indurci a fare nostri i loro particolari stati di coscienza, anche quelli più esclusivi, intimi, insoliti e raffinati. Pensiamo la capacità di alcuni di loro di farci sentire il ‘silenzio’: questo potente amplificatore dell’immaginazione o della sua tranquilla quiescenza. Il silenzio ci riporta al dialogo interno, al disprezzato nucleo soggettivo del sé. Fortunatamente l’arcigna interdizione comportamentista non ha certo limitato l’intelligenza psicologica degli esploratori della mente e della coscienza, tra cui scittori e artisti, come Gabriele D’Annunzio, quando vi fa entrare nei silenzi lucenti e sensoriali delle pinete della Versilia attraverso la La pioggia nel pineto, o come Giorgio de Chirico, quando vi apre all’attesa, al silenzio, stupefatto e incompiuto, del tempo sospeso, nel suo Piazza d’Italia, o come vi può capitare ascoltando Stan Richardson che suona al flauto i silenzi di un antico brano giapponese, Matsukaze («Il vento nei pini»). È probabile che qualcuno di noi possa incontrare la coscienza della coscienza, anche come un ‘non suono’. Per questo abbiamo bisogno di uno specchio: possiamo fabbricarlo, se ci concediamo al paradosso che ci offre Takuan (1573-1645),

maestro zen che scrive: «Vibrano nell’orecchio / tante e tante voci / ma la loro origine / è in una fonte che può essere detta / il suono del non suono». La coscienza di sé, come ripeterò con ostinazione, implica una relazione di senso e di significato, con qualcuno e qualcosa, anche quando la si incontra nel tempo sospeso di un rubinetto che gocciola, in uno stillicidio ridondante, che pare sottratto alla freccia del tempo, inquietante per alcuni, rasserenante per altri. Per i quali può essere un tempo sospeso, restituito, sufficiente per distinguerlo dai tempi obbligati dei rituali sociali, dove la coscienza di sé commercia se stessa. Spesso i terapeuti della psiche si trovano di fronte agli effetti infelici di chi non sopporta il silenzio, il tempo sospeso, lo sgocciolio del rubinetto, la contemplazione quietistica, il cui sé (o falsa coscienza di sé) rimane prigioniero del «dover apparire», del «dover appartenere», e dell’«essere approvato». Imperativi responsabili di veri e propri dissesti conflittuali della coscienza di sé, come nell’accademico in carriera, nella ragazza alla ricerca spasmodica di conferme seduttive, o come nel politico tormentato dalle ambizioni frustrate: ognuno rinchiuso nel proprio piccolo purgatorio di tentate soluzioni nevrotiche emanate e subite dalla coscienza di sé. Non solo selezioniamo e modelliamo in base alle nostre aspirazioni e bisogni il mondo, ma anche il fantasma, il sé che ci abita, che a sua volta si rovescia nella consapevolezza in cui ci troviamo ad abitare ed essere. Il tema della coscienza, soprattutto della coscienza di sé, si è rivelato importante per alcune psicoterapie, e non poteva non essere così. Per le psicoterapie interazioniste, strategiche e sistemiche, nonché costruzioniste, il concetto di coscienza è una chiave da adattare alle varie serrature, in cui «solo cercando di risolvere un problema si comprende come funziona». Le rappresentazioni multiple di sé, l’acrasia, le depersonalizzazione, gli autolesionismi, i sentimenti di estraneazione, l’alessitimia, talune forme di allucinazione, l’alienazione e la perdita di senso, gli innamoramenti disgraziati e le discontinuità biografiche, l’agire paradossale e talvolta il delirio e quasi sempre le sofferenze autoaffermative fanno, della coscienza di sé il punto in cui convergono e da cui dipartono molte difficoltà dell’esistere. Qui non possiamo sottrarci dall’osservare che la coscienza, o ciò che chiamiamo tale, possa essere configurata in vari modi. Ora come oggetto fenomenico e processo cognitivo, oppure come esperienza soggettiva, o come effetto sistemico e come costrutto semantico, oppure come funzione cognitiva sovraordinata. Sorge il dibattito se la coscienza sia un processo centralizzato, diffuso o distribuito, nel cervello o nell’attività mentale: nell’hardware o nel software, nella macchina o nel programma, tanto per per usare un’analogia alla moda. Per alcuni che si muovono al di fuori delle scienze cognitive canoniche, la coscienza è guardata come un’operazione, spesso un aggettivo, sempre effetto di una qualche relazione, in cui le metafore spaziali funzionano solo come espediente rappresentazionale, ad esempio pensandola come qualcosa che sta ‘dentro’ piuttosto che ‘fuori’. Per altri ricercatori le varie configurazioni della coscienza possono essere collocate a vari livelli, in una struttura gerarchica con differenti gradi di astrazione, al più basso dei quali stanno i suoi correlati neurologici: ad esempio, chi ha avuto una lesione ai lobi frontali, come un tempo i lobotomizzati, spesso è in grado di grattarsi il naso, ma non di progettarsi. La coscienza è il termine con cui può essere indicato qualcosa, un oggetto, un’operazione, una funzione, un analogo, declinabile attraverso diversi gradi di complessità e livelli di astrazione.

Si comprende da questi accenni come sia possibile darne molte descrizioni e attribuirle diverse caratteristiche, proprietà e funzioni. In ambito neurocognitivo, è ancora attuale nel suo disegno sistematico una bella rassegna di Elena Tagliabue del 1997, anche se nel frattempo si è aggiunto molto altro materiale. È quasi impossibile padroneggiare l’enorme quantità di studi che da diverse aree del sapere possono accumularsi sulla scrivania di un ricercatore o di un clinico. Impossibile trovare un principio unificante alla molteplicità di saperi, paradigmi, ipotesi teoriche, risultati sperimentali e operativi: la componente interpretativa presente in questi studi risulta elevata appena ci si allontana dalle localizzazioni neuroanatomiche e dai meccanismi biologici che rendono possibile ciò che chiamiamo coscienza. Spesso la difficoltà è data anche dall’impossibilità di trovare una coincidenza di significati e di linguaggio tra le varie discipline scientifiche. Spesso la coincidenza è solo fittizia, nominalistica. Si comprende come le rappresentazioni della coscienza possano oscillare tra il suo uso letterale, facendone un oggetto reale, e il suo uso inventato, che utilizza la coscienza come costrutto convenzionale. Ad esempio, in questo caso si oscilla tra la realtà che la coscienza ha per l’anestesista, o per chi chiede un parto senza dolore, e la coscienza di sé costruita e socialmente contrattata, come avviene per chi deve confrontarsi con choc biografico, con un salto d’identità, con sentimenti non corrisposti e altro. Non si può neanche trascurare l’importanza dell’inaccessibile coscienza soggettiva, l’intima esperienza di sé e del mondo, che funziona come le allucinazioni uditive: vere per colui che le ‘ascolta’, ma non per coloro a cui le riferisce. Una soluzione è quella di rimanere entro uno sfondo metateorico, coerente da un punto di vista epistemico, e in modo pragmatico ritagliare ciò che chiamiamo coscienza in funzione del problema che abbiamo di fronte, e non dolerci se esiste una differenza macroscopica tra la coscienza di sé, cui si riferisce il neuropsicologo, o l’uso concettuale che ne fa uno psicoterapeuta nel proprio lavoro. Per il quale, come ha scritto molto tempo fa un filosofo, è opportuno partire dall’osservazione che «la coscienza è sempre coscienza di qualcosa». Per cui il concetto e l’esperienza, e i loro correlati, non possono essere separati da una certa situazione/relazione. Ad esempio, accettiamo anche l’idea che molti fenomeni di coscienza non siano indipendenti dai rapporti che le persone intrattengono con se stesse, gli altri e il mondo, i cui costrutti di senso e di significato si rispecchiano appunto in ciò di cui possiamo essere consapevoli. Proseguendo su questa strada, l’unità della coscienza si frantuma nella molteplicità dei costrutti su cui si modella, incontrandoli, ospitandoli e nominandoli. Per cui un volto bellissimo, un panorama scintillante, una seduta di laurea mortalmente noiosa, l’angosciante incrocio stradale che attraversiamo tutti i giorni, sono gli sfondi che implicano forme contingenti di consapevolezza, anche di sé. Se è vero, come ci dirà Julian Jaynes, che la coscienza si costituisce come un analogo del mondo ‘reale’, ovvero quello che consideriamo tale per scelta, inclinazione, caso e necessità contingente. Anche dalle scarpe troppo strette, quando assistiamo controvoglia a un concerto o a un film che non ci coinvolge emerge una coscienza temporanea di sé. Spesso accade che il concetto di ‘coscienza’ sia declinato e studiato al singolare, finendo per essere usato come un ‘riduttore categoriale’. Un po’ come quando usiamo categorie ampie e unificanti, ‘cane’, ‘gatto’ o ‘ragno’, o anche quando usiamo criteri categoriali più precisi, distinguendo tra mammiferi, uccelli e pesci. Poi ci sentiamo tranquilli, perché l’ordine è assicurato dalla natura delle cose e dal fatto che l’ordine coincide con quello che noi

abbiamo dato alla natura. Poi compare l’ornitorinco e non sappiamo più come classificarlo, e ci accorgiamo che molta realtà sfugge alle nostre classificazioni, e che queste diventano convenzioni, come accade al linguaggio diagnostico della psichiatria o ai dinamismi psichici degli psicoanalisti. Se si supera il livello senso-percettivo-motorio, e le sue basi neurali, ciò che chiamiamo coscienza somiglia un po’ al problema dell’ornitorinco: non disponiamo di criteri unificanti atti a stabilirne la sua vera natura se mammifero o altro. La coscienza che aveva di sé e del mondo un mistico spagnolo del Cinquecento, come san Giovanni della Croce, o quella sperimentata dal panteismo spirituale di un indiano apache sono forme di coscienza incomprensibili e di difficile rappresentazione. Qualcosa di diverso dalla coscienza di sé che una studentessa di psicologia ricava frequentando Facebook, la piazza telematica dei nostri tempi affollata di solitudini in cerca di una risposta al ‘chi sono io?’

Una definizione al fantasma L’enunciazione di un concetto implica anche la sua definizione. Le definizioni date alla coscienza da parte di seri e impegnati studiosi non mancano. La ragionevole autorità di alcuni ci convince a trasformare un costrutto arbitrario e vago in una cosa in sé, distinguendone le varie parti costitutive. Alcune definizioni concettuali si basano ad esempio su criteri funzionali, altre su categorie dettate dai disturbi del pensiero, altre su aspetti fenomenici. Umberto Galimberti ha dedicato pagine intense e molto belle al problema alla conoscenza disgiuntiva che noi occidentali abbiamo imparato a usare con successo. Senza accorgersi che in alcuni casi non riesce a catturare gli eventi, dal momento che questi non sono riducibili agli accordi semantici preordinati, come può accadere per ciò che è simbolico e immaginato. Gli eventi e il loro dispiegarsi al di là dei significanti oltrepassano il nostro tentativo di dar loro una configurazione. Problema che, secondo Galimberti, segna il limite della ragione. Molti psicologi lavorano ai confini delle realtà semantiche convenzionali, e la labilità dei concetti che utilizzano non è dovuta alla loro incapacità di dare loro una consistenza concreta, ma dalla irriducibilità dell’esperienza al linguaggio ordinario e delle scienze positive ed empiriste. Non è possibile racchiudere immagini e simboli in un concetto, in quanto esposti a continui slittamenti di senso e di significato. Si comprende perché Gustav Jung, il grande psicoanalista svizzero, citato da Galimberti, abbia scritto qualcosa che suona come una provocazione per le scienze cliniche della psiche: «Per dialogare con il folle la psicologia deve abolirsi come scienza, perché la scienza ignora quella ragione totalmente diversa dove abitano demoni e dei». Il linguaggio di Jung è un po’ perentorio e oracolare, ma l’intuizione e il significato sono chiari. Per dialogare con i paradossi dell’agire umano, il terapeuta deve rinunciare alla mentalità che gli viene dalla sua formazione scientifica, basata sui principi di non contraddizione e d’identità, del dualismo e del terzo escluso. In certi casi deve avvalersi di altri procedimenti. Definire, classificare, disgiungere non aiuta, ma può impedire la comprensione di un particolare modo di pensare e di sentire, per cui necessitano altre modalità di pensiero. Quindi il concetto come procedimento logico, unificante, reificante, anche se solo in senso metaforico, se in certi casi è un utile espediente della ragione, in altri si trasforma in un autoinganno e un’autolimitazione. Problema che ritroviamo tra coloro che non riescono a vedere il mondo al di là delle proprie categorie, e a ogni costo cercano di farlo rientrare nel proprio schema esplicativo precostituito. Ci riescono se hanno dalla loro un potere sociale. Ci riescono se hanno solo un potere parziale, anche se li chiamiamo dogmatici, prepotenti e narcisi. Se invece non hanno alcun potere li scomunichiamo o li interniamo, anche se trovano sempre qualcuno disposto ad ascoltarli. Chi intravede configurazioni del mondo che non coincidono con le nostre viene spesso guardato con sospetto. Basta che abbiate una sensibilità cromatica più ampia o capacità associative più ricche per preoccupare gli altri ed essere guardati con allarme. L’ordine cognitivo e normativo che abbiamo subito e che imponiamo anche agli altri, che implica anche una sana potatura di neuroni (darwinismo neuronale), non può essere violato. Così comprendiamo come dei bravi signori, sopravvalutando il proprio ruolo e sapere professionale, che poco sanno di storia dell’arte, di semiosi pittorica, di estetica e di altro, si sentano in diritto di dubitare della salute mentale di questo o di quel pittore, soprattutto se non riproduce il mondo con il realismo fotografico che per noi è indice di normalità. Decine di tesi di laurea, con l’avallo dei loro

relatori, da anni discreditano pittori come Van Gogh, Magritte, Dalí, de Chirico, Picasso, e altri con il sospetto, sempre dimostrato, che le loro opere siano la proiezione di qualche oscuro complesso, patologia conclamata, o biografia edipica disgraziata. Ancora una volta la coscienza che abbiamo di ciò che chiamiamo reale impone i propri criteri discriminanti e, sulla base dei suoi costrutti linguistici e normativi. L’esperienza che abbiamo del mondo, di noi stessi e degli altri è data anche dai giudizi che gli imponiamo.

Un fantasma multiplo A questo punto il tema della coscienza di sé rischia di poggiarsi su un terreno instabile e, come capita sul ponte di una barca, presi tra beccheggio e rollio, si ha subito voglia di aggrapparsi da qualche parte e di scendere appena possibile. Con questa immagine sfrutto, volutamente, l’effetto di una rappresentazione senso-motoria. Volendo richiamare il fatto che le nostre rappresentazioni, mediate da similitudini e metaforizzazioni, affondano le radici anche nell’esperienza somatica, sia essa propriocettiva e visiva, di cui il linguaggio diventa il grande traduttore e amplificatore. Quando lo psicoterapeuta lavora con i problemi che promanano dalla coscienza di sé, è più un antropologo che deve utilizzare il linguaggio della persona di cui cerca di comprendere il modo di vedere e descrivere il mondo, piuttosto che un medico che invece riconduce la diversità dell’altro al proprio sapere e metodo e alla propria idea di malattia. In effetti dobbiamo anche ammettere che l’imprendibile fantasma dalle molte sembianze può essere trasformato in un artefatto socio-culturale, tra cui la correlata attività nervosa. Grazie alla sua plasticità anche la corteccia cerebrale può diventare un artefatto culturale, senza perdere le altre sue proprietà, come l’argilla quando diventa un vaso di terracotta. Il cervello, questa entità biologica, è anche un artefatto. Un po’ come i muscoli dei culturisti, in cui la matrice è duplice: da un lato un’idea estetica, dall’altro un’adattabilità biologica. E il loro corpo acquista le sembianze simboliche del mondo delle relazioni che il pensiero immagina. Se il corpo di un culturista è anche un artefatto culturale, altettanto possiamo dire del cervello. I neuropeptidi, come ci ricorda Candace Pert, sono i messaggeri biologici dei nostri stati emotivi e dipendono dal significato che diamo agli eventi. Non costruiamo solo chiese romaniche, cori alpini, estasi religiose, amori romantici o competizioni sportive, ma anche i cervelli capaci di riconoscere, capire e apprezzare tutto questo, e coscienze di sé in grado di rispecchiarvisi. Le idee che non abbiamo, dice Ulric Neisser, non lasciano vuoti nel mondo percepito. Pervasiva e multipla, contestualmente cangiante, ma anche effimera com’è la vita biologica del sistema nervoso, la coscienza, o ciò che indichiamo con questa parola, può essere pensata come ‘coscienza in sé’ (quella delle neuroscienze) e come come ‘coscienza di sé’ (quella delle semioscienze). Secondo queste ultime, ciò che chiamiamo coscienza e di cui facciamo esperienza implica abitarne le rappresentazioni, ovvero i discorsi e le opinioni che ne abbiamo piuttosto che il contrario. Come abbiamo già detto, se da un lato coltiviamo una convinzione per così dire ‘realista’, dall’altro si palesa una scelta ‘costruttivista’. Distinguere tra realismo empirico e costruttivismo interazionista non significa opporre due modi di pensare. È opportuno fare sempre attenzione quando si argomenta o si esemplifica ricorrendo a una logica ‘dualista’. Difatti l’enunciazione di polarità antinomiche ci porta a vedervi un conflitto, un’incompatibilità, una possibile contraddizione: così ci hanno educati. Distinguere tra il bianco e il nero non significa opporli, o fare dell’uno il contraltare o la negazione competitiva dell’altro: così tra neuroscienze e semioscienze non c’è conflitto, ma neppure una possibile sovrapposizione. L’episteme è diversa: chi gioca a pallavolo sviluppa certe competenze cognitive e abilità motorie, chi invece gioca a pallacanestro ne deve sviluppare altre. Cambiando le regole, muta anche il sistema di segni e significati; l’addestramento crea diverse configurazioni neuro-senso-motorie e rappresentazione di sé.

Potremmo dire che se fossi un ingegnere meccanico sarei un ‘realista’ come psicoterapeuta non posso che essere un ‘costruttivista’. A questo punto, tanto per non disorientarci, torna utile una distinzione tripartita proposta da Mario Bosinelli, relativa ad altrettanti modi di essere consapevoli: a) l’esperienza fenomenica degli oggetti e degli eventi, b) la consapevolezza di essere coscienti, ovvero la coscienza della coscienza o metacoscienza, e infine d) la coscienza di sé, di cui ci stiamo occupando. A proposito di dualismi, è anche opportuno ricordare che si può distinguere, lungo un continuum, tra una coscienza esplicita, di cui abbiamo consapevolezza, e una implicita di cui non siamo consapevoli. Per l’implicita basti l’esempio di quando guidiamo l’auto pensando ad altro, o a tutti quegli atti, percetti, sensazioni, che chiamiamo automatici e non lo sono, e di cui abbiamo il controllo anche se la messa a fuoco attentiva è rivolta altrove. Possiamo registrare il riconoscimento di un volto provando un certo sentimento, ma senza riuscire a ricordare chi sia. Problema che non riguarda solo il disturbo della prosopagnosia, ma capita anche a tutti, in tono minore, e senza esiti imbarazzanti, quando ad esempio non sappiamo dire perché un volto sconosciuto fa affiorare l’impressione emotiva di conoscerlo già. I nostri schemi di riconoscimento impliciti si attivano per somiglianze fisiognomiche e situazionali (che sono prevalentemente somiglianze semantiche). Non siamo in genere consapevoli della nostra tendenza a riconoscere e a soffermarci percettivamente sulle somiglianze implicite, piuttosto che sulle differenze. Alcuni studiosi della ‘personalità’ l’hanno scoperto da tempo, e alcuni fra loro hanno cominciato a mettere in dubbio che ‘esista’ la personalità, indipendente dagli schemi attributivi di tratti, come il senso comune, i test, gli aggettivi diagnostici, o le impressioni cliniche e i loro prototipi discorsivi preordinati, presumendo l’esistenza infondata di un nesso causale tra tratti e comportamento. Ma la notizia, peraltro un po’ vecchiotta, non è mai andata oltre la cerchia ristretta degli addetti ai lavori: ad esempio, gli psichiatri continuano a usare impeterriti il termine personalità, e in modo letterale. Ma non sono da criticare: il loro lavoro, più che la conoscenza in sé, ha per committente il senso comune, che chiede un certo sapere adatto alla sue convenzioni, interpretazioni e spiegazioni, il cui obiettivo è il controllo sociale dell’alterità mentale e della devianza. Mi sono accorto da tempo che la nostra vita è più breve delle parole che usa. Anche la vita scientifica ci vincola, nel bene o nel male, entro i vocaboli, i concetti e i modi di pensare di cui ci è stato imposto l’uso. È per questo che agli studiosi certe parole sembrano ‘date’, eterne, affondate nella natura e non nelle idee del tempo, e nelle convenzioni intellettuali. La parola coscienza, con il suo attuale significato, non fa eccezione, ed è stata introdotta nel nostro lessico da non molto. Nonostante questo, con il concetto di coscienza facciamo riferimento, da un punto di vista filogenetico, a un’importante invenzione evolutiva: la comparsa di organismi sociali con un sistema nervoso sempre più differenziato, capace di autoregolazione intenzionale, e di autorappresentazione simbolica. È stato necessario aspettare molto perché uno di questi organismi sociali affidasse l’invenzione a un’altra invenzione evolutiva e culturale, il linguaggio, con i suoi complicati sistemi semantici, simbolici e regolativi. Il linguaggio ha moltiplicato gli specchi, consentendo all’essere cosciente di diventare consapevole di esserlo, o di agire per non esserlo (rimozione, negazione, autoinganno, e altro). Solo a pochi è concesso scoprire l’ingresso in una consapevolezza senza oggetti, senza confini, parole e dimensioni, in cui cessa anche la

coscienza di sé, che si dissolve nel momento in cui si passa a uno stato di coscienza indefinito e fusionale, là dove il concetto di sé perde ogni significato.

Fantasmi, cucchiai e chimere Pensare che dalla polvere cosmica sia emerso un sistema biologico e culturale attraverso cui l’universo ha acquisito coscienza di se stesso dà la vertigine. Come può anche essere imbarazzante ammettere che non siamo i depositari esclusivi dell’unica sua forma evoluta. Evitando vertigini e imbarazzi, dobbiamo ammettere che per avere una forma di consapevolezza evoluta, differenziata e autoriflessiva, ciò che noi chiamiamo coscienza, c’è bisogno di un sistema nervoso che renda possibile costruire la consapevolezza di sé, degli altri e del mondo, in relazione a un contesto e in molteplici copie e versioni. Come si è già accennato, ma vale la pena ripeterlo, la base senso-motoria della coscienza e delle sue forme non solo trapela dalle metafore e analogie corporee e spaziali, ma costituisce una sorta di linguaggio protoverbale, come sanno bene i terapeuti che usano l’ipnosi, le tecniche bionergetiche, i diversi tipi di autoregolazione corporea come il training autogeno, e altro. Ma come la lettera che state scrivendo non può essere spiegata solo dal funzionamento del software con cui viene scritta o dalla grammatica che usate. La coscienza, raccolta dal cucchiaio delle parole o delle esperienze, diventa qualcosa d’altro dalle strutture e dai processi che le danno vita. Come sostengono alcuni biofisici, come Mario Ageno, e gli studiosi di cibernetica, si tratta una proprietà emergente, le cui manifestazioni finiscono per appartenere a rappresentazioni diverse da quelle materiali e deterministe. L’idea di avere un «fantasma nella macchina» del cervello non è solo un’immagine di Gilbert Ryle a proposito della mente, ma spesso è presente nell’utilizzo di teorie e tecniche elettrofisiologiche, quando vengono usate come ‘acchiappafantasmi’, ovvero come sistema concettuale e tecnico per intrappolare l’indeterminato ‘homunculus’ della coscienza. Cercare di catturare gli enti mentali, i fantasmi che si aggirano fuori e dentro la testa delle persone, è una tentazione cui nessuno si sottrae. La psicologia come scienza positiva e sperimentale nasce anche da questo progetto, e alcune ricerche sulla coscienza non sfuggono a tale disegno. L’elettroencefalogramma, questa utile macchina, può dirci alcune cose importanti, e questo molto tempo prima che facessero la loro comparsa sulla scena le tecniche di neuroimmagine. Ma gli eccezionali risultati tecnici e medici di queste metodiche non ripagano l’ambizione scientifica di riuscire a catturare il fantasma, restituirlo alla materia cui sembra essere sfuggito. Concetti come mente, coscienza, personalità, nonostante ogni sforzo positivista non riescono a coincidere con una realtà simile o uguale a quella dei nuovi indicatori fisici e biologici. L’unico risultato ottenuto sono dati statistici, ovvero indici di correlazione e di significatività, interpretati alla luce di teorie discorsive alla ricerca di coincidenze tra l’osservato, il dato e ciò che uno sente e prova. Per il momento alcuni preferiscono considerare i termini mente e coscienza come finzioni della ragione, costrutti concettuali di cui abbiamo bisogno, e che insieme a tanti altri termini mentalisti tratti dal senso comune svolgono una loro dignitosa funzione descrittiva, interpretativa e fenomenica, ma di cui è difficile stabilire verità e realtà, se non come convenzione. Parole come introverso, generoso, pulsione, psicosomatico, riflesso condizionato, intelligenza emotiva, e i discorsi che li accompagnano e li giustificano, sono cucchiai per raccogliere ciò che ci interessa, e a cui il linguaggio dà la sua forma. Il cucchiaio linguistico raccoglie, distingue, delimita, configura, classifica, crea entità ipotetiche, insomma offre forme e trasforma processi imprendibili in eventi percepibili e denominabili. Ma può essere inutile cercare la natura di ciò che si raccoglie occupandoci

della forma che il cucchiaio le attribuisce: analogie, metafore, similitudini, metonimie, variabili, indici di correlazione e interpretazioni, non offrono la certezza di una coincidenza tra il significante e il significato, tra la cosa da noi nominata e l’effettiva e tangibile sua realtà. È vero che una rosa rimane una rosa anche se le cambiate nome, ma non rimane la stessa rosa se la regalate alla vostra segretaria, a vostra nonna o alla vostra amante: c’è differenza tra la rosa del botanico, del giardiniere, del fiorista e quella che regalate a qualcuno. Cosa mi accadrebbe, si chiede Alice, se entro nel bosco dove le cose non hanno nome? Un dubbio simile agita i sonni degli psicologi che si chiedono: «Gli enti mentali, così come li pensiamo e li nominiamo, esistono di per sé o sono nostre costruzioni?» Dubbio esteso, ad esempio, a una parte cospicua della nosografia dei disturbi mentali, che tra l’altro prolifera senza sosta. Cosa siano la mente e la coscienza, o meglio cosa intendiamo indicare con queste due parole, rimane un problema complicato per gli psicologi teorici, alcuni dei quali pensano che non ci sia una via d’uscita, né per loro né per i neuroscienziati. Quello che le loro macchine acchiappafantasmi registrano acquista nome e cognome, perché viene correlato con comportamenti il cui senso e significato discende dal senso comune cui debbono essere ricondotti. Altrimenti rimarrebbero segni ignoti, privi di significato. Per non confondere i concetti tra loro, e usarli come criteri categoriali per distinguere, è necessario sapere a «cosa» si riferiscono. In certi casi i concetti sono come le formine per i giochi dei bambini con la sabbia. La sabbia è indifferenziata e acquista la configurazione delle formine che sceglie il bambino, ma nessuno pensa che quella sia la realtà della sabbia. Se la sabbia viene sostituita dal cemento, ciò che le formine hanno costruito comincia a esistere come oggetto a sé. Accade spesso anche con molte parole delle scienze della psiche, a partire da quest’ultima. In psicoterapia se mettete il vostro interlocutore nella condizione di sostituire il cemento con la sabbia potete dargli una mano a uscire da una rappresentazione costrittiva della coscienza di sé e dalle azioni e dai pensieri che per il suo tramite s’impongono. In altri casi, e qui sta il pensiero dialettico, lo psicoterapeuta deve darsi da fare perché il cliente metta nella sua formina, ossia la rappresentazione della coscienza di sé, un po’ di cemento anziché la sabbia. Per tutti questi motivi non darò una definizione a priori al concetto di coscienza di sé. Lo utilizzerò come espediente linguistico, legato all’esperienza/rappresentazione che ne fanno le persone in relazione tra loro. Mi atterrò al significato con cui di volta in volta verrà usato. Per questo non farò nessuna distinzione cavillosa tra coscienza di sé e autoconsapevolezza. Non mi occuperò della coscienza in sé, né della coscienza della coscienza. È vero che poche formine nel secchiello sono meglio di molte, per evitare al bambino il conflitto della scelta. Semplificano il mondo, ed è più facile coltivare l’illusione che abbia un ordine, il nostro. La scienza progredisce utilmente anche con questo espediente. Ma ciò che è valido ad Atene non lo è a Sparta. Qualcuno ha dovuto inventarsi una matematica, quella dei frattali, per venire a capo dei problemi della complessità, che nascosti sotto il tappeto dagli scienziati ottocenteschi, si sono puntualmente ripresentati a quelli del Novecento. Sono i pesci che ci interessa pescare a stabilire il tipo di rete, e non viceversa. Per cui potrebbe essere opportuno attenerci all’indicazione di un famoso linguista tedesco, Harald Weinrich, secondo il quale i concetti hanno bisogno di un contesto per poter esistere, e non possono essere estesi oltre il confine del contesto che ne giustifica l’uso. Insomma,

sopratutto in psicologia, gli universali non sono sempre ben accetti, rischiando di diventare realtà ontologiche e non espedienti del pensiero o della ragione. Se dovessi scegliere un’immagine per il concetto di coscienza così come la incontriamo nelle opere specialistiche, in omaggio alla città di Arezzo, sceglierei la figura mitologica della Chimera: un animale fantastico e improbabile, composto da parti di diversi animali, che solo lo scultore e la fantasia riescono a tenere insieme. Gli specialisti delle scienze della psiche sono in grado di fornire i dati che dimostrano l’esistenza della parte della chimera che prendono in considerazione, ma con l’inveterata tendenza a scambiare la parte per il tutto. L’integrazione tra saperi, la compatibilità tra le varie parti della chimera non sembra possibile. La chimera rimane un animale improbabile, un mosaico multidimensionale. Le tessere che la compongono provengono da mosaici di animali troppo differenti. Ma ancora per necessità possiamo accettare che, pur non esistendo la Chimera nella sua unicità oggettiva, la sua incoerente molteplicità viene contraddetta e si risolve nell’unicità dell’esperienza percettiva che possiamo farne quando la incontriamo fusa nel bronzo. Se dovessi dedicare a qualcuno questa breve passeggiata con il fantasma, la dedicherei anche a Henri Poincaré, fisico-matematico dell’Ottocento, che risolvendo il cosiddetto problema dei ‘tre corpi celesti’ dimostrò la relatività della meccanica gravitazionale di Newton e Laplace, dimostrando con l’eleganza della sua immaginazione e l’efficacia delle equazioni come dal caos, dal molteplice possiamo far emergere un ordine sovraordinato aprendo ad una nuova epistemologia. Ma tutto questo non è ancora sufficiente per rispondere alla domanda. Che cos’è la coscienza? Cercare una risposta ci aiuta a comprendere altre cose, come vedremo nel capitolo successivo. Per il momento pensiamo alla coscienza di sé come all’esperienza che facciamo di noi stessi nei nostri momenti migliori. Come quando avvertiamo di sentirci unici, vivi e presenti, in grado di avere piena coscienza di ciò che stiamo facendo. E in alcuni casi ci è offerta la possibilità di andare oltre: come ci dice un filosofo cinese, Lieh Tzu, dopo un’intensa pratica del T’ai Chi, una sorta di danza e di pratica marziale: «Allora l’occhio era l’orecchio, e l’orecchio era il naso, e il naso la bocca; perché tutti erano una cosa sola. La mente era rapita, la forma si era dissolta, le ossa e la carne si erano sciolte completamente; e non lo sapevo come lo scheletro si reggesse e su che cosa poggiassero i piedi. Mi lasciai andare al vento, verso oriente o verso occidente, come le foglie di un albero».

Lo strano abitante di Loch Ness Abbiamo accennato a come i discorsi intorno alla coscienza possano entusiasmarci ma anche annoiarci. Ripartiamo allora da un luogo noioso, finché non vi accadde qualcosa. Da qualche parte in Scozia c’è un un lago piuttosto cupo, in una località triste e poco nota. È rimasto tale fino a quando qualcuno ha raccontato di aver visto affiorare un animale simile a un dinosauro lacustre del Giurassico. Nonostante le intense ricerche nel lago di Loch Ness, nessuno è riuscito a fornire la prova certa dell’esistenza di questo UFO subacqueo e preistorico. Si è mostrato solo a pochi fortunati o interessati, il tempo necessario per scattare qualche immagine fotografica dubbia o sfuocata. Qualsiasi cosa possa essere, una mistificazione, un effetto ottico o un’illusione percettiva, dobbiamo ammettere che il dinosauro lacustre si è rivelato ‘vero’ almeno negli effetti che ha prodotto. Ad esempio ha determinato un flusso considerevole di turisti, diverse ricerche, molti articoli, qualche serio studio scientifico e, cosa da non sottovalutare, con il tempo gli avvistamenti ‘fortunosi’ sono aumentati. Spesso basta una credenza perché questa diventi reale attraverso gli effetti che produce, e gli esempi non mancano. Talvolta accade che un’opinione, una convinzione o una teoria vengano condivise dagli esperti e dal loro pubblico, con il risultato di raccoglierne poi le conferme. Più ci allontaniamo da ciò che è materiale ed evidente di per sé, tanto più il mondo percepito si complica al punto da esistere solo perché se ne parla e viene nominato. Non solo gli angeli o i demoni devono le loro presenza agli effetti delle credenze condivise, ma anche, ad esempio, le manifestazioni dell’isteria che, anche a partire da Charcot e Freud, devono qualcosa ai loro diagnosti e interpreti. Va riconosciuto comunque che il loro quasi contemporaneo Gustave Flaubert, l’autore di Madame Bovary, più acuto e con meno pregiudizi verso la psicologia femminile, risparmiò alla sua sfortunata eroina questa inutile diagnosi. Flaubert e altri scrittori, spesso meglio di psicologi celebri e accreditati, ci offrono l’opportunità di capire qualcosa di più sulla psicologia della gente. In certi casi ci mostrano come i confini di ciò che chiamiamo coscienza di sé, e a cui diamo vita, possono anche andare oltre il proprio corpo e l’Io empirico. Si tratta di qualcosa di più dell’empatia o dell’identificazione. È la capacità che permette ad alcuni di ricostruire e sperimentare i modi di sentire e di essere di altri: allo scrittore, l’abilità di farceli rivivere, in tutte le sfumature dell’agire, del sentire, del pensare. Il bravo scrittore deve essere anche in grado di influenzare il nostro sistema rappresentazionale avvalendosi del linguaggio. Deve essere abile nel modellare e sentire i molteplici drappeggi della coscienza di sé degli altri, anche di chi lo legge, e a partire dalla propria, che funge da cassa di risonanza. Non per niente, a chi chiedeva a Flaubert come fosse riuscito, lui uomo, a penetrare così i sentimenti particolari di una donna, il suo tempo biografico, la sua condizione sociale e coniugale, lo scrittore in modo lapidario rispose: «Madame Bovary, sono io». La sua coscienza di sé, la sua intelligenza psicologica e sociale, era stata in grado di dilatarsi, osservare e immedesimarsi, al punto da poter ospitare le vite femminili che aveva incontrato, condensandole in un personaggio emblematico e dando loro una seconda vita letteraria. Al cui confronto le immagini e le spiegazioni del femminile, offerte in particolare dagli psichiatri o dagli psicologi clinici, sono soltanto caricature, spesso di pessimo gusto, pregiudizi normativi scritti con un linguaggio pseudo-medico e supponente, che poco o niente ha a che vedere con le scienze mediche.

Il rischio è che le credenze presentate per vere dagli esperti di cose della psiche finiscano per essere l’unica sartoria disponibile. A cui le persone si rivolgono per il proprio guardaroba, ricevendone in cambio solo giudizi perentori che, come credenze condivise, possono diventare prima autorappresentazioni, poi abiti di comportamento, e infine ricorrenti coscienze di sé. Gli effetti delle credenze condivise sono rintracciabili in ogni generazione di posseduti e di invasati, di ispirati o di parlati, i quali sembrano accogliere e interpretare le maschere di sé e della propria follia con quanto la cultura del loro tempo gli offre. Ciò che anche noi tutti sperimentiamo come coscienza di sé non è indipendente dai vestiti con cui la drappeggiamo, le cui fogge sono dell’epoca e delle relazioni in cui viviamo. Tra l’altro le ricerche su come spieghiamo il comportamento altrui ci mostrano come gli argomenti che usiamo, per convincere noi stessi e gli altri, risentono dei cosiddetti ‘schemi attribuzionali’ e ‘inferenze prototipiche’. Grazie a queste ricerche risulta evidente che abbiamo la tendenza a replicare certi schemi interpretativi, per dirla in breve, a riportare l’ignoto entro ciò che a noi è già noto: si tratti di un volto, di un paesaggio, di un giudizio morale. Da un punto di vista cognitivo, affettivo e relazionale le persone tendono a essere più conservatrici di quanto sarebbero disposte ad ammettere: ad esempio cercano di confermare più che confutare le prime impressioni. E così funziona per le idee e per l’immagine di sé, a partire dal taglio e dal colore dei capelli. Ricerca di conferma o di convalida dei propri schemi interpretativi che finiscono per avere ragione perché ricreano, per sé e per gli altri, il mondo di relazioni da cui discendono. Anche se spesso vorrebbero cambiare quel mondo. Si tratta della classica resistenza che quel cireneo che è lo psicoterapeuta deve affrontare, e che altre pratiche professionali ributtano sulle spalle delle persone che ‘resistono’ attribuendo le cause alla patologia mentale diagnosticata. Il linguaggio è conservazione di una certa immagine del mondo, e aiuta in tutto questo nel bene come nel male. Il linguaggio, sia esso verbale, protoverbale o simbolico, è un potente strumento di ricostruzione dell’esistente, come lo stile delle facciate delle case vittoriane di Sidney in Australia, tra l’altro edificate quando già nella madrepatria inglese i gusti architettonici erano da tempo cambiati. Comprendiamo anche perché gli immigrati si aggrappino alla loro lingua, costumi e usanze, per quanto disfunzionali possano essere. In gioco ci sono la coscienza di sé e quell’ordine cognitivo e simbolico, emotivo nella sua sintesi personale, su cui si regge ciò che dà forma e continuità al senso della propria identità biografica. Per capire gli effetti delle credenze attribuite e condivise, facciamo l’esempio di un aggettivo con cui etichettiamo in negativo il comportamento ‘psicopatico’ delle persone. Questo giudizio diagnostico è pensato come carattere effettivo, insito nella natura psicologica delle persone, e non per quello che prevalentemente sono, ovvero giudizi in parte morali attribuiti a comportamenti socialmente riprovevoli. Le credenze condivise finiscono in alcuni casi per creare ciò di cui si parla, ossia le ‘realtà psicologiche’, ma anche ‘religiose’, ‘politiche’ e ‘istituzionali’. Spesso accade che gli psicoterapeuti si trovino a dover contrastare non solo le credenze, o le teorie, che il paziente ha su se stesso e sugli altri, ma anche a doverlo difendere dalle proprie identificazioni con le diagnosi subite e le spiegazioni che gli sono state offerte: ciò che può contribuire ad alimentare le rappresentazioni esplicite della coscienza di sé in relazione agli altri. Attribuzioni che tendono a trasformarsi in ‘profezie che s’autoadempiono’ quando l’interessato s’identifica

con un certo ruolo e con ciò che viene detto di lui. La psicoterapia spesso è una lotta contro gli schemi interpretativi posseduti e praticati dal paziente, che diventano parte della sua autovalutazione.

Effetti realistici Il problema dello strano abitante del lago di Loch Ness ha qualcosa in comune con gli ‘effetti di realtà’ prodotti dai molti discorsi sulla mente, sulla coscienza, sulla personalità. Anche la nozione di coscienza ha sviluppato tutti i requisiti per costituirsi come una ‘credenza condivisa’, ora facendone un abitante misterioso della mente, ora identificantola con la mente stessa. Problema rispetto a cui negli ultimi trecento anni scienziati, clinici e filosofi hanno manifestato opinioni disparate, ognuna vincolata ai rispettivi metodi di pensiero, esperienza di sé e problemi relativi alla propria disciplina. Il termine coscienza è emerso come concetto dalle acque dell’ignoto non molto tempo fa. È entrato a far parte del lessico del senso comune da cui gli studiosi l’hanno prelevato. A partire dal Seicento il concetto è stato utilizzato per indicare in modo prevalente la coscienza e la responsabilità morale: ancora oggi chiamiamo ‘incosciente’ chi dimentica, sfida e ignora il senso di responsabilità personale. Nell’Ottocento Ambroise Tardieu, nel suo Etude médico-légale sur le attentats aux moeurs (1857), catturò il concetto cercando di farne un oggetto medico. Un tentativo riuscito, quello positivista, di annettersi come area di competenza professionale e scientifica i sentimenti, i costumi contrari alla coscienza morale, sopratutto le passioni, il delitto e la sessualità, assegnandogli il ruolo di sintomi manifesti di patologie della psiche, a partire dall’erotismo femminile, che ancora negli anni Cinquanta del Novecento veniva guardato con sospetto da psicoanalisti e psicosessuologi. Il termine ‘coscienza’ è stato considerato a lungo con diffidenza da molti settori delle scienze della psiche. L’ideologia comportamentista che ha dominato il mondo della psicologia accademica del Novecento l’ha tenuto fuori dalla porta. Tramontata l’interdizione comportamentista al concetto, gli è stato concesso di rientrare a far parte delle cose suscettibili d’interesse scientifico, ma solo dopo essere diventato un ‘oggetto psichico’ riconducibile o alla sua matrice neurobiologica, o a una funzione cognitiva della mente. Reificazione, o se volete trasformazione in una ‘cosa psichica’, che ha messo d’accordo riduzionisti e dualisti sul suo uso, ovvero tra chi identifica la mente con il cervello e chi sostiene che si trattti di due entità differenti. Due prospettive sulla natura della mente (e della coscienza) che continuano a essere in disaccordo su un punto, stabilire e definire la sua natura. Prospettive che concordano sul fatto che la coscienza esiste, come esistono le cose in sé, indipendentemente da chi e da come le nomina e le spiega. Il risultato è stato di avere un’entità psichica, una funzione biologica, una configurazione neurologica, dai confini troppo ampi per non suscitare dibattiti senza via d’uscita, in cui ogni esperto rimane della propria opinione, identificando con la parola coscienza, e spesso con valide ragioni, qualcosa di diverso dal suo interlocutore. Riduzionisti e dualisti si trovano invece d’accordo su un punto: stabilire ognuno per proprio conto quale sia la ‘reale e vera natura’ della mente e della coscienza. I curatori e gli autori di questo libro sono dell’opinione che le nostre teorie sul mondo, sulla psiche, sugli altri, come su molte altre cose, sono costruzioni concettuali, ‘mappe’ o ‘modelli’ più o meno coincidenti con il mondo effettivo. Sono anche disposti ad ammettere che questa opinione è a sua volta un metamodello. Dallo scienziato al politico all’uomo della strada, siamo tutti impegnati a ‘cartografare’ le nostre esperienze di vita, chi in privato chi per professione. Ma queste mappe, per quanto coincidenti col mondo delle nostre azioni e convinzioni, non riescono a essere una copia del reale. Il mondo, nella sua realtà ultima e

totale, rimane inaccessibile: ci dobbiamo accontentare di verità parziali e locali. Anche Albert Eistein fallì nel tentativo di unificare l’elettromagnetismo con la gravità. E una teoria fisica del tutto è di là da venire. Le mappe dei mondi neurosensoriali sono molto differenti se viste dal punto di vista dei suoi attori: ad esempio, le nostre mappe neurosensoriali e le relative rappresentazioni divergono da quelle ultrasoniche dei pipistrelli o elettriche delle lamprede o chimiche delle termiti. Dall’altro bisogna considerare che, mentre la biologia molecolare dei pipistrelli è simile alle nostra, il gusto estetico o l’interpretazione emotiva rende molto dissimili gli uomini tra loro. I criteri cui attinge la psicologia della coscienza estetica di un pittore giapponese, Hokusai, quando dipinge il monte Fuji sono radicalmente diversi da quelli adottati da Cézanne quando dipinge La montagna Sainte-Victoire. Un disturbo neuropsicologico conseguente a una lesione, come il ‘neglect’, è reale e vero tanto per un neuropsicologo francese quanto per uno giapponese. Ma molti aspetti della psicologia della gente sono anche contestuali, mutevoli e storicamente situati. Il senso della dignità personale, inteso come componente importante della coscienza di sé di un piccolo borghese italiano degli anni Cinquanta, è oggi dissolto, insieme a quei rapporti sociali che lo mantenevano in vita e a cui era funzionale. Uno psicoterapeuta di oggi difficilmente riuscirebbe a comprenderlo. In certe discipline, come la geologia o l’anatomia, siamo in grado di costruire modelli o mappe con un elevato grado di coincidenza con la realtà empirica. In altri casi, come accade agli ‘eventi mentali’, il problema della coincidenza tra la cosa nominata e l’oggetto tende a essere un atto di fede o, meglio, una convenzione, una credenza, una mappa analogica nel migliore dei casi. In taluni casi la credenza teorica può dimostrarsi efficace perché, come abbiamo già accennato, una certa teoria sull’animo umano, sia essa religiosa o scientifica, tende a porre le condizioni della sua conferma. Affermazione un po’ eretica per molti psicologi legati all’utopia, per loro necessaria, di una coincidenza realista tra gli enti psicologici nominati e la loro effettiva esistenza. Molti psicoanalisti pensano che il Super-io sia un’entità reale, e dal Progetto per una psicologia di Freud in avanti ogni tanto qualcuno prende le mosse per dimostrare l’esistenza effettiva del Super-io, ricollegandolo ai lobi frontali della corteccia cerebrale, in contrasto con l’Es che, ovviamente, viene collocato nel cervello istintivo, nel talamo e nei suoi dintorni. Forse i termini del problema andrebbero invertiti e certamente la corteccia si plasma e ospita ciò che la registra da un punto di vista culturale, rendendola suscettibile a certi modi di sentire, pensare e agire. Norman Doidge ha dimostrato che ripetere centinaia di volte una configurazione percettiva porta a modificare la corrispondente base neurale e le altre interconnesse. Per la verità, negli anni Settanta, Mark Rosenzweig aveva già dimostrato la stessa cosa, ma ancora prima, intorno alla metà del Settecento, con i mezzi dell’epoca, ne aveva parlato il già citato (e dimenticato) Vincenzo Malacarne. Tuttavia la ricerca del’homunculus annidato in qualche circuito cerebrale affascina ancora oggi qualche ricercatore, con l’aspirazione all’assoluto, sia pure un Dio genetico o biochimico, con la voglia di dedicargli qualche tabernacolo, sia pure nell’inaccessibilità dei cervelli viventi. Molti psicologi accademici pensano che esista realmente il tratto psicologico dell’aggressività, e organizzano congressi su questo tema, in cui si finisce solo per essere d’accordo con se stessi. Peter Marsh, ricercatore di Oxford, con una certosina analisi delle molte pubblicazioni scientifiche sull’argomento, ha dimostrato che gli esperti hanno usato e usano il concetto di aggressività in un centinaio di accezioni diverse,

rendendo i dati delle ricerche empiriche tra loro inconfrontabili, né sovrapponibili, impedendo qualsiasi generalizzazione significativa. Abbiamo già abusato della considerazione che il concetto di coscienza, e per vari motivi, non si trovi sempre in condizioni migliori, ad esempio finendo per trasformare degli indicatori neurobiologici in una controprova della sua metafisica esistenza. Il problema della coincidenza tra le nostre descrizioni/spiegazioni e il mondo, ovvero tra le nostre teorie e la realtà, era già noto quando le scienze della psiche muovevano i loro primi passi figlie del positivismo. In quegli anni il grande fisico-matematico Henri Poincaré, solo con l’ausilio di carta e matita e al lume di una lampada a petrolio, dimostrò molte cose che ancor oggi stupiscono per la loro attualità. A chi gli chiedeva quale geometria fosse più vera, quella di Euclide o quella di Riemann, rispondeva che nessuna delle due era ‘vera’, ma solo la più o meno adatta a risolvere certi problemi. Il progetto che ha offerto alle scienze fisiche e biologiche il loro straordinario successo è la ricerca riduzionista di spiegazioni e di leggi operanti nel mondo della ‘natura’, realizzando in molti casi la massima coincidenza tra le mappe descrittive/esplicative e i fenomeni considerati. Il programma in certi casi ha avuto anche effetti sorprendenti, anche quando era guidato da ipotesi sbagliate o troppo fantasiose: un po’ come la ricerca dell’Eldorado che fece scoprire Cuzco, la città perduta sulle Ande. Quindi è comprensibile che le scienze della psiche, imitando quelle fisiche e biologiche, ora nei metodi, ora nella forma, o solo nella retorica discorsiva, si siano mosse piene di speranza nella stessa direzione delle scienze fisiche e biologiche. La speranza era che nei loro laboratori si sarebbe riusciti a isolare la ‘reale’ natura degli enti mentali, i loro elementi costitutivi, e a trovare le leggi per la loro spiegazione causale, dalla percezione al pensiero alle emozioni. Sapere fondamentale che avrebbe poi consentito di spiegare il comportamento umano, presumendo, con ingenuità positivista, che il comportamento avesse la stessa natura dei suoi elementi costitutivi e fosse una sua estensione. Per quanto riguarda i sentimenti e l’agire umano, che tanti grattacapi ci danno, siamo ancora in attesa che questo avvenga. Qualche psicologia applicata ha cercato per necessità pratiche qualche scorciatoia, i cui risultati soddisfano però solo i suoi professionisti e i credenti.

Scettici e pragmatisti In questo panorama articolato, alcuni che chiameremo scettici e pragmatisti hanno scelto un relativismo teorico e un realismo metodologico, secondo cui di ciò che si conviene come reale è lecito darne varie descrizioni/interpretazioni, nessuna delle quali ha priorità sulle altre, se non in relazione alla loro adeguatezza o capacità di risolvere qualche problema. Di volta in volta possiamo stabilire se le teorie e i saperi cui ci rivolgiamo sono utili e quindi adeguati, un po’ come quando scegliamo tra usare una carta nautica piuttosto che una geopolitica o una pluviometrica. È così che in certe aree delle scienze della psiche, ad esempio in psicoterapia, si è creata una sorta di politeismo epistemico, per cui ognuno finisce per andare con i propri dei, ovvero con i propri convincimenti teorici e con le relative mappe: i guai sorgono quando alcuni vogliono imporre il proprio dio agli altri come l’unica ed esclusiva via per la verità vera, come accade nei domini degli psicologi accademici, per i quali vale il principio confessionale extra ecclesiam nulla salus. E condannano al rogo chi non s’adegua. Gli appunti di viaggio dei sopravvissuti al ‘rogo’ spesso diventano un libro. Come questo che avete tra le mani, il cui merito principale è quello di lasciare al lettore la libertà di farsi una propria opinione e scegliersi, anziché una chiesa o un sistema di idee, una mappa locale, un espediente conoscitivo. Tanto per iniziare il lettore converrà che molte parole riferite agli eventi mentali, ma anche morali, logici e simbolici non hanno sempre un corrispettivo fattuale, non rispecchiano un oggetto empiricamente tangibile. Che tuttavia può diventare tale per gli effetti cui può dar vita. Come alla cosiddetta vergogna sociale corrispondono l’imbarazzo e il rossore. È anche vero che ogni società storica ha i suoi codici di controllo e differenti forme semiotiche, per cui i sinonimi psicologici non descrivono gli stessi sentimenti, e qualcuno afferma che in fondo i sinonimi non esistono. Tuttavia, come tutti sanno la retorica comunicativa e il cosiddetto linguaggio ‘performativo’, che tanto rilievo ha in psicoterapia o nelle psicologie sociali, spesso può farci apparire come cose realmente esistenti e replicabili anche quelle che non lo sono. Il linguaggio, anche quello scientifico, è una forma di conoscenza locale e convenzionale. In certi casi è opportuno essere pragmatici e pensare la coscienza come un fatto, una funzione, un’insieme di attività neurocognitive. Con questa mappa adeguata, l’ingegnosa pazienza dei neuropsicologi e dei neuropatologi, lavorando sui casi clinici e nei laboratori di psicologia, è stata in grado di ricondurre molti aspetti della coscienza ai suoi correlati neuroanatomici e funzionali e a localizzarli nel sistema nervoso centrale. Anche se la neuropsicologia lascia poi ai biochimici e ai biofisici il compito di proseguire il lavoro verso il basso, nel disegnare altre mappe alla ricerca dei meccanismi biologici di base. Invece, dalle discipline che si occupano del ‘macro’ sappiamo un’altra cosa: ovvero che da un ‘sistema di interazioni’ complesse può prendere vita qualcosa che la somma dei suoi elementi costitutivi non spiega, anche se lo rendono possibile. L’effetto cosiddetto ‘emergente’ può aver bisogno di un’altra epistemologia, un altro livello rappresentazionale, insomma di forme diverse di pensiero e linguaggio. È per questo che non si può chiedere alla fisiologia muscolare di dirci cos’è una partita di calcio e di spiegarla. Non c’è motivo di sorprendersi: ogni giorno passiamo da un livello all’altro, ad esempio quando dalla conoscenza della grammatica passiamo alla comprensione di un romanzo, dalle note musicali di uno spartito alla musica che ascoltiamo, e così via. Per ciò che va sotto il nome

di coscienza possiamo usare due mappe, quella delle discipline linguistico-psicologiche e quella delle scienze fisiche: ognuna con il proprio campo di pertinenza. Analogamente la luce può essere descritta come onda o particella, così ciò che chiamiamo coscienza può essere ricostruita nei suoi processi costitutivi o nei suoi effetti, usando l’epistemologia delle scienze sistemiche e semiotiche, e quella delle scienze biologiche. Diventa invece problematico quando si voglia spiegare in termini biologici qualcosa che al contrario necessita di un altro e più adeguato, anche se meno scientifico, livello descrittivo/interpretativo. Quando si guarda ai ‘contenuti’ relazionali, socio-semiotici e affettivi della coscienza, depositati nei circuiti neuronali della corteccia frontale o nell’area somato-sensitiva, i neuropsicologi si trovano alla frontiera del proprio territorio, oltre il quale le proprie ‘mappe’ interpretative non funzionano più. È necessario passare di livello e cedere il compito ad altri scienziati sociali o psicologi. A questi si cedono sempre volentieri domande del tipo: «Perché Gigi, quando incontra Rosalinda o Ildegarda, sperimenta con queste due donne una diversa immagine di sé?» Converrete che una risonanza magnetica funzionale non sarebbe lo strumento più adatto per cercare la risposta. Abbiamo bisogno d’altro. È un po’ come quando guardiamo il vigile urbano o la donna con l’uniforme da vigile e dobbiamo stabilire se siamo osservati come persone o giudicati come automobilisti. In fondo Rosalinda e Ildegarda potrebbero essere la stessa persona guardata con intenzioni diverse, raccogliendo nel proprio specchio due diverse e complementari percezioni di se stessi. Alcuni fenomeni di coscienza, come la coscienza di sé esplicita e situata, che chiameremo ‘effetto retrovisore’, può essere pensata come «un presente ricordato» e contingente, per dirla con il titolo di un fortunato lavoro di Gerald Edelman sulla coscienza. Quindi: a) della coscienza sembra che se ne possa parlare solo attraverso analogie e metafore, b) abbiamo una certa coscienza esplicita di noi stessi sulla base di quello che facciamo, più precisamente di ciò che pensiamo di stare facendo. Anche in questo caso nessuna disciplina e sapere con i rispettivi metodi può darci tutte le descrizioni di ciò che presumilmente avviene: un tema per semiologi, psicologi sociali, psicoterapeuti, antropologi e storici. Altri saperi, ad esempio neurobiologici, sono invece molto importanti per i meccanismi che rendono possibile la coscienza di sé, ma possono essere irrilevanti se vogliamo modificare un’autopercezione. È necessaria una competenza comunicativa, in particolare performativa, come essere in grado di fare un complimento che sia appropriato e gradito da chi lo riceve. Il cardiologo, al di là di un ansiolitico o un betabloccante, poco può fare per evitarvi un pericoloso aumento di pressione al solo pensiero della riunione di lavoro, e poco può invece dirvi sul perché la pressione, quando scalate un difficile passaggio alpinistico, vi rimane entro parametri fisiologici. Di fronte a un pericolo simbolico e uno reale la reattività adrenergica dovrebbe essere diversa, ma non è così. Compare la dimensione psicologica, che non possiamo spiegare o risolvere in termini psicofisiologici. Ricordo un anziano torero di Madrid che mi disse che in vita sua aveva sempre avuto più paura dei fischi della folla che delle corna del toro. Parte di ciò che chiamiamo coscienza di sé era tra lo sguardo/attesa/giudizio degli altri, e solo una parte, quella percettivo-motoria, si occupava di come farsi sfiorare ma non infilzare dalle corna del toro. Il torero mi raccontò che una parte di sé si identificava con i movimenti del toro, cercando di comprendere i segni anticipatori di come avrebbe caricato, mentre una parte di sé era tra il pubblico che stava giudicando la sua abilità e coraggio. Il torero era a suo modo un

semiologo pragmatista: usava i segni più adatti ai problemi che aveva di fronte, il toro e il pubblico e da cui emergeva una rappresentazione e coscienza di sé sdoppiata. Riassumendo, più che della coscienza in generale ci stiamo occupando della coscienza di sé. Anziché del tronco dell’albero stiamo parlando del ramo su cui stiamo seduti, certe volte comodamente e in buona compagnia, altre volte no. Ciò che chiamiamo coscienza di sé non è separabile da una relazione. Destrutturiamo l’idea che abbiamo del termine coscienza, accettiamone la vaghezza e la pluralità, evitiamo l’errore della reificazione. Se è vero che i fisici sperimentali e i fisici teorici devono rispondere di quello che dicono ai matematici e questi, a loro volta, a Dio, gli psicologi dovrebbero rispondere di quello che dicono ai filosofi e logici del linguaggio, e questi a loro volta a una società storica. Infatti, mentre i primi si confrontano con le opere di Dio, i secondi si confrontano con i costrutti, le opere o gli artefatti degli uomini. Per questo il concetto di coscienza e dintorni, come direbbero appunto i filosofi del linguaggio, è un enunciato che assume diversi valori di verità a seconda di dove e da chi venga considerato e sperimentato.

Invenzioni indefinite Una certa inquietudine continua a tormentare chi si affaccia sul lago degli eventi mentali aspettandosi di individuare tra le onde la presenza che le anima, il Leviatano o il brontosauro acquatico che chiamiamo mente e coscienza. Riprendiamo un interrogativo che rischia di diventare noioso: «In che misura la credenza e l’attesa creano le realtà di cui abbiamo bisogno?» Si tratta di un’inquietudine che viene da lontano, dai fisici quantistici, che da scienziati di professione sono diventati epistemologi per necessità. Sopratutto quando si sono accorti che la configurazione di certi eventi e oggetti scientifici non è separabile dallo sguardo e dai discorsi dell’osservatore, ovvero dai suoi modi di pensare e dai suoi metodi di ricerca. A questa inquietudine se n’è aggiunta un’altra. Molti scienziati sociali hanno dimostrato in modo convincente che i costrutti delle loro discipline, in particolare delle scienze cliniche della psiche, sono socialmente e linguisticamente condizionati: sia dagli esperti, con il concorso dei clienti/pazienti, sia dal pubblico che è in attesa di un sapere esplicativo, rassicurante e normativo. Assumendo una posizione di scetticismo radicale, potremmo supporre che: a) ogni asserto empirico che dica qualcosa sul mondo dipende dall’intento perseguito e dalla teoria utilizzata, b) ogni teoria spesso contiene le premesse della propria verifica, c) ogni enunciato psicologico, anche di senso comune, non è mai la copia di qualcosa al di fuori del discorso che lo ospita, d) ogni asserto psicologico può essere confermato attraverso i generi interpretativi che guidano e seguono gli atti e le azioni, e) ogni generalizzazione psicologica può non coincidere con l’esperienza che le persone hanno di se stesse e del mondo. Seduti al tavolino di un bar possiamo scoprire che basta un battito di ciglia per affacciarci a diverse finestre interpretative, normative, estetiche, sensoriali, sociologiche, letterarie, drammaturgiche e altro: così attrezzati possiamo divertirci a far vagare lo sguardo sulle molteplicità del mondo. Parafrasando Proust, possiamo vedere le stesse cose con cento occhi diversi. Fino a quando, più tardi, ritirandoci nell’ombra dei nostri sogni, scopriamo di essere quello che i nostri psicodrammi ci chiedono. Qualche volta, se ci attardiano al bar con un amico, possiamo entrare in uno stato modificato di coscienza, ad esempio togliendo l’audio e fantasticando a occhi socchiusi. Se l’altro non è un amico, ci troviamo di fronte a un interlocutore stupito, non dal fatto di non riuscire a essere interessante, ma dalla labilità astenica, dalla resistenza emotiva, dal deterioramento mentale o dal disturbo attentivo che ci attribuisce: soprattutto se l’interlocutore è versato in narrative psicodiagnostiche, in cui il diagnosta ha sempre ragione e l’interlocutore sempre torto. In tutti questi casi la coscienza di sé è come il fumo che esce dal camino, si piega dove la porta il vento del nostro sentire, immaginare, riflettere, sognare. Il mito del ‘dato’ psicologico, puro e duro, isolato da ogni relazione, rilevato con strumenti e procedure oggettivanti, resiste come dogma metodologico nelle riviste di psicologia a ogni possibilità ed evidenza critica. Mentre state leggendo queste righe una nuova generazione di psicologi viene addestrata mentalmente al rigore metodologico, che implica la frantumazione del mondo in variabili, depurate da contesto e relazioni. Ad esempio si presume che un’esperienza percettiva sia indipendente dall’atto interpretativo che ritaglia e isola un flusso sensoriale. La visione non è un processo passivo bensì, come ha scritto Richard Gregory, «una ricerca dinamica della migliore interpretazione dei dati disponibili». Ovviamente l’interpretazione percettiva migliore è quella di chi sta costruendo

intenzionalmente un qualche tipo di rapporto competente con il mondo e con se stesso. Un osservatore, il classico uomo della strada, quindi noi tutti, non sarebbe in grado di discriminare o configurare la propria esperienza, né di avere una coscienza esplicita o implicita di sé e del mondo, se lo privassimo dei suoi schemi, criteri e linguaggi interpretativi e di quelli che il contesto gli offre e di cui lui va in cerca. Ciò che il neurobiologo Walter Freeman ha scoperto nel bulbo olfattivo del coniglio vale ancora di più per un gatto. «L’odorato» dice Freeman, «è in realtà un processo di verifica di ipotesi teoriche. Ogni volta che inspira il coniglio sottopone a revisione la sua teoria del suo mondo». Quindi senza una teoria del mondo, relazionale, olfattivo, visivo e tattile, anche il vostro gatto non sarebbe in grado di configurare un topo come una preda. Come per i grandi felini, questa competenza specifica viene trasmessa e insegnata dalla madre. Il gatto non reagisce agli stimoli (termine che andrebbe vietato agli psicologi, a rischio di farli sentire meno scienziati), ma utilizza una preordinata configurazione di segni, selezionati da schemi interpretativi, in grado di organizzare i messaggi sensoriali mentre li dota di senso e significato. Difatti è il riconoscimento del topo che elicita nel gatto la relazione predatoria e il relativo corredo di autopercezioni regolative. Anche un gatto può essere studiato come un animale capace utilizzare e interpretare dei segni: la retroazione circolare autoregolativa implica specifiche forme di autoconsapevolezza; ovviamente diverse da quelle che, chiamandole coscienza, attribuiamo solo a noi. Se gli animali abbiano una coscienza è un interrogativo a cui gli animali non sono interessati: è un problema morale, religioso e ideologico degli umani che devono appendere a qualche chiodo narrativo le incerte certezze della loro predestinata superiorità. Da un punto di vista scientifico non ci sono opinioni contrarie all’idea che ognuno a suo modo e per necessità abbia qualche forma di autopercezione consapevole, che possiamo chiamare anche coscienza. Ma il tema della coscienza ha molte implicazioni: un po’ come l’anima che, fino a Origene, uno dei padri della Chiesa, si era in dubbio se riconoscerla anche alle donne, o come in Louisiana, nell’Ottocento, dove nelle piantagioni di cotone i coloni continuavano a negarla ai figli degli schiavi importati dall’Africa. Se lo studioso identifica la coscienza con i procedimenti conoscitivi in base ai quali selezioniamo: a) alcuni processi rappresentazionali riferiti a se stessi, oppure b) alcuni indicatori neurobiologici, o c) l’esperienza personale che guida l’azione intenzionale, ci troviamo di fronte a differenti ‘artefatti’ concettuali. Di qui le sfaccettature indefinite e la ‘vaghezza’ del concetto. La coscienza di sé è l’effetto cangiante di un processo, variamente configurabile che, con l’aiuto del linguaggio osservativo o introspettivo, trasformiamo da effetto relazionale in evento. La possibilità di configurare la coscienza di sé in certi casi come un evento neurocognitivo e in altri come l’effetto riflesso di una relazione intenzionale, in caso di problemi giustifica da un lato una diagnosi neuropsicologica, e in altri casi il ricorso a una psicoterapia: procedimenti ognuno con i propri e differenti schemi conoscitivi e linguaggi. Attraverso accurate ricerche comparate di antropologia storica, gli studiosi hanno scoperto che i greci abitavano e generavano un mondo simbolico, sociale e psicologico, diverso (in parte) da quello dei romani: greci e romani delle rispettive età classiche avevano organizzato in modo diverso il loro mondo sociale, economico, amministrativo, culturale, simbolico, con il risultato che anche le relative forme linguistiche influivano sulle rappresentazioni semantiche e quindi psicologiche di se stessi rispetto al mondo. Noi

moderni abbiamo spesso difficoltà ad accedere ad alcuni modi di pensare e di agire dei greci o dei romani dell’età classica, e non solo. Anche lo studente di fisica ha difficoltà cognitive e percettive ad affrancarsi dalla fisica del senso comune con cui è abituato a pensare nel mondo empirico e quotidiano. Quando guardiamo ammirati i disegni di Maurits C. Escher proviamo un senso di disagio di fronte all’impossibilità dei suoi disegni, che violano la nostra organizzazione percettiva con cui costruiamo l’esperienza del nostro mondo: lo stupore, la dissonanza, il paradosso che quei disegni suscitano sono analoghi a quanto avviene nel mondo dei nostri costrutti linguistici di senso e di significato: bastano piccole dosi di mescalina, LSD, dimetiltriptamina (ayahuasca) o altri allucinogeni per entrare in mondi autopercettivi simili ai disegni di Escher. È sufficiente uno choc autobiografico intenso per accorgerci come la coscienza ordinaria di sé sia un costrutto sapientemente puntellato dalle abitudini e dai contesti. Basta uno sguardo alla storia, o a un romanzo come Guerra e pace di Toltstoj per scoprire che la coscienza di sé di un servo della gleba nella Russia ottocentesca non era certo quella di un lord inglese. La ‘coscienza di sé’ come ce la offre il pensiero moderno e come la intendiamo noi oggi è un costrutto e una rappresentazione abbastanza recente, delle società occidentali e liberali. Nella sua dimensione socio-psicologica il concetto non è separabile dalle condizioni che hanno portato all’affermazione progressiva nelle società occidentali del concetto di individuo autonomo, consapevole del senso e del valore di sé e capace di autodeterminazione. Una rappresentazione che inizia col Rinascimento, diventa un valore con la Riforma e trasmigra nella laicità del tardo illuminismo settecentesco, cooptata poi dall’etica laica e religiosa. La coscienza di sé non è indipendente dalla costruzione dell’identità moderna, là dove gli storici collocano le ‘radici dell’Io’. Come ha scritto Herbert Marcuse, gran parte degli eventi e delle esperienze che chiamiamo psicologici sono prigionieri di una condizione sociologica. La nostra plasticità neuronale ci aiuta in questo. Il senso dell’Io, storicamente e culturalmente mutevole, è l’istanza che governa il nostro modo di entrare in relazione con il mondo interpersonale, ideologico, giuridico ed economico. Lo storico Charles Taylor, attraverso una ricerca minuziosa e monumentale, è stato in grado di ricostruire le idee guida e il pensiero che, di epoca in epoca, in modo spesso silenzioso, hanno plasmato la rete di relazioni da cui emergono le forme di coscienza di sé attuali. Forme di coscienza che a noi sembrano ‘già date’ e quindi scontate e ovvie piuttosto che costruite. Lo studio accurato dell’opera monumentale di Taylor ci consente di capire come la coscienza che abbiamo di noi stessi non è la secrezione naturale di un’attività nervosa e cognitiva che può essere separata dai processi microculturali che la plasmano. Gli studi sulla plasticità neuronale dimostrano che alcune difformità percettive tra individui si basano su interpretazioni diverse degli eventi, indirizzate dall’educazione, e dovute anche a differenze minime nelle strutture nervose e sensopercettive. Forse non riusciamo a capire come questo avvenga perché una parte del processo avviene in modo implicito, attraverso il linguaggio, ovvero un sistema non riducibile alle leggi e ai meccanismi fisici che lo consentono: la neurofisiologia del ballerino non spiega la danza, mentre la danza giustifica gli adattamenti fisiologici del suo corpo; la sintassi non spiega il romanzo, mentre il genere narrativo ci fa comprendere un certo uso della sintassi: si tratta di livelli tra loro irriducibili? Anche problemi simili, come una separazione e un divorzio, diventano diversi se affidati allo psicologo o all’avvocato.

