Frank Capra (1897-1991) è uno dei grandi maestri del cinema del Novecento e ha celebrato come nessun altro sul grande sc
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Italian Pages 568 [379] Year 2016
MINIMUM FAX CINEMA
nuova serie 16
Frank Capra Il nome sopra il titolo. La vita meravigliosa di un maestro del cinema titolo originale: The Name Above the Title traduzione di Alberto Rollo © Frank Capra, 1971 per l’introduzione: © Fabio Stassi, 2016 © minimum fax, 2016 Tutti i diritti riservati Edizioni minimum fax via Giuseppe Pisanelli, 2 – 00196 Roma tel. 06.3336545 / 06.3336553 [email protected] www.minimumfax.com I edizione: luglio 2016 I edizione digitale: febbraio 2018
ISBN 9788875219390
FRANK CAPRA
I
L NOME SOPRA IL TITOLO
LA VITA MERAVIGLIOSA DI UN MAESTRO DEL CINEMA introduzione di FABIO STASSI premessa di JOHN FORD traduzione di ALBERTO ROLLO
INDICE Frank Capra e l’ostinata intransigenza degli oggetti inanimati di Fabio Stassi Premessa di John Ford Prefazione di Frank Capra Parte prima. La sfida per il successo 1. Era ora, fannullone! 2. Grande settimana per pazzi sognatori 3. La commedia e il suo re 4. Faccia d’angelo 5. Il «volo» della Columbia 6. La febbre del sonoro 7. Alla ricerca del Sacro Graal 8. Un tè amaro per tempi amari Parte seconda. Le contraddizioni del successo 9. La conquista del Graal 10. Butta via le prime due bobine 11. Il comune legame 12. «Se tu almeno sapessi cucinare» 13. L’eterna illusione 14. Se ci devi pensare è meglio lasciar perdere 15. Il potere del cinema minaccia la sua libertà 16. Cinque finali in cerca di pubblico Parte terza. La grande guerra 17. Perché combattiamo 18. Franklin Delano Roosevelt, il signor Primo Ministro e la seconda guerra mondiale
Parte quarta. Nuove regole per un gioco nuovo 19. Libertà! 20. La legge di Balaban 21. Autoesilio 22. Nel cielo di Hollywood brillano le stelle 23. Angeli e canaglie
Ai tessitori del tappeto magico e alla memoria di alcuni miei compagni di strada: Aristotele Leonardo da Vinci Atanasio Plateau Stampfer Daguerre Muybridge Eastman Edison E.S. Porter D.W. Griffith Robert Riskin Myles Connolly Jo Swerling Joseph Sistrom Max Winslow Art Black Mack Sennett Harry Cohn Sam Briskin Harry Langdon Jack Holt May Robson Jean Harlow Warner Baxter Gary Cooper Ronald Colman Clark Gable Spencer Tracy Lionel Barrymore Walter Connolly Henry Travers Thomas Mitchell Edward Everett Horton Walter Huston Edward Arnold Claude Rains Hobart Bosworth H.B. Warner James Gleason
FRANK CAPRA E L’OSTINATA INTRANSIGENZA DEGLI OGGETTI INANIMATI di Fabio Stassi
Scoprii l’esistenza dell’autobiografia di Frank Capra attraverso Leonardo Sciascia, alla fine di una breve memoria che si intitola C’era una volta il cinema. Sciascia vi sosteneva che lo stato d’animo elegiaco, commosso e crepitante per un cinema scomparso dal quale nasceva anche l’ultimo film di Tornatore, fosse lo stesso dei ricordi del regista italoamericano. «È un libro che sembra, appunto, un film di Capra»,1 scriveva, ripromettendosi di recensirlo ampiamente. Poi ne riportava un passaggio: «Io ho contribuito alla creazione dell’età dell’oro del cinema, l’età in cui i cineasti di Hollywood degli anni Trenta e Quaranta – Cecil B. DeMille, John Ford, Henry King, Leo McCarey, George Cukor, Sidney Franklin, Victor Fleming, W.S. Van Dyke, Clarence Brown, Ernst Lubitsch, William Wellman, Mervyn LeRoy, Frank Borzage, Billy Wilder, Michael Curtiz, Alfred Hitchcock, Howard Hawks, William Wyler, King Vidor e George Stevens – sapevano prendere il pubblico per il collo e farlo urlare di risate o piangere di commozione o terrorizzarlo…»
E, con un lampo di divertita e orgogliosa cinefilia, a quel lungo elenco degli artefici del grande cinema americano Sciascia aggiungeva due nomi che Capra si era dimenticato: Joseph von Sternberg e Rouben Mamoulian. Da allora mi convinsi che se volevo capire e saperne di più sull’età d’oro del cinema, un periodo che emana per me la stessa luce irresistibile della Parigi di Hemingway e di Fitzgerald, l’autobiografia di Frank Capra sarebbe stato il libro giusto. Ma alla mia piccola libreria di quartiere lo ordinai senza alcun esito e presto il suggerimento di Sciascia finì in quella lista di titoli perduti o rimandati che tutti i lettori aggiornano con cura e che si alimenta di desiderio con il tempo. Finché, qualche anno dopo, non mi capitò per caso tra le mani, sepolto nel disordine di una bancarella antiquaria in riva a un lago. Lo riconobbi subito: era la prima traduzione italiana, già allora fuori commercio. Lo comprai per poche lire e cominciai a leggerlo la sera stessa. Sin dalle prime righe, capii che quel libro aveva a che fare con me molto più di quanto pensassi. Perché raccontava una storia di avventure e disavventure, peripezie, disubbidienze, avversità, scommesse e inauditi colpi di fortuna come quella della mia famiglia. Capra era nato in Sicilia, a Bisacquino, in provincia di Palermo, in una casa di pietra e calce dove nessuno sapeva leggere. La prima luce del mondo, con le sue tristezze e le sue tenerezze disperate, l’aveva conosciuta nell’isola. Ma il suo sesto compleanno lo celebrò nella stiva di terza classe del Germania, sull’Atlantico. Da allora, tutto per lui prese il nome di America. Leggevo quel libro e non riuscivo a staccarmene. La prima parte era una calamita assoluta. Capra mi divertiva e mi commuoveva. I dialoghi erano perfetti come in un romanzo di John Fante, le situazioni piene di ritmo e di ironia. Sì, aveva ragione Sciascia, quel libro somigliava ai suoi film, aveva lo stesso passo e soprattutto lo stesso tocco. Quel misto di grazia e di inevitabilità, di realismo e di illusione, quel camminare come un acrobata tranquillo sul confine delle cose verosimili e fantastiche. Miracolosamente Capra riedificava intorno a me, proprio come in un set cinematografico, un’America fatta di sigari e di sputacchiere, di folli e squilibrati, di migranti, baracche, agrumeti, campi di baseball, tram e macinini, una terra laboratorio dove avevi l’impressione che tutto, anche
la nascita di una nuova arte, potesse accadere. Lo vedevo mentre imballava e vendeva il Los Angeles Times allo stadio di pugilato in Alameda Street, o suonava la chitarra nel ghetto, o cercava il modo di studiare, a tutti i costi, con la cocciutaggine di raggiungere l’università. Lo seguivo nei viaggi di venditore ambulante per l’Arizona, il Nevada, la California. Scoprivo con una strana trepidazione come quel piccolo dago si imbatteva nel fatale annuncio di un giornale, Grande settimana per pazzi sognatori: una nascente casa di produzione stava trasformando una vecchia palestra ebrea in uno studio cinematografico e offriva un lavoro a chi fosse così pazzo da credere nelle stelle e nella fortuna. Così, tra una tappa e l’altra, imparavo anche il decalogo dell’apprendista film maker in forma di aforisma: «Quello che più interessa la gente è la gente». Oppure: «Non ci sono regole nel fare cinema, solo peccati. E il peccato capitale è la Noia». Principi semplici, ma inderogabili, come «un uomo, un film», a cui Capra restò fedele tutta la vita. E idee stravaganti, quali la convinzione, sostenuta da un’infinità di esempi, che il punto più alto della creatività di un essere umano è a ventisei anni: dopo, non si fa che ricopiare. Ma per tutto il tempo non potevo smettere di chiedermi come aveva potuto un ragazzino emigrato a sei anni dalla miseria definitiva della Sicilia del secolo scorso, catapultarsi così velocemente nel futuro e mettersi in testa di diventare il più grande regista del suo tempo. Cos’era? Un incosciente, un giocatore d’azzardo, un uomo baciato dalla sorte? L’avidità con cui divoravo ogni pagina era pari alla curiosità che avevo di dare una risposta a questa domanda. E la risposta mi arrivò direttamente dalla sua voce, all’inizio del terzo capitolo: Io ero un disertore, ma un disertore felice.
Era quello che volevo sentire. Annoverai il suo nome tra quello dei grandi disubbidienti della nostra storia, come Rosso Malpelo o Pinocchio, e continuai a leggere con più calma. Adesso sapevo che anche per lui girare un film era una questione di vita o di morte, come per Chaplin e pochi altri: raccontare instancabilmente, con mille variazioni diverse, la propria diserzione, giocarsi tutto e ogni volta rischiare di soccombere nel tentativo. Il successo era l’unica salvezza possibile. Ma c’è sempre un momento luminoso in cui il talento si rivela per la prima volta. Per Capra accadde nella sala di proiezione di Mack Sennett, il più importante produttore di Hollywood, il Re della Commedia. Capra era stato assunto da due settimane come gag writer. Alla fine della giornata Sennett convocava tutti per visionare il girato. Se una scena o il finale di un cortometraggio gli sembravano deboli, chiedeva un’idea. Quella volta, sullo schermo, c’era il cattivo (Eddie Gribbon) che cercava inutilmente di aprire una porta. Ci provava a spallate, a calci. Ma la porta gli resisteva con una testardaggine invincibile e alla fine il cattivo, con la maniglia tra le mani, girava le spalle e se ne andava. Sennett disse che la situazione non faceva ridere e sollecitò un altro finale. Uno dei suoi collaboratori propose di far girare Gribbon verso il pubblico e pronunciare sconsolatamente, a braccia larghe, la parola «Chiusa». La soluzione fu accettata. Ma un momento prima che la riunione si sciogliesse, Capra alzò la mano. Le parole mi uscirono dalla bocca senza volerlo. Nella stanza cadde il silenzio. Felix Adler e gli altri cercavano di farmi capire, gesticolando, che dovevo stare zitto. Sennett sputò il tabacco, poi, lentamente, girò la sua poltrona verso di me.
Da giorni, non faceva altro che interrogarsi su cosa facesse ridere la gente. Il mondo delle comiche di Sennett era un mondo fatto per essere mandato in frantumi: i mobili erano di legno di yucca o di balsa, e si rompevano con un dito, i vetri di zucchero trasparente, pronti per scoppiare. Poi per caso, improvvisando, un attore aveva svelato l’esplosiva e irresistibile comicità di una torta
in faccia e per tutti era stata una delle più redditizie invenzioni dell’umanità. Ma servivano altri spunti, altre trovate. «Ecco, signor Sennett», osò Capra, quella sera, con la voce quasi spezzata. Era la prima volta che trovava il coraggio di proporre una gag. «Dopo che Gribbon ha detto “Chiusa”», disse d’un fiato, «fate entrare un gatto che va verso la porta, la spinge con la zampa, e la porta si apre». Sennett rise. «E dopo?» «Ohhh», disse Capra. «Dopo la porta si richiude. Gribbon allora ha un’idea. Si mette giù a quattro zampe, si avvicina alla porta come aveva fatto il gatto, e la spinge delicatamente con la sua zampa. Niente da fare. La porta non si vuole aprire. Allora ricomincia da capo tentando di sfondarla con tutto il suo peso...» Nessuno dei presenti nello studio poteva immaginare di avere appena assistito al primo ciak di una delle più sfolgoranti e incredibili carriere di Hollywood. A quel punto, sarebbe bastato far entrare un altro animale, o un bambino che gattonava, o un signore macilento, e il meccanismo avrebbe funzionato all’infinito. Da quella sera, a Hollywood, i giochi di ripetizione furono sfruttati in maniera illimitata. «Splendido», gridò Sennett. Il primo a capire che non si trattava soltanto della possibilità, da parte dell’italiano, di ottenere un aumento di stipendio di dieci dollari. A Dick Jones, che poche pagine dopo gli chiedeva se fosse stata un’illuminazione spontanea, Frank Capra rispose così: Be’, se proprio vuoi saperlo, Dick, quando ero all’università ho avuto un professore di letteratura fantastico, si chiamava Judy. Una volta ci intrattenne per un’ora parlando di ciò che lui chiamava “l’intransigenza degli oggetti inanimati”. Il fatto per esempio che il bottone del colletto vada sempre a finire sotto la scrivania; il fatto che, se hai due chiavi, quella che provi per prima è sempre quella sbagliata; il fatto che piova sempre quando tu dimentichi l’ombrello e così via; insomma, hai capito l’idea. La sua conclusione era che ci fosse una cospirazione fra gli oggetti inanimati per frustrare gli sforzi degli uomini, specialmente di quelli antipatici. Questo è il motivo per cui, diceva, le persone che non hanno fiducia nel prossimo sono più inclini degli altri agli inconvenienti di questo tipo. Questo è il motivo per cui i muli scalciano solo alcuni, o perché i bufali attaccano improvvisamente un uomo, ma lasciano che un bambino gli giochi sul dorso, o perché Daniele rimase illeso nella fossa dei leoni. Non ho mai dimenticato quella lezione. E così, quando quella «porta intransigente» non voleva aprirsi per Gribbon, ho pensato «Ah, ma si aprirà per un bambino, per un gatto».
L’ostinata intransigenza degli oggetti inanimati. Soltanto un professore di letteratura poteva definire con tanta efficacia la congiura delle cose contro di noi. Da quando lessi quella pagina, quest’espressione entrò di diritto a far parte del mio lessico famigliare. Ma Capra non si era ricordato soltanto della formula, ne aveva estratto una teoria sul meccanismo della comicità, che è un meccanismo sovversivo. Tutto quello che venne dopo, dai primi film con il candido Harry Langdon ad Accadde una notte (1934), È arrivata la felicità (1936), Orizzonte perduto (1937), L’eterna illusione (1938), Mr. Smith va a Washington (1939), Arriva a John Doe (1941), Arsenico e vecchi merletti (1944), La vita è meravigliosa (1946), su su fino ad Angeli con la pistola (1961), discende da quell’intuizione. Per anni nutrii il progetto di tirarci fuori un romanzo, ma alla fine mi resi conto che non ce n’era bisogno perché lo aveva scritto già lui, e magistralmente, con questo libro. Ma neppure io ho più dimenticato la sua lezione e molto tempo dopo, cercando di raccontare la nascita del cinema in chiave fantastica, provai a riassumerla così: «Se un gigante cerca in ogni modo di aprire una porta e non ci riesce, ma subito dopo la porta si apre a un gatto, a un bambino, a un povero vagabondo o a un vecchio senza nessuno sforzo, noi ridiamo. Perché è tutto il contrario di quanto accade nella vita. La comicità è una capriola, un uomo che si rialza dopo un capitombolo o un altro che sta sul punto di cadere ma non cade mai. La comicità è mancina. Irride i ricchi, rimette le cose a posto, ripara le
ingiustizie, chiude le porte ai prepotenti e le fa aprire ai deboli e agli indifesi, anche se solo per il lampo di un sorriso. Ed è quest’incredulità che ci riempie gli occhi di lacrime. È stupefacente, a pensarci, quanto sia facile a contagiarsi l’allegria e quanto triste e malato sia invece il mondo». Aprile 2016 1. Leonardo Sciascia, Fatti diversi di storia letteraria e civile, Sellerio, Palermo 1989, p. 123. Sciascia segnala anche il saggio di Emilio Cecchi, «Su Frank Capra», Cinema, vol. II, n. 20, 1937.
PREMESSA di John Ford
Frank Capra, che è un uomo meraviglioso e appassionato, ha scritto un libro meraviglioso e appassionato su una materia che egli conosce come pochi al mondo. Il suo genio ha saputo esprimersi non soltanto a livello artistico ma anche a livello commerciale e il suo nome in cartellone ha assicurato belle soddisfazioni a produttori, esercenti cinematografici, star, attori caratteristi, comparse, operatori, équipe tecniche e naturalmente al pubblico, per più di mezzo secolo. Realizzando tutto ciò senza compromettere il suo senso del buono, del bello, del giusto, senza mai perdere un amico, senza aver mai una scena tagliata dalla censura. Grand’uomo e grande americano, Frank Capra è una fonte di ispirazione per tutti quelli che credono nel sogno americano. Ha chiamato la sua storia Il nome sopra il titolo. Avrebbe potuto anche intitolarla La terra delle grandi occasioni a dispetto della banalità che giustamente aborre. Fin da giovanissimo, si è dato da fare, ha lottato, ha sofferto, povero figlio di emigranti in una società dominata dal principio dell’homo homini lupus. Ma Frank era troppo impegnato e ambizioso per rendersi conto della sua giovinezza deprivata. E le umili origini non hanno certo costituito un motivo sufficiente per non sapersi imporre e primeggiare nell’arte, nelle lettere, nelle scienze. Là dove si è distinto negli studi sono orgogliosi di averlo avuto come alunno. Come privato cittadino e sotto le armi ha sempre servito con onore il suo paese. Gente importante e famosa cerca di fare la sua conoscenza. I grandi successi di Frank Capra, divenuti classici dello schermo e imitati in tutto il mondo, hanno trasformato la Columbia Pictures in una major, in una delle più grandi società di produzione. Ha vinto tanti premi da non avere più voglia di contarli. Eppure il successo non ha smorzato il suo spirito, la sua saggezza, la sua capacità di comprendere. Anche altri hanno tentato di scrivere su Hollywood. Molti non ci sono riusciti. Capra affronta l’impresa con sicuro senso della professionalità e riesce a darci la sola testimonianza in qualche modo definitiva che sia comparsa sull’argomento. Gli aneddoti sono così numerosi – e perlopiù narrati col cuore in mano in perfetta sintonia con il lettore – che non c’è paragrafo in tutto il libro in cui la noia faccia capolino. Per la prima volta, forse, chi non si occupa di cinema avrà l’opportunità di sapere come si prepara uno spettacolo cinematografico, come si scelgono gli attori, come si scrive, come si gira e come un set si trasforma in una piccola monarchia democratica dove un implacabile regista della scuola «un uomo, un film» regna e governa come re, congresso, corte d’appello. Frank Capra ha ragione quando dice che è una vita bellissima, diversa da qualunque altra, ma solo lui è stato anche capace di descrivere le tremende responsabilità e la continua lotta fra il creatore di spettacoli cinematografici e i principi di Wall Street, Madison Avenue e di chissà che altro. Capra non ha solo raggiunto un posto di tutto rispetto fra i grandi registi – uomini come Bill Wellman, Fred Zinneman, George Stevens, Billy Wilder, Henry Hathaway, l’ultimo Leo McCary e, all’estero, Jean Renoir, Fellini, De Sica, Carol Reed, e David Lean. Lui è in testa alla lista. È il più grande. Se di tanto in tanto egli dà nel suo libro qualche bacchettata sulle dita all’orgoglio e alla presunzione di qualcuno, si rassegni costui al pensiero che ci sarebbero centinaia di persone, fra quanti lavorano nel cinema, pronte a offrire il braccio fino al gomito pur di essere citate, in qualsiasi
modo, da un uomo come Capra. Sono contento che questa storia profondamente americana sull’industria del cinema, che abbiamo amato entrambi, l’abbia scritta lui. Nessuno avrebbe potuto raccontarla meglio e più accuratamente. John Ford
PREFAZIONE di Frank Capra
Odiavo essere povero, essere un contadino e vivere alla giornata facendo lo strillone, intrappolato com’ero nello sporco ghetto siciliano di Los Angeles. I miei familiari non sapevano né leggere né scrivere. Volevo andarmene. Andarmene in fretta. Cercai un espediente, un’occasione, come un’asta che mi catapultasse dall’altra parte della pista, dallo squallido anonimato all’agiato mondo di quelli che contano. Provai con la scuola, con un’istruzione tecnica. Quell’asta si spezzò proprio nel mezzo del mio salto. Presi in considerazione altri mezzi rapidi: la boxe, il baseball, piccoli imbrogli. Quando finalmente trovai la mia asta, non era di bambù, né di vetro o di metallo. In realtà, non era affatto un’asta. Era un tappeto magico, tessuto di rullini di celluloide. Era un tappeto in cui era intessuto il codice genetico di tutte le arti dell’uomo, un tappeto col quale la bacchetta magica della scienza evocava insieme le speranze, le paure, i sogni dell’uomo. Era il tappeto magico del CINEMA! Fu con i suoi incantesimi che feci il mio salto. Questa non è una vera autobiografia, una registrazione di fatti ed eventi storicamente documentata. È piuttosto l’insieme dei ricordi disordinati di quello che mi passava per la testa durante la mia giovinezza e negli oltre quarant’anni di vita nel cinema. Di tanto in tanto farò rientrare in una sola scena conversazioni che durarono settimane o addirittura mesi. Userò i nomi veri, descriverò i re, le regine e i furfanti di Hollywood così come li hanno visti i miei occhi. Potrete anche avere il senso di una storia: la storia di come un povero, egocentrico ragazzaccio diventò un uomo. Credo di aver capito Eric Gill (uno dei miei eroi), lo scultore e illustratore inglese – le cui idee iconoclaste sull’arte, il sesso, il denaro e il conformismo di massa piovono come bombe dalla sua autobiografia – quando, dopo la sua conversione, disse: «Io ho inventato la Chiesa Cattolica». Aveva scoperto dentro di sé valori già esistenti. Quando i giovani scoprono il sesso, questa esperienza è così personale che credono di averne il brevetto, come si trattasse di un’invenzione. Allo stesso modo io potrei dire – dato che esistono una sessantina di film che non esisterebbero se io non li avessi creati – che io ho inventato il cinema. Non è vero. Il cinema ha inventato me e tutti gli altri registi. L’arte ha inventato gli artisti. Il concepimento di questa nuova forma d’arte, la più grande – che comprende e fonde tutte le altre forme espressive – è stato lento e difficile. Ci sono voluti quattromila anni perché il seme potesse completare il suo cammino di migliaia di miglia verso ovest, e potesse infine trovare e fecondare l’ovulo del cinema. Quel seme era nato dalla mente fertile di Aristotele, ad Atene (un buco quadrato ritagliato in una carta proietta su una parete scura l’immagine circolare del sole), ma altri geni aveva raccolto dalla mente di Leonardo da Vinci (la camera oscura: un piccolo buco proietta su una parete scura l’immagine di qualunque oggetto). Lasciato Leonardo, il seme prese velocità, e raccolse nuovi geni dall’intelletto di un prete gesuita, Atanasio (quadri proiettati su uno schermo); da Plateau in Belgio e da Stampfer a Vienna (l’illusione del movimento data dai quadri inseriti su un disco ruotante); da Daguerre in Francia (scoprì le emulsioni fotografiche); da Muybridge in California (fotogrammi in sequenza di un
cavallo in corsa); da George Eastman (la base di celluloide per le emulsioni); dai fratelli Lumière in Francia (la macchina da proiezione); finché finalmente quello sperma trovò e fecondò un ovulo nella mente del Mago di Menlo Park: Thomas Edison. Quattromila anni dal desiderio al concepimento – ma, una volta concepita, la nuova forma d’arte germogliò, crebbe e fiorì nello spazio di una generazione – da La grande rapina al treno di Edwin S. Porter (otto minuti), a Intolerance di D.W. Griffith (più di due ore). Tutto quello che è stato aggiunto dopo – suono, colore, tecniche – è ornamento. La velocità prepotente della storia del cinema non ha equivalenti nella cronologia delle cose umane. Come un diluvio biblico ha spazzato via tutte le altre arti spargendole generosamente su tutta la terra. Sale, studi cinematografici e artisti sono sorti come funghi dalle sue acque dirompenti. Tutto quello che noi, in questo campo, ora siamo, abbiamo e facciamo ha origine dall’arte stessa, dal CINEMA, il tappeto magico! Io sono stato uno dei privilegiati. Ho avuto la fortuna di afferrare le frange di questo tappeto volante, issarmici sopra, e correre verso l’avventura. Una bella corsa – come a cavallo di una meteora!
IL NOME SOPRA IL TITOLO
Non ci sono regole nel fare cinema, solo peccati. E il peccato capitale è la Noia.
PARTE PRIMA
LA SFIDA PER IL SUCCESSO
1. ERA ORA, FANNULLONE!
Tutto cominciò con una lettera. Una lettera dall’America – ero un bambino dagli occhi grandi, e avevo cinque anni. Era la prima lettera che mio padre, un contadino di quarantasette anni, Salvatore Capra, avesse mai ricevuto. Nella vecchia e decrepita casa di Papà, una casa di pietra e calce aggrappata con le unghie alla roccia nel villaggio di Bisacquino, in Sicilia, il prete del paese lesse la lettera a tutta la famiglia: Papà, Mamma, sei ragazzini stracciati, quattro fratelli di Papà e le loro famiglie, e tutti i parenti della mamma. Ricordo chiaramente che rimasi sbalordito quando mi resi conto che nessuno della mia famiglia era in grado di leggere. Sapevo che le persone erano diverse – che c’erano i ricchi e i poveri, i buoni e i cattivi. I figli dei poveri nascono con gli occhi e le orecchie aperte, e imparano quasi tutto prima ancora di imparare a camminare. Ma ora sapevo che i contadini erano poveri e dovevano lavorare come bestie perché erano ignoranti. Questo pensiero deve aver bruciato nella mia mente infantile; non l’ho mai dimenticato, non ho mai perso il risentimento che aveva provocato. La mia successiva mania per l’istruzione ebbe la sua genesi in quella lettera. Era una lettera sorprendente – incredibile –, dissero tutti, e veniva da un luogo, in California, mai sentito prima: Los Angeles! Scritta da una persona sconosciuta: Morris Orsatti. La notizia si diffuse subito. I contadini lasciarono le zappe e arrivarono dai campi. Riempirono la casa di Papà, si assieparono nell’ingresso per ascoltare il prete che leggeva e rileggeva la lettera. Scioglieva finalmente il mistero di Bisacquino, un mistero durato cinque anni. Parlava di Ben, il figlio maggiore di Papà. Cinque anni prima, il giorno del suo sedicesimo compleanno, Ben aveva portato la pecora di Papà a pascolare nei prati di papaveri intorno alla cappella della Vergine Benedetta, in cima alla collina. La pecora aveva fatto ritorno, ma Ben no. Cinque anni di novene e di ceri accesi – ma non una parola da Ben. Lo piansero come morto. E ora questa lettera dall’altra parte del mondo. La lettera diceva che Ben, abbandonata la pecora, aveva corso per trenta miglia fino a Palermo e si era imbarcato come mozzo a bordo di un mercantile greco; la nave aveva fatto scalo a Gibilterra, Montreal e Boston. A Boston il giovane Ben era saltato a terra, ma due poliziotti lo avevano fermato e riportato indietro. A New York e all’Avana Ben era stato sotto il controllo del capitano, ma a New Orleans l’intera ciurma aveva tentato di abbandonare la nave. Nella confusione generale Ben era riuscito a fuggire. Due giorni dopo si era trovato in mezzo ai braccianti che lavoravano in una piantagione di canna da zucchero – quasi tutti negri e italiani – assunto come tagliatore di canna. L’estate era afosa e piena di zanzare, diceva la lettera. La gente moriva. Anche Ben sarebbe morto, se una donna negra non l’avesse maternamente curato nella sua baracca per intere settimane. Una volta guarito – continuava a leggere il prete, o meglio riassumeva in brevi frasi quel che ormai sapeva a memoria – Ben aveva vissuto con questa nuova madre come uno dei suoi molti figlioli. Lui le portava la sua paga e lei ne metteva via una parte per lui. Il giorno del suo diciottesimo compleanno, Ben chiese il permesso di andare a New Orleans, per festeggiare, con Mario, un altro tagliatore di canna italiano. Arrivati a New Orleans, incontrarono due ragazze, si ubriacarono, furono picchiati brutalmente da quattro uomini armati di bastoni, e lasciati a terra privi di sensi.
Quando i due giovani si svegliarono, si trovarono di nuovo in alto mare, su una sudicia barca a vapore, in compagnia di altri quattrocento tagliatori di canna – negri, italiani, cubani. Erano prigionieri – schiavi! – portati chissà dove da uomini armati di fucili. Trascorsero settimane, mesi; avevano perso la nozione del tempo; passarono dal caldo al freddo, e poi di nuovo al caldo. Finalmente la nave della sofferenza si fermò. Delle voci gridavano ordini. Mezzi morti, i prigionieri furono trascinati sul ponte. Ben e Mario videro un mare blu, spiagge bianche e palme. Piccoli uomini gialli con occhi a mandorla camminavano a bordo; alcuni portavano il fucile. I loro nuovi padroni li fecero alzare e li condussero a terra. Pochi giorni dopo Ben si rese conto che si trovavano su un’isola, di proprietà giapponese, dove coltivavano la canna da zucchero. Tutti i prigionieri furono obbligati a firmare una dichiarazione in cui affermavano di essere venuti lì a cercare lavoro di loro spontanea volontà. Furono poi portati nella piantagione di canna da zucchero, dove già erano costretti ai lavori forzati centinaia di braccianti cinesi. Poco dopo l’arrivo di Ben ci fu una festa di tre giorni per i prigionieri: parate, fuochi d’artificio, maschere, e molta musica. Tutti bevevano vino cattivo e fumavano pipe di roba dolce. Ben e Mario non bevvero e non fumarono; osservarono tutto attentamente, pensando a una via d’uscita. Prepararono un piano per fuggire il giorno di carnevale dell’anno successivo. Durante l’anno Ben e Mario lavorarono tanto da meritarsi le lodi dei guardiani giapponesi. In cambio, i ragazzi chiesero un favore: gli onorevoli padroni avrebbero permesso ai poveri italiani di partecipare alla parata di carnevale con un carro comico rappresentante Colombo che scopre l’America? Sarebbero stati loro, nobili giapponesi, così generosi da prestare agli italiani una barchetta a remi, la Santa Maria? Arrivò il carnevale – con vino, oppio, e il clamore dei gong. Alla fine della parata dei carri gli italiani lasciarono la Santa Maria fuori dal porto e ritornarono al luogo della festa. Quando tornò il silenzio, Ben e Mario scesero barcollando, come fossero ubriachi, verso la barca a remi, e urlarono al guardiano di aprire il cancelletto. Con un colpo di remo ben assestato il guardiano fu steso. Ben e Mario misero in acqua la barca col cuore che batteva, e remarono silenziosi verso la notte. All’alba la barca a remi era un piccolo punto in mezzo all’oceano. Ma, siano benedetti tutti i santi, diceva la lettera, accadde un miracolo! Videro un sottile filo di fumo all’orizzonte. Era una nave, e si fermò a raccoglierli – una nave di linea australiana, diretta a San Francisco! La lettera finiva raccontando come il capitano della nave di buon grado li fece scendere a San Francisco; come lì incontrarono alcuni amici italiani; come Mario trovò un lavoro nella costruzione della ferrovia, la Western Pacific, diretta a nord, mentre Ben fu assunto nella Southern Pacific, diretta a sud. E come in un anno circa Ben fosse arrivato fino a Los Angeles, dove aveva incontrato il signor Orsatti, un agente di viaggi (padre dei famosi Frank, Ernie e Vic), che era stato felice di scrivere una lettera per Ben con queste buone notizie. E se la famiglia Capra, aggiungeva Orsatti, voleva vedere di nuovo Ben, doveva venire tutta a Los Angeles, perché Ben non sarebbe mai tornato in Sicilia. E così fu. Così avvenne che io celebrassi il mio sesto compleanno, il 18 maggio 1903, durante uno spaventoso temporale sull’Atlantico, nella stiva di terza classe del Germania, stipata di immigranti terrorizzati, che recitavano preghiere, o in preda a conati di vomito. Solo la mamma ebbe il coraggio di sfidare il vento e gli spruzzi, aggrappandosi alle corde del ponte per attraversare la nave e scendere i ripidi scalini di ferro, portando da mangiare a Papà e a quattro bambini che soffrivano per il mal di mare. Josephine aveva quattordici anni; Tony ne aveva dodici; io sei, e la piccola Ann tre. Le due sorelle più grandi, sposate, Luigia e Ignazia, erano rimaste a Bisacquino. Tredici giorni di puzza e squallore nella stiva; altri due giorni di panico e pandemonio a Ellis
Island; poi ancora otto giorni di privazioni, paralizzati in una carrozza sovraffollata, abbracciati l’uno all’altro per cercare di dormire, mangiando solo pane e frutta che Papà comprava alle stazioni, quando il treno si fermava. E finalmente, dopo ventitré giorni senza poterci lavare né cambiare, io e la mia sporca famiglia di immigranti, con gli occhi ormai svuotati, potemmo abbracciare Ben, che ci aspettava alla stazione di Los Angeles. Papà e Mamma baciarono la terra e piansero di gioia. Anch’io piansi. Ma non di gioia. Piangevo perché eravamo poveri, ignoranti, stanchi e sporchi. Io non conoscevo Ben. Sapevo solo che aveva creato a tutti un sacco di guai. Ben ci abbracciò tutti con gioia, ci infilò in una carrozza a cavallo che aveva noleggiato, e ci portò nella Piazza della Missione, dove ci inginocchiammo e ringraziammo Dio per essere arrivati sani e salvi. Poi Ben ci portò, pochi isolati più in là, in una casa che aveva affittato in Castelar Street. Castelar Street, Los Angeles – America, America! La sfida più grossa che una famiglia di contadini ignoranti deve affrontare in una terra straniera è quella della sopravvivenza, non può certo preoccuparsi di mandare i bambini a scuola. La cosa più importante è avere ogni giorno un po’ di denaro che ti difenda dal lupo della fame. Nel giro di un mese Papà, Mamma e il resto della famiglia trovarono lavoro: fabbriche di mattoni, piantagioni di olive, botteghe di vestiti e drogherie – tutti tranne me. Io andai a scuola, la scuola di Castelar Street. La mia famiglia mi considerava strano. A scuola venivo canzonato, umiliato, e anche picchiato. Ma non volevo lasciarla. Questo significava che non solo dovevo pagare le spese della mia educazione, ma dovevo anche mettere qualcosa nella cassa di famiglia. Oh, io amavo la mia famiglia, e rispettavo la loro frugalità. Ma loro non potevano sapere quel che sapevo io: che certo ero nato contadino, ma che sicuramente non sarei morto tale. Durante la scuola elementare vendevo giornali – la mattina, la sera, e la domenica. Davo a Mamma ogni penny che guadagnavo. Poi vennero le discussioni per la scuola superiore. Fu una lunga battaglia. Papà era dalla mia parte, ma era in minoranza. «È già abbastanza», dicevano gli altri. «Ora sa leggere e scrivere. È ora che vada a lavorare come il resto della famiglia. Chi lo manterrà?» Papà alla fine si impuntò. «Se Frankie non chiede soldi, può continuare la scuola». Mentre frequentavo la scuola professionale di arti manuali, aggiunsi tre lavori alla vendita dei giornali: facevo due ore di pulizie a scuola, il mattino presto, suonavo la chitarra al bistrò di Central Avenue la domenica sera, e tutti i sabati sera imballavo giornali al Los Angeles Times (questo fu il lavoro che mi diede il pane per anni). Mi piaceva la scuola di arti manuali. Abitavo vicino alla scuola di Los Angeles, ma poiché appartenevo agli emarginati – latini, cinesi, chicanos e japs – fui mandato a riempire la nuova succursale, la «Siberia» (un’ora e mezza di macchina da dove abitavo). Là andai a raggiungere gli scarti, i bocciati, i «cattivi soggetti» (sia studenti che insegnanti) che due altre scuole avevano rifiutato. E l’Onnipotente, sempre parziale verso chi ha la peggio, doveva avere scritto nei suoi piani che gli emarginati avrebbero fatto la storia, della California e del mondo. E così fu. Fra gli Indesiderati c’erano nomi come questi: il cantante d’opera Lawrence Tibbett, i generali Jimmy Doolittle, Paul William, Harold Harris; il governatore Goodwin Knight; il procuratore Buron Fitts; lo scrittore Irving Stone; i giudici McComb, Kaufman, Brockman, Curtis; i giocatori di baseball Irish e Bob Meusel; gli amati, atletici Blewett – George, Bill, Dick e Dotty; le attrici Helen Jerome Eddy, Phyllis Haver, Ruth Hammond, Vera Ralston; la famosa Marian Morgan e le sue ballerine, fra cui Rose Cowan (Mrs. Covarrubias); lo scrittore e storico Rob Wagner; Maud Howell, direttore di scena di George Arliss; e decine di altri che fecero onore a se stessi e al loro paese. Tranne quello che spendevo per i libri e per comprarmi il pranzo, ogni penny che guadagnavo
durante la scuola andava alla mamma. Ne aveva tremendamente bisogno. Papà aveva comprato una piccola casa nel quartiere di North Broadway. Mamma faticava dodici ore al giorno nei campi di olive. La mia sorellina Ann lavorava in una piccola sartoria, mentre Papà lavorava come bracciante nel ranch E.T. Earl, a La Canada. Ogni centesimo che arrivava era risparmiato e usato. I quattro fratelli di Papà furono aiutati a venire in America, uno alla volta. Mia sorella maggiore e il marito ricevettero i soldi del biglietto per raggiungerci. I numerosi familiari rimasti in Sicilia chiedevano soldi ai «ricchi» parenti americani. Ogni mese, Mamma spediva una mezza dozzina di buste con un biglietto da cinque dollari. La determinazione della mia famiglia nell’accumulare soldi era eguagliata solo dalla mia ostinata determinazione a conseguire un titolo di studio. Naturalmente ero preso di mira dai miei fratelli e cognati: «Ehi tu, intelligentone. Cerca di riuscire in qualche cosa, con tutta quella scuola. Vedremo. Stiamo aspettando». Mi riusciva così facile lo studio che finii la scuola superiore in tre anni e mezzo invece di quattro, e con uno scopo preciso: volevo avere sei mesi di tempo per lavorare e mettere via un po’ di soldi. Nessuno lo sapeva ancora, ma io avevo deciso di andare all’università. Così lavorai per sei mesi in una fabbrica di tubi di acciaio. Avvitavo bulloni caldi, schiacciato dentro un tubo di un metro di diametro, premendo una barra di ferro contro il rivetto incandescente per tenerlo fermo, mentre da fuori un altro operaio spingeva giù la testa del rivetto con un fucile pneumatico che ti faceva battere i denti. A mezzogiorno, quando uscivo carponi da quel tubo, non riuscivo a stare dritto ed ero quasi sordo. In sei mesi misi da parte settecento dollari. Ma anche Papà, nel frattempo, cercava di realizzare un suo sogno. Comprò un agrumeto di quindici acri a Sierra Madre. Per pagare il mutuo annuale occorrevano tutti i soldi che Papà, Mamma e Ann riuscivano a mettere insieme. Contribuii a pagare le spese dell’agrumeto con quattrocento dollari, e ne serbai trecento per le tasse e i libri del primo anno. Dato che mostravo una speciale attitudine per la matematica e le scienze, mi iscrissi, nel febbraio del 1915, al Caltech di Pasadena (che all’epoca si chiamava Throop Polytechnic Institute). Durante gli anni di università riuscii ancora a pagarmi tutte le spese e a contribuire al bilancio della mia famiglia con alcune centinaia di dollari l’anno. Ed ero sempre fra i tre migliori della classe. Libri, libri, libri – li leggevo tutti, da quelli di scienza a quelli di storia e di poesia. Puntai alla borsa di studio per le matricole. Dovevo vincerla. Il primo anno fui abbastanza fortunato da ottenere un lavoro al campus: ero uno dei cinque camerieri al dormitorio, che ospitava sessantacinque studenti. In cambio ricevevamo vitto e alloggio. Erano soltanto due le stanze riservate ai camerieri (due per stanza). Il quinto cameriere doveva tornare a casa ogni sera, oppure affittare una stanza vicino al campus. Io ero il quinto cameriere. Niente stanza nel dormitorio fino all’anno seguente. Mio padre aveva trasferito tutta la famiglia nell’agrumeto, lontano quindici miglia dalla scuola. Mia madre e Ann, la più piccola delle mie sorelle, aiutavano Papà nel ranch. Io facevo avanti e indietro dalla scuola. Il mio mezzo di trasporto era una motocicletta Flanders di seconda mano, a un solo cilindro, del tipo che fai partire in corsa. Avevo bisogno di 250 dollari per le tasse dell’anno seguente, senza contare i libri e i vestiti. Avevo ancora il mio lavoro al Los Angeles Times, ogni sabato, dalle nove di sera alle due del mattino. Mi rendeva cinque dollari alla settimana. Non era abbastanza (il lavoro alla lavanderia del dormitorio mi rendeva circa un dollaro al giorno, ma questo era per la mamma). Così trovai un altro lavoro alla centrale elettrica di Pasadena, facendo commissioni per l’ingegnere del turno di notte, dalle 3.30 alle 7.30 del mattino, sette giorni alla settimana. La paga era di venticinque centesimi all’ora. Questo faceva altri sette dollari alla settimana: in tutto dodici dollari. Con questi potevo farcela il primo anno. La mia giornata tipo era così: mi alzavo alle tre del mattino, al ranch, e accendevo un fuoco
sotto il motore d’avviamento della moto per scaldare l’olio troppo freddo. Accendevo i fari all’acetilene (la luce era quanto quella di una pila di adesso), e spingevo la Flanders lungo la strada sterrata finché il cilindro entrava in azione; saltavo sul sellino e percorrevo rumorosamente le diciotto miglia fino alla centrale elettrica di Pasadena. Quando pioveva, quelle corse in moto diventavano dure prove, fra scivolate, slittamenti e spruzzi di fango. Dalle 3.30 alle 7.30 controllavo caldaie e lucidavo chilometri di metallo alla centrale elettrica. Poi correvo a scuola, altre miglia di distanza, per aiutare i quattro camerieri a lavare i piatti della colazione per i sessantacinque studenti del dormitorio. Facevo colazione lavorando. Ore 8.00: prima lezione. Ore 11.55: correvo con gli altri quattro camerieri a servire il pranzo nella mensa del dormitorio; lavavo piatti, mangiavo lavorando. Ore 13.00: di nuovo a lezione. Dalle 17.00 alle 18.00: coro o football. Poi preparavo i tavoli, servivo la cena, lavavo i piatti e mangiavo. Ore 19.00: saltavo sulla motocicletta e correvo per quindici miglia fino a Sierra Madre. L’ultimo mezzo chilometro di strada sterrata era così ripido che dovevo saltare giù dalla mia Flanders e spingerla. Una notte di pioggia fu una vera lotta con lo sterzo impazzito. Ore 19.30: mettevo la moto al riparo e preparavo carta e legna sotto il motore d’avviamento per il fuoco del mattino. Ore 19.30 fino alle 22.00: studio e compiti. 22.00: a letto. 3.00 del mattino: di nuovo in piedi, ad accendere il fuoco sotto la motocicletta. Quale fu l’effetto di questi orari sui miei studi? Nessuno. Vinsi la borsa di studio delle matricole: 250 dollari, un viaggio per visitare il paese, e le sincere congratulazioni dei miei professori: il dottor Bates (chimica), il dottor Van Buskirk (matematica), il dottor Beckman (tedesco), il professor Sorenson (ingegneria elettrica), il professor Clapp (geologia), e il più contento di tutti, il professor Judy (letteratura inglese). Una mattina di sole del febbraio 1917, attraversando i quindici acri del suo agrumeto, sulle colline di Sierra Madre, Papà contemplava le sue piante cariche di limoni maturi. Un raccolto di cinquemila dollari, valutava Papà, più che sufficienti per il pagamento dell’ultima cambiale, che scadeva di lì a due settimane. Il giorno dopo avrebbe assunto i braccianti a Monrovia per il raccolto di quella messe generosa. Dio gli sorrideva. Nei primi tre anni aveva lavorato l’agrumeto da solo, dall’alba al tramonto: potando, innaffiando, portando il concime dalla valle, sempre dietro il suo vecchio cavallo, e piegato a zappare fino a spezzarsi la schiena. Due anni prima aveva ordinato alla mamma e ad Ann di lasciare il lavoro e di stare con lui al ranch – era stato un giorno felice. Mai più, aveva promesso, sarebbero state costrette a lavorare come schiave. Sono sicuro che quella mattina, quella splendida mattina quasi primaverile, quando tutta la natura raccoglieva le forze per cantare l’esplosione della nuova vita, Papà deve aver recitato le sue benedizioni, e probabilmente canticchiava felice mentre camminava nel suo giardino di rose, che era l’invidia di tutti gli orticoltori. Un’ora circa dopo colazione mia sorella Ann, che aveva allora diciassette anni, la più giovane e la più amata della famiglia, udì nell’agrumeto un rombo strano e spaventoso. Chiamò Papà. Nessuna risposta. Seguì la traccia di quel suono fino alla pompa del pozzo. Guardò dentro, e l’orrore la raggelò. Papà era morto, il suo petto schiacciato e incuneato fra i denti di due grossi ingranaggi. La cinghia nera del motore della pompa si era rotta, e stava orrendamente avvolta intorno al suo corpo. Ann cercò di tirar fuori dagli ingranaggi il corpo di Papà. Si spezzò le unghie, ma non riuscì a muoverlo. Urlando di terrore corse fino alla casa, cercò affannosamente di dire alla mamma quel che aveva visto, e svenne.
Il sogno di Papà di portare la famiglia fuori dal ghetto, nella sua amata fattoria, era andato in frantumi. Stordita e disorientata, la mamma vendette in fretta il ranch e ritornò con Ann a Little Sicily, povera come il giorno in cui era arrivata in America, quindici anni prima. Le mie ambizioni scolastiche, naturalmente, ne furono scosse. Sarei stato costretto ad abbandonare tutto se le autorità del Caltech non mi avessero concesso un prestito per pagare le tasse dei tre anni di università che mi mancavano. Solo così, e grazie anche ai miei tanti lavori, riuscii ancora a mandare alla mamma novanta dollari al mese. Ero ormai diventato una specie di eroe per la mia famiglia. I miei fratelli e sorelle più grandi, ora sposati, avevano scoperto che in America anche gli analfabeti potevano arrivare lontano, poi però s’imbattevano in un muro. Ora io ero diventato la speranza della famiglia. Quando, nel giugno del 1918, mi laureai come ingegnere chimico, diedero una grande festa e brindarono al futuro presidente di banca. Essendo stati educati a adorare il denaro, era naturale per loro pensare che il premio più ambito di una lunga istruzione fosse dirigere il luogo dove il denaro era custodito. Ingegneria era per loro una parola vaga, deludente. Richiamava troppo l’idea dell’uomo in tuta che controlla i motori. Quando spiegai loro che grosse imprese industriali cercavano laureati in ingegneria e offrivano molti soldi per posti di lavoro esenti dal servizio di leva, si dimostrarono di nuovo molto colpiti. Ma io aggiunsi che non avrei accettato nessun lavoro perché mi sarei arruolato nell’esercito e loro pensarono che fossi diventato pazzo, che avrei vissuto tutta la vita come un barbone, senza un lavoro vero. Fino a quel momento, nonostante il mio affannarmi continuo fra una lezione e l’altra, fra un lavoro e l’altro, la vita era stata per me una splendida corsa. Superare le avversità era così semplice che cominciai a pensare a me stesso come a un secondo Horatio Alger, come a un eroe, il ragazzo che si conquista il successo da solo. Quando entrai nell’ufficio di reclutamento, dichiarando che mi sarei arruolato se mi avessero mandato col primo contingente in partenza per la Francia, sapevo che stavo facendo la scelta «giusta». Tutti i rampolli di sangue blu si arruolavano: noblesse oblige. E se fossi stato ferito? Bene. Anche quello mi sarebbe servito, un giorno. Vai, ragazzo, vai! Ma non fui mandato al fronte per dar consigli ai generali. No. Due giorni dopo mi trovai a insegnare matematica balistica agli ufficiali di artiglieria a Fort Mason, San Francisco. Non vidi mai un fucile, non feci neanche un’esercitazione. La mia arma era un pezzo di gesso; il fronte, una lavagna. Non era in trincea che passavo le notti, il viso sepolto nel fango delle Fiandre. Passavo le notti nella branda della caserma, a non più di cento metri dal lugubre ululato di una sirena per la nebbia. Quello era il mio nemico. Senza che nessuno mi consultasse fu firmato l’armistizio. Il mondo impazzì. Io continuavo a scrivere equazioni alla lavagna, col suono della sirena come sottofondo. Nei cinegiornali vedevo gli eroi, di ritorno in patria, accolti da manifestazioni di tripudio, io invece tornavo a fare scarabocchi sulla lavagna. Con l’entusiasmo di uno zombi spiegavo le traiettorie paraboliche, le direzioni dei venti, e l’effetto Coriolus. Loro sbadigliavano. Io sbadigliavo. Era proprio eccitante. Un’epidemia virale mise fine alla mia carriera militare. Gli uomini, alla base, morivano come mosche. Il mio congedo doveva arrivare da un momento all’altro, e non facevo che pregare. Ma una notte fui colpito da una febbre improvvisa. Non c’era dubbio su quel che fosse, ma decisi di non dire niente a nessuno. Volevo andarmene a casa, dove sapevo che mia madre non mi avrebbe lasciato morire. Terrorizzato all’idea di finire la mia vita alla base, scappai in città. In un ristorante di Ellis Street, mentre pagavo per un piatto di minestra, caddi in terra, con la minestra e tutto. Mi svegliai in un’umida e fatiscente corsia d’ospedale (il reparto d’isolamento dell’Ospedale Francese), dove centinaia di letti stipati risuonavano dei lamenti dei moribondi. Nei sei giorni che l’esercito impiegò per ritrovarmi non vidi né un dottore né un’infermiera. Anche loro morivano
come mosche. Non vidi cibo – non che ne volessi. Di tanto in tanto sentivo il rumore dei barellieri che, usando una grossa cesta, portavano via i morti, e questo cancellava in me qualunque desiderio di cibo. Arrivato a casa, trovai la mamma e Ann che vivevano in un appartamento di tre locali, a North Broadway. Lavoravano entrambe. Mia madre, ormai invecchiata, con i capelli grigi, era tornata alla fabbrica di olive. Ann, che aveva diciotto anni, e che soffriva di cuore, lavorava dieci ore al giorno in una sartoria. Tutti gli altri fratelli e sorelle erano sposati, facevano figli, e stavano piuttosto bene. Ma ora che io ero tornato a casa, promisi alla mamma e ad Ann che non avrebbero più dovuto lavorare. Gli ingegneri erano pagati bene. Avrei comprato loro bei vestiti, e le avrei portate fuori dal ghetto, in un quartiere elegante. «Dammi solo una settimana o due, Mamma». Fiducioso, scrissi a tutte le compagnie minerarie, petrolifere, industrie della carta e colorifici che trovai nell’elenco del telefono. Con mio grande stupore le risposte erano tutte molto educate, ma negative. «Ci dispiace, in fase di riconversione della produzione... in fase di transizione... la crisi postbellica... sovrannumero di ingegneri... terremo la sua domanda in archivio... ci dispiace... ci dispiace... ci dispiace...» Alcune di queste stesse ditte mi avevano offerto invitanti stipendi e l’esenzione dalla leva meno di un anno prima. Preso dal panico, mi rivolsi agli annunci di lavoro. Niente nella colonna dei Cercasi, e innumerevoli annunci sotto gli Offresi. I miei fratelli e cognati venivano ogni tanto a trovarmi, le tasche sempre piene di denaro, offrendomi gli spiccioli per le sigarette, e dando sfogo al loro sarcasmo: «Quand’è che il Professore comincerà a lavorare, Mamma?» «Così è questo che l’università è riuscita a fare di te: un barbone! Con una divisa ormai a pezzi». Avevano ragione, amaramente ragione. Non potevo rispondere. Quando Ann era presente, scoppiava in lacrime gridando: «Oh, lasciatelo in pace, perdio. Non soffre già abbastanza?» Ma la frustrazione aveva anche altri volti – gli occhi penetranti e le mani callose delle donne siciliane del quartiere. Era una congiura fra loro, o meglio, un atto di fede – la convinzione che i loro uomini erano nati per lavorare e sposarsi, per lavorare e fare figli, lavorare e provvedere alla famiglia, lavorare fino alla morte. Un uomo adulto che non si sposava e che non lavorava era per loro uno scandalo e insieme una minaccia. Queste strane idee avrebbero potuto influenzare i loro uomini. Io fomentavo l’eresia – una donna lavorava per mantenere me! Vergine Santa! Fecero causa comune per rendere innocuo questo apostata traviato. Ogni sera, giorno dopo giorno, un gruppo di loro veniva, come per caso, a trovare la mamma. Ognuna si fingeva sorpresa per la presenza delle altre. Era una sciarada, perfetta e prevedibile come un vecchio dramma. Il rito cominciava col raccontare i pettegolezzi della giornata: parlavano tutte insieme, ridacchiando, mentre la mamma versava loro vino o caffè. Sapevano che io le sentivo dall’altra stanza – e io sapevo che loro sapevano. Dai pettegolezzi passavano a vantarsi degli straordinari successi dei loro mariti e dei loro figli; i buoni partiti che le loro figlie avevano trovato, uomini seri, lavoratori, e quanti soldi avevano messo da parte. Soldi, soldi, il loro metro di misura del valore di un uomo. Dalle vanterie passavano poi, delicatamente, a commiserare la mamma. «Donna Saridda, c’è ormai neve nei tuoi capelli. Per quanto tempo ancora ti spezzerai dalla fatica? La vecchiaia è brutta. Ogni anno è come un nuovo masso sulle spalle. Tu non hai marito. Una donna sola ha bisogno di un bastone quando le sue mani tremano e i suoi piedi camminano a fatica». La mamma sosteneva il loro sguardo. «Non ho paura», era la sua risposta. «Dio mi ha fatta forte». A questo punto il rituale richiedeva silenzio, mentre si sorseggiava il vino: era la pausa drammatica prima della domanda. Poi: «E Frankie... ha trovato lavoro oggi?» «Frankie è diverso, come suo padre», rispondeva la mamma, mordendosi le labbra. «Io prego, ma ancora nessuna risposta».
Questo era il segnale dell’attacco, e dalle loro labbra scandalizzate cominciavano a partire le frecce velenose: «Povera Donna Saridda... È stata colpa della scuola... Gli mettono in capo delle strane idee... È il diavolo che si nasconde fra i libri... Non è in grado neanche di comprarsi un vestito... Chi lo sposerebbe? Non certo le mie figlie... Povera Mamma Saridda... La sua vergogna è la nostra vergogna... Ma se questa è la volontà di Dio... Tutti abbiamo la nostra croce da portare... Coraggio, Donna Saridda». Per fare un bel gesto, avevo dato i miei vestiti civili all’Esercito della Salvezza, così ero costretto a indossare la divisa militare – ormai ridicola per tutti – con il grosso berretto e niente fasce di servizio, niente medaglie, né placche d’oltremare. Ero un povero congedato, un ex soldato. Feci il giro degli uffici di collocamento con decine di migliaia di altri ex soldati. Non c’era nessuna Ordinanza Speciale per i veterani, non c’erano lavori quando tornavi. Era spaventoso. Cercai perfino di vendere mele agli angoli delle strade. Ma quando vidi uomini in divisa, amareggiati, col petto pieno di medaglie, uomini senza un braccio o una gamba, pregare la gente infastidita di comprare mele, andai a casa e piansi; piansi sulle ginocchia di mia madre, mentre lei mi carezzava il capo dicendo: «Coraggio, figlio, coraggio». La sua mano si mosse all’improvviso sulla mia fronte: «Frankie, scotti». «Non è niente, Mamma». «Niente? Lasciami vedere i tuoi occhi». «Quali occhi? Non è niente». «Sento un odore strano. Hai vomitato, oggi?» «Sì, un po’». «Ti senti male? Come ieri?» «Lascia perdere, Mamma, ti prego». «Frankie, guardami! Sei ancora malato?» Balzai in piedi, ma ancora piegato in avanti, con le braccia chiuse contro lo stomaco. Mi misi a gridare. «NO! Non sono malato. Niente può farmi ammalare di nuovo, mi senti? Nessuno! Non tu, non i miei maledetti fratelli, neppure Dio e i suoi stupidi maledetti angeli. Niente! Nessuno!» Mia madre era paziente, forte, solida. Sette dei suoi quattordici figli erano morti fra le sue braccia. No, la malattia e la morte non la spaventavano... E non correva a cercare un dottore. Il suo era una sorta di fatalismo primitivo per cui o sopravvivevi o morivi, una legge secondo la quale se non ce la fai, è meglio che muori. Mise a letto il suo figliolo delirante, e poi scappò via per non far tardi al lavoro; incollava etichette sulle lattine, nella fabbrica di olive, due caseggiati più in là. Quattro o cinque volte al giorno correva a casa per applicarmi salviette bagnate o fette di patate fredde sulla fronte in fiamme, per cambiare le coperte zuppe di sudore, appendermi al collo erbe fresche, cercare amorevolmente di farmi parlare, finché aprivo gli occhi riprendendo conoscenza. Pregava, e poi correva di nuovo al lavoro. Tutte le notti la mamma e Ann si davano il turno accanto al mio letto (vent’anni dopo un medico mi disse che mi era scoppiata l’appendice). Quando, sei settimane dopo, cercai di alzarmi in piedi, la stanza cominciò a girare così vorticosamente che mi aggrappai a mia madre. Scoppiammo a ridere, come bambini che ridono senza motivo, solo perché stanno ridendo. «Guardati!», mi canzonava. «Le tue braccia, le tue gambe, sembrano spaghetti. Con salsa e formaggio saresti proprio un buon pranzo». «Mamma, fammene un po’. Ho fame». «Grazie a Dio!», gridò, e corse in cucina cantando una tarantella. Due settimane dopo, abbracciandola sulla porta, le dissi: «Addio, Mamma. Non c’è nessuno al
mondo come te». «Lo so», rispose. «Dammi la borsa». Le porsi la mia grossa borsa militare, che riempì di pane, formaggio e salame. Amavo teneramente mia madre, forte e coraggiosa; l’amavo anche se ero ben consapevole di non contare granché nella sua considerazione – e ne aveva tutte le ragioni. Io ero il cocco della famiglia, che era andato a scuola mentre gli altri lavoravano come bestie, l’incapace, che non era stato in grado di mantenere la madre e la sorella, il debole, che aveva incassato insulti dalla famiglia e dai vicini senza reagire. E così, anche se la nostra separazione fu uno strappo doloroso per entrambi, fu anche, per entrambi, una soluzione. Commossi, ridevamo e cercavamo di essere sereni. «Mamma!», dissi con un gran gesto. «Quando conquisterò il mondo, tornerò da te. Aspetta e vedrai. Tu e Ann non dovrete più lavorare. Vi costruirò un palazzo, Mamma, sulla cima di una collina». «Bravo! Bravo!», diceva lei, con la lacrime che le scendevano dalle guance. «Lascia perdere il palazzo. Riconquistati il rispetto di te, figlio mio. Noi preghiamo per te tutti i giorni. Vai. Dio benedica i tuoi passi». Fece scivolare un biglietto da dieci dollari nella mia camicia militare. Partii. Dovetti passare attraverso il fuoco di fila degli sguardi che le donne siciliane del quartiere mi lanciavano dalle porte semiaperte. Le salutai con un inchino. Loro scuotevano la testa e sogghignavano, come per dire: «Ah! Era ora, fannullone!» E così me ne andai di casa; me ne andai senza una destinazione precisa solo quella di saltare sul primo tram per la città, e lasciar soffiare il vento: forse mi avrebbe portato alle miniere di rame dell’Arizona. La linea per North Main era solo a quattro isolati. Ma prima che potessi arrivare là, cominciai ad ansimare e a sudare; le ginocchia mi tremavano, la testa girava. Mi sedetti sul marciapiede, mi sentivo debole e fragile come uno spaghetto crudo. Scoppiai a ridere. Era davvero una situazione ridicola. Se fossi tornato a casa ora, due minuti dopo la mia partenza, ci sarebbe stata una sommossa a Little Sicily. Ma non potevo andare a conquistare il mondo se non ero neanche in grado di camminare. Dovevo trovare un posto dove rimettermi da quella schifosa malattia. Ma dove? Pensai a mio fratello Tony, che viveva a Van Nuys. Almeno avrei lasciato la città. E Tony avrebbe capito, forse. Presi il tram giallo che andava in città. Arrivai a piedi all’incrocio fra Hill Street e la Quarta Strada, e salii sul grosso tram rosso diretto a San Fernando Valley. Imbucò un tunnel, superò Sunset Boulevard, andò oltre gli agrumeti di Hollywood, e dopo Cahuenga Pass, puntò giù verso Van Nuys. Lungo la strada pensai a Tony. Stando alla sua taglia, il destino non lo aveva certo favorito. Non era alto più di un metro e cinquanta. Eppure alla prova del coraggio faceva la parte del leone. Poteva affrontare qualunque essere animato, su due o quattro zampe, e di qualunque misura. Quando eravamo arrivati a Los Angeles aveva dodici anni: troppo grande per la prima elementare, troppo analfabeta per le classi superiori. Provarono a fargli frequentare la terza, ma era testardo e rissoso, e non lo volevano in nessuna classe. Durante un alterco con un’insegnante strabica, la colpì proprio in mezzo agli occhi. Cosa che gli fruttò parecchie settimane nella scuola del riformatorio e questa fu la sua unica istruzione. Da adolescente fece via via l’allenatore di cavalli, il fantino, il pugile, il pagliaccio da circo, il caramellaio. Ma qualunque cosa questo piccolo Mida toccasse, si tramutava in denaro – molto denaro. Inoltre si vestiva come un dandy, e gli piacevano le ragazze – tutte conquiste che lo facevano sentire sicuro di sé, in un mondo di uomini più grandi lui. Naturalmente Tony era quello che aveva riso più forte sapendo che il «cervellone», il fratello colto e istruito, non riusciva a trovare lavoro. Si vantava di poter fare più soldi di tre laureati buoni a
nulla – ed era vero. Ma quando, per caso, passando col camion mi vide seduto su un marciapiede di Van Nuys, ansimante come un delfino sulla spiaggia, non rise. Dopo tutto, buono a nulla o no, ero suo fratello. «Frank, che cosa fai qui, seduto su un marciapiede? Dio mio, come sei magro. Che cosa è successo?» «Niente, Tony. Ma dovevi proprio costruire la tua casa così lontano dalla fermata del tram?» Tony e Katie, la sua adorabile moglie, mi presero con loro. Dato che avevano solo una camera da letto, sistemarono per me un’amaca fra due alberi. Mi nutrirono, e insistettero per comprarmi un vestito che sostituisse la mia vecchia uniforme, ma per qualche perversa forma di orgoglio io non volevo separarmi dalla mia divisa. La portavo come fosse un simbolo del Fallimento, che volevo mostrare. Volevo che il mondo sapesse quanto avevo lavorato per farmi un’istruzione e che quella schifosa divisa era tutto ciò che avevo guadagnato. Il sole della valle, l’aria della notte e i ricchi manicaretti di Katie giovarono alla mia salute; fui presto in grado di potare gli albicocchi e di passare le serate a cantare con i braccianti messicani nel frutteto di mio fratello. Canzoni, scherzi e barzellette, duro lavoro all’aria aperta – il mondo tornava ad apparire rosa. Smisi persino di leggere gli annunci sul giornale. Una sera, però, mentre mi stavo rimpinzando con la squisita polenta di Katie, lei mi mostrò un annuncio con un’offerta di lavoro che aveva messo da parte per me: «Cercasi lezioni private di matematica e chimica – livello universitario». Balzai in piedi, corsi in macchina all’ufficio postale di Van Nuys, e buttai giù una lettera espresso con le mie credenziali. Arrivò la risposta – attraverso un avvocato – con l’ora e la data per un colloquio, in un ufficio di Spring Street. Sulla porta dell’ufficio c’era una grande targa con cinque nomi. Fui fatto entrare nella stanza di quello in cima alla lista, un distinto signore dai capelli grigi che si alzò in piedi per venirmi incontro. C’era un’altra persona seduta nella stanza a cui non fui presentato, una piccola signora elegante, di una bellezza quieta, profonda. L’avvocato fece molte domande sulla mia preparazione, sui titoli di studio, sui voti, e infine la signora silenziosa gli fece cenno di sì. Con le scuse appropriate l’avvocato me la presentò come la signora Anita M. Baldwin. Il nome mi colpì – la figlia di «Lucky» Baldwin, pensai subito, cavallerizzo, bon vivant, e scopritore del favolosamente ricco Comstock Lode! Con una voce sottile e disarmante mi disse che aveva bisogno di lezioni private per il figlio diciassettenne, Baldwin, che purtroppo lei aveva forse viziato un po’; era un ragazzo molto intelligente, ma non si applicava come avrebbe dovuto, soprattutto in matematica e scienze. Temeva che non sarebbe riuscito a superare l’esame di ammissione per entrare all’Università della California. La mia qualifica era più che soddisfacente, ma avrei dovuto ricevere l’approvazione dello stesso Baldwin. Era un ragazzo testardo, e aveva già rifiutato i primi tre che si erano presentati. In ogni caso, loro abitavano a Santa Anita, a... «Signora Baldwin», la interruppi, «conosco molto bene la vostra proprietà. Da quell’angolo fra Foothill e Sierra Madre Avenue sono passato centinaia di volte in motocicletta, andando avanti e indietro da scuola». «Non mi dica che lei è quel ragazzo che scivolò sulla curva e fece un volo al di là del nostro muro di cinta?» «E uno dei vostri giardinieri, credo, mi tirò fuori dal fango, mi aiutò a risalire sulla moto, e mi spinse per mezzo isolato finché quella maledetta partì di nuovo. Sì, signora». «Bene, allora, può venire a Sierra Madre domani alle tre?» Feci cenno di sì. «E scusate la mia curiosità, signore, ma per quale ragione portate ancora la divisa?» «Forse dovrei informarla, signora, che da quando sono stato congedato, e sono diversi mesi, non ho mai lavorato».
Quando l’uomo in livrea aprì il grosso cancello di ferro, vidi la signora Baldwin venire verso di me col suo passo un po’ obliquo. Mi presentò a suo figlio; poi disse: «Baldwin, conduci il signor Capra nelle tue stanze e fate un po’ di conversazione». «Oookaay», sospirò lui, senza sforzarsi di nascondere la noia. «Mi segua, prego». Si voltò e s’incamminò verso la casa. Lo seguii. Dal modo in cui mi guardò, e da come arricciò il naso quando ci stringemmo la mano, capii subito che non gli piacevo. Nella sua stanza si lasciò andare su un divano e disse: «Accomodati». Ma non mi potevo sedere. La stanza era piena di strumenti musicali – banjo, chitarre, mandolini, corni, sassofoni, tamburi, uno xilofono e una spinetta. Guardai quella strana esposizione con curiosità. «Suona qualcuno di questi strumenti?», domandai. «Li suono tutti», disse lui, con quella stanca insolenza del ricco che irrita i nervi. Camminai lentamente per la stanza, inghiottendo il risentimento – l’endemico risentimento dei contadini per l’indolenza dei ricchi. Presi in mano una splendida chitarra Gibson e accennai un accordo aumentato. Questo lo fece balzare dalla sua indifferenza. «Sei capace di suonare quell’accordo?», chiese. Lo guardai con uno sguardo intenso. «Senti, ragazzino. Se mi vuoi qui come insegnante, faresti meglio a darmi del lei e a chiamarmi “Signore”. Hai capito?» «Oh, al diavolo quella roba! Ti ho chiesto se sei capace di suonare quell’accordo. Perché non rispondi?» Misi giù la chitarra, mi girai e mi diressi verso la porta. «Ehi! Un momento». Continuai a camminare. «Signore! Signore!» Mi fermai per lasciare che mi raggiungesse. «Dio, com’è permaloso. Avevo fatto semplicemente una domanda». «E allora non farla come uno sbarbatello». Fece un sorriso dispettoso. Era simpatico quando sorrideva. «Oh, mi scusi. Va bene. Glielo chiederò di nuovo. Per favore, signore. Le dispiacerebbe, signore, se non sono troppo invadente... Lei per caso suona la chitarra, signore?» Dovetti sorridere anch’io. «Così va meglio. Sì. So suonare tutti gli strumenti nella tua stanza». «Dai, torna indietro. Suoniamo qualcosa. Gli strumenti sono tutti accordati». Era eccitato come un bambino davanti al suo primo paio di stivali rossi. Porgendomi la chitarra prese in mano un banjo tenore. Ero assunto. Fino a ieri potavo alberi come un peone; oggi ero l’insegnante di matematica in una delle famiglie più ricche del paese e tutto questo solo perché sapevo suonare la chitarra! Non aveva molto senso. Come del resto tutto quello che mi capitò negli anni successivi. Bevendo il tè nella sua famosa biblioteca, la signora Baldwin mi fece la sua offerta: trecento dollari al mese, più tre nuovi vestiti se avessi smesso di portare la divisa militare; avrei dovuto vivere con Baldwin ventiquattr’ore al giorno, insegnargli matematica e chimica sufficienti a superare gli esami d’ammissione di Berkeley, e tenerlo lontano dai pasticci. Due mesi dopo Baldwin superò gli esami di Berkeley; io m’innamorai della signora Baldwin, indugiai in qualche fantasia erotica per la sua splendida figlia, e infine partii per le miniere di rame dell’Arizona. Ero arrivato a due conclusioni: che i ricchi hanno tutto, ma concludono poco, e che se Baldwin fosse nato povero, a New Orleans o a Memphis, sarebbe potuto diventare un grande musicista jazz.
2. GRANDE SETTIMANA PER PAZZI SOGNATORI
Ho passato più di tre anni a cercar fortuna viaggiando per l’Arizona, il Nevada, la California, saltando sui treni, vendendo foto casa per casa, giocando a poker, suonando la chitarra, correndo, cercando, andando sempre più giù, finché, eccomi di nuovo a San Francisco, solo pochi spiccioli in tasca, ma con un’offerta che avrebbe risolto tutti i miei problemi. Era il dicembre 1921. Mi era stato offerto il primo lavoro come «ingegnere chimico». Venne a trovarmi nella mia camera d’albergo il boss siciliano di un traffico illegale di alcolici, di Los Angeles. Era coperto d’oro. Fece sventolare diecimila dollari davanti ai miei occhi: sarebbe stato il mio compenso se gli avessi progettato qualche sistema efficace per distillare alcol. Eravamo cresciuti insieme. Era uno di quelli famosi nel quartiere – tutto pugni, insulti e mancanza di scrupoli. I bambini lo odiavano, lo chiamavano il Duro. Ebbene, ecco qui il Duro nella mia misera stanza. Cappotto nero lungo, bombetta, sciarpa, di un’eleganza eccessiva, scintillante di diamanti, con pietre così grosse che accecavano. «Ragazzo», domandò il Duro, «che cosa ci fa un cervello come te in questa topaia? La chimica va forte, ragazzo. Potrebbe andare anche più forte, se i nostri fornelli non puzzassero così, e non si facessero scoprire dagli sbirri. Tu sei intelligente, un ingegnere, sei stato all’università. Parli tre lingue...» «Cinque», corressi io per qualche strana ragione. «Cinque e mezzo, se contiamo il siciliano». «Ok, ok. Tu conti le lingue. Io conto i soldi. Ecco qui diecimila e sono solo gli spiccioli». Mi lanciò un pacco di bigliettoni, legati da un grosso elastico. «No grazie», dissi io, e gli restituii il pacco. Poi lo accompagnai attraverso l’ingresso del motel, fino alla sua limousine nera, lunga come un intero isolato. «Non essere stupido», mi disse. «Ripensaci, possiamo fare venti e... una percentuale sugli affari. Io sarò al Saint Francis ancora due giorni». Quando tornai nell’ingresso, l’albergatore mi chiese se per caso qualcuno dei diamanti del mio amico non mi fosse scivolato in una tasca. Quando gli risposi di no, aggiunse: «Peccato, perché lei non ha più una stanza». Dopo aver passato la notte sul sedile posteriore di una Rolls Royce nel garage di un amico in Geary Street, mi alzai e m’incamminai verso Powell Street. Non avevo mai avuto così freddo. Non mi ero mai sentito così solo. Ero stato tanto arrogante da vergognarmi della mia famiglia di contadini, duri lavoratori, e ora sapevo di meritare il mio calice di amarezza. Mi fermai all’angolo e guardai verso Powell Street. Vidi il Fairmont Hotel, alto sulla collina, che coraggiosamente tratteneva la nebbia sulle sue spalle per impedire che crollasse sulla città. Un isolato più in là c’era l’Hotel Saint Francis, dove mi aspettavano un trafficante fuorilegge, e ventimila dollari. Era il momento della verità: la mia decisione sarebbe stata irrevocabile. C’era una parte di me che mi spingeva: «Accetta, incosciente. Prendi quegli sporchi ventimila. Vendi il tuo sapere, costruiscigli la distilleria. Pensa a te stesso. Tira fuori la mamma da quella fabbrica di olive, e Ann, così malaticcia, da quella squallida sartoria. Devi farcela, devi diventare l’eroe della tua famiglia». Eppure, tutto quello che io avevo sperato di diventare si ribellava a quest’idea: «Non ti sei ammazzato di fatica per raggiungere un titolo di studio e poi finire a produrre alcol per la mafia. I gangster danno ordini, ragazzo. Sarai uno di loro. Sei disposto a
questo? Sei disposto a vendere la tua libertà per del denaro sporco?» Già, ma il tizio del Geary Garage mi aveva detto che non avrei potuto più dormire nelle sue macchine. Ed ero stato chiuso fuori dalla mia stanza all’Hotel Eddy, almeno fino a quando non fossi riuscito a racimolare diciotto dollari. Un tram diretto verso Haight District passò cigolando sulle rotaie di Powell Street. Seguendo un impulso improvviso lo rincorsi aggrappandomi al corrimano quando il tram era già in corsa. Con molta eleganza, come tutti quelli che da piccoli hanno fatto il lavoro di distribuire i giornali, saltai sul predellino e mi issai dentro. Sul tram c’era solo il conducente, un uomo dal collo smilzo, che mi guardò alzando gli occhi dal giornale. «Fino a dove andate?», ansimai. «Fino al parco», disse lui un po’ stupito. «Bene. Forse succederà lì». Tirai fuori di tasca tutte le mie monete. «Che cosa succederà lì?» «Non so. Ma qualcosa deve succedere». Gli diedi i cinque centesimi. Mi restavano in mano dodici centesimi. Li buttai dalla porta del tram. Il pomo d’Adamo del conducente percorse su e giù il collo ossuto. Mi porse un giornale piegato. «Ecco qui. Questo annuncio è perfetto per qualcuno come lei. Legga». L’annuncio diceva: GRANDE SETTIMANA PER PAZZI SOGNATORI
Gli astrologi dicono che la posizione delle dodici case è favorevole ai sognatori e a quelli che vogliono rischiare. Quindi, per quelli di voi che credono nelle stelle (il gioco di parole è intenzionale), la casa di produzione Fireside ha annunciato che sta trasformando in uno studio cinematografico la vecchia palestra ebrea al parco Golden Gate. Sognatori, controllate il vostro oroscopo...
Studio cinematografico. Che cosa diavolo avrei potuto fare io in uno studio cinematografico? Ma se era per questo, che cosa avrei potuto fare, adesso, in qualunque posto? Deve essere un segno, comunque. Che cos’ho da perdere? Ci voglio provare. Facendo il venditore ambulante, avevo imparato il trucco di far sentire il compratore inferiore e deprivato; di fargli sentire che sì, lui respirava, ma non viveva davvero, a meno che non avesse comprato quel che gli stavo offrendo. Avrei visto che aria tirava alla palestra ebrea, avrei fiutato in giro fino a che fossi riuscito a dare l’impressione di essere superiore a qualcuno, e poi gli avrei venduto qualcosa. Mi fermai appoggiato a un palo del telefono per guardarmi intorno. Ero di fronte a una vecchia costruzione, larga e bassa, dall’intonaco giallognolo pieno di crepe. Un grosso arco di pietra incorniciava l’alto portale. Dovrebbe essere l’entrata, pensai, ma non c’erano numeri, né segni; non c’era anima viva, e nessuna macchina era parcheggiata lungo il marciapiede. Stavo per dirigermi verso l’altro lato della strada, quando qualcosa che volteggiava nell’aria, come un ectoplasma ondeggiante nella nebbia, si materializzò in un piccione. Andò a posarsi proprio sulla pietra centrale dell’arco del vecchio palazzo. Proprio sotto di lui, appena visibile, scorsi allora la sagoma scolpita della stella di Davide a sei punte. Entrai. Due occhi quadrati, immobili, luccicavano all’altra estremità di un corridoio scuro e vuoto. Mi resi conto che erano due spioncini di vetro su due porte di legno. Un altro raggio di luce sbucava attraverso una porta laterale aperta, correva lungo il pavimento del corridoio, e cercava di raggiungere la parete di fronte. Guardai dentro la porta da cui veniva la luce – un ufficio vuoto; manifesti di teatro sulla parete, scaffali; un vecchio tavolo con pile di riviste, tazze da caffè, mozziconi di sigaretta, avanzi di panini; una grossa caffettiera di ferro fumava su un piccolo fornello. Quel profumo riaccese i morsi della fame.
«C’è nessuno?», provai a chiamare timidamente. Nessuna risposta. Continuai fino alla fine del corridoio, e aprii una delle due porte. Un’enorme stanza. «La palestra», mi dissi. Ma una lampadina accesa, fissata su un piolo al centro della stanza, catturava lo sguardo. Nell’area illuminata vidi un uomo di grossa corporatura, con un lungo cappotto nero, che camminava avanti e indietro fra la luce e un semicerchio di sedie vuote, come se stesse silenziosamente provando un discorso. La sua lunga, grottesca ombra, proiettata sul pavimento, esagerava ogni suo gesto; lo seguiva al suo fianco, e poi ruotava di fronte a lui ogni volta che si girava. «Buongiorno, signore», dissi a voce alta. Lentamente e drammaticamente lui sollevò una mano sopra gli occhi per cercare di vedermi, nel buio. «Siete in vantaggio su di me, signore», rispose lui, con una voce da basso profondo, di quelle che fanno ondeggiare la fiamma delle candele. «Siete della stampa? È molto tranquillo qui oggi. È una festività ebrea». «Oh, no, signore. Vengo da Hollywood». Una piccola bugia non è gran cosa se non avete mangiato da parecchie ore. Ma l’effetto che ebbe su di lui non avrebbe potuto essere più grande se gli avessi detto: «Sono l’Arcivescovo di Canterbury». «Hollywood?», esclamò. «Bene, bene, bene. Non ho mai incontrato nessuno che venisse dalla Mecca del cinema». Stavo quasi per rispondergli: «Siamo in due», ma non lo feci. «Potete avvicinarvi, signore», e mi chiamò con un cenno regale, che, fatto da lui, sembrava del tutto naturale. «Spero di non disturbarla», dissi, accennando quasi un inchino. «Ho letto il vostro annuncio sul giornale di questa mattina, e dato che mi trovo qui per una breve vacanza, ho pensato... sì, insomma, mi è venuto il desiderio di passare di qua e di augurarvi buona fortuna per la vostra prima impresa... se sto parlando alla persona giusta, naturalmente». «Oh, sì, sono proprio io. Sono onorato e felicissimo. Mi chiamo Walter Montague. Forse avete sentito il mio nome. Nel teatro. Ho recitato Shakespeare», disse tendendomi la mano. Presi la sua mano e quasi ritrassi la mia, le sue dita erano così nodose e storte. «E io sono Frank Capra, signore. E sono sicuro che non mi avete mai sentito nominare». «Ah, ma mi succederà, sono certo. Ditemi, quale tipo di mestiere state esercitando a Hollywood?» «Oh, signor Montague, il mestiere che sta esercitando la maggior parte di noi. Imparare, signore, soltanto imparare. C’è così tanto da imparare». «Incantevole. Sì. E pensare che io qui soffrivo pensando, illusoriamente, che tutti voi di Hollywood foste solo dei fanfaroni. Fa sperare. Ma ci deve pur essere un particolare settore dell’arte del cinema a cui voi state pensando...» «Signore... se me lo permettete, quello a cui sto pensando in questo preciso momento è il profumo di quel delizioso caffè nell’altra stanza. Mi sta facendo impazzire». «Oh... che maleducazione da parte mia. Naturalmente, naturalmente. Ne prenderò una tazza anch’io. Ed è anche l’ora della mia aspirina...» Mi guidò verso la porta. «Vedete, ragazzo, soffro come Giobbe. L’artrite alle mani, sapete, è una maledizione». In quella stanza fredda e vuota, mentre ci scambiavamo frasi di circostanza bevendo il caffè, ebbi la deprimente sensazione che quell’eccentrico attore shakespeariano non doveva avere nelle sue logore tasche più denaro di quanto ne avessi io. Sembrava il paggio di un re caduto in disgrazia. Il suo abbigliamento era così studiato per fare effetto che quasi mi aspettavo portasse i calzini rossi. Guardai. Era proprio così. Bene, pensai, conviene prendere ancora un po’ di torta. Potrebbe essere una lunga giornata. In ogni caso, mi dissi, prova a fare un accenno al denaro e poi lascia perdere
questo espansivo signore. «Signor Montague, ardo dalla curiosità. Quanto... ehm... quanto costerà il vostro primo lavoro, signore?» «Eh, mio caro collega», rispose tirando fuori goffamente un’altra aspirina da una scatolina d’ottone, «sebbene sia io stesso a dirlo, pochi mi eguagliano nel mio genere di brevi rappresentazioni drammatiche: scene famose dai classici: Shakespeare, Čechov, Poe. Ma da mesi alcuni amici e colleghi d’affari mi esortano ad allargare il mio campo. “Walter”, mi dicono, “devi trasferire il tuo talento dal teatro di varietà allo schermo del cinema, e noi ti finanzieremo”». La parola «finanziare» riattizzò qualche speranza. «L’audacia di tale presunzione mi ha ossessionato come un vino inebriante», continuò, declamando. «L’ho ponderata, rimuginata, mondata dalla pula, tagliato via le scorie della vanità per poter raggiungere la bellezza della verità. “Walter Montague”, ho chiesto a me stesso, “è questo un sogno folle? O tu davvero puoi, alla tua età, esprimere il tuo genio artistico attraverso un nuovo medium?” “Sì, Walter”, la mia voce interiore ha risposto enfaticamente. “Sì! Il cinema non è un nuovo medium. Che differenza c’è se l’arte della scena è osservata dai molti occhi degli spettatori, o dall’unico occhio della macchina da presa? E sempre TEATRO!” Siete d’accordo, signor Capra?» Gli intensi occhi neri mi fissavano al di sopra del suo dito puntato. «Signore, sono affascinato. Ma...» Questo è partito all’attacco, non la smetterà più di parlare. Farei meglio a costringerlo a parlare di soldi «...Scusate la mia impertinenza, signor Montague, ma a Hollywood il ritornello dei soldi è il nostro costante mal di testa. Avete una totale copertura finanziaria?» «Ragazzo», disse, tirando indietro la testa per potermi guardare dall’alto in basso, «Nel teatro di varietà è conosciuta come la Legge di Montague: “Lo spettacolo c’è, se ci sono i ducati!” Quindi sì, il finanziamento è in banca, che aspetta il segno della mia penna». «Congratulazioni!», esclamai, cominciando a sentire il profumo del denaro. «Lo spettacolo c’è, se ci sono i ducati! Mi piace! Posso citarla a Hollywood?» «Certamente, certamente. Bene, allora, dopo aver risolto quel blocco mentale riguardo al cinema, arrivai a un’altra importante decisione: non adatterò me stesso al cinema, NO! Adatterò il cinema a me». [È di nuovo partito per la tangente!] «E così, col favore delle muse, mi sono avventurato verso quella che potrebbe diventare una nuova forma di arte cinematografica: dagli enormi tesori dei poemi classici, scegli i più drammatici. Comprimi ogni poema in dieci minuti d’azione – in una bobina, dite così? Sì. E usa quei versi d’oro come didascalie, sovrapposti all’azione. Quelle parole inestimabili, da sole, nutriranno la fame di bellezza che è negli essere umani. Mi state seguendo, signore?» «Oh, sì. È eccitante». (E ora fatti sentire un poco superiore). «Avete mai fatto un film, signor Montague?» La sua tazza di caffè traballò mentre la posava sul tavolo. Avevo colto nel segno. «Nooo, non ancora. Ma io intendo innovare, ragazzo, non imitare. A Hollywood, voi muovete la macchina da presa, e non gli attori. Questo è un errore! Forse che l’uomo seduto dal lato del corridoio, nella seconda fila della sezione intermedia della platea, si muove durante un intero spettacolo?» Sembrava infilzare ogni parola col suo dito puntato. «NO! E così dovrebbe fare la macchina da presa! Io inchioderò la mia macchina in un punto preciso. I miei attori reciteranno il poema, lungo dieci minuti, senza un’interruzione. E la macchina da presa fotograferà l’intera rappresentazione, esattamente come l’uomo seduto in platea vedrebbe l’intera rappresentazione». Si fermò, lanciandomi uno sguardo acuto e interrogativo. «Qualcosa che non va in questo, mio giovane amico di Hollywood?» Sapevo che da qualche parte, nella sua descrizione, c’era qualcosa che non andava, ma la mia
abissale ignoranza di tutto ciò che era palcoscenico o cinema mi teneva in trappola. Ricordavo che al Caltech (è strano come una cosa imparata a scuola, qualunque tipo di cosa imparata, possa poi tornare utile nei momenti più disparati), mentre facevo ricerca sulle emulsioni fotografiche, avevo imparato alcuni dettagli accademici sulle macchine da presa, che avevo da lungo tempo dimenticato. Ma decisi di correre il rischio, lanciando al vecchio gentiluomo una palla alta e veloce, proprio sulla sua testa. «Signor Montague, non vorrei dirlo... ma c’è eccome qualcosa che non va nella vostra nuova tecnica». «Dite davvero?», esclamò, visibilmente abbattuto. «Sarà impossibile per i vostri attori recitare senza interruzione per dieci minuti». «Impossibile? L’ho fatto io stesso innumerevoli...» «Non per voi, signore, non per voi, per la macchina da presa. La macchina da presa non può tenere abbastanza pellicola da girare per dieci minuti». Si sedette pesantemente, afferrando meccanicamente il suo portapillole per un’altra aspirina. Io bevvi un sorso di caffè, con aria distratta, sapendo che lo tenevo sulla corda. Un’altra raffica di dettagli tecnici lo avrebbe finito. «Vedete, signor Montague, se fissate la macchina da presa in un punto, e la ricaricate di pellicola ogni pochi minuti, gli attori devono fissarsi nelle loro posizioni, perfettamente immobili come statue di cera, per il tempo occorrente a sostituire la pellicola, e questo è fisicamente impossibile. Ma poniamo che voi muoviate la macchina da presa alla maniera di Hollywood. Dove, come, e quando muovere la macchina da presa è una tecnica che può solo essere imparata in anni di esperienza». Mescolai quel che era rimasto del mio caffè, e bevvi l’ultimo sorso con noncuranza. Gli occhi di quel buon uomo erano vitrei; il suo mento era caduto più in basso. Era stato battuto. «Pensi alla luce, per esempio», continuai. «La densità della luce dal viso dell’attore alla macchina da presa varia in misura proporzionale al quadrato della distanza. Questo significa un’equazione matematica diversa per ogni inquadratura, e... Oh, ma io vi sto facendo perder tempo, signor Montague», dissi alzandomi. «Grazie per il caffè, e per l’interessantissima conversazione. Vi auguro buona fortuna, signore». Mi fissò senza dire nulla. Lo salutai e mi voltai per andarmene. Questo era il momento della verità. Se mi avesse lasciato uscire da quella porta era finita. Come scusa per un possibile ritorno, lasciai sul tavolo il mio giornale ripiegato. Raggiunsi la porta, per guadagnare tempo finsi di incamminarmi verso la direzione opposta, poi mi girai verso l’uscita. «Signore!», la sua voce rimbombò. Tornai sulla porta. «Mi avete chiamato? Ho dimenticato qualcosa? Oh, il mio giornale. Mi dispiace». Prendendo il giornale sorrisi, e di nuovo feci per andarmene. «Avete detto che siete qui in vacanza?» Finalmente la domanda che aspettavo. «Solo per alcuni giorni, sì». «Ragazzo, vorreste prendere in considerazione, voglio dire, solo fra noi potreste trovare il tempo di aiutarmi nella preparazione del mio primo lavoro?» (Gran giorno!) «Oh, signor Montague, ci sono persone molto più capaci di me...» «Quanto chiedereste per alcuni giorni?» Un momento, mi dissi. Sono stato fortunato fin qui, ma corro un grosso rischio. Accettare soldi in modo fraudolento potrebbe spedirmi in galera. «Non potrei accettare nessuno stipendio da voi, signore», buttai lì con un sorriso. «Sono già impegnato in un contratto». «Forse potremmo chiamarlo un onorario. Un contributo per la vostra vacanza... diciamo,
settantacinque dollari?» Ebbi quasi un collasso. «Ho bisogno del vostro aiuto, figliolo; ne ho davvero bisogno, come sapete. Nel nome stesso del teatro, dite che accettate...» «E va bene, signor Montague. Potete contare sul mio aiuto nella misura in cui il tempo e le mie incompetenze lo permetteranno». «Bravo!», esclamò, balzando in piedi per stringermi la mano.«Voi sapete che cosa sia lo spirito di gruppo. Qui, se solo riesco a trovarlo», diceva cercando in mezzo al disordine sul suo tavolo, e tirandone fuori un piccolo libretto foderato di rosso, «è qui. Il nostro primo poema: Fultah Fisher’s Boarding House di Rudyard Kipling. Le piacerà. E ora, dov’è il mio libretto degli assegni?» Incominciavo a sfogliare le pagine di quel piccolo libro, quando improvvisamente mi ricordai di non avere i soldi per il tram. «Signor Montague, un piccolo favore. Chiamatela pure superstizione, assurdità. Ma ogni volta che ricevo un assegno per un nuovo film, chiedo cinque centesimi in più. Mi porta fortuna, credo. È sciocco, non vi pare?» «O, no, ragazzo mio. È nella tradizione del teatro. Naturalmente, naturalmente. Un portafortuna. Non indovinereste mai il mio». Aprì la mano. Stringeva un pezzettino di pizzo sfilacciato. «Un pezzetto del vestito da sposa di mia madre. Me lo diede la prima volta che recitai in teatro. Da allora, ogni volta che aspetto che si alzi il sipario, lo stringo in una mano. Lo tenevo stretto anche adesso, mentre vi chiedevo di aiutarmi. Vedete, ha funzionato. Ora, ecco il vostro talismano...» Tirò fuori una moneta da cinque centesimi, la mise nella mia mano, vi chiuse sopra le mie dita, e disse: «Possiate sempre sfruttare la marea al momento più opportuno. E ora, il vostro assegno...» «Tutto finisce bene», mi dicevo sorridendo, mentre buttavo nel mio sacco i vestiti finalmente avuti indietro. E avevo ancora abbastanza soldi per arrivare fino a Reno, e magari tentare la fortuna giocando a poker. Non dimentico niente? Mi toccai le tasche... ehi! Il libricino rosso di Montague... Ballad of Fultah Fisher’s Boarding House... un bel titolo... dovrei leggerlo... gli devo almeno questo... È un bel melodramma, senza dubbio. Una taverna di Calcutta... un buco d’inferno... due marinai fanno a botte per una prostituta... Dane dagli occhi blu muore... La prostituta fruga fra le sue cose... trova un crocifisso... diventa religiosa, cambia vita. Via! Così in fretta?... È un insulto all’intelligenza. Vai a vedere un film. Al cinema Golden Gate, in Market Street... balconata. Vedo Lo sceicco... Campi lunghi, primi piani, grosse teste che riempiono lo schermo... donne truccate come bambole... uomini che sembrano omosessuali... finte parrucche, finte barbe... Cristo, io non lo farei mai. Rivedo il film... lo rivedo ancora. Cammino per le strade di San Francisco, la città dei sogni. La città delle colline, e dell’odore del mare, e delle battaglie, fatte con coscienza. È l’una di notte. Ho fame. Sono stato in quel teatro per quasi dodici ore. Nella mia testa le immagini dello Sceicco si confondono con la lotta a coltello nella taverna di Calcutta. La mattina dopo vado direttamente all’ufficio di Montague. Lui stava accompagnando alla porta una giovane donna. «Va bene, cara. Torna domani e potrai leggere per me... Bene, bene, ragazzo. Entra, entra. Vi siete piaciuti tu e il grande Kipling? Quella giovane signora vuole recitare la parte della ragazza. Ha detto che ha recitato ruoli da protagonista per la Universal...» «Signor Montague, per favore, sedetevi. Devo dirvi alcune parole...»
«Naturalmente, naturalmente». Si sedette. «Ecco, signore. Voi mi avete pagato una certa somma per aiutarvi a preparare il vostro primo film. Sono stato sveglio tutta la notte. Ho un’idea per voi. Io ve la do, e poi parto. Siamo pari. D’accordo?» «Non sono sicuro di capire, ma andate avanti». «Bene. Punto primo. Signor Montague, che lo vogliate o no, voi avete immaginato un nuovo tipo di cinema; ammesso che voi conserviate quella novità con qualcosa di diverso, fresco, audace. Eccezion fatta per un operatore, non usate tecnici che abbiano già lavorato professionalmente su un palcoscenico o in un studio cinematografico. Kipling ha bisogno dell’entusiasmo fantasioso del dilettante, o meglio, usando le vostre parole, di innovatori, signore. Menti libere, giovani, non ancora intralciate dagli sciocchi tabù di quel che è già stato provato e verificato». Le mie parole mi stupivano. Che cosa stavo cercando di dire? Comunque sia, finisci e scappa. «Il mio secondo punto è ancora più audace», continuai, coinvolto dal mio stesso entusiasmo, «un concetto di arte che sfida tutti gli dei della banalità. Avrete bisogno del fegato di un ladro, signor Montague, ma questo potrebbe fare di voi la notizia del momento nel mondo del cinema. Niente trucco, signore... niente parrucche... niente barbe finte... e nessun ATTORE! Andate al porto. Prendete marinai veri: sporchi, sudati, sudici, ma veri! Mettete Kipling sullo schermo, con Montague, non pagliacci incipriati della Universal. Volete una puttana? La Barbary Coast è piena di puttane. La plebaglia nel bar di Kipling deve puzzare di sudore, di alcol, e di bassezza. Realtà, signore, non finte bambole dipinte. Il primo regista con abbastanza coraggio da offrire al pubblico la realtà. Oh, stupido! Perché mi sto scaldando tanto? Comunque, mi avete pagato per un progetto? Siamo pari. Addio». Volai via dal suo ufficio, agitato, irritato, e ribollente di entusiasmo per qualcosa di cui non sapevo assolutamente nulla. «Ragazzo! Ragazzo!», chiamò Montague, inseguendomi. Ma ero ormai fuori dalla porta, e quasi correvo lungo il marciapiede. «Fermatelo! Fermatelo!», Montague gridò a due uomini che stavano lavando una finestra. Questi mi afferrarono e mi tennero con forza. Venendomi incontro con le braccia aperte, Montague mi abbracciò calorosamente. «Ragazzo, Frank... Tu devi mettere in scena il poema di Kipling!» «Io?» «Sì, sì. Tu hai l’idea, l’entusiasmo, la tecnica... straordinario! Straordinario! Audace! Sono d’accordo con ogni tua parola. Fai il primo film per me. Sfrutta la marea! Io sarò vicino a te, per incoraggiarti, per imparare. Oh, il Cielo benedica questo grande giorno...» Ero stato messo in trappola dal mio stesso inganno. Preso dall’entusiasmo, eppure terrorizzato dal rischio di essere smascherato, stavo nella luce del riflettore che io stesso avevo acceso. Solo il desiderio di avventura e la terribile incoscienza dell’ignorante potevano farmi pensare che ce l’avrei fatta. L’incoscienza, e il mio asso nella manica: un operatore, Roy Wiggins, che avevo incontrato quando mi era stato assegnato il compito di fotografare l’Osservatorio del Monte Wilson. Il Caltech mi aveva messo in contatto con quest’uomo. Eravamo diventati amici, eravamo usciti insieme con un paio di ragazze. Sapevo che potevo fidarmi di Roy. Se potevo assumere lui ce l’avrei fatta; lui mi avrebbe insegnato tutto su come girare un film. Lo convinsi a raggiungermi, e poi lo portai al Marquard, un night club elegante. Gli raccontai tutto mentre cenavamo, e conclusi esclamando: «Non è eccitante, Roy?» «Mi sembra pazzesco», disse lui semplicemente. «Ma questo riguarda te. Quello che sto cercando di capire è perché mi hai chiamato». «Perché tu mi insegni che cosa fare con gli attori, come dirigerli, dove metterli...»
«Io? Io non ho mai visto nessuno dirigere degli attori. No sono neanche mai stato in uno studio». «Che cosa?» «Io sono un cameraman di cinegiornali. So girare alla luce del sole, ma le luci dello studio, per me quello è arabo». Non è possibile! Montague conta su di me che non ho mai visto uno studio, e io conto su questo tipo che non è mai stato dentro uno studio. Questo è davvero il cieco che guida un cieco che guida un altro cieco. «Va bene, Roy, va bene». Stavo respirando intensamente pensando ancora più intensamente. «Ma posso fidarmi che tu tenga la bocca chiusa per quanto riguarda me?» «Finché parleranno i tuoi soldi, io non parlerò». «Bene. Avrai la tua paga, in anticipo. Ma tu dovrai chiamarmi signor Capra. Io sono il pezzo grosso, capisci? Tu farai a me tutte le domande, è chiaro? A nessun altro. Io ti dirò dove mettere la macchina da presa, io illuminerò gli attori, io farò tutto. E tu dovrai solo dire “Sì, signor Capra”, e non contraddirmi mai. Hai capito bene?» «Sì, signor Capra». «Oh, bastardo», risi io. «Finiamo questa birra. Vuoi incontrare una delle ballerine?» «Oh, sì, signor Capra». La settimana successiva fu come una lunga corsa sulle montagne russe, senza respiro. La notte sudavo sulla «sceneggiatura», scrivendo sui fogli di carta intestata dell’hotel, cercando di visualizzare il poema di Kipling, di vederlo messo in scena con personaggi vivi, scrivendo e riscrivendo abbozzi, note, appunti. «E la fotografia?», mi domandai. L’operatore aveva detto che lui non era Rembrandt, la battuta dell’anno. Va bene. Io copierò Rembrandt. Illuminerò i miei autori usando una sola sorgente di luce, realistica; dipingerò con la luce come Rembrandt con il colore. Potrò fallire, ma almeno parlare di Rembrandt mi farà sembrare un professionista. Durante il giorno, correvo per la città, a prendere in affitto appartamenti, luci, materiale cinematografico. Mi imbattei nel proprietario di un carrozzone viaggiante che sosteneva che lui e la sua «troupe» potevano costruire a poco prezzo, e «ben fatta», una scenografia per la taverna. La mia paura più grossa era quella di assumere qualche professionista che mi potesse smascherare come imbroglione. «I vostri uomini sono professionisti?» «Amico, la gente “del circo” non fa domande e non risponde. Affare fatto?» «Affare fatto». Percorsi le bettole del porto in cerca di «tipi»: derelitti con una gamba di legno, con le orecchie mozzate; butterati dal vaiolo, coperti di cicatrici; ruffiani dalle origini più strane, bianchi, neri, gialli; albini e pezzati. Ma feci un buco nell’acqua con le prostitute della Barbary Coast. La loro risposta più comune fu: «Dieci dollari al giorno? Vai a farti un giro, amico. Quelli li faccio in un’ora». Ma conoscevo una ballerina del Will King, prosperosa, sexy, ingenua, non avrebbe saputo distinguere un uomo di Hollywood da un uomo di Neanderthal. Ebbe la parte principale. Fare un film a San Francisco faceva notizia; la stampa avrebbe potuto farmi fuori. Chiesi a Montague di proteggermi dalla pubblicità per via del mio contratto a Hollywood, e per proteggere i miei attori non professionisti da visitatori imbarazzanti. «Lascia la stampa a Montague. E non avere paura. Affiggerò davanti allo studio la scritta: ASSOLUTAMENTE NIENTE VISITATORI! Brillante! Questo ecciterà l’interesse del pubblico». Buon vecchio Montague. E venne il giorno della prima «ripresa». La taverna era perfetta, annebbiata dal fumo come avevo ordinato, e puzzolente di birra sulla segatura. Gli «attori», sparpagliati intorno, con le bocche
aperte dalla meraviglia, erano così turpi che Kipling li avrebbe amati. Avevo in testa ogni singola scena, e l’avevo abbozzata nel mio taccuino; campi lunghi, campi medi, primi piani, tutti in ordine cronologico. Un Montague impomatato mi prese la mano, augurandomi buona fortuna. «Scena numero uno!», gridai, dando a Roy, l’operatore, la mia prima bozza. «Sissignore, signor Capra». Preparò la macchina da presa, mentre io raggruppavo gli «attori», dando a ognuno qualcosa da «fare» dopo aver detto loro che stavano benissimo. «Signori, voi siete marinai dei bassifondi in una vera bettola dei bassifondi di Calcutta. Ora, in nessuna bettola al mondo ci sono registi, macchine da presa, elettricisti o luci, giusto? Ma se durante un ripresa guardate la macchina da presa o me, voi ci dite che questa bettola è finta. E se voi ci dite che questa bettola è finta, io metterò della birra finta nei vostri bicchieri per il resto della giornata». «No! No! Non vogliamo birra finta», gridarono gli «attori». Montague mi sussurrò all’orecchio: «Bravo, maestro!» Roy gridò: «Pronti per controllare la macchina, signor Capra». Ci sono uomini, e c’è il loro momento. Lincoln incontrò il suo a Gettysburg; Orazio Coclite al ponte; Galileo seduto in chiesa, osservando il ritmico ondeggiare del pendolo. Bene, io non so se incontrai il mio «momento» quando per la prima volta guardai attraverso il foro di quella macchina da presa e vidi la prima scena del mio film. E tuttavia so che ebbi l’attacco di pelle d’oca più forte della mia vita, e un’eccitazione che mi scosse dalla testa ai piedi. Non potevo smettere di guardare. È passato mezzo secolo e i miei occhi sono ancora fissati a quel foro, sempre più affascinati dalle meraviglie che rivela. Ballad of Fultah Fischer’s Boarding House2 ebbe la sua prima allo Strand Theatre di Broadway il 2 aprile 1922. Era un film di un solo rullo, diretto da un ingegnere chimico, girato da un operatore di cinegiornali, senza attori, e costato settecento dollari. L’accoglienza fu sorprendente. Brani dalle recensioni: Ballad of Fultah Fisher’s Boarding House, uno speciale tratto da Kipling, è stato presentato il 2 aprile allo Strand. Rende ragione di tutte le aspettative suscitate [...] il film è un vero tributo al genio di Kipling [...] attenzione estatica [...] tutti gli occhi fissati sullo schermo fino alla parola «fine» [...] applausi spontanei [...] i personaggi del porto rappresentati mirabilmente.
Un cortometraggio fuori dal comune [...] le scene tutte intensamente drammatiche [...] la recitazione è convincente [...] il film ha dignità, bellezza, e forza [...] incontrerà certamente il favore del pubblico. Quelle recensioni mi lasciarono stordito; mi sembrava di camminare fra le nuvole, in una terra di sogno. «Il film ha dignità, bellezza e forza», aveva scritto il critico. Quella pazzia con Montague, un piccolo imbroglio per spillargli qualche soldo, si era improvvisamente trasformato in uno strano successo. Sembrava tutto assurdo, soprattutto dopo che un rappresentante della Pathé vide il cortometraggio finito. Rimase esterrefatto, spedì il film a New York, da cui ci ritornò un assegno di 3500 dollari (un profitto superiore al cento per cento) e un contratto per altri dodici cortometraggi di quel tipo. Ero talmente stupito, come se avessi improvvisamente scoperto che potevo volare. Montague no, lui volava davvero; sfoggiava addirittura un elegante collo di pelliccia nuovo la sera che mi portò a pranzo sulla terrazza del grattacielo del Palace Hotel, e mi presentò una lista di opere in poesia dalla quale dovevamo scegliere il prossimo film. Ma dovevo fargli la mia confessione. «Signor Montague, io vi ho mentito. Io non so niente di cinema. Io non ho mai...» «Lo so. Non sei mai vissuto a Hollywood. Eri stato sbattuto fuori dall’Hotel Eddy. Dormivi nei
garage e lavoravi per una compagnia che vendeva azioni minerarie di nessun valore. Uno dei miei finanziatori, un avvocato prudente, aveva raccolto informazioni su di te. “È interessante”, gli ho risposto io, «ma non importante”. Artisti si nasce, e l’arte ha le sue proprie regole. Io ho creduto nel tuo spirito d’iniziativa, nel tuo entusiasmo, nell’audacia delle tue idee innovatrici, e non nel tuo dossier di disgrazie. Tu hai dimostrato che avevo ragione». Dato che era al settimo cielo, sarebbe stato impossibile scoraggiarlo con un mio rifiuto a continuare a fare i suoi film. Estatico, spensierato, incominciò a parlare di un altro poema, The Village Blacksmith, e se ne andò lasciandomi il conto da pagare. Ma la mia breve esperienza nel meraviglioso mondo del cinema mi aveva incantato con le sue magie. Avevo strofinato la lampada di Aladino, avevo assaggiato la droga della creatività, ero stato catturato. «È forse un sogno folle?», chiesi a me stesso, alla maniera di Montague. La mia anima razionale rispondeva: «Sì, lo è. La tua strada è la scienza, non i miracoli». Eppure... «Il film ha dignità, bellezza e forza», qualità artistiche che suscitano emozioni. Bene. Gli incidenti succedono, come le mutazioni casuali in biologia. Ma ora lascia perdere Kipling. Una cosa però aveva davvero del miracoloso: milioni di persone stavano andando a vedere quello strano cortometraggio, girato da un principiante, e si divertivano. Sì, ero stato accalappiato. Ma ce l’avrei fatta come regista? Mio Dio, questo davvero avrebbe mandato in estasi la mia famiglia. Fu questo pensiero che mi fece decidere. Vai, ragazzo, vai! Impara tutti gli arnesi del mestiere, quelli con cui spaventasti Montague, perché lui non li conosceva. Comincia dall’inizio, dalla celluloide. Sì, ma dove? Il laboratorio di cinema che Walter Ball mandava avanti da solo in Howard Street era un posto pulito, impegnativo ed efficiente, proprio come l’uomo che lo dirigeva. Chiesi a Walter di prendermi come apprendista in cambio di vitto e alloggio. Per tutto l’anno e mezzo seguente mangiai, dormii e sognai celluloide; sviluppandola, stampandola, facendola asciugare e incollandola. Ball lavorava per cinegiornali, film pubblicitari e documentari girati da dilettanti. Io mettevo insieme questi film in forma di storie, e incominciavo a imparare una delle più entusiasmanti e importanti tecniche cinematografiche: il montaggio, un’arte nuova quanto il cinema stesso. Una dozzina di scene possono essere montate in migliaia di combinazioni diverse ma solo una o due costruiranno una «storia». Ecco un esempio. Un professore di Berkeley, padre orgoglioso, portò un giorno una ventina di inquadrature girate a manovella durante una mostra canina, alla quale concorreva anche il bastardino di sua figlia, una bambina di dieci anni. Misi insieme le scene in ordine cronologico: l’arrivo dei cani, i giudizi della giuria, i vincitori, i vinti. La sequenza che ne risultò era lenta e noiosa. Avevo bisogno di una storia, di un punto d’osservazione. Rimontai le scene dal punto di vista del cane vincitore: meglio, ma pericoloso. Allora misi insieme le scene dal punto di vista della ragazzina, il cui cane era stato eliminato dalla gara. Il film prese vita, un’esplosione di lacrime e risa. Stavo scoprendo un altro assioma nel mestiere dello spettacolo; quello che più interessa la gente è la gente. Il mio apprendistato nel laboratorio durava da appena un anno quando il signor Ball ricevette un’offerta di lavoro molto interessante: si trattava di sviluppare e stampare le riprese giornaliere per Bob Eddy, un regista comico di Hollywood, che stava facendo una serie di brevi commedie con Dan Mason, famoso per Toonerville Trolley. Bob Eddy stava girando a Belmont, una cittadina a venti miglia circa da San Francisco. Una sera, mentre Eddy stava guardando un suo film nella nostra sala di proiezione, ci disse che il suo trovarobe si era tagliato tre dita con una sega elettrica, e chiese a Walter Bail se non
conosceva qualcuno lì in città che lo potesse sostituire. «Potrei farlo io, signor Eddy», mi feci avanti subito, senza neanche sapere quale fosse esattamente il lavoro del «trovarobe». Bob Eddy guardò interrogativamente Walter. «Frank può fare qualunque cosa, Bob», rispose Walter, dando una boccata al suo sigaro. «Bene, mi serve qualcuno fino a che mi manderanno un sostituto», disse il regista. «Il pulmino parte dall’Hotel Palace alle cinque e mezzo. Fatti trovare là». Un trovarobe, appresi subito, deve essere un mago che tira fuori oggetti dal suo cappello magico; oggetti come mobili, giocattoli, riviste, sigarette, vasi, fiori, filo spinato, cavalli, gatti, tacchini cotti. Il suo baule è un vaso di Pandora pieno di arnesi, filo elettrico, colla, parrucche, spille da balia, distintivi, targhe di automobili, kit di pronto soccorso. Deve riuscire a tirar fuori l’impossibile, senza perdere un minuto di tempo, ed essere in grado di correre i cento metri in dieci secondi netti, carico di attrezzi. Il mio compito più difficile era quello di badare a Eight-ball, un cavallo bianco di vent’anni, testardo come un mulo, che era uno dei personaggi delle commedie. Era stato chiamato Eight-ball («Palla-otto») perché l’avevano castrato solo a sette ottavi – abbastanza per portargli via l’aggressività, ma non le sue voglie, e questo te lo faceva pagare! Più di una volta il pulmino della troupe se ne andò senza di me, ancora alle prese con Eight-ball, che non ne voleva sapere di tornare nella stalla. Questo voleva dire che poi dovevo tornare in città facendo l’autostop, oppure, se ero troppo stanco, che fermarmi a dormire nel box vicino a quello del cavallo. In quelle notti lunghe e difficili, venivo assalito dai pensieri più tristi. Cosa diavolo ci facevo lì, in quel luogo fetido, a prendere freddo sotto una coperta che puzzava di sudore e di ammoniaca? Cosa avrebbero detto i miei fratelli se avessero visto il «ragazzo prodigio» sopra un mucchio di letame? Cosa avrebbe pensato il professore Millikan, premio Nobel e presidente dell’università al Caltech, di uno dei suoi migliori studenti... al quale aveva detto: «Frank, tieni a freno la tua immaginazione, e andrai lontano». O il famoso professor Arthur Noyes, del MIT, direttore del Comitato di consulenza scientifica del presidente Wilson, che mi aveva scelto per fare una ricerca su un liquido infiammabile che avrebbe annullato l’effetto delle maschere antigas del nemico – come sarebbe stato stupito di vedere ridotto così uno dei suoi protetti, a cui aveva scritto: «Congratulazioni per la brillante ricerca, di enorme importanza per lo sforzo bellico. I miei personali ringraziamenti...» Allora, che cosa ci facevo lì, in quella squallida Belmont, al freddo sulla paglia umida? Stavo imparando il mestiere della nuova, grande arte del cinema. E come? Correndo dietro a un cavallo decrepito; manovrando fili per levare il cappello agli attori; tirandogli le torte in faccia, da dietro la macchina da presa, calcolando esattamente il tempo perché la torta colpisse l’attore proprio mentre lui girava la testa verso la macchina, così che non chiudesse gli occhi vedendola arrivare. Il mestiere? L’arte? Ma... «Il film ha dignità, bellezza e forza...» Ebbene, il cavallo ce l’hai, ora procurati una lancia e vai ad attaccare i mulini a vento... Se sei un trovarobe, sei abituato a correre quando il regista ti chiama – anche se è domenica, e anche se quell’operatore ficcanaso è riuscito a rintracciarti nel tuo nido d’amore, dove, sorseggiando caffè seduto nel letto, ti sentivi un sultano. Quando aprii la porta del laboratorio di Ball e udii la voce di Bob Eddy che risuonava sulle scale: «Maledetto questo aggeggio!», mi sentii mancare il fiato. Non l’avevo mai sentito imprecare prima d’allora. Corsi su per le scale nella sala di montaggio. Il regista era là, con la camicia bagnata di sudore, che imprecava e spingeva con foga il pedale della tagliatrice, mentre pezzi di pellicola scivolavano da tutte le parti.
«Frank, vieni qui!», urlò, succhiandosi un dito insanguinato. «Sai far funzionare questa maledetta macchina?» «Certo, signor Eddy. Date qua, lasciatemi mettere insieme queste scene; ma non tirate indietro la sedia finché non ho raccolto la pellicola. Siete in un bel pasticcio. Ma dov’è Peanuts?» («Peanuts» Yale era il suo addetto al montaggio.) «Avrebbe dovuto montare la sequenza finale questa mattina. Gli ho fatto una scenata, così si è alzato e se n’è andato», disse cercando di togliersi di dosso i pezzi di pellicola. «Lo studio aspetta la prima parte a Hollywood domani mattina! Dove diavolo è Walter Ball? Non risponde neanche al telefono». «È domenica, signor Eddy. Neanche il Papa può costringere Ball a lavorare di domenica». «Domenica! Domenica! Per cinque volte ho chiamato lo studio per chiedere un altro montatore». Si mosse con uno scatto e afferrò il telefono. Anche il mio cuore ebbe uno scatto, e mi salì in gola. «Signor Eddy! Lasciate fare a me il montaggio della sequenza finale... Vi assicuro che domani mattina il film sarà a Hollywood». Mi guardò con uno sguardo acido che diceva: «Oggi è proprio uno di quei giorni...» «...Pronto? Pronto? Signorina, provi ancora lo 0301 di Hollywood, per favore». «Senta, signor Eddy. Io ho tagliato e montato film per un anno in questo laboratorio. Conosco a memoria la sequenza finale, e so dov’è il film. Qualche volta ho aiutato Peanuts, di notte...» «Pronto? Non risponde ancora? Che vadano all’inferno... scusi, signorina». Riattaccò, buttò fuori una serie di parolacce, e si fermò a osservarmi. «Ma tu sei soltanto un trovarobe. Che cosa ti fa pensare che saresti in grado di fare un montaggio, ci vogliono anni di apprendistato...» «Signor Eddy, sto solo cercando di darvi una mano. Volete il film a Hollywood per domani? Bene. Tornate questa sera subito dopo cena e vi mostrerò quello che sarò riuscito a fare. Se vi piace, lo possiamo mandare a Los Angeles col treno delle nove». Quella domenica sera, alle otto e quarantacinque, eravamo in un taxi che correva verso la stazione, scongiurando l’autista di arrivare in tempo per il rapido delle nove. Il regista aveva visto il mio montaggio, ma non aveva detto una parola. Alla stazione lo lasciai nel taxi e, stringendo la scatola del film fra le braccia, mi misi a correre come un disperato, e raggiunsi il binario proprio mentre il controllore stava urlando: «Tutti in carrozza!» Raggiunsi il vagone postale, alla fine del treno, un attimo prima che chiudessero la porta del vagone. «Ce l’abbiamo fatta», dissi ansimando a Bob Eddy quando ritornai al taxi. Lui non batté ciglio. «Portaci da Leoni», ordinò all’autista. Per alcuni minuti nessuno parlò. Mi appoggiai all’indietro con gli occhi chiusi, troppo sfinito per preoccuparmi della sua reazione. «Hai mangiato qualcosa, oggi?», domandò. «No, ma non importa. Prenderò qualcosa all’albergo». «Frank, non so come ringraziarti senza sembrare ridicolo. Hai montato quella sequenza finale davvero bene, e mi hai tirato fuori da un grande pasticcio con lo studio. Stasera voglio offrirti una cena nel migliore ristorante della città, brindare col migliore champagne, e comprarti il vestito più bello che tu abbia mai avuto. E d’ora in avanti potrai lavorare al montaggio dei miei film. Ok?» Aveva detto tutto questo senza guardarmi. Io cercai di mandare giù il groppo che avevo in gola, ma invano. «Mio Dio, signor Eddy...», fu tutto quello che riuscii a dire. Così fui introdotto nel circolo degli «intelletti creativi»; quell’élite che, attraverso i secoli, ha influenzato la storia dell’uomo più di tutti i re e di tutti i generali messi insieme. Vi entrai quasi di soppiatto, come l’ultima ruota del carro, un addetto al montaggio di banali commedie.
Seduto in quel buco che era la sala di montaggio del laboratorio di Ball, mentre facevo scorrere avanti e indietro le scene dei film nell’ingranditore, sudando sull’ordine da dare alle sequenze, mi resi conto che stavo componendo. Non era musica, né letteratura. Mi esprimevo in un linguaggio nuovo, potente – il CINEMA – un esperanto che tutto il mondo era in grado di capire, un linguaggio che parlava direttamente al cuore e alla mente dell’uomo, dalla Siberia alla Patagonia, senza bisogno di parole. La mia lunga storia d’amore con il cinema era cominciata, con una luna di miele in quella piccola, vecchia sala di montaggio nel laboratorio di Ball. E la mia bussola, che fino a quel momento aveva vorticato come impazzita, si stava assestando con un tremolio nervoso: puntava verso Hollywood. Lavorai al montaggio di altre tre commedie per Bob Eddy. Divenni per lui come la coperta di Linus. Un po’ stupito, un giorno gli chiesi perché lasciava a me, o a chiunque altro, il lavoro di «comporre» le scene dei suoi film. La sua risposta fu breve e secca: «Perché io sono un regista, non un addetto al montaggio». Ma io non capivo. Forse che Beethoven affidava a qualcun altro il compito di mettere insieme e arrangiare i suoi temi musicali? Le sinfonie che ne sarebbero risultate sarebbero state di Beethoven o dell’arrangiatore? E se questo «Shakespeare della musica» avesse composto insieme ad altri, ci avrebbe forse lasciato l’«Eroica», la «Sonata a Kreutzer», o la Nona Sinfonia? Forse il mio modo di pensare era troppo semplice? Sì. Non ero ancora stato a Hollywood, dove la maggior parte dei film veniva prodotta collettivamente da una troupe di scrittori, registi, attori, montatori e produttori. Pensavo ancora al mezzo cinematografico come a un intero. La mia unica esperienza nel cinema era stata con Fisher’s Boarding House, nel quale io avevo fatto «tutto», e ingenuamente avevo concluso che una sola persona fa un film, così come una sola persona scrive una sinfonia o un romanzo. Ero beatamente ignorante, allora, di tutto quello che avrei poi imparato a caro prezzo: che la produzione, la distribuzione e la gestione dei film non era soltanto un’arte, ma un’industria di miliardi di dollari, la quinta industria del paese; che una singola produzione può costare miliardi, a volte decine di miliardi; e che le aspettative di chi faceva film erano basate sull’antichissima legge del mercato: il guadagno deve essere superiore alla spesa, altrimenti sei finito. E dato che nella produzione e distribuzione di questa nuova «arte» venivano investiti miliardi, seguì le stesse regole di tutti i business. I finanziatori e i grossi produttori facevano di tutto per cercare di standardizzare, di produrre in massa modelli di successo, di mettere ordine nel caos. Non ci sono mai riusciti, e non ci riusciranno mai. Il cinema sta in mezzo all’irrisolvibile dicotomia fra l’impresa commerciale e l’arte, ma è l’arte la scommessa più sicura nel lungo periodo. Anno dopo anno, alla fine sono i creatori che lottano per la qualità, gli artisti che lavorano all’intero film, coloro che ottengono il successo maggiore, superando quello dei produttori di massa. Quel semplice principio «un uomo, un film» (un credo per i registi importanti dai tempi di D.W. Griffith), su cui riflettevo in quella piccola sala di montaggio, ancora lontano da Hollywood, divenne per me una fissazione, un articolo di fede. Nei successivi quarant’anni in cui ho diretto film non l’ho mai dimenticato, e non sono mai sceso a compromessi, con una sola eccezione. Ho lasciato perdere tutti i lavori di cui non potevo avere il controllo totale, dall’inizio alla fine. Mi sono avvicinato al cinema con la meraviglia di un bambino, ma anche con la razionalità di una mente scientifica. Per quanto ne sapessi, non c’era mai stato nessun grande libro, nessuna tragedia, nessun quadro o scultura classica, nessuna grande opera d’arte, sotto qualunque forma, che fosse stata creata da un gruppo di lavoro – forse con la sola eccezione delle cattedrali gotiche. Nel mondo dell’arte il principio è «un uomo, un quadro/una statua/un libro/un film». 2. Letteralmente: «La pensione di Fultah Fisher». [n.d.t.]
3. LA COMMEDIA E IL SUO RE
Mettendo in moto il mio vecchio macinino, e infilandomi al posto di guida prima che quel ferro vecchio partisse lasciandomi a terra, gridai alla ragazza che avevo sposato meno di un mese prima: «Augurami buona fortuna». Mi mandò un bacio, mentre mi affrettavo verso Hollywood Boulevard, verso il mio primo colloquio di lavoro in un vero studio cinematografico. Hollywood, finalmente! Il centro d’attrazione del mondo. La città delle stelle: Chaplin, Pickford, Fairbanks, Talmadge, Theda Bara, Valentino. E ciononostante ancora una zona di dubbia fama per gli aristocratici di Pasadena e della Filarmonica. Io ero un disertore, ma un disertore felice, e fischiavo allegramente battendo il tempo sul volante. Mi sentivo spavaldo, e lo ero per buone ragioni. I miei ultimi mesi a San Francisco erano stati pieni di avvenimenti importanti. Come prima cosa, Bob Eddy mi aveva tolto dalla sala di montaggio e mi aveva promosso suo braccio destro – il suo scrittore di «gag». Una gag era una battuta comica, una trovata. Qualcosa che il personaggio doveva fare, o che gli succedeva per caso. Fui sorpreso quando mi resi conto di quante idee mi venivano fuori, e di come fosse facile, per me, inventare gag per il vecchio Dan Mason o per la splendida, gigantesca Wilma Hervey, che recitava la parte di Katrinka. Una sera Walt Ball mi aveva chiesto di portare dei provini urgenti all’operatore di von Stroheim, che stava girando delle scene per Greed in un palazzo nel centro di San Francisco. Consegnati i provini, mi fermai dietro le luci per osservare il grande Stroheim che dirigeva una scena. Era una scena semplice: una breve ma animata discussione fra due uomini in un ufficio. Ma cosa diventò sotto la guida di Stroheim! Posizioni, attese, discussioni, torture, da capo, da capo, solo per una semplice scena. Ressi la cosa per un po’, poi, girandomi per andarmene, passando di fianco a un gruppo di attori mi scappò detto: «Se quello Stroheim è un regista, io sono D.W. Griffith». «Forse lo sarai un giorno», disse una voce femminile proprio dietro di me. Mi voltai per vedere chi avesse fatto quella battuta. Una ragazza truccata, molto carina, mi sorrideva maliziosamente; era esattamente il mio tipo, piccola, con gli occhi verdi, i capelli castani, quasi ramati. Deliziosa. «Credi di essere spiritosa?», le chiesi bruscamente. «No, non direi». «Bene, sappi che io potrei girare quella scena in due minuti meglio di quell’impalato». «È quello che penserebbe Bob Eddy». «Bob Eddy? Conosci Bob Eddy?» «Ho recitato in qualche piccola parte per lui. Mi chiamo Helen Howell. Tu sei Frank Capra, non è vero?» «Be’, sì, ma...» «Vi ho visti insieme. Mi ha parlato di te». «Le cose che ti ha detto potresti raccontarmele venendo a cena con me?» Mi osservò dalla testa ai piedi, poi disse: «Ok». Cominciò così. E finì cinque settimane dopo davanti a un finto camino in una stanza del St. Francis Hotel, dove un pastore congregazionalista ci dichiarò marito e moglie. Io ero cattolico, e lei
in parte ebrea. Questo rappresentava un problema. E dato che né io né lei sapevamo esattamente che cosa significasse essere congregazionalisti, decidemmo che questo dolce vecchio pastore poteva sistemare le cose fra noi e le potenze misericordiose del cielo. Ma un terzo, grande cambiamento avvenne in quei mesi. Dopo aver finito le sue dodici commedie, Bob Eddy mi propose di andare a Hollywood con lui, promettendomi di raccomandarmi come «gag writer». Disse che aveva un amico negli studi di Hal Roach – Bob McGowan, regista di una serie per ragazzi intitolata Our Gang – che era sempre in cerca di nuove idee. Se questo non avesse funzionato, aveva un altro contatto allo studio di Mack Sennett. Bob Eddy era un vero amico, che mi diceva sempre apertamente quello che pensava di me. Ciò che lui non sapeva era che io volevo implorarlo di portarmi a Hollywood: ostentavo indifferenza, sperando che fosse lui a chiedermelo. Sapevo che questo l’avrebbe fatto sentire più responsabile per me. Crescendo nelle strade dei ghetti di Los Angeles avevo imparato a giocare d’astuzia, ad agire in modo tortuoso, usando anche gli amici pur di raggiungere un certo fine. Vicino al campo di golf Rancho trovai la casa che stavo cercando. Suonai il campanello, respirando profondamente. Fu proprio Bob McGowan che venne ad aprire la porta; era un irlandese piccolo, quadrato, dallo sguardo preoccupato e ansioso. «Frank Capra?» «Sì, signor McGowan. Mi ha mandato Bob Eddy...» «Sì, sì. Entra». Lo seguii nel soggiorno della sua modesta casa. Notai che trascinava un piede e che i suoi capelli erano striati di grigio. Con quella camicia e quei pantaloni sgualciti, sembrava un idraulico più che un regista. «Hai mai visto uno dei miei film per ragazzi?», chiese mentre si sedeva nel suo ufficio, stretto e ingombro. «E chi non li ha visti?» «Non sono facili da fare, sai? L’ultimo è stato veramente un osso duro!» Bob Eddy mi aveva avvertito che McGowan era timido e scontroso con la gente, ma che non dovevo preoccuparmi. «Sta lavorando già al prossimo, signor McGowan?» «Sì». Prese un foglio di carta e lo lanciò nel cestino. «Signore», dissi, togliendomi il cappotto, «io so ascoltare. Perché non ci mettiamo al lavoro?» Mi guardò in faccia per la prima volta. «Bob ha detto che mi saresti piaciuto. Non lo so. Sono quaranta dollari alla settimana, ma ho un modo di lavorare particolare, come vedi. Due settimane qui a casa, il lavoro di preparazione; due settimane di riprese in studio. Io non voglio nessuno sul set, nemmeno gli autori delle gag, i ragazzini diventano nervosi. È chiaro? Se ti viene in mente qualche idea divertente mentre sto girando, mi trovi in mensa per il pranzo. Altrimenti stai a casa a preparare la prossima puntata». La serie comica Our Gang era una specie di soap opera per bambini. Il mio lavoro era quello di ideare storielle e battute divertenti per ragazzini perbenino di provincia: Mickey, Mary, Farina, Joe, ragazzi normali con genitori normali. I ragazzi di strada con cui ero cresciuto io in realtà erano dei piccoli adulti: duri, furbi, smaliziati, con il pugno per legge e un naso che sanguinava come regolare conclusione di un diverbio. In «Lavati le orecchie, Mickey» o «Mangia gli spinaci, Mary» non si parlava di sopravvivenza, quella sopravvivenza per cui noi dovevamo lottare ogni giorno e che significava, per esempio, non farsi beccare da soli la notte dalle gang del quartiere, i Dog Town Dagos, o gli Ann Street Aztec. Quando facevo lo strillone, sopravvivenza significava conquistarsi gli incroci migliori, risalendo dalla periferia fino all’angolo di Broadway e della Quinta Strada, o davanti all’Opera.
La zona intorno all’incrocio fra Broadway e la Quinta – con i suoi trentasei angoli più ambiti – era il posto migliore per gli strilloni; era la nostra Times Square. Ma dovevi combattere per conquistarti angolo dopo angolo, dalle zone residenziali periferiche fino al centro degli affari, dove i giornali si vendevano in fretta. Quando pensavi di poter battere, a pugni, il ragazzo che stava prima di te, allora lo sfidavi. Se vincevi, ti conquistavi un posto più vicino alla zona migliore. Se perdevi, dovevi continuare a lottare con i ragazzini dietro di te. All’età di sei anni avevo incominciato a vendere giornali intorno alle zone industriali di Main Street e Alameda. Quando lasciai quel lavoro, dieci anni più tardi, mi ero conquistato l’angolo tra Broadway e la Terza Strada, ad appena un isolato da quel magico, mitico quadrato. Era naturale allora che le prime storie che proposi a McGowan fossero piene di risse e di zuffe. «No, no!», obiettò subito, buttando via il mio lavoro. «I ragazzini di Our Gang non vivono nei ghetti. Sono bambini normali, che abitano in piccole città, che si ammalano, si perdono, hanno i normali problemi della crescita. Che cosa fanno i bambini normali? Cercano di imitare gli adulti, e si mettono nei pasticci a causa della loro innocenza. Questa è la chiave, il tipo di comicità. Lascia perdere le scazzottate. Cerca invece le piccole cose che sembrano grandi ai bambini. Devi pensare come un bambino non come un istigatore di risse». Insomma, i miei vicoli non erano adatti ai ragazzini innocenti. Sapevo che rischiavo di essere licenziato, ma riuscii a tornare nelle grazie di McGowan creando due nuovi personaggi per Our Gang: due fratelli gemelli identici, da poco trasferitisi nel quartiere dove abitano tutti gli altri ragazzi; sono ragazzini ben vestiti, di buone maniere, di famiglia ricca; hanno la stessa età di Mickey, e si assomigliano come due gocce d’acqua. Ma uno è duro e forte, l’altro è un cocco di mamma che scappa spaventato se gli fai «Bu!» Naturalmente Mary, l’amichetta di Mickey, prende subito a civettare incuriosita con i due nuovi arrivati e, com’è ovvio, Mickey, da buon irlandese, deve far capire ai due ricchi mocciosi chi comanda. Con sua grande sorpresa, però, mentre uno piange e scappa se solo Mickey lo guarda di traverso, l’altro un giorno lo stende k.o. senza neanche scompigliarsi i capelli. E Mickey non riesce a distinguerli! Questo era esattamente il tipo di situazione di cui aveva bisogno McGowan. Una splendida trovata, su cui si potevano costruire diverse storie. «Su questo possiamo farci una mezza dozzina di episodi», si entusiasmò. «Il pubblico comincerà a ridere ogni volta che Mickey incontra uno dei gemelli». McGowan non avrebbe parlato di licenziamento per almeno un mese o due. Lo studio di Hal Roach, a Culver City, era un posto molto vivo nel 1924. A differenza di Mack Sennett, Hal Roach era molto attento al successo nella scelta delle sue commedie. Quando cominciai a lavorare per lui, nel suo studio si giravano tre serie di grande successo: Our Gang, le comiche di Will Rogers, e quella famosissima di Stanlio e Ollio, che era diretta dal regista Leo McCarey; l’operatore, mi sembra, era George Stevens. Dato che Bob McGowan non voleva che si sapesse in giro che usava un gag writer, faticai a lungo prima di ottenere un pass per entrare nello studio. «Va bene», disse infine, sospettoso, il controllore al cancello, dopo aver fatto numerose telefonate. «Sei nella lista degli addetti a Our Gang, ma che cosa fai esattamente? Sei segnato come “miscellanea”». Anche dopo aver ottenuto il lasciapassare, mi sentivo sempre un «miscellanea». Bob McGowan non aveva un ufficio, il che voleva dire che neanch’io lo avevo. Non ammetteva nessuno, ma proprio nessuno, quando girava. L’unico posto dove riuscii a vedere i bambini di Our Gang fu lo schermo di un cinema. E così girellavo per lo studio con una penna e un quaderno, scrivendo appunti per le commedie: non conoscevo nessuno, non parlavo con nessuno. A mezzogiorno, aspettavo McGowan in mensa. Quando lo vedevo in fila con il vassoio in mano, mi avvicinavo a lui e gli porgevo un paio di fogli con note e suggerimenti per le scene che stava girando. Lui si metteva in tasca quei fogli senza dire una parola, senza neanche guardarmi in faccia.
Sulla carta, un suggerimento per una gag appariva come un semplice appunto, geroglifici comici che autori e registi traducevano poi in azione. Una volta un neofita scrisse un suggerimento un po’ troppo vago, che diventò esso stesso una battuta: «Qui i bambini si divertiranno per cinque minuti nel supermercato». Ho ritrovato un quadernetto giallo, ormai stinto, con alcuni dei suggerimenti che avevo scritto per McGowan nel 1924. Mary entra nella stanza della zia – usa i suoi cosmetici. Farina e il pappagallo – afferra i riccioli di Farina. Aspirapolvere – Joe risucchia i pantaloni dei bambini. Una pelle d’animale cade sul cane – spaventa i bambini. Mick mette la bottiglia del latte nel cesto del cane – il cane, davanti alla porta, abbaia – la signora esce – prende la bottiglia – entra – il cane continua ad abbaiare – La signora esce – chiede scusa – mette i soldi nel cesto. Danza di guerra indiana – un’ape punge il capo tribù Sonny – si mette a saltellare – urla – tutti si fermano per applaudirlo – lui si butta nel serbatoio dell’acqua. Bambino sul sedile del pianoforte – gatto gli disfa i pantaloni di maglia – cane rincorre gatto. Bambino tira giù dal tetto del fienile la banderuola di ferro a forma di gallo – banderuola cade nel pollaio – il gallo ci si avventa. Mick munge una mucca – la coda della mucca gli balla davanti al viso – Mick dà la coda da tenere al cane – il cane tiene la coda dietro la mucca. Bambino mangia gli spaghetti – non ce la fa – taglia gli spaghetti con le forbici.
Vi sembrano cose già viste? Le gag sono sempre vecchie gag con nuovi effetti. Una torta in faccia è sempre la stessa cosa. Gli effetti diversi sono dati dal tipo di torta, da chi la lancia, da chi la evita, e chi se la prende in faccia. Avrete probabilmente notato che in pratica ogni due parole, in questi appunti, compare un verbo che indica un’azione visualizzabile. Le commedie del muto erano azioni in movimento. Avrete forse anche notato che non c’è una sola battuta comica in tutti questi appunti, solo una situazione di base comica, visualizzabile, che fa da sfondo a una serie di azioni. Perché certe situazioni siano comiche è una domanda molto complessa, a cui cercherò di rispondere più avanti. Fondamentalmente, la comicità nasce dal fatto che l’esperienza ci ha insegnato che le cose sono in un certo modo, e quando non sono così ci colpiscono, apparendoci buffe o tragiche. In ogni caso, è davvero affascinante vedere un regista comico che da tre semplici parole come «gatto beve birra» riesce a costruire cinque minuti di risate. Il gatto aveva zampe forti e sicure? Ora gli tremano come fossero di gomma. Era un gatto fifone? Ora rincorre i cani fino in cima agli alberi. Era timido? Ora si mette in testa un cestino, suona i tasti del pianoforte, e gorgheggia come un tenore. La maggior parte degli scrittori – e praticamente tutti gli scrittori comici – hanno un loro luogo ideale per lavorare, un luogo dove le idee sembrano venir fuori più facilmente: una poltrona, per esempio, una stanza, un posto dove camminare. Dato che non avevo ufficio, lavoravo fuori, nel cortile dello studio, e trovai il mio posto ideale in cima a una catasta di legname, dove sedevo per ore con il mio quadernetto giallo, lontano dal rumore. Will Rogers mi passava vicino diverse volte al giorno, andando avanti e indietro fra il suo camerino e la sala dove si girava. Cominciò a lanciarmi qualche sguardo, passando, ma naturalmente io ero troppo timido per salutare Will Rogers. Un giorno si fermò e disse: «Ragazzo, lo so che non sei una statua. La tua penna si muove». Saltai in piedi mormorando qualcosa. «Stai facendo dei conti, per caso? Hai intenzione di comprare questo posto, o di venderlo?», chiese sorridendo. Gli dissi che scrivevo gag per Bob McGowan. «Un gag writer, eh? Bene, perché non vieni nel mio camerino a prendere un caffè. Tu provi le tue gag con me, mentre io ti tiro via le
schegge dai pantaloni. Che tipo di biscotti preferisci?» Nel camerino mi conquistò con le sue storie. Era un genio della comicità. Quando scoprì che non avevo un ufficio e nemmeno una macchina da scrivere, mi disse che potevo usare i suoi in cambio di una gag al giorno; in più avrei avuto caffè e biscotti. Era un affare. Per i quattro mesi successivi il suo camerino diventò il mio ufficio. Ogni giorno gli portavo una nuova idea, ma per una che gliene davo io, lui me ne suggeriva venti. Un altro professionista interessante che incontrai nello studio di Roach fu il fumettista George Herriman, il creatore di uno dei miei personaggi comici preferiti: Krazy Kat, una deliziosa combinazione di saggezza e ingenuità, che lanciava i suoi baffi all’assalto dei cattivi, sullo sfondo dello straordinario paesaggio dell’Arizona. Herriman fu uno dei primi intellettuali a usare il mezzo del fumetto per parlare di temi esistenziali, e lo faceva con sapiente ironia. Non ricordo dove vivesse quest’uomo, ma lavorava tranquillamente in una specie di bungalow, proprio nel mezzo di quello studio. «Perché», diceva, «Krazy Kat si sente a suo agio con tutti questi comici pazzi». Passavo molte ore a osservarlo mentre disegnava. Una volta gli chiesi se Krazy Kat fosse un gatto o una gatta. «Sai», rispose accendendosi la pipa, «ricevo dozzine di lettere che mi fanno la stessa domanda. Non lo so. Un giorno provai a pensarci; immaginai che Kat fosse una gatta, disegnai perfino alcuni fumetti in cui era incinta. Ma non era più Kat; era troppo preoccupata con i suoi problemi, come in una soap opera. Capisci che cosa intendo dire? Mi resi conto allora che Kat è come un elfo. E gli elfi non hanno sesso. Kat non può essere un gatto o una gatta. Kat è uno spirito, un folletto, libero di imbattersi in qualunque cosa. Non credi?» «Non so cosa sia Crazy Kat, signor Herriman, ma se c’è un folletto da queste parti è qui che sta fumando la pipa». Ma l’uomo che osservavo e ammiravo più di tutti era quell’affascinante regista irlandese, Leo McCarey. La facilità e la velocità con cui questo giovane genio creava le battute, lì per lì, per Stanlio e Ollio mi faceva andare in visibilio. Era il primo vero regista di talento che incontravo. E quando venni a sapere che era il figlio di «Pop» McCarey, proprietario e promotore del famoso stadio di pugilato, il miglior amico degli strilloni di Los Angeles, decisi che volevo conoscerlo. Leo era quel tipo di persona che, quando lo incontri la prima volta, bastano due minuti ed è già un amico. Parlammo di tutti i grandi campioni che avevamo visto nella palestra di suo padre: Benny Leonard, Al Wolgast, Joe Gans, Joe Rivers, Stanley Ketchell, Harry Wills. Parlammo delle gare fra i ragazzini. «Te le ricordi? Io ero là praticamente tutte le settimane». «Anch’io», disse lui. «Entravo di soppiatto senza farmi accorgere da mio padre». Lo stadio di pugilato di Pop McCarey, in Alameda Street, all’incrocio con Main Street, era il luogo più frequentato dagli amanti della boxe intorno al 1910. Nelle sere degli incontri, io ero uno dei ragazzini che vendevano giornali alla folla in cappello di paglia che si accalcava in quel capannone enorme, non rifinito, con il pavimento coperto di segatura. Pop non offriva solo ottimi incontri di pugilato, offriva anche spettacolo, uno spettacolo che faceva impazzire il pubblico e tremare le travi del soffitto. Un esempio di quello che Pop offriva al suo pubblico era la cosiddetta «Gara delle scarpe». Erano dieci minuti garantiti di risate. Vi gareggiavano una trentina di ragazzini, a cui venivano pagati cinquanta centesimi prima della gara. Si dovevano mettere in piedi sulla passerella intorno al ring, e al primo suono del gong ogni ragazzo doveva togliersi le scarpe e buttarle al centro del ring. Due uomini mescolavano le scarpe e ne facevano un gran mucchio. Quelle piccole vecchie scarpe erano talmente sciupate e consumate che sembravano tutte uguali. Questa era l’idea: il primo
ragazzo che riusciva a trovare le sue scarpe, infilarsele e allacciarle vinceva cinque dollari. Il gong suonava per la seconda volta. Si vedevano allora trenta ragazzini stracciati che si tuffavano in quel mucchio di scarpe. Il pubblico saltava in piedi. Era un pandemonio. Applausi per i ragazzini più piccoli, insulti ai più grandi. Era come mettere trenta gatti in una gabbia. L’obiettivo finale era sì quello di trovare le tue scarpe e infilarle, ma l’obiettivo immediato era quello di impedire agli altri di fare più in fretta di te. Quando un ragazzino s’illuminava tutto pensando di aver trovato le sue scarpe, gli altri lo facevano cadere e gliele portavano via, lanciandole in mezzo alla folla degli spettatori. Questi rilanciavano le scarpe sul ring. C’erano scarpe che volavano dappertutto. Se un ragazzino cercava saggiamente di uscire dal ring per infilarsi le scarpe, quelli che stavano lì intorno lo ributtavano dentro. Era un manicomio di urla e risate. Finalmente, quando troppi nasi cominciavano a sanguinare, la campana suonava ancora. Pop McCarey saliva sul ring, trovava un ragazzino fra i più piccoli, che aveva suscitato applausi, e anche se le sue scarpe non erano proprio allacciate Pop gli sollevava il braccio in segno di vittoria e gli dava i cinque dollari. Se la folla applaudiva abbastanza a lungo anche per un altro ragazzino, Pop dichiarava un pareggio e dava il premio a entrambi. A questo punto le monetine cominciavano a piovere sul ring. I due addetti le raccoglievano per distribuirle poi ai ragazzi. Quando questi scendevano dal ring (per andare a rimpinzarsi di hot dog che venivano distribuiti gratis) gli applausi facevano tremare il capannone. Come si può immaginare, erano tanti i monelli che se ne andavano di lì con una moneta d’oro e due scarpe sinistre. Un giorno decisi che, nella lunga battaglia che avevo intrapreso per diventare un regista comico, sei mesi di schermaglie nello studio di Roach erano abbastanza. A mezzogiorno andai a ritirare il mio ultimo assegno e mi avviai direttamente in biblioteca; avevo bisogno di raccogliere munizioni per l’assedio del nuovo obiettivo che volevo colpire: le commedie di Mack Sennett. Passai giorni e giorni a fare ricerche sulla commedia: che cosa fa ridere la gente? Che cos’è il riso? Scoprii che gli animali possono fare dei gesti che si avvicinano a un ghigno, o hanno espressioni che denotano benessere, ma che solo gli esseri umani possono ridere – quella successione di suoni quasi involontaria, esplosiva, felice, comune a tutte le razze e a tutte le lingue. In quel momento ero interessato alla comicità violenta di Sennett, ai suoi clown dai pantaloni rigonfi, ai suoi pazzi personaggi – specialmente a questi ultimi. Il personaggio del matto venne inventato secoli fa per mettere in ridicolo i «cattivi». I re, ad esempio – come contentino per il popolo e per evitare di farsi fare la pelle – ingaggiavano buffoni a cui era permesso di mettere in ridicolo le macchinazioni di corte dei potenti. Questi buffoni erano di solito nani, o persone grottesche che vestivano i più strani costumi, mantelli, campanelle, e brandivano pelli gonfiate e bastoni come satira dei simboli del potere. Il riso, a cui i buffoni davano così sfogo, era una valvola di sicurezza, che impediva l’esplosione improvvisa dello scontento che ribolliva fra i sudditi. Nel Medioevo perfino il clero, equilibrato e potente, pensò che fosse conveniente concedere ai suoi fedeli l’uso della pantomima nell’annuale festa di carnevale: un ragazzo, nel ruolo di vescovo, guidava le cerimonie, che degeneravano in una parodia dei sacri riti della Chiesa. Ma l’idea dell’imitazione satirica era troppo divertente perché potesse restare rinchiusa nelle corti. Si diffuse fra il popolo, e si ebbe la nascita di quella che fu chiamata parodia. Buffoni cenciosi, rappresentanti della gente comune, brandendo bastoni e pelli gonfiate, sbeffeggiavano i ricchi, i potenti, gli ipocriti – mentre la plebe urlava divertita. Le commedie di Mack Sennett – violente pantomime – non erano altro che un’estensione di quelle parodie improvvisate, che ora – attraverso la magica riproduzione del cinema – potevano far ridere milioni di persone in tutto il mondo. Non c’era niente di sacro per Mack e i suoi irriverenti
buffoni. «Tutto è vanità», dice l’Ecclesiaste. «Ma non è solo questo...», rincarava Sennett. «Tutto è comico! Virtù, autorità, amore, ricchezza, tutto è comico». Citando le parole che più tardi scrissero Richard Griffith e Arthur Mayer nel loro splendido volume The Movies: «Nel mondo di Sennett tutti gli avvocati diventavano privi di scrupoli, tutte le persone pie diventavano ipocriti, tutti gli sceriffi stupidi e venali, e tutti sorpresi nell’atto di calarsi i pantaloni». Ma i vecchi e gloriosi arnesi del mestiere – la buccia di banana, la palla di neve, il bastone, la pelle gonfiata – erano troppo pochi e troppo addomesticati per Mack. Alle bucce di banana aggiunse altri oggetti scivolosi, come la colla per tappezzerie. Dalle proverbiali palle di neve passò a vasi di fiori, mattoni, sacchi di farina, spruzzi d’acqua dalle pompe antincendio. Allo scoppio simbolico delle pelli gonfiate aggiunse lo spezzarsi rumoroso di mazze, tavole di letti, randelli di legno, assi del pavimento fuori posto o rastrelli in cui qualcuno finiva per inciampare. Ma anche con queste aggiunte l’interesse del pubblico veniva meno a furia di spettacoli sempre uguali. Gli affezionati del cinema, insaziabili, chiedevano sempre di più, più violenza e più divertimento. Sennett li accontentava alzando il tiro, con mazze di gomma grandi quanto delle botti, vasi e statue di gesso sottilissimo che andavano a rompersi sulla testa degli attori. Faceva costruire mobili di legno di yucca o balsa, che si frantumavano solo a toccarli. I vetri delle finestre che dovevano andare in mille pezzi erano di zucchero trasparente, i mattoni di feltro. Ma a questo punto il pubblico cominciò a rendersi conto che questi nuovi oggetti erano finti. Occorreva qualcosa di nuovo. Qualcosa che avesse la stessa forza dissacrante e che nello stesso tempo sembrasse vero, e che, soprattutto, fosse vero per il pubblico. Lo trovarono per caso, quando Ford Sterling, girando una scena in una pasticceria, a un certo punto, improvvisando, prese una torta e la lanciò in faccia al rivale. Eureka! La TORTA! Una torta non era pericolosa, e nello stesso tempo era di grande effetto – e tutti sapevano che quella era una vera torta. Il randello è morto – viva la TORTA! La pantomima aveva trovato una nuova arma vincente per mettere in ridicolo la pomposità – e l’aveva trovata per caso, sul set di una commedia di Sennett. Quest’umile prodotto dell’arte pasticciera ha fatto probabilmente ridere più gente di tutti gli altri oggetti comici messi insieme. La torta può essere considerata come una delle più importanti scoperte, come il fuoco, la ruota – o la camminata di Charlie Chaplin. Provate a pensarci, la Bibbia dice che l’uomo venne al mondo come una torta di fango: un impasto di terra e acqua sul quale soffiò l’Onnipotente. Insomma, c’era qualcosa di affascinante in una torta di meringa in faccia, qualcosa che inspiegabilmente entusiasmava e galvanizzava il pubblico, come un goal, o come l’arrivo al traguardo. E anche la torta in faccia richiedeva coordinazione e tempismo perfetti. Anni dopo Gene Fowler, scrivendo uno splendido libro su Sennett, Father Goose, ci deliziò con la sua descrizione del campione delle torte in faccia: [Il più grande] tiratore di crema pasticciera di tutti i tempi, il più americano di tutti gli americani, il supremo Dalai Lama della meringa, l’Ercole dei dolciumi volanti, l’Aiace delle frittelle sfreccianti, l’invincibile e valente lanciatore di ogni tipo di creme e ripieni [fu] Roscoe Arbuckle! [...] Quando Fatty tirava una torta, la torta arrivava sempre nel punto giusto [...] Lui era in grado di spedire granate al forno da qualunque angolo, seduto, accucciato, sdraiato a leggere un libro, su una gamba sola, appeso per i piedi a un pergolato [...] ambidestro, poteva lanciare contemporaneamente due torte in due direzioni opposte.
Il lancio di torte in faccia raggiunse livelli olimpionici con Leo McCarey, nel suo classico Battle of the Centuy, nel quale Stanlio e Ollio combatterono con crostate e creme di ogni tipo. All’inizio il duello è lento e rituale: a ogni torta risponde una torta. Come il ritmo comincia a
crescere, anche gli astanti vengono coinvolti nel vortice, fino a quando si arriva a un vero e proprio pandemonio – venti minuti continuati di torte in faccia, un record di urla e applausi. Questi erano i pensieri che si affollavano nella mia mente mentre camminavo verso casa. E lasciavo Our Gang, dopo sei mesi, non senza rimpianti. «Lo so», disse McGowan quando gliene parlai. «Vuoi diventare un regista. Tutti gli scrittori di gag vogliono diventare registi. Per questo non li voglio intorno quando sono sul set. E va bene, Chiamerò Felix Adler dello studio di Sennett e ti raccomanderò. Lui è il capo sceneggiatore là...» Lo studio di Mack Sennett, a Edendale, era un vero caos: baracche, prefabbricati, uffici, laboratori e teatri, tutti ammassati disordinatamente sul fianco di una collina. I tetti delle baracche di legno avevano cominciato a cedere e piegarsi in vari punti. Qua e là erano comparse nuove costruzioni, più pretenziose. Ma anche i tetti delle nuove costruzioni apparivano già un po’ conciati. Neanche calce e mattoni potevano rimanere intatti in quel posto. Parcheggiai su Alessandro Street e m’incamminai verso la grossa insegna che diceva: MACK SENNETT COMEDIES, posta in cima a una cancellata di ferro – era l’entrata per le auto, riservata a Mack Sennett. Di fianco al cancello c’era un’entrata per i pedoni, sorvegliata da una guardia. Questo era l’ingresso della «General Motors della commedia», dove si fabbricavano risate che venivano poi spedite in tutto il mondo, sigillate nei contenitori delle pellicole. Davanti all’entrata c’era il solito gruppetto di attori disoccupati, che cercavano di darsi un po’ di arie e di mettersi in mostra sperando di essere notati da qualche regista. «L’ufficio del signor Hugunin è al primo piano della torre», mi disse la guardia all’entrata, porgendomi un lasciapassare e indicando la strada principale dello studio. «Quella costruzione là». Guardai in su, e per la prima volta vidi la Torre di Re Mack, più famosa, nel mondo della commedia, della torre di Londra o di quella di Babele. Appariva massiccia e irraggiungibile come una fortezza romana. I primi tre piani erano tutti di cemento, con poche finestre, il quarto e ultimo piano era invece tutto a vetri, come le torri di controllo degli aeroporti. La maggior parte degli studios era di solito divisa in due parti: di fronte stavano gli uffici di rappresentanza, tranquilli ed eleganti, e nel retro i capannoni e le baracche, sporche e rumorose. Ma fatta eccezione per quella Torre centrale (da cui Re Mack poteva tenere sotto osservazione il suo impero), lo studio di Sennett era tutto una baracca disordinata. Notai subito che le facciate delle costruzioni erano state ricostruite, ridipinte e rifotografate (che spesso significava demolite) più volte. In ogni studio cinematografico c’era sempre un bel frastuono e tanta agitazione, ma qui la cacofonia sembrava uscire da potenti amplificatori. Il rumore delle seghe e delle pialle elettriche nelle officine, gli scoppi improvvisi di strepiti e grida che provenivano da teatri dove le troupe stavano girando, il rumore incessante di dozzine di martelli, il rumore del vento che scuoteva i grandi teloni bianchi che coprivano i teatri all’aperto: era come se un’orchestra suonasse la folle sinfonia della commedia. Operai, attori comici e belle ragazze andavano e venivano continuamente. Mi venne incontro un domatore vestito di pelli, camminando mano nella mano con uno scimpanzé. Con la mano libera il domatore stava mangiando una banana. Qualcosa non quadra in questa scena, pensai. E quando lo scimpanzé, passandomi di fianco, mi afferrò per i pantaloni, cominciai a tremare. «Eh, via», disse infastidito il domatore, «non gliela vuoi dare?» «Dare che cosa?» «Da dove vieni, dalla montagna? Una sigaretta». Lo scimpanzé afferrò la sigaretta che gli porgevo grugnendo di piacere, e tirò qualche boccata. Mentre si allontanavano osservai che la scena, adesso, quadrava perfettamente – lo scimpanzé fumava la sigaretta e il domatore mangiava la banana. «Bene», mi accolse cordialmente Lee Hugunin nella sala d’attesa della Torre. Occupava il terzo
posto in ordine d’importanza nel comitato direttivo di Sennett. «I colloqui con i gag writer li fa Felix Adler. Lo chiamo subito». Si avvicinò alla scala e urlò: «Felix!» Dal secondo piano un’altra voce ripeté il grido – «Felix!» – che fu seguito da un altro «Felix!» più attutito, strillato dal terzo piano, e alla fine, appena udibile: «Arrivo!» «Si sono rotti i telefoni?», chiesi ingenuamente. «Telefoni? Agli scrittori?», fece Hugunin. «Volete scherzare». Felix Adler corse giù dalle scale; era estroverso, irriverente, sembrava che la vita per lui fosse tutta una serie di gag. Mi piacque subito. «Ciao, Frank», disse stringendomi la mano». «Ho sentito parlare molto di te da Bob Eddy e McGowan. Capra. Gran bell’animale, non è vero? Abbiamo giusto bisogno di una nuova capra, giusto, Lee? Vieni, Frank. Dobbiamo parlare con quello che ha in mano i cordoni della borsa». Salimmo al primo piano. L’amministratore era John Waldron, il numero due; aveva un’aria rassegnata, piacevolmente perplessa. Felix ci presentò. «Frank Capra, John Waldron. L’unica persona sana di mente in questo manicomio. John, questo è il nuovo sceneggiatore. Vale mille dollari la settimana». «Lo so, lo so», sospirò John. «Ma si accontenterà di trentacinque». «Facciamo quarantacinque. Ne prendevo quaranta da Roach», ribattei. «E chi è Roach?», chiese John senza scomporsi. «È una regola ferrea qui, Frank. I nuovi arrivati partono da trentacinque». «Ma questo per me significherebbe andare indietro. Io voglio andare avanti, raggiungere il massimo». «L’hai già raggiunto. Lo studio di Sennett è il massimo. Trentacinque, Frank. Prendere o lasciare». Deglutii con fatica: «Se è così, non accetto, signor Waldron. Grazie, Felix». «Oookay. Andiamo dal capo, allora». Seguii Felix giù dalle scale. Mi tremavano le gambe. Avevo fatto una sciocchezza. Era la mia grande occasione per entrare allo studio di Sennett e l’avevo bruciata. Quando arrivammo a pianterreno Felix bussò a una porta sulla destra, poi l’aprì. Dentro stavano litigando. Avevo sentito parlare dell’«ufficio» di Sennett, ma non ero preparato a quello che vidi quando vi misi piede per la prima volta. Mack Sennett era sdraiato su un lettino per massaggi, completamente nudo. Abdul il Turco gli massaggiava le natiche mentre due signori, lindi e azzimati, provavano una scena. A parte questo, la stanza era spoglia come una cella; c’erano solo una grande poltrona di pelle e una sputacchiera di rame. Il ricordo della scena che seguì è ormai annebbiato, non ho dimenticato però che quella sera stessa cercai di raccontarla, parola per parola, a mia moglie. Le prime parole che sentii entrando furono quelle di Sennett. «No, no, ragazzi. Non mi piace. Dov’è il tema? Qui manca il tema». «Mack, abbiamo il tema più forte del mondo», ribatté con voce rauca uno dei due tizi. «Il nostro tema è Camille!» «Macché Camille! Volete farla fare a un uomo con la tubercolosi!», sbottò Sennett mentre il Turco gli porgeva un lungo sigaro. «Mack, ma non capisci? Questo è il colpo di scena, la grande svolta!», insisteva ancora il secondo tizio. «Mi dispiace bloccarvi alla grande svolta, signori», interruppe Felix. «Mack, voglio presentarti Frank Capra prima che se ne vada. E questi sono Ray Griffith e Harry Edwards». «È un giorno fortunato...», riuscii a dire, pieno di ammirazione. «E così tu sei Frank Capra», disse il signor Sennett mordendo un grosso pezzo di sigaro e cominciando a masticarlo. Hal Roach mi ha telefonato per parlarmi di te.
«Hal Roach?», domandai incredulo. «Signor Sennett, ho lavorato sei mesi nel suo studio e non ho mai visto Hal Roach». Sennett scoppiò a ridere, una risata profonda che avrei poi sentito infinite volte. «È quello che mi ha detto anche Hal. Ma Will Rogers gli ha chiesto di telefonarmi per raccomandarti. Will sostiene che sei il più gran divoratore di biscotti della regione. Sei amico di Will?» «Non proprio. Mi piace ascoltarlo raccontare, ecco tutto. Signori, è stato un piacere fare la vostra conoscenza». Mi voltai verso la porta. «Dove stai andando?», chiese Sennett. «Mack, Frank non accetta i trentacinque dollari d’inizio», spiegò Felix. «Ne vuole quarantacinque». Harry Edwards si indignò. «Ray», esplose rivolto a Griffith, «hai sentito? Per tutti i numi...» Ray Griffith si volse verso di me minaccioso. Non aveva voce. Parlava sussurrando. «Quarantacinque dollari! Vuoi sbancare il Vecchio?» «Ma chi credi di essere?», gli fece eco Edwards. «Harold Lloyd ne prendeva solo trentacinque quando se ne andò...» «Forse si crede di essere Turpin. Sai fare una faccia da strabico? Fai una faccia da strabico...» «Chiudete il becco, voi», interruppe Felix. «Frank è un gag writer. Ha lavorato in Our Gang». Harry e Ray si bloccarono sorpresi. «Uno scrittore?» «Perché non ce l’hai detto subito?» Mi strinsero la mano chiedendomi scusa, e si rivolsero a Sennett. «Mack, come osi offrire a uno scrittore solo quarantacinque miseri dollari?», lo rimbrottò Ray. «Sei uno sfruttatore di letterati. Ti denunceremo alla Lega degli Scrittori», minacciò Harry. «Chiudete il becco, buffoni», borbottò Sennett. «Non siete affatto spiritosi. Frank, vieni qui. Che cosa ti fa pensare di valere quarantacinque dollari?» «Signor Sennett, non è il quanto che conta, mi pare. Tanto, se non valgo abbastanza, mi licenzierete in ogni caso». «Ha ragione, Mack!», disse Ray con la sua voce rauca. «Ha maledettamente ragione», aggiunse Harry. «Silenzio!», urlò Sennett. «Di chi è il nome che sta sopra il cancello d’ingresso?» Ray, Harry e Felix si inchinarono facendo salamelecchi e intonando:«Allah! Allah!» Sennett fece un cenno cercando la sputacchiera. Abdul il Turco gliela avvicinò prontamente. Sennett vi sputò proprio nel mezzo. Poi sollevò lo sguardo verso di me. «Frank, ho sentito che hai fatto l’università...» «Digli di no», mi avvertì Felix. «Sarebbero due punti a tuo sfavore». «E non dirgli neanche di essere ebreo», sussurrò Ray. «Sarebbero tre punti a tuo sfavore, e non saresti assunto». Sennett diventò rosso. «Cristo, Ray, non dire cose del genere. Felix è ebreo. E gli lascio dirigere lo studio». «Ma solo perché ha detto di essere arabo», si intromise Harry Edwards. «Non ho detto che sono arabo», corresse Felix. «Gli ho detto che i miei cugini sono arabi». «Ora basta!», esplose Sennett. «Felix, o comincia a trentacinque o niente. Non sarò io a infrangere le regole che ho stabilito». «Signor Sennett», dissi io, «non vi sto chiedendo di infrangere nessuna regola. John Waldron mi può segnare sul suo libro dei conti a trentacinque dollari iniziali. Ok? E domani lei mi aumenta a quarantacinque. Tutti sono contenti e non si infrange nessuna regola. «Ha parlato con la saggezza di Salomone, un Salomone arabo!», commentò Ray Griffith. Sul viso quadrato da irlandese di Sennett, sotto quella massa di capelli grigi, si intravedeva un
sorriso divertito. «Va bene, va bene, va bene», disse Harry Edwards in modo deciso, dirigenziale. «Io e Ray approviamo questo accordo. Puoi eseguire, Felix». Sennett spostò lentamente il tabacco che aveva in bocca da una parte all’altra. Era evidente che si stava divertendo. «Harry, dobbiamo recitare a Frank i comandamenti», propose Ray Griffith. Harry: Dovrai timbrare il cartellino alle nove, alle dodici, all’una e alle sei. Ray: Punizione: la paga di mezza giornata per dieci minuti di ritardo. Harry: Non dovrai parlare ai registi se non con l’autorizzazione del Grande Capo, il cui nome è scritto sul cancello. Ray: Punizione: il cancello. Harry: Non dovrai dar da mangiare al gatto Pepper. Ray: Punizione: lavare l’elefante Anna May. Harry: Non dovrai mai farti vedere con un libro in mano. Ray: Non ci sono buone battute nei libri, disse il Signore. Harry: Non dovrai nutrire desideri impuri in questi santi locali. Eviterai di guardare le Bellezze al Bagno nonché di toccarle. Ray: Punizione per uno sguardo: una cena con Polly Moran. Punizione per un pizzicotto: a letto con Polly Moran. È chiaro? «Ok. Fuori, FUORI! Tutti fuori!», interruppe Sennett scendendo dal lettino. «Dieci minuti di silenzio. Abdul, preparami la sauna e il bagno». Il Turco si affrettò verso la stanza da bagno, aprendo il rubinetto dell’acqua e quello del vapore. Sennett, nudo, gli andò dietro. Ed eccola, la Vasca! La più grande vasca da bagno di Hollywood: tre metri per due, e un metro e mezzo di profondità. Ne rimasi così affascinato che Abdul dovette spingermi via. Mentre tutti uscivamo dalla stanza, Sennett urlò: «Ray, Harry, venite qui e spiegatemi in che modo un tizio con la tubercolosi possa fare la parte di Camille. Riesco a pensare meglio nella vasca da bagno». Mentre ritornavamo all’ufficio di Waldron, Adler mi volle dare qualche consiglio: «Frank, oggi abbiamo scherzato con il Vecchio, ma non farti idee sbagliate. Mack è il re della commedia perché lui è la gente. Quello che fa ridere lui, fa ridere milioni di persone. Salve John», salutò Waldron. «Hai vinto tu. Frank comincia a trentacinque. E domani gli darai l’aumento a quarantacinque». «Gli darò che cosa?» Ma Felix stava già salendo le scale di corsa. Il terzo piano era pieno di impiegati e di schedari. «L’ufficio contabilità», disse Felix. «Non si può uscire inosservati dalla Torre, bisogna passare attraverso una fila di uffici. Non provarci. E il prossimo piano è il purgatorio». Salimmo su per una scala ripida e stretta. Ero circa a metà quando inciampai clamorosamente. Felix scoppiò a ridere. «Funziona sempre, è la nostra trappola. Quando Sennett saliva qui senza preavviso beccava sempre qualcuno che dormiva o che perdeva tempo, e ogni volta erano multe salate. Allora abbiamo convinto il falegname ad alzare un gradino di un centimetro. Adesso, quando Sennett arriva su, inciampa e tutti si svegliano. Non se n’è ancora accorto». In cima alla scala c’era la stanza dei gag writer, una grande stanza quadrata e piena di finestre. La «mobilia» era costituita da una dozzina di sedie da cucina, due tavoli un po’ conciati, due vecchie macchine da scrivere, fogli dappertutto, e due lunghe panche, che coi loro braccioli di legno scoraggiavano chiunque avesse avuto voglia di sdraiarsi a schiacciare un pisolino. Felix mi presentò agli altri. «Frank Capra, questi sono i prigionieri di Edendale: Tay Garnett, Brynie Foy, Vernon Smith, Arthur Ripley. Frank ha lavorato per Our Gang. Sono otto ore al giorno, quassù, Frank, e qualche
volta anche la notte, quando il Vecchio non riesce a dormire. Qui si lavora così: due buttano giù la storia, e gli altri la farciscono di gag. Sennett raduna tutti, ogni tanto, per discutere le storie, o quassù o giù nel suo ufficio. Qualche volta ci porta nella sala di proiezione per vedere il girato. Tu puoi scribacchiare le tue idee, ma non puoi scrivere sceneggiature per i registi. Ti limiti a raccontare un soggetto, e poi loro girano ricordando a memoria. È chiaro?» Arthur Ripley, un tipo alto e lugubre con lo sguardo magro e affamato, diede la sua dritta: «Frank, quando Sennett è in giro, se ti fai vedere come il Pensatore di Rodin e non apri bocca non correrai il rischio di essere licenziato per almeno sei settimane». «È vero», confermò Felix. «Il Vecchio non si aspetta molto nelle prime sei settimane. Ma se proponi una battuta e non lo fai ridere, hai chiuso. Se ti viene qualche idea, dilla prima a noi, e noi ti diremo se è abbastanza buona per Mack. Ricordatelo, ok? Per ora puoi semplicemente sederti e ascoltare. Io ritorno giù perché voglio vedere come se la cavano Ray e Harry con Mack. Stanno cercando di convincerlo a dare la parte di Camille a Turpin e quella dell’amante a Madeline Hurlock». «Felix, hai sentito cos’è successo ieri a Turpin?», intervenne uno. «Johnny Grey, per fare uno scherzo, chiama Sennett e gli dice che ha sentito che Turpin ha intenzione di farsi fare un’operazione per guarire dallo strabismo. Il Vecchio va su tutte le furie e minaccia di mettere al muro tutti i chirurghi di Hollywood». «Ehi, questa è un’idea grandiosa», interviene Brynie Foy. «Scriviamo una storia su Turpin che va da un dottore per farsi raddrizzare gli occhi». «E tutti i dottori della città finiscono strabici», continua un altro. Questo fu il mio primo incontro con i gag writer dello studio di Sennett. Alcuni giorni dopo sedevo alla mia prima riunione nell’ufficio di Sennett (cercando di sembrare il Pensatore di Rodin). Due scrittori stavano raccontando l’abbozzo di un soggetto su un certo Chester Conklin, un ingegnere delle ferrovie che perde la testa perché la sua ragazza lo lascia per il fuochista. Il soggetto era per Del Lord, il regista meglio pagato dello studio. Nonostante i soggetti di Sennett fossero di solito costruiti intorno a «temi» – i suoi preferiti erano l’Amico Infedele, Cenerentola, la Moglie Gelosa e lo Scambio di Persona – Del Lord faceva ancora splendide commedie con gag assurde, come quella di due treni in corsa che a un incrocio si arrampicano uno sull’altro, oppure quella di un treno merci e un treno passeggeri che entrano da direzioni opposte nella stessa galleria – attimi di suspense – e poi emergono trascinandosi dietro un po’ di vagoni merci e un po’ di vagoni passeggeri. Non dissi niente alla mia prima riunione. Ascoltavo e osservavo. Sennett sedeva nella grossa poltrona di pelle; portava le bretelle sopra la canottiera, e abbassato sugli occhi un cappello di paglia a cui aveva tagliato via la sommità, precorrendo così quella che sarebbe diventata una moda di Hollywood. Un pezzo di tabacco in bocca, e la sputacchiera a portata di mano. Quando ascoltava stava lì così. Se scoppiava a ridere, era come sentire dei tuoni in alta montagna, rincorsi da una lunga serie di echi. Sennett sapeva (l’aveva visto al cinema) che i re stanno seduti sul trono quando ricevono sudditi e postulanti, e noi dovevamo stare in piedi, o al massimo ci era concesso di appoggiarci al lettino dei massaggi, che occupava una buona metà della stanza. Dietro la poltrona di pelle c’era la toilette, un piccolissimo locale di due metri quadrati. Dato che non c’erano porte, anche da quello stanzino si poteva sentire, e Sennett voleva che noi continuassimo a parlargli anche quando era lì dietro a espletare le sue funzioni. Questo era l’ufficio di Sennett, piuttosto diverso dai sontuosi palazzi dai quali altri marajà di Hollywood governavano i loro regni. Ma quest’uomo, ex costruttore di caldaie, grossolano, spaventato dalla parola scritta, che guardava con sospetto chiunque parlasse di arte o portasse la
cravatta, che raramente, e forse mai, lasciava uscire una battuta, questo rozzo Rabelais era l’indiscusso Re della Commedia, o, come lo descrisse Gene Fowler: «il Napoleone del berretto a sonagli, [che] creò per se stesso e per milioni di uomini un paradiso di risate...» Lavoravo da Sennett da due settimane quando per la prima volta trovai il coraggio di proporgli una gag – e senza consultarmi con gli altri. Era sua abitudine volerci tutti, alla fine della giornata, nella sala di proiezione, per vedere quello che avevano fatto i registi. Ai registi non era permesso di vedere il loro lavoro. Se una scena gli sembrava troppo lenta o poco divertente, ci chiedeva di tirar fuori qualche battuta per movimentarla. Ed ecco sullo schermo una scena in cui Eddie Gribbon, il cattivo, cerca di aprire una porta. Tira tira finché la maniglia gli rimane in mano. Allora picchia sulla porta, la prende a calci, tenta di sfondarla a spallate. Niente, non si apre. A questo punto il cattivo si arrende e se ne va. «Questo non fa ridere», disse Sennett. «Questa scena ha bisogno di essere condita. Chi ha qualcosa da suggerire?» «Io, signor Sennett», intervenne uno. «Dopo che Gribbon ha tentato in tutti i modi di sfondare la porta, facciamolo girare verso il pubblico e pronunciare una sola parola: «Chiusa!» «Perfetto!», urlò Sennett. «Faremo così». «Ho un’altra idea, signor Sennett». Le parole mi uscirono dalla bocca senza volerlo. Nella stanza cadde il silenzio. Felix Adler e gli altri cercavano di farmi capire, gesticolando, che dovevo stare zitto. Sennett sputò il tabacco, poi, lentamente, girò la sua poltrona verso di me. «Davvero?», domandò, giocherellando con le monete che aveva in tasca. «Sentiamo». I miei colleghi alzarono gli occhi al cielo. «Ecco, signor Sennett», sentivo la mia voce quasi spezzata. «A questo punto, dopo aver detto “Chiusa!”, Gribbon vede un gatto che va verso la porta, la spinge con la zampa, e la porta si apre». La risata di Sennett risuonò nella stanza. «Splendido, Frank. Questo sì che fa ridere. E poi che succede?» «Oh-h-h... ecco... a questo punto la porta si richiude tranquillamente. Gribbon allora ha un’idea. Si mette giù a quattro zampe, si avvicina alla porta come aveva fatto il gatto, e la spinge delicatamente con la sua zampa. Niente da fare. La porta non si vuole aprire. Allora ricomincia da capo tentando di sfondare la porta con tutto il suo peso...» «Splendido!», gridò Sennett. «A questo punto il gioco ricomincia. Avanti, ragazzi, facciamolo continuare. Che cosa viene dopo?» Ed è così che nacquero nella commedia i giochi di ripetizione, un’idea che ne accendeva un’altra, talvolta piano piano talaltra come un susseguirsi di fuochi d’artificio. Mi ci vollero sei mesi per superare la posizione di principiante ed entrare finalmente nello staff di gag writer di commedie originali. Lo stesso Sennett me l’annunciò un giorno, sempre nel suo strano gergo. «Frank, ragazzo mio, ormai hai messo le ali; non sei più un apprendista e puoi volare e correre da solo. Capisci cosa voglio dire?» «Signor Sennett, se insieme a tutte quelle metafore ci mette un aumento di dieci dollari alla settimana avrò capito esattamente quello che vuole dire». «Tutto quello che voi scrittori avete in mente sono i soldi? E va bene, vai a parlarne con Dick Jones. Voglio aggiungere, Frank, che sei un ragazzo brillante. Capisci?» «Abbastanza brillante da diventare regista?» «Regista? E perderti come ottimo scrittore comico? Tu sei pazzo. Vai a parlare con Dick Jones». Ma chi era Dick Jones? Novantanove persone su cento, a Hollywood, non avevano mai sentito parlare di lui. Lo conobbi solo dopo diverse settimane che lavoravo da Sennett.
Spesso si dice che Hollywood ha prodotto solo tre veri geni: Charlie Chaplin, Walt Disney e Irving Thalberg. Ecco, io credo che Dick Jones fosse l’Irving Thalberg delle commedie di Sennett. Erano tutti e due grandi catalizzatori di creatività, ammirati e adorati da scrittori, registi e attori. Entrambi volevano l’anonimato, non volevano i loro nomi in cartellone né sullo schermo. Entrambi funzionavano, nei rispettivi studios, come leader di tutta la produzione. Avevano cominciato nel cinema all’età di sedici anni, avevano saltato tutte le tappe, e prima di arrivare ai trenta guadagnavano già milioni di dollari; morirono entrambi prima di arrivare ai quaranta uccisi dai ritmi di lavoro insostenibili. Ma c’era una differenza fra i due: Thalberg e il suo diretto superiore, Louis B. Mayer, si odiavano profondamente. Il giorno della morte di Thalberg vidi Mayer ballare tutta la notte in un night su Sunset Strip. Dick Jones, al contrario, ammirava e stimava lo straordinario senso dell’umorismo di Sennett, e garbatamente lasciava a lui tutti i meriti. «Senza il genio del Vecchio», diceva Jones, «non ci sarebbero le commedie di Mack Sennett, e non ci sarebbe Dick Jones». Scrittori e registi sapevano però che, se Sennett era il cuore, il corpo e il nome dello studio, Dick Jones ne era il cervello. Distribuiva i compiti a scrittori e registi, assegnava le parti agli attori, studiava i soggetti, faceva la supervisione del montaggio. E poi, senza darlo troppo a vedere, sperimentava tutto sul Vecchio. Benché Sennett non avesse un gran senso dell’umorismo – almeno come noi di solito lo intendiamo – le sue reazioni alle commedie erano un eccezionale barometro per prevedere le reazioni del pubblico. Se Sennett rideva, il pubblico avrebbe riso. Se Sennett non rideva, allora: «Riscrivi e rifai tutto!», diceva Dick Jones. Non mi ci volle molto per capire che Dick Jones conosceva e capiva la commedia più di chiunque altro in quello studio: la costruzione, i tempi, la struttura di una scena comica, il susseguirsi a sorpresa di un fatto dopo l’altro, fino alla conclusione della battuta finale. Dick Jones era l’uomo che cercavo. Mi misi al suo fianco e gli restai accanto giorno e notte, come una sanguisuga, cercando di imparare tutto quello che sapeva lui. Viveva da solo all’Athletic Club di Hollywood: giovane (sui trenta), attraente, uno scapolo sposato, sposato al suo lavoro. Mi capitava spesso di bussare alla sua porta di notte. «Chi è?» «Dick, sono Frank. Mi è venuta un’idea per Turpin». «Vai a casa. Non dormi mai?» «Mi sembra una buona idea. Non ci vuole più di un minuto». «E va bene», diceva aprendo la porta, «ma fai in fretta. C’è giù una signora che mi sta aspettando in macchina». (Era probabilmente Mabel Normand.)3 Ma appena cominciavo a raccontargli una storia, lui si accendeva, si entusiasmava, costruiva intorno alla mia idea, o ne inventava un’altra ancora più divertente. Dimenticava la donna che lo aspettava, e non smettevamo fino a quando non avevamo messo insieme un’intera sequenza, compresa la battuta finale. Le battute finali erano quelle su cui ci spaccavamo il cervello: era la conclusione inaspettata che doveva far impazzire il pubblico, che doveva mandano in estasi. Così, quando Sennett mi disse «Vai a parlare con Dick Jones». Io corsi subito a cercarlo nel suo ufficio. Una conversazione con Dick era sempre intellettualmente piacevole per me. «Un aumento di dieci dollari», sbottò a ridere Dick Jones, «il Vecchio mi ha appena telefonato dicendo di fare quindici. Forse non lo sai, ma ha tenuto gli occhi puntati su di te fin da quando te ne sei uscito con quella gag del gatto che apre la porta. Da allora i nostri registi l’hanno usata in una dozzina di versioni. Dimmi, scienziato. Sono curioso. Quell’idea è stata un’illuminazione spontanea o l’hai tirata fuori da Euclide?» «Be’, se proprio vuoi saperlo, Dick, quando ero all’università ho avuto un professore di
letteratura fantastico, si chiamava Judy. Una volta ci intrattenne per un’ora parlando di ciò che lui chiamava “l’intransigenza degli oggetti inanimati”. Il fatto per esempio che il bottone del colletto vada sempre a finire sotto la scrivania; il fatto che, se hai due chiavi, quella che provi per prima è sempre quella sbagliata; il fatto che piova sempre quando tu dimentichi l’ombrello e così via; insomma, ha capito l’idea. La sua conclusione era che ci fosse una cospirazione fra gli oggetti inanimati per frustrare gli sforzi degli uomini, specialmente di quelli antipatici. Questo è il motivo per cui, diceva, le persone che non hanno fiducia nel prossimo sono più inclini degli altri agli inconvenienti di questo tipo. È il motivo per cui i muli scalciano solo alcuni, o perché i bufali attaccano improvvisamente un uomo, ma lasciano che un bambino gli giochi sul dorso, o perché Daniele rimase illeso nella fossa dei leoni. Non ho mai dimenticato quella lezione. E così, quando quella “porta intransigente” non voleva aprirsi per Gribbon, ho pensato “Ah, ma si aprirà per un bambino, per un gatto”». «Hmmm, come la chiami? L’intransigenza degli oggetti inanimati? Non vedo l’ora di sputarlo in faccia a qualche pseudointellettuale di mia conoscenza. Frank, perché non ceniamo insieme stasera, all’Athletic Club? Voglio parlarti di un attore di vaudeville che il Vecchio ha appena assunto. È un uomo di mezza età, con una faccia da bambino. Ti mostrerò le sue foto. Non ho la più pallida idea di quello che possiamo fargli fare. Si chiama Harry Langdon». Non potevo certo sognarmi ciò che Harry Langdon avrebbe rappresentato per la mia carriera. Ma prima di incominciare la saga tragicomica di quello che fu uno dei migliori comici del mondo, voglio raccontare di quando, applicando la mia teoria dell’intransigenza degli oggetti inanimati, rischiai di essere licenziato dallo studio di Sennett. Mi era stato assegnato, insieme a Vernon Smith, un soggetto comico per il duo Ben TurpinMadeline Hurlock, una storia di cui ho dimenticato la trama. C’era però una scena in cui lo strabico Ben riesce finalmente a convincere Madeleine a salire in macchina con lui. Scopo della gita: andare a sbaciucchiarsi al chiaro di luna. Il povero Ben implora Madeleine, ma lei non si lascia convincere tanto facilmente. Allora lui minaccia di buttarsi giù da un burrone. Il burrone mi diede l’idea per una gag che, a mio avviso, sarebbe stata splendida: una ruota capricciosa, l’intransigenza degli oggetti inanimati. Prima di quel giro in macchina il rivale geloso di Ben ha allentato il bullone fra l’asse della macchina e una delle ruote posteriori. E a un certo punto quella ruota arriva proprio sull’orlo di un precipizio. La scena romantica che si svolgeva in macchina doveva essere inframmezzata dalle riprese della ruota. Ad ogni appassionato tentativo di Ben, la ruota scivolava in fuori, quasi sul punto di cadere giù dal precipizio. E ogni volta che Madeleine calmava i bollenti spiriti del pretendente, la ruota ritornava al suo posto. Il finale? Quando Ben si alza in piedi e dice in tono drammatico «Se non mi ami più mi lascerò scivolare verso la morte», la ruota scivola davvero, l’asse posteriore si spezza, e Ben finisce in fondo al burrone. Inorridita, Madeleine corre giù, e lo abbraccia dicendogli: «Ti amo, mio eroe. Non morire...», o qualcosa del genere che solo Johnny Grey sa scrivere. Vernon Smith era d’accordo, gli piaceva; piacque anche agli altri, e anche a Dick Jones. La raccontai infine a Sennett. «Non mi piace, Frank», mi disse subito. «Non fa ridere». Cercai di ribattere. «Ho detto che non fa ridere», concluse seccato. «E non andare a raccontarla al regista, come si chiama? Lloyd Bacon. È chiaro? Ero furioso. In gran segreto raccontai l’idea a un attore minore impegnato nel film, che, come avevo sperato, la raccontò a Lloyd Bacon. Bacon ne fu entusiasta, e girò la scena. Alcuni giorni dopo eravamo tutti nella sala di proiezione, come al solito, per vedere le riprese della giornata. La scena della ruota sull’orlo del burrone apparve sullo schermo. Sennett fumava di
rabbia. «Tu, piccolo dannato dago,4 non ti avevo ordinato di non raccontare a Lloyd Bacon quella stupida gag?» «Non ho mai parlato con Lloyd». «Bene, qualcuno l’ha fatto, e com’è vero che sono qui, sarà licenziato. Si volse verso il responsabile del montaggio, Bill Hornbeck (che lavorò poi con me per vent’anni, e che ora dirige tutto il montaggio alla Universal). «Bill, non oserai tenere quella balordaggine nel film. Taglia via tutto». La mia reazione immediata verso i dittatori che esigono obbedienza cieca è quella di mandarli a quel paese, e ho sempre reputato boriosi e idioti quelli che si considerano infallibili. Non ero disposto a essere insultato da nessuno, anche se questo significava rischiare il posto di lavoro. «Signor Sennett, questo è soltanto il mio lavoro. Lei è il capo e può anche licenziarmi, ma non le è permesso di insultarmi. Sono orgoglioso di essere un dago, e sono orgoglioso di quella scena. E la prego di non tagliarla dal film prima che un pubblico la possa giudicare». «Pensi ancora che quella gag sia divertente?» «Sì, lo penso». «Ti potrebbe costare il posto, se non fa ridere». «Se questo posto mi richiede di dirle passivamente di sì, anche quando non sono d’accordo con lei, allora non è un gran posto». «Sei un pazzo. E ti proverò che ho ragione. Lascerò quella scena per l’anteprima. Ma tu verrai in sala con me ad assistere alla proiezione, mister so-tutto-io, e lì imparerai la lezione della tua vita». La sera dell’anteprima il pubblico rise fragorosamente dall’inizio alla fine di quella scena. Finita la proiezione, avvicinandomi al Vecchio, cercai di trattenere un sorriso di soddisfazione. Era paonazzo. Puntò il dito verso di me. «Vieni qui, dago. Di chi è il nome sul cancello dello studio?» «È il suo, signor Sennett, naturalmente». «Ci puoi scommettere che è il mio. Sei LICENZIATO». E se ne andò, lasciandomi lì stordito. Felix Adler mi venne vicino e mi sussurrò all’orecchio: «Il Vecchio è furioso. Potrebbe non funzionare, ma fatti vedere davanti al cancello per tre giorni. Arrivaci presto, e stai lì fino a tardi – con un vestito vecchio, e uno sguardo triste e abbattuto. Tutti abbiamo dovuto farlo, anche Charlie Chaplin, capisci?» La mattina dopo all’alba ero già davanti al cancello; non mi ero fatto la barba, avevo un vestito vecchio, e un panino in tasca. Quando uscii di casa quella mattina mia moglie mi disse: «Te lo avevo detto che ti avrebbero spezzato il cuore da Sennett. Anche quando hai ragione ti fanno mangiare merda. Non farlo». «No, Helen. Lo farò. L’errore è stato mio. Ho fatto fare a Sennett la figura dello stupido, davanti a tutti. Non si può calpestare l’ego di un generale di fronte al suo intero esercito». Gli uomini delle pulizie, che entravano presto, vedendomi lì a camminare avanti e indietro davanti al cancello mi prendevano in giro. «Ehi, amico, c’è carne fresca al muro del pianto...» «Battiti il petto, ragazzo, non il marciapiede...» «Pentiti, peccatore! Inginocchiati...» Mi misi a ridere e chiacchierare con loro, finché il guardiano uscì dalla cabina per avvertirmi che «stare davanti al cancello» doveva essere una penitenza, non un picnic, e che il Vecchio non solo mi avrebbe tenuto d’occhio costantemente dall’alto della Torre, ma che avrebbe anche chiesto informazioni sul mio comportamento ai guardiani. Capii che cosa intendeva. Mezz’ora dopo – due ore prima di quanto facesse di solito – Sennett arrivò a bordo della sua Rolls Royce. Umilmente, come un penitente che chiede perdono, cercai di incontrare il suo sguardo.
Mi passò davanti senza guardarmi, con indifferenza regale. Richiudendo il cancello, il guardiano mi fece un cenno d’approvazione: il mio atteggiamento da cane bastonato era quello giusto. Arrivò Felix Adler – anche lui molto presto. Mi lanciò uno sguardo d’incoraggiamento, ed entrò senza fermarsi. Era una sceneggiata, una comica per quelli che la vedevano dall’esterno, ma maledettamente importante per me. Era in gioco il mio lavoro, il mio futuro. Avevo commesso l’imperdonabile errore di sfidare l’infallibilità di quel Nome scritto sul cancello. Ora dovevo espiare il mio peccato, confessare in pubblico la mia vergogna, mangiare la polvere, e stare davanti a quel cancello, camminare in penitenza avanti e indietro, sotto quel Nome che avevo osato pronunciare invano, e recitare pubblicamente al Re Mack, nella Torre, il mea culpa, sperando che avesse pietà di me. La mia natura impulsiva avrebbe sopportato questa umiliazione? Non lo sapevo ancora. Continuavo a camminare avanti e indietro. Sotto il sole cocente, il tempo sembrava non passare mai. Mi asciugavo il sudore sulla fronte e camminavo. Era come fare un picchetto, questa volta per il mio lavoro. Da allora in poi, provai sempre una gran pena per i picchetti. Finalmente, dopo un’infinità di tempo, suonò la sirena di mezzogiorno. Tirai fuori di tasca il mio panino, ma mi sentii raggelare quando vidi il guardiano che correva ad aprire il cancello. Dato che il cancello grande veniva aperto solo per Sennett, gettai subito il panino e mi ricomposi nell’atteggiamento penitente. Non volevo che il Re mi sorprendesse a mangiare come un idiota soddisfatto. Vidi una folla che arrivava verso il cancello. «Attento, Frank!», gridò il guardiano. C’erano operai, attori, impiegate, sembrava un gregge di pecore spaventate che si affollavano verso l’uscita. Non feci in tempo a tirarmi da parte, e fui buttato a terra. Il corteo si diresse correndo verso Sunset Boulevard, sulla collina, a poche centinaia di metri. Gli uomini usavano attrezzi da lavoro per far rumore, le donne si sollevavano le sottane, lasciando intravedere ogni sorta di biancheria intima. Si riversarono sulla strada ostacolando il traffico. Qualcuno cadeva, si rialzava, proseguiva con gli altri. Nessuno si voltava indietro. Mi rialzai e chiesi al guardiano che cosa diavolo stesse succedendo. «Ah, è la prima volta che vedi il corteo alla banca? Succede, di tanto in tanto, nei giorni di paga. È circolata la voce che non ci sono abbastanza soldi per tutti gli stipendi». Mi ripulii un po’ e cercai il mio panino, ma inutilmente. Il passaggio di quella folla l’aveva ridotto in poltiglia. Era già buio quando il cancello si aprì per far passare Sennett. Di nuovo cercai, contrito, di incontrare il suo sguardo. E di nuovo il suo viso di pietra mi respinse indifferente, come quello di un Buddha irlandese. Stanco e umiliato mi trascinai verso la macchina, con le gambe indolenzite. A casa, con i piedi a bagno nell’acqua calda, mandavo giù i Martini che Helen mi preparava rimproverandomi che non dovevo lasciarmi trattare in questo modo. «Non posso andarmene adesso, amore. Non è solo il lavoro a essere in gioco. È una sfida. Se l’ha fatto Charlie Chaplin, posso farlo anch’io. E Felix mi ha assicurato che non dura mai più di tre giorni». Il secondo giorno fu pura agonia. Dall’alba al tramonto nessuno mi degnò neppure di uno sguardo. La mia presenza là era diventata parte del paesaggio. Il mio aspetto era talmente disperato che un turista gentile mi mise in mano dieci centesimi. Il terzo giorno ero pieno di speranza: era il giorno della resurrezione. Sennett mi era passato davanti come al solito senza guardarmi, ma non mi preoccupai. Felix mi aveva detto che dal guardiano mi sarebbe arrivato il messaggio che la penitenza era finita. Ogni ora chiedevo al guardiano se il messaggio era arrivato.
«Niente. Nessun messaggio». Arrivò mezzogiorno, ancora niente. Le due, le quattro, le sei, nessun messaggio. Cominciai a sudar freddo. Che davvero avesse deciso di licenziarmi? Sennett era ancora nel suo ufficio. Le sette, le otto, le NOVE, nessun messaggio. Finalmente il cancello si aprì. Vidi la sua macchina che arrivava. Ma certo, pensai, voleva essere lui a dirmi la parola tanto attesa. Ero lì in piedi, davanti alla luce dei fanali e... feci appena in tempo a saltare di lato quando la macchina sfrecciò via senza fermarsi. «Va’ all’inferno, brutto figlio di puttana!», urlai dietro alla Rolls Royce che si allontanava. «Che cosa succede?», chiese stupito il guardiano. «E questo vale anche per te, cretino!» Mi precipitai a casa. Furente spalancai la porta gridando: «Helen! Ho bisogno di bere!» «Lo sapevo», disse lei tranquillamente. Sognai tutta la notte, sognai che volevo distruggere Mack Sennett. Davo fuoco allo studio, e i palchi e i teatri bruciavano uno dopo l’altro, la Torre crollava rovinosamente. Solo quel maledetto nome scritto sul cancello si rifiutava di scomparire fra le fiamme. La mattina dopo, ben rasato e con il vestito migliore, tornai davanti al cancello e aspettai Sennett. Avrei fermato la macchina di quello scimmione e gli avrei detto che poteva andare all’inferno lui, il suo studio, la sua Torre, e il suo nome sul cancello. La macchina arrivò, e si fermò aspettando che aprissero. Mi avvicinai, pronto a pronunciare un discorso memorabile. Lui abbassò il finestrino, e mi batté sul tempo. «Frank, piccolo dago, che cavolo stai facendo qui fuori? Perché non sei nella Torre a lavorare?» Rimasi ammutolito. «Entra. Ti porto su io», disse aprendo la portiera. Salii, incapace di aprire bocca. Lui sorrideva. «Frank», continuò mentre la macchina ripartiva «si è fatto un gran parlare della tua scena della ruota. Scommetto che, nel giro di una settimana, tutti i registi comici a corto di idee l’avranno già copiata». Questa era la vita nello studio di Sennett. 3. Mabel Normand (1894-1930), attrice comica che ha esordito alla Vitagraph, nota soprattutto come coprotagonista di numerosi cortometraggi di Charlie Chaplin. [n.d.t.] 4. Dago è un termine dispregiativo riferito a immigrati italiani, portoghesi o spagnoli. [n.d.t.]
4. FACCIA D’ANGELO
Il progresso umano si presenta, dal punto di vista storico, come un processo irregolare e discontinuo, fatto di rotture e di grossi balzi in avanti – l’età della pietra, l’età del bronzo. Ogni nuova era ha avuto inizio con un cambiamento, e i cambiamenti, di solito, sono stati opera di un uomo. Attraverso la porta che quell’uomo ha spalancato su ricchezze di pensiero fino ad allora inesplorate altri sono passati per realizzare nuove scoperte e nuove conquiste. Così Socrate diede inizio all’età dell’oro della filosofia, aprendo la porta a Platone, Aristotele, San Tommaso; Copernico diede inizio all’astronomia; Galileo alla fisica; Mendel alla genetica; Einstein alla relatività; Goddard all’età dello spazio. L’età dell’oro della Commedia, nel cinema, fu aperta da Mack Sennett. Studente e discepolo devoto di D.W. Griffith (il primo e forse più grande artista del cinema), Sennett proseguì da solo fondando quella che potremmo definire la Scuola del Cinema Comico. Attraverso le porte aperte (ma non facili da oltrepassare) di questa stupenda casa di matti passarono artisti come Chaplin, Keaton, Lloyd, Sterling, Beery, Dressler, che andarono poi a fondare altre scuole. Queste stelle luminose stavano già brillando altrove quando io arrivai da Sennett, verso la fine del 1924. Non c’era più neanche il grande «Fatty» Arbuckle: malgrado le prove della sua innocenza, era stato brutalmente sacrificato sull’altare dell’odio, per accontentare i bigotti che volevano la sua testa, dopo la morte accidentale di Virginia Rappe. Sennett aveva perso un’altra grande stella, anche lei innocente: Mabel Normand, un Chaplin al femminile, la donna che Sennett aveva sperato di sposare. Anche lei era stata bandita e condannata all’oblio – e a una morte prematura – da quei cacciatori di streghe che la volevano in qualche modo implicata nell’oscura morte del regista William Desmond Taylor. Ma nonostante la fuga di stelle verso cieli più luminosi, e la perdita di quei due insostituibili artisti voluta dai bigotti, il Vecchio, il padre fondatore e attuale direttore di quella Scuola del Cinema Comico, continuava a produrre commedie di crescente successo, anche se con stelle meno fulgide, come Ben Turpin, Chester Conklin, Billy Bevan, Hank Mann, Eddie Gribbon, Fred Mace, Bull Montana, Polly Moran, Louise Fazenda. Madeline Hurlock era la fredda, bellissima vamp; Alice Day, Sally Eilers e Marie Prevost erano le ragazze più giovani; e infine c’era Carole Lombard, una bellezza bionda di sedici anni. Ma Sennett era sempre alla ricerca di volti nuovi, e la sua ultima «scoperta» era Harry Langdon – una «scoperta» non condivisa da tutti nello studio. Harry Langdon e la moglie, negli ultimi quattro anni, avevano calcato le scene dei teatrini di vaudeville con una commedia che aveva per soggetto una vecchia automobile. Speravano solo di continuare a lavorare per poter vivere dignitosamente. Girava la voce che la signora Langdon tenesse ancora tutti i loro risparmi in un borsellino che portava appeso al collo. Sennett fece fare delle riprese di questa commediola, e volle che tutti noi dello studio andassimo a vedere la proiezione. Quando venne il mio turno, ci andai con Dick Jones, Arthur Ripley e due altri gag writer. Il titolo era La nuova macchina di Harry. All’alzarsi del sipario appariva sulla scena un vecchio macinino sbuffante, che ansimava come un polmone malato. I due a bordo della macchina ne seguivano i movimenti, un po’ spaventati, finché Lizzie (così si chiamava la macchina) si fermava del tutto, con il radiatore scoppiato e una nuvola di fumo che saliva dal
motore. Al volante c’era Harry Langdon, un viso d’angelo con le guance da luna piena; portava un cappellino rotondo con la tesa all’insù, e un cappotto abbottonato stretto intorno al collo, ma aperto e svolazzante dalla vita in giù. La sua faccia e le sue mani erano pallide e paffutelle, proprio come quelle di un bambino, e in effetti, nonostante avesse già quasi quarant’anni, tutto di lui ricordava un bambino cresciuto troppo in fretta. Gli sedeva accanto la moglie, truccata come un’arpia con la faccia d’avvoltoio, aggressiva, dominatrice, tutta piume e fronzoli. Harry affidava a gesti lenti, precisi, la sua pantomima. Solo la moglie parlava, o meglio strillava. Lanciando a Harry uno sguardo furente, si metteva a sbraitare furibonda, mentre appariva la didascalia: «Idiota! È questo il catorcio che ti hanno venduto come macchina nuova?» Con un sorriso mortificato Harry usciva dalla macchina per dare un’occhiata al motore. Lentamente, molto lentamente, come un bambino che cerchi di calmare il micio arrabbiato, dava leggeri colpetti sul radiatore. A quel punto il ferrovecchio sobbalzava, quasi travolgendolo. Harry si tirava da parte terrorizzato, sempre tenendo in mano il suo buffo cappello, ma veniva fermato dall’urlo di sua moglie. Didascalia: «Harry! Torna subito qui!» Allora Harry tornava alla macchina, come una pecorella smarrita. Provava a girare la manovella. Niente. Provava più forte. Ancora niente. Spazientito, sgridava allora la macchina alzando il dito in un gesto di rimprovero, come una bambina sgriderebbe la sua bambola disubbidiente. Lizzie si scuoteva. Il motore ripartiva rombando. Harry balzava in macchina, e guardando la moglie con un sorriso di trionfo si metteva al volante. Ma il motore si fermava di nuovo. Confuso, Harry usciva ancora dalla macchina, ma questa volta gli rimaneva in mano la portiera. E così la commedia andava avanti per altri dieci minuti, con il piccolo Harry dal viso d’elfo preso fra due fuochi, quel diavolo d’un motore da una parte e quella bisbetica di sua moglie dall’altra. Quando si riaccesero le luci, Dick Jones si volse verso di noi: «Bene, ragazzi, l’avete visto. Starà con noi per un bel pezzo. Il Vecchio ci vede qualcosa in questo Langdon anche se non so bene cosa. Preso così è un attore come ce ne sono tanti. Avete qualche idea?» «Te lo dico subito, Dick», disse uno degli scrittori. «Questo Langdon non ha bisogno di sonniferi. Gli bastano cinque minuti per farti chiudere gli occhi. Io passo». «Ehi, un minuto, ragazzi», disse Dick Jones. «Non potete trattare così le “scoperte” di Sennett. Non dimenticate che alcune sono diventate stelle famose. Ho cercato di convincerlo che questo Langdon non è niente di speciale, ma lui ha insistito “No, qui c’è qualcosa, lavorateci”». «Dick», aggiunse un altro. «Quando avrai scoperto che cosa ci trova il Vecchio in questo tizio, che ha recitato solo in teatrini di provincia, faccelo sapere. Per ora passo anch’io». «Andate all’inferno», disse Dick disgustato. «E ricordatevi che dovete passare da Del Henderson. Ha bisogno di un’idea per quella scena in cui la Hurlock arriva al party a cui non era stata invitata». «Oh, abbiamo già dato a Del un’idea grandiosa. La Hurlock arriverà al party con un leone seduto sullo strascico del suo vestito, e darà una lezione a tutte quelle vecchie ereditiere». «E la Hurlock ha saputo del leone?» «Certo! E ha detto solo: “Un altro sudicio leone? E va bene. Basta che stavolta non abbia l’alito cattivo”. Arrivederci!» E così io, Jones e Ripley rimanemmo soli nella sala di proiezione a meditare su Langdon. L’allampanato e malinconico Arthur Ripley si lasciò scivolare sulla poltroncina fino quasi a toccarne il fondo con le spalle. Si teneva il volto, magrissimo, fra le mani, gli occhi ancora fissi sullo schermo. Veniva da New York, dal mondo del teatro, e per questo era considerato un
intellettuale, un teorico. Poteva parlare per un’ora senza che nessuno capisse quello di cui stava parlando. Ogni film, secondo lui, doveva «dire» qualcosa, doveva avere un inizio e una fine, doveva avere un tema. Sentirlo blaterare sul tema di un film era come ascoltare dischi di Chopin o Wagner suonati al contrario. Per portarti fino a Pasadena, doveva fare prima il giro del mondo. Ma se avevi la pazienza di vedere al di là delle iperboli, e di ascoltare la musica suonata all’indietro, allora, alla fine, potevi arrivare al dunque. Jones ruppe il silenzio: «Arthur, tu sei l’esperto di teatro. Non hai da proporre nessuna trama o controtrama che ci possa aiutare con Langdon?» Ripley si raddrizzò tossendo. «Maledetti dolori al petto... mi stanno uccidendo. Cosa vuoi che ti dica, Dick? Ho cercato di fare un’analisi. Ma che tipo di magia potrebbe trasformare questo folletto? D’altro canto non possiamo lasciarlo perdere, e dato che la mia lampada di Aladino non mi viene in aiuto, suggerisco di pregare. Perché penso che a questo punto Dio solo può aiutarci con questo Langdon». A queste parole feci un balzo. «Un momento!», esclamai alzandomi in piedi. «Dick, questo potrebbe funzionare. Credo che Arthur abbia avuto un’idea...» «Tutto quello che ho è un dolore al petto...» «No, no, Arthur. Quando tu hai detto che solo Dio potrebbe aiutare un folletto come Langdon», continuai io. «Dio è il suo alleato, capisci? Harry arriva dappertutto e conquista tutti con la bontà. Come il buon soldato Švejk». «E chi è il buon soldato Švejk?», chiese Dick Jones. «Un austriaco. Un soldato di buon cuore, che amava tutti, anche i nemici». «Il soldato Švejk», disse Ripley riprendendo vita. «È un’idea eccellente. Come Pippa Passes. E lascia dietro di sé una scia di bontà. Eccellente, Dick». «Ma dov’è la commedia?», chiese Dick, che non voleva lasciarsi convincere troppo facilmente. «E dov’è la commedia in Chaplin?», ribattei io. «È nella sua personalità di piccolo vagabondo. Harry sarà il piccolo elfo. Senti Dick, perché non lasci che io e Ripley ci lavoriamo? Dacci Harry Edwards come regista». «Perché Harry Edwards?» «Non so. È sensibile, dolce, non so spiegare...» Quelli che lavoravano nello studio andarono in massa a vedere l’anteprima del primo film con Harry Langdon. Ne ho dimenticato il titolo. La mattina seguente c’era una grande eccitazione in giro. «È nata una nuova stella», si diceva. Sennett convocò una riunione nel suo ufficio. A Hollywood, la felicità significa un successo; l’estasi, un grande successo. Mentre tutti facevano enormi sorrisi, Sennett ebbe parole di lode per me, per Ripley, e soprattutto per Harry Edwards, per la sua splendida regia. Poi, sputando un pezzo di sigaro, aggiunse: «E potrei dire qualcosa a proposito di me stesso, ma non lo farò». «Lo farò io», disse ridendo Dick Jones. «Tu ce l’avevi detto. Ce n’è solo uno di Mack Sennett, non è vero, ragazzi?» Seguì un applauso generale. Sennett era soddisfatto. «Via, andiamo, ragazzi», balbettò come un rinoceronte imbarazzato. Un successo non fa una rondine... a primavera... o come si dice! Sarà il prossimo a contare. Non è vero, Dick?» «I ragazzi hanno già la sceneggiatura per il prossimo. A proposito, capo, io credo che dovremmo mantenere la stessa squadra di lavoro per Langdon, che ne dici?» «Vuoi dire che loro soltanto possono scrivere e dirigere Langdon?» «Più o meno... E sono loro che hanno inventato il personaggio». «Andiamo, Langdon era Langdon prima ancora che lo prendessero in considerazione. Ma non
so, Dick... se tu pensi così. Ma non lasciare che si montino la testa. Lo sai come sono fatti». «Mack, devo chiederti un favore», disse Harry Edwards. «So che è contro le regole, ma vorrei il permesso di avere Arthur e Frank sul set se ho bisogno di loro. Harry Langdon non è come gli altri. E i ragazzi sono bravi a improvvisare battute lì per lì, che Harry può trasformare in nuove risate». «Un momento, un momento. Questo è rompere una regola. E gli altri gag writer?», borbottò Sennett perplesso. «Signor Sennett», intervenni io, alzando la mano in segno di difesa, «io non intendo rompere nessuna regola. Non voglio trovarmi di nuovo fuori da quel cancello. Ma questo Langdon è davvero diverso. È una miniera d’oro. Vorremmo capirlo meglio, studiarlo più a fondo. Non possiamo farlo qui dalla Torre. Vorremmo poterlo portare fuori a pranzo. E non lo possiamo fare se lei ci ordina un panino e un bicchiere di latte dal suo ristorante, per non farci sentire pesanti al pomeriggio...» «Chi credi di imbrogliare, dago? Quello che vuoi tu è fare il regista. E per questo che vuoi stare sul set». «Posso dire la mia, signor Sennett?», domandò Ripley. «Io non ne so niente delle ambizioni di Frank di diventare regista, anche se, per quanto mi riguarda, sarebbe un ottimo regista, ma quello che Frank sta cercando di dire, ed è la stessa cosa che lui notò dopo aver visto Langdon per la prima volta, è che il tema di Langdon, la sua chiave, potremmo dire, è l’innocenza. Questo è un tema maledettamente fragile signor Sennett, non ancora compreso da molti, neanche da Langdon, e anche noi dobbiamo ancora capirlo bene. È tutto così fragile che un errore può facilmente ritrasformare Langdon in un comico mediocre. Questa è la ragione per cui vorremmo studiarlo...» «Oh, andate all’inferno ragazzi», disse Sennett arrendendosi. «Siete dei maledetti avvocati. E va bene. Ma ora tutti fuori...» L’immediato successo di Langdon fu davvero straordinario, perfino per gli standard di Hollywood, la terra delle stelle che sorgono e tramontano come meteore. In meno di un anno divenne famoso in tutto il mondo. I critici lo mettevano sullo stesso piano dei «tre grandi»: Chaplin, Keaton, Lloyd. Fu allora che Sennett mi coronò con l’alloro di «buona condotta», e divenni il suo beniamino. Il Vecchio stava ormai invecchiando davvero, ed era sempre più solo. Il miraggio delle nozze con Mabel Normand, a cui era spesso arrivato vicino, ma che ogni volta gli sfuggiva prima che riuscisse a portarla all’altare, era ormai svanito per sempre, distrutto dagli scandali. Viveva solo, nella sua splendida villa Westmoreland, con un numero indefinito di lussuosi bagni, e un numero ancor più indefinito di maggiordomi in livrea. Aveva bisogno di amici, di persone con cui potesse stare bene in compagnia, disposte ad ascoltare le sue storie e i suoi ricordi. Li andò a cercare soprattutto fra coloro, dei suoi collaboratori, che capiva di meno, ma che amava di più, i suoi gag writer. «Frank, che ne diresti di venire da me con i tuoi amici domani, a vedere qualche nuovo film e farci un po’ di risate?» Questo fu il segnale: ero diventato il suo «beniamino della settimana». Dopo aver mangiato e dormito, mi trovai lì a ridere e ascoltare il Re della Commedia che raccontava le incredibili storie della sua vita: l’apprendistato come meccanico, le lezioni di canto, la vita a New York, i due anni passati da D.W. Griffith come comparsa; e di come diventò amico del Maestro, considerato da tutti «inaccessibile», accompagnandolo a piedi, tutti i giorni, dalla sua casa allo studio; e come poi divenne parte del terzetto nel nuovo gruppo «Griffith-Ince-Sennett Triangle Films». Mi portò sulle colline di Hollywood per farmi vedere un pezzo di terra che aveva comprato proprio in cima a un colle, e dove sperava di costruire un giorno un monumento, un palazzo, qualcosa insomma (nel suo sogno si intravedeva qualcosa di quello che poi Walt Disney realizzò davvero: Disneyland).
Una mattina mi portò fuori dalla sua casa per mostrarmi qualcosa di «molto interessante». Indicando il comignolo sul tetto, intorno al quale tubavano alcuni piccioni, sussurrò con l’eccitazione di un bambino: «Sono salito lassù ieri. Erano appena nati. Erano le creature più carine che tu possa immaginare, così soffici, sembravano due batuffoli di cotone, erano bellissimi». Guardai Mack Sennett con occhi improvvisamente diversi. Sotto quella rude scorza di meccanico si sentiva l’anima del poeta irlandese. E in effetti non poteva non essere così. Non sarebbe stato il grande Mack Sennett senza quell’anima. Alcuni giorni dopo la fine del mio ruolo come «beniamino della settimana» mi trovavo nello studio di Sennett per una delle solite riunioni. «Oh Frank», mi disse con gli occhi ammiccanti. «Ti ricordi quei due piccoli piccioni che ti mostrai sul tetto della mia casa? Li abbiamo mangiati ieri sera. Erano de-li-zio-si!» Io e Ripley eravamo completamente diversi sia come carattere che come modo di comportarci ma stavamo bene insieme, godendo di quell’affinità che attrae gli opposti. Lui parlava, io agivo. Mentre lui blaterava all’infinito sui «significati», io riflettevo concentrandomi sulle scene. Era come lavorare con la radio accesa, senza realmente ascoltarla; il suono della sua voce mi impediva di essere disturbato da qualunque altro rumore, e aiutava la concentrazione. Ma le cose che diceva non andavano perdute: ogni tanto da quel fiume di parole emergeva una parola, una frase che, trovata un’eco dentro di me, mi offriva lo spunto per un’intera sequenza comica. Allo stesso modo lui era pronto a raccogliere una mia nuova gag e a sentirla combaciare perfettamente con un’altra parte della storia. Che tipo di commedia tirammo fuori per Langdon? Perché era diversa? Prima di tutto, perché era basata su un personaggio che era al tempo stesso, paradossalmente, unico e universale. Langdon era in effetti un bambino nel profondo del cuore, un bambino immerso nella realtà della vita. È vero che un bambino può essere viziato, piagnucoloso, scontroso, crudele, ma riuscimmo a dare al personaggio un «tocco» in più facendone un adulto che aveva le reazioni di un bambino candido e innocente. Un bambino piccolo, il più piccolo di tutti, che si muove fra i grandi, in un mondo nemico. Chaplin riusciva a trovare da solo la via d’uscita alle situazioni difficili; Keaton le sopportava stoicamente; Lloyd le superava grazie alla velocità. Langdon, invece, si muoveva candidamente in mezzo alle avversità, riuscendo a sopravvivere solo grazie all’aiuto di Dio, o della bontà. Alcuni anni dopo cercai di spiegarlo in questo modo a James Agee (per il suo articolo su Life «Comedy’s Greatest Era»): «La chiave per costruire una commedia per Langdon stava in quello che definimmo “il principio del mattone”. Poteva succedere che Langdon fosse salvato dal mattone che stava precipitava sulla testa del poliziotto, ma non doveva assolutamente succedere che lui fosse in qualche modo la causa di quel mattone che cadeva». In secondo luogo, tutto il materiale che usavamo per Langdon era non-violento. In un’epoca in cui le commedie facevano a gara a chi esagerava di più – scarpe sempre più lunghe, pantaloni sempre più larghi, cadute sempre più drammatiche, inseguimenti sempre più inverosimili – Langdon recitava le sue scene con delicatezza, quasi al rallentatore. Lo spettatore poteva praticamente vedere come gli ingranaggi del suo cervello infantile si muovessero ogni volta che diventava triste o che sorrideva di piacere. Langdon era un virtuoso dei movimenti lenti, dei gesti esitanti. Nel mezzo del pericolo poteva venir distratto da una farfalla, o da una macchia di terra sulla sua mano. Il double take, per esempio, era una situazione comune a tutte le commedie. Consisteva di fatto in due successivi sguardi rivolti a un oggetto di intenso interesse, che si trattasse di un leone in una camera da letto o di una bellezza in costume da bagno. Il primo sguardo era casuale e distratto, il secondo, consapevole, implicava uno scatto, un sobbalzo di sgomento. La comicità sta, per il pubblico, nell’attesa che il personaggio, un po’ stupido, si renda conto di quello che gli sta
realmente davanti agli occhi, il leone o la donna, e che aveva visto solo di sfuggita, non degnandolo di attenzione. Ma Langdon non si era fermato al double take, era diventato l’esperto del «triple take», che consisteva in due lunghi, innocenti sguardi al leone, perfettamente misurati e con un lungo intervallo fra l’uno e l’altro, prima di portare il pubblico alle stelle con un terzo sguardo terrorizzato. In terzo luogo, c’era quello che Langdon «non doveva» assolutamente fare. Il suo personaggio non doveva mai pensare male, vedere il male, né tanto meno fare del male. Fu così che un innocente e candido mimo divenne Faccia d’Angelo, una star. Allontanarsi da questa formula avrebbe significato far tornare Langdon al livello del teatro da vaudeville. Come reagì Langdon a questo improvviso e subitaneo successo? Bisogna ricordarsi che il signore e la signora Langdon appartenevano a quella specie di attori di vaudeville che giravano per i teatrini di provincia, si cambiavano in luridi camerini e mangiavano nelle bettole. Passavano le giornate sui treni o sugli autobus polverosi, oppure, se lo spettacolo aveva bisogno di materiale di scena, viaggiavano sui vecchi camioncini. Tutti avevano la speranza di raggranellare abbastanza soldi per farsi la famosa fattoria. Pochi ci riuscivano, gli altri dovevano rinunciarci: chi perché aveva un parente che si ammalava, chi perché finiva in ospedale, o perché una serie di spettacoli veniva disdetta, o perché il compagno cominciava a bere. La loro vita potrebbe essere descritta con quel vecchio detto: «un giorno polli, e il giorno dopo solo piume». All’inizio Langdon, nella sua semplicità, fu quasi travolto da ciò che successe. Faceva quello che gli si diceva di fare, ma rimaneva stupito, sospettoso. Aveva paura che tutto questo non durasse. Lei infilava lo stipendio di lui nella sua grossa borsa, e teneva le valigie sempre pronte. Poi arrivarono lodi e adulatori. Il piccolo attore di vaudeville era arrivato a Hollywood. Comprò un’enorme casa su Hollywood Boulevard; portava occhiali scuri e sciarpe di seta; si circondava di amici, offriva grandi feste, assunse una segretaria, e scoprì le donne. Il suo luminoso successo gli procurò una cascata di offerte da altri studi. Mack Sennett, che non ebbe mai la borsa larga, si rifiutò di competere con quelle offerte. Dopo Saturday Afternoon, che fu l’ultimo grande film di successo che fece per Sennett, Langdon firmò un contratto da migliaia di dollari con la First National Films impegnandosi per tre commedie, con la possibilità di aggiungerne altre tre. Un anno prima recitava nei teatrini da due soldi e adesso era segnato dalle stimmate della fama. Era arrivato in cima alla vetta dove si vivevano il tormento e l’estasi del potere. Pochi erano meno preparati di lui a respirarne l’aria rarefatta. Quando si mise in proprio, dando vita a una nuova società, Langdon chiese a Harry Edwards di andare a lavorare per lui come regista. Edwards aveva fatto ormai abbastanza soldi e poteva permettersi di rilassarsi e di godersi la vita, tuttavia questa proposta lo attirava. Io e lui eravamo diventati molto amici lavorando per Sennett. Quando girava mi voleva sempre vicino. Acconsentì alla proposta di Langdon a patto che ci andassi anch’io come aiuto regista. A mia volta, mi dichiarai disposto ad accettare solo se fosse venuto anche Ripley, come capo sceneggiatore. Langdon accettò. Fu così che, nel novembre del 1925, ci ritrovammo tutti a Burbank con Harry Langdon, per girare il suo primo vero film per la First National: Tramp, Tramp, Tramp.5 Con Tramp, Tramp, Tramp anch’io fui in un certo modo investito dalle stimmate del successo, o meglio ne fu investito il mio portafogli: il mio stipendio passò di colpo da settantacinque a trecento dollari la settimana. Ma, cosa ancora più importante, questa fu la mia prima possibilità di scoprire tutti i misteri del far cinema in modo indipendente. Cominciai a fare di tutto: il coproduttore con Langdon, il co-regista con Edwards, il co-sceneggiatore con Ripley; il nostro staff di gag writer includeva ora anche Tim Whelan (che aveva collaborato a lungo con Lloyd), Gerald Duffy e J. Frank Holiday. Per la prima volta lavoravo con un copione scritto (o quasi), un orario
preciso, e un budget fissato. Mi assunsi la responsabilità di una serie di mansioni che non avevano niente di creativo, e che gli altri consideravano una vera noia. Volevo controllare come il personale lavorava, che cosa realmente faceva. Mi resi conto che perdere tempo significa davvero buttare via denaro, e buttarlo via senza nessun tornaconto. Controllando per la prima volta la costruzione delle scene, la scelta degli attori, le mansioni della troupe, la scelta dei luoghi dove girare, i trasporti, e insomma tutto il processo di lavorazione di un film, mi resi conto che l’uso ragionato del denaro è una condizione sine qua non per un produttore di successo. Era per me una rivelazione: il fragile ed etereo mondo del cinema, un mondo che credevo fatto solo di creatività, un mondo senza regole, dove l’incertezza sembra essere l’atteggiamento più diffuso, è invece costruito e sostenuto da una grossa industria, che ha regole precise e costi molto concreti. Il lavoro, il materiale necessario, il tempo di lavoro e gli straordinari, tutto questo è estremamente concreto e calcolabile in cifre. E dove la creatività progetta e l’industria esegue, può aprirsi un piccolo varco di incertezza in cui possono scivolare molti soldi: quel varco è la scarsa capacità di decidere da parte di chi fa il lavoro creativo. Prendere decisioni è il momento, nella produzione di un film, dove si arriva a spaccare un capello in quattro. Ma prendere una decisione è perlopiù una questione di istinto. E quelli che sono capaci di dire sì o no, senza starci troppo a pensare, sono i capi più ammirati e rispettati, anche quando sono smentiti dai fatti. Durante la lavorazione di Tramp, Tramp, Tramp mi vennero rivolte migliaia di domande, e questo per la prima volta nella mia carriera. Davo risposte immediate, in modo pragmatico, consapevole del fatto che anche risposte puramente casuali avevano almeno il cinquanta per cento di probabilità di essere la risposta giusta; e che, nello show business, se sono giuste almeno il cinquanta per cento delle risposte sei ancora al di sopra della media. Nonostante tutte queste nuove mansioni, passavo ancora la maggior parte del tempo sul set con Langdon e Edwards. Mi conquistai il rispetto e la fiducia di Langdon censurando qualunque gag che non rispettasse il personaggio che io e Ripley avevamo creato per lui. Mi stupiva il fatto che né Langdon né Edwards avessero realmente capito, o preso seriamente, il valore dell’integrità di quel personaggio, che aveva determinato il successo di Langdon. Una battuta divertente era per loro una battuta divertente, indipendentemente dal personaggio che avevamo creato. Ma ascoltavano con rispetto le mie obiezioni, soprattutto se riuscivo a girare la battuta in modo che si addicesse al personaggio. Faccio un esempio: in una piccola città del Midwest un tornado di inaudita violenza, come un mostro nero e cattivo, insegue Langdon dappertutto, dovunque cerchi di fuggire. Qualcuno suggerì che Langdon dovesse prendere un fucile e, sparando al tornado, fargli prendere un’altra direzione. Sembrava una buona idea. Ma io mi opposi, sostenendo che Langdon non avrebbe mai preso la decisione di sparare, a nessuno e a niente. Piuttosto, suggerii, facciamogli lanciare contro il tornado dei sassi. Langdon fu subito d’accordo con me che l’idea dei sassi era molto più divertente. E da questo venne fuori un finale che avremmo poi usato spesso nei film successivi: dopo che i sassi lanciati da Langdon costringono il tornado a cambiare direzione e a prendere una strada laterale, Langdon, con un’espressione infantile, sputa per terra in segno di vittoria – ma lo sputo va a finire sul bavero del suo cappotto. Allora, guardandosi intorno tutto vergognoso, si pulisce il bavero con il dorso della manica. La trama di Tramp, Tramp, Tramp era basata sulle maratone a premi che erano allora molto popolari. Come campagna promozionale per lanciare le sue scarpe, il miliardario Burton offre un primo premio di venticinquemila dollari al vincitore della maratona da New York alla California, durante la quale tutti i concorrenti devono, ovviamente, portare scarpe Burton. Per pubblicizzare la
gara – e le scarpe – Burton fa installare lungo il percorso enormi cartelloni pubblicitari, sui quali campeggia il ritratto della sua splendida figlia (Joan Crawford), che alla fine consegnerà il premio al vincitore. Il povero Harry ha bisogno di quei soldi perché suo padre deve fare una costosa operazione. Si iscrive alla gara, e con lui molti altri, fra cui il suo più temuto rivale: un argentino grande e grosso. Tutta la commedia, le avventure e disavventure di Harry, erano costruite intorno a quella gara, incluso, naturalmente, l’amore di Harry per la bella del cartellone, che gli sorride dolcemente ogni cinquecento metri. C’erano almeno tre sequenze straordinarie in quel film: una era la lotta di Harry col tornado che abbiamo appena descritto; la seconda era la sua fuga da un gregge di pecore infuriate, da cui riesce a liberarsi solo saltando al di là di un’alta palizzata, per ritrovarsi subito dopo appeso a un chiodo in cui s’è impigliato il suo lungo cappotto. Quello che Harry non sa – ma che invece il pubblico vede – è che quel chiodo gli ha evitato di precipitare rovinosamente su un’autostrada trafficatissima. Penzoloni nel vuoto, Harry cerca disperatamente di strappare il cappotto dal chiodo. E qui arriva il «triple take». Si ferma un attimo per riprendere fiato, e guarda in giù. Harry vede il vuoto sotto di sé, ma non lo registra, non ci fa caso. E torna a cercare di sbottonarsi il cappotto, che lo sta quasi strozzando. Riesce a slacciare l’ultimo bottone, e scende di trenta centimetri, ma il primo bottone è sempre più stretto. Infuriatissimo, guarda di nuovo in giù, e vede l’autostrada. E di nuovo il suo cervello, lento e innocente, non registra quello che ha visto. Raddoppia i suoi sforzi per sbottonare il cappotto. Poi, improvvisamente, rimane agghiacciato. Incomincia a capire. Questa volta si gira lentamente a guardare di sotto. Preso dal panico, si aggrappa al chiodo con entrambe le mani. Il bottone salta via. Il chiodo comincia a piegarsi, finché... be’, il finale era a sorpresa! La terza splendida sequenza fu un gran divertimento per il pubblico, ma un incubo per Joan Crawford. Questo era uno dei primi film per Joan – Dio, se era splendida quella ragazza! Verso la fine della gara, a un certo punto Harry si ferma a guardare trasognato, con gli occhi caldi d’amore, la ragazza dei suoi sogni sul cartellone. Una limousine si ferma di fianco a lui, e ne esce proprio lei, la ragazza, venuta ad accoglierlo prima del traguardo. «Salve, caro!», lo saluta lei. Harry si volta, e non la riconosce; la guarda di nuovo... ma è lei! È la ragazza del cartellone, in carne e ossa, e mille volte più bella! Harry impazzisce, corre avanti e indietro con gli occhi spalancati dalla meraviglia, poi si ferma di colpo. Joan Crawford è piegata in due dal ridere. Edwards blocca tutto. «Mi dispiace», si scusò Joan, «ma lui è troppo buffo!» Questa era la prima volta che girava con Langdon, e dato che lei era un’attrice di New York, senza molta esperienza, tutti trovarono divertente la sua interruzione, quasi un complimento. Si riprese da capo. Ma non fu più così divertente quando la futura stella del cinema scoppiò a ridere per la seconda volta. E divenne sempre meno divertente quando lo fece la terza, la quarta, la quinta volta. La povera ragazza era in preda a un riso nervoso, che non riusciva più a controllare. Imbarazzatissima, cominciò a piangere, con il mascara che le colava lungo le guance. Significava rifarle il trucco, e aspettare tutti. Quando tornò in scena era tesa, si mordeva le labbra e teneva le mani serrate a pugno. «Sto bene ora. Sono molto imbarazzata. Andrà tutto bene, non scoppierò più a ridere, perdio!» Harry Edwards dà ordine di iniziare la ripresa. Joan esce dalla macchina e dice: «Salve, caro!» Langdon rifà la scena, e di nuovo Joan non riesce a trattenersi; presa fra il riso e le lacrime, scappa via correndo. Edwards la rincorre, la riporta quasi a forza. Tenendola quasi fra le braccia, dà ordine agli operatori di inquadrarla di spalle, poi si rivolge a lei: «Tesoro, ho bisogno di due inquadrature di te e Harry insieme. Chiudi gli occhi, e non tremare, per favore! Ti farò i primi piani domani, senza di lui».
E fu così che una delle più grandi stelle del cinema fu ripresa con le spalle alla cinepresa, gli occhi chiusi, tremante di paura, e il mascara che le scendeva dalle guance, mentre Langdon, uno dei più grandi comici di Hollywood, faceva le sue buffe scene d’amore. Tramp, Tramp, Tramp non mandò il mondo in visibilio, ma fece comunque un sacco di soldi. E sollevò anche l’attenzione dei critici di New York, chiusi nel loro Olimpo. Le loro recensioni si degnarono di riconoscere in Langdon una nuova rivelazione, che valeva la pena di andare a vedere, ma non lesinavano i «però». I proprietari delle sale cinematografiche, dal canto loro, furono entusiasti quando videro l’afflusso di pubblico. Tutto sommato, il film fu un successo, e come tale non fece che confermare la convinzione di Langdon di essere la cosa migliore che fosse capitata al mondo del cinema dopo i riccioli di Mary Pickford. Non menzionava quasi mai Chaplin, a cui pure qualcuno aveva cominciato a paragonarlo. Harry Edwards però ne aveva abbastanza. Dopo averlo guidato e diretto per tanto tempo, da quando era un piccolo attore spaventato fino ad ora che era una star e produttore in proprio, Edwards non ce la faceva più a sopportare che Langdon passasse al vaglio ogni sua decisione. Si tirò indietro di fronte alla proposta di un secondo film, suggerendo a Langdon che io avrei potuto sostituirlo come regista. Io e Langdon eravamo diventati amici, così acconsentii alla proposta, anche se avevo la sensazione che Langdon avrebbe fatto volentieri il regista di se stesso, emulando Chaplin. Ma era ancora troppo spaventato e inesperto davanti a tutti gli aspetti tecnici della cosa per azzardarsi a quel passo. E io? Ero arrivato dove volevo! In due anni ero passato da gag writer per Our Gang a regista di un film importante, in cui avrei diretto una grande star. Il mio salario salì d’un balzo da trecento a seicento dollari alla settimana. Adesso era venuto il momento di far qualcosa per mia madre e per mia sorella Ann. Era ora: avevo ventinove anni. La vita familiare di chi lavora nel mondo del cinema può essere davvero molto difficile, e richiede compromessi e sacrifici. Durante tutto il tempo delle riprese di Tramp, Tramp, Tramp, uscivo di casa all’alba e tornavo a tarda sera. Helen mi rimproverava di avere sposato il lavoro. Tutti e due i suoi precedenti matrimoni erano finiti male a causa del successo: entrambi i suoi mariti erano diventati primi cameraman. Ora il suo terzo marito stava andando nella stessa direzione. Lei voleva, e aveva bisogno, di un marito vero e a tempo pieno, non di un marito di successo part-time. Nel nostro matrimonio si era aperta, inaspettata, un’altra falla: il suo dottore le aveva detto che non avrebbe potuto avere bambini. Non c’è niente di più terribile, per un italiano, che lo scoprire di non poter diventare padre. Ma eravamo persone adulte, e ci volevamo bene. Il nostro matrimonio continuò. Avevo comprato un pezzo di terra su Odin Street, vicino a Cahuenga. Il progetto della casa, a due piani, era stato fatto pensando anche alla mamma e ad Ann. Helen ne era contenta, perché in questo modo avrebbe avuto compagnia. Nonostante mandassi loro dei soldi ogni mese, Mamma e Ann continuavano a lavorare. Sapevo che sarei riuscito a farle smettere solo se fossi riuscito a farle venire a vivere con noi. Di lì a pochi mesi avrei avuto abbastanza soldi per cominciare a costruire. Il futuro splendeva più roseo che mai mentre mi preparavo al mio primo lavoro come regista. C’era solo una piccola nuvola sull’orizzonte: Helen aveva cominciato a bere più del solito. Nessun essere umano può mai dimenticare l’eccitazione della sua «prima» opera: per uno scrittore è il primo romanzo; per un capitano, il comando della sua prima nave; per un Watussi, il primo leone; per un regista, il primo film. Per settimane avevo fatto lavorare gli sceneggiatori senza sosta, tutte le sere, domeniche comprese; cambiate questo pezzo, riscrivete quello. I finali, i finali! Devo avere finali d’effetto. Arthur Ripley mi prendeva in giro: «Ehi, amico, non ti dimenticare la grinta, mi raccomando».
Il giorno prima dell’inizio delle riprese, mia moglie cercava di calmarmi leggendomi dei passi dal libro Scienza e salute. E anche se ormai ero uno di quei cristiani che vanno a messa solo il giorno di Natale, la sera mi recai, da solo, a inginocchiarmi nella cattedrale del Sacro Cuore, per ricordare all’Onnipotente che qui c’era un altro piccolo passero spaventato che aveva bisogno del suo aiuto. La mattina dopo, quando arrivai sul set per iniziare le riprese, nessuno più si rivolgeva a me con i soliti «Ehi, Frank» o «Piccoletto»... Era tutto un «Mr. Capra» di qua, «Mr. Capra» di là. Adesso avevo addosso il mantello del comando: ero un regista. Avevamo creato una storia tagliata alla perfezione sul personaggio di Langdon, sulle sue specialissime doti mimiche. All’interno dei confini del personaggio – l’uomo bambino che può contare solo su Dio come alleato – la sua arte raggiungeva la grandezza del genio. Due erano i compiti spinosi che come regista mi competevano: uno era quello di mantenere Langdon entro i suoi limiti; il secondo, quello di convincerlo a eliminare qualunque scena che deviasse dal personaggio, e questo lo dovevo fare sul set, davanti a tutta la troupe, senza ferire il suo ego, facile a gonfiarsi. Lui si rivolgeva spesso agli sceneggiatori per trovare in loro degli alleati, per riuscire a battere la mia linea. Con mia sorpresa, Ripley, il mio collaboratore fidato, cominciò a trovarsi d’accordo con lui sempre più spesso. Così, durante le riprese, succedeva che un giorno Langdon e io ci guardavamo compiaciuti, completamente d’accordo, e il giorno dopo mi trovavo nella terribile situazione di dovermi opporre a tutte le sue idee. Riuscimmo lo stesso a finire il film senza deviare troppo dalla linea del suo personaggio, e fu un gran successo di pubblico. Non solo. La cosa che più contava per Langdon, e finì per essergli fatale, fu che i critici lasciarono finalmente cadere le loro riserve. The Strong Man6 fu selezionato tra i dieci migliori film del 1926. Langdon si montò la testa. Il virus del successo l’aveva colpito troppo violentemente, e troppo impreparato. Rilasciò interviste in cui lasciava intendere di essere stato l’unico artefice del film, dalla sceneggiatura alla regia. Fortunatamente avevamo già cominciato a girare il film successivo, Long Pants,7 prima che il suo camerino fosse invaso da valanghe di articoli e recensioni, che fecero presto degenerare la sua presunzione in un attacco di «langdonite» acuta. Durante le riprese di Long Pants i nostri momenti di accordo furono sempre più rari. «Pathos», gridava lui «voglio che ci sia più pathos». «Harry, il pathos è nella tua comicità. Se tu ti sforzi di cercare il pathos, diventerai ridicolo, credimi». «Io credo a quello che dicono i critici di New York. Ne sai forse più di loro?» Erano arrivati da tutto il paese, e perfino dall’Europa, scrittori di fama, grossi nomi, critici, giornalisti, fotografi. Lo aspettavano fuori dal camerino, lo intervistavano durante il pranzo e la cena, lasciandosi dietro lampadine di flash bruciate, e riempiendogli la testa di servili sviolinate. Furono le ultime battute del film che misero la parola fine alla nostra lunga collaborazione. Avevo ancora una scena da girare: un’inquadratura, un primo piano della mano di Harry che frugava fra gli scaffali di una biblioteca cercando il libro Great Lovers. Io e la troupe lo aspettavamo per la ripresa. Aspettammo a lungo. Lo mandai a chiamare diverse volte. Alla fine Harry si presentò in una sgargiante vestaglia da camera, con una sciarpa ancor più sgargiante, seguito da un gruppetto dei suoi nuovi adulatori. «Perché diavolo mi mandi a chiamare? Non hai capito che quel film è finito?» Sembrava Napoleone che arrogantemente rimbrotta un ufficiale. «Mi dispiace, Harry. Ho bisogno di un primo piano della tua mano che cerca questo...» «Un primo piano della mia mano? Ma non hai ancora imparato nulla? I registi non usano le star per quegli stupidi primi piani, usano delle controfigure». «Harry, non ci sono delle mani come...»
«Oh, merda! Hai interrotto la mia intervista con due dei più grandi critici di New York, e per una cosa così stupida!» Si girò e se ne andò, seguito dal suo stuolo di corteggiatori. E continuò, rivolto a loro, quando ancora lo potevo sentire: «Lo vedete che cosa mi tocca sopportare? Cristo! Questo è il bel risultato che ottengo per aver cercato di tirar fuori un regista da un gag writer da strapazzo». Dissi alla troupe che per quel giorno avevamo finito, e strinsi a tutti la mano in silenzio. Loro capirono. C’erano passati anche loro; anche loro, in qualche occasione, avevano provato il desiderio di lasciar cadere una lampada su palloni gonfiati di quel genere. La luna di miele era finita. Ma non è facile rompere il rapporto con un uomo che hai aiutato a diventare una star. Il mio nome cominciava a essere conosciuto. Un altro paio di film con Harry, e sarei stato corteggiato da altri produttori. Avrei dovuto, ma soprattutto avrei potuto, abbassarmi, incassare, diventare un altro yes man di Langdon, e assicurarmi un nome? O avrei dovuto invece andarmene subito, senza lasciarmi umiliare, e cercar la fortuna altrove? O forse era possibile un’altra soluzione? Potevo ancora «ritrovare» il Langdon di una volta? Ma chi era questo piccolo Langdon? Quest’uomo che ora aveva in mano il mio futuro? È strano, pensavo fra me, come in tutte le strade della vita ci siano esistenze baciate dall’avverarsi dei sogni, e altre sospinte invece verso la realtà più deprimente. E quando si viene colpiti da qualcosa di grande, il sognatore è preparato; la sua grazia addolcisce lo shock. Ma la grandezza può essere traumatica per la persona ottusa. Era andata proprio così. Langdon era in stato di shock. E un regista ha il dovere di aiutare i suoi attori nei momenti traumatici. Andai a cercare Langdon nel suo camerino. Lo trovai sdraiato su un divano, che guardava il soffitto, con le mani dietro la nuca. «Ciao, Harry». Non mi rispose né mi guardò. «Harry, sono venuto a dirti quello che molti di noi da tempo vorrebbero dirti, se ne avessero il coraggio, e cioè che sei diventato una persona presuntuosa e insopportabile!» Mi guardò con uno sguardo assente, e si voltò di nuovo dall’altra parte. «Il ragazzo felice che noi tutti amavamo è diventato un ingrato, e tu sai quello che voglio dire. Ma sei ancora uno dei più grandi artisti del nostro tempo, grande quanto Chaplin. E potresti diventare ancora più bravo, se solo la smettessi di crederti un dio, e, sì, se la smettessi una buona volta di imitare Chaplin. Ma certo, Chaplin scrive i suoi copioni e si fa anche la regia. Ma lui ha creato il suo personaggio, ed è per questo che lui lo capisce meglio di chiunque altro. Tu invece non hai creato il tuo personaggio, e non lo capisci. Adesso poi che credi in quello che i giornali scrivono di te, non lo capirai mai. Harry, sono venuto qui come un amico, e tutto quello che sto cercando di dirti è che non devi fare tutto quello che fa Chaplin per essere più bravo di lui. Perché non vuoi accettare l’aiuto di quelli che ti conoscono, esattamente come Lloyd, o come Keaton accettano l’aiuto di tutti i loro collaboratori? Un’ultima cosa, Harry: perché un comico faccia ridere, bisogna che la gente lo ami, e purtroppo ora mi sembra che qui in giro l’unica persona che ti ama sia tu stesso. Pensaci, Harry. Perché non cerchi di ringraziare anche Dio per il tuo successo, e non soltanto te stesso? È tutto». Me ne andai. Lui non aveva aperto bocca. Eppure, mentre guidavo verso casa, mi sentivo sollevato e quasi felice. Potevo ancora tornare a casa a testa alta, la nostra nuova casa di Odin Street, che avevo costruito subito dopo La grande sparata, il «palazzo» che avevo promesso alla mamma. Erano ormai sei mesi che Mamma e Ann vivevano con noi, e che, per la prima volta nella loro vita, non lavoravano. Avevamo perfino una cameriera, nonostante la disapprovazione di Mamma, che non riusciva a capire perché mai volessimo buttare via soldi per una cameriera quando quel lavoro lo poteva fare lei. Trovai la mamma in cucina che stava facendo il ragù e stendeva la pasta per le lasagne. Come
avevo fatto sempre, da quando camminavo ancora a quattro zampe, spalancai la bocca, e lei, come un uccello che imbecca i suoi piccoli, vi lasciò cadere un pezzo di pasta fresca. «Dio ti benedica per tutto quello che fai per noi, Frankie». «Lo spero proprio, e spero che lo faccia in fretta, perché credo di essere stato licenziato». «Ma va’ là...», esclamò lei. «Non preoccuparti, per ogni porta che si chiude ce n’è un’altra che si apre; e ho un po’ di soldi in banca». Che antidoto potente per i nodi che avevo nello stomaco. Com’era forte, coraggiosa, vera. L’abbracciai, come per assorbire un po’ della sua forza. «Ann è a casa, Mamma?» «È andata a comprare le decorazioni di Natale, come le avevi detto, ed Helen tornerà dal negozio fra poco». Il negozio era una boutique su Hollywood Boulevard, che avevo comprato per Helen con i nostri ultimi venticinquemila dollari, sperando che aver qualcosa da fare potesse distrarla, e forse... «Mamma, tu vuoi bene a Helen, non è vero?» «Le voglio bene come se fosse mia figlia». «Helen è stata... voglio dire...» «No! Sei pazzo? Lei è felice ora, ha il negozio». In quel momento s’aprì la porta, e sentii la voce gioiosa di Helen: «Mamma, sono io! Oh, Frankie, caro, sei tornato presto». Mi corse fra le braccia. La baciai, e trasalii. Il suo fiato puzzava di alcol. Mamma stava servendo le sue favolose lasagne, quando il campanello della porta d’ingresso squillò. «Ding dong dang». Mamma imitava sempre il suono del campanello. Era Bill Jenner, che dirigeva la parte finanziaria della società di Langdon. «Oh, Bill. Entra, accomodati». «No, non entro, Frank. Dannazione, in questo momento vorrei essere in Africa». «Lo so, Bill, sono stato licenziato». «Sì, dannazione. Questo è l’ultimo assegno con tutto quello che ti spetta». «Bill, vorrei almeno finire di montare il film anche senza compenso». «Mi dispiace, Frank. Il piccolo non vuole sentire ragioni. Ha detto che non ti vuole vedere mai più. Buona notte... e buon Natale, dannazione!» Uscì di corsa, quasi scappando. Langdon esaudì il suo desiderio di emulare il grande Chaplin: diresse i successivi tre film, con Arthur Ripley come braccio destro. Non incontrai mai più Ripley; vidi invece Langdon, una volta, anni dopo, in circostanze pietose. E per quanto riguarda Long Pants, il successo di critica e di pubblico furono ancora più grandi di quanto lo erano stati per La grande sparata. Un critico scrisse: La sorpresa più grande fra i nuovi registi dello scorso anno [1926] è stata la rivelazione di Frank Capra... il regista della Grande sparata e Long Pants... il 1927 appare molto luminoso per lui.
Il 1927 sarebbe stato invece il meno luminoso di tutta la mia vita. Senza lavoro, e senza più soldi in banca, mi cercai un agente, ora che mi sentivo abbastanza importante da poterne avere uno. Avevo sentito parlare di Demmy Lampson, una specie di «ragazzo prodigio» come venditore di forza lavoro. Nel suo ufficio, proprio su Sunset Boulevard, nel cuore del mondo del cinema, mi promise la luna se avessi firmato con lui un contratto di sette anni. Firmai. Disse che sarebbe andato subito a parlare con Henry Henigson, della Universal, e che in due minuti mi avrebbe trovato un lavoro di regia. Ricevetti la sua chiamata il giorno seguente, e mi precipitai al suo ufficio pieno di speranze. «Chi ha bisogno di Harry Langdon?», mormoravo fra me.
Ma non avevo ancora avuto il tempo di sedermi, che Lampson mi restituì bruscamente il contratto firmato il giorno prima. «Cercati un altro agente, Frank; non posso fare niente per te». «Che cosa? Che cos’è successo?» «Quando ho fatto il tuo nome, Henigson ha detto: “Capra? Se quel bastardo contaballe è tuo cliente, tienilo lontano dal mio studio, o chiuderò qualunque rapporto con te”». «Ma cosa dici, Demmy, io non ho mai visto Henigson in vita mia, avrà scherzato». «Non scherzava, no, e non sto scherzando neppure io. Non mi piacciono i clienti che non sono sinceri». «Che cosa intendi dire? Chi non sarebbe “sincero”?» «Mi riferisco proprio a te. Alla First National dicono che non è vero che tu hai diretto Langdon. Harry dice che lui era il regista, e che tu eri semplicemente un gag writer che si era portato con sé da quando lavoravate insieme da Sennett, e che quando hai cercato di fare il regista ti ha sbattuto fuori». «Ma è falso». «Senti, vero o falso, tu non puoi compromettere la mia reputazione alla Universal, e quindi trovati un altro agente». «Demmy», lo pregai. «Langdon ha torto. Aiutami a dimostrare che questa voce è falsa. Non stracciare il mio contratto. Sarebbe la mia fine». «Ragazzo», disse lui, «qui siamo nel cinema, te lo sei scordato?» Le settimane che seguirono non fecero che ricordarmi questa verità. Quella che era soltanto una voce, divenne un fatto. Ero diventato un impostore. Nessuno rispondeva più alle mie telefonate, nessuno voleva più ricevermi. Altri impresari si rifiutarono di avere a che fare con me. Improvvisamente non ero più nessuno. Un giorno passai dalla boutique di mia moglie, per cercare un po’ di conforto, e mi sentii raggelare quando la vidi che rideva, ubriaca, in mezzo a un gruppetto di suoi amici, tutti attori da quattro soldi disoccupati. Tornai a casa, feci una valigia, e mi trasferii all’Athletic Club di Hollywood. Pochi giorni dopo Helen se ne andò di casa. Affittò un appartamento a Culver City, vicino al Rollerdrome, una pista di schettinaggio frequentata dai suoi nuovi amici. La mamma e Ann erano sole nella nostra nuova casa. Ann tornò a lavorare, Mamma diede fondo ai suoi ultimi risparmi, e io giravo per le strade di Hollywood in cerca di un lavoro. «Ragazzo, qui siamo nel cinema, te lo sei scordato?» E che cosa stava facendo Harry Langdon nel frattempo? Ebbene, Harry fece il suo primo film come regista (ne ho dimenticato il titolo), e fu un fallimento. I due film successivi andarono di male in peggio. Dopo di che la First National si sbarazzò di lui, come di una patata bollente. Era stato come un razzo, entrato improvvisamente nell’orbita del successo e della fama internazionali, e che a un certo punto perde il timone e precipita a terra, a una velocità ancora maggiore di quella con cui era salito in orbita. Fece anche due brevi film per Roach, cercando invano di riaccendere l’interesse del pubblico. Provò anche a scrivere gag. Toccò proprio il fondo quando si ridusse a lavorare per quelle brevi commediole che le sale cinematografiche usavano come riempitivo. «Ragazzo, qui siamo nel cinema! Te lo sei scordato?» Fu proprio mentre girava una di queste commediole che lo vidi per la prima e ultima volta dopo la nostra rottura. Mi avvicinai, non visto, al teatro dove stava provando, per vederlo lavorare. Non c’era più niente del suo personaggio. L’elfo era sparito, e quel che restava era grottesco. La macchina da presa correva. Harry saliva una rampa di scale, camminando all’indietro, e reggendo tra le braccia un’enorme cicciona. Mi sentii svenire. Sembrava una replica grottesca della famosa scena che avevamo girato con Gertrude Astor nella Grande sparata. «Più in fretta, Harry, più in fretta!», urlava irriverente il regista.