Sdoppiamenti e molteplicità Nel bambino il proto-sé corporeo si differenzia e si ramifica, fino a configurare una rappresentazione di sé dotata di senso e significato. Rappresentazione che si differenzia in base alle relazioni di cui ha più bisogno, e che scopre in particolare nel rapporto con l’ambiente sociale. In questo caso la coscienza di sé riflette le relazioni interpersonali e i loro significati che il bambino incontra, assimila e contratta con il suo mondo di riferimento. Attraverso questa interazione i contenuti della coscienza riflettono e si sedimentano nella memoria autobiografica, richiamandoli quando servono o accantonandoli quando muta il contesto. Anche porzioni importanti della coscienza di sé, ad esempio corporea, possono essere messi in soffitta come i giocattoli vecchi, quando per il bambino e l’ambiente di riferimento perdono il loro valore d’uso. Anche le forme di coscienza di sé sono soggette a mutazioni. Le rappresentazioni più simboliche e astratte dell’io, il valore di sé, l’immagine personale, l’identità di genere sono altrettanti rami di ciò che chiamiamo coscienza di sé. Per certi versi ciò che riassumiamo nel termine coscienza di sé non è qualcosa di separato dal sistema di significati che trasudano dalle credenze, dai sentimenti e dagli eventi microsociali di cui le persone fanno esperienza attiva, pur rimanendo questa esperienza agganciata ai protolinguaggi del sé corporeo, ad esempio spaziali e sensoriali. Da qui le metafore e le analogie attraverso cui le persone descrivono la propria consapevolezza di essere coscienti. Poniamoci ora questa domanda: «Prima di approdare al vocabolario delle cose esistenti, dov’era la coscienza di sé?» René Zazzo è stato uno psicologo sperimentale francese, allievo di Henri Wallon, che negli anni Sessanta del Novecento ha risolto a modo suo il problema: le ricerche che condusse gli permisero di stabilire che la coscienza di sé compare nel bambino solo nel momento in cui è in grado di riconoscersi allo specchio. Di ciò che avviene prima non è dato di parlare, né di fare congetture, seguendo in questo la rigida norma dello studioso positivista. Ma a ben guardare anche il dato oggettivo di Zazzo non è esente da interpretazioni, rivelandosi comunque un costrutto epistemologicamente condizionato. Zazzo ha come linea guida il principio secondo cui l’autorità oggettivante dell’osservatore non può fare inferenze su ciò che non è empiricamente osservabile, riportabile nel regno del dato registrato. Ad esempio non è possibile parlare di una coscienza di sé, senza un reperto obiettivo che la testimoni. Anche se il bambino già ne possiede una implicita. Che è presente, e molto tempo prima che la coscienza esplicita faccia la sua comparsa sulla scena: sdoppiamento che la rende visibile all’osservatore. Quando una donna si dà il rossetto allo specchio, costituendosi anche come osservatrice di se stessa, attua uno sdoppiamento della coscienza: «Io sono il viso che sento e vedo e ho un viso che giudico». Quando una donna si guarda criticamente allo specchio e decide, ad esempio, che quella tonalità di rosso la rende volgare, include nell’atto di darsi il rossetto il punto di vista di un altro. Parafrasando William James, possiamo dire che siamo in grado di avere tante coscienze di noi stessi quante sono le persone per noi importanti. Anche il nostro punto di vista è importante quando viene assunto a guida e giudizio del corportamento. Alla moglie Romola, che osservava dispiaciuta che Nižinskij, il grande ballerino, non potesse vedersi mentre danzava, rispose: «Ti sbagli. Mi vedo mentre danzo, proprio come se fossi seduto in mezzo al pubblico». La stessa cosa vale per molti atleti, come è riportato in The Pursuit of Sporting Excellence di David Hemery. Si racconta che Tommaso Campanella, nello scrivere

un’istanza a un alto prelato, ne simulasse le espressioni del viso. A chi gli chiedeva perché, rispose che questo gli permetteva di capire come avrebbe interpretato la lettera e di scriverla in modo appropriato agli umori e modi di pensare del destinatario. Se siamo disposti a rinunciare, anche solo per qualche momento, ai noti pregiudizi corporativi di professionisti e accademici della psiche, possiamo ammettere che certe forme letterarie, taluni generi narrativi, tra cui anche opere teatrali o raffigurazioni pittoriche, possono essere efficaci esplorazioni e applicazioni di teorie psicologiche, anche se diverse da quelle che utilizzano gli psicologi. Una serie quasi infinita di scrittori e artisti, celebri o oscuri, si è occupata della coscienza di sé, il nervo scoperto di un’epoca, l’Ottocento e il Novecento. Troppi per citarli tutti. Tuttavia non si può fare a meno di accennare a Luigi Pirandello, la cui opera ruota intorno al problema della coscienza di sé, le sue molteplicità, costruite e contrattate, in perenne contraddizione tra introspezione e giudizio sociale. Là dove i costrutti rituali e di ruolo, gli schemi relazionali guidano le persone verso definite esperienze di sé, sul cui carattere, replicato e mutevole, influiscono le situazioni. Il nostro spirito (la coscienza), scrive Pirandello in Scienza e critica estetica, consiste di «frammenti o, meglio, di elementi distinti, più o meno in rapporto tra loro, i quali si possono disgregare e ricomporre in un nuovo aggregato». Pirandello ci ha mostrato come i procedimenti discorsivi e regolativi attraverso cui costruiamo la nostra immagine nello specchio sociale, e il sentimento di sé che ne ricaviamo, oscillano tra conflitto e conformismo. L’individuo moderno è preso nella dialettica tra l’Io e il Me: tra essere per sé, essere in sé, per sé o per gli altri, e dal doversi confrontare con la propria ‘falsa coscienza’, su cui Jean-Paul Sartre ha scritto pagine assai lucide. Situazioni in cui l’apparire si confonde con l’essere e lo costituisce. Tema che Erving Goffman, il grande sociologo, intercetta nel carattere finzionale e inventato della coscienza di sé, che discende dalla necessità di rappresentare un sé funzionale alla scena, ai rapporti istituzionali, e alle sue regole drammaturgiche. Basta sfogliare qualche album fotografico di Diana Arbus, con i ritratti tipici della classe media americana degli anni cinquanta e sessanta, per vedere raccontata la loro coscienza di sé. Con grande acutezza psicologica la fotografa riesce a fissare lo ‘spirito del tempo’, i ‘generi narrativi dominanti’ incarnati nelle posture, abiti, atteggiamenti e mimiche espressive. Già Goffman aveva scritto «non mi occupo degli uomini e dei loro momenti, ma dei momenti e dei loro uomini». Anche parte della nuova psicologia terapeutica non va più dall’interno verso l’esterno, ma in direzione contraria. Paul Watzlawick richiama terapeuti e pazienti a non correre il rischio della retorica dell’interiorità, dell’Io asociale e profondo, perché spesso, come già ricordato, «guardarsi dentro rende ciechi».

Difficoltà e limiti concettuali Ritornando dalle parti di Loch Ness, possiamo supporre che lo strano animale preistorico, dotato di una presumibile e rudimentale rappresentazione senso-percettiva, potrebbe scoprire di esistere in modo nuovo, se, approdando alle rive del lago, fosse in grado di vedersi riflesso nello stupore e nel linguaggio denotativo degli umani, e ovviamente fosse di grado di interpretarlo. Un po’ come chi scopre di essere diverso da ciò che crede di essere quando si vede guardato da un occhio interessato, ostile, innamorato, indifferente, reificante, empatico o altro. Avere l’espressione giusta per una foto implica sdoppiare la propria consapevolezza: ancora una volta l’apparire s’impossessa dell’essere. L’intenzione del fotografo di scena, o dell’agente pubblicitario, porta la gente dello spettacolo a scoprire un’altra rappresentazione di sé capace di generare forme di coscienza che il loro ruolo richiede, e che finiscono per imporsi, al punto che il personaggio inventato arriva a colonizzare le possibili rappresentazioni di sé e diventa ‘vero’. A questo punto potremmo chiederci: «Come si costituisce la consapevolezza che un organismo ha di se stesso e di ciò che lo circonda?» Alcuni psicologi hanno attraversato questo problema quando hanno tentato di addestrare degli scimpanzé a forme di comunicazione più evolute e umanizzate, finendo per registrare, con i loro esperimenti e gli scarsi successi ‘educativi’, solo il riflesso della relazione che avevano cercato di instaurare con gli animali. Di fronte al problema di trasformare la coscienza in qualcosa di traducibile, descrivibile e spiegabile, potremmo consolarci con due riflessioni: la prima è che forse «ciò che la consente non è sufficiente per poterla spiegare»; la seconda che forse «ciò che permette all’osservatore di nominarla non è adatto a comprenderla»: un problema epistemico, concettuale e linguistico. Un po’ come dire che il cervello umano non può spiegare completamente se stesso e il proprio funzionamento. Oppure che la nostra comprensione del mondo, che chiamiamo psicologico o neurologico, è vincolata alla forma del buco della serratura attraverso cui lo guardiamo. Così come uno psicoanalista non può capire la psicologia dell’altro oltre la teoria e il linguaggio che usa. Il tema della coscienza e la sua vaghezza semantica potrebbe porci di fronte ai limiti delle risorse cognitive di cui siamo dotati. Come accade ai fisici teorici delle particelle, che possono ipotizzare un universo a quattro, cinque o n dimensioni, pur rimanendo inaccessibile alle forme di ragione e linguaggio adatte all’organizzazione percettiva tridimensionale. Scrive una di loro, Lisa Randall: «La fisica quantistica sembra tanto bizzarra perché non abbiamo una fisiologia adatta a percepire la natura quantistica della materia e della luce». La difficoltà a intercettare ciò che definiamo coscienza può presentare le stesse difficoltà che potremmo incontrare se volessimo vedere tutte le facce di un ipercubo attraverso uno spazio bidimensionale, magari cercando di disegnarlo su un foglio di carta. Messe così le cose, il tema di questo libro potrebbe non avere senso, e forse sarebbe salutare fermarci qui. Per poter andare avanti è opportuno non fare altre domande impertinenti, come chiedere in cosa consista ‘la coscienza della coscienza’. Può essere altrettanto ozioso interrogarci se i robot di domani avranno o non avranno una coscienza, dal momento che non riusciamo, e non può essere che così, a definire e descrivere con un linguaggio bidimensionale un dodecaedro: l’unità della coscienza si frantuma nelle porzioni che riusciamo a vedere in funzione delle finestre discorsive, immaginative e

rappresentazionali che possediamo, e non oltre. Il matematico Roger Penrose ha avanzato l’ipotesi che per spiegare i processi che ci rendono consapevoli si dovranno introdurre nuove leggi fisiche che vanno al di là della meccanica quantistica. Solo così, secondo Penrose, potremmo capire perché un evento diventa tale solo dopo che un osservatore l’ha registrato nel proprio cervello diventandone consapevole. Per quello che è possibile la coscienza di sé può anche essere ridotta ai sistemi rappresentazionali, che la sezionano, non solo passando per la ‘fabbrica’ neuropsicologica che crea le condizioni fisiche perché questo sia possibile, ma anche attraverso le strutture semiotiche, sintattiche, semantiche e performative attraverso cui s’impone alle persone mentre la costruiscono e la contrattano con il mondo. Fatto non trascurabile per chi si occupa di migliorare questa esperienza, come gli psicoterapeuti, per i quali solo la risoluzione dei problemi spesso insegna come funzionano. Come soluzione loro accessibile rimane quel che ebbe a dire più di qualche secolo fa Euripide: la dea Peito che è capace di modificare l’esperienza umana «non ha altro tempio che la parola».

Finalmente una foto Fino a diversi anni fa non si avevano prove esterne e oggettive degli indicatori neurobiologici della coscienza. Erano percepibili solo gli effetti che avevano sulla coscienza una classe molto ampia di malattie nervose, le intossicazioni, alcuni farmaci, l’alternanza di sogno e veglia e, in forma residuale, certi disturbi psicologici e l’ipnosi. Poi si scoprì il mezzo per ottenere dei tracciati bioelettrici, che con varie approssimazioni potevano dare indicazioni non sulla coscienza in sé, quanto sull’attività nervosa che la sottende, come il grado di vigilanza e di risposta alle sollecitazioni, e altro. In tempi recenti si è pensato di poterla ‘fotografare’ grazie alla tecnica delle neuroimmagini. Oggi è possibile ricostruire l’immagine dell’attività di certe aree cerebrali e dei relativi distretti e circuiti da mettere in relazione con ciò che chiamiamo coscienza. Ma tutto questo ha incontrato alcune difficoltà. Ad esempio attraverso la localizzazione delle funzioni spezzettiamo il mosaico neurofisiologico, non riusciamo a vederlo nella sua interezza, e risulta difficile ricostruirlo nella sua unità diffusa e interattiva. La traduzione di un ‘processo’ in un ‘evento’ neurofisiologico e neuropsicologico localizzato rischia di dover mettere tra parentesi tutti gli aspetti non suscettibili di essere rappresentati come ‘eventi’. Anche ammettendo di riuscire a ricomporre il mosaico delle attività cerebrali si pone un ulteriore interrogativo: «Le proprietà dei vari tasselli neurofisiologici, le loro funzioni, sono in grado di rendere comprensibile cosa significhi per X e per Y essere cosciente? E soprattutto è possibile comprendere i contenuti della coscienza in relazione al comportamento?» Le tecniche di neuroimmagine si muovono anche in questa direzione. La metodica della risonanza magnetica funzionale permette oggi di rilevare selettivamente l’attivazione metabolica di certe aree cerebrali attraverso l’indicatore del flusso sanguigno, che a sua volta ci avverte che in quella zona è aumentato il consumo di ossigeno e quindi di glucosio. Correlando questi dati con quanto sta facendo o pensando una persona, abbiamo la possibilità di ottenere immagini che spiegano, da un punto di vista neurologico, i meccanismi della coscienza e del comportamento, ma non ancora il loro significato psicologico. Tuttavia si tratta di ‘immagini’ per così dire ricostruite, ritoccate e soprattutto ‘interpretate’ dal ricercatore, come ci ricordano due studiosi di neuroscienze cognitive, Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà nel loro Neuromania, il cui sottotitolo recita «il cervello non ci dice chi siamo». Anche le neuroimmagini, nonostante la loro suggestione, non sono sufficienti per accedere alla mia e alla vostra coscienza, ma solo alle parti del cervello più attive. Semplificando, la parola coscienza, come si è già osservato, può essere descritta con un linguaggio ordinario, di senso comune, psicologico, o descritta con un linguaggio biologico, attraverso degli indici di attività. Si può considerare la coscienza anche come il risultato di un’interazione sistemica, diversa e superiore alla somma delle sue parti, che ci invita a trovare una sua descrizione con un linguaggio che va oltre le rappresentazioni biologiche e psicologiche, ad esempio matematico. Ma alcuni logici ci avvertono che anche il pensiero matematico ha dei limiti quando vogliamo estenderlo alle dimensioni semantiche, ovvero alle costruzioni di senso e di significato riflesse nell’esperienza delle nostre azioni. Allora è necessario ritornare al linguaggio comune, unica via per comprendere il costruirsi di quell’esperienza soggettiva, che anche su questo versante chiamiamo coscienza. Un po’ meglio degli scienziati sono i professionisti che compaiono al capezzale della coscienza malata. Neurofarmacologi, neurochirurghi, anestesisti, tecnici della rianimazione

e neuropsicologi, pur essendo esperti della sua assenza e dei suoi guasti, hanno una qualche idea sulla natura della sua presenza, anche se per certi aspetti finisce per coincidere con quella del senso comune: «Il paziente esce dal coma, apre gli occhi, parla, riconosce, ricorda, si lamenta, dice che ha fame, è in grado di muoversi, è in poche parole cosciente». Non altrettanto bene stanno i professionisti dell’inconscio, che poco ci dicono sulla natura della coscienza, ritenendola evidente di per sé, collocandola con ingenuità tardo-illuminista nell’intrapsichico, dove le ombre dell’Es cedono alla luce dell’Io, l’istanza psichica deputata all’esame di realtà. Tutti sono in grado di riconoscere la coscienza quando scompare o diventa lacunosa, strana, o intermittente. Più difficile è riconoscerne le bizzarre configurazioni a cui per vie molto diverse hanno accesso i neuropsicologi da un lato e gli psicoterapeuti dall’altro. Conosciamo i contorni di ciò che chiamiamo coscienza più per difetto che per presenza, basta una crisi epilettica per constatarlo. Nei casi ancora più gravi è sufficiente l’occlusione di un’arteria cerebrale importante, una lesione alla parte posteriore del tronco encefalico e dell’ipotalamo, per immettere una persona in uno stato vegetativo persistente, ovvero farla entrare, come si dice, «in coma». Ci sono altri modi per cercare di immettere il costrutto della coscienza in una rete concettuale che ne oggettivi l’esistenza, e la renda comprensibile ai nostri modi abituali di conoscere, ad esempio per categorie e analogie spaziali. Possiamo parlare allora di coscienza estesa e di coscienza nucleare, considerarne i gradi, le forme e gli stati ordinari o alterati, stabilire quanto sia normale e lacunosa, consapevole pur non essendolo, come quando viene persa la coscienza dell’informazione esplicita e manteniamo quella implicita. Un altro modo è studiarla, influenzarla ed esplorarla in termini qualitativi: strada interdetta a chi voglia fare una seria carriera accademica. Se si è indifferenti a tale veto accademico, possiamo far apparire sulla scena le coscienze collettive, transpersonali, alterate, estatiche, esosomatiche, e le ‘voci’ degli altri, possiamo parlare di campi morfogenetici e di matematica dei frattali. Tutte speculazioni che si affacciano sul lago della coscienza, alla ricerca di qualcosa che, saldato con l’esperienza personale, dà parecchio filo da torcere alle ragione ordinaria. È noto a tutti che porzioni significative della coscienza emergono quando cerchiamo di ridurre o modificare l’ingombro della sua presenza. Come fa chi si rifugia in una trance meditativa, o chi si raccoglie in preghiera, o si concentra in un processo creativo, o si dà a una pratica sportiva estrema, mentre altri possono scegliere la scorciatoria della serenità concessa da venti gocce di Valium. In certi casi è sufficiente un leggero sedativo per rimuovere le spine che la coscienza si autoinfligge. In altri casi prendere un analgesico impedisce la parziale e locale coscienza del dolore, mentre un’anestesia profonda ci libera anche dalla coscienza sensoriale e corporea; a una dose letale di morfina può essere chiesto di liberarci dalla nostra stessa presenza. In tutti questi casi non viene manipolata la coscienza, ma i presupposti che la rendono possibile. Volendo essere pedanti, quello che registriamo nelle situazioni di danno neurologico o manipolazione neurochimica sono solo le conseguenze di un meccanismo fisiologico perturbato, danneggiato o disattivato. Intorno alla coscienza del dolore, e su come liberarsene, dobbiamo moltissimo ai farmacologi e ai medici, più che a legioni di uomini di fede e d’ogni altra disciplina confessionale. E questo potrebbe bastare.

Tuttavia continua a esistere una lacuna nel nostro sapere: dove e come avvenga il passaggio dagli eventi neurali a quello delle rappresentazioni mentali, e viceversa. Rimane altresì ignoto il grado di corrispondenza tra gli eventi neurologici e quelli psicologici, e tra quelli mentali e i comportamenti socialmente significativi. Nota in proposito Antonio Damasio: «Non ho la più pallida idea di quanto siano fedeli le configurazioni neurali e le immagini mentali rispetto agli oggetti ai quali si riferiscono», e in che misura siano «prodotti della realtà esterna che ne induce la creazione. In che modo una configurazione neurale diventi un’immagine è un problema che la neurobiologia non ha ancora risolto». In altre parole, non solo siamo privi di un codice che ci permetta di tradurre i processi neurali nelle correlate attività mentali e viceversa, ma ignoriamo pure come queste attività si trasformino in azioni umane socialmente significative. Un codice, come la stele di Rosetta, convincente ed esaustivo è ancora in attesa di essere scoperto, e forse non lo sarà mai, perché il problema è più sostanziale, e non è di natura conoscitiva e scientifica, ma epistemologica. Ogni forma di conoscenza, intesa come teoria, tecnica e metodi, pensieri e ragioni, ha i suoi limiti concettuali, come una mappa che non può dar conto di tutto ciò che in un territorio può essere configurato o immaginato. Per cui servono molte mappe, alcune delle quali necessitano di linguaggi e criteri irriducibili ad altre. Rimanendo nell’analogia, se si usa la mappa inadatta, non si vede niente di ciò che si cerca. La coscienza può essere pensata come un territorio all’intersezione tra diverse mappe che non combaciano e che non possono, necessariamente, combaciare tra di loro. Oppure ancora, da un lato linguaggi biologici, con la loro epistemologia, dall’altro i linguaggi mentalisti con la loro. Antonio Damasio è convinto che Cartesio abbia sbagliato e con lui i ‘dualisti’, convinti che esista una mente così come esiste un cervello e che mente e cervello possano essere conosciuti con gli stessi schemi e le stesse regole conoscitive. Comprendiamo perché Damasio non si contraddica quando afferma, e noi con lui, sulla necessità di mantenere due livelli descrittivi, uno per il cervello e uno per la mente: ovviamente non per una scelta ontologica, ma pragmatica. Il linguaggio ‘mentalista’ è una mappa che ha una sua ragion d’essere, se si considera che le persone provano emozioni e agiscono, pensano e hanno delle esperienze, generate dai discorsi che fanno e dalle idee che hanno su se stesse e il mondo, e tutto questo attraverso un linguaggio mentalista, sia esso dettato dal senso comune, dalla psicoanalisi o da una credenza religiosa. Anche il neuroscienziato più riduzionista, ma geloso della moglie, spia i suoi atteggiamenti verso il simpatico vicino d’ombrellone, e nel far questo ricorre alle possibilità che il linguaggio ordinario (mentalista) gli offre, che si rivela in questo frangente più a deguato ed efficace di quello neurobiologico, per capire quello che succede. Quando guarda le espressioni mimiche, espressive o il tono della voce della moglie o del vicino, cerca di capire attraverso sistemi codificati di segni (senso e significato) quanto i due possano mascherare un reciproco interesse. Le parole dette senza alcuna determinazione contestuale non possono mentire. Una volta emesso, il segno lessicale ci informa di ciò che viene taciuto (Harald Weinrich). Chi è geloso ha in genere buoni motivi per esserlo, anche se non sa perché, e cerca di convincersi del contrario basandosi sulla propria competenza linguistica implicita. In questo processo interpretativo la competenza scientifica e il tipo d’intelligenza cui è stato addestrato non lo aiutano a orientarsi e a capire cosa accade alle sue spalle, deve capire per altre vie, ad esempio percependosi nella percezione dell’altro. La coscienza di sé diventa un operatore. Invece l’eventuale conoscenza della biochimica della gelosia non rende il nostro

geloso un esperto del sentimento che prova, né delle simulazioni e dissimulazioni. I codici che regolano e generano le relazioni e la semantica della coscienza di sé hanno bisogno di un’epistemologia (quindi un modo di pensare e di fare ricerca) diversa da quella necessaria a comprendere l’attività biolettrica o neurochimica del sistema nervoso. Affermazione che sicuramente troverebbe accaniti oppositori proprio tra gli psicologi sperimentali, che – com’è noto – sono i più esposti agli infortuni sentimentali. Per conoscere il senso di un’attività cerebrale documentata dalle neuroimmagini è sempre necessario riferirla a un comportamento. Per nominarlo, descriverlo e interpretarlo non possiamo che ricorrere a un linguaggio mentalista, inseparabile dall’esperienza delle persone coinvolte. Tutto ciò ha a che vedere con il tema di questo libro, e con le nostre idee intorno alla coscienza, che per dirla con Julian Jaynes sono ‘inventate’, ma non per questo meno utili. Abbiamo detto che non ci sono mappe giuste e mappe sbagliate, ma soltanto adeguate o inadeguate a seconda del problema che dobbiamo affrontare e dell’uso che ne facciamo: alcune di queste mappe (idee, convinzioni e teorie) possono essere più adatte di altre e la loro ‘realta’ finisce per essere quella che ci ospita.

Frammenti di coscienza Talvolta nascono bambini senza un arto. La cosa singolare è che questi bambini hanno la rappresentazione propriocettiva dell’arto o della porzione mancante. Un cieco che usa un bastone per saggiare il mondo intorno a lui impara a usarlo come un’estensione del proprio sistema tattile. Per un giocatore di tennis la racchetta diventa una protesi inglobata nel proprio schema corporeo, così come il violino per un violinista professionista. Un timoniere di barche a vela è in grado di sentire attraverso l’andatura della barca gli angoli di rotta migliori per affrontare le onde e sfruttare il vento reale e d’avanzamento. Per ottenere questo risultato chi sceglie il ruolo abituale di timoniere è una persona che ha rimodellato la propria sensibilità cinestesica, visiva, uditiva e tattile in funzione della barca. In poche parole il timoniere ha sviluppato o esteso alla barca le possibilità della sua sofisticata coscienza corporea e non solo neurosensoriale, ma anche spaziale e immaginativa. Se nei bambini focomelici nati senz’arti per l’uso del talidomide, un tranquillante preso in passato dalle madri durante la gravidanza, la rappresentazione degli arti permane, è perché è già presente nella loro struttura neurologica, mentre negli altri casi, nel violinista, nel tennista o nel timoniere, la coscienza specializzata del corpo rispetto a un compito cognitivo è costruita grazie alla plasticità del cervello e all’apprendimento intenzionale. Per cui certe forme di coscienza sono plastiche, situazionali, interattive e semantiche, come la coscienza sociale di sé. Nessuno è in grado di immaginare cosa accada alla coscienza imprigionata, ‘chiusa dentro’, che disgraziatamente sopravvive in quei pazienti in cui una lesione localizzata nella parte anteriore del tronco encefalico ha paralizzato tutto il corpo. Per le persone sepolte vive, a cui per comunicare rimane solo il disperato movimento degli occhi, e di cui poco si parla, l’eutanasia potrebbe essere un diritto. Ma esiste anche la coscienza quotidiana connessa con il ‘valore di sé’, quella ‘voce di dentro’ che viene costruita dai giudizi sociali, fino al punto di divenire un’ossessione autoriferita, e in certi casi una voce effettivamente udita. Mentre all’altro capo del mondo recitare un mantra, o l’estasi laica di una meditazione zen, diventano una sovracoscienza, o meglio una ‘coscienza liberata in vita’. Abbiamo detto che la coscienza è come un albero: se sappiamo su quale ramo stiamo seduti, si riduce il rischio di scambiare il nostro ramo per l’albero intero. Potremmo dire che c’è una coscienza del corpo integrata, con i piedi saldamente a terra ben orientata nel tempo e nello spazio, ma c’è anche una coscienza esosomatica in cui le persone si sperimentano al di fuori del proprio corpo. C’è una coscienza dei sentimenti e dei toni dell’umore, un’altra dei movimenti e dei modi di sentire degli altri, una coscienza estatica con le proprie percezioni ineffabili, certa, atemporale e di unità sovrapersonale. Esistono forme di coscienza pervasive e trascendenti, che in presenza delle condizioni culturali che le rendono possibili, danno vita a ordini monastici, chiese, sette mistiche, forme religiose, e affiliazioni ideologiche. Esiste la coscienza dei sogni lucidi quando il sognatore sa che sta sognando e può guidare l’evolversi del sogno, con doppi ricordi e doppia esperienza di sé. È un peccato che gli psicoterapeuti non raccontino i casi insoliti e singolari in cui s’imbattono, e taluni usino le forbici della diagnosi psicopatologica per liberarsi dall’imbarazzo dell’insolito e del non classificabile. Questo libro, come abbiamo già accennato, nasce intorno al contributo di Julian Jaynes alla sua originale riesplorazione di cosa si debba intendere per coscienza, della sua origine e di

come si manifesta. Coscienza come «un analogo di quello che è chiamato mondo reale», in cui il linguaggio diventa un «organo di percezione e non semplicemente un mezzo di comunicazione». Questo fa sì che la «coscienza non abbia alcuna ubicazione che non sia immaginata da noi». La coscienza per Jaynes riflette anche come interpretiamo e vediamo la struttura del mondo, a partire da come e perché lo selezioniamo, ad esempio in base a come lo narriamo e lo avvertiamo spinti da necessità e caso. Con le dovute differenze, gli altri autori presenti in questo libro evitano di considerare la coscienza come un oggetto, o una cosa in sé, insomma evitano di darle uno statuto ontologico, che invece è pertinente agli oggetti e ai fenomeni del mondo fisico e della realtà di senso comune. I curatori di questo volume adottano una prospettiva interazionista e pragmatica, la più adatta ad affrontare il tema dalla prospettiva di Jaynes, costruzionisa, interazionista e strategica. Le enfasi su questa prospettiva sono differenti e gli autori non le trasformano in altrettanti dogmi. Tra loro c’è chi privilegia l’idea della coscienza come entità unica e chi propende per la sua pluralità multidimensionale: si tratta di espedienti rappresentazionali e non di convinzioni realistiche. Ci sono studiosi il cui obiettivo è la ricerca di ciò che rende simili tra loro gli esseri umani, come per i naturalisti, i fisiologi e gli psicologi accademici, mentre altri studiosi focalizzano la propria attenzione su ciò che rende le persone irrimediabilmente diverse tra loro, diversità che il trucco delle tipologie psicologiche non riesce a cancellare. Questi due orientamenti sono variamente rappresentati nel libro: è evidente che la scienza (la psicologia delle funzioni mentali) rinvii al generale, alle somiglianze, e lo sguardo clinico (la psicologia dell’agire umano) indugi sulle differenze. Utilizzando un’analogia possiamo dire che gli autori di questo libro si occupano dell’artefatto musicale (come genere, senso e significato) più che degli strumenti musicali o delle leggi dell’acustica. In questo caso ciò che chiamiamo coscienza (l’artefatto musicale) non è identificabile con nessuno degli elementi costitutivi che la rendono possibile (gli strumenti).

Il monoteismo della coscienza A questo punto è il caso di parafrasare la semplicità lapidaria di un mistico, che alla domanda su che cosa sia la coscienza pare abbia detto: «È presente a quanto vede / essendo con l’essere che vede». Se gli specchi della consapevolezza riflettono i giardini dell’immaginazione a cui siamo affacciati, possiamo anche formulare l’ipotesi che il nostro vicino in metropolitana abbia una coscienza felice perché ‘ascolta’ mentalmente Bach o ricorda l’ebrezza di un’immersione in acque profonde. La coscienza implica un contesto, che in varia misura, nei suoi significati, è sempre governato da elementi immaginativi, anticipatori, retrospettivi, ma semantici nel loro aspetto qualitativo. Come si è già accennato, ed è il caso di sottolinearlo, ancora più insolite, rarefatte ed esclusive, nella loro disciplinata assenza/presenza, sono gli stati di coscienza che affiorano in un samadhi o nella creazione artistica, quando l’io è partecipe del mondo e dimentica se stesso. Momenti in cui la coscienza si espande, mentre quella personale si dissolve, «annegata nell’infinità dell’essere», come ha scritto Giacomo Leopardi. Parlando di stati insoliti o ‘alterati’ di coscienza qualcuno potrebbe chiederci: «Cosa accade alla coscienza durante un episodio di sonnambulismo o un’induzione ipnotica?» Potremmo rispondere che in questo caso la coscienza ‘è presente a quanto sente pur non essendo più presente nell’essere che sente’. Un paradosso che la psicologia positivista non può accettare, mentre quella degli psicoterapeuti deve accogliere venendo meno nel loro faticoso lavoro alla necessità di rispettare la logica dualista che distingue il ‘vero e il falso’ (che spesso sovrappone al giusto e allo sbagliato). Se è vero che un evento è percepito dopo mezzo secondo che si è prodotto, la coscienza emerge da un’istantanea sul passato, implicando una rievocazione più che un atto presente. Ma ciò che è vero per la neurofisiologia non è altrettanto vero per l’esperienza che le persone fanno, e in forza della quale agiscono: difatti spesso è il futuro anticipato che costituisce l’esperienza che incontrano. Ciò che non c’è, l’immaginato, l’atteso, può generare uno stato di coscienza, un certo tipo di consapevolezza in atto e anticipata: indubbiamente si tratta di un bel problema, che non rende possibile ancora una volta mettere d’accordo i diversi linguaggi che possono declinarsi nel concetto di coscienza, sia pure di sé. L’idea di coscienza finora presentata è declinata al plurale e sono state presentate le ragioni per considerarla attraverso prospettive variegate. Non un continente, né un lago con il suo brontosauro acquatico, ma un arcipelago variegato e multidimensionale. Il rischio è di dilatarne i confini già così indefiniti e vaghi. Come abbiamo accennato, in certi casi possiamo farne a meno, in altri può essere necessaria declinarla al plurale, evitando di cadere nel ‘monoteismo della coscienza’. A fronte della necessità di saper cogliere le differenze tra coscienza senso-motoria e simbolica, è necessario non far confusione tra mappe e campi di pertinenza. È anche il caso di distinguere le coscienze protoverbali da quelle narrative, quelle percettive dello scultore da quelle eidetiche del fisico, quelle dell’attore da quelle dello spettatore, da chi le evoca o chi le accoglie. Il tipo di coscienza che sperimentiamo come partecipi o osservatori non è indipendente o separabile dall’agire, sia esso fisico o sociale e dalla sua collocazione temporale: spesso un ‘futuro ricordato che attraversiamo rapidamente’. Qualcuno ha parlato giustamente di ‘flusso di coscienza’. «Panta rei», tutto scorre, diceva Eraclito. Per ognuna di queste coscienze in cui scorriamo si possono avere nell’armadio non solo mutevoli vestiti cognitivi, ma anche sentimenti

preordinati ospitati in altrettante memorie autobiografiche e sensoriali, in attesa che l’incontro con gli altri crei il contesto adatto a evocarl, o inventarle. Ritornando sui nostri passi riproponiamo la domanda: «Se la coscienza fosse l’insieme di tutti questi segmenti separati, potrebbe essere considerata comunque una sorta di entità unificata?» La risposta transitoria trova d’accordo neuropsicologi e psicoterapeuti. Come per il ridere e il sorridere esistono diverse aree cerebrali di controllo e differenti configurazioni semantiche, ognuna sembra generare non tanto un albero, quanto un cespuglio diffuso. Talvolta l’uso del verbo ‘essere’ facilita lo slittamento verso l’idea di una mente o di una coscienza che acquista i contorni di una realtà unica ed esistente, ad esempio sovraordinata, platonica, dotata di una sua consistenza, seppure in modo non materiale: l’altra faccia della cosiddetta ‘anima del mondo’ (da Plotino a James Hillman). In forma più attenuata il termine coscienza potrebbe essere anche considerato un costrutto categoriale unificante, un espediente linguistico, un riduttore di complessità. Volendo potremmo distinguerla in gradi, generi, livelli, forme, estensioni. Ma la coscienza sembra non avere alcuna fattualità e ubicazione che non sia pensata o inventata da noi. Immaginare, descrivere, commentare, la coscienza significa sottometterla alle regole e agli schemi discorsivi cui siamo abituati, ignorando altre possibilità. Non si può poi non considerare la differenza tra la coscienza di dove abbiamo le nostre due mani, ad esempio sulla tastiera di un pianoforte o sulla spalla di una certa persona. La coscienza della melodia che stiamo suonando e la coscienza che suscitiamo in chi sente la nostra mano ha vie e rappresentazioni diverse. La maggior parte dei contributi di questo volume si interrogano più sull’aspetto costruttivo, relazionale, differenziato e linguistico della coscienza di sé, e un po’ meno sulla sua natura astratta distillata da un organismo biologico pensante. La coscienza di sé è forse la forma più circoscritta che ci è dato di incontrare negli altri e di farne esperienza personale, alle cui peculiarità e differenze lavoriamo per tutta la vita. Se è vero che l’attività costruisce la rappresentazione, il ginnasta perviene a talune forme di consapevolezza propriocettiva differenti da quelle dello scultore o da quelle del pilota acrobatico di aerei. Se l’esempio è valido potremmo fare delle congetture sulle ramificazioni della coscienza in relazione a parametri biografici, relazionali e storico-culturali. Abbiamo anche anticipato che la coscienza non appartiene a una dimensione privata e soggettiva delle persone. Difatti la coscienza di sé include anche quella di altri, la presenza per così dire dell’Altro Generalizzato (G.H. Mead) o delle persone che sono per noi più significative (W. James) e soggetta agli effetti delle comunicazioni linguistiche ‘perlocutorie’ (C. Austin). Facciamo a questo proposito un esempio. L’art noveau: uno stile, un’epoca, un modo di sentire, di vestire, di abitare, di arredare e tante altre cose. Una coscienza estesa, sovraindividuale, culturale, cui hanno attinto gli abitanti di un’epoca, insieme ad alcuni valori selettivi per alcune forme di consapevolezza personale. Passiamo molto tempo a istruire la coscienza degli altri perché converga in uno spazio comune d’esperienza. Molte volte gli ‘effetti mimetici’ indotti da un film, dal tifo sportivo, da un coro possono accomunare le persone più disparate entro un condiviso e comune stato di coscienza. Anche se, e lo abbiamo già detto, ciò che chiamiamo coscienza tende ad avere confini incerti, e va molto al di là del chiedersi semplicemente «come riesco a trovare il naso e a soffiarmelo», o «come faccio a sapere che sono io?»

In ogni caso ci sembra che il peggior servizio che si possa offrire alla coscienza è presumere che la parola debba corrispondere a una ‘cosa’. I suoi confini semantici sono incerti per chiunque. La prima parte di questo libro è dedicata proprio a questo problema, anche se per molti, se non c’è qualcosa di tangibile, il cosiddetto ‘dato’, non gli sembra di fare scienza. Con il risultato che alla fine si costruisce e analizza, in genere confortati da un’autorevole compagnia, il ‘fatticcio’ di Bruno Latour, una coincidenza tra fatto e feticcio. Nonostante l’entusiasmo che suscita il mistero e la voglia di saperne di più, i libri sul tema della coscienza sono spesso faticosi, con la tendenza a diventare noiosi. La noia spesso è sinonimo di fatica, un antidoto alle semplificazioni del pensiero, capace di difendere gli autori dai frantendimenti dei lettori e dal loro numero. Questo libro vorrebbe incuriosire, stimolare, piuttosto che offendere gli autori per concederli al sapere divulgativo. È anche da dire, a difesa dei volgarizzatori, che la coscienza è un argomento frequentato da molti studiosi di provenienza e convinzioni eterogenee: la lingua inglese non migliora la comprensione univoca dei linguaggi speculativi, spesso crea slittamenti semantici e imprecisioni lessicali. Inoltre la coscienza è simile a quegli imputati che tutti conoscono ma che per varie ragioni si giudicano in contumacia, e non può essere chiesta loro una prova testimoniata. Si accavallano i punti di vista e si evita così che i vari monoteismi della conoscenza prevalgano, e il rischio di farne un altro ‘fatticcio’ psicologico, filosofico o neurologico, come è già avvenuto per la personalità, l’aggressività, la dipendenza, la psicopatia o la ‘mancata elaborazione del lutto’ e altre decine di slogan interpretativi che sollevano chi li usa da ogni impegno di pensiero. Il significato del termine coscienza rimane mobile e imprecisato se osservato nel flusso costante del suo divenire e del suo costituirsi grazie al linguaggio. È il linguaggio, secondo molti autori dei contributi di questo libro, uno degli artefici della coscienza. È il linguaggio a creare le configurazioni dell’esperienza capaci di trasformare un processo, spesso indifferenziato e proteiforme, di sensazioni in un evento percettivo e in un artefatto semantico che riflettono l’immagine di noi stessi in relazione col mondo. Gli studiosi che si arrovellano con grande competenza sulla questione della coscienza sono spesso anziani, e in grado di offrirci accurate riflessioni e indagini, anche grazie al capitale accumulato, nei campi più diversi, dall’embriologia, alla genetica, dall’antropologia culturale, alla filosofia della mente o alla neurobiologia. Tutto questo non rende certamente simpatico e invitante l’argomento, soprattutto quando i volumi superano le trecento pagine, e l’autore non può nascondere l’erudizione di cui è costretto a servirsi. Certo è che qualche ricaduta interessante si trova sempre, anche se spesso il compito è lasciato al lettore, che in genere dev’essere un appassionato di ‘misteri’ o di rompicapi. Per far desistere i lettori a imbarcarsi in un viaggio verso l’arcipelago della coscienza, ma anche verso qualche lago scozzese, basterebbe citare Karl Popper quando scrive: «La nostra situazione è quella di un uomo nero che in una stanza buia cerca un cappello nero che non è lì». Come dire che in un’epoca di miracoli tecnologici, tra cui la risonanza magnetica funzionale, non possiamo ancora fotografare il fantasma che si aggira cangiante nella macchina. Abbiamo appena detto che la coscienza non può essere pensata come un fatto: Roberto Bottini ricorda l’insegnamento di Silvio Ceccato, geniale cibernetico degli anni Cinquanta, quando ribadiva che l’unico statuto ontologico cui un fatto può ambire è proprio la condizione di ‘essere già stato fatto’, o, potremmo aggiungere, di essere pensato come tale.

Ma la coscienza nei suoi effetti può essere considerata anche come se fosse un fatto, perché la facciamo di continuo, dal momento che la rappresentiamo, ne parliamo o la costruiamo come esperienza. Come dice Julian Jaynes, forse è più opportuno considerare la coscienza come un ‘operatore’che un oggetto in sé. In questo libro il contributo di Julian Jaynes è assimilabile al mozzo e ai raggi che tengono la ruota. La prospettiva aperta da Jaynes, a partire da Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, s’irradia in tutti i contributi e rimette al centro delle discipline psicologiche, come si è accennato, la rilevanza del linguaggio e della comunicazione. È piacevole trovare una coincidenza tra ciò che scrive Antonio Damasio e il pensiero di Jaynes. Il primo dice: «Non ho la più pallida idea di quanto siano fedeli le configurazioni neurali e le immagini mentali rispetto agli oggetti ai quali si riferiscono», e aggiunge: «Possiamo descrivere l’oggetto in modi molto simili, fino nei minimi dettagli. Ma questo non significa che l’immagine che vediamo sia la copia di ciò che è l’oggetto in questione. Che cosa sia in termini assoluti non lo sappiamo». Scriveva Jaynes:«La mente c’è se la coscienza è opera di analogie e di metafore lessicali, diventa una metafora del nostro comportamento reale. Poiché la struttura di quel mondo viene rieccheggiata, anche con certe differenze, nella struttura della coscienza». Come dire che la coscienza di un pipistrello è data dalla falena che insegue, o se vi secca attribuire la coscienza anche a un pipistrello, potete pensare che per certi aspetti voi contribuite a generare parti importanti della coscienza di sé che ha la vostra fidanzata. La coscienza o ciò che sperimentiamo come tale si costituirebbe come una ‘mappa’ dell’interazione tra l’organismo e l’oggetto. Quindi le rappresentazioni del mondo che configurano la vostra coscienza sono il riflesso del tipo di relazione negoziato (attese e intenzioni) che voi avete con il mondo, gli altri e viceversa: se volete potete considerarla un’interazione circolare priva di un punto di partenza e d’arrivo. Il resto è scritto nei contributi che seguono.

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Coscienza: matrici generative

Capitolo 3 Quattro ipotesi sull’origine della coscienza5 Julian Jaynes

Ciò che voglio presentare è essenzialmente una teoria storica, la quale cerca di dimostrare che la coscienza, e più in generale la mente, non può essere compresa prescindendo dalla propria storia. È mio parere che tutte le discussioni sulla mente debbano essere diacroniche, non sincroniche come spesso invece accade. Questa è una posizione che riconosco non essere molto popolare e in scarsa armonia con il moderno pensiero filosofico, ma è un pensiero al quale voglio esortarvi sia che condividiate o meno i dettagli di ciò che sto per presentarvi. Cominceremo dal problema dell’origine della coscienza in senso evoluzionistico. In seguito all’ascesa della teoria dell’evoluzione naturale nella seconda parte dell’Ottocento, tale problema fu considerato di fondamentale importanza, se non altro per portare a completezza la teoria dell’origine delle specie attraverso la selezione naturale, e legittimarne quindi la rivendicazione. L’evoluzione spiega l’origine e la proliferazione casuale delle specie in senso prettamente materialistico, ma come può spiegare l’origine dell’immateriale dal materiale? Ovvero, l’origine della mente umana. Come può la coscienza essersi generata dalla mera materia attraverso la selezione naturale? Qualcuno, come Sir A.R. Wallace,6 si convinse di come tutto ciò fosse impossibile: la coscienza negli umani deve essere stata imposta da una divinità. Idea condivisa in parte, sorprendentemente, dallo stesso Darwin, il quale considerava l’inizio dell’evoluzione come una delle diverse forze «originally breathed by the Creator into a few forms or into one»,7 come si legge nell’ultimo paragrafo dell’Origine delle specie. L’idea darwiniana che l’evoluzione della mente cosciente sia avvenuta in parallelo con l’evoluzione morfologica fu alla base del programma di ricerca di un discepolo dello stesso Darwin, G.J. Romanes,8 programma che tuttavia si rivelò presto inadeguato. Seguirono altre tentate soluzioni, come l’implausibile proto-behaviorismo di Huxley o il misticismo e l’imprecisione dell’evoluzione emergente,9 e quindi, in filosofia, il neorealismo di Whitehead, Alexander, Perry e altri, idee che stanno sfortunatamente avendo un moderno revival sulla scia dei paradossi di ‘osservazione-partecipazione’ della fisica quantistica.10 Non dobbiamo peraltro dimenticare il frivolo tentativo di una certa psicologia persuasa che il problema dell’evoluzione della coscienza potesse essere risolto negando del tutto la sua esistenza.11 Considerandone la storia, accidentata ed estenuante, non è sorprendente che il problema sia stato spogliato dell’urgenza che lo aveva caratterizzato nell’Ottocento, e sia scomparso [per molto tempo, N.d.T.] dalle discussioni sia scientifiche che filosofiche. A questo punto credo sia necessario fare un passo indietro per portare un po’ di chiarezza sui molti problemi irrisolti. La ragione dei continui fallimenti nell’affrontare il problema dell’evoluzione della coscienza è da ricercare soprattutto in una falsa e ingombrante nozione di coscienza. Attraverso la storia essa ha accumulato su di sé un pesante fardello di significati che non ne consente un approccio adeguato. Alcuni di questi eccessi di referenza sono da ricondurre alla tradizione

religiosa per cui l’anima fu investita di tutte le possibili funzioni psicologiche, le quali diventarono funzioni della mente o della coscienza appena queste parole sostituirono il termine anima. Un’altra fonte d’errore è da rintracciare nello stesso pensiero filosofico che ascrive alla coscienza tutte le funzioni mentali logicamente dedotte, anche se queste non hanno alcuna validità introspettiva. Quindi il primo passo da compiere in questa analisi sta nel cercare di liberare il concetto di coscienza dalle complesse spire di questi errori storici. Quando parlo di capacità mentali dedotte logicamente, mi riferisco a processi come la percezione sensoriale. Per quanto possiamo essere coscienti (sebbene non sempre) dei prodotti della percezione sensoriale, i processi che vi sono sottesi non sono affatto accessibili all’introspezione cosciente. Tradizionalmente, noi inferiamo e astraiamo questi processi dal lavoro dei nostri organi di senso e quindi, sulla scorta di assunzioni precedenti su mente e materia, o anima e corpo, crediamo che questi processi siano parte della coscienza, quando invece non lo sono affatto. Se qualcuno di voi è disposto a sostenere che la percezione sensoriale sia equivalente alla coscienza, allora potrebbe seguire il proprio ragionamento fino a una reductio ad absurdum: dovreste infatti sostenere che dal momento che tutti gli animali sono dotati di percezione sensoriale, tutti gli animali sono dunque coscienti; e così scendendo attraverso la scala evolutiva sino agli esseri viventi unicellulari come i protozoi o ai globuli bianchi nel sangue, i quali percepiscono i batteri per poi divorarli. Tutti loro dovrebbero essere coscienti, e ammettere che in ciascuno di noi siano presenti diecimila esseri coscienti per millimetro cubo di sangue è una posizione che in pochi si sentirebbero di difendere. Forse potrà sembrare che stia definendo la coscienza in un senso più limitato di quanto si faccia di solito. Questo è vero, ed è parte integrante della teoria che vi sto presentando. Non voglio certo dire che tutta la coscienza sia introspezione, ma che è oggetto di coscienza solo ciò che è passibile di introspezione.12 Coscienza è ciò che si sta svolgendo in questo momento nella mente di dozzine di persone nelle strade di Kirchberg,13 e se voi doveste chiedere loro di riferirvi tutto ciò a cui stanno pensando, non trovereste un insieme di percezioni sensoriali, bensì un flusso di preoccupazioni, rimpianti, speranze, reminiscenze, dialoghi interni, monologhi, piani, immaginazioni – tutte cose di cui è fatta la coscienza. Ma com’è possibile che certe persone confondano la coscienza con la percezione sensoriale? Vi sono molte ragioni. Prima di tutto, come descriverò più avanti, la coscienza è un analogo della percezione sensoriale, e quindi può sembrare a essa identica (proverò in seguito a mostrare che l’Io fisico, organico, sta agli ‘oggetti’ fisici come l’Analogo Io, basato sul linguaggio, sta agli ‘oggetti’ della coscienza). Certo, la percezione sensoriale può essere un ‘oggetto’ di coscienza, sebbene non sempre. Tuttavia, è sorprendente come sofisticati filosofi e psicologi confondano anch’essi la coscienza con la percezione sensoriale. In psicologia, la psicofisica cominciò con questo errore. Fechner, famoso panpsichista, pensò di connettere l’intero universo della mente con quello della materia misurando variazioni percettive legate a variazioni nel mondo reale, formulando dunque la famosa legge di Weber-Fechner.14 Anche al giorno d’oggi molti psicologi che studiano la percezione pensano di studiare la coscienza. Come affermò William James, le singole percezioni sensoriali sono astrazioni che imponiamo sull’esperienza e non parti intrinseche dell’esperienza in sé. Il suo punto di partenza era quello per cui «thought goes on»,15 posizione che condivido.

Anche alcuni filosofi moderni hanno perpetuato questo errore. E immagino che questo sia dovuto alla vecchia tradizione di pensiero sui dati sensoriali. Un caso emblematico fu quando Bertrand Russell, cercando un esempio di coscienza, disse semplicemente: «Io vedo un tavolo».16 Questo è un esempio fuorviante e altamente artificiale ed equivale a dire che un si bemolle è un esempio di sinfonia. Certo, Russell era cosciente di vedere un tavolo (cosa che probabilmente avrebbe potuto fare meglio con gli occhi chiusi), ma ‘vedere un tavolo’ non è coscienza, bensì visione, e può essere un oggetto di coscienza. Ciò di cui Russell era veramente cosciente era il proprio ragionamento. Russell avrebbe potuto trovare un esempio più fondato dal punto di vista etologico, che fosse inequivocabilmente frutto della sua coscienza, come ad esempio: «Quando troverò il tempo per riscrivere i Principia?», oppure: «Dove troverò i soldi per pagare gli alimenti a un’altra signora Russell?» Probabilmente sarebbe giunto a ben altre conclusioni. Questi ultimi sono esempi di coscienza in azione, «Io vedo un tavolo» non lo è. Cartesio non avrebbe mai detto: «Io vedo un tavolo, dunque sono».17 Quindi, se la percezione sensoriale non è un prodotto della coscienza, anche tutta la varietà delle costanti percettive, come dimensioni, luminosità, colore, forma, che il nostro sistema nervoso conserva immutate nonostante ampie variazioni ambientali di luce, distanza e angolo di visuale, o l’impressione che gli oggetti intorno a noi siano immobili nonostante il movimento delle loro immagini retiniche a ogni nostro spostamento18 – tutto questo avviene senza nessun aiuto dalla nostra coscienza. Lo stesso vale per un’altra ampia classe di attività che chiamiamo preoperative, come sedersi, camminare o semplicemente muoversi. Tutte attività per cui la coscienza non è necessaria. Persino quando compiamo l’azione di parlare, la coscienza ha un ruolo più che altro interpolativo e non accompagna costantemente ogni nostra parola. Mentre sto parlando non sto accedendo al mio magazzino lessicale selezionando gli elementi da inserire in questa o quella struttura sintattica. Piuttosto, ho quella che può essere descritta come l’intenzione di un certo significato, ciò che chiamo struzione, e gli abituali pattern linguistici emergono senza il bisogno di ulteriori input dalla mia coscienza. In modo simile, nell’udire qualcuno parlare, di cosa è cosciente l’ascoltatore? Se doveste essere coscienti del flusso di fonemi, o morfemi ma anche solo di ogni parola, non potreste affatto capire cosa stia dicendo il vostro interlocutore. Essere coscienti di ogni cosa che facciamo è un’illusione. È come chiedere a una torcia elettrica di esplorare una stanza completamente buia per vedere se c’è luce: la torcia elettrica potrebbe trarre la conclusione che la stanza è illuminata ovunque, il che è falso.19 Un altro errore riguardo alla coscienza nasce con l’inizio dell’empirismo, quando Gassendi usò il termine aristotelico tabula rasa, termine che Locke (il quale stava basando i primi due libri del suo Essay sul Syntagma Philosophicum dello stesso Gassendi) in seguito utilizzò per esprimere la sua concezione della mente come «una pagina bianca, priva di caratteri, senza idee» (Essay II, 1.2). Se ai tempi fosse stata disponibile la macchina fotografica, probabilmente sarebbe stata usata da Locke come metafora fondamentale della sua teoria. Potremmo allora dire che nell’esperienza scattiamo ripetute fotografie del mondo, le sviluppiamo attraverso la riflessione, generando concetti, memorie e tutto il nostro arredamento mentale. Ma che la coscienza non sia una copia dell’esistenza può essere mostrato facilmente. È sufficiente esaminare le nostre memorie o reminiscenze e notare che queste non sono

costruite nello stesso modo in cui ne abbiamo fatto esperienza. Ad esempio, pensate all’ultima volta che avete nuotato; molte persone, invece di ricordare una complessa esperienza multisensoriale, come in effetti è stata, tendono a vedere se stessi nuotare da un altro punto di vista di cui non ha affatto avuto esperienza! Oppure è sufficiente accorgersi dell’assenza, nella nostra memoria, di informazioni che invece dovremmo avere se la coscienza fosse una copia dell’esperienza: ad esempio, conoscere gli accoppiamenti letteranumero sulla tastiera del telefono che abbiamo utilizzato migliaia di volte. Oppure provate a ripescare nella memoria, mentre siete qui a Kirchberg, l’entrata principale del palazzo dove si trova il vostro ufficio: lo troverete difficile. La memoria cosciente non copia l’esperienza, ma la ricostruisce ‘come-dovrebbe-essere’. La tradizione empirista è anche colpevole della credenza secondo la quale la coscienza è necessaria per l’apprendimento. Nella vecchia terminologia empirista, infatti, le idee erano copie di ciò che veniva percepito, e se alcune cose venivano percepite insieme ad altre, le loro copie o idee erano anch’esse collegate. Questo processo è conosciuto col nome di associazione d’idee. E dal momento che questo, presumibilmente, avveniva nella coscienza, sembrò chiaro che l’apprendimento, o l’associazione d’idee, fosse un caratteristica cruciale della coscienza. Quest’idea fu resa esplicita da molti fra i primi psicologi, ma un altro gruppo di psicologi venuti dopo di loro,20 forti di un gigantesco corpus di ricerche sperimentali, suggerì che tutto questo era lontano dall’essere vero. La capacità di apprendimento può essere rilevata in specie alle quali nessuno avrebbe mai attribuito qualcosa di simile alla coscienza introspettiva. Negli umani, ogni tipo di apprendimento, condizionamento, apprendimento motorio e apprendimento strumentale o condizionamento operante può avvenire senza alcuna consapevolezza o assistenza dalla coscienza. Ciò non equivale a dire che la coscienza non gioca alcun ruolo nell’apprendimento umano, come ad esempio nella decisione su cosa imparare o preparare la strategia per un apprendimento migliore o verbalizzare coscientemente gli aspetti di un compito da svolgere. Ma questo non è l’apprendimento in sé. E ciò che sostengo qui è che la coscienza non è necessaria perché avvenga l’apprendimento. Si potrebbe ora ricordare il fenomeno ben noto dell’automatizzazione del comportamento abituale, per il quale ci sembra che un nuovo compito richieda attenzione cosciente all’inizio ma che, una volta che l’abitudine a svolgerlo si sia consolidata, la coscienza venga meno e il compito sia eseguito senza sforzo. Questa crescente scorrevolezza e rapidità d’esecuzione è universale tra gli animali capaci d’apprendere. Generalmente, in questo fenomeno ubiquitario, non è il graduale venir meno della coscienza che migliora l’esecuzione, quanto il graduale allentamento dell’attenzione sulle componenti del compito stesso; e l’attenzione, che consiste nel focalizzarsi su determinate percezioni sensoriali, non è necessariamente cosciente. Prendete una moneta in ogni mano e lanciatele entrambe facendole incrociare in aria, in modo tale che ciascuna moneta, ricadendo, venga afferrata dalla mano opposta; questo compito richiede di solito tra le quindici e le venti prove per essere appreso. Mentre fate queste prove, chiedetevi se siete coscienti di tutto ciò che state facendo. Scoprirete che la vostra coscienza ha poco a che fare con questo apprendimento, il quale sembra avvenire meccanicamente. Potreste essere coscienti di qualcosa riguardo alla vostra goffaggine, o di quanto sia ridicolo ciò che state facendo mentre raccogliete le monetine dal pavimento, e quando avrete successo sarete, coscientemente, alquanto

sorpresi e forse orgogliosi dell’aumento della vostra destrezza. È l’attenzione a essere cambiata. L’automatizzazione è una diminuzione dell’attenzione, non della coscienza. La coscienza non è necessaria neppure per pensare, per quanto questo possa sembrare alquanto improbabile. Nel 1901 Karl Marbe, all’epoca uno studente a Würzburg, compì il più semplice e il più profondo esperimento della sua epoca. Usando i suoi professori come soggetti, tutti esperti introspezionisti,21 chiese loro di prodursi in un semplice compito: giudicare quale tra due pesi aventi lo stesso aspetto fosse il più pesante. Contro tutte le previsioni della psicologia sperimentale del suo tempo, il risultato fu sorprendente. Essi scoprirono con grande sorpresa che il processo di giudizio non era mai cosciente. Erano coscienti del compito da svolgere, del materiale di cui erano fatti i pesi e persino della leggera pressione che esercitavano verso il basso, ma il processo di giudizio sembrava avvenire automaticamente. Così è iniziata quella che chiamiamo la ‘scuola del pensiero senza immagini’ di Würzburg che, attraverso gli esperimenti di Ach, Watt, Kulpe e altri, ha condotto ai concetti di set, Aufgabe e tendenza determinante – da me ribattezzati struzioni. Le struzioni sono una sorta di istruzioni date al sistema nervoso che, una volta presentate con il materiale su cui si deve agire, provocano la risposta automaticamente senza nessun pensiero o ragionamento cosciente.22 Tale principio si applica a molte delle nostre attività, dalla semplicità di giudicare il peso di un oggetto alla soluzione di problemi scientifici o filosofici. La coscienza studia il problema e lo prepara in quanto struzione, un processo che può risultare nella subitanea apparizione di una soluzione venuta apparentemente dal nulla. Durante la Seconda guerra mondiale, i fisici britannici erano soliti sostenere che non facevano più le loro scoperte nei laboratori; piuttosto, le scoperte più importanti avvenivano nelle «tre B», bath (bagno), bed (letto) e bus (autobus). E lo stesso fenomeno, in scala ridotta, sta avvenendo in me, mentre sto parlando, in quanto le mie parole vengono scelte per me dal mio sistema nervoso dopo aver dato la struzione del significato che voglio esprimere.23 Per finire questa lista di errori riguardanti la coscienza, dobbiamo spendere qualche parola riguardo alla sua localizzazione. La maggior parte delle persone (insieme con eruditi del calibro di Cartesio, Locke e Hume), tende a pensare alla coscienza un po’ come a uno spazio, solitamente localizzato nella propria testa. Naturalmente un tale spazio non esiste affatto. Lo spazio della coscienza, che da qui in poi chiamerò ‘spazio mentale’, è uno spazio funzionale che non ha ubicazione a meno che non gliene assegniamo una. Pensare che la nostra coscienza si trovi dentro le nostre teste, sulla scorta di parole quali introspezione, internalizzazione ecc. è una conclusione tanto naturale quanto arbitraria. Certo, non voglio dire che la coscienza sia separata dal cervello, e per gli assunti delle scienze naturali essa non lo è affatto. Ma noi usiamo il nostro cervello per andare in bicicletta, tuttavia nessuno crede che l’ubicazione del ‘guidare una bicicletta’ sia all’interno delle nostre teste. Conferire un’ubicazione alla coscienza è un tentativo palesemente arbitrario. Tirando le somme, abbiamo mostrato che la coscienza non è la mente tutta, che non deve essere equiparata alla sensazione o alla percezione, che non è una copia dell’esperienza, non è necessaria per l’apprendimento e nemmeno per pensare o ragionare, e che ha un’ubicazione arbitraria e funzionale. Come preludio a ciò che affermerò in seguito, vorrei quindi considerare la possibilità che siano esistiti, un tempo, esseri umani i quali facevano la maggior parte delle cose che facciamo noi, parlare, comprendere, percepire, risolvere

problemi, ecc. ma senza l’ausilio della coscienza. Personalmente, penso che questa sia una possibilità davvero importante. A questo punto qualcuno potrebbe pensare di trovarsi di fronte a una prospettiva comportamentista e piuttosto radicale. Ciò non è vero, poiché credo che sia un fatto incontrovertibile che le mie introspezioni siano reali tanto quanto il cosiddetto mondo ‘esterno’. Ma cos’è dunque questa coscienza? Quali sono le sue caratteristiche? Voglio procedere delineando dapprima una teoria della coscienza nei suoi aspetti essenziali, per poi analizzarla più nel dettaglio. La mente cosciente soggettiva è un analogo di quello che è chiamato il mondo reale. Essa è costruita con un vocabolario o campo lessicale i cui termini sono tutti metafore o analoghi del comportamento nel mondo fisico. La sua realtà è dello stesso ordine della matematica. Essa ci consente di abbreviare i processi di comportamento e di pervenire a decisioni più soddisfacenti. Come la matematica, la mente cosciente soggettiva, più che una cosa o un serbatoio, è un operatore, ed è intimamente connessa alla volizione e alla decisione. Consideriamo il linguaggio da noi usato per descrivere i processi coscienti. Il gruppo di parole principale di cui ci serviamo per descrivere gli eventi mentali è attinto al campo visivo. Noi ‘vediamo’ soluzioni a problemi, le migliori delle quali possono essere ‘brillanti’ in contrapposizione a soluzioni ‘opache’ o ‘oscure’. Queste parole sono tutte metafore e lo spazio mentale a cui si applicano è generato da metafore dello spazio reale. In questo spazio possiamo ‘accostarci’ a un problema, forse da un qualche ‘punto di vista’ e ‘venire alle prese’ con le sue difficoltà. Ogni parola che utilizziamo per riferirci a eventi mentali è una metafora o un analogo di qualcosa nel mondo fisico-comportamentale. Anche gli aggettivi usati per descrivere un comportamento fisico nello spazio reale sono trasferiti analogicamente alla descrizione del comportamento mentale nello spazio della mente. Ci riferiamo alla nostra mente cosciente con aggettivi come ‘veloce’ o ‘lenta’, o descriviamo qualcuno come ‘di mente aperta’, oppure di mentalità ‘debole’ o ‘forte’; possiamo essere ‘occupati’; possiamo ‘uscire di mente’ o avere qualcosa ‘in mente’. E come nel caso di uno spazio reale, qualcosa può essere nei ‘recessi più riposti’ o ‘fuori’ della nostra mente. Ma, voi mi ricorderete, la metafora è una mera comparazione di termini e non può creare una nuova entità come la coscienza. Un’accurata analisi della metafora mostra invece che ciò è possibile. In ogni metafora ci sono per lo meno due termini: la cosa che vogliamo esprimere in parole, il metaferendo, e il termine prodotto dalla struzione di trovare tale espressione, il metaferente. Questi sono simili a ciò che I.A. Richards chiamò il tenore e il veicolo, termini più adatti a un’analisi poetica che filosofica. Ho scelto i termini metaferendo e metaferente per la loro associazione connotativa con i termini matematici moltiplicando e moltiplicatore in modo da sottolineare la loro funzione operativa. Se io dico che ‘la nave solca il mare’, il metaferendo è il modo in cui lo scafo passa attraverso l’acqua e il metaferente è un solco, come quello lasciato da un aratro nel terreno. Come esempio più rilevante, supponiamo di essere una persona ai tempi della formazione del nostro vocabolario mentale, e di stare provando a risolvere un problema o a imparare a svolgere un determinato compito. Supponiamo quindi di aver trovato la soluzione al nostro problema e di esclamare: «Vedo la soluzione!» In questo caso il metaferente è il vedere

‘reale’ del mondo fisico comportamentale che, attraverso il processo metaforico, viene utilizzato per designare un altrimenti inesprimibile processo mentale, il metaferendo. Ai metafarenti di solito sono associate alcune caratteristiche che chiameremo paraferenti. Queste caratteristiche possono trasferirsi al metaferendo diventando i paraferendi del metaferendo, e creare nuove entità. Torniamo all’esempio precedente: la parola ‘vedo’ ha associate delle caratteristiche che rimandano al ‘vedere’ nel mondo reale e quindi nello spazio. Questa caratteristica spaziale è un paraferente del metaferente (l’atto percettivo di vedere) il quale trasferendosi attraverso il processo metaforico al metaferendo (‘vedere’ la soluzione) diventa il paraferendo ‘spazio’ che caratterizza appunto lo spazio mentale.24

metaferendo

metaferente

paraferendo

paraferente

In questo modo la qualità spaziale del mondo attorno a noi viene trasferita nel fatto psicologico del risolvere un problema (per il quale, ricordiamo, non è necessaria la coscienza). Ed è questa qualità spaziale associata, come risultato del linguaggio che utilizziamo per descrivere tali eventi psicologici, che diventa, attraverso ripetizioni costanti, lo spazio funzionale della nostra coscienza.25 Questo spazio della mente è la prima e più importante caratteristica della coscienza. È lo spazio in cui fate un’‘introspezione’ e a cui vi riferite quando ‘guardate dentro di voi’. Ma chi guarda? Chi compie questa introspezione? Qui introduciamo l’analogia, la quale differisce dalla metafora per il fatto che il rapporto di similarità si instaura tra relazioni piuttosto che tra cose o azioni. Come il corpo con i suoi organi di senso (a cui ci si riferisce come Io) sta in rapporto con l’atto fisico del vedere, così si sviluppa automaticamente un Analogo Io in relazione a questo genere mentale di ‘vedere’ nello spazio mentale. L’Analogo Io è la seconda caratteristica della coscienza in ordine d’importanza. Esso non va confuso con il sé che è oggetto della coscienza in uno sviluppo successivo. L’Analogo Io è privo di contenuto, vicino, a mio avviso, all’Io trascendentale kantiano. Così come l’io corporeo può spostarsi nel proprio ambiente guardando questo o quello, così l’Analogo Io impara a ‘muoversi’ nello spazio mentale ‘prestando attenzione a’ o ‘concentrandosi’ su una cosa o sull’altra. Chiameremo la terza caratteristica della coscienza narratizzazione, la simulazione analogica del comportamento reale, un aspetto ovvio della coscienza che sembra essere sfuggito alle precedenti discussioni sincroniche sull’argomento. La coscienza è un costante porre le cose in una storia, assegnando un prima e un dopo a ogni evento. Questa caratteristica è un analogo del nostro sé fisico che si muove attraverso il mondo reale in successione spaziale, la quale diventa successione temporale nello spazio mentale. Tutto questo risulta infine nella nostra rappresentazione cosciente del tempo, un tempo

spazializzato in cui allochiamo gli eventi e la nostra stessa vita. È impossibile essere coscienti del tempo senza spazializzarlo.26 Ci sono altre caratteristiche della coscienza che elencherò semplicemente: concentrazione, l’analogo ‘interno’ dell’attenzione percettiva, e il suo opposto, soppressione, con il quale smettiamo di essere consci di pensieri noiosi, l’analogo dell’allontanarsi (o chiudere gli occhi) dalle cose che ci disturbano nel mondo fisico-comportamentale; selezione, analogo del comportamento reale per cui vediamo o facciamo oggetto della nostra attenzione solo una parte di una cosa in ciascun momento preciso; e conciliazione, l’analogo di quel processo percettivo automatico che chiamiamo talvolta assimilazione; e altri ancora. Questa lista non vuole certo essere esaustiva. La regola essenziale è che nella coscienza non c’è nulla che non sia un analogo di qualcosa che è già stato nel comportamento. Gli psicologi cognitivi sono spesso accusati, qualche volta giustamente, di reinventare la ruota, farla quadrata, e chiamarla una prima approssimazione. Non credo che questo sia vero per la teoria che ho appena tratteggiato, ma indubbiamente sarei per considerare tutto questo come una prima approssimazione. La coscienza non è una materia semplice, e non si dovrebbe parlarne come se lo fosse. Non ho qui accennato alle differenti modalità di narratizzazione: verbale, percettiva, corporale o musicale, le quali sembrano avere caratteristiche precipue. Ma credo sia sufficiente per tornare al problema dell’evoluzione della coscienza con il quale abbiamo cominciato e che ha causato così tanti problemi alla biologia, alla psicologia e alla filosofia. Quando ha avuto inizio questo mondo interno? Abbiamo detto che la coscienza è basata sul linguaggio. Se questo è vero, significa che generazioni di sforzi per ricercare le origini della coscienza nell’evoluzione animale sarebbero stati del tutto scorretti e vani. Se la coscienza è un gruppo di operazioni basate sul linguaggio e apprese attraverso di esso, ciò vuol dire che, nonostante le recenti e opinabili discussioni sul linguaggio dei segni negli scimpanzé e più in generale sul sistema di comunicazione animale, solo gli essere umani, e solo a un certo punto della loro evoluzione, sono da considerare esseri coscienti. Ma quando si è evoluto il linguaggio? Altrove27 ho delineato alcune idee su come il linguaggio potrebbe essersi evoluto da modificatori di vocalizzazioni intenzionali, quello che è stato chiamato il «Wahee, Wahoo model», attualmente in competizione con molti altri modelli o teorie. Il mio modello individua la nascita del linguaggio nel tardo Pleistocene, per diverse ragioni: 1) tale periodo coincide con una probabile pressione evolutiva relativa ai comandi vocali durante la caccia di grossi animali, 2) è in questo periodo che assistiamo a un’impressionante sviluppo di particolari aree cerebrali coinvolte nell’uso del linguaggio, e 3) i reperti archeologici di questo periodo documentano un significativo aumento di complessità nella costruzione di utensili, dato molto importante se si considera il linguaggio non solo un mezzo di comunicazione ma anche come un vero e proprio organo di percezione in grado di dirigere e mantenere l’attenzione su un determinato compito. Dalla datazione appena proposta ne consegue che il linguaggio non è più antico di 50.000 anni, il che significa che la coscienza deve essersi sviluppata, in un certo momento, tra quella data e, diciamo, oggi. Fortunatamente per la nostra ricerca, attorno al 3000 a.C. gli esseri umani hanno appreso la notevole abilità della scrittura. È quindi ovvio che il nostro primo passo dovrebbe essere

quello di esaminare i primi scritti del genere umano per vedere se troviamo traccia di un Analogo Io, con conseguente narratizzazione dello spazio mentale. Sommariamente posso affermare che non vi è alcuna traccia di tutto ciò fino, all’incirca, all’anno 1000 a.C., il che include molti dei più antichi testi conosciuti come, ad esempio, l’Iliade.28 Come prendevano quindi le decisioni questi uomini non coscienti? Vi sono molte evidenze, in tutte le civiltà a partire dal 9000 a.C. fino ai tempi dell’Iliade, che indicano chiaramente che gli esseri umani sentivano voci, quelle che chiameremmo allucinazioni uditive, voci chiamate ‘Dei’, prodotte dal sistema nervoso e simili alle voci allucinatorie29 che alcune persone sentono tutt’oggi e che sono caratteristiche di diverse patologie mentali.30 Ho chiamato questa organizzazione mentale mente bicamerale, dal metaferente della legislatura bicamerale. Ciò significa semplicemente che la mente umana a quei tempi era divisa in due parti, una parte decisionale e una parte esecutiva, nessuna delle quali era cosciente nel senso in cui poc’anzi abbiamo descritto la coscienza. Inoltre, vorrei ricordare a questo punto la lunga critica con cui ho iniziato questa discussione, mostrando come gli esseri umani possono parlare e comprendere, risolvere problemi e fare molto altro senza l’ausilio della coscienza. Tutte cose che poteva fare l’uomo bicamerale. Nella vita quotidiana questi aveva un comportamento abitudinario, ma quando emergeva un nuovo problema che richiedeva una decisione nuova o una soluzione più complessa del solito cui l’abitudine non poteva provvedere, lo stress decisionale provocato da tali situazioni era sufficiente da provocare allucinazioni uditive. Voci alle quali gli individui erano costretti a obbedire poiché privi di uno spazio mentale in cui potersi ribellare. Penso sia semplice supporre che esseri umani dotati di una simile mentalità debbano essere vissuti in una società particolare, probabilmente rigidamente ordinata in strette gerarchie ben separate, un tessuto sociale che le allucinazioni potevano agevolmente preservare intatto. Le cose sembrano essere effettivamente andate così. I regni bicamerali erano teocrazie rigidamente gerarchiche, con un dio (spesso un idolo, come accadde in Mesopotamia) al comando, da cui sembravano provenire le allucinazioni; oppure, più raramente, con un essere umano divinizzato a capo dello stato, come nell’antico Egitto. Ho raccolto altrove31 le varie evidenze che sostengono l’ipotesi che queste antiche civiltà fossero organizzate da voci allucinatorie chiamate dei, ma non v’è spazio qui per riportarle. Finora ho discusso due delle quattro ipotesi cui il titolo fa riferimento. La prima, su cui ci siamo soffermati maggiormente, è che la coscienza sia basata sull’abilità del linguaggio di produrre metafore e analogie. La seconda ipotesi è che all’alba della civiltà vi fu una mentalità differente, non cosciente chiamata mente bicamerale. La terza ipotesi è semplicemente che una ha seguito l’altra nel corso della storia. Infatti, riguardo a quest’ultima ipotesi, vi sono due possibilità. Una formulazione debole della teoria che ho presentato potrebbe sostenere che: sì, la coscienza è basata sul linguaggio, ma invece di essere una conquista così recente dell’umanità, essa ebbe inizio insieme alla mente bicamerale e ai fenomeni di allucinazione uditiva. Entrambi i sistemi quindi devono essersi sviluppati contemporaneamente fino al punto in cui la mente bicamerale divenne obsoleta e fu abbandonata, lasciando la sola coscienza ad agire come medium per le decisioni umane. Questa è una posizione teorica estremamente debole, poiché può spiegare quasi tutto ed è quasi infalsificabile. La formulazione più forte, invece, è secondo me di maggiore interesse ed è quale l’ho enunciata nell’introdurre il concetto di mente bicamerale. Ho ipotizzato infatti una

datazione sorprendentemente recente per l’introduzione nel mondo di questo eccezionale regno privato di eventi nascosti che chiamiamo coscienza. Il periodo storico è piuttosto differente in diverse parti del mondo, ma nel Medio Oriente, dove la civiltà bicamerale ha avuto inizio, la data è più o meno quella del I millennio a.C. Questa datazione non è affatto arbitraria, ma può essere dedotta a seguito delle chiare evidenze archeologiche che suggeriscono un crollo della mente bicamerale in Mesopotamia cominciato intorno al 1200 a.C. Ciò fu dovuto alla caotica disorganizzazione sociale, al sovrappopolamento e probabilmente al successo della scrittura nel sostituire la modalità uditiva di comando. Questo crollo sfociò nelle pratiche che ora definiamo religiose e che significavano originariamente lo sforzo di far tornare le voci degli dei. Tali pratiche sono ad esempio la preghiera, la venerazione religiosa e in particolare molti tipi di divinazione, che non sono altro che nuovi modi di prendere decisioni una volta delegate al consiglio divino proferito per via allucinatoria.32 La letteratura greca, a partire dalle tavolette di lineare B, attraverso l’Iliade, l’Odissea, le liriche e la poesia elegiaca dei due secoli successivi, fino a Solone, ci consegna una chiara descrizione del crollo della mente bicamerale e il concomitante sviluppo di un vocabolario cosciente costruito su basi metaforiche. Parole come thumos, phrenes, cardia e psyche mutarono il loro significato da referenti oggettivi esterni a funzioni mentali interne.33 Un altro documento dello stesso periodo è il Vecchio Testamento biblico, il quale è in completo accordo con quanto detto. I profeti d’Israele erano gli ultimi individui bicamerali o semibicamerali, persone che udivano, e potevano quindi diffondere, la voce di Yahweh con convincente autenticità, e che furono quindi apprezzate dalla loro società pervasa dal sentimento di ricongiungersi con gli dei nella nostalgia dei regni bicamerali. Le parole di tali profeti possono essere confrontate con libri dell’Antico Testamento più recenti, come l’Ecclesiaste, o più semplicemente con il Nuovo Testamento, il quale insegna un tipo riformato di ebraismo per persone coscienti.34 Recentemente un mio collega, Michael Carr, esperto di antichi testi cinesi, ha dimostrato un simile sviluppo della coscienza nel linguaggio delle sezioni successive dello Shijing avvenuto approssimativamente nello stesso periodo.35 Ma questa è la coscienza in sé o è solamente il concetto di coscienza? Questa è la famosa critica uso-menzione che è stata avanzata contro Hobbes e altri, così come contro la teoria qui presentata. Non stiamo forse confondendo il concetto di coscienza con la coscienza in sé? La mia risposta è che la stiamo fondendo, che sono la stessa cosa. Come Daniel Dennett ha sostenuto in una recente discussione di questa teoria, vi sono diversi casi di identità fra uso e menzione. Anche il concetto di baseball e il baseball sono la stessa cosa; così come per il denaro, la legge, il buono e il cattivo.36 Che la coscienza sia basata sul linguaggio, che sia esistito un tipo differente di mentalità chiamata mente bicamerale e che una abbia seguito l’altra nella storia sono le mie prime tre ipotesi. La quarta, che menzionerò solo brevemente, è comunque separabile dalle altre tre. Si tratta di un modello neurologico della mente bicamerale. In questa ipotesi sostengo che il substrato neurologico della componente divina della mente bicamerale fosse l’area nell’emisfero destro corrispondente all’area di Wernicke.37 In quest’area venivano processate e apprese tutte le informazioni ammonitorie della vita di una persona e organizzate in allucinazioni uditive in modo da poter essere trasferite nell’opposto emisfero cerebrale, cosiddetto dominante. Se prendiamo come esempio di questo processo

l’odierna schizofrenia (la schizofrenia è una parziale vestigia della mente bicamerale), troveremo conferme a questo modello. Inoltre, le crescenti (e forse sopravvalutate) scoperte di nuove funzioni cognitive nell’emisfero destro sono in accordo con questo modello. Per concludere, vorrei quindi sottolineare come sostenendo che la coscienza ebbe inizio solo 3000 anni fa questa teoria apre nuove aree di analisi filosofica e offre nuove strade da seguire per risolvere molti problemi: ad esempio l’invenzione storica dell’etica insieme con il suo vocabolario, delle leggi per sostituire le scomparse voci divine, lo sviluppo della stessa filosofia come strumento di conoscenza per colmare il vuoto lasciato dal ritrarsi degli dei, le origini storiche del concetto di verità, della scienza e della storia. Mi piace pensare che forse una delle ragioni della sconcertante grandezza della filosofia greca sta nel fatto che il mondo cosciente era così nuovo da essere molto più chiaro, un vantaggio che abbiamo progressivamente perduto nel corso della nostra lunga storia intellettuale. Ma non dimentichiamo la sfida intellettuale più grande: il problema mente-corpo. La teoria che ho presentato fornisce una soluzione reale. Credo che il dualismo che da tempo cerchiamo di comprendere non sia tra mente e corpo, ma tra coscienza e tutto il resto: tale dualismo cominciò solo 3000 anni fa, prima di allora non c’era mai stato alcun problema mentecorpo. E dopo quel momento, l’umanità non fu più la stessa.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI CARR, M. (2006), «The shi ‘Corpe/Personator’ Ceremony in Early China», in KUIJSTEN, M. (2006), Reflection on the dawn of consciousness, Julian Jaynes Society, Henderson, NV. DENNETT, D. (1986), «Julian Jaynes’ Software Archeology», Canadian Psychology, 27(2), 149-154. JAYNES, J. (1976), «The Evolution of Language in the Late Pleistocene», in S. HARNAD et al. (eds.), Origins and Evolution of Language and Speech: Annals of the New York Academy of Sciences, 280, 312. JAYNES, J. (1984), Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, Adelphi, Milano. JAYNES, J., (1986), «Consciousness and the Voices of the Mind», Canadian Psychology, 27(2), 128-148. JAYNES, J., (1990), «Post scriptum», in Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, II edizione ampliata, Adelphi, Milano, 2002. LEUDAR, I., THOMAS, P. (2000), Voices of Reason, Voices of Insanity, London, Routledge. POSEY, T.B., LOSCH, M. (1983), «Auditory hallucinations of hearing voices in 375 normal subjects», Imagination, Cognition, and Personality, 3, 99- 113. RUSSELL, B. (1927), Sintesi filosofica, La Nuova Italia, Firenze. ZELLER, P. (2007), Romanes. Un discepolo di Darwin alla ricerca delle origini del pensiero, Armando, Milano.