«Questo è un cortometraggio, lo sai». Me ne andai, con la voglia di piangere. Quel grande artista, quell’artista il cui genio stava proprio nella pantomima lenta e delicata, era costretto ad andare «più in fretta». Nel 1944, da lungo dimenticato, morì di emorragia cerebrale. La sua tragedia fu che non seppe mai cosa lo aveva fatto grande, e cosa poi lo aveva fatto dimenticare così in fretta. Il successo improvviso, e la vanità che, di conseguenza, si era impadronita del suo ego, lo avevano reso impermeabile all’aiuto di coloro che conoscevano il segreto della sua magia: l’elfo, che aveva solo Dio come alleato. Se, una volta in paradiso, riuscirà a scoprirlo, farà fare agli angeli un sacco di risate. L’anno 1927, che i critici avevano pronosticato eccellente per Frank Capra, era già da un pezzo inoltrato, e io non avevo ancora sentito l’odore di un nuovo lavoro. A quel punto incontrai due grandi Lillipuziani: i fratelli Small, piccoli di nome e di statura, ma grandi nel talento e nella fantasia. Possedevano un’agenzia, che Morris gestiva, mentre Eddie aveva già cominciato a fare un sacco di quattrini grazie alla sua misteriosa abilità nel produrre film di grande successo a basso costo. «Senti, Frank», mi disse Eddie. «Io non credo nelle voci, neanche in quelle che mettiamo in giro noi. Io credo solo nei miei occhi e nel mio fiuto. I miei occhi hanno visto il tuo nome sullo schermo, e il mio fiuto mi dice che tu hai una gran voglia di lavorare. C’è un produttore a New York che forse fa al caso tuo. Vuoi girare un film a New York per Bob Kane?» «Signor Small, io girerei un film anche in Nuova Guinea per Bob Chi-lo-conosce!» «Morrie, questo comunque è stato bruciato. Quanto offrono?», chiese a suo fratello. Erano proprio una coppia di cui potersi fidare... «Quattrocento più alloggio e trasporti», rispose Morrie. «Frank, se ti va bene firma qui, e cercheremo di farti avere questo posto». Una settimana dopo, presa una camera nel Manger Hotel a Times Square, cercai un taxi e mi feci portare direttamente al vecchio studio Cosmopolitan, fra la 125a Strada e Second Avenue. Costeggiammo tutto Central Park. Era già aprile, ma qualche centimetro di neve, lenta ad andarsene, imprigionava ancora gli alberi – quei rami nudi sembravano braccia alzate verso il cielo a invocare la primavera. Il vecchio studio Hearst-Cosmopolitan, freddo e umido come le catacombe, si trovava proprio in mezzo agli slum di Uptown. Joe Boyle, l’aiuto regista, venne a ricevermi alla porta. Mi guidò attraverso un labirinto di saloni e scale fino all’ufficio di Leland Hayward, il direttore di produzione. Leland era molto affabile, simpatico, e mi accolse pieno di lusinghe (avrebbe davvero avuto bisogno, prima della fine del film, di tutta la sua affabilità e le sue lusinghe). «Frank», cominciò, «qui il tempo è schifoso, ma ti posso promettere una grande attenzione della stampa. Il nostro è l’unico film che si sta girando a New York, e ci danno un sacco di spazio. Guarda i giornali di stamattina, intere colonne. Guarda questo titolo: IL REGISTA DI LONG PANTS TORNA AL LAVORO. E quest’altro: FRANK CAPRA ALLA REGIA DI HELL’S KITCHEN. Oh, Frank, a proposito, abbiamo cambiato il titolo, non sarà più Hell’s Kitchen, ma For the Love of Mike.8 Molto meglio. Ecco, questa è la sceneggiatura, è un capolavoro. Dovrei ben saperlo, l’ho scritto io. E il cast, Frank, è straordinario! Ascolta, tre dei migliori comici sul mercato: George Sidney, Ford Sterling, Hugh Cameron! Ti viene l’acquolina in bocca, di’ la verità. Ebbene, non solo tre, ma QUATTRO comici straordinari: abbiamo anche Skeets Callagher. E il protagonista? Il migliore in assoluto, Ben Lyon. Tu conosci Ben Lyon. Ma aspetta, non hai ancora sentito la parte più bella. Chi è l’attrice? Siamo riusciti a ottenere un’attrice da prima pagina, la migliore attrice che abbia calcato le scene di Broadway da anni. I critici l’adorano, una star straordinaria, dicono, e questo è il suo primo film.
Frank, aspetta di vederla in The Barker, ti ho già prenotato i biglietti. Una vera star, Frank, di sicuro successo: CLAUDETTE COLBERT! Eh, che ne dici?» «Leland», dissi io, «dovete essere il migliore agente di New York». «Non ancora, Frank, ma lo diventerò. Allora, domani sera ci sarà un cocktail party per presentarti alla stampa. E stasera Bob Kane ha organizzato una cena al Twenty-one Club in tuo onore. Ti passo a prendere all’albergo alle sette e mezza...» La cena di Bob Kane non era esattamente in mio onore. Lui la presentò come una cena di saluto, annunciando che stava partendo per Parigi, ma che lasciava For the Love of Mike «in mani sicure, le mani del mio braccio destro, Leland Hayward [applauso] e del talento artistico del nostro regista, Frank Capra». Seguì un applauso di circostanza, mentre i convitati si guardavano l’un l’altro bisbigliando: «Chi?... Non ho capito bene il nome... Forse è un regista europeo...» La sceneggiatura di For the Love of Mike era buona, non straordinaria, ma non c’era dubbio che con quel cast d’eccezione avrei potuto colpire nel segno, e dimostrare a Langdon e a tutti gli scettici di Hollywood che ero capace di fare il regista. Ma proprio quando ero pronto per colpire, quel vecchio battitore di Hitch mi preparò un tiro mancino. Nelle casse di Bob Kane non c’erano abbastanza soldi per il film. Da quello che riuscii a capire, Bob Kane non se ne era andato a Parigi per un viaggio di piacere, ma per sfuggire a una situazione che si era fatta troppo difficile. Aveva firmato un contratto con la First National per produrre dieci film. Per fare il decimo, che era appunto For the Love of Mike, contava sui proventi dei primi nove. Ma questi non avevano fatto molti soldi, eppure For the Love of Mike doveva essere fatto: si erano già impegnati con gli attori e la troupe. Avevano cominciato a girare, sperando, man mano che le riprese andavano avanti, di ricevere altri soldi coi proventi dei primi nove, e di riuscire così a finanziare il film. Come risultato, Leland Hayward fu lasciato con le casse quasi vuote, anche se, grazie al suo fascino, riuscì a far durare a lungo quel poco che c’era. Riuscì, per esempio, a farmi accettare una dilazione di pagamento fino alla fine della lavorazione. Riuscì anche a rimandare altri pagamenti urgenti con qualche promessa; ma gli attori non erano disposti ad accettare la formula del pagamento dilazionato. Rendendosi conto delle difficoltà finanziarie, adottarono anzi la strategia di farsi pagare in anticipo, il giorno stesso delle riprese. Ogni mattina esigevano la paga del giorno in contanti, prima ancora di andare a farsi il trucco. «La gente paga il biglietto prima di assistere allo spettacolo», dicevano. E dato che gli attori sono indispensabili, una volta che abbiano cominciato a girare un film, la loro richiesta aveva l’autorità di un fucile puntato. Dove Hayward riuscisse a trovare il denaro era un mistero. Uno dello studio, in vena di scherzi, disse un giorno che la polizia aveva intercettato dirottamenti di stipendio. Ma la battuta non fece ridere Leland. In ogni caso, Hayward arrivava disfatto ogni mattina, con le buste del salario giornaliero, in contanti, per gli attori. Questa circostanza piuttosto inusuale creò fra gli attori una situazione divertente quanto si vuole ma anche piuttosto irritante. Gli attori potevano venire a sapere quanto gli altri attori erano pagati – cosa che di solito è riservata. Quelli pagati meno si indignarono, ci furono orgogli feriti e crisi professionali. Gli attori telefonavano ai loro agenti; gli agenti chiamavano Hayward; Hayward chiamava Bob Kane a Parigi, e Kane fuggiva in Riviera. Ci furono giorni in cui Hayward non ce la faceva ad arrivare con i contanti. Allora gli attori restavano in camerino a perder tempo in chiacchiere. Questo voleva dire un giorno di lavoro buttato via. Voleva anche dire che, il giorno successivo, le buste di Hayward dovevano avere un doppio salario. Era quella che veniva chiamata una «giornata doppia». Nonostante tutte le discussioni e il morale a terra, miracolosamente riuscimmo a girare sette rulli di film «presentabile». Ma io, che l’avevo girato, non meno degli esperti di Hollywood, sapevo
che erano sette rulli di un film mediocre. Claudette Colbert, sempre difficile da accontentare, dichiarò che per lei era un disastro, e giurò che questo sarebbe stato il suo primo e ultimo film. Quanto a me, non mi pagarono mai. Tranne che per i trasporti e l’albergo, fu tutto «per amore dell’arte», o di Mike. Ma ne era valsa la pena, anche solo per aver conosciuto Claudette Colbert, George Sidney, Leland Hayward, e per vedere le gemme degli alberi di Central Park che crescevano al ritmo incredibile di un pollice al giorno. All’inizio d’agosto tornai in California, con un dubbio inquietante che ancora non mi aveva abbandonato: sarei stato mai in grado di dirigere un film che non avesse Langdon come protagonista? Non ci fu nessuna banda a ricevermi quando tornai a Hollywood. L’agenzia di Morris si lamentò per il mio mancato stipendio. Non avevano intenzione di sforzarsi tanto per un cliente così stupido. E fu allora che mi arrivarono dall’avvocato di Helen le carte per il divorzio, che chiedevano la metà dei beni più gli alimenti. Per quanto riguardava la divisione di ciò che possedevamo fui subito d’accordo, ma gli alimenti costituivano un problema, perché non avevo entrate. Ma dato che io non avevo contestato la richiesta di divorzio, lei rinunciò agli alimenti. Presi in prestito ottomila dollari, impegnando la casa, per darle la sua parte. Il giudice accordò il divorzio per crudeltà psicologica, una motivazione che andava sempre bene. Fu chiusa lì. Tornai a vivere nella mia casa, con la mamma e Ann, e ricominciai a bussare alle porte degli studi cinematografici. Le trovai più chiuse che mai. Per qualche perverso gioco che mi voleva «colpevole per prossimità» venivo associato al recente fallimento di Langdon. Avevo trent’anni, ero divorziato, senza lavoro, rifiutato dagli agenti, ed etichettato come il regista di quel fiasco che era stato For the Love of Mike. Il mio sogno d’amore con il «nuovo linguaggio» del cinema era di nuovo in crisi. Mio Dio, avevo commesso qualche errore? Molte cose stavano succedendo nel mondo scientifico. Un mio vecchio amico, l’astronomo Edwin P. Hubble, aveva appena scoperto le variazioni di radiazione delle galassie, l’intero universo era in espansione. Avrei dovuto forse, e avrei potuto, tornare al Caltech e iscrivermi a un dottorato di ricerca? Un giorno, mentre camminavo senza meta lungo Hollywood Boulevard, chiedendomi come avrei potuto mantenermi se avessi deciso di tornare a studiare, sentii un colpo sulla spalla, così forte che quasi mi fece perdere l’equilibrio. Era Mack Sennett. «Frank, piccolo dago», mi salutò, con un pugno amichevole sul mento. «Dove diavolo sei stato? Che stai facendo? Quando ti ho visto ho pensato che fossi un mendicante». Rise tanto rumorosamente che la gente si girò a guardarci. «Un mendicante lo sarò presto, signor Sennett. Non riesco a trovare un lavoro». «Ma per l’amor del cielo! Perché non sei venuto da me? Non sai che il mio studio è sempre aperto per i vecchi dipendenti. Via, andiamo a pranzare da Henry, e a raccontarci qualche vecchia battuta». E così, dopo due anni «fuori», eccomi di nuovo nella Torre, prigioniero della «valle dell’Eden», di nuovo come gag writer, a settantacinque dollari la settimana. Dovetti sopportare un bel po’ di sarcasmo: «Non sei riuscito a sfondare, latino? Sei tornato perché sentivi la nostra mancanza, eh?» «Trattatemi bene, ragazzi», cercavo di rispondere a tono. «Un giorno forse sarò io ad assumervi». Rimasi nella Torre per circa dodici settimane, e cominciavo a chiedermi se quella sarebbe stata una sentenza a vita, quando ricevetti «un messaggio da Garcia»: una chiamata da Morris Small. «Frank, ha appena chiamato la Columbia Pictures. Vogliono parlare con te per la regia di un film». «Chi?»
«La Columbia Pictures. È una casa cinematografica...» «Non l’ho mai sentita nominare». «Be’, Frank, probabilmente anche loro non ti hanno mai sentito nominare. Ma vogliono vederti». «Dove sta?» «Su Gower Street, vicino Sunset Boulevard». «Oh andiamo, Morris, quelli sono proprio i bassifondi, è Poverty Row.9 Non è certo gente di cui potersi fidare». «Che diavolo te ne importa? I loro soldi sono buoni come tutti gli altri. Vai a vedere il produttore, si chiama Sam Briskin». La zona intorno a Gower Street e Sunset Boulevard era soprannominata «Gola di Gower»: era popolata di piccole costruzioni e di baracche dove si facevano film da quattro soldi. Camminando verso il numero 1438 di Gower Street, dovetti passare in mezzo a una folla di aspiranti comparse che facevano la fila davanti allo studio. Come aprii la porta fui investito dall’odore di topaia. Fui fermato da una centralinista irritata. «Cosa volete?» «Sono Frank Capra, ho un appuntamento con il signor Sam Briskin». «Ok. In fondo a questo corridoio, salga le scale, è la prima porta sulla destra». Il corridoio era così stretto che anche una persona magrissima ci sarebbe passata a fatica. Se fosse venuta lì una donna incinta, avrebbe dovuto mettere un po’ di grasso alle pareti. Gli uffici, sui lati del corridoio, erano così piccoli che le porte, quando si aprivano, sbattevano l’una contro l’altra. Dentro la puzza era ancora più forte – sembrava di essere negli spogliatoi di una squadra di baseball, senza finestre. Gli impiegati non camminavano, correvano, e se tu eri un po’ lento rischiavi di essere travolto. Nessuno parlava, tutti urlavano. Certo era uno strano studio. Trovai finalmente la scala. Era una scala a chiocciola, e faceva due interi giri per salire di un piano. Prima ancora di bussare alla porta di Sam Briskin ne avevo già avuto abbastanza della Columbia Pictures. Una segretaria mi disse gentilmente: «Entri pure, il signor Briskin la sta aspettando». «È lei Frank Capra? Che piccolo! La immaginavo più alto». Questo fu il saluto di Briskin. Tutti gli uomini piccoli di questo mondo capiranno come mi sia sentito. Uno dei salmi trovati nel Mar Morto comincia con questo lamento: «Ero piccolo in mezzo ai miei fratelli...» Insomma Sam Briskin era un tipo aggressivo, di quelli che colpiscono sempre per primi; doveva avere più o meno la mia età, i suoi capelli erano incredibilmente belli, e portava occhiali molto spessi. Non c’è bisogno di aggiungere che era ebreo. Solo un ebreo poteva avere uno studio in quella zona, non curandosi della reputazione. «Si sieda, si sieda, si metta comodo», disse indicandomi gentilmente la poltrona. «Frank Capra, lei è italiano vero?» Feci segno di sì. «Il suo ultimo film non era molto bello, o mi sbaglio?» Io stavo per scoppiare. «Qual è stato il mio ultimo film, signor Briskin?» La domanda lo colse di sorpresa. Mormorò qualcosa. «Lei non ha visto nessuno dei miei film, signor Briskin, non è vero?» E con questo mi alzai e andai verso la porta. «Ehi, aspetti, si sieda, si sieda», si dava da fare Briskin. «Com’è permaloso. Che cosa stavo dicendo?» «Signor Briskin, e se invece mi dicesse perché mi ha fatto cercare?» «Non sono io che l’ho fatta cercare, è stato Harry Cohn. Stava guardando una lista di registi disoccupati e il suo nome, che comincia con la C, era il primo della lista. “Sam”, mi ha detto, “il nome di questo qui è in cima alla lista. Cerchiamo lui”. Al mio replicare: “Ma Harry, almeno leggi
prima tutta la lista”, lui ha continuato: “Sam, Dio scelse Abramo perché il suo nome era il primo. Per me va bene così. Cerchiamo Capra”. È per questo che l’ho mandata a chiamare». Queste parole stuzzicarono la mia curiosità: era una casa di matti gestita da gente che giocava d’azzardo. «E va bene, eccomi qui. Che cosa volete?» «Vogliamo parlare della regia di un film. Siete disposto a girare un film nel nostro studio?» «Sono disposto a girare un film da qualunque parte». «Ok. Quanto vuole? O di questo dovrei parlare a Small?» «No. Ne parli pure a me». «Va bene. Quanto?» «Faccia lei un’offerta». «Ah, la mette così? E va bene, metterò le carte in tavola. Mille dollari per la regia di un film». «D’accordo, se però me lo lascia anche scrivere e produrre». «Vuole uno sceneggiatore?» «No, sono sceneggiatore». «E vuole anche curarne la produzione? E a Harry Cohn che cosa rimarrà da fare?» «Harry Cohn potrà licenziarmi in qualunque momento. Da parte mia, anch’io sarò libero di andarmene». «Aspetti un momento. Mi faccia capire bene. Lei vuole scrivere, dirigere, e curare la produzione di un film per soli mille dollari? E senza contratto?» «Esatto». «Capra, ma lei mi porta via tutto il divertimento. Andiamo a sentire Harry Cohn». Adesso capivo perché tutti correvano in quello studio, era Briskin che dava il tempo. Passammo di volata lungo i corridoi, fino a una sala d’aspetto, dove sedeva una segretaria di cui non ho il più vago ricordo. Avrebbe anche potuto essere Minna Wallis. «Di’ al capo che sono qui con Capra». «Immediatamente, signor Briskin». La segretaria schiacciò un pulsante e ci annunciò. Aspettammo di fronte a un’enorme porta scorrevole, che si aprì con un suono acuto, stridulo. Sam aprì e mi fece entrare. Era una stanza enorme. Nella penombra, dietro una scrivania piena di telefoni e dittografi, potevo riconoscere la figura imponente di un uomo quasi calvo. Sul bordo di una sedia, che vedevamo di spalle, intravidi due gambe accavallate. Briskin, con la mano ancora sulla porta, mi presentò. «Harry, questo è Frank Capra. Lui...» «Ok-ok-ok-ok!», interruppe Cohn imperiosamente. «D’accordo, d’accordo. E ora fila!» «Ma Harry, non vuoi sentire...» «Perdio, Sam, vuoi andartene di qui? Sono occupato. Mettilo al lavoro». Così fui presentato a Harry Cohn, uno dei personaggi più maledetti, più grandi, e più controversi che Hollywood abbia conosciuto. «È un giorno strano oggi, strano perfino per questo posto», commentò semplicemente Briskin mentre mi riaccompagnava. 5. Di corsa dietro un cuore, 1926. 6. La grande sparata, 1926. 7. Le sue ultime mutandine, 1927. 8. Per l’amore di Mike, 1927. 9. Letteralmente «Via della Miseria», espressione in voga a Hollywood tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta per indicare i piccoli studi cinematografici che realizzavano principalmente film di serie B e di solito avevano vita molto breve. [n.d.r.]
5. IL «VOLO» DELLA COLUMBIA
Gli uffici della Columbia erano un guazzabuglio di costruzioni, cresciute alla rinfusa man mano che lo spazio vitale veniva a mancare e l’aria si faceva sempre più irrespirabile. Niente che avesse un ordine, o che sembrasse al suo posto. C’erano una dozzina di baracche che formavano un cortile quadrato; intorno a queste, tutti quelli che erano passati di lì avevano costruito qualche aggiunta, senza nessun piano prestabilito, come bambini che giocano con le scatole di sigari, una diversa dall’altra, mettendole una sopra l’altra. Su due lati le costruzioni erano di tre piani, il terzo lato ne aveva solo due, e il quarto uno e mezzo. In questo labirinto si aprivano delle sale strette. Bisognava spesso salire o scendere perché non erano tutte allo stesso livello; gli «uffici» erano ricavati con delle pareti divisorie; i muri erano percorsi da tubi dell’acqua, del gas o dei caloriferi, spesso non più utilizzati. E poi fili elettrici che si incrociavano dappertutto, dentro e fuori, e sembrava che in qualche modo fossero proprio loro a tenere insieme tutto quanto l’edificio, impedendogli di volare via. L’ultimo tocco di questa «casa di pazzi» erano le scale, sia interne che esterne: ce n’erano alcune che ti portavano dove volevi andare, ma ce n’erano altre che non andavano proprio da nessuna parte. Mi fu assegnato un cubicolo di quattro metri per tre, a pianterreno, nel cortile interno; la vista di cui potevo godere era una fontana senz’acqua, dove tutti buttavano i mozziconi di sigaretta. Quelle stanzette adibite a uffici, che si aprivano lungo le impalcature di legno, sormontate da altre impalcature, mi ricordavano quelle di un bordello di Reno, con la differenza che qui non c’erano lanterne cinesi, né ragazze che sedevano sorridenti alle finestre; senza contare poi che Harry Cohn non era certo il tipo della tenutaria di bordello. Il sultano di un harem, questo sì, ma non un ruffiano. Il backlot della Columbia era uno sgangherato prolungamento dell’area adibita agli uffici. In uno spazio non molto più grande di quello occupato da un solo teatro di posa alla MGM o alla Warner Brothers, qui erano riusciti ad ammassare tre teatri, una fila di laboratori, un inceneritore, un parcheggio per camion e infine, nell’ultimo angolo, un labirinto di sale di montaggio, archivi, sale di proiezione, tutte messe una sull’altra, e raggiungibili solamente con le ripide scale di ferro esterne. Eppure, in quello spazio incredibilmente piccolo, si facevano miracoli. Ad Harry Cohn non interessavano le eleganti architetture o le sottili decorazioni. La sua forza era nelle persone che lavoravano lì; i vari settori erano diretti da gente che sapeva il fatto suo, che amava il rischio e che se la cavava con poco o niente: erano uomini come Denver Harmon, il capo elettricista, Ray Howell, addetto al materiale di scena, Joe Walker, capo degli operatori, George Seid, dei laboratori, George Yager, tecnico delle luci, e infine il più in gamba di tutti, Sam Briskin, il produttore esecutivo. C’era anche una donna, Dorothy Howell, direttore della scenografia, una donna sensibile, intelligente, coraggiosa. Sì, è vero, dal punto di vista dell’immagine, la Columbia era un rottamaio; ma in termini di cervelli, era una miniera d’oro. Harry Cohn era l’archetipo di un genere di produttori cinematografici che non avevo mai incontrato prima: avventurieri duri, coraggiosi, pronti a tutto, attirati lì da quello che si era rivelato un vero filone d’oro. Cresciuti nella povertà dei ghetti ebrei della East Coast, erano fuggiti dalla gabbia come giovani leoni; avevano preso la strada dell’Ovest, dove erano venuti a sfidare la fortuna e gli dei nel mondo selvaggio del cinema. Non erano attori, né scrittori, o registi, e neppure
tecnici. Erano imprenditori venuti dal nulla, gente che amava giocare d’azzardo, e giocare grosso. Molti di loro erano entrati nel mondo del cinema, o ne erano stati contagiati, lavorando come maschere nelle sale cinematografiche, o vendendo i biglietti, o facendo i fattorini. Alcuni riuscivano a trovare un posto grazie a qualche parente che faceva il produttore o che possedeva qualche sala. Ma la maggior parte era venuta a Hollywood solo con un fegato grosso così e tanta voglia di rischiare. Sapevano di avere tutti pari opportunità e tutti cercavano – mendicando, prendendo in prestito o rubando – di mettere insieme abbastanza soldi per «tirare il dado», nella speranza di riuscire a fare un film di successo per una delle infinite case cinematografiche di serie C. Anche Harry Cohn, un ex autista di tram che aveva poi lavorato per la Tin Pan Alley come presentatore di canzonette – le migliori le fischiettava ancora di tanto in tanto – era stato colpito dalla febbre del cinema. Con i soldi della moglie, in società con il fratello maggiore Jack e con Joe Brandt, Harry Cohn era riuscito a dar vita a una piccola casa cinematografica: la C.B.C. (Cohn, Brandt, Cohn) Productions, il cui simbolo, poco originale, era una donna che tiene in mano una torcia della libertà. Arrivato a Hollywood, Harry aveva infilato la sua testa da cammello sotto le tende di uno studio di Gower Street; ci si era installato buttando fuori tutti gli altri. Con il nome COLUMBIA PICTURES STUDIO si era lanciato nel grande mare delle produzioni a basso costo, un mare denso di nebbie. Quando io vi arrivai, la torcia della libertà resisteva ancora sopra le onde, ma il resto annaspava faticosamente per stare a galla. Alcuni spiritosi, che non erano capaci di vedere lontano, avevano soprannominato gli studi di Harry Cohn: COLUMBIA, IL «GERME» DELL’OCEANO.10 La prima volta che ebbi un contatto diretto con Cohn fu due o tre settimane dopo il mio arrivo. Tutti i giorni avevo sentito la sua voce risuonare attraverso le pareti, quando si infuriava con gli impiegati perché lasciavano le luci accese, o perché fumavano, o semplicemente perché si fermavano a bere un caffè. Dorothy Howell, la scenografa, mi aveva detto che Harry abbaiava sì, ma mordeva raramente. Negli anni successivi però mi capitò spesso di vedere artisti sensibili che se ne andavano da quello studio come se fossero stati morsi da un orso grigio. Non c’è bisogno di dire, insomma, che la Columbia non era il posto giusto per i deboli e i mansueti. Qui misuravano non tanto quello che sapevi fare, ma come lo sapevi fare sotto le sfuriate di Cohn. Sapevo che il nostro incontro sarebbe stato decisivo, ed ero pronto a colpire per primo. «Ehi, ciao, sporco latino, che cosa hai fatto fino ad ora?», mi assalì come entrai nel suo ufficio. «Dove diavolo è la sceneggiatura?» «Signor Cohn, non è lei a doversi preoccupare della sceneggiatura». «COME NO!», urlò balzando in piedi e dando un fragoroso pugno sulla scrivania. «Pensa davvero che io possa accettare quell’idea ridicola di cui ha parlato con Briskin? L’idea che lei faccia tutto il film, dalla sceneggiatura alla produzione? Io sono quello che fa la produzione qui, solo io. Questo è il mio studio, e lo dirigo solo io, HARRY COHN!» «E allora perché non lo dirige davvero, invece di buttare via il tempo andando avanti indietro a spegnere luci e urlare a chi lavora?» Temevo che gli scoppiasse una vena. «Stronzo bastardo! Mi vien voglia di buttarti fuori di qui in questo preciso momento!» «Può farlo, signor Cohn, lo studio è suo». Ero sempre in piedi, pronto ad andarmene. La sua voce si calmò. «E va bene, andiamo, ma smettila di scherzare. Ho cose più importanti da fare. E ora parliamo della storia che stai scrivendo; voglio sapere di che storia si tratta». «La storia è molto semplice, signor Cohn. O lei mi dà il controllo sull’intero film, la sceneggiatura, la regia, e il montaggio, oppure me ne vado. Tutto qui». Si sedette. Era chiaro che ero riuscito a colpire per primo. Si appoggiò allo schienale, mordendosi le labbra, e cercò di guardarmi fisso negli occhi. Poi si arrese. «Hmmm. Fammi sentire
la storia, e poi deciderò». «La storia si può riassumere in poche battute. C’è un uomo molto ricco che possiede una catena di ristoranti; ha un unico figlio destinato a succedergli nella gestione di quella fortuna. Ma il figlio ha altre idee per la testa, e si è innamorato di una ragazza che sta esattamente all’altro polo della scala sociale. Il vecchio è furibondo. Il ragazzo non si arrende e lui lo butta fuori di casa senza un centesimo. I due non hanno un soldo, neanche per sposarsi, ma hanno un’idea geniale: PASTI IN SCATOLA! Cominciano a prepararne alcuni, e, all’ora di pranzo, caricano il vecchio macinino di lei e vanno in giro a venderli. I pasti in scatola hanno un successo enorme, hanno talmente successo che diventano un grande business e mettono in crisi i ristoranti del padre. Allora il vecchio si arrende. Fa chiamare i proprietari dell’impresa di pasti in scatola per discutere di una possibile fusione. Gli viene un colpo quando scopre che i proprietari sono suo figlio e la ragazza. Le due imprese concludono l’accordo di fusione, i due ragazzi si sposano, e lui diventa presidente della nuova azienda». «Frank, questa è un’ottima idea!» Si mise a camminare su e giù per la stanza. «Pasti in scatola. È una cosa nuova. E hanno appena cominciato a diffondersi in tutto il paese. E a chi stai pensando per gli attori?» «Conosco un ragazzo per cui avevo scritto qualcosa quando lavoravo da Sennett: si chiama Ralph Graves. Andrebbe benissimo come giovane dell’alta società, e costa poco». «E la ragazza?» «Questo non lo so. Dipende dal budget». «Frank, penso di avere la persona giusta: è piccola, carina, Viola Dana! Ed è anche sexy. Non l’hai mai vista dimenare il culo?» «No...» «Be’, lo sa fare molto bene, te lo dico io. Chiamerò subito New York. Aspettami fuori. Voglio mostrarti la parte dello studio che non hai ancora visto». «Harry, ho visitato i suoi studi da cima a fondo. È un gran casino, ma gli uomini sono eccezionali». «Puoi scommettere sull’anima di tua zia che lo sono, sono i migliori di Hollywood. Ok, e ora vai! Che cosa diavolo stai aspettando? Mettiti al lavoro, piccolo sporco latino». Me ne andai dall’ufficio con la sensazione che il mio primo incontro col mostro si era concluso perlomeno con un pareggio. In generale, non sono molte le reazioni che gli altri provocano in noi: ci possono tirare su, deprimere, annoiare, ma la maggior parte di loro ci rimangono indifferenti. Non era questo il caso di Harry Cohn. La sua sola presenza ti irritava, e ti provocava un eccesso di adrenalina. Ti infastidiva e umiliava a tal punto che allora cominciavi a odiare. Alcuni allenatori di baseball e di football hanno impostato il loro lavoro su questo principio: John McGraw, Leo Durocher, Vince Lombardi. Aggiungi rozzezza e crudeltà a questo principio, e avrai il ritratto di Cohn. Il titolo del film sui pasti in scatola fu That Certain Thing,11 un film di quelli girati in poco tempo, con un budget inferiore ai ventimila dollari, se ben ricordo; Sennett spendeva il doppio per un cortometraggio di due soli rulli. Le riprese di That Certain Thing furono un corso di addestramento al risparmio. Non buttammo via un solo minuto, o un solo centesimo. Quando andavamo a girare fuori, risparmiavamo anche i soldi del pranzo sfruttando il materiale di scena – i pasti in scatola, appunto. Ci fu un solo incidente durante la lavorazione di quel film. Avevo richiesto quindici comparse per girare una scena nel ristorante, ed era il minimo indispensabile. Ne arrivarono soltanto sette. Ne chiesi il motivo all’aiuto regista il quale mi informò che si trattava di una normale procedura: quella per cui «l’amministrazione tagliava automaticamente tutte le richieste del regista». Diedi ordine di
fermare tutto finché non fossi tornato, e andai direttamente da Harry Cohn. «Che diavolo ci fai qui? Perché non sei sul set a lavorare?», mi aggredì come misi piede nel suo ufficio. «Harry, se vuoi giocare mi va benissimo, ma vorrei soltanto sapere quali sono le regole del gioco». «Di che cosa diavolo stai parlando?» «Harry, io avevo bisogno di cento comparse per quella scena. Ne ho chieste quindici perché sapevo che, con qualche trucco, potevo riuscire a far sembrare quei quindici una folla di cento persone. Ma non posso riuscirci con sette! Allora avanti, quali sono le regole del gioco? Quante comparse devo chiedere per poterne ottenere quindici?» «Ritorna sul set, perdio!» «Ci torno e aspetto, Harry». Quando arrivai sul set, le quindici comparse erano già lì. Tutto quello che il direttore del cast doveva fare era sporgersi dalla finestra e fischiare: c’erano sempre dozzine di comparse che gironzolavano fra Gower Street e Sunset Boulevard aspettando un fischio. Il mio primo film piacque a Cohn, non c’è dubbio. Mi offrì subito un contratto verbale per altri due film, a duemila e cinquecento dollari l’uno. «Accetto», dissi soltanto. Se lavorando in quel postaccio fossi riuscito a mettere da parte almeno diecimila dollari, avrei potuto davvero tentare il dottorato al Caltech. Lavorando senza sosta, sei settimane per ogni film (due per scrivere la sceneggiatura, due per girare, e due per il montaggio), ne feci altri due: So This is Love12 – una commedia con Buster Collier Jr., Johnny Walker e Shirley Mason, e The Matinee Idol,13 una commedia su una compagnia teatrale itinerante con Johnny Walker e Bessie Love. In queste cercai di aggiungere agli elementi comici un altro ingrediente di sicuro successo: un po’ di storia d’amore. Sembrava funzionare. «Scoprii» inoltre un altro trucco importante nel girare un film: bisognava impedire che tutta la complicata macchina che lavorava «dietro le quinte» potesse in qualche modo distrarre l’attenzione dagli occhi languidi dell’eroina. La gente pagava per ascoltare il violino di Heifetz, non per vedere le sue dita che suonavano. I problemi delle galassie e delle loro radiazioni occupavano sempre meno spazio nella mia mente. Nel mio successivo incontro con Cohn decisi di abbandonarli del tutto. «Sporco latino», mi disse con entusiasmo. «Voglio farti un grande favore, ti voglio offrire un contratto». «Un momento, Harry. Non sono sicuro di volere continuare a fare film. Ho un mezzo progetto di rimettermi a studiare». «A STUDIARE? Ma perdio, quella è roba da ragazzini!» «Lo so, Harry, ma non voglio continuare in questa gara assurda, a meno che non sia sicuro di vincere. E il solo modo per capire se davvero ho la possibilità di vincere è avere il controllo totale sui miei film, capisci?» Cohn aveva un sacco di difetti, ma non era stupido. «Sporco latino», mi disse. «Tu non abbandonerai mai il mondo del cinema, neanche se ti ci obbligassero con un fucile puntato. E quindi piantala di ricattarmi. Ti propongo un contratto per un anno a cinquecento dollari la settimana, più la possibilità di un secondo anno a settecentocinquanta. Aspetta un minuto, prima di aprire bocca. Ti anticipo anche 7500 dollari per comprare la casa di Ben Goetz a Malibù; so che l’hai affittata per un mese e ci muori dietro. Che ne dici, dago? Dannazione, sto diventando un debole». Mi mise sotto gli occhi un vero contratto, il primo che avessi mai visto in vita mia. «Dammi una penna», chiesi io. «Non vuoi neanche farlo leggere al tuo agente prima di firmarlo, cretino?» «Non ho un agente. L’agenzia di Small ha disdetto il mio contratto quando ho preso quegli
accordi con voi per il primo film senza consultarli». «Ok, ok. Allora, se sei tanto furbo leggilo almeno tu». «No». «E vuoi firmare un contratto senza neppure leggerlo?», domandò incredulo. «Harry, tu vuoi che lo firmi o no?» «Frank, non so se tu sia il più stupido bastardo del mondo, o il più furbo. Firma!» Io lo sapevo. Conoscevo Harry Cohn. Sapevo che stavo contrattando soldi in cambio di potere, un potere che non avrei potuto avere in nessun’altra casa cinematografica. E sapevo anche che firmando quel contratto stavo dicendo addio per sempre al mio primo amore, il Caltech. Stavo sposando una puttana. Mi trasferii nella casa di Ben Goetz, a Malibù, una splendida villa a due piani, proprio sulla spiaggia, con il campo da tennis nel giardino. Cercai di convincere la mamma a venire con me. «No, Frank», disse lei nella nostra casa di Odin Street. «Io non mi voglio più muovere, voglio chiudere gli occhi qui. E poi Ann sta per sposarsi». La notizia mi colse di sorpresa. «Ann sta per sposarsi?» La mia sorellina Ann era la più dolce e la più cara di tutte le sorelle del mondo. Debole di cuore fin dall’infanzia, aveva lavorato tutta la vita; eppure si era sempre preoccupata degli altri, mai di se stessa. Il solo pensiero che andasse a sposare quel... «Mamma! Non si sposerà con Sam? Quel barbone che gironzola qua attorno tutto il giorno, leggendo il giornale sdraiato sul divano, e non facendo nient’altro che mangiare». «Frank, le donne sono come le chiocce, o come uccelli che vogliono fare il loro nido, sugli alberi, fra l’erba o sulle rocce, non importa dove. Non intrometterti». Ann sposò Sam. Regalai loro un viaggio di nozze a Seattle. Ma non ritornarono da quel viaggio. Lei ci scrisse dicendo che Sam aveva trovato un lavoro, ma io sapevo chi aveva trovato un lavoro. Non mandarono più notizie per mesi, quando finalmente arrivò una lettera: Ann era malata, e avevano dei debiti; mi chiedevano se potevo mandare un po’ di soldi. Le spedii mille dollari. Ritornò da sola, senza Sam, distrutta. Durante quei mesi a Seattle era rimasta incinta, ma la gravidanza era difficile. Date le sue condizioni di cuore, all’ospedale i dottori avevano deciso di operarla, asportandole non solo le tube, dove si era sviluppata la gravidanza, ma anche le ovaie. Mentre era in ospedale, Sam se n’era andato senza lasciare traccia. Ann aveva costruito il nido per un topo. Eppure ancora lo difendeva. Questa era Ann. Quando mi trasferii nella casa di Malibù, portai qualcuno con me; non una moglie, ma un amico, un attore simpatico, allegro, sempre pronto a scherzare, a far divertire: era Al Roscoe, il beniamino di tutte le ragazze. Al non era soltanto un attore; era un giocherellone, con in più il brio di Hollywood, e gli piaceva recitare quella parte. Era uno scroccone straordinario, ma anche un amico straordinario; per te sarebbe andato anche all’inferno, se gli pagavi il biglietto. Recentemente, aveva perfezionato le sue arti di amico-scroccone con Wally Beery, ma, come tutti gli imbroglioni innamorati della loro arte, doveva tenere a portata di mano qualcun altro a cui poter ricorrere, giusto se ce ne fosse stato bisogno. Scelse me, e io gli sarò eternamente grato per la sua scelta. Nei due film successivi per la Columbia, Say It with Sables14 e The Way of the Strong,15 continuai a sperimentare: andavo avanti con la commedia leggera, ma lasciavo entrare anche elementi drammatici. Sapevo che misurarmi col dramma non sarebbe stato facile. Avevo troppo poca esperienza per essere in grado di gestire le delicate sfumature del conflitto drammatico. Ma sapevo che, se volevo impadronirmi del linguaggio cinematografico, questo nuovo linguaggio che stava provocando nel mondo una rivoluzione culturale, dovevo sperimentare, dovevo passare attraverso la scuola del «provaci e sbaglia», una scuola in cui mi trovavo a essere studente e maestro allo stesso tempo. Raggiungere la padronanza del mezzo cinematografico non era per me soltanto un desiderio – era diventata un’ossessione! Non avevo fatto nessun apprendistato nel teatro, non avevo
nessuna conoscenza vera delle arti classiche. Le mie conoscenze a Hollywood si limitavano a case di produzione minori. Non avevo ancora mai messo piede nei grandi studios: MGM, Paramount, Warner Brothers, Universal. Non avevo mai letto una sceneggiatura scritta da qualcuno famoso, da un vero scrittore, così come non avevo mai visto lavorare nessun grosso regista (con l’eccezione di quella scena ridicola – almeno secondo me – che avevo visto girare da von Stroheim, a San Francisco). Una sera, passando accanto agli studios della Universal, vidi che stavano girando un esterno importante, con moltissime comparse. «Quello deve essere un regista che conta», pensai, «tutte le luci di Hollywood sono su quel set». Decisi di fermarmi a guardare; forse potevo imparare qualcosa. Non riuscivo a vedere la folla di comparse (dal rumore che facevano sembravano migliaia) ma, in piedi su una piattaforma, al centro di quelle luci abbaglianti, vidi il Regista. Era circondato da macchine da presa, e urlava alla folla attraverso un enorme megafono. Portava un cappello con la visiera per ripararsi dalle luci, e un giaccone pieno di tasche, come quelli dei cacciatori. Seguivo il tutto con ammirazione e stupore. Sarei mai arrivato a dirigere da una piattaforma come quella migliaia di persone? Da noi alla Columbia non potevamo usare più di dieci comparse per fare una folla. Cercai di sentire quello che diceva, pronto a raccogliere parole di saggezza. «Bambini... statemi bene a sentire ora!» Seguirono una serie di «SILENZIO! SILENZIO!» gridati ad alta voce da un capo all’altro dell’enorme set da una decina di aiuto registi. Si fece subito silenzio. Che rispetto! Quello sì che era fare cinema. La sua voce aveva un suono classico, omerico: «Bambini!», furono le parole che uscirono dal megafono. «Stasera siamo in pericolo, la nostra città è stata assediata. Abbiamo paura. Ora, all’inizio, siamo solo un po’ preoccupati. Ognuno di voi si rivolge al suo vicino e gli dice “Bzzz, bzzz, bzzz!” Nient’altro, solo “bzzz, bzzz, bzzz!” Ok? Fatemelo sentire». Si levò il bisbiglio di migliaia di api. «Bene, benissimo. Adesso incominciamo ad avere più paura. Sentiamo i rumori della battaglia. Rivolgetevi al vostro vicino, questa volta un po’ più in fretta, e dite, a voce più alta: “Chiacchiere, chiacchiere, chiacchiere!” Così. Fatemi sentire». A questo punto si sollevò un frastuono come di scimmie in una foresta. «Va bene! E ora voglio sentire il terrore! Il nemico sta aprendo una breccia nelle mura! Adesso correte dal vostro vicino e urlate “MURA, MURA, MURA! MURA, MURA, MURA!”» «Ma che modo è questo di fare il regista?», pensai. «Bzzz, bzzz, bzzz! Chiacchiere, chiacchiere! Mura, mura, mura! Ma è una cosa ridicola, infantile». «Siamo pronti? Motore! Azione! Bzzz, bzzz, bzzz...» Il bisbiglio cominciò, più forte che durante la prova. Le comparse parlano sempre più forte quando la macchina da presa sta girando. «Ora! Chiacchiere, chiacchiere, chiacchiere!» Sembrava un intero continente di scimmie. «STOP, STOP! No, non va bene! Fate troppo rumore. Questo non è “mura mura mura”, qui voglio solo “chiacchiere, chiacchiere, chiacchiere”, dannazione!» Me ne andai spazientito. Se quello era dirigere un film... Ma, camminando verso casa, cominciai a pensare. Il lavoro di un regista è quello di comunicare, suscitare risposte, e fotografarle. Il regista dice a un uomo: «Cammina!», e quello cammina; dice a un altro: «Corri!», e quello corre. Ordini molto semplici, e risposte meccaniche. Ma quando si trattava di risposte emotive o psicologiche? O, soprattutto, quando si dovevano controllare le risposte di una massa di duemila comparse? Potevo comunicare a ciascun individuo, lasciando a ogni comparsa il compito di dare la sua risposta? Alcuni sarebbero svenuti, altri presi dall’ansia, qualcuno si sarebbe messo a correre, e qualcun altro sarebbe stato fermo immobile. E come potevo comunicare l’«intensità» della risposta? A pensarci bene, quel regista non era affatto
stupido; anzi, il suo modo di dirigere era brillante! Riusciva a suscitare una risposta emotiva con una sola parola: «Paura!» E ne controllava l’intensità – dalla preoccupazione al terrore – con semplici ordini meccanici: «Rivolgiti al tuo vicino e digli: bzzz, bzzz, bzzz, chiacchiere, chiacchiere chiacchiere, MURA, MURA MURA!» Con due ordini semplicissimi, che potevano essere capiti da un bambino così come da un professore, suscitava immediatamente, da una massa di duemila persone, la risposta voluta. Quello era dirigere... Poco prima che cominciassi a girare Say It with Sables vidi entrare nei bassifondi di Poverty Row un altro tocco di classe, la classe delle grandi case cinematografiche. Cohn aveva assunto un vecchio regista, non più di successo, ma ancora circondato dalla fama di aver lavorato per anni per le grandi case. Questo regista voleva assolutamente avere musica sul set del suo film. Era da molto tempo ormai abitudine nei grandi studios usare piccole orchestre che facevano musica durante la lavorazione di un film, con l’effetto psicologico di tenere più alto il morale degli attori. Ma non si era mai visto nessuno che osasse chiedere musica a Poverty Row! In uno dei rari momenti di particolare abbondanza, Cohn aveva acconsentito alla richiesta del vecchio regista. Questo però mise in moto una reazione a catena: a questo punto tutte le attrici dello studio volevano la musica, inclusa la mia attrice di Say It with Sables. Cohn andò su tutte le furie, ma dovette cedere. La notizia si sparse per tutta Gower Street: «Musica per gli attori alla Columbia! Ah, ah, ah! Questo sì sarà la fine di Cohn, sia ringraziato il cielo!» Mi trovai sul set un’orchestrina di tre elementi – un violino, un violoncello e un basso – senza avere la benché minima idea di come potevo usarla. Raggiunsi allora il vecchio regista sul set del suo film, per una veloce «lezione di musica», e questo fu quello che vidi: un’attrice e un attore stavano recitando una scena d’amore. Il regista, di spalle agli attori, dirigeva l’orchestrina di tre elementi, con tutto l’ardore di un Toscanini, muovendo ritmicamente la testa dai musicisti agli attori, come un gufo estatico! Finita la scena, ringraziò calorosamente i musicisti, e poi corse sul set ad abbracciare gli attori. Non c’è dubbio, quel vecchio regista – una gran povertà di talento avvolta in una pletora di vanità – aveva voglia di musica. Trattenni il riso fino a quando non raggiunsi la porta del capannone. Per un giorno o due cercai di usare la mia orchestrina – giusto per far sentire le mie attrici sullo stesso piano – ma non riuscivo a stare serio, e decisi così di lasciar perdere. Per ironia del destino quando un anno dopo il sonoro colpì Hollywood come un tornado la musica sul set fu la sua prima vittima. Sic semper vanitas. Una sera, tutto elegante, avevo portato una ragazza al Grauman’s Chinese Theatre, a una serata di gala per la prima di un nuovo film. Ecco le star che arrivavano: «Ehi! Quella è Norma Talmadge... e proprio dietro di lei Theda Bara... No! Quella è Nita Naldi... No, no, è... oh, mio Dio, guarda, guarda! È Greta Garbo!» Durante l’intervallo una maschera venne da me con un messaggio: «Il signor Harry Cohn la vuole vedere immediatamente, vuole che vada da lui allo studio». La ragazza che era con me fu molto impressionata dalla cosa, che mi faceva sembrare importante. Glielo lasciai credere, anche se avrei potuto dirle che Cohn «viveva» nel suo ufficio, e che ci provava gusto a farti rintracciare alle ore più strane esigendo che lo raggiungessi allo studio, giusto per rovinarti la serata. Lasciai la ragazza in macchina e salii nell’ufficio di Cohn, dove trovai Harry e Sam Briskin che erano nel mezzo di una violenta discussione. «Harry! Tu sei impazzito. Jack e Joe, a New York, andranno su tutte le furie...» «Al diavolo New York». Poi, rivolgendosi a me: «È da due ore che sto cercando di rintracciarti. Vai giù alla sala di proiezione e guardati quei due rulli di materiale. Vai!» «Harry, c’è una ragazza in macchina che mi sta aspettando».
«Che vada al diavolo la ragazza. Vai a vedere quel materiale». «Perché?» «Ah, io sono qui che sto impazzendo e tu mi fai gli indovinelli. VAI A VEDERE QUEI DUE RULLI!» I due rulli che andai a vedere erano una serie di sequenze, non ancora montate, per quello che doveva essere un film importante, il primo tentativo della Columbia Pictures per sfondare nel mondo della grossa produzione. Si trattava di Submarine,16 un film con un budget di centocinquantamila dollari, cinque volte il costo medio di un film della Columbia. Vidi Jack Holt e Ralph Graves nella parte di due allegri marinai, che si innamoravano della stessa donna, Dorothy Revier. Il cerone di Holt e Graves era così pesante che sembravano due marinai da commedia musicale. Quando fossi diventato un regista importante, pensai, avrei eliminato il trucco, qualunque cosa avessero detto gli attori, gli operatori, o chiunque altro. Ma perché Cohn voleva che io vedessi quel film? Evidentemente aveva in mente qualcosa. Tornai nel suo ufficio. Lui e Sam stavano parlando al telefono con il regista, Irving Willat, un nome importante. Riuscii a capire solo che Willat stava pregandoli di fargli finire di girare le scene che erano state programmate. Ascoltando quella conversazione, imparai una lezione importante. Non devi mai abbassarti a pregare, devi essere sempre pronto ad andartene. «Ti richiamiamo», disse Sam, riagganciando il telefono. «Ebbene, dago?», chiese Harry, con un’arroganza velata dal nervosismo. «Ebbene cosa?» «Andiamo!», esplose. «Che ne pensi del film?» «Harry», dissi alzando anch’io il tono della voce, «non è il mio mestiere quello di criticare gli altri registi». «Oh, palle! Non credi che quella roba faccia schifo?» «Io sono qui solo per lavorare». «Sante parole! Sam, quel film lo finirà Frank...» Mi venne un colpo. «No, Harry, no!», implorava Briskin, sincero nella sua esasperazione. «Jack Holt te la farà pagare. Lui e Willat sono amici. Perché non senti che cosa ne pensano a New York...» «Quelli di New York non sono in grado di dirmi neanche che ore sono. Frank, liberati di quella donna, prendi una macchina dello studio, vai giù a San Pedro dove c’è tutta la troupe, e finisci quel film. Ecco una copia della sceneggiatura...» Ci fu un momento di assoluto silenzio. La mia testa girava vorticosamente. Tutta la stanza girava. Inghiottii due boccate d’aria, ma era aria che puzzava di sudore. C’era una voce sottile, dentro di me, che mi metteva in guardia: «Stai calmo. Non lasciarti manipolare da Cohn, altrimenti diventerà il tuo padrone». Poi sentii la mia voce che diceva: «No, Harry, io non sono il tuo tappabuchi. Non ho intenzione di finire i lavori degli altri. Se vuoi che mi occupi di questo film, ridiscutiamo tutto, e io lo rifaccio dall’inizio». «Lo vedi, Harry?», intervenne Briskin. «Te l’avevo detto che avrebbe reagito così. Tre settimane di riprese buttate dalla finestra. Non possiamo permettercelo». «Quello che non possiamo permetterci è un fiasco! Sam, io ho fiducia in questo bastardo. Quell’altro tizio non mi dà sicurezza. E io non sopporto quelli che non si sentono sicuri; mi mettono paura». Poi, rivolgendosi a me: «Tu sei un ragazzo in gamba...» Feci per andarmene. «Torna indietro, dago. Non osare andartene e abbandonarmi qui, e proprio quando sto perdendo cinquemila dollari di film girato male. Avanti, dammi qualche buona ragione per dover rigirare tutto daccapo». «Te ne do una sola: tu hai bisogno di un successo, lo studio ha bisogno di un successo. Se vuoi che mi occupi io della continuazione di questo film, le possibilità di successo sono certamente di più se rifaccio tutto a modo mio. Harry, tu sai benissimo che se Willat ti avesse detto esattamente che cosa potevi ricavarci da questo film, non gli avresti tolto la regia. E se io non ti dico chiaramente la
stessa cosa, tu non avresti fiducia in me. Quindi...» «Va bene, va bene, basta con le chiacchiere. Vai immediatamente a San Pedro e prendi in mano la situazione. Laggiù ci sono cento persone che si stanno mangiando tutti i miei soldi. Fila!» Questo fu tutto. Riportai a casa la ragazza, andai a fare una valigia, e partii immediatamente. Era l’una di notte. Sulla limousine che mi portava verso San Pedro leggevo e rileggevo la sceneggiatura del film. E intanto pensavo a Irving Willat. Era un gentiluomo, un regista di fama, e gli veniva tolta una regia soltanto perché non riusciva a sostenere la rozzezza di Cohn; peccato. Ma Cohn era fatto così. Era abbastanza intelligente per capire che non era in grado di giudicare un autore da quello che scriveva, né un regista dalla qualità di ciò che girava ogni giorno, ma questo lo costringeva a dirigere lo studio con criteri più pragmatici, più crudi. Valutava scrittori e registi in base al loro coraggio, basandosi sulla discutibile teoria che chi ha coraggio sa quel che sta facendo molto più di quanto non lo sappiano le persone timide e sensibili. Lui poteva permettersi di non sentirsi sicuro, ma non tollerava la mancanza di sicurezza nei suoi collaboratori. Avevo visto più volte Cohn assumere per esempio uno scrittore famoso, e poi convincerlo a mostrargli un manoscritto. Senza neanche aver letto una pagina, Cohn chiamava il malcapitato nel suo ufficio, e qui cercava di distruggerlo. «E lei crede di essere uno scrittore?», lo assaliva sventolandogli davanti il manoscritto. «Questa è la cosa peggiore che io abbia mai letto in vita mia». Se quello rispondeva: «Senta, signor Cohn, non se la prenda con me. Io credo che questo materiale sia piuttosto buono», allora Cohn faceva subito marcia indietro: «Oh, questa è bella! Lei crede che sia piuttosto buono». «Sì, lo credo. E se lei non la pensa così, mi dispiace». «Ok-ok-ok... Non ho tempo da perdere in chiacchiere. Torni al lavoro. Ci vedremo più tardi». In questo modo Cohn aveva messo alla prova la sua forza di carattere, e la prova era stata superata. Lo scrittore era assunto. Ma se avesse invece reagito all’attacco in modo servile, questo avrebbe significato la sua fine. Molti artisti raffinati e sensibili venivano spaventati dalla grossolanità di Cohn, dalla sua ignoranza, ma a lui importava molto poco. Chiamatelo pure un dirigente rozzo, insensibile, aggressivo; è tutto vero, ma fu lui che fece la fortuna della Columbia Pictures, fu lui che da un piccolo studio sgangherato di Poverty Row la trasformò in una delle più grosse case cinematografiche di Hollywood. E ora io mi trovavo, nel cuore della notte, su una limousine che mi portava a rimpiazzare un regista di fama proprio grazie al fatto che quell’uomo rozzo e ignorante aveva fiducia nell’uomo ambizioso che io ero. Sapevo che non sarebbe stato facile. Mi accomodai sul sedile riepilogando le tappe della mia carriera. Avevo diretto per la Columbia cinque film da quattro soldi; prima di questi, un brutto film dal titolo For the Love of Mike; e due commedie di Langdon, che però non contavano, perché Langdon se ne era arrogato tutto il merito. Per di più, sapevo che nei circoli importanti di Hollywood i registi di commedie non erano considerati nessuno. Lo scopo della mia vita, fin da quando ero giovanissimo, era stato quello di riuscire a farcela, a saltare dall’altra parte della barricata, a diventare qualcuno. E sapevo che, nella strada della vita che mi ero scelto, farcela voleva dire avere successo. Avevo intrapreso la strada del cinema come avevo fatto da giovane con la scuola, con l’ardore di un fanatico. Avevo sposato il cinema; lo studio era la mia casa. Cercavo di imparare dagli altri tutto quello che potevo, di rubare idee; dove il talento non arrivava, ci mettevo energia pura. Cercavo di approfittare delle debolezze di Cohn. Lui si fidava delle persone ambiziose e sicure di sé, e io divenni il suo più ambizioso collaboratore. Il criterio con cui facevo tutte le mie scelte era molto semplice: sceglievo in base al vantaggio che potevo ricavarne. E ora stavo viaggiando su una limousine, per andare a sostituire un regista di fama. Questa era l’occasione della mia vita, per la
prima volta avrei diretto un film di serie A. Dato che mi trovavo a nuotare in alto mare, avrei saputo approfittarne. Non mi sarei semplicemente lasciato trasportare dalle onde, ma avrei usato tutta l’intelligenza e l’astuzia di cui ero capace per farmi portare dove volevo io. Nel mondo della boxe, si dice che spesso il pubblico fa il tifo per il meno favorito, soprattutto se questi mostra l’accanimento di chi ha bisogno di vincere. Era così che mi sentivo quando arrivai a San Pedro, anche se non trovai nessuno pronto a fare il tifo per me. Buddy Coleman, l’aiuto regista, mi aspettava fuori dall’hotel per aggiornarmi sulla situazione: Jack Holt e Ralph Graves avrebbero lasciato il film se io avessi preso il posto di Willat... Willat era un vecchio amico di Holt... E Holt aveva accettato quella parte proprio grazie alla sua amicizia con Willat... Anche la troupe si lamentava della sostituzione... Dicevano che era una pazzia sostituire un regista famoso con uno sconosciuto che aveva girato solo film da quattro soldi... Avrebbero sabotato la lavorazione fino a quando non me ne fossi andato... Ero pazzo se accettavo... Tutti amavano Willat ed erano solidali con lui... Lui (Coleman) era sicuro che domani nessuno si sarebbe presentato al lavoro... Che cosa doveva fare con le cento e più comparse della Marina? E così via. «Bene», dissi io. «“Il mio centro cede, l’ala destra è in ritirata. Situazione eccellente. Attaccherò!”» «Che cosa?» «Niente, niente. La situazione è difficile, non credi? Senti, Buddy, io ho bisogno di te, ma se tu te ne vuoi andare, stai tranquillo che ti capisco». «Sono qui per aiutare il regista, Frank», rispose lui semplicemente. Dio benedica tutti gli aiuto registi. «Grazie, Buddy. Domani si girerà regolarmente, con le comparse e con tutti gli attori. Se qualcuno arriverà con soli cinque minuti di ritardo sarà licenziato immediatamente. Altra cosa, estremamente importante: gli attori non devono usare trucco, nessun attore. È un ordine. Dov’è la mia stanza? Credo che avrò bisogno di dormire per un paio d’ore. Grazie ancora, Buddy». Andai nella mia stanza, ma non certo a dormire. Mi sedetti alla scrivania per preparare il lavoro del giorno dopo, e il mio piano di battaglia. Avrei attaccato per primo, e senza mezzi termini, sulla questione del trucco; questo mi avrebbe dato il vantaggio di coglierli tutti di sorpresa. Era nelle prime ore che si giocava la partita: o riuscivo a guadagnarmi subito il rispetto e la fiducia della troupe, o non sarei più riuscito a controllarli. Ci sono molti momenti come questi nello show business, momenti che creano il tuo successo o segnano la tua sconfitta sulla base di fattori spesso imponderabili e del tutto irrazionali. In quel momento, per me, i due fattori imponderabili erano costituiti dalle due star del film: Jack Holt e Ralph Graves. Sapevo che, se loro avessero accettato di collaborare, avrei potuto fare un film di successo. Ma se loro si rifiutavano, avrei fatto fare a Cohn la figura dell’idiota, e Cohn non me l’avrebbe perdonato, mi avrebbe buttato fuori come un incompetente che non sa farsi rispettare dagli attori. Conoscevo Ralph Graves; quando facevo il gag writer da Sennett avevo scritto alcune cose per lui, ed era poi stato l’attore del mio primo film con la Columbia: That Certain Thing. Era noto per i suoi subitanei cambiamenti di umore; colpiva per primo, e poi veniva in lacrime a chiederti scusa. Ma era un ragazzo sensibile, amava il cinema, e soprattutto la commedia, e aveva aspirazioni registiche. Era malleabile, non sarebbe stato troppo difficile convincerlo. Ma Jack Holt era un pezzo di granito. Un attore serio, un aristocratico, che aveva frequentato le scuole migliori del paese, ed era conosciuto come un pilastro di onore e di rispettabilità. La commedia, secondo lui, era per gli sciocchi. Irving Willat era suo amico, anche lui un aristocratico, un regista della vecchia scuola. Sostituirlo con un italoamericano, un regista di commedie, e per di
più in un film sulla Marina americana, sarebbe stato come ammainare la bandiera. Holt era il vero ostacolo che dovevo superare. E mi preparavo a scalarlo aggrappato a un filo sottilissimo: niente trucco. Ma su quella innovazione artistica ero pronto a sfidare il mondo intero, e Jack Holt. Alle sette e trenta trovai la troupe che stava preparando le attrezzature in fondo al molo, imprecando sottovoce. Un centinaio di comparse, tutti militari della Marina, stavano scendendo a terra, eccitati per la novità. Mi rivolsi alla troupe con poche parole, mentre i militari ascoltavano incuriositi: «Signori, Harry Cohn mi ha ordinato di occuparmi della regia e della produzione del film, a cominciare da stamani. Non è un lavoro che ho chiesto io. Ma ora sono qui, e chiedo la vostra collaborazione. Se qualcuno non se la sente di collaborare, c’è qui un pullman dello studio che lo riporterà direttamente a Los Angeles. Ma per quanti decidano di restare, spero sia chiaro che intendo ricominciare le riprese daccapo. Questo significa che siamo molto indietro, sia in termini di tempo che in termini di costi. Dobbiamo recuperare il tempo perduto. Quando do un ordine, non voglio vedervi camminare, ma correre. Lavoreremo per molte ore al giorno, lavoreremo in fretta, e bene. La prima scena è in fondo al molo. Ho bisogno di due macchine da presa, una trentacinque e una sedici millimetri. Riprenderanno la scialuppa su cui saranno il signor Holt e il signor Graves, dalla nave da guerra al molo. Attenti alla messa a fuoco della sedici millimetri. I dettagli ve li dirò dopo. E questo è tutto. Grazie». Lentamente e di malavoglia la troupe cominciò a darsi da fare. Come mi voltai verso Buddy Coleman ci fu una sonora, fragorosa pernacchia, seguita da risa soffocate. I militari si guardarono l’un l’altro, sorpresi da tanta mancanza di rispetto. Ma il dio dei registi mi assisteva. Mi ricordai all’istante della famosa battuta pronunciata un giorno da Frank Fay per rispondere a uno spettatore che aveva lanciato un insulto dalla platea. Puntando il dito in direzione del gruppo da cui era partita la pernacchia, dissi soltanto: «Con una di quelle ti hanno messo al mondo, amico!» La troupe smise di ridacchiare all’istante, e i militari scoppiarono in applausi. Mi ero conquistato la Marina, e forse anche gli uomini della troupe. Nessuno se ne andò. E ora dovevo affrontare l’ostacolo più grosso: Holt e Graves. Chiesi a Coleman il numero di stanza di Holt e gli dissi: «Buddy, procurami due uniformi della Marina della misura di Holt e Graves, e, per favore, chiedi al trovarobe di procurarmi una scatola di liquerizie, e...» «Hai detto liquerizie? Ma per che cosa?» «Ti spiegherò dopo. E mi serve del tabacco da masticare. Portami tutto nella stanza di Holt». «Frank, vuoi ridere? Briskin ha chiamato per sapere se per caso stavi incontrando qualche problema». «Richiamalo e digli che va tutto bene. Cominceremo a girare alle otto precise». «Non con Holt e Graves, non ce la farai. È da stamattina che stanno litigando al telefono con Harry Cohn»». «Gireremo con Holt e Graves». «Ma non senza trucco. Quando gliel’ho detto mi hanno sbattuto fuori dalla stanza in malo modo». «Senza trucco». Andai nella stanza di Holt. Graves aveva la stanza accanto. Un piccolo esercito di guardarobieri, parrucchieri e truccatori aspettava fuori. Li guardai con disprezzo. Sentivo, dall’interno della stanza, il suono di una voce alterata. Bussai. «Avanti!», rispose qualcuno, ed entrai. Jack Holt, livido come la vestaglia grigia che aveva addosso, urlava al telefono. Mi voltava le spalle e non mi vide entrare. Ralph Graves, in pigiama, era in piedi sulla porta che collegava le due stanze, e ascoltava la conversazione da un altro apparecchio. Lo salutai. Vedendomi, si rivolse subito
a Holt, cercando di richiamare la sua attenzione. «Jack? Ehi, Jack?» Ma Holt era troppo occupato per dargli retta. «Aspetta, aspetta! Harry, vuoi ascoltarmi almeno per un minuto? Lo so che sono i tuoi soldi, ma qui è in gioco la mia carriera. E io non ho nessuna fiducia in quell’ignorante insolente che hai mandato giù a sostituire Willat. Sì, insolente. Sai qual è stata la prima cosa che ci ha mandato a dire? “Niente trucco per gli attori, è un ordine”. Perché quel figlio di... No, Harry, questa è la mia ultima parola. Me ne vado». E riattaccò. «Desidera?», mi disse poi bruscamente vedendomi nella stanza. «Signor Holt, chiedo scusa per l’intrusione. Sono Frank Capra». «Ah, benissimo. Così adesso posso dirglielo direttamente in faccia. Lascio il film». «Signor Holt, se lei intende lasciare il film per causa mia, la prego di non farlo. Sarei io che dovrei andarmene per primo. Vedo che state facendo colazione. Oso troppo se vi chiedo una tazza del vostro caffè? Ho passato la notte in piedi». «Ma certo, Frank», disse Graves versandomi una tazza di caffè. Holt ascoltava, non sapendo come reagire. «Ieri sera ero a una serata di gala al Chinese Theatre, accompagnato da una splendida ragazza, a sfoggiare il mio primo smoking, quando ho ricevuto una chiamata da Harry Cohn, e otto ore dopo eccomi qui a San Pedro, venuto evidentemente a crearvi dei problemi, che bevo una tazza del vostro ottimo caffè. Signor Holt, questa non è la prima volta che mi trovo ad approfittare della sua generosità. Dico davvero. Una sera, saranno almeno dieci anni fa, mi trovavo con un gruppo di studenti del Caltech a bere birra in un locale di Spring Street, quando entrò lei, alto, bellissimo, con un cappotto bianco, e accompagnato da una ragazza da far mozzare il fiato. Signor Holt, rimanemmo tutti a bocca aperta. Lei doveva essere l’uomo più bello che avessimo mai visto, e certamente non era truccato. Eravamo così pieni di invidia – e di birra – che, proprio come bambini, ci divertimmo a passare di fianco al suo tavolo, mormorando sottovoce qualche ragazzata. Da uomo qual era lei, non ci prese neanche in considerazione. Ma noi ci vantavamo dicendoci che non osava rispondere, che non voleva battersi. A un certo punto, un cameriere si avvicinò al nostro tavolo annunciandoci che il signor Jack Holt desiderava offrirci da bere. «Signor Holt, da quel momento lei per me è stato un eroe; da quel momento, voglio dire, fino a ieri sera, quando ho visto i due rulli che ha girato per Submarine. Signor Holt, in quelle scene lei non sembrava affatto un eroe, il miglior sommozzatore della Marina; coperto di cerone, con il parrucchino, con quell’uniforme finta tutta tirata, mi sembrava piuttosto un vechio commediante che cerca di assomigliare a un marinaio. «Ho accettato questo incarico, signor Holt, nella speranza di fare di lei un vero uomo della Marina, senza cerone, senza parrucchino, senza quella finta uniforme, ma con una presa di tabacco in bocca, e tutti i sentimenti di un vero campione. Chiedo a entrambi di accettare la mia proposta: mettetevi completamente nelle mie mani solo per un giorno. Farò in modo che i giornalieri siano pronti domani mattina. Se non sarete soddisfatti, mi direte semplicemente “No, ci dispiace...”, e io toglierò le tende e me ne andrò immediatamente. Ci state?» «Mi sembra una proposta accettabile», rispose Graves. «Io accetterei; che ne dici, Jack?» «Be’... non so...» Qualcuno bussò alla porta. Era Buddy che arrivava con le uniformi e le altre cose che gli avevo chiesto. «Signori», dissi. «Provate a indossare queste uniformi, che sono quelle che portano davvero i ragazzi della Marina. Io aspetto. E venite come siete, senza trucco. Abbiamo solo dieci minuti di tempo prima dell’inizio delle riprese. Jack, ecco qui un po’ di liquerizia per simulare la presa di tabacco. Vi spiegherò i dettagli quando saremo là. Sbrigatevi».
Quando ci incamminammo lungo il molo, tutti gli occhi della troupe erano puntati su di noi. Coleman ebbe un’idea. Corse avanti e chiese ai militari di applaudire gli attori al loro arrivo. Gli applausi addolcirono la tensione di Holt. Quando sorrise, masticando un grosso pezzo di liquerizia, sembrava proprio un compiaciuto campione della Marina. Verso mezzogiorno arrivò Sam Briskin, convinto di trovare una situazione ingovernabile. Rimase esterrefatto. Gli chiesi di rimanere ad aiutarmi; se lui avesse potuto occuparsi di tutti gli aspetti relativi alla produzione – soldi, esterni, materiale di scena – io avrei potuto concentrarmi sulla sceneggiatura e sulla regia, e in questo modo avremmo potuto recuperare le tre settimane perdute. E fu così che il vicepresidente della Columbia Pictures divenne il mio aiutante. I giornalieri arrivarono il mattino dopo, e Holt e Graves andarono insieme a vederli. Ero su una scialuppa che stavo preparando una ripresa, quando Holt mi raggiunse gridando: «Amico, non togliere le tende!» Durante la lavorazione di Submarine giocai a Holt un brutto scherzo, ma lo feci nell’interesse del realismo. Eravamo sul ponte della portaerei Saratoga, comandata dal capitano King (che sarebbe poi diventato il pluridecorato ammiraglio King). Holt, l’unico sommozzatore della flotta che avrebbe potuto farcela, doveva imbarcarsi su uno degli aerei del Saratoga per essere portato sul luogo dove era stato affondato un sottomarino. Tutto l’equipaggio del sottomarino, ora incastrato sul fondo del mare, stava morendo soffocato. Holt doveva tuffarsi e scendere a una profondità di centoventi metri per cercare di applicare al sottomarino un tubo dell’aria, e salvare così l’equipaggio. Tutto era pronto per il decollo – macchine da presa, pilota, equipaggio – quando Holt, che stava mettendosi il paracadute, mi mandò a chiamare. Era terrorizzato. «Frank, te lo dico in confidenza, io soffro di una tremenda fobia per gli aerei». «Che cosa?», ero così furioso che avrei voluto strozzarlo. Quel gradasso borioso aveva paura di volare. «È detto chiaro nel mio contratto, e riguarda tutti i miei film: assolutamente niente voli. Quindi l’aereo su cui salirò non dovrà decollare. È chiaro?» Esitai. Avevo programmato la ripresa di un primo piano che seguiva tutta la fase di decollo, proprio per provare al pubblico che era Jack Holt che volava su quell’aereo, e non una controfigura. Che andasse all’inferno. Il film era più importante. Questa volta avrebbe volato. «Ma no, Jack, non preoccuparti. Il pilota guiderà semplicemente lungo la pista, e poi si fermerà. Per il decollo useremo una controfigura». Mi prese per la giacca e mi disse in tono minaccioso: «Non facciamo scherzi, chiaro?» «Andiamo, Jack. No, naturalmente. Sali su quell’aereo». Tremando come una foglia, Jack salì sul sedile posteriore. Due marinai gli allacciarono la cintura di sicurezza. A gesti, senza dire una parola, feci segno al pilota di procedere esattamente come avevamo programmato. CIAK! SI GIRA! Il velivolo rombò, si mise in moto, prese velocità... e decollò. Ed ecco Holt nel suo primo volo! Il cameraman mi diede l’ok con la mano, e io mi preparai a ricevere un pugno sul naso. L’aereo fece un ampio giro e atterrò sull’acqua. Mentre passava vicino alla portaerei, feci a Holt un segno di approvazione. La sua faccia aveva un’espressione cadaverica. Mi mostrò il pugno, furioso. Allora mi venne un’idea. Il capitano King e tutto il suo equipaggio avevano assistito al volo. Li raggiunsi di corsa e spiegai loro la situazione: «Capitano, deve sapere che Jack Holt soffre di un’incontrollabile paura di volare. Ma, nonostante questo, non ha voluto che lo sostituissimo con una controfigura. Ha insistito per girare la scena del decollo. È stato il suo primo volo, capitano, mi chiedo se lei sarebbe così gentile da volersi congratulare con lui. Gli farebbe un enorme piacere». «Che cosa ne dite, ragazzi? È stato il suo primo volo. Fargli le mie congratulazioni? Certo! Ma
possiamo fare anche qualcosa di più. Mac! Portami un distintivo della Marina...» Come Holt mise piede sul ponte, gli uomini dell’equipaggio lo circondarono, battendogli pacche sulla spalla e stringendogli la mano, e il capitano gli appuntò sul petto il distintivo, come ricordo del suo primo volo. Il viso sbiancato di Holt riprese un po’ di colore. Quando finalmente mi raggiunse, mi disse solo «Figlio di puttana!» Ma lo disse con un sorriso. Quando assistemmo alla proiezione del primo montaggio di Submarine mi resi conto che c’era un «buco» che avrebbe compromesso la riuscita dell’intero film: mancava la scena del salvataggio sott’acqua. Il film voleva quella scena con il sommozzatore che scendeva alla profondità di centocinquanta metri e riusciva ad agganciare al sottomarino il tubo dell’aria. Ma la Columbia Pictures non aveva esperti di effetti speciali e miniature, e Cohn non voleva sganciare i soldi che sarebbero stati necessari per assumerne uno. «Usa la tua astuzia, dago», mi disse semplicemente. Girando per il magazzino del materiale di scena, trovai un recipiente di vetro lungo circa un metro e mezzo, che doveva essere stato un acquario. Il vetro era sporco e rovinato, e anche dopo averlo ripulito e riempito d’acqua, non si vedeva quasi niente. «Quello di cui abbiamo bisogno è vetro liscio e acqua distillata», disse Joe Walker, l’operatore. «Questo vetro non va bene, è troppo ondulato e distorce l’immagine; e l’acqua del rubinetto non è abbastanza trasparente». «Lo so, Joe, ma possiamo provarci», dissi grattandomi la testa. Girai invano per tutti i negozi di giocattoli della città finché, in una vecchia drogheria, piena delle cose più strane, trovai un piccolo sottomarino, lungo circa sessanta centimetri. «Quanto costa?», chiesi al commesso. «Non so, quel modellino è qui da anni. Facciamo cinquanta centesimi?» Lo comprai. Misi un po’ di sabbia nell’acquario, lo riempii di acqua, vi posai dentro il sottomarino, accendemmo le luci e provammo una ripresa. Sullo schermo appariva esattamente quello che era nella realtà: un sottomarino giocattolo in un vecchio acquario. Eppure c’era qualcosa di misterioso in quell’acqua un po’ torbida; forse un piccolo sommozzatore avrebbe potuto creare l’illusione. Mi misi di nuovo a girare tutti i negozi di giocattoli; sembrava non esistessero sommozzatori in miniatura. Tornai in quella vecchia drogheria, e in una vetrinetta dove i ragazzini si divertivano, per cinque centesimi, al gioco della pesca miracolosa, vidi un piccolo sommozzatore di metallo, alto circa quattro centimetri, completo di casco e bombole d’aria! Fui costretto a usare decine di monetine prima di riuscire a tirarlo fuori, e quando lo ebbi in mano, così piccolo e carino, ero tanto eccitato che lo baciai. Ecco finalmente Jack Holt in miniatura! Ora si trattava di riuscire a far uscire le bollicine da quel piccolo casco. Ma non per niente ero un ingegnere chimico... Sapevo che il sodio puro, a contatto con l’acqua, produce bolle di gas. Feci un buco nel casco, lo riempii di sodio, e lo misi nell’acqua, ed ecco che una fila di bollicine uscì miracolosamente da quel giocattolo! Riprendemmo al rallentatore la scena del piccolo sommozzatore che si inabissava nell’acquario, fino a raggiungere il sottomarino: il vetro ondulato, l’acqua un po’ torbida, le bollicine, e il movimento dell’acqua prodotto dal calore delle lampade creavano davvero l’illusione delle misteriose profondità del mare. Un vetro liscissimo e l’acqua distillata sarebbero mai riusciti a fare altrettanto! Submarine uscì il 1° settembre del 1928, soltanto dieci mesi dopo il mio ingresso alla Columbia Pictures. Fu un successo enorme. La «torcia della libertà» non solo era riuscita a tenersi a galla fra le onde, ma ora era quasi interamente uscita dall’acqua. Il valore delle azioni della Columbia salì da ottantuno centesimi nel 1927 a un dollaro e settantacinque nel 1928. Cohn si congratulò con se stesso – e se lo meritava – per il buon fiuto che l’aveva guidato nella decisione di sostituire il regista, e questo non fece che rafforzare il suo potere fra i suoi collaboratori. Ora poteva
anche chiamare al telefono pezzi grossi come Jack Warner e Louis B. Mayer, ed essere ascoltato, anche se toccava ancora a lui chiamare per primo. La sua ora migliore doveva ancora venire, quella in cui sarebbero stati loro a dover chiamare per primi. Quello fu davvero per Cohn il simbolo della gloria suprema. Mi ringraziò in due modi: prima, nel suo inglese sgangherato, mi disse «Frank, piccoletto, sai una cosa? Potevi ridurmi in miseria, ecco che cosa...» E poi stracciò il mio contratto di cinquecento dollari la settimana, che non era ancora scaduto, e mi fece un nuovo contratto, di tre anni, per mille e cinquecento, che io firmai di nuovo senza leggere. Quando qualcosa funziona, perché preoccuparsi dei dettagli? 10. È un gioco di parole tra germ («germe») e gem («gemma») e si riferisce a un famosissimo canto patriottico americano, «Columbia, the Gem of the Ocean». [n.d.r.] 11. Quella certa cosa, 1928. 12. Dunque è questo l’amore?, 1928. 13. Il teatro di Minnie, 1928. 14. Dillo con lo zibellino, 1928. 15. La maniera del forte, 1928. 16. Femmine del mare, 1928.
6. LA FEBBRE DEL SONORO
Nella storica notte del 23 ottobre 1927 l’ombra di Al Jolson cantò dallo schermo. Le onde sonore di «Mammy» scatenarono un terremoto, un terremoto che sconvolse il mondo del cinema dalle fondamenta. Lo schermo, muto sino ad allora, aveva una voce! Hollywood tremò. Fu come se i pazzi avessero occupato il manicomio. Si potrebbero scrivere volumi sulla commedia e sulla tragedia del sonoro, le carriere che distrusse, e quelle che costruì. Tanto per fare un esempio, il sonoro segnò la fine della pantomima, proprio quando questa stava diventando un’arte di grande valore, e la magia della scienza prese il sopravvento sul fiuto degli showman. Ed Harry Cohn, come reagì al sonoro? Come tutti a Hollywood, fu terrorizzato dall’ignoto. Per me invece la cosa andò altrimenti: grazie alle mie conoscenze scientifiche mi trovai in vantaggio sugli altri e mi conquistai il rispetto di Cohn, che smise di chiamarmi col nomignolo dispregiativo di dago. La qual cosa non era poi così importante, anche se mi dava fastidio il fatto che io non potevo permettermi di chiamare nessuno con nomignoli dispregiativi. «Frank, i miei amici di New York dicono che ora dobbiamo fare tutti sonori», borbottava. «Per favore, ripetimi quei tuoi consigli sul suono...» Il sonoro non mi spaventava, forse perché, paradossalmente, quello che conosci bene, così come quello che non conosci affatto, non ti spaventa. Quelli che si preoccupano di meno sono sempre gli esperti e gli ignoranti. Io conoscevo la tecnica del suono, ma in compenso mi trovavo assolutamente disarmato di fronte al dialogo e alle difficoltà di direzione scenica che implicava. Non solo ero ignorante di tutto ciò che riguardava il teatro, ma disprezzavo anche la sua falsità. Ero cresciuto a una scuola naturalista, la mia «scuola», e non avevo ancora visto lavorare un grande regista. Il mio teatro era il mondo reale, e gli attori dovevano apparire altrettanto reali. Consideravo la macchina da presa, e ora i microfoni, come un fantasma invisibile che, non visto, origlia sulle vicende comiche e tragiche della gente, sulle vicende, per esempio, di quegli strani personaggi che avevo incontrato, amato e studiato durante i miei vagabondaggi giovanili. E dovevo ancora imparare la forza dell’arte creativa, quella con cui Leonardo, usando semplicemente un pennello e una tela, aveva potuto evocare il sorriso incantatore della Gioconda, o quella che si esprimeva nelle parole del salmista, più potenti di mille immagini: «Io sono Colui che è». Non ero ancora neppure cosciente del fatto che l’arte del teatro aveva la sua forza proprio in quelli che vedevo come i suoi limiti, e cioè che le sue finzioni mettevano le ali all’immaginazione, facendo così del palcoscenico una delle forme d’arte più durature, affascinanti e socialmente incisive. Con un ottimo cast, di cui facevano parte Jean Hersholt, Ricardo Cortez, Lena Basquette e Rosa Rosanova, realizzammo un film sonoro tratto dal dramma di Fannie Hurst It Is to Laugh. Era la storia di un giovane ebreo che vuole farsi avanti nella scala sociale, e che arriva a ripudiare i suoi genitori e le sue radici; chiamammo il film The Younger Generation.17 Girammo la prima metà nello studio, e per girare la parte sonora affittammo un capannone, su Santa Monica Boulevard, adibito a questo scopo. Mentre ancora molti pezzi grossi di Hollywood non si arrendevano al sonoro, prevedendone la fine e tentando di esorcizzarlo come una moda passeggera, qualche furbo aveva cominciato a darsi da fare imparando le tecniche del suono; con qualche coperta appesa sulle
pareti, aveva trasformato un fienile in una camera di registrazione, e ora aveva una coda di clienti che facevano la fila per affittarla. Girare il primo film sonoro fu un’avventura. Prima di tutto, nessuno era abituato al fatto che si dovesse far silenzio. Era normale per noi girare mentre nella stanza vicina gli operai lavoravano con seghe e martelli, così come era normale per il regista urlare dal megafono agli attori, o per gli operatori gridare frasi come «Abbassate le luci!», o semplicemente scoppiare a ridere mentre si girava una scena comica. Improvvisamente, con il sonoro, fummo costretti a lavorare in un silenzio di tomba. Quando le luci rosse si accendevano, tutti dovevano rimanere perfettamente immobili e nel più assoluto silenzio; un colpo di tosse poteva rovinare un’intera ripresa. Era come passare dal caos della platea di una partita di calcio nello stadio nazionale alla tensione muta del pubblico di una partita di tennis a Wimbledon. Quel silenzio teso e nervoso – aggiunto al fatto che ora gli attori, per la prima volta, dovevano imparare a memoria le parti – accresceva il loro nervosismo abituale. Tremavano di paura. E poi c’era il problema delle macchine da presa, che ronzavano come vecchie seghe elettriche; sembrava il rumore che fanno le biciclette quando i ragazzini mettono un cartoncino fra i raggi delle ruote. Per eliminare quel rumore fummo costretti a rinchiudere le nostre splendide macchine da presa dentro cabine tagliate su misura, con un vetro a prova di suono di fronte, e una porta rivestita di dietro. L’operatore doveva rinchiudersi in quel cubicolo con la macchina, e, com’è ovvio, da là non poteva sentire assolutamente niente di quello che stava succedendo sulla scena. Ma chi si preoccupava di sentire, quando il problema era quello di non morire soffocati? C’era più aria nei suoi polmoni di quanta ce ne fosse in quel cubicolo; dopo due minuti in quel luogo era pronto per la maschera d’ossigeno. Il nostro operatore era Ben Reynolds, un veterano del cinema muto. Era alto un metro e sessanta e pesava centotrenta chili. Ben riusciva a addormentarsi anche in piedi, cosa che faceva regolarmente per esempio mentre gli stavi parlando, e te ne accorgevi solo quando aprendo gli occhi chiedeva: «Come? Che cosa hai detto?» Ebbene, se ci volevano due persone per riuscire a infilare Ben nel suo cubicolo, ce ne volevano almeno una mezza dozzina per riuscire a tirarlo fuori. Non appena veniva chiusa la porta della cabina e si accendevano le luci che segnavano l’inizio delle riprese, Ben si addormentava. Questo non era molto grave, perché la macchina era stata preparata in posizione e accesa, ma era invece davvero un problema, alla fine della scena, riuscire a tirarlo fuori da quel cubicolo prima che morisse soffocato. Appena tornato in sé, Ben riapriva gli occhi e diceva: «Bene, ragazzi, sono pronto. Giriamo». Poi c’era il problema delle luci – anche queste facevano rumore. Nel cinema muto i fotogrammi scorrono a una velocità di sedici al secondo, ma la velocità dei registratori per le colonne sonore era di ventiquattro fotogrammi al secondo. Questo significava che anche la pellicola doveva scorrere a ventiquattro fotogrammi al secondo, quasi il doppio della velocità del muto (questa è la ragione per cui nei vecchi film muti, girati alla velocità di sedici fotogrammi al secondo, e ora proiettati a ventiquattro fotogrammi al secondo, i movimenti appaiono così veloci e come sussultanti). Aumentare la velocità della pellicola significava anche raddoppiare l’intensità delle luci sugli attori, e di conseguenza l’intensità del calore. Quei poveri attori, già in preda all’agitazione per tutte quelle novità, si scioglievano sulla scena. Praticamente ogni ora dovevano cambiarsi i vestiti bagnati di sudore. Ma questi erano tutti fastidi di poco conto. Il vero problema era rappresentato ora dalla presenza del nuovo «Mago di Oz», con le sue magiche scatole nere, i fili e le cuffie che suscitavano paura e rispetto: il tecnico del suono.
Il nostro tecnico del suono sembrava una persona calma e ragionevole; lo sembrava, cioè, fino a quando non cominciava a mettere le mani, durante le riprese, sulla tavola di missaggio. Allora diventava insopportabile. Capitava che facesse interrompere infinite volte una ripresa per rimbrottare gli attori. «No! No! No! Quante volte devo dirglielo, signor Hersholt, lei deve parlare vicino a questo microfono nel vaso di fiori. Non può voltarsi verso il signor Cortez. E quando si muove da questa parte non può parlare fino a quando non arriva vicino al microfono nascosto nella scrivania...» All’inizio provai a ragionare con lui, perfino ad assecondarlo, ma poi fui costretto ad affrontarlo direttamente: «Mi ascolti bene», esplosi un giorno. «Non osi interrompere un’altra scena se non sono io che glielo chiedo. E le proibisco di salire sul set e parlare direttamente con gli attori. È chiaro?» «Signor Capra, non credo che lei voglia un brutto sonoro». «C’è una cosa più importante del brutto sonoro che io non voglio: non voglio brutte scene. Lei potrebbe risolvere tutti i suoi problemi semplicemente tenendo aperti tutti i microfoni...» «Ma ci sarebbero echi, distorsioni... così dice il manuale...» «Non importa. Provi a fare quello che le dico io. Tenga aperti tutti i microfoni, prepari la tavola di missaggio, e poi non la tocchi fino alla fine della scena». «Ma devo manovrare le manopole per abbassare le voci più alte e alzare i toni più bassi». «No, questa è esattamente l’ultima cosa... Niente, lasciamo perdere. Giriamo». Lentamente, poco per volta, uno a uno, tutti gli ostacoli del sonoro, che avevano come vanificato tanti anni di progressi nel cinema, furono rimossi. I ricercatori della Kodak misero a punto emulsioni più veloci che avevano bisogno di molta meno luce, e gli attori furono così liberati dal caldo insopportabile. Quei buffi microfoni nascosti nei posti più strani, tra i quali restavano zone morte, furono sostituiti da un microfono più sensibile attaccato a una giraffa mobile, che poteva seguire gli attori dappertutto, liberandoli così da una staticità troppo artificiale. La Mitchell Camera mise a punto una cinepresa «silenziosa», che non aveva più bisogno di quelle orrende cabine che imprigionavano gli operatori. Finalmente la macchina da presa era di nuovo libera di muoversi come un uccello, e Ben Reynolds non doveva più rischiare di morire soffocato. Questo significava poi una grande libertà anche per il regista. Quando tutti gli ostacoli furono appianati, il sonoro portò al cinema la forza straordinaria dei dialoghi, degli effetti sonori, della musica! Ora potevamo scegliere per i nostri film la musica che volevamo, senza dover dipendere dalle scelte soggettive e casuali di qualche eccentrico pianista. La scelta della mia prima colonna sonora fu una novità straordinaria ed eccitante. Solo poco tempo prima mi trovavo ancora a scrivere gag nella Torre di Sennett, scoraggiato e quasi arreso dalle sconfitte, e ora eccomi qua a mettere sullo schermo le note potenti della Sinfonia dal Nuovo Mondo di Anton Dvorak che, fra parentesi, credo fu «rubata» direttamente da un disco. Il sonoro fu per me una nuova grande avventura. Ma che cosa rappresentò per il vecchio Mack Sennett? Il sonoro aprì una bottiglia d’inchiostro, e ne venne fuori una nuova specie: i cartoni animati! Nel suo splendido libro su Mack Sennett, Gene Fowler ha raccontato la fine dell’età dell’oro della commedia con due sole righe: Chi ha ucciso Cock Robin? «L’ho ucciso io», disse Topolino.
Quando, nel marzo del 1929, uscì The Younger Generation, si sparse la voce fra gli studios di Hollywood che io, grazie al mio background di conoscenze scientifiche, ero riuscito a padroneggiare il suono come un grande esperto. E dato che, in quegli strani tempi, la tecnica del
suono era più richiesta dell’accento svedese di Greta Garbo, Harry Cohn, con suo grande compiacimento, ricevette dalle altre compagnie numerose e generose offerte in cambio della mia consulenza. «È occupato», rispondeva lui. «D’ora in poi Capra farà solo “special” per la Columbia Pictures. Stiamo diventando grandi – e continueremo a crescere». Per lo «special» successivo fummo costretti a cercare qualcosa che non richiedesse esterni, perché le nostre macchine da presa erano ancora incapsulate in quei cubicoli antirumore. Scegliemmo un giallo di Owen Davis, The Donovan Affair, nel quale tutta l’azione si svolgeva all’interno di una grande casa. Chi credete che si offrì per la parte del detective? Proprio quella faccia di granito che sembrava uscita da un quadro di Grant Wood: Jack Holt. E chi andò a bussare alla porta dei camerini di Buster Collier Jr., Wheeler Oakman, Eddie Hearn, Hank Mann e Fred Kelsey intimando loro di non usare trucco? Proprio lui, Jack Holt. Io e Jack eravamo diventati amici. Nonostante la differenza di classe, avevamo trovato qualcosa che ci legava: l’amore per l’America. Senza contare che io avevo contribuito a togliergli una spina dal fianco, e cioè la paura di volare. Nel 1929 accaddero due grossi eventi storici, il primo a Wall Street, e l’altro a Hollywood, con il concorso di tutte le Muse. Stavamo girando The Donovan Affair18 quando un giorno George Seid, il tecnico di laboratorio della Columbia, in preda all’eccitazione mi disse che quella sera dovevo assolutamente vedere una cosa eccezionale. «Devi vederla perché», insisteva, «è assolutamente nuova!» Quella sera, dopo aver girato fino a tardi, stanco morto mi trascinai con tutta la troupe ad assistere ai giornalieri che avevamo girato il giorno prima. Seid mi stava aspettando, con gli occhi che gli brillavano per l’eccitazione. «Frank, ti presento Walt». Non riuscii a capire il cognome di quello strano personaggio che Seid mi stava presentando. Magro, malvestito, con un’espressione affamata e la barba di due giorni, si alzò in piedi dicendo solo: «Buona sera». Alla fine della proiezione dei giornalieri ero così stanco che mi alzai per andarmene. Ma Seid mi costrinse a rimettermi a sedere. «Frank, mi hai promesso che avresti visto il film di quest’uomo». «Ah, sì, me ne ero dimenticato. Ma, per favore, facciamo in fretta». Non appena si spensero di nuovo le luci i miei occhi, vinti dal sonno, si stavano lentamente chiudendo, quando ciò che vidi sullo schermo risvegliò di colpo la mia attenzione. Era un cartone animato: un topolino nero, con una voce squillante, faceva la parodia di un concerto di piano, pestando sullo strumento con le mani, i piedi, il naso, e perfino con la coda. L’immagine e il suono erano sincronizzati splendidamente. Gli uomini della troupe, seppure stanchissimi, esplosero in fragorose risate. Questo era un tipo di spettacolo assolutamente nuovo ed entusiasmante. Se ben ricordo, il film non era più lungo di quattro o cinque minuti. Dimenticai la stanchezza e mi rivolsi subito a quello strano tipo con una sfilza di domande, a cui lui rispondeva molto umilmente. «Sì, facevo il disegnatore di fumetti a Chicago... No, il personaggio del topo è una nuova creazione... L’ho chiamato Topolino... La voce è la mia... No, prima abbiamo registrato il sonoro, e poi abbiamo sincronizzato l’immagine al suono... Sì, sarei felice se lei lo facesse vedere a Harry Cohn...» «Ma perdio!», fu la reazione di Cohn quando vide sullo schermo i primi fotogrammi. «È soltanto uno stupido fumetto». «Stupido fumetto un corno... È straordinario! Ti farà impazzire...» E Cohn impazzì davvero. Chiamò quel fumettista dallo sguardo affamato e lo convinse a stipulare un contratto per la realizzazione di Silly Symphonies, che la Columbia avrebbe distribuito. Era nato un genio: Walt Disney. Ma purtroppo il timido Disney e il volgare Cohn parlavano
linguaggi troppo diversi. Cohn scambiò la sua sensibilità per debolezza. Lo trattava nel suo modo rozzo e volgare, e lo esasperò tanto che infine lo perse, perdendo così quella che sarebbe stata la miniera d’oro più ricca di Hollywood. Disney si rivolse alla RKO per la distribuzione. E successivamente, come tutte le persone geniali sono costrette a fare, organizzò in proprio la produzione e la distribuzione dei suoi film. Gli incantesimi della magia di Disney si diffusero a macchia d’olio, arrivando a far sorridere e divertire i bambini di tutto il mondo. Era stato proprio il sonoro che aveva reso possibile la magia di Disney. Quello che l’invenzione della stampa di Gutenberg aveva fatto per la parola scritta, il sonoro lo fece nel ventesimo secolo per quella parlata: le voci degli attori, la musica, gli effetti sonori, tutto poteva venire «stampato» su nastro magnetico per poi essere riprodotto a piacere per decine di milioni di spettatori in tutto il mondo. Nella realizzazione di The Donovan Affair sperimentai di nuovo, mescolando la commedia con un altro ingrediente di sicuro successo: la detective story. Funzionò perfettamente, entusiasmando sia il pubblico che la critica. Fu durante la lavorazione di The Donovan Affair, credo, che cominciai a capire veramente di che cosa aveva bisogno il regista per la sua arte e come poteva far sì che tutti gli strumenti tecnici – luci, microfoni, macchine da presa – fossero usati per «servire» gli attori, metterli a loro agio e, al contempo, tenerne a freno le bizzarrie. Cominciai a sviluppare uno stile personale, che consisteva nell’inserire dappertutto una nota comica. La comicità era disarmante, era qualcosa che conquistava chiunque. Fai ridere gli spettatori, e accetteranno tutto. E fu sempre durante la lavorazione di The Donovan Affair che incominciò a nascere in me una segreta ambizione: un’ambizione che sarebbe poi diventata una vera e propria ossessione, quella di arrivare a vincere l’Oscar per la migliore regia. Nel 1929 gli Oscar erano ancora praticamente appannaggio di un numero ristretto di «bramini», tutti appartenenti alle maggiori case cinematografiche, che si conquistavano facilmente la maggioranza dei voti. Era impossibile, per quelli di Poverty Row, aspirare a conquistare un Oscar. Ma questo non mi spaventava, sapevo che prima o poi ce l’avrei fatta. Anche Cohn aveva forti ambizioni personali, prima fra tutte quella di riuscire ad aprire una breccia e conquistarsi uno spazio nell’aristocrazia delle grosse case di produzione, un circolo che sembrava ermeticamente chiuso. Quelli che non ne facevano parte potevano sì godersi le briciole di quella ricca torta, ma, quando cercavano di farsi avanti e di conquistare un posto a quel banchetto, venivano buttati fuori in malo modo. Ma Cohn non si arrendeva tanto facilmente, ed era deciso a rovinare la «festa» di quei baroni. In questo progetto egli usava me come arma d’assalto; e io usavo le sue ambizioni per ottenere il totale controllo sui miei film. C’era una cosa però su cui non riuscivo assolutamente a smuovere Cohn: nessun regista della Columbia Pictures poteva richiedere che una ripresa venisse stampata più di una volta, indipendentemente dal numero di volte che era stata girata. Questo naturalmente faceva risparmiare enormemente sui costi, ma per un regista rappresentava un problema. Se una scena era stata girata cinque volte, ad esempio, doveva scegliere e mandare in stampa soltanto una di quelle riprese. Ed è difficile scegliere la ripresa più riuscita, tenendo conto di tutte le sfumature e i dettagli, senza poterli vedere sullo schermo. Era dunque probabile che spesso fossero sacrificate le cose migliori, abbandonate per sempre in un rotolo di cellulosa. Non potevo fare niente per vincere la resistenza di Cohn su questo punto, ma riuscii però ad aggirare l’ostacolo, scoprendo contemporaneamente, e quasi per caso, un eccellente metodo di regia. Il trucco consisteva nel dare un solo ciak in modo tale che il numero della ripresa fotografato sulla pellicola fosse uno solo. In realtà, a scena finita, invitavo gli attori a rifarla subito due, tre, quattro, cinque volte di seguito, senza mai fermare la macchina da presa! In questo modo non solo riuscivo ad avere sullo schermo cinque versioni separate della stessa scena (senza infrangere le regole dello
studio), ma risparmiavo anche, ogni volta, circa venti minuti di lavorazione, vale a dire il tempo che sarebbe stato necessario per girare quella scena in cinque riprese separate. Cohn andò su tutte le furie – come d’abitudine – ma quando gli feci presente che il tempo costa più della pellicola non ebbe più niente da ribattere. Per di più, cosa sorprendente, con questo sistema riuscivo a ottenere dagli attori prestazioni migliori. Fra una ripresa e l’altra, infatti, il set veniva invariabilmente invaso dall’assalto di cavallette di truccatori e parrucchieri che si agitavano intorno agli attori; e invariabilmente gli operatori aggiustavano qualche luce, i tecnici del suono rimettevano a posto i microfoni, gli operai spostavano qualche mobile, e qualcuno raccontava una vecchia barzelletta. Tutto questo, necessariamente, rompeva l’atmosfera e distraeva gli attori. Ora invece, quando dicevo: «Lasciate accesa la macchina! Tutti di nuovo qui! Si rifà da capo!», gli attori, sorpresi, non facevano in tempo a distrarsi. Nell’agitazione di dover correre di nuovo ai loro posti, cominciavano a perdere la patina del tutto superficiale del controllo di sé. Quando si arrivava al terzo «replay» incominciavano a sudare, a passarsi le mani fra i capelli, a riaggiustarsi il vestito. Esseri umani in carne e ossa, che si muovevano sulla scena con emozioni reali, prendevano allora il posto di quei manichini senza un capello fuori posto, sempre ossessionati da minuzie insignificanti. E questo è esattamente quello che ogni regista cerca disperatamente di raggiungere. Anche quando, più avanti, la mia fama mi avrebbe consentito di ordinare la stampa di dieci riprese, facevo correre lo stesso gli attori avanti e indietro per rifare una scena senza spegnere la macchina da presa, specialmente se mi trovavo a lavorare con attori tutti tirati, che sembravano pezzi di legno. Per quanto ne sappia, sono stato l’unico regista a usare questo sistema così poco ortodosso per migliorare le prestazioni degli attori. Il primo di gennaio del 1929, Harry Cohn e io andammo insieme ad assistere a uno degli spettacoli più entusiasmanti del tempo: la finale del torneo di football disputato dalle squadre universitarie. Più di novantamila spettatori erano venuti ad assistere all’incontro fra la squadra californiana e quella della Georgia. Verso la fine della partita, che vedeva la California in vantaggio di 7 a 6, la Georgia Tech, annaspando nella sua metà campo, perse la palla. Nel casino generale che ne seguì Roy Riegles, un giocatore californiano, raccolse la palla, si confuse, e partì all’attacco verso la porta della sua squadra. Novantamila persone urlarono in coro: «Dall’altra parte!!!» Ma il grido della folla ottenne l’effetto di mettere le ali ai piedi al maldestro giocatore. Con un ultimo, supremo sforzo si liberò di un marcatore e riuscì a segnare i due punti decisivi che fecero vincere la finale del torneo... alla Georgia Tech! La folla era divisa fra quelli infuriati che gridavano «Idiota!» e quelli che compativano il poveretto. Nell’eccitamento generale gridai a Harry Cohn: «Lo metterò nel mio prossimo film!» Ralph Graves e io stavamo lavorando alla sceneggiatura di un altro film con la coppia Graves e Holt. Gli raccontai di Roy Riegles e Graves si entusiasmò subito: «Ma è la storia della mia vita... Usiamolo per l’attacco di Flight».19 E fu così che costruimmo la trama di Diavoli volanti, una storia di marines. La trama non era nuova, ma le scene dei voli erano spettacolari. Il corpo dei Marines ci mise a completa disposizione la base di North Island, a San Diego incluso uno squadrone di nove bombardieri da combattimento. I piloti erano i migliori del corpo, fra di essi gli ufficiali Bill Williams e Jerry Jerome, che sarebbero poi diventati il maggiore Williams e il generale Jerome. Le nostre macchine da presa, libere finalmente dalle cabine di isolamento, presero letteralmente le ali per le riprese dei voli. Non c’erano ancora gli effetti speciali che permettevano di fare tutte le riprese all’interno di uno studio, fotografando un aereoplano contro lo sfondo di un cielo finto. Usammo la strada più difficile, quella delle riprese dal vero.
Tutti quelli che pensano che la realizzazione del film sia qualcosa di molto divertente e affascinante sarebbero stati crudelmente disillusi se ci avessero visto lottare per una settimana con le riprese dei voli di Diavoli Volanti. Lottavamo contro il tempo lavorando diciotto ore al giorno, un lavoro sfibrante e faticoso per gli attori e per la troupe, con difficoltà logistiche che ogni volta sembravano insormontabili. Ci alzavamo all’alba, viaggiavamo per un’ora e mezza per raggiungere la località dove dovevamo girare le scene della giungla, e lì bisognava riuscire a coordinare un battaglione di marines, uno squadrone di aeroplani, e centinaia di «nicaraguensi» – tutti nativi americani che venivano dai paesi dei dintorni. Poi, per tutto il giorno, le riprese di azioni di guerriglia: combattimenti corpo a corpo, scontri armati, lanci di bombe e raid di aereoplani. Tornavamo al Coronado Hotel, a San Diego, che era già buio, stanchi morti. Ma non era finita. Alle otto si andava a cena, con tutti quelli che lavoravano al film, e fra un boccone e l’altro si discutevano tutti i dettagli e le questioni tecniche: i costumi, le macchine, le comparse, gli aerei, i marines, le lamentele, il tempo, chi si era fatto male e chi era fuori combattimento. Dopo cena preparavamo l’ordine del giorno per attori, troupe e comparse: dove e quando avrebbero dovuto trovarsi, come e con chi. Alle undici risalivamo in macchina, prendevamo il traghetto per San Diego e andavamo in un cinema della città, subito dopo l’ultimo spettacolo, per assistere ai giornalieri del giorno prima. Dovevamo correre per non perdere l’ultimo traghetto che ci riportava a Coronado... Finalmente, all’una di notte, potevamo andare a letto, per rialzarci alle sei del mattino dopo, pronti per un nuovo giorno di lavorazione. Ma era quello il modo di fare un film? Certo che lo era, e noi amavamo quella vita. E a parte tutto questo, il mio amore per Diavoli Volanti aveva anche un’altra ragione. Una sera, dopo aver assistito alla proiezione dei giornalieri, mentre il resto della troupe tornava a Coronado, io rimasi con Buddy Coleman per vedere i provini di un nuovo attore a cui Harry Cohn era interessato. Con Buddy c’erano sua moglie Alyce e un’amica di lei. All’uscita trovammo due macchine che ci aspettavano. «Frank», disse Buddy, «è troppo tardi ormai per il traghetto. Dobbiamo fare tutto il giro della baia. Perché non dai tu un passaggio a Lucille?» Guardai Lucille. Era una donna minuta, attraente, con i capelli neri cortissimi e una frangetta sulla fronte, e incredibilmente elegante. «Buonasera, Lucille, sono Frank Capra. Pensa che potrebbe sopportare il viaggio in macchina con me?» «Oh, ne sarei felice. Mi chiamo Lucille Reyburn». Che voce splendida, pensai mentre saliva in macchina, e che splendide caviglie. Coronado era proprio dalla parte opposta della baia, e per raggiungerla bisognava fare una trentina di miglia. Ma c’era la luna piena, e avevo questa dolce e profumata creatura seduta vicino a me. «Da molto è amica di Alyce?» «Oh, sì. Ci siamo conosciute a Berkeley, all’università». «Ed è arrivata qui stasera?» «Oh, no», rispose arrossendo, «sono qui con Alyce da una settimana». «È qui da una settimana? E come mai non l’ho mai vista?» «Non so. Abbiamo cenato insieme tutte le sere». «Abbiamo cenato insieme?» «Be’, non solo con lei, signor Capra. Voglio dire alla sua tavola, con molte altre persone». «Non credo a una parola di quello che sta dicendo... Avrei notato una ragazza carina come lei anche in mezzo a una folla». «Grazie». «Grazie per che cosa?»
Mi guardò in un modo strano, enigmatico, poi sorrise. «Grazie, Frank». Il mio cuore cominciò a battere più forte. Quella corsa in macchina lungo la baia di San Diego, alla luce della luna piena, fu un momento meraviglioso. Eravamo soli in un mondo irreale, e la nostra macchina sembrava una nuvola che correva lungo il cielo inondato di luce argentea. Le presi la mano. La luna si specchiava nell’acqua della baia, così vicino che sembrava arrivasse a lambirci, invitante. Le onde si sollevavano tranquille, e si spezzavano contro la sabbia mandando mille riflessi di luce. La accompagnai lungo le terrazze profumate di bouganville del Coronado Hotel, fino alla porta della sua stanza. La baciai. Lo sapevamo tutti e due. Era cominciata una storia d’amore che sarebbe durata trentotto anni. Diavoli Volanti aprì al George M. Cohan Theatre di New York, nel settembre del 1929. Harry Cohn era così sicuro del successo che sfidò tutte le superstizioni e programmò quell’evento per venerdì 13. Era così orgoglioso di questo film che volle imitare la messinscena che le grosse case cinematografiche approntavano per la serata della prima: luci, folle, la banda militare, tutti i vip, le star in persona, Holt e Graves, e il regista. Per la prima volta tutti i critici importanti di New York vennero a vedere un mio film. Rimasi confuso dalle loro reazioni: per alcuni il film era un capolavoro, ma altri lo distrussero. Ma quali erano allora le regole del gioco nel mondo della critica? Insomma, Diavoli Volanti era bello o brutto? Fu la prima volta che cominciai a capire che nel mondo dorato della critica c’era disaccordo, così come c’era disaccordo fra gli dei dell’Olimpo. Gli «immortali» erano anch’essi mortali, come tutti gli altri. Decisi così che, fino a quando non mi fossi raffinato, mi sarei fidato soltanto della critica delle persone comuni che andavano a vedere il mio film: il pubblico. Avrei letto le sentenze degli dei, ma avrei ascoltato le parole dei mortali. Dopotutto, eravamo più numerosi. Tornato a Hollywood, Harry Cohn stava sempre attaccato al telefono, che gli portava ogni giorno le rosee notizie del successo di pubblico che Diavoli Volanti stava ottenendo; ma ancora più rosee erano le notizie che riceveva dal suo agente di borsa. La febbre della borsa aveva colpito Hollywood come un virus; ne erano stati contagiati tutti, dai dirigenti alle segretarie, e perfino le comparse racimolavano i loro centesimi per investirli in qualche azione. Non si parlava d’altro, si compravano azioni di ogni tipo, e nessuno si curava di sapere se fosse acciaio o marmellata. Tutte le azioni, indistintamente, continuavano a salire; tutti stavano diventando ricchi. Erano tempi grassi per Filmlandia. Io rimasi stranamente immune da questa febbre speculativa. Non per occulti poteri di preveggenza, ma perché ero cresciuto in una famiglia in cui i soldi venivano gelosamente conservati in una vecchia lattina di caffè, sempre in contanti, e preferibilmente in oro. Questa era la nostra sicurezza, che veniva subito dopo la fede in Dio, e io avevo ereditato quell’atteggiamento sospettoso e prudente. Tutti i miei soldi andavano a finire nella moderna versione della vecchia lattina di caffè – una cassetta di sicurezza; e poiché non mi fidavo del tutto neanche delle banche, ne tenevo sempre un po’ in casa, nascosti da qualche parte. «Sei un cretino», mi ripeteva Cohn ogni giorno. «Ti rendi conto che io sto guadagnando diecimila dollari al giorno?» «Ma se tu ne guadagni diecimila, significa che qualcun altro li perde». «Oh, quanto sei ignorante. Nessuno sta perdendo. Siamo in un momento di espansione economica. Tutti stanno guadagnando...» Mi arresi proprio in tempo – il 1° ottobre del ’29 – e fu una capitolazione. «Harry», gli dissi, «puoi comprarmi trentamila dollari di azioni?» Cohn andò subito al telefono e chiamò il suo agente...
Mi comprò centomila dollari di Goldman Sachs, o forse di Lehman Brothers, non ricordo più, con un margine del trenta per cento. Le azioni salivano ogni giorno. In poche settimane il mio investimento raddoppiò. Ma dove ero stato fino a quel momento? Per celebrare questi nuovi, inaspettati guadagni, partii per una vacanza in Messico col mio amico Al Roscoe. E fu proprio allora che avvenne il crollo. Al e io, lontani dal mondo, passavamo la giornata cacciando anitre e quaglie sul Mission River, o raccogliendo vongole durante la bassa marea. Solo dopo diversi giorni ci raggiunse la notizia di quello che stava succedendo a Wall Street. Mi precipitai a Ensenada per telefonare a Harry Cohn. «Ragazzo», mi disse costernato, «è stato un crollo. L’agenzia ha cercato di rintracciarti per sapere se avevi qualche copertura. Quando non ti hanno trovato, hanno venduto tutto». «Oh, no. Quanti soldi ho perso?» «Hai perso tutto quanto, perdio. Esattamente come tutti noi». 17. La nuova generazione, 1929. 18. L’affare Donovan, 1929. 19. Diavoli volanti, 1929.
7. ALLA RICERCA DEL SACRO GRAAL
Di gente ne incontri ogni giorno: nomi e facce presto dimenticati. Talvolta invece incontri delle persone, allora nomi e volti ti restano in mente. Quando ti imbatti in individui eccezionali – e capita raramente – li vorresti sposare. Mentre giravo Ladies of Leisure20 mi innamorai non di una, ma addirittura di due creature così: un’attrice e uno scrittore. Parlerò prima dello scrittore. Di buoni sceneggiatori se ne trovavano pochi, allora come adesso. Molte case cinematografiche si affidavano al «nome» degli autori e lo pagavano caro. A Cohn venne un’altra idea. Chiese all’ufficio di New York di scovargli una serie di nuovi giovani scrittori, per la maggior parte sceneggiatori teatrali. Venivano assunti con contratti a breve termine e spediti a Hollywood in prova. Quattro di loro si rivelarono delle vere miniere d’oro: Robert Riskin, Jo Swerling, Sidney Buchman e Norman Krasna. Seguendo la procedura che usavo abitualmente per le sceneggiature, mandai una prima stesura di Femmine di lusso all’ufficio dei «creativi» della Columbia perché venisse letta e più tardi discussa in una riunione nell’ufficio di Cohn. Ne feci avere una copia anche a tutti gli scrittori di New York che erano appena arrivati. È difficile per chi scrive leggere obiettivamente le cose di un altro. Ma non stavo cercando critiche oggettive o apprezzamenti. Da queste riunioni volevo solo delle impressioni che, venendo fuori spontanee, fossero spia di reazioni istintive, del tipo: «Sì, so bene che l’eroe è un idealista, ma a volte mi sembra un po’ stupido...» «La ragazza in questa scena non è un granché...» «Non so, ma l’ultima sequenza mi ha lasciato perplesso...» Trovavo queste prime impressioni più utili di un commento di dieci pagine. Quella volta, a discutere di Femmine di lusso eravamo circa una quindicina, tutti seduti nell’ufficio di Cohn. I ragazzi di New York erano facilmente riconoscibili dalla loro aria di superiorità un po’ snob – tipica di tutti gli scrittori della East Coast che arrivavano a Hollywood. Uno di loro attrasse subito la mia attenzione: era un giovane corpulento e tarchiato che fumava nervosamente uno dopo l’altro dei forti sigari White Owl («Gufo bianco»), che teneva sfusi in tasca. Le sue spesse lenti gli ingrandivano gli occhi di un azzurro slavato, tanto che pareva lui stesso un gufo bianco impazzito. Avevi la strana sensazione che fosse il sigaro a fumare l’uomo. «Giusto perché lo sappiate, ragazzi», disse Cohn, «a Capra non interessa il vostro parere sul testo. Sta solo cercando ispirazioni. Avete capito?» Il Gufo Bianco saltò su. «Mi chiamo Jo Swerling. Ma non c’è bisogno che se lo ricordi, perché tornerò a New York il più in fretta possibile. Vuole delle ispirazioni, signor Cohn? Questo è il mio suggerimento. Non mi piace Hollywood, non mi piace lei, e sicuramente non mi piace questo schifoso pezzo di gorgonzola che qualcuno mi ha dato da leggere. Puzzava quando Belasco lo produsse con il titolo di Ladies of the Evening, e puzzerà come Ladies of Leisure, anche se sarà il vostro Gesù Bambino di latta a dirigerlo. Questo testo è fatuo, vacuo, pomposo, irreale, privo di credibilità, e... incredibilmente noioso. Se questo è il genere di scemenze che lei si aspetta da me, signor Cohn, posso partire con il primo treno questa notte. Fine della dichiarazione». Harry Cohn era ammutolito. Io, invece, ero raggiante. Forse questo rude giovanotto mi poteva essere utile. «Jo?» Si voltò verso di me pronto a dar battaglia. «Jo, sei una boccata d’aria fresca. Veramente. Gran discorso d’apertura il tuo. Sei altrettanto bravo con i fatti?» «Che cosa vuoi dire?», mi investì.
«Dico, pensi di poter scrivere un testo migliore di quello che hai davanti?» «Con il mignolo della mano sinistra. Se non ne fossi capace tornerei nell’East End a tirare la carretta». «Bene. Ti lascio il campo, per tre giorni. Comincia pure». «Ci vediamo». Corse fuori lasciandosi dietro una cortina di fumo di White Owl. Tornò dopo tre giorni con quaranta pagine. Erano splendide, sensibili, intelligenti, acute. «Jo, è meraviglioso. Devi finirlo. Ma ricordati il tema. È tutto in tre parole: “Alza gli occhi!” Questo è ciò che il ragazzo deve dire alla puttana: “Alza gli occhi alle stelle!”» E ora, l’attrice: Barbara Stanwyck, destinata a diventare la beniamina di tutti, registi, attori e troupe. In una gara di popolarità a Hollywood avrebbe vinto il primo premio anche a testa in giù. Avevo già messo insieme un bel cast per Femmine di lusso: Ralph Graves, Marie Prevost, Lowell Sherman, George Fawcett, e la star teatrale Nance O’Neill. Adesso avevamo bisogno della protagonista, di un’attrice che facesse la parte della ragazza «mondana». Io volevo una certa attrice, ma Cohn non si decideva a chiamarla. Mi chiese di parlare con un’ex ballerina diventata famosa sul palcoscenico recitando in un lavoro intitolato Burlesque. Sentiva che c’era qualcosa in lei. Io ero seccato. Avevo già in mente una ragazza. Tuttavia, rispettando le intuizioni di Cohn, chiesi a Barbara Stanwyck di venire per un colloquio. Arrivò in ufficio un po’ seccata, vestita semplicemente e senza trucco. Odiando chiaramente l’idea del colloquio, si sedette sull’orlo della sedia e rispose alle mie domande a monosillabi. Già non la volevo prima che venisse, dopo averla vista ne fui più che certo. Circa trenta secondi dopo le solite domande inutili: «In quali spettacoli ha recitato? Ha fatto qualche film? Vorrebbe fare un provino?», saltò in piedi, esclamò: «Al diavolo, è chiaro che non le importa niente di me», e corse via. Telefonai a Cohn. «Harry, scordati la Stanwyck. Non è un’attrice, è un porcospino». Mezz’ora dopo Frank Fay, il marito, un ironico attore comico, era al telefono. «Ascolta, che cosa diavolo hai fatto a mia moglie?» «Cosa le ho fatto? Non sono neanche riuscito a parlare con lei». «Be’, è venuta a casa piangendo sconvolta. Nessuno si può permettere di trattare così mia moglie». «Senti, buffone. Non me ne frega niente né di te, né di tua moglie. È arrivata qui incazzata, e se ne è andata furiosa». «Frank, è giovane e timida, e l’hanno trattata male qui. Lascia che ti mostri un provino che ha fatto alla Warner». «Un provino?» «Sì, una scena tratta da The Noose. Dura circa tre minuti. Devi vederlo prima di scaricarla. Arrivo lì subito a portartelo...» Venne proiettato il provino. Niente al mondo sarebbe riuscito a farmelo piacere. Ma trenta secondi dopo ero lì con un groppo in gola grosso come un uovo. La ragazza implorava il governatore affinché concedesse la grazia al marito condannato. Non avevo mai visto né sentito una sincerità così emozionante. Alla fine avevo le lacrime agli occhi. Ero stupefatto. «Aspettami in ufficio», dissi a Fay e corsi da Cohn. «Harry! Harry! Dobbiamo dare la parte alla Stanwyck». «Ma sei scemo? Mezz’ora fa mi hai detto che è un disastro». «Sì, sì, ma ho appena visto un suo provino. Sarà fantastica. Frank Fay è nel mio ufficio. Falle subito il contratto. Non lasciartela scappare...» Iniziò così il mio lungo sodalizio personale e professionale con Barbara Stanwyck. Sotto quella timidezza un po’ tetra, covava il fuoco emozionale di una giovane Duse o di una Bernhardt. Ingenua, semplice, senza nessuna preoccupazione per il trucco, gli abiti, le pettinature, questa
ballerina di fila poteva prenderti il cuore e fartelo a pezzi. Non sapeva nulla dei trucchi della macchina da presa: come «truccare» la postura per mettere in risalto il viso, come controllare i movimenti del corpo nei primi piani. Si limitava ad apparire e allora sul set non esisteva nient’altro che lei. Eppure mi accorsi ben presto di un inconveniente tecnico gravissimo, che ci lasciò tutti stupefatti: la Stanwyck, dava tutta se stessa la prima volta che entrava in scena, fossero anche prove o campi lunghi che servivano solo a orientare il pubblico geograficamente. Tutte le ripetizioni successive erano solo pallide copie della performance originale. Questo era un fatto nuovo: una nuova sfida, e non solo per me, ma anche per gli attori e la troupe. Dovevo far provare gli altri senza di lei, studiare i movimenti di scena senza di lei. Gli attori erano seccati. Non era giusto nei loro confronti, dicevano. Non si era mai sentito di un’attrice che non provasse. Anche la troupe aveva dei problemi. Mi toccava girare il «cuore» della scena – i primi piani di Barbara – prima, e con diverse macchine da presa, in modo che lei potesse recitare una sola volta. Aumentando il numero di cineprese le difficoltà relative a luci e suono crescevano esponenzialmente; ad esempio con due macchine da presa tutto diventava quattro volte più complesso, con tre, otto volte più complesso e così via. Sul set non lasciavo che la Stanwyck pronunciasse una sola parola finché non si incominciava a girare. E prima andavo a parlarle nel suo camerino, le spiegavo il significato della scena, i momenti di enfasi, le pause. La sua parrucchiera Helen era diventata sua confidente. Lasciavo che fosse Helen a darle la battuta iniziale degli altri attori. Le parlavo sommessamente, perché non volevo far divampare quel fuoco lento che si intravedeva sotto la sua silenziosa malinconia. Lei si ricordava di ogni parola che le dicevo – e non sbagliò mai una battuta. La mia ultima raccomandazione era solitamente questa: «Ricordati, Barbara. Non importa quello che fanno gli altri, se si fermano o sbagliano, tu continua la tua scena fino alla fine. Hai capito? Brava». È vero che i registi spesso si innamorano delle protagoniste dei loro film o perlomeno questo succede mentre stanno facendo un film insieme. Vengono a conoscersi così intimamente – a volte più di molte coppie sposate – e la loro relazione è così intensa, così ricca di creatività, che facilmente può sfociare nel tipico legame Pigmalione-Galatea; o, come capita a volte, può scivolare nell’ipnotico sodalizio di Svengali e Trilby. Mi innamorai della Stanwyck, e se non avessi amato Lucille Reyburn ancora di più, avrei chiesto a Barbara di sposarmi dopo che lei e Frank Fay si separarono. Femmine di lusso uscì trionfalmente sugli schermi nel marzo del 1930. Era nata una nuova stella. Il pubblico se ne innamorò; i critici la osannavano; le riviste pubblicavano cose del tipo: «SORGE UNA NUOVA STELLA! Femmine di lusso scorreva sullo schermo. A metà del film il pubblico era senza fiato. Stava succedendo qualcosa... stava nascendo una nuova, stupenda, eccitante meraviglia... e noi siamo fieri di darle il benvenuto». C’era però un inconveniente a lavorare alla Columbia che feriva il mio orgoglio. Né il film, né la Stanwyck, né Swerling, né io fummo nominati per l’Oscar. Le grandi case cinematografiche controllavano i voti. Avevo la mia libertà, ma gli «onori» andavano a quelli che lavoravano per l’establishment. Io volevo tutte e due le cose. Dalla mia umile base in Gower Street misi a punto una strategia di guerriglia al fine di ottenere il giusto riconoscimento. Primo: procurarsi un invito per entrare nell’Academy diventando portavoce di una minoranza agguerrita. Secondo: denunciare l’ingiustizia nei confronti dei produttori indipendenti. Terzo: convincere Harry Cohn a far casino sull’inadeguata rappresentatività del Consiglio direttivo. La strategia funzionò. L’8 maggio del 1931 ricevevo una lettera da Fred Niblo, segretario dell’Academy: «[...] Il Consiglio direttivo la invita cordialmente a diventare
membro dell’Academy». Seguì poi una lettera del segretario esecutivo Lester Cowan; il comitato esecutivo della sezione registi mi invitava a partecipare al comitato elettorale «per eleggere un candidato al Consiglio direttivo». Dieci giorni dopo il nostro comitato elettorale si riunì e – abbastanza «stranamente» – all’unanimità mi scelse come candidato. Non fu necessaria alcuna elezione. Il 18 settembre 1931 divenni un membro di quell’elitario consiglio; William C. DeMille ne era il presidente, Conrad Nagel il vicepresidente. Casualmente, alla prima riunione cui partecipai chiesi spiegazioni sulla procedura di voto seguita per assegnare i premi. Rimasi deluso. La votazione era corretta, se facevi parte del giro giusto. L’Academy era costituita da cinque sezioni: produttori, attori, sceneggiatori, registi, e tecnici. Si entrava a farne parte solo su invito, per meriti riconosciuti. La procedura di votazione era questa: con voto segreto ciascuna sezione selezionava cinque candidati per i rispettivi Oscar. Per esempio, solo i registi membri votavano per scegliere i cinque migliori registi di quell’anno, poi «tutti» i membri dell’Academy decidevano a chi di questi cinque andasse il premio come miglior regista. Il trucco consisteva nell’ottenere la candidatura dalla «mafia» dei registi delle major che erano membri e questi «bramini» non erano molto disponibili a cedere il passo agli «intoccabii» delle caste inferiori. In un periodo successivo mi adoperai per democratizzare queste elitarie procedure di voto. Ma ancora nel 1931, se io, come regista di una casa di produzione minore, volevo vincere l’Oscar – il mio Vello d’Oro – fare dei buoni film non era sufficiente. Avrei dovuto conquistarmi uno «status» tra i registi più famosi, per indurli a votare per me. Non sarebbe stato facile. Non ne conoscevo ancora nemmeno uno. Per costruirmi uno «status», avevo due possibilità. La prima poteva essere quella di assumere qualche carica all’interno dell’Academy – magari quella di presidente – e presiedere all’evento più affascinante del mondo, l’Academy Award Banquet, la serata dei Premi. L’altra – ed era un sistema più pratico – consisteva nel girare un film come regista «in prestito» presso una delle major, dove avrei potuto incontrare e frequentare i «bramini», andando a bere con loro. Ma spesso succede che i piani meglio concepiti non riescano a dar frutti. I grandi studios avevano già cercato di prendermi in prestito dalla Columbia. Cohn propose uno scambio: Capra in cambio di una grande star. Gli dissero di non pensarci neppure. Nessun regista vale quanto una star. Cohn era un bullo, e doveva vedersela con altri bulli. L’uomo che poteva ottenere da Cohn qualunque cosa solo schioccando le dita era Louis B. Mayer. Mayer mi voleva, perché Mayer voleva sempre tutto, ma senza scambio con la star: bastavano le fusa di Leo il Leone. Andai dunque «in prestito» alla MGM a girare una commedia con Karl Dane e George Arthur per la produzione esecutiva di Harry Rapf, un uomo dotato di una tale proboscide da far dire ai maligni: «Può fumare un sigaro mentre si fa la doccia». Era la prima volta che mettevo piede in una delle grandi case di produzione. Entrai pieno di stupore in questa Bagdad di Filmlandia. La sua galassia di stelle faceva impallidire i cieli: Greta Garbo, Norma Shearer, Joan Crawford, Marion Davies, Gloria Swanson, Marie Dressier, Myrna Loy, William Powell, Ramon Navarro, Wallace Beery, Clark Gable, Robert Montgomery, Lionel Barrymore. Ugualmente splendenti, nel Califfato della Mayer, brillavano i suoi satrapi: Thalberg, Selznick, Mannix, Rapf, Stromberg, Franklin, Wanger, Weingarten, Lewin, Thau, Cummings e avanti all’infinito. Tutti loro venivano pagati da tre a dieci volte tanto quello che guadagnava il presidente degli Stati Uniti. Sotto la loro sovranità lavoravano di penna settantacinque sceneggiatori scelti, e una ventina dei più illustri registi dirigevano produzioni scintillanti di stelle; tra loro c’erano Sidney Franklin, Robert Leonard, Clarence Brown, Victor Fleming, Jack Conway, George Cukor, W.S. Van Dyke, Sam Wood, Edmund Goulding. Nomi di immenso prestigio. Ma io non arrivai a fraternizzare e brindare con loro. Mi limitavo a utilizzare lo stesso parcheggio dove i loro nomi erano incisi sulle
targhe degli spazi riservati. Può sembrare strano, ma questi grandi registi venerati a Hollywood erano sconosciuti dal grande pubblico. Erano uomini che facevano parte di una «organizzazione», anonimi come dei vicepresidenti della General Motors. Non esisteva lo slogan «un uomo, un film», era «tanti film, tante catene di montaggio». Un avviso sulla scrivania di Eddie Mannix ammoniva: «L’unica star alla MGM è Leo il Leone». Be’, magari avevo torto io. Loro erano tutti milionari. La sceneggiatura della commedia con Dane e Arthur era terminata. Mi piacque e piacque anche al produttore esecutivo Harry Rapf. Era venerdì. Avremmo cominciato le riprese il lunedì successivo. «Intanto», chiese Rapf, «mi faresti il favore? Dovresti girare di nuovo una scena del mio ultimo film con Dane e Arthur. L’abbiamo visto in anteprima e abbiamo assolutamente bisogno di una risata a un certo punto». «Volentieri», risposi io, desideroso di essere ben accetto. Mi fu consegnato il copione di una scena. Polly Moran (nella parte di una ricca e arrogante dama che indossa una veste da camera sulla biancheria intima) chiama la cameriera dell’albergo per farsi aiutare a indossare il corsetto. Entra George Arthur travestito da cameriera. Profondamente imbarazzato armeggia con il corsetto fino a che glielo infila alla rovescia, o qualcosa del genere (non ricordo più), e scappa via. «Semplice», pensai, mentre aspettavo gli attori sul set dell’hotel. Alle nove di sera quelli arrivarono, stanchi dopo un’intera giornata di lavoro, e furibondi perché dovevano girare di notte. Spiegai loro la scena. «Oh, davvero?», urlò Polly Moran. «Col cavolo che riuscirai a mettermi addosso un corsetto». Le spiegai che la scena non era mia, ma di Mr. Rapf. «Giovanotto. Non sono disposta a togliermi la vestaglia, e a mettere in mostra la mia imbrigliatura, neppure se me lo chiedesse Dio in persona!» «Imbrigliatura? Quale imbrigliatura?» «Questa imbrigliatura!» Lasciò cadere la vestaglia e mi mostrò un sistema di lacci tutt’intorno alle spalle che le sostenevano i seni. «Non vede? Se mi togliessi l’imbrigliatura le mie sporgenze cadrebbero fino alle ginocchia». «Oh, miss Moran. Mi dispiace». Diventai rosso, viola, scarlatto, balbettai. «Mi scusi». «Be’, allora non si può girare, no?», esclamò George Arthur. «Splendido. Buonanotte». «Un momento! Mr. Rapf ha bisogno di una bella risata in questo punto. Se non possiamo usare la trovata del corsetto cercherò qualcos’altro. Ci vorranno solo pochi minuti». Girai quattro differenti gag, uniformandomi al copione per quanto riguardava l’entrata e l’uscita di scena di Arthur, e li congedai. Tornai a casa esultante. Il giorno dopo, era domenica, andai al Rancho Golf Club, per giocare in solitudine e programmare le riprese di lunedì. Arrivò di corsa un caddy con un messaggio: «La vogliono alla MGM... subito». Nel mio ufficio trovai una busta blu sulla scrivania. Dentro c’era un breve appunto dell’ufficio di Harry Rapf: «Torni immediatamente alla Columbia». Afferrai il telefono e chiamai il signor Rapf. «Mr. Rapf è occupato», annunciò la voce melensa di una segretaria. «Mi ha lasciato detto di riferirle che il biglietto è sufficientemente esplicativo». Licenziato in tronco! Così. Con una biglietto. Avevo fallito. Ma come? Raccolsi poche cose dalla scrivania, salutai la mia dattilografa e mi diressi verso un locale vuoto, utilizzato come deposito di pellicole, per poter dar sfogo, solo, al pianto. Mentre piangevo sentii qualcuno che avanzava dietro l’angolo fischiettando allegramente. Temendo di conoscerlo, abbassai la testa e cercai di superarlo quasi di corsa. Andai praticamente a sbattere addosso a un uomo alto e zoppo che avanzava appoggiandosi a due bastoni.
«Buongiorno», mi disse allegramente. «Bella giornata oggi, vero?» E riprese a fischiare. Lentamente, un passo dopo l’altro, trascinava i piedi con l’aiuto di due bastoni a cui si aggrappava con le mani tremanti e con le nocche bianche. Il suo sforzo era così grande che il sudore gli scorreva sul viso e gli bagnava la schiena e le ascelle. Si intravedevano sotto il vestito delle stecche d’acciaio che dal collo arrivavano al ginocchio. Eppure lui fischiettava. La mia tristezza svanì... Incamminandomi sulla via principale che conduceva al cancello anch’io mi misi a fischiare. Forte. Abbastanza forte, speravo, da farmi sentire da Mayer, Rapf, e tutti gli altri grossi stronzi della MGM. «Chi è quel signore zoppo che va in giro fischiettando?», chiesi al guardiano. «Oh, quello. Bel tipo davvero. È il comandante luogotenente “Spig” Wead. Asso pilota della Marina. Uno dei primi ad atterrare su una portaerei». «È caduto?» «Be’, sì. Ma non con l’aereo. Pare che, sbronzo, sia caduto dalle scale di casa rompendosi l’osso del collo. È rimasto immobile per sei mesi». «Uhm. Cosa fa adesso qui?» «Scrive. Scrive storie per film sulla Marina. Un tipo in gamba». Tornato alla Columbia Cohn mi assalì. «Cosa diavolo hai combinato? Mi ha chiamato Rapf. Ha detto che alla MGM non hanno bisogno di presuntuosi, insolenti vagabondi come te. Che ti ha dato una semplice ripresa da girare e tu l’hai buttata via e hai girato quattro o cinque stupide gag inventate da te. Mi spieghi perché?» Gli spiegai la storia di Polly Moran, della sua imbrigliatura e delle sue «sporgenze». «Cosa avrei dovuto fare, Harry?» «Proprio quello che hai fatto. Che stupidi bastardi. Quel Rapf è tutto naso e niente cervello. La prossima volta che Mayer ti vuole gli farò pagare cinquantamila dollari... e una star». Aveva con sé la sua sfera di cristallo. «Bene, andiamo», grugnì. «Rimettiamoci al lavoro. Swerling ha scritto una prima stesura di Rain or Shine.21 Joe Cook e i suoi buffoni possono venir fuori da un momento all’altro. E Briskin è già in parola per un tendone da circo. Vai a vederlo. Ah, e New York mi sta perseguitando per un’altra accoppiata Holt-Graves. Che facciamo per quel progetto sull’aeronautica che avevi? Quello con il dirigibile?» «Splendido. Ho appena trovato l’uomo che ci aiuterà a scriverlo». «Chi?» «Il comandante luogotenente “Spig” Wead. Asso pilota della Marina. Si sbronzò, cadde dalle scale, e si ruppe l’osso del collo». Incontrai per la prima volta Myles Connolly a un party che diedi in onore degli attori e della troupe di Femmine di lusso. Come al solito Al Roscoe si occupava di organizzare gli incontri conviviali. Aveva invitato Connolly, un tipo sofisticato, arrogante e sentimentale, che avrebbe impresso a fuoco il suo marchio sulla mia pelle, personale e professionale. Al me lo aveva descritto come un grosso irlandese, che pesava più di cento chili, alto un metro e novanta, coi capelli neri e gli occhi azzurri, che masticava chewing-gum e assomigliava a un bufalo d’acqua dispeptico. «Irlandese di Boston», aveva proseguito. «Un giornalista duro, uno dei pochi che ha intervistato Coolidge, cattolico violento, e protetto di Joe Kennedy». Sembra che Joseph Kennedy – oltre che mettere al mondo un futuro presidente – si occupasse di ogni genere di affari: politica, whisky, cinema. Come proprietario degli FBO (poi RKO) Studios di Hollywood, convinse Myles Connolly a lasciare il Boston Post per provare a lavorare nel cinema. Secondo Al Roscoe, Connolly era l’«Admirable Crichton», san Patrizio e Cyrano in una sola persona; scrittore di brevi racconti e autore di un prezioso poema, Mr. Blue; uno sterminatore di
draghi, un crociato contro tutto ciò che è basso, vile e volgare; un fustigatore dei pavidi che hanno paura di rischiare. Roscoe ci presentò all’ingresso. «Oh, ciao, Myles». Gli afferrai la mano. «Al mi ha raccontato tutto di te». «Nessuno può dirti tutto di me», rispose lui. «Ci credo. Bevi qualcosa? Scommetto che ne hai voglia». «No, grazie», mormorò lui con aria annoiata. «Ho portato con me il mio liquore». Giuro che sembrava finto. «Be’», dissi io leggermente irritato, «posso offrirti un bicchiere per il tuo liquore?» «Ah, sì, prenderò un bicchiere». Lo accompagnai attraverso la folla fino al bar e gli diedi un bicchiere. Si sfilò dalla tasca una pinta di bourbon e se ne versò un bel po’. «Conosci un bel brindisi?», chiese. «Con la gente giusta». «Vabbe’». Sollevò il bicchiere. «Allora ne farò uno io: “La tua casa lasciasti, e la sua quiete: fu il primo balzo verso ignote mete. Nulla ora vale la vittoria che ti ha arriso se non l’amore degli amici e il riso”. Ti piace?» «Sì, piaceva anche a Hilaire Belloc». Svuotò il bicchiere, poi mi circondò la testa col braccio poderoso, facendola scricchiolare. «Tu, squallido, miserevole regista... ho visto i tuoi filmetti. C’è qualcosa lì dentro. Andiamo in cucina e sbronziamoci». E così facemmo. Fu così che incontrai il mio grande amico e critico, proprio nel momento in cui ne avevo bisogno. La destrezza con cui Connolly sapeva ferirti era pari solo alla sua capacità di bere. Ecco un tipico esempio delle nostre innumerevoli discussioni: «Oooh!», esclamava sarcasticamente camminando per la stanza con il bicchiere in mano. «Ora abbiamo il grande “pensatore”... Ha letto Coué e Louella Parsons... il suo nome diventa famoso... fa grandi discorsi alla radio... Chi è l’uomo? Perché l’uomo esiste? Falsi piccoli quesiti... gli stessi di qualunque stupido professore di liceo che vuol farsi passare per un profondo intellettuale!» «Ti si sta rizzando il pelo, Myles», lo prendevo in giro, cercando di frenare la collera che questo Socrate irlandese stava accumulando. «Ti sei messo di nuovo a insultare». «La verità non è mai insultante, tranne che per i deboli. Ti ho sentito alla radio... fare quella sbrodolata sulla “fratellanza” e la “felicità”... Sembravi uno di quegli untuosi apostoli consolatori... La fratellanza non consiste nel dire “Buongiorno”... È sacrificio. E la felicità non è un abito nuovo e una lucidata di scarpe. Significa buttarsi in ginocchio e implorare a Dio misericordia, e sapere che Lui ti ascolta». «Ok, ok. Beviamo ancora qualcosa. “Lasciasti la tua casa e la sua quiete...”» «Tu possiedi un innato grande talento contadinesco. Sei il miglior regista di Hollywood. Ma hai una mente piccola e meschina. I tuoi film sono delle cartoline illustrate quando potrebbero essere Gioconde e Cappelle Sistine. Perché?» «Perché io non sono il tipo che si nasconde. Io amo il successo. Tu no. Per te il successo è un fallimento. Ho visto quei brevi film “messaggio” che hai fatto per Joe Kennedy... così noiosi che non riescono neanche a riempire quei piccoli e pretenziosi cinema d’essai. I miei fanno sempre il tutto esaurito. Fanno i soldi. Soldi! E nel momento in cui non ne faranno più questo contadino si farà civilizzare...» «E allora continua pure a fare i tuoi film cartolina. Perché vai in giro a chiedere: “Chi è l’uomo? Perché esiste”? Te lo dico io. Perché c’è qualcosa nella tua anima contadina che soffre per uscire allo scoperto... e tu ne hai paura. Prima di sapere che cos’è un uomo... devi diventare un
uomo». «E con ciò cosa vorresti dire?» «Dico che dovresti mettere la tua umanità al primo posto, e impegnarti. Apri la mente agli immortali: i profeti, i poeti. Sì! I santi e i martiri. E poi non dovresti più aver niente a che fare con quel lurido Harry Cohn...» «Tu sei scemo. Harry Cohn mi lascia completamente libero. Io faccio quello che...» «Harry Cohn ti possiede. Tu sei uno schiavo...» «Ma quale schiavo?» «Cohn ha già venduto i tuoi prossimi tre film, non è vero? Senza che tu neppure sappia quali storie racconteranno...» «E allora?» «E allora tu devi consegnare film come se fossero salsicce, uno dopo l’altro, e devono essere dei successi, per finanziare tutta la spazzatura della Columbia». «Questi sono affari miei, Myles: produrre e consegnare successi, è così che mi guadagno da vivere...» «Affari, eh? Tutti belli allineati coi loro numerini. Che cosa succederebbe ai tuoi affari se facessi fiasco per due volte di seguito?» «Non ho nessuna intenzione di far fiasco, neanche una volta. E non mi interessa sapere quale sarà la trama del mio prossimo film. Io posso filmare l’elenco telefonico e farne una delizia». «Liberaci, Dio, dall’arroganza degli uomini meschini. Devo star qui a sentir parlare del “tocco” del grande Capra. Lo sai che cosa sei? Un giocoliere. Elegante. In pantaloni rossi. Riesci a tenere in aria così tante palle colorate che il pubblico non riesce a vedere le idiozie». «Che cosa c’è di sbagliato in tutto ciò?» «Nulla. Proprio nulla se vuoi rimanere un giocoliere per tutta la vita. E così sarà se non ti scrolli di dosso Harry Cohn...» «Cerca di fartelo entrare bene in testa. Io voglio restare alla Columbia. Mi piace Harry Cohn...» «Ma certo. Perché no? A te piace essere una scimmia al guinzaglio». «Oh, per favore, vuoi andare all’inferno?!» Chiaramente il nostro era un rapporto di amore-odio. Ci abbracciavamo o ci azzannavamo. Stavamo senza parlarci per lunghi mesi e ci rincontravamo commossi fino alla successiva violenta separazione. Non sopportava i miei sceneggiatori, insultava i miei amici, odiava Cohn. Voleva essere il mio unico guru; il mio Edgar Bergen. Io non volevo essere il Charley McCarthy di nessuno. E tuttavia le sue parole bruciavano come ferri roventi: «Una piccola mente calcolatrice... Un untuoso apostolo consolatore... I tuoi film sono cartoline illustrate... C’è qualcosa nella tua anima contadina che soffre per uscire allo scoperto... Tu hai paura... Un giocoliere... Palle colorate che nascondono le idiozie...» Connolly feriva perché aveva ragione. Avevo paura di impegnarmi totalmente nei film. Dentro di me la voce del buon senso continuava a mettermi in guardia: «È tutta un’illusione, Frank. Gli artisti non sono costruiti dal caso o dall’ingegneria chimica. Quando scoccherà mezzanotte ti sveglierai di nuovo in mezzo alle tue provette. Quindi tieni in mano il gioco, e porta a casa i soldi, finché dura». «Non posso spendere tutti questi soldi», urlò Cohn. «Produrre commedie musicali costa una fortuna!» «Non Rain or Shine, Harry. Eliminerò tutti i numeri musicali». «Buttare via i “numeri”? E allora che cavolo compriamo?»
«Ci “compriamo” Joe Cook. Lui è un matto, Harry. È unico, il beniamino degli intellettuali, della Tavola Rotonda dell’Algonquin! Percy Hammond chiama Cook “l’uomo più divertente d’America”; Brooks Atkinson dice che è uno dei più grandi comici dei nostri tempi! E ci mettiamo altri due grandi comici in Rain or Shine, Tom Howard e Dave Chasen. Rain or Shine ci costerà un’inezia, Harry. Lo girerò tutto in un piccolo tendone da circo. Non avremo bisogno di altri set. Nessuna musica, nessuna ballerina, nessun Busby Berkeley, niente di niente. Solo commedia allo stato puro». «Dago, sei matto. Rain or Shine è una commedia musicale di grandissimo successo di Broadway! È considerata una vacca sacra tra i critici. Togli le canzoni e i giornali di New York ti uccideranno. “Questo è Hollywood!”, grideranno...» «Compramela, Harry. Mi ispira». Logicamente dire «mi ispira» è altrettanto assurdo che dire «tutti i cavalli hanno la coda; quindi tutte le code hanno il cavallo». Ma nel folle mondo del cinema tu non spieghi le ispirazioni – semplicemente vivi e muori con loro. Harry Cohn comprò Rain or Shine. L’ispirazione si dimostrò corretta. Ne uscì un film poco costoso che fece grandi incassi. Per di più molti critici di New York lo giudicarono ancor più divertente dell’originale successo di Broadway. Nel mondo dello spettacolo, stuzzicare le vacche sacre a volte conviene, e così andai a vantarmi della felice intuizione dal mio caustico amico Myles Connolly. «Di cosa ti vanti?», mi punzecchiò. «Qualunque idiota avrebbe buttato via la musica di Rain or Shine. Era pessima». «Ok, ok. Sono soddisfatto lo stesso. Dopo appena nove anni ho chiuso il cerchio, dal completo controllo del mondo ignorante di Fultah Fisher’s Boarding House al completo controllo della Hollywood professionista. Non sono in molti a poter dire lo stesso, eh?» «No. E andrò fuori a sparare mortaretti in tuo onore. Ma cerca di riflettere un po’ con quella che sei così fiero di chiamare la tua mente. Tu non sei un artista. Sei un truffatore. Gli artisti muoiono e rinascono continuamente. Tu passi attraverso i tuoi filmetti senza neanche farti un graffio... E ricordati questo, vanitoso amico mio: Harry Cohn è un porco. E a chi frequenta i porci prima o poi viene il grugno». «Oh, va’ all’inferno!» Non esistono due film uguali, quando si gira. Ciascun film è un pezzo della tua vita che si svolge in un piccolo universo irreale con caratteristiche proprie e una sua compiutezza; dotato di uno scenario dove avvengono esperienze indimenticabili ed episodi incredibili. Cominci ad amarlo e a adattarti alla sua stravaganza. I sogni prendono consistenza. I suoi valori visti «attraverso una lente, nell’oscurità» vengono messi a fuoco. Vorresti che non finisse mai. Ma il film finisce. Il mondo fantastico svanisce come la nebbia all’alba; e una parte di te svanisce con lui. Ti ritrovi catapultato nel mondo reale, stanco, a disagio, nervoso, intrattabile. C’è un solo modo per guarire. Un nuovo film. Un nuovo piccolo mondo irreale; nuove visioni, esperienze, episodi incredibili. Ti innamori un’altra volta, lo fai tuo, vorresti che non finisse mai. Fare dei film contiene tutto questo. Avvengono anche strani episodi che restano fuori dalla pellicola, come, ad esempio, un’assurda scena che ebbe luogo durante le riprese di Dirigible.22 Accadde a Lakehurst, nel New Jersey, in un immenso hangar, alto più di settanta metri. All’interno dell’hangar, l’ultimo dei grandi dirigibili, il Los Angeles – duecentotredici metri di lunghezza – rollava impercettibilmente. Una mezza dozzina di piccoli dirigibili flosci erano legati lungo i suoi fianchi come dei maialini affamati intorno alla mamma. Gli uffici dello staff del capitano C.E. «Rosy» Rosendahl occupavano un angolo del cavernoso hangar. In uno di questi uffici di cemento c’era il nostro quartier generale. Sam Briskin e io ci
trovavamo lì, davanti alla porta dell’ufficio, che ascoltavamo esterrefatti l’eco di una rissa, accompagnata da urla e imprecazioni e dal fracasso delle seggiole lanciate in testa. Una dozzina dei più duri leader sindacali della East Coast erano impegnati in un gigantesco scontro di pugilato. «Speriamo che questi idioti non ci sfascino le macchine da presa», disse Briskin preoccupato. «Oh-oh! Ecco che arriva la Marina». Il capitano Rosendahl – angelo custode del dirigibile, che stava combattendo la sua ultima battaglia per tenerlo in vita – arrivò di corsa seguito dai suoi subordinati. Era furibondo. Quella violenza minacciava la pace e la sicurezza delle sue creature nutrite a elio. «Cosa sta succedendo qui, perdio?», riecheggiò la sua voce. «Tutto a posto, capitano. Le ripagheremo i mobili», cercò di calmarlo Briskin. «Quali mobili? Chi è che si picchia lì dentro? Aprite quella porta!» «È chiusa a chiave, capitano. Sono solo due sindacati che litigano per la loro zona d’influenza...» Spiegammo velocemente tutto al capitano in collera. Arrivati a Lakehurst avevamo trovato sei boss del sindacato di New York che ci aspettavano per dettarci la «legge»: dovevamo assumere un «sostituto» di New York per ogni membro della troupe portato dalla costa; uomo per uomo, salario per salario, più il costo del trasporto andata e ritorno da New York, una volta e mezza la paga dopo le cinque di sera e tre volte tanto dopo mezzanotte, e nessun «sostituto» di New York doveva spostare una sedia o lasciare l’albergo! Altrimenti non si gira! Dovevamo assumere altri quaranta uomini, solo per farli stare lì a mangiare, dormire, e giocare a carte. Si trattava di un ricatto contro Hollywood, naturalmente, imposto con l’«autorità» della violenza. Avevamo cercato di discutere, ma finimmo per accettare. Era la norma. La settimana dopo arrivarono sei nuovi individui incaricati di far «rispettare la legge», erano i leader del sindacato del New Jersey! Loro avevano la giurisdizione sul territorio del New Jersey, dissero, e chiedevano che assumessimo altri quaranta uomini del New Jersey come riserve – e dulcis in fundo pretendendo la paga retroattiva per i cinque giorni in cui eravamo già stati lì. Briskin era furente. «Brutti ladri impostori», urlò. «Non vi darò nemmeno un dannato centesimo». «Oh, sì, invece. I miei uomini hanno bisogno di mangiare!», lo minacciò quello del New Jersey. Aveva i peli che gli uscivano dalle orecchie e gli occhi slavati. Io mi attaccai al telefono e raccontai al capo sindacalista di New York quello che stava succedendo. «Arrivo subito», disse lui. Arrivò dopo pochi minuti seguito da otto dei suoi grossi scagnozzi. Le loro giacche erano rigonfie. «Qual è il problema?», chiese il capo di New York. «Il problema è vostro», disse Briskin fumante. «Siamo disposti a pagare una squadra di riserva, ma non due! Usciamo di qui, Frank. Lasciamo che questi ladri decidano a chi deve andare il bottino». Raccontammo velocemente tutto ciò al capitano Rosendahl, sperando che non facesse scoppiare un incidente federale. Il frastuono dello scontro si smorzò. Era finito tutto. La porta si spalancò. Ne uscì il gruppo di uomini più malridotti che avessi mai visto, imprecavano, zoppicavano, si reggevano le braccia e la testa. Erano quelli del New Jersey o quelli di New York? «Bene, venite avanti, ragazzi. Chi ha vinto?», esclamò allegramente Briskin. «Fottiti!», ringhiò l’uomo insanguinato che gli era vicino. «New York ha vinto, Mr. Briskin! Yuhuu!» Il leader di New York era in piedi sulla soglia che si sfregava le nocche spellate ma vittoriose. «Lei, signore... di New York!» La voce del capitano Rosendahl era tagliente. «Sì? Cosa posso fare per lei, colonnello?», ripose il vincitore con un largo sorriso.
«Lei e i suoi uomini avete aggredito dei cittadini del New Jersey. Che cosa ne direste se chiamassi la polizia del New Jersey?» Il boss vittorioso si mise paura. «La polizia del New Jersey?! Ah, no, generale. Noi siamo di New York e la cosa non ci piacerebbe affatto!» «Benissimo. Qui dietro c’è uno stanzino pieno di stracci, secchi, acqua e sapone. Voglio vedere quest’ufficio e il pavimento di tutto l’hangar completamente puliti. Subito!» «Si può fare, generale, si può fare...» Guardammo stupefatti i gorilla vittoriosi che conciati e con gli occhi pesti ramazzavano il nostro ufficio. Sentii una risata. Era Briskin. «Frank», ridacchiò. «Non mi sono mai divertito tanto in vita mia. Beviamo qualcosa?» Lui beveva raramente. «Si può fare, ammiraglio, si può fare», risposi. Quest’altro fuoriscena ebbe un epilogo comico e insieme penoso. Stavo ispezionando gli «esterni» della banchisa polare antartica che avevamo ricostruito nella San Gabriel Valley e mi lamentavo con i tecnici: «Manca la sensazione di “freddo”, ragazzi». «Signor Capra, questo è il set più realistico che abbiamo mai costruito», ribatté lo scenografo. «Otto centimetri di sale che si solleverà col vento; inoltre quella piana ghiacciata mi sembra abbastanza fredda, e anche quei cumuli di ghiaccio. E quel fondale di montagne ghiacciate mi è costato da solo cinquemila dollari». «Io ho una dozzina di macchine per il vento e tonnellate di fiocchi di grano per le tempeste di neve», aggiunse il tecnico degli effetti speciali. «Lo so, lo so. E gli attori indossano parka e tutto il resto. Ma c’è qualcosa che manca. Stando qui non diamo l’impressione di freddo. Ci sono, non si vede il fiato. Se riuscissimo a far vedere il fiato degli attori...» «Signor Capra», mi interruppe l’operatore. «Non sono un mago. Con i trentadue gradi che abbiamo qui...» «Lo so. Ma non sarebbe fantastico?» «Sarebbe una magia». «No, Joe, non magia. Scienza». Esposi il problema a qualcuno dei miei vecchi professori del Caltech. Al professor Lucas venne un’idea. «Ghiaccio secco, Frank. In bocca agli attori. Farà condensare il fiato. Metti un pezzo di ghiaccio secco in un piccolo contenitore di fil di ferro e attaccalo al...» Corsi fuori urlando «Eureka!» e mi precipitai dal mio dentista. «Dottore? Voglio del fiato che si veda. Mi faccia una dozzina di piccole gabbie di fil di ferro...» Pensava che l’idea fosse stupida, impraticabile e pericolosa ma mi costruì le gabbiette. Lì nel suo studio me ne attaccai una al palato con dell’adesivo per dentiere. La sentivo grossa come una gabbia d’uccello. Parlavo bofonchiando e sbavando. Oh, be’. Se Demostene riusciva a parlare con dei sassolini in bocca, i miei attori potevano farlo con gabbie d’uccello nelle loro. Nella prima scena – che si svolgeva sulla banchisa Hobart Bosworth – Ralph Graves, Clarence Muse e altri tre attori piantavano la bandiera al Polo Sud. Avevano tutti la gabbia piena di ghiaccio secco in bocca. Biascicavano come dei pugili pestati a sangue, ma il loro fiato si vedeva! Feci giurare a tutti di mantenere segreta la mia grande scoperta. «Si gira!», urlai trionfante. Hobart Bosworth, un grande attore della vecchia scuola spiegò la grande gloriosa bandiera, l’infisse nel ghiaccio, e annunciò declamando: «Nel sciome degli Schtati». Di colpo si fermò, si tolse di bocca la gabbia, e urlò: «Continuate a girare. Volete vedere il fiato? Ve
lo farò vedere. Ma non con questo maledetto affare in bocca». Da vero uomo di cinema qual era, gettò via la gabbia e si ficcò in bocca il pezzo di ghiaccio secco come se fosse stato una grossa pillola. «Di nuovo pronto!», disse. «Nel nome degli Stati Uniti d’Ah-h-h-h!» Cadde al suolo trascinandosi urlando. Arrivammo di corsa. Non riuscivamo ad aprirgli le mascelle! Terrorizzati lo trasportammo al Pronto Soccorso di Arcadia. Il medico di guardia gli fece un’iniezione che smise di farlo urlare. «Ghiaccio secco in bocca?», disse il medico scioccato. «Mio Dio! Infermiera! Porti delle bende calde e chiami subito il dentista». Il dentista arrivò ed emise il suo verdetto: «Il signor Bosworth perderà due denti superiori, tre inferiori, parte dell’osso mandibolare e del tessuto morto. La lingua è salva. Potrà recitare ancora». Tornato sul set dell’Antartico trovai un avviso sulla sedia da regista: «In vendita GHIACCIO SECCO – prezzi stracciati», di fianco un bicchiere di carta pieno delle mie stupende gabbiette. «Io la mia continuo a usarla, signor Capra». Era Clarence Muse, il mio beniamino. «L’operatore dice che il fiato si vede bene contro la mia faccia scura. Sarà perfetto per i primi piani, no, capo?» «Siamo d’accordo, Clarence, siamo d’accordo». Fu così che più tardi un critico formulò questa acuta domanda: «Come mai Clarence Muse in Dirigibile ha avuto più primi piani delle altre star?» Chi crederebbe che fu a causa del ghiaccio secco? La notte del 18 aprile 1931 i riflettori illuminarono il cielo di Hollywood. La prima di Dirigibile veniva proiettata al Sid Grauman’s Chinese Theatre, il massimo riconoscimento per Filmlandia. Ero seduto tra due amici speciali, Lucille Reyburn e Myles Connolly. Al termine della proiezione il pubblico in abito da sera scoppiò in un applauso spontaneo e prolungato. Non saprei da dove incominciare per descrivere l’euforia che si prova in questi momenti – quando lunghi mesi di duri sforzi sono finalmente applauditi in un teatro pieno di gente – sollievo, esaltazione, batticuore; ci si ritrova con gli occhi umidi e uno stupido sorriso fisso sulle labbra. Non c’è nulla, proprio nulla che dia tanta soddisfazione come la realizzazione di un’opera. Guardai Lucille. Si asciugava gli occhi. Guardai Myles. Col mento in mano, chewing-gum in bocca, guardava fisso davanti a sé, accigliato. Finalmente l’avevo messo al suo posto, pensai. L’applauso generale si spense, ma un gruppetto continuava ad applaudire. Mi guardai intorno. Nella corsia centrale Harry Cohn riceveva il suo tributo di ovazioni. Colse il mio sguardo, sollevò le mani unite sopra la testa in segno di vittoria e io risposi con lo stesso segno. Harry Cohn aveva sfondato a Hollywood con una «prima» trionfale al Grauman’s. Uscimmo da una porta laterale. Se c’erano ancora dubbi sul trionfo di Cohn, l’altoparlante li dissipò: «La macchina del signor Harry Cohn! Una Rolls blu. La macchina del signor Harry Cohn!» Noi ci aprimmo un varco tra la folla fino alla mia Buick che era nel parcheggio. Probabilmente buona parte del pubblico sarebbe andata a celebrare la vittoria di Cohn nella sua casa di Fremont Place. Io non ci sarei stato. La vita con lui era possibile solo grazie a un tacito accordo. Io non gli rubavo la scena perché lui non poteva rubarmi la mia. Non ha senso, vero? Oppure sì? Comunque noi andammo a casa di Jo Swerling. Ci avremmo trovato i miei amici: Al Roscoe, Tim Whelan, Stan Imerman, Bob Riskin, Ralph Graves, le loro mogli, e gli amici di Swerling. E prima di smettere di bere, Connolly avrebbe preso a pugni il dottor Imerman perché era l’unico abbastanza grosso da poterlo picchiare. Uscimmo in fila con le macchine dal parcheggio. Lucille sedeva davanti, tra noi due, e si puliva il viso delle tracce di mascara. «Oh, Frank, amore. Sono così felice per te. Myles, hai mai sentito un applauso così?»
«Non era male, ma hai visto chi si è preso gli inchini, vero?», rispose lui gelido. Era chiaramente una frecciata. «Piantala, Myles. La Columbia diventerà una grande casa di produzione con questo successo. È giusto che per questa notte Cohn cavalchi il suo cavallo bianco». «E il cavallo bianco è un somaro di nome Capra». «Ci siamo di nuovo», dissi io. «Lo so. Per te il successo è male. E a proposito, come se non lo sapessi, che ne pensi di Dirigibile?» «Oh, è solo più spettacolare e ha degli effetti sonori migliori degli altri, tutto qui. Dieci bobine di rumori senza una sola idea. Oggi raccoglie incassi, domani non se lo ricorda più nessuno». Dannato irlandese e le sue «idee». Non era forse il successo l’idea più grande di tutte? Idee! Idee! Avrei dimostrato a quell’individuo sarcastico che riuscivo a destreggiarmi con un’idea. Il prossimo film avrebbe avuto a che fare con l’idea più controversa che potessi immaginare, la religione! Chiesi a Cohn di comprarmi Bless Your Sister, un’opera teatrale satirica ispirata da Aimee Semple McPherson e che Robert Riskin, il più brillante dei «giovani Turchi» che Cohn aveva importato da New York, aveva sceneggiato. «Frank, sei matto. La religione è dinamite». «Harry, The Miracle Man è stato dinamite al botteghino. Chiameremo il nostro film The Miracle Woman.23 È perfetto per la Stanwick». «Ma non puoi scherzare con la religione... I cristiani ti uccideranno. Pensaci ancora un po’». «Io non scherzerò con la religione, Harry. Tante volte ho pensato di farmi prete». «Be’, perché non l’hai fatto?» Mi lasciò interdetto. «Va bene, ci penserò». Da ragazzo avevo cominciato a pensare che la religione fosse una sorta di superstizione contadina. Nel nostro quartiere solo i poveri andavano in chiesa a confessare i peccati. Perché? Forse era la povertà il grande peccato? Comunque quella roba non era per me. Al Caltech avevo trovato una nuova fede: la scienza. La bellezza, la chiarezza, la logica con cui Galileo e Newton avevano formulato le loro brillanti leggi sulla massa e il moto rappresentavano tutto quello di cui un uomo aveva bisogno nella sua ricerca della verità. E poi, avevo incontrato una bionda platinata che cantava in un coro presbiteriano. Così, una domenica dopo l’altra, invece di andare a messa, andavo a cantare tenendo per mano la mia bionda, tranne che a Natale e a Pasqua. In quelle due ricorrenze sacre, scivolavo dentro una chiesa cattolica per inginocchiarmi; per sentire l’odore dell’incenso, sentir cantare gli angeli, ed essere sollevato in un’altra dimensione dalla Passione e Resurrezione di Cristo. Ti può capitare una sola volta su cento messe a cui partecipi, ma ti capita sicuramente. Torni dalla comunione con l’Ostia in bocca... niente. Ti inginocchi e raccogli la testa tra le mani. Lentamente lo stupore ti riempie di gioia – l’Ostia che si dissolve nella tua bocca è il Cristo vivente! Il prete, la chiesa, tutte le teste chinate intorno a te scompaiono. Non senti, non vedi, e non ti accorgi più di nulla. La mente si svuota di ogni pensiero e il corpo diventa immateriale. Sei uno spirito diffuso in una Luce gloriosa. E da questa gloria una parola ti si infonde nell’anima: «Coraggio!» Hai intravisto l’Eterno! La Luce svanisce. Riemergono i pensieri e la materia riprende possesso del corpo; la gente intorno si materializza e senti il prete che dice, «La messa è finita, andate in pace», esci fuori con l’impulso di gridare a tutto il mondo: «Coraggio! Coraggio!» L’impulso presto svanisce, sostituito da urgenze più terrene. Ritorni alla tua matematica e alla tua bionda. L’uomo non è un animale semplice. Chiamai Cohn. «Comprami Bless Your Sister» fu il mio verdetto. E lui lo fece.
La versione cinematografica della Donna del miracolo si apriva con una sequenza molto forte, che era una promessa di grandezza. Una comunità religiosa di duri contadini ha sostituito l’anziano e antiquato pastore con un giovane prete di successo. La domenica mattina gli abitanti del villaggio si radunano annoiati per ascoltare l’ultima predica dell’anziano pastore. Al suo posto viene fuori la figlia con lo sguardo carico d’odio. Sale sul pulpito. In poche parole questo è quello che dice: «Mio padre non è in grado di fare la sua ultima predica. È appena morto tra le mie braccia. E lo avete ucciso voi. Per trent’anni ha cercato di toccare i vostri cuori di pietra con la grazia del Signore; e ha fallito. Perché? Perché voi non volete Dio. E avete ragione! Dio non esiste...» A questo punto la giovane donna disillusa e amareggiata decide di dare a quella gente ignorante la religione che si merita: una miscela di allegri sermoni a base di fratellanza, sorellanza, sesso, il tutto condito con decorazioni scintillanti e musichette allegre. Ha un successo eccezionale, diventa ricca. La rivista Variety riporta i suoi incassi settimanali nelle pagine dello spettacolo. Poi il miracolo e il suo ritorno a Dio. La vita di una donna in tre atti: disincanto, avidità, conversione. Siamo riusciti a rendere tutto questo nel film, dopo quella promettente sequenza iniziale? No. Io mi feci prendere dal panico. L’idea del perverso evangelista che deliberatamente sfruttava nel nome di Cristo i suoi poveri e adoranti seguaci era troppo per il mio povero cuore ortodosso. Trovai una via d’uscita. Un «cattivo» che togliesse la colpa alla predicatrice Stanwyck. È lui che la inganna e si arricchisce. Lei è solo uno strumento scenografico. Ma ci crede o no a questi discorsi ispirati che pronuncia rivestita di veli diafani tenendosi accanto dei leoni vivi? Io non lo sapevo, la Stanwyck neppure e il pubblico neanche. E per mettere fine a tutto ciò, ormai completamente confuso, ricorsi al trucco più ovvio della drammaturgia. Quando un personaggio ti sta complicando troppo una storia, fallo investire da un camion. Il mio «cattivo», terrorizzato dalla paura di essere smascherato, dà fuoco al tabernacolo e muore. Ma la Stanwyck viene salvata spiritualmente dall’amore di uno dei suoi convertiti. Avevo cercato di affrontare l’universo delle grandi idee e non ce l’avevo fatta. Avevo la sensazione che alla Columbia tutti segretamente gioissero del mio fallimento. E Cohn? Quando andai nel suo ufficio e gli dissi: «Harry, ho fallito», mi rispose: «Non ci pensare più. Vai avanti col prossimo film». Ma la persona che più temevo di incontrare era Connolly. Oh, se me l’avrebbe rinfacciato! Mi pareva di sentirlo: «Te l’avevo detto che eri un giocoliere in calzoni rossi. Certo, le gag ti vengono fuori a ritmo continuo ma per le idee devi scavare nel profondo della tua anima, se ne possiedi una». Così sia. Lo guardai negli occhi e gli raccontai della Donna del miracolo. «Ah-ah», disse lui. «Potrebbe essere il film migliore che tu abbia mai fatto». «Che cosa dici?» «Sto parlando del fallimento. Il fallimento ti fa crescere se non permetti che ti castri. Riprovaci...» Oh certo, riprovaci. È semplice per i ragni e per William Jennings Bryan. Ma c’è un detto a Hollywood: «Ragazzo mio, tu vali tanto quanto il tuo ultimo film». Gira un film di successo e diventi il dio dei cocktail party. Fai un fiasco e ti devi comprare da bere da solo. Fai fiasco per la seconda volta ed è la fine. Cosa sarebbe successo se avessi fallito di nuovo? Connolly mi aveva avvisato: «Prova a sbagliare per due volte di fila con Cohn!» Il biondino sarebbe stato licenziato? Daccapo in mezzo alla strada? Era successo a gente anche più importante, D.W. Griffith, Mack Sennett. Vai sul sicuro, stupido. Vai avanti a girare drammi a lieto fine, meglio ancora commedie leggere. Al diavolo i film di «idee». Ti mettono al rogo se gli offri delle idee. Ricordati da dove vieni. Giocai sul sicuro con una commedia a tutto tondo, Platinum Blonde.24 Per la storia, io e Jo Swerling rubammo un pezzo da Front Page, un’opera teatrale di grande successo, e poi chiesi a
Robert Riskin di scrivere i dialoghi. Avevamo riempito il film di gag e di un gran numero di attori: Loretta Young, Bobby Williams (l’astro nascente nella commedia), e, per il sesso, ci aggiungemmo Jean Harlow, la Dea dell’Amore del momento. Come potevo mancare il bersaglio? E infatti feci centro. E i seni della Harlow esplosero sulle copertine delle riviste e su tutti i muri. La donna di platino ricaricò il mio ego. La poco miracolosa Donna del miracolo era l’unica voce passiva sul mio registro alla Columbia. Volevo di nuovo scontrarmi con le idee. Ma questa volta a modo mio. L’avrei scritto io il mio film «idea». Pensavo comunque di essere in grado di scrivere. Così, largamente assistito da Back Street di Fannie Hurst, cominciai a buttar giù una storia «originale», Forbidden. Avrei fatto meglio a lasciar perdere. Dovevo ancora capire che il dramma non significa avere degli attori che piangono e soffrono per tutta la durata dell’opera. Non c’è dramma finché il pubblico non è emotivamente coinvolto. Da sole, le false lacrime degli attori non possono toccare il suo cuore. Ma il coraggio, la fede, l’amore, e il sacrificio, se resi credibili, lo faranno. Nonostante i validi sforzi di Jo Swerling per dargli consistenza, Forbidden25 risultò un lungo, lacrimevole polpettone. Alcuni critici si commossero, ma molti furono caustici nelle loro recensioni. Il film non entrò nel libro nero delle perdite grazie a qualche «pezzo di bravura del regista» (sic) e la buona recitazione di Barbara Stanwyck, Adolphe Menjou, e l’esordiente Ralph Bellamy. Fu dopo le riprese di Proibito che i miei rapporti con Lucille Reyburn giunsero a una svolta. Uscivamo insieme da circa due anni. Non si era mai parlato di matrimonio quando: «Frank, caro, ho ventinove anni. Non posso continuare a ballare e andare alle feste per tutta la vita. Ho bisogno di sposarmi. Avere una casa, dei figli». Alla parola «sposarmi», m’irrigidii come se avessi visto un serpente a sonagli. «Mia madre e mio padre stanno per trasferirsi a Santa Maria. Dovrò andarmene con loro a meno che...» «Lu, io non ho mai parlato di matrimonio, non è così? Per di più tuo padre, da bravo repubblicano, pensa che tutti gli stranieri e i cattolici siano lebbrosi». «Non devi sposare lui, Frank». «Lu! Non posso sposarmi. Sono di nuovo al verde. Ho perso tutto con le Richfield Oil». «Posso darti due dollari per la licenza matrimoniale». «Lu, sto tentando di dirti che non voglio sposarmi. Mai più». Lo raccontai ad Al Roscoe e gli dissi che lei non pianse e non si disperò; partì per Santa Maria. «Sposala, amico!», fu il suo commento. Ero così arrabbiato che per poco non lo picchiai. «D’accordo, d’accordo, non prendertela con me. Mi è venuta un’altra idea. Andiamo in giro per il mondo. Tu e io. Hai un po’ di soldi?» «Al, sei un genio. Andiamo a fare le valigie!» Avevo attraversato l’Atlantico una volta, nella stiva di una nave tedesca. Ventott’anni dopo lo riattraversavo nella migliore delle cabine di lusso di un’altra nave tedesca, l’Europa. Io e Roscoe ci allontanavamo raramente dal bar. Brindavamo al mondo, alla Depressione, alle code per il pane, a Herbert Hoover, a Cohn, a Lucille Reyburn. Bevemmo alla salute del peccato, del sesso e della libertà! Yippee! Facemmo voto di immergerci nei lussi e nei piaceri di tutte le capitali, da Londra a Tokio. Robusti steward tedeschi ci riportavano a braccia nelle nostre cabine di lusso, ma non prima che fossimo riusciti a fargli cantare con noi «My Gal Sal». A Londra non visitammo la Westminster Abbey e non ci lasciammo stupire dalle chiese di Sir Christopher Wren. Facevamo il giro dei pub da Piccadilly a Soho, pagando i passanti per ascoltare il loro strano accento, e finendo poi per pagarli il doppio per farli andare via. Risate, postumi di sbronze, noia. Via a Parigi! Guardammo stupefatti gli «spettacoli» del Lido,
e rimanemmo esterrefatti dalle ingegnose «esibizioni» al 32 di Rue Blondel. Vagabondavamo per Montmartre e la Rive Gauche; guardavamo gli uomini ballare con gli uomini, e le donne con le donne. I francesi ci schernivano nel loro gergo parigino. Noi gli rispondevamo usando tutti gli accenti, da Brooklyn al Mississippi. Mal di testa, postumi di sbronze, e nostalgia. Ma avanti verso Roma. Mentre facevamo le valigie, il portiere salì in camera con un telegramma. Gridai felice: «Al! Senti cosa dice Lucille! “Frank. Il mese prossimo sposerò il dottor Brown a Santa Maria. Lucifie Reyburn”. Yuhuu! Sono libero!» «Ahi ahi ahi!», mormorò Roscoe fermandosi. «Che versi fai, stupido? È la cosa migliore che avrebbe potuto accadermi. Ma chi diavolo è il dottor Brown? Come mai non me ne ha parlato?» «Lo ha fatto adesso», rise Roscoe. «Ah sì? Bene, vado a spedirle il telegramma più sgradevole che riesco a scrivere». Alla reception composi questo telegramma sgradevole: «INCONTRAMI HOTEL WALDORF NEW YORK FRA UNA SETTIMANA. PORTA ABITO SPOSA E DUE DOLLARI. RISPONDI IMMEDIATAMENTE. FRANK». «Lo spedisca subito!», dissi al portiere. «Spedisca subito anche questo!» Era Roscoe. «Al! Che cosa fai?» «Frankie caro, Confucio dice: “L’uomo saggio tiene sempre qualcuno di riserva a cui scroccare”. Sto telegrafando a Wally Beery per vedere se vuole andare a pescare». In una fredda mattina sotto la neve, il primo di febbraio del 1932, Lucille e io fummo uniti in matrimonio dal giudice May nel suo ufficio. Lei era raggiante. Con cinquemila dollari presi in prestito da Harry Cohn andammo in luna di miele a Lake Placid, dove assistemmo alle Olimpiadi invernali con Benny Rubin e Ted Husing, e proseguimmo il viaggio di nozze in tutte le suite nuziali del Canada tra Montréal e Vancouver. E fino a oggi non ho mai chiesto a Lu se esisteva o no un dottor Brown a Santa Maria. Questo è il suo segreto e non mi interessa conoscerlo. 20. Femmine di lusso, 1930. 21. Luci del circo, 1930. 22. Dirigibile, 1931. 23. La donna del miracolo, 1931. 24. La donna di platino, 1931. 25. Proibito, 1932.
8. UN TÈ AMARO PER TEMPI AMARI
L’industria cinematografica fu l’ultima in America a sentire gli effetti della Grande Depressione. Il cinema era la forma di divertimento più economica, e per molti anche l’unica. Per di più, per la gente infreddolita che batteva i marciapiedi in cerca di lavoro i cinema erano l’unico rifugio a buon mercato in cui entrare per riposarsi le gambe e scaldarsi le ossa. Anche se dormire sul sedile di un cinema da pochi soldi doveva essere una tortura, le sale cinematografiche aperte di notte erano affollate di senzatetto che russavano. Ma nel 1932 molti non si potevano permettere neanche quei due soldi di divertimento e di comfort. Le code per il pane sostituirono le code al botteghino; l’epoca d’oro delle follie ebbe fine e s’aprì quella dei bilanci in rosso. Due delle grandi case di produzione, la Paramount e la Fox, andarono in fallimento; le altre ridussero le spese, tagliarono i rami secchi licenziando impiegati in tutti i settori. Le lettere di licenziamento venivano consegnate accompagnate dalla frase ormai ricorrente: «Non sa che c’è la Depressione in corso?» Hollywood era stata presa dal panico. Prima del 1932 avevo girato solo film di fantasia, staccati dalla realtà, i critici li chiamavano film «d’evasione». Ora cominciavo a guardare la vita con la prospettiva della gente qualunque che si trovava in difficoltà. Non era più la vita in rosa che osservavamo e ricostruivamo nei nostri film hollywoodiani. La sorte dei cittadini americani nel 1932 era triste e dura, e destinata a peggiorare. E la disperazione era lo stato d’animo prevalente. Oggi ci sono almeno due generazioni di americani che non hanno nessun ricordo personale della Grande Depressione. Quelli che sono passati attraverso i tragici anni Trenta ne hanno un ricordo vago perché l’uomo tende a dimenticare le cose spiacevoli. Eppure nel 1932 non avevano di fronte cose spiacevoli, avevano davanti il disastro! Dapprima le classi sociali più povere avevano pensato che il crollo fosse un bello scherzo ai danni dei ricchi speculatori che ci avevano rimesso milioni e palazzi. Divertente. Ma adesso era la gente comune che perdeva da un momento all’altro lavoro, casa, fattoria. Le case di produzione «povere», senza i soldi, le star e le agevolazioni delle major, cercavano di competere sul mercato con delle «trovate», sfruttando il filone del grottesco, del trasgressivo, dell’osé, in pratica come le riviste scandalistiche. Si poteva fare qualche film prendendo spunto dalla Depressione? Certo, c’era l’aspetto strappalacrime: la ricchezza contro gli «ideali»; il patrimonio di pochi contro la povertà dei tanti. Opportunisti come giornalisti senza scrupoli, Riskin e io confezionammo una storia confusa su un presidente di banca (Walter Huston) pieno di allegro ottimismo e fiducia negli uomini a cui si oppongono ferocemente i suoi stessi direttori e le altre banche, criticando la sua disponibilità «imprudente» e «dannosa» a far prestiti sulla fiducia. Riskin scrisse la sceneggiatura, che segnò l’inizio della collaborazione Capra-Riskin, destinata a durare negli anni. Chiamammo questa nostra prima opera American Madness.26 La scelta degli attori fu accurata: Walter Huston, Pat O’Brien, Kay Johnson, Constance Cummings, Gavin Gordon e una dozzina di splendidi attori secondari, avrebbero dato forza e credibilità anche a una storia debole. La follia della metropoli tendeva forse un po’ troppo al «sensazionale», ma non era affatto una storia debole. In realtà fu uno dei primi film di Hollywood in cui venivano toccati direttamente e apertamente le paure e il panico della Depressione. Nella nostra
storia il presidente di banca Huston aveva una teoria: il denaro è qualcosa che non puoi mangiare, indossare o piantare. Ma puoi sfruttarlo. È più i tempi sono duri, più va sfruttato. «Il denaro che non si impiega produce disoccupati», sostiene con i suoi direttori ultraconservatori. «Le imprese e le fabbriche stanno andando in fallimento. Perché? Perché la gente non ha soldi per comprare i loro prodotti. Perché? Perché sono disoccupati. Perché? Perché fabbriche e negozi stanno chiudendo. È un circolo vizioso. Il serpente che si morde la coda. La risposta si trova nei soldi delle banche; è il carburante necessario per far girare di nuovo le ruote dell’industria. Accumulare soldi nei depositi è come versare di nuovo il petrolio nei pozzi da cui è stato estratto. Ma voi sostenete che le banche dovrebbero prestar soldi solo a quelli che possono presentare dei beni come garanzia. Be’, signori, non è una novità che la Depressione ha spazzato via quasi tutti i beni della gente. Ma non ha ancora distrutto quella che Alexander Hamilton ha chiamato “la più grande risorsa d’America: la sua forza di volontà”. Noi dobbiamo avere fede e dar credito a questa volontà...» La linea adottata dall’idealista banchiere sembra funzionare, fino a che non accade l’imprevisto: un evento che provoca dubbio e panico. Un cassiere indebitato (Gavin Gordon) è obbligato dai giocatori d’azzardo a organizzare un furto da centomila dollari all’interno della banca. La voce si sparge velocemente. Un impiegato lo dice a un altro che lo riferisce a un terzo. I negozianti lo sussurrano ai loro clienti. La banca continua ad accumulare perdite. La voce si sparge tra la clientela. La perdita ammonta ora a cinque milioni! Il ladro deve essere qualcuno all’interno! Huston chiama le altre banche in aiuto. Tutti rifiutano e lo compatiscono: «Significherebbe gettar via i soldi». I direttori di Huston si rifiutano di dare in garanzia i loro patrimoni e lo sbeffeggiano: «Dov’è la tua fiducia ora?» La banca non ha fondi sufficienti per arginare la piena. È condannata. Ma non è ancora detta l’ultima parola. Un assistente cassiere, un ex carcerato a cui Huston aveva dato fiducia, chiama a raccolta i piccoli imprenditori a cui Huston aveva prestato soldi. Questi corrono alla banca a depositare tutto il denaro liquido che possiedono. Le file di chi deposita e di chi ritira i soldi si scontrano agli sportelli. Dubbio e fede si alternano tra la folla. Le probabilità sono ancora cento a uno contro la banca, quando i direttori di Huston, commossi alla vista dei beneficiati dai prestiti che si trasformano in benefattori, ricambiando la fiducia accordata loro, gettano sulla bilancia i loro considerevoli patrimoni e raccolgono altri milioni. La banca è salva – prestare soldi contando sulla forza di volontà paga! La follia della metropoli fu uno shock per il pubblico. Provocò giudizi discordanti tra i critici e accese contestazioni nei circoli finanziari. Qualcuno lo chiamò «un film da New Deal», «impraticabile utopia», «confusa teoria». Altri dissero che la teoria non era più confusa di quella dei finanzieri che avevano provocato prima il boom e poi il crollo. Ma ciò che più mi stupì riguardo alla Follia della metropoli non fu il fatto che alcuni lo abbiano chiamato «film a effetto», ma che chi faceva film in America aveva la libertà artistica di fare un film sulle «colpe» dell’America che per di più veniva proiettato liberamente in tutto il mondo. E questo mi spinge a fare (dopo quarant’anni di cinema) qualche considerazione personale sia sui «film a effetto» che sulla libertà artistica. C’è un genere letterario che i critici biasimano definendolo «a effetto». Sostengono che gli autori si compiacciono di tutto ciò che è sconvolgente e mozzafiato, e dipingono la realtà enfatizzandola. Se i miei film – e questo libro – qua e là sono «a effetto», ben venga l’effetto! Per alcuni di noi, quello che abbiamo davanti agli occhi è più grande del reale, compresa la realtà stessa. Chi può opporsi a questo prodigio? Malgrado la sua prosa asciutta e scarna, Hemingway era uno scrittore «a effetto». La carica di energia di tutti i suoi personaggi, compresa la propria, era superiore alla norma. Egli visse, scrisse e
morì in una girandola di fuochi d’artificio. Anche Gauguin fu un pittore «a effetto». Dipinse i mari del Sud non come li vide, ma come voleva vederli. Creò i suoi mari del Sud. Gli eroi di Omero erano super-eroi: Paride, Elena di Troia, Achille, Ettore, Ulisse. Le «vite» di Plutarco furono supervite. E cosa dire dei profeti e degli apostoli biblici, Mosè, Davide, Pietro e Paolo? Non erano uomini, erano montagne. Noi, che creiamo opere a effetto, eufemisticamente diciamo di appartenere alla scuola degli «ottimisti», contrapposti ai «pessimisti» che, non proprio eufemisticamente, releghiamo tra gli Ashcan,27 perché nei loro film rappresentano la vita come un vicolo pieno di gatti randagi che scoperchiano i bidoni della spazzatura, e l’uomo come un essere ignobile. Loro, gli Ashcans, a loro volta ci chiamano «Pollyanna», sdolcinati sentimentali, e ingenui idealisti. Questi sono i registi di Hollywood: Mister Ottimista e Mister Pessimista; il primo spera di avere più ragione della ragione, l’altro più ragione del torto; e poi c’è chi sta nel mezzo. Tuttavia ci rispettiamo e ci ammiriamo reciprocamente, perché la maggior parte di noi esprime autonomamente la propria creatività, libero da legami e sovvenzioni da parte dei gruppi di pressione politici o ideologici. Nel gergo cinematografico il «passo» è la velocità apparente con cui le «ombre viventi» scorrono sullo schermo. Se le scene vengono riprese a una velocità di ventiquattro fotogrammi al secondo, e proiettate sugli schermi dei cinema alla velocità di ventiquattro fotogrammi al secondo, il «passo» delle scene nei cinema dovrebbe essere lo stesso di quello delle riprese. Ma è davvero così? Durante le riprese della Follia della metropoli, feci una scoperta abbastanza sorprendente. Una scena che visionata da poche persone in una piccola sala di proiezione risultava di un passo normale, sembrava rallentare quand’era proiettata sul grande schermo in una sala cinematografica. Dapprima pensai che questo «rallentamento» fosse da attribuire al particolare nervosismo che si manifestava quando guardavo i miei film in mezzo al pubblico. Ma poi mi parve di osservare lo stesso fenomeno nei film degli altri. Si trattava di un’illusione? O forse era il cervello dello spettatore che captava lo stimolo audiovisivo con una velocità maggiore, per il fatto che gli attori risultavano ingranditi di cinque volte? La gigantesca mole degli attori faceva sembrare le loro parole e i loro movimenti più lenti? O, ancora, si trattava di un processo di assorbimento per cui migliaia d’occhi e orecchie, reagendo insieme allo stesso stimolo, diventavano due soli grandi occhi, due sole grandi orecchie con una velocità di reazione più alta? Mi trovai a discutere del fatto con alcuni tecnici del suono. «Impossibile!», dissero, guardandomi come se avessi detto una bestialità. «Non c’è una spiegazione scientifica per questo fenomeno». Cambiai discorso, ma rimasi dello stesso parere. Sebbene non fossero ancora state fatte ricerche sul comportamento di gruppo, io sentivo che le reazioni di un individuo erano amplificate quando si trovava in mezzo a una folla rispetto a quando era solo. Sentivo verificarsi questo fenomeno sulle gradinate degli stadi, nelle manifestazioni e nei cortei. E dal momento che La follia della metropoli aveva a che fare con le reazioni della folla di fronte alle voci, al panico e alla fede, decisi di neutralizzare l’apparente rallentamento di passo del film, accelerandolo artificialmente in sede di montaggio. Per prima cosa tagliai le lunghe entrate e uscite degli attori. Li feci saltare direttamente nel cuore delle scene. Poi eliminai le dissolvenze. Era una moda del momento indicare il passare del tempo o il cambiamento di luogo facendo sovrapporre lentamente una scena sull’altra per cui un attore che entra in ascensore all’ottavo piano si dissolve nell’attore che ne esce al primo piano, o un albero in piena fioritura si dissolve nello stesso albero coperto di neve. Era un trucco cinematografico molto amato dai registi ma che annoiava il pubblico. Eliminai le dissolvenze passando direttamente
dall’ottavo al primo piano e dai fiori alla neve. Feci sovrapporre le battute. Per facilitare il montaggio della colonna sonora, di solito gli attori finivano completamente di pronunciare le loro battute prima che gli altri attori rispondessero con le loro. È l’opposto di quello che succede nelle conversazioni della vita reale, dove la gente parla contemporaneamente. Provate ad ascoltare tre donne che parlano insieme. Nella Follia della metropoli gli attori si interrompono e sovrappongono le loro battute. Poi, e questo fu un cambiamento radicale, accelerai di un terzo il passo delle scene. Se una sequenza durava normalmente sessanta secondi, io aumentavo la velocità degli attori in modo che ne durasse quaranta. Durante le riprese la velocità delle scene sembrava eccessiva – e infatti era eccessiva – ma quando La follia della metropoli arrivò sui grandi schermi, il passo sembrò normale! Anzi c’era come un senso di urgenza, un nuovo interesse che teneva l’attenzione del pubblico inchiodata sullo schermo. Questa deliberata accelerazione fu un miglioramento importante nella mia tecnica di regista. Eccetto che per rappresentare le scene più «drammatiche», dove l’urgenza sarebbe stata una nota stridente, usai questa tecnica in tutti i miei film successivi. I critici hanno spesso commentato la velocità, la naturalezza e la «presa» della mia regia, ma non hanno mai indovinato da dove nascesse. Ci sono certamente altri produttori e registi che hanno fatto la stessa scoperta, ma ne ho individuato uno solo che abbia consciamente usato questa tecnica: Jack Webb nella sua serie televisiva Dragnet. Grazie a queste novità, segretamente speravo che La follia della metropoli avrebbe avuto almeno una nomination all’Oscar in qualche categoria: recitazione, sceneggiatura o, assurdamente, regia. Il film era attuale, dibattuto, realistico: la corsa alla banca era così verosimile che molti spettatori si precipitarono in banca per ritirare i loro soldi. Invece no! I critici dissero che non era roba da Oscar. E sebbene le recensioni non fossero importanti per il pubblico, erano Vangelo per i seri giudici dell’Academy. Quando ne parlai a Harry Cohn, lui mi disse: «Scordatelo, non hai nessuna possibilità. Quelli votano solo per la roba artistica». Come avrei potuto scordarmelo. Io sognavo gli Oscar. Dovevo assolutamente vincerne uno. E va bene. Se l’Academy votava solo per i film artistici (e non era vero), avrei girato il film più artistico che avessero mai visto. Un film sui problemi razziali! Questo avrebbe dovuto smuovere qualche voto artistico. Walter Wanger stava per caso preparando un film per la Columbia: The Bitter Tea of General Yen,28 tratto da un romanzo di Grace Zaring Stone. Era un’inusuale e poetica storia d’amore tra un generale cinese e una missionaria americana. I due, che incarnano due culture agli antipodi, si scontrano e si innamorano. Per me si trattava di Arte con la A maiuscola. Edward Paramore stava scrivendo la sceneggiatura per Wanger. Implorai Wanger di lasciar fare il film a me. Lui accettò con l’accordo che gli sarebbe stato riconosciuto il ruolo di produttore. I protagonisti dell’Amaro tè erano tre: una giovane missionaria americana, un potente signore della guerra cinese, il generale Yen, e il suo furbissimo consigliere finanziario americano. La missionaria era un’impeccabile signorina di buona famiglia del New England, apparentemente fredda ma accesa nell’intimo dal fuoco della sua vocazione. Assegnare questa parte era facile: Barbara Stanwyck. Dipinsi il consigliere di Yen come un individuo grasso, forte bevitore, un cinico disposto a vendere la sua intelligenza machiavellica al miglior offerente. Ma, stranamente, costui è legato da una profonda lealtà al generale Yen. In un lavoro teatrale a New York avevo visto il mio uomo: Walter Connolly, uno dei migliori caratteristi di Broadway. Il problema era il generale Yen. Sapevo quello che non volevo. Un attore noto truccato da
orientale. Ero in cerca di un vero cinese, alto e imponente. Ma non c’erano cinesi alti nelle liste degli attori e neppure nelle lavanderie; la maggior parte dei cino-americani era composta da cantonesi di bassa statura. Dopo numerosi colloqui scegliemmo un attore svedese non molto conosciuto, Nils Asther. Era alto, con gli occhi azzurri, bello; parlava con un accento un po’ pedante e impostato; la sua faccia impassibile prometteva la serenità e il mistero di una cultura millenaria. Ma come facevamo a trasformare uno svedese in un orientale? I suoi occhi azzurri sarebbero risultati grigi nel film in bianco e nero. E questa poteva essere una caratteristica inusuale ma positiva. Ma che fare per il taglio degli occhi? Il modo più usato per trasformare occhi caucasici in occhi orientali era quello di tirare il margine esterno verso le orecchie e fissarlo con il nastro adesivo, ma non ingannava nessuno. Inoltre faceva sembrare gli attori dei mostri, più che degli orientali. Doveva esserci un metodo migliore e più naturale. E infatti c’era. Studiai attentamente la fisionomia cinese, notai che le differenze principali erano due: la palpebra orientale è liscia e rotonda e non presenta quelle piccole grinze proprie della palpebra caucasica; inoltre le ciglia orientali sono molto più corte di quelle occidentali. Seguimmo queste due tracce: il truccatore coprì le palpebre di Nils Asther con una falsa pelle liscia e rotonda e gli tagliò le ciglia cortissime. Senza aggiungere altro trucco facemmo dei test fotografici alla faccia di Asther. Sullo schermo appariva strano, impenetrabile. Le palpebre rigide mantenevano i suoi occhi in una posizione socchiusa. Sicuramente non sembrava caucasico e la sua faccia appariva naturale. Rivestito nei ricchi costumi mandarini e con un copricapo nero a forma di fez, Asther poteva passare per un grandioso signore della guerra. Aggiunsi un tocco finale: una camminata fuori dal comune, lunghi passi, accompagnati dal movimento sincrono e parallelo delle lunghe braccia. Ripreso dal basso, per sottolinearne l’altezza, Nils Asther divenne il generale Yen, spietato, nobile, misterioso e tremendamente affascinante. L’amaro tè del generale Yen perse soldi, principalmente perché fu bandito dagli schermi della Gran Bretagna e dei paesi del Commonwealth, a causa delle reazioni scandalizzate che consideravano provocatoria la storia d’amore tra un orientale e una donna bianca. Era in anticipo sui tempi di trent’anni. E non ricevette nessuna nomination all’Oscar. Quei dannati giudici dell’Academy! Non erano in grado di riconoscere un’opera d’arte? Nonostante tutto, L’amaro tè rimarrà per sempre uno dei miei film favoriti. E fu scelto per inaugurare il Radio City Music Hall. Durante la sua lavorazione accaddero due episodi che avrebbero potuto essere divertenti se non avessero avuto delle conseguenze dolorose. Quando tagliammo le ciglia di Nils Asther trascurammo il fatto che per gli occidentali le ciglia lunghe rappresentano una protezione contro la luce diretta. Il primo giorno che fu esposto alle intense luci del set, fu colpito dal peggior caso di infiammazione da riflettori che i medici avessero mai visto. Gli venne ordinato di rimanere chiuso in un camerino al buio tra una ripresa e l’altra e di portare delle lenti scure durante le prove. Esponevamo i suoi occhi alla luce del sole o dei riflettori solo durante le riprese. Nonostante queste precauzioni Asther soffrì molto per tutta la durata del film. Temevamo per la sua vista e i dottori lo curavano giorno e notte somministrandogli impacchi, gocce e analgesici. Comunque il generoso svedese si sottopose con eleganza a questa prova. Ma fu Walter Connolly che... be’, Connolly era robusto e leggermente asmatico. Il minimo sforzo fisico gli procurava l’affanno. Non era mai salito su un aereo e non aveva mai girato un film. Entrambe queste prime esperienze furono più che memorabili. Stavamo girando le scene notturne di un’imboscata tesa da mille soldati nemici al treno di Yen, quando improvvisamente mi resi conto che Walter Connolly avrebbe dovuto trovarsi su uno dei vagoni. Il suo contratto prevedeva che sarebbe rimasto a lavorare a New York fino a che non
avessimo avuto bisogno di lui sulla West Coast. Telefonai a un agente della Columbia a New York dicendogli di mettere Connolly sull’aereo di mezzanotte per Los Angeles in modo che fosse lì per le riprese della sera dopo. Che lasciasse perdere vestiti e bagagli: li avrebbe fatti mandare più tardi. Quella notte, mentre si dirigeva verso il camerino dopo gli ultimi applausi, due funzionari della Columbia lo afferrarono e lo trascinarono su una limousine che aspettava fuori. La limousine scattò via scortata da una macchina della polizia a sirene spiegate. Mentre correva nel traffico di New York il tranquillo e metodico Walter cominciò ad ansimare e a sudare tutto agitato. Aveva ancora il trucco e i costumi di scena. La cavalcata ebbe termine sulla rampa di un aeroporto. I due funzionari trascinarono Walter sempre più sconvolto verso l’aereo in attesa, lo issarono sulla scaletta e lo spinsero dentro, gridandogli: «Buona fortuna, Walter!» Le hostess lo fecero sedere. Prima che potessero allacciargli la cintura di sicurezza, l’aereo rullò via con un rombo. Era il suo primo volo. Si aggrappò ai braccioli, incominciò a sudar freddo, e si mise a pregare. Ancor prima che le ruote venissero ritirate nella fusoliera soffrì di mal d’aria. Durante le ventiquattro ore della traversata l’aereo fu sballottato dalla tempesta per la maggior parte del tempo. Lui non mangiò e non dormì, continuò a vomitare e a pregare. All’aeroporto di Los Angeles due assistenti alla regia lo sollevarono dal sedile ormai esanime, lo fecero scendere dalla scaletta e lo spinsero in un’altra limousine in attesa, scortata con le sirene da un’altra macchina della polizia. Il povero Walter non aveva la forza né il fiato per fare domande. Si limitava ad ansimare con la bocca aperta. Fu portato di corsa fino al nostro set notturno di San Fernando Valley dove si trovò davanti a una baraonda inaudita, il caos delle luci, i treni, un migliaio di comparse urlanti. La macchina si fermò di fronte a una tenda. I costumisti lo tirarono fuori, lo trascinarono nella tenda, lo spogliarono e gli infilarono degli stivali e un completo da cavallerizzo; poi, spingendolo attraverso la folla di cinesi, me lo consegnarono. Io mi trovavo dietro a una macchina da presa, di fianco al treno, e stavo riguardando una complicata scena di massa. «Ecco il signor Connolly, capo!», urlò uno dei due assistenti. Gli diedi un’occhiata veloce. Il sudore formava dei solchi sul viso truccato. Gli occhi avevano lo sguardo allucinato di chi ha visto il mondo impazzire. Il pancione gli si sollevava ritmicamente come fanno i fianchi di un bue che si trova a scansare le macchine su un’autostrada. «Bene, bene!», urlai. «Signor Connolly, sta per essere ripreso. Corra a quel terzo vagone aperto, si arrampichi dentro, e quando il vagone arriva di fronte alla macchina da presa salti giù davanti a noi. D’accordo?» «Fare c-c-cosa?», ansimò. «Non c’è problema; qui è tutta sabbia soffice. Sam! Manda due ragazzi con il signor Connolly per aiutarlo a salire e farlo rotolare giù. Muoviamoci!» «Sì, capo». Due energumeni lo afferrarono per le braccia e lo condussero verso il vagone. I suoi piedi non lasciavano impronte, ma solo dei solchi. Gli uomini lo sollevarono e lo spinsero dentro il vagone. «Tutto a posto?», gridai. «Azione!» Si scatenò il tumulto, mitragliatrici, fuoco d’artiglieria, un migliaio di cinesi urlanti. Il treno partì con un sobbalzo. Quando il vagone di Connolly si avvicinò alla macchina da presa, due uomini nascosti lo fecero rotolare giù. Cadde inerte come un cavallo morto. Cadde e giacque contorcendosi dal dolore. Si era rotto una gamba! «Ambulanza!» Il grido riecheggiò sul set. Due infermieri in camice lo adagiarono sulla barella e lo caricarono nell’ambulanza. Per la terza volta in ventiquattro ore la star di Broadway Walter Connolly partì rombando a sirene spiegate. Solo che questa volta giaceva serenamente disteso, senza vomitare, ma con una gamba rotta. Pensammo che col film avesse chiuso. Ma non fu così. Nel giro di cinque ore era di ritorno sul
set con la gamba ingessata zoppicando sulle stampelle. Riuscimmo perfino a girare con lui un paio di sequenze a campo lungo. Camminò sulle stampelle per tutto il resto del film. Da brillante attore qual era, le usò per aggiungere un tocco sinistro al suo personaggio. All’alba terminammo. Andai in cerca di Connolly, lo trovai in una tenda seduto vicino a una stufa, con gli occhi fissi nel vuoto. «Come ti senti, Walter?», gli chiesi stupidamente. «Come mi sento? CRISTO!» Un giornalista sportivo, Damon Runyon, dilettandosi di notte alla macchina da scrivere aveva scoperto di possedere un secondo inaspettato talento: la capacità di dipingere in brevi racconti un mondo di straccioni, che si arrangiavano in quella zona di confine tra la malavita e il cosiddetto mondo perbene. Con quel suo idioma giornalistico e gergale – soprannominato «runyonese» – ricco di audaci metafore e caratterizzato dall’uso costante del tempo presente, diede il suo contributo alla tradizione umoristica americana. Alcuni intellettuali liquidarono lo stile di Runyon e il suo mondo di pezzenti, – gangster da due soldi, borseggiatori, prostitute, giocatori d’azzardo, mendicanti – come un’altra moda passeggera di Hollywood. Ma i semplici si innamorarono delle bizzarrie di Louie the Lug, Harry the Horse, the Lemon Drop Kid, Dave the Dude, the Weasel, Butch, Madame La Gimp: una galleria di personaggi che considerava il lavoro onesto una catastrofe umana. Un film «artistico» non mi aveva procurato nessun Oscar (eccoci di nuovo qui con l’Oscar, come se fosse il Sacro Graal; be’, per me era il Sacro Graal). Anche il mio piano per ottenere una nomination dall’interno, cercando di spezzare la casta sacerdotale dell’Academy, era stato un fallimento. Durante i suoi sei anni di vita, i membri elettori dell’Academy non erano mai stati impressionati dagli «anni di servizio». Persino il vecchio maestro Cecil B. DeMille, fondatore e colonna dell’Academy, non aveva mai ottenuto una sola «nomination». Non erano neppure impressionati dai nomi: Greta Garbo, la «regina delle regine» tra le attrici, non vinse mai un Oscar in tutta la sua carriera. C’era una mistica interna alle votazioni, che sconvolgeva le tendenze, i pronostici, la logica. A volte le premiazioni erano paradossali. Ma a quelli che riuscivano ad afferrare le statuette non interessava sapere come ci erano riusciti, sapevano solo che un Oscar triplicava i loro compensi e li rendeva famosi in tutto il mondo. L’aumento dei compensi non mi eccitava particolarmente, ma l’idea della fama nel mondo mi mandava in estasi. Bene, allora, usa il cervello. Cerca il paradosso. L’amaro tè aveva una nota fredda, un po’ triste. Perché non tentare qualcosa di segno opposto, girando una storiella calda e allegra con una delle Cenerentole da due soldi delle storie di Runyon? Chissà, perlomeno il Commonwealth non avrebbe certo potuto censurare una fiaba. Harry Cohn mi rinfacciava che «quella robaccia artistica» gli aveva fatto perdere dei soldi. «Inoltre», accennava superstiziosamente, «ha interrotto la serie dei tuoi successi». Così, mentre gli altri spendevano centinaia di migliaia di dollari per accaparrarsi romanzi e lavori teatrali di successo, io comprai «Madame La Gimp» di Runyon per millecinquecento miseri dollari. E incominciai a tormentarmi. È strano e senza senso, ma le case di produzione, così come le squadre di baseball, inspiegabilmente alternano momenti di grazia a periodi di crisi. Una casa di produzione nella sua fase «vincente» sembra che non possa mai fare uno sbaglio. Un film dopo l’altro, continua ad accumulare soldi al botteghino. Tutti, dal presidente al portiere, emanano il «dolce profumo del successo». I compensi aumentano e le azioni in borsa salgono. Tutti si arricchiscono allegramente.
Poi, per cause che nessuno sa spiegare, la stessa casa, in cui lavora la stessa gente, improvvisamente entra in crisi. I suoi film non piacciono più. Sembra non si riesca a mettere insieme un buon film neanche per caso. Il risultato è il panico. Arrivano da New York i dirigenti furibondi. I banchieri si rifiutano di fare prestiti. Le azioni in borsa crollano. Si continuano a fare riunioni. La pressione sale, mentre uomini disperati si lanciano accuse furenti. L’usanza vuole che comincino a rotolare le teste. Ma gar nicht helfen. Non è con le urla che si risolve la crisi. Poi, un produttore o un regista minore dello studio, indenne da quell’ondata di panico, tranquillamente fa un filmetto che si rivela un successo. Come per magia la depressione si dissolve. Cominciano ad arrivare messaggi di congratulazioni. La fortuna arride di nuovo. Alla MGM accadde un classico esempio di questo fenomeno oscillatorio. In uno dei suoi momenti di crisi, mentre i megadirigenti si stavano dilaniando, un produttore minore, Carey Wilson, stava girando un film di serie B a basso costo con giovani attori sconosciuti, di cui «fortunatamente» i dirigenti che si azzuffavano non sapevano niente. Era Andy Hardy Gets Spring Fever. Lanciò Mickey Rooney e Judy Garland, bloccò la crisi della MGM, e tornò a ingrassare i suoi dirigenti. Simili alti e bassi affliggono anche i singoli registi. Il mio lungo periodo fortunato alla Columbia, era diventato famoso a Hollywood. Ma critici e amici mi mettevano in guardia: «Anche per te verrà il momento di crisi, aspetta e vedrai». Fino a quel momento la mia media era più che buona: tredici successi di fila prima del fallimento della Donna del miracolo. Poi altri tre prima della delusione dell’Amaro tè. Forse quest’ultimo film segnava l’inizio della crisi che gli esperti mi pronosticavano da tanto tempo? Harry Cohn doveva averlo pensato. Aveva convinto un regista di fama, Howard Hawks, a fare un film eccezionalmente bello. Capra non era più l’unica gemma nel diadema della Columbia. Per di più, mentre io arrancavo, altri registi famosi avevano collezionato una serie di trionfi: Edmond Goulding, con Grand Hotel; King Vidor con Il campione; John Ford con Un popolo che muore; Sidney Franklin con The guardsman e Smiling Through; Rouben Mamoulian con Il dottor Jekyll; Clarence Brown con Emma; George Cukor con Febbre di vivere; Howard Hawks con Scarface, tutti tratti da famosi romanzi o opere teatrali e ricchi di star. Ero pazzo a giocarmi una reputazione traballante con «Madame La Gimp», un raccontino da millecinquecento dollari che parlava di una vecchia mendicante? E dove l’avrei trovata una vecchia star? Ne esisteva una sola, Marie Dressler, e Louis Mayer non avrebbe mollato la Dressier neanche se l’avessero fatto ambasciatore della Turchia. No, incominciavo ad avere dei seri dubbi su «Madame La Gimp». Stavo forse perdendo la mia presuntuosa sicurezza? A trentacinque anni? Di certo stavo perdendo i miei capelli ricci a ciocche e non lanciavo più occhiate narcisistiche negli specchi. Ma ero ancora sicuro di essere più bravo a far film di quei registi famosi... o no? Cercai Myles Connolly per avere qualche parola di incoraggiamento. Se ne uscì con questa battuta pungente: «Frank, l’orgoglio crea le proprie bucce di banana. Scivoli la prima volta e ti serve da lezione. Scivoli la seconda volta? Be’, a una persona più buona non sarebbe successo». E riattaccò. Poi successe un imprevisto che mi trasformò in un paria tra i miei colleghi, e provocò un incidente quasi fatale a casa. Nel marzo del 1933, Hollywood vacillò sotto il colpo della moratoria bancaria di Roosevelt. Nelle case di produzione, la maggior parte dei dirigenti era concorde nel ritenere che il talento fosse sovrapagato. La loro avidità – e stupidità – li indusse a illudersi di poter usare la crisi per ridurre i compensi. Gli studios notificarono agli impiegati: «Niente paghe fino alla riapertura delle banche». Invocando la clausola dell’emergenza nazionale, la Universal sospese tutti i contratti. Da più parti si arrivò anche a parlare di chiusura. Chiesero il sostegno dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences, l’unica organizzazione di Hollywood che comprendeva tutte le associazioni.
L’Academy fece lo sbaglio della sua giovane vita. Costituì un comitato d’emergenza che si incontrò con la delegazione dei datori di lavoro. Le commissioni si accordarono su una diminuzione graduale dei salari (fino al cinquanta per cento) per un periodo di otto settimane, o inferiore, se le banche riaprivano prima. Scoppiò un pandemonio. «Traditori!», ci chiamarono i padroni, giudicandoci colpevoli di non aver reso permanente il taglio. «Buffoni», gridarono gli attori, gli scrittori, i registi indignati, dimettendosi in massa dall’Academy per andare a organizzare i propri sindacati. Conrad Nagel si dimise dalla presidenza. Darryl Zanuck provocatoriamente si dimise dalla direzione di produzione della Warner Brothers, dopo che quella si era rifiutata di abolire i tagli a seguito della riapertura delle banche. Quelli che odiavano l’Academy dissero che non furono le onde sismiche a provocare il disastroso terremoto del 1933; fu il crollo del tetto sull’Academy controllata dai produttori. In ogni caso fu proprio prima di un incontro tra le delegazioni che il terremoto colpì. Mi stavo facendo tagliare i capelli dal barbiere nel seminterrato dell’Hollywood Athletic Club, quando l’edificio cominciò a ondeggiare. Corsi fuori con gli altri e vidi la sua torre oscillare e crollare. Col cuore in gola tornai dentro per fare una sauna che mi calmasse i nervi. Insieme a me c’era solo un’altra persona che stava leggendo il giornale tranquillamente. Un individuo alto, dall’aria severa e con una benda nera su un occhio. Guardai in basso per vedere se avesse anche una gamba di legno, alla Long John Silver. No, niente gamba di legno. Poi lo riconobbi – il mio idolo! Il leggendario John Ford. Per attaccar discorso, osservai: «Bella scossa, eh, signor Ford?» «Quale scossa?», mormorò bruscamente senza alzare gli occhi dal giornale. Per facilitare la mia presentazione dissi: «Ha sentito dell’incontro sui tagli dei salari che si sta tenendo al...» Continuando a leggere mi interruppe: «Sono tutte cazzate». E su questo deciso apprezzamento, sgusciai fuori. Circa un’ora dopo, una trentina tra funzionari dell’Academy, produttori e avvocati stavano incrociando le armi all’ultimo piano del Roosevelt Hotel, quando si fecero sentire le scosse di assestamento. I loro gesti adirati si irrigidivano a mezz’aria ogni volta che la terra tremava. Finalmente qualcuno onestamente disse: «Signori, non sono un eroe. Andiamocene di qui alla svelta». Tutti si precipitarono agli ascensori. Avevamo appena ricominciato la nostra discussione in un angolo della lobby quando una scossa più forte fece oscillare un immenso lampadario sulle nostre teste. Come un sol uomo corremmo fuori e ricominciammo a litigare in un parcheggio all’aperto sotto le luci della strada. Stavamo di nuovo insultandoci quando ci sfrecciarono accanto le macchine della polizia con gli altoparlanti che annunciavano: «Tutti gli uomini della Legione Americana a Long Beach! Emergenza! Tutti gli uomini della Legione Americana a Long Beach». Ci bloccammo e poi corremmo verso le nostre macchine. Di colpo pensai a mia moglie e a mia suocera che era invalida. Sudando freddo volai a Malibù e trovai Lu sconvolta dall’ansia e dalla paura. Il nostro camino crollando aveva sfondato il tetto e giaceva in un cumulo di macerie sul pavimento del soggiorno. Per poco non aveva colpito la madre di Lu sulla seggiola a rotelle. Mia moglie si stava appena riprendendo da un’altra traumatica esperienza: aveva perso il primo figlio al sesto mese di gravidanza. Nossignori, non fu un bel periodo quello. Un indovino degno di questo nome avrebbe detto: «Una tragedia evitata per un soffio in un terremoto, la perdita del tuo primo figlio, la figura del buffone nel casino del taglio dei salari, il fiasco di un film importante, la mancanza di fiducia nel successivo, tutto questo costituisce una serie di infausti presagi che promette male – un crollo». «Ascolta, dago», tuonò Cohn (aveva ricominciato a chiamarmi così). «Tu hai voluto comprare la storia di quella vecchia, non io. Tu vuoi prendere tutte le decisioni qui dentro, e allora non mi scocciare coi tuoi dubbi. Per tremila dollari alla settimana voglio dei film da te, non delle scuse. E adesso vattene e comincia a lavorare».
«Frank, non fare l’idiota!», mi disse Bob Riskin in ufficio. «Possiamo tirar fuori uno splendido film da “Madame La Gimp”. Gli ho trovato un nuovo titolo, Lady for a Day.29 Che te ne pare?» «Signora per un giorno? Hey, suona bene». «Dai, Frank. Fregatene di Cohn. Andiamo a Palm Springs, dove possiamo lavorare in pace alla sceneggiatura e io ti posso stracciare a tennis». «Bob, sei grande. Dico a Lu di preparare le valigie». C’è chi scrive per mangiare, chi lo fa per arricchirsi, e quelli che lo fanno per il piacere di scrivere. Ci sono scrittori che inseguono la fama, e scrittori che sostengono una causa: vogliono migliorare il mondo, cambiarlo, possederlo. Pensa a un motivo per scrivere e Hollywood ti darà il nome dello scrittore – e le sue frustrazioni. Perché scrivere, qualunque sia la motivazione è un’espressione individuale. Tu scrivi da solo. Tranne che a Hollywood. Lì scrivi per, e a volte con, produttori, registi, attori. Ti può capitare di lavorare in gruppo con altri scrittori. Può essere un’esperienza frustrante e umiliante. Ma non è sempre così. Se poi sei fortunato lavori in coppia con uno che fa i suoi film. E se l’accoppiata funziona, l’esperienza diventa gratificante: sia sul piano artistico che su quello economico. Il mio lungo sodalizio con Bob Riskin era di questo tipo. Ci volle una guerra per separarci. Bob era un bravo scrittore e un uomo simpatico. Elegante, intelligente, amava la vita, lo sport e le donne. E dalle donne era riamato. Avevamo molte cose in comune, ma due in particolare: le nostre teste vibravano stimolate dai massaggi della stessa estetista (spendevamo fortune in lozioni per curare la calvizie, e facemmo insieme una scoperta strabiliante: le palle da biliardo non hanno forfora), e il nostro senso del comico vibrava rispondendo alle medesime stimolazioni. Lavoravamo insieme alle sceneggiature e ognuno sfruttava le idee dell’altro. Eravamo contemporaneamente gli autori e i fruitori. Generalmente io lo precedevo preparando una serie di scene; le discutevamo insieme e successivamente lui le buttava giù sotto forma di dialogo. E non c’era nessuno che sapesse giudicare una battuta meglio di Riskin. Lavorammo sodo senza trascurare il minimo dettaglio. Anche se entrambi sapevamo perfettamente che le sceneggiature rappresentano solo una prima base di quello che alla fine viene proiettato sullo schermo; il cast, la recitazione, la messa in scena, la musica e il montaggio sono componenti altrettanto importanti nella creazione di un film. In sei settimane confezionammo la sceneggiatura: la «saga» allegra e divertente (così almeno speravamo) di Apple Annie: una sudicia, vecchia sbronzona venditrice ambulante di mele e leader riconosciuta di tutti i mendicanti di Times Square. Nascosto nel profondo recesso dei suoi stracci, Annie coltivava il più grande dei segreti – condiviso solo dai suoi amici mendicanti vincolati da un giuramento di sangue – Annie aveva una figlia illegittima! Con i proventi delle «tasse» estorte agli zoppi e ai ciechi che lavoravano nel suo «territorio», l’aveva fatta educare in un collegio di suore nella lontana Spagna; in cambio tutti i mendicanti erano stati nominati «padrini» della ragazza. Arriva una lettera dalla Spagna. La figlia, ormai diciassettenne, si è innamorata del figlio di un nobile spagnolo. Il conte vuole incontrare la famiglia di lei prima di acconsentire alle nozze. Stanno arrivando col primo piroscafo per incontrare la mamma – la signora E. Worthington Manville. Apple Annie è terrorizzata; si ubriaca e vuole buttarsi nel fiume. Ma la Grande Città ha un cuore, inoltre il gangster David lo Sciccoso vuole salvare la vecchia perché le sue mele gli portano fortuna. Così lo Sciccoso progetta il più folle dei suoi colpi: mendicanti, malviventi, poliziotti, il sindaco, il governatore, cospirano insieme per trasformare Apple Annie nella signora E. Worthington Manville agli occhi del conte spagnolo. Il miracolo funziona! La figlia di Apple Annie sposa la nobiltà; David lo Sciccoso salva le sue mele portafortuna; i «cospiratori», dal governatore ai mendicanti, imparano tutti un po’ di tolleranza.
Ma chi avrebbe potuto recitare la parte di Apple Annie? Come dicevo prima, c’era una sola grande «vecchia» stella: Marie Dressier. Ma King Mayer ti avrebbe scatenato addosso Leo il Leone se avessi osato fare il suo nome. Disperato, feci un ultimo tentativo con Harry Cohn. Lo trovai a letto con l’influenza nel salottino di fianco al suo ufficio. Un prete cattolico lo stava confortando. Questo fatto non mi sorprese. Ogni volta che Cohn si sentiva poco bene scoppiava una crisi di Stato! Subito convocava al suo capezzale l’otorinolaringoiatra, il cardiologo, il chiroterapeuta, l’osteopata, il chirurgo e – per supporto – un rabbino, un prete e un ministro della Christian Science. «Solo per coprire tutte le possibilità», diceva. «Uno di loro potrebbe sapere qualcosa». «Marie Dressler?!», urlò Cohn saltando dal letto come se l’avessi punto. «Credi che voglia che Louis Mayer mi salti al collo? Il mondo è pieno di vecchie signore. Vai a cercartene una!» Non ricordo chi fece il suo nome, ma poteva andar bene: May Robson, un’attrice di teatro settantenne. La mandammo a chiamare. La vecchia signora era umile ed eccitata come una sostituta chiamata a fare la parte della star. Le chiesi di leggere qualche battuta. Era terribile. Gridava così forte che la potevano sentire nella contea vicina! Una voce da palcoscenico, rafforzata da cinquant’anni di recitazione. Come potevo dirle che la sua voce non andava bene senza offenderla e senza smorzare il suo entusiasmo? Avrebbe accettato la critica? Ricorsi a uno stratagemma. «Signorina Robson, mi dimenticavo di dirle, ci sono due poliziotti che hanno dei sospetti su di lei. La stanno seguendo e cercano di capire quello che dice. E lei lo sa. Così dovrebbe ripetere le stesse battute a voce bassa, per non farsi sentire. Mi ha capito?» «Oh, capisco, capisco. Naturalmente. Non mi devono sentire. Mi faccia provare ancora...» Lesse di nuovo le battute sottovoce, con un tono ansioso che suggeriva l’urgenza e la paura disperata di dover deludere la figlia. Che Dio benedica tutte le brave attrici del mondo – era splendida. La parte di David lo Sciccoso sarebbe stata perfetta per James Cagney (per me tutte le parti erano perfette per James Cagney). Ma lui era una star della Warner Brothers e Cohn non aveva nulla da offrire in cambio di una star. Per questo, a Gower Street, il casting era limitato agli attori in ascesa (quelli che non avevano ancora un contratto), o agli attori in declino (quelli che non l’avevano più). Da questa riserva di freelance, scegliemmo Warren William. Era aitante, bello, stava bene vestito, e recitò magnificamente. Come amante dello Sciccoso e sua compagna di cospirazione – una texana volgare, proprietaria di un night – utilizzammo la ragazza di Bob Riskin: Glenda Farrell. Il conte spagnolo avrebbe potuto essere impersonato da qualunque attore. Gli si chiedeva solo di avere un’aria distinta e apparire confuso di fronte al comportamento di questi strani americanos. Sapete chi mi chiese con insistenza di fare questa particina secondaria? Quel grande attore, una star a tutti gli effetti: Walter Connolly. Tentai di dissuaderlo, ma lui insisteva: Frank, non è un ruolo insignificante. Ho dato un’occhiata alla sceneggiatura. Lo so. Il conte è il bersaglio del complotto. E dovrebbe essere abbastanza intelligente da capire se c’è qualcosa che non funziona. Un solo sbaglio e potrebbe mandare in crisi l’intera storia. Frank, questa parte possiede grazia e humour; quella sfida al biliardo con il giudice, che ha come posta in gioco la dote, è una scena splendida – inoltre deve suggerire un senso di minaccia. Non mi interessa quanto mi paga Cohn, lasciami impersonare il conte». Aveva davvero ragione. Walter recitò la parte con grazia e humour, riuscendo a ispirare un senso di gentile ma reale minaccia che stava sospesa come una spada di Damocle appesa a un filo di seta. Essendo l’unica persona normale della storia era il cardine che impediva a tutta la costruzione di scivolare nel ridicolo. Il resto del cast fu tirato fuori da quel grande deposito di talenti che è Hollywood: quei meravigliosi attori «minori» che hanno fatto la fortuna di più di un film. «Ned» Sparks, quello con
l’aria triste e depressa e con la voce cattiva, era Happy, l’infelice guardaspalle dello Sciccoso. Guy Kibbee era il giudice Blake: un ampolloso e consunto asso del biliardo che arringava i poveri compagni di gioco compiacendosi del suo linguaggio raffinato. Gli altri attori erano Barry Norton e Jean Parker nel ruolo dei giovani innamorati, alcuni pugili falliti della Cauliflower Alley che facevano i gangster, e poi dei veri mendicanti che recitavano la loro parte. Andai in cerca di un particolare mendicante, il Corto, un uomo senza gambe. L’estremità del suo busto era ricoperta da un’imbottitura di cuoio, su cui si sedeva quando vendeva matite di fronte al Jeffries’ Saloon in Spring Street, ai tempi in cui andavo lì a vendere i giornali. Gli sfrecciavo intorno su un unico pattino, mentre lui avanzava stringendo due pezzi di legno che usava come delle corte grucce per sollevare il torso e scivolare in avanti. Mi faceva ridere quando si sollevava mettendo in mostra quell’estremità di cuoio. Mi ricordava il sedere nudo delle scimmie allo zoo. Un giorno, mentre gli passavo vicino mi afferrò. «Ehi, Frankie, fammi vedere quel pattino». Ci mise sopra il tronco e si spinse coi suoi pezzi di legno. Andava veloce e senza sforzo. «Ehi!», rise. «Perdio, adesso ho le rotelle!» «Corto! Lascia che ti procuri un’asse per sederti», gli dissi. Seduto su un asse inchiodata al pattino, adesso poteva sfrecciare veloce come me. Trovai il Corto. Era salito nella scala sociale, adesso aveva una bancarella di fronte al Lyman’s Cafe. Era grigio di capelli, più elegante, ma cavalcava ancora su un pezzo di legno inchiodato a un pattino. Solo che adesso prendeva i marciapiedi di corsa e schizzava nel traffico come un insetto impazzito. Mi presentai, gli dissi che ero diventato un regista e volevo che recitasse una parte nel mio film. Mi rispose di girare alla larga. Dovetti raccontargli la storia di quel primo pattino per convincerlo che ero proprio Frankie, il suo amico che vendeva giornali. E allora mi disse: «Bene, facciamola corta e chiamami pure Corto!» (Era la sua battuta preferita.) «Ne succedono di cose nella vita, vero, Frankie?» Fece la parte di uno dei mendicanti di Apple Annie. Dopo la «prima» semiufficiale di Signora per un giorno, Harry Cohn tornò di corsa in ufficio per svegliare gli executives di New York. «Andate a nascondervi, bastardi, sempre pronti a criticare. Ho qui un successo che è una bomba!» A me disse: «Tu, gran figlio di puttana, riesci a far profumare di ananas anche la merda», che era il suo massimo in fatto di lodi. La notizia si sparse velocemente. Il mio nuovo amico, Dimitri Tiomkin, il compositore russo a cui sarei rimasto legato tutta la vita, la diffuse ai quattro venti. All’anteprima per la stampa Cohn invitò le celebrità di Hollywood, compreso quel genio di Irving Thalberg che raramente si faceva vedere in pubblico. Dopo lo spettacolo, uno dei grandi, Ernst Lubitsch, si congratulò a lungo con me. E il sarcastico Myles Connolly spinse da parte gli altri e mi soffocò in un abbraccio commosso. Per la prima volta i riflettori erano puntati su di me e non su Cohn. Il 7 settembre 1933 Signora per un giorno iniziò la programmazione al Radio City Music Hall (il direttore del locale, il signor Van Schmus, non aveva nemmeno voluto vederlo prima di proiettarlo; aveva deciso di programmare tutti i miei futuri film; «Perché», diceva, «il suo Amaro tè ci ha portato fortuna. Da quando ha inaugurato il nostro Music Hall non abbiamo avuto una settimana di perdita»). La Robson fu salutata come una nuova stella del cinema, grande come la Dressier. E, gloria a Dio, i giudici dell’Academy candidarono il film in ben quattro delle categorie maggiori: miglior film, miglior sceneggiatura, miglior regia e miglior attrice! E io divenni intrattabile. Nell’intervallo di tempo tra le nomination e la votazione finale, stavo girando un’altra commedia per la Columbia, ma il mio pensiero era fisso su quegli Oscar. Ogni giorno che passava mi convincevo sempre più che ne avrei vinti quattro. Andai a controllare i risultati precedenti. Nessun film aveva mai vinto quattro Oscar maggiori. Sarebbe stato un record. Per la miseria!
Composi e cestinai dozzine di discorsi di ringraziamento; provai davanti allo specchio atteggiamenti timidi e umili; esercitai la voce alle pause dettate dall’emozione là dove erano richieste. Ordinai al sarto il mio primo smoking; presi in affitto una casa di lusso a Beverly Hills per farmi vedere in giro e cercai di accaparrarmi voti nei night. Feci impazzire tutti. Solo Lu si manteneva calma. Era al nono mese della sua seconda gravidanza. L’avvenimento più famoso del mondo, luccicante di smoking e abiti da sera e seguito da seicento inviati, il banchetto dell’Academy Award, aveva luogo al Biltmore Hotel. C’era un altro buon auspicio: il mio vecchio amico Will Rogers avrebbe consegnato gli Oscar, non potevo fallire. Lu non avrebbe potuto essere presente; così, a condividere la mia gloria, invitai dieci tra gli amici più cari: i Connolly, gli Imerman, gli Swerling, i Lewin, Dimitri Tiomkin con la moglie Albertina Rasch. Bob era a un altro tavolo circondato dai suoi amici altrettanto ansiosi. Mentre venivano consegnati i premi tecnici dal buon vecchio Will, sudavo e tremavo. Applaudivo come un idiota ogni volta che un vincitore si faceva largo tra i tavoli di celebrità per arrivare alla pista da ballo dove un riflettore lo puntava e lo scortava in trionfo fino alla pedana a ricevere l’ambito premio, e anche lui sorrideva come un idiota. Poi venne il momento degli Oscar maggiori. Miglior sceneggiatura, il primo dei quattro che mi aspettavo di portar via. Guardai verso il tavolo di Riskin. Bob sembrava tranquillo, ma metà della sua sigaretta s’inceneriva a ogni tiro. Will Rogers annunciò: «...e il vincitore per la migliore sceneggiatura è... [apertura della busta] ...Victor Heerman e Sara Mason per Piccole donne! Venite a prenderlo!» Rimasi stupito, ma non mi turbai. «Vorrà dire che me ne restano tre», dissi con tono leggero ai miei amici. Un senso di freddo pervase il nostro tavolo. Ma fu immediatamente dissipato da Will Rogers. Si premiava la regia! Mentre Rogers leggeva le candidature, lanciai un’occhiata sotto al tavolo al foglietto spiegazzato con il discorso di ringraziamento. Ma non riuscivo neanche a tenerlo in mano. Rogers disse qualcosa di carino sui registi, poi: «...e il miglior regista dell’anno è... la busta, prego...» L’aprì e rise. «Bene, bene, bene, cosa credete? Conosco quest’uomo da tanto tempo... L’ho visto venir su dal niente, e so quello che dico. Non poteva capitare a una persona migliore. VIENI A PRENDERLO, FRANK!» Al mio tavolo ci fu un’ovazione di applausi. Il percorso fino alla pedana era lungo, ma io mi facevo strada tra i tavoli affollati. «Scusate... scusate... chiedo scusa... grazie, grazie...», fino alla pista da ballo. Il riflettore cercava di raggiungermi. «Sono qui!», segnalai. Poi, all’improvviso si allontanò da me, e puntò un individuo in piedi dall’altra parte della pista: Frank Lloyd! L’applauso si fece assordante mentre il riflettore scortava Frank Lloyd alla pedana, dove Will Rogers lo accolse con un abbraccio e una calorosa stretta di mano. Rimasi lì al buio, pietrificato e incredulo, finché una voce arrabbiata dietro di me, urlò: «Seduto, lì davanti!» Quel percorso di ritorno in mezzo alle celebrità che applaudivano e mi gridavano «Seduto! Giù! Seduto!» perché coprivo la visuale, fu la più lunga, la più triste e la più sconvolgente camminata della mia vita. Avrei voluto saper strisciare sotto il tappeto come un verme. E tale mi sentii quando mi buttai sulla sedia. Al tavolo tutti i miei amici piangevano. Il resto della serata completò la disfatta. Miglior attrice venne acclamata non la Robson, ma Katharine Hepburn per La gloria del mattino; e miglior film non fu Signora per un giorno, ma Cavalcata di Frank Lloyd. Scivolando fuori dal Biltmore, la vergogna che provavo si trasformò in rabbia. Ricordai che avevo letto a mia madre tutti gli articoli sull’Oscar e lei mi aveva lodato piangendo di gioia; ai fratelli e alle sorelle avevo mandato i ritagli che riportavano le mie quattro nomination e loro ingenuamente le avevano scambiate per altrettante vittorie e mi avevano risposto congratulandosi:
«Bravo! Bravo!» Sì, davvero bravo. Stupido, piuttosto – correre su, tutto eccitato, per ricevere un Oscar e invece strisciar via morendo di vergogna. Quei meschini giudici dell’Academy. Andassero pure all’inferno coi loro stupidi Oscar. Se mai me ne avessero dato uno, mai e poi mai mi sarei presentato a riceverlo! Tornati a casa, ci ubriacammo subito. Al Lewin cadde nella vasca dei pesci; Myles Connolly e il dottor Imerman si picchiarono; io mi addormentai ubriaco fradicio. Solo Lu si manteneva calma e continuava a sorridere – sorrideva come sono capaci di farlo solo le donne incinte e felici e la Gioconda di Leonardo. Due settimane dopo, il mattino del 20 marzo 1934, nasceva il nostro primo figlio. Il dottor Vruink volle che fossi presente in sala parto. «È un maschio!», gridò un’infermiera eccitata. «Saluta Frank Jr.», disse il dottor Vruink tenendo per i piedi una piccola creatura rossa che urlava e si contorceva. Mi sentii mancare. Non era un essere umano. La sua faccia sembrava una cipolla avvizzita, e la testa era allungata e puntuta come una banana. Corsi fuori dalla sala parto dove Dimitri Tiomkin mi aspettava. «Dimi! Dimi! Ha una testa a banana... È un mostro, un fenomeno da baraccone!» «Papichka, hai bisogno di una bella bevuta...» Un’ora dopo, Tiomkin mi trascinò letteralmente nella stanza d’ospedale di Lu. Lei era lì, col figlio tra le braccia e un sorriso smagliante, e faceva quello che fanno tutte le mamme coi figli appena nati, gli contava e ricontava le dita delle mani e dei piedi. L’abbracciai e diedi un’occhiata al nostro primogenito. Non riuscivo a credere ai miei occhi. «Lu! Dov’è la testa a banana? Questo è il più bel bambino del mondo!» «Ma certo caro. È tale e quale a te...» 26. La follia della metropoli, 1932. 27. Ashcan vuol dire «cassonetto» e la Ashcan School (letteralmente «scuola del cassonetto») è un movimento artistico diffusosi all’inizio del Novecento negli Stati Uniti, famoso per le rappresentazioni realistiche dei quartieri degradati delle grandi città. [n.d.r.] 28. L’amaro tè del generale Yen, 1933. 29. Signora per un giorno, 1933.
PARTE SECONDA
LE CONTRADDIZIONI DEL SUCCESSO
9. LA CONQUISTA DEL GRAAL Irving Berlin lo ha detto con una sola frase: «Non c’è mondo come il mondo dello spettacolo». Ma se avesse lavorato alla Columbia nel 1934 sarebbe stato tentato di aggiungere: a parte quello del cinema. Poco prima di fare quella figuraccia in pubblico, travolgendo la gente quando Will Rogers aveva gridato: «Vieni a prenderlo, Frank!», c’era stata la prima di un altro mio film al Radio City Music Hall. Era stata una prima in sordina, senza rullo di tamburi e senza clamore (la Columbia stava impegnando tutte le sue forze per far fronte ai deliri della febbre degli Oscar). La prima era stata così tranquilla che il film non era riuscito a tenere cartellone al Music Hall per più di una settimana: una nota di demerito per i futuri contratti. Fu scoraggiante, ma non sorprendente; due film «in autobus» negli ultimi tempi avevano sfidato le mode di Hollywood e avevano avuto problemi al botteghino. I fanatici delle mode erano esultanti. Avevano predetto che questo terzo «bus film» non avrebbe mai sfondato. Anche i critici erano stati avari. Kate Cameron, la sacerdotessa Delfica a cui erano riconosciuti poteri profetici nell’indovinare i gusti del pubblico, era solita classificare con competenza i film avvalendosi di criptiche stellette in cima alla sua colonna: una stelletta, un tiepido successo, quattro stellette, un’apoteosi. Congedò quest’ultimo bus film con due stellette e mezza (a Signora per un giorno aveva dato tre belle stellette e mezza). Newsweek l’aveva giudicato «divertente», The Nation aveva pontificato: «piacevole, ma [...] cercare un qualsiasi significato nel film [...] sarebbe naturalmente un errore». E poi, accadde. Accadde dappertutto – non in una notte, ma nel corso di un mese. Il pubblico s’accorse che il film era più lungo del solito e – sorpresa! – divertente, molto più divertente del solito. Ma – sorpresa ancora più grande! – il pubblico riusciva a ricordare nei particolari quello che succedeva nel film e si accorse che anche per gli altri era così e che era molto divertente parlare insieme di questa o quella scena. E... andiamo a vederlo ancora e facciamo venire con noi gli Smith... Il silenzio esplose nel proverbiale incendio di legna secca. Per settimane intere i cinema registrarono il tutto esaurito. I critici tornarono a vederlo per la seconda, terza, quarta volta, e si chiedevano come mai un materiale così poco originale potesse provocare tanta eccitazione. Il film era It Happened One Night.30 In realtà non fu così straordinario il fatto che il film diventasse un classico, quanto piuttosto che fossimo riusciti a farlo. Un film sulla realizzazione di Accadde una notte sarebbe stato molto più divertente del film stesso. Avrebbe fornito una buffa conferma di due vecchi detti di Hollywood: «L’unica regola nella produzione di film è che non ci sono regole» e «L’unico pronostico è che tutti i pronostici sono azzardati fino a quando non esce il film». E chi vorrebbe che le cose andassero diversamente? È proprio l’incertezza che diverte, è la porta che i baroni del cinema non possono sbarrare contro l’assalto degli avventurosi nuovi arrivati. In ogni caso questo film-commedia fu concepito, quasi per caso, a Palm Spring, mentre scrivevamo la sceneggiatura di Signora per un giorno. Aspettando il mio turno dal barbiere, presi un numero di Cosmopolitan e scorsi velocemente una novella, «Night Bus», scritta da Samuel Hopkins Adams. Aveva qualcosa di nuovo. Riskin la lesse e fu d’accordo con me. Chiesi allo studio di chiedere quanto volevano. «Spiccioli», mi risposero. «La possiamo avere per cinquemila dollari». «Compratemela», dissi e subito dopo mi dimenticai di «Night Bus». Rimettersi al lavoro non fu facile dopo le esaltanti recensioni di Signora per un giorno ma, come mi diceva spesso Cohn, «Tu conta le tue benedizioni, io conterò i tuoi film. Continua così!»
Riskin e io rileggemmo «Night Bus» e ci chiedemmo perché mai l’avessimo comprata. Oh, insomma, Palm Spring ci aveva portato fortuna una volta, avremmo fatto un altro giro nel deserto con la sceneggiatura di Night Bus. «Col cavolo che andrai a Palm Spring», urlò Cohn mentre contemporaneamente faceva schioccare il frustino da cavallerizzo e ringhiava al telefono a beneficio del suo pubblico ossequente. Cohn ora sfoggiava gli status symbol del magnate del cinema: mettersi in mostra a un fedele pubblico nel suo ufficio, generalmente una graziosa attricetta e un giovanotto insignificante che faceva da chaperon per allontanare i sospetti di tresche amorose. «Tu andrai a Culver City, ritornerai agli studios della MGM». «Cosa?! Non tornerò alla MGM neanche se tu...» «Vedete cosa voglio dire quando parlo di dirigere un grande studio?» Queste parole, alzando gli occhi al cielo, le aveva indirizzate alla giovane attrice e al giovanotto. Entrambi strinsero le spalle pieni di comprensione. «Io ho creato questo regista, ho tirato fuori il suo nome dal cappello, lo possiedo anima e corpo, e lui non vuole andare alla MGM. Ah! Lo potrei mandare all’inferno, che Dio mi perdoni!» Poi, rivolto a me: «Ascolta, idiota, Irving Thalberg mi ha offerto cinquantamila dollari e uno dei suoi migliori attori, se tu fai un film per lui». «No, se non sono libero di fare il mio film, come faccio qui». «Questo non c’è scritto nel tuo contratto». «Io non leggo i contratti. E poi cosa si fa per quel che che riguarda Night Bus?» «Scordati i bus film! La gente non li vuole. La MGM e la Universal ne hanno appena finiti due e nessuno dei due promette bene». Ritornai alla MGM, questa volta non come un impaurito regista di serie B, ma come protetto del vicepresidente Irving Thalberg, il trentacinquenne genio ispiratore dei film della Metro, amato da tutti gli attori, scrittori, registi, produttori – ma odiato dal vicepresidente L.B. Mayer. Comunque, protetto o no, la MGM mi dava sempre la sgradevole e penosa sensazione di essere entrato in uno strano mondo che negava la razionalità. Per esempio avevo sempre creduto che una casa divisa in due non potesse stare in piedi. Questo non valeva per la cittadella della MGM. Le sue fortune erano custodite da una paradossale figura: un Giano a due teste reciprocamente ostili, Mayer e Thalberg, che ringhiavano e governavano con uguali poteri. Tuttavia l’ultimo ruggito era quello di Leo, il Leone. La MGM, dunque, anche se divisa, si reggeva in piedi. Per quanto riguarda i valori estetici, ho sempre pensato che il mondo non può crollare fintanto che esistono uomini liberi in grado di vedere un arcobaleno, sentire la pioggia e ascoltare la risata di un bambino. Ma alla MGM, nella sua stratificata struttura classista, c’era poco spazio per la libertà, e ciò che sembrava ispirare ciascuna classe non era la bellezza, ma la ricchezza, l’arroganza e il potere di quelli della classe superiore. E tuttavia la MGM era la Mecca per chi faceva cinema. Non riuscivo a capacitarmi. Forse le mie erano tutte pazze immaginazioni, evocate da un’innata invidia contadina nei confronti di quelli delle classi alte. Inoltre non erano affari miei come questi volgari signori si comportavano tra di loro. Non appena avessi fatto fortuna li avrei lasciati ai loro giochi di potere. Comunque non invidiavo e non disprezzavo Irving Thalberg. Come tutti gli altri mi innamorai di lui, e lui di me. Della dozzina di sceneggiature che mi aveva proposto scelsi Soviet, un forte melodramma che narrava la vicenda di un ingegnere americano incaricato di costruire una grande diga in Russia. Thalberg mi promise un cast «da sogno»: Wally Beery, Marie Dressler, Joan Crawford e Clark Gable, wow! Mentre si avvicinava la data d’inizio delle riprese di Soviet, il fragile Thalberg dovette partire per l’Europa per ragioni di salute. Lasciato solo al comando, Mayer non ci pensò un attimo ad affossare i progetti preferiti di Thalberg. Cancellò Soviet, mi rispedì alla Columbia e tuttavia
mantenne i patti circa il compenso a Cohn e la promessa di prestargli una delle sue star. Senza l’odio di Mayer non sarebbe mai nato Accadde una notte. Tornato alla Columbia mi lanciai su Cohn: «Mandarmi alla MGM è stata la prima cosa che mi hai obbligato a fare contro la mia...» «Smettila di abbaiare. In questo modo tu non hai fatto il film, ma io mi sono procurato una star. Su, prendilo come un affare». I suoi criteri di valore erano più inafferrabili del mercurio. In ogni caso dichiarai che il mio prossimo film sarebbe stata una commedia: Night Bus! E al diavolo le mode. Riskin aveva scritto un canovaccio. Mi era piaciuto. Saremmo tornati a Palm Spring, che ci aveva portato fortuna, per scrivere la sceneggiatura, e questo era tutto. «Va’ dove cavolo vuoi. Ma togli la parola bus dal titolo. È veleno». Così, nell’autunno del 1934, eravamo di nuovo al Desert Inn. Lu guardava il nostro primogenito Frank Jr., di sei mesi, che si trastullava dentro il box (lei era di nuovo nella sua condizione cronica: incinta), mentre io e Bob, in calzoncini, lavoravamo sui tavolini pieghevoli, al sole, e disturbavamo i vicini ridendo sguaiatamente alle nostre stesse battute. Finita la sceneggiatura cambiammo il titolo di Night Bus in Accadde una notte, per ingraziarci Cohn, e la riportammo allo studio per le «consultazioni». Cohn la lesse e non si sbottonò. Il suo unico commento fu: «Bene, sono contento che abbiate tolto dal titolo quello schifoso bus». Ma, obbedendo alla legge di Parkinson, il successo aveva gonfiato sia il numero che le teste dello staff di Cohn. Scimmiottando l’onniscienza divina dei dirigenti della MGM, quelli della Columbia partirono all’attacco con un coro lamentoso di critiche. «Non vale niente», dissero. «È frivolo, triviale... Solo un altro bus film... Non c’è suspense... Non c’è cuore... Non c’è azione... Inoltre, questo titolo lungo un miglio, It Happened One Night, come fai a venderlo sul mercato?... Siamo quasi in inverno... È tutto in esterni... Il freddo ti ucciderà... Mettilo nel cassetto, Harry». Cohn si limitava ad ascoltare. Ultimamente le sue vanterie sul fatto che gli «appartenevo» si stavano raffreddando. Le bisbigliate insinuazioni di Jago gli consigliavano di stare in guardia perché rischiava di costruire un altro mostro di Frankestein. Il fatto che nelle cronache mondane si scriveva spesso «Capra è la Columbia» avrebbe irritato un produttore dotato di un ego dieci volte più piccolo di quello di Cohn. Così, mentre il suo staff tramava sparando a zero sulla sceneggiatura, lui mi scrutava per scoprire qualche segno di cedimento. Riskin osservava gli eventi con un sogghigno che la diceva lunga. «Be’, genio», disse Bob nel suo ufficio lasciandosi cadere su un seggiola e scoppiando a ridere, «come ci si sente a giocare a freccette facendo la parte del bersaglio?» «Freccette? Pensavo che stessero lanciando coltelli. Che cosa gli è preso a Cohn? Ci vuole un genio per tener testa a questo figlio di buona donna venuto su dalla gavetta. È pronto a far fuori il film, Bob. Perché?» «Nooo», disse Riskin. «Vuole solo metterti al tuo posto. Non c’è nulla di storto in Cohn che un Capra vilipeso non possa raddrizzare». «Sa una cosa, Bob? Noi faremo Accadde una notte». «Davvero, Mr. Gallagher?» «Certamente, Mr. Shean». Alla successiva riunione generale, Cohn mi passò subito la palla. «Bene, Frank, diamoci una mossa. Cosa ne facciamo di questo bus film?» Avevo addosso gli occhi di tutti. Il prestigio degli impresari, supervisori e faccendieri di Cohn sarebbe salito alle stelle se fossero riusciti a farmi fare marcia indietro. Rilanciai la palla a Cohn.
«Harry, ho sentito tutte le critiche. Le ho apprezzate. Ma non sono d’accordo. Mi piace la sceneggiatura e voglio farla... così com’è». Adesso guardavano tutti lui e lui fissava me... Io lo fissai a mia volta. Era lì, mascella in fuori, guance incavate, narici dilatate, e capii che quell’uomo mi avrebbe odiato. Capii anche che era folle pestare i piedi con troppa forza a un generale. «Comunque, Harry, sei tu il presidente della Columbia. Secondo me la persona che mette insieme i soldi è quella che prende le decisioni finali». Cohn si rilassò. Aveva salvato la faccia. Si alzò, si passò una mano sui capelli cortissimi, e disse: «D’accordo! Abbiamo perso fin troppo tempo con questa storia. Se Capra vuole fare il film per me va bene. Che cosa facciamo per il cast? A chi facciamo interpretare la ragazza?» Presi la parola. «Harry, dal momento che la MGM ti deve una star, la mia prima scelta è Myrna Loy. Se riusciamo a ottenerla...» «Che significa se riusciamo a ottenerla? Certo che l’avremo». Spedimmo la sceneggiatura a Myrna Loy. E – inaudito! – lei rifiutò. Pensavo che le star morissero dalla voglia di fare i miei film. Myrna Loy, no. «Papà» Mayer l’appoggiò ipocritamente: «Harry, sai che non chiedo mai a una delle mie ragazze di interpretare un film se lei non è d’accordo». Mandammo la sceneggiatura a Margaret Sullivan. Maggie ci disse: «No, grazie». Cohn convocò un incontro al vertice. L’opposizione sogghignava. «Te l’avevamo detto. Rifiutare Accadde una notte sta diventando una moda. Se la cosa esce sui giornali non riuscirai mai a mettere insieme un cast». Ricorremmo ad approcci clandestini. L’amico di un amico casualmente fece arrivare la sceneggiatura a Miriam Hopkins. L’amico dell’amico la riportò indietro facendo capire che Miriam si considerava insultata. «Neanche se fosse la mia ultima parte», pare avesse detto. Riskin e io smettemmo di ridere. La situazione stava diventando peggio che ridicola; era inquietante. Rileggemmo la sceneggiatura. Non ci sembrava poi così male. Un altro incontro al vertice per studiare la strategia. Harry Cohn può avere avuto migliaia di colpe, ma come presidente dello studio ebbe sempre una rara eccezionale virtù e devo dargliene atto: una volta che aveva deciso di appoggiarti, lo faceva fino in fondo, anche se avrebbe preferito vederti morto. Decidemmo di interpellare la successiva candidata attrice personalmente, piuttosto che attraverso agenti e intermediari. Scoprimmo che Constance Bennett stava trascorrendo le vacanze a Palm Springs ed era libera. Sam Jaffe all’epoca era un dirigente della Columbia, assistente del vicepresidente Sam Briskin. Jaffe conosceva bene Connie. «Jaffe», gli disse Cohn, «porta questa sceneggiatura a Connie Bennett a Palm Springs e, perdio, cerca di vendergliela. Non farti vedere fino a che quella non accetta la parte e... non un centesimo di più di trentamila dollari, mi hai sentito?» Sam Jaffe era un giovane molto brillante (sarebbe diventato in seguito un grosso agente) mio amico e vicino di casa a Malibù. Ma disprezzava cordialmente la sceneggiatura di Accadde una notte e lo disse. «Harry», si difese Jaffe, «Connie è una cara amica. Come faccio a venderle qualcosa che non piace neanche a me? Se chiedesse il mio parere le dovrei dire di non accettare la parte». «Dannazione, Jaffe!», esplose Cohn. «Per chi stai lavorando, per la Columbia o per l’Esercito della Salvezza? Alza il culo e vai a Palm Springs». Jaffe andò a Palm Springs, ma senza entusiasmo. Come aveva previsto, Constance gli disse di andare al diavolo. «Però», raccontò trionfante a Cohn, «Connie si è offerta di comprare la sceneggiatura e farla riscrivere per sé. Inoltre ci pagherebbe qualcosa per rimborsarci le spese.