Capitolo 4

Può il linguaggio dar forma alla coscienza?

Roberto Bottini, Marcel Kuijsten

La coscienza è posteriore al linguaggio Il linguaggio è la madre, non l’ancella del pensiero. KARL KRAUS

LINGUAGGIO E COSCIENZA, UNA PREMESSA Nel Crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza (Jaynes, 1984), lo psicologo di Princeton Julian Jaynes parlava della coscienza come di un processo acquisito, basato sul linguaggio metaforico e prodotto di un recente sviluppo storico: «La mente cosciente soggettiva è un analogo di quello che è chiamato mondo reale. Essa è costruita con un vocabolario o campo lessicale i cui termini sono tutti metafore del comportamento nel mondo fisico» (Jaynes, 1984, p. 78), precisando che «la coscienza non è tutto linguaggio, ma da esso è generata e resa accessibile» (Jaynes, 1990). Questa è quella che si può definire senza riserve un’idea controversa. In effetti, se la coscienza è fondata sul linguaggio, ne segue che essa ha un’origine filogenetica molto recente, e che animali non umani e bambini piccoli ancor privi del linguaggio (prelinguistici) non sono affatto coscienti. Certo, posizioni come queste hanno implicazioni che possono essere «assai gravi», come ebbe a dire lo stesso Jaynes (1976, p. 91). Nella prima parte di questo saggio prenderemo in considerazione testimonianze e studi provenienti da diverse discipline che sembrano corroborare l’ipotesi di una genesi linguistica dei processi di pensiero che designiamo come coscienti. Naturalmente, come anticipato nell’introduzione di questo volume, molto dipende dalla definizione, più o meno implicita, che ogni autore adotta del termine coscienza. Infatti, se un crescente numero di studiosi riconosce oggi l’importanza del linguaggio per la coscienza, è molto diffusa la tentazione di distinguere due tipologie di quest’ultima, che sono state chiamate a seconda dei casi primaria e secondaria (Edelman, 1993), nucleare ed estesa (Damasio, 1999), fenomenica e cognitiva (Block, 1995), e altri ancora. Molti autori sono d’accordo nel sostenere che il linguaggio non sia necessario per il primo (e più genuino) livello di coscienza, che dovremmo condividere con altre specie animali, ma solo per il secondo, quello tipicamente umano. Scrive, in tal senso, il neurologo Antonio Damasio: «La coscienza, secondo l’ipotesi della dipendenza dal linguaggio, è subordinata alla padronanza del linguaggio e non può manifestarsi negli organismi che ne sono privi. Quando Julian Jaynes presenta la sua affascinante tesi sull’evoluzione della coscienza, si riferisce alla coscienza in una fase successiva al linguaggio, non alla coscienza nucleare da me descritta. Quando pensatori così diversi come Daniel Dennett, Humberto Maturana e Francisco Varela parlano di coscienza, di solito si riferiscono a un fenomeno posteriore al linguaggio. A mio avviso discutono delle capacità superiori della coscienza estesa [...] nella mia proposta la coscienza estesa procede sopra le fondazioni della coscienza nucleare che noi ed altre specie abbiamo avuto da lungo tempo e continuiamo ad avere oggi» (Damasio, 1999, p. 227). Un qualsiasi atto mentale o esperienza è cosciente a livello nucleare o primario, nel caso in cui «c’è qualcosa che sente di avere quell’esperienza» (Lormand, 1996). Tale livello di coscienza «fornisce all’organismo un senso di sé in un dato momento – ora – e in un dato luogo – qui» (Damasio, 1999, p. 30), in buona sostanza essa è la responsabile di ogni «prospettiva soggettiva». La coscienza estesa, o secondaria, invece, è la coscienza provvista di un sé, di una riflessione estesa temporalmente nel passato e nel futuro, del dialogo interno, della memoria episodica e autobiografica, dell’introspezione, e di molte altre caratteristiche o funzioni, che possiamo definire metacognitive, per le quali il linguaggio ha un ruolo costitutivo o comunque rilevante. Non è questa la sede per intavolare una discussione sull’utilità di questo raddoppio teorico della coscienza, ci basti qui segnalare che Jaynes, il quale non ha mai provveduto a chiarire certe distinzioni, avrebbe probabilmente optato per una posizione radicale secondo la quale il linguaggio è

necessario anche per il primo livello di coscienza, per avere dunque una posizione soggettiva, per sapere cosa si prova a essere me stesso.38 Una posizione molto vicina a quella del filosofo Daniel Dennett: «Io credo, ma non posso provarlo, che acquisire il linguaggio umano (orale o dei segni) sia una precondizione necessaria per la coscienza – nel senso forte di essere un soggetto, un ‘io’, un ‘qualcosa che prova di essere qualcosa’. Ciò significa che gli animali non umani, e i bambini prelinguistici, anche se possono essere sensibili, in allerta, rispondenti al dolore e alla sofferenza, e cognitivamente competenti in molti modi – incluso qualcosa che eccede alle competenze normali degli adulti – essi non sono coscienti (nel senso forte): non c’è un soggetto organizzato (non ancora) per essere gioioso o sofferente, nessun padrone dell’esperienza in contrasto con un mero ‘locus of effects’ cerebrale». (Dennett, 2005, traduzione nostra) Nella prima parte di questo saggio prenderemo in considerazione alcuni degli autori che hanno riflettuto sul rapporto tra linguaggio e coscienza, insieme ad alcune testimonianze che riteniamo significative. Molti degli esempi e delle teorie che seguiranno potranno essere interpretati sia come esempi di coscienza ‘estesa’ o ‘secondaria’, come in Damasio, sia come esempi di coscienza tout court, come in Dennett, conservando ugualmente il proprio valore euristico ed esplicativo. Che cosa ognuno di questi autori intenda per coscienza a volte non è chiaro; tuttavia, come ha detto von Foerster,39 si tratta sempre e comunque di una scelta arbitraria, sia essa ‘cosciente’ o meno.

MENTI CON LINGUAGGIO Perché mai dovremmo avere bisogno del linguaggio per essere coscienti? Perché mai il linguaggio dovrebbe essere necessario per riportare alla mente i lontani ricordi dell’infanzia? Oppure per progettare un futuro, vivere nel presente e ricordare il passato con la triviale sicurezza che continueremo a essere noi stessi? Perché si dovrebbe ricorrere al linguaggio per scegliere che cosa sia giusto o sbagliato secondo la propria morale, per raccogliersi in preghiera o per prendere introspettivamente una decisione importante? Ma soprattutto, perché dovremmo aver bisogno del linguaggio per poter esercitare liberamente la nostra volontà, per sognare, rimpiangere o desiderare? Solitamente facciamo tutto questo, e senza troppi problemi, in un mondo variopinto di immagini mute o di puro e profondo pensiero, un mondo di cui il linguaggio sembra poter soltanto abbozzare il riflesso e tratteggiare contorni indefiniti. Per quanto possa sembrare inverosimile al vaglio del senso comune, l’idea che la coscienza sia basata sul linguaggio non è affatto nuova in ambito scientifico o filosofico. Come ci segnala lo psicologo Merlin Donald, «secondo Darwin, quelle che egli aveva definito ‘complesse concatenazioni di pensieri’ erano totalmente dipendenti dal linguaggio, nello stesso modo in cui l’espressione del pensiero matematico dipende dall’uso di simboli appropriati. La convinzione che forme di pensiero avanzate, e più elevate forme di autocoscienza, siano completamente dipendenti dal linguaggio era ampiamente diffusa nel XIX secolo» (Donald, 1996, p. 55). Consideriamo ora sinteticamente alcuni dei più importanti studiosi moderni che hanno riscoperto questa idea. Secondo Donald, una volta che la mente comincia a costruire un ‘mondo’ mentale proprio, verbalmente codificato, i prodotti di questa operazione – pensieri e parole – non possono più essere dissociati l’uno dall’altro. Howard Margolis propose un simile argomento, considerando il linguaggio sia come mezzo di comunicazione che di pensiero: «Dato il linguaggio, possiamo descrivere a noi stessi cosa sembra accadere durante la riflessione che precede un giudizio, produrre una versione ripetibile del processo di formazione di un giudizio, e affidarla alla memoria a lungo termine attraverso la ripetizione stessa. Linguaggio, intelligenza e socialità sono mutuamente simbiotici, e la selezione darwiniana li rinforza». (Margolis, 1987, p. 60, traduzione nostra) Funzione del linguaggio non sarebbe soltanto quella di dar voce a pensieri che altrimenti rimarrebbero muti e difficilmente comunicabili, bensì, evolutosi come mezzo di comunicazione, il linguaggio si sarebbe in qualche modo imposto come principio organizzatore del pensiero fornendo al pensiero stesso strutture in grado di consentire l’emergenza di nuovi processi cognitivi. In quest’ottica Bruce Bridgeman considera particolarmente illuminanti gli studi su pazienti cosiddetti split-brain o dal «cervello diviso», facendo riferimento a quelle persone a cui, per la cura delle epilessie farmaco-resistenti, è stato reciso il corpo calloso, che connette i due emisferi cerebrali (Gazzaniga, Bogen, Sperry, 1963). Queste persone, qualche tempo dopo l’intervento, dichiarano solitamente di non sentirsi per nulla diversi da come si sentivano prima dell’operazione, e conducono una vita normale. Tuttavia, alcuni test cognitivi ormai

divenuti classici hanno dimostrato che questa normalità è soltanto apparente. Questi pazienti sono completamente coscienti degli stimoli che vengono presentati al loro emisfero sinistro (ad esempio figure che appaiono nell’emicampo visivo destro, oppure oggetti toccati o afferrati con la mano destra), mentre non sono affatto coscienti di ciò che viene processato nel loro emisfero destro. Tuttavia, anche se le informazioni elaborate nell’emisfero destro restano fuori dalla coscienza, i soggetti possono comunque comprenderle e agire in base a esse. Quando questo accade, le azioni iniziate dal loro emisfero destro danno al paziente la sensazione che sia un altro da sé a muovere il loro corpo.40 Siccome le aree cerebrali del linguaggio, nella maggior parte delle persone, sono localizzate nell’emisfero sinistro, queste ricerche costituiscono, per Bridgeman, un’importante conferma delle strette relazioni tra coscienza e linguaggio (Bridgeman, 2003). Nel suo libro Thinking Without Words (Bermúdez, 2003), il filosofo José Luis Bermúdez considera le differenze tra pensiero linguistico e non linguistico, sostenendo come gli animali privi di linguaggio siano significativamente limitati a livello cognitivo rispetto all’uomo. Nel capitolo «The Limits of Thinking Without Words», l’autore scrive che le alte forme di pensiero richiedono un veicolo adatto per essere fissate nella mente. Secondo Bermúdez, solo il linguaggio fornisce questo veicolo: «Il pensiero può essere l’oggetto di ulteriori pensieri solo quando possiede un veicolo linguistico» (Bermúdez, 2003, traduzione nostra). E proprio la capacità di pensare sui propri pensieri, o sui pensieri degli altri, è una delle caratteristiche principali della coscienza.

MENTI SENZA LINGUAGGIO Se il linguaggio umano ricopre un ruolo così importante nello sviluppo della coscienza, che dire di quegli individui che, sia perché vittime di circostanze sfortunate, sia perché in tenerissima età, non possiedono un linguaggio sviluppato? Com’è una mente senza linguaggio? Assomiglia forse alla mente non cosciente degli eroi omerici così come viene descritta da Jaynes nelle sue speculazioni storico-psicologiche? Lo studio delle persone che sviluppano il linguaggio in età più tarda rispetto alla norma può fornire importanti indicazioni sia sui passi intermedi tra non coscienza e coscienza, sia sulla capacità del linguaggio di trasformare il pensiero. A tale proposito il neurobiologo di Washington William Calvin (Calvin, 2005) ricorda una storia tratta dal libro del neurologo Oliver Sacks, Vedere voci: quella di Joseph, un ragazzino di undici anni a cui medici e familiari avevano diagnosticato da tempo un ritardo mentale, salvo poi scoprire che era ‘semplicemente’ affetto da sordità congenita. Dopo un anno di insegnamento del linguaggio dei segni, Sacks visitò il ragazzo riportando quanto segue: «... dava l’impressione di una vita priva di spessore temporale, della dimensione autobiografica, di una vita che esisteva solo nell’attimo presente [...] Joseph vedeva, distingueva, categorizzava, usava; non aveva problemi nella categorizzazione o generalizzazione percettiva, ma non sembrava in grado di andare molto al di là di questo, di avere idee astratte, di riflettere, elaborare, progettare. Sembrava completamente ‘letterale’: incapace di manipolare immagini, ipotesi o possibilità, incapace di penetrare in un regno immaginativo o figurativo». (Sacks, 1989, p. 73) È difficile resistere alla tentazione di paragonare la descrizione di Joseph offertaci da Sacks – una persona ‘moderna’ che ha acquisito abilità linguistiche a partire dagli undici anni, dopo il periodo critico dello sviluppo del linguaggio – con le speculazioni jaynesiane riguardo la mentalità preconscia delle civiltà antiche. Per Sacks, come per Jaynes o Vygotskij (1934), pensiero e linguaggio hanno origine biologiche del tutto distinte e, in termini generali, il pensiero senza linguaggio è certamente possibile. Tuttavia, attraverso un rapporto sinergico col linguaggio, sia nello sviluppo storico che individuale, il pensiero si costituisce in trame e funzioni più o meno complesse, che senza il linguaggio non sarebbero possibili. Sacks cita a proposito lo psicologo infantile Joseph Church: «Il linguaggio trasforma l’esperienza [...] attraverso di esso [...] si può indurre il bambino in un regno puramente simbolico dove esistono passato e futuro, luoghi lontani, rapporti astratti, eventi ipotetici, una letteratura basata sull’immaginazione, entità immaginarie che vanno dai lupi mannari ai mesoni π. Al tempo stesso l’apprendimento del linguaggio trasforma l’individuo in modo tale da consentirgli di fare cose nuove, o di fare le cose vecchie in un modo nuovo. Il linguaggio ci dà accesso a cose che sono lontane, ci permette di agire su di esse senza che vi sia alcun contatto fisico. Innanzitutto possiamo agire sulle persone, o su oggetti tramite le persone [...] In secondo luogo possiamo manipolare i simboli in modi che sarebbero impossibili con le cose che essi rappresentano, e così arrivare a versioni della realtà nuove e persino creative [...] Possiamo riorganizzare

verbalmente situazioni che nella realtà non si presterebbero a una riorganizzazione [...] possiamo isolare aspetti che non sono concretamente isolabili [...] possiamo confrontare oggetti ed eventi che sono distanti nello spazio e nel tempo [...] possiamo, se vogliamo, rovesciare simbolicamente l’universo come se fosse un guanto». (Church, 1961) Secondo Sacks, Joseph non poteva fare nulla di tutto questo, anche se per il neurologo sembrava in possesso di una non meglio precisata «consapevolezza».41 Per Sacks il linguaggio (verbale o dei segni) è necessario per compiere quello che Vygotskij chiamava il salto dialettico dalla sensazione al pensiero. Un salto da fare al più presto, per evitare che il bambino possa restare «inesorabilmente imprigionato in un mondo percettivo, di oggetti materiali» (Sacks, 1991, p. 107) come sembra dimostrare la triste condizione di Joseph. Ulteriori evidenze ci vengono dal famoso caso di Helen Keller, la quale diventò cieca e sorda all’età di diciannove mesi in seguito a una malattia, e riuscì ad acquisire un linguaggio soltanto all’età di sette anni. Quando cominciò a imparare il linguaggio dei segni Helen sentiva di pensare e desiderare con le sue dita, e scrisse: «Se avessi potuto fare un uomo, avrei certamente messo il suo cervello e la sua anima nella punta delle dita» (Keller, 1908). Riguardo alla sua vita prima di apprendere il linguaggio, la Keller osservava: «Prima che la mia istitutrice venisse a me, io non sapevo di esistere. Vivevo in un mondo che tale non era per me. [...] Io ignoravo di sapere qualcosa, di vivere, di agire, di desiderare; non avevo né volontà, né intelletto. Ero spinta verso gli oggetti, le azioni, da un certo impulso cieco e istintivo. Avevo solo una inclinazione alla collera, al piacere, al desiderio, e ciò faceva credere alla gente che mi stava attorno, prima di tutti a papà e mamma, che io fossi capace di volere e di pensare [...] La mia vita era un vuoto senza passato, senza presente, senza futuro, senza speranza, né aspettative, né meraviglia, né gioia, né fede [...] Quando imparai finalmente il significato di ‘io’, di ‘me’, mi accorsi di essere qualche cosa, e allora cominciai a pensare. Per la prima volta esistette per me la coscienza». (Keller, 1908, traduzione nostra) La Keller, riflettendo sui cambiamenti che ebbero luogo nel suo pensiero in seguito all’apprendimento della lingua dei segni, ci fornisce un chiaro esempio di quanto il linguaggio potrebbe essere necessario per molti livelli di coscienza. Ci preme qui sottolineare che, quando parliamo di linguaggio, non intendiamo certo il solo linguaggio parlato. Hellen Keller sviluppò una coscienza attraverso il linguaggio dei segni, e i quadriplegici descritti dallo psicologo John Hamilton (1985), che non potevano parlare ma erano intelligenti, impararono un linguaggio semplicemente venendovi esposti. Persone come queste, con gravi disfunzioni motorie o con danni cerebrali, sono certamente coscienti; per quanto incapaci di parlare, hanno comunque imparato un linguaggio e quindi sviluppato uno spazio mentale interno e l’abilità dell’introspezione.42 Che dire invece di quegli individui privi di linguaggio per motivi più semplicemente anagrafici, cioè i bambini ancora molto piccoli, prelinguistici, cui abbiamo fatto cenno all’inizio del capitolo?

Secondo Jaynes, «una madre è costantemente impegnata a instillare il seme della coscienza nel proprio figlio di due o tre anni, dicendogli di fermarsi e pensare, chiedendogli ‘Cosa abbiamo fatto oggi?’ oppure ‘Ti ricordi quando abbiamo fatto questo e quello, o quando siamo andati in questo o quel posto?’ Tutto questo mentre metafora e analogia sono duramente al lavoro. Vi sono molti modi, tutti diversi, in cui può avvenire questo sviluppo, tuttavia, direi che bambini senza alcun tipo di linguaggio non sono coscienti» (Jaynes, 1986, traduzione nostra). Jean Piaget fu tra i primi a sottolineare l’importanza del linguaggio nello sviluppo del pensiero nel bambino. Se l’adattamento psicomotorio è limitato allo spazio e al tempo presente, «il linguaggio consente al pensiero di estendersi su ampi tratti di spazio e tempo» (Piaget, 1967, p. 92). L’intelligenza senso-motoria procede passo dopo passo per mezzo di atti progressivi, sequenziali, mentre «il pensiero, in particolare il pensiero linguistico, può rappresentare simultaneamente tutti gli elementi di una struttura organizzata» (Piaget, 1967, p. 33). Il passaggio dall’intelligenza senso-motoria alla rappresentazione è mediato dallo sviluppo di una funzione simbolica di cui il linguaggio è parte sostanziale, sebbene non esclusiva: «Poiché il linguaggio è una forma particolare della funzione simbolica, e poiché il simbolo individuale è certamente più semplice del simbolo collettivo, è permesso concludere che il pensiero precede il linguaggio, e che quest’ultimo si limita a trasformarlo profondamente, aiutandolo a raggiungere nuove forme di equilibrio con una schematizzazione più avanzata e una astrazione più mobile» (Piaget, 1967, p. 95). La coscienza potrebbe essere una forma di equilibrio successiva allo sviluppo del linguaggio? Altrove, Piaget dichiarò più radicalmente: «Con la parola [...] si socializza la vita interiore come tale e, occorre aggiungere, la si costruisce coscientemente nella misura in cui essa comincia ad essere suscettibile di comunicazione» (Piaget, 1967, p. 27).43 Lo psicologo russo Lev S. Vygotskij esplorò a fondo le relazioni tra linguaggio e pensiero nella sua breve ma intensa carriera. A suo parere i processi psichici superiori, tra cui possiamo certamente annoverare la coscienza, non hanno un’origine naturale, bensì sociale o, per meglio dire, storico-culturale. La coscienza per Vygotskij non è una proprietà innata della mente umana, bensì il risultato di un processo ontogenetico in cui il linguaggio gioca un ruolo fondamentale: «In senso lato, nel linguaggio si trova la fonte del comportamento sociale e della coscienza» (Vygotskij, 1925, p. 84). È nota la separazione, proposta da Vygotkij, tra linguaggio interno e linguaggio esterno. Dapprima il linguaggio si svilupperebbe come strumento di coordinamento e comprensione sociale, interpsichico, per poi diventare linguaggio interno, intrapsichico attraverso un processo di internalizzazione. Durante tale processo, il linguaggio interno acquisisce una struttura propria per cui il senso (soggettivo e personale) assume un’importanza centrale rispetto al significato (interpersonale, sociale). Per dirla con Henry Schlinger: «Le nostre descrizioni verbali pubbliche, aperte, cedono il passo ad un livello coperto, privato che solo noi possiamo osservare» (Schlinger, 2008). Per Vygotskij l’azione del linguaggio sulla coscienza, e più in generale sul pensiero, ha effetti molto profondi: «Con l’aiuto del linguaggio, i bambini, diversamente dalle scimmie, acquisiscono la capacità di essere sia i soggetti che gli oggetti del loro proprio comportamento» (Vygotskij, 1987, p. 47). Aleksandr Lurija, allievo di Vygotskij, aveva un’opinione simile. In Language and Cognition (Lurija, 1982) egli sostiene:

«Gli umani differiscono dagli animali grazie all’esistenza del linguaggio – un sistema di codici che designano gli oggetti esterni e le loro relazioni, e aiutano a disporre questi oggetti in certi sistemi o categorie. Questo sistema di codici conduce alla formazione del pensiero astratto e alla formazione della coscienza ‘categoriale’». (traduzione nostra) Nel panorama attuale, non esiste un ampio accordo tra gli psicologi evolutivi nel determinare il periodo in cui la coscienza emerge nel corso dello sviluppo. Vi sono, certo, diverse proposte, tutte supportate da buoni argomenti: alla trentesima settimana di gestazione (Burgess, Tawia, 1996), tra il dodicesimo e il quindicesimo mese dopo la nascita (Perner, Dienes, 2003), alla fine del secondo anno di età (Lewis, 2003).44 Una posizione particolarmente radicale è quella del filosofo Peter Carruthers, secondo il quale bambini minori di quattro anni circa non sono coscienti, nel senso per cui «è altamente improbabile che gli animali o i bambini prelinguistici abbiano la capacità di pensare ai loro stessi atti di pensiero», poiché «il linguaggio non è soltanto un importante mezzo di comunicazione. Esso è, piuttosto, costitutivo di molti dei nostri processi più centrali di pensiero e ragionamento, in particolare di quelli coscienti» (Carruthers, 1996, p. 83, traduzione nostra). Un approccio più cauto è sicuramente quello dello psicologo evolutivo Philip Zelazo, il quale mostra la necessità di distinguere molti livelli di coscienza (e non soltanto due, come illustrato all’inizio di questo capitolo), e ipotizza che il linguaggio sia necessario soltanto per i livelli superiori. Secondo Zelazo è generalmente diffusa la convinzione che i bambini siano essenzialmente coscienti tanto quanto gli adulti, e che le drammatiche differenze tra neonati e infanti, e tra bambini e adolescenti, riflettano soltanto differenze nei contenuti della coscienza ma non nella natura della coscienza. Zelazo invece sostiene come sia proprio la natura della coscienza a essere differente, individuando diversi livelli di coscienza all’interno dei quali il linguaggio ricopre progressivamente maggiore importanza: «Linguaggio e pensiero cosciente diventano sempre più intrecciati in una relazione reciproca complessa» (Zelazo, 2007, p. 56, traduzione nostra). Particolare attenzione viene data al processo linguistico di etichettamento, il quale ci consente di prendere le distanze dalla realtà esterna, e di considerarla nel rapporto con una realtà interna: «Il dare un nome alle cose segna una scissione tra nominato e nominatore e, cosa molto importante, dà origine al mondo così come lo conosciamo (rispetto al mondo di cui facciamo esperienza)» (Zelazo, 1999, p. 114, traduzione nostra).

TUTTI JAYNESIANI? Questo primo, frammentario elenco di posizioni scientifico-filosofiche ci è servito per mostrare come l’idea, decisamente radicale, che il linguaggio sia necessario per la coscienza trovi supporto nel lavoro e nelle intuizioni di diversi autori, contemporanei e non. Volendo fornire un quadro sinottico dei contributi proposti, che non può ovviamente offrire un resoconto dettagliato delle singole teorizzazioni, potremmo dire che, secondo le teorie «linguaggio-dipendenti»: 1) il linguaggio si è evoluto come mezzo di comunicazione, ma in seguito ha assunto un ruolo altrettanto importante nell’organizzazione e nella genesi di alcuni processi cognitivi, 2) l’evoluzione della coscienza (perlomeno di quella secondaria, o estesa) è da considerare nel quadro di un’evoluzione culturale piuttosto che biologica: la coscienza è prodotto storico, sociale e linguistico, risultato di un processo di interazione con gli altri e con l’ambiente, 3) i contenuti e la struttura della coscienza possono variare a seconda delle condizioni storico-sociali o più strettamente linguistiche, 4) bambini prelinguistici e animali privi di linguaggio non sono coscienti (oppure, hanno ‘solamente’ una coscienza nucleare o primaria). Molti degli autori fin qui citati sarebbero disposti a sottoscrivere ciscuno dei quattro punti sopraelencati. Tuttavia, è probabile che nessuno di loro condivida la teoria jaynesiana nelle sue peculiarità. Diventa qui importante non solo capire se la coscienza è basata sul linguaggio, ma anche in che modo il linguaggio può dar forma alla coscienza. La definizione della coscienza formulata da Jaynes, e da noi condivisa, è ben compendiata in questo passo: «La coscienza non è una cosa, un deposito o una funzione, ma piuttosto un’operazione. Essa opera per analogia, attraverso la costruzione di un analogo ‘spazio’, con un analogo ‘io’ che è in grado di osservare tale spazio e di muoversi metaforicamente in esso. La coscienza opera su ogni forma di reattività, seleziona da un tutto aspetti pertinenti, che narratizza e concilia tra loro in uno spazio metaforico in cui tali significati possono essere manipolati come cose nello spazio. La mente cosciente è un analogo spaziale del mondo e gli atti mentali sono analoghi di atti corporei». (Jaynes, 1984, pp. 90-91) La coscienza, per Jaynes, non solo è posteriore al linguaggio, ma viene costituita attraverso un processo metaforico in cui le caratteristiche spaziali (paraferenti) dei termini e delle espressioni utilizzate per riferirsi a prodotti di processi mentali inconsci danno luogo a uno spazio mentale funzionale (paraferendo) che interviene a livello della conoscenza umana, modificando i processi cognitivi esistenti e creandone di nuovi, in particolare ciò che chiamiamo pensiero cosciente. Alla luce di tutto ciò, perché la teoria jaynesiana della coscienza possa essere considerata adeguata è necessario dimostrare due premesse fondamentali: 1. la metafora è un importante strumento della conoscenza umana in grado di generare nuovi processi cognitivi e di modificare quelli già esistenti; 2. il linguaggio naturale è in grado di dar forma al pensiero.

Come potremo vedere, queste due premesse generali possono essere vere l’una indipendentemente dall’altra, e indagarne la fondatezza sarà il nostro compito nella restante parte di questo capitolo.

Metafora e conoscenza Solo attraverso l’oblio di quel primitivo mondo metaforico, solo attraverso l’indurirsi e irrigidirsi di un’originaria massa di immagini sgorgante fuori con impetuoso flusso dalla facoltà originaria dell’umana fantasia, solo attraverso la fede invincibile che questo sole, questa finestra, questo tavolo sia una verità in sé, in breve solo attraverso il fatto che l’uomo oblia sé come soggetto e precisamente come soggetto artisticamente creatore, egli vive in concorde tranquillità, sicurezza e coerenza; se egli potesse uscir solo un istante dalle imprigionanti pareti di questa fede, la sua ‘autocoscienza’ sarebbe allora subito dissolta. FRIEDRICH WILHELM NIETZSCHE

ILLUSTRI ANTESIGNANI La riflessione sulla metafora da parte della scienza e della filosofia occidentale è stata per duemila anni fedele alla lezione di Aristotele, che considerava la metafora nella sua funzione retorica ed era restia ad attribuirvi un qualsiasi valore euristico o conoscitivo. Anzi, il fenomeno metaforico era visto soprattutto come un fenomeno di deviazione dalla norma, del quale è consigliabile diffidare se si vuole giungere alla conoscenza della verità; per tale scopo infatti esiste un linguaggio non metaforico che può corrispondere denotativamente agli oggetti del mondo reale. Insomma, qualcosa di adatto a poeti, retori e letterati, e non certo a scienziati o filosofi. Con le scienze cognitive del Novecento,45 invece, la metafora cessò di essere solo un divertissement linguistico e venne assurta alla più, scientificamente, nobile categoria dei processi di pensiero, fino ad arrivare poi, con le scienze cognitive di seconda generazione, a essere considerata addirittura come il solo modo «per percepire e vivere gran parte del mondo» (Lakoff, Johnson, 1998, p. 291). Tuttavia, vorremmo ricordare brevemente come, ben prima che gli scienziati cognitivi facessero la loro comparsa sulla Terra, in qualche caso isolato, la metafora avesse già varcato la soglia letteraria per proporsi come ordinatore più o meno universale dell’umano pensiero. Questo paragrafo riporta in epigrafe la citazione di un giovane Nietzsche, il quale, poco più che ventenne, scriveva: «Noi crediamo di saper qualcosa delle cose stesse, quando parliamo di colori, alberi, neve e fiori e tuttavia non possediamo che metafore delle cose, che non corrispondono per niente alle essenzialità originarie» (Nietzsche, 2006, p. 91). Tutti i concetti per Nietzsche nascono dalla necessità di uguagliare il non uguale. Il filosofo ci porta a considerare come esempio le foglie degli alberi, delle quali non ve n’è una uguale all’altra ma vengono comunque unificate nella categoria foglia.46 Il concetto di foglia è, per Nietzsche, il prodotto della metafora che avvicina ciò che è lontano e che rende simile ciò che è diverso. Ed è con questi concetti, generati attraverso «l’arbitrario lasciar cadere queste diversità individuali», che costruiamo ciò che chiamiamo realtà, e nell’oblio di questa costituzione arbitraria47 ci illudiamo di conoscere la verità: «Che cos’è dunque la verità? Un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di umane relazioni che, elevate poeticamente e retoricamente, tradotte, vennero adornate, e che dopo lunga consuetudine parvero a un popolo fisse, canoniche, vincolanti: le verità sono illusioni delle quali si è dimenticato che siano tali, metafore, che sono divenute consunte e sensibilmente prive di forza, monete, che hanno perduto la loro immagine e ora son considerate come metallo, non più come monete». (Nietzsche, 2006, p. 91; ed. originale 1873) Prima ancora di Nietzsche, anche per Giambattista Vico, negli anni Venti del Settecento, la metafora «luminosa» e «spessa» (nel senso di ‘frequente’), e «ch’allora è vieppiù lodata quando alle cose insensate ella dà senso e passione», aveva un ruolo di primo piano nell’evoluzione del pensiero umano (Vico, 1990; ed. originale 1774). Nel tentativo, da lui stesso definito eroico, di ricostruire i primi passi del genere umano verso la conoscenza e il raziocinio, e di rinvenire la prima scintilla di umanità in quelli che chiama «bestioni goffi e fieri», «tutti stupore e ferocia» (Battistini, 2005), Vico si affida al pensiero metaforico, più

idoneo ai goffi bestioni di quanto lo siano la riflessione, l’analisi e la classificazione di una mente, per così dire, cartesiana. È quindi grazie alla metafora e alla sua capacità di creare connessioni e di rendere simile ciò può sembrare diverso (il nietzscheano ‘lasciar cader le differenze’), che il fragore di un tuono diventa la «voce» di un dio iracondo e che il cielo si anima antropomorficamente dando origine alle religioni. Come ci spiega Andrea Battistini, uno tra i più importanti studiosi di Vico: «I primi uomini furono muti e si esprimevano solo a gesti, poi, quando cominciarono ad articolare chiamarono il cielo Giove. Quindi la metafisica, e poi la filosofia e ogni forma di conoscenza, nacquero in prima istanza da una metafora, da un passaggio da qualcosa di inanimato (un fenomeno naturale) a qualcosa di animato, che venne personalizzato [...] In tutte queste operazioni metaforiche, metonimiche, etimologiche, notiamo una funzione tutt’altro che ornamentale o edonistica, dal momento che per Vico la retorica era piuttosto uno strumento interpretativo, gnoseologico. La metafora è un atto cognitivo, dotato di un valore euristico per un’umanità primitiva nella quale gli uomini erano naturaliter, istintivamente retori, pur senza averne la consapevolezza». (Battistini, 2005, pp. 239-240) Nel processo evolutivo descritto da Vico le parti del corpo e le umane emozioni diventano i metaferenti preferiti su cui costruire nuovi orizzonti di senso. Così il «capo» diventa un «inizio» o un «principio», e possono finalmente «lagrimare gli orni» e «andar in pazzia le viti», per un’origine «umana e corpulentissima» di ogni idea o concetto. Le metafore non sono più soltanto «ingegnosi ritruovati degli scrittori» ma sono, più in generale, frutto di un dispositivo cognitivo (Recchia, Luciani, 2007) che consente: 1) di eguagliare il non uguale, creando i concetti e le categorie con cui costruiamo la realtà, 2) di costruire quella porzione di conoscenza che chiamiamo astratta o puramente concettuale, apparentemente indipendente dal lavoro dei nostri organi di senso, e che riscopriamo invece essere fondata metaforicamente sull’interazione del nostro apparato senso-motorio con l’ambiente fisicocomportamentale. Come scrisse Julian Jaynes: «All’alba dei tempi, il linguaggio e suoi referenti salirono dal concreto all’astratto attraverso i gradini della metafora, o addirittura, potremmo dire, crearono l’astratto sulle basi della metafora». (Jaynes, 1984, p. 73) Le ipotesi di Vico e di un giovane Nietzsche, qui presentate in sintesi, lontane dall’essere mera speculazione filosofica, stanno progressivamente trovando conferme grazie allo sforzo scientifico offertoci da psicologi, filosofi, linguisti e neuroscienziati operanti in quella cornice teorico-metodologica che oggi chiamiamo scienze cognitive di seconda generazione (Casonato, 2003).

UNA RIVOLUZIONE NELLE SCIENZE COGNITIVE Negli ultimi anni il rapporto tra metafora e conoscenza è tornato al centro della discussione scientifica e filosofica grazie al lavoro di studiosi come George Lakoff, Mark Johnson, Gilles Fauconnier, Ronald Langacker e Leonard Talmy, tra i maggiori esponenti della cosiddetta ‘linguistica cognitiva’, disciplina che più di ogni altra ha contribuito al fiorire di una seconda generazione di scienziati cognitivi, insoddisfatti del funzionalismo e del generativismo tipici del cognitivismo classico delineato da Chomsky e dai suoi successori. Le differenze più rilevanti tra queste due generazioni di studiosi sono di carattere prevalentemente epistemologico.48 La linguistica cognitiva si contrappone al generativismo chomskyano soprattutto per la sua posizione antioggettivista. I linguisti cognitivi condividono una posizione epistemologica che si può ascrivere al cosiddetto realismo esperienziale (o interno) contrapposto al realismo metafisico dell’oggettivismo: «Sebbene il Generativismo Oggettivista e il Cognitivismo Antioggettivista condividano sia il riconoscimento della cognizione come base del linguaggio, sia un realismo di base, ovvero l’intento di essere scientificamente oggettivi, l’antioggettivismo rimprovera all’oggettivismo di pretendere di far coincidere questo realismo solo metodologico con un realismo di natura teorica». (Casonato, Cervi, 1998, p. 7) Nella posizione oggettivista, infatti, sulla scia di una tradizione positivista fedele al modello deduttivo della logica formale e basata sulla metafora computazionale mente-computer, i processi cognitivi avvengono attraverso la manipolazione di simboli astratti, privi di significato in quanto tali, e resi significanti in seguito all’associazione con oggetti del ‘mondo reale’ o con altri simboli comunque riconducibili a una tale associazione originale. In questo senso, il pensiero, almeno a livello formale, può essere inteso come una manipolazione algoritmica di simboli che avviene indipendentemente dalla connotazione semantica di questi ultimi. Naturalmente tale posizione presuppone l’esistenza di una realtà esterna separata da chi la percepisce e indipendente dai processi mentali che sottendono la conoscenza umana. Un’implicazione successiva è quella di una verità anch’essa oggettiva e indipendente dalla struttura corporea e cognitiva del soggetto epistemico (Casonato, Cervi, 1998).49 Epistemologicamente dispensati dalla necessità di una conoscenza oggettiva del mondo reale, ma guidati da un realismo interno, metodologico ma non metafisico, i fautori della linguistica cognitiva sostengono che la realtà sia fortemente modellata, se non interamente costruita, dal sistema concettuale derivato dalla propria personale esperienza del mondo, e che quest’ultima sia determinata: 1) in parte dalla struttura biologica condivisa dalla specie Homo sapiens sapiens e 2) in parte da un bagaglio storico-culturale inteso sia come memoria collettiva accumulatasi nel rincorrersi delle generazioni, sia come esperienza pregressa del singolo soggetto epistemico. Ed è in questa teoria della conoscenza che la metafora occupa una posizione di riguardo. Secondo Lakoff e Johnson (1998) i concetti che regolano i nostri pensieri non sono soltanto copie sbiadite e passive degli oggetti del mondo reale, oppure generalizzazioni derivate, per astrazione aristotelica, da caratteristiche concrete della realtà, bensì strutturano le nostre

percezioni, rappresentazioni e interazioni. E questo sistema concettuale, che gioca un ruolo fondamentale nel dar forma alla realtà che viviamo, è largamente metaforico. Se provaste a rileggere questo saggio stando attenti alle espressioni metaforiche potreste rimanere sorpresi dalla frequenza con cui esse appaiono, e possiamo assicurare che questo non è dovuto soltanto alla vena poetica degli autori o alla loro confusione lessicale. La metafora è diffusa ovunque nel linguaggio quotidiano. Si considerino ad esempio queste frasi: 1) Il Natale è ormai vicino. 2) Il nostro matrimonio è a un bivio, ma dovremmo riuscire a venirne fuori. 3) Stiamo perdendo tempo. 4) Sono un uomo di alta caratura morale, non mi abbasserei mai a questo... 5) Ci sono un sacco di idee strane in questo libro! Queste sono tutte metafore largamente utilizzate nel linguaggio comune, che a prima vista possono apparire come espressioni letterali. Nella 1) il tempo è uno spazio, e gli eventi temporali, come il Natale, possono essere vicini o lontani rispetto a noi, proprio come un oggetto può essere vicino o lontano nello spazio; in (2) l’amore è un viaggio in cui ci si può trovare a un bivio e una situazione è un luogo da cui si può uscire o entrare; in 3) il tempo è una sostanza che si può perdere oppure trovare; in (4) buono è su e cattivo è giu; infine, in 5) le idee sono una sostanza o un’entità che può essere quantificata, concretizzata e raccolta come una merce. Secondo Lakoff la metafora è una proprietà del pensiero prima ancora che del linguaggio. Una metafora consiste nel concettualizzare un dominio mentale nei termini di un altro; si tratta di un processo genuinamente cognitivo e distinto da quella che il linguista americano chiama espressione metaforica, cioè la versione letteraria della metafora. La metafora è uno strumento cognitivo essenziale per la comprensione della realtà, soprattutto di quella porzione di realtà che viene spesso definita pensiero astratto. Scrive Lakoff: «Un sistema concettuale è costituito da un immenso sottosistema di metafore concettuali: cartografie che ci consentono di comprendere l’astratto in termini del concreto. Senza tale sistema non saremmo assolutamente in grado di impegnarci nel pensiero astratto, in pensieri sulla causalità, la finalità, l’amore, la morale o sul pensiero stesso». (Lakoff, Johnson, 1998, p. 130) La metafora quindi non è un mero arzigogolo linguistico, ma un vero e proprio strumento cognitivo che non può essere trasceso se non vogliamo perdere una porzione importante del mondo come lo conosciamo: «Le metafore non sono puramente cose da oltrepassare. Infatti uno può vedere al di là di esse solo usando altre metafore. È come se la capacità di comprendere l’esperienza attraverso la metafora fosse un senso, come la vista o l’udito o il tatto, dove le metafore

forniscono i soli modi di percepire e di vivere gran parte del mondo. La metafora è tanto parte del nostro funzionamento quanto il nostro senso del tatto, e altrettanto preziosa». (Lakoff, Johnson, 1998, p. 291) Secondo questi autori, il fatto che i concetti astratti siano largamente metaforici è una delle scoperte più importanti delle scienze cognitive (Lakoff, Johnson, 1999), ma vediamo nel dettaglio come funzionano le metafore concettuali. Consideriamo ancora l’esempio 2): Il nostro matrimonio è a un bivio. Secondo il processo metaforico descritto dalla linguistica cognitiva stiamo utilizzando un dominio sorgente, quello del viaggio, per descrivere un altro dominio, detto bersaglio, quello dell’amore. La sovrapposizione dei due domini innesca un processo di mappatura, in cui viene creato un insieme sistematico di corrispondenze tra le caratteristiche, o elementi, dei domini sorgente e bersaglio. Ecco per esempio la mappatura proposta da Lakoff per la metafora concettuale l’amore è un viaggio: «Gli amanti corrispondono ai viaggiatori; la relazione amorosa corrisponde al veicolo; gli scopi comuni degli amanti corrispondono alle loro destinazioni comuni; le difficoltà della relazione corrispondono agli ostacoli del viaggio». (Lakoff, 1998, p. 51) In questo caso alcune caratteristiche dell’esperienza amorosa vengono comprese nei termini più concreti delle caratteristiche di un viaggio aprendo nuovi orizzonti di senso; un ostacolo sul cammino, ad esempio, lo si può vedere, mentre una difficoltà relazionale la si può vedere solo metaforicamente. In molti casi, però, alcuni elementi del dominio d’arrivo (o bersaglio) provengono in tutto e per tutto dal dominio di partenza, e non sono preesistenti. Prendiamo come esempio la metafora concettuale il tempo è uno spazio, e consideriamo l’espressione metaforica: Hai ancora molti anni davanti a te. Naturalmente nel tempo non abbiamo esperienza né di un «davanti» né di un «dietro».50 Questi elementi del sistema concettuale tempo vengono creati attraverso la mappatura dal sistema concettuale spazio, altrimenti non esisterebbero. Ed è tramite mappature concettuali costituite da metafore come queste che noi «inventiamo» gran parte di ciò che chiamiamo il mondo reale.51

Per riassumere, Lakoff e Johnson sostengono che il sistema concettuale umano sia strutturato attorno a pochi concetti empirici, cioè derivati direttamente dall’esperienza. Tra questi concetti empirici fondamentali possiamo includere le relazioni di orientamento (su/giù, avanti/dietro), ontologiche (entità discrete, entità uniformi), di movimento e azione (mangiare, camminare, ecc.). Tutti gli altri domini concettuali, che non emergono per esperienza diretta attraverso i canali sensoriali, cioè nell’interazione soggetto/mondo esterno, dove il mondo esterno non è concepibile indipendentemente dal soggetto epistemico per le ragioni di cui sopra, ebbene, tutti gli altri concetti devono essere metaforici. Questi concetti sono metaforici in quanto strutturati attraverso un sistema di corrispondenze (mappatura) a partire da domini concettuali più concreti la cui struttura ci è data dall’esperienza sensomotoria. L’argomentazione principale dei due autori per giustificare questa visione nel mondo si trova soprattutto nel linguaggio, e in particolare nel fatto che la metafora è molto frequente nel linguaggio quotidiano, specialmente per parlare di domini concettuali astratti (tempo, idee, umore, causalità, ecc.). Inoltre l’uso delle metafore non è affatto casuale, ma dotato di una notevole coerenza interna (la sistematicità delle relazioni tra il dominio sorgente e il dominio bersaglio), una struttura gerarchica e una certa invarianza nel trasferimento delle strutture dal concreto all’astratto, caratteristiche dovute proprio alla base esperienziale del processo metaforico (Lakoff, 1998). Ma se la struttura linguistica sembra suggerire una relazione metaforica piuttosto sistematica tra concetti astratti e concreti, la realtà psicologica di queste relazioni resta per molti una questione ancora aperta. Le due maggiori critiche avanzate alla linguistica cognitiva, e alla teoria della metafora in particolare (Murphy, 1996, 1997; Caramelli, 2005; Gibbs, 1996), consistono appunto nel fatto che le maggiori evidenze a favore di questa teoria si limitano a pattern linguistici, assumendo implicitamente che le strutture linguistiche debbano necessariamente riflettere le strutture cognitive o di pensiero; inoltre, la teoria così come viene formulata manca di un esplicito modello psicologico che possa essere verificato empiricamente, risultando quasi infalsificabile. Tuttavia, negli ultimi anni sono aumentate le ricerche volte a testare empiricamente gli assunti della linguistica cognitiva, con risultati decisamente incoraggianti per i sostenitori della realtà psicologica del processo metaforico. Evidenze di un’organizzazione metaforica dei processi cognitivi (ad esempio categorizzazione, memoria, riconoscimento, ecc.) ci sono fornite da studi sulla rappresentazione della somiglianza a partire dalle basi spaziali e più concrete della vicinanza/lontananza (Casasanto, 2008); oppure sull’attivazione, a livello neurale, del sistema senso-motorio nell’elaborazione di concetti astratti (Gallese, Lakoff, 2005); o ancora quelli sull’organizzazione spaziale dei ricordi emozionali, secondo la metafora concettuale giù è negativo/su è positivo (Casasanto, Dijkstra, 2010); oppure quelli sulle metafore di movimento (Glenberg, Kaschak, 2002), e molti altri ancora. Tuttavia, le scoperte più importanti emergono forse dallo studio del dominio concettuale tempo. In effetti il tempo sembra essere diventato per i teorici della metafora ciò che il moscerino della frutta è per i genetisti (Casasanto, 2009a), cioè il terreno concettuale ideale per testare le relazioni, sia psicologiche che linguistiche, tra il dominio sorgente e il dominio bersaglio. Dimostrazioni della realtà psicologica della proiezione concettuale dai domini di spazio e movimento al dominio tempo sono forniti da esperimenti psicolinguistici (Boroditsky, 2000, 2001; Torralbo, Santiago, Lupiáñez, 2006), ricerche sulla gestualità

(Casasanto 2008; Núñez, Sweetser, 2006) e test psicofisici che non prevedono l’uso del linguaggio (Casasanto, Boroditsky, 2008; Bottini, Casasanto, 2010). In alcuni di questi studi (Boroditsky, 2000; Casasanto, Boroditsky 2008) si è potuto dimostrare empiricamente che informazioni spaziali (linguistiche e non) sottoposte ai partecipanti non potevano essere ignorate e influenzavano significativamente i loro giudizi di tipo temporale, anche se le informazioni spaziali erano ininfluenti ai fini della prova. Inoltre, il fatto che informazioni di tipo temporale venissero invece facilmente ignorate in caso di ragionamento spaziale, suggerisce una relazione di mappatura asimmetrica (dallo spazio al tempo) così come previsto dalla teoria della metafora. Questi lavori hanno contribuito enormemente alla fortuna della teoria della metafora contemporanea (Lakoff, 1980), sia fornendo una base empirica alla speculazione teorica, sia contribuendo a rendere – a livello teorico – maggiormente dettagliato il funzionamento psicologico che potrebbe essere alla base del processo di mappatura (Boroditsky, 2000; Casasanto 2009a; Evans, 2004). Quanto detto finora sembrerebbe in parte confermare le intuizioni di Giambattista Vico e Julian Jaynes, se non fosse per una caratteristica cruciale. Infatti, se esiste qualcosa che può mettere d’accordo le due generazioni di scienziati cognitivi di cui abbiamo parlato poc’anzi, è proprio l’idea che il linguaggio naturale (il cinese, il francese o il linguaggio italiano dei segni) non può in alcun modo modificare o, addirittura, dare forma al nostro sistema concettuale. Non importa se la mente sia incarnata o disincarnata, analogica o computazionale: in ogni caso, la struttura del linguaggio è il riflesso di strutture concettuali sottostanti, sulle quali non può aver alcun effetto costitutivo, se non marginalmente o in forma tutto sommato trascurabile. Lakoff e Johnson sono piuttosto chiari: «La metafora è in primo luogo una questione di pensiero e azione e solo in modo derivato una questione di linguaggio» (Lakoff, Johnson, 1998, p. 190). Le metafore concettuali si formano sulla base dell’esperienza prelinguistica del funzionamento del nostro sistema senso-motorio in un contesto naturale e socio-culturale, non tramite il processo comunicativo basato sul linguaggio naturale. Detto con un esempio: la struttura spaziale dei nostri concetti temporali deriva dall’esperienza che, se cammino per più tempo, farò anche più strada, oppure che il movimento del sole determina il ritmo notte-giorno, oppure da tutte le rappresentazioni spazializzate del tempo (orologi, calendari, clessidre) che la nostra società ci mette a disposizione. Il fatto che la mamma o la zia ci dica che «Pasqua sta arrivando» o che «il tempo vola», è semplicemente superfluo. Se le cose stessero così, l’ipotesi jaynesiana di un processo metaforico generatore di conoscenza (e di coscienza) sarebbe supportata soltanto a metà. Verrebbe a cadere l’ipotesi secondo cui il linguaggio è necessario per la costruzione di uno spazio mentale metaforico funzionale ai processi cognitivi: infatti, se la natura del processo metaforico fosse empirica e concettuale, anziché linguistica, anche un bonobo o un gatto d’appartamento potrebbero costruirsi uno spazio mentale in cui pensare al tempo, al mondo e a se stessi. Ma le cose stanno davvero così? Le strutture linguistiche, comprese le metafore, sono davvero riflessi sbiaditi di una struttura concettuale più profonda o hanno in realtà una funzione costitutiva significativa? Più semplicemente: può il linguaggio dar forma al pensiero?

Può il linguaggio dar forma al pensiero? IL PRINCIPIO DI RELATIVITÀ LINGUISTICA Nel mondo esistono più di seimila lingue, ognuna diversa dall’altra, spesso drasticamente. Tali differenze possono essere di ordine lessicale, grammaticale, fonologico, sintattico ecc. Ad esempio, per dire «il gatto ha mangiato i pesci» in italiano dobbiamo specificare il tempo verbale (in questo caso, che l’evento è accaduto nel passato), cosa che possiamo invece evitare di fare se parliamo il mandarino o l’indonesiano. In russo, oltre al tempo, il verbo dovrebbe indicare anche se il gatto è maschio o femmina e se ha mangiato tutti i pesciolini, o solo in parte. In turco, si dovrebbe specificare (mediante suffisso verbale) se si è stati testimoni dell’avvenimento o se ci è stato solo raccontato (Boroditsky, 2006). Possono queste stranezze grammaticali influenzare la nostra visione del mondo? Per molti secoli la riflessione sul rapporto linguaggio-pensiero-realtà52 è stata influenzata dal pensiero aristotelico, per cui esisterebbe un evidente parallelismo tra il linguaggio e la realtà ontologica che esso descrive. In breve, secondo questa concezione esiste una sola visione del mondo che possa definirsi ‘vera’ o ‘giusta’, e il linguaggio descrive puntualmente il rapporto logico tra gli elementi della conoscenza e gli oggetti del mondo reale. Per dirla con san Tommaso, veritas est adaequatio rei et intellectus. È nel corso del Settecento, quando entrò in crisi la concezione razionalista secondo la quale il linguaggio riflette il pensiero logico, che cominciò a farsi strada una visione più relativista in cui si faceva riferimento a un non meglio precisato genio delle lingue, concetto di matrice romantica che contribuì a creare i presupposti dell’identificazione linguaggio-nazione tipico del nazionalismo di fine Settecento. Fautori di un tale approccio, e per questo antesignani del relativismo linguistico, furono, tra gli altri, de Condillac, Leibniz e Herder, ma dobbiamo la prima formulazione argomentata di quello che sarebbe stato poi definito come determinismo linguistico al geniale e poliedrico studioso Wilhelm von Humboldt (17671835). Von Humboltdt credeva che la visione del mondo (Weltanschauung) fosse determinata dal linguaggio. La sua posizione era estremamente radicale. In breve, egli considerava il pensiero come l’atto instancabile di separare e ordinare i dati dell’esperienza sensibile, e tale azione di segmentazione era consentita proprio dal linguaggio (un’idea ripresa poi anche da de Saussure).53 A un linguaggio diverso corrisponde una diversa attività di segmentazione e, quindi, una diversa visione del mondo.54 Tuttavia, a parte de Saussure, la linguistica a cavallo tra Otto e Novecento prese ben altra piega, e bisognerà aspettare fino agli anni Venti del secolo scorso perché il rapporto tra linguaggio e pensiero ritorni a essere un tema centrale nel dibattito accademico grazie al lavoro di due studiosi americani: un geniale ingegnere chimico55 con la passione per la linguistica, Benjamin Lee Whorf, e il suo professore di linguistica Edward Sapir. A loro va il merito della famosa ipotesi Sapir-Whorf, anche se la paternità del principio di relativismo linguistico è da ricondurre più che altro al solo Whorf, mentre Sapir ebbe sempre una posizione più moderata al riguardo.56 Quello che segue è forse il passo più citato di Whorf: «Analizziamo la natura secondo linee tracciate dalle nostre lingue. Le categorie e i tipi che isoliamo dal mondo dei fenomeni non vengono scoperti perché colpiscono ogni osservatore; ma, al contrario, il mondo si presenta come un flusso caleidoscopico di impressioni che deve essere organizzato dalle nostre menti, il che vuol dire che deve essere

organizzato in larga misura dal sistema linguistico delle nostre menti. Sezioniamo la natura, la organizziamo in concetti e le diamo determinati significati, in larga misura perché siamo partecipi di un accordo per organizzarla in questo modo, un accordo che vige in tutta la nostra comunità linguistica ed è codificato nelle configurazioni della nostra lingua [...] Siamo così indotti a un nuovo principio di relatività, secondo cui differenti osservatori non sono condotti dagli stessi fatti fisici alla stessa immagine dell’universo, a meno che i loro retroterra linguistici non siano simili, o non possano essere in qualche modo tarati». (Whorf, 1970, pp. 169-170) Per Whorf il linguaggio non è soltanto un mezzo di comunicazione, o uno strumento di riproduzione per esprimere le idee e i concetti che abbiamo in testa; piuttosto «esso stesso dà forma alle idee, è il programma e la guida dell’attività mentale dell’individuo, dell’analisi delle sue impressioni, della sintesi degli oggetti mentali di cui si occupa» (Whorf, 1970, p. 169). È tuttavia inopportuno definire l’ipotesi relativistica di Benjamin Whorf come una teoria radicale dove il pensiero è orwellianamente assimilato al linguaggio e da questo completamente determinato: «Secondo me, l’enorme importanza del linguaggio non può essere intesa nel senso che alle sue spalle non c’è nulla della natura nel senso di ciò che tradizionalmente è stato chiamato ‘mente’ [...] il linguaggio [...] non è che un velo alla superficie di processi più profondi della coscienza, che sono necessari poiché possa aver luogo una comunicazione». (Whorf, 1970, p. 197) Comunque, per quanto profondo o superficiale (e Whorf non è mai stato abbastanza chiaro in questo) il linguaggio resta comunque responsabile di una parte considerevole del nostro armamentario concettuale. Ma quali sono le motivazioni che hanno portato Whorf a credere che il linguaggio possa in qualche modo dar forma al pensiero? Whorf giunse a formulare il principio di relatività in seguito allo studio della lingua hopi, parlata da una popolazione amerindia dell’Arizona. La lingua hopi (e in generale molte lingue amerindie) differisce dalle lingue europee (definite da Whorf lingue SAE, Standard Average European) in molti modi: qui ci concentreremo su alcune caratteristiche che riteniamo centrali. La differenza principale sta in un processo linguistico-concettuale chiamato da Whorf «oggettificazione», che è molto simile alla spazializzazione jaynesiana e al processo metaforico descritto da Lakoff e Johnson: a concetti astratti vengono fornite proprietà e caratteristiche di oggetti concreti, tra le quali caratteristiche spaziali. Un esempio chiaro ci è fornito dal tempo. In italiano applichiamo il plurale e i numeri cardinali sia a raggruppamenti concreti sia a raggruppamenti astratti o, per dirla con Whorf, ad «aggregati spaziali percettibili» e ad «aggregati metaforici»: ad esempio diciamo «dieci uomini», ma possiamo anche dire «dieci giorni». Tuttavia se possiamo avere un’esperienza ‘oggettiva’ di dieci uomini tutti insieme, ad esempio «dieci uomini sulla strada», ciò non è possibile per

‘dieci giorni’: «Noi abbiamo esperienza di un giorno solo, oggi; gli altri nove (o anche tutti e dieci) sono messi insieme dalla memoria o dall’immaginazione. Se ‘dieci giorni’ deve essere considerato un gruppo, deve essere un gruppo ‘immaginario’, costruito mentalmente» (Whorf, 1970, p. 104). Possiamo quindi dire che secondo questa classificazione la nostra lingua confonde due situazioni differenti (aggregati percettibili e metaforici) e prevede un’unica soluzione grammaticale per entrambe. La situazione in hopi, sostiene Whorf, è differente. Gli hopi infatti utilizzano il plurale e il cardinale soltanto per entità che possono formare un aggregato spaziale percettibile. Nella lingua hopi non ci sono plurali immaginari. Eventi «ciclici» che si ripetono, come i giorni o i rintocchi di una campana, sono accompagnati da numeri ordinali. In altre parole, gli hopi non dicono mai «ho aspettato dieci giorni», piuttosto dicono «ho aspettato fino all’undicesimo giorno». La nostra lingua non distingue tra il contare su entità discrete e il contare di per sé, o per unità non percettibili di eventi ciclici. Anzi, in questo modo, anche gli eventi assumono qualità spaziali e possono essere raggruppate, divise o messe una accanto all’altra formando una sequenza di giorni che, ad esempio, possiamo «vedere» tutti insieme in un calendario. Whorf chiama questo processo oggettivazione, un processo del tutto simile sia alla spazializzazione del tempo nella coscienza jaynesiana, sia alla mappatura dal dominio concettuale spazio al dominio concettuale tempo come viene descritta dalla linguistica cognitiva. A differenza di quest’ultima, tuttavia, l’oggettivazione whorfiana è un processo linguistico prima che concettuale, e sono la grammatica e le metafore utilizzate dalla lingua naturale a guidare la mappatura concettuale, non l’esperienza prelinguistica, culturalmente mediata, come sostengono molti linguisti cognitivi. In hopi le fasi temporali o gli eventi non vengono spazializzati come luoghi (al tramonto) o contenitori (in estate); se noi possiamo dire «l’estate è calda», gli hopi invece diranno «fa caldo, quindi è estate»: «Non c’è oggettivazione come una regione, un’estensione, una quantità, della sensazione soggettiva di durata» (Whorf, 1970, pp. 108-109). Ma le ‘stranezze’ della lingua hopi non si limitano solo al tempo in generale, ma anche alla descrizione di fenomeni di durata, intensità e tendenza. Infatti, come sostenuto anche dalla linguistica cognitiva, noi utilizziamo un gran numero di metafore di carattere spaziale, per riferirci a tali fenomeni (ad esempio, esprimiamo la durata con ‘lungo’ e ‘corto’; l’intensità con ‘alto’ e ‘basso’; la tendenza con ‘crescere’ e ‘decrescere’; ecc.), mentre in hopi tutto questo non avviene.57 Secondo Whorf questa strutturazione spaziale di concetti astratti fa parte di uno schema globale di oggettivazione: «spazializzare con l’immaginazione qualità e potenzialità che sono essenzialmente non spaziali (per quel che possono dirci i nostri sensi che percepiscono spazialmente)» (Whorf, 1970, p. 111). Si tratta di uno schema globale di oggettivazione che agisce anche nel formare una teoria della conoscenza e dello spirito: «Ora, quando pensiamo a un certo cespuglio di rose esistente, noi non riteniamo che il nostro pensiero vada veramente a quel cespuglio e interagisca con esso come il raggio di luce di una torcia che lo investa. E allora con che cosa pensiamo che abbia a che fare la nostra consapevolezza quando pensiamo al cespuglio di rose? Probabilmente pensiamo che abbia a che fare con un’immagine mentale, che non è il cespuglio di rose, ma un suo surrogato mentale. Ma perché dovrebbe essere naturale ritenere che il nostro pensiero abbia a che fare con un surrogato e non con il cespuglio di rose vero e proprio?

Probabilmente perché siamo oscuramente consapevoli di portare con noi un intero spazio immaginario, pieno di surrogati mentali [...] Il mondo mentale degli hopi non ha uno spazio immaginario». (Whorf, 1970, p. 166) È molto facile scorgere in queste parole un’eco jaynesiana, e più facile ancora restare affascinati dalla possibilità che possa esistere un’organizzazione mentale così differente dalla nostra da sfuggire a quel conoscitivismo realista che vuole raddoppiati i prodotti delle nostre percezioni, una copia là, nel mondo reale, e una copia qui, nella nostra mente (Ceccato, 1972). Due realtà, quella interna e quella esterna, così diverse ma così, entrambe, familiari, che ci riesce difficile pensarle frutto di un pugno di metafore. Per quanto suggestivo, è difficile fare affidamento su questi dati. Il lavoro di Benjamin Whorf ricopre una notevole importanza in termini storici, e può essere fonte di ispirazione a livello teorico, ma difficilmente può essere considerato alla stregua di una prova empirica, per diverse ragioni. Nessuno sa per certo se Whorf abbia ricavato i suoi dati direttamente da informatori hopi, oppure abbia tratto le sue conclusioni dallo studio di materiale linguistico raccolto da altri (Pinker, 1994; Casasanto, 2008). Inoltre, nel 1983 l’antropologo e linguista Ekkar Malotki pubblicò, dopo anni di ricerche, un volume dal titolo Hopi Time, in cui volle dimostrare, documentando con centinaia di esempi linguistici, che le notizie divulgate da Whorf riguardo al linguaggio temporale degli hopi erano false. Sebbene anche quest’opera non sia esente da critiche, e non colga pienamente la complessità della teoria whorfiana, concentrandosi più sul lessico che sulle strutture grammaticali (Lucy, 1996), esso ha contribuito non poco a screditare il lavoro di Whorf. Comunque sia, anche se tutte queste critiche si rivelassero infondate, resta un altro limite del lavoro di Benjamin Whorf, forse il più grande: le sue conclusioni si basano solo su dati linguistici e su una marginale interpretazione delle tradizioni hopi. Tutte le considerazioni sul relativismo linguistico fondate soltanto su dati linguistici sono inevitabilmente circolari: A: Gli indiani hopi parlano in modo diverso, quindi pensano in modo diverso! B: E come fai a sapere che pensano in modo diverso? A: Be’, perché parlano in modo diverso... Infine, gli scienziati cognitivi, interessati soprattutto a comprendere gli universali della natura umana, cominciarono a diffidare delle tesi relativistiche, dedicandosi piuttosto alla ricerca di una grammatica universale o di un istinto del linguaggio. Quest’ultimo è anche il titolo di un famoso best seller di Steven Pinker in cui l’autore, nel 1994, cercò di chiudere ogni discussione riguardo al rapporto linguaggio-pensiero scrivendo che la teoria whorfiana è semplicemente sbagliata, interamente sbagliata. Tuttavia, di lì a pochi anni, si sarebbe capito che a sbagliarsi era proprio lui.

THE «WHORFIAN EFFECT» Negli ultimi quindici anni abbiamo assistito a un’inaspettata rivalutazione delle idee whorfiane nell’ambito delle scienze cognitive. Non si è ancora giunti a una teoria condivisa riguardo ai cosiddetti «effetti whorfiani», e si è piuttosto restii ad accettare in blocco un principio generale di relatività linguistica così come venne formulato da Whorf. Piuttosto, il lavoro di molti psicologi cognitivi è consistito nel rilevare casi particolari di relativismo linguistico (gli effetti whorfiani, appunto), che falsificavano una visione completamente antirelativista (Pinker, 1994). Cedendo raramente a tentazioni speculative, questo onesto e paziente lavoro di falsificazione di una teoria, ancora oggi dominante, si presenta come uno dei più freschi e attivi filoni delle scienze cognitive contemporanee, e reca con sé il fascino di un’impresa alla quale sembra prematuro porre qualsiasi limite. In questo paragrafo presentiamo differenti linee di ricerca riguardo agli effetti del linguaggio sul modo in cui le persone si rappresentano i colori, lo spazio e il tempo. Colori. La questione se differenze linguistiche nella categorizzazione dei colori possano comportare differenze anche nella percezione dei colori stessi ha una lunga storia, ed è stata per molto tempo uno dei nodi centrali del dibattito sulla relatività linguistica. Tra le lingue europee troviamo circa una decina di termini linguistici che si riferiscono a tonalità diverse di colore. Tuttavia esistono linguaggi che distinguono solo cinque, tre o addirittura due tonalità. È possibile che coloro che parlano queste lingue percepiscano i colori in modo diverso da noi? Brent Berlin e Paul Kay (1969) resero pubblici i risultati di una ricerca destinata a un grande e duraturo successo. Analizzando un ampio campione di lingue, identificarono ben undici colori di base, in seguito definiti «focali», che potevano essere riconosciuti da chiunque, con grande precisione, in una tabella contenente centinaia di tasselli colorati disposti a gradiente (tabella Munsell). Questi colori focali venivano sempre distinti, in test non verbali, indipendentemente dalla lingua parlata dal soggetto e, quindi, dalle categorie lessicali utilizzate per riferirsi ai colori. Ma, cosa ancor più sorprendente, le lingue che non hanno abbastanza termini per coprire l’intera gamma dei colori focali non selezionano i termini di colore a caso, ma seguendo un preciso ordine gerarchico. Così, se una lingua dispone di due termini di colore, questi saranno il bianco e il nero (chiaro e scuro); se ne ha tre saranno il bianco, il nero e il rosso; se ne ha quattro, il bianco, il nero, il rosso e il giallo o il blu, e così via. Sulla scia di questi risultati, Eleonore Rosch e i suoi colleghi (1972) pubblicarono uno studio in cui si dimostrava che i Dani (un popolo della porzione indonesiana della Nuova Guinea) potevano ricordare i colori focali molto meglio di quelli non focali, e svolgevano queste prove mnemoniche in un modo molto simile ai parlanti inglesi, nonostante possedessero solo due termini di colore. Questi risultati furono considerati per molti anni come la prova incontrovertibile di una semantica universale dei colori, basata su costanti percettive e indipendente da ogni lingua naturale. Tuttavia, ciò che sembrava essere una solida verità si scoprì essere soltanto un’ipotesi piuttosto radicale e, nel complesso, errata. Infatti, nel corso degli anni, furono avanzate molte critiche, sia per la metodologia utilizzata sia per l’interpretazione dei risultati ottenuti (Lucy, 1997; Lucy, Shweder, 1979; Ratner, 1989; Saunders, van Brakel, 1997; van Brakel, 1993). La svolta si ebbe nel 2000, quando Roberson e i suoi colleghi pubblicarono una ricerca in cui cercavano di replicare i risultati della Rosch, ma senza riuscirci. In una

serie di esperimenti con parlanti della lingua berinmo (Papua Nuova Guinea), dimostrarono che differenze nei termini di colore sono correlate con la memorizzazione, l’apprendimento e la discriminazione dei colori stessi. I dati della Rosch potevano essere interpretati anche in un’ottica relativista, ed esperimenti complementari confermavano quest’interpretazione alternativa (Roberson, Davies, Davidoff, 2000). Semplificando enormemente l’ingente quantità di dati e analisi condotta dagli autori, possiamo dire che i pattern ottenuti dai berinmo nelle prove non linguistiche di riconoscimento e memorizzazione dei colori avevano una correlazione significativamente più forte con i pattern di classificazione linguistica dei berinmo stessi, piuttosto che con le stesse prove mnemoniche eseguite però dagli inglesi (e, ancor meno, con la classificazione lessicale dei colori nella lingua inglese). Inoltre, contrariamente a quanto sostenuto dalla Rosch, i colori focali non giocavano alcun ruolo nel facilitare il riconoscimento o l’apprendimento di nuove categorie. Ma non c’è bisogno di andare fino in Nuova Guinea per trovare prove a favore dell’intervento del linguaggio sulla percezione dei colori. Un esempio meno esotico, ma altrettanto valido, può essere questo: in russo esistono due termini di colore, goluboy e siniy, traducibili in italiano con «azzurro» e «blu». In inglese, tuttavia, esiste un solo termine per entrambi, blue, e la differenza può essere designata aggiungendo un aggettivo di intensità come light blue o dark blue. Ciò che deve essere chiaro è che in russo (come in italiano) la differenza è «obbligatoria», mentre in inglese è «facoltativa». Jonatan Winawer e i suoi colleghi (2007), hanno dimostrato che i parlanti russo sono molto più veloci a discriminare due colori (gradazioni di «blu») simili, ma appartenenti a due diverse categorie (uno siniy e l’altro goluboy), che due colori simili ma appartenenti alla stesa categoria (entrambi siniy o entrambi goluboy). Dal punto di vista del non addetto ai lavori questa scoperta può sembrare simile a quella della proverbiale «acqua calda», ma il risultato interessante sta nel fatto che i parlanti inglesi risolvevano il test con la stessa velocità in entrambe le condizioni. Per loro non v’era differenza nel distinguere tra un blu e un azzurro o tra due tonalità di azzurro. Per gli inglesi infatti si trattava sempre e solo di «blu», e nessuna categoria linguistica poteva essere d’aiuto al loro occhio. Questi risultati sono in linea con quelli prodotti in altri studi (Özgen, Davies, 2002; Witthoft et al., 2003; Drivonikou et al., 2007; Franklin et al., 2008), ma l’argomento resta comunque al centro di controversie (Lindsey, Brown, 2002; Kay, Regier, 2003; Regier, Kay, Cook, 2005), tra le quali non è facile prendere posizione. Comunque, non ci interessa al momento propendere per una visione più moderata secondo la quale esiste una semantica universale dei termini linguistici, sebbene limitata, e che le categorie lessicali possono però influire nella memorizzazione e discriminazione dei colori (Regier, Kay, Cook, 2005; Kay, Rieger, 2007), o per una più radicale per cui le categorie dei colori sono un prodotto dell’esperienza culturale e linguistica, debolmente predeterminate dall’organizzazione neurale di default (Roberson, Davies, Davidoff, 2000); ci interessa soltanto dimostrare che il linguaggio può avere effetti anche profondi sulla memoria, la percezione e la discriminazione dei colori. Spazio. Sebbene lo stesso Whorf credesse che «la comprensione dello spazio è data dall’esperienza sostanzialmente nella stessa forma, qualunque sia la lingua» (Whorf, 1970, p. 123), gli studi whorfiani sulle relazioni spaziali hanno portato negli ultimi anni a risultati

interessanti, per quanto controversi. Lingue diverse possono descrivere le relazioni spaziali in modo diverso. Ad esempio, noi italiani utilizziamo due morfemi locativi differenti per «la mela è sul tavolo» e «la mela è nel frigorifero», quando gli spagnoli utilizzano il morfema en in entrambe i casi, senza differenziare, almeno a livello linguistico, una relazione di supporto da una di contenimento (Landau, 1996). In olandese esistono addirittura due preposizioni differenti per indicare un supporto verticale o orizzontale, come ad esempio «il quadro è sul tavolo» e «il quadro è sul muro». Esistono altre differenze simili persino in lingue così vicine tra loro come quelle europee (Bowerman, 1996). Tuttavia le cose si fanno più interessanti analizzando lingue molto diverse tra loro. Nel coreano non si marca linguisticamente la differenza tra supporto e contenimento (come nello spagnolo), tuttavia si differenzia tra supporto/contenimento ‘stretto’ o ‘largo’. Infatti, mettere la mela in un cesto richiederà un termine relazionale differente (nehta) da mettere la lettera in una busta (kitta), poiché la mela sta ‘larga’ nella cesta, mentre la lettera sta ‘stretta’ nella busta. Inoltre, mettere una lettera in una busta e mettere un magnete sul frigorifero vogliono entrambi il termine relazionale kitta, poiché in entrambe i casi si tratta di relazioni spaziali ‘strette’ (Boroditsky, 2001). In una serie di esperimenti, McDonough e i suoi colleghi (Choi et al., 1999; McDonough et al., 2003) hanno dimostrato che queste differenze crosslinguistiche corrispondono a un diverso modo di rappresentare le relazioni spaziali in parlanti inglesi e coreani. Infatti, i coreani erano in grado di distinguere diverse relazioni spaziali (ad esempio contenimento largo o stretto) in test non verbali, laddove gli inglesi non percepivano alcuna differenza (o viceversa, a seconda del test). Inoltre, bambini inglesi in età prelinguistica si comportavano diversamente dagli adulti e riuscivano a distinguere relazioni di supporto/contenimento larghe e strette, dimostrando la predisposizione iniziale a un vasto repertorio di relazioni spaziali che viene poi ridotto e modellato dall’uso della lingua. Un’altra importante differenza interlinguistica rispetto alle relazioni spaziali è stata descritta da Levinson (1996, 2003). Mentre in molte lingue (come l’inglese o l’italiano) si fa un largo uso di termini spaziali relativi per riferirsi alla posizione relativa degli oggetti (ad esempio destra/sinistra, davanti/dietro), in altre lingue, come lo Tzeltal, una lingua maya, o il Guugu Yimithirr, una lingua aborigena del Queensland australiano, si utilizzano termini spaziali assoluti, simili ai nostri punti cardinali nord e sud. In Tzeltal e in Guugu Yimithirr non esistono termini equivalenti ai nostri destra/sinistra o davanti/dietro (Levinson, 1996, 2003). Per capirci, l’espressione italiana «il cucchiaio è a destra del piatto» si trasformerebbe, in Tzeltal, in qualcosa di simile a «il cucchiaio è a nord (sud, est o ovest) del piatto». Se mostrate a un parlante Tzeltal un libro illustrato chiedendo di descrivere un’immagine in cui un uomo è dietro a un albero, la descrizione cambierà a seconda dell’orientamento del libro, per cui l’uomo sarà a sud, a nord, ecc. dell’albero; come disse a Levinson uno dei suoi informatori, quando qualcuno ti racconta che cos’ha visto in tv è possibile capire dov’era seduto mentre la guardava (Levinson, 2003, p. 131). Si potrebbe pensare che queste persone non ‘vedano’ il mondo diversamente da noi, e non imparino a orientarsi nel mondo in modo ‘diverso’ da noi, bensì si esprimano solo diversamente e, quando devono parlare, trasformano i dati che hanno appreso in termini relativi (ad esempio destra/sinistra) in un discorso in termini assoluti, poiché sono quelli che la lingua mette loro a disposizione. Ma in numerosi esperimenti che qui è impossibile enumerare (Levinson 1996, 1997, 2003; Majid et al., 2004), utilizzando prove sia linguistiche che non

linguistiche, Steve Levinson ha dimostrato che il sistema di riferimento spaziale usato nel linguaggio indirizza, o addirittura determina, il sistema di riferimento che i suoi parlanti utilizzano nell’interpretazione e nella memorizzazione non linguistica delle relazioni spaziali nella realtà. Alcuni esperimenti escogitati da Levinson consistevano nell’osservare una sequenza di oggetti su un tavolo, voltarsi di centottanta gradi e riconoscere o costruire la stessa sequenza su un altro tavolo. Quando ci si volta di centottanta gradi il sistema di riferimento relativo è rovesciato (la destra diventa la sinistra), ma il sistema assoluto rimane invariato (il nord resta sempre il nord anche dopo il nostro spostamento). In questo modo, a seconda di come il soggetto dispone gli oggetti nella sequenza, si può capire quale sistema di riferimento utilizzi per memorizzare, e quindi riconoscere e riprodurre, la disposizione degli elementi nella realtà. Per esempio, se tre oggetti diversi erano disposti su un tavolo in fila da nord a sud, e dalla sinistra alla destra dell’osservatore, e l’osservatore veniva poi fatto voltare di 180º verso un altro tavolo e gli veniva chiesto di ricostruire esattamente la stessa sequenza con degli oggetti identici ai precedenti, se l’osservatore parlava olandese ridisponeva gli oggetti dalla sua sinistra alla sua destra (ma da sud a nord), se l’osservatore parlava Tzeltal ridisponeva gli oggetti da nord a sud (ma dalla destra alla sinistra). Secondo Levinson, i parlanti Tzeltal vedono e memorizzano il mondo in un modo profondamente diverso dal nostro, almeno per quanto riguarda le relazioni spaziali. Sebbene prove come queste siano state replicate con successo in molte lingue,58 esse sono state oggetto di numerose critiche (Li, Gleitman, 2002; Levinson et al., 2002; Li, Abarbanell, Papafragou, 2005), alcune delle quali non possono essere ignorate.59 Il dibattito è tutt’ora molto aperto. Tempo. Eccoci dunque alla categoria che ha reso famoso Benjamin Whorf e gli indiani hopi. Esistono molti modi per riferirsi al tempo e alla durata. Come abbiamo potuto constatare, molte di queste espressioni temporali sono metaforiche (Lakoff, Johnson, 1998; Lakoff, 1998; Clark, 1973; Traugott, 1978) e molti scienziati cognitivi hanno ormai pochi dubbi sul fatto che le persone attivino automaticamente rappresentazioni spaziali per pensare al tempo (Torralbo et al., 2006; Gevers et al., 2003; Casasanto, Boroditsky, 2008). Sebbene la spazializzazione metaforica del tempo potrebbe essere universale, la mappatura particolare dallo spazio al tempo varia, anche drammaticamente, da una lingua all’altra. Dunque, la domanda che potremmo porci è: i parlanti di una lingua diversa costruiscono diverse rappresentazioni spaziali del tempo? In inglese, come in italiano, possiamo andare con la memoria indietro di qualche giorno, possiamo rimandare più avanti una partenza, pensiamo agli anni che abbiamo lasciato dietro di noi o alla bella serata che abbiamo davanti. Salvo rare eccezioni, descriviamo il tempo che scorre e la catena degli eventi secondo la polarità davanti/dietro, lungo una linea orizzontale. In cinese mandarino, sebbene la metafora spaziale davanti/dietro sia comune (Scott, 1989; Boroditsky, 2001, 2007), si parla spesso del tempo in termini di sopra e sotto. I morfemi locativi shang (su) e xia (giù) sono spesso utilizzati per parlare dell’ordine di eventi, settimane, mesi, giorni ecc. (Boroditsky, 2001, 2007). Gli eventi temporali sono così ‘linguisticamente’ disposti su un asse verticale dove gli eventi che avvengono prima sono ‘su’, mentre quelli che avvengono più tardi sono ‘giù’. La scienziata cognitiva americana di origini russe Lera Borodistsky (Boroditsky, 2001, 2007) ha

condotto alcune ricerche per capire se queste differenze linguistiche di spazializzazione temporale corrispondessero o addirittura causassero differenze cognitive nel pensare il tempo. In uno dei suoi esperimenti, i parlanti mandarino erano più veloci nel giudicare la correttezza di alcune affermazioni temporali (ad esempio, marzo è prima di aprile) se avevano appena visto un’immagine di oggetti disposti in verticale, e più lenti se la frase era preceduta da un’immagine di oggetti posti in orizzontale. Per i parlanti inglesi era vero il contrario. Inoltre, l’effetto ‘verticale’ variava d’intensità nei soggetti bilingue (mandarinoinglese) a seconda dell’età in cui avevano cominciato a parlare l’inglese: coloro che avevano imparato l’inglese fin da piccoli mostravano un effetto verticale ridotto o inesistente. Ma, cosa ancor più sorprendente, parlanti monolingua inglese cui veniva insegnato, in poco meno di un’ora, a parlare del tempo in termini ‘verticali’ in un modo simile al mandarino, come «Monday is above Tuesday» o «Monday is higher than Tuesday»,60 mostravano negli esperimenti successivi un effetto verticale simile a quello dei parlanti mandarino. Questi risultati furono i primi di una serie che confermarono effetti più o meno profondi del linguaggio sul pensiero rispetto alla rappresentazione del tempo secondo metafore spaziali (Núñez, Sweetser, 2006; Boroditsky, Gaby, 2006; Casasanto, 2008). Uno di questi studi (Casasanto, 2008) è di particolare interesse perché, al contrario di quanto spesso accade in questo tipo di ricerche, vengono prese in considerazioni due lingue tutto sommato simili tra loro come l’inglese e il greco. Inoltre, diversamente dagli altri studi fin qui citati, in questo caso si è adottata una metodologia che non utilizza in alcun modo il linguaggio. Ma andiamo per gradi. In italiano (come in inglese e in greco) possiamo parlare della durata utilizzando metafore spaziali in una o tre dimensioni. Possiamo utilizzare metafore che chiameremo di ‘distanza’ («È stata una lunga vacanza») o di ‘quantità’ («Ho bisogno di molto tempo»). In inglese l’uso di metafore di quantità per riferirsi al tempo è molto meno frequente rispetto all’uso di metafore di distanza, mentre in greco è vero il contrario (Casasanto, 2008). Questa asimmetria ha condotto lo scienziato cognitivo Daniel Casasanto a parlare di lingue distance biased, come l’inglese, e lingue amount biased, come, appunto, il greco. Nello stesso studio è stato chiesto ad alcuni soggetti di stimare per quanto tempo alcuni stimoli apparivano sullo schermo di un computer. In un caso gli stimoli erano linee che si allungavano percorrendo diverse distanze, mentre in un’altra versione gli stimoli erano contenitori che si riempivano di un ipotetico liquido in diverse quantità. Sebbene la durata media per ogni distanza o quantità fosse sempre la stessa, i soggetti parlanti inglese erano influenzati dalla lunghezza della linea e stimavano come più durature le linee che percorrevano una distanza maggiore, mentre non erano affatto influenzati, nella stima temporale, dalla quantità di liquido nei contenitori. Per i parlanti greci accadeva l’esatto opposto. In altre parole, i soggetti non solo erano incapaci di ignorare la dimensione spaziale (irrilevante ai fini della prova) mentre stimavano la dimensione temporale; ma, ciò che è ancor più sorprendente, questa modulazione interdimensionale funzionava secondo i pattern metaforici dettati dalla propria lingua madre. Inoltre, come nell’esperimento precedente, soggetti inglesi allenati precedentemente a parlare del tempo in termini di quantità invece che di distanza, e testati successivamente, fornivano risultati statisticamente indistinguibili dai loro colleghi greci.

Abbiamo considerato solo alcune delle aree di ricerca rispetto al rapporto tra linguaggio e pensiero; oltre a quelle già citate, a sostegno dell’ipotesi relativistica troviamo ricerche sulla concettualizzazione della forma e della sostanza,61 genere grammaticale (Boroditsky, Schmidt, Phillips, 2003), numeri (Gordon, 2004; Gelman, Gallistel, 2004), senza dimenticare gli importanti studi di Dan Slobin sul cosiddetto thinking for speaking (Slobin, 1996). Come abbiamo ricordato più volte, la maggior parte di questi studi sono oggetto di critiche più o meno fondate e alcuni studiosi preferiscono proclamarsi prudentemente agnostici riguardo alla validità o meno dell’ipotesi relativista (si veda ad esempio Tommasello, 2003). Tuttavia è interessante notare, soprattutto nel quadro di questo lavoro, che i dubbi e le critiche sono inversamente proporzionali al grado di astrazione: se l’effetto delle categorie linguistiche sull’orientamento spaziale ci lascia con qualche perplessità, abbiamo invece qualche prova in più per quanto riguarda la categorizzazione dei colori,62 e ci sentiamo di avvallare l’ipotesi con una certa sicurezza nel caso del tempo. Con l’astrazione aumenta anche l’uso delle metafore e, ancora una volta, proprio dove la metaforizzazione è massiccia (nella spazializzazione del tempo) il linguaggio sembra avere un ruolo decisivo e spesso sorprendente nel dare forma al pensiero. Per certi versi la metafora sembra essere tornata un potente strumento conoscitivo nelle mani del linguaggio, e non solo uno strumento concettuale la cui versione linguistica è solo uno sbiadito e inerte surrogato. Certo, l’uno non esclude necessariamente l’altro. Ad esempio, possiamo supporre che la mappatura spaziale del dominio concettuale tempo inizi per tutti attraverso metafore concettuali basate sull’esperienza non verbale di scoprire che, se si cammina per più tempo, di solito si copre una distanza maggiore, o che un bidone lasciato sotto la pioggia per alcune ore conterrà più acqua di un bidone che vi è stato solo pochi minuti; solo in seguito metafore linguistiche particolari (o espressioni metaforiche, per dirla con Lakoff e Johnson) possono indirizzare il parlante di una determinata lingua verso metaforizzazioni diverse e peculiari lasciando però intatta la mappatura originale, senza la quale, forse, il linguaggio non avrebbe alcuna speranza di poter influire sui processi cognitivi (Casasanto, 2008). Per ora, questa posizione intermedia è probabilmente la più ragionevole e comporta l’indubbio vantaggio di salvare i proverbiali «capra e cavoli», in attesa di ulteriori ricerche che possano influenzare l’ago della bilancia cognitiva.

Può il linguaggio dare forma alla coscienza? È giunto il momento di tirare le somme e di tornare al problema della coscienza. Nella seconda parte di questo saggio abbiamo cercato di dimostrare che: – la metafora è uno strumento conoscitivo basilare per la costruzione della realtà e, se non tutti, molti concetti astratti hanno una struttura metaforica, altrimenti non potrebbero essere pensati; – la struttura grammaticale (in cui comprendiamo la metafora) del linguaggio naturale può dar forma al pensiero, e persone che parlano una lingua diversa possono avere processi cognitivi diversi. Tale diversità è dovuta soprattutto, o esclusivamente, a pattern linguistici che possono essere ragionevolmente isolati da fattori culturali o ambientali. Inoltre, l’effetto del linguaggio sul pensiero è più pregnante nel caso di concetti astratti e quando è coinvolto l’uso di metafore. Queste sono premesse necessarie alla teoria di Julian Jaynes, che vuole la coscienza basata sul linguaggio e strutturata attraverso la metafora come uno spazio interno funzionale. Ciò non vuol dire che quanto detto possa in qualche modo confermare tale teoria; finora abbiamo parlato di costruzione di domini concettuali astratti e di effetti linguistici su alcuni processi cognitivi che riguardano il tempo, lo spazio e la categorizzazione dei colori. Anche assumendo la definizione di coscienza data da Jaynes, con la sua funzione metaforica spazializzante, non esistono ancora prove empiriche dirette a sostegno della sua ipotesi. Per questo, quanto seguirà sarà alquanto speculativo e deve essere considerato più come la premessa di un auspicabile programma di ricerca che come un insieme di considerazioni di carattere conclusivo. La domanda che ci poniamo è se sia possibile ricondurre a un processo metaforico basato sul linguaggio naturale la formazione di uno spazio mentale funzionale in presenza di un sé responsabile di processi decisionali autogenerati (Jaynes, 1984; Recchia, Luciani, 2007). Sulla struttura metaforica del concetto di mente e quelli a esso associati, molto è stato scritto negli ultimi anni (Lakoff, Johnson, 1998; Lakoff, 1999; Fauconnier, 1994; Mecacci, 2002). Lakoff e Johnson hanno scritto pagine illuminanti dimostrando come una delle metafore alla base del sistema concettuale umano sia la mente è un contenitore (ad esempio: ‘ho qualche cosa in mente’, ‘ho la mente piena di pensieri’), la quale supporta altre metafore strutturali come le idee sono cibo, oppure prodotti, oppure merci.63 Nella visione jaynesiana, queste metafore concettuali condividono tutte il paraferendo «spazio», il quale diventerà lo spazio funzionale della mente. Lakoff si spinge a sostenere che, nella distribuzione gerarchica delle metafore concettuali, dove alcune metafore sono più basilari di altre, lo spazio si rivela fondamentale e che la spazializzazione è costitutiva e necessaria a processi di pensiero che altrimenti non potrebbero avvenire: «Ciò che è ancora più interessante è che questo sistema di metafore sembra dare vita al ragionamento astratto, che sembra proprio basato sul ragionamento relativo allo spazio» (Lakoff, Johnson, 1998, p. 69). Tuttavia, anche se le argomentazioni di carattere linguistico ed epistemologico di Lakoff sono convincenti, non sono sufficienti a dare a questo «spazio della mente» solide fondamenta psicologiche. Lo spazio mentale metaforico è necessario per dar luogo a

processi cognitivi coscienti come l’introspezione, la memoria episodica o i processi immaginativi coscienti, come l’immaginare nella nostra mente un triangolo rosso e farlo ruotare (Jaynes, 1984)? L’idea di una mente come spazio è sicuramente nuova per delle scienze cognitive che per molto tempo hanno cercato di comprendere il substrato mentale, piuttosto cartesianamente, come una res cogitans priva di estensione spaziale. Ciò nonostante, l’idea che il funzionamento mentale possa essere ben descritto in termini di relazioni spaziali, analoghe delle relazioni nello spazio fisico-comportamentale, è stata portata avanti dagli scienziati cognitivi Gilles Fauconnier e Mark Turner nella loro teoria sugli spazi mentali (Fauconnier, 1994, Fauconnier, Turner, 2002). Al contrario delle scienze cognitive classiche, gli approcci costruttivista (von Glasersfeld, 1998; Maturana, 1985), metodologico-operativo (Ceccato, 1972; Accame, 1994; Vaccarino, 2006) e storicoculturale (Vigotskji, 1925, 1934; Mecacci, 2002) potrebbero essere meno restii ad accettare la realtà psicologica di uno spazio mentale funzionale: un teatro cartesiano64 (Dennett, 1991) in cui ognuno è spettatore del proprio flusso di coscienza. Scrive ad esempio Mecacci: «Infatti il teatro cartesiano, nell’ottica costruttivista, è sì un teatro che la cultura occidentale ha inventato a torto o a ragione, ma in ogni caso, una volta inventato, l’ha comunque interiorizzato. La mente umana ha elaborato un concetto di mente come spazio interno e sulla base di questo concetto ha organizzato se stessa, ha fissato regole di funzionamento del pensiero e di sviluppo della coscienza. E noi camminiamo per la strada, viviamo, ci abbandoniamo ai nostri desideri vedendo un palcoscenico interno». (Mecacci, 2002, p. 48) Ma chi è questo spettatore? Dobbiamo rassegnarci a scegliere tra l’avere un homunculus nella nostra testa o il sostenere che l’unità del proprio io (così come il teatro cartesiano) sia il frutto di narrazioni posticce di carattere epifenomenico semplicemente «sbagliate» (Dennett, 1991)? La teoria della metafora e l’epistemologia costruttivista, come abbiamo visto, ci offrono una via alternativa: una realtà basata sulla metafora che ha lo stesso valore di una realtà basata sulla percezione sensoriale, perché la metafora è un senso che non si può trascendere. Dunque Julian Jaynes può teorizzare un Analogo Io che si muove e agisce nello spazio mentale, analogo della persona fisica che si muove e agisce nel mondo fisico comportamentale. Analogo Io che non deve essere confuso con il Sé, il quale è oggetto della coscienza in uno sviluppo successivo. Il Sé può essere buono o cattivo, può avere un passato e un futuro, mentre l’Analogo Io è privo di contenuto, ma sede della volizione e del controllo di sé e del proprio corpo. In un modo molto simile Lakoff (1998) distingue tra un soggetto, luogo di giudizio, volontà ed empatia, e un Sé luogo di proprietà fisiche, di ruoli sociali e azioni che accadono effettivamente nella realtà fisica. Consideriamo espressioni come 1) Sono fuori di me e 2) Ho perduto me stesso. In 1) il Sé è il contenitore del Soggetto, mentre in 2) il Sé è un possesso del Soggetto. Da tutto questo emerge che noi concettualizziamo la singola persona come divisa, e che ragioniamo e parliamo delle relazioni interne a noi in termini di relazioni esterne tra individui.65 Una tale configurazione segnala l’eccessiva semplificazione della divisione cartesiana tra mente e corpo, ma anche

della metafora teatrale di uno-spettacolo-per-uno-spettatore, in favore di una metafora spaziale più complessa costituita da una molteplicità di sé la cui unità e continuità è data dalla vuota funzionalità di un Io analogale. Tuttavia, anche se Lakoff e molti scienziati cognitivi di seconda generazione sarebbero disposti ad ammettere che i sistemi concettuali del sé, dell’agentività e della mente siano largamente metaforici, difficilmente identificherebbero tutto ciò con la coscienza, e su questo rimandiamo il lettore a quanto detto nell’introduzione di questo volume riguardo alla definizione di coscienza, il problema dei qualia e dell’esperienza soggettiva in sé. Ma, questione ben più annosa e attuale di un dibattito che finisce spesso in capricci polisemici, anche se esistono buoni motivi per pensare che i sistemi concettuali che si riferiscono a fenomeni mentali abbiano una struttura metaforica che rimanda a uno ‘spazio della mente’ in cui questi fenomeni hanno luogo, resta ancora da dimostrare che questo spazio mentale metaforico sia necessario perché processi cognitivi da noi definiti coscienti (come, ad esempio, la memoria episodica, l’introspezione o la teoria della mente) possano ‘essere pensati’. In altre parole, perché la teoria della coscienza qui prospettata possa dirsi corretta, è necessario che la spazializzazione metaforica sia condizione necessaria per la costituzione e l’utilizzo di quei processi di pensiero che chiamiamo metacognitivi, cercando di chiarire se il processo metaforico responsabile della creazione di questo spazio mentale operi a livello concettuale prelinguistico o se sia necessario possedere un linguaggio naturale per avere una coscienza. E queste, almeno in parte, sono questioni empiriche verso cui indirizzare le ricerche future. Tuttavia, molto è già stato fatto e da lì sarebbe bene ripartire. L’idea che lo spazio mentale funzionale della coscienza possa essere creato o per lo meno modificato dall’intervento di metafore linguistiche, che solo in seguito divengono concettuali, assume una maggiore plausibilità alla luce degli studi sul relativismo linguistico che abbiamo trattato poc’anzi. Se, come abbiamo potuto notare, gli effetti whorfiani diventano più evidenti nelle porzioni di conoscenza più astratte e che vengono designate nel linguaggio mediante un ampio uso di metafore, il mondo interno della ‘mente’ e delle ‘idee’ è un ottimo candidato. Se questo fosse il caso, allora la coscienza dovrebbe costituirsi per gran parte nel processo comunicativo (Bottini, 2006) e a ben poco servirebbe l’esperienza psicomotoria o più generalmente sensoriale, prelinguistica, senza un linguaggio naturale che accompagni e dia forma a una tale esperienza. Come dice Salvini, «ci vogliono due cervelli in interazione per fare una mente» (Salvini, 2004), e una mente così costruita, una mente cosciente, potrà risultare più o meno differente, non solo a seconda del contesto storico e culturale, ma anche, più semplicemente, a seconda del contesto linguistico. In casi del genere non è facile avere prove, o anche solo indizi, facilmente interpretabili e, anche per questo, c’è chi sostiene che sia impossibile, e non solo improduttivo, creare una separazione netta tra cultura e linguaggio (Everett, 2005). Tuttavia, consci delle difficoltà che si incontreranno strada facendo, le vie per cercare di indagare la plausibilità storica, antropologica e psicologica di una significativa diversità dell’esperienza cosciente nella specie Homo sapiens sapiens e del ruolo costitutivo del linguaggio metaforico sono molteplici. Rimandiamo il lettore al sesto capitolo di questo volume per testimonianze di antropologi che hanno documentato una struttura mentale in qualche modo differente dalla nostra (soprattutto per i nodi centrali dell’agentività e della volontà), ma che raramente sono stati presi sul serio. Una modalità di ricerca è infatti quella, tipica dei moderni studi whorfiani, di

studiare linguaggi che utilizzano un insieme di espressioni metaforiche significativamente diverso dal nostro per riferirsi alla mente e agli atti di pensiero, cercando di comprendere se ciò corrisponde a una significativa differenza nell’utilizzo di processi metacognitivi. Un altro metodo d’indagine consiste in un approccio storico, archeologico e filologico ai processi cognitivi, ma ciò è storicamente estraneo alla psicologia e alle scienze cognitive. Modello di questo ambito di studi è sicuramente il lavoro, qui ampiamente citato, di Julian Jaynes sul processo storico di transizione dalla mente bicamerale alla coscienza. La metodologia utilizzata è quella di mettere in relazione l’analisi di antichi testi scritti o iscrizioni murali con l’interpretazione di reperti archeologici e la ricostruzione delle abitudini di antiche popolazioni, cercando di dedurre che tipo di architettura mentale poteva essere alla base di questi prodotti culturali. In questo tipo di indagine particolare attenzione dovrà essere posta, come fece Jaynes, al linguaggio astratto e all’uso di metafore per designare eventi mentali. Per quanto possa sembrare eccentrico e improbabile, il tentativo jaynesiano non può certo dirsi isolato. In merito alla struttura della coscienza e della mente in generale, nella Grecia omerica conclusioni simili sono state tratte dal famoso classicista Bruno Snell, che nel suo libro La cultura greca e le origini del pensiero europeo sostiene apertamente che l’uomo miceneo non possedeva come noi i concetti di mente, anima o volontà. Scrive Snell: «In Omero l’uomo non si sente ancora promotore della propria decisione. Ciò avverrà solo nella tragedia» (1963, p. 57). Secondo Snell, assistiamo in Omero all’emergenza di una nuova organizzazione mentale in cui «originariamente lo spirito è concepito per analogia con gli organi del corpo e le loro funzioni» (p. 279), attraverso metafore definite dall’autore «necessarie». Non soltanto la sfera spirituale, ma «neppure il pensiero astratto riesce a liberarsi dalle metafore, e continua a muoversi sulle stampelle dell’analogia» (p. 280). Sulla stessa linea di pensiero si situa l’opera di Svembro, studioso del mondo antico particolarmente interessato ai problemi psicologici, che ha ipotizzato una ristrutturazione dell’architettura mentale nell’antica Grecia coincidente con la nascita della tragedia. Scrive Mecacci in proposito: «Svembro ipotizza che la consuetudine dello spettatore a porsi continuamente di fronte a una rappresentazione di pensieri e di emozioni visti ‘scorrere’ sul palcoscenico abbia sicuramente indotto in lui una propensione a rivivere anche a casa lo spettacolo di pensieri e passioni offerto in teatro. Lo spettatore avrebbe sviluppato in questo modo la tendenza a ‘rivedere’ lo spettacolo come proiettato in uno spazio interno, e si sarebbe così sviluppata un’organizzazione mentale atta a riprodurre internamente la dinamica delle rappresentazioni vissute concretamente nell’assistere alla tragedia. Secondo Svembro e altri studiosi dunque secoli di tragedia avrebbero indotto una mentalità nuova nell’affrontare la realtà, come se operasse un occhio interno che osserva e registra la propria vita psichica. Questo modo di porsi dello spettatore-osservatore che ha di fronte un mondo esterno potrebbe aver prodotto importanti conseguenze teoriche sul piano dei rapporti tra fisico e psichico, tra corpo e mente». (Mecacci, 2002, p. 44) E ci sembra quasi superfluo ricordare l’importanza data da Nietzsche alla nascita della tragedia in Grecia. Senza riferimento particolare alla coscienza e alla struttura metaforica,

si possono comunque ricordare lo studio di Milman Parry sulla metrica orale dei poemi omerici, gli studi di Albert B. Lord sulla trasmissione orale di antichi poemi nella ex Iugoslavia, e, per concludere una lista che potrebbe ancora allungarsi (Recchia-Luciani, 2007), basti citare le importanti e controverse ricerche condotte fra il 1931 e il 1932 da Vygotskij e Lurija tra i contadini analfabeti dell’Uzbekistan, sulle modificazioni dei processi cognitivi connesse allo sviluppo storico-sociale.66 Proprio a partire dalla tradizione della psicologia storico-culturale vygotskijana, alla quale abbiamo già accennato all’inizio di questo capitolo, prende le mosse un terzo campo di ricerca che si presenta forse come il più promettente tra quelli appena considerati: la psicologia dello sviluppo. Negli ultimi anni sono state molte le ricerche ispirate alla teoria vygotskijana che hanno cercato di discernere il ruolo del linguaggio nell’acquisizione dei processi psichici che chiamiamo coscienti (Limber, 2006). In particolare è stato studiato il ruolo del linguaggio nell’acquisizione della memoria episodica e autobiografica (Fivush, Nelson, 2004), delle capacità introspettive (Flavell et al., 2000) e della teoria della mente67 (Harris, Rosnay, Pons, 2005; Ruffman, Slade, Crowe, 2002; Garfield et al., 2001; de Villiers, de Villiers, 2000; Astington, Baird, 2005; Antonietti, Liverta Sempio, Marchetti, 2006; Fernyhough, 2008). In nessuno di questi studi, tuttavia, si è cercato di riconoscere se alle metafore linguistiche utilizzate per designare le suddette operazioni mentali corrisponda una struttura concettuale metaforica dai forti connotati spaziali che rende possibile determinati processi cognitivi. Come abbiamo visto, gli strumenti metodologici esistono, così come le teorie. Un programma di ricerca adeguato potrebbe, in un futuro ormai prossimo, rivelarci quanto l’invenzione della coscienza sia frutto del linguaggio che parliamo quotidianamente.

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Coscienza, tra biologia e cultura

Capitolo 5

L’evoluzione della cultura Angelo N.M. Recchia-Luciani Voglio occuparmi di quale importante informazione psichica si trovi nell’oggetto artistico a prescindere da ciò che esso possa ‘rappresentare’. È il fatto di rappresentare che è in sé significativo. GREGORY BATESON, Verso un’ecologia della mente

Premessa e ‘istruzioni’ Questo è un testo difficile. In senso proprio («Che non si può fare senza fatica», prima definizione del Dizionario della lingua italiana di Niccolò Tommaseo), ma anche, per estensione, perché contiene molte cose da sapere. I temi trattati quasi impongono un approccio transdisciplinare: così, queste prime righe contengono una specie di mappa del capitolo, che riassume e dichiara gli intenti dei paragrafi. L’Introduzione riprende il tema del saggio di Jaynes: il problema dell’origine della coscienza in senso evoluzionistico, introducendo il tema delle rappresentazioni del mondo nelle diverse specie, e del loro diverso grado di complessità. In Ma Crick ha letto Jaynes? viene ripresa la definizione di coscienza di Jaynes, proponendo per differenza una definizione di consapevolezza. Il terzo paragrafo, Segni e simboli: la proposta della Modeling System Theory, ruota attorno a uno dei principi generali di questa teoria, secondo cui la comprensione specie-specifica del mondo è indistinguibile dalle forme usate per modellarlo, e offre una soluzione a dispute metodologiche e terminologiche, che permette l’analisi dei sistemi di segni che consentono le diverse rappresentazioni non solo nell’ambito della mente e della cultura, ma più in generale dei sistemi viventi. Questo ci conduce al quarto paragrafo, Segni della vita, che espone il tema delle rappresentazioni che costituiscono la modalità di comprensione del mondo nei primati e negli umani. Il paragrafo si conclude con un riferimento alla necessità ‘neurologica’ di alcune caratteristiche invarianti nei modelli del mondo. Le caratteristiche invarianti e la Permanenza delle proprietà che le caratterizza secondo classi diverse sono oggetto del quinto paragrafo, che ci introduce alla fondamentale domanda del sesto, Cosa sono i qualia? alcuni dei quali, definiti qualia metaforici, strutturano i peculiari segni utilizzati dagli umani, i simboli, in specifiche strutture relazionali (dei modelli) dotati di specifiche possibilità interpretative grazie alla loro ampia variabilità di senso. In questo paragrafo e nel successivo, «Non è la pietra che si trova nell’anima, ma la sua forma», viene riproposta, modificata, l’idea dell’epistemologia genetica secondo cui alcune creature emulano al proprio interno il mondo esterno. Sulla base di questa gerarchia di rappresentazioni, sistemi segnici e modelli del mondo viene proposta una classificazione delle diverse intenzionalità possibili a differenti specie animali, nel paragrafo dedicato a Rappresentazioni, sistemi segnici, intenzionalità. Il paragrafo successivo, che riprende integralmente la citazione jaynesiana sulla funzione operativa della coscienza, considera tale funzione che analogamente esibiscono consapevolezza e inconscio. Il capitolo si conclude con Uso-menzione, obiezione un po’ polemica alla famosa confutazione che Ned Block fece all’intero lavoro di Jaynes.

Introduzione Il filosofo americano Thomas Nagel scrisse nel 1974 un testo poi divenuto celeberrimo, «What Is It Like to Be a Bat?» (Nagel, 1974), tradotto in italiano «Com’è essere un pipistrello?» o, se si preferisce, in una forma meno corretta ma assolutamente testuale, «Cos’è essere come un pipistrello?» Nagel propose l’impossibilità, per le scienze naturali, vincolate a una descrizione in terza persona, di rappresentare i fenomeni mentali, percepiti e vissuti tipicamente in prima persona. Qui si tocca un punto centrale: per qualsiasi descrizione in terza persona (scientifica o meno) è comunque necessaria una specifica capacità logica, verosimilmente impossibile ai pipistrelli. I pipistrelli sono pipistrelli in prima persona. Probabilmente, non sospettano neppure l’esistenza di un processo mentale capace di far loro provare com’è essere come qualcos’altro, né in generale di proporre descrizioni. Figurarsi poi in terza persona... Nagel non si è chiesto semplicemente: «Cosa prova un pipistrello?» La duplice operazione di descrivere e di descriversi si basa infatti sulla capacità di costruire relazioni tra oggetti, con un elevato ordine di astrazione, possibilità riservata ad animali superiori e documentata soprattutto nei primati. Anche in quest’ambito si tratta comunque di un’abilità rara: alle scimmie rhesus (Macaca mulatta) è negata la possibilità di percepire relazioni-tra-relazioni, mancanza che le fa definire ‘paleo-logiche’ in quanto capaci soltanto di un first-order classifying (Thompson, Oden, 2000). Dobbiamo evolutivamente ‘salire’ agli scimpanzé (Pan troglodytes) per poter documentare un second-order classifying, e anche qui esclusivamente dopo un periodo di istruzione. Provare com’è essere come qualcos’altro, o anche soltanto immaginare una relazione che colleghi, sulla base di caratteristiche somiglianti, un oggetto a un altro oggetto, è ciò che ha dato a Homo sapiens sapiens nuove possibilità di costruzione concettuale: in una parola, un differente tipo di comprensione. L’interrogativo di Nagel, profondo ma dal sapore inconfondibilmente filosofico, sembra in qualche modo ‘altro’ rispetto alla sintesi di Theodosius Dobzhansky: «Nulla in biologia ha senso se non alla luce dell’evoluzione». Il contesto che portò per esempio Francis Crick (1994) a porsi altre domande: quale sia la natura generale della coscienza, e quale il vantaggio evolutivo che una specie avrebbe ottenuto sviluppandola. Problemi in attesa di soluzioni, almeno da Darwin in poi. Come accade nell’ambito scientifico, soltanto porre gli ‘interrogativi giusti’ consente di ottenere risposte, ma lo specifico tema della coscienza pone una difficoltà ulteriore. Avere a che fare con il più complesso tra i fenomeni a noi noti propone un tema caro ai primi cibernetici: quello dell’emergenza, nella transizione tra differenti livelli di organizzazione, nell’ambito di sistemi a elevata complessità. Se la coscienza è il più complesso tra gli eventi, conseguenza della comparsa della vita su questo pianeta, la sua comprensione richiede la padronanza di competenze tradizionalmente confinate in ambiti disciplinari differenti, che vanno dalla chimica-fisica, così vicina al livello molecolare, sino alle scienze sociali, passando certamente per la biologia della cellula, le neuroscienze (‘di base’ e cliniche), la psicologia e la psichiatria. Gli ultimi trent’anni di ricerca ci hanno portato alcune sintesi ‘alte’, con lavori che consentono di sperare davvero di riportare la coscienza a divenire concreto oggetto di studio delle scienze naturali. Per citare solo i tributi maggiori, oltre a quello fondativo di Jaynes in psicologia, ricorderemo Deacon tra psicologia e linguistica, Donald, tra psicologia

e antropologia, Edelman, Damasio, Gazzaniga e i neurologi che hanno studiato le demenze frontotemporali tra neuroscienze e clinica neurologica, Matte Blanco sulla molteplicità di stili cognitivi sempre contemporaneamente presenti nel mentale umano e sulla possibilità di descrivere in termini formali logico-matematici lo stile di cognizione dell’inconscio, e i padri della psicologia sociale, dai ‘fondatori’ Vygotskij e Mead, sino a Hermans, con l’enfasi sulla natura intrinsecamente interpersonale, dialogica e ‘collettiva’ della mente e del sé, senza dimenticare quella terra fertile tra filosofia e linguistica, nota come conceptual metaphor theory, che propone un teatro metaforico a quei peculiari attori che sono i nostri peirciani sistemi segnici, nella nostra mente e nel nostro corpo sempre connotati da emozioni che danno loro valore. Infine si approda al terreno ancora vergine della biosemiotica, con Sebeok e Danesi a portare il testimone di campioni della conoscenza come de Saussure e Peirce, Carnap e Frege, J. von Uexküll e von Bertalanffy. All’origine sta un curioso capovolgimento: passare dall’understanding mind (comprendere la mente) al mind understanding (fare attenzione alla comprensione). Focalizzarsi sul processo di comprensione: è possibile studiare la mente a partire dal modo in cui gli umani (e da quello, assai differente, delle altre specie viventi) la usano per capire le cose. Un’impresa che ha già avuto inizio nel Settecento in Italia con il lavoro largamente incompreso di Giambattista Vico, e che negli anni Ottanta del Novecento ha visto nascere, grazie al lavoro di Lakoff e Johnson, la linguistica cognitiva. Comprendere la comprensione, conoscere la conoscenza: sfida suprema e classica della filosofia, ovvero il compito che addirittura ne definisce quella branca che chiamiamo epistemologia. In questa sintesi, i pilastri essenziali si fondano su più di due millenni di lavoro sulla metafora come strumento cognitivo (piuttosto che come mero dispositivo retorico), l’intero edificio concettuale della semiotica e la biologia evoluzionistica. L’integrazione di questi approcci porta a una teoria della conoscenza, a un’epistemologia a fondamento radicalmente biologico ed evoluzionistico, non priva di forti ricadute pratiche, come quelle offerte dal modellamento simbolico di Lawley e Tompkins.68 E alla possibilità inedita di definire lo statuto ontologico dei due ‘oggetti misteriosi’ che costituiscono il fulcro della filosofia della mente allo stato attuale dell’arte: qui proporremo una definizione intorno alla natura dei qualia, e un’ipotesi teorica sul trattamento dei trasferimenti di informazione e sull’attribuzione del significato nella specie umana, ipotesi che dà nuovo significato al meme, quell’unità elementare dell’informazione che più di trent’anni orsono Dawkins designò come l’equivalente, nelle culture umane, del gene in biologia. Geni e memi sono entrambi pattern informazionali, con molte caratteristiche che, a livello macroscopico, ritroviamo nei linguaggi, prima fra tutte quella della duplice dipendenza del significato dal contesto e, soprattutto, dal destinatario del messaggio con un pattern informazionale dotato di senso solo nell’economia globale del sistema: in una continuità – pur con grandi ‘salti’ e differenze – che mostra come la vita, sul pianeta Terra, sia giunta a inventarsi menti e culture.

Ma Crick ha letto Jaynes? Un simbolo linguistico è – in quanto concetto astratto – una parola definita da altre parole. Siamo dunque condannati all’aleatorietà? Certamente sì, ma non per caso o per difetto, bensì per una caratteristica intrinseca dei segni. Nella sintesi di Danesi, «pur nella sua utilità, l’atto del dare una definizione conduce inevitabilmente alla circolarità [...] Questo schema circolare emerge in tutte le definizioni. Esso suggerisce che i segni non possono mai essere compresi in assoluto, ma solo in relazione ad altri segni» (Danesi, 2008, pp. 285286). «Il concetto chiave, sia nella visione di Saussure che in quella di Peirce, è che nessuna singola forma sia portatrice di significato sino a che non entri in collegamento sistematico con altre forme» (p. 292, traduzione mia). La natura dei processi di attribuzione di significato è intrinsecamente dinamica, situata, contestuale, negoziale. Nel più universale dei giochi di società, quello che ci guida nei wittgensteiniani atti linguistici a costruire quotidianamente le storie che realizzano la Storia, compito di grande difficoltà risulta il discriminare coscienza e consapevolezza. Uno sguardo al dizionario confermerà la circolarità danesiana: il De Mauro (2000), definisce coscièn-za come ‘consapevolezza che l’uomo ha di sé e del mondo esterno’, e con-sa-pe-vo-lézza come ‘l’essere consapevole, coscienza’. A questo si aggiunge un’imponente storia polisemica e di varietà nell’uso, che rende i due termini tra i meno suscettibili di disambiguazione. Rimanderò, in questo stesso volume, all’analisi che Jaynes stesso fa degli usi più problematici che il pensiero occidentale ha fatto del termine ‘coscienza’ e dell’equivoca compromissione con i concetti di percezione sensoriale, apprendimento, pensiero, mente, intelletto. Ricorderò piuttosto altri autori, i cui contributi, pur nell’evidente diversità, ci hanno avvicinato a un approccio scientifico: a partire da Cobb (1958), clinico che descrisse il soggetto in veglia e con coscienza integra come consapevole di sé e del suo ambiente, per giungere alla definizione funzionale di coscienza di Ey (1963), funzione generativa dell’organizzazione dell’esperienza sensibile attuale, con un’integrazione temporo-spaziale di consapevolezza della presenza al mondo e la rappresentazione dello spazio vissuto, e un’organizzazione temporale del senso del presente tra passato e futuro. Definizioni complesse e comunque differenti da quelle consensualmente accettate nella prassi clinica neurologica e rianimatoria, che invece hanno definito i parametri che ‘misurano’ l’entità della sua alterazione o del suo danneggiamento: ritmo sonno-veglia, attività motoria volontaria (riduzione sino all’abolizione), analisi del tono muscolare antigravitario (riduzione e cadute cicliche), risposta a stimoli sensori (riduzione sino all’abolizione), modificazioni viscero-vegetative come temperatura, polso, respiro, resistenza elettrica cutanea. È questa la coscienza di cui vogliamo parlare? Forse no... La nostra definizione/disambiguazione passerà per specifiche ‘scelte di campo’, certamente non neutrali ma guidate dal criterio d’uso di questi termini in altri ambiti del sapere e in specifiche tradizioni di conoscenza. Nella speranza che questo costituisca una premessa non solo per la chiarezza del discorso, ma anche per l’inevitabile dialogo transdisciplinare per un simile soggetto di studio. Pietra angolare, la duplice definizione di coscienza di Julian Jaynes:

«La definizione connotativa basilare della coscienza è così un analogo io che narratizza in uno spazio mentale funzionale. La definizione denotativa è, come già era per Cartesio, Locke e Hume, ciò che è suscettibile di introspezione». (Jaynes, 1984, p. 526)69 Questa definizione fa specifico riferimento a determinate funzioni/proprietà: spazializzazione, selezione, analogo ‘io’, metafora ‘me’, concordanza, soppressione e concentrazione. In questo modello, il processo di metaforizzazione genera me e io, costantemente impegnati in una narratizzazione. A questo modello di coscienza, cui aderiamo come a quello più completo e razionale tuttora disponibile, accosteremo quello d’una esplicitazione – per differenza – delle caratteristiche della consapevolezza, definibile come presenza di un oggetto all’interno del dominio sensoriale-percettivo-motorio (e vegetativo, ormonale e immunitario) di un individuo. Consapevolezza e coscienza condividono le funzioni di spazializzazione, selezione e concordanza; spontanea è la tendenza della prima a concentrazione e soppressione anche estreme. Ma analogo ‘io’, metafora ‘me’ e narratizzazione sono costrutti metaforici esclusivi della coscienza propriamente detta. La scelta del termine consapevolezza, per questa «coscienza senza un analogo io che narratizzi in uno spazio mentale», si riferisce esplicitamente all’uso che ne fanno le tradizioni sapienziali, mistiche e meditative, di origine religiosa o laica. Alla ricerca di ciò che lo psicanalista cileno Matte Blanco chiamò modo di essere simmetrico: l’esperienza della non-separatezza. Precipua è in essa una percezione non narratizzata del tempo, la cui sensazione è limitata a un presente vissuto nei limiti del campo percettivo attuale e, rispetto agli specifici oggetti della sensazione, in forme verosimilmente analoghe a quanto è possibile in molte specie animali differenti da quella umana; e la mancanza di una narrazione del sé come agente. Le ragioni che portarono Jaynes (1986) a considerare la coscienza propriamente detta «intimamente connessa alla volizione e alla decisione».70 Nella consapevolezza esiste la percezione di spazio e tempo (con i limiti che abbiamo detto), non la corrispondente concettualizzazione, funzione che qui riserviamo al racconto di un «analogo io che narratizza in uno spazio mentale funzionale». Per ricordare la classica citazione vygotskijana del lavoro di Wolfgang Köhler,71 «Il comportamento di una scimmia, descritto da Köhler, è limitato alla manipolazione da parte dell’animale in un campo visivo direttamente presente». Così è per il tempo e lo spazio della consapevolezza: ‘presenti’ e ‘manipolabili’, non concettualizzati.72 Abbiamo molti esempi di vere e proprie culture animali, ma, nell’assenza sensoriale degli specifici oggetti dell’azione, prive di un sistema di segni idoneo a trasmettere informazioni e significati ai conspecie ‘fisicamente’ assenti, caratterizzate da quello che Konrad Lorenz chiamava l’impossibilità di «accumulo percettibile di sapere sovraindividuale» (Lorenz, 1973). Le culture e la conoscenza animale dipendono dal campo sensoriale, e dall’oggetto co-occorrente. Per dirla con Favareau, nella sintesi di una posizione comune a Sebeok e Deacon, «noi [umani] ‘manipoliamo rappresentazioni’ (e non le cose stesse)». A decifrare le peirciane firstness, secondness e thirdness73 (Favareau, 2008, traduzione e corsivo miei). La conquista della coscienza rispetto alla precedente consapevolezza ha luogo non solo sulla scala della specie (filogenesi), ma anche su quella dello sviluppo personale (ontogenesi),

come sembra suggerire l’apparente capacità infantile di vivere pienamente il presente, accompagnata dalla relativa incapacità al ragionamento su ampie scale temporali, una conquista graduale, come è stato dimostrato sperimentalmente. Giacomo Leopardi nel suo Zibaldone coglie il punto con la fulminea lucidità possibile solo al grande artista: «Passano anni interi senza che noi proviamo un piacer vivo, anzi una sensazione pur momentanea di piacere. Il fanciullo non passa giorno che non ne provi. Qual è la cagione? La scienza in noi, in lui l’ignoranza. Vero è che così viceversa accade del dolore».74 Fenomeni di consapevolezza non cosciente sono tipici di molti animali superiori, e sembrano negli umani necessari alla realizzazione dei cosiddetti ‘stati alterati di coscienza’ come quelli indotti dalle attività che tendono a porre ‘fuori gioco’ l’attività cosciente, come la preghiera, le pratiche meditative, l’esecuzione e la fruizione dell’arte; o da agenti chimici e farmacologici, così come da determinate attività in cui la prassi è prioritaria (come ad esempio sport, ballo, sesso). Questo è uno stato mentale complesso, di cui l’uomo ha esperienza primaria e immediata, e non solo filogeneticamente, ma anche ontogeneticamente: tutti gli umani raggiungono la coscienza e le funzioni asimmetriche che permettono la percezione della separatezza (il senso pieno d’essere un individuo separato dalla realtà che lo circonda) dopo aver vissuto esclusivamente la consapevolezza, la nonseparatezza, il modo di essere simmetrico (tre modi di descrivere un quadro percettivo in cui percettore e oggetto percepito sono una sola cosa). Oppresso dalla coscienza della temporalità l’uomo sembra vivere in una costante nostalgia della consapevolezza, nostalgia che in alcuni umani può divenire il motore principale dell’esistenza. Spesso il sentimento è quello di uno struggente rimpianto del passato, oltre che di una lacerante mancanza. Non si tratta di un qualche distante proto-sé embrionale: e neppure di una misteriosa nostalgia atavica, archetipica e ‘di specie’. È nostalgia della non-separatezza dell’infanzia. Si può chiarire questo concetto con un esempio più letterario che scientifico, più narrativo che argomentativo. Così, rimanderò il lettore al meraviglioso «Canicola», uno dei capitoli del testo più famoso di Konrad Lorenz, L’anello di re Salomone, in cui l’anziano professore racconta la sua personale ricetta per riprendersi dalle fatiche d’un anno accademico, andando a nuotare in compagnia di uno dei suoi cani, insieme al quale perdere completamente la percezione del tempo che passa. Certamente evocando la funzione di qualche speciale sistema di neuroni mirror, tanto speciale da permettergli di scoprire l’etologia... Lorenz imitava i suoi cani? No, ma è probabile sia che provasse – come tanti altri umani – un’autentica empatia nei loro confronti, sia che possedesse una teoria della mente dei propri cani, qualcosa che comunque permetteva forme di reciproca comprensione. Non una completa comprensione, però: nessuno dei suoi cani scrisse mai un saggio.

Segni e simboli: la proposta della modeling system theory Charles Sanders Pierce, fondatore della moderna semiotica interpretativa, individua il segno come «qualcosa che sta a qualcuno per qualcosa sotto qualche aspetto o capacità», con scopi e implicazioni della rappresentazione, connessi al suo carattere selettivo, che esclude e scotomizza elementi rispetto alla globalità dei possibili significati. Il segno sta a qualcuno: se de Saussure focalizza l’oggetto cui il segno si riferisce, Peirce coglie appieno l’importanza dell’interpretante, di colui che dà significato al segno (segno egli stesso, a propria volta!), e per il quale, vedremo, esso non è necessariamente e unicamente convenzionale. Peirce, padre della semiotica, classificò le relazioni tra segni e oggetti. Identificò icone, segni somiglianti agli oggetti che rappresentano; indici, contigui (in termini spaziali, temporali come nella co-occorrenza, o per causa) all’oggetto rappresentato; e simboli, cui è necessaria una legge che regoli l’interpretazione. Il simbolo non è arbitrario in Peirce, ma lo è in Saussure, e, a nostro avviso, la natura stessa del simbolo è costituita dalla sua nativa, originaria arbitrarietà, che viene meno quando il simbolo diviene, da soggetto di significatività personale, oggetto di una significatività socialmente condivisa. De Saussure aveva enfatizzato, dando origine alla semiologia, la relazione (che battezzò significazione) costitutiva del segno linguistico come entità composta da un’unione arbitraria tra un concetto (il significato) e la sua immagine acustica (il significante). L’adesione a due differenti tradizioni, con l’utilizzo di stili di lavoro e addirittura di terminologie partigiane, ha avuto conseguenze piuttosto pesanti per la disciplina che studia la semiosi, addirittura tacciata, per questo, di non essere una scienza. Ed è qui che è intervenuto lo sforzo di chiarificazione oltre che, in qualche misura, di ri-fondazione di Thomas Sebeok e Marcel Danesi (2000), nella convinzione che l’obiettivo fondamentale della semiotica teorica sia la definizione di uno statuto ontologico dei segni, e lo studio delle loro funzioni. Il primo passo della nuova proposizione consiste in una ridenominazione delle componenti fondamentali del segno, in termini del tutto generali definito come la relazione [A sta per B], o, nel rigoroso stile della logica, [A = B]. La parte [A] viene chiamata forma e la parte [B] referente. Il legame delle due componenti, la loro stessa relazione [A = B], produce un modello. Un esame dettagliato di questo essenziale approccio, l’esame approfondito del quale è rinviato alle fonti, va oltre lo scopo di questo capitolo. Nell’approccio biosemiotico definito nella modelling system theory (MST), Danesi descrive quattro strategie di costruzione dei modelli, interdipendenti e fortemente gerarchizzate: le forme singolarizzate sono gli elementi di quelle composite e a propria volta, elementi costitutivi delle forme coesive. La quarta strategia di modellamento coincide con quella tradizionalmente identificata come figurale, e invece definita connettiva in MST, in cui un segno figurale (una metafora, una metonimia eccetera) è un modello che connette un tipo di referente (o dominio referenziale) a un altro. Le forme connettive sono uniche della semiosi umana. Dei quattro principi generali alla base della prospettiva della MST uno appare di particolare rilevanza ai fini del nostro approccio: La comprensione specie-specifica del mondo è indistinguibile dalle forme usate per modellarlo (principio di modellamento). Altrettanto lo sono le conseguenti essenziali implicazioni: per il principio di modellamento la conoscenza e la memoria di qualcosa implica che vi sia assegnata una forma; per il principio di variabilità il

modellamento varia col referente e la funzione del sistema di modellazione; per il principio di interconnessione ogni forma è collegata ad altre (parole a gesti, diagrammi a metafore, ecc.); mentre per il principio strutturalista determinate proprietà strutturali elementari caratterizzano tutte le forme (selezione, combinazione, ecc.).

Segni della vita

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Torniamo a ripeterlo: caratteristica chiave del segno è la sua natura sistematicamente relazionale. Una forma singolarizzata impegnata in una relazione di simulazione della MST è affine all’icona della teoria di Peirce. La forma [A] SIMULA [B], suo referente. In un altro contesto disciplinare, la sistemistica, la branca che si occupa di studio (e progettazione) di sistemi, i modelli vengono classificati in base alle loro relazioni di modello. Queste sono convenzioni usate per rappresentare le proprietà di un sistema. Qui abbiamo corrispondenza iconica, corrispondenza per analogia e rappresentazione simbolica. Nella corrispondenza iconica una proprietà del prototipo è rappresentata dalla stessa proprietà del modello, magari in scala: come nel modellino in scala di una Ferrari rossa. Più piccola dell’originale (le lunghezze sono rappresentate da altre lunghezze), ma sempre rossa. In MST la relazione di simulazione «cerca di cogliere certe proprietà sensoriali del referente attraverso la rassomiglianza, l’imitazione, ecc.» Una forma singolarizzata che deriva da un tentativo di indicare un certo rapporto è conosciuta come indice. Gli indici, a differenza delle icone, non ‘assomigliano’ ai loro referenti, piuttosto indicano o mostrano dove sono in termini relazionali, spaziali o temporali, risultando il processo di modellamento nel porre l’utente di certe forme in relazione a un referente, o diversi referenti in relazione tra loro, come avviene quando utilizziamo parole come qui, lì, sopra, sotto. Una forma singolarizzata che si lega al proprio referente in una relazione culturalmente specifica è naturalmente nota come un simbolo. Nel modellamento composito, referenti complessi (non unitari) si combinano in specifiche forme determinabili (come disegni, narrazioni, teorie, conversazioni ecc.), forme singole assemblabili in una struttura le cui proprietà complessive sono differenti da quelle degli elementi individuali che la compongono. In un modello coesivo, che, come abbiamo detto sopra, è affine a un codice, una griglia organizzativa aggrega referenti e domini referenziali. Infine, nella MST ci si riferisce alle forme connettive come al risultato di forme di ragionamento associativo esclusive degli umani e oggetto di studio della conceptual metaphor theory, l’approccio che ha dato al pensiero metaforico e metonimico la dignità di un dispositivo cognitivo, una varietà di apparato-immagine-del-mondo, non sensoriale – idoneo a trattare metafore o, meglio, tropi. La comprensione specie-specifica del mondo degli umani, indistinguibile dalle forme usate per modellarlo, su un livello logico differente dalle altre che pure gli sono rimaste accessibili. Come sono, gli umani, in grado di comprendere qualcosa facendone esperienza concettuale e linguistica? Aree cerebrali del linguaggio e apparato fonatorio sono elementi necessari, non sufficienti, perché essenziale è la nostra capacità di elaborare simboli (come nel linguaggio dei segni dei sordomuti), piuttosto che quella di produrre suoni. L’uomo, piuttosto che l’animale parlante di Socrate (come un corvo o un pappagallo?), è l’animale simbolico, come ci insegnò Ernst Cassirer.76 Tornando al confronto con la sistemistica, diremo che quando la relazione di modello è un’analogia, una proprietà del prototipo è rappresentata da una differente proprietà del modello; la relazione tra le due proprietà è definita ‘per analogia’. In questo modo si possono rappresentare molte grandezze fisiche: così costruiamo diagrammi e grafici.

Nella rappresentazione simbolica una proprietà del prototipo è rappresentata mediante un simbolo nel modello, e qui la relazione, il modello, è una legge. I simboli costituiscono una semantica, hanno cioè un significato; possono essere sottoposti a regole, cioè a una sintassi, che ne permette la manipolazione (come avviene per lettere o numeri). Questo è il fondamento dell’ampiezza e della libertà della rappresentazione negli umani. Anche la relazione di modello di tipo analogico rientra in questa categoria, poiché si tratta sempre di una ‘legge’, benché di tipo assai semplice: una proporzionalità (diretta o, più raramente, inversa) tra due grandezze, almeno una delle quali direttamente sensoriale. Le analogie differiscono dagli indici. Negli esempi di indici più usati, il fumo indica il fuoco, l’orma l’animale. In un indicatore analogico (ad esempio, quello della quantità di carburante dell’auto) la quantità di carburante è proporzionale alla posizione della lancetta sul quadrante. Nel linguaggio comune diremmo che la lancetta indica la quantità di carburante, ma qui non sussistono le caratteristiche peirciane di contiguità relazionale, spaziale o temporale. Gli indici implicano una diretta dipendenza dal campo sensoriale. Riassumendo: proprietà dell’oggetto = proprietà del modello, nella corrispondenza iconica. Ciò implica una dipendenza dall’oggetto, almeno nella forma di un’immagine mnemonica. Proprietà dell’oggetto = altra proprietà del modello, con relazione per analogia nell’omonima corrispondenza. Proprietà dell’oggetto = simbolo del modello scelto arbitrariamente (co-validato in un contesto sociale) nella rappresentazione simbolica. Modello efficace è quello che seleziona le proprietà essenziali escludendo tutte le altre. Metafore e modelli condividono la funzione rappresentativa: sono (per qualcuno) qualcosa che sta per qualcos’altro, con scopi e implicazioni, assicurati dalla selezione degli attributi.77 Il simbolo permette una distinzione essenziale, una definizione cruciale, quella di linguaggio propriamente detto: come afferma Deacon, non ‘un qualsiasi sistema di comunicazione’, anche quando sia organizzato da una specifica sintassi, ma piuttosto un «sistema di comunicazione basato sul riferimento simbolico (come le parole si riferiscono alle cose) e che prevede regole combinatorie comprendenti un sistema di rappresentazione di relazioni logiche sintetiche tra i simboli stessi. In questo senso, il linguaggio dei sordi, la matematica, i ‘linguaggi’ del calcolatore, una composizione musicale, le cerimonie religiose, i sistemi protocollari, e molti giochi basati su regole si potrebbero definire possessori degli attributi centrali del linguaggio» (Deacon, 2001, p. 22, corsivo mio), qualcosa che altre specie animali non hanno evoluto essendo incapaci «di afferrare come combinazioni di parole si riferiscono alle cose» (p. 23). Deacon, acutissimo interprete moderno delle intuizioni peirciane, insiste molto sulla natura strutturalmente gerarchica del segno, gerarchia in cui a crescere non è semplicemente la complessità, ma anche la diversa modalità con la quale si stabiliscono le relazioni tra forme e referenti: «La competenza per interpretare qualcosa simbolicamente dipende da una precedente competenza a interpretare indicalmente molte altre relazioni subordinate e così via. È un tipo di competenza che emerge e che dipende da una competenza di natura molto differente [...] Come gli indici sono costituiti da relazioni tra icone, così i simboli lo sono da relazioni tra indici (e dunque anche tra icone)» (Deacon, 2001, pp. 56, 61). L’elemento centrale per trasferire associazioni da uno stimolo a un altro simile è ciò che gli psicologi definiscono ‘generalizzazione dello stimolo’, un’operazione percettiva in cui appare ineliminabile una costante «ambiguità sui parametri essenziali dello stimolo che un soggetto impara ad associare con un risultato successivo, desiderato o indesiderato» (p.

62), parametri essenziali che di seguito mostreremo essere caratterizzati da invarianza, in cui essenziale appare l’arbitrarietà nella selezione degli attributi, selezione guidata da scopi e implicazioni. L’aleatorietà della parola e la circolarità delle definizioni assegnano ai sistemi simbolici una potenza combinatoria cui il rigore delle corrispondenze biunivoche nei codici semplicemente non può attingere, poiché qui il rapporto è sistematicamente uno-a-molti e molti-a-uno. Potenza esaltata dalla variabilità nelle operazioni di modellamento che regolano i rapporti tra queste forme e i loro referenti, operazioni che appresso analizzeremo mostrandone le forme coscienti rispetto a quelle tipiche dell’inconscio. Nell’analisi dei famosi esperimenti di Sue Savage-Rumbaugh e Duane Rumbaugh con gli scimpanzé Sherman e Austin, Deacon descrive il passaggio fondamentale ottenuto durante i test: «Gli animali avevano imparato non solo un insieme di associazioni specifiche tra lessigrammi e oggetti o eventi. Avevano anche appreso un insieme di relazioni logiche tra lessigrammi, relazioni di esclusione e di inclusione. Ma, soprattutto, queste relazioni lessigramma-lessigramma avevano formato un sistema completo in cui era definita ogni cooccorrenza permessa o vietata di lessigrammi nella stessa stringa [...] Gli animali hanno scoperto che la relazione tra un lessigramma e un oggetto è funzione della relazione che intercorre con altri lessigrammi, non solo della comparsa correlata di lessigramma e oggetti. È questa l’essenza di una relazione simbolica» (p. 68) alla cui base sta un importantissimo cambiamento di strategie, come suggeriscono Sebeok e Danesi nel loro principio di modellamento, sia di comprensione che di memorizzazione (dato che anche la registrazione delle forme è reticolare e distribuita), perché alla base della potenza combinatoria sta la scelta degli elementi che possono o meno essere combinati, sostituiti, manipolati, a produrre nuovi livelli di corrispondenza definiti dalla linguistica ‘tratti semantici’: ad esempio la presenza, o l’assenza, di una certa proprietà, quale la «solidità» (p. 76). Il superamento della soglia simbolica fa venir meno la necessità dell’ampia occorrenza di relazioni tipica del modello iconico e di quello indicale: il controllo occorrenza/occorrenza di relazioni produce la possibilità di operare congetture categoriali tra poche alternative possibili, come si può dimostrare sperimentalmente dall’ottenimento di specifiche risposte autonomico-vegetative innescate dall’esposizione a un campo semantico (pp. 78-79).78 Edelman ci ha indicato con la sua teoria della selezione dei gruppi neurali (TSGN)79 in che modo un cervello immaturo sembri pre-cablato e disposto per modellarsi rispetto all’umwelt80 con cui è destinato a coevolvere dopo la nascita. I tratti semantici presentano una caratteristica: sono caratteri invarianti. Ed esibiscono la prerogativa primaria alla determinazione di un gruppo neurale, poi soggetto nel cervello a pressioni selettive: pongono «regolari richieste invarianti ai processi neurali» (Deacon, 2001, p. 317). I tratti semantici, come le caratteristiche sensoriali, pongono proprio queste regolari richieste invarianti ai nostri circuiti neurali.