Sarebbe un bel modo di venirne fuori, Harry». Gli altri dirigenti erano d’accordo. «Che ne pensi, Frank? Possiamo liberarci di questo problema e guadagnarci». «Io penso che Connie Bennett abbia più cervello di tutti voi messi insieme. Sta comprando una sceneggiatura di Capra-Riskin per due lire. Ne tirerà fuori un successo e tutta la città vi riderà dietro...» «Senti, genio. Sono settimane che stiamo cercando di trovare gli attori per questo film». «Un paio di settimane ancora, dammi solo un paio di settimane. Poi la potrai vendere». All’insaputa di Cohn, io e Riskin stavamo riscrivendo di nascosto il copione perché si adattasse a un importante cambiamento suggerito dal mio critico amico, Myles Connolly. «Frank, è facile capire perché gli attori bocciano il tuo copione», aveva detto Myles dopo averlo letto. «Ci sono senz’altro delle buone situazioni comiche, ma i personaggi principali non sono simpatici, non sono interessanti. La gente non si può identificare con loro. Prendi la ragazza: una fanciulla viziata, una ricca ereditiera. Quante ereditiere viziate conosce la gente? E a chi importa qualcosa di quello che gli succede? È una nullità. Prendi il protagonista: un pittore del Greenwich Village coi capelli lunghi e la cravatta svolazzante. Io non conosco nessun pittore vagabondo e dubito che tu lo conosca. E un uomo che non conosco è un uomo che non riesco ad ammirare, soprattutto se non ha ideali, nessun antagonista o nessun drago da uccidere. Un’altra nullità. E quando si sommano due nullità il risultato è zero. «Dunque della ragazza non fare una marmocchia viziata per il fatto che è un’ereditiera, ma piuttosto perché è annoiata di essere un’ereditiera. È più comprensibile. E l’uomo. Lascia perdere il pittore effeminato. Fanne un tipo che tutti conosciamo e amiamo. Magari uno di quei duri cronisti sempre pronti a combattere crociate, continuamente in lite con il direttore stronzo. È più accattivante. E quando incontra l’ereditiera viziata, be’, fanne una Bisbetica domata. Ma bisogna che valga la pena di domare la bisbetica, e il tizio che la doma deve essere uno di noi». Questo era Connolly al suo meglio. Uno splendido «story editor». Lo riferii a Riskin. Lui disse: «Che stupidi che siamo!» E riscrivemmo tutta la storia in una settimana. Cohn era stupefatto. «Ora, Harry, se riusciamo a trovare un buon attore, sarà più facile procurarci la ragazza. Alla MGM c’è un grande interprete di commedie, Robert Montgomery». La sceneggiatura venne spedita di nuovo alla MGM. Ritornò indietro. Bob Montgomery l’aveva rifiutata. A questo punto si aprì uno spiraglio nella saga Le avventure di Accadde una notte. Cohn stava piangendo tutte le sue lacrime al telefono con L.B. Mayer. «Ma Harry», lo consolava Mayer, «Montgomery dice che ci sono già troppi bus film. E Herschel, senz’offesa, agli attori non piace cambiare il loro indirizzo dalla MGM a Gower Street. Ma sei fortunato, Herschel, mi hai preso in un momento buono. Ho qui un attore che sta facendo i capricci. Vuole più soldi. E avrei tanto voglia di sculacciarlo. Puoi avere Clark Gable». «Louie, e se a lui non piacesse il copione?» «Herschel, stai parlando con Louis Mayer. E io ti sto dicendo di prendere Gable». «Clark Gable?!», chiesi perplesso a Cohn. «L’ho visto solo in The Last Mile. Interpretava un killer violento». «Scemo, non capisci? O Gable o niente. Sta già venendo qui per incontrarci». Capivo, eccome. Ogni volta che Mayer starnutiva, Cohn prendeva un’aspirina. Cohn ora doveva fare Accadde una notte perché Mayer voleva punire il «ragazzaccio» Gable obbligandolo a interpretare un film di categoria inferiore – un esilio in Siberia per star le capricciose della MGM. Capii subito che era Gable quando sentii qualcuno inciampare sulle squallide scale che salivano al mio squallido ufficio al secondo piano dello squallido cortile interno. La porta d’entrata lasciata aperta s’oscurò; Gable era lì in piedi malfermo sulle gambe, alto e
con le spalle larghe, il cappello inclinato sugli occhi con aria strafottente. «È queeeshto l’ufficio del signor Frank Capra?» «Sì, signor Gable. Frank Capra sono io. Venga avanti, prego si accomodi». «Cooo-ntento di conoscccc-erla. Anch’io». Si diresse verso un sedia da cucina e vi si lasciò cadere sopra. La sedia scricchiolò, ma non si ruppe. Oh, se aveva bevuto! Attraverso gli occhi velati cercava di mettere a fuoco il mio mobilio, quello dei primi tempi, che risaliva all’accampamento dell’esercito. Si schiarì la gola con un rutto disgustato. Poi mi mise a fuoco. «Beeene, chi c’è di poppa, skipper, oltre a me?» Non era solo ubriaco, era completamente fuso. «Bene, signor Gable, io...» «Quel figlio di puttana di Mayer», mi interruppe. «Ho sempre avuto voglia di vedere la Siberia, ma, dannazione, non avrei ma pensato che avesse questo odore, bleeeah!» Mi stavo infuriando. Presi la sceneggiatura e la feci schioccare. «Signor Gable, sembra che lei e io dobbiamo tirar fuori un film da qui. Le devo raccontare la storia o preferisce leggere il copione da solo?» «Amico», disse con la sua pronuncia strascicata da duro. «Non me ne importa un cazzo di quello che vuoi farci». Dal momento che non si poteva andare avanti con questo genere di conversazione, mormorai qualcosa sul fatto che la mia Siberia era la MGM, gli infilai il copione sotto l’ascella e gli suggerii di leggerlo tra una bevuta e l’altra. Si alzò vacillando, mi guardò, e ridachiò ubriaco. «Hee hee-e-e! Ci ve-diamo». Oscillò fuori dalla porta, colpendo entrambi gli stipiti e barcollò giù cantando: «La chiamano frivola Saaal; uno strano tipo di... Ehi, ragazzi», questo rivolto a gente della Columbia che si trovava nel cortile. «Perché non indossate i parka in Siberia?» Questo fu il mio primo incontro con Clark Gable e, speravo, l’ultimo. Dissi a Cohn quanto immaginavo si aspettasse di sentire: che Gable non si sarebbe più fatto vedere; che io ne avevo abbastanza di tutti quegli ignobili attori e attrici che continuavano a rifiutare il mio ignobile copione, ne avevo abbastanza della moda dei bus film, e che lui e il suo staff avevano ragione: dovevamo mettere da parte l’intero dannato progetto. Sorprendentemente Cohn cambiò registro. Disse che si era impegnato a fare il film con Mayer, che Gable avrebbe dovuto presentarsi o non avrebbe girato nessun altro film, e, ora che avevamo il protagonista, che cosa pensavamo di fare per l’attrice? Gli dissi che ero a secco di attrici protagoniste. «Ma io no, stupido. Vado a fare una testa così a Claudette Colbert». «La Colbert? Ma è legata a un contratto con la Paramount». «Sì, sì, ma sta per prendere quattro settimane di vacanza. E mi dicono che alla francesina piacciono i soldi. Perché tu e Riskin non andate a incontrarla di persona?» Riskin e io andammo a casa sua di persona. Appena entrati, mentre una cameriera ci faceva passare, il barboncino francese della Colbert si intrufolò tra i miei piedi e mi morse. Tastando i pantaloni strappati mi trovai le mani insanguinate. «Ci siamo!», mi prese in giro Riskin. «Hai versato il primo sangue. Oh-oh, pulisciti le mani, ecco Froggy...» Froggy era freneticamente agitata. Disse che c’era stato uno sbaglio, non avrebbe dovuto fissare l’appuntamento, stava facendo le valigie, Bill e Eddie Goetz la stavano aspettando a Sun Valley, sarebbe partita tra mezz’ora, che per favore la scusassimo. Mentre le parole le rotolavano di bocca capii che era perfetta per la parte della ricca ereditiera: una viziata adorabile ragazzina. Non le demmo tregua, la seguimmo mentre preparava le valigie, facemmo a gara nell’esaltarle il copione. Esasperata ci assalì. «Non riuscite a capire? Sono stanca. Sto partendo per Sun Valley. Non ho voglia di ascoltare nessuna storia. Non ho voglia di ascoltare niente. La Paramount mi paga venticinquemila dollari a film. Siete in grado di raddoppiare la cifra e farmi finire di lavorare in quattro settimane? No che
non potete. Così per favore lasciatemi in pace». «Harry?», dissi al telefono a Sua Volgarità. «Hai ragione. Le piacciono i soldi. Vuole cinquantamila...» «Cinquantamila dollari? È il doppio del suo compenso». «Ed è solo l’inizio. Dobbiamo finire di girare con lei in quattro settimane». «Puoi farcela?» «No». Ci fu una lunga pausa. Decidere, decidere. «Senti, dannazione a te, l’hai iniziato tu questo casino. Tu falla finire in quattro settimane, e io le raddoppierò il compenso...» «Affare fatto, Claudette! Cinquantamila per quattro settimane, ok?» «Oh, Dio mio!», esclamò sbalordita dalla proposta. Ora era in uno stato di vera eccitazione. Per quanto fosse adorabile e graziosa, Claudette aveva una mente lucida come un dollaro e da francese ne apprezzava il luccichìo. Aveva in mano l’ultima bombola di ossigeno che avrebbe tenuto in vita Accadde una notte. Ce l’avrebbe consegnata? Non era facile. La Colbert si ricordava ancora che il suo primo film, For the Love of Mike, era stato un disastro e che l’aveva diretto Frank Capra. «D’accordo, dannazione! Farò il film». Ma aggiunse una clausola: cascasse il cielo lei avrebbe lasciato il set il 23 dicembre per trascorrere il Natale con i Goetz a Sun Valley. Ed era già il 21 novembre! «Affare fatto, Claudette», le dissi. «Iniziamo questa settimana. Il tuo guardaroba è semplice: un normale vestito da viaggio e un abito da sposa. Ti manderò un copione. Grazie». Mentre io e Riskin salivamo in macchina non potei fare a meno di dire: «È una dura, quella francesina». «Dura?», ridacchiò lui. «Aspetta che veda le macchie di sangue che gli hai fatto gocciolare sul suo bel tappeto». Molto è stato detto e ancora di più è stato scritto sui «significati» e l’importanza di Accadde una notte: un «classico» del cinema moderno, il precursore di un nuovo genere, che avrebbe fatto parte della «storia» del cinema. Scusatemi, ma leggete, se ne avete voglia, questo elaborato trafiletto e se lo capite siete bravi: Prendete Stew Smith della Donna di platino, Jones (Walter Connolly) di L’amaro tè del generale Yen, il gangster di Signora per un giorno, sminuzzate, mettete il tutto assieme; mescolate bene e otterrete il giornalista Clark Gable di questo film: il classico picaro. Prendete la piccola dura avventuriera di Femmine di lusso, la falsa evangelista della Donna del miracolo e la coraggiosa ragazza di L’amaro tè del generale Yen, agitate bene e avrete la viziata avventuriera interpretata da Claudette Colbert. Prendete lo scontro di classe della Donna di platino e della Follia della metropoli con una versione rinnovata dell’eroe popolare del secondo, tuffatelo nel veloce e largo fiume della Vita – la strada – e avrete un nuovo Canterbury Tales e un nuovo Don Chisciotte con Frank Capra nel doppio ruolo di Cervantes e del venerabile Don. Questo film [Accadde una notte] rappresenta quanto di picaresco v’è nella nostra epoca. La struttura è fondamentalmente quella di Chaucer [...] il pullman carico di gente [...] esperienze vissute insieme [...] il nostro eroe si innamora dell’arrogante eroina e dà battaglia ai mulini a vento dell’onore borghese [...] l’eroe popolare e il popolo-eroe umanizzato nell’ambito letterario che gli è proprio: il racconto picaresco.
Vi assicuro che non prevedevo – né sarei stato capace – di dare questi esoterici «significati» ad Accadde una notte. In realtà ero così distrutto da tutti i pasticci, le schermaglie e le tensioni emersi in quel progetto che nasceva e moriva in continuazione, da sentirmi come il pugile sovrallenato che ha lasciato il suo spirito combattivo in palestra. Volevo solo farla finita con quel maledetto film, vincolato com’ero da un budget di 325.000 dollari, un limite di tempo di quattro settimane e gli esterni da girare in inverno. Così, girai le scene velocemente e senza preoccuparmi troppo: un po’ come Julius Boros
giocava a golf: camminava verso la palla, la colpiva, rideva, e proseguiva senza cambiare andatura. Il peso delle «aspettative» dello Studio non lo sentivamo più e, mandavamo avanti il film spassandocela, ridendo e improvvisando. Per di più l’eccitazione della Columbia – e la mia – era tenuta viva dalle speculazioni della stampa specializzata sul numero di Oscar che Signora per un giorno avrebbe vinto ai prossimi Academy Awards. Quando la febbre da Oscar colpisce, tutto il resto passa in seconda linea. Ma vale la pena di ricordare due episodi che capitarono durante le riprese di Accadde una notte. La Colbert si irritava spesso, faceva i capricci, e criticava la sua parte. Metteva in discussione il modo in cui giravo e si preoccupava continuamente del suo appuntamento a Sun Valley. Era una rompiscatole, ma del genere intelligente. Nella famosa scena dell’autostop in cui prova che la sua gamba è più efficace del pollice di Gable, si rifiutava di tirar su il vestito e mostrare la gamba. Aspettammo fino a che il direttore del cast non ci mandò una ballerina di fila dotata di belle gambe per «doppiare» quelle della Colbert. Quando lei vide la controfigura disse: «Buttatela fuori. Girerò la scena. Quella non è la mia gamba!» E aveva ragione. Non esistono al mondo gambe più deliziose di quelle della Colbert, neanche quelle di Marlene. Nell’eccitante scena delle «mura di Gerico» (la Colbert e Gable nei letti gemelli separati dalle «mura» – una coperta stesa su un filo da bucato), Claudette rifiutò si spogliarsi anche solo parzialmente davanti alla macchina da presa. Voleva mettere in evidenza la sua recitazione, non il suo sex appeal. La conseguenza fu una scena ancora più sexy: Gable che la guardava mentre i suoi indumenti intimi venivano drappeggiati uno per uno sulle «mura di Gerico». Ma tutti i suoi scatti d’ira, motivati dall’antipatia che provava nei miei confronti, servirono da prove generali per il film. Tutto quello che doveva fare era rompere le scatole a Gable davanti alla macchina da presa, così come le rompeva a me dietro. Ed era meravigliosa nella parte – anche se ai suoi amici a Sun Valley pare avesse detto: «Sono contenta di essere qui. Ho appena finito di girare il film più brutto del mondo». E, episodio numero due, la metamorfosi di Clark Gable, il «ragazzaccio» esiliato in Siberia. Gli ci volle un giorno o due per superare «l’umiliazione», ma quando ci riuscì fu davvero fantastico. Credo che questo sia stato l’unico film in cui Gable fu lasciato libero di recitare se stesso: il macho mascalzone, affascinante, allegro e impertinente che era il vero Gable. Come esempio della nostra folle improvvisazione vorrei accennare alla canzone «The Daring Young Man on the Flying Trapeze». Per aggiungere colore al nostro eterogeneo autobus carico di gente, ci inserimmo quasi per caso un duo di musica country che suonava una canzone nel tentativo di rompere la monotonia del viaggio durante un acquazzone in cui il bus avanzava a fatica. Mentre facevo un primo piano ai due cantanti che provavano, notai che i passeggeri vicini si univano spontaneamente al coro. Mi venne un’idea. Ordinai altre macchine da presa e filmai tutti i passeggeri simultaneamente con campi lunghi, medi e ravvicinati per ottenere un’eccellente colonna sonora da tutti gli angoli di ripresa e dissi alla gente: «Nessuna prova. Limitatevi a unirvi al coro quando e come vi sentite». Gable con aria truce e la Colbert imbronciata erano seduti vicini, ma ancora li separava un’intensa reciproca antipatia. Chiesi loro di «sciogliersi» lentamente, e, se si sentivano, di unirsi al coro. Be’, dopo avere gridato «Azione!» mi misi a sedere e scoppiai a ridere. Uno dopo l’altro i passeggeri abbandonarono le loro inibizioni e divennero completamente naturali. Cantavano, ballavano e inventavano le strofe. Ma poi si univano in coro al ritornello, tenendo sospesa l’Oh! finché diventavano paonazzi. Ooooooh, he flies through the air
with the greatest of ease. This daring young man on the flying trapeze.
Gable abbandonò la sua aria truce e si unì al coro. La ragazzina viziata lasciò perdere le sue arie e condivise l’allegria generale. Io ero seduto e guardavo questo gruppo di estranei che cantando si liberavano dalle loro inibizioni. Era uno strip-tease collettivo: si spogliavano degli anni della maturità. Erano tornati bambini, giocavano e facevano baldoria come caprette in primavera. E Gable e la Colbert facevano baldoria con loro. Ma io come avrei fatto a concludere questa festa dell’allegra brigata? Avevo bisogno di una scena finale. Mentre cercavo un’ispirazione, vidi l’autista del pullman, frastornato dal suo carico di passeggeri scatenati, distogliere l’attenzione dal parabrezza rigato di pioggia e unirsi alla gazzarra con il suo rauco «Ooooh». Ma certo! Ecco il modo. L’autista si volta indietro e provoca l’uscita di strada del pullman in un fossato fangoso. Il film fu terminato in tempo e nei limiti del budget fissato, e a Claudette riuscì di far Natale a Sun Valley. Poiché l’ufficio della Columbia a New York insisteva per avere un «film di Capra», io e Gene Havlick, incaricato del montaggio, rapidamente cucimmo insieme le scene in una lunga versione di due ore e la proiettammo in anteprima. Mi pareva che l’anteprima fosse andata bene, anche se non aveva suscitato quelle acclamazioni hollywoodiane che erano seguite alla proiezione di Signora per un giorno. Cohn, subito dopo la proiezione, tenne la solita conferenza stampa nel suo ufficio. Le Cassandre che avevano profetizzato un disastro ad Accadde una notte non si arresero. «Troppo lungo, Harry... Nessuna commedia può reggere per due ore... Non è Ben Hur... È semplicemente un bus film più lungo... Le sale cinematografiche perderanno un turno di programmazione... Lo sai cosa significa in termini di guadagno?... Taglialo... Taglialo di mezz’ora, chi vuoi che si accorga della differenza?... Taglia, Harry!» Cohn si rivolse a me. «Tu che ne dici, Frank?» «Non ne posso più, Harry. Fallo uscire». «Fallo uscire!», disse Cohn al capotecnico del montaggio, e subito dopo: «ok, critici. Mi gioco anche le paghe dei guardiani della Columbia che Signora per un giorno la settimana prossima vincerà almeno due Oscar...» Ma sapete quello che accadde. All’Academy Award Banquet dell’anno dopo, il 27 febbraio 1935, WOW! Accadde una notte si aggiudicò tutti e cinque i maggiori premi: miglior film, migliore attrice protagonista, migliore attore protagonista, migliore sceneggiatore e miglior regista! E fino al 1970 rimase l’unico film così premiato. Fu una notte straordinaria. Tutti gli stessi amici che l’anno prima avevano sofferto con me la sconfitta di Signora per un giorno erano di nuovo seduti al mio tavolo ed erano pazzi di gioia, mentre... ma lasciamo che sia Lyle Abbott del Los Angeles Herald-Express a descrivere la scena: Claudette Colbert! Clark Gable! Ieri notte [...] sono stati incoronati migliore attrice e migliore attore del 1934. E, per completare la scena, il loro film Accadde una notte [...] ha ricevuto il premio di migliore produzione dell’anno. Irvin S. Cobb, incomparabile umorista, cercava, come ogni bravo maestro di cerimonia, di tenere avvinto il pubblico giocando sulla sorpresa (mentre apriva le buste). Ma non ce l’ha fatta. «L’avete indovinato», ha gridato nell’altoparlante. «È qualcosa che...» «...Accadde una notte!», ha urlato la platea. Ai tavoli, nei corridoi, affollando le entrate, gli ospiti del banchetto ripetevano il ritornello [...] Accadde una notte! Nascosta, seduta a un tavolo poco illuminato c’era Miss Colbert [...] in un abito sportivo marrone. Perché Miss Colbert se ne stava andando all’Est. Il suo treno stava per partire. Un’ardente schiera di assistenti dello studio l’aveva trascinata al pranzo dell’Academy – giusto in caso che...
George Lewis, del Los Angeles Post-Record: C’era un taxi che aspettava, tanta, tanta gente che si spingeva da parte cercando di aprire un varco, mentre [Miss Colbert], in abito da viaggio, riceveva il premio da Irvin S. Cobb, gli dava un bacio, e correva via a prendere il treno, tenendo in mano una statuetta d’oro come fosse stata una bambolina vinta al lunapark [...] Ma poi un’esitazione, tornava indietro fino ai microfoni, e in uno slancio d’entusiasmo diceva: «Questo lo devo a Frank Capra».
Gli amici mi innaffiarono e si innaffiarono di champagne. Quando tornammo a casa, Lewin cadde di nuovo nella vasca dei pesci, Imerman diede un pugno a Connolly e Connolly glielo restituì, Tiomkin si mise a suonare le ballate di Chopin a tutto volume, sua moglie Albertina danzava sulle punte, io mi addormentai sul prato stringendo in mano il mio Oscar. Lu? Lei mantenne il suo sangue freddo e il suo sorriso da Gioconda sulle labbra. Era al settimo mese della sua terza gravidanza. Che notte pazzesca. Ero giunto sulla cima del monte Everest di Filmlandia. Nove anni dopo le mie infantili gag per i ragazzi di Our Gang avevo superato tutti i miei traguardi. Che cosa avrei dovuto fare per un bis? Che cosa mai avrei potuto fare per un bis? Tutte le strade dall’Everest scendono verso il basso. Come devono scoprire da un giorno all’altro tutti i Mr. Big, il successo crea le sue nuove sfide, sfide sottili, potenti, che mettono alla prova la parte più profonda dell’io e che valutano un uomo per quello che è e non per le sue medaglie. Avevo sconfitto la povertà e il ridicolo, ma mi restava un nemico più grande da sconfiggere: me stesso. Esteriormente accettavo gli onori con eleganza. Ma nell’intimo tremavo: ero ossessionato dal terrore che il mio prossimo film sarebbe stato un fallimento. In breve, morivo di fifa. Il mondo dello spettacolo è brutale con i falliti. Chi è spinto giù dalla cima viene fatto rotolare nella valle dell’oblio, e magari costretto alla miseria. Lo vedevo continuamente intorno a me: D.W. Griffith – un uomo dimenticato; Mack Sennett – camminava inosservato per la città che un tempo dominava come il Re della Commedia; vecchie star che mendicavano lavori da comparse; campioni del ring ridotti a vagabondi barcollanti che chiedevano la carità. Applausi a chi sale, morsi di piranha a chi scende. Non era fatto per me. Molla tutto quando stai vincendo. Ma come? Avevo un contratto per due film all’anno con la Columbia. Loro vendevano l’intera programmazione di film a basso costo grazie ai due film di Capra. Dovevo fare goal ogni volta che toccavo la palla per tenerli a galla. Atlante reggeva da solo il mondo – io stavo reggendo Harry Cohn sulle mie spalle. E il materiale che avevo letto dopo le premiazioni di Accadde una notte mi sembrava banale. Si doveva ricominciare a sgobbare. Il successo, splendido. Ma chi voleva la tortura di provare in continuazione di essere il numero uno? Un solo fallimento, un solo fiasco, e mi avrebbero strappato la corona. Mi sentivo triste per tutti i re nel mondo. No. Io avrei mollato. Andare in Sud America, ricominciare da capo – qualunque cosa ma non un altro film. Ma come? Poi trovai la soluzione, una splendida via d’uscita! Far brillare la mia aureola col martirio – darmi malato! Diedi inizio alla segreta campagna di simulazione allo studio lamentando stanchezza, stando seduto durante le riunioni come un Buddha dagli occhi vitrei. A casa continuavo la commedia, smisi di rotolarmi sul pavimento con Frank Jr., che allora aveva un anno, e puntavo dritto sul divano invece di abbracciare Lu. Lei mi chiedeva se mi sentivo male. «No, no, cara. Sono solo stanco». Doveva chiamare Stanley (il nostro medico di famiglia)? «No, passerà. Non è nulla, nulla».
Mia moglie, preoccupata, invitò il dottor Stanley con la moglie Connie per una partita di bridge. Io giocavo come una lumaca affaticata. «Ehi, svegliati», commentò il dottor Imerman dopo una mossa idiota. «Hai dimenticato di rispondere a colore». «Non sgridarlo, Stanley, è troppo stanco», disse Lu. «Stanco, eh? Cosa c’è, genio, quegli Oscar stanno diventando troppo pesanti da portare?» «Io credo che sia arrabbiato perché non ha ancora visto i soldi del suo film», scherzò Connie Imerman. «Oh, davvero divertente». Sbattei giù le carte e andai in bagno. Stanley mi seguì con la sua borsa nera. «Stavamo solo scherzando, amico. Da quand’è che ti senti stanco?», mi chiese. «Da un paio di settimane», risposi mentre lui mi ficcava un termometro in bocca e mi prendeva il polso. Lesse il termometro in silenzio; poi mi esaminò il naso, la gola e le orecchie. Mentre richiudeva la borsa disse: «Non c’è nulla, Frank. Il polso e la temperatura leggermente alti. Bevi qualcosa e vai a letto». Mentre Connie e Stanley stavano uscendo lui si rivolse a mia moglie. «Lu, misuragli la temperatura ogni giorno a mezzogiorno, vuoi, cara? E chiamami in studio». Mia moglie riferì giornalmente a Imerman la mia temperatura di mezzogiorno: 39-40-41. La trama stava procedendo splendidamente. Ero un regista così bravo che riuscivo a far fare al termometro quello che volevo. Imerman mi mandò da uno specialista del naso di Beverly Hills che frugò, ostruì e irrigò le mie cavità nasali. «Sinusite», pontificò. «È un virus che sta girando». Tornando a casa ridevo tra me e me: «Quanto possono essere stupidi i dottori?» Ma Imerman era preoccupato per la mia febbriciattola persistente. «Vai dal radiologo dei Cedri del Libano», mi ordinò, «e fatti una radiografia ai polmoni. Ti ho già fissato un appuntamento». La trama si infittiva. Adesso le radiografie. Magnifico. Scrutandomi il petto il radiologo corrugò la fronte e incominciò a fare dei versi: «Oh, povero me... Tsk, tsk, tsk... ma si può curare... tsk, tsk, tsk...» «Cos’è che si può curare?» «Non ti preoccupare, non ti preoccupare. Il dottor Imerman te lo dirà. Ora faremo le radiografie. Tsk, tsk, tsk...» Che cosa stava succedendo? Doveva essere tutta una messinscena. Tornato a casa raccontai a mia moglie quello che era successo. Vidi l’inquietudine nei suoi occhi mentre si chinava su di me coprendomi con la sua grossa pancia. Che meravigliosa ragazza. Era da tante notti che non frizionavo il suo corpo ingrossato. Per noi era diventato uno splendido rituale. Si stendeva sulla schiena e io strofinavo di crema la sua pelle tesa per non farla screpolare. Ma quello che ci eccitava fino a farci ridacchiare felici era sentire le piccole ginocchia e i gomiti che scalciavano dentro di lei. Lei si illuminava, come si illuminano tutte le donne incinte per lo stupore di fronte al grande miracolo di una nuova vita. Più tardi passò il dottor Imerman. Senza dir molto mi provò la temperatura: 40. «Amico», disse a voce bassa, «nelle radiografie si vede una macchia sul tuo polmone destro». «Cosa significa?» «Non sono ancora sicuro. Ho bisogno di un campione del tuo espettorato». «Sei ancora preoccupato per il vecchio rantolo?» «Potrebbe darsi. La stanchezza, la febbre, e le macchie. Ho fatto chiamare un paio di infermiere per facilitare le cose a Lu».
«Stan, sveglia. Non ho niente. Stavo scherzando». «Con la tubercolosi non c’è da scherzare. Stai a letto. Niente visite, niente telefonate. Ho chiesto a uno specialista di farti un trattamento ogni giorno tanto per precauzione. Sputa in questa bottiglia». «Oh là là», dissi tutto contento. «Harry Cohn avrà un colpo». «L’ho già chiamato. Si è messo a urlare come un pazzo. Ha detto che volevo rovinarlo. Ha detto che il dago vende tutti i suoi film. Ha minacciato di fare causa a me». «Caro vecchio Harry». Consegnai a Stan la sua bottiglia. «L’hai detto a Lu?» «Sì, mentre venivo. Non ha creduto a una parola. Che donna. Ci vediamo domattina». Quella notte cominciai a sudare. E fu la prima di molte notti passate a sudare che mi avrebbero ridotto a un manico di scopa. Il ciclo della giornata si svolgeva secondo uno schema fisso; sonno, leggera febbre al mattino; irrigazione dei setti nasali a mezzogiorno, febbre alle due circa del pomeriggio che si alzava intorno a 42 alle nove di sera; poi sudore a litri, e cambi del letto ogni poche ore. Verso il quarto giorno di questa strana truffa sceneggiata che si era trasformata in realtà, apparve sulla scena un nuovo dottore, il dottor Verne Mason, il famoso diagnosta che era riuscito a fare per Howard Hughes quello che nessuno degli uomini del re era riuscito a fare per Humpty Dumpty: l’aveva rimesso insieme, dopo che il famoso aviatore era andato a schiantarsi con un vecchio aeroplano in un film d’azione. Verne Mason era una di quelle rare persone che si muovono e parlano come il tuo vicino di casa, mentre senza darlo a vedere diagnosticava i tuoi mali con quella chiaroveggenza scientifica che solo i grandi medici possiedono. Harry Cohn – ormai in preda al panico – l’aveva assoldato perché trovasse cosa c’era che non funzionava nella fonte dei suoi guadagni. Giorno dopo giorno questo eminente diagnosta sedeva al mio capezzale, incrociava le sue lunghe gambe, studiava i grafici, mi percuoteva il petto, faceva i test sul mio espettorato, e non smetteva mai di parlare dei meravigliosi tori da esposizione che suo figlio allevava nel New Jersey. Mai una parola della malattia. Passò una settimana prima che ne parlasse apertamente. «Signor Capra, ho appena detto a Harry Cohn che non ho la più pallida idea di quale sia il suo male. Imerman dice tubercolosi. Le radiografie sostengono la sua tesi. Ma l’espettorato a volte è negativo, altre volte positivo. Se lei ha la TBC, con la febbre che ha, si tratterebbe di quella che noi chiamiamo una TBC galoppante, e a quest’ora dovrebbe essere già morto. Quindi ho detto a Cohn che probabilmente lei è affetto da una “polmonite californiana”, termine con il quale definisco ogni malattia che mi lascia dubbioso. Per ora posso solo consigliare pazienza e coraggio fino a che non trovo le cause di queste strane febbri e dei sudori. So che per lei sono motivo di sofferenza e preoccupazione, ma, si ricordi, signor Capra, il nostro corpo è resistente. È costruito in modo meraviglioso. E parlando di corpi, ecco qui delle fotografie di giovenche che mio figlio ha ottenuto incrociando dei tori Brahma con delle vacche Hereford...» Le cose stavano andando così. La mia finzione mi si era rivoltata contro. Mi ero autosuggestionato a tal punto che la mia malattia lasciava perplessi gli esperti. Era coerente. Essendo io una persona eccezionale era giusto che dovessi morire di una malattia eccezionale. Forse sono gli dei che stabiliscono le cose in questo modo per i loro figli prediletti. La mia immaginazione cresceva di pari passo alla febbre. Guarda Valentino, Keats, Guynemer, Joyce Kilmer, Alessandro Magno: tutti morti giovani, non come fiamme uniformi che bruciano lentamente, più splendenti quando sono alimentate dalla saggezza dell’età, no. Sono stati delle meteore, passate come un lampo attraverso la vita, lasciandosi dietro un bagliore dorato, giovani razzi puntati verso il cielo ed esplosi in polvere di stelle invece di ricadere indietro nella senilità. Ma certo. Brucia tutto in un unico
grande flash! Drammatico! Eroico! Prudente! Vai incontro a San Pietro mentre sei il Campione! A un solo estraneo fu concesso di entrare nella mia stanza da letto, al simpatico e sorridente Max Winslow, un editore musicale socio di Irving Berlin. Si sedeva, succhiava nella sua pipa gorgogliante, e parlava vantandosi di musica e canzoni, si metteva anche a canticchiare le ultime cose di Berlin con la voce roca del presentatore. Confessai a Max che stavo per morire. Mi rispose di accendere la radio e sintonizzarmi su un notiziario. Verso il decimo giorno, quando ormai mi stavo rapidamente spegnendo, arrivò Max un mattino presto a dirmi che c’era un signore in biblioteca che voleva vedermi. «Max, guarda, ho già tre dottori». «Nessun dottore, Frank. Semplicemente un uomo». Max e sua moglie Tilly avevano passato molto tempo con Lu mentre io ero a letto. Erano delle care persone. Lu li amava. Andavamo a pescare con loro sul San Lorenzo ogni anno. Ma erano entrambi fedeli della Christian Science e io prendevo in giro da morire Max per questo. «Max, se è uno dei tuoi stregoni sbattilo fuori, hai capito?» «Frank, non è nient’altro che un simpatico signore. Ricevilo per un attimo, solo per farmi piacere». «D’accordo. Solo per farti piacere e solo per un minuto. Fallo entrare». «Non ti vorrà vedere a letto». «Come?!» «Ma è solo oltre l’anticamera, in biblioteca. Alzati!» «Max! Sei pazzo? Sto morendo. Non mi reggo in piedi». Max mi aiutò a uscire dal letto, mi mise addosso una vestaglia e mi spinse verso la porta. «Max, sostienimi. La stanza sta ondeggiando». «Puoi farcela. Vai avanti. Io mi siederò qui ad ascoltare la radio». Ero così arrabbiato che gli avrei sputato addosso, ma ero anche affascinato all’idea di sottopormi a un trattamento voodoo. Riuscii ad attraversare l’anticamera fino al nostro studiolo al secondo piano. Un omino si alzò da una seggiola; era completamente calvo e portava degli occhiali con le lenti spesse, un tipo insignificante, come ne puoi incontrare tanti. Non ci furono presentazioni. Disse semplicemente: «Prego, si accomodi, signore». Mi sedetti, debole come un gatto e altrettanto curioso. L’omino si sedette di fronte a me e disse tranquillamente: «Signor Capra, lei è un vigliacco». «Un che cosa?» «Un vigliacco, signore. Ma, cosa infinitamente più triste, lei è un’offesa a Dio. Lo sente quell’uomo là dentro?» Max aveva acceso la radio nella mia stanza. Ne usciva la voce stridente di Hitler. «Quell’uomo malvagio sta disperatamente cercando di avvelenare il mondo con l’odio. A quante persone può parlare? Quindici milioni? Venti milioni? E per quanto tempo, venti minuti? Lei, signore, può parlare a centinaia di milioni di persone, per due ore, e al buio. Il talento che possiede, signor Capra, non è sua proprietà personale, non se l’è procurato da solo. Dio le ha dato quel talento; è un Suo dono, da usare a Sua maggior gloria. E quando lei non usa i doni con cui Dio l’ha benedetta, lei è un’offesa a Dio e all’umanità. Buona giornata, signore». L’omino insignificante uscì dalla stanza e scese le scale. In meno di trenta secondi mi aveva fatto a pezzi rivelando la verità: aveva messo a nudo tutto il marcio delle mie vanità. Non so per quanto tempo rimasi seduto lì, cercando di ricacciare indietro cocenti lacrime di vergogna prima di ritornare come una furia nella mia stanza con le gambe tremanti. C’era ancora la voce esaltata di Hitler che stava declamando. Max fumava la pipa. «Spegni quella maledetta cosa... e Max, vai a chiamare Lu, subito. Per favore». «Certo, Frank». Max sorrise. Aveva capito.
Nel guardaroba, mentre cercavo di vestirmi, mi vidi riflesso in un grande specchio: ero un vecchio macilento. Saltai sulla bilancia: avevo perso più di quindici chili. Quando Lu entrò mi stavo infilando i pantaloni. La vista della sua faccia segnata e tesa fu come una coltellata. «Lu, prepara le valigie. Partiamo per Palm Springs». Palm Springs era a tre ore di macchina da Beverly Hills. Ogni mezz’ora mi fermavo ansimante per riprendermi. Ero letteralmente inondato di sudore. Lu e io parlavamo quietamente, timorosi di rompere l’incantesimo. Lei aveva attraversato eroicamente settimane d’inferno. Col volto segnato da rughe profonde di tensione e gli occhi colmi d’ansia, con quella nuova vita che sentiva crescere dentro di lei, vedeva il marito deperire consumato dalla febbre. Adesso però i suoi occhi erano lucidi di gratitudine: da quando, barcollando appoggiato alla sua spalla, ero entrato nel nostro cottage di Desert Inn, la febbre non mi era più tornata. E, grazie al cielo, cominciavo anche a prender peso. Cos’era successo? Chi era quell’omino insignificante che mi aveva detto che ero un vigliacco e un’offesa a Dio? Non lo sapevo, non l’avrei mai saputo e non volevo saperlo. Via via che le mie gambe si irrobustivano facevo delle lunghe passeggiate sulla sabbia rossa delle dune. La primavera era arrivata nel deserto. Per onorare il suo arrivo le dune avevano srotolato tappeti di verbena color porpora, gli ocotillos sollevavano le loro lance spinose con la cima ricoperta di rosso scarlatto. Io continuavo a camminare. Conigli stupiti facevano due balzi poi si fermavano ritti guardandomi incuriositi. Quei buffi uccelli, i road runner becchettavano tra la salvia invitandomi a giocare a nascondino. Io continuavo a camminare sulla sabbia rossa delle dune. E camminando un giorno arrivai davanti al confessionale della chiesa del luogo col timore che il sacerdote non avrebbe creduto alla mia guarigione miracolosa. Capitai da un prete irlandese pieno di buonsenso. «Non c’è nulla di miracoloso in tutto ciò», disse bruscamente, «e per penitenza reciti dodici padrenostri e si rimetta al lavoro!» Harry Cohn fu sconvolto dal mio cambiamento quando entrai nel suo ufficio. Max Winslow era con lui. «Cristo, sei uno spaventapasseri! Max! Sembra più vecchio di dieci anni...» «Sono più vecchio di cento anni, Harry. Salve, Max». Max e io avevamo un segreto: l’omino. «Balle, scemo!», disse Harry fregandosi le mani. «Ho delle notizie che ti faranno diventare di nuovo giovane...» E poi mi disse che non avrei dovuto mai lasciare la Columbia, che strappava il vecchio accordo e mi offriva un nuovo contratto per sei film a centomila dollari a film, e il venticinque per cento dei PROFITTI! «D’accordo, Harry», dissi. «D’accordo? Perdio! Fammi il nome di un regista che abbia avuto un contratto migliore». Non potevo. Poi andò avanti a parlarmi di Accadde una notte, le recensioni, il box office, le medaglie, un centinaio di articoli centrali sulle maggiori riviste, come Mayer avesse dovuto triplicare i compensi di Gable; come i venditori di biancheria strillassero perché Gable aveva lanciato la moda di non usare la maglia sotto la camicia, e avanti così, fino a che la sua voce si dissolse e io rivissi la scena del giorno prima nella sala parto del Good Samaritan Hospital dove avevo assistito alla nascita del nostro secondo figlio maschio, il piccolo John; avevo udito il più gioiosamente squillante di tutti i suoni umani: il primo trionfante pianto di un bimbo appena nato, – «Io esisto! Io esisto! Unico, individuale; un miracolo generato dal tempo e dalla polvere di stelle. Fatti da parte, mondo! Il mio nome è John» – avevo visto le infermiere trascurare per un attimo la madre per lodare e adorare il miracolo della nuova vita che il dottor Vruink teneva sollevata per i piccoli rossi piedi che si dimenavano... Quella sera andai a casa dei Connolly per cenare con Myles e la sua nuova moglie, Agnes, una celebre pianista della buona società di Nashville (suonava in coppia con Madame Alda). Myles stava
preparando una grossa caraffa di Martini. Mi salutò con la solita frecciatina. «Bene, vieni, vieni, illustre. Dov’è il bottino?» «Quale bottino?» «I ritagli che parlano di Accadde una notte, le cifre degli incassi! Li posso reggere... dopo un paio di bicchieri». «Myles, lo sai che è stato un caso. Ho girato quel dannato film perché tutti sostenevano che non dovevo farlo. Tutto il merito è tuo. Tu mi hai convinto a cambiare la trama». «Agnes, vieni qui, subito. Abbiamo un nuovo Capra. Un Capra umile, Dio ci aiuti!» Un melodioso accento del sud echeggiò dal corridoio. «Myles, lascia stare Frank, mi senti? Abbiamo visto Lu e il piccolo John oggi, Frank. È un amore». Durante la cena parlai molto poco. In realtà, da quando avevo avuto il mio breve incontro con la morte – e con l’omino – ero rimasto quasi muto. Connolly era un amico, ma non del tipo rassicurante, come Max Winslow. Max riusciva a darti coraggio ed entusiasmo tenendoti la mano. Ma dai una mano da tenere a Connolly e lui ti ci lascerà cadere sopra un attizzatoio rovente. Durante la cena sapevo che stava scaldando l’attizzatoio. Più tardi, al bar, me lo cacciò davanti. «Sei stato troppo taciturno per essere una persona importante. Qual è il problema? L’aureola ti va troppo stretta?» L’attizzatoio scottava. «Myles, sono venuto qui sperando di parlare e se tu vuoi ridere di me mi arrampico su questo sgabello e ti tiro un pugno dritto sul tuo naso bostoniano». «Uh... huh, uh... huh. Come inizio non c’è male. Va’ avanti, ti ascolto». «Non mi importa niente se mi ascolti o se pensi che tutto ciò sia retorico. Il fatto è che i registi hanno il potere di parlare a centinaia di milioni di persone per due ore e al buio. D’accordo. Ma questo regista non sa che cosa cavolo dire. Devo forse smetterla con i film d’intrattenimento e annoiare la gente a morte con i film “messaggio”? Sai che cosa disse Howard Hughes: “Quando voglio mandare un messaggio io uso la Western Union”. Bene, cosa dovrei predicare alla gente per due ore e al buio? Dio, patria, fratellanza, amore materno? Gesù! Sono vecchi cliché consumati». «Bene, bene, bene! Stai crescendo, un poco. Hai una lunga strada davanti, però. Molte grandi opere e libri sono stati scritti su questi vecchi stanchi cliché e sull’avidità, l’ambizione, il fanatismo, l’ipocrisia. Tutto dipende da chi li scrive. Leggi Shakespeare, Tolstoj, il Vecchio Testamento. Ti ricordi che una volta ti dissi che c’era qualcosa nella tua anima contadina che si sforzava di venir fuori, ma che tu avevi troppa paura di lasciar uscire? Bene, io non sono un contadino. Non so che cosa c’è dentro di te che ti fa soffrire. Ma fallo venir fuori. Non come una predica, stupido, ma come spettacolo. Dici che Accadde una notte è stato un caso. Quel film non è stato un caso. Quel film sei tu. Che permetti a qualcosa di venir fuori senza pensarci. E sai cos’altro hai fatto con quel film? No, sono sicuro che non lo sai: hai introdotto una nuova formula scenica. Hai preso il classico vecchio quartetto – l’eroe, l’eroina, il cattivo, il comico – e l’hai ridotto a un trio, unificando l’eroe e il comico in una sola persona. E il pubblico ne va pazzo. Quindi smetti di preoccuparti di dover dire qualcosa di “grande” alla gente. Questo spaventerebbe a morte chiunque. Limitati a raccontare le tue semplici storie sulla gente comune attraverso la commedia. Questa è la tua forza. E vedrai che inconsciamente ci infilerai dentro qualche forma di “messaggio”. Perché ormai non ne puoi fare a meno... stai diventando grande». Poco tempo dopo, Lu e io andammo per un mese a pescare pesce persico sullo splendido San Lorenzo, là dove scorre attraverso le Thousand Islands tra lo Stato di New York e l’Ontario. I Winslow possedevano una casa sul fiume a poche miglia da Alexandria Bay, la famosa stazione termale dei felici anni Novanta. Mi ero portato dietro una valigia piena di materiale da leggere dal
quale scegliere il soggetto del mio prossimo film. All’ancora nelle calde insenature del fiume, circondato da isole verdi di pini – molte erano disseminate di rovine dei lussuosi palazzi costruiti dai magnati dell’epoca nei loro giorni felici – leggevo ogni genere di storie. In particolare lessi e rilessi Anna Karenina di Tolstoj, Delitto e castigo di Dostoevskij, Valley Forge di Maxwell Anderson e Opera Hat di Clarence Budington Kelland. I due romanzi russi mi affascinarono, ma li misi da parte; fondamentalmente perché come regista americano mi sentivo incapace di dirigere personaggi russi. Così mi concentrai sui due soggetti americani: Valley Forge e Opera Hat. Amavo a tal punto Valley Forge che Cohn me l’aveva già comprato. È una delle opere più esaltanti della letteratura americana: la storia delle torture sofferte da George Washington durante quel tristissimo inverno quando la luce della libertà era ridotta agli ultimi bagliori. Ma come nel caso dei classici russi, sentivo che Valley Forge era al di là delle mia capacità. Volevo una storia più vicina ai nostri tempi, sulla gente che conoscevo. Non rimaneva che Opera Hat, sviluppato sulla consueta tematica di Kelland: il ragazzo di campagna che riesce ad avere la meglio sui furbi truffatori della metropoli. Longfellow Deeds, un ragazzo sempliciotto di Mandrake Falls, improvvisamente eredita venti milioni di dollari e un teatro dell’Opera a New York City. Riluttante si reca nella Grande Città a reclamare la sua eredità, solo per trovarsi invischiato nella folla nevrotica che ruota intorno al teatro. La vicenda dell’Opera era un po’ troppo per me. Ma... che cosa farà il ragazzo di campagna Deeds con venti milioni di dollari? Nel bel mezzo della Grande Depressione? E con degli irascibili lontani cugini che cospirano per derubarlo? Questo mi interessava. Telegrafai a Cohn di comprare Opera Hat e chiesi che Riskin scrivesse la sceneggiatura. Vivere con Max e Tillie Winslow, andare a pescare con loro, era gradevole, facile e riposante. A quell’epoca i nostri amici più cari erano i Connolly e i Winslow. Myles e Agnes erano cattolici praticanti. Entrambi avevano una sorella suora. In seguito Mary, una delle loro figlie, prese i voti. Max e Tillie erano invece ferventi seguaci della Christian Science. La domenica li accompagnavamo alla Christian Science Church ad Alexandria Bay; il mercoledì sera andavamo con loro agli incontri religiosi. Imparammo che i Christian Scientist credevano che il peccato, la malattia, il crimine e ogni altra forma di male fossero semplicemente errori della mente «mortale», incompatibili con la perfezione della mente «immortale», come era proclamato da Cristo: «Siate dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro nei Cieli». Lessi Science and Health di Mary Baker Eddy e mi abbonai a uno dei maggiori giornali americani, The Christian Science Monitor. Non c’è dubbio che la «Science» influenzò profondamente la mia vita anche dopo che smisi di frequentare le sue chiese. Max Winslow, pur se incolto, era un uomo intelligente e pieno di tatto. Né lui, né io avevamo più parlato del nostro «omino». (Ci sono cose nella vita di ciascuno, così preziose, così fragili che se le tocchi svaniscono.) La carriera di Winslow era iniziata nei locali popolari come presentatore delle musiche di Tin Pan Alley (una sorta di antenato del disk jockey). Fu davanti alle porte di questi locali che conobbe Irving Berlin; divenne socio di Berlin in una società di edizioni musicali. In seguito fu il segreto «pronubo» in una delle storie più pubblicizzate e seguite sui supplementi dei giornali della domenica: la storia d’amore tra una fanciulla della buona società, Ellen Mackay, figlia del burbero e ricchissimo John William Mackay (miniere di Virginia City, Postal Telegraph), e Isador Baline (al secolo Irving Berlin), nato in Russia, cresciuto nel ghetto, autore di canzonette e cantante nei locali di Bowery Street. Papà Mackay era inorridito. Esiliò Ellen in Europa per un anno e durante questo periodo Berlin scrisse alcune delle sue più belle canzoni d’amore per lei: «Always», «Memories», «All Alone». Terminato l’esilio gli amanti si incontrarono clandestinamente a casa di Max. Lui organizzò la loro fuga e il matrimonio – un matrimonio che è ancora una storia d’amore. Dopo che Berlin liquidò a Winslow la sua parte nella società, Harry Cohn chiese a Max di entrare alla Columbia come consulente musicale (la moglie di Winslow, Tillie, era sorella della
moglie di Cohn, Rose). Per un anno Max aveva rotto le scatole a Cohn perché facesse un«filmopera» con la celebre cantante d’opera Grace Moore. Il suo argomento fisso era questo: «Un film con sei dei più grandi successi musicali del mondo non può che essere un successo in tutto il mondo». Aveva ragione. One Night of Love con la cantante Grace Moore nel ruolo principale, diretto dal compositore Victor Schertzinger (autore di «Marcheta»), ebbe uno straordinario successo in tutto il mondo. Max Winslow fu innalzato al rango di producer alla Columbia e io acquistai un secondo «guru»; il paziente e tranquillo Winslow, contrapposto all’impaziente, irascibile Connolly. Guidato da questi due fari, uno rosso per segnalare le insidie, l’altro verde per segnalare le acque tranquille, mi imbarcai nel primo di una serie di film impegnati socialmente: Mr. Deeds Goes to Town31 (nato Opera Hat), col quale avevo la presunzione di «dire» qualcosa al pubblico per due ore, e al buio. E quello che avevo da dire aveva il dovere di essere valido, perché Mr. Deeds fu il primo film in cui raggiunsi il massimo status nel mondo del cinema. Avevo infatti costretto Cohn a mettere il mio nome sopra il titolo: «Frank Capra’s Mr. Deeds Goes to Town». Da quel momento tutti i miei film avrebbero portato il medesimo possessivo marchio di fabbrica. Com’è potente la virtù dell’onestà! Gli uomini onesti, di ogni razza e lingua, sono apprezzati e amati. Attraggono gli altri come la calamita attrae il ferro. Un uomo onesto porta con sé la sua aura, la sua corona, la sua armata, la sua ricchezza, la sua felicità, il suo stato sociale. Egli racchiude tutto ciò nel più nobile dei titoli: onest’uomo. Tale era Longfellow Deeds di Mandrake Falls, un ragazzo semplice con una piccola attività commerciale e due hobby: suonare la tuba nella banda locale e comporre ingenui ritornelli per il commercio delle cartoline d’auguri. E chi a Hollywood poteva recitare la parte dell’onesto e umile «poeta campagnolo» Mr. Deeds? Un solo attore: Gary Cooper. Ogni linea della sua faccia suggeriva onestà. La sua integrità era così innata che poteva recitare ruoli di impostori senza che lui sembrasse mai un impostore. Alto, scarno come Lincoln, fatto della stessa pasta di uomo di frontiera alla Daniel Boone, Sam Houston, Kit Carson, questo silenzioso cowboy del Montana incarnava le salde virtù che conquistarono il West: la resistenza, l’onestà e l’intelligenza innata. Che cos’è l’intelligenza innata? Non lo so. Credevo di saperlo quando avevo diciott’anni. Il professor Judy, il nostro provocatorio insegnante d’inglese al Caltech, era solito mettere alla prova la precisione della nostra logica con domande scritte su temi apparentemente semplici: «La causa è una donna?», «Descrivete la salute», «Cos’è l’intelligenza?» Sull’ultimo soggetto io presentai questo «pezzo brillante»: L’intelligenza è l’elemento costante della mente umana, così come la velocità della luce è l’elemento costante dell’universo fisico. L’intelligenza non varia mai. L’intelligenza dello scienziato moderno, con tutta la sua conoscenza accumulata, non è maggiore di quella dell’uomo delle caverne, la cui conoscenza era limitata al fuoco, alla ruota e alla clava. Per fare un parallelo con l’equazione dell’universo di Einstein, E=MC2, propongo l’equazione della mente di Capra: P=CI2: PROGRESSO uguale CONOSCENZA per INTELLIGENZA al quadrato. Per dirla più semplicemente questo significa: un minimo aumento nella conoscenza produrrà un enorme aumento nel progresso rimanendo costante l’intelligenza. C.V.D.
Il compito che mi fu restituito era classificato con uno zero grande e grosso, più una nota scribacchiata in inchiostro rosso: «Anche zero è una costante. E sarà il suo voto costante fino a che non imparerà a leggere l’inglese. La domanda era: cos’è l’intelligenza? Se io avessi chiesto che cos’è la corrente del Golfo, lei avrebbe risposto che essa ha una velocità costante di quattro nodi? Judi. P.S.: mi è piaciuta la sua equazione. La dimostri e le daranno due premi Nobel».
Costante o no, non ci volle una grande intelligenza per affidare a Cooper la parte di Longfellow Deeds. Lui era Mr. Deeds. Ma la ragazza? Chi poteva sostenere la parte della venale e arguta giornalista che fingeva di essere una dolce e stupita fanciulla, perduta nella metropoli senza cuore, solo per poter stare vicino al rustico Deeds e scrivere su di lui beffarde esclusive? Lui si innamora di lei, e lei di lui, lentamente, mentre ancora sta scrivendo i suoi articoli canzonatori sul «ragazzo Cenerentola». Avrebbe richiesto una recitazione credibile. E quando Deeds scopre che lei ha fatto ridere tutta la città alle sue spalle, quale attrice avrebbe potuto superare l’invalicabile doloroso abisso che lei aveva creato tra di loro? Nessuna, ovviamente, per quanto ne sapessi. Molte prime attrici chiesero di recitare la parte invertendo la consuetudine del rifiuto che aveva caratterizzato Accadde una notte ma non riuscivo a decidermi. Cominciammo a girare le scene di Mandrake Falls prima che io avessi scelto l’eroina. Stavo aspettando un altro colpo di fortuna; un’altra Stanwyck che entrasse nel mio ufficio. Be’, lei non entrò nel mio ufficio, ma lavorava sul set della Columbia, proprio sotto il mio naso. Non resistevo mai alla tentazione di infilare la testa nella sala di proiezione quando venivano proiettati gli spezzoni di qualcun altro. Entrai dunque in un’oscura sala di proiezione. Scorreva sullo schermo una scena western, un’insolita quieta scena d’amore tra Jack Holt e una ragazza, qualcosa che riguardava un anello, se ricordo bene. Non avevo mai visto prima la ragazza. No, non una ragazza; un’adorabile giovane donna; semplice, reale, vibrante. E quella voce! Bassa, velata, a volte prorompeva piacevolmente nelle ottave più alte come migliaia di campanelli tintinnanti. «Chi è la ragazza?», chiesi ai tecnici seduti al buio. «Jean Arthur», rispose uno. «Brava, vero?» Corsi su nell’ufficio di Cohn. «Jean Arthur?», bofonchiò lui. «Mai sentito parlare di lei?» «Be’, no...» «La situazione è questa. Per tre volte è partita da Broadway nel tentativo di sfondare a Hollywood. Ma niente da fare». Io non volevo rinunciare, aveva le qualità che cercavo. «D’accordo, ascolta», disse Cohn mettendosi a schiacciare pulsanti. «Sentiamo qualche parere». Fece rimbalzare il nome di Jean Arthur da Briskin, Riskin, a Nod, e qualche altro ancora. I responsi: «Brava attrice, ma... ha lavorato alla Paramount, alla Fox, con Selznick... Nessuno le ha fatto un contratto... È mezza matta... È roba già vista... Non ha nessun nome». «Cosa ti avevo detto?», esclamò Cohn. «Non ha un nome». «Ma ha una gran voce, Harry...» «Gran voce? Hai visto la sua faccia? Per metà è un angelo e per l’altra metà un cavallo». «Questo lo sistemerà la camera di Joe Walker. Avevamo un problema di faccia anche con la Colbert. Falle firmare il contratto, Harry. Ho un buon presentimento». Mi girai per uscire. «Non andarle a dire niente», urlò Cohn, «o il suo agente alzerà il prezzo, il furfante!» Aver scommesso all’ultimo minuto su una puledra non ancora affermata dimostrò quanto fossi fortunato: Jean Arthur divenne una star dopo anni di anonimato. Jean Arthur è la mia attrice preferita. Probabilmente perché era unica. Non avevo mai visto un’interprete afflitta da una tale cronica forma di ansia da palcoscenico. Sono sicuro che vomitava prima e dopo ogni scena. Quando le macchine da presa si fermavano correva dritto nel suo camerino, si chiudeva dentro e piangeva. Quando era chiamata per un’altra scena veniva fuori che sembrava uno straccio; girava intorno mormorando una serie di scuse assurde per il fatto di non essere pronta. E non era una posa. Quelle che aveva nello stomaco non erano farfalle. Erano vespe. Ma bastava spingere quella nevrotica fanciulla con fermezza, ma gentilmente, di fronte alla macchina da presa e accendere le luci – ed ecco che quello straccetto lamentoso sbocciava magicamente in una calda e dolce attrica; equilibrata
e sicura di sé. Per citare un tale: «È come se uno scarafaggio fosse diventato farfalla». Finita la scena, correva di nuovo nel suo camerino per vomitare. (Anni dopo, scappò via durante la megaproduzione a Broadway di Nata ieri. Se i produttori l’avessero inseguita, trascinata indietro, e spinta sul palcoscenico anche per una sola rappresentazione, avrebbe offerto loro una recitazione stupenda.) Durante una riunione nell’ufficio di Cohn per discutere la sceneggiatura di È arrivata la felicità, Joseph von Sternberg – che stava girando un film della Columbia con Grace Moore – espose i suoi commenti in modo logico e cortese. «Frankie», mi disse, «non ha senso che il tuo protagonista, il tuo “eroe”, Gary Cooper, continui a suonare la tuba con indifferenza dopo che gli annunciano che ha ereditato venti milioni di dollari! Il tuo eroe diventa un idiota. E non puoi abbassarlo al punto di farlo andar dietro al camion dei pompieri come lo scemo del villaggio, e non puoi metterlo lì a dar da mangiare frittelle a un cavallo perché vuole vedere quante ne mangerà prima di chiedere una tazza di caffè. Gli eroi devono essere nobili, non imbecilli...» L’ex potente signore della Paramount, in quel periodo sulla via del tramonto, era riuscito a fermarsi sulla scivolosa scala del declino e stava producendo alcuni film per la Columbia. «Frank», ragionava con pazienza e serenità, «non puoi lasciare che il tuo eroe venga accusato di pazzia. Questo lo ucciderebbe. Rischi che cominci a crederlo anche il pubblico...» Ma io ormai sapevo quello che tutti i registi seri sanno – andare avanti fino in fondo fidandosi del proprio giudizio istintivo, poiché le decisioni istintive sono tutt’uno col tuo talento. E il talento non si acquista, ma è un dono che viene dall’alto. Quando quello sconosciuto insignificante omino mi aveva salvato dal fiume Stige, quelle poche parole tranquille che aveva mormorato erano state un sacro invito a impegnare il mio talento, poco o tanto che fosse, al servizio dell’uomo. Capii allora che fino all’ultimo dei miei giorni, e all’esaurimento del mio ingegno, mi sarei sentito impegnato. Non esserci sempre riuscito è una prova del fatto che la carne è debole. Questa mia «consacrazione» ha influito sul mio modo di fare i film, o sui rapporti con la gente che ha lavorato con me? Certamente, e in maniera drastica. Cominciando da È arrivata la felicità i miei film dovevano dire qualcosa. E qualunque cosa dicessero, doveva venir fuori dalle idee che avevo dentro e che «soffrivano per uscire allo scoperto». Non avrei più accettato copioni scritti affrettatamente contando sulla mia abilità da «giocoliere» di fare film divertenti; non mi sarei più vantato di poter «filmare l’elenco telefonico» e di riuscire a renderlo comico. D’ora in poi le mie sceneggiature avrebbero impiegato da sei mesi a un anno per essere scritte e riscritte; mi sarei sforzato – con intelligenza – di coniugare ideali e divertimento in una storia significativa. E senza tener conto dell’origine di un soggetto io lo avrei fatto mio; incurante delle divergenze con i dirigenti di studio, sceneggiatori o attori; il pensiero, il cuore, e la sostanza di un film sarebbero stati miei. Si trattava di una nuova forma di arroganza, forse ancor più raffinata? Molte delle persone che lavoravano per me la pensavano così. Ma, che lo crediate o no, si trattava di un capovolgimento di obiettivi: non più usare i film, ma mettersi al loro servizio; da «ciò che va bene per Capra», a ciò che è giusto per la professione. Del resto, impedire che un’idea venisse stravolta dalla creatività delle altre menti, e non ce ne erano due che avrebbero fatto lo stesso film partendo dallo stesso soggetto, richiedeva un isolamento caparbio che, da molti, era considerato offensivo. Secondo me si trattava del concetto di «un uomo, un film» che rendeva possibile la fruizione; in un periodo in cui la struttura di potere del controllo esecutivo era al suo zenit. Io ero l’individualista che chiedeva il controllo totale. Questo significava responsabilità totale. Io l’accettavo. Se un film falliva, io fallivo. Se ne fallivano troppi, io ero finito. D’accordo. Quando un
artista decide di mettersi al servizio dell’uomo e di Dio invece che a quello dell’«industria del cinema», ne accetta le conseguenze. Questo mio nuovo modo di vedere naturalmente influenzò i buoni rapporti che avevo con il mio amico e sceneggiatore Robert Riskin. Lui sosteneva, e giustamente, di avere dato un grande contributo ai miei film precedenti (ed era vero), e che si meritava una maggior fiducia nella realizzazione, come mio collaboratore o qualcosa del genere. Lo dissuasi con fermezza. Allora parlò di diventare regista, per poter tradurre le sue idee in film. Lo incoraggiai e ne parlai a Harry Cohn. In poco più di un anno ottenne la sua prima opportunità. Nel frattempo fece un brillante lavoro con È arrivata la felicità, lasciando intatto quello che io volevo «dire». E qual era il grande messaggio di Mr. Deeds? Nulla di travolgente. Solo questo: un uomo semplice e onesto, messo alle strette da farabutti matricolati, può attingere alle sue naturali risorse e riuscire con la necessaria dose di coraggio, intelligenza e amore a trionfare sul suo ambiente. Questo fu il tema predominante di tutti i miei film successivi (tranne due). Era il grido di ribellione dell’individuo contro il rischio di essere stritolato dalla massificazione – la produzione di massa, il pensiero di massa, l’educazione di massa, la politica di massa, il conformismo di massa. Abbastanza curiosamente ci si poteva aspettare che un tema così serio avrebbe danneggiato il potere di intrattenimento di È arrivata la felicità. Al contrario, lo valorizzò. Molti dissero che era più divertente e brillante di Accadde una notte. Perché? Perché Longfellow Deeds non era solo un simpatico individuo che si muoveva con disinvoltura in situazioni frivole. Era il simbolo reale della profonda ribellione presente in ogni cuore – una rabbia crescente contro la società alienante. E quando fu chiaro che Mr. Deeds sbaragliava la folla di predatori, usando le semplici armi dell’onestà, dello spirito e del coraggio, la gente del pubblico non solo rise, ma fu pronta ad acclamarlo! Longfellow aveva colpito con forza in difesa della loro individuale dignità e divinità. Anche le mie personali paure che È arrivata la felicità potesse rivelarsi troppo provinciale e americano – troppo «crostata di mele» – si rivelarono infondate. Gli effetti erano gli stessi e sempre esilaranti a Ulan Bator in Mongolia e ad Allentown, Pennsylvania. Evidentemente quello che suona vero in un cuore ha lo stesso suono in tutto il mondo. A Hollywood Mr. Deeds portò i germi del cambiamento. Ai tempi del muto pochi registi – quelli che possedevano le propria società di produzione come Griffith, Ince, DeMille, Chaplin – avevano il loro nome sopra il titolo dei film e dei nomi delle star, ad esempio «D.W. Griffith’s Birth of a Nation». Ma, se la memoria non mi tradisce, fui io il primo regista americano «dipendente» a ottenere «Frank Capra’s Mr. Deeds Goes to Town», e a essere segnalato sopra il titolo del film e i nomi delle star nei cartelloni all’ingresso dei cinema. Il concetto di «un uomo, un film» prese piede, si affermò lentamente – contro la battagliera opposizione dei dirigenti arroccati – e oggi sono numerosi i registi che hanno un loro valore di mercato non meno importante di quello delle star. È arrivata la felicità fu molto amato dal pubblico, e l’Academy lo candidò per quattro delle maggiori categorie: miglior film, miglior attore, miglior regista, miglior sceneggiatura. Ero sicuro che È arrivata la felicità avrebbe vinto tutti e quattro questi Oscar. Ma la competizione era tremenda: Avorio nero, Infedeltà, Il paradiso delle fanciulle, Romeo e Giulietta, San Francisco, La vita del dottor Pasteur, Le due città, L’impareggiabile Godfrey. Alla nona edizione dell’Academy Award Banquet (febbraio 1937) il riconoscimento per il miglior film andò al Paradiso delle fanciulle, prodotto dalla MGM; Luise Rainer per lo stesso film fu premiata come miglior attrice; La vita del dottor Pasteur procurò il premio per il miglior attore protagonista a Paul Muni e quello per i migliori sceneggiatori a Pierre Collings e Sheridan Gibney. Salvai dall’esclusione È arrivata la felicità vincendo il mio secondo Oscar come miglior regista. Soddisfazione e delusione andavano di pari passo. Se qualcuno si meritava l’Oscar, questi erano Gary Cooper e Robert Riskin. Ma... Academy, il tuo nome è capriccio. Parlando dell’Academy,
lasciate che vi racconti gli sforzi compiuti dall’interno per tenere in vita la prestigiosa organizzazione. Alla fine del 1935 (durante la preparazione di È arrivata la felicità), il consiglio dei governatori dell’Academy of Arts and Sciences mi concesse il dubbio onore di eleggermi presidente. Dico «dubbio» perché voleva dire presidiare la sua veglia funebre. L’Academy era diventata il capro espiatorio preferito di Hollywood; il numero dei suoi iscritti era sceso da seicento a quaranta; i suoi funzionari erano devoti ma scoraggiati; il suo personale ridotto alla leale, sottopagata, segretaria esecutiva Margaret Herrick – l’alter ego dell’Academy. Con pochi dollari in cassa – e ancor meno in vista – le probabilità erano dieci a uno che l’Academy avrebbe chiuso i battenti e l’Oscar avrebbe acquistato la patina dell’oggetto da collezionista. Perché? Perché la struttura poliarchica dell’Academy – governata da amministratori, tecnici e creativi – era coinvolta nel primo conflitto sindacale di Hollywood tra il management e il talento. Le società di produzione avevano tutti i poteri fuorché quello di chiedere alla Guardia Nazionale di proibire ad attori, scrittori e registi di organizzarsi in sindacati. I sindacati erano organizzati. Ma il loro assedio alle fortezze delle società sarebbe durato cinque lunghi anni di lotte e scioperi prima che il management accettasse i sindacati in qualità di agenti che contrattavano il talento. Nel 1935 la lotta era in pieno svolgimento. L’attore Ronald Reagan, lo scrittore John Howard Lawson, e il regista King Vidor conducevano la battaglia per le loro rispettive corporazioni. Parte della loro strategia consisteva nel distruggere l’Academy allo scopo di sottrarre alle società i profitti derivati dalla pubblicità della vincita degli Oscar. Sembrava che ai miopi dirigenti delle società non importasse nulla, forse perché l’Academy non aveva funzionato quando si era trattato di tagliare i salari durante la crisi della chiusura delle banche. Ritirati adesione e supporto finanziario, avevano lasciato la derelitta organizzazione alle cure dei pochi fedeli utopisti dedicati alla promozione culturale delle arti e delle scienze nella cinematografia e alla continuità dell’assegnazione degli Oscar, il mezzo più prezioso e meno dispendioso di pubbliche relazioni su scala mondiale mai inventato da qualunque industria. È un onore citare i nomi dei pochi sconosciuti idealisti che sostennero la battaglia economica per impedire la distruzione dell’unico bastione in difesa della cultura di Hollywood: scrittori come Howard Estabrook, Jane Murfin, Waldemar Young, Edwin Burke; produttori come David O. Selznick, Darryl F. Zanuck, Sam Briskin, Fred Leahy, DeWitt Jennings, Graham Baker; attori come Clark Gable, Lionel Atwill; tecnici come Nathan Levinson, John Arnold, Van Nest Polglase; registi come Cecil B. DeMille, Frank Lloyd. Questo gruppo mi scelse come guida nella lotta per la sopravvivenza dell’Academy. Sei mesi prima li avrei mandati a quel paese. Io avevo già ottenuto la mia manciata di Oscar. Che si agitassero gli altri. Prima di incontrare l’omino l’argomento «pensa a te stesso» era stato un articolo di fede del mio credo. Ma da quando ero stato costretto ad accettare il fatto che preoccuparsi solo di se stesso, era ben poca cosa rispetto al valore di servire l’uomo, avevo iniziato a prendere a cuore anche i sogni degli altri. Bene, quando i devoti funzionari di un’Academy moribonda mi chiesero di diventarne il presidente, che cosa mi spinse ad accettare immediatamente la proposta: l’orgoglio o lo spirito di servizio? Non lo so con certezza. Ma quello che sapevo con certezza era che il prossimo Academy Awards Banquet del marzo 1936 si presentava oscuro e minaccioso, e che le cose potevano peggiorare e peggiorare ancora. Le voci di un possibile boicottaggio si moltiplicavano. I funzionari dei sindacati degli attori e degli sceneggiatori mandarono telegrammi a tutti i loro membri invitandoli a non partecipare alla cerimonia e a non accettare gli Oscar. Per incoraggiare la partecipazione noi reagimmo persuadendo il gigante di tutti i registi, D.W. Griffith, a uscire
dall’ombra in cui si era ritirato e accettare una speciale statuetta per il suo leggendario pionierismo nel cinema. Il nome di Griffith fu magico. Il boicottaggio fallì. Bette Davis era presente a ricevere il suo trofeo di miglior attrice per Paura d’amare, Victor McLaglen ritirò il premio di miglior attore per Il traditore. Ma né John Ford, né Dudley Nichols, premiati per la regia e la sceneggiatura del Traditore si fecero vedere. Ford in seguito accettò il premio. Nichols invece no. In un giornale specializzato fu riportata la sua dichiarazione: «Accettarlo avrebbe significato tradire quasi un migliaio di membri del sindacato degli sceneggiatori...» A forza di preghiere e miracoli, con i membri del consiglio che pagavano di tasca propria le statuette, e grazie al fatto che andavo in giro a mendicare favori – ogni anno dovevo implorare i funzionari del sindacato perché mi autorizzassero a inviare le schede di votazione ai loro membri – riuscimmo a mantenere in vita l’Academy fino al 1939. Si ebbe allora una massiccia trasfusione di sangue fresco. Gli scrittori e gli attori – avendo firmato il nuovo accordo strappato alla direzione delle società – tornarono in massa all’ovile. L’Academy fu riorganizzata in un’istituzione autonoma che aveva come unico scopo il perseguimento di obiettivi culturali. Alla fine del 1939, quando l’Academy aveva ripreso a respirare ed era sufficientemente in forma per affrontare le elezioni, mi ritirai dalla presidenza – dopo essere stato in carica per cinque anni – solo per ricevere un grande riconoscimento dai miei colleghi registi. Mi elessero presidente del sindacato registi. Credo che avessero bisogno di nuova forza per obbligare le società di produzione a firmare il loro primo accordo di minima con i registi. 30. Accadde una notte, 1934. 31. È arrivata la felicità, 1936.
10. BUTTA VIA LE PRIME DUE BOBINE
È affascinante pensare a come nascono le idee dei film: da lavori teatrali, da libri, dalla Bibbia, da racconti, dai giornali, dalle discussioni con tua moglie. L’ispirazione per il soggetto di quello che io considero il mio film migliore mi è venuta da un biglietto d’auguri natalizio. È incredibile come certe idee facciano centro nella tua immaginazione: così accadde con il soggetto che utilizzai per il film successivo a È arrivata la felicità. Poco prima dell’inizio delle riprese di È arrivata la felicità, Harry Cohn aveva invitato un gruppo di amici dello studio all’incontro di football tra Stanford e University of South California, che si giocava a Palo Alto. Stavo cercando qualcosa da leggere in treno all’edicola della stazione, quando vidi un libro che Alexander Woollcott aveva elogiato in una trasmissione radiofonica: Orizzonte perduto, scritto dall’inglese James Hilton. Lo lessi. Ma la cosa non finì lì, ci fantasticai sopra tutta la notte: quel che mi aveva affascinato di più era stato l’incontro tra il ministro degli esteri inglese rapito e il bicentenario Dalai Lama di Shangri-La, uno sperduto monastero tibetano dove un gruppo di persone, le più disparate, vivevano fino a età incredibili, inseguendo un sogno assurdo! In questo coinvolgente passaggio il Dalai Lama spiega il progetto e l’obiettivo di Shangri-La, e il motivo per cui Conway, brillante e sensibile intellettuale, è stato scelto e rapito al mondo per sostituire il Dalai Lama, ormai in fin di vita, nella realizzazione di questo sogno. Il monaco racconta di aver visto svilupparsi nelle nazioni l’istinto di sopraffazione. Ha visto le loro macchine da guerra moltiplicarsi fino al punto di rendere potente come un intero esercito un unico uomo armato. Ha previsto un tempo in cui l’uomo, reso folle dalla sua tecnologia omicida, si sarebbe scatenato sul mondo e ogni valore sarebbe stato in pericolo; un tempo in cui ogni libro, ogni tesoro avrebbe rischiato la distruzione. In previsione dell’olocausto, Shangri-La stava raccogliendo e conservando da quasi due secoli le ricchezze prodotte dall’intelligenza dell’uomo e la saggezza accumulata nei secoli. «Tu, figlio mio», dice il Dalai Lama allo stupefatto inglese «sopravviverai alla tempesta. Sarai il custode della memoria storica, e l’arricchirai con la tua mente. Accoglierai lo straniero stanco e gli insegnerai le leggi della saggezza. E quando i sopravvissuti esausti, affranti e derelitti, cominceranno a cercare consolazione e comprensione, le troveranno qui, nelle braccia spalancate di Shangri-La!» Non è un tema attuale? Il mattino dopo, durante la prima colazione nella carrozza ristorante del treno, mostrai il libro a Harry Cohn, gli dissi che era la storia più coinvolgente che avessi mai letto, e che mi doveva subito comprare i diritti sul libro. Lui ascoltò e rispose facendo pronostici sull’incontro di football. Continuai dicendo che c’era solo un attore in grado di recitare il ruolo principale, Ronald Colman, e che il film sarebbe probabilmente costato due milioni di dollari. Lasciò cadere la forchetta. «DUE MILIONI? Cristo, è la metà del nostro budget annuale!» Nessun film della Columbia fino a quel momento era costato più di un quarto di quella cifra. Ma ero così eccitato che Cohn per calmarmi mi promise di comprare l’opzione sul libro per sei mesi nell’attesa dei risultati degli incassi di È arrivata la felicità. È arrivata la felicità ebbe un grande successo commerciale, così Cohn incrociò le dita, baciò il mezuzah e sganciò i due milioni, dimostrando di essere mezzo matto, ma anche un gran giocatore
d’azzardo. Due milioni di dollari! Cinque volte il budget di È arrivata la felicità e tutti da spendere per una storia irreale, al di fuori di qualunque tradizione o filone di moda. I dirigenti della Columbia di New York decisero che Cohn era completamente folle. Ma ancor più di me e senza neppure aver letto il libro, Cohn sentiva che c’era qualcosa in Lost Horizon.32 Questo è il modo in cui vengono fatti i film a Hollywood: giocando d’azzardo. Ma la mia mano tremava mentre mi preparavo a lanciare i dadi. Bob Riskin e io tornammo al nostro deserto per programmare la sceneggiatura. Avevamo affittato un cottage in mattoni rossi dello splendido Hotel La Quinta, una fresca oasi verde annidata tra le pendici rocciose del Santa Rosa Mountain, là dove si tuffano – nude e rosate – nelle calde onde delle dune del deserto. Questo piacevole luogo sarebbe diventato in futuro il nostro ShangriLa, dove ci saremmo sempre ritirati a scrivere. Lasciai che Riskin si occupasse della sceneggiatura, e cominciai una ricerca approfondita sul Tibet: monasteri, lama, monaci, popolazione; abitudini, costumi, cibo, oggetti d’arredamento; animali, mezzi di trasporto, armi, strumenti musicali. Fortunatamente riuscimmo a ottenere la collaborazione di Harrison Forman, famoso esploratore, scrittore e fotografo di quella regione sconosciuta. Attaccammo centinaia di fotografie di Forman sulle pareti delle due stanze, ottenendo una ricostruzione pittorica del misterioso Tibet, l’isolato tetto del mondo, dove la gente vive tra le altitudini innevate. Le foto illustravano l’ambiente fisico e umano del luogo, la peculiarità dei costumi culturali, religiosi ed etnici, le ruote di preghiera e le feroci deità. Era governato da due massime autorità: il Dalai Lama (la reincarnazione del Bodhisattva) e il Panchem Lama (la reincarnazione del Buddha di Luce). Alla morte di ciascuno dei due, lo spirito trapassa direttamente nel corpo di un bimbo appena nato. Era una terra dura ed esigente: le merci venivano trasportate sulla schiena dei portatori e delle bestie da soma che affrontavano le tormente e le tempeste di ghiaccio avanzando in fila sugli alti passi. E ancor più esigente era la religione: la preghiera Om mani padme hūm veniva ripetuta incessantemente. Il primo problema da superare fu la ricostruzione di Shangri-La, uno splendido monastero che dominava da una cresta della montagna la calda valle della Luna Azzurra: un paradiso terrestre separato dal mondo e protetto da una corona di alti picchi, dove il tempo trascorreva imperturbabile e immisurabile. Gli abitanti di questo Eden guardavano il tramonto con la stessa indifferenza con cui nel mondo esterno si ascoltano i rintocchi dell’ora. Shangri-La era nascosto tra le montagne inesplorate dell’Himalaya, migliaia di chilometri lontano da tutto. Quelli che accidentalmente capitavano nelle sue vicinanze, avrebbero potuto penetrarvi arrampicandosi a fatica su per una pista intagliata nella roccia e nel ghiaccio tra strapiombi così ripidi ed esposti alla furia dei venti gelidi che l’accesso alla valle (una fenditura segreta nelle montagne) non era neppure custodito. Ricostruimmo in miniatura l’inaccessibile Valle della Luna Azzurra, col suo tranquillo villaggio adagiato presso un corso d’acqua, dominato dall’alto dal monastero. Costruimmo i muri esterni a grandezza naturale nel «ranch» della Columbia a Burbank; delle mura soleggiate, ricoperte di rampicanti secolari carichi di fiori profumati; la larga scalinata che portava all’ampio portico; le distese di tetti bianchi che splendevano al sole. Shangri-La, il luogo dove il tempo era immobile, le voci un mormorio leggero; dove i fiori offrivano la loro fragranza alla pace, e le fontane circondate dall’arcobaleno mormoravano in armonia con la musica evanescente dei piccolissimi flauti di bambù legati alle zampe delle colombe in volo. Stephen Goosson, l’art director, fece un lavoro magnifico con la scenografia di Orizzonte perduto. I suoi schizzi ricchi di colore e i disegni di Shangri-La e della sua gente sono ancora conservati dai collezionisti.
Rifacendosi alle fotografie di Harrison Forman fu facile disegnare i costumi tibetani. Ma dove si poteva trovare la gente che li indossasse? I tibetani sono orientali, ma più alti e con gambe più lunghe dei cinesi o dei giapponesi. Ancora una volta utilizzammo le nostre riserve, gli indiani Pala delle montagne di San Diego. (Anni dopo, ero ospite del regista indiano Chetan Anand nella sua casa in riva al mare vicino a Bombay. Voleva sapere in quale luogo del Tibet avessi girato il suo film favorito, Orizzonte perduto. Fu sorpreso quando seppe che non avevo mai messo piede in Tibet. Ma quelli erano tibetani veri, insistette. No, dissi io, erano indiani d’America. Non volle crederci e sosteneva che, visitando un certo monastero tibetano, aveva letto tutto quello che riguardava la realizzazione di Orizzonte perduto nei suoi «libri segreti».) Poi sorse il problema di trovare degli yak. Lo yak per i Tibetani è quello che l’asino da soma era per gli antichi abitanti dell’America dell’ovest. Per cercare di copiare gli yak ricoprimmo in qualche modo i vitellini con coperte dal pelo lungo che arrivavano agli zoccoli. E per imitare i piccoli cavalli tibetani ricoprimmo di peli le gambe e il petto dei pony Shetland. Gli strumenti musicali tibetani ci avrebbero messo in crisi, se non fosse stato per il signor Henry Eichman, un collezionista californiano di autentici strumenti musicali tibetani, che generosamente ce li mise a disposizione. Alcune delle sue trombe erano lunghe anche un metro e mezzo e un corno antico e consumato dal tempo proveniva dal sacro tempio di Lhasa. E ora, la scelta degli attori. Se il Dalai Lama si fosse dato la pena di girare il mondo in cerca dell’uomo destinato a portare avanti la sua visione di Shangri-La, avrebbe scelto Ronald Colman. Di notevole bellezza fisica e spirituale, sensibile e delicato, capace di reagire tanto a una visione poetica della vita che alla fredda logica dell’intelligenza, il colto Ronald Colman sembrava fatto apposta per impersonare il ministro degli esteri rapito, in grado di comprendere le ragioni del suo rapimento. I passeggeri dell’avventuroso volo diretto in Inghilterra e dirottato nel Tibet erano dunque Ronald Colman, il suo sciovinista fratello minore – del genere «ci sarà sempre un’Inghilterra» – John Howard, un pignolo paleontologo, Edward Everett Horton, un industriale rampante americano in fuga, ricercato per malversazione, Tommy Mitchell, e una povera prostituta americana, buttata fuori dalle taverne del porto di Shangai e finita come un relitto a Hong Kong, sul punto di morire di tubercolosi, Isabel Jewell. Questi attori erano tutti noti, e andava bene, perché rappresentavano personaggi del nostro mondo. Ma quelli di Shangri-La, che appartenevano a un altro mondo, avrebbero dovuto essere, se possibile, degli sconosciuti. Fummo fortunati per quanto riguardava le ragazze. Una, l’elegante donna bianca di ShangriLa, legata sentimentalmente a Ronald Colman, fu interpretata da Jane Wyatt, una studentessa del Barnard College, giovane attrice di teatro, apparsa solo in un paio di ruoli secondari. L’altra, la cattiva, è una donna di sangue misto che dimostra vent’anni ma in realtà ne ha più di sessanta e mente sulla sua vera età per fuggire con il fratello di Colman, John Howard. La sua menzogna distrugge la fede di Colman in Shangri-La. Egli decide di partire con loro. Ma poi, quando i tre si perdono nell’immensità incontaminata che circonda la valle, la ragazza improvvisamente diventa vecchia e muore davanti ai loro occhi. Sconvolto dall’orrore John Howard si butta in un precipizio. Ma Colman ritorna a credere, e decide di andare avanti attraverso la furia delle tempeste, cercando di trovare la strada di Shangri-La. La ragazza che si trasforma in vecchia fu splendidamente interpretata da una giovane ballerina messicana praticamente senza alcuna esperienza di cinema, Margo. In compenso la ricerca del Dalai Lama ci mise in crisi. Quale faccia sconosciuta avrebbe potuto interpretare verosimilmente il vecchio visionario, un prete belga capitato per caso nella Valle della Luna Azzurra duecento anni prima? La nostra prima idea fu quella di trovare qualche vecchissimo e dimenticato attore di teatro che
non fosse mai apparso in un film. Ne trovammo uno che viveva dalle parti di San Gabriel Valley. Portammo il novantenne ex attore in studio per un provino e gli facemmo leggere uno dei discorsi del Dalai Lama a Ronald Colman. Il giorno dopo lo proiettammo sullo schermo: era perfetto, così com’era senza nessun trucco. Gli telefonammo a casa per dirgli che era stato scelto per la parte. La sua governante pianse di gioia. Un’ora dopo ci richiamò. Piangeva di dolore. Il vecchio signore, appena sentita la notizia, era morto. Era morto in pace, contento. La chiamata da Hollywood, così lungamente attesa, era arrivata. Aveva sorriso di gioia ed era morto. Il candidato successivo fu Henry B. Walthall, il piccolo colonnello di Nascita di una nazione. Il vecchio, fragile e debole morì prima che potessimo fargli un provino. La ricerca continuò. In due spettacoli di Broadway, The Jazz Singer e A Doll’s House, avevo notato l’attore Sam Jaffe, che aveva recitato anche con la Ben Greet Shakespearean Company. Ma Jaffe aveva solo trentotto anni. Sarebbe riuscito l’odiato trucco a rendere credibile un’età di duecento anni? Effettivamente anche senza trucco aveva l’aria del profeta biblico: folte sopracciglia, viso tormentato, un lungo naso semitico, occhi accesi e capelli incolti. Imbiancandogli quei capelli e aggiungendogli uno strato di pergamena sul viso facemmo una prova. Utilizzando una parte minima della sua capacità polmonare, Jaffe riuscì a rendere quasi inudibile la sua voce; così inudibile che i potenti microfoni di studio registrarono i gorgoglii di stomaco della troupe. Ci saremmo dovuti tutti sottoporre a una dieta antigorgoglii. Le parole di Jaffe erano deboli, ma l’intensità che comunicavano era forte – le ultime parole di un profeta che lasciava in eredità la sua missione. Capimmo subito di aver trovato il nostro Dalai Lama. Come secondo Lama, quello che eludeva domande tipo «Perché siamo stati trascinati in questo luogo sperduto?» con arguzia e grande senso dell’umorismo, utilizzammo H.B. Warner, ottimo attore dotato di grazia raffinata e sottile. In questo modo, per quel che riguardava le parti principali, il nostro cast era al completo. Ora, per decidere l’impianto scenico della storia, dovevamo affrontare l’«attacco» del film. Orizzonte perduto era una rappresentazione allegorica, una saga poetica. Se il pubblico si accorge di quello che gli stai offrendo prima di essere «condizionato», si infastidisce e si ritrae. Questa è la ragione per cui i film su Lincoln, sui santi, su Cristo sono pericolosi. I cineasti li avvicinano con troppo rispetto. Gli attori incominciano a indossare l’aureola prima di essersela guadagnata. Avrei evitato questo pericolo. Le scene iniziali sarebbero state completamente realistiche, quasi un documentario. Ogni dettaglio doveva sembrare autentico, essere autentico: l’incendio di Baskul, la fuga in aereo dai cinesi in rivolta, il rifornimento di carburante presso le tribù mongole, il volo tra le cime innevate dell’Himalaya, la caduta sul ghiacciaio, la massacrante scalata attraverso accecanti tempeste di ghiaccio fino Shangri-La, tutto doveva sembrare vero. Il ghiaccio, la neve, le montagne, le tempeste, e in particolare il freddo non dovevano apparire come trucchi. Questo significava che il fiato degli attori si doveva vedere e quindi bisognava girare a una temperatura inferiore allo zero. Ma dove? Mi venne un’idea folle, troppo assurda per poterne parlare a chiunque. Con l’assistente alla regia Art Black feci un giro segreto nel cuore industriale di Los Angeles per verificarla. E lì trovammo il luogo. Un magazzino di deposito freddo e isolato, di quarantacinque metri per ventidue e alto circa otto metri, un piccolo teatro di posa con una temperatura di zero gradi. Due operai stupiti ci mandarono di sopra dove parlammo al capo. Sarebbe stato possibile affittare il magazzino come teatro di posa per alcuni mesi? Per poco non ci scoppiò a ridere in faccia. Mancava l’elettricità, non c’era ventilazione ed era pieno per metà di pescispada congelati, accatastati come pezzi di legna. «E l’altra metà», aggiunse, «ci serve come deposito per le macchine della neve artificiale...»
«Macchine per la neve artificiale? Di cosa si tratta?» «Grandi macchinari che triturano pezzi di ghiaccio in neve sottile, e la soffiano sul pesce...» Evviva! Neve vera! Me la vedevo davanti, neve vera che cadeva e veniva soffiata dal vento. Ci costò una fortuna, ma affittammo il magazzino del ghiaccio e lo trasformammo in un set perfettamente funzionante. Per sei settimane girammo tutte le nostre scene fredde (circa un quinto del film) a temperature polari, mentre all’esterno la temperatura superava i trenta gradi. Ma ci toccò risolvere un mare di problemi tecnici. La pellicola fredda, girando nella macchina da presa, sviluppava energia statica annebbiando i fotogrammi. Ricoprimmo allora le bobine con delle guaine scaldate elettricamente. E poi cercammo un nuovo olio lubrificante antigelo per tutti i motori. La grande differenza di temperatura tra «acceso» e «spento» faceva bruciare le prese di corrente e mandava in frantumi le lampadine. I cavi elettrici di gomma si indurivano, si screpolavano e andavano in corto circuito. Le mani degli elettricisti gelavano sul metallo freddo. Gli attori temevano di prendere la polmonite continuando a passare dal caldo al gelo. Sì, di problemi ce n’erano. Ma in quel magazzino girammo le scene interne dell’aereo, la sua caduta, le scalate nella tormenta, la slavina che aveva seppellito i portatori, la scena di Margo che invecchia di colpo, il suicidio di John Howard, e il sovrumano vagabondaggio di Colman alla ricerca del perduto ShangriLa. Con macchine per il vento e macchine per la neve ricostruimmo il rigore artico dell’Himalaya. La neve su cui gli attori avanzavano scricchiolando era neve; le ondulate superfici di ghiaccio scintillavano come se fossero state vere, perché erano vere. E il problema del fiato, che una volta avevo penosamente risolto mettendo del ghiaccio secco in bocca agli attori, si risolse naturalmente. Il sistema per ottenere la condensazione del fiato, i nasi rossi e le sopracciglia gelate era così ovvio che nessuno ci aveva pensato: abbassare la temperatura. La sala di proiezione dello studio era affollata di amici stipati nei sedili e accalcati lungo le pareti. Erano venuti per partecipare ai funerali o, a scelta, per celebrare il trionfo di Cohn – il Cesare, che aveva speso due milioni di dollari per un solo film (tanto quanto erano costati gli altri venti girati quell’anno). L’aria era carica di speranze e di timori. Si abbassarono le luci, il titolo Orizzonte perduto apparve sullo schermo. Tutti trattennero il fiato. Era la battaglia decisiva nello scontro sempre duro che opponeva il presidente Cohn, gran giocatore d’azzardo, ai suoi partner conservatori di New York. Se Orizzonte perduto faceva fiasco, Cohn il Duro doveva andarsene. Può sembrar strano, eppure in quel momento quello che mi preoccupava non era il film, ma la colonna sonora. Mi ero affidato a un compositore che non aveva mai lavorato prima per il cinema – Dimitri Tiomkin, un ex concertista nato in Russia. I dirigenti dello studio si erano levati come un sol uomo contro quello che definivano un rischio stupido e inutile. Ma qualcosa mi diceva che Tiomkin avrebbe saputo creare una musica nuova e vigorosa. Il nervoso musicista russo mi chiese più volte un giudizio sulle sue composizioni. Io mi rifiutavo di farlo perché quello che volevo era la sua musica, non la mia. Mi cautelai contro un possibile disastro chiedendo a Max Steiner, il grande compositore della Warner Brothers, di dirigere la partitura di Tiomkin. Sapevo che se il vecchio Steiner l’avesse giudicata inadeguata avrebbe finito per riscriverla velocemente lui stesso. Spinto dalla curiosità ero scivolato nella sala di registrazione quando Steiner provava per la prima volta la musica dei titoli di testa. Ero uscito raggiante. E dopo essere rimasto seduto per tre ore in quell’affollata sala di proiezione, ero ancora raggiante. La musica di Tiomkin non solo aveva saputo cogliere lo spirito del film, ma, dannazione, per poco non se l’era divorato. Si riaccesero le luci in sala. Il pubblico accalcato rimase silenzioso e immobile per un attimo che sembrò lunghissimo. Alla fine Dorothy Howell, la mia prima sceneggiatrice alla Columbia,
ruppe l’incanto: «Se questo non è il più bel film che abbia mai visto, mi mangio la pellicola». Si scatenò un coro di commenti entusiasti. Cohn sollevato se ne uscì con una tipica espressione: «Ho qualcosa da dirvi, miei cari. Per tre ore non ho mosso il culo una sola volta». La gente intorno si mise a ridere. Tutti sapevano che Cohn giudicava i film dal suo modo di stare seduto. Il suo didietro era il giudice. Quando si annoiava e incominciava ad agitarsi, diceva a Cohn che il film era un fiasco. Ordinò subito ai dirigenti della Columbia di New York e ai membri del consiglio d’amministrazione di volare a Hollywood per fare una confessione pubblica e riconoscere che le loro critiche erano state ingiuste. I megadirigenti intimoriti sarebbero arrivati lunedì mattina. Ma l’astuto Cohn volle essere certo che quello del film non era solo un fuoco di paglia (come quei cavalli che corrono come fulmini quando sono cronometrati, ma si fermano e aspettano quando corrono contro altri cavalli), organizzò quindi un’anteprima segreta per la domenica sera in un’elegante sala di Santa Barbara. «Se Orizzonte perduto riesce a conquistare gli snob di Santa Barbara, vuol dire che tengo in pugno quelli di New York». Era freddo e pioveva forte a Santa Barbara quando io, Lu, Cohn e la sua nuova moglie Joan (un’adorabile giovane attrice della Columbia), scendemmo dalla Rolls e ci mescolammo alla folla che entrava. Per l’eccitazione avevo dimenticato il cappello e il soprabito in macchina. Ma che importava? Accolsi la pioggia come un portafortuna. Praticamente in tutti i miei film ci sono scene sotto la pioggia, soprattutto le scene d’amore. È un mio tocco personale. La pioggia per me è eccitante e stimolante, una sorta di afrodisiaco. Deve avere le sue origini dalla cantilena contadina che mio padre ripeteva felice ogni volta che pioveva: «L’aqua veni! L’aqua veni!» Di fronte al teatro le lancette di un grosso orologio segnavano le otto e cinquantacinque. Sopra il tendone, un grande striscione annunciava: «Questa sera anteprima di una grande casa di produzione!» Dannazione se è grande sorrisi tra me e me. Il pubblico delle anteprime non conosceva in anticipo il titolo del film o il nome della casa di produzione. Ma l’esperienza aveva insegnato loro a prevedere la qualità di un film dal simbolo che appariva sullo schermo all’inizio: per esempio il ruggito di Leo il Leone, o la montagna circondata dalla stella della Paramount, di solito provocavano un applauso anticipatorio – probabilmente anche perché queste compagnie si procuravano la loro claque. Quando Orizzonte perduto attaccò con il simbolo della signora con la torcia della Columbia, le nostre due mogli e Cohn si misero ad applaudire freneticamente, ma il loro applauso si perse tra i mormorii di disappunto del pubblico. La signora con la torcia era ancora sinonimo di mediocrità. Ma noi c’eravamo abituati ed eravamo decisi, col tempo, a trasformare quei mormorii in applausi. Il pubblico di Santa Barbara rimase silenzioso per i primi dieci minuti. Poi incominciò a ridacchiare là dove non erano previste risatine. Le risatine divennero scoppi di risa. Incominciai a sudare freddo. Il fondoschiena di Cohn si agitava così tanto che la sua seggiola scricchiolava rumorosamente. Terrorizzato scivolai fuori dalla sala e corsi al foyer in cerca di un bicchier d’acqua. Un elegante signore di Santa Barbara aveva avuto la stessa idea. «Dopo di lei, prego», gli dissi alla fontanella. Mentre si chinava a bere mi guardò e disse: «Ha mai visto una tale porcheria cinese? Bisognerebbe sparare a chi l’ha fatto». Mi precipitai fuori dalla porta sotto la pioggia. Le lancette del grande orologio segnavano le nove e dodici. Gelato di sudore e di pioggia andai verso la macchina di Cohn per cercare il cappello e il soprabito. La macchina era chiusa. Mi avviai lungo la strada deserta con la testa annebbiata. Apparve un bar illuminato in mezzo alla pioggia. Entrai, mi buttai su uno sgabello e ordinai una Coca. Doveva essere un brutto sogno. Perché la mia splendida e poetica saga – che mi era costata un intero anno di lavoro, lo stesso film che nella sala di proiezione dello studio avevamo trovato così emozionante – veniva derisa e ridicolizzata a Santa Barbara?
Non ricordo quante volte feci il giro dell’isolato e rientrai nel bar a bere una Coca, o pensai di arrampicarmi su quell’orologio stradale e far girare le sue beffarde lancette fino alle dodici e un quarto, ma, come Dio volle, il pubblico che era rimasto in sala fino alla fine si riversò sulla strada e corse sotto la pioggia verso le macchine. I loro commenti sul film e le frasi di scherno pronunciate a voce alta cadevano (per parafrasare Ring Lardner) come manciate di terra sopra la mia bara. L’anteprima era stata un massacro. Orizzonte perduto era un film improponibile. Per due giorni non feci altro che camminare per la città in stato di ipnosi. Ricostruivo mentalmente tutto il film, scena dopo scena, parola per parola, cercando un’inafferrabile spiegazione psicologica: perché il film era sembrato affascinante a una platea ristretta e ridicolo agli occhi del grande pubblico? La mattina del terzo giorno tornai di corsa allo studio, mi precipitai nella sala di montaggio e ordinai a Gene Havlick, il mio editor, di togliere i titoli di testa dall’inizio della prima bobina e montarli all’inizio della terza. Nient’altro. Il film in questo modo sarebbe durato venti minuti in meno; la scena iniziale diventava quella dell’incendio di Baskul. Poi corsi da Cohn. Aveva delle occhiaie paurose. Gli parlai di quell’unica modifica che avevo fatto e gli dissi che volevo un’altra anteprima quella sera stessa. «Frank, io non posso tenere nascosta un’altra anteprima a quelli di New York. Sono già sospettosi. Facciamogli vedere il film qui in studio». «No, Harry, sappiamo già che a un piccolo gruppo il film piacerebbe. Il test va fatto con la folla di un grande teatro». «Dannazione, ma lo sai che cosa significa un altro disastro come quello di Santa Barbara per la Columbia?» «Sì, la distruggerebbe, e distruggerebbe te... e anche me». «Che cosa ti rende tanto sicuro che gettar via le prime due bobine possa servire a qualcosa?» «Non sono affatto sicuro che funzionerà. Ma è l’unico cambiamento che sono riuscito a pensare in tre giorni insonni. Facciamo un’altra anteprima, e invita pure i tuoi partner di New York». Cohn camminava avanti e indietro come una tigre in gabbia. La decisione era ardua. Ma non aveva alternative. Aveva la bocca schiumante e le labbra contorte quando si fermò e disse: «Brutto figlio di puttana, se non funziona...» Quella sera c’era tutto lo stato maggiore della Columbia, che in cinque limousine si dirigeva verso il Wilmington Theatre di San Pedro. Li accompagnava, non invitato, il Fato. Lo stesso film, quello che a Santa Barbara si era abbattuto con un tonfo, spiccò di nuovo il volo sullo schermo di San Pedro, ma senza le prime due bobine. Per la Columbia era giunta l’ora della verità, come dicono nella corrida... Non ci furono risolini e sghignazzate ai momenti sbagliati. Non ci furono nei primi dieci minuti e neppure per tutte le tre ore. Il pubblico era incantato. Il nostro terrore si sciolse come nebbia al sole. Il viso terreo di Cohn si rianimò e riacquistò la sua aria arrogante. Cohn era di nuovo Cohn, al suo meglio. Una piccola e apparentemente insignificante modifica aveva trasformato un film che sembrava condannato in un successo accolto trionfalmente in tutto il mondo; un film di cui poi migliaia di fan avrebbero detto nelle lettere che mi scrissero: «L’ho visto almeno venti volte». Ignari del dramma che si era consumato nei tre giorni precedenti, i dirigenti di New York erano esultanti quando tornammo allo studio per festeggiare la vittoria anche se si rendevano conto che Cohn, ancora una volta, «li teneva in pugno». Ma prima di celebrare dovevo compiere un ultimo atto. Andai nella sala di montaggio, afferrai quelle due maledette bobine, mi diressi verso l’inceneritore e le gettai nel fuoco. La pellicola di nitrato fece una fiammata che illuminò la notte. L’esperienza di Orizzonte perduto che fu tutto sommato sorprendente e, per me e per la
Columbia, quasi disastrosa, mette in luce un aspetto del cinema che pochi, soprattutto tra i critici, riescono a cogliere. Quando un autore scrive un libro, il suo scopo è quello di comunicare con ogni lettore preso singolarmente. Un film è fatto per comunicare con centinaia e, possibilmente, migliaia di spettatori per volta. La linea di confine tra il sublime e il ridicolo è ben definita e sicura quando il fruitore è il singolo; diventa più sottile e pericolosa di fronte a un pubblico numeroso; e più numeroso è il pubblico, più sottile diventa la linea. Questo è il motivo per cui i critici famosi sbagliano quando insistono per vedere un film da soli, in una sala di proiezione privata con il tavolino dei drink a fianco. Il loro giudizio cambierebbe sicuramente se fossero costretti a vedere il medesimo film in una sala affollata. I critici difendono le visioni private sostenendo che le loro recensioni sono più penetranti, più soggettive, se si sottraggono all’influenza delle reazioni di massa della gente comune. Ma la reazione di massa è proprio quello che il cinema è destinato a suscitare, e non si può pronunciare un giudizio corretto su un film in mancanza di quella necessaria «terza dimensione» che è il grande pubblico. E, potrei aggiungere, l’opinione collettiva di un grande gruppo di persone è generalmente più sana e più corretta delle opinioni individuali. In breve: «Il pubblico ha sempre ragione», è una scommessa sicura. Il pubblico aveva ragione quando ridicolizzava Orizzonte perduto a Santa Barbara; e aveva ragione quando lo applaudì a San Pedro. Quando qualcosa va storto con un film, prova a bruciare le prime due bobine. Orizzonte perduto fu il primo grande film ad alto budget della Columbia che poteva stare sullo stesso piano dei megaspettacoli prodotti dalle major. L’alto costo del film richiedeva un’organizzazione di vendita e un lancio pubblicitario proporzionato. Questo compito fu assegnato al raffinato vicepresidente della Columbia, Nate Spingold, ricco, giocatore di bridge, collezionista d’arte, esperto del mondo. Risultato: una brillante campagna, mirata alle classi colte, che servì a promuovere tutto il cinema americano e ad affermare l’importanza dei registi che avevano aderito al concetto «un uomo, un film». Fu probabilmente grazie al lancio pubblicitario colto e raffinato di Spingold che Poverty Row alla fine si conquistò un posto al sole. Portò anche all’attenzione dei cinefili di tutto il mondo il fatto nuovo che esistevano ormai due modi di fare cinema a Hollywood: il modello «produttore-regista», sperimentato da Capra; e il «collettivo», utilizzato dalle major, sperimentato da L.B. Mayer. In breve l’individuo contro il gruppo o, in termini più personali, Capra contro Mayer. E visto che il mio sistema aveva infilato cinque successi di seguito, altri registi, insofferenti del modello «collettivo», furono attirati dalla Columbia, tra gli altri John Ford, Leo McCarey e George Stevens. Così, mentre molti ottimi registi legati alle grandi case di produzione rimanevano anonimi, Cohn mise insieme un agguerrito gruppo di registi sempre più famosi che gli confezionarono successi tipo Tutta la città ne parla; Molta brigata, vita beata; Un grande amore; L’inafferrabile signor Jordan. L’astro di Cohn sorgeva rapidamente, e i miei colleghi cominciarono a chiamarmi il regista dei registi. 32. Orizzonte perduto, 1937.
11. IL COMUNE LEGAME
Erano tempi difficili. Una fitta nebbia sembrava avvolgere il mondo intero, una nebbia fatta di ansie e di lugubri previsioni. La grande Depressione, come un’enorme sanguisuga che non riuscivamo a scrollarci di dosso, continuava a uccidere le nostre speranze. In Spagna c’era la guerra, mentre Hitler, Stalin e Mussolini si stavano armando. Le nazioni libere vivevano nella paura, cercando invano di allontanare i tristi pensieri. Il mondo aveva bisogno di speranza, aveva bisogno di esempi, di vedere che era possibile riuscire a superare gli ostacoli che ci circondavano, e io sapevo che il cinema poteva offrire questi esempi: «Per due ore, al buio, puoi riuscire a parlare a milioni di persone». Questo doveva essere il mio lavoro: risollevare gli animi. Questa volta non entrai di nuovo in crisi, e smisi di preoccuparmi per il successo o l’insuccesso dei miei film. Chiesi soltanto all’Onnipotente il coraggio e la forza per questo difficile compito, lasciando il resto nelle sue mani. E nelle mani dei critici. Su Orizzonte perduto scrissero di tutto: lo definirono una «favola di Frank Capra», un melodramma misterioso ed entusiasmante, pieno di vivacità ed emozione, e anche un «potpourri di poesia, fantasia e filosofia (quest’ultima difficile da digerire)». Ma evidentemente Orizzonte perduto aveva toccato qualche corda profonda e sensibile, perché non smettevano di scriverne, non solo recensioni, ma saggi, commenti, editoriali. Il suo messaggio pacifista aveva suscitato le reazioni di tutti, dall’estrema destra all’estrema sinistra. Un critico di Londra riassume in modo conciso: «È figlio di Freud, non di Marx». Un altro commentatore inglese, John Ramage, paragonò con toni nostalgici Shangri-La al mito della Merry England, l’allegra vecchia Inghilterra: Accidenti, fratelli! Questo Orizzonte perduto è un grande film, grande quanto lo fu Merrie England (1894), quando voi e io avevamo vent’anni. Ora, voi mi chiederete, che cosa diavolo possono avere in comune questo recente successo di Hollywood, fatto da un italiano, Frank Capra [...] con il Bob Blatchford [giornalista inglese] di tanti anni fa? Solo questo, fratelli [...] vi ricordate come Bob era capace di farci sognare? Di farci sognare quale paradiso questa povera squallida isola avrebbe potuto diventare, se solo noi, andando a votare, avessimo messo la nostra croce sul nome giusto? [...] Schede elettorali per la scala che porta all’utopia! Forse riderete, lo so; ma voi sognate ancora, perché né voi né io potremo mai abbandonare del tutto i nostri sogni. Ed è proprio questo l’effetto che provoca Orizzonte perduto, l’effetto miracoloso di farci tornare a credere.
I pennivendoli di Hitler commentarono con disprezzo Orizzonte perduto. Un giornale nazista lo definì «l’opera decadente di una democrazia in decadenza». La stampa di Mussolini, al contrario, lo definì un capolavoro, ma più tardi ne capii la ragione. Quando il film venne doppiato in italiano, usando voci di attori italiani, la sottile propaganda fascista riuscì a trasformare la filosofia utopista di Orizzonte perduto in una celebrazione del fascismo. Viva Machiavelli! La stampa di Londra aveva dato talmente spazio alle recensioni e ai commenti su Orizzonte perduto che Joe Friedman, l’agente della Columbia a Londra, aveva convinto Cohn a mandarmi là con Bob Riskin per la serata della prima al Tivoli. Nel frattempo anche per mia moglie c’erano novità importanti. Quando tutti e tre ci imbarcammo per Londra, Lu era di nuovo incinta. La nostra prima avventura fu con la stampa inglese. Fummo sorpresi dal livello di cultura di
giornalisti e critici, dalla loro franchezza, e dalla varietà delle opinioni e dei punti di vista. E tutti scrivevano incredibilmente bene, molto meglio dei loro colleghi americani. Naturalmente discutemmo soprattutto del concetto di «utopia», del perché molti poeti e scrittori hanno affrontato nelle loro opere il tema dell’utopia, e delle ragioni per cui questo tema riscuote sempre tanto successo fra il pubblico. Proponendo una visione utopica, un autore non solo ha la possibilità di analizzare in modo critico la società del suo tempo, ma può anche proporre trasformazioni rivoluzionarie senza dover entrare nei dettagli, senza dover parlare dei mezzi necessari a raggiungere quei fini; in questo modo può ispirare l’immaginazione dei lettori senza dover affrontare gli aspetti pratici e concreti della sua utopia. Come scrisse il poeta O’Shaughnessy: Siam noi che i nostri sogni sogniamo, e siamo noi – così pare – che facciamo andare innanzi il mondo e lo scuotiamo, siamo noi.
L’incontro con i critici inglesi mi fu estremamente utile. Credo che, se è vero che l’Inghilterra ha perso un impero che aveva conquistato con la spada, non perderà mai la supremazia intellettuale che ha conquistato con la penna. Gli inglesi possono apparire freddi e privi di emozioni, ma quando gli metti una penna in mano colpiscono facilmente nel segno. All’avventura in Inghilterra ne seguì un’altra, quella nell’Unione Sovietica. Alcuni anni prima, il grande regista russo Sergej Ejzentejn (La corazzata Potëmkin, Ottobre, Il vecchio e il nuovo) era venuto a visitare gli Stati Uniti. Ci eravamo incontrati e avevamo parlato a lungo di cinema, e lui mi aveva invitato a visitare l’Unione Sovietica. Più tardi, quando ero presidente dell’Academy, ricevetti una delegazione ufficiale di registi e attori sovietici, guidata da Sumjatskij, che era allora il rappresentante del governo responsabile di tutte le attività cinematografiche dell’Unione Sovietica. Riferendomi che i miei film venivano visti e studiati nelle scuole di cinema sovietiche, mi fece un generico invito per una visita a Mosca. E così, mentre ci preparavamo a partire per Londra facendo tutte le pratiche per i passaporti, io e Riskin inoltrammo anche la richiesta per un visto per l’Unione Sovietica, senza peraltro immaginare quando e come un tale viaggio sarebbe stato possibile. Ma tre giorni dopo il nostro arrivo a Londra ricevemmo una comunicazione ufficiale dall’ambasciata sovietica: i nostri visti erano stati approvati. Affidai Lu a Miriam e Tim Whelan, due amici fidati, e partii con Riskin sull’Orient Express: viaggiammo attraverso il Belgio, la Germania, la Polonia, attraversando le arcaiche barriere che i popoli dell’Est avevano innalzato per difendere le loro frontiere. Arrivammo alla stazione di Mosca, enorme e affollata, all’ora del tramonto, senza sapere dove avremmo passato la notte e come avremmo fatto a raggiungere un albergo (sul treno nessuno parlava una parola di inglese). Ma come mettemmo piede sulla banchina, ci venne incontro la delegazione ufficiale che era stata mandata ad accoglierci: fotografi, rappresentanti del sindacato lavoratori del cinema, un interprete dell’Intourist, e un gioviale, anche se ampolloso, rappresentante del governo, che assomigliava moltissimo a Guy Kibbee33 (e dato che ho dimenticato il suo nome, d’ora in poi lo chiamerò Guy Kibbee). In quella stazione di Mosca mi resi conto per la prima volta che il cinema è un linguaggio veramente universale, come la matematica o la musica, e che quelli che fanno cinema, indipendentemente dalle differenze nazionali, politiche o razziali, al di là di tutte le frontiere, sono uniti da un comune legame: l’apprendistato in una delle più grandi forme d’arte, il CINEMA. Tutti abbiamo gli stessi problemi tecnici e artistici, tutti creiamo spettacolo facendo leva sugli
stessi sentimenti umani, e tutti rispettiamo quelli che lavorano come noi e adoriamo quelli che sono più bravi di noi. Siamo come un popolo di zingari, uniti da un legame di fedeltà alla nostra professione, un legame che eguaglia – e qualche volta supera – la fedeltà al nostro paese e al governo che lo rappresenta. Bob Riskin e io non eravamo accolti, in quella situazione, come due capitalisti americani che si avventurano dentro i bastioni proibiti del comunismo. No, eravamo semplicemente due registi americani accolti dai nostri fratelli russi. Fin dal primo momento non ci sentimmo soltanto ospiti, ma amici. Non ci lasciarono spendere un solo rublo. Ogni volta che cercavamo di tirar fuori il portafogli, uno di loro ci colpiva scherzosamente la mano costringendoci a rinunciare. Mi resi anche conto che di soldi ne avevano molti, perché la gente del cinema, in Russia, è un’élite intellettuale con l’enorme potere di influenzare opinioni e coscienze; il governo li rispetta, ne ha paura, li controlla in modo strettissimo, ma li paga molto bene. Il regista Trauberg fu il nostro ospite per tutta la durata della visita; ci veniva a prendere la mattina all’albergo, e ci riaccompagnava la sera. Ci portò a visitare la Scuola di cinema, a teatro, al balletto (che era allora il migliore del mondo), in giro per i ristoranti e per le strade di Mosca, dove, giorno e notte, folle instancabili di moscoviti si muovevano nei loro abiti grigi (le cravatte erano una rarità, e le calze di seta per le donne praticamente inesistenti) fra grigie e massicce costruzioni dalla strana architettura (e, naturalmente, la nostra guardia del corpo ufficiale, l’allegro Guy Kibbee, che parlava perfettamente l’inglese, era sempre con noi). Trascorremmo la maggior parte del tempo in compagnia di registi, attori, sceneggiatori, tecnici cinematografici. Parlavamo di cinema, naturalmente: dei nostri film, dei loro film, dei film inglesi, francesi, italiani. Li conoscevano tutti, meglio di noi. Comunicavamo in un inglese elementare, qualche parola di francese, e gergo tedesco; provammo anche con lo yiddish, e quando proprio non riuscivamo a capirci ricorrevamo ai gesti, il vecchio linguaggio universale. Due furono le impressioni che Riskin e io ricevemmo da tutte quelle conversazioni innaffiate di vodka: la prima era che i russi ammiravano moltissimo il cinema americano, e il popolo americano in generale; la seconda che, per vitalità, allegria e arroganza, c’era una somiglianza fra il popolo russo e quello americano, più forte di quella che essi sentivano con gli altri popoli europei. Si poteva davvero sentire che nella relazione fra gli Stati Uniti e la Russia due sole erano le possibilità: la cooperazione o il conflitto. Guy Kibbee, la nostra scorta e interprete ufficiale, ci affascinava e inquietava allo stesso tempo. Truccato con una barba bianca e un costume rosso, avrebbe potuto facilmente sembrare Babbo Natale: nonostante le ristrettezze e la crisi economica lui era grasso, e si capiva che intendeva rimanerlo, comunque fossero andate le cose. Quando eravamo al ristorante, mangiava e beveva tutto quello che aveva davanti agli occhi, ma al momento di pagare il conto sembrava diventare improvvisamente cieco. Mentre qualcun altro si preoccupava di questo dettaglio, lui raccoglieva dalla tavola tutti gli avanzi e se li metteva in tasca. Il suo motto sembrava essere: «Proletari di tutto il mondo, abbandonate le vostre catene... così io potrò andare a rivenderle a un ferrivecchi e ricavarci qualcosa». Per farci risparmiare tempo e lunghe code, si offriva sempre di procurarci i rubli di cui avevamo bisogno, cambiandoli, o almeno così diceva lui, nelle agenzie di cambio ufficiali. E in effetti ci consegnava sempre le ricevute che avremmo dovuto poi, alla partenza, esibire alla dogana per rendere conto di tutti i dollari che avevamo dichiarato. Il suo distintivo, che portava in ogni circostanza come segno della sua appartenenza all’apparato, era un colletto di plastica con una cravatta nera. Quando partimmo per trascorrere una settimana a Leningrado, Kibbee arrivò alla stazione senza borsa né valigia. Meravigliati, gli chiedemmo una spiegazione, e lui, ridendo, tirò
fuori di tasca un piccolo sacchetto di carta, e ce ne mostrò il contenuto dicendo: «Questo è tutto quello che mi serve per una settimana». C’erano un colletto di plastica di ricambio e un dentifricio. «Ma hai dimenticato lo spazzolino», osservò Riskin. «Oh no!», sorrise lui, «il dentifricio lo uso per lavare il colletto». Quella notte, sul treno che ci portava a Leningrado, mi accadde una di quelle avventure che raramente si dimenticano. Eravamo su un vagone letto, Riskin e Kibbee erano stati assegnati allo stesso scompartimento. Mentre venivo accompagnato al mio, mi resi conto che c’erano sempre due persone per ogni scompartimento, e che quindi sarei stato accoppiato con un estraneo, forse addirittura con una donna, e pensai allora a che cosa avrei fatto nel caso in cui... ma la suspense finì subito. C’era un uomo seduto sulla poltrona del mio scompartimento. L’osservai, mentre infilavo sul portabagagli la valigia e gli apparecchi fotografici. Aveva circa cinquant’anni, i capelli corti tendenti al grigio, il viso rasato da poco e abbronzato. Portava una camicia bianca pulita, e una cravatta nera. Da quando ero entrato nello scompartimento non aveva sollevato lo sguardo dal suo libro. Cercai di sbirciarne il titolo, e mi accorsi con grande meraviglia che stava leggendo Anna Karenina, in inglese. «Signore...», chiesi io. «Parla inglese?» «Sì, un po’», rispose lui sollevando la testa. La sua voce era calma e piacevole come il suo aspetto. «Lei deve essere americano». «Sì, signore...», e mi presentai. Lui disse di chiamarsi Smolyavic, e di essere un capitano della Marina russa; leggeva Anna Karenina, mi disse, almeno una volta all’anno, e per qualche strana ragione lo preferiva in inglese piuttosto che in lingua originale. Era il capitano di una nave rompighiaccio famosa in tutto il mondo, il Krassin, e stava appunto recandosi ad Archangel per imbarcarsi sul Krassin e partire per il consueto viaggio annuale attraverso i ghiacci del Polo Nord fino a raggiungere Nome, in Alaska. Ero talmente affascinato, e le mie reazioni talmente entusiaste, che a un certo punto Smolyavic mi guardò sorridendo e disse: «Se avete un po’ di pellicola per quelle macchine fotografiche, e sei settimane di tempo che vi avanzano, perché non mi accompagnate in questo viaggio?» «Oh mio Dio, dite davvero? Potrei davvero...» «Naturalmente. Io sono il capitano della nave e sarete mio ospite. Il cibo è buono, il vino ancora meglio, il ghiaccio è sempre un’avventura affascinante, e potremo avere interessanti conversazioni. Una volta arrivato in Alaska, poi, sarete già a casa...» «Che avventura! Su una nave rompighiaccio da Archangel all’Alaska! Capitano, darei qualunque cosa per venire con voi. Avvertirò subito mia moglie da Leningrado...» La prima cosa che feci appena misi piede all’Hotel Astoria fu quella di mandare a mia moglie il seguente telegramma: MIA CARA. OCCASIONE STRAORDINARIA DI VIAGGIO ARCHANGEL-ALASKA OSPITE CAPITANO NAVE ROMPIGHIACCIO KRASSIN. OK? TELEGRAFA SUBITO RISPOSTA. BACI, FRANK. La risposta non si fece attendere; arrivò anzi così in fretta che pensavo avesse bruciato i fili del telegrafo: FRANK SEI PAZZO? NO RIPETO NO. LU. Il primo no mi uccise. Il secondo fu come un calcio inflitto a un morto. Novantanove volte su cento la vita matrimoniale è meravigliosa, ma non quando stavo morendo dalla voglia di partire su una rompighiaccio diretta al Polo Nord. Quando chiamai il capitano Smolyavic per comunicargli che dovevo rinunciare ero lì lì per scoppiare in lacrime. La nostra guida a Leningrado fu il regista Fridrich Ermler, un personaggio simpatico e divertente. Mi ricordava il mio amico Bill Wellman, soprannominato «il Selvaggio». Comunicare con lui, in quel misto di tedesco, inglese, slavo e linguaggio gestuale, fu davvero un’impresa esilarante. Un giorno, mentre a bordo di una limousine ci avviavamo a vedere le meraviglie dell’Hermitage e il Palazzo d’Inverno, tirò fuori di tasca e si mise a fumare una vecchia pipa, i cui
pezzi erano tenuti insieme con il nastro adesivo; le tasche di Ermler, pensai, potevano anche essere gonfie di rubli, ma evidentemente le cose che lui poteva comprarsi non includevano una pipa nuova. Tirai fuori una delle pipe Dunhill che avevo appena comprato a Londra. A quella vista Ermler rimase a bocca aperta. Riconobbe subito il marchio Dunhill: «Ach! Sie rauchen em Doonhill...» Allora ne tirai fuori un’altra, un modello nuovo della Dunhill, e gliela offrii come regalo. Ma a questo punto il Grande Fratello Guy Kibbee intervenne annunciando pomposamente che i sovietici non potevano accettare doni dai capitalisti. Ermler a malincuore mi porse la pipa, ma io non la volli riprendere, affermando che nel nostro paese rifiutare la pipa della pace è considerata una grande offesa. Questo piccolo incidente internazionale fu risolto dall’intervento di Riskin, che porgendo a Guy Kibbee la sua nuova stilografica gli disse scherzosamente: «E tu puoi mettere nero su bianco usando questa penna...» La cupidigia di Kibbee ebbe la meglio: una penna stilografica nuova era come oro per lui: «Naturalmente, naturalmente, non abbiamo intenzione di offendere nessuno». Si mise in tasca la penna, mentre Ermler e io ci scambiavamo un sorriso di intesa. Con la sua nuova pipa, Ermler sembrava un bambino con il suo primo paio di schettini, e l’amicizia regnò ancora una volta fra comunismo e capitalismo. Gli studi cinematografici Lenfilm erano situati in un vecchissimo palazzo, riconvertito e restaurato; gli impianti tecnici erano molto più primitivi di quelli degli studi Mosfilm di Mosca, ma gli artisti qui erano più vivaci, sembravano osare di più. Leningrado, del resto, era stata sempre la capitale del dissenso; dalla rivolta operaia del 1905, fino alla rivoluzione bolscevica del ’17, tutto era sempre partito da lì. Paragonata a Mosca (la Chicago dell’Est), Leningrado (la Parigi dell’Est), era una città di rara bellezza, disegnata da architetti francesi e italiani per incarico di Pietro il Grande. Gli intellettuali di Leningrado si compiacevano della maggiore libertà di cui godevano, a confronto dei loro colleghi di Mosca, proprio grazie al fatto che, mentre Mosca era la capitale politica, Leningrado era il vero centro artistico e culturale del paese. E a Leningrado ci fu offerta l’occasione di incontrare e conoscere l’élite intellettuale e artistica della città in modo più privato e meno formale; c’era un luogo, infatti, una sorta di Accademia, dove gli artisti del mondo del cinema si incontravano non soltanto fra di loro, ma con altri intellettuali, poeti, pittori e musicisti, e dove si poteva discutere abbastanza liberamente di arte e di politica. Fu proprio là che ci vennero rivolte le domande più significative sulla vita e la cultura negli Stati Uniti, e fu là che imparammo molto sul cinema russo, dalle sue origini agli ultimi progressi artistici e tecnici. Cercammo anche di sapere qualcosa di Eisenstein, ma in questo caso ottenemmo solo risposte vaghe e contraddittorie: «È in Crimea... È a Kiev... Non sta molto bene... No, nessuno l’ha visto recentemente...» Quando domandammo che cosa ne pensassero di Sumjatskij le risposte furono ancora più vaghe. Al nostro ritorno a Mosca trovammo all’hotel un messaggio di Eisenstein, con un numero telefonico, e l’indicazione dell’ora precisa del giorno in cui avrebbe atteso la nostra telefonata. Quando chiamammo, rispose lui. «Frank», disse sottovoce, «vuoi venire a trovarmi?» Gli dissi che sarebbe stata per me un’enorme delusione ripartire da Mosca senza avere l’occasione di incontrare uno dei più grandi registi del mondo. Ci diede allora un indirizzo da mostrare al tassista, invitandoci ad andare subito, se potevamo farlo senza essere seguiti. E così uscimmo dalla hall dell’albergo riuscendo a eludere la sorveglianza del caro amico Guy Kibbee. Lo trovammo seduto al tavolino di un caffè vecchio e cadente, in una delle zone più squallide di Mosca. Assicuratosi che fossimo soli, ci invitò a bere una tazza di tè. Era affaticato, depresso.