Permanenza delle proprietà A partire dai 4-5 mesi di età, se portiamo via oggetti nascosti da uno schermo alla vista di un bebè umano, assisteremo a tipiche attività di ‘ricerca’ dell’oggetto scomparso, innanzitutto con lo sguardo. Il bimbo cerca un oggetto che è esistente in quanto permanente. La permanenza dell’oggetto è connessa alla permanenza nel tempo delle sue proprietà: se – dietro lo schermo – a una palla rossa si sostituisce una palla gialla, il bebè cerca una palla rossa scomparsa, e non sembra credere che la palla rossa sia divenuta gialla. Nell’ambito dell’esperienza sensoriale il concetto di realtà è inequivocabilmente connesso a quello di permanenza delle proprietà, in forme del tutto analoghe a quelle – peraltro intuitive – definite dalla ‘permanenza delle proprietà’ della fisica classica. È il venir meno dell’applicabilità di questo criterio nell’ambito della meccanica quantistica a porre in discussione il concetto stesso di ‘esistenza del reale’ nella nuova fisica del ventesimo secolo. Nell’ambito dell’esperienza simbolico-linguistica che connota pensiero e linguaggio umani, invece, il concetto di realtà è inequivocabilmente associato alla validazione intersoggettiva.81 L’esperienza fenomenologica e introspettiva delle proprietà non basta più: non abbiamo mezzi diretti per dimostrare se quel che percepiamo e pensiamo sia percepito e pensato dai nostri interlocutori. Possiamo supporlo, anzi dobbiamo: la comunicazione è possibile esclusivamente a chi disponga di una ‘teoria della mente’ altrui, condivida cioè con i propri interlocutori il presupposto secondo il quale stati mentali analoghi sono reciprocamente presenti (Baron-Cohen, 1985, 1988). La percezione sensoriale è focalizzata sulle caratteristiche invarianti, le essenze aristoteliche, i qualia sensoriali: coincidenti con quelle proprietà oggettuali costanti che i preference-for-noveltytask82 hanno dimostrato essere percepite sin dalla prima infanzia (a poche settimane di vita). Essa si è evoluta per garantire la massima aderenza possibile alle caratteristiche fattuali degli oggetti della percezione per la loro animal relevance (nell’accezione di Smith Churchland, 2007). Non così per la nostra comprensione, estesa a oggetti astratti, e permessa agli umani da una nuova classe di dispositivi cognitivi. Questa, focalizzata sulla congruenza tra domini qualitativi propri del rapporto tra prototipo (l’oggetto o la funzione usata come ‘esempio’) e oggetto (ciò che deve essere compreso, delucidato), è tipicamente frutto di interpretazione: e, in quanto tale, suscettibile di posizionamenti e riposizionamenti variabili, definizioni e ridefinizioni, negoziazioni; contestualizzazioni, decontestualizzazioni e ricontestualizzazioni, del tutto indipendenti da qualunque variazione delle caratteristiche dell’oggetto che si pretende di comprendere e spiegare. I sistemi sensoriali dimostrano una formidabile capacità di aderire alle caratteristiche costanti degli oggetti della percezione. Continuiamo a vedere ciliegie rosse al mattino e di notte, con o senza gli occhiali da sole, sotto il sole o alla luce di una lampada al neon. Il vasto ambito di ricerca sulle illusioni sensoriali ci descrive come dotati di un intero armamentario di apparati-immagine-del-mondo modellati su quelle caratteristiche del nostro ambiente naturale (quello dei cacciatori-raccoglitori, al tempo della definizione del nostro attuale patrimonio genico nel Pleistocene) che si sono soprattutto mostrate utili alla nostra sopravvivenza e al nostro successo riproduttivo: apparati che usualmente generano informazioni le cui variazioni riflettono cambiamenti nell’oggetto percepito, non nel soggetto che percepisce. Un’interpretazione, al contrario, può certamente mutare del tutto indipendentemente dall’oggetto cui si riferisce.

L’oggettività è sempre frutto di una validazione intersoggettiva: del concordare su una caratteristica qualitativa. Obiettivo facile da raggiungere nel caso di una percezione sensoriale: quanto mai difficile nel caso di un’interpretazione. Non abbiamo rapporti col mondo, ma con la nostra percezione di esso: non è una presunta natura astratta dell’evento a suscitare emozione, a essere dotata di un connotato valoriale, ma la valutazione che una persona fa dell’evento rispetto al proprio benessere. La necessità di spiegare queste differenti tipologie di conoscenza ci porta a proporre una classificazione di quella parte della fenomenologia psichica raggiungibile solo con l’autoanalisi. Distingueremo infatti qualia sensoriali da qualia metaforici, entrambi connotati dall’essere aspetti fenomenici della nostra vita mentale accessibili introspettivamente, entrambi oggettivati nel contesto intersoggettivo del riconoscimento e del confronto con l’altro. Anche se in modi assai diversi: nel primo caso più facilmente condivisibili, per il loro ancorarsi a esperienze primarie, verosimilmente con il supporto di molteplici sistemi di neuroni mirror;83 nel secondo, con classi di fenomeni più sfuggenti, condivisibili con maggiore difficoltà ed esclusivamente nel confronto con l’alterità. La realtà dei qualia metaforici trova il suo luogo di esistenza, insistiamo, solo attraverso il severo banco di prova della comprensione e della memoria nella validazione intersoggettiva. Accenneremo solo agli ulteriori possibili sviluppi inerenti la possibilità di definire qualia emozionali, e che la stessa percezione di una invarianza del sé possa essere un’esperienza di questo tipo.

Cosa sono i qualia? Sin dalla sua introduzione da parte di Clarence I. Lewis (1929), che lo usò riferendovisi come a un «carattere qualitativo riconoscibile del dato», il termine quale (plurale qualia), nel suo riferirsi a stati mentali con caratteristiche di soggettività altamente distinte, o agli aspetti fenomenici della nostra vita mentale accessibili solo introspettivamente, ha costituito una sorta di sfida per le filosofie della mente. Nella sua definizione più semplice il termine si riferisce a qualità o sensazioni considerate in forma isolata dai loro effetti sul comportamento. Il concetto è apparso, nella sua irriducibilità, simile all’atomo indivisibile, che costituì il limite invalicabile, l’hic sunt leones della fisica. Queste qualità irriducibili sono infatti monadi (elementi ultimi e indivisibili della realtà) degli stati mentali: esperienze percettive o sensazioni corporee per taluni autori, ma anche stati mentali conseguenti a emozioni, sentimenti, umori, per altri. Esempi classici di qualia soggettivi e accessibili solo introspettivamente sono per la vista la ‘rossità’ (di rose rosse e semafori), per l’olfatto il profumo (magari delle stesse rose), per il gusto le sensazioni primarie di salato, dolce, amaro o acido, e così di seguito. Tradizionalmente, dunque, sono considerati specifiche proprietà delle esperienze sensoriali. Soggettività e accesso esclusivamente introspettivo paiono caratteristiche insuperabili, se non attraverso una teoria della mente: la comprensione dell’altro avviene in relazione al riconoscimento – in lui – di stati mentali analoghi ai nostri: a quelli del soggetto conoscente. Se, assaggiando una pietanza, sapremo intenderci coi nostri vicini di tavola sul fatto che ‘è oggettivamente insipida’, sarà per una forma (sociale!) di validazione intersoggettiva, impossibile se non nella presupposizione che i nostri conspecie dispongano di disposizioni del pensiero assimilabili alle nostre. I qualia cui qui ci riferiamo costituiscono domini di cui l’evoluzione ci ha dotato, come di strumenti particolarmente idonei all’adattamento della nostra specie negli (e insieme a) specifici ambienti ecologici della vita su questo pianeta. Si tratta di qualia sensoriali. Gli organi di senso si sono sviluppati in biologia per la selezione di particolari trasduttori, in grado di generare nei rispettivi organismi ‘modelli sensoriali’ adattativi, ovvero selezionati in base alla loro possibilità di migliorare la fitness della specie.84 In un contesto affatto diverso, quello della linguistica cognitiva, Lakoff e Johnson (1980) fanno esplicito riferimento alla metafora come a un ‘senso’: come a un organo di senso vero e proprio. Si tratta di una metafora, ma di una metafora di straordinaria potenza e adeguatezza. In un paragrafo precedente abbiamo definito in dettaglio le caratteristiche della coscienza e quelle della consapevolezza: sulla base di questa distinzione appare possibile individuare gli organi di senso, e i cosiddetti ‘canali sensoriali’, come i mezzi che permettono la consapevolezza, attraverso qualia il cui dominio è sensoriale. Negli umani, intere nuove classi di stati mentali hanno, similmente ai qualia, realtà soggettiva e accesso esclusivamente introspettivo, almeno sino alla fase (comune ai classici qualia qui definiti sensoriali) della validazione intersoggettiva permessa dalla teoria della mente. Questi stati mentali sono innanzitutto quei concetti che Lakoff e Johnson definiscono metafore di orientamento (derivate dal nostro orientamento nello spazio per gli effetti della gravità sul nostro corpo) e quelli definiti metafore ontologiche o fisiche (derivate dall’esperienza dell’interazione con oggetti fisici, sostanze ed entità). Entrambe costituiscono la base per le metafore strutturali (in cui un concetto è metaforicamente strutturato nei termini di un altro). In tutti i casi,

concetti impossibili senza postulare la necessità dimostrata psicologicamente di un dispositivo (un chomskyiano device)85 idoneo a trattare tropi (trasformazioni, trasferimenti di significato) e a configurare rappresentazioni: un modulo in grado di permettere l’elaborazione cognitiva di qualcosa nei termini di qualcos’altro. La ‘settità’ dei sette peccati capitali o delle sette meraviglie del mondo è un concetto spiegabile a chi non disponga delle strutture mentali idonee a percepirlo? Anche se ripete la parola ‘sette’, il vostro pappagallo può comprenderla? Abbiamo già definito per comodità questo un quale metaforico (Recchia-Luciani, 2007), benché si possano definire qualia non sensoriali di tipo e classe differente, ognuno caratteristico di uno specifico tipo di ‘emulatore di realtà’. Nella MST, una classe di modelli. I qualia sensoriali sono sempre connotati sul piano valoriale: è essenziale del loro essere ‘dispositivi biologici primari per la sopravvivenza’. Ed è qui che recitano il loro ruolo i marcatori somatici di Damasio (1995), che devono evolutivamente esser venuti prima di qualunque consapevolezza. Un’emozione – nell’accezione data a questo termine da Antonio Damasio – ha spesso il suo senso: bello, brutto e così via (Damasio, 1995). Ma non sempre – in senso stretto – il suo significato nel senso linguistico di questo termine. Damasio ha dedicato pagine a questa importante differenziazione nel suo Emozione e coscienza (Damasio, 2000) definendo specificamente le emozioni come risposte osservabili pubblicamente, e i sentimenti come esperienze mentali private. Soprattutto, ha dimostrato il ruolo essenziale dell’emozione per la sopravvivenza, e quindi il suo immediato e assoluto valore adattativo, oltre che la sua imprescindibile presenza già in animali lontani dalla complessità evolutiva d’un primate. L’emozione sostenuta da qualia sensoriali è – in assenza di coscienza – priva di significato propriamente (linguisticamente!) espresso, ma possiede un connotato di valore riccamente significante perché del tutto somatico, carnale, corporeo, e necessario per l’‘esistenza in vita’, soprattutto per stati ‘minacciosi’. Dunque, accuratamente codificato nel nostro corredo genico, per garantire un’elevata costante stabilità dei comportamenti derivati. Il puzzo di putrefazione è invariabilmente negativo. Il qualia sensoriale ‘puro’ ha già una valenza ‘basica’, definita sul piano della cognizione biologica. Nell’uomo, dotato di consapevolezza e coscienza, il qualia sensoriale è necessario per attribuire significato e valore al qualia metaforico che sulla sua base si costituisce. I qualia metaforici sono infatti dotati di un connotato di valore complesso, il differenziale semantico.86 Esso ha una duplice origine: il valore, come in molti processi decisionali, può essergli fornito dai marcatori somatici, e con ciò avere la stessa origine ‘carnale’, corporea, fisiologica, intrinsecamente e fortemente emotiva. Esso è però, come lo stesso nome suggerisce, inerentemente semantico, dunque dotato di significato propriamente detto, significato situato, legato al contesto, o appreso per trasmissione da un ‘datore di tradizione’ (di origine familiare, culturale, nell’ambito del gruppo dei pari, ecc.). È il differenziale semantico (o senso, connotazione, estensione) a rendere il concetto di quale metaforico più complesso di quello espresso da Platone nella sua celebre dottrina delle idee, già duemilacinquecento anni fa. Quelle idee, infatti, già erano oggetti immutabili nel mondo delle forme, accessibili per mezzo della sola ragione. In generale, possiamo affermare che il significato è sempre a un livello ‘meta’: ovvero, viene determinato nelle solite modalità negoziali, situate e contestuali dal sistema che ne fa uso. Oltre la connotazione differenziale, a livello semantico, dei qualia metaforici, ritroviamo

questo tema a tutti i livelli di organizzazione del vivente. Il ‘significato’ di una proteina può essere tranquillamente rintracciato a livello della cellula (ovviamente soprattutto se si tratta di organismi unicellulari!) nell’ambito della sua biocenosi,87 ma spesso a livello dell’organo che la cellula va a comporre, o del sistema di cui l’organo fa parte, o dell’organismo nella sua totalità, o del gruppo sociale... provate a immaginare il ‘significato’ dell’adrenalina. Poi, immaginate cosa ‘significhi’ la scarica adrenalinica innescata ad esempio in uno stadio già ‘caldo’ da un rigore negato... o, ad esempio, in un individuo singolo. Singolo? Qual è il ‘significato’ di una scarica adrenalinica innescata nel ‘solo’ presidente degli Stati Uniti d’America88 In ambito biologico ed evolutivo l’attribuzione di nuovi significati, ad esempio esito dei cambiamenti contestuali o di una rinegoziazione, in termini saussuriani il processo di risignificazione ha come esito un exattamento.89 La nostra coscienza ecologica ha proposto il riciclaggio dei rifiuti all’ordine del giorno solo da qualche decennio. Il riciclaggio di ‘rifiuti’, di ‘effetti collaterali’, di direzioni di sviluppo impreviste e all’inizio letteralmente ‘insensate’ sono la materia prima e il processo principe della biologia. Da quando la vita ha fatto la comparsa su questo pianeta. Lo stesso autore che ha introdotto il concetto di marcatore somatico sembra voler ‘allargare’ la sua definizione a quella che qui riservo al differenziale semantico: quando si interroga sull’origine dei marcatori somatici, la sua risposta è: negli individui, per giustapposizione di ‘stati corporei’ – forniti da marcatori somatici – a immagini mentali (e a parole, concetti astratti... aggiungo io) «probabilmente creata nel nostro cervello durante il processo di istruzione e socializzazione» (Damasio, 1995, p. 250). Anche Damasio ci dice che (almeno in gran parte) la nostra ragione ha origine sociale; e lascia la porta ampiamente aperta agli apporti (e alle interpretazioni) individuali. La duplice origine del connotato di valore del quale metaforico ha un notevole parallelismo con la duplice possibile origine delle memorie negli umani: di tipo emotivo, spesso traumatico, a insorgenza ‘immediata’ e inconsce ab origine; o di tipo appreso, spessissimo con la mediazione dell’esercizio e della ripetizione. È l’inserzione del significato nel complesso terreno dei vissuti corporei che rende il valore attribuito ai qualia metaforici così riccamente variabile: dotato di senso, connotazione, estensione. Affermare che un dispositivo metaforico sia necessario per lo sviluppo di una comprensione esplicita significa infatti proporlo come elemento basilare per lo sviluppo del linguaggio: e qui vygotskijanamente facciamo riferimento a una duplice funzione del linguaggio, da una parte in grado di costruire un modello del mondo, dall’altra di comunicarlo. Ma se il quale metaforico appare suscettibile di divenire la base per la comprensione e la comunicazione, scompaiono le quattro famose proprietà che Daniel Dennett trovò comunemente ascritte ai qualia nei dibattiti di filosofia della mente (Dennett, 1988, 1993, 1994). Verrebbero infatti meno l’ineffabilità (che si definisce appunto come indescrivibilità verbale, indicibilità, inesprimibilità); l’essere intrinseco ai fenomeni (dunque per definizione privo di proprietà relazionali); l’essere un’esperienza del tutto privata. Rendere condivisibile questa esperienza richiede infatti un’analogia (rosso come un semaforo) o una descrizione (una radiazione elettromagnetica di lunghezza d’onda pari a 700 nm). Due atti possibili esattamente quando si sia nella disponibilità di due tipologie di segno: indici e simboli; ma, anche, due soluzioni del tutto incapaci di ‘rendere’ la diretta percezione del rosso, ad esempio, a qualcuno cieco dalla nascita. Argomento, quest’ultimo, alla base della

quarta proprietà: l’essere dei qualia direttamente o immediatamente accessibili alla coscienza. Sosteniamo, à la Edelman, una definizione di qualia completamente biologica, funzionale, basata rigorosamente su una storia evolutiva. I qualia non sono elementi accidentali: né sono parti di una rappresentazione, se non quando siano metaforici. Le percezioni sincretiche-sintetiche infantili precedono ogni approccio analitico. Un bambino percepisce dapprima l’oggetto ‘palla’ nella sua totalità, accomunando tra le sue proprietà anche il nome che la identifica, con la conseguenza che oggetti con nomi simili tenderanno a essere considerati oggetti in qualche modo ‘parenti’, senza porsi neppure il problema della ‘classe di oggetti palla’, quello della ‘sfericità come proprietà costante’, quello della ‘rossità in quanto proprietà degli oggetti rossi’ che può essere considerata una proprietà costante indipendentemente dagli oggetti che la esibiscono. Analogamente, sul piano evolutivo, almeno ontogenetico, i ‘qualia’ e la costanza delle loro proprietà non sono ingredienti base, ma piuttosto conquiste percettive tardive. Non riesco a trovare un esempio più efficace di quello fornito nel suo meraviglioso «disegnare con la parte destra del cervello» da Betty Edwards, che non è una neurofisiologa, ma un’incredibile insegnante di disegno. Il concetto di fondo del suo corso è che dobbiamo recuperare una capacità percettiva della realtà visuale «diretta», non interpretativa. Gli studi classici su pazienti con cervello diviso90 indicano esattamente questo: il cervello destro ‘copia’ ed ‘esegue’, più o meno esattamente quello che vede, non quello che ‘pensa dovrebbe esserci’ o che una certa interpretazione suggerisce (molti e classici ormai i lavori di Gazzaniga su questo), e secondo la Edwards ciò è alla base di un’importante qualità del disegno infantile: la cosiddetta ‘prospettiva naturale’. All’inizio, non sappiamo niente di prospettiva (qualcosa che in pittura è conquista rinascimentale, in Occidente, un’abitudine e una metodologia di visione acquisite culturalmente, come testimonia tutta la pittura precedente), ma produciamo ‘spontaneamente’, benché non perfettamente, disegni che pongono gli oggetti (sul piano bidimensionale del foglio) in prospettiva. Poi, perdiamo questa capacità: secondo la Edwards questo coincide con la capacità del bambino di individuare alcuni ‘simboli’: in questa fase le automobili cominciano ad avere dei tondini che rappresentano le ruote, le persone hanno un tondino al posto della testa e così di seguito. Ebbene, la conquista delle capacità analitiche oltrepassa la percezione sincretica, permettendo appunto una percezione di costanza delle proprietà. All’inizio il disegno è prospettico perché non sembra ci sia ancora la percezione, successiva, di quel che non cambia mai proprio con il cambiamento prospettico, con la mutazione del punto di vista: se si cambia prospettiva o punto di vista, effettivamente la sola cosa che non cambia di una ruota è esattamente questa: è sempre rotonda. Dapprima mettiamo sul foglio quel che gli occhi vedono: poi, improvvisamente, disegniamo ‘idee platoniche’. Così, comincio a disegnare il ‘quale rotondità’ che come in una sineddoche ‘sta per la ruota’ in qualunque posizione io la guardi o essa si ponga rispetto a me. Come forse avrebbe pensato Ceccato (1972), che da una parte metteva le colline e dall’altra il connotato valoriale ed emotivo dell’osservatore, da una parte ci sono gli oggetti e dall’altro la capacità di individuare le proprietà, una conquista non banale, che non ha luogo per tutti allo stesso modo. Il profano non osserva i quadri come un critico d’arte, non sente musica come un musicista, come ha dimostrato la fMRI91 e certamente non gusta il vino come un sommelier.

«Non è la pietra che si trova nell’anima, ma la sua forma»

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È grazie a queste capacità analitiche che la nostra introspezione consente di dirigerci verso l’obiettivo di un’emozione pura, priva di oggetto: ciò che classicamente in psichiatria distingue l’angoscia dalla paura; quello che la psicoanalisi, recentemente con il sostegno delle neuroscienze, ha sostenuto avere luogo nelle esperienze emotive prenatali; quanto l’utilizzazione di sostanze farmacologicamente attive ha dimostrato di poter evocare, in una forma dimostrabile e ripetibile non solo sul piano dei resoconti personali, ma anche attraverso le neuroimmagini che dimostrano l’attivazione funzionale di nuclei cerebrali profondi, esperienza tanto classica da avere oramai raggiunto i canali della divulgazione (Levy, Servan-Schreiber, 1998). In tutti i casi, ci sembra di poter affermare la possibilità che in tutte queste tipologie di esperienza sia quella emotiva la proprietà invariante a occupare il centro della scena. E anche qui ritroviamo «caratteri qualitativi riconoscibili del dato», che il dato sia di tipo sensoriale o di tipo metaforico; anche qui ci ritroviamo di fronte a uno stato mentale con caratteristiche di soggettività altamente distinte o, se si preferisce, di fronte a importanti aspetti fenomenici della nostra vita mentale accessibili solo introspettivamente. Ciò che abbiamo di fronte è un quale emozionale. Al termine, che in inglese è da tradurre come emotional quale, viene riservata l’accezione di Damasio, che in Emozione e coscienza ha dedicato pagine a questa importante differenziazione, definendo specificamente le emozioni come risposte osservabili pubblicamente, e i sentimenti come esperienze mentali private: «Escludo dall’emozione la percezione di tutti i cambiamenti che costituiscono la risposta emotiva: riserbo il termine sentimento all’esperienza di tali cambiamenti» (1995, p. 202); «Non è possibile osservare un sentimento in un’altra persona, benché sia possibile osservare un sentimento in noi stessi quando, in quanto esseri coscienti, percepiamo i nostri stati emozionali» (2000, p. 59). I sentimenti sono dunque qualia metaforici, perché – per Damasio – necessitano dell’ippocampo come struttura neurale e della coscienza come funzione psichica. Sono qualia in quanto stati mentali soggettivi: non li osserviamo negli altri, possiamo farlo in noi. Ma se un’emozione si fa sentimento quando la coscienza ce la racconta, quando riusciamo a comprenderla, il solo dominio sensoriale non è più sufficiente a render conto dei suoi elementi costituenti. E la coscienza utilizza qualia metaforici come materiale grezzo per la costruzione dei suoi racconti, delle sue narrazioni. Del tutto diverso è lo status ontologico del quale emozionale, inteso, si ribadisce, come qualità emozionale ad accesso introspettivo distinta dall’oggetto che l’ha evocata. Oltre questo passo, abbiamo la possibilità di rivolgere la nostra attenzione verso noi stessi: verso cioè le stupefacenti e mirabili capacità percettive e di comprensione del soggetto stesso della percezione. Possiamo dirigerci verso un’attività cosciente che potremmo dire quintessenziale: un’autentica consapevolezza autoriflessiva. Ponendo il nostro analogo io di fronte alla metafora me. Introducendo anche qui una complessa operazione psichica: la costruzione di un’illusione percettiva, evidentemente vantaggiosa in termini evolutivi come appare dimostrabile in termini matematici attraverso il concetto di fitness (il successo demografico che costituisce la dimensione obiettiva della sopravvivenza e del successo riproduttivo), circa il continuum e l’unicità che caratterizzerebbero il nostro sé, due proprietà quasi ovvie nell’ambito

dell’esperienza fenomenologica che ciascuno ha di sé medesimo, eppure pressoché insostenibili sul piano della pura biologia. Non vi è alcuna continuità o unicità in nessuna delle molecole complesse che ci compongono, né tanto meno in alcuno degli atomi che compongono quelle. Eppure, la nostra biologia sembra averci dotato di un sé qualico, l’agente responsabile di quelle complesse concatenazioni causali che chiamiamo le nostre azioni: arbitrariamente, ma vantaggiosamente (dal punto di vista evolutivo) percepito come unico e costante. Concatenazioni causali anche queste rivelatesi un importantissimo apparato-immagine-delmondo, quello che ha reso Homo sapiens sapiens l’attuale primatista nella gara per la nicchia cognitiva. Un apparato-immagine-del-mondo di grandiosa e quasi paurosa potenza, ma non privo di limiti. Percepire, ricostruire una catena di cause, e dunque cogliere un evento è precipuo compito della nostra capacità di comprensione umana, che in questo testo viene pensata come possibile in virtù del dispositivo metaforico. Lo statuto ontologico dei qualia sta tutto nell’essere elementi costruttivi del mondo degli umani, che – abbiamo detto – non vivono in una qualche astratta e oggettiva ‘realtà’, ma all’interno dell’universo sensopercettivo e di possibilità motorie generato dal proprio cervello. Elementi come colori, odori e suoni si sono rivelati particolarmente idonei a incrementare la fitness delle specie che hanno selezionato trasduttori, sistemi sensoriali e mappe cerebrali idonee a percepirli, usandoli come elementi costitutivi del proprio universo. La loro esistenza è intrinsecamente soggettiva, poiché non esistono se non nell’interazione tra mondo e percettore. Essendo l’origine dei qualia intrinsecamente biologica, naturale e funzionale, con Edelman diremo che non esiste nulla di simile a speciali qualia dalle proprietà non funzionali. Quel che sosteniamo è che negli ominidi è emersa, in particolare nella specie Homo, in forma compiuta nei moderni eredi di Cromagnon, una nuova categoria di dispositivi ‘sensoriali’; che la sua peculiarità consiste nella capacità di rappresentare qualcosa nei termini di qualcos’altro; che la genesi di tale dispositivo è – di nuovo – interamente biologica, naturale e funzionale, al pari di quanto affermiamo per i normali ‘sensi’; e che questa specifica capacità rappresentativa ha – del tutto analogamente a quanto avviene per gli elementi qualitativi dell’esperienza sensoriale – il proprio luogo d’esistenza primaria nella soggettività accessibile introspettivamente, e il proprio luogo di validazione e oggettivazione nell’ambito del contesto intersoggettivo del riconoscimento e del confronto con l’altro, attraverso le funzioni identificate in psicologia e neuroscienze come teoria della mente. L’aspirazione di questo impianto concettuale a proporsi come teoria della conoscenza biologicamente fondata riposa anche su questo classico – classico per la filosofia, forse non ancora per le neuroscienze – sorpasso degli ideali positivisti di scientificità come oggettività. Ma torniamo ai qualia intesi come frutto di un procedimento analitico, parenti delle ‘idee’platoniche, figlie della ragione. È il dispositivo metaforico che ha permesso la costruzione di quei modelli formali che oggi talora identifichiamo con la realtà oggettiva, o con il cosiddetto mondo fisico. Nei contesti in cui questa possibilità sembra ancora praticabile, il suo persistere deve molto a due fattori: l’avvento di meccanismi di validazione delle ipotesi esplicative, in primis dei paradigmi sperimentali che hanno connotato l’avvento del pensiero; e la possibilità, in alcuni campi specifici, di costruire schemi a elevatissima razionalità locale, intendendo con questa formula la costruzione di

un modello deterministico lineare93 in cui sono massimizzate sia le caratteristiche di congruenza interna alla teoria, sia quelle di congruenza tra teoria e prassi (Sperber, 1996; Brown, Metz, Campione, 1996). Se teorie e fatti ci interessano per quel che possiamo farci, massimo sarà l’interesse per quelle teorie che contengano possibilità predittive. Lo studio di una correlazione sistematica, la sua dimostrazione, non sono infatti un processo esplicativo, ma permettono una predizione, purché queste evenienze coincidano con regolarità. Molte conoscenze (ad esempio sugli effetti desiderabili o collaterali dei farmaci) che utilizziamo in medicina si basano esclusivamente sulla dimostrazione statistica di una correlazione, in assenza di un vero modello esplicativo. A nostro parere, è stata questa capacità predittiva, insieme alla ‘garanzia qualitativa’ data dalla scientificità, a garantire l’enorme successo, la grande popolarità con cui ancora oggi il ‘buonsenso’ premia questo schema di spiegazione. Ma non possiamo cadere in questa trappola logica: così come i nostri sensi costruiscono il nostro mondo, quel particolare senso che è la metafora, e quella sua specifica e potentissima applicazione che sono i simboli numerici insieme a quelle particolari forme di semantica che costituiscono le matematiche, letteralmente costruiscono il mondo fisico: al pari di colori e suoni, anche questo un oggetto non esistente se non nell’interazione tra mondo e percettore: qualcosa di non sempre utilizzabile come pietra di paragone, realtà ultima con cui confrontarsi. Thomas Nagel, nel suo celeberrimo «What is it like to be a bat?»94 sostenne che nessuna quantità di informazione «fisica» potesse dirci «com’è essere un pipistrello». È vero: per farlo, dovremmo avere un corpo da pipistrello e (paradossalmente, impossibilmente!) una coscienza umana. Sosterremo, però, che poiché l’uomo, in virtù del dispositivo metaforico, è stato in grado di costruire un modello fisico degli ultrasuoni, di costruire fisicamente trasduttori in grado di ‘percepirli’, del tutto indipendentemente dalla propria incapacità di percepire gli ultrasuoni direttamente (cioè di essere biologicamente equipaggiato con i relativi sistemi di percezione), e di costruire un sistema di mappatura in grado di ‘tradurre’ gli ultrasuoni in mappe visive a due o tre dimensioni, per le quali al contrario disponiamo di un perfetto equipaggiamento biologico, possiamo immaginare di’provare quel che prova’ un pipistrello. Nell’Idea pericolosa di Darwin Daniel Dennett propose la metafora della «torre di generazione e verifica», una struttura immaginaria in cui ogni piano è occupato da creature a diversi stadi evolutivi. Il primo stadio è quello delle «creature darwiniane» che evolvono per selezione, con comportamenti definiti da geni. Poi le «creature skinneriane», suscettibili di condizionamento operante. A queste seguono le «creature popperiane», le prime a esibire al proprio «interno» una qualche forma di «emulazione della realtà». Dennett cita Popper: l’emulazione «in caso di errore, consente alle nostre ipotesi di morire al nostro posto». Le creature «popperiane» emulano al proprio interno il mondo esterno. È un passo successivo alla «costruzione della realtà» di tutte le ipotesi costruzioniste del cervello (l’«apparato immagine del mondo» di Donald Campbell: il mondo dei serpenti fatto di odori, quello dei pipistrelli di echi, il nostro... soprattutto di altri umani). Nel considerare strutture sociali, oltrepassa sia il coordinamento comportamentale che l’enazione delle unità di III ordine della classificazione di Maturana e Varela, definendone specifiche varianti.95

Gradi diversi di emulazione costruiscono modelli di differente complessità del mondo esterno. Con potenzialità distinte, e diseguali caratteristiche adattative, innanzitutto sul piano delle scale temporali. Sappiamo in biologia che i ‘comportamenti lenti’ richiesti ai vegetali implicano trattamento di informazione, ma senza alcuna necessità di introdurre complessità e costi energetici tipici di un sistema nervoso, essenziale invece agli animali, il cui ambiente ‘cambia’ (e la cui posizione rispetto all’ambiente cambia, in co-evoluzione) con un ritmo superiore di interi ordini di grandezza. La disponibilità di diverse tipologie di ‘emulatori di realtà’ configura salti evolutivi di estrema significatività, in grado di generare, dalla comparsa della coscienza in poi, nuove tipologie di sviluppo: come postularono gli epistemologi evoluzionisti (Campbell, Lorenz, lo stesso Popper) e alcuni genetisti (Cavalli-Sforza, 2004), forme nuove, strutturate su nuovi replicatori, che Dawkins battezzò «memi». Sino al sé autocosciente. La genesi di strutture cerebrali atte a generare e manipolare metafore costituisce, come abbiamo posto in altra sede, un (forse il) passaggio fondamentale nella storia naturale della specie umana. Al cuore della semiotica, più che lo studio dei segni, sta quello del processo stesso della semiosi (Deacon, 1999; Recchia-Luciani 2009), ed è qui la ‘promessa di salvezza’ offerta dalla memetica. Che consiste nell’individuazione dei pattern ripetitivi, che permettono l’individuazione di ciò che genera senso, in sistemi strutturati secondo un ordine stratificato, a partire dalla biologia per arrivare poi alla psicologia, degli individui e dei gruppi, sino allo studio dei comportamenti che regolano le società, l’economia, gli ecosistemi globali che interessano il pianeta nella sua totalità. Qui ci si riferisce senza equivoci a un modello di ordinamento nell’organizzazione del reale che l’approccio sistemistico ha introdotto nell’ambito scientifico a partire dal secolo scorso, innanzitutto grazie a Herbert Simon (1962), che con Dobzahnsky (1937, 1941) e la sua gerarchia genealogica ha rinnovato profondamente il pensiero darwiniano ‘riordinando’ i rapporti tra informazione e trasferimento materiale ed energetico nell’ambito del vivente, per approdare, con Eldredge, celebre autore (con Gould) della teoria degli equilibri punteggiati, a una gerarchia ecologica (indicata anche come economica) che riporta i processi che governano la storia evolutiva della vita nel loro alveo naturale: la storia della Terra. Una teoria della gerarchia in analogia alla quale si sviluppano i livelli di apprendimento di Gregory Bateson, apprendimento che Baldwin, col suo celebre effetto, un secolo fa ha dimostrato poter guidare i processi evolutivi. Ciò che accomuna le scienze dure che si occupano delle cose, e quelle morbide, storiche, che si occupano dei processi è esattamente questo: l’individuazione di pattern invarianti, di quelle che a lungo abbiamo chiamato le leggi immutabili della natura. Come nascono i segni? Come cominciamo a superare l’ambito delle relazioni di primo ordine (quelle tra oggetto e segno) per percepire prima, manipolare poi le relazioni-di-relazioni? Le scimmie percepiscono somiglianze e differenze oggettuali; gli scimpanzé sanno produrre associazioni indicative di secondo ordine ma – come nei bambini – solo dopo un periodo di addestramento all’uso di simboli, il cui ruolo non deve in alcun modo essere sottovalutato. Come spessissimo avviene e come è stato formalizzato negli studi sull’effetto Baldwin, un pattern genico difficilmente può essere considerato più che una sorta di ‘disposizione’; oltre agli effetti di regolazione epigenetica, comportamento e apprendimento può mutare drasticamente il risultato dello sviluppo: la realizzazione del fenotipo, anche se non modificano direttamente, è ciò che viene copiato e trasmesso attraverso le generazioni.

È dalla interazione del fenotipo con l’ambiente che dipende la fitness: è l’ambiente il giudice ultimo del grado di adattamento, ciò che alla fine decide della capacità di sopravvivere e riprodursi. Se questo non basta a resuscitare né gli esempi né la lettera di Lamarck, non può non ricordarne lo spirito: i mutamenti dell’organismo precedono quelli nel suo codice genetico, e se l’assetto assunto dal primo si mantiene stabile (per molte generazioni!) eventi accidentali possono rendere fissi i secondi. Nella classificazione di Deacon (2001), se l’icona implica tipicamente una classificazione di primo ordine, gli indici sono costituiti da relazioni tra icone, il che li rende re-appresentazioni indirette; i simboli sono costituiti da relazioni tra indici, a renderli re-appresentazioni doppiamente indirette. I preference-for-novelty tasks dimostrano che bambini e scimpanzé percepiscono la somiglianza nelle relazioni, ma non sono in grado di manipolarla, e anche questa capacità percettiva, non coltivata, resta sterile. Deacon sottolinea l’importanza di questi elementi, ricordando anche (similmente a Michael Tomasello) la rilevanza dei fenomeni di condivisione dell’attenzione e della intenzionalità.

Rappresentazioni, sistemi segnici, intenzionalità Bronckart (1996), con Anscombe, von Wright, Ricoeur e Habermas, ricorda una distinzione importante fra evento e azione, distinzione originariamente introdotta da Anscombe. Nel riferirsi all’intervento umano nel mondo, egli definisce l’intenzionalità come rappresentazione proattiva che guida l’azione, quest’ultima a sua volta definita come sequenza organizzata di eventi ascrivibili a un agente. È una definizione che trascende largamente quella di processo orientato verso un fine, riproposta variamente da Tommaso D’Aquino a Husserl a Brentano fino ad Ach; ben diversa sia da quella piagetiana (l’intenzionalità infantile è espressa dalla coordinazione tra mezzi e fini, caratterizzazione che richiama quella tradizionale) che da quella bruneriana (un’attivazione generale che dimostra un’intenzionalità diffusa è, per Bruner, precedente alla capacità di individuare mezzi e fini: il bambino ha una rappresentazione proattiva, ma non i mezzi per realizzarla; li ‘apprende’ osservando gli adulti nella prassi). Quello che rende di particolare interesse questa definizione non è soltanto la sua chiarezza, ma – in primo luogo – il suo aderire a un modello dell’interazione tra componenti sensoriali e motorie del sistema nervoso centrale che, proposto circa un ventennio fa, oggi è divenuto dominante. In questo modello le parti sensoriali e motorie presentano una complessa e completa intersezione delle loro funzioni: da un lato l’attività degli organi di senso (di più di una o talora addirittura di tutte le modalità sensoriali contemporaneamente) è impossibile senza complesse attività motorie di ‘esplorazione mirata’ dell’ambiente, perché la maggioranza dei trasduttori e soprattutto dei sistemi neurali di percezione noti in biologia risponde alle variazioni piuttosto che a stati stazionari; dall’altra, una delle funzioni essenziali alla corretta esecuzione di un atto motorio è la previsione dei risultati sensoriali dell’atto stesso, prima che questo venga compiuto (Wolpert et al., 1995, 1998): senza questa funzione, risultano infatti impossibili a) la compensazione del feedback sensoriale, inevitabilmente ritardato, b) la cancellazione degli effetti sensoriali dovuti al movimento stesso, e soprattutto c) la pianificazione degli atti motori successivi. Quello costituito dagli ormai famosi forward models (modelli proiettivo-anticipatori) è un sistema multiplo, integrato, suscettibile di integrazioni con altri sistemi modulari e soprattutto di evoluzione con l’apprendimento; per quello che concerne l’attività sensomotoria, è stato localizzato (grazie a molteplici prove sperimentali con diverse strategie, tra cui la fMRI) in sede cerebellare. Ora, è l’incorporazione dei forward models a rendere credibile l’ipotesi che molteplici sistemi di mirror neurons (neuroni specchio) possano costituire parte del correlato neuronale della «simulazione incarnata» (embodied simulation)96 che il lavoro di autori come Rizzolatti e Gallese propone come meccanismo neurale infrastrutturale a sottendere imitazione, empatia e (con qualche dubbio in più) mentalismo. Quel che anche i più vicini a noi tra gli animali non possono fare è comprendere e interpretare: ciò che è loro negato è l’accesso al significato. È questo che mi fa preferire la definizione di Bronckart a tutte le altre: la sua natura di rappresentazione permette di classificare e rendere sistematica l’esistenza di diversi tipi e forme di intenzionalità, e di specificare meglio quello che intendiamo con il predicato comprendere. La rappresentazione è segno, classificabile come abbiamo già detto in diverse forme: icone, indici e simboli.

Rappresentazioni proattive idonee a guidare l’azione (dunque forme di intenzionalità!) basate su icone e/o indici sono presenti in animali superiori, ma in questi appaiono delimitate dallo specifico campo sensoriale (come avviene per il campo visivo nei primati), talora relative a oggetti particolari (come avviene per le culture animali, che vengono perdute se la cognizione dell’uso di uno strumento ‘salta’ una generazione). In altre parole: le forme di intenzionalità osservabili sono connotate dalla campo- e/o dalla oggettodipendenza. Nei primati superiori è dimostrata la possibilità dell’uso di icone a scopo comunicativo, in nessun caso escogitate dagli animali, che però possono utilizzarle. È questo che ha fatto definire (da Bateson almeno a partire dagli anni Quaranta del secolo scorso!) questi animali iconici, comunque privi di veri e propri sistemi segnici. I dispositivi cognitivi idonei a manipolare sistemi di segni sono di diversa tipologia; al più alto grado sono dispositivi per l’elaborazione di tropi (trasformazioni, trasferimenti di significato), il più noto dei quali è la metafora, nelle forme più complete a noi note, con un’elevata asimmetria di relazione. La comunicazione, ribadiamo, è possibile sempre e soltanto in relazione a una teoria della mente altrui: in rapporto cioè al presupposto secondo il quale stati mentali analoghi ai nostri sono presenti nei nostri interlocutori. È più semplice nel caso di stati mentali connotati da qualia sensoriali, e da segni di tipo iconico o indicale. Negli umani – e solo in essi – la comunicazione prevede anche la possibile condivisione di stati mentali connotati da qualia metaforici, ‘narrazioni’ (sceneggiature?) i cui ‘attori’ sono simboli, che per la loro arbitrarietà non sono necessariamente condivisi. Comprendere gli altri significa dunque indovinarne l’intenzionalità (le rappresentazioni proattive: dove vanno a parare) e le motivazioni, ovvero intenderne i segni, e il loro connotato valoriale, cosa che ad esempio può farci sapere che il nostro gatto ha fame. Nel caso degli umani le cose si complicano: diviene indispensabile individuare un intero contesto (un panorama metaforico) in cui i segni, spesso simbolici, acquisiscono differenziale semantico. Una delle accezioni del termine ‘intelligente’ fa riferimento al comportamento di chi esibisca tale capacità di ‘lettura della mente’, tanto più quanto minore è la quantità di indizi che gli abbiamo fornito circa la nostra intenzionalità. Una simile rappresentazione proattiva (intenzionalità secondo Bronckart) può determinare il comportamento dell’agente (un organismo dotato di capacità d’azione) anche sulla scorta di rappresentazioni retroattive (motivazioni secondo Bronckart); in tutti i casi, è la somma di rappresentazione e connotato valoriale (differenziale semantico se si tratta di simboli) a spiegare l’uso comune del termine motivazione come causa, causale, giustificazione, spiegazione del comportamento. Spero questo possa aver chiarito che operiamo diversamente quando ‘comprendiamo’ che il cane ha bisogno di uscire per una passeggiata, e quando ‘comprendiamo’ le motivazioni e i piani aziendali che hanno comportato la nostra mancata promozione... nella prospettiva della MST, «la comprensione specie-specifica del mondo è indistinguibile dalle forme usate per modellarlo (principio di modellamento)». Come ha fortemente sottolineato Bruner in molti dei suoi scritti, indipendentemente dalle difficoltà che psicologia e neuroscienze possono aver incontrato nella determinazione del loro significato, i concetti hanno sempre avuto un enorme peso nella storia delle civiltà umane.

La presenza o l’assenza di rappresentazione proattiva (intenzionalità) e retroattiva (motivazione) si rispecchia nella classificazione giuridica che distingue dolo, colpa e preterintenzione: solo l’intenzionalità richiama la responsabilità. L’evento è, da Spinoza in poi, una catena di cause. La possibilità di percepire e modellare il tempo (spazializzandolo) ci rende capaci di ricostruire catene causali: la coscienza, di conferire agentività al sé. Abbiamo fatto riferimento alla formidabile capacità dei nostri apparati sensoriali di aderire alle caratteristiche fattuali, costanti tipiche e invarianti degli oggetti della percezione. In un’ottica fenomenologica, forte appare il richiamo husserliano al procedimento della «visione eidetica», l’«intuizione dell’essenza» delle Ricerche logiche. Analogamente, la proposta di una tassonomia delle intenzionalità sembra, con il concetto di rappresentazione proattiva, un tentativo di sviluppo delle tipologie di ‘contenuto’ e ‘direzione’ degli atti intenzionali consentiti a specie animali diverse proprio in relazione alle diverse capacità rappresentative, ad aiutare la comprensione dei costrutti filosofici di epoché e riduzione fenomenologica, nella loro differente applicabilità da una parte agli oggetti della percezione sensoriale, dall’altra a quelli della cognizione cosciente, intesa qui come fenomeno di comprensione umana. Centrale è il riconoscimento di una costante relazione tra le tipologie di modello specie-specifiche (il principio di modellamento della MST) e le tipologie di intenzionalità specie-specifiche, che connotano la storia evolutiva dell’agentività, cui dedica parte del suo capitolo, in questo stesso volume, Brian McVeigh. «Ho scelto i termini metaferendo e metaferente per la loro associazione connotativa con i termini matematici moltiplicando e moltiplicatore in modo da sottolineare la loro funzione operativa»: inequivocabile appare da questa citazione la rigorosa intenzione jaynesiana di dare alla coscienza il ruolo di un operatore. In modo simile e per differenza, abbiamo individuato un secondo operatore, di cui abbiamo scelto di dare il nome di consapevolezza. Definire ‘coscienza’ e ‘consapevolezza’ ci permette però di individuare ciò che, nell’ambito del mentale e dei suoi riflessi sul comportamento, svolge un ulteriore ruolo cognitivo, una funzione operativa ancora altra, proprio perché non cosciente né consapevole. Inconscio è a) uno stato mentale che ha luogo fuori dal focus della coscienza, oppure b) uno stato mentale che comporti un apprendimento avvenuto implicitamente, ovvero c) uno stato psico-fisico complesso, spesso mediato dal sistema nervoso autonomo (SNA, talora qualificato con il vecchio termine di ‘vegetativo’) e/o da peptidi a funzioni organismiche complesse (neuroimmunoendocrine). Dobbiamo la logica classica o tradizionale ad Aristotele e gli sviluppi della logica proposizionale agli stoici. Con Leibniz vengono gettate le basi della logica formale moderna, che evolverà nella logica simbolica col diciannovesimo secolo. La conclusione del quale salutò l’avvento della rivoluzione freudiana. L’incontro tra logica formale e psicoanalisi si concretizzò nell’imponente opera del grande psicoanalista cileno Ignacio Matte Blanco, i cui strumenti analitici, derivati dalla matematica degli insiemi, permisero di ricondurre le molteplici proprietà dell’inconscio freudiano a due principi fondamentali: il principio di simmetria e il principio di generalizzazione. In relazione al principio di simmetria, in cui la relazione inversa di qualsiasi relazione è per l’inconscio identica alla relazione stessa, l’inconscio opera una ‘simmetrizzazione delle relazioni asimmetriche’. Logica simmetrica e logica asimmetrica coesistono così come coesistono coscienza e inconscio: ciò che cambia, a

seconda dei compiti cognitivi, è la proporzione in cui i due elementi della bi-logica si combinano. Il modo di generazione del mondo tipico dell’inconscio tratta ogni relazione come fosse simmetrica. In una relazione simmetrizzata l’assenza di asimmetria (non ci sono destra e sinistra, sopra e sotto, avanti e indietro...) rende impossibile la concettualizzazione dello spazio. L’assenza di spazializzazione rende impossibile la concettualizzazione del tempo (che è sempre un’operazione di spazializzazione). Un apprendimento privo di spazio e tempo è dotato di spazio e tempo infiniti: è ovunque, per sempre. Non ha storia: non è più processo, ma ente statico: ente cognitivo di governo del comportamento. Un apprendimento privo di storia e di contesto non è suscettibile di cambiamenti: è un pattern di informazione strutturato per essere destinato a ripetersi, e ha caratteristiche di stabilità e di protezione dal mutamento. Un tale pattern di informazione, inconscio sin dall’origine, o divenuto tale, è in grado di indurre comportamenti rispetto ai quali si pone a un più elevato livello logico. Il principio di simmetria (in cui, abbiamo detto, la relazione inversa di qualsiasi relazione è per l’inconscio identica alla relazione stessa) si accompagna al principio di generalizzazione, per il quale un membro individuale e la sua classe di appartenenza sostanzialmente coincidono come avviene nella metonimia in cui identifichiamo la parte con il tutto. Il principio di generalizzazione appare evidentemente, anche a un’analisi superficiale, come basilare per funzioni di categorizzazione da parte della mente. Perciò la modalità di elaborazione cognitiva dell’inconscio genera ‘automaticamente’ classi e categorie.97 La dizione ‘simmetrizzazione delle relazioni asimmetriche’ può ingannare, poiché sembra introdurre il concetto secondo il quale alla percezione ‘iniziale’, per così dire ‘corretta’ di una relazione asimmetrica, fa seguito un’operazione di simmetrizzazione da parte dell’inconscio. Non è così: logica simmetrica e logica asimmetrica coesistono così come coesistono coscienza, consapevolezza e inconscio; mentre nella storia della vita sulla Terra la conquista della percezione asimmetrica appare come di gran lunga la più recente e, per quanto ne sappiamo, quella infinitamente meno diffusa, limitata com’è agli umani adulti, e forse solo a quelli scolarizzati.98 Ma come definire i risultati complessi delle attività cognitive che la vita organizza in modelli via via più complicati, dai più elementari segnali biochimici alle più ardite architetture sociali? Raggiungendo i livelli più elevati, assistiamo alla memesi di pattern di informazione semantica insorti grazie a meccanismi di variabilità, sottoposti a selezione, protetti dai mutamenti ‘accidentali’ grazie alla loro stabilità, in grado di indurre, attraverso il comportamento, trasferimenti materiali ed energetici. In una parola, memi. A questo tema è impossibile dedicare in questa sede lo spazio necessario: rimanderò gli interessati a un articolo specifico (Recchia-Luciani, 2009), dal quale riprenderò solo alcuni concetti chiave: i memi sono pattern informazionali di natura segnica, a organizzazione relazionale metaforica, a generazione individuale e selezione sociale, la cui stabilità è garantita dal loro divenire inconsci (negli individui, nei gruppi o nelle istituzioni), ovvero astorici. Tutto ciò è in analogia a quanto osserviamo in genetica, con effetti protettivi del contenuto informativo, ad esempio quando i geni vengono arrangiati in cromosomi temporaneamente non funzionali ma meno suscettibili alle influenze ambientali. Geni e cromosomi configurano la modalità specifica attraverso cui vengono garantite la generazione, la mutabilità in condizioni controllate e la conservazione di quanto è stato selezionato nei

pattern d’informazione per la conservazione e l’adattamento biologici; analogamente, i segni (soprattutto simboli) all’interno delle relazioni metaforiche – sottoposti ai principi di simmetria e generalizzazione – costituiscono pattern d’informazione per la generazione, la mutabilità in condizioni controllate e la conservazione di quanto è stato selezionato nelle culture umane, culture non più campo né oggetto- dipendenti, sia all’interno del singolo individuo che delle organizzazioni sociali, configurazioni entrambe assimilabili a unità di terzo ordine secondo classificazione degli esseri viventi della teoria di Santiago (Maturana, Varela, 1992). Tali pattern di informazione fondamentali, fondati su segni e di natura metaforica, sono generativi, attraverso il meccanismo dei ‘grappoli di metafore’ delucidato in epoca moderna in particolare dalla linguistica cognitiva, della struttura del carattere e della personalità, sia delle forme individuali che delle organizzazioni sociali, suscettibili di evoluzione. Nella riproduzione sessuata la meiosi genera ulteriore varietà, mentre mitosi e produzione di proteine garantiscono lo ‘status’ sistemico. In ambito culturale individuale, ruolo analogo svolgono i periodi dell’infanzia e dell’adolescenza; in ambito sociale, le fasi di transizione, come le rivoluzioni scientifiche di Kuhn o le trasformazioni storiche. Il pattern informazionale cosciente asimmetrico si fa inconscio, simmetrizzato e generalizzato ‘cristallizzandosi’ nella sua atemporalità per divenire pattern invariante, sino a che una rivoluzione, spinta da nuove esigenze adattative, non lo scuota, talora dalle sue fondamenta. Poiché, come recita il possente aforisma di Guy Debord: «Le idee migliorano. Il senso delle parole vi partecipa. Il plagio è necessario. Il progresso lo implica. Esso stringe dappresso la frase di un autore, si serve delle sue espressioni, cancella un’idea falsa, la sostituisce con l’idea giusta».

Uso-menzione Come Roberto Bottini ha spiegato in un’efficace nota alla sua traduzione del saggio di Jaynes contenuto in questo volume, dobbiamo a Ned Block una famosa stroncatura del Crollo, testo per lui afflitto dall’errore essenziale che consiste nel confondere il fenomeno con il nome del fenomeno o il concetto del fenomeno. Celebre in realtà è anche la replica di Dennett: vi sono oggetti come il danaro o il baseball in cui il fenomeno semplicemente non esiste in assenza della sua concettualizzazione. Danesi, con il suo ricordare Agostino, e la sua originaria distinzione tra segni naturali e artefatti, ripropone la costante necessità di non reinventare la ruota, un rischio che possiamo scongiurare solo ricordando la nostra natura di nani seduti sulle spalle di molte generazioni di giganti, alcuni dei quali, come abbiamo visto anche molto tempo fa, forse presagivano che la vita è segno e significato. E che la cultura è una parte importante della nostra natura.

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Capitolo 699

Il sé come relazioni sociali interiorizzate. L’applicazione della teoria jaynesiana ai problemi dell’agentività e della volizione Brian McVeigh

Premessa autobiografica Diverso tempo fa condussi, per un periodo di due anni e mezzo, una ricerca tra i membri di un’organizzazione religiosa giapponese chiamata Sukyo Mahikari.100 A quel tempo mi interessavo soprattutto di alcune pratiche di gruppo in cui avvenivano possessioni spiritiche, ma ero frustrato dalla mancanza in letteratura di una teoria comprensiva rispetto al fenomeno della possessione. Questa viene etichettata da molti ricercatori semplicemente come trance, un termine che mi dà l’impressione d’essere più un espediente che una spiegazione. Quando li informai della mia intenzione di utilizzare la teoria di Julian Jaynes per spiegare il fenomeno della possessione, i membri della commissione che avrebbe dovuto giudicare il mio lavoro al Dipartimento di antropologia dell’Università di Princeton considerarono l’idea alquanto dissennata. Ciò che mi sorprese fu che essi giudicavano Jaynes una sorta di «riduzionista biologico». Questo suscitò in me una certa ironia; i membri di quella commissione si dichiaravano «costruzionisti sociali», e nonostante questo si ostinavano a considerare riduzionista una teoria psicologica che considera la componente esperenziale più importante dell’essere umano, la coscienza soggettiva, un costrutto culturale anziché un prodotto biologico. Il mio supervisore di allora, per quanto sempre prodigo di consigli e di supporto nei miei confronti, cercò di dissuadermi dall’indagare ciò di cui ero stato testimone come fenomeno in sé (cioè ‘possessione-in-sé’ o il ‘come’ della possessione). Piuttosto, ebbi la calorosa raccomandazione, da parte di intellettuali che si proclamavano studiosi interdisciplinari dalla mente aperta ed esperti delle ‘frontiere’ teoriche, di ignorare qualsiasi implicazione interculturale o universale, limitandomi a osservare e descrivere l’aspetto sociale della possessione (cioè, la ‘possessione-nella-società’ e il ‘perché’ della possessione).101 In seguito, in una lettera Gananath Obeyesekere descrisse il mio tentativo di spiegare la ‘possessione in sé’ come pieno di hocus pocus: Sono molto sorpreso che le sue conclusioni coincidano con una teoria dubitabile ed etnocentrica come quella di Julian Jaynes.102

Il problema dell’agentività. Come la società mette un sé al nostro interno 103

Antropologi e sociologi hanno sostenuto che il ‘Sé’, piuttosto che un’entità innata, è culturalmente costruito, storicamente peculiare e politicamente contingente. Come ogni altro costrutto culturale, esso emerge da una complessa matrice composta da età, classe sociale, genere, occupazione e altre variabili politiche e sociologiche. Tuttavia, a dispetto di questa genesi culturale del ‘Sé’, rimane radicata l’idea, più o meno implicita, che volere, decidere, scegliere e desiderare – cioè gli atti di volontà – hanno origine in un essenziale, e presociale, ego esecutivo. La cosiddetta ‘psicologia del senso comune’ ci ha persuasi che gli individui nascono con un invisibile nucleo psicologico che, influenzato dall’ambiente sociale, si sviluppa in un Sé che risiede in noi (più precisamente, nella nostra testa o nel nostro cervello). Questo Sé è dotato di libero arbitrio e volontà, e controlla il nostro corpo. Certamente, in molti sono d’accordo nel riconoscere che le variabili sociali influenzano il modo in cui ogni individuo prende una decisione, tuttavia vorremmo compiere un passo in più, e chiederci se anche l’abilità di prendere decisioni in-se-stessa sia un costrutto sociale. E, se questo è vero, capire in che modo la società ‘costruisce’ la nostra agentività. In questo capitolo cercherò di spiegare come le capacità decisionali e la volizione siano fondate socialmente su un modello mentale dell’agentività.104 Discuterò di come le relazioni sociali costruiscono gli eventi psicologici; di come pubbliche interazioni di controllo/asservimento diventino intenzioni nascoste e private; di come la società viene ‘inclusa in un Sé’. I miei argomenti sono offerti a supporto della teoria di Julian Jaynes secondo la quale ciò che noi esperiamo come nostro personale ‘introcosmo’ è costruito culturalmente come un analogo del mondo esterno: il Sé, come entità passibile di introspezione, si sviluppa da quelle che io chiamo ‘relazioni sociali interiorizzate’. Il mio pensiero si ispira anche alla nozione di G.H. Mead di ‘partecipazione nell’altro’, che «richiede la comparsa dell’altro nel Sé, l’identificazione dell’altro con il Sé, il raggiungimento della coscienza di Sé attraverso l’altro» (Mead, 1972, p. 253). Ho elaborato quattro premesse che guideranno il mio ragionamento in questo capitolo: 1) non ci sono ‘Sé’ essenziali o indissolubili, 2) la società non solo influenza, bensì costruisce il nostro Sé, 3) in quanto costrutto sociale il ‘Sé’ è stato inventato a un certo punto nella storia105 e 4) parametri psicologici interculturali configurano diversi modelli mentali di agentività. Al fine di descrivere questi parametri e illustrare come ‘la società diventa soggettività’, esaminerò le nozioni di ‘autorizzazione’ e ‘interiorità cosciente’. In seguito, al fine di rendere conto della diversità e della plasticità psichica necessaria per giustificare varie versioni di agentività, esaminerò tre differenti tipi di mentalità:106 1) un’antica forma mentale (detta mente bicamerale, vedi sopra), 2) le vestigia di questa forma mentale che affiorano in diverse etnopsicologie e 3) due drammatiche reliquie di questa forma mentale, la possessione spiritica e l’ipnosi.

I parametri della psiche. L’imperativo dell’autorizzazione: l’individuo come Agente Trascorriamo la nostra esistenza ricevendo e formulando ammonizioni, comandi, ordini e richieste. Siamo, inevitabilmente, degli esseri socio-politici. Più precisamente, la vita sociale è questione di controllare o essere controllati. Questo è un fatto tanto ovvio quanto scoraggiante, ma ci tengo a sottolinearlo perché è da qui che prende le mosse la mia prossima supposizione: l’intenzionalità deve essere concepita in termini sociali e relazionali, poiché è in questo modo che ci viene ‘insegnata’. In altre parole: ogni impressione di controllo immediato sulla propria persona o sul proprio corpo è frutto dell’interazione di esseri sociali. Riformulando il pensiero nuovamente: tutte le nostre azioni o pensieri devono avere una qualche forma di autorizzazione da un essere sociale, anche se questo essere sociale viene concepito come qualcuno che noi conosciamo molto bene, ad esempio noi stessi. Essendo animali sociali (o, meglio, socio-politici), il ‘come’ e il ‘perché’ del controllo diventa cruciale per comprendere in che modo prendiamo le nostre decisioni. Tale controllo non è innato, le società moderne ‘insegnano’ ai propri membri ad avere dei ‘Sé’ che eseguono atti volontari. Proprio come dobbiamo apprendere molte altre cose, dobbiamo, similmente, imparare come ‘dire a noi stessi che cosa fare’. In questo processo di socializzazione, imparare a capire se stessi è, in un certo senso, come imparare a capire gli altri. «Riuscire a comprendere come io obbedisco a me stesso non è più (o meno) misterioso del riuscire a comprendere come posso obbedire a te» (Harré, 1984, p. 125). E prendere ordini da chi ci sta intorno (che essi siano o meno fisicamente presenti o che tali sollecitazioni siano domande esplicite o forme implicite di conoscenza) è inestricabilmente legato al ‘prendere una decisione’. Il filosofo Rom Harré ha più volte sostenuto che acquisire un ‘Sé’ non è questione di una «rivelazione empirica di un fatto esperenziale» (Harré, 1984, p. 212). Il Sé ha lo stesso status di una credenza o una teoria: «Il sé come agente intenzionale non è una cosa misteriosa, ma una credenza che fornisce al credente in questione un certo potere di azione in accordo con i modelli disponibili nella società» (Harré, 1984, p. 180). Quindi, «realizzare di essere una persona non è altro che imparare un modo per pensare e gestire se stessi» (Harré, 1984, p. 22).

Dall’autorizzazione all’auto-autorizzazione. Come impariamo ad avere un Sé L’esistenza socio-psicologica presenta due aspetti fondamentali: ciò che accade tra gli attori sociali (intersoggettivo o intermentale) e ciò che accade a livello psicologico (intrasoggettivo o intramentale). Io credo che i processi intramentali siano ‘costruiti’ a partire dal comportamento intermentale attraverso tre tipologie di eventi comunicativi: 1) «gli altri comandano me», 2) «gli altri comandano gli altri» e 3) «io comando gli altri». Questi tre tipi comunicativi, che coinvolgono sempre un agente e un ricevente, vengono trasformati attraverso la socializzazione in processi intramentali. («Io» comando «me stesso».) Dall’autorizzazione tra due individui emerge l’auto-autorizzazione – ne è un esempio il processo decisionale – come qualcosa che accade tra due aspetti del ‘Sé’ (‘Io’ e ‘me’).107 Al fine di comprendere la vera natura del ‘senso di controllo immediato’, una ‘sintassi di base’ degli atti volitivi potrebbe essere d’aiuto. La sintassi socio-politica, come suggerito prima, ha due elementi, un agente (Io) e un ricevente (me). Diversi tipi di società usano questa sintassi per costruire ‘grammatiche socio-psicologiche’, che siano appropriate per la vigente organizzazione politico-economica e per la complessità della struttura sociale. Altri fattori, come il tasso demografico, lo sviluppo tecnologico e la conoscenza religiosofilosofica o scientifica di un periodo storico, influenzano anch’essi tale grammatica. L’‘Io’ è il soggetto attivo, l’‘attore’ che dà inizio alle azioni. Il ‘me’ è invece l’oggetto passivo, il ricevente di alcune azioni. Le dinamiche esistenti tra l’‘Io’ e il ‘me’ sono modellate dall’esperienza socio-psicologica: l’‘Io’ è colui che controlla, mentre il ‘me’ viene controllato. Questi due aspetti dell’identità personale esistono sia ‘internamente’ (cioè soggettivamente, l’intima sensazione di essere un agente o un ricevente), che ‘esternamente’ (la persona come agente o ricevente osservabile nell’azione). Insieme, l’‘Io’ e il ‘me’ costituiscono il ‘Sé’ e, proprio come un processo cognitivo, la dinamica Io-me può essere ‘profonda’ (retta da solide convinzioni e restia al cambiamento) o ‘superficiale’ (retta da convinzioni deboli e facile da cambiare) (si veda l’Appendice, «Esempi di aspetti attivi e passivi del sé»). Al fine di comprendere la nostra esperienza delle dinamiche Io-me, possiamo fare un confronto tra interazioni quotidiane e performance teatrali. Quando qualcuno è semplicemente se stesso, il soggetto (Io) e l’oggetto (me) del Sé sono fortemente identificati tra loro. O, per dirla con Goffman, «l’attore diventa lui stesso il pubblico; egli diventa attore e spettatore dello stesso spettacolo» (Goffman, 1969, pp. 80-81). Ma quando una persona non è propriamente se stessa – quando, ad esempio, recita, mente o inganna – la parte soggettiva e la parte oggettiva del Sé sono separate, perché il primo monitora e gestisce con attenzione il secondo. Ma se non siamo nati con un ‘Io’ e con un ‘me’, si rende necessaria una spiegazione riguardo la loro origine e il modo in cui interagiscono. Più precisamente, la domanda che voglio porre è in che modo i bambini presocializzati apprendono a possedere processi intramentali (partendo naturalmente dall’assunto che i bambini presocializzati manchino di una ‘nozione di Sé’ interiorizzato e soggettivo, cioè di un ‘io’ e di un ‘me’). Poiché i primi comandi che riceviamo provengono da altri individui sociali, i comandi e gli ordini che noi stessi ci diamo hanno, in ultima analisi, radici sociali. Le relazioni tra Io e me

sono ‘sociali’ sia per quanto riguarda la loro origine, sia per quanto riguarda la loro struttura operativa: proprio come tra due persone, l’‘Io’ controlla/comanda/comunica con il ‘me’. Diversamente dagli organismi non umani, i cui sistemi nervosi non richiedono un programma elaborato, radicato in, e modellato da una matrice socio-politica, i comandi che diamo a noi stessi devono essere intesi in termini sociali. In altre parole, sebbene il nostro sistema di comando-controllo-coordinazione sia neurologico, per operare normalmente questo hardware richiede un sistema di autorizzazione trasmesso culturalmente. Naturalmente non è necessario esplicitare a se stessi il comando attraverso un tipo di linguaggio interno ogni volta che si prende una decisione; questo perché l’atto comunicativo Io-comando-me diviene una sintassi mentale che spesso accade non consciamente. Ciò che importa è la credenza, sia cosciente che non cosciente, che da qualche parte nella nostra psiche è questo ciò che accade. I termini ‘Io’ e ‘me’ non denotano una forma linguistica e non corrispondono necessariamente all’uso grammaticale corrente. Non voglio dire, comunque, che la formula Io-me non sia legata al linguaggio, poiché è in primo luogo attraverso il linguaggio che siamo socializzati ad avere un’agentività e le diverse nozioni di agentività sono codificate in forma linguistica. Lo sviluppo infantile è un campo eccellente in cui osservare la sociogenesi dell’agentività. Vygotskij notò una netta differenza tra il processo di presa di decisione attuato dal bambino e quello messo in campo dall’adulto. Nei suoi esperimenti, in cui chiedeva a un bambino di decidere quale tasto pigiare in una speciale tastiera, egli notò che: «La struttura della decisione del bambino non assomiglia minimamente al processo dell’adulto. Gli adulti prendono una decisione preliminare internamente e di conseguenza fanno una scelta sotto forma di un singolo movimento che esegue il programma. La scelta del bambino assomiglia a qualcosa come una selezione ritardata tra i suoi propri movimenti [...] per il bambino la serie di movimenti di prova costituisce il processo di selezione». (Vygotskij, 1987, p. 56) Durante il processo di sviluppo, dobbiamo imparare a esercitare la volontà, e facciamo questo astraendo l’intenzionale dal non intenzionale, il volontario dall’involontario. Questo processo è essenziale per il nostro sviluppo come agenti intenzionali, poiché da bambini non facciamo distinzione tra agente e azione: «Il bambino non fa distinzione tra soggetto, azione e oggetto perché per lui questi sono effettivamente lo stesso – egli è il ‘luogo’ dell’azione, il suo soggetto e il suo oggetto allo stesso tempo» (Lock, 1980, p. 132). Certo, può sembrare strano che si debba imparare dagli altri a fare qualcosa che ci appare così semplice e basilare nella nostra esperienza, che di solito ci riesce senza intoppi e che sentiamo come parte della nostra identità più di ogni altra cosa. Ciononostante, sostengo che le prescrizioni, le richieste e gli ordini degli altri siano il substrato su cui la società costruisce il nostro personale universo di intenzioni, decisioni e volontà quotidiane.

La spazializzazione dell’autorizzazione: l’interiorità psicologica Ora che abbiamo individuato da dove sorge il senso di auto-autorizzazione, vorrei dire qualcosa di più riguardo alla natura del mondo interiore in cui dimora il sé. Infatti, al fine di comprendere cos’è il Sé deve essere compresa la natura della coscienza. In accordo con Jaynes, credo che per possedere un senso di sé dobbiamo essere ‘socializzati’ a possedere un’interiorità psicologica cosciente (un altro costrutto culturale) in cui il sé si muove metaforicamente e può essere visto dall’‘occhio della mente’. Un introcosmo psicologico è «un analogo di ciò che è chiamato il mondo reale. Esso è costruito con un vocabolario o campo lessicale in cui i termini sono tutte metafore o analoghi del comportamento nel mondo fisico» (Jaynes, 1984, p. 78). La coscienza permette all’individuo di interagire col proprio ambiente, sia sociale che naturale, in modo più efficiente. Ad esempio, prima di eseguire un comportamento, noi possiamo ‘vedere’ noi stessi ‘nella nostra testa’ eseguire l’azione. Questo ci permette di creare una scorciatoia, evitando di mettere in atto sequenze comportamentali che richiedono tempo o possono comportare difficoltà e pericoli. Come Jaynes ha sottolineato, è la natura quasi magica delle metafore che ci permette di costruire uno ‘spazio mentale’ in cui noi stessi ‘abitiamo’ come oggetti dell’introspezione (Jaynes, 1984, pp. 70-91). L’autorizzazione metaforicamente spazializzata è l’autoautorizzazione (Fig. 1). Senza questo spazio mentale non potrebbe esistere un Sé come lo intendiamo noi. Tuttavia, uno può continuare a essere una persona cognitivamente competente anche senza uno spazio mentale, quindi, senza ‘Sé’ né coscienza. Contrariamente alle credenze popolari la coscienza non è necessaria per imparare, pensare o percepire, anche se con questi viene continuamente confusa, anche da psicologi e ricercatori. Per amor di semplicità, dovremmo distinguere tra cognizione (ad esempio, ‘pensare’) e interiorità cosciente. La seconda è un prodotto della cognizione. Figura 1. Interiorità: il Sé come relazioni sociali interiorizzate.