«Frank, Bob», ci disse con un sorriso triste, «mi hanno relegato nella “tana del cane”». Ridemmo insieme di questa espressione dello slang americano. «Non posso fare più film, non posso più entrare in uno studio, a registi e attori è assolutamente proibito avere contatti con me. Mi hanno isolato». Ci spiegò quello che era successo. Il Cremlino gli aveva chiesto di girare una trilogia sulla vita di Ivan il Terribile. «Faccio la prima parte, quelli la vedono e si congratulano con me. Ottimo. Divento un eroe nazionale. Faccio la seconda parte, e quelli ritirano tutto. Stalin dice che non ci sarà nessuna terza parte, che non devo fare più film. Dicono che ho commesso un grosso errore politico. E da tre mesi mi hanno completamente isolato. Che ne dite?» Non sapevamo che cosa dire. Quando gli parlammo di Sumjatskij che era stato il capo della delegazione sovietica a Hollywood, rispose soltanto: «Non serve a niente, anche lui è isolato. Forse...» Ma poi scrollò le spalle e non aggiunse altro. Sembrava un gigante ferito. Passammo con lui circa un’ora, e ritornammo all’albergo meditando sconvolti dalla disciplina ferrea a cui gli artisti sovietici dovevano sottostare (dopo la destalinizzazione, il pugno di ferro si sarebbe notevolmente allentato). All’albergo trovammo il povero Guy Kibbee che stava impazzendo per la nostra improvvisa scomparsa. Cercammo di rincuorarlo dicendogli che avevamo semplicemente fatto un giro in taxi, senza mai scendere dalla macchina, ma queste dichiarazioni non furono sufficienti a calmarlo. Riuscimmo a farlo tornare di buon umore solo chiedendogli il favore di cambiarci cinquanta dollari – sapendo benissimo che quei cinquanta dollari non avrebbero mai visto un ufficio di cambio ufficiale, e che la ricevuta che ci avrebbe poi consegnata sarebbe stata falsa, come tutte le altre. Mentre eravamo a Leningrado, Trauberg (il nostro ospite a Mosca) era riuscito a fare l’impossibile: ci aveva procurato due biglietti per la grande parata del primo maggio sulla Piazza Rossa, ai cui spalti potevano accedere solo tremila persone, inclusi i dignitari di tutte le repubbliche sovietiche e i delegati delle ambasciate estere. E così all’alba del 1° maggio 1937, Trauberg, Riskin e io lasciammo l’albergo per dirigerci verso la Piazza Rossa. Tutti i palazzi di Mosca erano parati a festa; ci muovevamo lentamente fra due file ininterrotte di soldati dell’Armata Rossa, fra l’ondeggiare delle bandiere, fermati ogni pochi metri da agenti della polizia e dei servizi segreti per il controllo dei biglietti, dei passaporti, e più ci avvicinavamo alla Piazza Rossa e più accurati si facevano i controlli. Un silenzio maestoso regnava sulla città, che sembrava sventolare le sue bandiere rosse in segno di allarme. Quel colore sembrava riflettersi sui volti della gente, brillare sulle canne delle baionette. Rosse erano le bandiere e rosso l’umore della città. Due ore più tardi raggiungemmo finalmente le gradinate, che si ergevano solenni ai fianchi del mausoleo di Lenin. Ognuna poteva accogliere solo millecinquecento persone, naturalmente in piedi. Le mura del Cremlino, alle nostre spalle, ci facevano sentire dei nani, e la vista dell’enorme e maestoso cancello ci intimidiva. I palazzi sul lato opposto della piazza erano anch’essi coperti di bandiere rosse, e due giganteschi ritratti di Lenin e di Stalin sembravano ammirare compiaciuti i reggimenti dell’Armata Rossa, l’espressione vivente del loro potere. Quella piazza, tinta di rosso, mi sembrava un enorme teatro all’aperto, preparato per uno strano rito animistico, una messa solenne offerta agli dei del marxismo sull’altare della tomba di Lenin. Suggestionati, parlavamo sottovoce, quasi bisbigliando. Centinaia di diplomatici stranieri, nelle prime file delle gradinate, chiacchieravano nervosamente, preparando le macchine da presa e i blocchetti di appunti, certi dell’annuncio di qualche novità militare importante. Noi eravamo nelle file di mezzo, e come tutti battevamo i piedi per scaldarci.
Poco prima delle dieci, quella calma nervosa fu rotta da un colpo di cannone. Alle dieci in punto Stalin in persona fece il suo ingresso in cima al mausoleo di Lenin, circondato da una dozzina di dignitari in cappotto scuro (circa metà dei quali sarebbero stati liquidati o incarcerati entro l’anno). Si udì uno squillo di tromba, e i cancelli del Cremlino si spalancarono: il comandante in capo delle forze armate, Voroshilov, avanzò su un cavallo bianco per leggere il giuramento di fedeltà di ogni reggimento. I soldati rispondevano ogni volta con un grido quasi goliardico. Poi vennero i discorsi, discorsi di sfida, aggressivi, che promettevano la distruzione di tutti i nemici. E alla fine di ogni discorso i soldati ripetevano il loro grido, che come un’onda attraversava la Piazza Rossa e riecheggiava poi in tutti i quartieri della città. La città intera sembrava scossa da un tuono. Quel lungo ruggito, risonante e prolungato, faceva rizzare i capelli. Poi fu la volta della parata militare: battaglioni di soldati, cannoni, carri armati, razzi, e ancora cannoni, motociclette; il rumore dei motori era assordante. I diplomatici stranieri prendevano appunti e freneticamente scattavano foto. Anch’io facevo fotografie, ma non dell’Armata Rossa; fotografavo la gente, i volti, fotografai Stalin che, come un automa, sollevava ritmicamente la mano destra in segno di saluto. La parata continuava; ora era la volta dei camion militari, flotte intere di camion dentro cui sedevano soldati armati, immobili come statue. La parata militare era seguita da un corteo di civili: erano migliaia, decine di migliaia, era un fiume che scorreva da un capo all’altro della Piazza Rossa sventolando bandiere e portando striscioni o gigantesche fotografie. La fine del corteo risucchiò anche gli spettatori, e all’improvviso ci trovammo anche noi in mezzo a quel fiume di gente, che scorreva fra due cordoni di soldati. Il corteo si sciolse solo alla periferia della città, dove terminavano i cordoni di polizia. Era già il tramonto. Di fronte a noi vedemmo una grande nuvola di polvere su un terreno aperto, e la gente che, rotte le file, correva in quella direzione. Ci incamminammo anche noi, e là, in mezzo a quella nuvola di polvere, assistemmo allo spettacolo della più grande pisciata di massa di tutti i tempi. Quando arrivammo al Metropole Hotel era già buio. Eravamo così esausti e a pezzi che sembrava tornassimo dalla traversata della Valle della Morte... Trauberg ci spinse verso il bar e ordinò vodka e caviale. Dopo il secondo bicchiere riuscimmo di nuovo ad aprire bocca, dopo il terzo ritrovammo la forza di ridere, e continuammo così per tutta la serata. Non ci fu facile separarci dai nostri nuovi amici. Eravamo stati loro ospiti per tre settimane di seguito, e non avevamo incontrato nessun americano, non eravamo neanche mai stati all’ambasciata americana. Come ultimo gesto di amicizia, una dozzina di registi e sceneggiatori ci accompagnarono al treno, riempiendoci di regali: scatole di caramelle, pacchetti di sigarette russe, spartiti di musica, bottiglie di vodka, fiori. Seguirono gli abbracci, e le promesse sincere di arrivederci. Sul treno, Riskin e io ci scambiammo le impressioni su quel grande paese che ci stavamo lasciando alle spalle. Riskin non poteva dimenticare gli squallidi gabinetti, le assi rotte, le tubature arrugginite e quell’orrenda carta igienica, che consisteva praticamente di ritagli di carta da pacco e di giornale. Io, da parte mia, non potevo dimenticare le vetrine piene di oggetti che insultavano pubblicamente la religione cristiana e i suoi simboli, commentate dall’onnipresente slogan: la religione è l’oppio dei popoli. E, naturalmente, di fianco alle caricature dei simboli cristiani, il papa Stalin che dispensava i suoi doni ai felici lavoratori sovietici. Parlammo della censura staliniana sul cinema. Quando ne avevamo parlato con i nostri colleghi sovietici, alcuni, soprattutto i membri del partito, avevano sostenuto che non si trattava di vera censura, e che all’interno delle «linee guida» dettate dal Cremlino gli artisti erano completamente liberi di sviluppare il loro stile personale. Ma era come dire a un prigioniero che poteva avere totale libertà di movimento all’interno della sua cella... E che ne era del diritto dell’artista al dissenso,
della sua libertà di mettere in ridicolo e di criticare la corruzione del potere, se era il potere stesso che dettava le «linee guida»? Poteva il comunismo confutare quel famoso detto del barone Acton, secondo cui «il potere tende a corrompere, e il potere assoluto corrompe in modo assoluto»? Tentare di farlo l’avrebbe messo in difficoltà. «È già abbastanza duro lavorare per Harry Cohn», disse Riskin. «Immagina che cosa deve essere lavorare per Stalin». Non potevo immaginarlo; ma in qualche modo sentivo che la personalità e il genio di artisti come Eisenstein, Trauberg, Kozintsev ed Ermler non avrebbero potuto rimanere a lungo repressi e umiliati, da nessun potere. Sì, Riskin era deluso; pacifista sincero, si era aspettato di trovare almeno qualcosa della grande Utopia socialista, si era aspettato di vedere più benessere per la gente e meno parate militari. Ma io, che non avevo grandi aspettative, me ne andai dall’Unione Sovietica impressionato per quello che avevo visto. Non potevo dimenticare i tesori d’arte che avevo visto all’Hermitage, comprati dagli zar con le tasse dei contadini lasciati nell’ignoranza, per dare a un Romanov, recluso in quel palazzo, qualcosa di piacevole da ammirare sulle pareti. Non potevo dimenticare i diamanti – smeraldi, rubini, gemme grosse come noci – che adornavano i crocifissi e gli stemmi sulle tombe dei Romanov, nella cripta privata della loro cattedrale privata. Gioielli di valore inestimabile, con cui avrebbero potuto pagare tutti i debiti dello Stato. Era uno spreco di ricchezza sacrilego, che suscitava sentimenti di ateismo anche nelle persone più pie, figuriamoci nei contadini russi, da poco emancipati dalla servitù della gleba, e che ancora portavano sulla schiena le cicatrici della frusta dei cosacchi. E non potevo dimenticare la passione che avevo visto nel popolo russo, passione per il lavoro, per conquistarsi un’istruzione, per ricostruire il paese dalle rovine lasciate da tre catastrofi nazionali che si erano succedute nel giro di pochi anni: una guerra mondiale, una rivoluzione e una guerra civile. Essendo di origine contadina, potevo capire il desiderio, la volontà, forse anche la necessità, per quella classe da sempre oppressa, di sollevarsi da uno stato di secolare inferiorità, e di non poterlo fare probabilmente con quei mezzi democratici che pure io rispettavo e condividevo, ma con mezzi forse più duri, più adatti alla drammaticità delle condizioni storiche in cui si trovava. Lasciai la Russia con un sentimento di affetto per questo popolo, e pregando perché le loro difficili condizioni potessero migliorare. La partenza era stata segnata anche da una nota negativa: il giorno prima Guy Kibbee, la nostra scorta ufficiale, mi obbligò a consegnargli tutte le pellicole; cercai di obiettare, facendogli presente che avevo richiesto e ottenuto il suo permesso ogni volta che avevo usato la macchina fotografica, ma lui ribatté che, finché non le avesse sviluppate e sottoposte al controllo della censura, non poteva garantire per l’innocenza delle pellicole; mi promise che, appena passata la censura, me le avrebbe spedite lui stesso. Pensai che forse voleva soltanto una buona mancia, l’ultima del nostro soggiorno, ma i miei amici mi avevano consigliato di non cercare mai di corrompere un ufficiale del governo. Il risultato fu che ebbi un sacco di noie alla frontiera perché mi mancavano le pellicole che avevo dichiarato all’entrata. Cercai di spiegare che io stesso le avevo usate per una serie di riprese fatte con i dovuti permessi, e che la mia scorta ufficiale me le aveva ritirate prima della partenza. Alla fine mi credettero, ma mi dissero anche che avrei dovuto portare le pellicole a loro, perché loro avevano l’autorità di decidere che cosa poteva o non poteva uscire dal paese. Aspettai invano quelle pellicole; scrissi più volte a Guy Kibbee, ma non ottenni risposta; forse anche quell’allegro ragazzo era stato mandato a trascorrere un periodo di riposo forzato in qualche località siberiana. Non posso negare il senso di sollievo e l’aria di libertà che ci investì quando attraversammo il
confine ed entrammo in Polonia. La presenza di giornali stranieri nelle edicole non fece che sottolineare in modo drammatico l’isolamento in cui era tenuto il popolo russo. Nelle tre settimane passate in Russia non avevamo potuto leggere un giornale, ascoltare un notiziario alla radio, neppure ricevere a voce una sola notizia che ci ricordasse che cosa stava succedendo nel mondo esterno. Comprammo subito un po’ di giornali francesi e inglesi, e fu solo allora che venimmo a conoscenza della tragica fine del dirigibile Hindenburg che, carico di passeggeri, si era incendiato mentre cercava di atterrare allo scalo di Lakehurst, lo stesso che avevamo usato per il Los Angeles durante le riprese di Dirigibile. 33. Attore caratterista americano di gioviale corpulenza. [n.d.t.]
12. «SE TU ALMENO SAPESSI CUCINARE»
Tornati a Londra, Charles Laughton e Alexander Korda, inglesi ben noti a tutta Hollywood, presentarono Lu e me non solo all’élite cinematografica, ma anche a membri del Parlamento, editori, pubblicisti, banchieri e artisti delle più svariate discipline. Con nostro grande stupore, la gente che lavora nel cinema non solo era accettata dai più alti ranghi del governo e della cultura britannici, ma era la benvenuta, sia professionalmente che socialmente. Il cinema britannico faceva parte integrante della cultura. Come erano diverse le cose negli Stati Uniti dove, nonostante i film americani fossero senza ombra di dubbio i migliori veicoli commerciali di beni, prodotti, idee, abitudini e usanze americane – la progressiva «americanizzazione» del mondo indotta proprio dal cinema – i padroni della nostra costa orientale, trincerati dietro la loro supponenza, continuavano a guardare a Hollywood con superiorità, come a una fogna di esibizionisti e pazzoidi di scarso valore. Era un peccato e lo è tutt’ora che i registi americani fossero più conosciuti, ammirati e apprezzati all’estero che in patria. Tipica di questo atteggiamento fu la lista compilata dal presidente Kennedy in onore dei circa trenta più famosi artisti americani contemporanei. Nella lista erano compresi nomi di parrucchieri, stilisti, architetti d’interni – ma non era presente neanche un nome legato al mondo del cinema! Fu l’ungherese Alexander Korda, produttore e regista, nonché mago della finanza, che rese famosi i film britannici, con opere notevoli quali Le sei mogli di Enrico VIII (vincitore del premio Oscar), La grande Caterina, La primula rossa e Il fantasma galante. Credo che sia stato il primo regista a essere nominato cavaliere dai reali britannici, e fu senz’altro il primo che riuscì a conquistare il favore dei banchieri stimolandoli a investire danaro nel cinema. Alto e aitante, Korda non era solo un abile parlatore – ancor più seducente grazie al suo meraviglioso accento – ma un visionario con tutta l’arguzia tipica di un venditore di tappeti. Questi vantaggi, uniti al fascino esotico di sibarita amante del lusso, gli conferivano un misterioso potere di persuasione con i banchieri, notoriamente poco inclini al romanticismo. Ovunque Korda operasse, si era sicuri di trovare agitazione, fascino – e pillole di aspirina. (L’anno dopo, io, Korda e David O. Selznick, a Hollywood formammo una società per comperare la United Artists. Avremmo fatto milioni distribuendo i nostri film e quelli di altri registi indipendenti e ci beavamo davanti alla visione del nostro immediato futuro. L’accordo era già definito, ma il fascino irresistibile di Korda si scontrò con l’inamovibile ego di Selznick: la posta in gioco era la carica di presidente della United Artists. Io me ne stavo in disparte sugli spalti, mentre Korda pronunciava lunghi e appassionati discorsi a favore di Korda, e Selznick scriveva lettere altrettanto appassionate, anche se ben più lunghe, in favore di Selznick. Fu davvero un impegno titanico per le sue tonsille, dato che dettava le sue lettere chilometriche a squadre di stenodattilografe mentre misurava a gran passi il tappeto dell’ufficio, scavando un fosso in cui avrebbe potuto caderci dentro Laemmle Junior. Man mano che la foga oratoria cresceva, l’affare perdeva consistenza, e infine morì per mancanza di presidente. Il «duello al sole» continuò però ancora a lungo quando ormai non c’era più nessuna presidenza per cui rivaleggiare. Korda e Selznick non discutevano volgarmente per uno scopo – come i dibattiti Lincoln-Douglas sulla schiavitù, o le risse Huxley-Bennett su che cosa fosse più utile all’uomo, le scienze o le materie letterarie. No davvero! I titani del cinema erano puristi incorrotti che discutevano sull’ideale di
supremazia per il mero piacere di farlo, secondo la logica «il mio papà è più forte del tuo e può picchiarlo quando vuole!») Fu durante un pranzo – con proiezione cinematografica – organizzato da Korda nel suo Studio Denham, che Alex presentò a Lu e a me l’Uomo. Il centro cinematografico Denham era vicino al paesino di Hounslow, nel Middlesex. Lo studio si trovava in un vecchio vivaio ittico ristrutturato, The Fisheries, dove un tempo venivano allevati i pesci destinati a Londra. Il quartier generale della London Films di Korda era in un’antica, vasta dimora, sopravvissuta al rinnovamento. Poco prima di pranzo, Korda ci fece fare un giretto; incontrammo Vincent e Zoltan Korda, i fratelli Boulting, il produttore di Korda, Bill Hornbeck (un mio vecchio amico dai tempi di Mack Sennett), e l’aiuto montatore di Hornbeck, David Lean (che più tardi sarebbe stato il regista di film famosi come Il ponte sul fiume Kwai, Lawrence d’Arabia, Il dottor Zivago). Alex aveva invitato per il pranzo altri due ospiti. Erano tutti e due inglesi e indossavano entrambi quei cappotti scuri dall’ampio colletto che sembrano indicare, in Inghilterra, le persone di una certa importanza. Naturalmente, come al solito, non afferrai i loro nomi. Uno era un tipo mite e insignificante, simile a una delle tante comparse, insulse e ben vestite, che i registi di Hollywood scelgono – proprio per la loro mancanza di carisma – come supporto alle stelle nei primi piani. Tuttavia, nessun regista nel pieno delle proprie facoltà mentali avrebbe mai scelto l’altro inglese come spalla di una star, dato che, al primo sguardo, catturava subito l’attenzione con la sua straordinaria vitalità e la sua impudenza. C’è chi la chiama «presenza» e chi preferisce parlare di carisma, di magnetismo, di personalità. I registi dicono di questa qualità che «buca lo schermo». È un dono di natura, che hanno tutte le grandi stelle. Per la verità, tutti i grandi capi ce l’hanno, siano essi eroi o furfanti. E, comunque, qualunque cosa fosse, quel tipo con l’aria da maestoso cagnone, dall’altro lato del tavolo, ne era certamente più che fornito. La sua faccia da bulldog, con la mascella sporgente, mi era vagamente familiare. Dapprima lo classificai mentalmente come un famoso attore inglese, di cui non riuscivo a ricordare il nome. Anche la sua voce – che avrebbe ricordato un organo, se non fosse stato per un leggero fruscio – era quella di un attore. A un certo punto lui e Korda cominciarono a scherzare e Alex lo chiamò «Winnie». Non conoscevo nessun attore inglese chiamato Winnie – perlomeno nessuno abbastanza famoso da essere invitato a pranzo da Korda. A quel punto decisi che i due signori inglesi dovevano essere «una speranza» di finanziamento catturata dal fascino calamitante di Korda. Dopo pranzo ci sgranchimmo le gambe, prima di assistere alla proiezione del film. Korda mi accompagnò in bagno, dove gli chiesi notizie dei due amici inglesi, specialmente di quello con l’aria da cagnone di razza. «All’inizio», gli dissi, «avevo pensato che fosse un attore, ma non riesco a ricordarmi nessun attore che si chiami Winnie». Alex rovesciò la testa all’indietro e scoppiò in una fragorosa risata. «Oh mio Dio, Frank, stai scherzando. Winnie! Un attore?» «Va bene, va bene. Ma se è un piccioncino che stai cercando di far su, ti avviso che non sarà facile». Korda non riuscì a trattenere un nuovo scroscio di risate. «Oh, gli dirò che pensi non sia facile truffarlo. Gli piacerà. Si chiama Winston Churchill». Essere qualcuno a Londra significava, prima o poi, essere accompagnato a una di quelle ospitali e generose feste della domenica che Sir Louis e Lady Stirling davano nel loro lussuoso e signorile palazzo. Lady Stirling vi era nata, ma Sir Louis era un ex ebreo americano nato a Manhattan – nominato cavaliere per lo sviluppo impresso all’industria discografica inglese, in particolare al fonografo Victor, noto come «His Master’s Voice». Gli inviti degli Stirling erano feste in grande stile; gli ospiti avevano solo un piccolo obbligo: chi giocava a ping pong (così era chiamato in Inghilterra il tennis da tavolo) doveva
«obbligatoriamente» giocare contro Cissie Stirling. Erano molto pochi quelli che riuscivano a sconfiggere l’allegra ospite. Quando scoprimmo che anche gli Stirling erano appassionati collezionisti di libri rari, Lu e io ci sentimmo subito attratti da loro. I collezionisti di libri formano una cerchia molto chiusa e orgogliosa. Ci si sente superiori alla media, rispetto agli appassionati di libri, poiché ci si dedica anima e corpo allo studio della storia dei libri – le stranezze del tipografo, i trucchi dell’editore – e, soprattutto, ci si convince che un libro è il regalo più prezioso che si possa lasciare alla posterità. Noi collezionisti di libri pensiamo che il modo migliore per conoscere a fondo un autore sia quello di collezionare le sue prime edizioni. Accaparrandosi le prime edizioni, spesso si riesce a penetrare nell’essenza stessa dello scrittore: i suoi primi passi maldestri, le speranze infrante, i brutti sogni, le frustrazioni, il coraggio di andare avanti; tutto ciò che lo ha spinto a scrivere il libro è anche ciò che rende il libro stesso un esemplare da collezione. È probabile che tutti voi abbiate letto Il paradiso perduto di Milton e che vi sia piaciuto moltissimo, ma forse vi piacerebbe anche di più se sapeste che la prima edizione di questo classico – il cui frontespizio recitava così: Paradise Lost di JOHN MILTON – fu un totale fallimento. E lo sapevate che quando l’editore, scornato, pubblicò di malavoglia una seconda edizione scrisse il nome dell’autore a lettere minuscole John Milton? La seconda edizione non ebbe miglior sorte e fu così che sulla terza edizione il nome fu ulteriormente ristretto a J. Milton per poi ridursi alle sole iniziali J.M. nella quarta edizione. Ma poi il libro cominciò improvvisamente ad avere successo e così, nella quinta edizione, il nome John Milton apparve di nuovo scritto per esteso e infine, nella sesta edizione, il nome dell’autore ritornò al primitivo onore delle maiuscole: JOHN MILTON. Se sbadigliate e vi chiedete perché mai un fatto così insignificante dovrebbe farvi amare di più Il paradiso perduto, ebbene, noi ci sentiamo incompresi: ora sapete perché i collezionisti di libri rari sono così arroganti. Ero al buffet degli Stirling, quando mi si avvicinò un attore inglese che insisteva per dirmi cosa ne pensava lui di Jean Arthur: era la sua attrice americana preferita e avrebbe fatto follie per lei, che sapesse cucinare o no. Non riuscendo a capire lo spirito della battuta, sorrisi con aria sciocca e lui se ne andò, forse in cerca di una compagnia un po’ più brillante. Ripetei a Claridge e ai Whelan ciò che quell’attore mi aveva detto di Jean Arthur, confessando la mia difficoltà a capire il famoso humour inglese. «Ma non stava scherzando», mi disse ridendo Miriam Whelan. «Stava parlando del tuo ultimo film con Jean Arthur, quello che parla della sua abilità di cuoca. È in programmazione nelle sale di Londra proprio in questi giorni». «Sei tu che mi prendi in giro, adesso. Il mio ultimo film con Jean Arthur è stato È arrivata la felicità e lei non prepara neanche un po’ d’acqua calda». «Non ti do tutti i torti se lo rinneghi, Frank...», disse Tim Whelan scherzosamente. «È un po’ tirato via». «Ma di che diavolo stai parlando?» «Il tuo film con la Columbia, quello intitolato If You Could Only Cook».34 «Non ne ho mai sentito parlare». «Ma dai, Frank. Il tuo nome è scritto dappertutto, sullo schermo e sui cartelloni pubblicitari». Il giorno dopo telefonai a Joe Friedman, responsabile della Columbia a Londra, per chiedergli notizie di Orizzonte perduto. Mi disse che tutti gli spettacoli facevano il pienone e allora gli chiesi, con l’aria più innocente di questo mondo, come stesse andando Sarò tua. Mi rispose senza esitare che stava guadagnando un sacco, dato che le sale inglesi pagavano prezzi esorbitanti per le produzioni Capra. Sperava proprio che gliene procurassi tutti gli anni due o tre.
Deve esserci qualcuno che dà i numeri... Mi precipitai da Friedman in Wardour Street e chiesi di dare un occhio alla rassegna stampa del film. E lì, in quella gigantesca raccolta di ritagli di giornale, trovai tutta la storia: inserzioni a pagamento, recensioni e commenti su un piccolo film insignificante, Sarò tua, una produzione Frank Capra, con la regia di Frank Capra. Le recensioni non erano molto brillanti – la maggior parte era del tipo: «Non all’altezza della produzione Capra». Non potevo credere ai miei occhi. Un film di cui non avevo mai sentito parlare era reclamizzato e venduto in Inghilterra, in termini molto lusinghieri, come un film di Capra. Friedman non ebbe problemi a lasciarmi portare in albergo il libro delle recensioni e quindi l’imbroglio non era certo stato opera sua. Ma chi, all’interno della Columbia Picture, ormai diventata una società a responsabilità internazionale, avrebbe potuto organizzare un simile imbroglio, per quanto ovvio e maldestro? Mi venne subito in mente un nome – ma no, Harry Cohn non avrebbe potuto essere così stupido. O sì? Spedii un telegramma a un amico per chiedere di controllare se il mio nome apparisse nei titoli di testa del film in America. Risposta: no. Dovevo fare ancora qualcosa a Londra: un’intervista – sotto i riflettori più caldi che avessi mai sentito, davanti a un lungo tubo nero e quadrato, che chiamavano telecamera – nello studio televisivo sperimentale della British Broadcasting Corporation, a Savoy Hill, sullo Strand. Una volta finito anche questo, me ne andai con Lu (e naturalmente con la rassegna stampa) a Parigi e poi a Cap d’Antibes; ci dirigemmo quindi alla volta di Firenze, Roma e Napoli, dove ci trovammo di nuovo con Riskin. Finalmente ci imbarcammo sul Rex per tornare a New York e da lì continuammo senza fermarci fino a Hollywood dove, con le recensioni sotto braccio, mi presentai subito in ufficio da Harry Cohn per chiedergli: «Harry, che cosa intendevi fare mettendo il mio nome su un film che non ho mai visto? E perché l’hai venduto come se fosse un film di Frank Capra?» Quella faccia di bronzo non fece una piega. «Oh, quello! Per l’amor del cielo... Qualche cervellone negli uffici di New York si è fatto venire la brillante idea di fare ancora un po’ di grana in Inghilterra. Ti fa schifo, perdio, vedere che la Columbia racimola ancora un po’ di soldi in Inghilterra? Forse riesce a venirne fuori una fettina anche per te». «Una fettina per me...» «Fatti furbo», sentenziò, «guadagnaci anche tu come tutti gli altri. Ogni anno metterò il tuo nome su due dei miei film minori, e dividiamo i profitti. Sarò tua potrebbe essere il primo di una lunga serie. Chi vuoi che si accorga della differenza?» E quando finalmente mi chiese: «E allora, che ne dici? Vuoi? D’accordo?», tutto ciò che riuscii a farfugliare fu: «Dannazione, Harry. Non avevo mai pensato che tu fossi così stupido, ma è proprio quello che sei. Stupido! Se hai pensato anche per un solo istante che io avrei messo il mio nome sul film di qualcun altro, per soldi». «Oh, soldi. Ma chi credi di essere, il Papa forse? E che cosa mi dici del prezzo che hai fatto pagare alla Columbia? Controllo totale su tutti i tuoi film, regista-produttore. I critici scrivono perfino che Capra è la Columbia, e non Cohn. E allora, perché diavolo non dovrei approfittarne un po’ anch’io? È un affare o no?» Era un ultimatum bello e buono, più per il tono di voce che per le parole. Proprio come un mafioso, era pronto a incriminarmi e poi a comprarmi, a togliermi ogni alone di superiorità e a costringermi a «stare al suo gioco, visto che mangiavo alla sua greppia». E se avessi rifiutato, la minaccia – neanche tanto velata – che mi si faceva era di farmi perdere la preziosa autorità che potevo esercitare sui miei film. Durante l’ascesa della Columbia da Poverty Row verso le alte vette del potere, avevamo sfiorato ripetutamente l’orlo della rottura in simili scontri dovuti al nostro carattere. Ogni volta Cohn aveva dovuto arrendersi davanti al mio ultimatum «si fa a modo mio, oppure me ne vado»
dato che aveva bisogno di me, e ogni volta la misura del suo risentimento subiva un’impennata. Ora che la Columbia aveva scalato le cime del successo, Cohn si sentiva abbastanza forte da poter scegliere il momento, il luogo e le condizioni di un altro scontro. Il suo era un ultimatum. «Da ora in poi si fa a modo mio. Stai al gioco o te ne vai». Eravamo sul piede di guerra. Intuii una sorta di disperazione nel suo atteggiamento. Chissà, forse aveva fatto il passo più lungo della gamba, mettendo il mio nome sul film Sarò tua prima di chiedermelo. Spingermi a un accordo era forse un modo per fare marcia indietro, per coprire il suo furto? Gli rilanciai la palla a mia volta: «Harry, se scindi il mio contratto e mi lasci libero, non ti citerò in giudizio per Sarò tua». «Sarai mica matto!», muggì. La palla era di nuovo al centro. «No di certo, ti sto solo facendo un favore. Me ne vado dalla Columbia, Harry. Ciao». «Fallo», mi urlò dietro, «e non lavorerai mai più! Il contratto ti lega ancora per tre film, non dimenticartelo!» Andai in ufficio, tolsi tutto dalla mia scrivania e uscii dagli studios della Columbia; per sempre, speravo. Adesso, naturalmente, dovevo trovarmi un agente che mi rappresentasse, un duro. Erano ormai passati dieci anni da quando il mio primo agente, Demmy Lampson, mi aveva scaricato. L’anno dopo, la Small Agency mi aveva mollato quando avevo concluso il primo contratto con la Columbia senza avere consultato Morris Small. Da allora me l’ero cavata benissimo senza nessuno che pretendesse il dieci per cento, e ora non c’era nessun bisogno di ricorrere al loro aiuto. E invece ne avevo proprio bisogno. Tuttavia, visto che ultimamente avevo rifiutato così tanti agenti, il mio ego esitava a cercare il loro aiuto. Inoltre, ero convinto che la mia causa contro la Columbia fosse talmente giusta che sicuramente la virtù avrebbe trionfato su Cohn senza nessuna difficoltà. E così, invece di un agente, assunsi un giovane avvocato senza nessuna esperienza, e citai in tribunale la Columbia e Harry Cohn per frode, appropriazione indebita, e un’altra mezza dozzina di termini giuridici, il cui significato era più o meno: «Sei uno sporco farabutto». Chiedevo centomila dollari di danni per uso fraudolento del mio nome e inoltre chiedevo che il mio contratto fosse rescisso per indegnità morale, o qualcosa del genere. Cohn rispose togliendomi lo stipendio e notificandomi che il contratto sarebbe stato sospeso finché io non fossi tornato alla Columbia e mi fossi presentato al lavoro in base ai miei impegni contrattuali. Eravamo in un periodo in cui gli studios si erano accordati per punire gli artisti sotto contratto che si erano montati troppo la testa. La Warner aveva sospeso per insubordinazione James Cagney, Bette Davis e Olivia de Havilland. Non solo gli era stato tolto lo stipendio, ma le clausole capestro dei contratti impedivano loro di lavorare per qualcun altro. Avrebbero dovuto sottomettersi, oppure non avrebbero mai più trovato lavoro nel cinema. Olivia de Havilland tenne duro: fece causa perché il suo contratto «schiavista» fosse annullato. Vinse, e la decisione della corte fu una pietra miliare contro la servitù involontaria: nessuno avrebbe potuto essere tenuto sotto esclusivo contratto personale per un periodo superiore ai sette anni, comprese tutte le interruzioni. Questo decreto rese ancora più duro l’atteggiamento della Motion Picture Producers Association (MPPA) contro chi scavalcava i contratti. Si accordarono tacitamente di non rubarsi l’un l’altro le persone di talento, di non parlare, né avvicinare né tantomeno di promettere regali o condizioni future a personale sotto contratto sospeso da una delle case di produzione. Io lo sapevo benissimo, ma il mio era un processo per direttissima. Tutto quello che la giuria avrebbe dovuto fare era leggere, sulla rassegna stampa presa a Londra, quanto vi si diceva di Sarò tua e Cohn se la sarebbe vista brutta. Pensavo, inoltre, che nessun’altra compagnia avrebbe osato appoggiare Cohn in un caso di frode così palese. E così annunciai ingenuamente sui giornali che – per gravi ragioni
personali (un’insinuazione lanciata a eventuali cronisti curiosi) avevo troncato i rapporti con la Columbia. Poi me ne andai tranquillamente sulla spiaggia di Malibù, aspettando di essere sommerso dalle offerte di altri studios. Non si diceva forse in giro che ero il regista più ricercato di tutta Hollywood? Aspettai, giorno dopo giorno. Neanche una telefonata. Mese dopo mese aspettai, mangiandomi le unghie. Il telefono restava muto. Ero l’appestato. Come Eisenstein a Mosca ero forse diventato un paria? Una sola parola di Stalin lo aveva messo in isolamento. Evidentemente una sola parola di Cohn era bastata per rendermi un «intoccabile» dagli altri studios. La politica dittatoriale del Cremlino non era molto diversa dall’autocrazia economica di Hollywood. Il potere di mettere qualcuno «sulla lista nera» si era forse esteso anche alla stampa? Nessun cronista mi cercò per scoprire che cosa fosse successo. Avevo semplicemente cessato di esistere. E allora, avanti! Anche a costo di rovinarmi volevo giustizia, e liberarmi da Cohn. Dopo mesi di attesa, fui chiamato per un’udienza preliminare alla Corte Superiore di Los Angeles. «Niente cavilli...», sussurrai al mio legale mentre entravamo nell’aula. «Fammi solo salire sul banco degli imputati e lasciami aprire questo libro di recensioni davanti al giudice. È tutto qui. Arriveremo al verdetto in due minuti». Nell’aula vidi un gruppo di spettatori molto ben vestiti e mi chiesi chi fossero. L’interrogativo fu presto sciolto: erano tutti legali della Columbia. Il giudice entrò e dichiarò aperta la seduta. Prima ancora che il mio legale iniziasse la sua arringa, tutta quella batteria di avvocati della Columbia sollevò un’«obiezione», così dissero: «Obiezione, Vostro Onore», e cominciarono a leggere. Sostenevano che, essendo la Columbia Studios di Hollywood una pura e semplice diramazione organizzativa della Columbia Pictures, Inc. di New York, era ovvio che la Columbia Studios non poteva essere perseguiti o ritenuti responsabili per azioni compiute dalla compagnia di New York. Il giudice pose una o due domande, poi sentenziò: «Obiezione accolta. Il caso è chiuso». Balzai in piedi. «Vostro Onore, il presidente della compagnia, Harry Cohn, sta a Hollywood. È lui il responsabile di tutto. Se solo volete dare un occhio a questa rassegna stampa...» Il giudice batté il suo martelletto. «L’obiezione è accolta. Uscite dall’aula!» Dopo avere aspettato per mesi, ci vollero solo pochi minuti perché la mia causa, il mio avvocato, io, e il mio prezioso libro sotto braccio, fossimo gettati fuori dall’aula. La prima ripresa era stata vinta da Cohn, prima ancora che io riuscissi a infilare i guantoni. «Me lo sentivo», disse il mio brillante avvocato. «Avremmo dovuto fare causa a New York». E me lo diceva solo adesso! Lo spedii a est per intentare una seconda causa, questa volta contro la Columbia Pictures, Inc. di New York. Io intanto me ne andai all’ospedale Good Samaritan per accompagnare Lu che doveva avere il terzo figlio. Proprio quello stesso giorno anche Gary Cooper aveva accompagnato la moglie Rocky nello stesso ospedale, dato che stava per nascere il loro primo bambino. Come due giocatori pronti a entrare in campo, l’alto Gary e io misuravamo a grandi passi le sale della maternità, lanciavamo sguardi ansiosi e imploranti alle infermiere che passavano senza degnarci di uno sguardo. Il grand’uomo «Coop» diventava sempre più agitato. Aveva una camera vicino a quella di Rocky, ma andò ad acquattarsi nei corridoi e nei pressi delle uscite di sicurezza, dove poteva fumare una sigaretta dietro l’altra. Finalmente fu emesso il primo bollettino: in sala parto Lu aveva battuto Rocky – era nata una bellissima bambina blu (Lulu). Il dottor Vruink, cacciandole le dita in gola, l’aveva sculacciata fino a farla diventare bella rossa. Gary e io, come due idioti, sbirciammo la piccola Lulu dai vetri della nursery. Il giorno dopo nacque la bellissima bambina di Rocky, Maria, e io aiutai Gary a sbirciare la piccola Maria. Lulu e Maria, nate a distanza di un giorno l’una dall’altra, crebbero inseparabili come due gemelle siamesi finché andarono al college. Ancora oggi sono molto legate.
Che ne era stato della mia causa? Chiamavo il mio avvocato a New York quasi ogni giorno. Con l’assistenza legale di un salatissimo studio di New York, aveva di nuovo intentato causa alla Columbia, e ora aspettava che fosse fissato il giorno dell’udienza preliminare. «Non ti agitare, Frank», continuava a tranquillizzarmi. «Questa volta metteremo la Columbia al tappeto. Potrebbero volerci delle settimane, quindi rilassati e vai a pescare». Rilassarsi... facile a dirlo. Sarebbe come chiedere di rilassarsi a un grizzly preso in trappola. Ero arrivato in alto e soprattutto ero a quel punto della carriera professionale in cui ogni film era migliore del precedente, dalla mia mente scaturivano continuamente nuove idee e finalmente sentivo di padroneggiare bene gli strumenti che avevo a disposizione. Riuscivo a far immedesimare gli attori nella loro parte in modo straordinario, trasformavo una trama noiosa in una serie di scene divertenti, avevo scoperto il trucco per rendere veritiere e reali le scene proiettate sullo sfondo, un segreto che non riuscivano a capire a fondo neppure i miei operatori, avevo sviluppato un sesto senso del «ritmo» (per rendere più agili i dialoghi, non fare alzare la voce, ma al contrario farla abbassare). Ma forse più importante di tutto il resto era il fatto che sentivo di diventare un vero artista, forse un grande artista... e proprio ora ero bandito dal cinema, e Dio solo sa per quanto tempo. Perché? Solo per essermi rifiutato di prestare il mio nome a una frode. Quando quelle settimane di ozio forzato diventarono lunghi mesi, il mio naturale buonumore, entusiasmo e ingenuo idealismo cominciarono a dileguarsi e a lasciare il posto a un cupo cinismo nei confronti della legge, dell’assurdo mondo di Hollywood, e perfino degli amici. Sì, perché, con mia grande sorpresa, i miei amici presero molto alla leggera quello che per me era stato un gesto criminale. Max Winslow, per esempio, che era un uomo simpatico e gioviale, dall’ottimismo contagioso, mi rimproverò per il mio atteggiamento fin dal primo giorno: «Frank, torna a lavorare, perdio. Stai andando forte, hai collezionato cinque successi, uno di fila all’altro. Non vorrai perdere questo momento per una stupida discussione con Cohn...» Poi fu la volta di Myles Connolly, che era diventato un importante stipulatore di contratti della MGM. Gli raccontai quello che era successo, e gli mostrai la rassegna stampa sul film, aspettandomi che avrebbe appoggiato il mio gesto e condannato l’operato di Cohn. Ma non fu così. Sfogliò il libro, impassibile, masticando chewing-gum, poi lo chiuse di scatto e disse soltanto: «Be’, questo è normale per Cohn». «Normale per Cohn?», esclamai io. «Ma questo è il tiro più brutto che abbia mai...» «Frank, ma cose del genere succedono tutti i giorni, nello sport, negli affari, nella politica e sì, perfino nella dichiarazione delle tasse. Senti, se vuoi il mio parere, hai fatto una gran sciocchezza ad andartene dalla Columbia. Ti sei comportato come uno che abbandona la moglie dopo aver fatto con lei dodici figli». «Myles! Io ho lasciato la Columbia a causa di una frode». «E va bene, è una frode, ma te la sei voluta. Perché hai continuato a firmare con Cohn dei contratti della durata di dieci anni? Tu lo conoscevi, sapevi che non era certo un San Francesco, come del resto neanche tu: ti andava bene il tipo di contratto con Cohn, in un certo modo tu lo hai usato per diventare un grosso regista, per avere il controllo dei tuoi film; lo hai detto tu stesso. E perché allora scaldarsi tanto quando Cohn cerca di usare te?» «Perdio, Myles, stai cercando di dirmi che sarei io dalla parte del torto?» «No, non ho detto che sei dalla parte del torto, ma certamente che non sei stato molto furbo, perché stai facendo esattamente il gioco di Cohn. Fra ricorsi e appelli lui sarà in grado di tenerti disoccupato per anni». «Ehi, un minuto! Mi stai forse dicendo che dovrei rendermi complice di una frode solo per salvarmi il posto? Sono venuto qui per avere da te una parola di incoraggiamento. Io ti avevo preso
sul serio quando dicevi che il male è male, e che rimane tale anche se cerchi di infiocchettarlo di nastri rosa per mascherarlo; ti avevo preso sul serio quando dicevi che la verità non è relativa ma assoluta, e che io ero un cinico calcolatore, che accettava i compromessi. E ora mi stai dicendo che dovrei stare al gioco, accettare il compromesso. Che cosa diavolo ti hanno fatto alla MGM? Ti stanno facendo diventare un ipocrita?» Si alzò nervosamente e si mise a camminare per la stanza; era furioso e mi avrebbe volentieri tirato un pugno sul naso. «Senti Frank», disse cercando di reprimere la collera. «Nessuno mi sta facendo diventare un ipocrita. Sto lavorando con due delle persone più straordinarie che abbia mai incontrato, Joe Pasternak e un regista che si chiama Henry Koster, che è bravo quanto te, e ha più cuore e più buon gusto di te...» «Che significa soltanto che ti dà ragione più di quanto te ne dia io. Giusto?» «Oh, va all’inferno!», esclamò dirigendosi verso la porta. «Myles, non ti ricordi i discorsi sull’impegno? Sul misurarsi con i grandi, i poeti e i profeti? E mettici pure i santi e i martiri. Buona fortuna alla MGM!» Arrivato alla porta si voltò: «Io sono impegnato, amico mio, e sto lavorando proprio in quella direzione, mentre tu sei qui a piagnucolare e a torturarti, facendo esattamente il gioco di quel farabutto di Cohn. Non dimenticare che la Columbia è un grosso studio, adesso, e non ha più bisogno di te come un tempo. Cohn darebbe il suo braccio destro per dimostrare a tutti che la Columbia non è Frank Capra, e tu gli stai rendendo la cosa ancora più facile. Sei proprio stupido». Se ne andò sbattendo la porta, lasciandomi lì con la testa che mi ronzava e un nodo nello stomaco. A questo punto forse conviene che vi dica quanto sia terribile per un regista non poter lavorare. In un certo senso si smette di vivere: si guardano le cose ma non le si vede davvero, si ascolta ma non si sente, se si parla lo si fa solo mugugnando. Si è continuamente agitati, ci si muove, si va, si viene, si sta, si fischietta, si giocherella nervosamente con un mazzo di chiavi o di monetine; se una porta fa resistenza si è capaci di farla saltare dai cardini. «Caro», mi disse un giorno mia moglie, che capiva il mio stato di agitazione, «perché non andiamo a fare una vacanza, prima che cominci a picchiare i bambini?» Andammo a Silver Lake, sulla Sierra Nevada, dove un tempo andavo a pescare e a far pazzie con Al Roscoe e Wally Beery. Ma il rustico di Beery era stato spazzato via da una valanga di neve, e la pesca si dimostrò un’occupazione troppo poco impegnativa: lasciava troppo tempo per pensare. Provammo con la pesca sul fiume, più vivace e avventurosa, ma non servì. Non avevo voglia di pescare, né di leggere, né di suonare il piano. Volevo lavorare, fare film, volevo svegliarmi al mattino sapendo che da qualche parte avevano bisogno di me. Come invidiavo quei giorni felici, quelle mattine in cui mi alzavo sapendo che mi aspettavano decine di problemi da affrontare, che avrei risolto a volte blandendo, altre insultando, ma soprattutto con il coraggio di dire Sì! o No!, spesso senza sapere quale fosse la scelta giusta. Quei giorni di tempeste e baruffe, con gli attori che si lamentavano per la loro parte, gli sceneggiatori che protestavano per un dialogo cambiato, e gli operatori che impazzivano per riuscire a rispettare i tempi. O quando tutto il lavoro di una giornata andava perduto durante il montaggio per qualche errore di laboratorio, o quei giorni in cui qualche pezzo grosso dello studio si affacciava sul set nel bel mezzo di una scena gridando: «Dovete finire per martedì o si va in fallimento!» Giorni felici, quando il Tempo sembrava ansimare alle spalle e tendeva i nervi, quando la pressione del sangue saliva furiosamente, e, come per incanto, da tutto quel caos uscivano scene indimenticabili. Sarebbero più ritornati? Il cinema è una malattia, e una volta che ti è entrato nel sangue non te ne liberi più; come con l’eroina, di cui finisci per aver bisogno in dosi sempre più grandi. L’astinenza dalla droga è una
tortura per il corpo, ma l’astinenza dal set distrugge l’anima di un regista, la sua essenza. Cercai di usare la mia energia occupandomi d’altro. Mi buttai a lavorare nella mia veste di presidente dell’Academy, litigavo a voce alta con tutti, andavo a pregare in chiesa con raddoppiato vigore, cercavo di stancarmi camminando, mangiando, guidando la mia macchina a tutta velocità, nella speranza di scrollarmi di dosso i dubbi e la noia. Ma ci furono anche le ore felici che trascorsi con un amico russo, il compositore Dimitri Tiomkin, e che mi aiutò più di una volta a far passare il tempo e la noia. Dopo il successo ottenuto con la colonna sonora di Orizzonte perduto, Tiomkin era ora un compositore molto richiesto. Con la moglie Albertina Rasch (che era stata una ballerina famosa), aveva incominciato a organizzare splendide feste, che in fatto di lusso, eleganza, buona musica e ottimo vino sembravano richiamare gli sfarzi dell’antica Vienna di Strauss. Tiomkin fu uno dei pochi amici che non cercò di darmi consigli a proposito della mia situazione con la Columbia. «Fronk! Stai annoiando, vero?», mi chiedeva al telefono, parlando un inglese così sgangherato che non potevi trattenere il riso. «Vengo a trovarti, così faccio divertirti un poco, no? Oh, Fronk! Ho storia da raccontarti [era il più grande pettegolo di tutta Hollywood]. Ascolta, babushka, forse io do a te lezione di musica, sì? No, no! Niente piano, tu suona piano così male che mie orecchie non possono sentire. Parliamo musica. Bene? Vengo adesso». Durante le lunghe passeggiate sulla spiaggia mi insegnava la teoria musicale: «Bene, papitchka, quali sono note in accordo di Do maggiore?» «Vediamo... Do - Mi - Sol - Do». «Bene. Quale nota dominante di Do maggiore? Sol settima, bene! E qual è accordo di quarta di Do maggiore? Fa maggiore, bene... Qual è dominante?... E quinta aumentata?... L’accordo di Do diminuito?... Minore?» Mi insegnò così la combinazione delle note e tutti i possibili accordi delle dodici tonalità. Credo che nessuno ebbe mai un insegnante di composizione così illustre, che per di più inseriva nelle sue lezioni commenti e battute su tutta l’aristocrazia di Hollywood. Quelle lezioni non erano per me solo un divertente passatempo, ma mi spinsero a scrivere qualche semplice melodia. Peccato che, dopo aver scritto le note, non ero in grado di suonarle al piano, perché non sapevo leggere la musica. Chissà, forse il mondo ha perso un secondo Puccini. Ci furono anche altri momenti felici in quell’anno difficile, momenti che mi aiutarono a mantenermi abbastanza sano di mente. Lu e io eravamo diventati intimi amici di Ronald e Benita Colman, e venivamo spesso invitati alle cene che offrivano nel loro palazzo di Beverly Hills. I frequentatori più assidui – a parte le celebrità inglesi di passaggio a Los Angeles, da Bertrand Russell a Laurence Olivier, Vivien Leigh, James Hilton e molti altri – erano Charles e «Pat» Boyer, Richard e Jessica Barthelmess, Lady Ashley, Brian Aherne, Bart Marshall e Warner Baxter. Ronnie e Benita erano forse la coppia più splendida di tutta Hollywood; entrambi amavano tutto ciò che era bello, fragile e sensibile, ed erano addolorati di non potere avere figli. Un giorno, durante una conversazione, improvvisai una ricetta contro la sterilità che divertì moltissimo Ronnie, e che spesso mi chiedeva di raccontare per divertire i suoi ospiti. «Se volete ascoltarlo», annunciava in tono solenne, «il dottor Capra ha qualche consiglio interessante per quelli di voi che vorrebbero procreare e che fino a ora non hanno avuto successo. Prego, dottore». «Ecco», cominciavo io come un conferenziere, «dovete sapere che il sesso non è un fenomeno meramente biologico, ma è prima di tutto un’esperienza emotiva e psicologica, forse la più forte di tutte. Essa consiste di tre parti, come un dramma in tre atti: Desiderio, Caccia e Rapimento. Ogni atto è il prologo di quello successivo. Senza il desiderio non ci può essere la caccia, e senza la caccia non si arriva all’estasi. Se i tre atti vengono rappresentati nel giusto ordine non c’è dubbio che
colpirete nel segno, e il risultato sarà una nuova vita; ma se i tre atti vengono rappresentati malamente, con interruzioni, discussioni, approcci di routine, o se vengono impediti nel loro succedersi naturale con l’introduzione di elementi estranei, o se cambiate l’ordine, bene, allora il risultato sarà una serie di prove riuscite male: non ci sarà vera bellezza, né nuova vita. «Ora, che cosa succede di solito dopo che una timida sposa e un aitante sposo hanno pronunciato il loro Sì sull’altare? Soprattutto se questi hanno un certo livello di cultura, decidono di “pianificare” la vita familiare, per esempio di aspettare qualche anno prima di avere figli, qualche volta addirittura decidono di dormire in stanze separate. La tradizione poi ha insegnato loro che il rapporto sessuale è qualcosa che si pratica solo la sera, prima di addormentarsi, un momento a cui entrambi arrivano stanchi e affaticati dopo una giornata di lavoro, o magari una sera passata a far festa, proprio quando, insomma, le loro energie vitali sono al punto più basso. «Ed ecco allora la routine abituale al momento di andare a letto. Se al marito è rimasta ancora qualche briciola di desiderio, nonostante la stanchezza, egli farà qualche timido approccio alla moglie. Lei risponderà timidamente, per dimostrargli il suo amore, e si alzerà dal letto dicendogli che in pochi minuti sarà di nuovo da lui. Il marito continuerà a questo punto la sua caccia? No, niente affatto; si sdraierà nel letto aspettando pazientemente. Ma se non c’è la caccia, mancherà qui il secondo atto del dramma. «E che cosa fa la moglie a questo punto? Si spoglia, si toglie il trucco, fa un bagno, e poi, per altri dieci minuti, armeggia con creme e aggeggi contraccettivi, che sembrano fatti apposta per uccidere qualunque libido. Finalmente, profumata e protetta contro eventi non pianificati, si infilerà nel letto del marito, per trovarlo ormai addormentato, non rendendosi conto che anche una patata bollente diventa fredda in un’ora. Frustrata, forse anche un po’ offesa, ritornerà nella sua stanza per togliersi quegli aggeggi e andrà a dormire. Non è neppure una prova riuscita male. «Ma poniamo il fatto che il marito, con un’intensa concentrazione, riesca a mantenersi sveglio per tutto questo tempo, e che i due arrivino a raggiungere un orgasmo. A questo punto però gli umori caldi dei loro corpi sono bloccati e raffreddati immediatamente dai contraccettivi. «Dopo alcuni anni di queste pratiche, il corpo capisce il messaggio, e così, quando infine i due decidono che è il momento di fare un figlio e la moglie butta via i contraccettivi, non succede niente. Il loro corpo ha memorizzato un messaggio molto chiaro: tutti i precedenti tentativi sono stati frustrati dai contraccettivi, e quindi il corpo non risponde più, anche se i contraccettivi sono stati rimossi. «Ma quale può essere allora la cura? La cura è semplicemente quella di ritornare all’ordine naturale di desiderio, caccia e rapimento. La cura è quella di tornare a casa all’ora di pranzo, quando la moglie meno se l’aspetta, di afferrarla, strapparle i vestiti, le mutandine, e rapirla nell’estasi! E farlo lì, dove l’avete trovata: sul pavimento, in cucina, sulle scale. L’eccitazione e l’estasi provocheranno uno shock nei vostri corpi tale da liberarli dalla sindrome del contraccettivo, ed essi risponderanno di nuovo. «Questa è la mia ricetta, signori. Volete dei bambini? Allora tornate a casa all’ora di pranzo e violentate le vostre mogli». La storia si concluse inaspettatamente con un lieto fine, anche se dovuto certamente a una strana coincidenza: nel giro di due anni sia i Colman che i Boyer (anche loro non avevano figli) diedero alla luce un bambino. Sì, sono certamente grato a Tiomkin e ai Colman per aver rallegrato i giorni e le serate del mio lungo esilio. Ma poi venivano le notti, notti terribili, in cui il corpo e la mente imploravano un po’ di sonno ristoratore, un sonno capace di risparmiarmi quel lungo incubo. Ma il sonno mi era diventato nemico. Vegliavo per ore, cercando di alleviare il dolore che mi prendeva allo stomaco, e che non era altro, secondo il mio dottore, che il «mal di stomaco di un
regista a riposo forzato». Ma i crampi continuavano ad aumentare, accompagnati dalla nausea; cercavo invano di dare sfogo a quella nausea, che si bloccava lì, fra la gola e lo stomaco, ma non riuscivo a buttare fuori niente. Anche il sollievo di vomitare mi era impedito. Sembrava davvero che Dio stesso mi avesse dimenticato. Rimuginavo lugubri pensieri di vendetta, immaginavo di colpire la testa di Cohn a colpi di accetta, tagliarla a pezzi, o tenergliela sott’acqua per affogarlo. Se non fosse stato per l’ottimismo e l’aiuto di mia moglie, credo che sarei davvero impazzito. La prima notte che mi vide insonne, che misuravo a larghi passi la sala da pranzo, scoppiò quasi in una risata: «Che cosa fai lì, amore? Stai forse facendo un picchetto?» Il mio istinto di regista memorizzò la battuta, che usai poi nel film La vita è meravigliosa. Ma in quel momento neppure Groucho Marx avrebbe potuto farmi ridere. Ritornò subito dopo con una vestaglia dicendo: «Ecco, metti su questa prima che ti congeli. Mi è venuta un’idea splendida; è stata forse la stessa idea che ti ha fatto svegliare?» «Di quale splendida idea stai parlando?» «Siediti, caro. Ti vado a preparare un po’ di colazione e un buon caffè». Andò in cucina, accese le luci e incominciò a spignattare, continuando la conversazione. «Stavo pensando al terreno che abbiamo comprato a Brentwood l’anno scorso. Dicevi che tuo padre l’avrebbe trasformato in un paradiso di fiori e di frutta; Roland Coates [il famoso architetto] ci aveva anche disegnato il progetto per una bellissima casa...» «Ma sai benissimo che ho smesso di pensarci da quando sono senza lavoro...» «Sì, e hai anche smesso di vivere. Cominciamo a costruire quella casa, caro, e tu ci puoi piantare l’agrumeto. So che ce l’hai nel sangue». «Sei proprio pazza. Ti sei dimenticata che ora abbiamo nove bocche da sfamare? Nove. Contale: tu e io, tre bambini, la cuoca, la bambinaia, l’autista, e poi il giardiniere nella tenuta di Brentwood. No, un momento, sono dieci bocche, anzi UNDICI, se contiamo mia madre e mia sorella Ann. Metterci a costruire una casa adesso? E dove li troviamo i soldi?» «Usa il tuo coraggio, Frank, la tua insolenza. Quando Harry Cohn saprà che possiamo continuare a vivere anche senza di lui schiatterà dalla rabbia». Nel giro di due mesi erano pronte le fondamenta della nuova casa, e io, con un piccolo trattore nuovo fiammante, avevo spianato e arato da solo due degli otto acri di quel terreno che sarebbe poi diventato un fantastico frutteto, secondo solo a quello che anni prima mio padre aveva piantato a Sierra Madre. «Bisogna piantare gli alberi nuovi quando hanno almeno due anni», diceva Papà, «perché a quel punto le piante troppo deboli saranno state selezionate naturalmente. E bisogna piantarle in ottobre, dargli tutto il tempo dell’inverno per lasciarle innamorare della loro nuova casa, e allora sì che, quando arriverà la primavera, cresceranno felici». Papà era davvero un poeta più che un giardiniere o forse, in fondo, non è la stessa cosa? E così, mentre Lu e i bambini seguivano i lavori di costruzione della casa, io piantavo alberi, scoprendo quello che mio padre sapeva bene, e che sanno tutti quelli che lavorano la terra, cioè che niente risolleva lo spirito più del contatto con la natura, del lavoro di preparare un terreno fertile e fecondo per impiantarvi semi e arboscelli pronti per una nuova vita. Per qualche tempo il sudore e il contatto con la terra riuscirono ad allentare i miei crampi allo stomaco. Una sera, mentre mi lavavo dopo una giornata di lavoro, mi fermai a osservare Joe, il nostro giardiniere messicano. In piedi, con la testa appoggiata fra le mani che tenevano la zappa, mi guardava con occhi interrogativi. Per Joe c’erano soltanto due realtà: i ricchi e i poveri; i poveri lavoravano, mentre i ricchi riposavano e si godevano la vita. Io possedevo quella terra, e quindi ero ricco. E allora perché non passavo il tempo sdraiato su un’amaca, circondato da servitori che mi
rinfrescavano coi ventagli? «Non c’è niente come la buona terra, non è vero, Joe?», gli dissi lavandomi la faccia. «Non ci credo che siete un grande uomo del cinema», disse senza battere ciglio. «Perché lavorereste con la zappa, come me, che sono un povero contadino?» Non so perché, ma quel commento colpì nel segno. «Te lo dirò io il perché, Joe!» Buttai giù la zappa, divelsi con le mani una piantina appena piantata, e la pestai con i piedi: «Perché sono pazzo, ecco perché!», e me ne andai. Lu, che mi teneva d’occhio dalla casa, quando mi vide calpestare una pianta e calciare contro le zolle di terra fresca, chiamò in fretta i bambini e li mise in macchina; poi si rivolse a me, che mi stavo avvicinando, e mi disse: «Caro, credo proprio che sia ora di andare a fare una bella nuotata». «Una nuotata. Splendido». Salii in macchina e richiusi sbattendo la portiera. «Quanto tempo ci mettono quei lavativi a finire quello schifo di casa? Ci stanno mangiando tutti i soldi». Era stata una giornata lunga, una giornata difficile da digerire. Il sole era ormai basso sull’orizzonte, ed eravamo tutti in spiaggia in costume da bagno (ottobre è il mese più bello a Malibù). Vivie, la bambinaia, teneva in braccio Lulu, di appena due mesi, che esplorava le meraviglie della sabbia fra le dita delle sue manine; Johnny, di due anni e mezzo, correva avanti e indietro lungo la spiaggia come un piccolo uccello acquatico, urlando di gioia quando l’acqua arrivava a lambirgli i piedi; io ero nell’acqua con Frankie, di tre anni e mezzo, e meccanicamente cercavo di insegnargli a nuotare sulle onde, ma la mia mente vagava lontana. Lu, seduta sulla spiaggia, mi guardava. Entrambi sapevamo che non poteva andare avanti così, che qualcosa doveva succedere. «Telefono! Una chiamata da New York!», si sentì a un tratto urlare dal cancello della nostra casa, che distava solo una trentina di metri dalla spiaggia. Era Rosa, la nostra cuoca danese. Corsi fuori dall’acqua. «Dannazione, Lu, è il nostro avvocato che chiama da New York. Augurami buona fortuna, cara...» Ancora gocciolante, raggiunsi la casa, entrai nello studio, afferrai il telefono. Fu un colpo. Le parole del mio avvocato mi colpirono come zolle di terra gettate contro la mia bara: «Il caso è stato archiviato, la presunta offesa ha avuto luogo in un paese straniero... fuori dalla giurisdizione degli Stati Uniti... Di nuovo ho espresso il mio sdegno alla corte». Non so quanto tempo passai seduto sulla sedia rossa del mio studio, incapace di muovermi. Arrivò Lu, mi guardò pallida, e corse di sopra piangendo. Suonò di nuovo il telefono, ma non me ne accorsi finché Rosa urlò dalla cucina: «Telefono!» Sollevai il ricevitore. Era Bob Riskin. «Non hai avuto fortuna, amico. Cohn sta dando la notizia tutti; dice che scommette otto a cinque che nel giro di una settimana tornerai allo studio strisciando». «Sì, Bob, lo immagino...» Riappesi. Ero in preda al panico. Avevo bisogno di stare solo, di pensare. Mi avviai verso la spiaggia, cercando di non farmi vedere dai bambini, ma inutilmente. Frankie mi corse dietro, seguito da Johnny, che avanzava a quattro zampe: «Papà, aspettaci, aspettaci!» Mi girai verso di loro, furioso. «Lasciatemi in pace! Tornate subito a casa, subito!» A quelle parole si fermarono di scatto, spaventati. Sentivo crescere il nodo nello stomaco. Un cane correva sulla spiaggia, abbaiando verso di me. «Otto a cinque tornerai strisciando», mi sembrava ripetesse; lo coprii di insulti, tirandogli addosso manciate di sabbia bagnata; allora corse via. Sentii la voce di Frankie: «Papà, papà!» Mi guardavano attoniti, immobili come statue. «Siete ancora qui?», urlai. «Vi ho detto di lasciarmi in pace. Andatevene, dannazione!» A quel punto, terrorizzati, si misero a correre verso la casa chiamando a gran voce: «Mamma!» Preso dalla vergogna e dalla nausea, mi diressi verso gli scogli in fondo alla spiaggia, dove finivano le case. Raccolsi un pezzo di legno bagnato, e brandendolo come fosse un’arma gridavo: «Venite
avanti, bastardi!» Arrivato agli scogli, mi arrampicai fino a raggiungere una piccola insenatura isolata. Uno stormo di gabbiani si levò in volo; anche loro sembravano ripetere le stesse parole: «Otto a cinque ritornerai strisciando...» Lanciai verso di loro il bastone che avevo in mano, tirai sassi fino a stancarmi il braccio, pestavo di pugni la sabbia, finché, finalmente, riuscii a vomitare. E lì, in quel luogo solitario, battuto dalle onde dell’oceano, ebbero miseramente fine i miei capricci, la mia infantile incapacità di accettare la sconfitta. Finito lo sfogo, guardai a quella materia fetida che giaceva ai miei piedi, e scoppiai a ridere. Il presidente dell’Academy, il vincitore di premi prestigiosi, l’apostolo e profeta della nuova scuola del cinema... Eccolo qui, inginocchiato contro la sabbia, ridotto a sputare fuori la sua rabbia come un cane ammalato... I gabbiani, infastiditi da quella brusca interruzione, tornarono al loro posto sulle rocce. Mi alzai, e spostando con i piedi la sabbia per coprire quel che mi era uscito dallo stomaco, pensai che con quel gesto volevo seppellire definitivamente la mia sconfitta e la mia indecisione. Ritornai sulla spiaggia ormai deserta, e lentamente mi avviai verso casa; ero calmo, tranquillo, perché avevo finalmente preso una decisione: nessun compromesso, non mi sarei arreso, non sarei tornato a strisciare da Cohn. Era ormai quasi buio quando raggiunsi il cancello. Vidi la nostra casa, calda e luminosa, dove mi aspettavano mia moglie e i miei figli; mi sentivo così leggero che avrei potuto cantare. Era l’ora di cena, ma tutto era ancora silenzioso; sentii la voce di Rosa: «Signora Capra, Frankie e Johnny non vogliono mangiare niente». «È meglio che non mangino, Rosa». Nella voce di Lu c’era una nota di tristezza che mi fece trasalire. Come avrei potuto chiederle perdono? Ancora bagnato e coperto di sabbia mi avvicinai al pianoforte, e a tutto volume intonai la filastrocca preferita di Frankie e Johnny: «Three blind mice, three blind mice...» La sala da pranzo risuonò di urla di gioia: «È papà! È papà!» Arrivarono tutti di corsa, mettendosi a cantare, Lu, Rosa, Vivie (con in braccio Lulu che beveva dal biberon), i due bambini: «They all ran after the farmer’s wife, did you ever see such a sight in your life...» Frankie si mise a ballare, e Johnny, a quattro zampe, cercava di imitarlo; li raggiunsi sul tappeto, coprendoli di baci e di carezze, finché vidi gli occhi umidi di Lu. «Corri di sopra», la pregai, «e mettiti il vestito più bello che hai. Andiamo a cena da Chasen». I bambini continuavano a cantare in coro: «They all ran after the farmer’s wife...» Lo zoo di Capra era di nuovo tornato al suo stato normale. Correvamo lungo l’autostrada che costeggia l’oceano, da Malibù a Santa Monica, ammirando la bellezza della baia, con tutte quelle luci che sembravano incoronarla come una tiara di gemme preziose. Avevo tante cose da dire a Lu, ma non riuscivo a trovare le parole giuste. Per rompere il ghiaccio, cominciai a parlare del nostro amico Dave Chasen, ricordando come quell’idea di aprire un ristorante, ormai rinomato e famoso, fosse nata proprio intorno al camino della nostra casa di Malibù. Dave Chasen, con il suo ciuffo di capelli rossi che incorniciava un sorriso solare, era diventato il beniamino degli intellettuali di Manhattan quando, come spalla di Joe Cook, aveva recitato nella nostra versione cinematografica di Rain or Shine, Luci del circo. Quando però, poco dopo, il morbo di Parkinson distrusse la carriera di Joe Cook, anche il promettente futuro teatrale di Dave Chasen ebbe fine. E per quanto riguarda le sue possibilità nel cinema, potrà sembrare incredibile, ma durante i tristi anni del nazismo ci fu, anche in America, una strana censura nei confronti degli attori ebrei, messa in atto proprio dai pezzi grossi di Hollywood, anche loro ebrei. «Non vogliamo dare a Hitler
argomenti in più per odiarci», diceva qualcuno, mentre altri sostenevano che i comici ebrei non facevano altro che ridicolizzare e mettere in cattiva luce il popolo ebreo. E così molte carriere dei nostri più grandi comici furono sacrificate sull’altare dell’odio nazista. Ma le concessioni non servono a niente, e l’odio lascia le sue cicatrici su coloro che odiano come sulle loro vittime. Scoraggiato e senza un soldo, Chasen pensò di aprire un piccolo locale, e ci chiese il favore di poter usare il camino di casa nostra per esercitarsi a cucinare costolette alla griglia. Passò settimane davanti a quel camino, sudando e arrostendo innumerevoli piatti di costolette di maiale. Facemmo tutti da cavie ai suoi esperimenti culinari: noi, i nostri vicini, i cani dei nostri vicini, e perfino i gabbiani della spiaggia, che impararono addirittura a rompere le ossa per potersi impadronire del succulento midollo. Alla fine le costolette di maiale ci uscivano dalle orecchie. Con i finanziamenti di alcuni amici, fra cui Harold Ross, editore della rivista The New Yorker, Chasen riuscì ad aprire un piccolissimo locale all’angolo fra Doheny e Beverly Boulevard, a cui diede il nome risonante di THE SOUTHERN BARBECUE PIT. L’unico piatto previsto dal menu erano costolette alla griglia; eppure, fin dalla sera dell’apertura, con le nostre mogli e numerose attrici che facevano da cameriere e da lavapiatti, quel locale ebbe un enorme successo, e in pochi anni si trasformò in un ristorante di fama, frequentato dai grandi nomi del cinema, del teatro, dello sport e della politica. Era passata mezzanotte, e avevamo ormai già varcato il cancello che portava alle residenze di Malibu Colony, quando infine Lu perse la pazienza e mi chiese: «Allora, che cosa è successo questo pomeriggio, dopo che hai urlato ai bambini e sei corso verso gli scogli brandendo e agitando un bastone?» «Oh, niente di speciale. Ho fatto qualche scoperta interessante, ecco tutto». «Quali scoperte?» «Ho scoperto per esempio che non sono Dio». Guidai la macchina nel garage, e spensi il motore. «Lu, ti rendi conto che nonostante i miei Oscar per È arrivata la felicità e Accadde una notte, e nonostante la mia fotografia sulle pagine del Time, quando ho voltato le spalle alla Columbia e me ne sono andato, tutto lì ha continuato a funzionare come se nulla fosse successo? Avresti voglia di fare quattro passi sulla spiaggia prima di andare a letto?» Camminammo lentamente lungo il sentiero di mattoni che divideva la nostra casa da quella degli Schulberg, e raggiungemmo la spiaggia immersa nella luce della luna. C’era la bassa marea, e la riva era piena di alghe. Preso da un impulso infantile, mi tolsi le scarpe e i calzini, e mi misi a calpestarle, come facevo quando ero bambino. Lu stava seduta sulla spiaggia, e mi guardava. «Quali altre scoperte interessanti hai fatto?», mi chiese. «Ecco, ho scoperto anche che non sono Greta Garbo», risposi senza smettere di giocare con le alghe. «Se Greta Garbo se ne andasse dalla MGM farebbe notizia, ne parlerebbero tutti i giornali, le altre case cinematografiche farebbero a gara per accaparrarsela, rompendo tutti i loro accordi segreti. Ma quando io ho annunciato che me ne andavo dalla Columbia, l’effetto è stato quello di una foglia d’autunno che cade dolcemente sulla sabbia. Ergo, io non sono Greta Garbo. Fa piacere rendersi conto di queste cose, non credi?» «Splendido. E chi altro hai scoperto di non essere?» «Ho scoperto di non essere un genio di questioni legali. La frode della Columbia è avvenuta in Inghilterra, e io gli ho fatto causa negli Stati Uniti. Veramente geniale. E così stasera, mentre tu ti vestivi per uscire, ho chiamato Tim Whelan a Londra e gli ho chiesto se non conosceva un buon avvocato». «Un’altra causa? In Inghilterra?» «Proprio così, un’altra causa in Inghilterra. Che cos’altro vuoi che faccia, stare qui con le mani legate a impazzire?» «Certo che no. Ma se va a finire come le prime due...»
«Non lo so, ma una cosa è certa: nessuno mi farà strisciare. E quindi proviamo. Ho solo quarant’anni, e se non ce la facciamo ce ne andremo da Hollywood e ricominceremo da capo. Ho te e i bambini, che cos’altro importa?» Mi strinse forte, piangendo. Le baciai il viso bagnato di lacrime. Era stata una lunga, terribile giornata. Circa sei settimane dopo – l’11 novembre del 1937, per essere precisi – accadde qualcosa di inaspettato. Tutto cominciò quando Rosa, la nostra cuoca, rispose al citofono della cucina. Era Bert, il portiere che controllava il cancello d’entrata alle residenze di Malibu Colony (e che era perfettamente al corrente di tutto quello che succedeva nelle famiglie che vi abitavano). «Rosa?», esclamò agitato. «È appena entratoil signor Cohn con la sua limousine, e mi ha detto che veniva dal signor Capra...» Rosa, agitata come se il portiere le avesse detto che stava arrivando Adolf Hitler (e in effetti in casa nostra si parlava di Harry Cohn come di Hitler), si mise a correre per la casa gridando: «Sta arrivando il signor Cohn! «Oh, mio Dio!», esclamò Vivie, la bambinaia, e corse verso la spiaggia dove Lu stava giocando con i bambini. «Signora, signora! Sta arrivando il signor Cohn!» Io, a mezzo miglio di distanza, stavo facendo la spesa. Il macellaio riagganciò il telefono: «Frank! Tua moglie ha detto di tornare a casa immediatamente. È urgente!» Attacco di cuore, allagamento, incendio... che cosa poteva essere successo? Mi precipitai a casa guidando come un pazzo. Vidi una limousine nera parcheggiata al cancello, e il piccolo Frankie fuori dalla porta che mi aspettava: «Papà, papà. È arrivato il signor Cohn!» «Quale signor Cohn?» «Non lo so. Ha portato dei fiori...» Entrai in cucina. Rosa e Vivie erano in preda all’eccitazione. «È in salotto, signor Capra», dissero insieme. «Chi è in salotto?» Avevo capito, ma non riuscivo a crederci. «Harry Cohn!», sussurrarono eccitate. Che cosa diavolo ci faceva Cohn nel mio salotto? Non era mai venuto a casa nostra. Sospettoso, cauto, con i nervi a fior di pelle, entrai in salotto. Lu stava sistemando un mazzo di rose nel vaso sopra il pianoforte. E seduto sul bordo del divano, visibilmente a disagio, c’era proprio lui, Harry Cohn in persona. «Guarda che splendide rose mi ha portato Harry...» Una nota incerta nella voce di Lu tradiva il suo imbarazzo. «Vado a prendere un po’ d’acqua, voglia scusarmi, Harry». Eravamo soli. «Ciao Harry», dissi soltanto. «Ciao Frank», disse lui tranquillamente, con gli occhi fissi alla bombetta che teneva fra le mani. Mi accomodai sulla poltrona di fronte a dove stava seduto lui. Eccolo qui il mio benefattore, tiranno, nemico e amico, che ora cercava di evitare il mio sguardo come un bambino sorpreso con le mani nella scatola dei biscotti. Era diventato un po’ più grasso, e le sue occhiaie si erano fatte più scure. Gocce di sudore gli imperlavano la fronte, e anche la sua camicia era bagnata sotto le ascelle. Era evidente che covava qualcosa, ma che cosa? La mia mente si muoveva veloce, facendo mille congetture, ma anche mettendomi in guardia: quest’uomo conosce più trucchi di Houdini, non dirgli che ti fa piacere rivederlo. Rimasi in silenzio, accomodandomi sulla poltrona e, come un giocatore di poker che ha messo sul tavolo tutte le sue carte, aspettai la sua mossa. «Volevo chiamarti prima di venire», disse infine senza alzare lo sguardo, «ma avevo paura che avresti lasciato la città». Non dissi niente. «Bene, ce l’hai fatta, piccolo dago. Sei riuscito a mettermi alle strette», si congratulò allora in tono canzonatorio. Respirò profondamente, poi si alzò e si mise a camminare per la stanza. Sembrava un toro
castrato. Notai una macchia di sudore anche sulla sua schiena. «Sì», proseguì. «Joe Friedman e i suoi amici, a Londra, stanno gridando allo scandalo. Dicono che se vinci quella causa – e Friedman pensa che hai buone possibilità di vincerla – lui e la sua agenzia, innocenti o meno, saranno sommersi da una valanga di multe per aver venduto come fosse di Capra un film che non lo era. E se trovano un giudice duro dovranno anche passare qualche tempo in galera». Avevo aspettato a lungo, ma ora cominciavo a sentire il profumo della vittoria, un profumo dolcissimo. «Ma la cosa peggiore, Frank, e forse tu non ci hai pensato, è che se vinci quella causa, le catene delle sale cinematografiche inglesi certamente ci chiederanno un risarcimento per i danni, e magari decideranno perfino di tagliare i rapporti con la Columbia, di non comprare più i nostri film. E se questo succede, per noi sarà la fine. I banchieri e gli azionisti ci lasceranno col culo per terra. E avrebbero ragione di farlo! Capisci?» Ehi, aspetta un secondo, prima di inebriarti nel profumo della vittoria. Cohn sta ammettendo di essere stato sconfitto? O non sta forse mettendo in piedi una commedia? Continuò: «Frank, tu hai la possibilità di rovinare me e tutti gli altri che hanno messo in piedi la Columbia, e forse riuscirai anche a ricavarci un sacco di soldi da questa causa. Ma ricordati che hai rotto il tuo contratto con la Columbia, e che gli affari americani sono fuori dalla giurisdizione dei tribunali inglesi. E finché sono vivo io, chiunque dirigerà la Columbia, credimi, ti costringerà a rispettare quel contratto. Hai capito bene?» «Andiamo, Harry, io sarò stupido, ma non così stupido. Sarebbe bastata una telefonata, sarebbe bastato dirmi che stracciavi il mio contratto se io ritiravo la denuncia, e avresti salvato la Columbia da tutte le catastrofi che mi hai descritto». «È proprio così, dago. Tu hai messo in ginocchio la Columbia con questa causa in tribunale, e la Columbia ti ha messo in ginocchio con il contratto. Ritira la causa e stracciamo il contratto, e tutti ne usciranno soddisfatti, tranne me». «Ah! Allora è questo dunque che ti sta facendo impazzire?» Avrei dovuto capirlo subito che per Cohn era una questione di vendetta personale. «Se raggiungiamo questo accordo saranno tutti soddisfatti, tranne te. Tu non sarai soddisfatto fino a quando non mi vedrai rovinato, anche se questo volesse dire la rovina della Columbia. Ebbene, Cohn, lascia che ti dica come la penso: dovrai marcire prima di vedermi varcare di nuovo la porta del tuo studio. E se sei venuto qui a versare lacrime di coccodrillo per quello che la causa in tribunale provocherà alla Columbia, piangi pure tutte le tue lacrime e vai all’inferno». Fece una smorfia, impallidendo; aveva la schiuma alla bocca quando, preso dall’ira, di scatto esplose: «Credi che questo sia facile per me, maledetto bastardo? Sì, sto piangendo! Sono stato io che ho messo in piedi la Columbia, partendo da zero, senza una lira, girando commediole e lottando per riuscire a pagare le spese. Ho rubato, imbrogliato, ho usato tutti, mi sono costruito la fama di figlio di puttana, ma ce l’ho fatta; io ho messo in piedi questo studio e l’ho fatto diventare uno dei maggiori di Hollywood. Sì, è vero, tu hai fatto la tua parte, ma sono stato io che ti ho tirato fuori dalla strada e ti ho dato il mio appoggio. E adesso te ne vuoi andare. Sì, certo, a te non importa niente della Columbia, uno studio vale l’altro. Ma per me, dannazione, per me la Columbia è... è... non è solo l’amore della mia vita, la Columbia è mia figlia, è la mia vita. Senza di lei io sarei finito!» Si fermò per riprendere fiato e asciugarsi la bocca. «Lo sai che quei bastardi del consiglio d’amministrazione di New York vogliono farmi fuori come presidente, quei maledetti? Così, quando sono andato a New York e ho suggerito che dovevamo proporti di stracciare il tuo contratto se tu ritiravi la causa, mi hanno messo con le spalle al muro. “Perdere un sacco di soldi in tribunale e già abbastanza grave. Ma se la Columbia perde Capra, il regista che ci fa fare più soldi, per quella tua stupida bravata con Sarò tua, questo ti costerà la poltrona di presidente, Harry! Abbiamo già la maggioranza dei voti”. Queste sono state le loro
parole». Fece un’altra pausa; si vedeva che cercava le parole. «Ebbene sì! È in gioco la mia testa, dannazione. Dopo tutto quello che ho fatto. È per questo che ora sono qui. Ma non ti sto pregando, e non sto neppure strisciando, maledetto dago. Se vuoi la mia testa, ebbene l’avrai; straccerò il tuo contratto, lo farò immediatamente! Hai una sigaretta?» Gli porsi la sigaretta. Si sedette per accenderla, ma gli tremava la mano. Fumava solo in rarissime occasioni. Sapevo che quello che aveva appena detto era vero. Con una sola parola avrei potuto avere la testa del mostro, e anche la mia libertà. Andai nello studio e mi versai qualcosa di forte da bere. Buttai giù d’un fiato, stringendo i pugni. Quel figlio di puttana! Mi veniva voglia d’ammazzarlo. «Dannazione, Cohn», gli gridai, «lo capisci che cosa mi stai chiedendo di fare? Ho perso un anno di tempo, un anno di salario, diecimila dollari in avvocati, senza contare il tempo passato a rodermi il fegato, e tu mi chiedi di tornare a lavorare alla Columbia come se niente fosse successo. E tutto questo per salvarti la testa. È questo che ti aspetti da me?» Dall’altra stanza arrivò una risposta sommessa, rassegnata: «Sì, Frank, è proprio questo che ti sto chiedendo di fare». Mandai giù un altro bicchiere. L’avevo in mano, indifeso. Ma un gigante disarmato possiede un’arma che solo i giganti hanno il coraggio di usare: «Avanti! Colpiscimi!» Sono pochi quelli che non rimangono paralizzati davanti a questa sfida suprema. Bevvi un altro bicchiere. Poi dissi piano: «Harry, se te ne vai da questa casa immediatamente, senza farti vedere, chiamerò New York per ritirare la denuncia, e domattina sarò allo studio a lavorare». Ci fu un momento di silenzio. Poi apparve sulla porta dello studio. «Cristo, Frank», disse con la voce piena di gratitudine, «versa un bicchiere anche per me, per favore...» Non l’avevo mai visto bere. Ne mandò giù un sorso e rimise il bicchiere sul tavolo. «Piccolo dago», riprese col suo tono di sempre, «sai cosa faccio? Chiamo i miei colleghi a New York e propongo loro di pagarti uno dei film previsti dal contratto, come se l’avessi girato. In questo modo te ne rimangono solo due. E poi gli propongo di comprare i diritti per quel dramma che ti piace così tanto, You Can’t Take It with You, anche se costa duecentomila dollari e l’anno scorso ti avevo detto che non l’avrei comprato nemmeno per duemila. E se i miei colleghi hanno qualcosa da obiettare, bene, li manderò a farsi fottere». Si avviò verso la porta e se ne andò. Ammirazione e disgusto si alternavano nella mia testa confusa. Avevo in mano Cohn, e l’avevo lasciato andare. Mi aveva disarmato proprio con quella che era la mia specialità: il sentimentalismo di Capra. Guardandolo come attraverso un binocolo impugnato al contrario, avevo sottovalutato la grandezza di Harry Cohn. Era davvero un gigante, uno dei giganti della storia del cinema, e possedeva in misura enorme tutte quelle qualità che li accomunano: fegato, immaginazione, e la passione per il cinema. Ma in qualche modo Cohn li superava tutti. Era stato l’unico che, partendo da uno squallido studio di Poverty Row, ne aveva fatto una delle più grosse e importanti case cinematografiche di Hollywood. L’unico che era riuscito a imporre l’originale formula «un uomo, un film», nonostante le opposizioni e l’attaccamento al sistema tradizionale di produzione collettivo. Tutti i registi del mondo che usano questa formula devono il loro tributo a Harry Cohn. Ero un uomo felice quando, la mattina dopo, ritornai al lavoro negli studios della Columbia, dove fui riaccolto da tutti – segretarie, portieri, operatori, tecnici, sceneggiatori e registi – come un eroe. Quello squallido cortile mi sembrava il cortile di uno sfarzoso palazzo, e i gradini sconnessi che salivano al mio ufficio erano lo scalone che porta al luogo della felicità. Ringraziai l’Onnipotente per avermi accordato il privilegio di appartenere a quel mondo pazzo, eccitante, creativo e carico di sentimentalismo che va sotto il nome di studio cinematografico. 34. Sarò tua, 1935, regia di William A. Seiter. Il titolo inglese letteralmente significa «Se tu almeno sapessi cucinare».
[n.d.r.]
13. L’ETERNA ILLUSIONE
I miei primi quarant’anni erano finiti. Quarant’anni come solo in America si possono vivere, e che cominciarono nel segno di un odio infantile nei confronti dell’America. Da ragazza guardavo mia madre e la vedevo là tutto il giorno in piedi – piedi piagati che non sarebbero mai guariti – dieci ore al giorno per dieci dollari alla settimana. Ne vedevo le agili mani che incollavano etichette su scatolette di latta prese al volo con ritmica puntualità da un nastro senza fine: scatolette, scatolette, scatolette, che venivano avanti a scatti col ridacchiar da strega di sferraglianti, sferraglianti catene di montaggio. Guardavo il volto di mia madre, quella sua faccia forte da contadina rigata di sudore, chinata, chinata, chinata; un robot incatenato al ritmo di un mostro, senza neanche il tempo per allontanare i capelli stopposi dagli occhi, per paura che si rompesse l’incantesimo di quella mortale monotonia. E mia madre mi sembrava proprio una strega. Una strega di Halloween. E allora me ne andavo via mordendomi le labbra, serrando i pugni, maledicendo l’America. Poi veniva il bagliore accecante di una fabbrica di vetro. Un inferno urlante di immense fornaci dove i condannati, corpi mezzi nudi lustri di sudore, facevano bottiglie, bottiglie, bottiglie. C’era una precisa gerarchia di mansioni fra i condannati. In cima alla piramide il soffiatore, dai polmoni a mantice, che faceva passare la sua canna con in cima una goccia di pasta incandescente dal forno allo stampo senza smettere di soffiarci dentro con le guance gonfie che parevano palloni, soffiando, soffiando, soffiando come un disperato. Sotto il soffiatore c’era l’uomo addetto allo stampo. Costui chiudeva l’informe pasta incandescente in ganasce d’acciaio da cui poi estraeva ancora infuocata la bottiglia. Più giù nell’ordine gerarchico c’era quello della pala corta, con la bottiglia in cima alla pala nutriva la grande bocca del forno a tempera. Più sotto ancora quelli dalla pala lunga. Mio padre era tra questi. Da bambino gli portavo il pranzo e lo vedevo arretrare come nel salto con l’asta, con la schiena curva all’indietro; lo vedevo correre nudo dalla cintola in su, bagnato fino alle ossa di sudore, reggendo l’estremità di una pala lunga sette metri tenendo in equilibrio il peso di sei bottiglie rosso scuro. Soffrivo per lui. Papà, Papà incolto, ignorante di lingua e di leggi, Papà che correva e sognava masserie, che correva coi polmoni in fiamme da forno a forno, dieci ore al giorno per sei giorni la settimana, un «pala lunga» che correva per venti luridi dollari. Era per questo che era venuto in America? In città io vendevo giornali a opulenti uomini d’affari, avvolti in cappotti opulenti con colli opulenti che straripavano da stretti colletti bianchi, che entravano in lussuose limousine attraverso porte tenute aperte da grandi e grossi chauffeur neri. Come mi irritavano. «Tutti a casa per cene opulente!», pensavo fra me e me. «Loro mangiano carne. Carne opulenta! Maledetti!» Carne non ce n’era a casa nostra quella sera. Niente carne a meno che l’investimento di mio padre avesse fatto il suo dovere. Stanco come un cane, sporco, era tornato a casa dal lavoro solo per trovare mia madre che reggeva fucile e proiettile. «Tienio a mente, Turiddu. Costa cinque centesimi a cartuccia. Deve rendere due conigli o quattro quaglie. Capito?» E lui via veloce verso le colline dell’Elysian Park. A mo’ di sentinelle, all’angolo della strada, Ann e io aspettavamo notizie. Da lontano e anche
al buio la camminata di mio padre poteva dare il doppio segnale: «carne» o «niente carne». A volte tendevo il pugno sotto il naso della piccola Ann. «Un giorno, Ann. Un giorno sarà diverso». «Cos’è che sarà diverso?» «Bah! Chiudi il becco!» Ora avevo quarant’anni e le cose andavano davvero diversamente. Molto diversamente. La mamma invecchiava felice e orgogliosa, nella sua casa. Vagabondi e mendicanti bussavano e non se ne andavano affamati. Mia sorella Ann aveva sposato Folmar Blangsted, un montatore della Columbia. Avevano adottato due neonati, David e Jo Anne. Io avevo raggiunto un obiettivo dell’esistenza: trarre qualcosa dal nulla, far diventare «qualcuno» uno che era nessuno, e farlo piacere al mondo. Ciò che era cominciato come barlume di un’idea (il concetto «un uomo, un film») nel laboratorio di San Francisco quindici anni prima, adesso era una realtà di successo a Hollywood: il nome di un regista incantava il box office. Caratteri luminosi mettevano in evidenza Frank Capra sopra il titolo del film e i nomi degli attori protagonisti, il primo regista dipendente che era riuscito a strappare al sistema hollywoodiano questo privilegio. Ormai è un luogo comune. Sì, le cose erano davvero diverse. L’onore e la gloria che un regista cinematografico poteva sperare io li avevo, a quarant’anni. Sono anche stato sulla copertina del Time senza subire i contraccolpi del suo leggendario bacio mortale. Cosa avrebbero portato i prossimi quarant’anni? Durante il mio anno di «esilio» avevo avuto tutto il tempo per pensare e tornare alle mie radici. Ti ricordi di quei piccoli Joe che, spingendoti, ti aiutarono a risalire la china di ripide colline? Ti ricordi il giorno in cui cominciò la strada della gloria? Quel Quattro Luglio quando avevi sei anni e la Mrs. Vignolo, l’insegnante di Castelar Street, ti scelse fra centinaia di latinoamericani, negri, cinesi e giapponesi per rappresentare la scuola al giuramento alla bandiera? E che tuo padre, orgoglioso, ti comprò un vestito e un cappello fatti su misura? E come tua madre e tuo padre si commossero fino alle lacrime ma tu no, facesti finta di niente come se nulla di veramente importante fosse accaduto? Meglio dare un altro sguardo al paese che ti ha aperto la strada. Sorseggiane lo spirito. Respirane profondamente la libertà. E abbi sempre riguardo per quel «Noi popolo» della Costituzione che ha fatto grande questo paese, popolo al quale le anime afflitte possono tornare sempre per sentirsene parte e attingere, come Anteo, un’altra dose di coraggio e fede. Non avevo idea di che cosa mi avrebbero portato i prossimi quarant’anni. Sapevo invece che cosa avrei tentato di portare io a loro: film sull’America e sulla sua gente, film che sarebbero stati la mia maniera di dire: «Grazie America». Avrei cantato le canzoni dei lavoratori, dei Joe rimasti uguali a se stessi, dei nati nella povertà, degli afflitti. Avrei vagabondato con quelli che mirano in alto e accendono candele nel vento, avrei fatto mio il risentimento di quanti sono respinti ed esclusi per razza e nascita: avrei combattuto per la loro causa sugli schermi di tutto il mondo. Oh, non certo come un cuore ferito che sprona, per investitura divina, le masse a «liberarsi». Masse è un termine buono per il gregge – inaccettabile, insultante, degradante. Quando vedo una folla, io vedo un insieme di liberi individui: dove ciascuno è una singola persona, ciascuno un re o una regina, ciascuno una storia che potrebbe riempire un libro, ciascuno un’isola di dignità umana. Sì, che gli altri facessero pure film sulle grandi svolte della Storia, io avrei fatto i miei sull’uomo qualunque. E se quell’uomo è un nodo di impulsi contrastanti in conflitto fra di loro, se la sua istanza genetica è quella di sopravvivere, di fare a pezzi il suo prossimo, mentre la sua ragione, la sua volontà, la sua anima lo spingono ad amare il prossimo, allora – pensavo – io posso capire i suoi problemi. Questo era il materiale di cui ero in cerca per far film, un materiale letterario dove il
motto «Ama il prossimo tuo» si scontrasse con il disordine sociale. Lo trovai. Nei loro voli a Broadway, alla ricerca di commedie nuove, i registi cinematografici riuscivano a vedere a spizzichi e bocconi tre diverse commedie in una sola serata saltabeccando da teatro a teatro: un atto di tre diverse commedie in tre teatri diversi. Se la commedia o la recitazione li colpiva, tornavano la sera dopo a vedere tutto lo spettacolo. Mentre ero a New York per la prima di Orizzonte perduto al Music Hall, mi ero infilato nel retro del Booth Theatre pieno come una scatola di sardine a vedermi il primo atto della commedia di Kaufman e Hart, già premio Pulitzer, You Can’t Take It with You. La sua magia era così ipnotica che nemmeno un paio di cavalli bradi mi avrebbero trascinato via prima della fine. Lo spettacolo era incentrato su una famiglia felice di ribelli e squinternati – ivi compreso qualche outsider «adottato» – in cui tutti vivono in perfetta armonia, dove ciascuno si realizza esprimendo se stesso, facendo le cose – facendole male magari – che ha sempre voluto fare. La recisa asserzione di Thoreau secondo la quale la città è una «massa di gente sola che sta insieme» non si confaceva alla felice e privata Shangri-La della famiglia Vanderhof, dietro l’angolo della Columbia University. Sì, perché questo gruppo eterogeneo di «felici» trovava il coraggio di fare ciò che la maggior parte degli americani desiderava segretamente di poter fare: consegnare all’oblio i colpi di fucile della crisi – depressione, guerre, Hitler, Stalin – e, ciò che è più importante, sfuggire dalla corsa sfrenata della modernità che spingeva l’americano medio a fare della sua vita intera una «illusione», una vana gara all’accumulo di beni e status symbol. You Can’t Take It with You35 avrebbe dovuto essere il mio prossimo film. Ma il prezzo fissato dal produttore Sam Harris era strabiliante: duecentomila dollari! L’urlo di Harry Cohn si dilatò attraverso i cavi telefonici: «Dite a quel ladro di Harris che non sgancerò duecentomila dollari per il secondo venuto!» Poi c’era stato l’anno dell’esilio e dei processi. Cohn mi comprò You Can’t Take It with You per duecentomila dollari! Il prezzo record fece notizia nell’ambiente. Perché questa ostinazione a fare un film della commedia di Kaufman e Hart? Perché era un’orgia di risate? O un premio Pulitzer? Naturalmente. Ma io ci vedevo anche qualcosa di più profondo, di più grande. Celata nella commedia c’era l’occasione d’oro di dar vita e forma drammatica al motto «Ama il prossimo tuo». Ciò che le chiese di tutto il mondo stavano predicando davanti ad apatici fedeli, il linguaggio universale del film poteva dirlo con più senso dello spettacolo a tutto il pubblico delle sale cinematografiche, se riusciva a dimostrare, nel conflitto teatrale, che la legge spirituale di Cristo poteva essere la forza provvidenziale più potente nella vita di ciascuno. Il conflitto: «distruggi il tuo prossimo» contro «ama il prossimo tuo». Le armi: una banca piena di danaro contro una casa piena d’amore. Le scommesse, le poste in gioco: la futura felicità di due giovani, un figlio dei Kirby e una nipote dei Vanderhof. E, ancor più importante, la tensione vitale di un agnello alle prese con un leone. Ci si può chiedere, sì, se un agnello indifeso possa tener testa a un leone tutto artigli e zanne e una gran voglia di usarli. Può. E il modo in cui ci riesce fu, per me, una nuova forma drammatica che poi usai praticamente in tutti i miei film. Secondo le regole, i quattro personaggi classici nella costruzione drammatica sono l’eroe, l’eroina, il cattivo, il comico. I critici dicevano che nelle mie commedie avevo ridotto il numero a tre, fondendo in un solo personaggio l’eroe e il comico. Col risultato di ottenere un tipo di commedia diverso e forse più umano. Se il genere umano, come ho già avuto modo di dire, sta vivendo solo i primi stadi di un’evoluzione dalla bestialità del passato alla pietà del futuro, va da sé che i più evoluti – i buoni – siano più gentili e pacifici di quanti hanno arrestato o ritardato la loro maturazione, i cattivi. Poiché però nessuno di noi ha ancora raggiunto l’estrema pace del Nirvana, il conflitto
interiore fra brutalità e pietà agita gli spiriti più evoluti, è vero, ma tormenta e tortura gli altri. Per questo i cattivi suscitano spesso più «compassione» degli eroi e il padre della parabola al colmo di gioia fa uccidere il vitello più grasso per celebrare il ritorno del figliol prodigo, cosa che non fa per il figlio che non si è mai mosso di casa; è per questo che il pastore ama la pecora che ha trovato e salvato più di quanto non ami le altre novantanove che non si sono smarrite. E così nell’Eterna illusione alterai ancora i quattro tipi classici del dramma. Fusi cattivo ed eroe; trasformai Kirby padre – il cattivo a due dimensioni della commedia teatrale – nell’eroecattivo del film. Inoltre tagliai il terzo atto, ridussi la vicenda d’amore fra Tony e Alice a semplice «contrappunto» e diedi più spazio e importanza al conflitto filosofico fra l’agnello (nonno Vanderhof) e il leone (Kirby padre) fino a farlo diventare il «nodo» della storia. La nuova trama era in realtà un triangolo amoroso con Kirby figlio al vertice e il leone e l’agnello agli angoli. Come venne? Bene. La bestialità è umiliata dall’amore. Il leone sale un piolo della scala dello spirito. «Ama il prossimo tuo» esce vittorioso e il film vince nel 1938 gli Oscar per il miglior film e la migliore regia. Prima di menzionare uno per uno gli attori dell’Eterna illusione voglio togliermi il cappello di regista dinanzi a tutta l’arte del recitare. Hanno chiamato scherzosamente quello dell’attore il secondo mestiere più antico del mondo. Ma non sarebbe eccessivo ritenerlo il primo, giacché «la professione della signora Warren» implica un certo numero di eccitanti prestazioni di natura teatrale e tutti e due cominciano, dilettantescamente, con un’opera di seduzione. Ed è pur certo che gli attori (pagati o no) hanno migliorato la qualità della vita per uomini, donne e bambini da quando il primo uomo delle caverne provò a rappresentare se stesso nell’atto di abbattere un cervo con una pietra. Se mai San Pietro mi interrogherà sugli attori, dirò: «Dio li benedica! Star e comparse, dilettanti e attori consumati, Dio li benedica tutti!» Il patriarca della famiglia di squinternati, nonno Vanderhof, era interpretato da Lionel Barrymore il cui ricordo, come uomo e come artista, non mi abbandonerà mai. Nel tempio della fama di ogni attore il nome di Lionel Barrymore merita una posizione di privilegio fra gli immortali. E pensare che era il più umile, l’attore più collaborativo che abbia mai conosciuto. Quando lo contattai per la parte di nonno Vanderhof, era devastato dall’artrite. Le mani, i gomiti, i piedi e le ginocchia erano irrigiditi e nodosi come radici di una quercia centenaria. Non poteva camminare né era capace di raccogliere un cucchiaio. Dovevamo sempre interrompere le riprese per un’ora e dargli modo di alleviare quei dolori terribili. Il suo corpo era proprio messo male. Ma non il suo spirito. «Te la farò sulle stampelle, la parte», disse ridendo. «Fammi ingessare i piedi per avere un bell’alibi. Vedrai che verrà bene». Per la parte di Alice – l’unico membro «normale» della famiglia di idioti geniali – chiamai la più bella attrice di allora, Jean Arthur; con quella sua voce roca che si frangeva in migliaia di tintinnanti campanelle. Avevo visto Jimmy Stewart nel ruolo di un dolce rubacuori in un film della Metro, Navy Blue and Gold. Avvertii in lui il carattere e l’onestà tutta d’un pezzo di un Gary Cooper e in più la finezza e l’intelligenza di un idealista vecchio stampo. Era credibilissimo quando rinunciava al patrimonio del padre, un regno a Wall Street. E poi c’era Ann Miller. Lei era Essie, la sorella di Alice, la goffa Pavlova: aveva le gambe di Marlene, l’innocenza di Pippa, e il cervello di una farfalla che volteggia sulle punte, quando recitava. Per fare il russo cencioso, Kolenkhov, non c’era nessuno più malinconico, con quella faccia cascante che era il vero ritratto della Sorte Ingrata, di Mischa Auer. La sua opinione saturnina sulle danze di Essie, sulla rivoluzione bolscevica o sul mondo in generale era lapidaria:
«Confidenzialmente, mi puzza!» Donald Meek (che recitava la parte di Mr. Poppins) era l’attore più degno di questo nome.36 Anzi, se davvero i miti dovranno ereditare la terra, spero che siano tutti come Donald. L’essenza stessa dell’umiltà era tutta racchiusa in quell’omino calvo, piccolo ma pieno di talento, la cui flebile voce si rompeva talvolta in imbarazzanti falsetti da ragazzo. Lillian Yarbo era Rheba, la prima metà tutta spiritosaggini e arguzie del ramo nero della famiglia. L’altra metà, Donald, era interpretata con notevole perizia da quello strapparisate che era Eddie Anderson, spalla di Jack Benny nello spettacolo radiofonico di quest’ultimo. La parte di Penny – l’incantata, allucinata madre di Alice e di Essie che batte a macchina commedie incompiute – era difficilissima da assegnare. In un primo tempo pensai a Fay Bainter. Non era disponibile. Poi, come spesso accade, scoprimmo che una perfetta Penny l’avevamo proprio sotto il naso: Spring Byington. Fu deliziosa in quel ruolo ed ebbe una nomination come miglior attrice non protagonista. Samuel Hinds era il marito di Penny, l’esperto di fuochi artificiali, e Halliwell Hobbes (il perenne maggiordomo) era Mr. de Penna, l’uomo del ghiaccio che consegna il ghiaccio e si ferma a tirarla in lungo. Una parte era ancora rimasta in sospeso, quella di Ed, il marito di Essie, suonatore di xilofono. Stavo contattando xilofonisti quando entrò un allegro sempliciotto con una perpetua smorfia sorridente, contagiosa e larga come un raggio di sole. Gocce di sudore imperlavano la sua fronte alta. «Sono Dub Taylor, sì. E so suonare lo xilofono». La sua sola presenza sollevò una risata generale. «Ha mai fatto un ruolo in un film, signor Taylor?», chiesi. «No. Mai. Ma un ruolo l’ho avuto nella Rose Bowl con la squadra di football dall’Alabama». Il suo accento del sud stillava antica fermezza da predicatore. Gli chiesi di suonare lo xilofono che avevo in ufficio. «Suonerò una canzone d’amore, signor Capra. Eseguirò “Dinah”». Il rumore che ottenne dallo xilofono avrebbe svegliato un morto. Eseguì «Dinah» come fosse stato un coro amplificato per incudini. Più forte ridevo più forte suonava. Lo presi immediatamente. E ora Mr. Anthony P. Kirby, l’eroe-cattivo dello spettacolo. Era il nodo, il fulcro drammatico del film. Io volevo solo un attore e per averlo posposi di due mesi la data d’inizio delle riprese. Era Edward Arnold. Aveva la potenza e la presenza di un J.P. Morgan. Sapeva essere untuoso come un direttore di pompe funebri e freddo e spietato come un padrino di Cosa Nostra. Inoltre aveva una risata tanto unica e falsa quanto potrebbe esserlo un biglietto da tre dollari. Poteva prendere velocità come l’elica d’avviamento di un aereo da guerra e poi esplodere in scoppi come un motore ingolfato. Edward Arnold era una maledizione per i registi. Durante le riprese sbagliava o si dimenticava le battute, uscendosene con quella sua falsa risata. Gli altri attori gli avrebbero volentieri tirato il collo. Dovevano star pronti a dar tutto il meglio di sé quando Arnold non sbagliava le battute. Col risultato che Arnold si conquistava tutta l’attenzione. Registi senza cervello approvavano tutte le riprese che riusciva a portare a termine, senza dar peso a come se l’erano cavata gli altri attori completamente sfiniti. Se però si riusciva a sopportare – e io l’ho fatto con piacere – Arnold era una centrale elettrica sullo schermo. La sua prova come re della giungla di Wall Street che abbandona il trono per amore di suo figlio, fu il contributo filosofico di cui una commedia per altri versi farsesca aveva bisogno per fare dell’Eterna illusione l’acclamato miglior film dell’anno. Comunque, se gli attori sono le rose nel cespuglio del film, gli scrittori sono le sue radici. Robert Riskin scrisse una magnifica sceneggiatura per L’eterna illusione ma non senza qualche
stimolo che lo persuadesse del tutto. Durante il mio anno di isolamento Riskin aveva diretto il suo primo film per la Columbia, Amanti di domani, con due star di cassetta come Grace Moore e Cary Grant. Con grande sorpresa di tutti – e soprattutto di Riskin – il film era stato deludente. Per qualche strana ragione il nostro rapporto d’amicizia non fu più lo stesso. Io sapevo bene che cosa gli dava fastidio. Pensava che io stessi ottenendo troppa gloria per i film firmati «Capra» e lui troppo poca. Ne parlammo. «Bob», gli dissi, «fai film tuoi e tutta la gloria sarà per te». Lo fece il suo film, ma scoprì che in quel «tutta la gloria» c’era una clausola: «tutta la vergogna», se il film non riusciva bene. Riskin era brillante. Aveva tutte le qualità che si potevano chiedere a chi fa un film. Non era il talento che gli mancava ma una dote naturale, l’abilità di «lavorare sotto stress». Quel manicomio che è la produzione di un film gli penetrava dentro. Evidentemente era più acuto e creativo quando scriveva tutto solo, tutto raccolto nei suoi pensieri. E io compresi che per dirigere un film ci vuole qualcosa di più del talento. Ci vuole la capacità di fare il proprio meglio sotto pressione: essere svegli, stimolanti, severi nella confusione del gioco al rilancio, con un clima da una dozzina di richieste al minuto. Io stavo bene in mezzo alla folla ed era per quello che mi piaceva fare il regista cinematografico. Giusto a proposito dei registi cinematografici dovrei fare una o due osservazioni sulla regia. Non che abbia, vi assicuro, le pretese teoriche di chi è salito al monte Sinai della regia cinematografica e ne è disceso con un decalogo. Forse DeMille ha avuto questa tentazione ma poi ha resistito dicendo a se stesso: «Mettiti dietro la macchina da presa». Al che una voce dall’alto ha risposto: «Appena sei pronto, C.B.» I registi sono coloro che fanno il film. E non esistono due maniere di lavorare simili. Prendiamo William Wyler e George Stevens. Tutti e due rifanno una stessa scena più volte, ma per ragioni completamente diverse. Quando Wyler ripete i ciak da una stessa angolazione è perché sta aspettando il momento magico – quel po’ di «chimica» umana che sempre si dà –, il momento in cui una scena normale si tramuta in quella che egli sente decisiva, fuori dall’ordinario. Così fa Wyler. E i suoi risultati sono eccezionali: Infedeltà, La figlia del vento, La voce nella tempesta, Piccole volpi, La signora Miniver, I migliori anni della nostra vita, Ben-Hur, Funny Girl. George Stevens fotografa con differenti angolazioni, che è poi un altro metodo di fare più riprese di una stessa scena. In più, però, questo metodo dà a Stevens l’opportunità di usare le parti migliori delle diverse angolazioni della stessa scena. In sala di montaggio egli può abilmente cucire insieme i diversi pezzi. Wyler rende di più quando può lavorare su una sceneggiatura o su un testo che qualcun altro ha già scritto. Per rendere gli attori profondamente consapevoli della natura e del carattere dei loro personaggi, Wyler scava e sonda le loro menti, usando alternativamente il pungolo del sarcasmo e quello del complimento. Sull’altro fronte Stevens, che ha cominciato alla scuola creativa delle commedie slapstick, lavora a lungo e approfonditamente insieme agli sceneggiatori sulla storia e sulle battute. Non è contrario a intervenire sul testo durante le riprese. A differenza di Wyler non parla, e talora per gli attori è molto difficile capire dove vuole andare a parare. George si prende anche delle pause di meditazione sul set e si mette a camminare dietro le scene per un’ora e più con la sua pipa in bocca mentre gli attori aspettano in un silenzio pieno di tensione. Può ritornare sul set e apportare dei cambiamenti alla scena, oppure sedersi sulla sua poltroncina e annunciare laconicamente: «Facciamola un’altra volta!», lasciando che gli attori si chiedano che cosa mai abbia pensato sino ad allora. Già. Che cosa pensava George Stevens camminando da solo per un’ora con la pipa in bocca? Sono un regista anch’io e credo di saperlo. Stava rivedendo mentalmente tutto il film, scena per
scena, dall’inizio alla fine; stava esaminando i personaggi, il loro sviluppo, le loro incrinature, che effetti determinavano l’uno sull’altro. La scena di prima (che fosse stata girata o no) era costruita in modo tale da rispettare quella dopo? E quella di adesso avrebbe condotto logicamente a quelle che sarebbero seguite? La scena che stava girando era davvero necessaria? Perché? Quale sarebbe stato il sentimento (o l’intreccio di sentimenti) dominante? Suonava vero? E lui ci credeva? E se non ci credeva, perché? Avrebbe saputo conferire una tonalità più alta alle emozioni della ragazza? E la reazione del protagonista sarebbe stata più intensa se espressa dal silenzio o avrebbe dovuto puntare di più sulle battute? Sono tutte decisioni interiori che il regista, e lui soltanto, deve saper prendere. Una volta concluso che non avrebbe apportato cambiamenti, doveva riesaminare la scena un’altra volta per decidere. E così ecco: «Facciamola un’altra volta!» Questa è una regia alla George Stevens. E i suoi tiri hanno sempre colpito molto in alto (Molta brigata, vita beata, Un posto al sole, Il cavaliere della valle solitaria, Il gigante). Nella commedia nessuno ha mai battuto Leo McCarey (i film di Laurel e Hardy, Un grande amore, La mia via, Le campane di Santa Maria). Leo a volte si metteva al pianoforte e ci stava per ore pasticciando o cercando di inventare motivi. E mentre suonava ponderava, riesaminava, analizzava, inventava proprio come faceva Stevens passeggiando con la pipa in bocca. Tutti i registi devono ponderare e meditare nel modo che è più proprio a ciascuno di loro. Dato che hanno tutti un problema comune: legare correttamente il lavoro di ogni giorno alla storia nel suo complesso. Le scene girate senza ordine cronologico e al di fuori di uno stesso contesto devono incastrarsi perfettamente al loro posto nel mosaico del film ormai concluso, con l’esatta gradazione di tensione e suspense e uno sviluppo verosimile dei conflitti e delle relazioni d’amore. Ci si rende facilmente conto che è questa la parte più importante e difficile della regia e la principale ragione per cui si dice che i film sono, per forza, «affari» del regista. La meteora Gregory La Cava (Melodie della vita, Palcoscenico, L’impareggiabile Godfrey) era una straordinaria sorgente di trovate sceniche sul set. Dotato di una mente fertile e brillante e di uno spirito scintillante, affermava di poter far film senza sceneggiatura. Ma senza sceneggiatura i dirigenti degli studios non potevano formulare budget accurati, o definire i tempi dei contratti con gli agenti degli attori. Buttar danaro senza garanzie, dicevano i dirigenti, era solo un’incauta avventura, i costi del film sarebbero stati sempre indefinibili e nessuna major poteva permettersi rischi simili. Il cinema ben rappresenta la peculiare dicotomia arte/affari, con i dirigenti della produzione che enfatizzano sempre l’aspetto economico. Ma La Cava no. Lui non mollava quella sua sparata del «senza garanzie». E così fu che gli assegnarono sempre meno film finché non ne poté dirigere più nessuno. Il missile di luce del suo spirito fu degradato a piattello da lancio. Ma lui non voleva o forse non poteva conformarsi. Fuse il suo micidiale combustibile esotico con più mondani intendimenti e si diede l’ultimo colpo di scopa verso l’oblio, con i suoi colori ribelli sempre librati nell’aria. La Cava fu un uomo fuori dal suo tempo, un precursore dei registi della nouvelle vague europea. Peccato che non abbia vissuto abbastanza per guidarli. Ernst Lubitsch era il sublime architetto dei suoi film (Il ventaglio di Lady Windermere, Il principe studente, Lo zar folle, Il principe consorte, Se avessi un milione, Mancia competente). Le sue sceneggiature erano progetti dettagliatissimi, complete di tutti gli schizzi, i disegni e le descrizioni richiesti. Ogni scena, ogni intuizione visiva, ogni angolazione era fissata prima attraverso precise immagini fotografiche e raramente – se mai accadde – deviava dal suo progetto quando poi girava.
La direzione degli attori era tutta Lubitsch. Facendo ondeggiare il suo onnipresente sigaro questo magnifico demonietto pieno di humour mostrava a ogni attore che cosa doveva fare esattamente e come lo doveva fare. Su ogni fotogramma era impresso il suo marchio, dall’ideazione alla stampa. Per le commedie romantiche stilizzate e per i musical frizzanti d’arguzia egli raggiunse uno standard così alto da non essere mai più eguagliato. Il tocco di Lubitsch è unico. John Ford è il Regista Completo, il decano dei registi e indubbiamente il più grande e il più versatile (Un popolo muore, Il traditore, Ombre rosse, Furore, Viaggio senza fine, Com’era verde la mia valle, Un uomo tranquillo). Un megafono era per John Ford quello che per Michelangelo era uno scalpello: la sua vita, la sua passione, la sua croce. Ford non può essere classificato e analizzato. È semplicemente Ford, che vuol dire semplicemente grande. John è mezzo tiranno e mezzo rivoluzionario, mezzo santo e mezzo demonio, mezzo possibile e mezzo impossibile, mezzo genio e mezzo irlandese, ma regista tutt’intero e tutto americano. A Henry King, il meno riconosciuto dei realizzatori di film hollywoodiani, tutti dovrebbero riconoscere un posto nella lista dei Primi Cinque. Un inventario delle sue opere più importanti è una piccola storia del cinema: La pazienza di Davide, La suora bianca, Stella Dallas, Fiore del deserto, State Fair, I Lloyd di Londra, La grande strada bianca, Jess il bandito, Bernadette, Wilson. Ancora alla guida del suo aereo privato a settant’anni, questo asciutto, alto, bello, gentile modello, mai sopra le righe, presidente di società, fa film di successo con facilità, efficienza, calma, qualità ormai del tutto estranee a una comunità di trombe squillanti, di cimbali percossi e di ego urlanti. Ne sono nate di leggende sui registi. Questa, ad esempio, su Al Rogell che aveva una spiccata tendenza all’ira incontrollabile e improvvisa. Rogell stava preparando una scena d’amore sulla poppa di uno yacht ancorato nel porto di San Pedro. Il mare era calmo, il cielo pulito. Tutto molto poco romantico. «Granucci!», grida Rogell con una voce così rauca che sembrava venire dalle segrete di una prigione. «Non ho sfondo per questa maledetta scena d’amore. Fammi avere dei gabbiani!» Granucci, l’assistente di scena, apre un paio di cestini per il pranzo e butta il pane sull’acqua. Eccoli che arrivano! Arrivano tutti i gabbiani del porto. Dietro gli innamorati non ci sono altro che gabbiani e strida d’uccelli. Rogell balza di scatto in piedi. «Granucci! Figlio di puttana! I tuoi maledetti gabbiani stanno facendo fuori la mia scena d’amore! Chiamali uno alla volta, uno alla volta!» C’era poi un regista di film western che moriva dalla voglia di essere promosso a un altro genere. Myles Connolly gli stava raccontando la tenera, poetica storia d’amore del suo Mister Blue. Il regista di western ascoltava e piangeva. Finito il racconto saltò in piedi e singhiozzò: «Myles, è così bello. Lascialo dirigere a me. Te lo prometto. Gli toglierò la merda di dosso!» Ciò che distingue i grandi registi dalla massa degli altri è la loro abilità nel distillare dagli attori il meglio della loro capacità interpretativa in ogni singola scena come se ogni scena fosse una perla da infilare per ottenere una collana. Un filo di vere perle ben assortite vale molto di più di uno di perle artificiali male infilate... Questo rivela le capacità artistiche di un regista cinematografico: convincere gli attori che sono esseri umani reali fatti di carne e sangue che stanno vivendo una loro storia. Quando gli attori sono convinti allora, se tutto va bene, saranno loro a convincere il pubblico. Questo autoconvincimento degli attori si applica con egual forza anche a quelli che hanno le parti più piccole. È solo una comparsa o è una vera impiegata quella a cui la star paga il conto dell’albergo? Un’attrice-comparsa, assunta magari per un giorno solo, sarà una comparsa per sé e
per il pubblico. Ma se il regista le dà un’identità – figlia in pena per la madre ricoverata, moglie in ansia per il marito che sta perdendo il lavoro, donna innamorata che proprio quella sera andrà a una festa con l’uomo della sua vita – allora quella comparsa diventa una donna. Può anche non dire una parola nella sua breve apparizione sullo schermo ma la sua «identità» definirà una volta per tutte i suoi sentimenti, i suoi pensieri, il suo modo di comportarsi. E il pubblico la recepirà come una persona reale, non come un’attrice. Questo è molto importante. Le comparse che camminano sul marciapiede come sfondo di una scena possono camminare come un branco di pecore o come veri pedoni: tutto dipende dalla sapienza del regista. Deve dare a ciascuno un’identità. Una comparsa è in ritardo per l’appuntamento dal dentista, un’altra sta cercando l’indirizzo dell’avvocato di sua moglie. Quello là sta andando a una partita di poker. Questa donna sta cercando le scarpe per il suo bambino. Quella giovane ha un appuntamento per il pranzo, quell’altra spera che gli uomini notino la sua nuova pettinatura. Non importa che il regista dica loro chi sono, basta che siano qualcuno mentre camminano sul fondo della scena. Un semplice dettaglio cambia la scena da surrogato di realtà a realtà vera e propria. Dirigere un film richiede una grande passione per la verosimiglianza. Sull’architrave dell’ingresso del Directors Guild Building dovrebbero esserci scritte queste parole: NON CI SONO CATTIVI ATTORI, SOLO CATTIVI REGISTI. Un altro tratto distintivo dei migliori registi è l’assenza di movimenti di macchina troppo ovvi. Le ostentate prodezze con la macchina da presa sono il segno di riconoscimento dei principianti, che s’innamorano delle angolazioni bizzarre e delle riprese mosse con la macchina a mano. Errore. Innamoratevi dei vostri attori. Tutto il resto è tecnicismo, pura vanità del regista. Il pubblico non deve mai rendersi conto che ci sia una macchina da presa nel raggio di mille miglia. Scene d’atmosfera? Belle. Necessarie. Ma fate sì che le atmosfere si impongano sottilmente, suggestivamente. Non lasciate che la macchina da presa penda dall’alto di allegorici pali che indicano spazi, distanze e direzioni. Il pubblico non può sentire e contemporaneamente pensare. Se nota il vostro esibizionismo l’atmosfera se ne va. I 360° di Stanley Kramer nella sala del tribunale di Vincitori e vinti servono solo a distrarre l’attenzione dall’azione drammatica. Perciò, giovani registi, dimenticatevi delle tecniche, dimenticate gli zoom e il montaggio subliminale. Ricordatevi solo che state raccontando una storia non con aggeggi meccanici ma con attori! Ho sentito una comparsa chiedere all’assistente di regia (che solitamente aveva il compito di far muovere le comparse nelle scene di folla): «Chi devo essere in questa scena?» A una domanda siffatta, vitale per tutti gli attori in tutte le scene, l’assistente madido di sudore è incline a rispondere: «A chi diavolo vuole che importi chi è lei, signora?» Quell’assistente lì il regista non lo farà mai. C’è un genere di attore – neanche troppo raro – che arriva sul set e dà fiato alle sue trombe: «Questo è un signor corpo, gente baciata dalla fortuna. Che ne volte fare?» Quel tale sarà sempre un bel salame. Ma quella comparsa qualunque che chiese: «Chi sono?» ha già acceso una lampadina sull’insegna luminosa del suo nome. Mia moglie una volta disse che i registi cinematografici sembrano tutti uguali e gli scrittori invece uno diverso dall’altro. Lu è molto femminile, una grande e sensibile ascoltatrice, e non cerca mai di entrare in competizione con gli uomini – cosa che le procura sempre un notevole successo fra i maschi. Di conseguenza le sue generalizzazioni su scrittori e registi mi interessavano. «Come possono sembrare tutti uguali i registi se ne esistono di tutte le taglie, di tutte le forme?» «Già, questo lo so», rispose, «ma è che i registi sembrano tutti soddisfatti di quello che stanno facendo. E gli scrittori no». E qui lascio la parola agli scrittori.
Senza trucco un attore è solitamente una simpatica persona, forse anche timida e piena di esitazioni. Ma truccalo e diventa immediatamente qualcun altro, un essere unico, sopra e sotto, dentro e fuori. È affascinante guardare un attore mentre si trucca. La metamorfosi da essere umano in attore avviene sotto i vostri occhi. Vien fuori il salame, fiorisce la libido, l’io tira su la coda. Con il trucco tutti gli attori diventano dei Barrymore e delle Garbo. Il trucco è l’armatura, Excalibur, il Rosso Segno del Coraggio. Fa di loro una razza di nobili. Il cerone è l’LSD della Max Factor. Ne fanno fuori a tubetti. Le comparse che sanno di lavorare a un isolato di distanza dalla macchina da presa, vengono in scena completamente truccati. Metton su cipria, mascara e ombretto già a casa per far colpo sull’autobus o sul tram. E il loro redde rationem, la loro Croix de guerre, la loro medaglia al valore. Sono attori! Provate a togliere il cerone dalla faccia di un attore. Tornerà giù sulla terra insieme a noi altri. È un po’ come il poliziotto motorizzato che in uniforme si sente speciale e quando torna in abiti civili sembra un’altra persona. Comunque, sul mio set, la regola era «niente trucco». Anche se poi eccezioni ne facevo anch’io. Di eccezioni si vive. Se l’acqua, avvicinandosi al punto di glaciazione, non diventasse più leggera e non «galleggiasse» non ci sarebbe alcuna vita sulla terra. Così, benché ordinassi alle star di fare a meno del trucco, non ho mai avuto il cuore di farlo con le comparse (che non lavorassero vicino alla macchina da presa). Non sono uno che uccide le illusioni. Chissà che cosa riempie di speranza le comparse: il talento o la droga del cerone? Nella magia di Hollywood c’è un altro elemento che con Hollywood coincide più di quanto non faccia il cerone. Il sesso. Il sesso è «di testa», elusivo, misterioso. È la reazione chimica del desiderio di un sesso per l’altro. Le ragazze da fischio non sono necessariamente sexy. Gli uomini fischiano alle ragazze soprattutto per dimostrare l’esistenza dei propri appetiti sessuali. Quando sono realmente conquistati non fischiano. Soffrono. Un massaggiatore, Claes Adler, che era specializzato nel camminare a piedi nudi sull’altrui schiena, mi invitò insistentemente a incontrare una delle sue clienti, un’attrice sconosciuta che aveva grandi potenzialità. Accordai l’incontro pensando che stesse esaudendo una promessa a qualche sua ragazza. La incontrai. Era un trionfo di curve. Ma con un floscio cappello nero, un vestito marrone miserino e una quasi totale incapacità di comunicare. Non le prestai grande attenzione. Si chiamava Marilyn Monroe. Adler mi suggerì di guardar bene il seno. Seno ne aveva. E una figura sinuosa. Ma per me il sesso coincide con la classe, con qualcosa di più di un sinuoso posteriore. Non fosse così conosco almeno duecento prostitute che sarebbero star. Eppure come ho potuto non accorgermi di Marilyn Monroe? È un rammarico che dura da allora. Hanno detto che Accadde una notte era un film molto sexy ma, che si creda o no, Gable e la Colbert non si toccarono neanche le mani. Il sesso era tutto nelle loro teste e caricava l’atmosfera. Cosa che, quand’anche si fossero messi a ruzzolare sul fieno, non avrebbe ottenuto un effetto più forte. È il desiderio, non l’appagamento, la vera chiave di volta. La caccia e non la cattura. Le scene di sesso esplicite fra giovani sono così imbarazzanti da diventare ridicole. Quelle fra persone mature sono lubriche, o addirittura offensive. È per questo che risulta arduo scrivere o recitare scene d’amore. Meglio lasciarle all’immaginazione del pubblico. Io, di solito, facevo sì che nelle scene d’amore fosse presente uno spettatore, in modo che innescasse una risata liberatoria nel pubblico. Oppure spezzavo le scene d’amore con delle gag che mitigassero l’imbarazzo. Ce n’era una in cui Gary Cooper leggeva una delle sue poesie d’amore a Jean Arthur: sapevo che stavo
giocando con il fuoco. Era molto probabile che il pubblico avrebbe riso di quella scena. Feci in modo che si ridesse, sì, ma di Gary che correndo cadeva su un bidone di immondizia. Una delle scene d’amore più sexy (e insieme più divertenti) che siano mai state girate è in Molta brigata, vita beata, fra Jean Arthur e Joel McCrea, diretta da George Stevens. È quella in cui Joel parla del suo lavoro per il governo con grande serietà percorrendo intanto con le mani il corpo di Jean e Jean continua a togliersele di dosso rispondendogli con lo stesso tono. Dalle loro labbra non usciva altro che composta affettazione mentre dalle mani, dai corpi, da dentro, scaturivano complicità e attrazione. Eccezionale. Per le scene d’amore molto dirette usavo la cautela e la circospezione di un assassino. Di solito le prendevo da lontano così da avvicinarmi obliquamente attraverso un litigio, un discorso senza capo né coda o un completo silenzio. L’idea era quella di saturare le menti e l’atmosfera di desiderio sospingendo in là, quanto più era possibile, il momento risolutivo. In realtà mettere insieme due persone innamorate può avere la stessa suspense di un thriller di Hitchcock. Frank Lloyd una volta mi chiese di vedere uno dei suoi film che aveva avuto un’anteprima deludente. Lo visionammo insieme in una sala di proiezione dello studio. Al loro primo incontro l’eroe e l’eroina cominciavano a mordicchiarsi reciprocamente sul collo. Poi l’eroe passava tutto il resto del film a corteggiarla. «Frank», gli dissi, «penso che tu abbia esagerato nel primo rullo. Dato che non fanno che sbavare uno dietro l’altro per tutto il tempo, a che cosa ti serve sottolinearlo un’altra volta? Prova a tagliare quella prima scena d’amore». Così fece e la successiva anteprima fu tutt’altro che deludente. 23 agosto 1938. Giorno segnato in rosso sul calendario. Le furtive anteprime di L’eterna illusione erano state così dense di promesse che Cohn e gli alti gradi della Columbia decisero di lanciarsi con una insolita trovata pubblicitaria: un’anteprima per la stampa internazionale. Non solo per i seicento scribacchini e intellettualoni residenti che inondavano il mondo con le novità che venivano dai mulini pubblicitari di Hollywood, ma anche per le centinaia di professoroni, espertoni e critici nazionali e stranieri – tutto sotto il controllo della Columbia. Fu drappeggiato e ornato il più grande teatro di posa degli studios. Venne installata una speciale apparecchiatura di proiezione. Fiori, omaggi ed eleganti cartoncini col programma abbellivano il mezzo acro di tavoli da pranzo e, naturalmente, i due bar allestiti per alleviare la sete pre-prandiale del giornalismo internazionale. Un gruppo musicale di fama avrebbe intrattenuto gli ospiti durante il pranzo e poi... poi L’eterna illusione avrebbe tentato di ordire una magica ragnatela per catturare e inchiodare un migliaio di occhi critici. Con Harry Cohn che perdeva chili in sudore. I critici piovvero su Hollywood da tutto il globo: Canada, Europa, Sudamerica, India, Giappone. La mattina dell’anteprima per la stampa mia moglie e io, Vivie, la bambinaia, e il piccolo Johnny – nostro figlio numero due (che aveva allora tre anni e mezzo) – arrivammo strombazzando sul clacson da Malibù. Avevamo una piccola faccenda da sbrigare prima che io potessi tenere il mio discorso di benvenuto ai critici di tutto il mondo a mezzogiorno sul palco della Columbia. Un chirurgo doveva togliere le tonsille al piccolo Johnny giacché così – aveva detto il dottore – non avrebbe sofferto più di brutte infreddature. Johnny non era stato precoce nel parlare ma da poco aveva improvvisamente scoperto di possedere una lingua e voleva dimostrarlo. E dato che raramente ci vedeva tutti insieme diede il massimo di sé. Continuava a passare da me a Lu che eravamo seduti sui sedili davanti e ogni volta che cominciavo a raccontare a Lu di quel marasma di giornalisti Johnny mi copriva la bocca con la mano e diceva: «Sentite me! Sentite me!» Poi puntava gli occhi su ogni oggetto che vedeva passare e diceva trionfalmente ad alta voce: «Automobile!... Autobus!... Signora!... Bicicletta!»
Il demonietto ci tormentò per tutto il percorso. Più ci veniva da ridere e più si dava da fare. Ci veniva da ridere mentre entravamo nell’ospedale pediatrico su Sunset Boulevard, vicino a Vermont. Ci veniva da ridere quando corse all’indietro di fronte a noi mentre l’infermiera ci precedeva lungo il corridoio verso la camera che era stata riservata per Johnny. E infine non riuscimmo a trattenere una bella risata quando col camice appena infilato il chirurgo entrò nella stanza e Johnny lo indicò gridando: «Il dottore!» «Il demonietto ha appena scoperto di avere una lingua e vuoi farlo vedere», dissi scusandomi. «Già», rispose il dottore soffocando il riso. «Quanto sarebbe bello se tutti entrassero in ospedale allegri come siete voi. Bene infermiera, lo prepari e lo porti su». Lu e io uscimmo mentre Vivie e l’infermiera svestivano Johnny. Eppure lo sentimmo ancora per un po’ esclamare: «Letto!... Finestra!... Ruota!...» Di lì a pochi minuti l’infermiera uscì spingendolo su un lettino a rotelle. Johnny si era messo a sedere e andava forte mentre ci dirigevamo verso l’ascensore. Lì mi trassi indietro. «Lu, me ne starò in sala d’aspetto a ripassare il discorso. Fa’ il bravo, Johnny». «Ciao, papà. Ascensore!» Un’ora dopo – ma io ero così preso che mi sembrarono pochi minuti – Lu e Vivie entrarono nella sala d’aspetto, tutte sorrisi. Negli occhi di Lu tremava qualche lacrima di sollievo. «Sta bene, caro. È nella sua stanza. Vuoi vederlo prima di andare?» Corremmo lungo il corridoio e poi a destra nella stanza di Johnny. Il demonietto era in un lettino a sbarre, a pancia in giù e con la faccia rivolta verso di noi, un pugnetto stretto sotto il mento. Dormiva respirando regolarmente. Demmo un bacio ai suoi riccioli bruni intrisi di sudore. Entrò il chirurgo ancora in camice. «È andato tutto liscio, signor Capra». Fece un cenno di rassicurazione. «Nessun problema. Dormirà per circa un’ora e poi potrete riportarlo a casa. Perché non prendete un caffè?» Lu mi accompagnò alla macchina. «Va’ pure, caro. Vivie e io prenderemo qualcosa in un negozio di alimentari». «Va bene, dolcezza. Quando comincia il film me la filo e vengo a prendervi. Va bene?» «Non aver fretta, amore. Questo è il tuo gran giorno. Buona fortuna!» Gli studi della Columbia erano a una decina di minuti di distanza giù per Sunset Boulevard verso Gower. Sì, era una gran giornata per me. Guidando mi trovai a far un riassunto degli anni recenti. Quindici anni prima sviluppavo pellicole al laboratorio di Ball. Ora un migliaio di corrispondenti, la crema della stampa mondiale, avrebbero valutato il mio ultimo film. Certo, L’eterna illusione sarebbe stato il mio sesto titolo di grande successo, un’impresa ancora sconosciuta a Hollywood, ed ero già presidente dell’Academy da tre anni. Sissignore. Stavo per avere un appuntamento faccia a faccia con questa città, proprio come mi ero ripromesso quando uscendo da McGowan ero andato a chiedere lavoro come gag writer per le commedie di Our Gang. Ci sono delle cose che illusioni non sono: quello che riesci a realizzare, l’amore di una moglie meravigliosa, tre stupendi bambini. Nella mia esultanza presi a imitare il piccolo Johnny e puntando il dito su ciò che vedevo passare davanti ai miei occhi gridavo: «Automobile!... Camion del latte!... Cane!» I cancelli della Columbia davano sul Bronson. La polizia motorizzata aveva chiuso la strada al traffico lasciando passare solo le auto con l’invito bene in mostra. Dagli altoparlanti veniva musica a tutto volume e su striscioni e cartelli trionfava «L’eterna illusione di Frank Capra». Avanzai lentamente tra folle di curiosi, attraversai la barriera di poliziotti e svoltai dentro un cancello tutto bardato a festa. Mac, il portiere, era al telefono nel suo cubicolo di vetro. Mi fece segno di fermarmi. Messaggio dell’ultimo minuto da Cohn, pensai. Si vedevano i portoni aperti del teatro di posa in cui si dava l’anteprima. Un centinaio di giornalisti mulinavano nell’ingresso con coppe di champagne in
mano. Riconobbi da lontano Sidney Skolsky, Harrison Carroll e Bill Wilkerson dell’Hollywood Reporter. Spingendo la testa fuori dal finestrino feci loro cenno chiamandoli ad alta voce. Non mi sentirono. Continuavo a far cenni quando mi interruppe la voce del portiere. «Ehilà. Cosa mi dici di bello?» «Signor Capra... La vogliono di nuovo all’ospedale... e subito...» «Ospedale? Chi mi vuole?» «Era la voce di sua moglie. La pregava di fare in fretta». «Oh Dio mio, e adesso che c’è?» Mi voltai indietro e la polizia mi aprì un passaggio tra la folla. Girai a destra su per Sunset Boulevard. I miei timori cercavano di superarmi in velocità. «Che sia Lu... un incidente... o Johnny si è svegliato e non riescono a tenerlo buono... o forse...» Saltai fuori di corsa dalla macchina lasciata davanti all’ingresso dell’ospedale, presi a sinistra il lungo corridoio, poi a destra... Erano là... un gruppo silenzioso: Lu, Vivie, il chirurgo, due infermiere. Mi si serrò la gola. Avanzai verso Lu che mi buttò le braccia al collo bisbigliandomi quelle orrende parole: «È morto, Frank. Il piccolo Johnny è morto». Strinsi più forte il suo corpo tremante e guardai gli altri come per chiedere conferma. Vivie stropicciava un fazzoletto inzuppato di lacrime. Anche il chirurgo piangeva. Lasciai di colpo Lu e mi scaraventai nella stanza di Johnny. Era là, nel suo lettino con le sbarre, come l’avevo visto poco prima, a pancia in giù, la faccia rivolta verso di me, il pugnetto sotto il mento. Ma il colore, mio Dio! Che colore! Era bianco come un lenzuolo. Aveva gli occhi mezzo aperti. Si vedeva solo il bianco. Gli toccai la guancia. Fredda. Come il ghiaccio. Era morto (un grumo di sangue nel cervello, come rivelò più tardi l’autopsia). Niente più lacrime mentre tornavamo lentamente verso casa. Solo un pesante silenzioso dolore. Poi sarebbero venute anche le lacrime. Passammo vicino agli studios della Columbia. Folle, polizia, striscioni erano ancora là. Adesso avevano quasi perduto il loro significato. Lu mi prese la mano. Sapevo che anche lei stava sentendo la voce contenta del piccolo Johnny: «Sentite me! Sentite me!... Automobile!... Autobus!... Signora!» 35. L’eterna illusione, 1938. 36. Meek in inglese vuol dire «mite», «mansueto». [n.d.r.]
14. SE CI DEVI PENSARE È MEGLIO LASCIAR PERDERE
«Marlene Dietrich? No, è veleno al botteghino. Non investirei su di lei un quarto di dollaro», mi disse Cohn nel suo ufficio. «Dai, Harry. Sono i brutti film il veleno del box office, non gli attori. Comunque o Marlene Dietrich fa George Sand o il film su Chopin te lo dimentichi». «Dimenticatelo, allora». Mi stavo consumando di rabbia quando entrai sbattendo la porta nel mio ufficio e abbaiai alla segretaria: «Voglio la mia squadra qui, subito!» La squadra: Joe Sistrom, Harold Winston, Chester Sticht. Joe Sistrom aveva dei capelli neri sempre per aria, indomabili, degli occhiali così spessi che potevano essere stati tagliati via da un calamaio. Brillante intellettuale di Stanford, vero mago in matematica e scienze, Joe era il bambino prodigio mai cresciuto. Come «testa pensante» del cinema sapeva tutto e non faceva nulla. «Non devo deporre un uovo per sapere come lo fa una gallina», era il suo motto. Come purista del pensiero era il mio insostituibile braccio destro, come già lo era stato per Stevens e McCarey, e lo sarebbe stato poi per Wilder. Harold Winston era un profugo dalle luci della ribalta di New York, ora attivo sul mio carrozzone del dialogo. Winston era un’anima gentile e sensibile che amava tutto ciò che era bello, e disprezzava la volgarità. Come purista in estetica il suo gusto sapeva discriminare fra ciò che era artistico e ciò che era meramente piacevole o utilitaristico. Chester Sticht era uno dei due giovani fratelli del mio compagno di stanza al college e grande amico, Robert Sticht. I suoi genitori erano stati ricchi proprietari delle miniere di rame di Queenstown in Tasmania. Dopo la prima guerra mondiale il mercato del rame ebbe un crollo e i genitori morirono di lì a poco quasi senza un soldo. Robert rimase in Australia come capo ingegnere chimico per un’azienda di fertilizzanti. I due fratelli più giovani, Chester e Hadmar, vennero negli Stati Uniti. Hadmar proseguì i suoi studi diventando capo di dipartimento di geologia al College of the Pacific, Chester venne a lavorare per me come segretario e tuttofare. Sistrom, Winston, Stricht erano i miei tre «punzecchiatori». Le loro occupazioni: istigatori, smoscia-entusiasmi, tafani della contraddizione. Il loro scopo preciso: tenermi lontano da qualsiasi forma di compiacimento, dirmi che quanto facevo non era mai abbastanza bello e che potevo far meglio. La loro virtù: una salda fedeltà a me e ai miei film. «Cosa succede, per tutti i santi?», chiese Sistrom mentre io facevo piazza pulita sulla mia scrivania. Glielo dissi. Che del film su Chopin non se ne faceva niente. Che me ne sarei andato dalla Columbia. Che era meglio che si trovassero subito tutti un altro lavoro. Con mia grande sorpresa parvero tutti sollevati. «Perfetto! Pollice verso per Chopin!», disse Harold Winston agli altri. «Il ritmo è stupendo», disse Sistrom e mi passò due pagine gialle dattiloscrite. «Leggi questo, Frank, prima di dar fuori da matto». «È un altro Mr. Deed», continuò Chet, «perfetto per Gary Cooper e Jean Arthur». Lessi la prima pagina. Prima di arrivare alla seconda mi alzai in piedi e cominciai ad andare
avanti e indietro. Le idee saltellavano così veloci che non riuscivo a starci dietro. «No, no, non Gary Cooper e Jean Arthur», farfugliai a raffica. «No. Jimmy Stewart e Jean Arthur. Questo è un giovane senatore, capo boyscout, semplice, idealista. Joe! Da dove hai tirato fuori questa idea?» «Ho letto un libro fuori commercio, The Gentleman of Montana. Quello è un riassunto di due pagine. Non hai ancora letto la seconda...» «Non ne ho bisogno. Vedo benissimo il resto della storia. Joe, si può comprare?» «Per un pranzo al Brown Derby». «Compralo. E svelto! Usa il mio nome. Chet! Chiama Wassermann alla MCA. Vedi se Stewart e la Arthur sono liberi da contratto. Harold, fai qualche copia di questo riassunto e non farle andare troppo in giro. Ehi! Non lo chiamaremo Mr. Deed ma Mr. Smith, Mr. Smith Goes to Washington.37 Lo faremo qui o per la mia compagnia. Maledizione Joe, grazie. Sarò di ritorno fra cinque minuti». È così che succede negli studios. Bonaccia per mesi e poi all’improvviso sei nell’occhio del ciclone. Per due settimane io e lo sceneggiatore Sidney Buchman (Bob Riskin adesso lavorava per la Metro) andammo a «esplorare» Washington D.C. Con noi c’erano l’operatore Joe Walker per filmare gli esterni e un gruppo di fotografi per avere i mille e un dettaglio del Senato – pareti, pomelli di porte, candelieri, ecc. – con un parametro in ogni foto che servisse come unità di misura per gli scenografi degli studios. E naturalmente c’era con me Art Black. Art Black era da lunga data il mio assistente alla regia. Senza di lui intorno io mi sentivo come un mutilato privo di sostegno. Al mondo ci sono uomini straordinari che compiono gesta straordinarie nell’oscurità. Ci sono sergenti, ad esempio, che sanno trarre il meglio da uomini agonizzanti e senza per questo essere meno amati. Così era Art Black. Un nemico dell’assistente alla regia è l’orologio. La sua prima funzione è quella di anticipare e far comparire magicamente sul set quella miriade di particolari di cui il regista ha bisogno durante le riprese senza ulteriori perdite di tempo. In questo Art Black, un irlandese poco compito e dalla voce profonda, non aveva eguali. Ma la sua vera risorsa era una parlantina ininterrotta e unica – soprattutto infarcita di continui strafalcioni – che disarmava, divertiva e rivivificava gli attori e i tecnici quando erano sfiniti dal lavoro. La prima cosa che facemmo nella capitale – io, Sidney e tutta l’équipe tecnica – fu di andare curiosando tra i pullman turistici. Volevamo vedere Washington proprio come avrebbe potuto vederla coi suoi occhi umidi il nostro senatore fresco di voti, venuto dal Montana: il Campidoglio, la Corte Suprema, la Casa Bianca – la nostra trinità, trina e una, una e trina – l’emblema divino della libertà sulla terra, i monumenti ai grandi presidenti Washington e Lincoln, le statue dei padri fondatori che stabilirono il principio di «Noi Popolo», le file e file di croci che onorano il coraggio di quanti sono morti per la libertà, gli alberi sentinelle che, nel cimitero di Arlington, diffondono colori autunnali in loro onore. Queste erano le immagini che avrebbero scollato dal Montana il senatore fresco di voti, così come avevano scollato questo piccolo vecchio ragazzo di campagna dalla California. Mentre Art Black fotografava monumenti e edifici, Sidney e io andammo in cerca di un esperto bene informato che fosse il nostro consulente tecnico sulle procedure del Senato. Due critici cinematografici del posto che avevamo contattato, Jay Carmody e Andrew Kelley, ci raccomandarono un esperto che si chiamava Jim Preston. «Dove possiamo trovarlo?», chiesi a Carmody. Rispose: «Chiedi a chiunque. Preston è noto come la cupola del Campidoglio». Chiamai per telefono un vecchio amico, Bill Henry, il cronista politico probabilmente più legato ai fatti e coi piedi più per terra di tutto il paese. La sua rubrica su Washington nel Los Angeles Times era un appuntamento irrinunciabile per tutti i lettori californiani. Bill e io ci conoscevamo dal 1912, da quando aveva cominciato a fare la cronaca sportiva per il Times e io, tutti i sabati sera, a
inserire nei giornali, l’una nell’altra, le sezioni dell’edizione domenicale. Mi prese in giro sapendo che volevo fare un film sul Senato e disse che dovevo essere o molto coraggioso o molto innocente e aggiunse che il Senato – il club più esclusivo del mondo – era molto irascibile con quei cittadini che allungavano il naso nelle alte faccende ministeriali, specialmente se il naso veniva da Hollywood. Chiesi a Bill notizie su Jim Preston. «È il tuo uomo, Frank. Come sovrintendente della sala stampa del Senato da quarant’anni, il vecchio Jim ha tirato su almeno tre generazioni di cronisti e di senatori. Bella pensata, Frank. Jim Preston saprebbe addolcire anche una di quelle collere senatoriali da farti rizzare i capelli in testa». «Dove lo trovo questo fenomeno, Bill?» «Cercalo in archivio». «In archivio? Ma è morto?» Bill rise e io dissi suppergiù che sarebbe stato più facile «trovare» Preston se avessi portato guanti bianchi e monocolo. Poi mi invitò a pranzo al National Press Club, il circolo della stampa. Per più di un’ora Sidney e io ci imbottimmo di dettagli sulla tradizione del club e sui suoi membri. Le orecchie di Buchman si rizzavano a ogni minimo particolare del dialogo di cui subito prendeva nota mentre io puntavo agli elementi visivi (vestiti, uniformi di attendenti, tovaglie da tavola, dipinti, decorazioni di pareti eccetera.) che sarebbero serviti per la ricostruzione in studio del circolo della stampa. E infine ci occupammo di Jim Preston. George Brown, capo ufficio stampa della Columbia a Washington, fissò l’appuntamento con Jim Preston, che ci avrebbe guidato nella visita alla Camera del Senato (vuota, dato che non erano previste sedute del Congresso). Preston ci condusse attraverso le Camere della Corte Suprema, attraverso labirinti di colonne e corridoi a volta verso un ascensore senza segni indicatori. Poi su per parecchi piani. E ancora avanti per stretti archivolti verso una porta chiusa a chiave. «La sala stampa del Senato», disse lui aprendo la porta e precipitandosi dentro, «per tutti i servizi radiotelegrafici e per i maggiori quotidiani». Ricordo tanti telefoni, tante cabine. Aprì un’altra porta. «La tribuna stampa del Senato», disse e ci condusse giù lungo una breve ma ripida rampa di gradini verso la prima fila di posti a sedere della balconata. E là, con una voce adatta alla lettura dei Sacri Rotoli del Mar Morto, Jim Preston proclamò: «La Camera del Senato, l’Alta Camera del Congresso degli Stati Uniti d’America». Quando c’è di mezzo qualcosa che ha che fare con la patria divento scemo come un’oca, fu quasi consequenziale quindi l’attacco di pelle d’oca che mi prese allora. Eccolo là aperto sotto di me, solenne come una cattedrale vuota, il Senato! Proprio di fronte a noi c’era l’orologio del Senato. Si poteva quasi toccarlo. Poco più sotto l’orologio il banco del vicepresidente e disposti tutt’intorno a ventaglio i novantasei seggi. Immediatamente vidi quei banchi vuoti riempirsi di irosi, stanchi, urlanti senatori. E vidi Jimmy Stewart nella fila di dietro stravolto, rauco, appena capace di reggersi in piedi. «Eccezionale! Signor Preston, lei è assunto sin d’ora. Le daremo cinque volte il prezzo che chiunque altro sarà disposto a pagarla. Per prima cosa voglio che lei faccia in modo che la mia squadra possa entrare qui e fotografare ogni particolare: calamai, penne, cancelleria, ogni minima cosa che il Soldato dell’Unione abbia messo sul seggio di Jeff Davis il giorno in cui Jeff entrò a far parte della Confederazione. Più in là sarà bene che lei venga a Hollywood per aiutarmi a scegliere novantasei attori che riempiano quei seggi e che sembrino veri senatori». «La tipologia media di un senatore degli Stati Uniti è 52 anni di età, 1,70 di altezza, 78 chilogrammi di peso». «Le darei un bacio, Jim!» La nostra storia si fondava su un duplicato dell’eroe-cattivo dell’Eterna illusione. Ancora una
volta la chiave del nodo drammatico stava in un tormentoso conflitto interiore. Il nostro eroe-cattivo – il vecchio senatore del Montana, un Joseph Paine coi capelli bianchi – una volta si dava da fare, poi ha cominciato a darsi da fare di meno e infine ha smesso completamente: e per questo paga un prezzo degradante. La nostra trama: il senatore numero due del Montana, un galoppino del partito, muore. Il Cavaliere Bianco del Senato vola a casa per conferire con il suo boss Jim Taylor e il governatore «Happy» Hopper. Gli stanziamenti per la diga di Willet Creek sono strettamente legati al disavanzo della spesa pubblica. Il governatore deve nominare un uomo al Senato assolutamente «pulito». Il governatore si trova ora nelle condizioni di un Ponzio Pilato coi sudori freddi. Il boss Taylor gli ordina di nominare un galoppino, Horace Miller. Il governatore esita. Anche perché a casa ha otto figli senza peli sulla lingua che lo tartassano accusandolo di essere il reggicoda di Taylor. A cena il fuoco di sbarramento non manca di colpirlo: «Papà, non fare il reggicoda!» «Miller è una foca ammaestrata!» «Nomina un uomo in gamba che cambi qualcosa!» «Basta! Forse voi che la sapete così lunga avreste anche un uomo da consigliare...» Loro non si limitano a consigliare, gridano a chiare lettere: «JEFF SMITH!» «E chi è?» «Jefferson Smith, comandante dei boyscout!» «Il più grande esperto di rocce e animali!» «Ha spento un incendio nel bosco!» «Sa recitare a memoria tutto ciò che ha detto George Washington!» In un momento di sconsiderata rivendicazione di autonomia il governatore Hopper nomina come senatore ad interim Jefferson Smith, proprietario di un negozio di animali d’appartamento. Il boss Taylor s’infuria: «Ti è andato in fumo il cervello? Un cacciatore di scoiattoli al Senato degli Stati Uniti?» «Senti, Jim, è un sempliciotto come non se ne trovano più! Un patriota con gli occhioni da fanciullo... stava sull’attenti anche in mia presenza... raccoglie bimbi e gatti smarriti». Il Cavaliere Bianco s’illumina tutto per la scelta. «Jim, Jeff è un bravo ragazzo. Suo padre era partner associato in uno studio legale. Bravo ragazzo...» «Joe, io non mi fido dei tipi che portano i pantaloni corti e sventolano bandierine», borbottò il boss Taylor. «Ce la fai a tenerlo sotto controllo una volta a Washington?» «Un giovane patriota che recita a memoria Jefferson e Lincoln? Che si trova da solo nella capitale? Certo che posso tenerlo sotto controllo...» E così il giovane idealista, Jefferson Smith, va a Washington, discepolo onorevole del Cavaliere Bianco; scopre che questi ha i piedi d’argilla; tenta disperatamente di convincere i senatori che il Cavaliere Bianco è un impostore (nascosto dietro la maschera di ostruzionista) e che gli stanziamenti extra, destinati al disavanzo pubblico, altro non sono che concussione a favore delle tasche di Jim Taylor, suo boss politico; e rischia di essere schiacciato e stirato dal rullo compressore della macchina politica di Taylor, ma infine... infine vincono gli ideali più profondi, le parole di Lincoln, lo spirito arguto di Jean Arthur, un discorso interminabile, e la coscienza di un Cavaliere Bianco, in un continuo crescendo che sfocia in un finale carico di emozione. Mi accadeva con tutti i film. Quando si avvicinava il primo giorno di lavorazione la bolla dell’entusiasmo scoppiava e mi veniva un attacco di terrore. Alla Columbia questo di solito coincideva con la visita, insieme allo scenografo Lionel Banks, al primo set preparato per le riprese. La storia costata duecentomila dollari, lo sceneggiatore da tremila dollari la settimana al lavoro da mesi, la firma del contratto da parte di attori ben pagati e i bilanci delle spese settimanali avevano caricato sul film costi che si aggiravano intorno al mezzo milione di dollari. Eppure tutto ciò non faceva ancora impressione. Era tutto ancora immaginazione e i dollari non avevano acquistato nulla che si potesse materialmente prendere e portare. Così mettevo da parte quelle cifre e tornavo a
inventare scene immaginarie col mio sceneggiatore o a studiare la fisionomia degli attori con chiunque fosse pronto a darmi retta. Ci si divertiva molto, e sembrava di essere liberi come il vento. Discutevamo e ridevamo come fanciulli. Altro discorso quando lo scenografo mi mostrava dozzine di veri falegnami che con veri chiodi fissavano vere tavole di legno. Tutta roba che aveva a che fare con la concretezza del lavoro e del danaro. I nostri bei discorsi sembravano improvvisamente irrigidirsi in chiodi, tavole, mattoni e calce. Tutti acquistati con danaro vero. Il primo istinto era quello di volare in Sudamerica, darmi per disperso, magari morto. E invece ero preso al gancio, intrappolato, incaricato di spendere due milioni di dollari... per che cosa? Mi fiondavo nel mio ufficio, chiudevo le porte a chiave, rileggevo soggetto e sceneggiatura. Sciocchezze. Erano tutte sciocchezze, solo stupidaggini! Cominciava il panico. Non c’era altro da fare che correre nel mio frutteto di Brentwood e mettermi a strappare erbacce fino all’esaurimento fisico o andare al Tennis Club a palleggiare da solo finché non mi si annebbiava la vista. Poi, pian piano ti ricordavi di essere un professionista, che l’arte esigeva una disciplina di ferro, e tecnica. Ti ricordavi che far film significa innanzitutto prendere decisioni. «Che spettacolo è? Buono o no?» Se va via liscio è uno spettacolo buono. Se ci devi pensare, meglio lasciar perdere. Se non c’è alternativa che t’illumini, butta via tutto. Ricomincia da capo. Ti immergi nel film con la giacca stretta della disciplina. Diecimila decisioni da prendere? Non ci pensare. Isola solo quelle che ti colpiscono immediatamente. E ne viene fuori un film. Bell’e fatto. Talento? Arte? Lo sa Iddio. Disciplina? Sì. Lo stesso accadde sa quando mi prese il panico a Washington. Quella volta la realtà mi piombò addosso da altezze vertiginose. La mia squadra era impegnata a fotografare, lo sceneggiatore Buchman stava spremendo i minimi particolari da Jim Preston e io avevo preso al volo un invito irripetibile da Bill Henry per assistere con lui a una conferenza stampa alla Casa Bianca. La Casa Bianca! Sacro simbolo americano della facoltà che il popolo ha di eleggere uno dei suoi alla carica più potente del mondo. E lasciatemelo gridare forte dalla cima delle case e pubblicarlo a caratteri cubitali: per cinico e duro che tu sia o quand’anche tu abbia la sensibilità di un bue non c’è scampo: la Casa Bianca ti entra nella pelle. Una cinquantina di giornalisti accreditati della Casa Bianca attendevano in silenzio in un basso vestibolo appena fuori dalla Stanza Ovale. Io stavo appiccicato a Bill Henry, immobile come un topo. Bill aveva avuto qualche difficoltà a giustificare la mia presenza con gli uomini dei servizi segreti e tre di loro mi tenevano d’occhio furtivamente. «Mi sembra che tu non stia troppo bene, Frank», mi disse sorridendo Bill. «Dio mio, Bill, mi tremano le ginocchia», sussurrai. «La mia prima visita all’ufficio di Franklin Delano Roosevelt». «Pensa un po’ che io sono stato qui un centinaio di volte e ho ancora il solletico allo stomaco». Si aprì la porta. I giornalisti si pigiarono dentro per conquistare una buona postazione. Bill e io restammo in fondo all’ondata. «Restiamo indietro», mi disse Bill all’orecchio. «Il vecchio Franklin D. è un occhio di lince per le facce». Benché avessi davanti tre file di reporter riuscii a intravedere Franklin Delano Roosevelt. Sedeva con la schiena appoggiata allo schienale e aveva un fare confidenziale e regale insieme. Un lungo bocchino pendeva con sapiente mollezza dalla sua faccia forte mentre squadrava i giornalisti con un arrogante sorriso di sfida. Ero lì in piedi a non più di quattro metri da Franklin Delano Roosevelt, presidente degli Stati Uniti d’America! Gli americani acquisiti sanno apprezzare appieno la sacra aura di quel titolo. Prestai attenzione alle domande. Il signor Presidente avrebbe commentato la dichiarazione del primo ministro Chamberlain sulla «pace nel nostro tempo» dopo il suo incontro cautelativo con
Hitler a Monaco? Come commentava la dichiarazione di Hitler, soddisfatto di quanto ottenuto in Cecoslovacchia? Avrebbe fatto pressioni sul Congresso per rivedere le leggi sulla neutralità acciocché i belligeranti potessero acquistare munizioni? Stavamo ancora vendendo rottame di ferro al Giappone? E mi prese il panico. Il Giappone stava facendo a fettine quel colosso della Cina, pezzo dopo pezzo. I panzer nazisti erano entrati in Austria e in Cecoslovacchia e la loro eco s’era fatta sentire in tutta Europa. Francia e Inghilterra fremevano. L’orso russo ringhiava sinistramente dal Cremlino. L’oscura nube della guerra sovrastava le cancellerie di tutto il mondo. La Washington ufficiale, dal presidente in giù, era sul punto di prendere dure, laceranti decisioni. E io? Io ero sul punto di satireggiare sugli uomini di governo. Stavo facendo una commedia su un rustico, inesperto senatore che arriva a Washington portandosi una cassa di piccioni viaggiatori (per mandare messaggi a sua madre) e fa saltare importanti deliberazioni prese dal Senato, come ostruzionista. Il cancro della guerra stava crescendo sul corpo politico ma il nostro bell’eroe delle riforme voleva attirare l’attenzione del mondo sul foruncolo di corruzione che sentiva sul suo naso. Non era forse il periodo meno adatto per fare un film su Washington? Uscito dalla Casa Bianca ringraziai Bill Henry e chiamai un taxi. Dove stavo andando? Al monumento costruito in onore di Abramo Lincoln, altro inesperto tutt’ossa ch’era venuto a Washington e coi suoi ideali aveva salvato l’Unione; a quella fonte di coraggio morale dove il nostro Jefferson Smith sarebbe andato a ispirarsi dopo che il compressore politico lo faceva fuori. E là, nel più maestoso tempio che abbiamo in America, sedeva la colossale statua di marmo del nostro grand’uomo – dimesso, coi capelli scompigliati, ossuto – gli occhi puntati nel cuore di migliaia di americani con una profonda, profonda compassione che sembrava sgorgare direttamente dalla sua grande anima. Occhi che sembravano dire: «Amico, ho capito tutto. Stai tranquillo». Insieme a dozzine di turisti, lessi le parole che erano incise sul primo lato del cippo, le parole del Discorso di Gettysburg. Le udii recitare dalla voce di un bimbo. Un ragazzino di otto anni, vicino a me, che teneva per mano un uomo molto vecchio – a malapena si reggeva in piedi e vedeva male – e gli leggeva le ispirate parole di Lincoln con una voce chiara e semplice come di campana. Il vecchio sorrideva fra sé e sé, annuiva orgogliosamene a ogni frase. Io guardai su, verso Lincoln e, per quanto fosse immaginazione, son sicuro di averlo visto sorridere. Poi il ragazzo condusse il vecchio al lato opposto e gli lesse le parole del Secondo discorso inaugurale. Mai mi suonò così potente, eloquente, commovente l’appassionato atto d’accusa morale di Lincoln contro la schiavitù, mai come in quel momento, mentre il ragazzino lo ripeteva al nonno. Questa scena deve entrare nel film, mi dissi. Dobbiamo fare il film non fosse che per ascoltare un ragazzo leggere Lincoln a suo nonno. Lasciai il monumento di Lincoln con la rafforzata convinzione che il film si dovesse fare. Più incerta in tutto il mondo era la gente, più confuse e disperse nel vento erano le libertà conquistate a caro prezzo, tanto più necessario era ribadire sonoramente gli ideali democratici americani. L’anima del film doveva ancorarsi a Lincoln. Il nostro Jefferson Smith avrebbe dovuto essere un giovane Abe Lincoln, cucito sulla semplicità, sulla compassione, sugli ideali, sullo spirito e sull’inflessibile coraggio morale, anche sotto pressione, che erano stati di Lincoln. Tornammo a Hollywood a lavorare su Mr. Smith va a Washington. Niente più panico. Non è mai inopportuno sciogliere le campane della libertà. Facemmo ritorno agli studi della Columbia da Washington il 1° novembre 1938, e nel giro di un anno o poco meno dovetti affrontare una quantità di eventi tali e tanto eccitanti che sarebbe bastata a riempire una vita intera.
Innanzitutto c’era quell’infernale folle corsa contro il tempo che era la fase di preproduzione del film. Non ho nessuna intenzione di magnificare l’ingrata fatica di dover sempre dire l’ultima parola sul milione e un dettaglio compresi nel varo di un progetto grande come Mr. Smith va a Washington. Né d’altro canto vorrei minimizzare la tormentosa attesa di vedere se tutti quei dettagli si combinano in tempo per il gran giorno – punto di non ritorno – quando per il regista è programmato il suo: «Motore! Azione!» Eppure di questo son certo, e ho intenzione di ripeterlo sino allo sfinimento: per diminuire i pronostici a sfavore di un film che voglia essere di qualità non c’è nulla che possa sostituire la strenua attenzione ai particolari della fase di preproduzione. E per garantire la qualità di quei particolari solo una cosa vale: l’ingrata fatica che ti spezza la schiena. E il primo lavoro è naturalmente quello sulla «parola». Dovevamo assimilare e ordinare pile di appunti presi a Washington e incorporarli in una sceneggiatura dove si riconoscesse un tema, che avesse senso e raccontasse una storia credibile e che, soprattutto, fosse piacevole sotto il profilo spettacolare. E tutto ciò era un piano di lavoro da completare in due mesi, cosa oltremodo faticosa, come può testimoniare qualunque scrittore o drammaturgo. Sidney Buchman e io eravamo lì soli, specialmente Buchman. Né ti può essere di alcuna utilità uno stuolo di consulenti. Solo Dio può aiutarti, e talvolta lo deve fare. Per quanto riguarda la sceneggiatura è tutto un lavoro solitario teso a inventare e creare qualcosa di assolutamente nuovo: duecento pagine di scene costruite con sapienza drammatica, piene di immaginazione e di garbo, che siano degne dei due milioni di dollari investiti per filmarle. E queste scene non è che vengan fuori come acqua da un rubinetto aperto. No, no. Vengono create. E ci vuole talento. Sì, un talento straordinario. Ma non solo. Bisogna scrivere e riscrivere, sudare e spremere le meningi. Ci vuole la resistenza e il vigore di un campione di decathlon. E scrivendo Mr. Smith Sidney Buchman fornì una prestazione da medaglia d’oro. Poi c’era lo scenografo Lionel Banks. Dagli antichi progetti disseppelliti dalle catacombe del Campidoglio e da migliaia di fotografie, la sua squadra di maghi doveva far apparire per incanto in un centinaio di giorni l’esatta copia di ciò che era stato costruito in un centinaio di anni. E ricostruendo la Camera del Senato anche l’omissione di storici scarabocchi su un banco senatoriale avrebbe potuto far suonare tutto falso. E in più altre copie fedeli riempivano tutti i teatri di posa della Columbia: guardaroba, sale di consiglio, circolo della stampa, suite d’hotel, monumenti, perfino una residenza di governatore del Midwest. Senza contare l’arduo, estenuante impegno di scegliere gli attori e assegnare le parti. Dico arduo giacché io insistevo per contattare personalmente tutti gli attori che sarebbero apparsi sullo schermo, dal primo all’ultimo. Il mio metodo di mettere assieme un cast non era certo ortodosso. Non c’erano grandi e piccoli ruoli. Erano tutte parti da grandi attori, anche se duravano cinque secondi. E per me questa era una legge sacrosanta: per quanto breve, ogni segmento di tempo di un film ha la stessa necessità e importanza di ogni altro segmento di tempo, più lungo o più complesso che sia. C’erano 186 parti parlate in Mr. Smith va a Washington e in più centinaia di parti «d’atmosfera», per comparse. Il reparto addetto alla distribuzione delle parti e i miei tre «punzecchiatori» (Joe Sistrom, Harold Winston e Chester Sticht) convocavano quattro o cinque attori per ogni parte. Questo significava settimane e settimane di colloqui. Raramente, anzi quasi mai, facevo dei provini. Pensavo fossero idioti e certamente sgradevoli per gli attori. Io selezionavo il cast solo con l’istinto. Durante i colloqui non vedevo degli attori nei candidati. Cercavo di visualizzarli come esseri umani che facessero parte della nostra storia. Se non facevano scattare la molla giusta li ringraziavo e li congedavo. Se invece qualcosa dentro di me scattava dicendomi: «Per la parte del dottore questo è l’uomo giusto»; oppure: «È lei. È la segretaria che cercavi», allora quegli attori venivano presi subito, senza altri colloqui preliminari di sorta. Presto fui in grado di visualizzare l’intero film come una vera storia con esseri umani verissimi di
cui conoscevo i volti. Se ha un valore il riconoscimento accordatomi per la naturalezza con cui gli attori recitano nei miei film, ebbene è dovuto a questa attitudine: non importa quanto piccolo sia il ruolo, io tratto tutti gli attori come fossero star. Per i ruoli principali della storia c’era ben poco da esaminare. Conoscevo gli attori che volevo e mi misi alle loro calcagna con lo stesso zelo che Harpo Marx impegnava nello star dietro alle donne. Jimmy Stewart e Jean Arthur erano una «squadra» dotata di affiatamento naturale, fatta apposta per la storia: il puro idealista e la cinica segretaria infarcita di politica, con dentro un cuore d’oro assopito. Furono scritturati nel momento stesso in cui il progetto prese forma. Ma chi avrebbe interpretato il ruolo decisivo del senatore più anziano, il Cavaliere Bianco, l’eroe-cattivo dello spettacolo? Sfogliammo tutto l’Annuario degli attori, rovistammo nelle liste di clienti che ci inviavano gli agenti. Nessuno aveva numeri tali da farci andar su la pressione, finché uno della mia squadra disse casualmente: «Quando penso a un attore che somigli a un senatore mi viene in mente Claude Rains». Din-don! Ma ovvio! Quell’attore inglese così distinto non solo poteva aggiungere grazia e lustro alla Camera dei Lord di qualsiasi nazione, aveva anche il talento, la potenza e la profondità per interpretare l’idealista tormentato con i piedi d’argilla. Nel dare la parte del potente boss politico fu praticamente automatico pensare al mio cattivo preferito dalla risata chioccia, Edward Arnold. E per il ruolo del borioso e vacillante governatore col suo «Non possono far questo a me!», chi altri se non Guy Kibbee, sempre sudato e con gli occhi grossi e sporgenti? Per gli otto marmocchi attaccabrighe del governatore, quelli che non gli danno mai tregua accusandolo di essere il pupazzo del boss Taylor, Joe Sistrom fece una bella scoperta: «Prendiamoci i due terzi più giovani della tribù Watson. Faranno diventare scemi chiunque!» (Papà e mamma Watson e una dozzina circa di piccoli Watson lentigginosi lavoravano tutti nel cinema.) Ci vollero settimane per trovare l’attore giusto per la parte di Diz, il reporter con in bocca citazioni di poeti, che non avrebbe mai attraversato la strada per vedere Lady Godiva a meno che il cavallo non l’avesse disarcionata gettandola su un boschetto di cactus. Diz era il compagno fedele e il tenace corteggiatore di «Saunders» (Jean Arthur). Quello che, da sobrio, le faceva due proposte di matrimonio al giorno, e quattro all’ora in assenza di lucidità. Giurava con galanteria che Saunders sarebbe stata, come diceva Lamb, la sua «dolce compagna con cui vagabondare per il mondo». Coi miei «punzecchiatori» insistevo che Diz avrebbe dovuto essere interpretato da un attore mancino. «Ma perché?», mi chiesero provocatoriamente. «Non lo so. Eppure quelli con la “mano del diavolo” sono caratteristi per istinto, pieni di sorprese. Un po’ come le porte che si aprono dalla parte sbagliata o gli orologi che girano all’indietro. Guardate Gomez il Mancino. E scommetto che “Wrong Way” Corrigan è un mancino. E comunque Diz è mancino». Sistrom, come al solito, tirò fuori la soluzione. «Il miglior attore con la mano del diavolo è quel tipo per cui vai matto: Tommy Mitchell». Campane a festa. Tutti se ne uscirono con il loro «Eureka!» Tommy Mitchell era l’esaudimento divino alle nostre preghiere. E presto lo sarebbe diventato per molti altri registi, compreso John Ford. Devo anche raccontarvi come arrivammo a scegliere l’attore per la parte del vicepresidente perché vien fuori qualcosa di molto interessante sui risvolti psicologici della recitazione. Nel nostro film il vicepresidente aveva ben poco da fare se non star seduto nella sua tribuna. Ma al tempo stesso era l’ancora che impediva al Senato di affondare quando la tempesta dell’ostruzionismo cominciava a infuriare. Eravamo tutti d’accordo che un bravo attore caratterista come Mr. Edward Ellis avrebbe reso perfettamente la parte. Chiamai il suo agente. «Frank», disse l’agente con un tono tipo prendere-olasciare, «Mr. Ellis non prende in considerazione né legge ruoli a meno che non siano una proposta sicura. Il suo salario è di venticinquemila dollari per sei settimane. Le sforature di tempo saranno calcolate proporzionalmente».
«Proposta sicura» significava che la parte doveva essergli garantita prima della sua approvazione. «Proposta sicura», dissi io. «Gli manderò un fattorino con la sceneggiatura». Molte ore più tardi l’agente riportò di persona la sceneggiatura. Stavo studiando insieme all’operatore Joe Walker il Senato parzialmente ricostruito attraverso il mirino della macchina da presa. «Frank», disse l’agente rendendomi la sceneggiatura, «Mr. Ellis dice che non è mai stato tanto insultato in vita sua. Pretende delle scuse. Dice che neanche un attore di terz’ordine accetterebbe una parte con neanche venti parole!» «Amico mio, oggi è il mio giorno fortunato. Tutte le mie scuse a Mr. Ellis e lo ringrazi per aver rifiutato la parte». Fu ancora Sistrom a suggerire: «Ma, mio Dio, noi non vogliamo un grande attore. Non ne troverai nessuno che voglia una parte di venti parole soltanto. Vogliamo una faccia, una bella faccia forte da americano». Esaminammo l’annuario degli attori alla ricerca di facce americane e una da austero micione yankee balzò davanti ai nostri occhi: era quella di Harry Carey. Lasciamo che sia quel veterano attore cowboy a raccontare di sé nell’intervista che concesse a Douglas Gilbert del New York WorldTelegram: Quando il mio agente mi disse che Capra aveva una parte per me in Mr. Smith mi fiondai agli studios della Columbia a briglia sciolta. «Interpreterai per me un vicepresidente?», mi chiese Capra. «Non so. Non ne ho mai visto uno nei documentari». «Bene», disse lui, «sei il mio vicepresidente». E naturalmente comincio col non riuscirci [...] io che sono nel cinema dal 1908. Nella mia prima scena dovevo far giurare Jim Stewart. Non veniva e io lo sapevo. Capra ordinò un nuovo ciak e fu un altro fiasco. Un altro ancora. Fiasco di nuovo. «Stampala», disse Capra come per dire che andava bene. Io però sapevo che era terribile. E lui pure, dato che lasciò la macchina da presa lì dov’era mentre noi si andava a mangiare.
Avevo ordinato la pausa del pranzo perché quell’attore western stava perdendo la faccia davanti ai suoi colleghi di raffinata recitazione. Tornati sulla scena gli buttai lì come per caso: «Harry, mentre le macchine da presa sono ancora montate, riproviamo la scena di prima. Ma stavolta ricordati: il popolo ti ha eletto vicepresidente. Sei a uno sputo dalla Casa Bianca. Lascia perdere Harry Carey il cowboy. Fai giurare questo nuovo senatore come Harry Carey, vicepresidente degli Stati Uniti». Le sue spalle si raddrizzarono, la tensione della sua faccia erosa e cotta da sole e intemperie si sciolse in una ferma e tranquilla dignità. «Procedi, Frank. Il vicepresidente è pronto», disse senza scomporsi. E lo era davvero. I critici menzionarono la bella prova di Harry Carey almeno quanto il tour de force di Jimmy Stewart. Fin qui abbiamo parlato di tre grandi operazioni legate alla fase di preproduzione: la ricerca e la stesura di soggetto e sceneggiatura, la costruzione dei set, e la scelta degli attori. Ma ce ne sono altre: la selezione e l’ideazione del guardaroba di ogni attore, l’allestimento degli interni (l’arredo del Campidoglio fu ricostruito con scrupolosa esattezza, tutto a mano), il trovarobato (per rispettare l’ambientazione del film si doveva preparare e far stampare edizioni speciali di riviste appropriate). Le riunioni sul budget erano noiose, asfissianti e lunghe. Si continuava a stendere tabelle di marcia che poi venivano puntualmente corrette. C’era anche un trucchetto che era facile tralasciare, col risultato di ritrovarti poi con dei bei mal di testa da sopportare. Ossia impostare le scene in modo tale che «donassero» alle star. Sì, proprio così, avete letto bene. Ad esempio: un lato del volto di Jean Arthur era molto più affascinante dell’altro; anzi, l’altro lato, quello «brutto», la faceva sembrare una persona diversa. Pertanto le scene dovevano essere costruite in modo tale da permettere che le entrate di Jean Arthur presentassero solo il lato «bello» della sua faccia. O altrimenti lei era costretta a scomodi e
innaturali attraversamenti o giravolte per offrire alla macchina da presa il suo lato «bello». E non è che fosse solo Jean Arthur ad avere questo problema. Sono pochissime le star e sono pochissimi anche quelli che non fanno cinema ad avere facce perfettamente simmetriche. Poi arrivarono gli accordi da prendere con Tiomkin per la colonna sonora: «Allora, caro Dimitri, lascia perdere i vari Borodin e Musorgskij. Solo temi americani, chiaro? Folklore, Stephen Foster, Sousa, W.C. Handy...» «Frank, pensi che io sia proprio un bambino? Papichka, nella mia testa ho solo note americane, americane come la torta di mele...» E poi correre alle sedute con il direttore di montaggio, Slavko Vorkapich, e ancora alla seconda unità per gli stacchi insieme a Charles Vidor, promettente giovane regista appena arrivato da Vienna. Eh sì. A uno spettatore sprovveduto tutta questa febbrile attività della preproduzione può apparire come un circo a otto piste montato in un manicomio, con tutti i degenti che fanno acrobazie. Non è così, però. C’era del metodo in questa pazzia. E fu proprio la padronanza di questo caos apparente – che coinvolgeva i più raffinati professionisti della scienza e dell’arte – a fare di Hollywood il centro cinematografico più importante del mondo. Se la preparazione di Mr. Smith non riusciva a tenermi occupato a tempo pieno, c’erano i preparativi per il prossimo banchetto degli Oscar a completare l’opera: riunioni per le votazioni, inviti, ospiti, la stampa, le riviste, i giornalisti della radio. Da quattro anni ero presidente dell’Academy. Si aggiunga inoltre, giusto per evitare la noia, l’elezione a presidente dell’associazione dei registi cinematografici, la Screen Directors Guild. Evviva! Ero nel bel mezzo dei preparativi di Mr. Smith quando improvvisamente si scatenò un pandemonio. Mi trovai schierato in una guerra di logoramento che culminò con la mia dichiarazione di uno sciopero dei registi, come ultimatum alle teste coronate dell’associazione dei produttori cinematografici, e con il proposito di smembrare l’Academy, che fino ad allora mi ero impegnato a tenere unita. I semi di questa crisi inaspettata erano già stati lanciati un anno prima quando, presidente dell’Academy, mi presentai davanti al tavolo di consiglio della Directors Guild per recitare la mia annuale preghiera di collaborazione alla giuria del Premio. Sottolineai che i rappresentanti delle altre due Associazioni – attori e sceneggiatori – avevano lasciato cadere la loro opposizione attiva all’Academy e avrebbero concesso ai loro membri di collaborare liberamente. King Vidor, il presidente, disse che la collaborazione con l’Academy sarebbe stata di ben poco aiuto, dato che la Directors Guild stava combattendo per restare in vita. Certo, attori e sceneggiatori adesso potevano anche guadagnarci partecipandovi. Avevano vinto la loro battaglia ed erano stati riconosciuti. Come dire che era nel loro interesse. Affari! I registi invece non avevano neanche conquistato la prima base. Anzi i caporioni delle compagnie erano ben decisi a non riconoscere la nostra associazione come rappresentante della trattativa per registi e assistenti alla regia. I produttori incontrarono la delegazione di Howard Hawks (ne facevano parte anche Rouben Mamoulian e Eddie Sutherland), per poi rompere subito le trattative. Qualche mese più tardi ripeterono il gioco. «La nostra associazione è nei pasticci, Frank. Ci sono alcuni registi come Bill Wellman, per esempio, che si dimettono delusi. Altri pensano sia ridicolo che registi famosi adesso si mettano a fare un sindacato, e ci sono anche dei fanatici che ci danno dei comunisti. Tu sei un membro dell’associazione, Frank. Perché non la prendi sul serio e non ci dai una mano, invece di passare tutta la tua vita a promuovere il Premio?» La cosa mi portò a riempire un posto vacante al consiglio della Directors Guild. Alla prima riunione generale di tutti i registi mi nominarono presidente, nella speranza che uno a cui era stato possibile rivitalizzare l’Academy potesse portare un po’ di vivacità all’associazione. D’altro canto io avevo accettato la sfida con molto piacere. Non ne potevo più dei magnati del cinema che a suo
tempo avevano fatto fronte comune contro di me lasciandomi per un anno senza lavoro. La mia prima azione significativa come nuovo presidente fu quella di assicurarmi la lungimiranza, l’esperienza e le brillanti qualità forensi di quella grande donna di legge che era Mabel Walker Willebrandt. Essendole ben note le procedure di Washington (era là che lei esercitava la professione), Mabel Willebrandt fissò un’udienza per l’associazione davanti alla Camera Nazionale del Lavoro. Una settimana prima dell’udienza fissata, Sam Goldwyn mi contattò. Mi suggerì di non lavare i panni sporchi in pubblico e mi diede la sua parola che, se la Directors Guild avesse nominato una nuova delegazione per le trattative, lui avrebbe garantito degli incontri con una piccola delegazione di produttori per risolvere i nostri problemi in privato fino alla stipulazione di un accordo formale. Discutemmo della cosa con un po’ di buon senso. Per ben due volte, l’anno precedente, opposte delegazioni si erano incontrate arrivando praticamente a un accordo finale che poi era stato annullato dall’arbitraria decisione dei produttori di rompere le trattative. Era ovvio che Joe Schenck, presidente dell’associazione dei produttori, avrebbe continuato a giocare al tira e molla finché i registi non si sarebbero stancati dell’idea di una corporazione. Al contrario avevamo tutti grande rispetto per l’integrità morale di Sam Goldwyn. D’altro canto, non ne potevo più di affrontare Joe Schenck come un torero. Disdicemmo l’udienza davanti alla Camera Nazionale del Lavoro e optammo per un terzo tentativo nelle trattative dirette. Io mi incaricai di guidare la piccola delegazione di registi e informai Joe Schenck che volevamo incontrare immediatamente una delegazione di produttori con nomina ufficiale. Il 3 gennaio del 1939 Joe Schenck inviò una lettera alla Directors Guild in cui rendeva nota la formazione di una delegazione così composta: Joe Schenck, Sam Goldwyn, Harry Warner, Eddie Mannix, Y. Frank Freeman e Harry Cohn. Il 9 febbraio le due delegazioni si incontrarono. Schenck aprì la riunione annunciando che la delegazione avrebbe trattato con i registi solo se questi avessero estromesso gli assistenti alla regia dall’associazione. Altro stallo. Abbandonammo la sala. La mattina dopo Joe Schenck fece chiamare gli uffici della Directors Guild chiedendo un incontro privato con Mr. Capra. Pregava inoltre Mr. Capra di attendere una chiamata diretta da Mr. Schenck. Attesi tutto il giorno. Non ci fu nessuna chiamata. La mattina seguente chiamai io Joe Schenck chiedendo spiegazioni. Lui si scusò e mi chiese di raggiungerlo nel suo ufficio da solo alle 15. Alle 15 mi presentai all’ufficio. La segretaria disse che non c’era. Era andato all’ippodromo di Santa Anita a mezzogiorno. Mi si rizzarono le penne. Adesso stava proprio esagerando. Al diavolo anche Mr. Smith va a Washington! L’ippodromo sarebbe stato un posto adatto per far capire a Mr. Schenck che io riuscivo a reggere benissimo. Saltai in auto e mi fiondai a Santa Anita. Sapevo che Joe Schenck, a dispetto della bassa tonalità di voce con cui parlava, era tutto cervello e acciaio. Calvo, impenetrabile, massiccio e con la faccia coperta di rughe, guardava tutti con gli occhi di un Buddha afflitto da un perpetuo postsbornia. Ma erano sguardi ingannevoli i suoi. Era il giocatore di poker più abile dei tavoli ad alta posta di Hollywood e buon giocatore di poker si rivelava anche nei giochi di potere di Hollywood. Tuttavia era benvisto e rispettato. La sua lealtà era diventata leggendaria. Quando Willie Bioff – un delinquente che gestiva la IATSE (il sindacato che riuniva i lavoratori dell’industria dello spettacolo) di Chicago grazie al suo scagnozzo George Brown, che ne era presidente – prese il controllo dei professionisti di Hollywood e cominciò a disfarsi dei dirigenti degli studios con minacce di scioperi e violenze personali, la giustizia riconobbe in Schenck il capro espiatorio. E dato che rifiutò di fare i nomi di altre supposte vittime dell’epurazione, Joe Schenck, dirigente della 20th Century Fox, scontò un anno di galera. Joe Schenck sapeva bene cos’era il potere e come e quando usarlo. E io ero consapevole che
non sarebbe stato facile aver la meglio con lui a meno di non aprire con un asso e un re. A Santa Anita dovetti faticare non poco per rintracciarlo nel suo box privato. Mi salutò calorosamente. «Ma bene, guarda chi c’è! Frank Capra! Entri, entri! Sia mio ospite. Ho almeno sette informazioni da darle per la prossima corsa». Calma, ragazzo. Adesso colpisci con dolcezza e poi mollalo. «No, grazie, Mr. Schenck», dissi con calma. «Sono venuto sin qua per dare io un’informazione a lei. La prossima volta che mi chiederà un appuntamento io ci sarò. E così pure spero lei, cappello in mano». Convocai una riunione speciale del nostro Consiglio. Il banchetto degli Oscar era slittato al 23 febbraio, di otto giorni. Ragguagliai il consiglio sugli sgradevoli episodi con Joe Schenck. I membri del consiglio erano furiosi. Io ricordai loro che Schenck avrebbe ceduto solo davanti al potere e che perciò ci si doveva muovere rapidamente, con una precisa consapevolezza delle mosse da giocare, e determinati a farlo fuori, altrimenti addio Directors Guild. Discutemmo le mosse da fare per dimostrare il nostro potere. Alcuni erano per un’assemblea generale dei registi che mettesse ai voti uno sciopero. Altri ribattevano che non avremmo dovuto cominciare qualcosa che sarebbe rimasto senza esito, giacché i registi di fama sotto contratto potevano essere perseguiti giuridicamente se avessero scioperato. Ero d’accordo e infatti suggerii una mossa più tempestivamente efficace: boicottare l’Oscar. Spiegai che i precedenti tentativi di boicottaggio del Premio condotti dai vari sindacati (onde mettere alle strette i dirigenti della produzione) erano falliti perché alle compagnie di produzione non interessava se qualcuno faceva fuori il Premio dopo che l’Academy si era rifiutata di far avallare i tagli sulle paghe. Ma oggi no. L’Academy era in vita. Ed era forte, poiché rappresentava il principale veicolo di lancio dei film. Il banchetto per il prossimo Premio registrava il tutto esaurito e il programma era ormai stabilito: musiche, star, ospiti celebri, quattrocento giornalisti. «Io lo so bene», dissi davanti ai membri attoniti del consiglio, «dato che ho curato io, come maestro di cerimonia, tutti i preparativi. Dunque attenzione: questo è il mio piano per mettere con le spalle al muro la produzione. Primo: rassegnerò immediatamente le dimissioni come presidente dell’Academy, rinunciando anche al mio ruolo di maestro di cerimonia, e il motivo sarà lo sprezzante, duro comportamento dell’associazione dei produttori nei confronti dell’associazione dei registi e dei suoi rappresentanti. Il premio Oscar fa notizia e questa accusa sarà roba da prima pagina. Secondo: indiremo un’assemblea d’emergenza di tutti i registi». George Marshall presentò una mozione (sostenuta da Rowland Lee e approvata all’unanimità) in cui si indiceva una riunione urgente dei membri per la sera seguente, giovedì 16 febbraio, all’Athletic Club di Hollywood. Telegrammi urgenti furono recapitati a tutti i registi. Facemmo trapelare la notizia della riunione in massa agli organi di stampa che la giocarono alla grande. Più di duecentocinquanta registi si riunirono in assemblea all’Athletic Club di Hollywood. Circolava uno spirito molto aggressivo. I rappresentanti resero noti i dettagli dei tira e molla nelle trattative coi produttori, dissero che i dirigenti amministrativi stavano provando con noi il vecchio trucco del bastone e la carota e che volevano solo far fuori la nostra associazione. Quando un membro del consiglio raccontò come il presidente stesso avesse dovuto dar la caccia a Joe Schenck all’ippodromo di Santa Anita dopo che ben due appuntamenti erano stati disattesi, i registi esplosero. Un membro chiese la parola, guadagnò il palco e propose di votare per lo sciopero. La mozione fu approvata subito. Come presidente cercai di calmare l’assemblea ma poi compresi che votare uno sciopero e il boicottaggio del Premio mi avrebbero dato il vantaggio necessario, l’asso che avrebbe costretto Joe Schenck a mollare. Lo sciopero passò all’unanimità e con l’approvazione del presidente. Furono anche approvate le mie dimissioni dalla presidenza del Premio e il boicottaggio
del banchetto indetto per la settimana seguente. Il piano d’azione fu così concepito: dare ai dirigenti ventiquattr’ore per firmare un accordo in cui si riconoscesse la Directors Guild come rappresentante delle trattative per registi e assistenti di regia. Il nostro avvocato, Mabel Willebrandt, avrebbe inviato un ultimatum per telegramma a Mendel Silverberg, l’avvocato dell’associazione dei produttori. Se non ci fosse stato un responso positivo entro ventiquattr’ore, il nostro presidente aveva il compito di render noto alla stampa l’ultimatum e procedere senz’altro. Quella notte stentai a prender sonno. Per attirarsi antipatie e impopolarità era già sufficiente un boicottaggio del Premio; ma uno sciopero sarebbe stata una vera dichiarazione di guerra. Si trattava di chiedere a gente innamorata del proprio lavoro di essere più leale verso il loro sindacato che verso le loro opere. Avrei abbandonato Mr. Smith va a Washington? Chissà! Dopo tutto che cosa c’era in gioco? Nient’altro che individualità ferite. Proprio così. Ma è pur vero – così continuo a pensare – che si sono perdute più guerre schiacciando piedi che calpestando diritti. La mattina dopo, 17 febbraio, Joe Schenck chiamò l’ufficio della Directors Guild per annunciare che lui e molti dirigenti di compagnie erano a Palm Springs, e che stava infuriando una tempesta di sabbia. Chiedeva all’associazione un giorno in più rispetto ai tempi fissati. Si rispose di no. Quel pomeriggio alle 16 ricevetti una chiamata personale da Joe Schenck. Tutti i dirigenti delle compagnie e i loro avvocati erano riuniti nel suo ufficio e lui mi proponeva di raggiungerli là da solo. Chiesi con tono faceto: «Faccio prima se vengo direttamente a Santa Anita?» Lui rise sommessamente. Una risata la sua che compariva solo quando lui faceva a pezzi il mercato o viceversa. «Nella mia sala di consiglio», disse lui. «È un favore personale che le chiedo. La prego, venga, Mr. Capra. Mi ricordo anche del cappello». Fui introdotto nella sala dirigenziale della 20th Century Fox. Una dozzina di grandi e potenti di Hollywood e i loro avvocati si muovevano con facce accaldate. Alcuni si erano addirittura tolti la giacca. Mi salutarono lanciandomi occhiate taglienti e più taglienti domande: «Tieni duro, eh? Chi ti credi di essere per lanciare ultimatum?» «Signori», risposi rispettoso e pio come quel cristiano di Mark Twain con quattro assi in mano, «io sono un messaggero con un ordine preciso da parte dei registi di Hollywood, quello di ritornare con un accordo firmato con l’associazione dei produttori entro le 20 di stasera. Altrimenti si boicotta l’Oscar e si scende in sciopero. Sono qui per una risposta. Basta tirarla in lungo!» «Mr. Capra», gridò Joe Schenck, «non la stiamo tirando in lungo, stiamo procrastinando!» Joe Schenck cominciava a piacermi. «Attenda nel mio ufficio, per favore. Così magari a forza di procrastinare riusciamo a concludere qualcosa». Passai un paio d’ore nel suo ufficio fra ansia e incertezza. Avendolo visto giocare a poker coi pezzi grossi sapevo che Schenck era ben più temibile quando era di buon umore. Alle 18 Schenck uscì dalla riunione e mi consegnò una lettera di due pagine con l’accordo. Era indirizzata a me come presidente della Directors Guild e firmata da Joseph N. Schenck, presidente dell’associazione dei produttori cinematografici. C’era tutto quello che ci doveva essere: i produttori riconoscevano la funzione di arbitrato e conciliazione della Directors Guild, che doveva essere la sola rappresentante per le trattative dei registi e degli assistenti alla regia. Essi concordavano infatti con tutti i punti della nostra piattaforma eccetto due: i salari e le condizioni di lavoro per gli assistenti alla regia e i tempi di montaggio dei film per i registi. Punti che sarebbero stati negoziati più avanti a discrezione della Directors Guild. «Va bene, signor presidente dell’Associazione dei Registi?» «Certo che va bene. Non ci sarà boicottaggio, non ci sarà sciopero e lei ha davanti a sé un uomo davvero felice, Mr. Schenck».
«Anch’io sono contento. Ma sarei più contento ancora se lei rispondesse a una mia domanda: bluffava o non bluffava? Me lo dica». «Mr. Schenck, quello che conta è che lei pensava che io non stessi bluffando e la cortesia mi obbliga a concordare con le sue conclusioni». «Furbacchione. Mi congratulo con lei», disse accompagnandomi alla porta. «Frank, io ammiro chi sa ottenere ciò che vuole. Quando chiuderà con la Columbia, la 20th Century Fox le offrirà il miglior contratto che un regista abbia mai ottenuto». Devo ammettere che quando portai la lettera dell’accordo al consiglio della Directors Guild ce ne andammo tutti fuori e ci prendemmo una sbornia epocale. Un’idea giusta ha più vite di un gatto. Idee come libertà, uguaglianza, carità, Giochi olimpici, cadono ma risorgono sempre. Hollywood aveva partorito due idee che sembravano capaci di immortalità. Una era stata la United Artists (uno sbocco distributivo per film indipendenti a cui pensarono per primi Pickford, Fairbanks e Chaplin) e che si era rivelata così necessaria, così appropriata, da sopravvivere a molti disastri. L’altra era l’idea dell’Academy, un’organizzazione «destinata a premiare la qualità», fatta dalla gente del cinema, grazie alla gente del cinema, per la gente del cinema. L’Academy sopravvisse all’idiota – e abortito – tentativo di farne un’istituzione fantoccio per i tagli sulle paghe. Sopravvisse alle rivendicative dimissioni in massa dei vari sindacati che a questo fecero seguito; sopravvisse alle dimissioni e alla revoca dei supporti finanziari da parte dell’associazione dei produttori; sopravvisse a quattro anni di indigenza durante i quali furono i membri leali dell’Academy a pagare per i premi. E sarebbe anche sopravvissuta alle mie dimissioni come presidente e alla revoca del mio incarico come maestro di cerimonia, alla vigilia dello spettacolo più affascinante del mondo: il banchetto per la consegna degli Oscar. Erano questi i pensieri che mi attraversavano la mente al Biltmore Bowl mentre la toccante melodia di «The Star Spangled Banner» cantata da Meliza Korjus si spegneva e Basil Rathbone mi presentava quale presidente dell’Academy e maestro di cerimonia. E mentre salivo sul podio di fronte ai brillanti convitati – un migliaio di ospiti della Hollywood più elegante, tutti splendidamente vestiti, più quattrocento giornalisti – mi sentivo come non mai orgoglioso e grato di essere alla guida di quella cara istituzione che, solo pochi giorni prima, avevo cospirato per distruggere. Quell’anno ero sgombro da ogni personale trepidazione per eventuali premi al mio L’eterna illusione. Il premio dei critici di New York, spesso indicativo delle votazioni degli Oscar, lo aveva escluso dai primi dieci film dell’anno e soprattutto ero ancora colpito del vanificarsi delle speranze per Orizzonte perduto che l’anno prima aveva ottenuto poche nomination e un solo Oscar per il montaggio. Si aggiunga inoltre il fatto che essere rimasto fedele a una Academy malridotta mi aveva guadagnato il sarcasmo e l’ostilità delle organizzazioni dei mestieri. Ne avevo insomma dedotto che sarebbe stato ben difficile aspirare ai futuri Oscar. E così ero libero di dedicare tutta la mia attenzione alla serata della premiazione perché fosse più che mai magnifica. Cominciai col presentare Jerome Kern che fu applaudito fragorosamente quando, aperte le buste, consegnò a Ralph Rainger e Leo Robin il premio per la miglior canzone, «Thanks for the Memory». Poi fu la volta di Irving Berlin che premiò Alfred Newman con l’Oscar al miglior adattamento per la colonna sonora del film La grande strada bianca, ed Eric Korngold per la miglior colonna sonora originale, quella di Robin Hood. Quindi proseguii con una sorpresa che fece esplodere la sala: la star prodigio Shirley Temple che porgeva all’uomo prodigio Walt Disney un premio speciale per la sua creazione, Biancaneve e i sette nani, un trofeo alto più di mezzo metro e di complessa fattura che simboleggiava i personaggi del primo lungometraggio capolavoro di Walt.
Irradiavo sorrisi mentre una celebrità dopo l’altra se ne andava reggendo le preziose statuette. Bob Hope non mancò di raccontare barzellette mentre consegnava i premi per i cortometraggi. Un autorevole scrittore come Lloyd Douglas (quello di Magnifica ossessione e La tunica) consegnò gli Oscar a Dore Schary e Eleanor Griffin per il miglior soggetto originale, La città dei ragazzi, e a George Bernard Shaw per la miglior sceneggiatura, Pigmalione (fu il console britannico Francis E. Evans a ritirare il premio per Shaw). Poi un’altra esplosione di risate: Edgar Bergen e Charlie McCarthy misero in mano a Deanna Durbin uno speciale trofeo a favore del «movimento per la gioventù» hollywoodiana e quando Mickey Rooney non si presentò a ritirare un simile trofeo fu Mortimer Snerd a farlo per lui. Infine presentai uno dei più originali patrocinatori dell’idea dell’Academy, Fred Niblo, veterano della regia. Lui doveva consegnare il premio per la migliore regia. Quelli che dicevano di saperla lunga o che erano sicuri delle loro previsioni avevano dato per favoriti Norman Taurog per La città dei ragazzi e King Vidor per La cittadella. Immaginate lo sgomento immane quando Niblo aprì la busta e annunciò: «Il vincitore è Frank Capra per L’eterna illusione». Il mio terzo Oscar per la miglior regia mi lasciò completamente stordito e ricordo appena dei «grazie» a fior di labbra. Il resto è tutto offuscato. Certo rammento il premio a Spencer Tracy come miglior attore protagonista per la splendida prova offerta nella Città dei ragazzi e ricordo anche che i ringraziamenti di Spencer a padre Flannagan della Città dei ragazzi furono il momento decisivo della serata. E poi, sì, Bette Davis ringraziò il suo regista Willie Wyler per l’interpretazione in Figlia del vento, con cui aveva vinto il premio per la miglior attrice protagonista. Ma quando Jimmy Roosevelt aprì la busta del premio per il miglior film e mise fine all’attesa con: «Il miglior film dell’anno è L’eterna illusione!», la mia povera mente già annebbiata piombò in una totale amnesia. I folli avvenimenti della settimana appena trascorsa, il voto per lo sciopero, le mie dimissioni e il boicottaggio del Premio, l’accordo dei produttori strappato all’ultimo minuto e la conquista di una precisa dimensione aziendale da parte dei registi, tutta la meravigliosa serata dei Premi culminata con i miei due nuovi Oscar, tutto ciò non faceva altro che confermare la convinzione, durata tutta una vita, che poteva accadermi qualunque cosa, tanto tutto sarebbe finito per il meglio. In anni più recenti quel sentimento si sarebbe smorzato un po’, ma era ancora forte quando feci finalmente ritorno alla Columbia, mi misi in testa il cappello da impresario circense e feci schioccare sonoramente la frusta sul mio circo a otto piste che stava ormai prendendo la forma di Mr. Smith va a Washington. Durante le due settimane che precedettero il primo giro di manovella cominciai a isolarmi dal mondo per concentrarmi sul film e visualizzarlo nella sua interezza, scena per scena, come fa un saltatore con l’asta quando se ne sta per minuti sulla pista, estraniato dal mondo, concentrato sullo schema mentale di ogni movimento del salto la rincorsa lungo la pista, il far leva sull’asta, il balzo spiccato, la spinta ascensionale e il superamento della sbarra, e vedendo ogni movimento nella sua mente prima di cominciare il salto. Quando fui pronto per il salto (1° aprile 1939) mi ero figurato mentalmente tutto il film ed ero già pronto a sottrarmi a qualsiasi occasione di stimolo che non fosse connessa a Mr. Smith va a Washington. Le riprese erano avviate e io non lasciavo mai il set, non rispondevo alle telefonate, non ascoltavo né dicevo cosa che non fosse pertinente alla scena che stavamo girando. Ero un diapason che vibrava solo sulla lunghezza d’onda di Mr. Smith. 37. Mr. Smith va a Washington, 1939.
15. IL POTERE DEL CINEMA MINACCIA LA SUA LIBERTÀ
Le riprese di Mr. Smith va a Washington sollevarono un problema nuovo. La sala del Senato era una scena «a scatola», chiusa da tutti i lati e sormontata tutta dalla galleria, a sua volta tenuta su da quattro pareti intagliate che contenevano i busti di marmo di tutti e venti gli ex presidenti. Insomma, il nostro Senato era un profondo pozzo pieno di centinaia di persone. L’azione della storia si svolgeva quasi simultaneamente a tre diversi livelli: il fondo della sala, il podio, e la galleria della stampa. Si trattava di illuminare, fotografare, registrare centinaia di scene a tre diversi livelli del nostro profondo pozzo, aperto solo in alto. Tutto questo entrò a far parte degli incubi di elettricisti, operatori e assistenti del suono. Se avessi provato a filmare il Senato con la solita unica macchina da presa, ficcandoci dentro tonnellate e tonnellate di pesanti apparecchiature (luci, giraffe, piattaforme per macchine da presa) ogni volta che si doveva cambiare scena, be’, saremmo ancora là. C’erano per fortuna uomini pieni di entusiasmo, di risorse, come l’operatore Joe Walker, il capo elettricista George Hager, il tecnico del suono Ed Bernds, pronti come ragazzi ad accettare simili sfide. Insieme progettammo lo schema di una macchina da presa multipla, di un metodo per girare con più canali per il suono che ci consentisse, con un solo ampio spostamento di apparecchiature, di filmare almeno una mezza dozzina di scene, prima di un altro grande spostamento. Faccio riferimento a questi dettagli tecnici perché è stato proprio studiando in profondità i rapporti fra suono e macchina da presa che riuscii a sciogliere con semplicità un problema che aveva tormentato i registi da quando il cinema aveva cominciato a sviluppare la sua laringe: vale a dire come migliorare il metodo di realizzazione dei primi piani sino ad allora ridicolo, inadeguato, approssimativo. Facciamo conto che Jimmy Stewart, Jean Arthur, Claude Rains e Edward Arnold stiano recitando una scena drammatica. Per prima cosa giriamo un totale di tutta la scena, un’inquadratura cioè che contenga tutti e quattro gli attori. In un certo senso questo totale è una micro-commedia, di cui dobbiamo sottolineare i momenti di tensione. Di ogni singolo interprete facciamo poi dei primi piani mentre reinterpreta la stessa scena. Se avete letto attentamente avrete già capito che una simile procedura per realizzare i primi piani è complicatissima. Avremo Jean Arthur a due metri dall’obiettivo della macchina da presa. Tutt’intorno le luci del set. I movimenti dell’attrice sono necessariamente limitati giacché a distanza ravvicinata la messa a fuoco è molto difficile. Delle bandette nere con segni in gesso appese ai lati della macchina da presa serviranno a orientare gli sguardi di Jean Arthur verso la posizione che gli altri attori avevano nel totale. Una volta approvati i dettagli tecnici Jimmy Stewart, Claude Rains e Edward Arnold sono invitati a restare dietro le luci a dare la battuta, ma attori così importanti sono sempre troppo impegnati, stanchi o annoiati per accettare un trucchetto così meccanico. Entrano allora in gioco attorucoli o controfigure chiamati a leggere le battute, o magari è una segretaria che lì per lì legge le battute di tutti i ruoli. Finisce insomma che la povera Jean Arthur con addosso la macchina da presa, i segni in gesso da guardare, la voce meccanica della segretaria nelle orecchie, non riesce a trovare lo spirito, il ritmo, la tensione e la tonalità di voce con cui aveva recitato nella scena d’insieme, girata ore o
magari giorni prima. E il risultato di tutto ciò è che quando i primi piani sono montati e fusi con la scena d’insieme, sembrano delle tessere mal tagliate destinate a non combaciare perfettamente con le altre. E magari il pubblico noterà che l’interpretazione dell’attrice non è stata uniforme. Per ciò, quando «inventai» un modo per mettere attorno a Jean Arthur la stessa realtà che l’aveva circondata nella scena d’insieme, pensai che questo fosse l’evento più importante accaduto da quando D.W. Griffith aveva inventato il primo piano. Ma che cosa feci di così grande? Usai semplicemente il sonoro del totale per dare le battute a Jean Arthur. Il sonoro del totale veniva registrato non solo sulla pellicola ma anche su un disco. Approvato il totale i tecnici del suono portavano il disco sul set e lo mettevano sul fonografo. Vicino alla mia poltrona avevo fatto sistemare un apparecchio per il volume e premendo un bottone potevo a mio piacimento togliere o dar voce agli altoparlanti del fonografo. Ma torniamo al primo piano di Jean Arthur. Niente attori, comparse o segretarie costrette a dare svogliatamente le battute. Solo Jean Arthur e il fonografo. Prova. Lascio funzionare il fonografo senza interruzioni. Jean Arthur ripete nel suo primo piano le battute del totale. Tutto ciò la risospinge nello spirito con cui ha recitato nella scena d’insieme. Motore! Un momento prima che Jean Arthur dica la battuta del suo primo piano tolgo tutto il volume al fonografo. Poi lo riaccendo subito così che lei possa reagire in silenzio alle battute registrate di Jimmy Stewart, Claude Rains e Edward Arnold. Risultato: il primo piano di Jean Arthur entra stupendamente nell’incastro. La prossima volta che vedrete Mr. Smith va a Washington osservate bene come tutti i primi piani si fondono senza dissonanze nel fluire delle inquadrature più lunghe quasi fossero stati girati simultaneamente. E in un certo senso lo furono. Troppo tardi ormai per brevettare l’idea. Inoltre, dato che non ho mai sentito dire che nessun regista abbia rubato il nuovo «primo piano alla Frank Capra» dubito fortemente che le royalty mi farebbero balzare nella fascia di reddito di Paul Getty. Nelle ultime tirate del suo interminabile discorso per ritardare la votazione, Jimmy Stewart doveva essere roco, e scoprì che fingere una bella raucedine era ben difficile soprattutto dovendo far sentire la sua voce dalle ultime file dell’aula del Senato. Ci affidammo a un medico specialista. «Dottore», chiedemmo, «sappiamo bene che lei può senz’altro curare una raucedine, ma potrebbe anche farla venire?» «Una questione di interruttori», rise lui. «Sì, certo, credo proprio di poterlo fare». E così la gola di Jimmy Stewart fu spennellata due volte al giorno di una soluzione di mercurio che gonfiava e irritava le corde vocali. Il risultato fu incredibile. La bravura di un attore consumato non avrebbe potuto riprodurre così intensamente lo sforzo pateticissimo che il povero Jimmy faceva per parlare con delle corde vocali irritate in quel modo. Un’altra volta stavamo girando una scena davanti al seggio del vicepresidente e il cortese, imperturbabile Jim Preston (nostro consulente per tutto ciò che riguardava Washington) si gettò improvvisamente davanti alla macchina da presa agitando disperatamente le braccia. «Fermi! Fermate tutto! È tutto da buttare!» «Ehi! Jim! Cos’è che non va?», chiesi io. «Cos’è che non va? L’orologio è sbagliato!», gridò indicando freneticamente il grande orologio del Senato sopra il seggio del vicepresidente. «È colpa mia! Tutta colpa mia! Questa non si può usare, o diventerò il pagliaccio del circolo della stampa! Manca il lucchetto sull’orologio!» Dopo averlo calmato ci spiegò che recentemente era stato messo un lucchetto sull’orologio per impedire ai senatori di aprirlo e mandare avanti le lancette così da poter aggiornare la seduta e correre alla partita. Lo sapevano tutti a Washington. Per tranquillizzare Preston promisi che avremmo messo il lucchetto e avremmo fatto un bel primo piano, tale da non lasciar dubbi. Lo guardai dritto negli occhi e gli chiesi: «Cosa facciamo? Lo dipingiamo di rosso?»
«No, no, no!», disse lui. «Ma non capisce! È un piccolo lucchetto d’ottone!» Mr. Smith va a Washington fece tuttavia notizia non durante le riprese ma dopo, e furono eventi tragicomici, quasi fatali... Un giorno di luglio del 1939 mi arrivò una lettera da Washington. Arrivò mentre io e il direttore del montaggio Gene Havlick stavamo collezionando i nastri delle due ultime anteprime. Che cos’è un nastro d’anteprima? Ve lo dico subito: l’ennesima superlativa invenzione che ho dimenticato di far brevettare. Soprattutto perché avrebbe reso nota a tutti la mia fifa nera. Già, proprio così. Ammetterlo mi dava fastidio, ma l’esperienza traumatica della disastrosa anteprima di Orizzonte perduto (quella terribile domenica sera a Santa Barbara) mi aveva trasformato in un codardo. Non ho mai più assistito a un’anteprima dopo quella di Orizzonte perduto. Avrei preferito essere gettato in una betoniera. E così anche dalla vigliaccheria venne fuori un’altra ventata d’immortalità. Alla prima anteprima del mio ultimo film (L’eterna illusione) avevo mandato un manipolo di spie. Io me ne ero rimasto a casa a sudar freddo. Eppure non ce n’erano due che avessero avuto impressioni simili su come era andata la serata. Concordavano sulla valutazione complessiva ma nei particolari facevano solo confusione. Ebbi allora una rivelazione, come la può avere un bambino di dieci anni: quelli che hanno puntato sul successo di un film perdono la loro oggettività durante un’anteprima. Circondati come sono dal pubblico che ha necessariamente un punto di vista tutto soggettivo, diventano soggettivi anche loro. Mi tornava in mente l’avvertimento di Mack Sennett ai gag writer: «Che non ci sia pensiero nelle gag. Quando il pubblico pensa non ride». E vale naturalmente anche il rovescio della medaglia: «Se il pubblico ride non può pensare». Le mie spie erano, all’anteprima, un pubblico che rideva piuttosto che informatori oggettivi. Il problema tornava fuori ancora, dato che le anteprime erano una sorta di test che doveva far emergere gli errori e offrire quei dati utili per un diverso montaggio del film. Come avere dati oggettivi, verificabili? Ma certo! Con un registratore! Registrando l’anteprima. Si avrà così sul nastro il sonoro del film e la reazione del pubblico. Almeno così pensavo io. Che Cohn mandasse pure un centinaio di tipi ben addestrati. Io avrei mandato solo un uomo con un registratore. Poi nella quiete del mio ufficio, lontano dall’isteria delle riunioni che fa salire il sangue alla testa, il nastro mi avrebbe raccontato tutta la storia, passo passo, scena per scena, di come era andata la serata. Quando il film avvinceva non si sentiva volare una mosca, quando era noioso o la tirava per le lunghe si sentiva tossire, soffiare nel fazzoletto, masticare noccioline. Le risate si potevano misurare esattamente, in durata e volume, distinguendo la risata chioccia da quella stentata. Con nostra grande sorpresa alcune gag si rivelarono più divertenti del previsto, altre meno. Alcune battute importanti andavano perdute dentro la risata così facemmo in modo di allungare le scene fra una gag e l’altra. Come sarti che scuciono e ricuciono un abito da capo seguendo i loro tratteggi in gesso, rimontammo il film sulla scorta del nastro registrato. Altra anteprima. Altro nastro. Collezionandoli potevamo avere più chiare indicazioni sulle correzioni da apportare. Non si sa come né perché ma questo metodo scientifico di arrivare all’edizione definitiva del film non fece presa a Hollywood. Altro che fuoco di legna secca: la cosa rimase per i più lettera morta e, anzi, alcuni ci risero anche sopra. Del resto chi fra i dirigenti delle case di produzione scambierebbe un brillante tumultuoso party post-mortem da Chasen – è lì dove loro «salvano» il film con champagne e montaggio a sensazione – con la fredda logica del mio vecchio piccolo registratore? E così mi sfuggì un’altra volta l’immortalità. Comunque da Washington arrivò una lettera molto interessante. Scripps-Howard Newspaper Alliance
Washington D.C. 7 luglio 1939 Mr. Frank Capra Columbia Pictures Corporation 1438 North Gower Street Hollywood, California Caro Mr. Capra, come presidente della Commissione per lo Spettacolo del National Press Club Le scrivo per domandarle se il nostro Club può avere il privilegio di sponsorizzare la prima o l’anteprima del suo nuovo film Mr. Smith va a Washington. [...] È nostro intento fare dell’occasione un omaggio al nostro caro amico «Jim» Preston. [...] Sarà nostra cura quella di invitare tutti i giornalisti di Washington e altri notabili fra i politici. [...] Sinceramente Suo Fred W. Perkins
E questa fu la mia risposta: Caro Mr. Perkins La ringrazio per la gentile e generosa proposta di sponsorizzare Mr. Smith va a Washington [...] Mi perdoni se Le farò avere una risposta definitiva nel giro di poche settimane quando sapremo se la «cosa» vale la pena di essere sponsorizzata. Sinceramente Suo Frank Capra
Mr. Fred W. Perkins rispose (su carta intestata della sala stampa del Senato degli Stati Uniti) che sarebbe stato lieto di tenere aperta l’offerta. Per la seconda metà di settembre i nastri delle nostre anteprime ci dissero che Mr. Smith era pronto a calzare come un guanto le reazioni del pubblico. Mancavano solo le reazioni della stampa specializzata, sempre destinate a riservare delle sorprese. Invece furono proprio gli apprezzamenti della stampa a convincermi che potevo rispondere positivamente alla richiesta del National Press Club. Alla Columbia si ballava per la felicità; i critici avevano fatto schioccare i loro aggettivi: Variety Il dramma più vitale ed emozionante che sia mai stato rappresentato sulla vita americana contemporanea. È stato portato sullo schermo con un’abilità fuori dal comune. Dean Owen, Billboard Il grande film americano! Edwin Schallert, Los Angeles Times Mr. Smith va a Washington e Frank Capra va in città per la più sconvolgente avventura sociale, politica e patriottica [...] che sia mai stata raccontata in un film. Hedda Hopper, Esquire Feature, Inc., Da quando Edison lo ha scoperto non ci siamo resi conto che il cinema aveva la potenza che ora ha dimostrato con Mr. Smith va a Washington di Frank Capra. Secondo me questo film è grande come il discorso di Lincoln a Gettysburg.
Sapevo che quel cuore grande di Lincoln avrebbe perdonato la sacrilega analogia di Hedda leggendovi l’esuberanza di un troppo caloroso lancio promozionale. D’altronde sentivo che il grand’uomo avrebbe gradito la prima del film, che aveva ispirato, lì, a due passi dal suo mausoleo.
Così invitai i dirigenti della Columbia di New York a prendere in considerazione la richiesta del National Press Club ma a una condizione: che i rappresentanti del Press Club visionassero l’opera prima di accettare la sponsorizzazione. Il 3 ottobre del 1939 il presidente della sezione spettacolo del Press Club, accompagnato dal presidente del Club, Arthur Hachten, e da Walter King, corrispondente dell’Evening News di Newark, giunsero a New York. Alle 8.30 i dirigenti della Columbia li accompagnarono all’anteprima privata di Mr. Smith al Dyckman Street Theatre. La delegazione del Press Club accettò entusiasticamente di sponsorizzare il film e di occuparsi di tutti i preparativi (inviti a nome del Club, prenotazioni secondo il protocollo, intrattenimenti, pubblicità, cocktail party). I dirigenti della Columbia si fregavano allegramente le mani pensando che sarebbe stata la più bella e prestigiosa occasione che Hollywood si era mai trovata a sfruttare. Nel giro di pochi giorni quelle stesse mani si sarebbero contorte per la sofferenza. Il 16 ottobre 1939 era la data fissata per la prima di Washington. Si diceva che da quando gli inglesi avevano saccheggiato la Casa Bianca nulla aveva più colpito così profondamente la città. La giornata cominciò con un pranzo e dei cocktail offerti dal National Press Club in onore del caro amico Jim Preston, nel più riservato santuario del Club. Gli ospiti della stampa venivano anche da Boston. Per celebrare l’occasione eccezionale l’esclusivo Club dichiarò una sorta di amnistia sociale consentendo per la prima volta nella sua storia l’ingresso alle donne. Una banda militare suonò marce patriottiche, poi un allegro gruppo del Club cantò canzoni nostalgiche. Mia moglie e io sedevamo a capotavola con Jim Preston, i notabili del Club e altri ospiti importanti. C’era anche – e non so perché – «Happy» Chandler, ex governatore del Kentucky, che sperava di esser chiamato a cantare «My Old Kentucky Home». Seguirono i discorsi. Si cominciò con l’osannare la grande prima di Mr. Smith va a Washington alla Constitution Hall dicendo che sarebbe stato un fuori-Hollywood molto hollywoodiano, che ci sarebbe stata mezza Washington e che l’altra metà stava facendo follie per avere i biglietti d’ingresso, che il Washington Times Herald stava uscendo con un’edizione speciale a cura del National Press Club e dedicava tutta la prima pagina alla presentazione di Mr. Smith. Infine vennero i discorsi e i brindisi per Jim Preston, preparati dalle colonne del Club. Chiamato a parlare, resi il mio sincero tributo di stima a Jim Preston dicendo che senza di lui il film non si sarebbe fatto. Quando il presidente presentò Jim Preston, il vecchio amico ricevette una vera ovazione. Tutti erano in piedi. E al «ciambellano» Jim mancò quasi la parola mentre ringraziava. Disse che quel giorno coronava quarant’anni di lavoro per la stampa e il Senato. Sperava che Mr. Smith piacesse a tutti almeno tanto quanto a lui era piaciuto lavorarci. Lu aveva gli occhi umidi. Io non di meno. E così pure tutti gli uomini della stampa. Il giorno di Mr. Smith era cominciato con una festa d’amore. Più tardi il presidente del Club Arthur Hachten e sua moglie ci chiamarono al Willard Hotel perché Lu e io andassimo alla Constitution Hall con la loro limousine. Sembrava che tutte le limousine, cariche di notabili tirati a lucido e delle loro mogli magnificamente vestite, fossero dirette alla Constitution Hall. «Come ti senti, Frank?», mi chiese Arthur Hachten, con un sorriso bisbigliato nell’orecchio. «Sto facendo un sogno stupendo. Non svegliarmi Arthur!» Era un bel sogno che diventava realtà. Come avrei voluto che mio padre fosse vivo per partecipare a quella giornata in cui i leader d’America avrebbero reso onore al lavoro del più giovane dei suoi figli. Continuavo a sorridere fra me e me, mi soffiavo il naso e senza farmi accorgere portavo agli occhi il fazzoletto. E poi ecco: i riflettori dell’esercito puntati verso il cielo, fasci di luce che rovistavano nella bassa nuvolaglia. La Constitution Hall era un palazzo fatato, tutto splendore e meraviglia. Un gruppo musicale della Marina intonava la struggente melodia di «Hall of
Montezuma». Una massa di gente oltre le transenne applaudiva le personalità del governo a cui era più affezionata quando queste lasciavano le auto di rappresentanza per guadagnare l’ingresso. Sid Grauman avrebbe ben invidiato il fasto di quella prima. Dentro, la sala riluceva del lusso che soltanto una prima al Metropolitan avrebbe potuto eguagliare. La Corte Suprema, i rappresentanti del Gabinetto, i senatori, gli uomini del Congresso, i generali, gli intellettuali e l’aristocrazia di Georgetown, quattromila persone, insomma, parlottavano, chiacchieravano e si facevano cenni di saluto. Mr. Hachten e sua moglie mi condussero in uno dei palchi centrali dove fui presentato al senatore Wheeler, a sua moglie e alla loro figlia adolescente. Mr. Smith nel film veniva dal Montana, così fu stabilito che il senatore Wheeler del Montana sedesse con noi nel palco ufficiale. Poco distante c’era il palco della Columbia dove sedevano Harry Cohn, suo fratello Jack, Joe Grandt, capo ufficio vendite, e il loro ospite newyorkese James Farley. Il gruppo di Harry Cohn si guardava in giro sbalordito. Io facevo lo stesso. Harry attirò la mia attenzione, alzò verso l’alto il palmo delle mani e fece come un gesto di smarrimento che voleva dire: «Ce la fai a reggere tutto questo?» Si spensero le luci e un fascio di luce cadde sul nostro palco. Mr. Hachten mi invitò ad alzarmi. Ci fu un applauso scrosciante. Buon Dio! Mi alzai in piedi, feci un inchino e tornai a sedermi. La torcia della Columbia si accese sullo schermo. Ci fu un altro scrosciante applauso all’apparire del titolo: «Mr. Smith va a Washington di Frank Capra». Incrociai tutte le mie dita e dissi una preghierina perché tutto andasse liscio. Non avevo pregato abbastanza, non erano passati ancora venti minuti che le voci di Jean Arthur e Jimmy Stewart si trasformarono in una sorta di raffiche di mitraglia. Sapevo esattamente che cosa era successo: la pellicola aveva saltato una ruota dentata del proiettore, la pista sonora era scivolata da una parte e quel che si sentiva era lo scorrere della perforazione. Mi fiondai fuori dal palco in cerca della cabina di proiezione. «Di sopra», mi fan segno le maschere. Corro in balconata. «Sul tetto!», mi dicono le maschere indicando una scala. Salgo la scala di corsa ed esco sul tetto. La notte era scura e cadeva una pioggerellina sottile. Riconosco il misterioso chiarore della cabina di proiezione, che era stata costruita sulla superficie curva dell’antico tetto quasi fosse stato un ripensamento. Ci si arrivava seguendo una passerella sotto un labirinto di bocchettoni per la ventilazione dell’edificio, alti sopra la mia testa. Travolto com’ero dall’ansia vado a sbattere contro un tubo d’acciaio e casco sulla passerella. Vedo ancora le stelle quando raggiungo la cabina di proiezione ed entro dentro. Il proiezionista allarmato è offeso per l’intrusione. «Non ti allarmare, bello!», borbotta. «Adesso funziona. Funziona». Sento appena appena, ma adesso Jimmy Stewart e Jean Arthur stanno parlando normalmente. Mi scuso e faccio dietro front. La testa mi doleva forte. Avevo un bernoccolo grande come un uovo e del sangue mi colava dietro l’orecchio destro. Mi sedetti sulla passerella e mi bagnai la ferita con un fazzoletto inzuppato di pioggia. Da lontano il monumento a Washington e il mausoleo di Lincoln emanavano confusi bagliori nell’aria umida. Bell’affare far film! Ma il bello era appena cominciato. Era ormai un regista depresso e stropicciato quello che fece ritorno nel palco. «Dove sei stato?», mi chiese Lu con una punta d’ansia. «Cos’hai sul colletto?» «Niente. Ho sbattuto contro un tubo». «Oh, Frank!» I segnali premonitori che gettano nel terrore chi fa i film – mugugni e inquietudine generale – furono del tutto evidenti dopo due terzi del film. E le defezioni confermarono i presagi. La prima fu quella di una coppia che si alzò dirigendosi verso le uscite. L’uomo fece anche dei gesti di disapprovazione. Poi altri due. Poi quattro. Il patibolo era stato preparato e io avevo un posto in prima fila.
Quando Jimmy Stewart cominciò il suo discorso i mugugni diventarono un concerto di brusii, che suonarono alle mie orecchie come il cigolio del carro dei condannati che si avvicina. La signora Wheeler e la figlia ci lanciavano sguardi ostili e poi confabulavano con il Senatore. Arthur Hachten, responsabile della serata, lasciò cadere il programma accartocciato e si infilò un dito nel colletto troppo stretto mentre guardava i suoi ospiti avviarsi come scioperanti verso le uscite sventolando pellicce invece di striscioni di protesta. Volavano parole come «Oltraggio!» «È un insulto!» che gli si conficcavano nella carne come frecce dalla punta aguzza. E mia moglie Lu? Ah, lei come una discendente di Lord Nelson, sapeva stare sul ponte della sua nave e dire al mondo intero: «O la vittoria o l’abbazia di Westminster!» Di me posso dire solo che, come sempre, quando la sorte non offre più vie di salvezza, mi irritavano solo bazzecole: il bernoccolo, ad esempio, che mi si stava gonfiando in testa come un nuovo satellite. Mr. Smith era finito, andava la musica dei titoli di coda e un terzo della migliore società di Washington era scomparsa. Fra la gente rimasta, qualcuno applaudiva, qualcuno rideva e la maggior parte si avviava cupamente verso le uscite. La famiglia Wheeler, essendo cortesemente rimasta sino ad allora, finalmente poté alzarsi e abbandonare il palco, ma solo dopo un formale e compito «Buona sera», che il senatore Wheeler mi augurò da dietro le spalle. No, non si era divertito. Il palco di Harry Cohn era vuoto. Lu e io restammo lì da soli a scambiarci sorrisi tesi tesi, poi ci buttammo nella mischia sperando di svicolare in un bar senza essere notati. Fuori degli strilloni vendevano l’edizione speciale del Times Herald a cura del National Press Club. Un titolone annunciava: «In quattromila danno il benvenuto a Mr. Smith arrivato a Washington». Sotto il titolo una foto panoramica della Constitution Hall piena di pubblico apriva la prima pagina. Più sotto un’altra foto del signore e la signora Hachten che entrano nella sala con il signore e la signora Capra. Fortunatamente non c’era nessun fotografo a beccare i signori Capra mentre tentavano di sgattaiolare fuori dalla Constitution Hall in mezzo alla folla. Ma non era ancora finita. Quel giorno bizzarro doveva essere consumato fino in fondo e così fu. Un rappresentante del Press Club ci scovò. «Mr. Capra», disse, «è atteso al Press Club per la festa del trionfo. Sì... cocktail e cena. Mi ha mandato a prendervi Mr. Hachten». E così, seduto in uno dei séparé del Press Club con mia moglie al fianco, mi presi una delle più solenni «lustrate» della mia carriera. I corrispondenti della stampa della capitale venivano a turno a sbeffeggiarmi, deridermi, umiliarmi, a ripassarmi tutto da capo a piedi come un maledetto calunniatore venuto da Hollywood. Mi si accusava di due peccati precisi. E la cosa un poco mi stupiva. Il primo era proprio un peccato mortale: aver mostrato che la corruzione c’era anche lì, nella nobile sede del Senato. Il secondo era un’eresia, un’eresia: l’aver dipinto uno dei membri del Press Club come un ubriacone. Bastava questo per essere consegnato alla loro rabbia e per essere punito, messo al palo, bruciato vivo. Non aveva senso. Il comune reporter che io conoscevo avrebbe riso di sé nella stessa circostanza. Ma questi non erano comuni reporter. Erano semidei, gente di prima fila, opinion maker! Tutto quello che scrivevano veniva immediatamente pubblicato su centinaia di giornali, in patria e all’estero. Erano capaci non solo di influenzare la linea politica del governo, ma addirittura di ispirarla, a volte. Erano il vero potere della stampa davanti al quale i senatori – nonché i presidenti – si sottomettevano. Il loro attacco del tutto irrazionale a Mr. Smith va a Washington non era un attacco contro quello spettacolo né tanto meno contro di me: era una reazione incontrollata contro un nuovo potere, forse superiore, che stava sovvertendo il loro impero: il potere del cinema. Loro potevano fare e disfare senatori, potevano influenzare le elezioni, potevano smascherare la corruzione nelle alte sfere. Eppure bastava che Hollywood mostrasse come un senatore poteva essere una pedina di una macchina politica, o facesse apparire uno della stampa di Washington non proprio un esempio di virtù e saggezza, perché scatenassero contro Hollywood tutta la furia della
loro maestà ferita. Ma certo. Il National Press Club provava invidia e paura davanti al film diventato un pericoloso rivale come opinion maker. Ma certo. Loro detestavano Mr. Smith va a Washington perché era il primo film importante a mettere il naso nelle loro riserve washingtoniane. Erano così offesi questi olimpici tiraschiaffi da poter reggere un ipocrita atteggiamento di sfida di tal fatta: tenere fra le dita furiose un Martini, guardarmi dritti negli occhi e dire: «In questa stanza non c’è nessun corrispondente di Washington che beva, in servizio o meno». Mia moglie fu la prima a perdere la calma. «Mr. Smith è un grande film, Frank. Non lasciarti più insultare». «No, cara, no». Tuttavia, circondato com’ero nel mio séparé, per uscire non avevo altra via che quella di farmi largo sperando di lasciare un naso o due pieni di sangue prima che mi trascinassero fuori. Fortunatamente alcuni amici che stavano dalla mia parte vennero a salvare la situazione. Erano stati invitati alla proiezione molti fra i più importanti critici cinematografici di New York. Presentendo una brutta conclusione, Frank Nugent del Times, Howard Barnes dell’Herald Tribune, Eileen Creelman del Sun e, credo, Archer Winston del Post e Bill Boehnel del World-Telegraph entrarono nel nostro séparé creando una sorta di barriera difensiva. Avevano scritto tutti recensioni osannanti. Ora due orgogliose discipline del quarto potere – arte e politica – decidevano con la forza i meriti di Mr. Smith. Un evento inaspettato doveva concludere la serata, uno di quegli eventi che, quand’ero un gag writer, avrei pagato per poterlo inventare. In mezzo al tumulto s’alzò una voce potente che attirò la nostra attenzione. Veniva dal bar. «Dov’è quella merda di Hollywood? Dov’è?», ruggì un gentiluomo distinto, elegante, coi capelli grigi, ridotto in verità a un rottame di gentiluomo arruffato e ubriaco. Stava lottando con quanti cercavano di trattenerlo. «Al diavolo tutti quanti! Voglio vederlo in faccia quel figlio di puttana che ha fatto quel maledetto film! Dov’è?» Qualcuno gli indicò il nostro séparé. Qualcun altro disse sottovoce che si trattava del direttore di un quotidiano di Washington. Il signor direttore piantò le sue pupille di ghiaccio su di noi, si fece largo in mezzo ai suoi amici, arrancò zigzagando verso il nostro tavolo e ci si aggrappò con entrambe le mani onde non finire a terra. «Ah, eccoti, brutto stronzo hollywoodiano!», ringhiò. «Cosa ti è saltato in mente di dire che tutti i reporter sono ciucchi traditi? Ora te lo faccio vedere io...» Tirò su maldestramente una mano e finì dritto col muso sul tavolo, facendo volar via bibite e bicchieri. Degli amici lo sollevarono e lo spinsero via ma lui continuava a urlare: «Voglio che quella porcheria sia bandita da ogni club della stampa del paese! Voglio che i dirigenti del National Club siano fatti fuori per aver sponsorizzato quella merda! Ci sono costati cinquant’anni... Cinquant’anni!» Nel trambusto Lu e io trovammo una via aperta verso l’ascensore e ce la svignammo come evasi verso il Willard Hotel. Che giornataccia. A pranzo celebrati, incensati, omaggiati, a mezzanotte arrostiti, sbranati, sbeffeggiati, cacciati. Così va il mondo. Il contraccolpo di quella presentazione alla Constitution Hall fece vacillare Hollywood, irritare il Congresso e spingerlo verso una legislazione punitiva, mise in subbuglio il Dipartimento di Stato e in crisi l’ambasciata americana a Londra. Per qualche tempo da lì in poi gli editoriali e le rubriche dei giornali non fecero altro che parlare di patriottismo e cose simili. Ci sono due tipi di libertà che hanno fatto venire ai giudici della Corte Suprema più mal di testa che tutti gli altri messi insieme: la libertà di far valere la libertà e la libertà di prendersene gioco e predicarne la distruzione.
L’esito più importante di Mr. Smith non fu né il suo successo commerciale né la sua riuscita artistica (va comunque detto che lo scrutinio annuale dell’Hollywood Reporter segnalava che i critici cinematografici nazionali avevano votato dieci a uno per Mr. Smith per le seguenti categorie: miglior film, miglior regista, migliore sceneggiatura, migliori Attori, miglior fotografia, miglior colonna sonora). L’aspetto più significativo della vicenda fu il numero senza precedenti di editoriali e articoli in cui si condannava o si approvava il film come al servizio o meno degli ideali democratici americani. Lascerò che sia la stessa voce della stampa a parlare. Innanzitutto un’intervista al senatore Alben W. Barkley: Richard L. Strout, Christian Science Monitor Washington, 27 ottobre 1939 Nonostante le preoccupazioni che lo coinvolgono come leader di maggioranza nel dibattito per la neutralità al Congresso, il senatore Alben W. Barkley del Kentucky si è fermato abbastanza a lungo in un corridoio del Senato per esprimere vigorosamente e dettagliatamente la sua posizione circa Mr. Smith va a Washington. Ha dichiarato di non parlare solo per sé ma per l’intero Senato pronunciando la condanna del film. Ha affermato che l’opera è una «grottesca distorsione di come vanno le cose in Senato [...] Mai visto niente di più grottesco! Figuriamoci! Un vicepresidente degli Stati Uniti che ammicca a una bella ragazza in galleria perché questa incoraggi un ostruzionista! Ve lo immaginate Jack Garner che fa cenni a Hedy Lamarr per istigarla a fare qualcosa!»
Altri corrispondenti cercarono di spostare l’attenzione verso il dibattito sulla neutralità durante la guerra, ma il senatore era proprio determinato a continuare sullo stesso argomento: «Ne vien fuori un’immagine del Senato che fa pensare a un’accolita di tonti! C’è una scena in cui Mr. Smith, attaccato da un membro corrotto, viene piantato in asso da tutto il Senato. Ah, l’idea del Senato che fa causa comune con quel vecchio ladro è davvero grottesca, fa ridere! Si figuri un Senato fatto di ladri, guidato da ladri che danno retta a un ladro. [...] È un film malsano che è stato fonte di disgusto e di ilarità per tutti i membri del Congresso che lo hanno visto». «Non c’è nessuno che l’abbia apprezzato fra i membri del Congresso?», chiedeva il reporter. «Non ho sentito nessun senatore esprimersi favorevolmente. E infatti io parlo per la totalità. La votazione è stata 96 a 0; senza franchi tiratori». Il senatore Barkley ha espresso giudizi che hanno trovato eco nel Congresso. Ha infatti dichiarato che il senatore Burton K. Wheeler del Montana, che ha condiviso il palco con Mr. Capra alla prima, era delle sue stesse idee. Il senatore James F. Byrnes del South Carolina ha giudicato il film «oltraggioso [...] proprio il genere di film che i dittatori dei governi totalitari vorrebbero far vedere ai loro sudditi per mostrare che razza di arte esista nelle democrazie». Harold Heffernan, The Detroit News 31 ottobre 1939 I LEGISLATORI SI LECCANO LE FERITE LASCIATE DA MR. SMITH
Gli studios temono ripercussioni a livello legislativo. Tanto arrosto e poco fumo dietro le scene di Mr. Smith va a Washington [...] Chi è addentro alla cosa va alla ricerca di una decisa e sonora ritorsione. Per i primi di gennaio è prevista una legge economica che colpirà duramente l’attuale assetto della distribuzione dei film. John M. Cummings, Philadelphia Inquirer Si dice che i paesi stranieri imparano a comprendere la vita americana da ciò che vedono nei film americani. Si faranno proprio una bella idea del Senato degli Stati Uniti quando daranno un’occhiata a questo Mr. Smith va a Washington. Si faranno l’idea che noi qui andiamo a cercare i nostri senatori nelle galere e i nostri riformatori nei manicomi...
Pete Harrison, lo specchiato editore dell’Harrison’s Reports, esortava i distributori perché premessero sul Congresso per far passare la legge che avrebbe consentito ai proprietari delle sale cinematografiche di rifiutare i film che «non rappresentassero l’interesse della nazione», intendendo naturalmente Mr. Smith. Jimmy Fidler, un famoso giornalista radiofonico di Hollywood, diffuse lo sconvolgente comunicato (tratto da fonti sicure) secondo il quale le grandi compagnie di produzione «stavano offrendo alla Columbia una somma pari a due milioni di dollari – come rimborso dei costi del film – se questa avesse ritirato dalla circolazione Mr. Smith. Scopo di tanta offerta era la riappacificazione col Congresso che impedisse una legislazione punitiva inflitta a tutta l’industria del cinema». Vale la pena sottolineare che Mr. Smith fu presentato nell’ottobre del 1939, poche settimane dopo che in Europa era scoppiato l’inferno. Il primo settembre Hitler aveva invaso la Polonia, due giorni dopo la Francia e l’Inghilterra avevano dichiarato guerra alla Germania. Il 17 settembre la Russia sovietica si era fatta avanti a reclamare la metà della carcassa della Polonia. In meno di un mese Hitler aveva distrutto l’esercito polacco e ridotto Varsavia in macerie. La Polonia era stata cancellata. La velocità e la potenza dei blitz hitleriani terrorizzarono tutto il mondo libero. I sottomarini tedeschi si aggiravano nelle profondità dei mari e affondavano navi senza alcun avvertimento. Hitler declamava la supremazia della razza germanica, sbeffeggiava la decadenza delle democrazie, se la rideva dei nostri fucili di legno e dei nostri aerei che invece di bombe lasciavano cadere sacchi di farina. La nostra nazione era divisa fra quelli che volevano un immediato intervento contro i nazisti e quelli che dicevano: «Stiamo alla larga da quella maledetta Europa!» Nel bel mezzo di questo pandemonio viene fuori dagli schermi un giovane idealista che immagina un uomo solo in lotta, non contro Hitler e i suoi panzer o la teoria del superuomo, ma contro la corruzione presente nelle stesse nostre alte sfere. Ne consegue una nuova divisione in due partiti: uno che dice: «Jeff Smith è un cretino sovversivo e sta dimostrando che Hitler ha ragione!»; e un altro che afferma: «Jeff Smith è un patriota. Ci sta dimostrando che abbiamo qualcosa di molto prezioso per cui combattere». I dirigenti della Columbia stavano vivendo un lacerante dilemma: al botteghino Mr. Smith era oro, ma era veleno per l’industria. Le grandi compagnie di produzione temevano leggi punitive e le pressioni aumentavano. E ci fu anche il definitivo schiaffo dell’autorità. Fui chiamato nell’ufficio di Harry Cohn. Lui era pallido e aveva in mano un lungo cablogramma affrancato come «urgente e personale». Dopo averlo letto ero più pallido di Cohn. Veniva da Joseph P. Kennedy, ambasciatore americano a Londra. Nel cablo diceva che aveva visto Mr. Smith va a Washington, che ne era rimasto deluso, che il film ridicolizzava la democrazia e che sarebbe stato un colpo mortale per i nostri alleati, che funzionava come un’arma impropria contro il prestigio dell’America in Europa; che poteva addirittura essere usato come propaganda a favore delle potenze dell’Asse. Invitava perciò con vigore e urgenza la Columbia Pictures Corporation a ritirare immediatamente il film dal circuito di distribuzione europeo... Non sono riuscito a trovare una copia di quel cablogramma e sto citando a memoria. Non ne sono certissimo ma credo che ci fosse anche un preciso invito a non far pubblicità e che erano state mandate copie del cablo anche alla Casa Bianca, al Dipartimento di Stato e all’ufficio di Will Hays. Harry Cohn prese a camminare avanti e indietro turbato come Abramo quando il Signore gli chiese di sacrificare il suo diletto figlio Isacco. Poco dopo mi presi la briga di consigliare Cohn di non lasciarsi sopraffare dal panico: «Harry, nessun ambasciatore ha il diritto di censurare un film. Per di più è in errore. So bene che lo è. Fosse stato anche il Papa a mandare quel cablogramma direi lo stesso che noi siamo quello che siamo, e che Mr. Smith è ciò che è: un incoraggiamento per tutta
la gente comune che non vuole essere comprata, venduta e ridotta in schiavitù da tutti gli Hitler del mondo». «Ma bene! Mi vieni a fare dei discorsi!» «Già, discorsi! Com’è che quando lavorano nella politica, tipi in gamba come Joe Kennedy non hanno più fiducia nella gente? Perché vogliono subito imbrigliare la libertà? Non sanno forse che l’America è fonte di invidia e di speranza per europei, asiatici e per quanti sono divisi e cacciati proprio perché noi possiamo fare opere come Mr. Smith e farle vedere a tutti? Non si rendono conto che è proprio questa la cosa più intollerabile per i dittatori?» «Bene! Sì, certo! Ma intanto io cosa rispondo? Non posso mica piegarmi!» «Tu non risponderai, Harry. Lascia che sia l’opinione pubblica a rispondere. Lascia che sia la voce del popolo a dire che il signor ambasciatore ha preso un granchio...» Ci volle un giorno o due ma infine riuscimmo a mettere insieme un mazzo di opinioni, editoriali e commenti – inclusi i pochi responsi canadesi e britannici all’idealismo di Jefferson Smith – e li inviammo per posta aerea all’ambasciatore Kennedy a Londra. Cito qui di seguito alcuni estratti: Kansas City Journal Il giovane sconcertato senatore Smith simbolizza quegli uomini che, come molti episodi storici confermano, emergono dall’oscurità per sfidare i draghi. Quelli che vogliono detronizzarli, li chiamano radicali o eccentrici e cercano di screditare le tensioni ideali da cui sono guidati. È assolutamente evidente che senza di loro ci sarebbe solo un governo in funzione del danaro, dominato dal danaro, piegato dal danaro. Pittsburgh Press di Florence Fisher Parry La libertà di stampa ha usato tutti i suoi mezzi per provare che Mr. Smith va a Washington era un succo d’arancia all’arsenico. E queste sue denunce le ha fatte stampare. [...] Ebbene, lasciate che ci vada, che ci ritorni, lasciate spalancate le porte del Campidoglio, dico io, se poi abbiamo film come quest’ultimo di Frank Capra. Cincinnati Post Il grande privilegio di essere cittadino americano trova la sua massima espressione in Mr. Smith va a Washington. Time Il vero eroe non è Jeff Smith, sono le cose in cui crede, così come furono espresse dall’eroe della prima grande crisi della democrazia americana, Abraham Lincoln. La scena più importante è quella [...] in cui Jefferson Smith è lì imbesuito nel mauseoleo di Lincoln e ascolta un ragazzino leggere su una lapide l’interrogativo che questo film presenta a chiunque lo veda: se questa o qualsiasi altra nazione fondata su basi democratiche possa durare a lungo. The National Board of Review [Capra] non è mai andato così vicino a quelle cose per cui gli americani dovrebbero provare profondo interesse come in questa storia che narra le avventure del Signor Comune Cittadino nelle aule della nazione dove si fanno le leggi. Los Angeles Times di Philip Scheuer Il film dice tutte quelle cose sull’America che chiedevano a gran voce di essere dette, e le dice in modo splendido.