L’utilizzo universale dello spazio metaforico in cui localizzare l’intenzionalità non dovrebbe sorprendere; dopotutto, in quanto esseri tridimensionali che occupano uno spazio, la consapevolezza spaziale è la più chiara, immediata e tangibile esperienza che possiamo avere, più basilare per le nostre percezioni senso-motorie che non la coscienza stessa: «Cose che nel mondo fisico-comportamentale non hanno una qualità spaziale ne ricevono una nella coscienza [...] un esempio chiaro ci è fornito dal tempo» (Jaynes, 1984, p. 92). A questo punto credo sia giunto il momento di fare un piccolo riassunto di quanto detto fin qui. Il sé è una concettualizzazione interiorizzata dell’agentività, localizzata ‘nella nostra testa’ da processi di socializzazione, attraverso l’uso di espressioni mentalistiche metaforiche. Il sé dimora in uno ‘spazio mentale’ costruito culturalmente. Il sé non è cosciente di se stesso, e non è neppure la coscienza stessa: solo una persona può essere cosciente, non una rappresentazione interiorizzata di quella persona, o il suo ‘sé’. Piuttosto, il sé è un oggetto

della coscienza, nello stesso modo in cui lo sono gli altri oggetti del mondo. Quindi, come non c’è niente di innato nella nostra nozione di essere una persona, non c’è niente di intrinseco nella nostra abilità di introspezione e nel concepire il nostro sé. Questi sono tutti appresi culturalmente e storicamente peculiari, e non sono il risultato di un naturale processo bio-evolutivo. La società non costruisce un modello di agentività su di un sé più basilare, naturale e ‘più vero’. Le teorie etnologiche dell’agentività non sono una struttura superficiale che poggia su di un più fondamentale ‘ego’, ‘io’ o ‘personalità’. Un modello di agentività è il nostro Sé, almeno nei suoi aspetti intenzionali e volitivi. In poche parole, un prodotto sociale (in questo caso uno schema di autorizzazione) opera come modello per il comportamento intenzionale individuale. Questo costituisce il nostro autentico senso di sé ed è intimamente connesso alla volizione. In più, questo senso di controllo fornito socialmente ha due aspetti. In primo luogo è un programma ‘per’ l’autorizzazione: esso guida e dà forma alle nostre azioni. In secondo luogo è un programma ‘di’ autorizzazione: può essere utilizzato per attribuire un’azione individuale o un’attività mentale a noi stessi o ad altri. Se la teoria di Jaynes è corretta, e la coscienza e il sé non sono innati, siamo portati a chiederci quando e perché questi costrutti culturali apparvero nella storia. Questo tipo di problematica non cade sotto i diretti propositi di questo saggio, sebbene prima abbia già suggerito come le pressioni socio-politiche abbiano guidato l’invenzione della soggettività così come noi la esperiamo attualmente. Attraverso la storia, lo sviluppo da un ‘controlloesteriore’ alle forme di ‘controllo-interiore’ dell’agentività – una ‘rivoluzione psicologica’ alla pari con la rivoluzione agricola e altri sviluppi tecnologici – ha, per diverse ragioni, preso diverse direzioni, deviazioni, svolte e forse anche inversioni. Poiché molte società umane sono state prive di scrittura, molte di queste uniche traiettorie dell’interiorizzazione psicologica sono sfortunatamente perse per sempre. Per i miei attuali propositi, comunque, è lo sviluppo generale della psiche umana che mi interessa. Evidenze dell’emergere della coscienza soggettiva possono essere trovate in tutte le lingue che continuano a possedere residui lessicali di antichi mondi mentali (Jaynes, 1984; McVeigh, 1996a). In più, ci sono vestigia ben più drammatiche che minano le già fragili fondamenta della nozione di ‘una persona – una volontà’, e dimostrano quanto sia complesso il problema dell’agentività. Prima di passare in rassegna gli esempi più significativi di comportamenti socio-psicologici ancora esistenti (ipnosi e possessione spiritica), vorrei prima dare un’occhiata indietro nel tempo e attraverso diverse culture al fine di avere una differente prospettiva della psiche umana.

Tre tipi di mentalità

UN’ANTICA MENTALITÀ: LA MENTE BICAMERALE Da quanto detto finora, possiamo sostenere che una persona è un umano istruito a possedere alcuni valori culturali, a pensare, a provare certi sentimenti, a rispondere significativamente alle altre persone e in generale a comportarsi come membro di una comunità socioculturale. Tuttavia, come suggerito prima, non è necessario possedere un mondo interno introspettabile in cui dimora un Sé, per essere considerato una persona. Perché le società, dunque, cominciarono a fornire un Sé alle persone che ne facevano parte? Per la stessa ragione per cui nominano, numerano ed etichettano gli individui: organizzare, classificare e controllare la popolazione. Quando le società cominciarono a fornire un Sé agli individui è una questione aperta. Tuttavia suggerirei che l’invenzione sociale del sé occorse probabilmente tra il II e il I millennio a.C. (Jaynes, 1984). Probabilmente fu durante questi millenni che un Sé venne costruito come risposta alle pressioni demografiche e all’aumento della complessità socio-politica dovuta alla rivoluzione agricola (verificatasi da sei a due millenni prima a seconda dell’area geografica). In accordo con la controversa ma convincente teoria di Julian Jaynes, prima dell’invenzione della coscienza soggettiva, la volizione dei membri di antiche popolazioni prese la forma di allucinazioni uditive e visive (gli ammonimenti di antenati, re, divinità). La mente di questi individui preconsci era ‘bicamerale’ poiché composta da due parti: una parte responsabile delle voci allucinatorie degli dei e una parte umana che ascoltava quelle voci e ne eseguiva gli ordini (attualmente gli individui possono essere descritti come ‘unicamerali’, cioè con un unico Sé che occupa la mente). Le voci divine erano provocate dallo stress nello stesso modo in cui gli individui moderni diventano maggiormente coscienti e più concentrati quando esperiscono nuove situazioni (ad esempio, ‘vedendo’ metaforicamente con l’occhio della mente una risposta ‘contenuta nella loro testa’). Istruiti dalle loro società a credere di vivere sotto il controllo di forze divine esterne, per gli uomini bicamerali non esisteva la nozione di ‘libero arbitrio’. Jaynes non è stato il solo a suggerire l’esistenza di una radicale differenza di mentalità tra noi e gli antichi. Basti citare le ricerche di Bruno Snell sul ‘linguaggio prepsicologico’ del periodo omerico, o le opinioni di Eric R. Dodds secondo il quale gli antichi greci erano privi di un concetto unificato di Sé o di anima e che gli eventi mentali scaturivano dal volere degli dei (Snell, 1963; Dodds, 1969). Oppure, curiosando attraverso la Bibbia o altri testi religiosi antichi, possiamo trovare molti esempi di ‘voci divine’ che comandano cosa fare agli individui. Un’autorità basata su chiare linee gerarchiche di comando e controllo è intrinsecamente fragile (questo può spiegare il mistero archeologico che ruota intorno ai repentini collassi di civiltà evolute). Per questo motivo, società costruite su rigide autorizzazioni bicamerali sono possibili solo se la crescita della popolazione rientra entro certi limiti, se le influenze esterne sono ridotte al minimo, e se i disastri ambientali (inondazioni, terremoti, carestie, epidemie) non sono troppo devastanti. Molto probabilmente, alcuni di questi fattori hanno destabilizzato le civiltà antiche. In ogni caso, l’emergere nella storia di un’interiorità psicologica è evidentemente accompagnata da un aumento della complessità socio-politica. Cosa deve fare una società teocratica per stabilizzarsi, dal momento che poggerebbe su di un edificio socio-politico traballante? Al crescere della complessità socio-politica l’individuo comincerebbe a udire un maggior numero di voci, spesso in competizione o in

conflitto tra loro, sicché la loro guida diventerebbe confusa e controproducente. È in questo contesto che la costruzione di una coscienza soggettiva individuale diventa un espediente più che valido nella gestione delle rigide gerarchie di comando-controllo che hanno caratterizzato le prime società complesse. Il Sé, in un certo senso, è una personale ‘scatola degli attrezzi’ di comando e controllo, ‘dentro la testa della persona’. Costituito in una persona, il Sé diventa la nostra voce interna per delega dell’organizzazione sociale. Una volta che l’autorizzazione del controllo immediato del Sé diventa centrata sull’individuo e interiorizzata, l’organizzazione sociale diviene più stabile poiché i suoi ordini, le direttive e gli avvertimenti sono diventate verità soggettive. Individui privi di ‘interiorità’ probabilmente non sarebbero capaci di usare espressioni metaforiche riguardo alla localizzazione e al controllo della propria persona. Questo perché, per loro, non esisterebbe un ‘mondo interno’ e neppure un lessico corrispondente, non ci sarebbero eventi mentali e non esisterebbe un Sé (non esisterebbe un ‘Io’ e un ‘me’ nello stesso individuo), che potrebbe compiere un’introspezione e muoversi metaforicamente in quel mondo. Non esisterebbe alcun concetto di autodeterminazione. In altre parole le persone non potrebbero rappresentare atti teatrali, subire possessioni spirituali e fenomeni correlati. E, in qualche aspetto, la loro credenza letterale nell’origine esterna della volizione sarebbe molto simile all’ipnosi. In senso stretto, certo, individui senza interiorità possiedono un certo tipo di intenzionalità (ad esempio, antenati o dei), ma mancano di quello che noi chiamiamo un Sé intenzionale.

VESTIGIA DI UN’ANTICA MENTALITÀ: MOLTEPLICI PSICOLOGIE Se la teoria della mente bicamerale di Jaynes è corretta, dovremmo aspettarci di trovare tuttora qualche traccia di quest’antica mentalità. Un esame etnopsicologico di altre società dovrebbe, perlomeno, rispondere ad alcune, ovvie, questioni. Quale tipo di metafore impiegano queste società per discutere il Sé? Dov’è localizzata la volizione se non nel proprio Sé? Fino a che punto devono ugualmente ‘psicologizzare’ l’individuo e presupporre uno spazio interiore nella persona? Se l’agentività è un costrutto storico-sociale (piuttosto che un prodotto dell’evoluzione naturale), dovremmo aspettarci teorie della volizione e dell’agentività costruite all’interno di differenti parametri. L’etnografia è piena di descrizioni di psicologie molto differenti. Ad esempio, riguardo i Maori, Jean Smith scrisse che: «... sembrava che in generale non fosse il Sé a racchiudere l’esperienza, ma l’esperienza a includere il Sé [...] dal momento che il ‘sé’ non aveva controllo sull’esperienza, ciò che un uomo poteva sentire non era esperito come proveniente da lui; accadeva in lui ma non a lui. L’individuo Maori non era tanto l’autore dell’esperienza quanto l’osservatore di questa». (Smith, 1981, p. 152, traduzione nostra) Per di più, «gli organi del corpo erano dotati di una volontà indipendente» (Smith, 1981, p. 156, traduzione nostra). Renato Rosaldo scrisse che gli Ilongot delle Filippine raramente si riferiscono a se stessi con qualcosa di simile a ciò che noi definiamo «un Sé interiore», e non notò grandi differenze tra le manifestazioni pubbliche e i sentimenti privati (Rosaldo, 1985, pp. 137-57). Forse la più interessante raffigurazione di quanto possano essere differenti i concetti mentali può essere trovata nel lavoro dell’antropologo Maurice Leenhardt, nel suo libro Do Kamo, sui Canaque della Nuova Caledonia, che sono ‘inconsapevoli’ della loro stessa esistenza: «L’aspetto psichico o psicologico delle azioni umane sono eventi nella natura. Il Canaque li vede come fuori da sé, come esternalizzate. Allo stesso modo concepisce la propria esistenza: la colloca in un oggetto, ad esempio un tubero, e attraverso il tubero egli acquisisce una certa conoscenza della sua esistenza, identificando se stesso con il tubero» (Leenhardt, 1979, p. 61, traduzione nostra). Parlando dei Dinka, l’antropologo Godfrey Leenhardt scrisse che «l’uomo è l’oggetto che viene agito», e che «spesso troviamo espressioni che si oppongono alla visione europea che assume il ‘Sé’, o la mente, come soggetto in relazione a quanto accade alla persona» (Leenhardt, 1971, p. 150, traduzione nostra). Rispetto alla mente stessa: «I Dinka, diversamente da noi, non concepiscono la mente come qualcosa che media e immagazzina le esperienze del sé. Per loro non esiste alcuna entità interiore che sembri stare a ogni momento tra il soggetto che esperisce e quella che è, o è stata, l’influenza esterna. Sembra quindi che, ciò che potremmo chiamare i ricordi di esperienze, cioè quelle esperienze che la persona ricordante modifica attraverso un’intrinseca interiorità, e che

sembrano provenire dall’interno, ai Dinka sembra solo che tali memorie agiscano sull’individuo esteriormente, come esterne erano le fonti da cui derivavano». (Leenhardt, 1971, p. 149, traduzione nostra) Questi esempi etnografici possono essere interpretati come colorite descrizioni o come un esercizio esotico e poetico di psicologia ingenua. Oppure, potremmo fare nostra una visione più letterale e prendere in considerazione la possibilità che ciò che questi etnopsicologi testimoniano siano le vestigia di un lontano passato, quando gli individui possedevano una mentalità radicalmente differente. La nozione di una ‘persona senza un Sé’ è certamente controversa e aperta a fraintendimenti. Per questo voglio sottolineare che non sto affatto suggerendo che al giorno d’oggi esistano gruppi di persone la cui mentalità sia distinta dalla nostra. Sto suggerendo, invece, che le tracce di un’antica mentalità sono evidenti in etnopsicologie ancora esistenti, compresa la nostra (Jaynes, 1984).

Metafora e loci of control: la concettualizzazione della molteplicità psicologica In che modo possiamo comprendere e classificare queste differenti psicologie? Nel tentativo di fare proprio questo Andrew Lock individuò due «universali della concezione umana». Il primo è la dimensione attivo/passivo o controllo/sotto controllo: «Mentre la mia cultura mi fornisce un sistema di significati che mi spinge a indentificarmi con le mie abilità di controllo, e quindi mi insegna a guardare me stesso come colui che ha il controllo, un’altra cultura potrebbe spingermi a identificare quelle abilità con un altro, a considerare l’esercizio del controllo come altro da me, concependo me stesso come colui che è controllato» (Lock, 1981, p. 30, traduzione nostra). La seconda dimensione è quella di un locus of control interno o esterno: «Ogni uomo, dal primitivo all’accademico, si trova così di fronte al problema di porre da qualche parte la responsabilità per, e il controllo di, certe attività» (p. 31). Le ‘concettualizzazioni internalizzate’ possono essere classificate a seconda del luogo in cui il Sé veniva collocato: nella testa (pensiero occidentale attuale); nei polmoni (anglosassoni e greci antichi), nel cuore (antichi egizi), o nel fegato (i Chewong) (p. 35). Mentre le ‘concettualizzazioni esternalizzate’ possono venir classificate semplicemente in ‘qui’, ‘là’, ‘sotto’ o ‘sopra’. Se rappresentiamo le due dimensioni controllo/sotto controllo e interno/esterno su due assi perpendicolari, avremo ciò che io considero uno schema molto utile. Se applicato a vari assetti culturali e periodi storici, questo schema ci fornisce una mappa delle differenti teorie dell’agentività umana (Fig. 2). Paul Heelas usa le coordinate di questa mappa per localizzare differenti psicologie quali: buddismo tibetano, Kalabari, Maori, Dinka, Chewong, Tallenti, micenei e la nostra stessa etno-psicologia. Società che hanno concettualizzazioni internalizzate e collocano il Sé ‘al controllo’ possiedono una psicologia ‘idealista’: «Quando il Sé è tenuto a esercitare controllo, rappresentazioni internalizzate, potere e libertà, si affacciano alla ribalta. La ‘mente’ è un ottima soluzione per liberare ‘simbolicamente’ il Sé dal mondo, per permettere agli individui di pensare che essi siano autonomi e capaci di esercitare controllo e volontà [...] il Sé è in primo luogo considerato in termini mentali e come contenuto della coscienza». (Heelas, 1981, p. 39, traduzione nostra) Società che, invece, hanno una ‘concettualizzazione esternalizzata’, e mettono il Sé ‘sotto controllo’ possiedono una psicologia cosiddetta ‘passionale’; il Sé è mosso o influenzato da una volontà o forza esterna: «Al fine di essere pensato come un essere sotto il controllo di qualcosa di diverso dal suo conscio e libero ‘Sé’, il passo ovvio è di introdurre delle concettualizzazioni esternalizzate. È naturale collocare fuori il controllore. Se all’individuo è negata l’autonomia, e se concepisce se stesso come un burattino delle mani di una volontà esterna, sarà difficile che si intromettano fenomeni come la presa di decisione o come la mente». (p. 41)

Heelas sottolinea che «mentre non possiamo pensare sistemi idealisti senza far riferimento a un Locus of Control interno (perché, se così fosse, l’individuo non avrebbe pieno controllo su di sé), i sistemi passionali non possono prevedere un locus of control interno all’individuo (perché se così fosse il controllo non potrebbe essere esercitato da un ente esterno)» (p. 41). A causa delle strette connessioni tra i poli 1-4, e 2-3 (Fig. 2), potrebbe sembrare che il modello proposto sia bidimensionale. Tuttavia, Heelas afferma che «il sé al controllo può essere combinato con rappresentazioni esternalizzate, quando queste non partecipano al controllo del Sé, e che il Sé sotto controllo può essere combinato con rappresentazioni internalizzate, quando queste non indicano un sé al controllo» (p. 41). Al fine di consentire l’esistenza di sistemi di pensiero che non siano strettamente ‘idealisti’ o ‘passionali’, Heelas introduce le psicologie idealiste e passionali cosiddette modificate. Come esempio di psicologia idealista modificata ci invita a considerare il modo in cui esternalizziamo noi stessi, ad esempio nell’assumere un ruolo o nella descrizione di emozioni intense. Riguardo al gioco di ruolo, Heelas nota come esista una linea sottile tra «recitare un ruolo» e «essere dominato da un ruolo»: «Infatti c’è una tendenza, per le formulazioni idealiste modificate, di provocare contraddizioni o divisioni del Sé. La nostra persona pubblica (sotto controllo) deve tornarsene a casa prima di ritornare al proprio Sé privato e al suo linguaggio idealista» (p. 42). Figura 2. Modelli dell’agentività

Sistemi passionali modificati combinano concezioni internalizzate e un Sé sotto controllo. Come esempio Heelas cita tutti quelli che, sebbene si considerino essenzialmente liberi e autonomi, vanno da uno psicoterapeuta al fine di affrontare le proprie rimosse emozioni inconsce. Un altro esempio è quando diciamo di «essere alla mercé delle nostre emozioni», oppure di «seguire un istinto cieco», sebbene, solitamente, crediamo di avere il pieno controllo di noi stessi. Il modello di Heelas è illuminante perché serve come punto di partenza per delineare i parametri interculturali del locus dell’intenzionalità e del Sé. Tuttavia l’autore discute il suo modello come se questo fosse meramente una descrizione delle differenze stilistiche di come la gente vede diversamente il Sé e l’agentività. Io penso, piuttosto, che queste differenze siano vestigia di una mentalità posteriore. Inoltre, dobbiamo considerare un’altra questione: in che misura un individuo della società contemporanea è disposto ad accettare una teoria dell’agentività in senso letterale108 A livello teorico, c’è il pericolo di confondere le nozioni di agentività che crediamo vere letteralmente con le idee su di essa espresse metaforicamente. Questa confusione tra credenze profonde e radicate e figure del linguaggio diviene raramente un problema nella vita di tutti i giorni: noi tutti conosciamo la differenza tra il farsi metaforicamente «mettere i piedi in testa» e il farseli mettere, invece, fisicamente. Inoltre, nel caso in cui convivano più ‘stili’ di agentività nello stesso individuo, può sorgere il problema di dover determinare dove e come sia il ‘vero’ locus of control.

Per evitare simili confusioni possiamo parlare di schemi di autorizzazione ‘stratificati’. Più è radicata e profonda la credenza in una concezione dell’agentività, e più le espressioni che vi si riferiscono saranno considerate in modo letterale. Viceversa, più l’accettazione di una concezione dell’agentività è debole o superficiale, e più le espressioni che vi si riferiscono saranno prese metaforicamente.

VESTIGIA DI UN’ANTICA FORMA MENTALE. IPNOSI E POSSESSIONE SPIRITICA

Due varietà di comportamento psico-sociale, ipnosi e possessione spiritica, sollevano interessanti questioni rispetto sia all’emergenza storica della psiche, che alla natura della volizione. Un’attenta indagine di queste diffuse ma inusuali esperienze ci spingono a dubitare di ciò che la psicologia ingenua ci dà per garantito riguardo all’agentività, alla coscienza e al Sé. Ogni tentativo di comprendere la psicologia umana deve tenere in considerazione fenomeni come l’ipnosi e la possessione. Questo soprattutto perché questi sfidano la nostra consolidata nozione di ‘una persona-una volontà’ e di ‘una persona-un Sé’ e possono fornirci informazioni riguardo a come «la società viene inclusa nel sé».109 Io sostengo che l’ipnosi e la possessione ci insegnino molto riguardo alla plasticità e alla diversità psichica; nella fattispecie, che un individuo può essere socializzato in modo da avere diversi loci di agentività. Ipnosi. Julian Jaynes descrive l’ipnosi come un comportamento che sembra negare «le nostre idee immediate sull’autocontrollo cosciente da un lato e la nostra idea scientifica sulla personalità dall’altro» (Jaynes, 1984, p. 450). L’ipnosi «entra ed esce dai luna park, dai laboratori, dalle cliniche, dalle fiere di paese, come un’anomalia indesiderata» (p. 449). L’ipnosi, comunque, è solo un membro della grande famiglia delle bizzarrie malviste dal pensiero scientifico, proprio come i medium spirituali, la scrittura automatica, la glossolalia e la trance poetica o religiosa. In seguito ci occuperemo più in dettaglio di un’altra drammatica e scientificamente imbarazzante parente dell’ipnosi, la possessione spiritica (confusa a volte con l’ipnosi stessa). A dispetto delle credenze di molti, tali comportamenti sono molto lontani dall’essere rari. Piuttosto, riempiono antichi testi sacri, resoconti storici ed etnografie contemporanee. Lontano dall’essere atipici, sono comuni, diffusi e, in alcune società, continuamente praticati. E sebbene sia inaccurato sostenere che questi comportamenti non siano stati investigati da psicologi, antropologi e ricercatori in genere, pochi di essi hanno cercato di integrare le conoscenze disponibili in una teoria comprensiva di come e perché la psiche umana produca tali comportamenti. Al contrario, molti scienziati accreditati hanno relegato questi fenomeni nell’ambito della superstizione considerandoli frutto di credenze esotiche o personalità instabili. Tuttavia, nonostante il tentativo di bandirli ufficialmente dal regno della scienza, questi comportamenti inusuali indugiano continuamente attorno alla dimora del pensiero razionale, bussando alla porta della consueta ricerca scientifica e affacciandosi in modo inquietante alle finestre del cosiddetto senso comune. In quanto indesiderati, come sembrano essere, questi fenomeni incredibili ci ricordano la nostra ignoranza di fronte alla ricchezza e alla complessità della diversità psichica umana. In ogni caso, l’esplorazione di questi comportamenti può offrirci un certo aiuto nel comprendere il problema dell’agentività. L’ipnosi pone in questione molte nelle nostre nozioni basilari rispetto al controllo di Sé e al senso di sé e, sorprendentemente, a dispetto della tremenda mole di letteratura sull’argomento, mi trovo qui costretto a formulare una definizione utile che la integri in una

teoria comprensiva per la psicologia sociale.110 Prima di dedicarci al problema centrale della natura dell’ipnosi, sono necessarie alcune demistificazioni. Vi è una credenza popolare secondo la quale, sotto ipnosi, la persona perda completamente la propria volontà e divenga un mero automa controllato e diretto dalle parole dell’ipnotista. Questo è un mito, perché nessuno può essere ipnotizzato a meno che non lo voglia, e non è possibile ordinargli di fare alcunché contro la propria volontà mentre è ipnotizzato.111 Ciò nonostante, la temporanea abdicazione dai propri poteri volizionali in modo del tutto indifeso e la repentina sottomissione agli ordini dell’ipnotista facendo a meno del senso di controllo soggettivo sono le caratteristiche più importanti di uno stato ipnotico. L’aumento della suggestibilità è stata molto enfatizzata dagli studiosi di ipnosi tanto che «molti hanno definito l’ipnosi riferendosi ai cambiamenti di suggestibilità che essa produce» (Hilgard, 1977, p. 163). Comunque, l’ipnosi comporta «molto più di un innalzamento della propensione alla suggestione» (p. 227). Cercare di stabilire di cosa si tratti sarà il nostro compito. Possiamo cominciare col chiederci perché avviene questa abdicazione, per quanto incompleta, della capacità personale di prendere decisioni. Perché un individuo permette a un altro di usurparne l’‘Io’ e di tenere le redini del suo ‘me’112 L’ipnosi tipicamente coinvolge due persone, l’ipnotista e l’ipnotizzato o, in altre parole, un agente attivo e un ricevente passivo.113 Durante l’ipnosi, l’ipnotizzato abdica volentieri alla propria credenza riguardo il controllo di Sé ed entra in trance; in altre parole, la credenza in un’interiorità metaforica ubicata nella testa viene sospesa. Questa sospensione annulla gli elementi dello spazio mentale, in particolar modo la credenza «Io-controllo-me», e la sua stretta parente «il Sé-controlla-il corpo». Il locus dell’agentività slitta temporaneamente dal controllo interno al controllo esterno, così che il proprio ‘Io’ viene rimpiazzato da un controllore esterno (l’ipnotista). Il fatto che le credenze riguardo il controllo di Sé siano dimesse così facilmente suggerisce per lo meno: 1) una certa molteplicità psicologica, cioè come le vestigia di un’antica mentalità continuino a esistere nell’individuo, 2) malleabilità psicologica, cioè come il processo di presa di decisione possa essere facilmente alterato, e 3) come la presa di decisione possa essere considerata una versione interiorizzata di relazioni sociali tra un agente e un ricevente. In ciò che è conosciuto come ‘autoipnosi’, la diade di comando-obbedienza viene internalizzata: «Un soggetto può condurre se stesso in una simile condizione o stato attraverso l’autoipnosi, attraverso un sistema verbale che può svolgere il medesimo ruolo di un ipnotista esterno» (Hilgard, 1977, p. 227). Infatti, tecnicamente tutti gli ipnotismi sono autoipnosi internalizzate: «La persona accetta l’ipnotista come un aiuto per ipnotizzare se stesso» (p. 229). Quindi, si dovrebbe dire che in un individuo l’‘Io’ (ipnotizzatore) induce il ‘me’ (ipnotizzato) in trance, con la guida e l’incoraggiamento da parte di un terzo fattore, l’ipnotista (Fig. 3). Il fatto che una persona possa ipnotizzare se stessa offre supporto alla convinzione di Harré che capire come qualcuno obbedisca a un’altra persona e capire come qualcuno obbedisce a se stesso sono problemi dello stesso ordine. Il modo in cui interagiamo con gli altri è strettamente legato al modo in cui interagiamo con noi stessi, ed è forse questo il motivo per cui, a volte, l’ipnotizzato ripete la suggestione dell’ipnotista a se stesso o se stessa, «modificando occasionalmente le parole per rendere la suggestione più accettabile» (p. 230). Certo, le differenze importanti, che esistono, tra l’obbedire agli altri e il prendere

decisioni non possono essere ignorate. Ciò nonostante, l’intima relazione tra comportamento intramentale e intermentale sembra essere evidente. Figura 3. Ipnosi: sospensione dell’interiorità.

Possessione. «La straordinaria importanza accumulata dal fenomeno della possessione in molte razze non è stata finoa sufficientemente apprezzata dall’etnologia» (Österreich, 1930, p. 378). Questo non è del tutto vero al giorno d’oggi, ma l’avvertimento del filosofo e psicologo tedesco Traugott Österreich, risalente agli inizi del secolo scorso, conserva intatta una certa importanza. In effetti molti antropologi ed etnografi hanno riconosciuto e documentato l’importanza della possessione. Tuttavia, se l’appunto di Österreich significa che i ricercatori non hanno riconosciuto il significato che la possessione può avere per la comprensione generale della natura umana, su questo non c’è dubbio. Malgrado la notevole letteratura su questo soggetto, esistono ancora molti punti oscuri riguardo alla natura della possessione. Come ha suggerito Bourguignon, ci sono diverse interpretazioni ma non una teoria sistematica del fenomeno (Bourguignon, 1978, pp. 489-90). Sebbene studi della possessione che si focalizzano sulle manifestazioni locali e sul suo utilizzo in particolari società siano importanti, l’incredibile ubiquità di questa pratica ci spinge a porci domande più fondamentali. Il fenomeno della possessione non è una pratica marginale e inusuale. Bourguignon riporta che 360 società su un campione di 488 credono nella possessione spiritica, e che 437 su 488 hanno istituzionalizzato una o più forme di stati alterati di coscienza (Bourguignon, 1973, 1974). Sebbene la letteratura sia piena di definizioni e classificazioni della possessione spiritica, c’è ben poco riguardo al perché la possessione in se stessa si verifichi.114 Per questioni di spazio non posso intraprendere quel che sarebbe un’utile rivisitazione, ma per gli obiettivi che qui mi prefiggo la possessione può essere definita come la fabbricazione sociopsicologica di sé alternativi radicalmente differenti dalla propria personalità quotidiana (in due parole, alterabilità psicologica).115 La possessione è più spesso descritta come «la sensazione di essere controllati», dove un altro soprannaturale usurpa la persona del suo ‘Io’ e comanda il suo ‘me’. Può presentare varie sfumature comportamentali, ma la cosiddetta ‘possessione classica’ comporta solitamente stati di trance durante i quali entra in azione un ‘altro Sé’, nuovo depositario dell’agentività della persona posseduta (Fig. 4). A seconda dell’interpretazione indigena, il responsabile della possessione può essere un dio, un antenato o uno spirito. Durante la trance si crede che questo agente, questo ‘altro-da-Sé’ entri nella persona al fine di controllarla. La possessione è di solito indotta in modo rituale e supportata da un contesto cerimoniale e da significati culturali ben definiti. In più, questi «non devono essere considerati i fenomeni isolati che appaiono semplicemente in una cultura e vi indugiano senza far nulla, sorretti esclusivamente dai loro meriti antichi» (Jaynes, 1984, p. 420). Figura

4.

Possessione

spiritica:

assunzione del comportamento dell’agente della possessione.

sospensione

dell’interiorità

e

Ciò che importa per i miei obiettivi attuali è il fatto che le persone possano essere istruite a esperire una radicale alterabilità. Questo è indicativo della natura altamente plastica della psiche. Tale plasticità – qui declinata in molteplici loci di intenzionalità – dimostra l’importanza della cultura per la costruzione dell’agentività stessa.

Conclusione Tipi differenti di mentalità hanno caratterizzato la psiche umana attraverso la storia. Ogni mentalità data consiste di operazioni cognitive che sono configurate da forze sociopolitiche. La moderna ricerca degli universali cognitivi (la psicologia con la ‘P’ maiuscola) ci ha distratto da un’attenta esplorazione delle ‘psicologie’ (la psicologia con la ‘p’ minuscola), la quale può rivelare indizi importanti su come opera la psiche umana. Tuttavia, nonostante il gran numero di prove a favore della suddetta plasticità mentale, vi sono certi parametri, come l’autorizzazione (sia in forma di allucinazioni direttive sia di processo decisionale autonomo), che sembrano essere universali. In questo capitolo ho solo sfiorato alcuni importanti problemi che richiedono un’ulteriore investigazione: le relazioni tra metafore e coscienza, i processi storici che sono alla base della costruzione socio-politica dello ‘spazio mentale’ interno, e la molteplicità psichica. I fattori che costruiscono le capacità intenzionali individuali spaziano da forme linguistiche, valori socio-politici, sviluppi tecnologici, ai nostri meccanismi neurologici. Al fine di capire la natura dell’intenzionalità, tutti questi fattori devono essere visti alla luce di come le relazioni sociali vengono trasformate in una ‘società psicologica’ interna di cui abbiamo bisogno al fine di essere persone capaci di eseguire la nostra volontà. I Sé sono molto più che una mera riproduzione di pattern sociali; essi sono inestricabilmente legati alla volizione e a come noi esperiamo soggettivamente il controllo o l’essere controllati. E, come forma di credenza, i sé sono culturalmente contingenti e diversi come diverse sono le nozioni di spiriti, anime e simboli sacri.

Appendice Esempi di aspetti attivi e passivi del sé

I due aspetti del sé L’analogo ‘Io’ come soggetto Attivo Attività psicomotoria

La metafora ‘me’ come oggetto passivo

Persona

Corpo

– Relazioni sociali (D)

Persona al controllo

Persona sotto controllo

– Interazione sociale (S)



Ruoli sociali, personaggi

– Inganno (S)



Falso personaggio

– Sé interiorizzato (D)

‘Io’

‘Spazio mentale’

– ‘Intrapercezione’ (D)

‘Io’

Scenario soggettivo

– Sé autoscopico (D)

‘Io’ osservante

‘me’ osservato

– Autoinganno (D)



Sé ingannato

– Sé introspettivo (S)

‘Io’

‘me’ attuale

– Sé retrospettivo (S)

‘Io’

‘me’ passato

– Sé prospettivo (S)

‘Io’

‘me’ futuro

(D) A livello sociale

Interiorità psicologica

Tempo interiorizzato

Esempi

Immagine del Sé – Sé ideale (S) – Sé perfezionato (S) – Aspetto del Sé (S)

‘Io’ idealizzante ‘Io’ attuale Corpo-Sé come scenografo

‘me’ nuovo/ideale Vecchio ‘me’ Corpo-Sé come manichino

Linguistica – Voce (D)

Attivo, agente

Passivo, ricevente

– Sintassi (D)

Soggetto

Oggetto diretto/indiretto

– Pronomi personali (D)

Pronomi soggettivi

Pronomi oggettivi

Attore

Ruolo

Creatore

Personaggio

Spirito, anima/e

Corpo

‘io’ usurpato, posseduto

‘me’ posseduto,

Arti – Performance teatrale (S) – Letteratura (S) Pensiero filosofico-religioso – Essenza spirituale (D) Comportamento socio-psicologico vestigiale

– Possessione spiritica (D) – Ipnosi (D)

‘io’ ipnotizzato, sospeso

controllato ‘me’ ipnotizzato, diretto

Disturbi – Agnosia (D) – Schizofrenia (D) – Disturbi d’identità multipla o dissociata (D)

Corpo-Sé

Distorsine/perdita

‘Io’ eroso, cancellato

‘me’ eroso, cancellato

‘Io’ multipli

‘me’ multipli



Sé virtuale

del controllo

Moderna cultura tecnologica – Cyberspazio (S)

(D) = profonde credenze cognitive rette da forti convinzioni e ostili al cambiamento (S) = credenze cognitive superficiali rette da deboli convinzioni e di facile cambiamento

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Coscienza e psicoterapia

Capitolo 7

Ascoltare voci: sdoppiamenti e dissociazioni nella coscienza di sé Alessandro Salvini, Maria Quarato Quanto sono cari questi uomini sodi che, davanti ad un fatto che non si spiega, trovano subito una parola che non dice nulla e in cui così facilmente s’acquetano. Allucinazioni. LUIGI PIRANDELLO

Premesse Partendo da una prospettiva interazionista proponiamo un’interpretazione teorica di talune allucinazioni uditive, non necessariamente psicotiche, note come ‘l’udire voci’, a cui preferiamo ‘ascoltare le voci’, sottolineando il ruolo attivo anche se inconsapevole di chi le ascolta. Un fenomeno diffuso, anche se da molte persone non confessato, che mette in difficoltà l’idea monocentrica, unitaria e integrata di ciò che chiamiamo coscienza di sé. Scavalcando i pregiudizi normativi e diagnostici, in questo lavoro eviteremo di reificare i concetti di mente e coscienza, ovvero di trattarli come se fossero cose, oggetti, assimilabili alle cose del mondo empirico. Il punto centrale della teoria interpretativa che proponiamo parte dalla costatazione che gli uditori di voci sembrano essere molto presenti in quello che le voci dicono loro. Voci reali per chi le ascolta e inesistenti per gli altri, cui incautamente possono essere confessate. Le voci risultano in genere dipendenti dai contesti relazionali che ne strutturano il senso e il significato. Da ciò la loro polifonia che s’innesta in sistemi di credenze, e in una presumibile matrice disposizionale, attivata dall’intreccio, variabile, di particolari condizioni, culturali, neurologiche e psicobiografiche. Il lavoro si sofferma in particolare sulla funzione psicologica che l’udire voci sembra avere per le persone che le sentono, costatazione rilevante per la loro accettazione e terapia. L’ascoltare voci sembra implicare uno sdoppiamento, non riconoscendo come propri i ‘pensieri che parlano’. Un’ipotesi aggiuntiva che tuttavia non viene sviluppata e rinviata a un altro lavoro, è che le voci siano ‘i pensieri degli altri’, attribuibili all’inesplorata dimensione della ‘mente estesa’. Ma anche al di là di questa ipotesi è palese che i pensieri degli altri, sia pure sotto forma di dialogo interno, sono comunque presenti nelle persone, e fanno parte del sistema silenzioso di controllo e di guida attraverso cui viene costantemente preordinata e organizzata la plasticità storica della convivenza sociale; aspetto fondamenale dell’organizzazione neurobiologica e sociologica della nostra mente che le scienze della psiche e del cervello regolarmente trascurano.

Eventi attivanti e configurazioni semio-percettive È noto che gruppi di cellule nervose possono attivarsi da sole in mancanza di stimolazioni evidenti, e questo per varie cause, come può accadere in chi soffre di acufeni, negli audiolesi, nei ciechi, negli amputati, o in particolari condizioni di deprivazione sensoriale. Si tratta di condizioni che possono dar vita alla percezione di qualcosa che non esiste, a fantasmi sensoriali che il soggetto crede reali (allucinazioni) o non crede tali (pseudoallucinazioni o allucinosi). L’assenza di una consapevolezza critica da parte del soggetto, in presenza di convinzioni, spiegazioni e fabulazioni illogiche e personali, può indurre ad assegnare il contenuto allucinatorio alla categoria del delirio. A seconda dell’organo di senso interessato e dell’elaborazione cognitivo-soggettiva, le allucinazioni possono acquistare le più diverse configurazioni percettive, ad esempio ‘spazio-temporali’, come nell’ipermnesia epilettica del lobo temporale, o visive, come accade nelle fasi iniziali dell’intossicazione da sostanze psichedeliche, o epidermiche (‘dermatozoiche’) come conseguenza dell’astinenza forzata da alcol o da cocaina, quanto esistono condizioni di dipendenza estrema. Si tratta come si è detto di fantasmi sensoriali, spesso percepiti criticamente dalla persona, e talvolta privi di senso e di significato, fino a quando l’evento attivante non venga interpretato e modellato attraverso configurazioni immaginative e narrative, come accade negli uditori di voci.116 Si tratta di artefatti non riconoscibili come propri, che implicano un restringimento e una dissociazione in quei processi di autoconsapevolezza che chiamiamo coscienza di sé. In questo lavoro, con il concetto ‘coscienza di sé’ indichiamo una certa classe di mutevoli esperienze semiotiche e percettive, prevalentemente implicite, mediate dalle relazioni dialogiche che le persone hanno con gli altri e il mondo e, per loro tramite, con se stesse.

Cosa insegnano le allucinazioni psichedeliche Se la stimolazione del nervo acustico attraverso una sequenza di note non si trasforma automaticamente in un’esperienza musicale, è altrettanto plausibile chiedersi perché gli effetti neurotossici di una droga psichedelica non si trasformino automaticamente in un’esperienza esoterica allucinatoria, soprattutto quando la persona è priva di una retrostante credenza interpretativa. A questo proposito qualche anno fa abbiamo studiato in una comunità di indiani Huicholes le relazioni tra semiosi immaginativa su base culturale e i contenuti allucinatori autoindotti.117 Gli Huicholes sono un’etnia isolata che abita gli altipiani del Messico centrale. Come per tutte le antiche culture dei nativi americani, anche per gli Huicholes l’esperienza spirituale è legata agli stati alterati di coscienza facilitati dall’uso di sostanze psicotrope.118 Gli Huicholes ricorrono all’aiuto di un piccolo cactus allucinogeno, il peyote, il cui principio psicoattivo è la mescalina, che usano al termine di lunghi ed estenuanti pellegrinaggi nel deserto del Real de Catorce, là dove avviene l’incontro con il mondo mitico degli antenati. Viaggio mitologico e visionario che, tra le altre cose, rinsalda il loro senso d’appartenenza e l’identità storico-biografica, accentuando l’effetto semiotico performativo delle narrazioni mitologiche autoriferite. Ma quest’effetto congiunto tra mito e droga non opera sugli estranei come è capitato a un membro del nostro gruppo di ricerca. All’estraneo, pur ammesso a questo rituale segreto e iniziatico e nonostante le dosi massicce di peyote, rimangono precluse le porte dell’esperienza estatica e visionaria degli Huicholes. Privo dei codici mitopoietici, delle rappresentazioni simboliche, delle matrici di senso e di significato e narrative, pur subendo gli effetti tossici della mescalina, l’estraneo non va oltre una confusa perturbazione sensoriale e percettiva. La disorganizzazione degli abituali schemi neurosensoriali dovuti agli effetti della mescalina non è sufficiente a immetterlo nel mondo spirituale e metafisico degli Huicholes. Al contrario, alcuni marracame (gli sciamani degli Huicholes), depositari della grande tradizione spirituale india, senza far ricorso al peyote, sono in grado di entrare negli stati alterati di coscienza e ‘viaggiare’ nei mondi metafisici, e per loro reali, delle proprie tradizioni religiose e magiche. Riuscire ad avere delle visioni, per quanto allucinate, implica condividere le matrici interpretative e narrative del proprio gruppo di appartenenza storica, sociale e culturale: presupposto performativo che mette l’adepto in condizione di evocare presenze metafisiche sotto forma di visioni e voci. L’uso di sostanze psichedeliche agevola l’ingresso in dimensioni dell’esperienza che acquistano i contorni e i contenuti narrativi propri del retroterra semiotico e quindi culturale di chi ne fa esperienza. Una documentazione in proposito è anche offerta da resoconti scientifici e clinici da parte di molti ‘psiconauti’ che hanno dimostrato l’esistenza di una relazione tra i repertori immaginativi e le pseudoallucinazioni psichedeliche, ad esempio da Albert Hofmann, lo scopritore dell’LSD, o Salomon H. Snyder, co-scopritore degli oppiati endogeni. Del resto sappiamo che quella certa esperienza che chiamiamo coscienza può avere contenuti diversi il cui grado di realtà varia secondo le circostanze e le credenze, e come sostiene anche Julian Jaynes (1976), la cultura costituisce il sostrato semantico della coscienza individuale. Alcuni uditori di voci sono in grado di trasformare gli ‘eventi attivanti’ come la percezione di rumori privi di senso, caotici e confusi, in voci umane. Andrea Fova (2002), un ricercatore nel campo della biofisica musicale, e a proposito dell’interpretazione

psicoacustica, sostiene che il nostro sistema percettivo del suono è in grado di ampliare senza limiti la nostra capacità di elaborazione dei segnali, per quanto complessi e inusitati possano essere (Fova, 2002).119 Anche il processo dei cosiddetti ‘ricordi inventati’, di cui esiste un’ampia letteratura prodotta dagli studiosi della psicologia della testimonianza e della memoria autobiografica, sembra dimostrare l’esistenza di un dispositivo pseudoallucinatorio che interviene o che viene utilizzato, ad esempio, da romanzieri, compositori musicali, inventori e artisti. È opinione di Michael Gazzaniga (2002), studioso dei ‘cervelli divisi’ che per motivi terapeutici sono stati sottoposti alla resezione chirurgica del corpo calloso, che la capacità di creare fantasmi di vario tipo sia dovuta ai processi interpretativi e semantici dell’emisfero sinistro, sempre al lavoro nel cercare di organizzare il significato degli eventi. Ma il senso e il significato da attribuire ai segnali sensoriali aspecifici (indipendentemente dalla loro origine e natura) non sono depositati in aree e circuiti nervosi predisposti, senza essere stati prima appresi insieme ai loro codici generativi e interpretativi. Julian Jaynes, citando l’accurata documentazione dell’antropologa Esther Pressel, ricorda a questo proposito come nei culti brasiliani, in particolare nell’umbanda, si insegni al novizio a entrare in trance ed evocare la presenza di uno spirito particolare, in funzione della possessione che deve impersonare. Anche le residue testimonianze del rito delle tarantolate del Salento, in Puglia, e delle loro pseudo-allucinazioni confermano quanto la rappresentazione della possessione, dovuta al morso immaginato di un ragno, la tarantola, si avvalga di un copione drammaturgico culturalmente preordinato. Un aiuto a entrare in uno stato alterato di coscienza e nella realtà dei suoi fenomeni allucinatori avviene anche grazie alla plasticità del cervello. Se si considera che esiste una notevole variabilità in questa plasticità è comprensibile come i contesti culturali possano favorirla. Il termine allucinazione non riesce a contenere nei suoi contorni lessicali l’ampia e differenziata esperienza percettiva cui gli esseri umani possono dar vita: in particolare si deve tener conto che tutto ciò che è creduto vero finisce per esistere e imporsi alla consapevolezza delle persone anche attraverso i suoi effetti socialmente condivisi.

L’uditore di voci è sempre uno psicotico? È sempre lecito considerare psicotico chi sente le voci? In questo lavoro assumeremo il punto di vista dell’uditore di voci, sia che venga dannato dalle voci che ascolta o che ne sia spiritualmente emancipato. Assumeremo anche il punto di vista dello psicoterapeuta che, non volendo riportare l’ignoto entro il già noto, ancor prima di una diagnosi spesso inutile cerca di trovare una soluzione. Per così dire guarderemo il problema dal basso per come si presenta ai suoi attori principali, compreso ciò che possono gridare o sussurrare i vari inquilini segreti. È noto che l’udire voci di persone che non ci sono e altri fenomeni complementari sono classificati tra le allucinazioni, e quando non sono spiegabili con qualche causa neurologica sono trasferiti nella categoria dei sintomi psicotici, con il risultato di trasformare una classificazione descrittiva e valutativa in una spiegazione. Allora si scrive: «Le allucinazioni uditive di G. sono ascrivibili agli effetti della sua latente psicosi schizofrenica non ancora conclamata in assenza degli altri sintomi correlati». Coloro che riferiscono di avere percezioni insolite, come appunto udire voci, seppure privi di altri disturbi sintomatici, possono facilmente incorrere in una diagnosi di psicosi ed essere trattati come tali, ad esempio con farmaci neurolettici, che tuttavia hanno un debole o in alcuni casi nessun effetto sulle allucinazioni uditive. In questo lavoro si intende mettere a fuoco il ruolo ‘attivo’ di chi ascolta le voci, e l’importanza delle mediazioni culturali e relazionali che preordinano i contenuti narrativi del fenomeno. Si cercherà di considerare anche il ruolo della ‘coscienza di sé’, intesa come costrutto interattivo e semantico, al fine di individuare strategie di aiuto e terapeutiche, considerando che l’udire voci spesso sembra essere una tentata soluzione a problemi personali, sia che le voci siano persecutorie o salvifiche. Il secondo intento sarà quello di richiamare alla necessità di rinunciare, almeno momentaneamente, allo schema dualistico e diagnostico basato sull’opposizione tra il normale e il patologico, che, dando un’apparente spiegazione, ancor prima di poterla dimostrare, rischia di bloccare ogni ipotesi conoscitiva. Trattandosi di un contributo anche ‘clinico’ orientato alla psicoterapia, dovremmo utilizzare un’epistemologia capace di guardare al fenomeno dell’udire voci non come a una ‘cosa’, una sorta di sottoprodotto della coscienza, quanto una delle sue molteplici possibilità. Come è stato più volte affermato da Robert Ornstein (1972), se la consapevolezza di quello che percepiamo è una costruzione e non l’automatica registrazione di una particolare attività nervosa, ne consegue che, intervenendo sul processo di costruzione, sarà possibile modificarlo. Per quanto riguarda l’udire voci, come ricercatori e terapeuti, non possiamo altro che sottoscrivere questa posizione, non in funzione della sua ‘verità’ o ‘falsità’, ma della sua adeguatezza, essendo a nostro parere la teoria (mappa) più adeguata al fenomeno (territorio).

Riportare l’ignoto oltre il già noto Per prudenza, molti uditori di voci evitano di confessare questa esperienza per non essere considerati pazzi e subire un grave pregiudizio sociale.120 Come documentato da molte ricerche epidemiologiche,121 proprio per non subire un giudizio stigmatizzante, molte forme di allucinazioni, comprese quelle uditive, sono diventate un fenomeno sommerso, nonostante la loro ampia diffusione tra la popolazione ‘normale’ (Fernyhough, 2004). Anche le ricerche di Marius Romme e Sandra Escher (1997) sembrano dimostrare che il fenomeno dell’udire voci sia molto più diffuso di quanto si pensi e non risulta necessariamente associato a situazioni psicotiche o a cause neuropatologiche. Inoltre, in base a molti riscontri storici, antropologici e psicologici, appare lecito supporre che la tendenza a generare stati allucinatori, specialmente uditivi, sia una disposizione e una possibilità presente allo stato latente in tutte le persone. La sovrapposizione tra situazioni particolari122 e un’accentuata disposizione individuale favorirebbe in alcuni soggetti la comparsa episodica o continuata di questo fenomeno.123 È il caso di soffermarsi sulla constatazione che spesso gli psicologi clinici e gli psichiatri, di fronte a una persona che confessa di essere un uditore di voci, tendono a riportare l’ignoto entro ciò che a loro è già noto sia per la formazione ricevuta, sia per le convenzioni normative di senso comune cui partecipano e per i criteri nosografici che utilizzano. Si costituisce così uno «schema di tipizzazione» generalizzato (Salvini, 1998)124 che induce l’osservatore prevenuto a sospettare in ogni uditore di voci uno psicotico.125 L’udire voci, a differenza di altre allucinazioni uditive associabili a forme neuropatologiche, continua a rimanere in molti casi un fenomeno in parte sconosciuto, rivelandosi un variegato arcipelago, che il termine ‘sintomo allucinatorio’, trasformandolo in un fatto medico o psicologico, non consente di comprendere e lo esclude da un’indagine scientifica multidisciplinare. Peraltro improduttivi si sono rivelati i tentativi di costruire una teoria eziologica e una classificazione diagnostica unitarie delle allucinazioni uditive. Ad esempio l’udire voci e altre allucinazioni associate possono comparire durante un’ebbrezza alcolica o in una situazione di lutto (Zuckerman, Cohen, 1964). Il fenomeno può anche manifestarsi in diverse situazioni, in modo soggettivo e imprevedibile, ad esempio durante uno stato febbrile, o una malattia neurologica, o un coma insulinico, ma anche in modo prevedibile e intenzionale durante un’autosuggestione cognitiva ed emotiva, i cui contenuti possono ricalcare credenze e generi narrativi culturalmente preordinati, come può avvenire attraverso l’induzione ipnotica, o in talune esperienze spirituali e religiose o attraverso certe pratiche immaginative.126 Molte ricerche cliniche ed epidemiologiche sottolineano che gran parte delle allucinazione uditive non sono sempre accompagnate da quadri psicologici disarmonici o disturbati, se non come effetto collaterale. Una linea di ricerca emergente può essere indirizzata allo studio di come l’evento attivante tenda a essere interpretato e usato in modo inconsapevole dall’uditore di voci attraverso copioni narrativi culturalmente preordinati. Le voci immaginate, ricordate, evocate, che potremmo definire ‘proto-allucinatorie’, costituiscono un fenomeno cognitivo ampiamente condiviso, di cui appunto l’allucinazione uditiva vera e propria può solo essere considerata un’amplificazione. Ad esempio è il caso dello scrittore che riesce a dare voce ai diversi personaggi del proprio testo teatrale o di un romanzo. Questa sorta di personalizzazione multipla, che implica un procedimento cognitivo che lo

psicologo francese Pierre Janet nel 1889 definì désagrégation o di dissociazione funzionale, confermerebbe quanto la ricerca cognitiva oggi sostiene, ossia la parzialità e multifocalità dei processi di pensiero. La coscienza di sé (io) può essere scissa e trasformata in una sorta di osservatore (me), che si costituisce come altro da sé, attraverso differenti processi rappresentazionali. Come è stato già da tempo messo in luce da diversi scrittori, tra cui Robert Louis Stevenson, Luigi Pirandello e Fernando Pessoa, o da filosofi e psicologi come William James e George H. Mead, in una stessa persona possono coesistere diverse possibili configurazioni della coscienza di sé, evocabili anche in base al tipo di relazione socialmente situata. Certi uditori di voci, quando sostengono che le loro allucinazioni uditive sono solo dei «pensieri che parlano»,127 sono in grado di riconoscersi in quello che la voce ‘altra’ dice, anche se resa oggettiva, udibile e separata, dalla propria capacità di controllo. L’udire voci richiama la plasticità multifocale e situazionale di ciò che definiamo coscienza di sé, influenzata dal linguaggio, dalle sue componenti semantiche e interattive di natura illocutoria e perlocutoria. La pluralità e varietà di quella esperienza situata che chiamiamo coscienza di sé, multifocale e situazionale, implica, nell’uditore di voci, un ruolo attivo, seppure non consapevole, ad esempio nell’uso di categorie interpretative che spesso danno alla voce un’intenzionalità relazionale e un senso e un significato. Il problema dell’ascoltare voci sembra avere il suo baricentro in un processo socio-semantico che poggia su una potenzialità neurolinguistica. Difatti le rappresentazioni dialogiche sono un’importante e fondamentale disposizione socio-cognitiva per la comunicazione e la percezione di sé nella relazione con gli altri. L’idea che l’uditore di voci si costituisca in modo passivo rispetto al fenomeno è disconfermato128 proprio dagli intervistati, che spesso affermano di ascoltare (più che di udire) in virtù anche di una focalizzazione attentiva anticipatoria.129

Punti di vista Alcuni psicologi cognitivi, come Paul Chadwick e Max Birchwood (1994) o Richard Bentall e altri (1988), hanno messo in dubbio l’utilità scientifica della categorizzazione psichiatrica delle allucinazioni uditive,130 sostenendo la necessità di indirizzare la ricerca allo studio dei processi mentali e neurologici sottostanti.131 Anche a nostro parere sembra più opportuno considerare queste afflizioni come modalità cognitive e percettive non dissimili, pur nella loro insolita organizzazione e funzione, da quelle operanti nei consueti processi mentali. L’ipotesi è che gli uditori di voci utilizzino alcune attività mentali simili al modo convenzionale di pensare e percepire. Ciò implica l’ulteriore ipotesi di una continuità, più che di una discontinuità, tra i processi mentali abituali e quelli più insoliti implicati nell’udire voci. Psicoterapeuti d’impostazione socio-cognitiva come Bentall (1997) o interazionista e strategica come chi scrive, condividono l’idea che l’individuo non subisca passivamente gli esiti di qualche accidente psicobiografico o le conseguenze della propria diversità culturale o neuropsicologica, ma tenti comunque di riorganizzare – anche attraverso soluzioni atipiche e personali – un proprio equilibrio autoregolativo. I cui effetti collaterali possono manifestarsi non solo in modo indesiderato, e incontrollabile, ma anche rivelarsi disfunzionali rispetto ad altre esigenze, ad esempio di adattamento sociale. Come si è già anticipato nelle premesse, il tentativo di dare ordine, coerenza e significato a una certa voce che appare incontrollabile, fa sì che l’uditore di voci cerchi di decifrarla ricorrendo a qualche schema interpretativo. Ad esempio, come vedremo, utilizzando credenze da lui culturalmente condivise, mescolate a generi discorsivi e a forme di ragionamento capaci di dare un contenuto narrativo e una spiegazione.132 In modo quasi analogo l’osservatore esterno, normativamente prevenuto, ricorre a sua volta a qualche schema interpretativo volto a riportare l’ignoto nel già noto, magari usando qualche forma di categorizzazione capace di dare un’identità al fenomeno, denominandolo e classificandolo, ad esempio, come ‘una possessione demoniaca’, oppure ‘un’allucinazione psicotica’, includendo spesso in queste due tipiche forme di classificazione: a) l’effetto di un giudizio normativo, che riflette la reazione difensiva del senso comune violato, b) l’uso di un’etichetta linguistica descrittiva come spiegazione tautologica.133 Al fine di considerare il fenomeno delle ‘voci’ nelle sue manifestazioni più esemplari e meno contaminate, dubbie o problematiche, in questo lavoro prenderemo in esame solo i fenomeni non accompagnati da deterioramento del pensiero, da un impoverimento dell’affettività, dai disturbi dell’immagine corporea, dal disadattamento sociale e dall’incapacità di assumere il punto di vista dell’altro. Eviteremo quindi di estendere le ipotesi che formuleremo alle allucinazioni che accompagnano gli stati mentali definiti schizofrenici, anche se altri psicoterapeuti si sono impegnati in questa impresa (Bentall et al., 1988; Chadwich et al., 1997).

Reperti soggettivi e clinici Samuel Taylor Coleridge ha raccontato che i cinquantaquattro versi del suo poemetto Kubla Khan gli erano stati dettati in uno stato di allucinazione durante la convalescenza solitaria seguita a una prolungata malattia. Il poeta Alphonse de Lamartine ha scritto: «Non sono io a pensare, sono le mie idee a pensare per me». Altrettanto sosteneva Mallarmé quando diceva: «Noi non parliamo, siamo parlati». Qualcosa di analogo hanno affermato Torquato Tasso, William Blake, Goethe e Percy Bysshe Shelley. Emanuel Swedenborg, scienziato e mistico svedese, descrisse l’aldilà, trascrivendo quanto gli dettava una voce misteriosa. Una presenza comunicò a Miguel de Unamuno, nel 1906, la data della sua morte avvenuta nel 1936. Il libro biblico del Deuteronomio prescrive l’ubbidienza dovuta alla voce divina ascoltata da Mosè, voce capace di porre i suoi comandamenti «nella bocca e nel cuore». Esiodo attribuisce il suo pensiero e i suoi scritti «alla voce delle Muse». Socrate sentiva la voce di un demone, una presenza sovrannaturale che lo consigliava, e Achille, come altri personaggi dell’Iliade, era in contatto con gli dei attraverso le allucinazioni verbali (Jaynes, 1984, 1986; Leudar, Thomas, 2000). Carl Gustav Jung, nella sua autobiografia, confessa di aver scritto Septem Sermones ad Mortuos sotto la dettatura della voce di Filomene (Jung, 1992). Il Mahatma Gandhi è stato ispirato da una «voce divina» nella sua battaglia per la giustizia sociale (Scott, 1997), così come Martin Luther King. La lista degli uditori famosi comprende santi e profeti, come Mosè, Maometto, san Paolo, Teresa d’Avila, Giovanna d’Arco. Il poeta John Milton parla di una «Celeste presenza, non implorata, che mi detta i miei versi non premeditati». Per Platone «tutti i buoni poeti, epici o lirici, compongono i loro canti perché sono ispirati o posseduti». La tradizione profetica, oracolare, visionaria, talvolta letteraria e poetica, greca, ebraica e cristiana, senza bisogno di scomodare altre culture storiche, è pervasa fino ai nostri giorni di voci: voci di dei, ninfe, angeli, demoni, santi, madonne e spiriti di defunti vari, in un brusio di sussurri e grida, amplificate da profeti, oracoli, medium e gente comune, che da sempre odono, riecheggiano o impersonano una molteplicità di voci aliene. È un vasto campionario di allucinazioni uditive che si sono manifestate un po’ ovunque, anche se la storia ha registrato solo le più celebri: rispettate se a contenuto religioso, tollerate se partorite dall’immaginazione d’intellettuali eccentrici. La Chiesa ha classificato le voci di sua pertinenza attraverso quattro categorie: canonizzazione, possessione, eresia, stregoneria. Dalla psichiatria tradizionale sono state prevalentemente considerate epifenomeni o sintomi di menti psicotiche e deliranti. Sospetto diagnostico che ci attraversa la mente se qualcuno, non in odore di santità o lontano da qualsiasi Parnaso poetico, come nel caso di Marta, un’uditrice di voci che ci racconta: «Anche ieri mentre mettevo a posto la cucina nel primo pomeriggio, l’ho risentita. Proveniva dal crocefisso che sta sopra la porta. Mi vergogno a ripetere quelle parole, bestemmie e frasi sconce, e poi mi sento come toccare, uno schifo e un tormento. Sono ormai dieci anni che il diavolo mi perseguita. Che dice, guarirò? Lo psicoterapeuta (uno di noi), commenta: ‘Affacciato su questo mondo ignoto, guardai Marta, era il nostro primo incontro, quarant’anni appena, un volto dai tratti delicati e

malinconici, accompagnati da un’eleganza dimessa, ma dignitosa: con le mani sulla borsa era lì composta, da sempre in attesa di un miracolo che la fede e le preghiere tardavano a concederle. Nel frattempo tanto aloperidolo, un farmaco antipsicotico, e amitriptilina per la depressione, ma con scarsi effetti sulla voce e la sua cattiveria’. Marta continuò: ‘Tutto è cominciato quando anni fa una mia parente tornò da un pellegrinaggio, la sua esperienza mi spinse a divenire più credente e a cercare d’essere migliore. All’inizio mi sembrava che la mia cattiva coscienza si trasformasse in una voce che Dio mi mandava per punirmi, poi ho pensato di avere il Diavolo; dove c’è un’immagine sacra, anche in Chiesa, sento la voce con i suoi insulti e le sue parole sporche. E poi in certi momenti è come se mi leccasse la faccia e il seno’. Lo psicoterapeuta commenta: ‘Questa donna tormentata dal maligno è una donna operosa, altruista, equilibrata, mite e arguta, artefice di una vita familiare abbastanza serena e impeccabile, con l’unico rammarico di non essere sempre capita, e anche un po’ derisa dal marito per questo suo parlare con gli angeli. Una vita di piccole gioie e con qualche delusione, tutto riposto pudicamente e con ordine tra le pieghe dei giorni, come nei cassetti di casa. Una donna all’apparenza senza problemi, se non fosse per quella voce punitiva, indecente e persecutoria, capace di tormentarla nei suoi più delicati sentimenti morali e religiosi. Cercando in lei il giudizio di un osservatore neutrale, a un certo punto le chiesi: “Secondo lei si tratta del demonio o di una malattia?” La donna mi guardò come se le facessi una domanda difficile e anche un po’ ovvia. Per stimolarla aggiunsi: “Non ho capito, perché si affida simultaneamente ai farmaci e alle preghiere?” Non rispose neanche questa volta, troppo presa dagli echi di quella voce per essere in grado di scrutarne la vera natura. Avrei dovuto tener conto che chi confessa a qualcuno un problema morale o psicologico, cercando aiuto, lascia all’altro il compito di definire la natura del suo male. Solo dopo qualche tempo, alla fine di un incontro, Marta, mite e gentile, con un filo di voce disse, quasi per caso: “Sa sono pensieri che parlano, se non li avessi sarei una belva”. Ma quest’accenno non ebbe un seguito, svanì dalla sua coscienza con la stessa rapidità con cui era emerso’». Ogni consapevolezza, perché attecchisca e generi uno schema associativo tra se stessa e l’afflizione psicologica che pensa di subire, richiede un ‘io narrante’ che sia in grado di mettere una certa distanza tra l’esperienza e il suo racconto. Come dire che i demoni si nutrono delle nostre verità ed emergono come altro da sé quando, per necessità, veliamo lo specchio della consapevolezza. Se la voce ascoltata da Marta non era il sintomo di una psicosi, di una rivelazione metafisica, o di un’esperienza religiosa, né il più probabile effetto di virtù trasformate in spine, rimane la necessità di capire che cosa fosse e che cosa avesse in comune con le voci di un’altra donna, Daniela. Un’impiegata trentenne, affascinata e affezionata a una voce priva d’identità, di cui si dichiarava «felice perché mi fa sentire viva, mai sola, mi dà forza e in alcuni momenti soddisfa il mio senso di dare e avere protezione. Voglio mantenerla perché è come essere e avere un bambino». Mentre Simona, una studentessa di venticinque anni senza problemi, racconta di avere avuto frequenti allucinazioni uditive accompagnate da armonie musicali, intrise di celesti estasi cinestesiche.

Polifonie Le voci sono talvolta presenti nell’infanzia sotto forma di compagni segreti e illusori, altre volte compaiono in età adulta. Questi visitatori del silenzio interiore assumono voci maschili, femminili o non classificabili, possono essere voci amabili e protettive, oppure ostili o critiche, note o sconosciute. Altre volte sono voci che parlano tra loro, rumori di fondo oppure gente che ride, pianti di bambini, musica o cani che abbaiano. Si manifestano dentro o fuori la testa, in alto o in basso, escono da qualche parte del corpo, possono ordinare in modo autoritario e chiedere cose inaccettabili, generando stupore, angoscia e accondiscendenza. Come nel caso di Mauro, un atleta di ventisei anni, a cui una voce forte e suggestiva impartiva ordini tassativi: «Qualche volta non ce l’ho fatta a resistere e mi sono trovato di fronte allo specchio con uno spillo in mano mentre mi veniva ordinato di bucarmi gli occhi, strumenti del peccato. Ma all’ultimo momento sono sempre riuscito a ribellarmi». Molto diversa invece l’esperienza di Miriam, una studentessa ventenne, estroversa e serena, piena di amiche simpatiche con cui chiacchierare a lungo, in particolare Francesca ed Ester, intendo come voci. Presenze allucinate con cui è cresciuta, ognuna con una sua vita e una precisa identità biografica. Proprio Ester ha aiutato Miriam a studiare e superare un esame di biologia, spiegandole e fornendole molte nozioni accessorie. Ma se Miriam ed Ester sono la stessa persona rimane il mistero di capire come una parte di Miriam sapesse già quello che ascoltava attraverso la voce di Ester. In molti casi queste ‘voci di dentro’ sono presenze anonime, bollettini radio, tracce di conversazioni lontane, frequenti o incostanti e capricciose. Talvolta queste voci sono accompagnate da sensazioni tattili, visive, olfattive, cinestesiche, mnestiche, eidetiche o altro. Se produrre una voce è una tentata soluzione, anche il cercare di controllarle implica altre tentate soluzioni. Come reagiscono le persone? Da una nostra indagine alcune s’incuriosiscono, altre si terrorizzano, altre ancora ricorrono a cure mediche, qualcuna a pratiche esoteriche, ad ausili religiosi o a trattamenti psicologici. La maggior parte convivono silenziosamente con il proprio segreto134 e non lo raccontano a nessuno, temendo giustamente di essere etichettate come folli. Può darsi che la vicina di ombrellone di quest’estate, il solerte vigile urbano che conoscete bene, il vostro medico di fiducia, celino questo loro privilegio o tormento segreto. ‘Voci di dentro’, per parafrasare il titolo di una commedia geniale di Eduardo De Filippo, che talvolta da immaginate diventano ‘reali’, o da protoverbali a chiare e forti, solo perché il dolore emotivo consente ad alcuni di alzarne il volume, creando così una voce altra, ad esempio paranoica, che solleva dalla colpa o da altri sentimenti difficili da gestire. Scrive Richard Bentall: «La mia esperienza di persone che odono le voci è che esse sono spesso individui molto intelligenti, sensibili e creativi, che stanno lottando per dare senso a un mondo spesso confuso e spaventoso» (1997, p. 230). Richard Bentall ha anche scoperto che le persone che odono voci, rispetto a quelle che non le sentono, tendono a essere più suscettibili a uno strano meccanismo: «Quando sperimentano un evento che potrebbe essere anche un solo pensiero, invece di qualcosa che hanno udito, tendono a presumere o a costruire un qualcosa che essi percepiscono realmente» (p. 230). Diversi gruppi di ricercatori e psicoterapeuti di estrazione cognitivista, basandosi su molteplici evidenze empiriche e cliniche, sono convinti che le allucinazioni uditive nelle

persone normali debbano essere spiegate postulando un evento attivante insolito e di diversa natura e configurazione. Evento attivante cui gli individui si sforzano di dare un senso e un significato costruendo, dai brandelli di frasi o suoni immaginati, l’esperienza che poi riferiscono. Esperienza percettiva che le associate reazioni emotive consolidano aumentandone «l’effetto realtà». Il cosiddetto evento attivante rimane amalgamato e irriconoscibile nei contenuti dell’esperienza allucinatoria. In certi casi è possibile riconoscerlo nell’innesco sensoriale da cui scaturiscono le voci e l’interpretazione/costruzione dell’esperienza allucinatoria. A questo proposito racconta un biochimico quarantenne: «Ho un appartamento al mare in un villaggio vacanze sulla costa adriatica. Mi piace andarci d’inverno quando non c’è nessuno, né altri vorrebbero venire. Il silenzio è totale, rotto soltanto dal rumore del vento che s’infila nei corridoi, tra le siepi di oleandro, e negli anfratti di edifici che sembrano delle colombaie vuote. Passo le giornate leggendo, camminando, guardando la spiaggia intrisa di umidità e di nebbia. Non parlo per dei giorni con nessuno, mi va bene così e sono contento. Quest’inverno mi è capitato, prima di addormentarmi, di sentire delle persone che parlavano fuori, ora dietro la porta, ora dietro la finestra. Mi sembravano voci liete e giocose di cui non riesco a capire le parole, che mi fanno pensare a degli angeli. Le prime volte sono rimasto sorpreso, spaventato e incuriosito. Aprivo la finestra, ma fuori non c’era nessuno. Dopo un po’ ritornavo a letto, tendevo l’orecchio e frammisto al vento e al rumore delle onde ricomparivano queste voci liete. Ho imparato a conviverci. Ora me le porto dietro anche in città, sorgono da ogni rumore di fondo e costante, come il traffico. Ho letto che non devo preoccuparmi, ho consultato uno psicoterapeuta che me lo ha confermato. È meglio avere queste allucinazioni che altri tipi di allucinazioni, come chi sente i fischi nelle orecchie, gli acufeni, e sono molti. Quando sono a letto e compaiono le voci, mi riaddormento sereno pensando di essere un santo o un bambino. Mi sembra di averci preso gusto e di aver imparato a evocarle». Dicevano gli antichi greci «gli dei vengono dapprima con una certa riluttanza, e poi più facilmente, una volta che si sono abituati a entrare nella stessa persona». Come si è già accennato, nei culti brasiliani, come nel caso dell’umbanda, se un bambino vuole diventare un medium, viene incoraggiato a farlo e riceve una preparazione speciale, un po’ come le ragazze che diventavano sacerdotesse oracolari a Delfi: la possessione è anche una forma mentale appresa. Le voci sono anche un sintomo complementare ad altri nelle sindromi schizofreniche, in cui accanto alle allucinazioni uditive si coagulano ideazioni deliranti, appiattimento affettivo, disinteresse verso se stessi e gli altri, deterioramento del pensiero e isolamento sociale. Talune persone possono sentire le voci durante periodi prolungati di isolamento e solitudine, o avvertirle in situazioni di deprivazione sensoriale (Zuckermann, Cohen, 1964). Traumi di separazione e perdita sono spesso associati all’insorgenza di fenomeni allucinatori. In una ricerca del 1971, riportata nel British Medical Journal, Dewi Rees riferì

che su 295 vedovi e vedove intervistati, 137 dichiaravano di aver sentito la presenza del coniuge morto, di averlo udito o di averci parlato. Ci sono molti esempi che dimostrano come alcuni individui possano allucinare le voci dopo una suggestione. Ad esempio, se a un gruppo di persone comuni viene chiesto di chiudere gli occhi e ascoltare un disco con la musica di Bianco Natale, circa il 5% riferisce di aver sentito la musica, anche se in realtà non è stato messo nessun disco (Bentall, 1997). Abbiamo spesso notato un effetto analogo anche durante le sedute di training immaginativo, in cui alcune persone, entrando in uno stato di trance e facendo propri i suggerimenti del terapeuta, riferivano di aver sentito chiaramente il suono delle campane, o visto in dettaglio un panorama, oppure di aver avvertito la pelle bagnata, o altro ancora.

L’ipotesi subvocale La più accreditata tra le ipotesi che cercano di spiegare come sia possibile il fenomeno è la cosiddetta teoria dell’output (Frith, 1995). Trattandosi di una teoria neuropsicologica, non pretende di offrire una teoria esplicativa e generale, ma cerca soltanto di capire come possano avvenire. Attraverso questa ipotesi i ricercatori hanno cercato di dimostrare sperimentalmente come sia possibile parlare a se stessi, attraverso un linguaggio subvocale. Per cui alla formazione delle allucinazioni uditive concorrerebbe un linguaggio interiore ‘subvocale’ che il soggetto attribuisce ad altro da sé. Le subvocalizzazioni hanno il corrispettivo fisiologico nei muscoli che regolano l’articolazione della parola. Quando una persona ode voci, questi muscoli diventano più attivi e aumentano l’attività bioelettrica, che è stato possibile amplificare. Queste subvocalizzazioni non generano suoni, ma avvengono durante il normale pensiero verbale. Pensare attraverso parole, come quando uno prepara un discorso o scrive, implica una specie di dialogo subvocale. I neuropsicologi Baddeley e Lewis (1984) sostengono che la voce interna subvocale ha un corrispettivo nell’autoascolto silenzioso che manterrebbe l’immagine acustica. Come quando cerchiamo di rievocare un numero telefonico, la traccia sonora e verbale lega tra loro i singoli numeri e favorisce il recupero mnestico. Forse è per questo che ci è più facile ricordare i versi di una poesia, anticipando mentalmente i suoni della rima. In alcune persone, come tutti possono osservare, il dialogo non è solo interno: certi leggono muovendo le labbra, altri parlano a se stessi a voce alta e talvolta improvvisano soliloqui che non sono tali, perché queste persone si interrogano e si rispondono come se discutessero con un altro. Gli uditori di voci sono forse ascoltatori di se stessi, visto l’inconsapevole ruolo attivo che esercitano pur senza rendersene conto. Per questo utilizzano un processo dissociativo operante, ad esempio, in certe forme di trance. Si può supporre che gli ascoltatori di voci utilizzino ampiamente questo processo: difatti la dissociazione può creare stati mentali e di autoconsapevolezza tra loro separati. Si tratta di un processo che ha un ampio campo di applicazione: è sufficiente assistere a un film che coinvolge ed emoziona e lo spettatore può dimenticarsi le scarpe troppo strette; anche la sofferenza affettiva può tacere finché dura un incontro o una telefonata. Cambiamenti di contesto, ruolo e situazioni implicano forme di coscienza di sé separate. Lo spostamento d’attenzione è una tecnica non solo dei prestigiatori e dei truffatori, ma anche degli psicoterapeuti. La scissione del pensiero e dell’autoconsapevolezza impedirebbe a molti (ma non a tutti) di riconoscere il proprio pensiero nelle voci che ascoltano, e ad altri, ad esempio, di escludere dalla propria consapevolezza il ricordo di un trauma biografico e i tentativi per escluderlo dalla propria coscienza e ricordo.

Schemi linguistici Durante la pratica clinica abbiamo notato spesso che, quando le persone si dispongono come ‘osservatori di se stessi’, descrivono i fenomeni che subiscono, e che cercano di controllare, usando aggettivi e sostantivi piuttosto che verbi di stato. L’attribuzione di caratteristiche, di qualità, di appartenenza e d’identità alle voci appaiono come tentate soluzioni. Difatti, ciò consente agli uditori di voci di isolare e distaccare la voce dalla propria regia e coscienza trasformandolo in una ‘presenza’, e permette la personificazione della voce come altro da sé. L’attribuzione di caratteristiche personali e la reificazione del fenomeno rinforzano nell’uditore di voci il processo dissociativo che contribuisce al disturbo. Invece l’uso di verbi di stato e d’azione riferiti a se stessi tende a produrre un fenomeno inverso, ovvero l’integrazione. Così testimonia Jeanne des Anges, una suora dell’ordine delle Orsoline del monastero di Loudun che, in una celebre autobiografia (scritta nel 1636) descrive la sua prolungata esperienza di possessione e l’episodio della sua progressiva liberazione (il successo della terapia, ovvero gli esorcismi di padre Lactance): «So benissimo di non aver compiuto liberamente quest’azione, ma sono certa, per mia gran vergogna, di aver dato modo al diavolo di compierla. I demoni spiavano le mie inclinazioni naturali, le stimolavano un po’, e poi mi lasciavano agire» (des Anges, 1636, p. 31). La descrizione delle caratteristiche delle voci e la loro personificazione come altro da sé sembra rinforzare le attribuzioni di causa, ovvero la spiegazione del perché si verifichi un certo evento (gli angeli, il demonio, lo spirito guida, ecc.) aumentando l’attesa e la probabilità che l’evento si ripeta, dal momento che ogni spiegazione, basata sulle caratteristiche di un evento, produce implicitamente un’anticipazione possibile. Chaplin e altri, nell’ambito degli studi sui processi attribuzionali, hanno dimostrato che le spiegazioni di causa implicano stabilità, coerenza e prevedibilità ai fenomeni dando loro un’identità categoriale che è anche il presupposto dei ragionamenti anticipatori, orientando all’attesa di conferma. Infine il linguaggio di chi descrive esperienze di questo tipo viene spesso usato in senso normativo, ovvero contiene enunciati che definiscono e regolano i rapporti con gli eventi, influendo sulle associazioni concettuali ed emotive. Pare infatti che in molti casi le costruzioni di significato siano generate dai tentativi di dare un senso agli eventi, grazie al linguaggio e ai suoi preordinati schemi interpretativi e categoriali: un sistema operante in un modo che non è sempre facile modificare, anche ricorrendo a diversi espedienti psicoterapeutici.

I generi discorsivi codificati La maggior parte delle persone che hanno allucinazioni uditive non sente suoni o parole sconnesse, ma tende ad ascoltare ingiunzioni, raccomandazioni, esortazioni, minacce, indicazioni, suggerimenti, opinioni, conversazioni, ovvero dei ‘generi discorsivi codificati’ non estranei alle loro conoscenze ed esperienze. Ciò che viene ascoltato sono ‘atti comunicativi’ in cui alla ‘voce’ vengono attribuite delle intenzioni e a ciò che dice un senso e un significato. I resoconti di chi sente le voci possono essere interpretati da un osservatore esterno come il sintomo di una malattia psichica, se ha come riferimento interpretativo uno schema categoriale e discorsivo di tipo medico (psichiatrico, psicoanalitico o psicodiagnostico). Spesso possono confrontarsi due ‘generi interpretativi’ incapaci di comprendersi: quello di colui che sente le voci e quello dell’osservatore diagnosta. Talvolta il secondo prevale sul primo, quando anche l’uditore di voci comincia a considerare il suo disturbo una malattia, assumendo in modo privilegiato il punto di vista dell’altro, ad esempio secondo lo schema ‘sintomo-patologia’. L’incapacità di controllare le voci, l’ansia e la paura che possono generare, fanno sì che queste persone cerchino e accettino le spiegazioni e le terapie proposte dagli esperti cui si rivolgono, si tratti di psicoanalisi o di esorcismi, di pratiche psicologiche o di farmaci. Il linguaggio organizzato attraverso generi interpretativi, sia quello che s’impone attraverso le voci, sia ciò che viene detto sulle voci, finisce per essere uno strumento di percezione e un criterio di attribuzione causale. Così, l’uditore di voci a) trasforma ciò che sente in un atto comunicativo intenzionale di un ‘altro da sé’, b) attribuisce un senso e significato a ciò che pensa di ascoltare utilizzando i propri riferimenti culturali e personali o condividendo le spiegazioni di altre persone. Non è una sorpresa constatare che le voci e le allucinazioni complementari, come quelle visive, tendono a conformarsi a generi immaginativi e discorsivi già presenti nell’esperienza e nei retaggi sociali e culturali della persona e del gruppo professionale cui si rivolge. Le conoscenze sul mondo sedimentate nel linguaggio riaffiorano attraverso la scelta delle parole, l’organizzazione sintattica, i riferimenti di significato e le tematiche narrative preordinate. Ad esempio, una persona dice: «Sono minacciato da un robot che, con voce metallica, mi ordina di trasformarmi in un rapinatore quando vado in banca per poter dare i soldi ai poveri». Si tratta di un genere discorsivo in cui sono presenti rappresentazioni convenzionali (voce metallica, robot), copioni d’azione (la rapina alla banca), significati morali e sistemi di valori (commettere un reato per una giusta causa). Nella scheda 2, nell’Appendice, riportiamo alcuni frammenti di testimonianze raccolte tra alcuni uditori di voci. Si può notare come i soggetti non dicano niente che non sia già presente nel repertorio delle cose a loro presumibilmente note. L’influenza della cornice culturale sulle allucinazioni è ovvia, anche se i terapeuti sono portati a dimenticalo, presi come sono dal giudicare difensivamente i contenuti di ciò che appare come il prodotto privato di una mente bizzarra o malata.135 Man mano che il sacro si secolarizza, anche le voci sembrano perdere il carisma della rivelazione divina o delle tentazioni diaboliche. Dio, il diavolo, i santi, sono sempre meno frequenti nelle allucinazioni uditive, sostituiti da genitori, amici, attori, cantanti, extraterrestri, entità parapsicologiche, o guru partoriti dalla New Age.

Da anni la piazza di Galatina, in provincia di Lecce, è vuota. Da tempo non vi confluiscono più, nel giorno di san Paolo, le tarantate. Nell’omonima cappella o nelle vicinanze venivano sottoposte a una terapia: sociale, coreutica ed esorcistica, che le liberava dalle possessioni e dalle voci, del cosiddetto male di san Donato. Una di queste donne, Maria, scriveva negli anni Sessanta all’antropologa Annabella Rossi (1970): «Il Santo nostro S. Paolo disse, il giorno mio devi venire alla mia cappella tutta vestita di bianco come una sposa che devi morire il giorno mio» (p. 89). Si trattava di donne, le ‘tarantate’, afflitte dagli effetti di un immaginato morso di un ragno, la tarantola: voci e narrazioni allucinate di una memoria e di un disagio espresso attraverso forme culturali ormai scomparse. Ma l’influenza culturale e sociale sembra andare oltre. Come sostiene anche Julian Jaynes, l’udire voci è una disposizione latente e arcaica, che affiorerebbe, in certi individui predisposti, in situazioni di stress e di sovraccarico emozionale e di malattia. Un’ulteriore facilitazione all’affioramento di questa disposizione latente in tutte le persone potrebbe essere offerta da particolari contesti culturali. Joseph Rainer, in un’ampia rassegna sulle allucinazioni uditive in pazienti sordi, alcuni fin dalla nascita, offre le prove dell’esistenza di una struttura arcaica filogenetica, che darebbe al linguaggio e all’udito un ruolo importante nel monitoraggio sociale dell’ideazione e del comportamento umano. Se è vero che per i bambini di qualche generazione fa la voce del grillo parlante di Pinocchio era l’alter ego laico della voce dell’angelo custode, la voce della coscienza rimane l’archetipo del controllo morale socialmente interiorizzato dall’infanzia. Una polifonia di voci fatta di raccomandazioni, esortazioni, indicazioni e giudizi morali, che costituiscono il nucleo generativo di quei pensieri che sono regolati dall’io penso che lui pensi di me. Processo che implica una teoria della mente, ovvero come le nostre relazioni interpersonali e intrapersonali siano guidate da ipotesi (o teorie) su come e che cosa l’altro pensi rispetto a sé, agli altri e al mondo. Appare sempre più chiaro che il bambino, nello sforzo di assumere il punto di vista dell’altro, ad esempio le sue aspettative, costruisce non solo la consapevolezza di sé, ma anche un modo di pensare e di agire, da cui apprende categorie di giudizio e forme di pensiero preordinate e performative. Questo processo non si ferma all’infanzia, ma dura tutta la vita e sembra dare ragione a George H. Mead (1976), quando sosteneva ciò che indichiamo con la parola ‘mente’ sta negli atti comunicativi e tra le persone e non nella loro testa. Proprio gli ascoltatori di voci, le loro allucinazioni, e gli studi sulla presenza dell’altro immaginato o reale nel nostro pensiero, ci ricordano che la coscienza di sé non è mai qualcosa di privato. L’aver sempre presente in modo implicito e sedimentato il punto di vista dell’altro a controllo della propria azione diventa costitutivo dei significati che attribuiamo ai nostri pensieri (o voci di dentro).136

Credenze costruttive Il termine delirio, intesa come falsa credenza, infondata e illogica, può essere applicato dall’osservatore alle spiegazioni o alle congetture che l’ascoltatore di voci fa intorno alle proprie allucinazioni, come quando quest’ultimo crede nella verità di ciò che percepisce e nella realtà delle proprie convinzioni e spiegazioni. Ma non esistono metodi sicuri per stabilire se le convinzioni che una persona si fa intorno alle proprie voci siano un fatto delirante. Tuttavia il clinico che applica il criterio normativo del senso comune e ha come criterio la sua esperienza, può considerare deliranti certe convinzioni solo perché devianti o diverse da quelle comunemente ammesse dal proprio gruppo professionale e socio-culturale. Se una voce ordina a una persona di uccidere qualcuno, o a una seconda ordina di dilapidare i suoi risparmi, la prima persona ci sembra più folle dell’altra più per motivi morali che per ragioni scientifiche. Per lo scienziato, gli interrogativi che sollevano le due voci sono identici. Nei clinici, piuttosto che il fenomeno in sé, sono le preoccupazioni morali e di difesa sociale che suggeriscono la necessità di un trattamento psichiatrico. Invece, per alcuni psicologi ciò che può apparire un’ideazione delirante, ad esempio le interpretazioni e le credenze dell’uditore, è l’effetto di ragionamenti normali applicati a fatti insoliti che violano l’esperienza abituale. Bisogna anche tener conto che l’effetto di realtà delle voci è talmente forte da spingere chi le ascolta a cercare di spiegarle ricorrendo ai saperi accessibili e disponibili, siano essi filosofici, religiosi, paranormali o medici. Gli studi di Aggernaes (1972) e, più recentemente, di Barrett e Caylor (1998), hanno dimostrato che le allucinazioni sono effettivamente percepite come reali in funzione delle credenze. Comprendere da un punto di vista clinico la forza dell’effetto di realtà dell’autoconvincimento condiviso con gli altri rende più cauti i giudizi svalutativi che il concetto di delirio trascina con sé. In alcuni casi, come abbiamo rilevato anche nei soggetti da noi studiati, l’udire voci può accompagnarsi ad altre allucinazioni sensoriali, olfattive e visive in cui appare rilevante l’effetto costruttivo. Alla fine dell’Ottocento Alexandra David-Néel si recò in Tibet e trascorse quattordici anni raccogliendo quello che è ancora uno dei più dettagliati resoconti di una pratica mistica e di un addestramento mentale da parte di un occidentale in quel paese. La David-Néel (1931) descrive diffusamente la tecnica atta a generare un fantasma o tulpa con una potente concentrazione di pensiero: «La mia abituale incredulità, ella dice, mi portò a fare esperimenti sul mio conto, e i miei sforzi ebbero un certo successo [...] scelsi per i miei esperimenti un personaggio molto insignificante, un monaco piccolo e grasso, di carattere innocuo e gioviale. Mi chiusi nel Tsam e cominciai a raggiungere la prescritta concentrazione di pensiero e a fare altri riti. Dopo pochi mesi il fantasma del monaco era formato. La sua forma si andò gradualmente fissando come fosse viva. Divenne una specie di ospite che viveva nel mio appartamento».

Morton Schatzman (1980) ha riportato il caso estremo di una sua paziente: Ruth, una giovane donna sposata con figli, che ha cominciato a percepire il padre morto che l’aveva traumatizzata nell’infanzia. L’apparizione del padre la seguiva ovunque, presentandosi nei momenti più impensati, sentendone la voce, il tocco e l’odore. Una serie di test, anche sotto ipnosi, e di indagini psicofisiologiche, come i potenziali evocati visivi e uditivi,137 portarono Schatzman a una constatazione sorprendente: l’apparizione che Ruth percepiva era per lei reale, come dimostravano i tracciati elettroencefalografici che registravano l’attività anticipatoria e la percezione reale dell’immagine del padre, o i test che registravano l’affioramento di una memoria infantile assai vivida associata alla capacità di produrre immagini eidetiche. Elementi che immettevano nel presente la percezione fisica, uditiva, olfattiva e tattile del padre: una sorta di attualizzazione di un ricordo materializzato. Ovviamente Ruth non voleva creare quest’apparizione e non se ne sentiva l’artefice. Scoprendo, con l’aiuto di Schatzman, che era lei a generare la realtà percettiva di questo ricordo, Ruth fu in grado di controllare gradualmente l’apparizione del fantasma, fino a dissolverlo. Se Ruth fosse stata affiliata a una setta religiosa, molto probabilmente avrebbe costruito una spiegazione dell’apparizione coerente con le sue credenze e avrebbe rinforzato la capacità di evocarlo. Tuttavia, nonostante l’assenza del delirio, e di altri sintomi, ma data l’eccezionale anormalità del fenomeno, Ruth era stata inizialmente diagnosticata come schizofrenica. Nel capitolo che segue affronteremo il tema del trattamento terapeutico dell’udire voci e dei dialoghi interni conflittuali.

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Capitolo 8 Psicoterapia delle voci e dei pensieri persecutori Alessandro Salvini, Giorgio Nardone

Mentre alcuni psicologi stanno cercando di ricostruire e individuare i processi cognitivi, sociobiografici e neuropsicologici che rendono possibili molte forme di allucinazioni uditive, considerate come forme parassite della coscienza di sé, altri clinici hanno cercato di mettere a punto alcune strategie psicoterapeutiche. Mentre i primi indagano sui processi interni (attività subvocale, schemi inferenziali, autorappresentazioni e valutazioni) ed esterni (modelli culturali, relazioni interpersonali e biografiche), gli psicoterapeuti hanno sviluppato in modo complementare alcune tecniche di aiuto a partire dalle conoscenze disponibili. Le psicoterapie a orientamento interazionista e strategico sono quelle che in misura maggiore si sono occupate del fenomeno. Gli obiettivi che questi psicoterapeuti si propongono sono: • mettere in condizione chi è disturbato dalle voci di conviverci, di accettarle,138 eliminando le reazioni di ansia e paura, e utilizzando varie forme di coping;139 • modificare l’eventuale vulnerabilità psicologica individuale cui l’allucinazione risulta collegata come tentata soluzione; • modificare il sistema di credenze (o il delirio) e i processi relazionali che autoalimentano e mantengono il fenomeno. L’udire voci implica anche un altro fenomeno parallelo i cui processi sono simili, ovvero l’ospitare presenze dialoganti, critiche, persecutorie, conflittuali, non vissute come separate ma intimamente connesse con se stessi, al punto di diventare altrettante volontà con effetti inibenti di ogni possibile progettualità personale. In modi molto attenuati questo fenomeno può manifestarsi in modo episodico in tutte le persone. Il caso che seguirà ne è un esempio. In base a quanto sostenuto nel precedente capitolo, e all’interpretazione teorica proposta, gli obiettivi della terapia delle voci e degli altri fenomeni simili, come appunto le presenze, pensieri e dialoghi interni conflittuali, non mira a eliminare i fenomeni, ma a indebolire le credenze, le idee, i sentimenti che le mantengono come tentata soluzione. Non si tratta di contrastarle, ma di utilizzarle. Se le voci o le presenze sono dei fantocci o degli spaventapasseri imbottiti di paglia, la terapia cerca di estrarre da una parte l’erba che serve da imbottitura, e dall’altro modificarne la funzione. I presupposti da cui partono gli psicoterapeuti interazionisti e strategici sono: 1. le voci immaginate o le presenze rievocate o udite sono costitutive dell’esperienza che le persone fanno di se stesse, e sono spesso tentate soluzioni separate dai propri criteri autovalutativi e dai sentimenti di autoefficacia e di controllo;

2. data una certa situazione e contesto, frammenti di pensieri e di emozioni subvocali tendono a essere tradotti in voci, non riconosciuti come propri, e spesso strutturati attraverso un repertorio narrativo; 3. le credenze danno al copione allucinatorio un senso e un significato facilmente rievocabile;140 4. sia l’evento attivante sia il contenuto allucinatorio possono provocare una reazione di ansia, di allarme e di spavento o emozioni negative; 5. la psicoterapia può cercare di modificare le reazioni disturbanti in modo concomitante alle credenze. La donna che pensa di essere tormentata dal demonio che le dice «cose malvagie e indecenti» e insulti che le «fanno schifo», e che ha turbamenti inaccettabili, non riconosce nel suo psicodramma la presenza di immagini e giudizi morali condivisi, ovvero sottostanti ai criteri di giudizio. L’uomo le cui voci commentano quello che fa, o quello che ha in animo di fare, o dicono cose che sono percepite come ordini, piuttosto che come suggerimenti, minacce piuttosto che imposizioni, non si rende conto che i giudizi di valore, i costrutti interpretativi provengono dal suo sistema morale e valutativo. Ad esempio, l’inferenza «vengo punito per il mio fallimento» trascina una sensazione di avvilimento del tipo «sono un inutile e un incapace», da cui un’altra inferenza, «nessuno può stimarmi e amarmi realmente». Alcune ricerche condotte da Bentall (1997) hanno dimostrato che le voci con un contenuto simile possono dar luogo a reazioni diverse: se si considera una voce come onnisciente è facile attribuirle un’identità sovraumana con il risultato di sentire più inquietanti le minacce che rivolge al soggetto. Le credenze che la psicoterapia deve tentare di modificare riguardano l’identità della voce (o della presenza), le sue intenzioni, il suo potere e la sua onniscienza, insieme alle conseguenze dell’atteggiamento vittimistico o oppositivo del soggetto. Per ottenere questo risultato gli psicoterapeuti possono ricorrere a varie tecniche. Ad esempio identificano le situazioni che aumentano o diminuiscono la presenza di voci, incoraggiando il paziente a evocarle in momenti o situazioni programmate. I terapeuti possono indurre il paziente a esaminare ciò che dicono le voci facendogli immaginare il cambiamento di frasi, di affermazioni, di ingiunzioni o quant’altro possa indebolire la credenza retrostante. La strategia psicoterapeutica è di modificare le reazioni disturbate della persona senza svalutare o criticare le credenze, evitando di creare resistenze difensive. I terapeuti possono cercare di ristrutturare il significato che il soggetto attribuisce alle intenzioni della voce e alla relazione che si è strutturata, ad esempio tra autorità e sottoposto, tra giudice e colpevole. Difatti l’interazione tra la voce e il paziente, ovvero tra una sua parte aliena e quella in cui si riconosce, è spesso governata da un copione relazionale.141 Ad esempio, il rapporto che il soggetto ha con se stesso, con certe persone e con il mondo, oppure gli schemi con cui affronta gli atteggiamenti o i sentimenti che implicano sfida, trasgressione, ostilità, paura, complicità, assecondamento e così via.142 È quindi possibile vedere la relazione con la voce o le presenze nel dialogo interno come una relazione interpersonale, che come tale va trattata.

La psicoterapia di questi soggetti deve affrontare spesso le cosiddette resistenze al cambiamento, che possono essere particolarmente forti. Com’è noto le diverse parti o rappresentazioni di sé sono tenute insieme in modo più o meno coerente da un sistema più generale che le persone sperimentano attraverso il senso d’identità personale. Vale la pena di accennare come il senso d’identità personale sia multidimensionale, ossia operi sulla rappresentazione corporea di sé, come su quella simbolica di tipo sociale, o quella più astratta delle convinzioni e idee, o quella meno percepibile delle strategie di ragionamento, cioè il modo di risolvere i problemi, o quella più evidente delle abitudini e dei comportamenti. È la memoria di identità e autobiografica che motiva sempre in funzione della stabilità e conservazione della rappresentazione di sé, a frequentare situazioni, ruoli e persone in grado di confermare quello che le persone credono di essere. Anche se può apparire strano, le persone si affezionano, per così dire, a ciò che le fa star male, soprattutto quando queste esperienze sono funzionali al mantenimento del senso d’identità inteso come continuità narrativa autobiografica. La psicoterapia, introducendo elementi di cambiamento nell’esperienza di sé, può essere avvertita come minacciosa. Ad esempio, ogni cambiamento può generare un’inquietudine, e per molto meno come un nuovo taglio di capelli, o la messa in discussione di qualche opinione rilevante per l’autostima. Rinunciare alle voci significa perturbare un equilibrio psicologico che, proprio grazie al disturbo, viene mantenuto. Diversi psicoterapeuti concordano che le allucinazioni uditive possono svolgere la funzione di difese psicologiche del sé,143 ovvero di una particolare vulnerabilità personale in genere collegata con i sentimenti di autoefficacia e autostima: costrutti importanti e centrali nelle diverse dimensioni in cui si articola la rappresentazione di sé. In altre parole possono rivelarsi delle tentate soluzioni disfunzionali. Chi ode le voci, o chi avverte la presenza, non solo è lo sceneggiatore e il regista dell’esperienza allucinatoria, ma anche uno spettatore che non riconosce le parti di sé che gli attori recitano. Il copione, ovvero i contenuti allucinatori, hanno sempre qualche rapporto con aspetti psicobiografici importanti, collegati con una vulnerabilità tematica personale. In altre parole, «la voce batte dove l’animo duole». Per meglio capire riportiamo questo caso: un piccolo imprenditore molto dinamico e di successo, che chiameremo Antonio, da un po’ di tempo sente occasionalmente due voci, una maschile e una femminile, che si dichiarano degli extraterrestri in grado di leggere i suoi pensieri. Le due voci rimproverano ad Antonio delle intenzioni truffaldine, che lui non ha, e lo perseguitano con frasi di questo genere: «Sappiamo che domani avrai un appuntamento d’affari con X e sappiamo anche che vuoi fregarlo, lo metteremo in guardia, brutto imbroglione senza cuore». Dice Antonio: «So che queste cose sono il frutto della mia fantasia, del mio stress, ma quando mi trovo a gestire i miei affari mi sento pieno di vergogna, sento che gli altri diffidano di me, e non posso farci nulla. Alle volte mi sento così agitato che rinuncio a delle relazioni d’affari». La vulnerabilità tematica di Antonio è che si sente indegno di fiducia e roso da un sentimento di incapacità. È riuscito comunque nel passato a ottenere un certo successo imprenditoriale. All’esigenza di dimostrarsi capace e affidabile sul piano degli affari ha pagato un tributo morale: ha preferito contribuire, pur

con grandi conflitti interni, al fallimento della ditta di un amico, piuttosto che passare, come dice lui, «per un incapace». Recenti contributi clinici provenienti in maniera autonoma da diversi psicoterapeuti cognitivisti (Chadwick, Birchwood, Trower, 1997) sostengono che la vulnerabilità tematica degli ascoltatori di voci critiche o punitive, ma anche approvanti, riguarda il problema delle autovalutazioni negative. Per Peter Trower e Paul Chadwick (1995), le voci ostili o benevole consentirebbero di esportare le valutazioni negative su di sé, attribuendole a una voce non riconoscibile come propria. Maria Quarato, psicoterapeuta esperta di allucinazioni uditive, ci offre questo esempio: È il caso di Giovanna, una ragazza molisana immigrata in Veneto per allontanarsi dalla propria famiglia di origine nella quale si erano creati conflitti insanabili. Nel primo colloquio racconta con orgoglio di se stessa, di come sia riuscita con pochissimi soldi a rifarsi una vita in un’altra città, da sola e senza nessun aiuto. Racconta del suo lavoro, delle sue bambine e del suo matrimonio, di cui è soddisfatta. L’unica situazione che considera problematica nella sua vita è questa voce che, contrariamente a quanto lei pensa di se stessa, le dice continuamente che è una bestia. Nel secondo colloquio racconta del marito che da un anno prende ansiolitici, i cui effetti collaterali impediscono alla coppia di avere rapporti sessuali, così lei racconta di come abbia desiderato andare a letto con un altro uomo, che ha sempre evitato temendo di innamorarsene e di rovinare il proprio matrimonio. Dopo alcuni colloqui Giovanna riconosce da sola di essere la produttrice della voce che ascolta, con il risultato di controllarla. Alla domanda del terapeuta: «Quindi lei pensa di essere una bestia?», Giovanna risponde: «Io non penso di essere una bestia, è la voce a pensare questo di me». Sembra che Giovanna attribuendo tutto ciò alla voce, che le rimprovera di essere una bestia, tenti di salvare il giudizio e l’idea positiva che vorrebbe avere di se stessa. Il vantaggio offerto da queste voci a protezione dell’autostima può spiegare la resistenza dei soggetti a rinunciarvi. Trower e Chadwick (1997) riportano il caso di una voce benevola e onnipotente: «B. sentiva una voce che diceva che lei era figlia di una principessa e che presto si sarebbe ricongiunta con la famiglia reale» (nel mondo anglosassone la regalità e l’aristocrazia sono tenuti in alta considerazione e fanno parte di un importante criterio sociale gerarchico). «B. considerava vera l’identità che la voce le rivelava. Quando B. prese in considerazione che la credenza potesse essere falsa, la nuova concatenazione dei suoi pensieri le rivelò che senza il rapporto con la sua famiglia reale lei si sarebbe percepita come una nullità» (p. 268). Altre resistenze al trattamento psicoterapico di coloro che ascoltano le voci si manifestano nel caso in cui il soggetto è stabilmente identificato con il ruolo sociale positivo ottenuto grazie alle allucinazioni, come quando il soggetto viene considerato «un portatore di poteri paranormali» oppure una «donna santa e illuminata dalla voce della Madonna».

Questi ruoli possono offrire molti vantaggi secondari, contribuendo a mantenere le allucinazioni vive e ricercate. Ma anche le voci negative, ad esempio di angeli o demoni, o di parti di sé moraleggianti, possono essere difficili da trattare perché hanno alle spalle un apparato legittimante di credenze religiose che non è possibile scalfire. In certi casi, quando la ragione deve confrontarsi con qualche forma di assoluto o di potere extraumano, tende a rinunciare al controllo e si sottomette al fenomeno. Riassumendo, ciò che si sa intorno alle allucinazioni uditive (estendibile anche ai fenomeni dei monologhi interni a più presenze) tende a convergere intorno ai seguenti punti: 1. la valutazione di quanto un’allucinazione uditiva sia un fatto delirante può essere utile per valutare il grado di compromissione della realtà percepita. Ma secondo una linea di ricerca sempre più condivisa da ricercatori e psicoterapeuti appare più utile studiare i processi cognitivi, biografici, relazionali e culturali sottesi al fenomeno, piuttosto che studiare i pazienti in base alla categoria diagnostica cui sono assegnati; 2. le voci e le presenze sono in molti casi attribuibili ai pensieri latenti e alla loro articolazione subvocale, che per varie ragioni la persona non riconosce come propri e che, attraverso meccanismi in parte ignoti, implicano un processo di separazione dissociativa che restringe la coscienza di sé. L’uditore non è consapevole del fatto di essere implicato nel generare il fenomeno e nella sua interpretazione/percezione; 3. le relazioni con le voci e le presenze tendono a essere strutturate in episodi o ‘copioni narrativi’ che ricalcano il sistema di credenze e quindi i costrutti esplicativi e discorsivi culturalmente condivisi e selettivamente utilizzati dall’uditore di voci; 4. alcuni psicoterapeuti riferiscono che in certi casi negli uditori di voci sono ricorrenti i temi relativi alla vulnerabilità personale e all’autovalutazione; le voci, assumendo un ruolo denigratorio e critico ‘esterno’, rendono silenziosa l’autocritica e svolgono un’azione difensiva dell’autostima; 5. la disposizione ad avere allucinazioni uditive e avvertire presenze interne dialoganti e prescrittive è latente in molte persone; solo alcune, per peculiarità biografiche, stress emotivi o caratteristiche neuropsicologiche ancora poco note, sono in grado di dar vita a questo singolare fenomeno; 6. la psicoterapia interazionista e strategica tendono a ridurre il fenomeno cercando di riportarlo sotto il controllo consapevole del soggetto. Tale obiettivo può utilizzare diverse tecniche, partendo dal presupposto che la simultanea convergenza di un evento attivante, di una credenza e di una reazione emotiva, esigono adattamenti contestuali dei procedimenti. Avendo chiari i presupposti e i principi, non dovrebbero esserci difficoltà. A titolo di esemplificazione riportiamo la terapia di un caso.

Conflitto tra voci di dentro: un caso Si tratta di un giovane trentenne il cui problema può essere sintetizzato inorno alla sua incapacità di gestire e progettare la propria vita perché costantemente inibito da pensieri, e ‘voci di dentro’, di tipo critico, ammonitorio, censuranti, e in contrasto tra loro, tendenti a polarizzarsi in due presenze, che il paziente chiama A1 e A2, cui poi se ne assocerà un’altra, A3, durante la terapia, in contrasto con le prime due. L’inibizione paralizzante della volontà si manifesta ogniqualvolta il giovane programma qualcosa da fare: le presenze, i dialoghi interni, generano una serie di dubbi e di blocco dell’azione, ad esempio se prendere o meno un’iniziativa e come intraprenderla. Il risultato è una sorta d’immobilità anche fisica, di acinesia, che gli impedisce di uscire dal letto, sperimentata anche come una sorta di astenia fisica che il soggetto avverte sotto forma di stanchezza cronica. Il vantaggio secondario è di essere utilizzata come spiegazione e giustificazione complementare, essendo peraltro soggettivamente avvertita come tale. Preso da un flusso di pensieri contrastanti, il giovane ha la sensazione di voler far fallire le cose che fa o che vorrebbe fare. Da qui la paura di iniziare a fare qualcosa, per il timore che il boicottaggio interno delle voci aumenti, oscillante tra il ‘devi’ e il ‘divieto di fare’. Il solo pensiero di agire, appena diventa una possibilità di fare accentua il conflitto e il blocco inibente. Ciò crea un circolo vizioso: ogni sforzo, tentativo, determinazione, suggerimento, manovra terapeutica, che implica una necessità, un desiderio, un dover fare, aumenta in modo esponenziale la resistenza, il blocco, l’astenia psicofisica, e le voci interne si organizzano nelle due polarità, appunto del fare e del non fare. La coscienza di sé non solo è sdoppiata in queste due voci/volontà/pensieri che si oppongono, ma è anche incrinata sul piano progettuale, dell’autorealizzazione e progettazione, da cui il danno sulla carriera scolastica, le opportunità lavorative e sociali. È comprensibile come i trattamenti psicologici o psichiatrici possano diventare delle tentate soluzioni inefficienti, o delle soluzioni impraticabili: se sono sentiti come efficaci perché motivano al cambiamento (linea pedagogica), lo incoraggiano o lo prescrivono, questa possibilità fa scattare l’interdizione delle due volontà. Se invece si orientano all’interpretazione e alla ricerca delle cause (linea psicodinamica), sono rielaborati dal soggetto come giustificazioni, offrendo argomenti ulteriormente inibenti al dialogo interno tra le parti. Ricorrendo all’approccio farmacologico, se i farmaci deprimono il sistema nervoso il risultato è quello di di amplificare l’astenia autoindotta; se i farmaci prescritti hanno un effetto per così dire attivante, questo può essere avvertita come un impulso ad agire, che prontamente mette in atto il meccanismo autoinibente. Lo stato di frustrazione, di ipercontrollo, ma anche di fallimento del controllo stesso, ‘dell’anima urlante’, sfociano in reazioni emotive incontrollate. I genitori assistono impotenti, ma partecipi in termini di aiuto protettivo alle vicissitudini del figlio. Il giovane ha avuto numerose esperienze con psicologi e psichiatri, ed è stato sottoposto a vari trattamenti farmacologici, con scarso o nessun effetto.

IL TRATTAMENTO: LA TECNICA Il protocollo terapeutico strategico utilizzato e adattato al caso si è sviluppato in dieci sedute identificando alcune modalità d’intervento, alcune delle quali praticate lungo una sequenza temporale, altre in modo ripetuto. Le manovre terapeutiche sono state utilizzate ora in modo ‘tattico’, ora con finalità ‘strategiche’. È da tenere presente che il punto centrale dell’intervento, in questo caso, come accade nelle allucinazioni uditive o in certe dipendenze, è di affrontare la ‘tentata soluzione’, ciò che in modo paradossale mantiene e alimenta il problema: in questo caso, i tentativi del soggetto di combattere i sintomi o, ancor più, di imporsi, di controllare quelle parti (presenze) di sé che lo inibiscono nell’agire e nel volere. L’intervento di ogni seduta è articolato su uno schema flessibile del tipo: 1) definizione e ridefinizione del problema coinvolgendo il soggetto nell’operazione, 2) manovre comunicative del terapeuta durante la seduta, implicite ed esplicite, dirette e indirette, 3) valutazione degli effetti delle precedenti prescrizioni e delle nuove, 4) stratagemmi usati attraverso le prescrizioni, 5) valutazione della situazione in atto. Prima seduta. Dopo la definizione del problema, che implica manovre comunicative preliminari, come ad esempio un’analisi discriminante dei vari pensieri inibenti, il terapeuta è passato al contratto terapeutico: accordi sulla durata del trattamento, previsione di difficoltà, lasciando al soggetto l’impressione implicita che sarà lui a dover dimostrare di essere all’altezza del trattamento. La prima prescrizione esplicita, cui ne seguiranno altre, è di smettere di parlare del proprio problema (congiura del silenzio) salvo mezz’ora ogni sera con i genitori, e classificare i pensieri ogni ora per cinque minuti su un quaderno. La metafora guida è che si vince solo se si evita di combattere. Questo sarà il principio ricorrente della psicoterapia, trasformandolo da enunciato prescrittivo e suggestivo, da formula ad assunto e intento creduto ed emotivamente condiviso dal soggetto. Seconda seduta. Il terapeuta chiede al paziente di ridefinire il problema, in relazione alla valutazione degli effetti delle prescrizioni. Il resconto del paziente è una reazione di ‘boicottaggio’ da parte delle presenze, voci, interne. La manovra comunicativa principale è quella della ristrutturazione della resistenza: «in modo kafkiano, devi fare le cose per fallire. C’è un inquisitore dentro di te che ti fa fallire». «Sai cosa devi rispondere al boicottante? ‘Sono contento, perché più mi boicotti più mi diverto’». La reazione del paziente è una crisi isterica. Il terapeuta rinforza la crisi chiedendo al paziente di dare voce al boicottatore, di incoraggiarlo «perché ci aiuta». Le prescrizioni sono di mantenere la congiura del silenzio, fino al momento di parlarne in presenza dei genitori la sera. E continuare a usare il quaderno dove scrivere i pensieri, e classificarli. Le metafore guida sono uccidere il serpente con il suo stesso veleno, storcere per raddrizzare. Terza seduta. La valutazione degli effetti delle prescrizioni e della situazione mettono in luce nel paziente la paura di nuove crisi, la paura che il boicottaggio delle presenze interne

aumenti, la paura di anticipare e pensare come potrebbe essere la propria vita una volta superato il problema. Da qui l’elemento difensivo rispetto alle anticipazioni e la fantasia di un futuro identico al passato, unico modo per non cadere nell’ansia e attivare pensieri inibenti. Al soggetto viene proposto che «se noi riusciamo a immaginare un futuro che non ripete il passato e lo utiliziamo per introdurlo nel presente, è come se ti tirassimo fuori da questo eterno presente. Prendiamo un pezzetto di futuro immaginato e lo mettiamo nel presente». Lo stratagemma è usare il come se senza rischiare l’opposizione dei pensieri boicottanti, e creare dal nulla qualcosa. Quarta seduta. La valutazione delle prescrizioni e della situazione, il ‘futuro immaginato’, ha attivato nel paziente un’opposizione tra la presenza del ‘devi’ e la presenza ‘del no’. A ogni tentativo di attuare la prescrizione il paziente sperimentava una crisi d’ansia. La manovra comunicativa del terapeuta è di sfruttare l’esito negativo della prescrizione, usando la tecnica dell’anticipazione: «Ogni volta che hai una crisi, cosa ti dice la voce? Tirala fuori. Il tuo peggior nemico è sempre con te». In questa seduta chiave il terapeuta riesce a far isolare la presenza buona A1 dalla presenza cattiva A2, e utilizzare la prima per assecondare la seconda, in modo da riscostruire un’unica presenza aiutante. Le metafore guida sono: far salire il nemico in soffitta e togliergli la scala; il folle è colui che cerca di scacciare la sua ombra e ci si perde dentro; uccidere il serpente con il suo stesso veleno; intorbidare le acque. Quinta seduta. L’effetto delle prescrizioni ha dato voce ‘all’anima urlante’ che si è manifestata anche in modo irruento. Poi la voce si è fatta più lieve e isolata: «Volevano eliminare una parte di me per rendere tutto perfetto». Il paziente si rende conto di aver lavorato nella direzione opposta al reprimere e controllare che causava una reazione simmetrica e contraria. La situazione è improvvisamente migliorata. La manovra del terapeuta è chiedere al paziente se è d’accordo che «noi dobbiamo dar voce all’anima urlante, visto che urla sempre meno». L’effetto implicito è di rendere sempre più attivo il paziente attraverso il sintomo, ottenendo come risultato la disconferma implicita della sua passività rinunciataria. Lo stratagemma è ancora vincere senza combattere. Sesta seduta. Il paziente riferisce un risultato importante: tutte le volte che sentiva dire dentro di sé ‘combatti’, lui rispondeva ‘smetto di combattere’. Con questa tattica è riuscito a controllare anche le crisi. Il passato, dice il paziente, è solo un modo di pensare che continua ad agire anche nel presente, che suo nel caso era quello di cercare di opporsi, di combattere, alimentando il conflitto interiore e la voce interna delle presenze oppositive e in contrasto. Il terapeuta rinforza con ampie approvazioni il successo, offrendo al paziente la possibilità di commentare, come se fosse una cosa ormai condivisa e pensata anche da lui, l’importanza dello stratagemma di vincere senza combattere, soprattutto nei conflitti con se stessi. La seduta si chiude con la metafora e prescrizione indiretta del sipario che si alza su una nuova realtà.

Settima seduta. Il paziente riferisce di avere avuto resistenze residue, che in qualche misura ha favorito, e che gli hanno permesso di confrontarsi con molti episodi della sua vita, comprendendo come abbia cercato di risolvere le proprie difficoltà, avvalendosi di uno schema oppositivo e di controllo. Il metodo, il tentativo, le presenze attivate dal dialogo interno, alla fine si sono impossessate di lui, pervadendolo con una doppia volontà conflittuale, che in fondo, dice il paziente, «mi ha aiutato anche se danneggiato», perché «mi ha impedito di impazzire». Il paziente riferisce anche una frase del dialogo interno, una voce che gli ripete: «Ma ora che hai capito tutto, cosa ci sto a fare qui?» In questa seduta hanno un particolare rilievo le manovre del terapeuta che ricorda al paziente come «i sintomi hanno sempre un’utilità» e l’anticipazione ristrutturante delle reazioni alle crisi: «Poi, ogni tanto, la parte emotiva farà dei tracolli, non si può pensare di non aver paura di scoprire un mondo che non conosciamo. Come una persona sopravvissuta a un naufragio deve inventarsi il futuro di piccole cose da conquistare». E con questa prescrizione-metafora il paziente è rinviato alla seduta successiva, dove porterà raccolte in un quaderno la lista delle piccole cose quodiane conquistate. Ottava seduta. Il paziente riferisce di aver cominciato a scrivere nel quaderno i piccoli miglioramenti. Questo lavoro di registrazione gli ha permesso di essere consapevole di aver ospitato un’altra identità artificiale, che chiama A3, in opposizione altre due presenze: costituita dalle razionalizzazioni, discorsi, commenti, altre terapie con cui ha cercato di fronteggiare le sue difficoltà con effetti sempre più costrittivi di divieti e impedimenti, ingiunzioni di blocchi e inibizioni. Il terreno di combattimento, le proprie presenze e quella artificiale, sono i desideri del paziente. «Ciò che io desidero, qualsiasi cosa che io desidero, quest’identità artificiale cerca di bloccarla, e se io desidero l’opposto cerca di bloccarlo anche questo. Dice sempre di no». Solo evitando di combatterla alla fine si è manifestata per quello che era. Gli stratagemmi relativi alle prescrizioni, ancora una volta, sono creare dal nulla, vincere senza combattere, mantenere la rotta, essere un grande timoniere di se stesso. Nona seduta. In questa seduta il paziente sta per avere una crisi. Viene messo dal terapeuta in uno stato di rilassamento ipnotico, spostando la sua attenzione sulla respirazione, utilizzando un linguaggio ingiuntivo con la tecnica delle alternative: «Puoi avere due reazioni a seconda di quello che io voglio: o ti produco la crisi o ti faccio rilassare totalmente perché ti metto in uno stato ipnotico». Le prescrizioni sono di fronteggiare ogni affioramento di crisi, ricorrendo alla tecnica del respiro ritmato, e cercando qualcuno, il padre, per raccontare qualche idea bislacca, e prenderne così le distanze. La metafora guida è solcare il mare all’insaputa del cielo. Decima seduta. Sono passate due settimane e il paziente ha risolto gran parte dei suoi problemi, come dice lui, «mi sono sbloccato». Riferisce di essere in grado di fronteggiare i conflitti residui, e soprattutto è in grado di anticipare e programmarsi rientrando in una autopercezione e autovalutazione di sé che gli consente di formulare delle anticipazioni

costruttive e di cambiamento. Le presenze nel dialogo interno, A1 e A2, sono tornati a essere uno, e la coscienza di sé risulta integrata. Il terapeuta sottolinea i meriti e le capacità del paziente, attuando una sorta di ingiunzione basata sul principio della profezia che s’autoadempie. Conclusione della terapia. Il paziente è riuscito a liberarsi delle istanze critiche, inibenti, del blocco della volontà, che di volta in volta assumeva la voce di un dialogo interno, ricostruito e attribuito a un’identità parassita, che si è dissolta gradualmente. La terapia ha utilizzato numerose strategie tese a indurre il paziente in un processo di ristrutturazione del proprio modo di affrontare e percepire le proprie difficoltà, ancorate principalmente a una tentata soluzione dissociativa. In particolare, le linee guida della terapia hanno avuto come presupposto il convincimento che, se il soggetto ha elaborato un certo modo di sentire, di giudicarsi e di percepirsi, creando un blocco volitivo, la possibilità di invertire questo processo non può che essere attuata dal paziente stesso. La psicoterapia ha mirato a renderlo attivo sul piano dei pensieri e dei compiti: da qui le prescrizioni, ristrutturazioni, l’uso in positivo delle resistenze, il ricorso a forme comunicative paradossali, alla creazione di costrutti alternativi, l’uso di linguaggi metaforici e aforismi, le prescrizioni del sintomo, le parafrasi a ricalco del linguaggio del soggetto. L’obiettivo più generale è stato di farlo transitare da una rappresentazione di sé e quindi da un’autoconsapevolezza disfunzionale a una più adattiva, rendendolo protagonista indiretto e poi complice degli stratagemmi utilizzati. Per certi aspetti i risultati della terapia possono essere considerati una ridefinizione della coscienza di sé, in termini di funzionamento adattivo. Negli esiti della terapia e delle strategie utilizzate si è rilevata l’importanza del linguaggio performativo, ovvero delle retoriche comunicative e persuasive, attuate ad esempio dall’uso di similitudini, metafore, narrazioni, in grado di riflettersi nell’esperienza del paziente. Rilevanti sono state le modalità comunicative indirizzate a indurre il paziente a ricostruire una diversa versione di sé, rispecchiandosi in un diverso modo di vedere, agire e giudicare se stesso, costituendo un’alternativa al dialogo interno inibente, sfruttando sapientemente la forza delle resistenze e delle tentate soluzioni, per rimettere in azione il paziente bloccato e smentire la profezia negativa astenica, rinunciataria e sconfitta, il cui ‘blocco inibente’ costituiva anche una tentata soluzione. Spesso in casi analoghi la persona è terrorizzata, bloccata, costretta a rinunciare all’iniziativa, di fronte a pensieri opposti che si annullano a vicenda, divenendo pervasivi sotto forma di presenze, voci, discorsi, imperativi, schemi linguistici, configurazioni disfunzionali della coscienza di sé, che vengono assunte come proprio modo di sentire e di pensare. Parafrasando Hegel, l’esperienza di questi soggetti è di essere rinchiusi una piramide dove dimora e alberga un’anima straniera.

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Glossario (di R. Bottini) Analogo Io: è una delle caratteristiche più importanti della coscienza cosi come descritta da Julian Jaynes. In termini generali potremmo dire che è la metafora che abbiamo di noi stessi, è l’io che può operare nello spazio funzionale della coscienza. Come il nostro corpo fisico si aggira nel mondo fisico-comportamentale e interagisce con gli oggetti, così il nostro io analogale (analogo del corpo, appunto) si «aggira» nello spazio mentale ed agisce sugli ‘oggetti’ (pensieri, rappresentazioni, etc.) della coscienza. Quando fate un’introspezione è il vostro analogo Io a ‘guardare’ all’interno del vostro spazio mentale. Come il corpo, coi suoi organi sensoriali, sta in rapporto con l’atto fisico di vedere, così l’analogo Io è in relazione con questo genere mentale di ‘vedere’ nello spazio della coscienza. Il lettore potrebbe provare a pensare alla Tour Eiffel, cercare di visualizzarla, e poi ruotarla di 180º, a testa in giù. Tutto questo non sarebbe possibile senza un analogo Io che agisce sui contenuti della coscienza, non è il lettore ‘in persona’, ma il suo analogo Io a compiere le operazioni di visualizzazione e rotazione. Epistemologia: il termine epistemologia, dal greco epistéme (‘conoscenza’) e logos (‘discorso’), è oggi utilizzato soprattutto in due diverse accezioni. Nella sua prima accezione il termine si riferisce ad una disciplina filosofica che è interessata agli assunti conoscitivi ed ai presupposti logici e filosofici (spesso impliciti) che stanno alla base dei diversi approcci scientifici. In questo senso l’epistemologia è quasi un sinonimo di Filosofia della scienza. La seconda accezione, invece, si riferisce ad una teoria della conoscenza in senso più ampio, interessata a come si acquisisce (ad esempio nello sviluppo cognitivo) la conoscenza, o meglio i diversi tipi di conoscenza. A questo secondo filone si può facilmente ascrivere l’epistemologia genetica di Jean Piaget e, con le dovute differenze, lo studio dello sviluppo (filogenetico e ontogenetico) di quel tipo di conoscenza che chiamiamo coscienza, o cosciente. Biosemiotica: è un campo del sapere di costituzione molto recente che studia la produzione, espressione ed interpretazione dei segni nel regno biologico. La biosemiotica cerca di integrare i contributi di diverse discipline ( tra le quali la biologia, la semiotica, la psicologia e le scienze cognitive, la filosofia, l’antropologia, la zoologia, etc.) nella convinzione che gran parte degli accadimenti biologici, dal comportamento manifesto alle interazioni tra melecole, possano essere meglio compresi in termini di processi semiotici. Generativismo (o grammatica generativo-trasformazionale): è una complessa teoria linguistica sviluppata da Noam Chomsky a partire dal 1957, data di pubblicazione di Linguistics Structures. Lo spazio non consente certo di spiegare, anche solo per sommi capi,

la teoria chomskyana, e una tale infarinatura non sarebbe neppure funzionale alla comprensione di questo volume. Ciò che è importante per noi sono le basi epistemologiche su cui tale teoria si fonda in modo da poter operare un confronto con l’epistemologia della Linguistica Cognitiva e più in generale delle scienze cognitive di seconda generazione. La linguistica generativa individua una struttura grammaticale profonda (contrapposta a strutture linguistiche superficiali) comune a tutte le lingue umane, e frutto della maturazione di un innato organo del linguaggio. La metafora dell’organo è di carattere fondante, in quanto la mente, analogamente al corpo, è intesa come un sistema di organi (mentali) altamente specializzati e funzionalmente determinati da uno specifico programma genetico che si realizza, a livello più superficiale (potremmo dire fenotipico), nell’interazione con l’ambiente. Da questa visione della mente deriva l’insistenza sull’autonomia del linguaggio (almeno nelle sue strutture profonde, grammaticali) dagli altri ‘organi’ cognitivi. Come in fisiologia studiando la struttura dell’occhio e del cuore, nessuno si aspetta di trovare analogie significative per la comprensione del rispettivo funzionamento organico, così lo studio della mente dovrebbe postulare l’esistenza di organi mentali, certamente in interazione, ma fondamentalmente differenti nella struttura, senza aspettarsi di trovarvi analogie significative. Chomsky fa esplicito riferimento alla tradizione filosofica del ‘Razionalismo Cartesiano’: come per Cartesio Rex Cogitans e Rex Estensa erano separati e irriducibili l’una all’altra, così per Chomsky i processi mentali sono costituiti da elaborazioni di ordine simbolico, le quali possono essere formalizzate in modelli, e che avvengono in modo del tutto indipendente dalle proprietà corporee, o fisiologiche finora conosciute (come i processi percettivi, o psico-motori). Tuttavia, tale recupero del dualismo cartesiano avviene più nel metodo che nella sostanza, in quanto il Chomsky non intende certo postulare l’esistenza di una ‘sostanza’ mentale diversa e irriducibile al mondo fisico, bensì, parlando di rappresentazioni e descrivendo elaborazioni simboliche a livello astratto, si riferisce in ultima analisi a proprietà e processi neuro-fisiologici ancora sconosciuti. Una tale visione della mente è coerente col tentativo chomskyano di accelerare l’assimilazione della psicologia e della linguistica nell’alveo delle scienze fisiche, e sottrarsi ad accuse di antiscientificità spesso indirizzate allo studio di ciò che è ‘mentale’. Icona: relazione di tipo segnico mediata dalla similarità tra segno e oggetto. La relazione associativa viene costruita dunque per similarità. Il disegno di un cavallo, per esempio può essere un’icona poiché può venire associato all’oggetto ‘cavallo’ attraverso la somiglianza tra il (di)segno e l’oggetto a cui si riferisce. Indice: relazione di tipo segnico mediata da una connessione fisica o temporale di qualche natura tra segno e oggetto. La relazione associativa avviene dunque per contiguità o correlazione. L’orma di un cavallo, ad esempio, può essere un indice, poiché può venire associato all’oggetto ‘cavallo’ sia perché esiste una correlazione tra il segno e l’oggetto che abbiamo appreso nel tempo (un orma di cavallo indica un cavallo nelle vicinanze), sia per contiguità fisica in quanto il segno (orma) è stato prodotto (proviene) dall’ oggetto (cavallo).

Locus of control: in psicologia, sta ad indicare la modalità di percezione e riflessione di un individuo rispetto al controllo del proprio destino e degli accadimenti che lo riguardano. Un individuo può ritenere che gli eventi della sua vita siano causati prevalentemente da suoi comportamenti, azioni o atteggiamenti riconducibili a decisioni volontarie (Locus of control interno), oppure da cause esterne indipendenti dalla sua volontà (Locus of control esterno). La tendenza ad assumere una modalità piuttosto che l’altra è spesso associata a differenze nel processo decisionale, nella tipologia dei legami interpersonali e ad altre variabili psicologiche. Meme: parola coniata da Richard Dawkins nel suo libro Il gene egoista (1976). Il meme è un’unità di informazione culturale concepito sul modello del gene, portatore di informazione biologica. Come i geni vengono trasmessi da un organismo all’altro attraverso le generazioni, i memi vengono trasmessi da una mente all’altra. Esempi di memi sono idee, melodie, mode ma anche teorie scientifiche che vengono trasmesse per imitazione (in senso lato) da un individuo a un altro. Secondo Dawkins, i geni sono i veri protagonisti dell’evoluzione biologica e, analogamente, i memi sono protagonisti dell’evoluzione culturale. La memetica è la scienza che studia la trasmissione dell’informazione culturale fornendo modelli che descrivono la diffusione dei memi. Realismo: nel senso più generale e moderno si può intendere il realismo come la convinzione che le entità associate ad un dato ambito del discorso siano reali. Nella fattispecie, il realismo del senso comune presuppone che i discorsi fatti attorno a tavoli e sedie si riferiscano a tavoli e sedie reali ed esistenti; nel realismo scientifico (in senso lato) si assume che elettroni e quanti siano reali; nel realismo psicologico si presuppone la realtà degli stati mentali, delle rappresentazioni, delle credenze etc. Due delle maggiori conseguenze implicite nella posizione realista sono che 1) le entità che sono fatte oggetto di conoscenza godono di caratteristiche e di un’esistenza oggettive, nel senso che esistono in quanto tali indipendentemente da chi e come se ne fa conoscenza; 2) nella misura in cui una cosa è reale la sua conoscenza deve essere il frutto di una scoperta piuttosto che di un’invenzione. In questo volume viene proposta la contrapposizione tra un Realismo metafisico (associato alle scienza cognitiva classica) ed un Realismo esperienziale (associato alla scienza cognitiva di seconda generazione ed alla Linguistica cognitiva). Il realismo metafisico (o oggettivismo) è la versione classica del realismo, in evidente accordo con i punti 1 e 2 sovracitati. Secondo questo punto di vista ricaviamo la nostra conoscenza del mondo attraverso l’esperienza degli oggetti e delle loro caratteristiche oggettive, e comprendiamo questi oggetti grazie a categorie e concetti che corrispondono alle caratteristiche intrinseche degli oggetti stessi e alle relazioni tra di essi. Inoltre, dal momento che esiste una realtà oggettiva (indipendente dall’osservatore) possiamo dire se una conoscenza (rappresentazione, idea, credenza) sia oggettivamente vera o falsa, confrontandola appunto con la realtà. Considerando il fatto che una conoscenza può essere falsa (i nostri sensi o le nostre credenze talvolta ci possono ingannare) è preferibile un tipo

di conoscenza che escluda questa tipologia di errore che definiamo ‘soggettivo’, in quanto legato ad una prospettiva in prima persona (io vedo, io penso, io credo, etc.). Si predilige quindi una conoscenza in terza persona, che possa superare le limitazioni soggettive e raggiungere la comprensione da un punto di vista universalmente valido e imparziale, questo tipo di conoscenza è il metodo scientifico. In linea di principio, è dunque possibile fornire, attraverso il linguaggio, una descrizione oggettiva, o meglio, la descrizione oggettiva dei fatti reali. Ogni discorso che vorrà essere veritiero dovrà soltanto riflettere lo stato delle cose, emerso attraverso la conoscenza oggettiva. In questo discorso sul mondo, non c’è spazio però per le metafore o il linguaggio figurato in genere, infatti si usano le metafore quando dobbiamo descrivere qualcosa che non conosciamo ancora (ad esempio, il funzionamento della mente come il funzionamento di un computer), ma quando conosceremo la verità non ne avremo più bisogno, e potremo descrivere direttamente e letteralmente la realtà. Questa è la promessa figlia di una visione oggettiva del progresso scientifico. Il realismo esperienziale (o antioggettivismo) ammette l’esistenza di una realtà esterna ed indipendente, tuttavia sostiene che la conoscenza di tale realtà è sempre mediata dal nostro modo di farne esperienza. Ogni tipo di conoscenza, anche quella che può sembrare più oggettiva, spersonalizzata o asettica, è in realtà determinata dal modo in cui ne facciamo conoscenza, il quale a sua volta è determinato, a vari livelli, dalla nostra cultura, dalla nostra maturazione, dal nostro sistema nervoso, dalla nostra struttura corporea, etc. Tuttavia, questi differenti livelli corrispondono a differenti livelli di oggettività (o intersoggettività). Ad esempio la conoscenza mediata prevalentemente dal sistema nervoso umano è più oggettiva di una conoscenza mediata prevalentemente dalla cultura di riferimento. L’oggettivismo è accettato a livello metodologico ma non metafisico. Secondo questo punto di vista, essere oggettivi richiede ancora di distaccarsi dai giudizi individuali facendo riferimento a concetti e categorie che sono sovraordinate alle rappresentazioni del singolo individuo, o della singola cultura (laddove è possibile), ma non è richiesto un punto di vista assoluto ed universalmente valido. Essere oggettivi è sempre relativo a un sistema concettuale e a un insieme di valori culturali, e tutte le verità sono relative. Per questi, e per altri motivi, secondo i realisti esperienziali (o esperienzialisti) non potrà mai esistere alcun discorso universalmente vero, o universalmente giusto. Ogni verità è tale relativamente ad un sistema concettuale ed una visione del mondo. Il linguaggio metaforico può quindi essere considerato come una delle strade che porta alla verità poiché può mettere in luce quali sono le strutture concettuali portanti di una data cultura (ma anche di una data specie, si veda il capitoli 4 e 5). In un mondo in cui molto di ciò che sappiamo è relativo, anche la conoscenza di una cosa può essere acquisita relativamente alla conoscenza di un’altra cosa, e il comprendere qualcosa nei termini di un’altra è proprio la struttura della metafora. Reificazione: dal latino res (‘cosa’) e facere (‘fare’). In filosofia è un concetto adoperato soprattutto all’interno della tradizione marxista con il quale si indica il processo che vede il concetto di lavoro privarsi della sua complessità e umanità venendo ridotto a cosa tra le cose. In quanto ‘cosa’, il lavoro diventa merce, e come le altre merci è soggetto alle regole di mercato. Per estensione, col termine reificazione si indica quel processo che porta a

considerare concreta un’entità o concetto astratto, attribuendovi qualità proprie degli oggetti materiali. In psicologia, ad esempio, la personalità, concetto multiforme e mutevole, legato a costrutti sociali, interpersonali e discorsivi, può venire reificato a qualcosa di monolitico e definito, un ente indipendente dai discorsi che lo significano, e che le persone possiedono più o meno come possiedono un’automobile o gli occhi azzurri. Secondo i curatori di questo volume, il processo di reificazione è alla base di molti dei problemi epistemologici che la scienza e la filosofia si sono trovati ad affrontare nello studio della coscienza. Segno: secondo Peirce, padre della moderna semiotica, il segno è «qualcosa che sta per qualcuno al posto di qualcos’altro sotto certi aspetti o capacità». Si tratta quindi di un rapporto triadico tra il segno stesso, l’oggetto a cui si riferisce ed un interpretante che funge da mediatore e, appunto, interprete della relazione. Secondo Peirce, le relazioni segniche possono essere di tre tipi: icone, indici e simboli. Semiologia (e semiotica): semiologia e semiotica sono due discipline che studiano il funzionamento dei segni e la loro significazione. Sebbene i due termini vengano usati spesso come sinonimi, è possibile ascriverli a due discipline distinte per epistemologia e metodologia. A tali differenze si fa riferimento in alcune pagine di questo volume. Dobbiamo a Ferdinad de Sassure il conio del neologismo sémiologie, mentre semiotic, termine già usato da J. Locke, è stato popolarizzato dal filosofo americano Charles Sanders Pierce. Secondo Pierce, la relazione tra il segno e l’oggetto a cui si riferisce, diviene triadica attraverso la mediazione di un’interpretante. Un segno è tale sempre e solo per qualcuno. Per Sassure invece il segno è visto come l’unione arbitraria e convenzionale di un significante e di un significato, unione che dovrebbe essere compresa all’interno di un sistema segnico composto da diverse relazioni diadiche (verbali, non verbali, rituali), in linea con una prospettiva strutturalista, e senza porre troppa enfasi sull’interpretante. Si potrebbe dire che la semiologia si occupa dello studio dei segni arbitrari (segnali, precisano alcuni) che possono essere intesi in termini di significato-significante, mentre la semiotica si occupa di tutti i segni, anche quelli naturali e di quei segni prodotti senza intento comunicativo ma che si trovano ad essere oggetto di semiosi. In altre parole, se l’arbitrarietà (e la volontarietà) è tipica dei segni studiati dalla semiologia, non è invece tratto distintivo necessario dei segni studiati in semiotica. Il che fa della semiotica una disciplina di ordine più generale. A livello applicativo e metodologico, in semiologia si è assistito soprattutto all’applicazione delle categorie linguistiche alla comprensione di fenomeni differenti ma comparabili come, ad esempio, il teatro o il cinema (quando, ad esempio, si parla di sintassi dell’immagine, o cinematografica). La semiotica invece, ha trovato più ampie e diversificate applicazioni sia nelle scienze sociali (in psicologia, sociologia, antropologia) e nelle scienze naturali (Bio-semiotica). Simbolo: relazione di tipo segnico mediata da una connessione formale o semplicemente convenzionale, prescindendo dalle caratteristiche fisiche del segno o dell’oggetto. La

relazione associativa avviene per legge, causalità o convenzione. La parola «cavallo» può essere un simbolo, poiché si riferisce all’oggetto ‘cavallo’ in modo convenzionale. Infatti qualsiasi parola andrebbe bene, anche «cervo» o «friggitrice» per riferirsi all’oggetto ‘cavallo’, se solo fosse stabilito in modo convenzionale tra una comunità di parlanti. Infatti, l’insieme di suoni (o di segni grafici) che compone la parola «cavallo» non intrattiene relazioni né di somiglianza né di contiguità con l’oggetto ‘cavallo’. Spazializzazione: secondo Julian Jaynes la spazializzazione è la caratteristica prima e più primitiva della coscienza. Ogni cosa di cui diveniamo coscienti è spazializzata, nel senso che si trova in una relazione spaziale, costruita metaforicamente, con gli altri contenuti della coscienza. Ad esempio, l’atto introspettivo è possibile grazie ad un implicita metafora spaziale che consente di ‘guardare dentro’ la propria mente, così come la reminiscenza, possibile solo in un tempo spazializzato e perciò cosciente. Infatti possiamo tornare indietro in un momento della nostra vita proprio come torniamo indietro in un luogo dove siamo già stati. Secondo Jaynes, questo spazio mentale metaforico che caratterizza ogni pensiero cosciente, è il prodotto del paraferendo ‘spazio’ associato a molte delle metafore che usiamo per comprendere i (o riferirci ai) processi coscienti. Ad esempio, ‘vediamo’ la soluzione ad un problema, abbiamo la testa ‘piena’ di pensieri, non riusciamo a ‘trovare’ il giusto concetto, etc. Tutte queste espressioni metaforiche si riferiscono ad azioni che avvengono nello spazio (vedere, trovare) o ad aggettivi (piena) che hanno salienti caratteristiche spaziali, e proprio queste caratteristiche spaziali vengono trasmesse ai processi mentali attraverso il continuo uso di queste metafore. Nel capitolo tre il processo metaforico attraverso cui tale spazio mentale viene ‘inventato’ è descritto nel dettaglio. Noi presupponiamo tale spazio mentale senza alcun problema, poiché esso è una parte importante di ciò che significa essere coscienti e presupporre una coscienza negli altri. Inoltre, cose che nel mondo fisico-comportamentale non hanno qualità spaziali (il tempo, la bontà, la libertà, etc.) ne ricevono una nella coscienza, altrimenti sarebbe impossibile esserne coscienti.

Gli autori ALESSANDRO SALVINI: è attualmente direttore scientifico dell’Istituto di Psicologia e Psicoterapia di Padova (Psicopraxis) e delle Scuole di specializzazione in psicoterapia interazionista di Padova e di Mestre. È stato professrore ordinario di Psicologia clinica all’Università di Padova, e Presidente del Collegio dei professori universitari di Psicologia clinica delle università italiane. Svolge attività clinica e di ricerca. I suoi lavori e interessi scientifici riguardano i settori relativi all’identità e comportamenti devianti, agli stati modificati di coscienza e ai metodi della psicoterapia. ROBERTO BOTTINI: si è laureato in Psicologia Clinico-Dinamica all’Università di Padova e ha conseguito il dottorato in Antropologia ed Epistemologia della Complessità all’Università degli Studi di Bergamo. Attualmente conduce attività di ricerca presso la New School for Social Research di New York. Le sue ricerche vertono soprattutto sui rapporti tra pensiero e linguaggio, l’evoluzione della coscienza e la percezione e rappresentazione del tempo. JULIAN JAYNES (1920-1997): autore dell’influente e controverso libro Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza. Ha insegnato psicologia alla Princeton University dal 1966 al 1990. Autore di numerose pubblicazioni scientifiche. GIORGIO NARDONE: considerato l’esponente di maggior spicco tra i ricercatori della Scuola di Palo Alto, è psicoterapeuta, psicologo e direttore del Centro di Terapia Strategica di Arezzo, ha pubblicato 27 libri tradotti in molte lingue. MARCEL KUIJSTEN: fondatore e direttore della Julian Jaynes Society. Ha ricevuto la laurea in Psicologia e Inglese dalla California State University e ha conseguito un MBA dalla University of Nevada, Las Vegas. BRIAN J. MCVEIGH: professore al Dipartimento di Studi Asiatici alla University of Arizona. Autore di sette libri. ANGELO RECCHIA LUCIANI: medico, neurologo e radiodiagnosta; dal 1997 è responsabile per l’imaging neuroradiologico in Città di Bari Hospital S.p.a. Attento studioso della relazione mente-corpo, si è interessato di psicoterapia e di ipnosi medica.

MARIA QUARATO: psicologa clinica, psicoterapeuta. Esperta in casi di uditori di voci non psicotici, è responsabile, con altri psicologi e psicoterapeuti, di un progetto di consulenza, ricerca e intervento denominato ‘sento le voci’ (www.sentolevoci.org).

Note 1.Si veda Wittgenstein, L. (1967), Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino (ed. originale, 1953). 2.Il pastafarianesimo (dall’inglese Flying Spaghetti Monsterism o Pastafarianism) è una religione parodistica creata per protestare contro la decisione del consiglio per l’istruzione del Kansas di insegnare il creazionismo nei corsi di scienze come un’alternativa alla teoria dell’evoluzione. Questa ‘religione’ ha avuto larga diffusione su Internet riunendo molti seguaci del ‘Mostro Volante di Spaghetti’ (Flying Spaghetti Monster, appunto), i pastafariani, rivendicano di essere stati toccati dalla ‘Sua Spaghettosa Appendice’ e pregano il verbo del loro ‘Signore Pastoso’ come unica vera religione. Il pastafarianesimo è una creazione di Bobby Henderson, laureatosi in fisica alla Oregon State University. 3.Per scoprirne alcuni si veda P. Watzlawick, La realtà inventata, Feltrinelli, Milano, 2006. 4.Si veda a proposito il famoso lavoro di Maturana et al. (1959), What the Frog Eye Tell to the Frog Brain (Cosa dice l’occhio della rana al cervello della rana). 5.Questa è la traduzione italiana del testo di una conferenza tenuta da Jaynes a Kirchberg, in Austria, nel 1985, nell’ambito del ‘9th International Wittgestein Symposium’. Il testo si presenta come una breve ma densa introduzione alla teoria di Julian Jaynes. Ci siamo tuttavia permessi di aggiungere delle note per sviluppare alcuni riferimenti che nel testo vengono soltanto citati, e approfondire alcuni degli aspetti centrali della teoria jaynesiana. Spesso le note rimandano a commenti fatti altrove dallo stesso Jaynes, altre volte invece sono del tutto inedite. 6.Sir Alfred Russel Wallace (1823-1913) ideò una personale teoria dell’evoluzione naturale, simile a quella darwiniana, nello stesso periodo in cui Darwin elaborava la propria. 7.Che si può rendere in italiano con: «originariamente insufflate dal Creatore in alcune forme o in una soltanto» (traduzione nostra). 8.George John Romanes (1848-1894) fu un biologo evoluzionista. Famoso, fra le altre cose, per aver coniato il termine neodarwinismo, è considerato un antesignano dei moderni psicologi comparativisti, in quanto cercò di evidenziare le somiglianze tra i processi cognitivi umani e animali. Per un approfondimento si veda Zeller (2007). 9.La teoria dell’evoluzione emergente è stata scoperta e abbandonata più volte nel corso dell’ultimo secolo, e negli ultimi anni sta godendo di una rinnovata attenzione. Julian Jaynes, nella sua critica a tale teoria spiega come l’idea principale di questa posizione sia una metafora: «Come le proprietà dell’umido non possono venire derivate dalle sole proprietà dell’idrogeno e dell’ossigeno, così la coscienza emerse ad un certo punto dell’evoluzione in un modo che non è derivabile dalle sue parti componenti» (Jaynes, 1984, p. 26). Benché la prima formulazione risalga a John Stuart Mill e a G.H. Lewes, questa teoria deve il proprio successo alla versione che Lloyd Morgan espose nel 1923 nel volume Emergent Evolution, versione che ripercorre le diverse ‘emergenze’ evolutive fino alle componenti elementari della materia: «Tutte le proprietà della materia sono emerse da qualche precursore non specificato. Quelle dei composti chimici complessi sono emerse dalla combinazione di composti chimici più semplici. Le proprietà distintive degli organismi viventi sono emerse dall’unione di tali molecole complesse. E la coscienza è emersa dagli organismi viventi. Nuove combinazioni determinano nuovi tipi di rapporti, che determinano a loro volta nuovi emergenti. Così le nuove proprietà emergenti sono in ciascun caso efficacemente connessi con i sistemi da cui emergono: anzi, le nuove relazioni emergenti a ciascun livello superiore guidano e sostengono il corso degli eventi tipici di tale livello. La coscienza emerge quindi come qualcosa di autenticamente nuovo in una fase critica del processo evolutivo. Una volta emersa essa guida il corso degli eventi nel cervello e ha un’efficacia causale sul comportamento del corpo» (p. 27). Il merito che tale teoria aveva (e ha tuttora) è duplice. Da una parte consente di collegare tra loro diverse discipline che si riferiscono a diversi livelli di emergenza, promuovendo così la necessità di un ecumene transdisciplinare per poter comprendere i fenomeni naturali; dall’altra può essere intesa come una dichiarazione d’indipendenza dalla fisica e dalla chimica da parte di discipline più giovani come la biologia o la psicologia, poiché nuovi emergenti producono nuovi livelli di complessità che non possono essere ricondotti ai livelli precedenti secondo il classico paradigma

riduzionista. Inoltre, dato che i nuovi emergenti diventano in qualche modo i principi organizzatori dei livelli precedenti, non si poteva più pensare alla coscienza come «a una costante ma futile accompagnatrice dei nostri processi cerebrali» (p. 27). Tuttavia, passato l’entusiasmo per quello che sembra un cospicuo avanzamento teorico, ci si accorge che i problemi restano quelli di prima: «Se la coscienza era emersa nel corso dell’evoluzione quando era avvenuto? In quale specie? Quale tipo di sistema nervoso è necessario allo scopo?» (p. 27). Queste sono alcune delle domande a cui la teoria dell’evoluzione emergente non sa rispondere. «Quel che c’è di sbagliato nell’evoluzione emergente non è la dottrina, ma il fatto che essa consente di tornare ai vecchi comodi modi di pensare la coscienza e il comportamento, la licenza che essa concede ad ampie e vuote generalità» (p. 28). 10.Possiamo far risalire questo paradosso soprattutto al lavoro di Niels Bohr (1885-1962), premio Nobel nel 1922, e alla cosiddetta interpretazione di Copenaghen della teoria quantistica. Mentre nei fenomeni fisici classici l’interazione tra l’apparato di misura (compreso il soggetto che compie la misura) e l’oggetto della misurazione è irrilevante e può essere trascurata, effettuando quindi una separazione netta tra osservato e osservatore, per i fenomeni quantistici questo non è possibile, e si deve tener conto di una combinazione osservatore-osservato non più separabile. Risulta quindi impossibile descrivere un fenomeno quantistico prescindendo dalle operazioni compiute dall’osservatore, quindi risulta impossibile descrivere un fenomeno per sé, cioè oggettivamente. Questa condizione paradossale ha spinto molti fisici teorici a riconsiderare la problematica mente-materia e il problema della coscienza da una prospettiva quantistica. In questo senso il ‘mondo’ della mente e quello della materia sono inseparabili e governati dalle stesse leggi (quantistiche), una posizione affine a quella propugnata dal neorealismo di Whitehead e altri. 11.Jaynes si riferisce qui al comportamentismo (o behaviorismo). Sviluppato da John Watson (1878 1958) agli inizi del Novecento, questa scuola di pensiero si basa sull’assunto che il comportamento esplicito è l’unica unità di analisi possibile della psicologia umana. I processi coscienti e mentali in generale, afferenti alla sfera soggettiva dell’individuo e considerati irrilevanti per l’attuazione e organizzazione del comportamento, in quanto non osservabili non possono essere considerati oggetto di scienza. Tra i più importanti esponenti di questa tradizione troviamo Burrhus Frederic Skinner (1904-1990) e Ivan Petrovic Pavlov (1849-1936). 12.La definizione connotativa basilare della coscienza è così un analogo io che narratizza in uno spazio mentale funzionale. La definizione denotativa è, come già era per Descartes, Locke e Hume, ciò che è suscettibile di introspezione» (Jaynes, 1990, p. 526). 13.Città austriaca dove ha avuto luogo, nel 1985, la nona edizione dell’International Wittgenstein Symposium, da cui è tratto questo brano. 14.La legge di Weber-Fechner riguarda uno dei primi tentativi sperimentali di descrivere in termini rigorosi la relazione tra uno stimolo esterno e la percezione, o la sensazione, dell’intensità di tale stimolo. Fu Ernst Heinrich Weber (1795-1878) a cominciare gli studi in questo campo, ma dobbiamo la definitiva formulazione della teoria al lavoro di Gustav Theodor Fechner (1801-1887). «La scoperta della relazione esistente tra stimolo e percezione è stata fatta da Weber in seguito all’esperimento consistente nell’incrementare di una certa quantità il peso di un oggetto sostenuto da un uomo. La percezione di tale stimolo (l’incremento di peso) è risultata essere tanto meno accentuata, quanto più pesante era l’oggetto. In altre parole aggiungere 1 kg ad un oggetto il cui peso è di 5 kg risultava essere percepito in maniera differente rispetto ad aggiungere 1 kg ad un oggetto il cui peso è 30 kg». Nella sua critica Jaynes intende negare l’assunto secondo cui il processo attraverso il quale si riconosce la differenza di peso sia un processo cosciente, e che la legge Weber-Fechner descriva una modalità di funzionamento della coscienza. In seguito vedremo come il giudizio percettivo, come nel caso della differenza di peso, non abbia bisogno della coscienza per essere eseguito. 15.Ci si riferisce qui a ciò che William James chiamava ‘flusso di pensiero’ (stream of thought). In contrasto con la psicologia del suo tempo, James sosteneva che non esistono sensazioni semplici, ma un unico flusso di pensiero costante. 16.Russell (1973).

17.Jaynes insiste molto nel porre una netta differenza tra i processi di coscienza e i processi di percezione sensoriale, poiché considera tale confusione, spesso lasciata implicita, una dei maggiori freni teorici alla comprensione della mente. Come scrive egli stesso nel post-scriptum al suo libro: «Non può esservi progresso nella scienza della coscienza fino a che non siano state fatte accurate distinzioni fra ciò che è suscettibile di introspezione e tutte le miriadi di capacità del sistema nervoso che siamo giunti a chiamare ‘cognizione’. ‘Coscienza’ non è lo stesso che ‘cognizione’ e dovrebbe esserne rigorosamente distinta» (Jaynes, 1990, p. 532). 18.Quando cambiamo postura, ci spostiamo o semplicemente cambiamo la direzione dello sguardo, le immagini proiettate sulla retina si spostano in continuazione, ma non per questo abbiamo l’impressione che tutte le cose intorno a noi siano in movimento. Il nostro cervello è perfettamente attrezzato per distinguere tra posizione assoluta e posizione relativa sulla retina da parte degli oggetti del campo visivo, cioè distinguere situazioni in cui gli oggetti sono fermi o in movimento rispetto a noi che li osserviamo. Tuttavia il cervello può essere ‘ingannato’: un’esperienza piuttosto comune è quella di essere seduti in treno, in stazione, e pensare che il treno a fianco a noi si stia muovendo mentre è proprio il nostro convoglio che sta partendo lentamente. 19.Possiamo rendere il concetto con una frase tanto semplice quanto profonde sono le conclusioni che se ne possono trarre: «Non siamo coscienti di non essere coscienti». 20.Ci si riferisce agli psicologi comportamentisti. 21.Con introspezionismo si definisce una tradizione sperimentale che segnò l’inizio della psicologia come disciplina scientifica autonoma. Nel 1879 un gruppo di studiosi, riuniti attorno alla figura del fisiologo Wilhelm Wundt (18321920), diedero vita a Lipsia al primo laboratorio di psicologia sperimentale. Secondo Wundt il metodo più adatto per esaminare l’esperienza diretta (cioè la coscienza, intesa come la traduzione in sensazioni e percezioni degli impulsi nervosi) era l’introspezione, ovvero l’osservazione sistematica e diretta dei processi che hanno luogo nel soggetto che esperisce un fenomeno, nel momento stesso in cui lo esperisce. Sulla base del presupposto che un individuo sia in grado di imparare a descrivere meglio i propri stati interni, questi scienziati venivano addestrati a migliorare la propria abilità introspettiva. 22.Una famosa obiezione a questo esperimento, riportata anche dallo stesso Jaynes, fu quella di sostenere che nel sollevare gli oggetti il giudizio venisse formulato così rapidamente da non lasciare traccia nella coscienza. Il punto era che quel tipo di giudizio si trovasse veramente nella coscienza, ma non potevano ricordarlo. Alcuni anni dopo, H.J. Watt provò a fugare ogni dubbio con un esperimento, usando il metodo delle associazioni di parole: «Si facevano vedere al soggetto dei nomi stampati su cartoncini, e gli si chiedeva di dire il più rapidamente possibile una parola associata al nome proposto [...] in serie diverse si chiedeva al soggetto di associare alla parola vista una parola sovraordinata (per esempio quercia-albero), coordinata (quercia-olmo), subordinata (quercia-tronco), o un intero (quercia-bosco), una parte (quercia- ghianda), o un’altra parte di un tutto comune (quercia-sentiero). La natura di questo compito di associazioni vincolate rendeva possibile dividere la coscienza del compito stesso in quattro periodi: le istruzioni circa quale restrizione si doveva applicare (per esempio sovraordinata), la presentazione del nome-stimolo (per esempio, quercia), la ricerca di un’associazione appropriata, e la risposta verbale (per esempio, albero). Agli osservatori che esaminavano se stessi introspettivamente fu chiesto di limitarsi a osservare prima un periodo e poi un altro, per ottenere in tal modo una descrizione più esatta della coscienza in ciascuno di essi. Ci si attendeva che la precisione di questo metodo di frazionamento dimostrasse l’erroneità delle conclusioni di Marbe, e che la coscienza del pensiero risultasse presente nel terzo periodo di Watt, il periodo della ricerca della parola adatta alla particolare associazione vincolata. Ma le cose andarono altrimenti. Il terzo periodo si rivelò all’introspezione assolutamente vuoto» (Jaynes, 1984, p. 59). Ciò che i soggetti riportavano in seguito all’introspezione era che, una volta vista la parola-stimolo, e avendo ben compreso le istruzioni riguardanti l’associazione da fare, il pensiero era automatico e non realmente cosciente. 23.Con questo esempio Jaynes vuole sottolinerare (come fece tra gli altri anche Poincaré) che spesso, anche per le grandi vette del pensiero, le scoperte e le soluzioni ai problemi arrivano inaspettatamente, magari quando si è

impegnati a pensare o fare tutt’altro: «L’immagine dello scienziato seduto al tavolo da lavoro che affronta i suoi problemi usando coscientemente i procedimenti dell’induzione e della deduzione è altrettanto mitica quanto l’unicorno» (Jaynes, 1984, p. 64). Gli esempi, anche celeberrimi, sono molti, da von Helmoltz, passando per lo stesso Poincaré fino a Einstein (Jaynes, 1984), e chi svolge un lavoro intellettuale sa benissimo come sia difficile ricostruire (o meglio, inventare) i passaggi logici e razionali che portano a una soluzione sopraggiunta improvvisamente, e inaspettatamente rivelatasi corretta: «Il punto essenziale, qui, è che ci sono varie fasi di pensiero creativo: prima una fase di preparazione, in cui il problema viene elaborato in modo cosciente; poi un periodo di incubazione, senza alcuna concentrazione cosciente sul problema; e poi l’illuminazione che è giustificata successivamente dalla logica. Il parallelo tra questi problemi importanti e complessi e problemi semplici come il giudicare due pesi [...] è chiaro. Il periodo di preparazione è essenzialmente l’impostazione di una struzione complessa, unitamente all’attenzione cosciente sui materiali su cui la struzione deve operare. Poi però l’effettivo processo di ragionamento, il salto oscuro nella grande scoperta, esattamente come nel semplice giudizio banale sui pesi, non ha alcuna rappresentazione nella coscienza. Anzi, a volte è quasi come se il problema dovesse essere dimenticato per poter essere risolto» (Jaynes, 1984, pp. 6566). 24.Riportiamo qui un esempio che potremmo definire ‘letterario’, usato altrove dallo stesso autore (Jaynes, 1984), per illustrare nuovamente il processo metaforico di cui sopra: «Consideriamo la metafora della coltre di neve che copre il suolo. Il metaferendo è qualcosa che ha a che fare con la compattezza e lo spessore uniforme dello strato di neve sul suolo. Il metaferente è una pesante coperta, una coltre, sul letto. Ma le sfumature gradevoli di questa metafora stanno nei paraferenti del metaferente ‘coltre’. Essi hanno a che fare con il calore, la protezione e il sonno prima di un futuro risveglio. Queste associazioni della coltre diventano allora automaticamente le associazioni o paraferendi del metaferendo originale, ossia del modo in cui la neve ricopre il suolo. Con questa metafora abbiamo creato così l’idea della terra che dorme, protetta dalla coltre di neve, fino al suo risveglio in primavera. Tutto questo è racchiuso nel semplice uso della parola ‘coltre’ riferita al modo in cui la neve copre il suolo» (Jaynes, 1984, pp. 80-81). 25.In altre parole, qui il metaferendo è il ritrovamento della soluzione, il metaferente è la visione con gli occhi, e i paraferenti sono tutte le caratteristiche associate alla visione i quali creano poi paraferendi come ‘l’occhio della mente’ oppure il vedere ‘chiaramente la soluzione’ oppure, caratteristica più importante, «il paraferendo di uno ‘spazio’ in cui si ‘vede’, quello che io chiamo spazio della mente, e di ‘oggetti’ da ‘vedere’» (Jaynes, 1984, p. 82). 26.Se ci viene chiesto di pensare agli ultimi cent’anni, possiamo avere la tendenza a disporre spazialmente la successione degli anni, probabilmente da sinistra a destra. Ma naturalmente nel tempo non ci sono una sinistra e una destra, bensì solo un prima e un dopo, e il prima e il dopo non hanno alcuna proprietà spaziale, se non per analogia. Non si può assolutamente pensare al tempo se non spazializzandolo. La coscienza è sempre una spazializzazione in cui il diacronico è trasformato in sincronico, e in cui ciò che è accaduto nel tempo viene selezionato e visto in giustapposizione spaziale» (Jaynes, 1984, p. 84). 27.Si veda Jaynes (1976), p. 312. 28.Secondo Jaynes, i personaggi dell’Iliade non hanno momenti in cui si fermano a riflettersi sul da farsi, nessuno è introspettivo e nessuno si abbandona al ricordo e alla reminiscenza. Non v’è traccia insomma di un Analogo Io che narratizza gli eventi della vita in un tempo spazializzato. Naturalmente questa è un’ipotesi molto controversa. Per approfondimenti si veda Jaynes (1984, 1986); ipotesi contro questa teoria sono state avanzate in Leudar, Thomas (2000). 29.Ecco alcuni esempi tratti dall’Iliade: «Quando Agamennone signore di popoli sottrae ad Achille la sua amante, è una dea ad afferrare Achille per la chioma bionda e ad ammonirlo a non colpire Agamennone (i, 197 sgg.). È una dea che sorge poi dalle spume del mare e lo consola del suo pianto, è una dea che dice ad Elena di togliersi dal cuore la nostalgia della patria lontana ed è un dio che induce Glauco a scambiare le sue armi d’oro per armi di bronzo (vi, 234 sgg.). Sono gli dei che danno inizio alle contese tra gli uomini (iv, 437 sgg.), che sono la vera causa della guerra (iii, 164

sgg.) e ne decidono poi la strategia (ii, 56 sgg.). Insomma, gli dei prendono il posto della coscienza» (Jaynes, 1984, p. 98). 30.L’allucinazione uditiva ricorre, con diversi tempi e forme, quasi nella metà della popolazione totale (Posey, Losch, 1983), sebbene venga considerata come un sintomo molto significativo nella diagnosi di schizofrenia. Io stesso ho conosciuto, tramite interviste e rapporti epistolari, alcune persone assolutamente normali nelle cui vite improvvisamente si affacciavano periodi caratterizzati da articolate allucinazioni verbali, solitamente di natura religiosa. Al giorno d’oggi le allucinazioni verbali sono comuni; la mia ipotesi tuttavia è che all’inizio della civiltà esse dovevano essere universali» (Jaynes, 1986). Per un approfondimento sul carattere non patologico delle voci allucinatorie e sulle caratteristiche di tale fenomeno rimandiamo il lettore al capitolo 5 di questo volume. 31.Si veda Jaynes (1984). 32.Le pratiche divinatorie come l’interpretazione dei presagi, il lancio delle sorti, la divinazione augurale e la divinazione spontanea (Jaynes, 1984, pp. 286-306) sono pratiche volte alla presa di decisione che acquisirono molta importanza con il crollo della mente bicamerale, quando le voci allucinatorie (ormai non all’altezza delle crescenti complessità di comportamento) cessarono. Jaynes individua una proliferazione di tali tecniche (comunque presenti anche nel cosiddetto periodo bicamerale) proprio alla fine del ii millennio a.C. 33.Come esempio di questa migrazione del significato dal concreto all’astratto consideriamo una di queste ipostasi preconsce (Jaynes, 1976), il termine psyche: «Essa deriva probabilmente da psycho, ‘io respiro’, e così come è usata in genere nell’Iliade, si è interiorizzata nelle sostanze vitali. Psyche sembra essere per lo più usata nello stesso modo in cui noi useremmo la parola ‘vita’, ma questa affermazione può essere molto sviante. ‘Vita’ per noi significa qualcosa circa un periodo di tempo, un intervallo fra nascita e morte, pieno di eventi e di sviluppi concernenti un certo personaggio. Nell’Iliade non c’è assolutamente nulla del genere. Quando una lancia colpisce il cuore di un guerriero, la sua psiche si dissolve (v, 296), è distrutta (xxii, 325) o semplicemente lo lascia (xvi, 453) o viene espulsa tossendo attraverso la bocca (ix, 409), o esce via col sangue da una ferita (xiv, 518; xvi, 505): non c’è alcuna indicazione concernente il tempo o la fine di qualcosa. [...] In generale [...] la psiche è, molto semplicemente, qualcosa che può essere tolto [...] Nel tentativo di comprendere questi termini, dobbiamo astenerci dalla nostra abitudine cosciente di costruire in essi uno spazio prima che ciò sia accaduto storicamente. In un certo senso, la psiche è la più primitiva fra queste ipostasi preconscie; essa è semplicemente la proprietà di respirare o di sanguinare o altro in quell’oggetto fisico chiamato uomo o animale, una proprietà che può essergli presa come premio (xxii, 161) da una lancia che lo colpisca nel punto giusto [...] Nessuno mai in alcun modo vede, decide, pensa, sa, teme o ricorda qualcosa nella sua psyche». Per ulteriori chiarimenti e per alcune eccezioni si veda Jaynes (1984), pp. 325-26. 34.Per un approfondimento si veda Jaynes (1984), pp. 351-374. 35.Lo Shijing è la prima raccolta esistente di canti popolari cinesi (Carr, 2006). 36.Tale critica fu espressa dal filosofo americano Ned Block, in un commento al libro di Julian Jaynes nel 1981. Per quanto il problema dell’uso-menzione possa sembrare circoscritto o speculativo, è di centrale importanza per questa teoria della coscienza, come ha sottolineato Daniel Dennett (1986). Block scrisse che il lavoro di Jaynes era fondato su di un unico grande errore chiamato ‘uso-menzione’: confondere il fenomeno con il nome del fenomeno o il concetto del fenomeno. Anche se le considerazioni storiche di Jaynes fossero corrette, egli non avrebbe mostrato lo sviluppo della coscienza a partire dal 1000 a.C., ma solo lo sviluppo del concetto di coscienza! Così come la gravità esisteva molto tempo prima che Newton formulasse il concetto di gravità, anche gli uomini erano coscienti prima di possedere un concetto di coscienza. I concetti non sono uguali ai fenomeni a cui si riferiscono: non si può cavalcare il concetto di cavallo! 37.L’area di Wernicke solitamente si trova nell’emisfero sinistro. 38.Si veda Nagel (1974) l’introduzione a questo volume e p. 229, sempre in questo volume. 39.Per questo, si veda il primo capitolo.

40.In uno di questi test cognitivi, due immagini venivano proiettate simultaneamente nei campi visivi destro e sinistro. Ad esempio, il simbolo del dollaro a sinistra e un fiore a destra. Quindi si chiedeva al soggetto di disegnare ciò che aveva visto con la mano sinistra. La mano, nascosta alla vista da uno schermo, disegnava il simbolo del dollaro, ma quando veniva chiesto al soggetto che cosa avesse appena disegnato con la mano nascosta, il soggetto sosteneva di aver disegnato un fiore. 41.Per una proposta terminologica e operativa rispetto alla differenza tra ‘consapevolezza’ e ‘coscienza’ si veda, in questo volume, il capitolo 5. 42.Anche i casi di bambini cresciuti in isolamento e senza linguaggio – come Kaspar Hauser nell’Europa del xix secolo o il più recente caso di Genie negli Stati Uniti – forniscono ulteriori indizi a sostegno della necessità del linguaggio per sviluppare una coscienza. Tuttavia, con l’eccezione di Genie (Curtiss, 1977), molti di questi casi non sono stati studiati con un interesse specifico rispetto alle relazioni tra linguaggio e pensiero. 43.La teoria piagetiana è talmente complessa che sarebbe un grave errore tentare di compendiarla in poche righe o ridurla a un paio di slogan. Ciò che vogliamo sottolineare è la grande importanza data al linguaggio da Piaget nello sviluppo del pensiero, senza tuttavia pretendere di accostarlo con disinvoltura a visioni radicali come quelle di Dennett o Jaynes. 44.Si veda Zelazo (2007). 45.Per un quadro sinottico dei più importanti approcci alla metafora nelle scienze cognitive, si veda Ortony (1993). 46.Riecheggiano a proposito le parole eraclitee di William James quando scriveva: «Sebbene il mondo sia un posto in cui la stessa cosa non si è mai verificata (e mai si verificherà) due volte, la mente umana tuttavia tende costantemente a trovare somiglianze fra questi fenomeni sempre diversi» (Morabito, 2002). 47.Nietzsche si oppone così a una visione realista, aristotelica, di una realtà esterna indipendente dal processo creativo del soggetto, e in tal modo ne fa scherno: «Se qualcuno nasconde una cosa dietro un cespuglio, proprio là nuovamente la cerca e anche la trova, allora in questo cercare e trovare non v’è molto da elogiare: ma è così che stan le cose con il cercare e trovare la verità all’interno della circoscrizione-ragione» (Nietzsche, 2006, p. 99). 48.Altre differenze, ugualmente rilevanti, ma di natura più ‘tecnica’, riguardano la modularità della mente e la critica al funzionalismo (Fodor, 1988), la questione se il linguaggio sia o meno separato e indipendente dagli altri processi cognitivi (Lakoff, Johnson, 1998), la natura della categorizzazione (Rosch, 1976), ecc. 49.Di quanto questa posizione sia fortemente metafisica e psicologicamente inadeguata ne abbiamo già parlato nel primo capitolo. 50.Secondo Boroditsky (2000), una generale spazializzazione del tempo dovrebbe essere universale e presente in tutte le culture e le lingue. Questo sembrerebbe dovuto alla struttura originale del dominio concettuale temporale, basata sull’esperienza diretta del tempo e della durata, come una successione di eventi. Per concepire, o mappare, l’ordine sequenziale degli eventi, il tempo viene generalmente costruito come un’entità direzionale unidimensionale. Boroditsky suggerisce che, a livello cognitivo, aspetti del tempo che possono essere estratti direttamente dalla nostra esperienza del mondo (confini temporali degli eventi, unidirezionalità) possono anche essere rappresentati per via non metaforica. Tuttavia, ci sono molti aspetti del nostro concetto di tempo che non sono osservabili, o più generalmente percepibili, nella nostra esperienza del mondo. Il tempo si muove orizzontalmente o verticalmente? Si sposta da destra a sinistra o viceversa? Oppure dall’alto in basso? Il tempo passa su di noi o siamo noi che ci muoviamo attraverso il tempo? Tutte queste caratteristiche sono codificate minuziosamente nel nostro linguaggio temporale e, come vedremo, posseggono una solida realtà psicologica. 51.Uno sguardo attento potrebbe obbiettare che si stia qui confondendo la metafora con l’analogia. In effetti, sostenendo che enunciati come «IL TEMPO è UNO SPAZIO» si riferiscono a processi di pensiero più che a costrutti linguistici, l’utilizzo del termine analogia, derivato dal lessico della logica, potrebbe essere più adatto del termine metafora (più genuinamente di stampo retorico). Al di là del discorso semantico, peraltro importante, credo che in questo caso non si stiano confondendo metafora e analogia, piuttosto le stiamo fondendo. La struttura classica

dell’analogia è quella per cui A:B=C:D (da leggersi, A sta a B come C sta a D). Nel caso dell’esempio citato sopra potremmo dire che: (i) «gli eventi stanno al tempo come i luoghi stanno allo spazio», oppure che (ii) «passato sta al tempo come dietro sta allo spazio». L’analogia riguarda le relazioni tra le entità (o fattori) più che le entità stesse. In (ii), per esempio, l’identità non è tra ‘passato’ e ‘dietro’, oppure tra ‘tempo’ e ‘spazio’, ma è tra le relazioni fra queste entità: la relazione che c’è tra ‘passato’ e ‘tempo’ è la stessa che c’è tra ‘dietro’ e ‘spazio’. Gran parte delle mappature considerate in precedenza, tra il dominio sorgente e il dominio bersaglio, riguardano proprio le relazioni. Possiamo quindi sostenere che molte di quelle che abbiamo chiamato ‘metafore concettuali’ hanno una struttura analogica. Tuttavia, in alcuni casi, il processo metaforico riguarda attributi e caratteristiche, non relazioni. Così è, per esempio, quando «un’idea ci appare chiara», oppure «una giornata ci sembra lunga», in cui caratteristiche proprie di oggetti fisici vengono trasferite ad entità astratte. Concludendo, sebbene nella maggioranza dei casi le metafore concettuali hanno una struttura analogica, non sempre questo accade. Metafora (concettuale) è qui inteso come un termine più generale di analogia, ed è anche il termine normalmente utilizzato nella tradizione scientifica a cui facciamo riferimento. Una tradizione inaugurata dal Vico, ripresa da Jaynes e resa famosa dal lavoro di Lakoff e Johnson. 52.Solitamente, le discussioni sul relativismo linguistico hanno un grande limite. Possiamo chiederci se il linguaggio dia forma al pensiero, ma cosa si intende per pensiero? Cos’è il linguaggio? Nell’introduzione a questo volume abbiamo visto come sia improprio porsi domande ontologiche, in generale, ma soprattutto quando in campo ci sono concetti di tipo psicologico; tuttavia questo diventa troppo spesso un alibi per evitare di dare qualsiasi definizione, a qualsiasi livello. Indubbiamente, questo non reca alcun giovamento né alla scienza, né alla filosofia, né all’umanità in generale. Nel prossimo paragrafo forniremo evidenze teoriche e sperimentali di come particolari caratteristiche grammaticali o semantiche possano influenzare l’esecuzione di particolari compiti cognitivi come il riconoscimento dei colori, la categorizzazione, la stima del tempo, l’orientamento nello spazio ecc. Crediamo che questi siano buoni rappresentanti sia del ‘linguaggio’ che del ‘pensiero’ e, nella loro incompletezza, possano fornire supporto o discredito alla teoria relativista, facendo ‘avanzare’ la nostra conoscenza in merito. Se il lettore, alla fine, sentirà che il pensiero (o il linguaggio) è molto più della semplice categorizzazione, riconoscimento o concettualizzazione di tempo, spazio, colore, ecc., non avrà tutti i torti. Tuttavia si sforzi anche di prendere in considerazione la possibilità che questo senso di mancanza non sia dovuto al fatto che il concetto di ‘pensiero’ è grande e profondo, quindi difficilmente comprensibile, ma piuttosto che concetti come pensiero, linguaggio e coscienza sono categorie utili proprio per la capacità di allargare o restringere il proprio ‘campo concettuale’ a seconda delle necessità, strutturate in modo tale da poter includere elementi diversi tra loro, e di cambiare le proprie caratteristiche d’inclusione a seconda del contesto. In questo modo ci si può rendere conto di quanto sia dispendioso e frustrante cercare di riempire qualcosa che è stato costruito per allargarsi continuamente. E di quanto non si possa separare con leggerezza la semantica dalla pragmatica. 53.il nostro pensiero non è che una massa amorfa e indistinta, senza il soccorso dei segni, noi saremmo incapaci di distinguere due idee in modo chiaro e costante. Preso in se stesso, il pensiero è come una nebulosa in cui niente è necessariamente delimitato. Non vi sono idee prestabilite, e niente è distinto prima dell’apparizione della lingua» (de Saussure, 2008, p. 136). 54.Per un approfondimento di questa complessa teoria (che qui è stata estremamente sintetizzata) si può consultare la Stanford

Encyclopedia

of

Philosophy

all’indirizzo

web

http://plato.stanford.edu/entries/wilhelm-

humboldt/#SomEssHumUndLan. 55.Laureato in ingegneria chimica al Massachusetts Institute of Technology, Whorf lavorò per tutta la vita presso la Hartford Insurance Company di Hartford, nel Connecticut, nella divisione di previsione antiincendio. 56.Come rilevato da diversi studiosi (Mioni, 1970) i passi sapiriani spesso citati per dimostrare l’adesione dell’autore all’ipotesi relativista sembrano stranamente in contrasto con il resto della sua opera. Nel suo libro più importante, Language, Sapir infatti declina chiaramente la sua visione, che si attesta certo su posizioni relativiste, ma di un relativismo culturale piuttosto che linguistico, un’idea già presente nell’opera del maestro di Sapir, l’antropologo Franz Boas (1858-1952) e reso completamente esplicito poi nel lavoro di antropologhe come Margaret Mead e Ruth

Benedict, anch’esse allieve di Boas. Per quanto riguarda i rapporti tra pensiero e linguaggio, Sapir, sebbene pensasse che la lingua fosse uno strumento indispensabile per lo studio della cultura («La trama delle configurazioni culturali di una civiltà è compendiata nella lingua che esprime tale civiltà. È un’illusione pensare di comprendere i principali lineamenti di una cultura senza la guida del sistema simbolico-linguistico che li rende significativi e intelligibili per la società»; Sapir, 1956), egli considerava il linguaggio come «il più complicato esempio di quella serie di simboli secondari o di riferimento, che la società è venuta sviluppando» (Sapir, 1929, p. 61), e allo stesso tempo parte e prodotto di ciò che più generalmente chiamiamo pensiero. Per Sapir, quindi, la lingua è un’indispensabile finestra sulla natura umana, ma non costituisce, né determina, i processi di pensiero su cui aiuta a far luce. 57.In hopi esistono abbondanti mezzi riflessivi e lessicali per esprimere per esprimere la durata, l’intensità e la tendenza, le cui strutture grammaticali fondamentali non forniscono analogie per uno spazio immaginario. L’aspetto dei verbi spesso esprime la durata e la tendenza degli eventi, ed esiste una speciale parte del discorso, i ‘tensori’, con la funzione di esprimere l’intensità. Tuttavia non mancano eccezioni, secondo Whorf trascurabili, in cui tra questi termini astratti di tempo, intensità, ecc. troviamo tracce di derivazione da termini spaziali (Whorf, 1970, p. 112). 58.Si veda Levinson (2003), p. 184). tra le lingue ‘assolute’ troviamo: Mparntwe Arrente (Australia centrale), Longgu (Isole Salomone), Belare (Nepal), un dialetto tamil (Sri Lanka), parlato nelle campagne. Tra le lingue ‘relative’ troviamo: olandese, giapponese, inglese australiano e un dialetto tamil parlato nelle città. Inoltre sono state fatte prove tra diverse lingue maya, con diverse caratteristiche, per dimostrare che il risultato delle prove non è dovuto a una sorta di relativismo culturale piuttosto che linguistico. Le tre lingue in questione sono il Tzeltal, Mopan e Yucatec (Levinson, 2003, p. 188). Infine, la particolarità della lingua Tzeltal di non distinguere linguisticamente tra est e ovest (Levinson, 2003, p. 148), ma solo tra nord e sud («Downhill» e «Uphill»), ha permesso di ottenere una prova causale di determinismo linguistico (Levinson, 2003, p. 206). Infatti, se i soggetti dovevano riprodurre la sequenza lungo l’asse est-ovest, erano meno accurati che nel farlo lungo l’asse nord-sud. La sovrapposizione di categorie lessicali in questo caso comporta una minor accuratezza nell’orientamento spaziale. 59.La critica più valida (Pinker, 2007; Abarbanell, Li, Papafragou, 2005), tra quelle che sono state mosse al lavoro di Levinson e colleghi, riguarda l’ambiguità del test proposto da Levinson. Infatti, la richiesta di riprodurre la «stessa» disposizione degli oggetti visti precedentemente è sottilmente ambigua poiché può significare: 1) allo stesso modo relativamente all’ambiente; 2) allo stesso modo relativamente alla persona; se la richiesta viene disambiguata anche i parlanti Tzetzal forniscono prestazioni migliori in condizioni di orientamento relativo (Abarbanell, Li, Papafragou, 2005) 60.Lunedì è sopra martedì» e «Lunedì è più alto di martedì». 61.Ad esempio, noi diciamo «tre candele» e «due sacchi di farina», distinguendo oggetti e sostanze, mentre in altre lingue non esistono confini grammaticali a demarcare questa differenza. Ad esempio, «due candele», in Tzeltal, dove l’unità di misura deve essere sempre specificata per ogni sostantivo, e spesso accompagnata dalla forma, sarebbero «due unità di cera lunghe e fini» (Lucy, Gaskins, 2001). 62.Si potrebbe obiettare che il colore è un’esperienza percettiva concreta tanto quanto lo spazio. In parte è vero, tuttavia i termini di colore sono astrazioni concettuali causate dal porre confini più o meno netti su una radiazione elettromagnetica di natura continua. I confini categoriali dei colori sono decisamente più astratti e arbitrari dei punti cardinali o dell’orientamento destra/sinistra. 63.Ad esempio: ‘devo ancora digerire questa idea’; ‘Egli produce nuove idee con una facilità incredibile’; ‘C’è sempre un mercato per le buone idee’. 64.Quella del teatro cartesiano è una metafora suggerita dal filosofo Daniel Dennett per indicare la più comune, e secondo lui errata, rappresentazione della coscienza. Una rappresentazione per cui i diversi dati percettivi in entrata vengono convogliati in un area (uno spazio) del cervello in cui vengono integrati nel flusso della coscienza. Il film della coscienza viene dunque attentamente scrutinato da una sorta di Autore Centrale, un Io, o un Occhio della mente, il quale in seguito impartisce i comandi che conducono all’azione volontaria. Secondo Dennett, questo modello per cui uno

spettatore (un homunculus) assiste ad un unico flusso di coscienza in uno spazio mentale è un’invenzione di alcuni filosofi e scienziati che ha scarsa rilevanza teorica. 65.Per un approfondimento di questi temi si veda il capitolo 4 di questo volume. 66.Tra i vari documenti storico-narrativi che è possibile esaminare, particolare interesse ricoprono i resoconti di sogni. Infatti, sembra che i sogni dell’antichità abbiano una struttura alquanto differente dai sogni che noi ‘moderni’ facciamo abitualmente. Secondo Jaynes, i sogni degli antichi (almeno nei resoconti giunti fino a noi) non sono né vicari (proprietà per la quale, nel sogno, si può fare potenzialmente qualsiasi cosa, anche se in realtà si sta semplicemente sdraiati e quasi immobili), né traslocativi (proprietà per la quale nel sogno possiamo essere ovunque, anche se in realtà siamo distesi nel nostroletto). Queste proprietà sono dovute ad altrettante proprietà della coscienza che sono appunto un Analogo Io, che adotta qualsivoglia comportamento in un analogo spazio uguale a qualsivoglia luogo. La maggior parte dei resoconti di antiche esperienze oniriche giunte sino a noi descrivono semplicemente il sognatore che sogna di essere nel proprio letto e di ricevere la visita di un dio o uno spirito, prodigo di avvertimenti, suggerimenti o ingiunzioni (Dodds, 1951). Un esempio è il sogno che fece Agamennone, descritto nel libro ii dell’Iliade, in cui l’Atride riceve la visita del Sogno cattivo, il quale, assunte le sembianze di Nestore, lo persuade a sferrare l’attacco finale ai troiani. «La letteratura antica è piena di questi sogni di ‘visite divine’ in cui una singola figura si presenta, come in Omero, al sognatore, fornendo profezie, consigli o avvertimenti» (Dodds, 1951). Troviamo un simile sviluppo nella descrizione dello sviluppo onirico del bambino fatta da David Foulkes. Secondo Foulkes, la natura e il contenuto dei sogni infantili cambia drammaticamente col passare del tempo. Ad esempio, durante gli anni prescolari i sogni sono brevi e poco frequenti, normalmente focalizzati su stati corporei e caratterizzati da rappresentazioni piuttosto statiche. I sogni si trasformano in ciò che normalmente esperiamo nella vita adulta tra i 5 e i 9 anni: «Dapprima, i resoconti dei sogni diventano più lunghi, ma non più frequenti, e cominciano a descrivere interazioni sociali ed alcuni movimenti che suggeriscono un’immaginazione cinematica piuttosto che statica; ciò che continua a mancare, comunque, è la partecipazione attiva, nell’evento onirico, da parte del sognatore stesso. In seguito, i resoconti diventano più frequenti e narrativamente più complessi, e la partecipazione attiva del sognatore diventa una generale possibilità, insieme con l’attribuzione a se stessi di sensazioni o pensieri durante il sogno e in risposta a ciò che accade nel sogno» (Foulkes, 2002). Anche se Foulkes vede una correlazione tra lo sviluppo linguistico e quello onirico, la comparsa delle caratteristiche vicarie e translocative dei sogni sulla base della formazione di un Io che narratizza in uno spazio analogale, costruito su basi linguistiche, è ancora tutta da dimostrare. 67.Con ‘teoria della mente’ si intende la capacità di presupporre, in se stessi e negli altri, una mente che contiene idee e credenze che guidano il comportamento del soggetto. Sono stati individuati diversi livelli di sviluppo, ma gli autori sono piuttosto d’accordo nel ravvisare il completo sviluppo della teoria della mente intorno al quarto anno di età. 68.David Grove negli anni Settanta mise a punto un ‘linguaggio non presupposizionale’ idoneo a permettere a un soggetto di costruire un modello dei propri ‘panorami metaforici’ indipendentemente dalle presupposizioni, dal modello del mondo di cui appare sempre portatore il soggetto che ‘facilita’ il processo, ad esempio il terapeuta. Il clean language, adeguata descrizione, formalizzazione e inquadramento teorico di tale modello, ed il modellamento simbolico si devono al lavoro di Penny Tompkins e James Lawley (Lawley, Tompkins, 2000). 69.Gli stessi termini di connotazione e denotazione hanno una lunga tradizione polisemica in filosofia, in logica e nella teoria del linguaggio. Danesi (2008, p. 288) chiarisce che 1) il senso (o la connotazione o l’estensione) di un termine ha il compito di espressione di significati soggettivi e che 2) nella pratica corrente scientifica della semiotica alcune parole sono praticamente usate come sinonimi secondo lo schema: Riferimento = Denotazione = Intensione, mentre Senso = Connotazione = Estensione, intendendo la semiosi come un processo intrinsecamente relazionale e associativo, mentre i significati possono avere solo un carattere contestuale. Purtroppo, in Peirce e per la logica tradizionale, Denotazione = Estensione, mentre Intensione = Connotazione. Inoltre, Intensione non deve essere confuso con Intenzione, un concetto ampiamente utilizzato nel presente capitolo. 70.In questo volume, p. 131.

71.Wolfgang Köhler nel 1913 studiò a Tenerife la psicologia delle scimmie antropoidi pubblicando nel 1917 Intelligenzprufungen an Menschenaffen (L’intelligenza delle scimmie antropoidi, Giunti-Barbera, Firenze, 1961). La citazione è tratta da Vygotskij, Lurija, 1997, p. 450. Köhler, autore importante per la psicologia della forma, dimostrò come i primati comprendano le relazioni tra stimoli, piuttosto che stimoli isolati, e che possono trasporre queste relazioni tra insiemi diversi di stimoli, ma in un completo parallelismo tra assetti fisici, neurologici e fenomenicopercettivi. 72.Riprendendo la nota di Roberto Bottini alla traduzione di Jaynes in questo testo, «così come la gravità esisteva molto tempo prima che Newton formulasse il concetto di gravità, anche gli uomini erano coscienti prima di possedere un concetto di coscienza». Gli animali vivono nel tempo e nello spazio, e vi si orientano, senza concettualizzarli. La percezione del tempo è ad esempio essenziale nell’addestramento animale. Perché si realizzi un apprendimento per condizionamento classico occorre che tra una prova e l’altra vi sia contiguità temporale e la scelta di un intervallo ottimale, che può essere fisso o variabile, in quest’ultimo caso decrescente o crescente. Se l’intervallo tra due stimoli di rinforzo cresce progressivamente, si induce uno ‘svezzamento’. 73.In Peirce, le ‘pure sensazioni’ sono per l’agente firstness, brute sensazioni che si fanno percezioni significative nella secondness. Quando l’agente oltrepassa sensazioni e percezioni per raggiungere una rete di relazioni sensazioni/ percezioni e una di relazioni percezioni/percezioni, si dà luogo alla thirdness. La sintesi è di Favareau (2008), p. 30. 74.Devo la segnalazione alla puntata intitolata «La vita come Photoshop toglie contrasto. Anche i grandi giocano» della trasmissione radiofonica Castelli in aria condotta su Rai RadioTre dal linguista Edoardo Lombardi Vallauri. 75.La classificazione delle forme e il loro strutturarsi nei modi singolarizzato, composito, coesivo e connettivo sono tratti e adattati da Danesi (2008), pp. 292 e sgg., traduzione e corsivo miei. 76.Che costruì la sua filosofia delle forme simboliche sull’idea di Heinrich Rudolf Hertz (sì, proprio il fisico che dimostrò l’esistenza delle onde elettromagnetiche e in onore del quale ne denominiamo la frequenza) di cui riportiamo un breve passo da La filosofia delle forme simboliche (1923): «I concetti fondamentali di ogni scienza [...] appaiono non più come un passivo rispecchiamento di un dato essere, ma come simboli intellettuali liberamente creati [...] Al posto di una pretesa somiglianza di contenuto tra immagine e cosa, è subentrata l’espressione di un rapporto logico estremamente complesso». In Cassirer il simbolo diviene «organo necessario ed essenziale del pensiero». 77.Possiamo dare dell’elefante a una persona particolarmente goffa, come facciamo col proverbiale elefante in cristalleria. In questo senso (connotazione, estensione) non ci riferiamo a questa persona come a qualcuno dotato di occhi relativamente piccoli, grandi orecchie mobili, di zanne prominenti o di una proboscide. Spesso ‘capire una barzelletta’ richiede di operare un ‘salto’ tra diversi domini estensionali di un medesimo referente. 78.Nell’esperimento riportato da Deacon è stato possibile indurre e misurare una risposta fisiologica da stress ad esempio attraverso un condizionamento classico alla parola ‘gatto’, risposta che verrà riprodotta ripetendo la stessa parola e, benché meno intensamente, da termini associati sul piano lessicale, della medesima categoria (‘cane’, ‘animale’) o correlati solo sul piano simbolico (‘miao’, ‘matto’, ove il solo stimolo condiviso riguarda la fonetica del simbolo usato). 79.Nella prospettiva del darwinismo neurale le funzioni cerebrali superiori sarebbero il risultato di pressioni selettive non solo durante lo sviluppo filogenetico di una specie, ma anche di assetti anatomico-funzionali risultato della competizione tra diversi gruppi neurali nel corso dell’ontogenesi, lo sviluppo del singolo individuo dopo la nascita. 80.Ambiente» o «mondo circostante» nella terminologia di Jakob von Uexküll e Thomas A. Sebeok, rappresenta per l’organismo il modello del mondo (Favareau (rif. in bibliografia). 81.Per inciso, che l’obiettività e addirittura il concetto di realtà facciano riferimento alla condivisione sociale costituisce la ragione della ‘terribile’ potenza dei media di oggi. Per un’analisi che con gli anni acquista sempre più incisività si rimanda a Debord (1967). 82.I preference-for-novelty-task si basano sul fenomeno dell’attenzione prolungata che i bimbi molto piccoli, soggetti a una grandissima distraibilità, dedicano alla comparsa di oggetti che costituiscono una novità nell’ambito del campo

percettivo. Se a un bimbo molto piccolo si ripropone la visione del medesimo oggetto più volte, dopo poche ripetizioni il bambino non vi dedicherà che uno sguardo assai rapido e fuggevole. Sguardo che si farà attento e prolungato di fronte alle novità. È possibile misurare il tempo di sguardo (ad esempio attraverso un filmato cronometrato): sguardi lunghi e attenti indicano (prima di qualunque possibile verbalizzazione) la percezione di una novità inattesa. 83.Speciale classe di neuroni motori (non sensitivi!) che si attivano selettivamente sia quando si compie un’azione sia quando la si osserva mentre è compiuta da altri permettendone fenomeni di autoriconoscimento, attraverso il ‘rispecchiamento’ che ha dato loro nome. 84.In biologia definisce il successo riproduttivo di un individuo o di un genotipo. 85.Organi mentali’, sono ‘meccanismi’ innati, realizzati da strutture cerebrali o sociali (com’è il caso del «Language Acquisition System Support» di Jerome Bruner), postulati come necessari a realizzare processi dimostrabili sul piano neurologico o psicologico. L’organo o ‘dispositivo mentale’ si precisa nel ‘modulo cognitivo’ secondo la definizione di Fodor (1988, p. 53). I moduli sono «specifici per un dominio particolare, determinati geneticamente, preprogrammati, autonomi», dalle operazioni «obbligate» e «rapide», «incapsulati informazionalmente» (cioè specifici per tipo di informazione) e «associati a un’architettura neuronale fissata». 86.Osgood, Suci e Tannenbaum (1957) introdussero la tecnica del differenziale semantico per l’individuazione dei connotati, specifici delle diverse culture, che danno significato a concetti astratti. Al concetto astratto devono essere attribuite determinate caratteristiche che vengono arbitrariamente quantificate ricorrendo a un punteggio (da 1 a 7) lungo una scala ai cui estremi appaiono due aggettivi qualificativi di significato opposto (ad esempio, quale punteggio assegna all’amor di patria tra buono (1) e cattivo (7)?). L’analisi statistica dei questionari dimostra tendenze sociali verso significati ‘prevalenti’, ‘dominanti’ con andamenti specifici nello spazio e nel tempo. Si consideri, ad esempio, il disonore che i giapponesi (connotandolo da negatività estrema) associano all’impossibilità di onorare i propri impegni, tale da far considerare socialmente accettabile la ‘soluzione’ del suicidio; una connotazione impensabile nella tradizione giudaico-cristiana. 87.Biocenosi è l’insieme delle specie animali e vegetali che vivono e interagiscono in una determinata area geografica. 88.Barbieri fa riferimento a una soglia semiotica, in cui il codemaker e il suo codice impongono corrispondenze biunivoche tra i due ‘mondi’ che mettono in relazione (è così che la proteina si fa significato del dna); e a una soglia ermeneutica, in cui compaiono, insieme ad altri codici, diversi da quello genetico, verosimilmente in un ambito multicellulare, possibilità di interpretazione, dunque ermeneutiche. Questo autore indica contesto, memoria e apprendimento come necessari all’interpretazione, che dunque si sposta molto oltre, nel tempo, rispetto all’origine della vita. Una sintesi è in Favareau (2008). A mio parere, la soglia ermeneutica viene oltrepassata non appena le corrispondenze tra forme e referenti divengano sistematicamente uno-a-molti e molti-a-uno, e non più esclusivamente biunivoche. Così, se a un gene corrisponde una proteina, a una proteina corrispondono più funzioni, potenzialmente molte; e questo è vero anche nel contesto degli organismo unicellulari. 89.L’exattamento è un concetto utilizzato per descrivere un particolare tipo di evoluzione delle caratteristiche degli esseri viventi; dall’espressione inglese exaptation introdotta da S.J. Gould e E.S. Vrba. Per questioni adattative, secondo la tesi darwiniana, in una specie un determinato carattere più favorevole alla sopravvivenza, come ad esempio la pelliccia per riscaldarsi dal freddo, tende a essere trasmesso attraverso le generazioni. Nell’exattamento tale carattere assume nuove proprietà, che deviano dallo scopo adattativo, come per esempio le piume degli uccelli sfruttate non più, e soltanto, per riscaldare il proprio corpo, ma anche per il volo» (da Wikipedia). 90.Gli split brain sono soggetti che hanno subito la sezione del maggiore fascio di fibre nervose che uniscono i due emisferi, normalmente per la terapia di un’epilessia grave e resistente ai farmaci. Possono essere studiati riguardo alle proprietà esibite separatamente dai due emisferi (Gazzaniga, 1992). 91.La rmn funzionale ha dimostrato che il cervello destro ha funzioni musicali soltanto nei non musicisti, perché i musicisti, per i quali la musica è il linguaggio per eccellenza, ‘sentono’ musica col cervello sinistro. 92.Aristotele, De anima, 432o.

93.Dunque adeguato solo a certi ambiti della fisica, o meglio della meccanica – in cui però la conoscenza dei fattori influenti e delle loro reciproche relazioni sia tale da permettere predizioni. 94.Nagel (1974). A posteriori, la metafora sembra richiamata già nel titolo, con quell’uso del ‘to be like’... 95.Maturana e Varela distinguono sistemi autopoietici di diverso ordine: un sistema la cui autopoiesi comporta l’autopoiesi delle unità che lo realizzano è un sistema autopoietico di ordine superiore (Maturana, Varela, 1985). 96.Al termine simulazione viene dato il significato di modello per analogia, in modo simile all’uso fatto qui di emulazione. Non concordo però con la finalità – attribuita al modello – di comprensione dell’atto. 97.Si veda in questo volume l’epigrafe nietzschiana del saggio di Bottini e Kuijsten: «Noi crediamo di saper qualcosa delle cose stesse, quando parliamo di colori, alberi, neve e fiori e tuttavia non possediamo che metafore delle cose, che non corrispondono per niente alle essenzialità originarie», e le relative considerazioni nel testo. 98.Si rivedano Aleksandr Lurija e Lev Vygotskij sull’analfabetismo uzbeko in uno storico studio transculturale dei processi cognitivi risalente agli anni Trenta del Novecento (Vygotskij, Lurija, 1997). 99.Pubblicato per la prima volta in Kuijsten, M. (eds) (2006), Reflection on the dawn of consciousness, Julian Jaynes Society. q Tradotto da Roberto Bottini. 100.Il lavoro sul campo durò dal 1988 al 1991. Si veda McVeigh (1991, 1996a, 1996b). Oltre che guidare il mio lavoro sulla possessione spiritica, le teorie di Julian Jaynes hanno anche ispirato il mio studio su come i rituali sociali all’interno del sistema scolastico giapponese influenzano la rappresentazione di sé (McVeigh, 1997b, 2000). Il suo pensiero ha inoltre diretto il mio lavoro sulle ‘parole mentali’ in giapponese (McVeigh, 1996a). 101.Certamente, l’approccio alla ‘possessione-in-sé’ può rivelare solo certi aspetti del fenomeno. Non ci dà informazioni sul perché alcune persone diventino possedute o cosa questo significhi per loro e per le società in cui vivono, poiché un tale comportamento non esiste, e non può esistere, al di fuori di certi pattern socio-culturali. Tuttavia, alcune intuizioni derivanti dallo studio della possessione-in-sé possono avere rilevanza interculturale. Comunque, rispetto al ‘perché’ della possessione, le motivazioni sociopsicologiche sono molteplici: autostima; autoaffermazione; ricongiungimento familiare; fuga da una situazione spiacevole; controllo immediato delle persone attorno al posseduto durante la possessione; autoammonimento; acquisizione di intimità attraverso fugaci relazioni interpersonali desiderate dal posseduto ma proibite socialmente in uno stato di non possessione; desiderio di un oggetto specifico; affermazione dei propri diritti in caso di marginalità sociale, specialmente per le donne (Crapanzano, Garrison, 1977). 102.Questa critica proviene da un antropologo che ha spesso fatto affidamento su alcune teorie freudiane, ampiamente criticate e screditate. 103.Il termine ‘agentività’ è un tecnicismo ben poco usato nel linguaggio corrente. Il termine, reso famoso da Bandura (2003), è un concetto simile a quello di intenzionalità o di volontà, con alcune importanti differenze. Sostanzialmente, l’agentività è la facoltà di far accadere le cose, di intervenire sulla realtà e, in ultima analisi, di esercitare un potere causale. 104.Questo saggio ha avuto due precedenti versioni. La prima, intitolata «Verso una teoria dell’agentività», era un paper scritto per il corso di psicologia tenuto da Jaynes nella primavera del 1987 alla Princeton University. La seconda è stata invece un articolo dal titolo «Society in the Self: The Anthropology of Agency» (McVeigh, 1995). La versione attuale è stata fondamentalmente riveduta e aggiornata. 105.Si consideri ad esempio l’opinione di Harré: «Possono esistere esseri umani che possiedono un sistema di credenze, anticipazioni immaginative e così via, organizzati in un modo non unitario. Necessariamente, tutti gli esseri umani che sono membri di un ordine morale sono persone, individui sociali, ma il grado della loro individualità psicologica, del proprio essere, deve essere considerato in maniera contingente» (Harré, 1984, p. 77, traduzione nostra). 106.Nei miei intenti, ‘mentalità’ si riferisce a differenze fondamentali nei processi mentali attraverso i periodi storici, mentre ‘psicologia’ (o etnopsicologia) denota differenze meno radicali tra periodi storici e società.

107.Si veda Jaynes (1984), pp. 87-88. Le riflessioni di Mead rispetto all’‘Io’ e le sue relazioni con il ‘me’ meritano di essere ricordate. Mead discusse questi componenti del sé in diversi modi, tra cui la prospettiva secondo la quale il ‘me’ è un set organizzato di attitudini altrui, mentre l’‘Io’ è la risposta spontanea a queste attitudini. Da qui deriva l’idea che la relazione ‘Io-me’ costituisce fasi sequenziali del sé (Mead, 1972, pp. 173-178). Nella mia concezione di ‘Io’ e ‘me’, enfatizzo come eventi comunicativi intermentali diventino esperienze intramentali con le relative esperienze di controllo ed essere controllato. 108.I sistemi «idealista modificato» e «passionale modificato» di Heelas sollevano questo problema: «Il confine tra esterno ed interno non è facile da definire» (Heelas, 1981, p. 42). Tuttavia il «regno dell’inconscio è in un certo senso esterno dal sé autonomo, sebbene sia internalizzato in contrasto con agenzie esterne più ‘genuine’ come gli astri in astrologia» (pp. 42-43). 109.importante sottolineare che l’ipnosi e la possessione spiritica sono vestigia di un’antica mentalità, non il ritorno a un’antica mentalità. 110.Si veda, tuttavia, Jaynes (1984). 111.Questo mito, per inciso, ci dice molto rispetto ai nostri valori culturali, i quali enfatizzano l’autocontrollo, l’autodeterminazione, l’indipendenza e la conseguente paura di perdere tutto questo finendo sotto il controllo altrui. 112.Dovremmo tener presente che, in un certo senso, negli stati non ipnotici esiste comunque un ‘altro generalizzato’ (nella forma di prescrizioni culturali, aspettative o costumi) che sta dietro l’‘Io’ individuale, che a sua volta comanda il ‘me’. In altre parole, la differenza tra l’ipnosi e l’ordinaria soggettività è da intendersi in un rapporto di continuità, non di discontinuità. 113.qui pertinente menzionare il fatto che non tutti gli individui possono essere ipnotizzati (gli schizofrenici ne sono un esempio). 114.In alcune culture l’ipnosi è considerata una forma di possessione. Comunque, contrariamente a quanto sostenuto da molti studiosi, non tutte le trance da possessione possono essere spiegate come una forma di ipnosi. Brevemente, se l’ipnosi comporta uno stato di trance (una sospensione della credenza in uno spazio mentale interno comunemente chiamato coscienza), la possessione comporta uno stato di trance con più alti livelli di alterabilità. 115.Mi rendo conto di stare fornendo un approccio piuttosto sbrigativo al fenomeno della possessione. Ad esempio non ho preso in considerazione le due maggiori tipologie di possessione spesso distinte in letteratura. La prima è indotta, ritualizzata e desiderata. La seconda è spontanea, sconveniente e indesiderata. La distinzione tra queste due versioni non è sempre chiara, ma molti di coloro che hanno condotto ricerche in questo campo hanno distinto due tipi di possessione su un continuum ‘volontario-involontario’. 116.Con una forzatura epistemologica ‘dualistica’, proposta solo come semplificazione, potremmo pensare a due forme allucinatorie, ‘neurogene’ e ‘psicogene’: nel senso che le prime sono autonome, mentre le seconde possono essere autoindotte e attivabili attraverso droghe, esercizi spirituali, deprivazioni, stress sensoriali e altro. Alcune persone possono essere predisposte, più di altre, e con un po’ d’esercizio, sono anche in grado di trasformare un’esperienza sensoriale in realtà immaginate e viceversa. 117.Un resoconto della ricerca è stato pubblicato in Salvini (2003). 118.Per una trattazione più approfondita sugli usi esoterici degli allucinogeni si veda Salvini, Zanellato (2002). 119.Hartwig Hanser (2002) riferisce che i risultati delle sue ricerche consentono di affermare che nei settori del cervello deputati all’udito possono essere riscontrate delle mutazioni, allorché, ad esempio, dei volontari accettino di essere allenati nella percezione di toni corrispondenti a singole frequenze sonore. 120.Anche Greyson e Liester (2004) hanno rilevato come molte persone nascondano le loro esperienze allucinatorie temendo il giudizio sociale. 121.Sidgwick (1894), raccogliendo dati da circa 17.000 soggetti in dieci paesi, rilevò che approssimativamente il 7,8% degli uomini e il 12% delle donne riportavano esperienze allucinatorie (3,3% uditive). Più recentemente, Tien (1991), con il sostegno del National Institute of Mental Health (nimh) Epidemiological Catchment Area Program, usando

un’intervista strutturata (Diagnostic Interview Schedule), ha trovato che circa il 3% del campione (18.572 soggetti) ha sentito, in un anno, allucinazioni uditive, e solo un terzo di queste esperienze possono essere ricondotte a patologie accertabili. Un altro studio, condotto da Morrison, Wells e Nothard (2000) riporta che, su 105 soggetti ‘normali’ (studenti e professionisti sanitari), il 24% ha sentito pronunciare i propri pensieri a voce alta, almeno qualche volta. 122.Da una nostra ricerca in atto emerge che gli uditori sentono più frequentemente le voci quando sono soli (77%), quando sono preoccupati (53%) e quando ci pensano (51%) e in determinati momenti e situazioni (60%). È interessante notare come il 70% affermi che, se impegnati in qualche attività, non sentono le voci. 123.La sempre più ampia testimonianza di gruppi di uditori di voci che hanno costituito forme associative autorganizzate (ama, Gruppi di Auto Mutuo Aiuto) rende oggi possibile cogliere l’estensione del fenomeno e avviare studi sistematici atti a riesaminare l’intero problema. 124.Gli «schemi di tipizzazione sono modalità organizzative della conoscenza che si basano su astrazioni categoriali generate da intenti valutativi, diagnostici e prognostici che consentono di attribuire ad individui accumunabili per qualche aspetto distintivo, un insieme di caratteristiche psicologiche. Le caratteristiche attribuite possono essere riferite a differenti livelli: intrapersonale, interpersonale, sociale e biologico» (Salvini, 1998, p. 70). 125.Krabbendam (2005) invita a riflettere sull’adeguatezza dei criteri diagnostici, ricordando che la ‘psicosi’ è definita come un’entità discreta, identificabile attraverso alcuni criteri specifici. Ciò non significa che questo enunciato corrisponda a qualcosa di esistente, ovvero indipendente dal giudizio e dalle categorie valutative dell’osservatore. 126.Ad esempio, una paziente, Anna, dopo aver praticato alcune tecniche psicologiche di ‘visualizzazioni interna’, ci ha raccontato di aver iniziato a sentire la voce di Silvio, un insegnante di storia depresso, che vuole ‘seviziarle il cervello’ e la spaventa. 127.Da una ricerca attualmente in corso si rileva che il 70% degli intervistati sostiene che «le voci sono pensieri che parlano»; al 45% di questi soggetti non è stata diagnosticata nessuna patologia. 128.Il 60 % della persone da noi intervistate afferma di riuscire a interrompere e a riprendere la comunicazione con le voci, o di cercare intenzionalmente di udire le voci (45%). 129.Francesco, oggi cinquantenne, ha iniziato a sentire la voce di un signore anziano quando aveva tre anni. Spesso la voce era accompagnata dalla visione di una spirale. Francesco riusciva a evocare la voce quando aveva bisogno di essere ascoltato. 130.Le allucinazioni sono ritenute un segno di malattia mentale solo da un paio di secoli (Beck, Rector, 2003); prima di allora si credeva che le voci fossero messaggi divini o diabolici, e anche in questi casi si tratta di tentate spiegazioni a partire dall’etichetta usata. 131.Come sostiene Richard Bentall: «Certamente molti psicologi cognitivi che studiano esperienze insolite come le allucinazioni uditive hanno l’abitudine di pensare mantenendosi all’interno del modello medico applicato ai fenomeni psicologici, senza chiedersi se sia adeguato o meno, e considerano il loro lavoro come un contributo allo sviluppo generale della conoscenza psichiatrica. Tuttavia io non condivido questo presupposto» (Bentall, 1997, p. 229). 132.Ad esempio, Vittorio ci ha raccontato di aver iniziato a sentire le voci da bambino. Allora pensava si trattasse di un fantasma che viveva nella sua casa, costruita su una tomba. Da adolescente iniziò a pensare che la voce che ascoltava, come per tanti altri bambini, fosse «dell’amico immaginario» che si era creato inconsapevolmente. Oggi, ormai adulto, afferma che le sue voci sono degli assistenti o spiriti guida. 133.La struttura tautologica del ragionamento è del tipo: «Chi ha delle allucinazioni uditive è psicotico per cui la causa delle voci è da attribuire alla sua psicosi» (dove l’attribuzione descrittiva e categoriale «è psicotico» viene trasformata in una causa, «la psicosi»). 134.Il 43% delle persone da noi intervistate ha dichiarato di tenere nascosto ai familiari il proprio fenomeno allucinatorio. 135.In culture non occidentali, le allucinazioni verbali sono spesso ritenute un dono divino o una possessione, conferendo a chi le sperimenta uno status socialmente accettato e riconosciuto. Al-Issa (1977) riporta che le culture

raziocinanti, che distinguono in maniera rigida tra realtà e fantasia, tendono a considerare negativamente le allucinazioni, mentre in culture meno raziocinanti (con confini più sfumati tra fantasia e realtà), le persone sono incoraggiate a esplorare queste esperienze. 136.Più recentemente Rupert Sheldrake (2003) confuta la teoria della mente dentro il cervello e da una prospettiva biologica (campi morfogenetici) postula l’esistenza di una ‘mente estesa’. L’idea della mente estesa è anche presente nella tradizione della psicologia transpersonale (Tart, 1992; Assagioli, 1988; Wilber, 1994). È peraltro opportuno ricordare che l’idea di una mente estesa è stata anticipata a metà Ottocento dal filosofo italiano Carlo Cattaneo nel suo Psicologia delle menti associate (1859). In questo lavoro non riteniamo opportuno sviluppare le implicazioni legate alle teorie della mente estesa, cui necessita un concetto ‘mente’ e di ‘coscienza’ che non possono essere ospitati nei modelli di psicologia e nelle forme di pensiero scientifico tradizionali. 137.I potenziali evocati sono la registrazione attraverso un’opportuna attrezzatura elettrofisiologica di modificazioni dell’attività elettrica cerebrale come risposta a stimoli fisici, ad esempio visivi, o in associazione a processi psicologici, come durante un certo stato emotivo o un’azione motoria. 138.L’accettazione delle voci è fondamentale per potersi adattare alla situazione e farvi fronte (Lakeman, 2000, 2001). 139.Anche gli stili di coping, meglio definibili come le strategie atte ad affrontare e tentare di risolvere un problema, sono influenzati dal contesto culturale. In un confronto interculturale tra soggetti anglosassoni e arabi sauditi, alcuni ricercatori hanno trovato che la maggior parte dei pazienti sauditi usano strategie di coping associate alla loro religione (ad esempio leggere il Corano o pregare), mentre i pazienti britannici tendevano a usare metodi più fisici (come fare dello sport, ricorrere agli alcolici, praticare tecniche di rilassamento). 140.Spesso si creano anche ragionamenti circolari, che rafforzano le credenze sulle voci: un esempio estremo, offerto da Bental (1990), è quello di una persona convinta di sentire le voci dei Cavalieri della Tavola Rotonda; dato che le voci provengono dal passato, anche lei è convinta di vivere in quel periodo; di conseguenza, poiché vive nel passato, le voci di antichi cavalieri le appaiono ancora più credibili. 141.Secondo Leudar e Thomas (2000) il rapporto tra l’uditore e le voci può essere concepito come una relazione interpersonale. 142.Utilizzando il Person’s Relating to Others Questionnaire (Birtchnell, Evans, 2004), ha trovato, in un campione clinico, correlazioni significative tra il modo di rapportarsi socialmente e la relazione con le voci in termini di dominio e sottomissione. Quando l’uditore si trova in una posizione dominante rispetto alle sue voci, queste ultime sono inferiori di numero. 143.Non tutte le persone intervistate nell’indagine cui si è accennato nel capitolo precedente vorrebbero eliminare le loro voci, soprattutto quando gli attribuiscono una funzione positiva: «chiedo aiuto alle mie voci» (38%), «le voci mi guidano» (66%), «mi aiutano» (64%), «mi ispirano» (57%), «mi rassicurano» (53%), «mi consolano» (45%), «quando non sento le voci mi sento solo» (38%).

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Il Libro_______________________________________________________________________________________________2 Presentazione__________________________________________________________________________________________5 Capitolo 1. Una domanda imbarazzante: «La coscienza, che cos’è?» ______________________________________________9 La vaghezza ___________________________________________________________________________________10 Un’egocentrica debolezza ________________________________________________________________________12 Reificazioni e generalizzazioni ____________________________________________________________________15 Un costrutto positivista di senso comune? ____________________________________________________________18 Ancora sulla polisemia___________________________________________________________________________21 La coscienza inventata ___________________________________________________________________________25 Capitolo 2. A spasso con un fantasma: la coscienza di sè_______________________________________________________30 Pensieri molesti ________________________________________________________________________________31 Cartografi ed esploratori: ognuno con le sue mappe ____________________________________________________33 Una definizione al fantasma_______________________________________________________________________38 Un fantasma multiplo____________________________________________________________________________40 Fantasmi, cucchiai e chimere ______________________________________________________________________43 Lo strano abitante di Loch Ness____________________________________________________________________46 Effetti realistici_________________________________________________________________________________49 Scettici e pragmatisti ____________________________________________________________________________52 Invenzioni indefinite ____________________________________________________________________________55 Sdoppiamenti e molteplicità_______________________________________________________________________58 Difficoltà e limiti concettuali ______________________________________________________________________60 Finalmente una foto _____________________________________________________________________________62 Frammenti di coscienza __________________________________________________________________________66 Il monoteismo della coscienza _____________________________________________________________________68 Coscienza: matrici generative ____________________________________________________________________________72 Capitolo 3. Quattro ipotesi sull’origine della coscienza ________________________________________________________73 Capitolo 4. Può il linguaggio dar forma alla coscienza?________________________________________________________84 Linguaggio e coscienza, una premessa ______________________________________________________________85 Menti con linguaggio ____________________________________________________________________________87 Menti senza linguaggio __________________________________________________________________________89 Tutti jaynesiani? ________________________________________________________________________________93 Metafora e conoscenza ___________________________________________________________________________95 Illustri antesignani ______________________________________________________________________________96 Una rivoluzione nelle scienze cognitive _____________________________________________________________98 Può il linguaggio dar forma al pensiero? ____________________________________________________________103 Può il linguaggio dare forma alla coscienza?_________________________________________________________113 Coscienza, tra biologia e cultura _________________________________________________________________________123 Capitolo 5. L'evoluzione della cultura ____________________________________________________________________124 Premessa e ‘istruzioni’ __________________________________________________________________________125 Introduzione __________________________________________________________________________________126 Ma Crick ha letto Jaynes? _______________________________________________________________________128 Segni e simboli: la proposta della modeling system theory______________________________________________131 Segni della vita________________________________________________________________________________133 Permanenza delle proprietà ______________________________________________________________________136 Cosa sono i qualia?_____________________________________________________________________________138 «Non è la pietra che si trova nell’anima, ma la sua forma» ______________________________________________142 Rappresentazioni, sistemi segnici, intenzionalità______________________________________________________147 Uso-menzione ________________________________________________________________________________152 Capitolo 6. Il sé come relazioni sociali interiorizzate. L'applicazione della teoria jaynesiana ai problemi dell'agentività ____156 Premessa autobiografica_________________________________________________________________________157 Il problema dell’agentività. Come la società mette un sé al nostro interno __________________________________158 I parametri della psiche. L’imperativo dell’autorizzazione: l’individuo come Agente _________________________159 Dall’autorizzazione all’auto-autorizzazione. Come impariamo ad avere un Sé ______________________________160 La spazializzazione dell’autorizzazione: l’interiorità psicologica _________________________________________162

Tre tipi di mentalità ____________________________________________________________________________164 Un'antica mentalità: la mente bicamerale ___________________________________________________________165 Vestigia di un'antica mentalità: molteplici psicologie __________________________________________________167 Metafora e loci of control: la concettualizzazione della molteplicità psicologica _____________________________169 Vestigia di un'antica forma mentale: ipnosi e possessione spiritica _______________________________________172 Conclusione __________________________________________________________________________________176 Appendice ___________________________________________________________________________________177 Capitolo 7. Ascoltare voci: sdoppiamenti e dissociazioni nella coscienza di sé_____________________________________181 Premesse_____________________________________________________________________________________182 Eventi attivanti e configurazioni semio-percettive ____________________________________________________183 Cosa insegnano le allucinazioni psichedeliche _______________________________________________________184 L’uditore di voci è sempre uno psicotico? ___________________________________________________________186 Riportare l’ignoto oltre il già noto _________________________________________________________________187 Punti di vista__________________________________________________________________________________189 Reperti soggettivi e clinici _______________________________________________________________________190 Polifonie _____________________________________________________________________________________192 L’ipotesi subvocale ____________________________________________________________________________195 Schemi linguistici______________________________________________________________________________196 I generi discorsivi codificati______________________________________________________________________197 Credenze costruttive____________________________________________________________________________199 Capitolo 8. Psicoterapia delle voci e dei pensieri persecutori___________________________________________________202 Conflitto tra voci di dentro: un caso________________________________________________________________207 Il Trattamento: La tecnica _______________________________________________________________________208 Glossario ___________________________________________________________________________________________213 Gli autori ___________________________________________________________________________________________219