Spokesman-Review (Spokane, Washington) Per la prima volta lo schermo è diventato significativamente eloquente riguardo ai nostri tempi. Plain Dealer (Cleveland) di W. Ward Marsch La cosa più importante è che questo film ha a che fare con «noi», con le nostre «vite», con la «nostra forma di governo». Non smette mai di essere entusiasmante, patriottico, inesorabile nello sferrare colpi [...] Capra non manca di farci intendere che solo in America un uomo può combattere da solo la sua battaglia e vincerla. New York Daily Mirror, editoriale C’è un grande film al Radio City Music Hall [...] Mr. Smith va a Washington [...] Il rispetto per le tradizioni democratiche, quella persistente e alta tonalità spirituale che ha infiammato ogni grande americano della storia, non sono presenti per caso in questo film. Un solo uomo è responsabile. [...] Frank Capra fa con il cinema quello che Sinclair Lewis fa con i libri, quello che Arthur Brisbane faceva con un articolo, quello che Will Rogers faceva con il suo spirito. Mette l’America «davanti allo specchio» [...] E il fatto che riesca a tradurre l’America in un film è tanto più significativo [...] perché è nato in Sicilia. Che la sua semplice devozione nei confronti dell’America sia un esempio per i Browder e i Kuhn. The Obsever (Londra) di C.A. Lejeune Mr. Smith offre una di quelle sorprendenti semplici rivelazioni di valori umani nelle quali Frank Capra eccelle. Il suo credo non è nuovo: beati siano gli umili perché erediteranno la terra. Gentilezza casalinga, un p0’ di buon senso, e un tocco di risoluto rispetto sono sempre la panoplia dei suoi eroi. Il piccolo padre Brown di Chesterton avrebbe potuto passeggiare e chiaccherare con uomini così, condividerne i silenzi, volergli bene. The Herald (Glasgow) Colpisce l’Europa di oggi con un soffio di rinfrescante vento dell’Ovest. Daily Herald (Londra) di H. Swaffer «Frank Capra attacca la democrazia». Così un critico ha scritto, ho appurato. [...] La verità è che quella democrazia non sa sopportare attacchi alle sue debolezze. Irish Times Gli rimane solo un’arma: andare avanti a parlare [...] E così fa, legge, parla per quasi due giri d’orologio, per vendicare se stesso. E, come dice il commento radiofonico, per vendicare la democrazia. Non potrei desiderare un tema più bello.
Come reagì l’ambasciatore Kennedy a questa pioggia di lodi espresse dalla vox populi? Si raddolcì, ma era ancora incerto. La sua opinione – contenuta nella lettera che inviò a Harry Cohn – era, ed è tuttora, l’opinione di molti altri americani dubbiosi circa l’intrinseca potenza del film americano. Ambasciata degli Stati Uniti d’America Londra, 17 novembre 1939 Caro Mr. Cohn [...] Temo che lo vediamo [Mr. Smith] con occhi diversi. Non ho mai avuto il minimo dubbio che il film avrebbe avuto grande successo in America e non ho alcun dubbio che, finanziariamente, avrà molto successo anche qui,
dando un grande piacere a chiunque lo andrà a vedere [...] Sono del resto convinto che [...] offrirà un’idea della nostra vita politica che potrà essere dannosa per noi... Ad esempio, oggi sono letteralmente disgustato vedendo come tutti i giornali inglesi diano spazio in prima pagina alla liberazione di Al Capone dal penitenziario, mentre solo un giornale mette fra gli annunci mortuari la notizia della morte di un uomo che ha dato molti anni della sua vita per servire la Corte Suprema del nostro paese: il giudice Butler [...] È incredibile come qui si abbia un’immagine del nostro paese distorta, tutto gangster e politici corrotti. Io ho molta stima di Mr. Capra [...] ma il suo bel lavoro fa sì che l’accusa al nostro governo suoni come una condanna per il pubblico straniero [...] Sento che presentare questo film in paesi stranieri inciderà pesantemente sul prestigio che gli Stati Uniti d’America hanno in tutto il mondo. Molto mi dolgo di dover dire queste cose [...] Resta il fatto che, comunque, i film che vengono dagli Stati Uniti sono un elemento decisivo nella formazione della pubblica opinione sulla vita americana all’estero. I tempi sono difficili, il futuro è già oscuro. Dobbiamo agire con la massima cautela. Sinceramente Vostro Joseph P. Kennedy
Tre anni dopo – in palese contraddizione con le opinioni dell’ambasciatore Kennedy circa il prestigio americano, con le rabbiose reazioni dei senatori, con il mortificante scredito lanciato dai galletti del National Press Club – mia moglie mi inviò (ero sotto le armi) questo confortante servizio giornalistico che mi fece comprendere come era valsa la pena di affrontare tante difficoltà. Hollywood Reporter, 4 novembre 1942 ULTIMI APPLAUSI DEL PUBBLICO FRANCESE A MR. SMITH VA A WASHINGTON
Mr. Smith va a Washington di Frank Capra, scelto dai teatri francesi come ultimo film di lingua inglese da presentare prima che sia resa operante, secondo gli ordini dei nazisti, la recente messa al bando da tutto il territorio nazionale dei film inglesi e americani, è stato applaudito dovunque. [...] Il testo completo della comunicazione datata Berna 22 ottobre dice: «Ci si può fare un’idea del profondo sconforto con cui i francesi hanno reagito alla recente messa al bando dei film inglesi e americani da tutto il paese attraverso un dispaccio privato e presumibilmente non censurato che è arrivato oggi al Basler Nachrichten dalla zona occupata». «Quando si è saputo della messa al bando», prosegue il corrispondente del Nachrichten, «i francesi si sono precipitati a prenotare posti per l’ultima presentazione di un film americano. In molti teatri di provincia è stato scelto per l’occasione Mr. Smith va a Washington di Frank Capra, accompagnato da un ricevimento che voleva essere uno speciale gala di addio». Uno scrosciare di applausi spontanei è sgorgato alla scena in cui appare sotto il monumento di Lincoln la parola Libertà e la bandiera comincia a sventolare sopra la testa del grande difensore della causa della libertà. Altri applausi e acclamazioni hanno fatto da contrappunto al famoso discorso che il giovane senatore tiene sulla dignità e i diritti dell’uomo. «Era come se», dice il corrispondente del Nachrichten, «gioia e sofferenza, amore e odio, speranze e desideri di un intero popolo che considera la libertà come il dono più prezioso, trovassero espressione per la prima volta».
A testimonianza di come la sfida contro l’oppressione nazista era aperta, il servizio informazioni dell’esercito mi fece sapere come il teatro di un villaggio dei Vosgi avesse continuato a proiettare Mr. Smith durante tutti i trenta giorni che avevano preceduto l’esecuzione dell’ordinanza. In verità, signori senatori, ambasciatori, signori notabili, come diceva Mr. Smith: «La libertà è un bene troppo prezioso per essere sepolto nei libri. Gli uomini dovrebbero tenerlo sempre davanti a sé – anche sullo schermo – ogni giorno della loro vita e dire: “Sono libero di pensare, di parlare. I miei antenati non potevano. Io sì. Posso. E così sarà per i miei figli”».
16. CINQUE FINALI IN CERCA DI PUBBLICO
Con Mr. Smith finiva il mio contratto con Cohn e la Columbia. Era tempo di andarsene. David O. Selznick mi offrì un ufficio nei suoi studios della Selznick-International. Accettai e mi ci trasferii. Tredici anni prima ero entrato alla Columbia di Poverty Row come un cinico, scoraggiato gag writer qualsiasi dello staff di Sennett. Ora stavo lasciando una Columbia ormai divenuta potentissima come regista numero uno di Hollywood. Il salario del mio primo anno alla Columbia – per produrre, scrivere e dirigere cinque lungometraggi – era sotto i diecimila dollari. Il salario del mio ultimo anno (esclusa la percentuale dei diritti) andava oltre i trecentomila dollari – e per realizzare un solo film. Adesso potevo fare da solo. Avevo bisogno di un partner però, uno spirito vivace, creativo, in sintonia con la mia sensibilità, che si unisse alla mia società di produzione indipendente. Robert Riskin ne aveva tutte le caratteristiche, ma si stava dando da fare con Sam Goldwyn per farsi strada da solo. Non sono di quelli che prima di fare un passo consultano astrologi, maghi, cartomanti. E tuttavia, come ho già avuto modo di dire, ero convinto che qualunque cosa mi accadesse sarebbe sempre andata a finire per il meglio. Ci sono una marea di frasi fatte per giustificare le lenti rosate del superottimista: guarda sempre il lato positivo, non può piovere per sempre, rosso di sera... Un’altra ragione potrebbe essere legata a una razionalizzazione del super-io: la volontà di non ammettere mai le proprie sconfitte. In realtà in me c’è un po’ dell’una e un po’ dell’altra e allora posso dire «tutto andrà per il meglio» con l’implicita consapevolezza di essere il «protetto» di qualche benigna divinità. Qualunque cosa fosse feci i miei scongiuri, e quando sottoposi la proposta a Bob Riskin mi preparai a un rifiuto. Invece no. Era assolutamente d’accordo. Anche se, come maggiore azionista, l’ultima parola l’avrei avuta io. C’era una profonda affinità tra me e Riskin, sia a livello creativo che umano, un affiatamento che dava il giusto impulso creativo e sollevava ondate di idee che invece di neutralizzarsi a vicenda si davano forza. E così nell’agosto dei 1939 lo stato della California convalidò la nascita della Frank Capra Productions, Inc. Riskin aveva un terzo del patrimonio azionario, io gli altri due terzi. Spese e investimenti iniziali furono suddivisi proporzionalmente. Il sogno da me lungamente carezzato – mettermi in affari da solo – era finalmente una realtà. Piovevano messaggi che auguravano buona fortuna, qualcuno ci mandò anche delle zampe di coniglio. Harry Cohn teneva duro. Il suo telegramma diceva: «Tornerai!» Il team Capra-Riskin era composto da una coppia con notevoli possibilità di negoziare. Numerose furono infatti le offerte dalle grandi major: finanziamento, condivisione dei profitti, accordi per tre, sei, dieci film. Le proposte più stuzzicanti vennero dalle più importanti società indipendenti. Samuel Goldwyn voleva creare un nuovo assetto produttivo-distributivo assemblando Capra, Goldwyn e Howard Hughes. Anche David O. Selznick propose una combinazione molto simile: Selznick-Hughes-Capra. Riskin e io, però non volevamo contratti a lungo termine. Volevamo solo accordi per un film alla volta, secondo la logica del «chi primo arriva»: la major si sarebbe occupata della distribuzione senza chiedere la spartizione dei profitti né il diritto di approvazione del soggetto, del cast, o del budget. Condizioni pesanti, in verità: e infatti ci fu un deciso raffreddamento sul fronte delle offerte.
C’era però fra i potenti degli studios uno spirito irreprensibile e anticonformista: Jack Warner. Jack era un giocherellone, uno che pensava di essere molto spiritoso ma che gli altri amavano e magari trovavano divertente quando spiritoso non era. Tuttavia, battute o non battute, Jack Warner faceva andare avanti un grande studio cinematografico con un grande senso della disciplina e dell’organizzazione. Primi a introdurre il sonoro, i fratelli Warner furono anche fra i primi ad assicurarsi e sviluppare una scuderia di grandi star come Bette Davis, Humphrey Bogart, Edward G. Robinson, James Cagney, Olivia de Havilland, Errol Flynn, Paul Muni, Ronald Reagan, Kay Francis, Ann Sheridan, Jane Wyman e Rudy Vallee. Jack Warner aveva fama di essere un «caporale» non certo disponibile verso gli indipendenti che pascolavano lontano dal branco. Ragion per cui tutta la città rimase con gli occhi sbarrati quando Jack ci offrì la proposta di un film solo, in termini che andavano oltre ogni più rosea previsione. Sostanzialmente questo era l’accordo: la Warner Brothers avrebbe coperto tutti i costi di produzione, di stampa e pubblicità e – a patto che Capra e Riskin impegnassero il loro tempo e investissero nell’impresa centomila dollari in contanti – la Frank Capra Production avrebbe avuto la proprietà del film e tutti i profitti! Solo Seward aveva fatto un affare migliore quando acquistò l’Alaska. Doveva essere uno degli imprevedibili capricci di Jack Warner. Forse voleva verificare se un Frank Capra c’era davvero, e, se c’era, voleva vedere come faceva i suoi film. Oh, dimenticavo la concessione più importante: non chiedeva nessun diritto di approvazione circa la storia, il cast e il budget. Riskin e io contenemmo lo sgomento, ci guardammo in faccia e poi chiedemmo a Jack Warner: «Dov’è la penna?» E che storia avremmo scelto per la prima nostra produzione indipendente? Cominciammo a giocare con Cyrano de Bergerac di Rostand e con La vita di Shakespeare. Non ho detto «giocare» a caso. In effetti mi era già capitato molte volte di sentire ronzare il motore al pensiero di un film in costume su temi classici ma, quando arrivava il momento di mettere in moto, il mio istinto diceva: Biagio, adagio! Tutto ciò che riguarda l’America contemporanea è la tua forza, il tuo direttissimo! E allora avanti, tiriamo su una storia americana come il baseball. Era novembre e sedevo nel mio ufficio nello studio di David Selznick a Culver City (due mesi prima del nostro accordo con i Warner) quando un amico scrittore, Robert Presnell entrò con un lungo adattamento che aveva scritto insieme a Richard Connell. L’avevano chiamato The Life and Death of John Doe. Lo lessi. Un campanello cominciò a suonare. Lo lesse Riskin. E fu subito un carillon. Il copione era già nostro prima che Presnell lasciasse la stanza. Di lì a pochi giorni Riskin e io prendemmo la via del deserto per stabilirci a La Quinta dove le muse sono benevole e dove tordi beffeggiatori e fanelli entrano ed escono come fulmini dagli alberi del fumo e dalle bouganvillee in fiore. Lu ci raggiunse con la piccola Lulu mentre Frankie rimase a scuola alla Urban Military Academy. Riskin era da solo: era di nuovo lo scapolo più ambito di Hollywood dopo che la sua recente storia con la meravigliosa Carole Lombard era pfffff... svanita. Stavamo fuori dal nostro bungalow di tegole rosse, in calzoncini corti, davanti ai tavoli cosparsi di fogli. Bob e io lavoravamo sodo tirando fuori scena per scena. L’entusiasmo prendeva respiro, le idee sembravano precedere le nostre penne. Ogni nuovo film si presentava come una nuova avventura da «mille e una notte». E di ciascuno sono vivi nel ricordo i momenti di massima eccitazione creativa. In uno di questi momenti dissi a Riskin: «Per tutti i tè della Cina, Bob, questo sarà il più grande film che abbiamo mai fatto!» «Adagio, ragazzo!», rise lui. «Non abbiamo ancora un finale». «Troveremo un finale. E allora qualcuno di quei critici con la puzza sotto il naso dovrà mandar giù un bel rospo!» «Oh-oh, adesso mi preoccupi! Te la sei legata al dito, eh?», disse Riskin e intonò la canzone di
Cole Porter «I’ve Got You Under My Skin». Forse che i critici mi davano fastidio? Ebbene, dato che io non ero entrato nel cinema attraverso le luci della ribalta, non avevo nessuna venerazione precondizionata per gli eleganti intellettualoni. Anzi, pensavo che se la cavassero sin troppo a buon mercato. Negli Stati Uniti un giornale è un’impresa privata in un paese libero. E tale è pure un ristorante, un grande magazzino, la ditta Ford e il teatro. Ciascuno procura agli utenti una merce specifica. Prendiamo New York: non c’è nessun giornale della città che osi dire ai suoi lettori: «Non mettete piede al Twenty-One Club, il cibo fa schifo!» o «Gli abiti di Macy si restringono se prendono la pioggia» o ancora «La nuova Ford è un rottame». Tuttavia sette critici teatrali possono far chiudere un teatro dopo una prima se la maggioranza di loro sentenzia pubblicamente: «Il nuovo spettacolo al Winter Garden è pessimo. Risparmiate il vostro danaro». Sono diventato in anni recenti compagno di pesca di Harold Ross, editore della rivista The New Yorker, e davanti al fuoco gli ho chiesto: «Harold, perché odii Hollywood?» «Io non odio Hollywood. Ma il lettore della rivista appartiene alla bella società dell’Est e stuzzica la sua vanità leggere che i vostri eroi hollywoodiani sono volgari e dissoluti». «Harold che ne diresti se un attore, sullo schermo, prendesse la tua rivista – che so? magari in uno studio dentistico – e la gettasse via dicendo: “Questa è la rivista più schifosa che abbia mai letto!”?» Lui rise divertito. «Ti farei causa e ti lascerei sul lastrico. Comunque fallo davvero! E io dirò sul mio giornale perché lo hai fatto!» Quella scena non l’ho mai girata. Anzi ho capito che se i critici non ci fossero lo show business dovrebbe inventarli, poiché le folli esplosioni di gioia e i lacrimosi sconforti con cui leggiamo le recensioni sono il cuore della mistica del teatro. Quelle recensioni le guardiamo con tenerezza, le mettiam via, le raccogliamo in album di ricordi per leggerle magari più tardi ai nostri figli nel patetico tentativo di dar loro l’impressione che anche noi un tempo siamo stati qualcuno. No, non era la mera esistenza dei critici a irritarmi, era la loro arroganza intellettuale che mi dava fastidio. Avevo messo in fila sette grandi successi. Mi fosse accaduta la stessa cosa a Broadway sarei stato beatificato. Shubert Alley sarebbe stata ribattezzata Via Capra. Niente da fare. Nessuno dei miei ultimi tre film – Orizzonte perduto, L’eterna illusione e Mr. Smith va a Washington – era entrato fra i migliori dieci film selezionati dalla giuria annuale dei critici newyorkesi. Posso perciò affermare che sono stati i clienti del botteghino a fare di Frank Capra ciò che è stato e ciò che è tuttora. Non sono stato invitato nel mondo del cinema, né ho goduto gli speciali favori che spesso vengono dal mondo finanziario, dal nepotismo, da critici influenti. Ho fatto i miei film e basta, e il pubblico ha dato il suo responso. E ciò malgrado, accidenti!, per come è fatto il mio io, avevo bisogno del plauso della critica più sofisticata. Per quanto fosse un desiderio infantile la mia creatività aveva sete proprio di quel vino inebriante: il riconoscimento dell’intenditore. La punta del «Capra-corno» aveva solo punzecchiato. Ora doveva trafiggere. Fu così che il mio primo film indipendente, Meet John Doe,38 fu concepito per conquistare il giudizio dei critici. L’attacco armato di Hitler alla democrazia continuava a mietere successi. Anche in America c’erano dei piccoli «führer» che consideravano la libertà una cosa sterile, debole, «passata». Adesso andava per la maggiore il Blood Power, il potere del sangue! Fate fuori i deboli, gli ebrei, i negri! Distruggete il cristianesimo e il suo comandamento fuori moda «Ama il prossimo tuo»! Arriva la razza superiore! Riskin e io volevamo stupire i critici con le realtà del mondo contemporaneo: la faccia terribile
dell’odio, il bigotto potere vestito di rosso, bianco, azzurro; l’agonia della disillusione e le oscure selvagge passioni delle folle. Volevamo dar loro una storia brutale che avrebbe fatto sembrare lo stesso Ben Hecht un Edgar Guest. Diventare presidente della mia compagnia significò abbandonare occupazioni collaterali. Perciò, dato che la presidenza dell’Academy mi prendeva tantissimo tempo, nel dicembre del ’40 annunciai le mie dimissioni e indissi l’elezione di un nuovo consiglio, il primo cambio di amministrazione in cinque anni. Il nuovo consiglio elesse Walter Wanger come presidente dell’Academy. Wanger era persona di salde tradizioni, produttore di film eleganti, aveva stile e buon senso e portava sempre un garofano bianco all’occhiello. Le mie ultime iniziative come presidente furono: nominare Darryl Zanuck capo dell’Academy Research Council (un gruppo di tecnici volontari che portavano avanti il lavoro di ricerca per tutta l’industria), includere in tutte le categorie degli Oscar i film stranieri girati in lingua inglese e produrre un film promozionale per l’Academy, un cortometraggio di trentuno minuti intitolato La cavalcata degli Oscar. Walter Wanger mi succedette come presidente e cominciò subito con un bel colpo: indurre il presidente Roosevelt a rivolgere un saluto al banchetto dalla Casa Bianca. Dopo aver condotto ben cinque serate come maestro di cerimonie e presidente mi sarei di nuovo seduto fra il pubblico insieme a mia moglie e i miei amici a sudar freddo con gli altri nominati in gara. Mr. Smith aveva guadagnato nove nomination: miglior film, miglior attore protagonista (Jimmy Stewart), migliore attore non protagonista (Claude Rains), migliore regia, miglior soggetto originale (Lewis Foster) e miglior sceneggiatura (Sidney Buchman). Quell’anno però c’erano grandi film in gara come Via col vento, Addio Mr. Chips!, Tramonto, Ninotchka, Un grande amore, La voce nella tempesta, Ombre rosse; e grandi interpretazioni come quelle di Bette Davis, Irene Dunne, Greta Garbo, Vivien Leigh, tutte meritevoli dell’Oscar. Fra i candidati per la migliore interpretazione maschile c’erano Robert Donat, Clark Gable, Laurence Olivier, Mickey Rooney e Jimmy Stewart. In un anno normale la prova di Stewart sarebbe stata senz’altro votata all’unanimità e Mr. Smith avrebbe dato filo da torcere anche in molte altre categorie. Invece Jimmy Stewart, senatore americano, doveva vedersela con Robert Donat, insegnante inglese (Mr. Chips), e per un pelo l’ebbe vinta la scuola. In altre categorie Mr. Smith tentò di resistere all’attacco di Via col vento ma fu superato sul nastro d’arrivo. Così l’Oscar del 29 febbraio 1940 fu, come disse scherzando Bob Hope, una «serata di beneficienza per Dave Selznick». Il suo film tratto dal grande romanzo di Margaret Mitchell riuscì a ramazzare quasi tutto: miglior film, miglior attrice protagonista (Vivien Leigh), miglior regista (Victor Fleming), migliore sceneggiatura (Sidney Howard). E ci fu anche uno di quei grandi momenti che hanno segnato la storia degli Oscar, quando quell’adorabile attrice nera che è Hattie McDaniel ricevette il premio di miglior attrice non protagonista provocando una commovente dimostrazione di affetto che durò a lungo. Hattie manifestò fra un singhiozzo e l’altro la sua gratitudine, si strinse la statuetta al petto e ritornò al suo posto singhiozzando fra due ali di pubblico entusiasta. La tavola di Via col vento luccicava come le segrete di Fort Knox: dei diciassette possibili premi dieci andarono a Via col vento. E solo il giorno prima tutti ne parlavano come della follia di David! E cosa accadde a Mr. Smith? Con l’eccezione di un premio a sorpresa, quello a Lewis R. Foster per il miglior soggetto originale (Gentleman From Montana), Smith fu il secondo miglior film: tanto vicino al primo, ma purtroppo secondo. Morale: non far mai il tuo miglior film nell’anno in cui qualcun altro fa Via col vento. In ogni caso, fui sgravato del peso della presidenza della mia adorata Academy. Pensai anche di
rinunciare alla presidenza della Directors Guild ma i registi erano il mio nuovo amore. Se la corporazione aveva bisogno di me e mi voleva, ebbene io avrei continuato a servirla. Comunque potevo rinunciare ad altre presidenze che mi sottraevano tempo e denaro. Certo, in questo caso parlare di «presidenza» faceva ridere e del resto tutto quello che facevamo era sempre puntualmente organizzato come un tacchino del giorno del Ringraziamento. Ero membro di un gruppo autogestito, senza sovvenzioni di sorta, il Research and Development, povero precursore (ma molto molto povero) della Rand Corporation e del gruppo Bunker-Ramo. Il nostro staff era una tribù segreta di tre persone: due capi (io e il mio operatore Joe Walker) e un solo guerriero (un macchinista esperto di strumenti). Il nostro «complesso industriale» constava di un localemagazzino in affitto sul Boulevard Santa Monica. Non c’erano insegne sulle porte o sulle finestre imbiancate ma dietro la facciata vuota c’era una stanza piena di tavoli da disegno e di strumenti di precisione. Qui Joe Walker perfezionò e brevettò le prime lenti zoom per la macchina da presa. Qui isolammo gli impulsi radio per la guida dei bombardieri senza pilota. Il Motion Picture Herald del 2 dicembre 1939 portava questa notizia: «Frank Capra si è rivelato comproprietario di un brevetto già garantito dall’ufficio brevetti di Washington per un sistema di controllo a distanza per guidare aereoplani e sganciare bombe con impulsi radio». Qui inventammo una griglia cellulare al selenio attraverso la quale l’artiglieria antiaerea poteva inquadrare e «vedere» oltre la luce accecante dei razzi luminosi che i bombardieri tedeschi lasciavano cadere sotto i loro aerei. Qui progettammo le «coppe di vento» a senso unico, che avrebbero dovuto mettere in moto le ruote degli apparecchi aerei mentre il pilota toglieva energia ai motori durante l’atterraggio, onde eliminare l’effetto «fiamma di fuoco» causato dalla frizione degli pneumatici ancora fermi contro la pista d’atterraggio. Offrimmo queste nostre due idee a Howard Hughes perché le passasse senza vincoli di profitto agli ambienti militari. Il nostro capolavoro fu però legato alla crittografia: un apparecchio per scrivere in codice, non molto più grande di una macchina da scrivere portatile e che molto le somigliava. Con spese considerevoli (il mio solo investimento era di venticinquemila dollari) ne mettemmo a punto molti modelli, li facemmo brevettare e li offrimmo allo Stato e ai servizi militari. Dagli esperti dei servizi segreti continuammo tuttavia a ricevere la stessa risposta: «No comment».39 Così mi ritirai dal nostro gruppo di «ricerca e sviluppo» per mancanza di danaro e ipotecai la mia casa per poter finanziare Arriva John Doe. Com’era possibile che mi trovassi a corto di danaro se le entrate dell’ultimo anno erano state di trecentomila dollari? Semplice, ma non per questo meno doloroso. Quell’anno ero il secondo contribuente a Hollywood, e pagai duecentoquarantamila dollari di tasse. Solo Louis B. Mayer pagò tasse più alte. C’era un altro affascinante interesse a cui dovevo, purtroppo, sottrarmi per mancanza di tempo. Avevo contattato Howard Hughes perché partecipasse alla creazione di un Laboratorio per il Tempo Libero, senza fini di lucro, di cui si sentiva moltissimo la mancanza. Doveva essere un grande palazzo, dotato di tutti gli strumenti di lavoro, con un centinaio di spazi dove artigiani, inventori e realizzatori potevano venire e costruire le cose con le loro mani, senza nessun obbligo commerciale o aziendale. Noi avremmo offerto i supporti tecnici ed esperti brevettatori. Nel caso in cui un brevetto avesse rivelato un valore commerciale, il Laboratorio del Tempo Libero avrebbe diviso i profitti con gli inventori. Howard Hughes, sublime pilota, playboy, finanziere, uomo del mistero, è soprattutto un ingegnere. E per questo che disse: «Bravo, Frank, buona idea. Fai un preventivo. Trova un posto adatto, metti giù dei piani, disegna l’edificio. Tu ti occupi del lavoro, io metto il danaro». Sfortunatamente il film su John Doe azzoppò l’idea e Pearl Harbor la uccise. Fare un film come Arriva John Doe fu una dura prova, un po’ come domare uno stallone ribelle.
Proprio quando cominciavo a pensare che sarebbe stato uno spettacolo di razza, che avrebbe stupito il mondo, ecco che scalciava, s’impennava e cercava di gettarmi al di là dello steccato. E non era ancora addomesticato quando, con tutti gli occhi addosso, spingemmo la bestia in un teatro per la prima. L’inizio era stato docile e pieno di promesse: capita raramente a chi fa del cinema di mettere insieme il cast che ha sempre sognato, gli interpreti perfetti per ogni ruolo scelti nell’immenso firmamento delle stelle. Evento raro, sì, che tuttavia si verificò per Arriva John Doe. Per la parte di John Doe – un vagabondo allampanato, ex battitore in una squadra di baseball con un braccio malandato – non c’era che un attore: Gary Cooper. Senza di lui non avrei neppure fatto il film. In verità non avevo un copione da fargli leggere quando gli chiesi se voleva interpretare la parte ma, sorprendentemente, lui disse: «Va bene, Frank. Non ho bisogno di un copione. Sua moglie, Rocky, la mise in questi termini: «John Ford mandò a Gary la sceneggiatura di Ombre rosse. Gary era molto incerto. La lessi io e gli consigliai di rifiutare. Ombre rosse! Ha fatto una star di John Wayne e noi... noi abbiamo rifiutato». Per di più, tutte le altre star comprese nel mio cast da sogno (Barbara Stanwyck, Edward Arnold, Walter Brennan, James Gleason e Spring Byington) furono subito disponibili e firmarono il contratto. Come Gary Cooper accettarono tutti senza aver letto una riga di sceneggiatura: e vi assicuro non c’è complimento più grande che un regista possa ricevere. Molto prima del primo giro di manovella Arriva John Doe aveva messo in movimento la stampa a caccia di notizie. Perché? Innanzitutto perché faceva già abbastanza notizia il fatto che un regista e uno scrittore buttassero il loro denaro in un film e gli scrivani del cinema dicevano che si trattava di una mossa avventata, di una strada senza uscita. E inoltre facevamo notizia semplicemente perché tenevamo la bocca chiusa e la stampa non riusciva a saper nulla sulla storia di John Doe. Certo era una mossa avventata, ma tutto quel che poteva capitare a Riskin e a me era perdere la camicia, che poi sarebbe stato un trascurabile disastro dato che i presidenti delle più grandi compagnie erano lì pronti a offrirci i loro cappotti di pelliccia per coprire la schiena. Tener segreta alla stampa la nostra storia era un altro paio di maniche. Già, perché non è che giocassimo a rimpiattino per scopi pubblicitari o fossimo riusciti a strappare qualcosina dalla clausura della Garbo («Voglio stare da sola»). John Doe era un segreto per la stampa perché era ancora un segreto anche per noi. Ammetterlo pubblicamente avrebbe messo una pulce nell’orecchio a Jack Warner e alla Bank of America. Le difficoltà sorte dalla storia erano il frutto di un’autopunizione. Per convincere i critici importanti che non tutti i film di Capra erano scritti da Pollyanna, e che potevo affrontare la cruda realtà con tanto di calci allo stomaco, Riskin e io avevamo scritto fino a trovarci con le spalle al muro. Sapevamo che non era lo spettacolo a mancare, di quello ne avevamo a bizzeffe: un grande motivo di apertura e un potente sviluppo della vicenda, tanto potente da implicare la promessa di un fortissimo esito spettacolare. Quello che non avevamo era uno scioglimento accettabile per la nostra storia. I primi due atti erano solidi, il terzo era un calzino bagnato. Avevamo abbandonato la nostra formula di sempre: un sano, onesto «uomo del popolo», costretto a confrontarsi con le forze del male, ha la meglio facendo uso della sua innata bontà. Questa volta il nostro eroe era un vagabondo, un relitto umano alla deriva tanto privo di ideali quanto pronto a cambiare. Quando le forze del male lo tentano, bene; non fa una piega se lo chiamano John Doe, il «Messia della bontà», in cambio di bistecche e bei vestiti. Eppure, quando scopre che sta per essere usato per deludere e defraudare migliaia di persone in buona fede, si ribella. Quando cerca di dire alla gente delusa che lui è stato una frode ma che ora crede come credono loro, la gente gli si rivolta contro e prova a farlo a pezzi. Fin qui tutto bene. Ma adesso che
cosa accade a John Doe? e alle migliaia di persone che credono in lui? e alle forze del male? Non lo sapevamo. Fino a quel punto la storia si era scritta da sé. Da lì in poi non andava avanti. Chiamammo Myles Connolly, mio amico e severissimo critico, ma al contempo asso nella manica quando c’era da costruire una storia. Connolly suggerì diversi possibili finali ma anche lui ammetteva di trovarsi in imbarazzo. Chiamammo Jules Furthman, il più corteggiato «dottore» di storie. Furthman (illustre collezionista di libri rari, mi attaccò la malattia) era molto ricercato non tanto per la sua creatività quanto per la sua enciclopedica memoria degli autori del passato e di tutte le trame. I registi gli raccontavano le loro storie lasciate in sospeso: nove volte su dieci, senza fare alcuna ricerca, Furthman concludeva: «Oh, quella trama è stata usata da Shakespeare», ma poteva anche essere Čechov, Maupassant, Sheridan, Goethe, Kipling, Stevenson, Conrad, Cooper e chissà quale altro autore. «Qui lui l’intreccio l’ha risolto così». Plagio? A noi piace chiamarlo prestito. Ad ogni modo, il «dottor» Furthman ascoltò. Quindi tossicchiò, esitò, dragò in profondità nel vuoto, alla ricerca di una trama come la nostra – romanzi, commedie, poesie, leggende, miti, saghe, il Nuovo e il Vecchio Testamento, i Vangeli apocrifi, gli scrittori egiziani, i sumeri, il sanscrito, i geroglifici, la scrittura cuneiforme, la Stele di Rosetta. Niente. Seccato, il «dottor» Furthman si sentiva ormai quasi un ciarlatano. «Maledizione, ma è semplice», disse. «Sapete perché non riuscite a trovare un finale a questa storia? Perché non c’è nessuna storia». Riskin, Connolly e io lo buttammo fuori tirandolo per l’orecchio. La sua diagnosi era tale da farci ricoverare tutti sull’istante. C’erano gli attori, era stata fissata la data delle riprese, il nostro danaro buttato allo sbaraglio e lui ci veniva a dire che non avevamo una storia. Ormai sembrava una barzelletta: lo chiamavamo «il mistero del finale irrisolto». Strano ma vero: Arriva John Doe non divenne un classico del cinema perché non riuscivamo a finirlo! Per sette ottavi del film Riskin e io eravamo convinti d’aver fatto «il grande film americano», ma quell’ultimo ottavo bastava per trasformarlo nella grande delusione americana. Mea culpa, mea culpa, naturalmente. Da quando avevamo cominciato a scrivere Riskin non aveva mai mancato di pormi il problema. Ma io no. Dicevo: «Smettila di preoccuparti, Bob. Sarà lo stesso film a dettarci il finale». «Ma, Frank, è un delitto cominciare a girare un film senza sapere come va a finire!» «Vedrai! Tutto va a finire per il meglio... Abbi pazienza!» Bob ebbe pazienza ma non vide granché. Disperato, realizzando una sorta di primato senza punti, dovetti girare cinque finali diversi per poi lasciare il verdetto al pubblico delle anteprime. Fu come bucare con uno spillo dei palloncini. Perché? Perché centinaia di scene combaciavano perfettamente nel puzzle e nessuna entrava nel buco lasciato dal finale? Non l’ho mai scoperto. Naturalmente per la stampa si apriva un giorno di grandi manovre con il nuovo fenomeno dei finali diversi da commentare. Jay Carmody del Washington Star scrisse: «Mr. Capra, la cui sicurezza nel disporre della sua magnifica piccola gente [...] è stata uno dei miracoli dello schermo, è finalmente atterrato nel bel mezzo della cruda realtà [...] Arriva John Doe ha quattro finali... un nuovo record mondiale nell’indecisione». E Beau Broadway si prendeva gioco di me sul New York Telegraph: «Si dice così adesso in città: “Sai perché oggi fa così fresco?” “Perché non c’è il sole?” “No. Perché oggi Capra non sta girando un nuovo finale per John Doe”». Come andò insomma Arriva John Doe? Con qualche piccola riserva mi procurò quello che avevo ardentemente desiderato: la stima dei critici intellettuali. Kate Cameron del New York Daily News gli diede il punteggio massimo che raramente
concedeva: quattro stelle. William Boehnel del World-Telegram ne parlò come del «più bel film di Frank Capra, senza eccezioni». Howard Barnes dell’Herald Tribune scrisse: «Tutto il potere dello schermo erompe in Arriva John Doe di Frank Capra [...] Con una fine sensibilità d’artista è andato al cuore dei problemi che travagliano la società d’oggi [...] È un testamento di fede e insieme una grande prova di sapienza cinematografica». Parole come «fine sensibilità d’artista» raramente erano state usate per la mia opera, prima d’allora. E Bosley Crowther del New York Times sottolineò il mio scatto in avanti: «eloquente nell’amore per la gente bella dentro [...] il film segna un netto sviluppo nella visione politica del mondo di Frank Capra e nel suo modo di far cinema». Variety, sempre avaro di complimenti, mi riservava giudizi di tal fatta: «È il massimo per un uomo di spettacolo [...] tanta commedia, tanto humour, tanta sottile intelligenza e tanto divertimento. Dal punto di vista figurativo e tecnico il film è un capolavoro [...] l’intreccio drammatico è una delle pietre miliari della letteratura cinematografica». Archer Winston del New York Post diceva quello che sentivo anch’io: «Per sette ottavi hanno realizzato un film perfetto e davvero eccezionale». Leo Mishkin del Telegraph fece eco a questa lode: «Il meno che si può dire è che la prima metà di Arriva John Doe è innegabilmente [...] uno dei più grandi film dell’anno [...] Non vedrete niente di più bello». Eppure il pubblico, vale a dire i John Doe per i quali e sui quali avevo fatto i miei film, uscirono dalle sale come delusi, e non c’entrava quale finale avessero visto. Cosa che fu prevista con molta intelligenza dal critico cinematografico del Los Angeles Times Edwin Schallert: «Arriva John Doe di Frank Capra [...] eccezionale sfida allo spirito della vita di oggi, è un film che dovrebbe far storia e dare una svolta al pensiero della nazione, se – e si tratta di un se grande così – non muore prima di nascere a causa della mancanza di ispirazione per un grande finale». E poi – il film era già in programmazione da due settimane in sei grandi città – ricevetti una lettera firmata «John Doe». Diceva: «Ho visto il suo film con tanti diversi finali [...] tutti sbagliati. Ho pensato: “L’unica cosa che può impedire a John Doe di uccidersi sono gli stessi John Doe [...] se glielo chiedono loro...”» Mi suonò dentro una campana. Richiamai tutti gli attori e girai il finale numero cinque! Ritirai tutte le copie del film per aggiungere il finale numero cinque. E così finì il pazzo gioco dei «cinque finali in cerca di un pubblico». L’ultimo finale era di gran lunga il migliore ma era ancora fiacco. Esisteva una fine accettabile per John Doe? Era possibile? Ancora non lo so. Forse chi legge lo sa. Allora sapevo di essere più severo dei critici. Sapevo che Riskin e io scrivendo ci eravamo trovati con le spalle al muro. Avevamo mostrato il sorgere di due potenti opposti movimenti, uno buono e l’altro cattivo. Si scontravano e si distruggevano l’un l’altro! San Giorgio combatté contro il drago, lo uccise e fu ucciso. In realtà quello che il film diceva alla gente sconvolta, avida di risposte: era questo: «Nessuna risposta questa volta, signore e signori». E la gente rispondeva: «Sciocchezze!» Che Cooper si buttasse o no, noi non eravamo profeti senza onore nella terra del cinema, del nostro cinema. Così, ad esempio, diceva un telegramma di David O. Selznick: «MOLTO RARAMENTE APPARE UN FILM CHE TI FA SENTIRE ORGOGLIOSO DI APPARTENERE AL MONDO DEL CINEMA». E mentre noi, allo studio, ci davamo da fare per scovare un finale, la vita stava scrivendo da sola inizio e fine a casa mia. Il 12 febbraio 1941 Lu partorì un altro figlio, il piccolo Tom, che doveva riempire il grande vuoto lasciato dalla morte del piccolo John. Mia madre fu condotta in sala operatoria all’ospedale Cedri del Libano mentre le veniva data la notizia della nascita di Tom. Aveva ottant’anni. Attraverso una piccola lastra di vetro quadrata vidi il dottor Stanley Imerman amputarle la gamba ormai viola per una trombosi. Il moncone aveva cominciato a rimarginare quando sopraggiunse una polmonite. Nella stanza c’eravamo io, i miei due fratelli e le mie tre
sorelle. Tenevo la mano callosa della mamma e sentivo il suo respiro faticoso diventare sempre più debole fino a sparire. Uno ancora, e poi silenzio. Il gran cuore, le braccia forti, la fede incrollabile, il fiero coraggio che avevano dominato i suoi giorni, uno dopo l’altro, avevano finito di esistere. Come una candela, la mamma aveva dato luce e calore, ma dandoli si era consumata. Adesso la luce della mamma non c’era più. Quel che aveva fatto l’aveva fatto per noi. E la mamma era morta. In pace, in gloria, in dignità. Il suo seme e il seme di milioni di persone come lei hanno dato vita al sogno americano. Quando Bob Riskin e io ci mettemmo spensieratamente in società e allegramente scegliemmo di fare da soli, non eravamo perfettamente consapevoli di trascinarci dietro un partner silenzioso, uno zio che non sapeva scrivere, recitare e neanche far pulizie nel nostro ufficio. In compenso mangiava come un leone. E infatti il suo appetito era così grande che dovevamo dargli da mangiare anche fuori pasto, ben più di quanto gli spettasse. Lo chiamavamo tutti zio Sam. Sei settimane dopo che Arriva John Doe era stato presentato nelle città più importanti, i fratelli Warner ci diedero buone notizie, che il film portava alle casse della nostra società la bellezza di novecentomila dollari! Eravamo estasiati. Anche lo zio Sam lo era. Affilò la punta delle sue matite e ci disse: «Frank, Bob, è arrivato il tempo di ammortizzare!» «Cosa vuol dire “ammortizzare”?» «Significa che una bella porzione di ogni dollaro incassato al botteghino, adesso, è un “profitto stimato”, chiaro? Inoltre, nel vostro caso, dato che siete una nuova compagnia, tutti i vostri profitti sono tassabili come profitti “in eccesso”. Capito? Ordunque mi dovete e subito più del cinquanta per cento del profitto stimato su ogni biglietto venduto nel mondo». «Zio! Ma tu stai scherzando. Perché dobbiamo pagare tasse su profitti che vedremo, se li vedremo, fra un paio d’anni?» «Semplice! Nipotini. Perché ve lo chiedo io». «Ma dove li prendiamo i soldi per pagarti in anticipo?» «Ragazzi, se non riuscite a star dietro a questi dettagli, è meglio che in cucina non ci entrate nemmeno». E così Bob Riskin e io uscimmo da quella maledetta cucina e sciogliemmo la società. Dopo aver lavorato un anno e mezzo senza salario, chiesi prestiti per pagare le tasse anticipate e pagate le tasse sugli introiti personali che venivano dalla divisione dei beni, la musica era questa: a zio Sam il novanta per cento di ogni dollaro guadagnato, a Riskin e Capra dieci centesimi! Nel giugno del 1941, quasi lo stesso giorno in cui l’esercito di Hitler invadeva la Russia, David Selznick aveva preparato tutti i documenti legali: io e lui, in squadra, ci saremmo uniti a Pickford, Chaplin e Korda come proprietari al venti per cento della United Artists. Il mio nuovo agente, Phil Berg, avrebbe studiato l’accordo. Incontrai Phil Berg nel suo ufficio per avere una risposta sull’accordo di compartecipazione di Selznick. Era con noi il suo partner, Bert Allenberg. Natty Phil, ogni capello biondo al suo posto, stava lì immobile (come sempre) mentre lui parlava. «Dunque, Frank! Dipende solo da quanto vai d’accordo con David. Tutto qui. Per il resto, è un gran bell’affare. Avrai una bella fetta della United Artists, che vorrà dire milioni! Altrimenti...» I suoi occhi chiari cominciarono a luccicare. «Bert e io abbiamo un accordo migliore per te! Non è vero, Bert?» «Joe Schenck!», disse Allenberg. «Joe Schenck darà il suo braccio destro per averti alla Fox. Incredibile, Frank, e a condizioni che non avrebbe offerto neanche alla Garbo! Qualunque film farai avrai 250.000 dollari e il cinquanta per cento dei profitti». «Phil, Bert sono stordito... Vi è mai capitato di sentire il programma radiofonico di Ed Murrow
da Londra? Avete sentito cosa sta facendo laggiù la Luftwaffe?» Ci fu un momento di silenzio che infine Phil Berg ruppe. «Senti, Frank. Come tuo agente io te lo devo dire. Non ti capiterà mai più di sentirti offrire quello che oggi Schenck e Selznick ti stanno offrendo. Credimi. Certo io posso tenerli ancora in ballo per una settimana o due. E se la Marina dovesse richiamarmi Bert conosce tutti i dettagli». Presi un aereo per Washington. Sy Bartlett (uno scrittore di Hollywood recentemente arruolato come ufficiale delle forze aeree) mi fece conoscere l’ambiente. Da ciò che vedevo e sentivo eravamo talmente impreparati alla guerra che i comandanti in capo dell’esercito temevano un nostro possibile coinvolgimento nel conflitto. Facevano capire che le nostre truppe non potevano contare su un gran numero di arruolati e per di più questi avevano scarsa preparazione ed erano male equipaggiati. Chiesi il comando di una compagnia fotografica di campo. Il Corpo Trasmissioni mi offrì il grado di maggiore. Ora sapevo che l’esercito era messo male. Firmai le carte e mi fu detto di attendere la chiamata. Avevo quarantaquattro anni. E ora un’ultima bravata: fare un film a basso costo per mettere velocemente insieme un po’ di denaro e dar di che vivere alla mia famiglia. Tenendo conto del nostro tenore di vita, un salario di maggiore di 250 dollari mensili non sarebbe neppure bastato a pagare la bolletta del telefono. Ci volevano quarantamila dollari all’anno, esentasse, per le spese fondamentali e il mutuo del ranch che avevamo comprato a Fallbrook. Anche pensando di rinunciare a Brentwood, eliminare le persone di servizio e mandare Lu e i suoi genitori a vivere al ranch, le spese restavano come minimo di 25.000 dollari. Ma come procurarmeli sotto le armi? Howard Lindsay e Russel Crouse facevano il tutto esaurito a Broadway con il loro Arsenic and Old Lace. Avevo visto la commedia e sapevo che si poteva girare velocemente e con poca spesa (come la maggior parte dei registi cinematografici traducevo in termini filmici tutto quello che vedevo). A New York incontrai Howard Lindsay fra un atto e l’altro in camerino. «Howard, ho una gran voglia di trarre un film dal tuo spettacolo. Ci sono speranze?» «Sarebbe eccezionale, Frank, ma l’abbiamo già venduta a Jack Warner...», e aggiunse che la versione cinematografica non poteva essere girata finché la commedia veniva rappresentata a Broadway. Che cosa implicava? Tre, forse quattro anni, stando alle prenotazioni degli biglietti. «Accidenti! Non importa». Bisognava parlare agli attori. Penso di aver offerto 25.000 dollari a Josephine Hull e Jean Adair e 15.000 dollari a John Alexander per trascorrere quattro settimane a Hollywood, con la raccomandazione che non ne facessero parola in giro giacché l’affare era del tutto ipotetico e ogni forma di pubblicità l’avrebbe mandato all’aria. Poi tornai di corsa sulla West Coast a mettere insieme il resto della trama. E di trama si trattava proprio. Nessuno si aspettava che Jack Warner o qualunque altro produttore buttasse una carrettata di soldi in un film per poi chiuderlo in cantina per quattro anni. C’erano troppi rischi: la guerra, la depressione economica, il mutar di gusti e mode. Gli attori potevano morire o perdere il favore del pubblico. Gli interessi sul denaro congelato avrebbero fatto salire il costo del film. Io però contavo sulle tensioni donchisciottesche di Jack Warner. Andava matto per le stranezze. Se avessi potuto gettare la trappola con un’esca che fosse assolutamente irresistibile lui ci sarebbe stato. Innanzitutto ci voleva una star. Cary Grant era il più grande commediante comico di Hollywood. Ed era anche una delle esche migliori al botteghino. Voleva centomila dollari per fare il film. Ci fu una tranquilla riunione con lo staff della Warner. «Ragazzi, Jack Warner non vuole che se ne faccia parola. Fatemi una stima rapida di budget per i costi base di Arsenic and Old Lace40 (i costi relativi alla storia, al regista e agli attori non erano compresi nei costi base). Ecco i dettagli:
l’équipe tecnica (macchine, sonoro, luci, montaggio) è tutta della Warner. Fate un piano di lavoro di quattro settimane e...» «Ma, Frank, pensi di girare un film in quattro settimane?», chiese uno scenografo. «Lo farete, per cortesia? Il piano di lavoro è di quattro settimane, non un giorno di più. Inoltre non ci saranno comparse, set all’aperto, costi di trasporto, se si eccettua un viaggio di andata e ritorno per tre attori di New York e cinquanta dollari al giorno di provvigione. Avete capito bene? E adesso state a sentire la vera novità! Tutto il film sarà girato in studio, in un solo teatro di posa, su un solo set: una spettrale vecchia casa di Brooklyn a due piani vicino a un cimitero. Ho qui dei disegni, con gli interni e gli esterni. Davanti alla facciata e sul lato sinistro della casa tutto deve essere ricostruito in ogni particolare, così potremo girare dentro e fuori. Qualche pietra tombale spezzata in primo piano, chiaro? E poi altre sempre più rade e più piccole in lontananza. Sullo sfondo profili bidimensionali dei grattacieli di Manhattan. È notte. Luci alle finestre, un debole chiarore sulla città, l’occhieggiare dei neon e un doppio velo davanti ai grattacieli per farli sembrare più lontani. Dietro alla vecchia casa costruite un tre quarti prospettico del ponte di Brooklyn in miniatura, con treni e automobili in miniatura che si muovono. Capito? Il fondale è un cielo notturno. Dipingete ciuffi di nubi davanti alla luna piena, ne deve uscire un’atmosfera terrorizzante, tipo Halloween. E fate in modo che ci siano cumuli di foglie secche tutt’intorno alla casa e fra le tombe. E naturalmente tre silenziose macchine per il vento. Altri dettagli?» «Si gira tutto di notte?» «Tutti gli esterni sono notturni. Ci saranno pochi interni-giorno da girare dentro la casa. E, dimenticavo!, nel salotto, sotto la finestra di sinistra, ci va una cassapanca con un coperchio cigolante, abbastanza grande da contenere un corpo umano. E non dimenticate la porta cigolante e la scala che porta giù in cantina dove le vecchie signore seppelliscono i corpi. Altro?» «Dobbiamo mettere in conto delle gru?» «Sì. La macchina da presa numero uno starà sempre montata su una gru di sei metri. La numero due invece sarà libera. E non preoccupatevi di metterci dentro le “emergenze”. Se mi venite fuori con un costo base che va oltre i 400.000 dollari, vuol dire che state barando». «Che cos’hai in mente, Frank?», mi prese in giro il produttore esecutivo Steve Trilling. «Di tornare ai quickies41 di Poverty Row?» «Già. Per una rinfrescatina. Proprio così». Se la sto facendo troppo facile è perché è facile il successo quando conosci la parola magica. Gli psicologi pontifichino pure sul fatto che il successo è «una sfida intellettuale sorretta da coraggio emotivo». Belle parole ma senza sugo. Il successo non dipende da nient’altro che dal fare i tuoi bei compitini a casa. Clyde Beatty studiava i suoi gatti, Casanova era immerso nel suo gineceo, Ulysses Grant versava liquore dalla sua bottiglia. Compiti a casa, sissignori! È questa la parola magica! E il mio compito a casa su Jack Warner implicava un preciso avvertimento: Jack ama ridere, è vero, ma non tentare di strappargli un accordo con delle storielle. Chi ci aveva provato aveva sentito tutto il peso della sua attenzione mentre volava fuori dalla porta. Così, armato di fatti e cifre, senza una gag in mano, mi presentai nel suo ufficio. In meno di una settimana le ruote di Arsenico e vecchi merletti cominciarono a muoversi. I miei sceneggiatori – i geniali, spassosi gemelli, Julie e Philip Epstein – andarono di corsa a New York per vedere la commedia. L’operatore era quel saldo vecchio professionista di Sal Polito. L’assistente alla regia era Jesse Hibbs e il montatore Danny Mandel. Oltre agli attori già scelti, Cary Grant, Josephine Hull, Jean Adair e John Alexander, chiamammo questi eccezionali interpreti: Raymond Massey, che era il maniaco assassino (interpretato in teatro da Boris Karloff); Peter Lorre, che era il complice di Massey (un timido, folle
chirurgo); Priscilla Lane, come fresca sposina di Grant; Jack Carson, l’ottuso poliziotto che scrive commedie; e il mio attore caratterista preferito, Jimmy Gleason, per il ruolo del detective. Per dare il tocco finale a questo cast di grandi attori, ingaggiammo Edward Everett Horton per interpretare l’imbronciato direttore della casa di riposo che viene a prendere le «ragazze» e invece prende «solo un goccio» di arsenico e sambuca. Erano passati solo due mesi da quando avevo proposto la mia idea a Howard Lindsay e stavamo già girando la prima scena di Arsenico e vecchi merletti nel teatro di posa della Warner. Non potevo essere più felice. Questa volta non erano in gioco testimonianze «per salvare il mondo», preoccupazioni sull’opportunità di far saltare giù John Doe o no. Era solo buon teatro vecchio stile: un oliato meccanismo drammatico che parlava con leggerezza di assassinio. Lasciai gli interpreti del tutto liberi di fare il loro gioco, perché quel film era per loro un’occasione unica di divertimento. Il divertimento durò una settimana e fu bruscamente interrotto da... Pearl Harbor! Il giorno seguente, lunedì mattina, 8 dicembre, due ufficiali del Corpo Trasmissioni vennero nello studio per farmi prestare giuramento. Ora ero arruolato. Chiesi – e mi fu concessa – una licenza di sei settimane per finire, montare e fare le anteprime di Arsenico. Un sarto intanto mi preparava le uniformi. Un po’ spaventato da tutto ciò, entrai in un magazzino per esercito e marina a provare i berretti e a comprare dei gradi di maggiore e gli stemmi a bandiere incrociate del Corpo Trasmissioni. Né io né il sarto sapevamo dove bisognava metterle. Il 5 febbraio ricevetti questo telegramma: MAGGIORE FRANK CAPRA [...] L’11 FEBBRAIO SI PRESENTERà A WASHINGTON DC A RAPPORTO DALL’UFFICIALE IN CAPO DEL CORPO TRASMISSIONI. OSSEQUI ADAMS ADJT GENL WASHN DC
Però, pensai, che ordine rude e volgare! Non «Per cortesia si presenti» e neanche «È gentilmente pregato di presentarsi» ma «Si presenterà». Credo che il sentirmi offeso dall’esercizio arbitrario dell’autorità l’avessi nel sangue. Da quattromila anni i contadini siciliani soffrivano le capricciose stramberie di tanti tiranni idioti e il loro rispetto dell’autorità non andava – se non raramente – al di là del livello fecale di una parola di cinque lettere. L’epiteto sbirro funziona sia per il poliziotto che per il suo informatore. Provate a chiamare un uomo sbirro in Sicilia e, cari miei, non ve la caverete con un sorriso. E allora perché stavo accettando la ferrea disciplina dell’esercito? Perché abbandonare la famiglia, rinunciare alla libertà personale e a un nome ormai scritto a caratteri luminosi sopra quello delle star più grandi? Perché mollare una società con David Selznick (che avrebbe fatto di entrambi i comproprietari della United Artists) e il contratto di quelli che capitano una volta sola offertomi da Schenck, una combinazione che mi avrebbe fatto definitivamente entrare nella classe dei multimilionari? Perché scambiare fama, successo e ricchezza per un numero inciso su una medaglietta appesa al collo: il numero 0900-209? Patriottismo? È possibile. In verità la ragione stava nel fatto che in quel gran gioco di opportunità e intelligenza che è il cinema, avevo ormai scalato la mia montagna, piantato la bandiera in cima, e udito il plauso del pubblico. Ero annoiato, adesso. Ero un uomo arrivato. Se il mio motore deve affrontare una salita allora è vivo anche il mio interesse. Ma se gira pigro in pianura, mi annoio. Inoltre mi sentivo in colpa. Nei film mi ero eletto campione della causa dei buoni, dei poveri, dei diseredati e intanto avevo cominciato a vivere come l’Aga Khan. La maledizione di Hollywood
è il denaro. Arriva così in fretta che finisce per sopraffarti e importi i suoi costumi, non di ricchezza, ma di ostentazione e di falsità. Risultato: ti trasforma in qualcosa di insopportabile che non sei mai stato né avevi pensato di poter essere. John Mosher sul New Yorker aveva aperto la sua critica ad Arriva John Doe con questa frase: «L’amore di Mr. Capra per l’uomo comune, l’uomo di tutti i giorni, l’idiota, il rottame, va al di là di ogni comprensione». Quel giudizio aveva due significati: era grande o era falso l’amore che andava al di là di ogni comprensione? Io avevo la fastidiosa sensazione che i due significati fossero contigui. Il cinico vagabondo di Arriva John Doe interpretato da Walter Brennan mi avrebbe messo in guardia: «I “vermacci” ti stanno circondando!» Eppure uno potrebbe argomentare – sulle basi dell’orgoglio piuttosto che su quelle del senso di colpa – che fama e benessere se li è guadagnati da sé, con sudore e fatica e dunque che male ci sarebbe a goderne finalmente? Non c’è niente di male nella vita comoda, basta saperne sopportare la noia e avere lo stomaco per reggere il vuoto di «quelli che amano la bella vita». Dunque l’esercito costituiva una via d’uscita provvidenziale: un modo pulito e rispettabile di rifiutare gli schiavizzanti contratti da milioni di dollari che forma, cortesia, lodi e l’eccezionalità del momento stavano costringendomi ad accettare. E al contempo mi conferiva un’aura superiore di patriottismo e di sacrificio, qualità che uno può raramente sbandierare davanti ai suoi simili. L’esercito si presentava fra l’altro come un’altra formidabile montagna. Lo stesso pensiero aveva attraversato la mente di mia moglie. La sera dell’11 febbraio 1942, dopo avermi accompagnato in macchina alla stazione e avermi lasciato davanti all’ingresso formicolante di gente, mi diede un ultimo bacio e un ultimo ordine: «E ora caro, ti prego! Non cercare di dirigere l’esercito! Promesso?» Sembrava tutto così teatrale, proprio come la scena di uno dei miei film. E mentre dicevo addio a mia moglie, le braccia tese nell’aria, fui colpito da quanto in sordina un campione di Hollywood stava partendo per la guerra: non c’erano fotografi né giornalisti, non c’era la banda della Marina o generali che mi davano il benvenuto, non era arrivata nessuna limousine piena di assistenti o agenti pubblicitari, non era venuta nessuna delegazione dell’Academy a vedermi partire, o rappresentanti della Screen Directors Guild (della quale ero pur ancora il presidente) ad augurarmi buona fortuna. Sapevo bene che nessun giornale avrebbe fatto parola della mia partenza perché il novantacinque per cento delle «notizie» hollywoodiane nasce dagli uffici stampa degli studios o attraverso le dozzine di agenzie private di pubblicità, nessuna delle quali al momento lavorava per me. Non avevo mai voluto alle mie dipendenze un ufficio stampa personale, basandomi sulla teoria – quasi ineccepibile dal punto di vista morale, ma poco realistica e improduttiva dal punto di vista teatrale – secondo la quale «la bontà viene comunque a galla e l’errore è meglio che non si sappia». Inoltre le riviste hollywoodiane del settore, facendo eco alle maggiori compagnie che non volevano perdere artisti e tecnici, pubblicavano editoriali contro gli Huston, i Ford, i Capra che avevano offerto i loro servizi al Governo. «Le mansioni che Capra potrebbe ricoprire nell’esercito», dichiarò Billy Wilkerson sul suo Hollywood Reporter, «potrebbero essere svolte da qualcun altro non impegnato a dare il suo contributo allo spettacolo cinematografico. Crediamo che il governo risponderà così: “Restate dove siete, lavorate di più e con più determinazione [...] per creare spettacoli, giacché questo è il contributo più necessario che potete dare alla nostra battaglia per la libertà”. E inoltre siamo convinti che il governo presto dirà a chiare lettere, come già fece durante la prima guerra mondiale, che il cinema è un’industria necessaria». Intendendo, naturalmente, esonerata dal servizio militare. Dichiarazione che, ovviamente, non fu mai fatta. Così Lu mi assistì mentre indossavo la mia prima uniforme, mi preparò trenta chili di valigia con uniformi, scarpe, fiaschette di whisky, vitamine, medicine, antinfluenzali, clisteri, dolciumi,
salumi, biscotti e tutte quelle cosette, cosucce, cosine che ogni donna riteneva necessarie per il proprio uomo in uniforme. E come milioni di altre donne fu teneramente presente mentre salutavo i bambini e mi accompagnò alla stazione per vedermi partire. Essendo persone di mezza età, eravamo troppo imbarazzati per imitare le coppie più giovani che restavano avvinte in baci senza fine come isolette in mezzo a un’umanità che sorridendo si muoveva intorno a loro. Agitai il braccio nell’aria finché non vidi Lu sparire nel traffico della sera, ben sapendo che presto si sarebbe lasciata andare alle lacrime, e poi cercai un fattorino che mi aiutasse a portare le valigie. Non ne venne nessuno, anche se li conoscevo tutti per nome. Così notai che tutti gli uomini in uniforme portavano da sé i propri bagagli. Tirai su il mio. Stavo per capire una realtà tanto semplice quanto fastidiosa: che un americano in uniforme è un cittadino di seconda classe! Come Mr. Frank Capra, autore di film, arrivavo alla stazione in una limousine accolto da facchini e personale delle ferrovie: il capostazione Mendenhall mi accompagnava attraverso il tunnel alla rampa che portava al treno. Gli addetti alle luccicanti carrozze di lusso davanti ai predellini si facevano in quattro dicendo Mr. Capra di qui Mr. Capra di là. Scambiavamo battute. Il capostazione mi accompagnava alla carrozza bar dove uno steward (Mac o Herman) si faceva avanti proponendomi dei Martini come li volevo io. Poi, dalla carrozza ristorante arrivava il maître con il menu e recitava un elenco di piatti golosi e invitanti. Quindi appariva un addetto dei wagon-lits annunciando: «Il suo bagaglio è nella carrozza C, scompartimento A, Mr. Capra». Gli allungavo un biglietto da dieci dollari e ordinavo un altro Martini. La sera che partii in uniforme non mi si fecero innanzi né facchini, né personale ferroviario, né il capostazione Mendenhall. Attraversai da solo la stazione affollata, camminando tutto sbilanciato dal bagaglio, una valigia di trenta chili da una parte e una di cinque dall’altra, cercando fra l’altro di non farmi scivolare sugli occhi il berretto da ufficiale che avevo comprato prima del taglio di capelli regolamentare. Dopo aver penato per raggiungere il vagone letto vicino al bagagliaio e buttate le valigie oltre le tendine della cuccetta in basso, mi trovai faccia a faccia con la nuova tortura delle cuccette. Poiché, che lo si creda o no, io ero un po’ come l’arabo che era passato di colpo dal cammello al Jet. In una volta sola ero passato dalla paglia degli sferraglianti vagoni merci alla musica in sordina, al tintinnio del ghiaccio, ai soffici cuscini della cabina di lusso. Come Frank Capra regista non vedevo mai l’ora di scendere a Chicago per le quattro ore di attesa fra un treno e l’altro. C’erano fotografi e intervistatori e una limousine per condurci al Pump Room per una lunga deliziosa colazione e piacevoli conversari con Tru Kupcinet e Irene Thirer. Come maggiore Frank Capra mi trascinavo i miei trentacinque chili di bagaglio verso l’ingresso dei taxi dove passeggeri infuriati si scannavano per le auto che entravano forsennate schizzando neve lurida ovunque. «Ehi, capitano!», urlò un addetto spingendo la gente nei taxi. «Vai alla 20th Century?» «No», dissi io, «all’altra staz...» «Lascia perdere!», borbottò e mandò via il taxi. «Meglio che ci vai a piedi. Non ti tira su nessuno per fare solo tre isolati!» Presi le mie valigie e via! In mezzo alla neve. Mi tiravano le braccia, il freddo e il sudore mi accecavano. Ma com’era bello sentire la sofferenza e il male di uno sforzo fisico, l’impegno di combattere contro qualcosa e di vincere, anche se quel qualcosa era soltanto il peso delle valigie. «C’è Mr. Swazey?», chiesi al portiere dell’Hotel Carlton di Washington. «Se è per una prenotazione, signore...» «No. Gli dica che Frank Capra di Hollywood avrebbe piacere di salutarlo». Frank Swazey si materializzò dietro il banco coi suoi settanta chili di garbata cortesia, bellezza
e spiritosa intelligenza. «Bene, bene, Frank Capra! Cosa c’è? Mr. Smith ritorna a Washington? E quell’uniforme è un travestimento per sfuggire agli inseguitori del Press Club? Che ne dici di una tazza di caffè? Sembri uno di quei poveri bastardi che hanno invaso Washington». «Quali poveri bastardi?» «Quelli che giostrano intorno a Esercito e Marina. Son tutti barba, pelle e ossa. Entrano nel mio bar alle cinque e si addormentano prima di aver finito di bere, poveretti!» Entrammo nella suite dirigenziale. «Un nostro amico vuole una tazza di caffè!» La dolcissima moglie di Swazey ci venne incontro salutandoci (eravamo diventati amici ai tempi dei sopralluoghi per Mr. Smith). Poi preparò uova e prosciutto da accompagnare al caffè. «Frank», continuò Swazey, «certo è possibile che il Corpo Trasmissioni non ti tenga a Washington, ma se la cosa accade la sola via sicura per avere un posto dove dormire è mettersi a convivere con una segretaria che abbia un appartamento. Sto scherzando, asino! Mai visto niente di simile, Frank! La vecchia capitale è il nuovo Klondike. Ogni disperato, dal Maine alle Hawaii, che abbia almeno una borsa degli attrezzi è qui a Washington per ottenere un contratto governativo. Ne ho cinquanta che dormono nell’ingresso ogni notte in attesa che siano i clienti a buttarli fuori. C’è anche una nuova legge: se ne tieni uno più di cinque giorni in una camera d’albergo ti becchi trenta giorni di galera». «Swazey, mi spezzi il cuore, ma io lascerò le mie valigie nel tuo albergo. E, a meno che tu e tua moglie non vogliate un terzo incomodo nel letto, sarà meglio che mi fissi una stanza, uno sgabuzzino, qualcosa...» «Te ne pentirai. Ti darò il mio asso nella manica fuori lista Stanza per una notte 308 S.P.A. Solo per amici... quando li trovo in mezzo a una strada». «Ma perché una sola notte?» «Perché dopo una notte preferiscono ritornare in mezzo alla strada!» Fui fortunato durante la mia prima visita al Pentagono. Dopo molto chiedere, molto rispondere a indice puntato e dopo aver girovagato per miglia e miglia – così sembrava – di corridoi e scale, svoltai sfiduciato a un angolo e... eccolo finalmente! L’uomo a capo dell’Army Pictorial Service del Corpo Trasmissioni: il colonnello Schlosberg. L’Army Pictorial era stupendo: una serie di uffici elegantissimi. Passai accanto a molte stanze indicate come «sale di proiezione». Ci buttai dentro un occhio e vidi poltrone con cuscini rossi imbottiti e tutta l’attrezzatura più moderna. Eccezionale. Passai davanti a una porta dove si leggeva: «Tenente colonnello Darryl Zanuck». Mi sentivo proprio come a casa. Zanuck era stato arruolato per supervisionare la produzione dei film di addestramento e ora aveva avuto il permesso a lunga scadenza di assentarsi dal suo lavoro di vicepresidente e di produttore capo della 20th Century Fox per devolvere tutto il suo tempo all’Army Pictorial Service, il dipartimento del Corpo Trasmissioni deputato al materiale filmico e fotografico. Era l’uomo hollywoodiano per eccellenza in servizio al Corpo Trasmissioni. Il colonnello Schlosberg era uno degli ufficiali del Corpo Trasmissioni che molti mesi prima mi aveva arruolato, e quando il suo segretario disse che il colonnello voleva vedermi entrai nel suo ufficio tutto eccitato. Il colonnello Schlosberg era un ciccione il cui peso sembrava concentrato tutto nel fondo schiena, come una cima rovesciata. E infatti tutto ciò che concerneva il caro colonnello era pesante come il suo culo. Aveva lo humour di una torta non lievitata, lo charme di una carriolata di cemento e il tatto di un massaggiatore di Mack Sennett. Ma lui sapeva di sedere sul trono di un impero cinematografico, rivale della stessa Hollywood, ed era ben deciso a non avere intrusi fra i piedi. «Capra», rise sgarbato, «non si dia neanche la pena di appendere cappotto e cappello. Lei non è
stato assegnato al Corpo Trasmissioni». Rimasi di ghiaccio con un braccio fuori dal soprabito. «Non son stato cosa?» «Da oggi lei è assegnato permanentemente a quel servizio di fresco conio a cui hanno pensato alcuni specchiati signori senza uniforme: il Morale Branch, destinato al sostegno morale delle truppe. Il generale Osborn ha chiesto formalmente che lei gli dia una mano a scovare idee per film che, con l’approvazione dei superiori, saranno prodotti dal Corpo Trasmissioni. Il comandante in capo delle Trasmissioni ha approvato la richiesta cosicché questi sono gli ordini per lei: presentarsi immediatamente al Morale Branch, sotto il comando del generale Osborn, nella sede provvisoria H, in Pennsylvania, vicino agli uffici della Marina. Si può andare in taxi...» «Un minuto, un minuto, colonnello. Io faccio film, che diavolo ne so io del morale? Io mi sono arruolato volontario nel Corpo Trasmissioni perché è qui che si fa qualcosa!» «Capra, lei non può permettersi di scegliere, come fa a Hollywood. Lei è nell’esercito adesso. Lei è un corpo qualunque che il comandante in capo delle Trasmissioni può mandare dove vuole». «Colonnello Schlosberg, lei mi ha arruolato. Come la prenderebbe se adesso le lasciassi la mia uniforme per souvenir?» «Voi stronzi di Hollywood siete tutti uguali, non c’è palo che vi entri nel culo. E se non riuscite a ottenere quello che volete, date in ismanie!» «È vero, ci mettiamo a urlare se ci prendono per il culo. La verità è che lei non vuole me nel Corpo Trasmissioni. Non ho ragione?» «Un Darryl Zanuck da queste parti basta e avanza. Voi di Hollywood non avete niente a che vedere coi sistemi di produzione cinematografica dell’Esercito». «Lei vuol dire che io non ho niente a che fare con quella porcheria che voi fate passare come film d’addestramento. È questo che intende, no?» «Già, per lei sarà anche porcheria, ma per noi sono seri film d’Addestramento. Comunque, questi sono gli ordini: il maggiore Frank Capra, 0900-209, Corpo Trasmissioni, è assegnato a tempo indeterminato al Morale Branch». Nella sede provvisoria H, tirata su con muri di cartone – del resto era stata una sede provvisoria anche durante la prima guerra mondiale – trovai il Morale Branch che era già stato ribattezzato «divisione Servizi speciali». Era una tana piena di ufficiali, fogli e misere scrivanie. Fui accompagnato nell’ufficio del comandante di brigata Frederick H. Osborn, un metro e ottanta di altezza, perfetto in uniforme, educato, testa fra le nuvole, intellettuale, di maniere eleganti. Osborn aveva studiato a Princeton e si era infine laureato in antropologia alla Cambridge University. Dapprima, nel 1940, fu incaricato dal Governo di guidare un’organizzazione civile, la Commissione Esercito-Marina di assistenza e ricreazione. Fu notato dal capo di stato maggiore George C. Marshall, che lo promosse comandante di brigata chiedendogli di organizzare il Morale Branch. Il comandante mi aspettava. Quando si accorse, stringendomi la mano, di torreggiare sopra di me, educatamente si sedette e mi presentò al suo ufficiale in appoggio, il colonnello Livingston Watrous, un uomo coi capelli grigi intorno alla settantina. «Ebbene sì, Mr. Capra», disse l’uomo dai capelli grigi, con un sorriso altrettanto grigio. «Lei vede l’esercito combattere sulla carta. Quindi hanno detarmizzato centinaia di noi vecchi colonnelli a riposo per insegnare a voi, nuovi venuti, come si vince la guerra di carta». «Bella fortuna», pensai io, «esser finito con il generale più alto dell’esercito e col colonnello più vecchio». Quasi leggendomi nel pensiero il comandante Osborn mi chiese gentilmente di presentarmi al mio immediato superiore, un certo colonnello E.L. Munson Junior. «Capo del servizio informazioni», disse, «suddiviso in sezioni stampa, radio, opuscoli e film». «E siamo tutti in una stanza finché non ci trasferiamo al Pentagono», rise il colonnello
detarmizzato mentre mi conduceva in una stanza ingombra di scrivanie e ufficiali. Mi presentò al colonnello Lyman Munson, un uomo piccolo e ben piantato. «Viene dall’Accademia di West Point!», disse con grande enfasi il grigio colonnello. Ci stringemmo la mano. Gran baccano di sedie strascicate per vedere come era fatto dal vivo un personaggio hollywoodiano. «Lei è il capo dell’intera divisione Cinema, maggiore», disse il colonnello Munson in modo molto espansivo (fu lui per primo a farmi sorgere il sospetto che la maggior parte di quelli che vengono da West Point sono spiritosi, sapidi, disponibili). «Proprio così. Dato che è lei tutta la divisione Cinema. E questo è il suo ufficio – e indicò una delle sei scrivanie di compensato – ma non mi chieda che cosa debba fare esattamente perché dire che lo so sarebbe come dire che sono un figlio di puttana». Bene, pensai fra me e me, questi giocherelloni del Morale Branch hanno un entusiamo da bambini; almeno non ero capitato con qualche colonnello del cazzo seduto sul suo nido a covare un impero di uova. Ma ero ancora troppo risentito contro Schlosberg per non vedere un bastardo dietro ogni uniforme. «Colonnello Munson, essendo il pazzo che ha voltato le spalle a Camelot, capirà che non faccio i salti di gioia all’idea di dirigere una divisione Cinema di una sola persona in una Morale Branch di una sola stanza». «Bene, benvenuto nella terra della fantasia», disse ammiccando. «Prendiamoci un caffè e andiamo a conoscere gli altri cappellai matti». Il primo che mi presentò era il tarchiato, minaccioso «Slam», il maggiore S.L.A. Marshall del Detroit News, che stava organizzando il servizio stampa dell’esercito. Poi incontrai il tenente colonnello Frank Forsberg, editore di una rivista popolare in Madison Avenue. Stava mettendo insieme una nuova rivista per l’esercito che si chiamava Yank. E il maggiore Paul Horgan, scrittore di opuscoli per l’esercito che spiegavano alle truppe come comportarsi all’estero, «e di non dimenticare mai», disse Munson, «che ogni ragazza ha sempre dei fratelli». Poi un dottor Sam Stauffer («Non ho ancora capito che diavolo fa») seguito da un educatore di Harvard che di nome faceva maggiore Francis Spaulding («è a capo del gruppo torre d’avorio della ricerca», disse Munson). «Ricerca», chiesi, «di che cosa?» «Da dove vieni, Hollywood?», sorrise sornione il colonnello Munson. «Non hai mai sentito parlare dell’ID? Test psicoattitudinali... sono la novità di adesso». «Colonnello Munson, a giudicare non tanto dall’aspetto degli ufficiali presenti ma dal loro titolo, si direbbe che sono capitato nel quartier generale della propaganda dell’esercito degli Stati Uniti. È così?» «Se lo fosse», rispose il colonnello Munson ironicamente, «Goebbels finirebbe a pancia all’aria dalle risate. No, siamo Servizi speciali, i sostenitori del morale delle truppe. Noi riempiremo le reclute di immagini destinate a provare quanto siano stati cretini a lasciare la loro casa – musica, pin-up, cinema, fumetti, baseball, tutte le dolci tentazioni del mondo. Noi dobbiamo tener alto il loro morale, no? E il suo come va?» «Non è mai stato più basso». «Ma bravo! E adesso mi dica, maggiore Frank Capra, barone hollywoodiano, non conosce per caso Tom Lewis?» «Conosco un Tom Lewis, il marito di Loretta Young». «Proprio lui. Noi crediamo che sia la persona più adatta a dirigere la nostra sezione radio. Lo conosce bene?» Non pensavo che il mio umore potesse cadere ancora più in basso, ma con quella domanda me lo fecero proprio a pezzi. Nello spazio di una sola mattinata ero stato silurato al Corpo Trasmissioni, costretto a stare fianco a fianco con vecchie guide dei boyscout il cui obiettivo più importante era
giocare a baseball con uomini arruolati, e adesso mi si chiedeva di fare il ruffiano per reclutare grossi nomi dello spettacolo per il Morale Branch. Sissignore! Una scrivania sfondata, un telefono e io: alto il morale, basso il morale, che battaglia stavamo mai combattendo? Mi venne su un conato di vomito. Mi diressi verso il bagno. «Mi scusi signor colonnello. Dov’è il...?» Munson mi fece segno a destra. Nell’ingresso c’erano molti più ufficiali di quanti ne poteva contenere, e a far ressa per il bagno c’erano molti più ufficiali di quanto ne tornavano. Mi spinsi in quella folla. Avevo tutt’intorno uomini più grandi di me ed ero come intrappolato in un crogiuolo di gente sudata che, per la tensione nervosa, pisciava quasi solo ammoniaca. Davanti alla porta d’ingresso della divisione Servizi speciali mi stavano aspettando il colonnello Munson e un altro ufficiale della sua stessa stazza. Entrambi con soprabito e berretto. «Frank», disse Munson, «le presento Jack Stanley. Lo charme è la sua carta vincente. Un bene acquisito a West Point...» Saluto e stretta di mano. «Jack, Frank ci stava dicendo che conosce bene Tom Lewis». «Colonnello Munson, sarò franco con lei. Conosco Tom Lewis abbastanza bene da dirgli di starsene lontano dall’esercito a meno che non sia sua precisa intenzione diventare un “corpo” in più da esser preso a calci da qualche superiore di merda. E lo conosco abbastanza per impedirgli di essere risucchiato in un ruolo di grande responsabilità... messo a capo di una sezione di cui lui è il solo uomo, nella sola stanza di cui consiste il settore per il sostegno morale delle truppe. Come vede sono un pessimo ruffiano, colonnello Munson». Sembravano esterrefatti. «Lyman», disse Jack Stanley, «qui c’è qualcosa che non va. Non può essere lui l’uomo per cui si sono fatte tutte quelle riunioni». «Se non è lui gli facciamo alzare i tacchi e lo buttiamo fuori. Prendi il suo berretto e il soprabito, Jack!» «Sarà un piacere!» Stanley si fiondò negli uffici del Morale Branch. «Maggiore Capra», disse Lyman duramente, «lei sta per ricevere il primo ordine da un suo superiore di merda. Lei dovrà accettare il mio invito a pranzo». Stanley riapparì con berretto e soprabito in mano. «Dietrofront!» Lyman mi infilò il soprabito e me lo abbottonò. Jack mi mise in testa il berretto. Era troppo largo. «Ecco un bel problema! La testa di questo qui è troppo piccola per il berretto. Glielo aggiusto io!» Prese dalla tasca un foglio, lo strappò in tante strisce e lo infilò nella banda interna del berretto. Poi me lo calcò in testa. Andava bene. «E quando ti crescono i capelli togli una striscia alla volta. Pronto, Lyman?» «Pronto». Mi presero sottobraccio. Uno di qua uno di là mi trascinarono a pranzo. Una volta seduti nel seminterrato del ristorante Vecchia New Orleans mi ordinarono un paio di drink e un pranzo che durò tre ore. Loro non presero niente da bere prima del tramonto. Fu Jack Stanley ad aprire l’udienza. «Frank, tu puoi anche pensare di essere stato buttato fuori a calci dal Corpo Trasmissioni da quel Schlosberg e lui può pensare di averlo fatto, ma vi sbagliate entrambi. Sei stato arruolato nel Corpo Tramissioni e assegnato ai Servizi speciali su personale richiesta di un tal generale George C. Marshall, capo di stato maggiore di tutta la baracca». «Ma torniamo indietro un attimo, Jack», disse il colonnello Munson. «Tu sai non meno di noi che propaganda è una parolaccia per il pubblico americano. E sai che il Congresso è sempre stato molto diffidente verso le notizie “manipolate”, verso qualsiasi propaganda destinata a nutrire un pubblico coatto di milioni e milioni di soldati. Ma quel che conta è la fiducia duratura di cui l’esercito continua a godere...» Lyman continuò dicendomi che i giovani americani non avevano bisogno solo di cure e pasti garantiti, più di tutto avevano bisogno di sapere perché mai si trovavano
in uniforme. E così dietro l’innocente facciata del Morale Branch l’esercito era pronto a far uso di tutti i mezzi di comunicazione moderni – carta da giornale, radio, cinema – per dirglielo, quel perché. «E per garantire la necessaria obiettività», continuò Lyman, «i capi avevano scelto un repubblicano, un uomo già noto per il suo profondo senso civico e per il suo comportamento impeccabile come il generale Osborn, per guidare il Morale Branch, nuovo di zecca». «E per renderlo accettabile», disse Jack Stanley, «agli imboscati militari inflessibili gli alti gradi hanno scelto uno di West Point e il figlio di uno di West Point, il nostro Lyman Munson, perché gestisse il materiale informativo dell’esercito: giornalismo, radio, e film». Così Munson era dell’avviso che per stampa e radio poteva tranquillamente avere personale e apparecchiature, mettere in piedi nuovi organismi e nuove procedure senza infastidire nessun altro settore dell’esercito. Ma per il cinema era tutta un’altra cosa. La fotografia e tutto ciò che ne era derivato era di competenza del Corpo Trasmissioni sin dalla guerra di Secessione. Potente, impenetrabile, geloso, il Corpo Trasmissioni non sarebbe stato con le mani in mano davanti a un’altra unità dell’esercito che andava matta per il cinema. Eppure e qui entravo in campo io – Osborn e Marshall non pensavano che l’Army Pictorial Service del Corpo Trasmissioni sarebbe stato in grado di produrre per le truppe film di informazione obiettivi e ricchi di sensibilità umana. «Proprio allora ti sei presentato volontario tu», disse Stanley, «e tu sei stato la risposta alle preghiere del generale». Marshall, Osborn e Munson avevano detto: «Ecco il nostro uomo!» Marshall a quel punto aveva aggiunto soltanto: «Che il Corpo Trasmissioni arruoli pure Capra, ma poi assegnatelo a Osborn, onde possa avere rapporti diretti con me». «Vedi Frank», disse Munson, «quell’idea di film che spieghino “perché” i giovani si ritrovano con un’uniforme addosso è un pargoletto di Marshall, e lui desidera che la nursery sia proprio a fianco dell’ufficio del capo di stato maggiore». A quel punto lasciarono che quanto detto sino allora fosse assorbito ben bene, poi Munson chiese: «Allora, pensi ancora di essere qui per procurarci attrazioni e fantasisti?» «Amici, posso avere ancora da bere?», dissi porgendo il bicchiere al cameriere vestito di rosso. «Lyman... Schlosberg mi ha detto che dovevo buttar giù idee per film destinati a tirar su il morale, realizzati peraltro da loro. Questo vuol dire che i film saranno comunque del Corpo Trasmissioni, non miei, non di Osborn, non di...» «È per questo che sei stato scelto. Osborn pensa che quando uno è riuscito a conquistare un’istituzione come Hollywood, può fare la stessa cosa nell’esercito». «Per amor di Dio, Lyman. Un’altra volta no! Non nell’esercito!» 38. Arriva John Doe, 1941. Poi I dominatori della metropoli, 1956. 39. Tre anni dopo mi accadde di parlare del mio interesse per la scrittura in codice a Ingles, il comandante del Corpo Trasmissioni dell’Esercito. Sorrise. E mi chiese se avevo fatto parte del segretissimo Signal Corps Communication Center del colonnello Friedman. Gli dissi che no, che non ne avevo fatto parte e lui lasciò cadere il discorso. Mi consigliò però di vedere un film didattico segreto sull’M-102. Più tardi vidi il film alle Hawaii. L’M-102 era un apparecchio per la scrittura in codice, e pensai: fratello gemello del nostro. Voi tutti, inventori chiusi in una catapecchia, fatevi avanti! 40. Arsenico e vecchi merletti, 1944. 41. Film prodotto in fretta e a basso costo. [n.d.t.]
PARTE TERZA
LA GRANDE GUERRA
17. PERCHÉ COMBATTIAMO
Era difficile stare dietro a Lyman Munson mentre mi guidava in quel labirinto che è il Pentagono. Filava dritto davanti a me più veloce di un razzo. E in realtà anche quando stava fermo sembrava una tromba d’aria. Non scorderò mai come si infilò la giacca d’ordinanza senza rallentare il passo. Tenendola per il bavero con entrambe le mani la lanciò in aria sopra la testa facendo abilmente in modo che le maniche scivolassero lungo le braccia tese: la giacca era su, e Munson aveva mantenuto la sua andatura. Lyman in realtà doveva essere sempre di corsa onde poter star dietro – come guida, bambinaia, capo boyscout – alle dozzine di civili permalosi che aveva tirato per la manica della giacca dentro l’esercito: altezzosi e arroganti professori di Harvard non abituati a parlare a gente comune, ottusi giornalisti per i quali i «canali» avevano solo a che fare con i pubblicitari di Madison Avenue per i quali valeva il principio che «se una bottiglia è carina puoi vendere acqua salata», autori la cui parola era sempre vangelo, e «nomi» di Hollywood che non avrebbero fatto un passo se non sul tappeto rosso delle grandi occasioni. E ora Munson mi stava accompagnando all’ufficio del capo di stato maggiore. Il generale George C. Marshall mi aveva fatto chiamare. Voleva parlarmi a quattr’occhi. Non appartenendo al mondo militare non avevo compreso bene che quell’incontro equivaleva a un’udienza privata dal Santo Padre. Ci fermammo davanti a una porta con la targa CAPO DI STATO MAGGIORE. «Dai le tue generalità alla guardia che sta dentro. Quando ti viene detto di andare, entra nell’ufficio di Marshall senza bussare. E soprattutto non fare il saluto militare. Se lui è occupato avvicinati alla poltrona a destra della scrivania e siediti. Guardalo negli occhi, Frank, e sii stringato nel parlare. Arrivederci!» Una volta solo andai in cerca di un lavabo, per bere. In verità l’acqua era un ben povero antidoto contro la gola stopposa che avevo. Provai paura e nostalgia, un improvviso incontrollabile desiderio di volare a casa dalla mia famiglia, di sparire dentro il calore amoroso di mia moglie e dei miei figli. Invece no, sentivo i piedi inchiodati a terra, come in un brutto sogno. Mi passavano accanto degli ufficiali che nemmeno mi notavano. Avevano facce tirate, mal rasate. Mi piegai sotto il rubinetto lasciando che l’acqua rinfrescasse le mie labbra secche, febbricitanti. Quindi mi diressi verso la porta del capo di stato maggiore. Eccolo là seduto alla scrivania, molto semplice, normale, quasi spento. Spuntava delle voci su una lista, tranquillo. «Non fare il saluto militare!», mi aveva raccomandato Munson. Ci avessi provato sarei finito disteso faccia a terra. Senza muovere minimamente il capo mi lanciò un’occhiatina veloce. Risposi automaticamente: «Maggiore Capra, signore». Tornò a guardare le carte. Be’, pensai fra me e me, dovessi scritturarlo gli farei fare la parte di un povero contadino che si vede portar via la terra. La poltrona a destra della scrivania era là. La raggiunsi e mi ci sedetti, ma sul margine, incollando il palmo delle mani alle ginocchia che tremavano forte. E aspettai. Ero impressionato dall’estrema capacità di concentrazione di quell’uomo. Sembrava che la sua mente fosse tutta lì su ogni voce che via via leggeva e approvava. Scarabocchiando velocemente qualcosa rivolse il suo sguardo verso di me con un debole sorriso. «Buongiorno, Capra. Lei sa bene che è un motivo di costante incitamento sapere quante belle
menti stiano abbandonando carriera e famiglia per entrare nell’esercito. E con una dedizione totale, pari solo alla terribile emergenza che stiamo vivendo». I suoi occhi splancati cercarono i miei. «E questo è splendido. È l’America. Lei, Mr. Capra, mi consenta di chiamarla così per un momento, ha l’opportunità di dare un contributo immenso al suo paese e alla causa della Libertà. Ne è consapevole, signore?» Sapevo che era molto importante per lui il modo in cui avrei risposto. Eppure tutto ciò che riuscii a balbettare fu: «Ebbene, generale Marshall, io... cioè... se lei mi sta chiedendo se ho una paura fottuta le risponderò che sì, ce l’ho!» Le pieghe sottilissime di un sorriso si aprirono a raggio dagli angoli della bocca andando a fondersi con le rughe intorno agli occhi. Seppi che avrei potuto innamorarmi di quell’uomo. Mi parlò con grande franchezza per circa un’ora. Mi disse che stavamo radunando un esercito immenso, quasi otto milioni di persone, e si cercava di trarre da quei ragazzi, che perlopiù non avevano mai visto un fucile, dei buoni soldati. Stavano per essere sradicati dalla vita civile e scaraventati nei campi militari. Perché ciò accadesse non era così chiaro in loro. «In brevissimo tempo», disse, «avremo un mastodontico esercito di cittadini nel quale i soldati di leva saranno di gran lunga più numerosi di quelli di carriera, in un rapporto di 50 a 1. Possiamo anche esser convinti che proprio questa sia la nostra forza, ma la Germania e il Giappone ritengono che questa è invece la nostra più grande debolezza. I nostri ragazzi, dicono loro, saranno troppo molli, troppo abituati a una vita piacevole, troppo indisciplinati per reggere contro i loro eserciti di professionisti addestratissimi, indottrinatissimi, motivatissimi. Sono sicuri che lo spirito e il morale dei loro soldati, presi uno a uno, sia ben più alto di quello dei nostri. Ciascuno dei loro ha qualcosa per cui combattere e morire: la vittoria del superuomo che aprirà la nuova epoca della supernazione. Un bottino così è il massimo incentivo per ottenere la vittoria». «Allora cosa possiamo opporre all’incentivo del superuomo, noi? Sì, certo, contiamo sul fatto che se qualcuno ci spara contro, non fa differenza che il bersaglio si un individuo o l’intera collettività, gli americani sono pronti a rispondere al fuoco come tigri. Perché? Perché gli americani hanno una lunga confidenza con la lotta per la sopravvivenza. Ma c’è in gioco un altro interrogativo: i giovani, liberi come sono da vincoli e condizionamenti, sapranno assimilare la disciplina d’acciaio dell’addestramento militare, sopporteranno il freddo assassino della regione artica, il caldo allucinante del deserto o la fetida melma della giungla? Sapranno reagire ai malesseri psicologici di cui tutte le truppe sono preda: assuefazione e nostalgia? A mio giudizio la risposta è sì! I giovani americani, e così i giovani di ogni paese, sono abituati ad agire e a pensare solo per se stessi. Dimostreranno di non essere da meno, se non superiori, ai soldati dei regimi totalitari se, ed è un se grande come una casa, avranno valide risposte ai loro interrogativi e se quelle risposte coincideranno con una causa per cui si possa combattere e morire. «Questo è il nostro lavoro, Capra, anzi il suo lavoro. Per vincere questa guerra bisogna innanzitutto conquistare la mente di ogni uomo. Osborn e io crediamo che i film possano contenere quella risposta e che lei sia la risposta al bisogno di film concepiti in tal senso. Ora, Capra, voglio metter giù con lei una scaletta per realizzare una serie di film ricchi di testimonianze e di informazioni – i primi della nostra storia che sappiano spiegare ai nostri ragazzi perché siamo in guerra e i principi per i quali stiamo combattendo». «Generale Marshall, devo confessarle che io non ho mai fatto documentari. Né ho mai visto qualcuno che li faceva». «Capra», disse lui con un filo di insofferenza nella voce, «io non sono mai stato capo di stato maggiore prima d’ora. Migliaia di americani prima d’ora non sapevano cosa significasse restare senza gambe. Sulle navi ci sono ragazzi che fino a un anno fa non avevano mai visto l’oceano». «Mi scusi, signore. Li farò, signore, farò i migliori documentari che siano mai stati fatti sino ad
ora». Sorrise. «Ne sono certo. A tutti noi viene chiesto di fare ciò che non ci si era mai sognati di fare. A lei sto chiedendo di dire ai nostri ragazzi perché si sono ritrovati in uniforme, perché devono combattere. Questi film vengono prima di tutto. Manderò a lei e a Osborn un ordine direttivo che formalizzi questa priorità assoluta. Lavori come lavorava a Hollywood. Per qualsiasi seria difficoltà faccia immediatamente ricorso a me. Domande?» «Tantissime, signore. Ma le risposte le troverò da solo», dissi alzandomi. Lui mi lanciò una svelta occhiata obliqua. «Grazie, Capra». In quella rapida occhiata, prima di tornare alle carte, gli occhi azzurrini di quel tranquillo uomo severo fecero sentire la terribilità del potere, rivelarono la solitudine della sua anima, il costante rovello che dimora sempre nell’intimo di tutti quelli che devono prendere delle decisioni. Uscito dall’ufficio del generale Marshall entrai in un bagno e mi ci chiusi dentro, per essere solo e far mente locale. La fiducia connessa alla responsabilità dell’incarico era da sola sconvolgente. «Dica ai nostri ragazzi perché si sono ritrovati in uniforme, perché devono combattere». Sì, già. E anche perché un bel po’ saranno fatti a pezzi. Sempre i giovani, sempre il fiore della gioventù. Non è forse vero che al vecchio Abramo il Signore chiese in sacrificio il giovane Isacco? Non avevo la minima idea di come fare un documentario. Per me i documentari erano dei filmacci girati da tipi eccentrici coi capelli lunghi. Inoltre non ero ferrato sulle ragioni e sulle cause del conflitto. Non potevo contare su un assetto organizzativo né su dei preventivi. In compenso avevo un ordine preciso da parte del capo di stato maggiore e una scrivania in una stanzetta in mezzo ad altre cinque scrivanie e una targhetta con su scritto: Maggiore Frank Capra, Sezione Orientamento Cinema. E io ero tutta quella sezione. Poco dopo aver ricevuto l’ordine di fare la serie «Why We Fight»42 vidi il terrificante film di Leni Riefenstahl Il trionfo della volontà. Era un film che preludeva al terribile olocausto di odio a cui Hitler avrebbe dato l’avvio. Il diavolo in persona non avrebbe saputo mettere in piedi uno spettacolo più agghiacciante. Con i mezzi messi a disposizione dall’impero cinematografico della UFA alle dirette dipendenze del potere nazista, Leni Riefenstahl aveva realizzato un film di propaganda destinato a restare un classico del genere. Era al contempo una glorificazione della guerra, la divinizzazione di Hitler e la beatificazione dei suoi apostoli. Benché irrorato di tutte le seduzioni mistiche e di tutta la maestosità di un’opera di Wagner il suo messaggio era brutale e pesante come piombo: «Noi, popolo superiore, siamo i nuovi dei invincibili!» Il trionfo della volontà non sparava colpi di fucile, non buttava bombe, eppure come arma psicologica funzionava perfettamente e mirava a distruggere ogni opposizione, e, in tal senso, era letale. Il film si apriva con un’eccezionale dimostrazione di come si costruisce una divinità. In un’aura di musica celestiale, una invisibile e mistica macchina da presa fotografava lo spirito invisibile di Hitler che scendeva sulla terra dalle nubi e dalle stelle del Walhalla finendo per posarsi delicatamente sulla bella campagna tedesca. Il messia del male svolazzava invisibile sui tetti delle case e una moltitudine di isterici nazisti acclamanti salutavano la visitazione con l’ovazione Sieg Heil!, offrendo incenso di adorante follia al loro redentore. La musica sfracassava il suo Crepuscolo degli dei sopra gli dei della libertà. Il superno spettro atterrava in un aeroporto. Si fermava e poi... silenzio. Si apriva magicamente una porta dall’aeroplano e l’oscura cornice vibrava di mistico mistero. Indi lo spirito del dio si materializzava nel Führer, raggiante in uniforme, fra le svastiche. Poi
veniva avanti, batteva i tacchi e salutava i prescelti con il saluto nazista e a quel punto Thor faceva sentire tutta la sua potenza. Un coro di SIEG HEIL! rintronava nell’aria frantumandosi in mille echi tonanti. Il congresso di Norimberga dei superuomini era aperto! Centomila soldati – in armi, stivali e drappeggi di svastiche – stavano sull’attenti immobili in file perfette, mentre l’odio andava da solo verso il suo altare di microfoni. La Voce dell’Odio risuonava da milioni di radio: «Noi siamo la razza padrona!» «SIEG HEIL!», rispondevano centomila gole. «Oggi la Germania, domani il mondo!» «SIEG HEIL! SIEG HEIL! SIEG HEIL! SIEG HEIL!» Poi Hitler si muoveva fra i suoi superuomini immobili sull’attenti. Biondi Sigfridi con stivali ed elmetti – le bandiere con le svastiche sventolavano intorno – i cui volti sembravano brillare di pagana follia quando Hitler li salutava uno per uno stringendo loro il braccio destro secondo l’uso dei guerrieri antichi, avambraccio contro avambraccio, occhi negli occhi in una sorta di ipnotica promessa che adombrava il giuramento di sangue dell’obbedienza. Un massacro di innocenti in massa va oltre l’umana capacità di comprendere, eppure, vedendo Il trionfo della volontà, chi non si fosse lasciato sopraffare dall’orrore avrebbe potuto prevederlo. Infatti, il messaggio del film era chiaro e brutale: «Il potere è nostro! Un potere imbattibile! Arrendetevi voi tutti balbettanti pappe frolle della libertà! Gli umili erediteranno solo la terra per scavarsi la fossa! Arrendetevi!» Quel film paralizzò la volontà in Austria, Cecoslovacchia, Scandinavia e Francia. Quel film pavimentò la strada ai blitz tedeschi. Quel film paralizzò anche la mia volontà, o così mi sembrava, mentre tornavo alla scrivania sfondata per sedere da solo, isolato in mezzo agli altri ufficiali, ciascuno chiuso nella propria inadeguatezza ad affrontare la sfida di quella guerra. Stavo lì da solo e pensavo. Come potevo organizzare un contrattacco al Trionfo della volontà e tener viva la nostra volontà di resistere alla razza padrona? Ero solo: non c’era l’organizzazione degli studios, una équipe tecnica, del personale capace di sorreggere i miei sforzi. Mettere al servizio della mia opera uno studio hollywoodiano era fuori questione. Se anche avessi avuto delle idee avrei dovuto passarle al Corpo Trasmissioni e lasciare che i film fossero realizzati da quelli là. Ma là c’era chi avrebbe saputo creare opere di propaganda potenti come Il trionfo della volontà? No. Il Corpo Trasmissioni era specializzato in film d’addestramento: come far funzionare mitragliatrici, costruire trincee, pulire fucili: il genere di supporti visivi del tipo «bulloni e affini» che spiegavano i come e non certo i perché di una guerra. Il livello del conflitto era troppo alto, complicato e folle per degli ufficiali che trattavano ancora i soldati come semplici «corpi». Dapprima ritornai al Corpo Trasmissioni per riferire al colonnello Schlosberg del comando ricevuto dal capo di stato maggiore. Lui rimase molto colpito, non certo per l’incarico che io avevo ricevuto ma per la crescente importanza che il suo impero cinematografico veniva assumendo. Sissignore, produrre film per l’alto comando dell’esercito! E vedeva luccicare sulle sue spalle una nuova stelletta, magari due. «Eccezionale! Eccezionale!», disse dandomi a ogni parola uno schiaffetto sulla testa. «Ha visto? Glielo avevo detto che il Morale Branch era il posto giusto per lei. Prepari le sceneggiature, se le faccia approvare e poi le faccia mandare a me, direttamente. Se le reputerò realizzabili, le siglerò come progetti avallati e numerati e le invierò al colonnello Gillette ad Astoria, Long Island». Mi controllai. Feci valere le mie ragioni, mi appellai al suo Dio, al suo paese, all’emergenza. «Li faccia girare a me questi film speciali per il generale Marshall; ha la mia parola che non interferirò né modificherò l’assetto che lei e il colonnello Gillette avete dato alla produzione». «E, no, caro, puoi scommetterci il culo! Se te lo lascio fare sono sicuro che tutti i Tom, i Dick, gli Harry dell’esercito vorranno fare il loro film, sull’assistenza sanitaria, i trasporti, l’artiglieria, e su chissà che altro. No! Solo il Corpo Trasmissioni può mettere le mani sul film. Così è scritto
nell’atto costitutivo e nessuno può metterlo in discussione, nessuno! Neanche il tuo capo di stato maggiore!» E allora avanti. Un’altra battaglia contro la stupidità radicata. «Colonnello Schlosberg, so che questa guerra sta buttando giù un sacco di castelli di sabbia. Anche per il mio è andata così, lo sa bene. Ma ora lei è in un esercito di soldati di leva e noi tutti soldati di leva vogliamo solo una cosa: spogliarci di questa maledetta uniforme più velocemente possibile, niente di più. Il capo di stato maggiore ora mi ha dato un lavoro urgentissimo da fare e, atti costitutivi o meno, io lo farò. Ha capito, colonnello? Dunque, perché non mi viene incontro prima che le cose diventino difficili per tutti noi?» «Sta cercando di minacciare un suo superiore?» «Balle, Signore! Sono l’idiota del villaggio che sta cercando di salvare la testa al suo superiore». Era un decreto del destino che io dovessi sempre combattere contro le istituzioni, tanto a Hollywood come nell’esercito? O stavo creandomi io l’ambiente adatto a nutrire l’ossessione di fare sempre il numero uno, qualsiasi fosse il lavoro che dovevo affrontare? Stavo forse trasformando il colonnello Schlosberg in un «cattivo» che mi sbarrava la via, un Golia che doveva essere abbattuto, come Harry Cohn e L.B. Mayer? Che cosa è altro, infatti, il destino se non il farmacista che firma le ricette che noi stessi ci prescriviamo? Avevo proprio bisogno di un «cattivo» per fare ciò che dovevo? E non ci fossero stati gli Harry Cohn, i Louis B. Mayer, i colonnelli Schlosberg avrei dovuto inventarmeli? Sarebbe stato molto stupido, se non addirittura sleale, consentire che i film «Perché combattiamo» fossero realizzati dai colonnelli del Corpo Trasmissioni che consideravano i soldati dei semplici «corpi». Colonnelli che erano ovviamente ostili al potere delle idee e che erano stati tanto ottusi da negarmi, in un primo tempo, il permesso di assistere alla proiezione segreta del Trionfo della volontà perché non ero ancora affidabile sotto il profilo della «sicurezza». Come dire che l’esperto a cui era stato affidato il compito di combattere la propaganda nemica non era abbastanza affidabile per vedere un film di propaganda del nemico. Non c’è da meravigliarsi se tutte le dittature sono destinate a cadere, prima o poi. Ben più importante di come e dove avrei dato corpo alle mie risposte al Trionfo della volontà era sapere quali sarebbero state quelle risposte. Di che cosa si sostanziavano? Quali erano gli antidoti contro le velenose idee della razza padrona – bionda o gialla che fosse? Avevo bisogno di un’idea di base, potentissima, di un’idea che bruciasse come un fuoco di legna vecchia, un’idea in cui tutte le idee fossero comprese. Mi venne in mente la Bibbia. C’era una frase che mi aveva sempre fatto venire la pelle d’oca: «Conoscerai la verità e la verità ti renderà libero». Significava anche che la verità ti rendeva più forte? Tanto forte da fermare Berlino e Tokio? Qual era la verità che concerneva questo conflitto mondiale? Ebbene per me era ovvio che i nazisti tedeschi, i signori della guerra giapponesi e i fascisti italiani volessero schiacciare le nazioni libere con la forza e imporre al mondo la loro dittatura. Se quella era la verità, gli uomini liberi dovevano opporvisi fino alla morte. Ma come potevo dimostrare ciò che mi appariva così ovvio? Illustrando il modo in cui attraverso atti, libri, discorsi e film, lo stesso nemico rendeva palese quella verità. Quella era l’idea chiave di cui stavo andando in cerca, in piedi nei corridoi del Pentagono, giacendo supino sul letto, piegato sulle ginocchia in chiesa. Sia il nemico stesso a far vedere ai nostri soldati l’orrore della sua causa, e la giustezza della nostra! Il colonnello Munson si sedette sulla mia scrivania strappandomi all’improvviso dai miei pensieri. Disse che da quando avevo visto Il trionfo della volontà stavo diventando sempre più
pallido. Lo rassicurai: il mio pallore era ben poca cosa rispetto alla rabbia che dentro mi stava facendo diventare sempre più verde. «Vieni, Frank, hai bisogno di un po’ d’aria. Andiamo a casa mia e vediamo cosa ha preparato mia moglie per cena». In macchina Lyman mi disse che il generale Osborn e il generale Surles, capo delle pubbliche relazioni dell’Esercito, avevano avuto degli abboccamenti con il generale Somervell, comandante in capo del G4 (servizio di approvvigionamento), per indurre il Corpo Trasmissioni a collaborare nella produzione dei film dei Servizi speciali. Il Corpo Trasmissioni, disse Lyman, aveva lanciato fiamme dalla bocca come un drago, durante quei colloqui. Munson mi rimproverò per aver firmato un assegno personale di tremila dollari alla Pathé News onde ottenere dei documentari storici che avevo ordinato al Corpo Trasmissioni ma che questo si era rifiutato di comprarmi. Invece aveva approvato il fatto che avessi assunto come consulente civile Edgar Peterson, un documentarista di Washington; e disse che avevo il permesso di assumere anche altri uomini di cinema come impiegati in servizio civile. Lyman Munson, figlio di un generale di West Point, e sua moglie, «Jimmy», figlia anche lei di un generale di West Point, vivevano in una piccola casa bifamiliare ad Alexandria in Virginia. La loro era la tipica storia d’amore e caserma di due figli dell’esercito. Nati e cresciuti in caserme si erano incontrati e innamorati dentro le caserme. Si erano sposati ed erano vissuti felici e contenti dentro le caserme. Mentre Lyman Munson preparava dei drink e Jimmy Munson cucinava piatti da far venire l’acquolina in bocca, fummo raggiunti dall’uomo numero due di Lyman, Jack Stanley, e dalla sua bellissima moglie. Con loro era venuto – sorpresa! sorpresa! – un capitano americano con due baffi rossi e un accento prettamente inglese, un uomo dello Yorkshire, i cui lunghi capelli fuori ordinanza rosso scuro sembravano non meno pieni di malizia dei suoi occhi sottili da furetto. Era Eric Knight, l’autore di The Flying Yorkshireman, delle storie di Sam Small, di This Above All e del romanzo Lassie Come Home. Per me fu amore a prima vista. Eric Knight aveva tutte le qualità di cui uno scrittore poteva disporre: intelligenza, spirito, sensibilità, uno stile intrigante e un grande, grande, grande amore per gli esseri umani. Possedeva la «potente idea che la bellezza dimori in ogni cosa», come diceva Keats. Ma soprattutto Eric era uno che sapeva stare in compagnia e certamente è stato uno dei tre uomini più affascinanti che ho conosciuto durante il servizio militare. Gli altri erano due suoi amici: il romanziere Paul Horgan e il pittore Peter Hurd. Dopo cena, mentre le donne erano in cucina a lavare i piatti, eravamo lì, noi quattro, due uomini di West Point, un apprezzato autore inglese e un regista hollywoodiano, e parlavamo di quello che per noi era un argomento senza fine: come combattere contro i paranoici che, sia a livello psicologico che sullo stesso campo di battaglia, avevano quasi convinto molte nazioni nel mondo e tanta gente nel nostro paese che era senza scopo e forse senza senso mettersi a combattere contro la struttura di potere della trinità fondata sul concetto della razza-padrona: Hitler, Tojo, Mussolini. Provai a esporre il mio progetto: usiamo i film del nemico per mostrare i suoi propositi liberticidi. Che i nostri ragazzi ascoltino direttamente i proclami dei nazisti e dei giapponesi sul dominio della razza padrona, e si renderanno conto di come mai si trovano a combattere. Eric balzò in piedi. «Frank, anche se non ti venisse un’altra maledetta idea, questa basterà. È lo stesso procedimento che usò San Tommaso d’Aquino: esponi i punti principali delle idee avversarie e poi polverizzale!» Anche Munson e Stanley erano entusiasti. «Bene», dissi, «ma il film devo farlo io. E, cosa ancora più importante, devo entrare in possesso dei film di propaganda del nemico. Chi ce li ha?» Non seppero rispondere.
«Lyman», dissi senza indugio, «scommetto dieci a uno che al Corpo Trasmissioni non si sono fatti venire in mente di mettere le mani sui documentari del nemico, ottusi come sono. Ma da qualche parte ci deve essere una grande riserva di quei film e col tuo permesso all’alba comincerò la caccia. E se ci metto sopra le mani stai sicuro che organizzerò una mia unità cinematografica per fare i film del generale Marshall, dovessi anche farli nello sgabuzzino delle scope in cui dormo al Carlton, stanza 308». Jimmy Munson mise la testa nella stanza per annunciare: «Brutte notizie alla radio, amici. I giapponesi hanno scacciato fuori da Bataan gli uomini di MacArthur. I poveretti si sono intrappolati nell’isola di Corregidor. C’è qualcuno che vuole un drink?» Nessuno rispose e lei ritornò in cucina. «Frank, cosa accadrà se Schlosberg ha già messo le mani su quei film del nemico?», chiese Munson senza scomporsi. «Piantala, Lyman! Frank ha i numeri del campione, caro mio. Perché non lo sosteniamo? Ma sì, i franchi tiratori dell’esercito spareranno su di lui, ma tu sai bene che non c’è arma che possa colpire le idee». Eric Knight doveva tragicamente dimostrare il suo punto di vista nel giro di un anno. Edgar Peterson, un giovane brillante, tutto vecchie maniere, al quale nulla sfuggiva dei segreti cinematografici di Washington, fu il mio primo impiegato in servizio civile. La sua presenza incrementò la sezione cinema del Morale Branch di un buon cento per cento... Io in realtà lo avevo assunto per trovare una sede dove tenere le trenta casse di nitrato (pericolosamente infiammabile) dei documentari che avevo comprato (col mio danaro) alla Pathé News. Mi disse che tutte le più scalcinate sale di montaggio di Washington erano affittate ma che conosceva un centro cinematografico del governo, poco conosciuto e praticamente in abbandono. L’unico problema era che apparteneva a Ickes, segretario degli Interni, e Ickes non era persona facile da trattare. Ma questo naturalmente era compito mio. Una costruzione di servizio quadrata, chiamata «Torre di raffreddamento», sorgeva proprio nel mezzo del cortile interno del palazzo degli Interni. Dentro c’erano tutti gli impianti di riscaldamento e raffreddamento che servivano gli edifici del dipartimento degli Interni. I primi due piani erano però occupati dal centro cinematografico del ministero degli Interni con sale di montaggio, sale di proiezione e cineteca di film 16 mm. C’erano anche due vecchi proiettori per pellicole 35 mm. Ovviamente qualche privilegiato i film li vedeva là dentro. Noi trovammo due incaricati in servizio civile che facevano finta di essere molto occupati. Uno, Mr. Dame, era il capo, l’altro, Walter West, il sottoposto. Sembrarono molto spaventati quando videro un ufficiale dell’esercito imballare il loro piccolo impero. Dissi a Pete di procurarsi un paio di chiavi, di fare installare un piccolo ufficio per noi e di fare un inventario del materiale tecnico. Quando la mattina dopo entrai nella Torre di raffreddamento, lo trovai nel bel mezzo del lavoro di inventario, dissi: «Pete, tu sei un buon segugio da film. Tira fuori tutto il tuo fiuto e mettiamoci sul sentiero». Provammo a stanare film del nemico al Dipartimento di Stato, ma loro ci mandarono all’FBI che a sua volta ci spedì al Dipartimento del Tesoro dove dissero: «Provate all’Alien Property Custodian», che a sua volta ci raccomandò a Mr. Samuel Klaus, un assistente speciale al Consiglio Generale del Tesoro. E lì la caccia ebbe fine. Per noi Samuel Klaus – un piccolo ebreo con la testa pelata – fu davvero Santa Klaus. «Cosa posso fare per lei, maggiore?», disse Santa Klaus. «Vorrei documentari tedeschi e giapponesi, Mr. Klaus». «Come mai?» «Il generale Marshall mi ha ordinato di fare film che mostrino ai nostri ragazzi contro che
bastardi stanno combattendo, e perché». I suoi occhi si accesero ma la sua voce era ancora bassa e inespressiva. «Si sieda, maggiore. O la devo chiamare Mr. Deeds, o Mr. Smith?» Feci un inchino, come per testimoniare la mia riconoscenza, e mi sedetti. «Ebbene sì, Frank Capra, ho un deposito pieno di film tedeschi e giapponesi: tutti i documentari degli ultimi vent’anni. Purtroppo lei arriva in ritardo. Ecco qui una formale richiesta dal comandante in capo delle Trasmissioni che mi chiede di trasferire tutto il materiale al Corpo Trasmissioni. Per poco il cuore non mi si fermò. «Mr. Klaus, ora le parlerò da cittadino americano a cittadino americano. Dire ai nostri soldati perché vengono arruolati costituisce per noi l’obiettivo numero uno. Se questi film vanno a finire al Corpo Trasmissioni ci vorranno mesi prima che io possa vederli. E ho bisogno di questi film adesso!» Lui mi guardò a lungo, il labbro inferiore contratto in un pensiero, poi spingendosi in avanti sopra la scrivania mi disse: «Frank Capra, lei mi sta dicendo, se non sbaglio, che cinque giorni fa mi ha consegnato una richiesta formale scritta in cui si chiede che l’Alien Property Custodian faccia pervenire in suo possesso tutti i film del nemico, onde poter realizzare film per l’esercito secondo le direttive del capo di stato maggiore...» Peterson e io uscimmo di lì con le ali ai piedi. Avevamo trovato il grande tesoro di film nemici ed era nostro! Ora bisognava ottenere ufficialmente la Torre di raffreddamento. Ci andammo subito, patteggiammo, e annunciammo al vecchio incaricato che l’esercito avrebbe occupato metà dei locali per depositare importante materiale cinematografico dell’esercito. Mi fiondai alla sede provvisoria H per dire a Munson e a Osborn della fortuna che ci era capitata, lasciando da parte la questione della data anticipata onde evitare di coinvolgerli ufficialmente nella cospirazione. «Perfetto!» disse Munson. Il generale Osborn, uomo ligio ai regolamenti, era preoccupato. La sua divisione Servizi speciali non poteva assumersi la responsabilità di simili film. Rammentai al generale che l’avevo ricevuto io, personalmente, l’incarico di realizzare quei film e, soprattutto, in quanto ufficiale del Corpo Trasmissioni, non certo in nome dei suoi Servizi speciali. Il buon generale era ancora preoccupato: detestava infatti la volgarità dei conflitti di potere interni. Ma io non ero un gentiluomo. Odiavo la guerra e detestavo di conferirle un po’ di dignità attraverso delle regole di condotta. Non mi piaceva essere un cittadino di seconda classe, chiedere permessi per fare una telefonata interurbana o per mandare un telegramma, detestavo dovermene restare a quindici minuti da Washington e non poterci andare se non grazie all’autorizzazione dell’ufficiale assistente del generale, autorizzazione che ci metteva sempre cinque giorni ad arrivare. Odiavo mandar giù l’irritante finzione che l’opinione di qualcun altro era più giusta della mia solo perché quello lì mi era superiore in grado. E tuttavia odiavo molto di più diventare uno schiavo della razza padrona. Almeno adesso i miei figli erano liberi. E io mi sarei messo dentro ai più sporchi conflitti di potere interno per far sì che lo restassero. Dunque, avanti atti costitutivi, colonnelli dai piedi d’argilla, generali gentiluomini! Che si facessero pure avanti, io avrei fatto quei film per spiegare ai nostri soldati le ragioni della guerra. Il confronto finale avvenne in una piccola sala riunioni dei Servizi speciali al Pentagono. In un incontro privato sollecitato da loro stessi, un livido colonnello Schlosberg e il colonnello Darryl Zanuck, invero molto a disagio, mi comunicarono un ultimatum ufficiale: «O passa tutti i film a suo nome al comandante in capo del Corpo Trasmissioni o si prepari ad affrontare la corte marziale. E questo è un ordine del comandante in capo del Corpo Tramissioni». Dissi loro con precisione dove dovevano metterselo quell’ultimatum e anche il comandante in capo, e ripetei ancora una volta che avevo precise consegne dal capo di stato maggiore per realizzare i film della serie «Perché combattiamo». Se fossi stato così scemo da lasciare una responsabilità così
grossa a culoni come il colonnello Schlosberg avrei meritato la fucilazione, non la corte marziale. Intimai al colonnello di smetterla di mettermi i bastoni fra le ruote perché, gli piacesse o meno, nel mondo del cinema – a Hollywood, nell’Esercito o al cesso – dovunque mi fossi seduto, avrei comunque occupato il posto a capotavola. E se non ci credeva, chiedesse pure a Darryl Zanuck del contratto che la 20th Century Fox mi aveva offerto e che io avevo rifiutato per arruolarmi. Se ne andarono, non senza lanciare terribili minacce contro di me e contro i Servizi speciali. Munson e Osborn, dettagliatamente informati sul conflitto giurisdizionale e sull’alterco che ne era seguito, erano convinti che io avrei dovuto conferire direttamente con il generale Marshall. Ribattei dicendo che il generale era abbastanza impegnato a reggere il peso di una guerra mondiale e che del resto mi aveva affidato il compito perché me ne facessi carico completamente. Esortai il generale Osborn a prendere l’offensiva contro il Corpo Trasmissioni: che accusasse, protestasse, li sfidasse. E se quella messa non avesse funzionato avrei sempre potuto elemosinare abbastanza apparecchiature dai miei amici. E inoltre potevo assumere dell’altro personale tra i civili. Del resto avevo già la Torre di raffreddamento e il materiale tecnico scadente che giaceva là. Loro dissero che la Torre di raffreddamento non era nelle mie mani. Il segretario degli Interni poteva buttarmi fuori quando voleva. Feci notare che Ickes non avrebbe mai osato farlo. C’era una guerra in atto! E comunque con quella montagna di film che avevo ammassato nella Torre di raffreddamento Ickes non avrebbe avuto abbastanza camion per buttarmi fuori. Tutto cominciò a sembrare una commedia comica: «La grande guerra della celluloide» combattuta dai «la-sappiamo-lunga» di Hollywood contro i «ci-abbiamo-tutto» del Pentagono, mentre gli uomini di MacArthur morivano a poco a poco nella piazzaforte di Corregidor. Poi accadde una cosa spiacevole e inaspettata che minò il clima di fiducia che si era creato. Fu quando i miei sette scrittori (tutti reclutati fra il volontariato civile) realizzarono i loro trattamenti per lo schermo – a ciascuno era stato assegnato un segmento dell’ultima decade dalla Manciuria a Pearl Harbor – e, letteralmente sconvolto, mi resi conto che i testi erano pieni di propaganda comunista. Riunii immediatamente Osborn, Munson e Watrous. Erano scioccati. I Servizi speciali erano già in difficoltà con il Comitato per gli stanziamenti, il cui presidente aveva espresso molta diffidenza nei confronti dei «film d’orientamento» per l’esercito. «Che cazzo è questa roba dell’“orientamento”? Una parola nuova per dire propaganda?» Se fosse trapelato al Comitato anche il minimo accenno a delle sceneggiature con dentro roba comunista... be’, le nostre teste sarebbero volate via... zac! E il bello era che il Corpo Trasmissioni era lì pronto a dar di scure. I testi di prova furono classificati top secret e gli scrittori licenziati senza far rumore. Fummo tutti d’accordo che il progetto era così delicato da richiedere solo uomini in divisa e perciò controllabili. Il generale Osborn doveva poter avere del personale cinematografico alle sue dirette dipendenze o chiedere alla divisione Servizi speciali di essere sciolto dalla responsabilità di seguire il progetto del generale Marshall. Le acque che scorrono lente sono le più profonde. Il generale Osborn con il suo culto per la forma mi diede una grande lezione di lotta corpo a corpo d’alta classe. Il 2 maggio 1942 un memorandum diretto al comandante in capo del Corpo Trasmissioni per «creare un distaccamento (cinema) del Corpo Trasmissioni sotto la giurisdizione e il diretto controllo del comandante in capo dei Servizi speciali» uscì dall’ufficio del generale comandante del servizio di approvvigionamento, tenente generale Sommervell. Era nato l’ottocentotrentaquattresimo Photo Signal Detachement. Giubilo ed evviva. Firmai immediatamente un contratto d’affitto di un anno per una grande casa a Bethesda e dissi a Lu per telefono di venire subito con i bambini, la cuoca Rosa e la bambinaia Kelly. Nel frattempo, io, Anatole Litvak, Tony Veiller e Robert Heller (prossimi all’arruolamento nell’esercito) cominciammo a lavorare alle sceneggiature della serie «Perché combattiamo», dalle
quali avrebbero preso corpo i film. Film di cinquanta minuti ciascuno (in realtà la proiezione in totale non avrebbe dovuto superare i sessanta minuti, ma si comprendeva nella durata anche il tempo impiegato per riempire e svuotare la sala di proiezione, dieci minuti per l’appunto). 1) Preludio alla guerra: nel quale si illustrano le caratteristiche dei due mondi contrapposti – gli schiavi e gli uomini liberi – nonché la nascita del militarismo totalitario dalla conquista della Manciuria da parte del Giappone alla conquista mussoliniana dell’Etiopia. 2) L’attacco nazista: Hitler al comando. L’imposizione della dittatura nazista in Germania. Passo dell’oca in Renania e in Austria. Minacce di guerra e invasione della Cecoslovacchia. Richieste di pace. Hitler invade la Polonia. S’apre il sipario sulla tragedia del secolo: la seconda guerra mondiale. 3) Dividi e conquista: Hitler occupa la Danimarca e la Norvegia, aggira la linea Maginot, costringe l’esercito inglese a combattere nel Mare del Nord, induce la Francia alla resa. 4) La battaglia d’Inghilterra: si mostra la coraggiosa e vittoriosa difesa dell’Inghilterra sostenuta dalla Royal Air Force, in un frangente in cui, a pezzi ma imbattuti, gli inglesi erano gli unici a combattere i nazisti. 5) La battaglia di Russia: storia della Russia, la gente, le risorse, le guerre. Battaglia all’ultimo sangue contro le armate naziste davanti alle porte di Mosca e Leningrado. A Stalingrado i nazisti portano a termine la loro opera di macellai di carne umana. 6) La battaglia della Cina: i signori della guerra giapponesi fanno di tutto per conquistare la Cina. Si prefiggono di usare poi il potenziale umano cinese per la conquista di tutta l’Asia. 7) La guerra arriva in America: si dice con chi, che cosa, dove, perché noi siamo diventati gli Stati Uniti d’America, la più antica e la più grande repubblica democratica che continua a essere governata grazie ai principi scritti nella sua prima costituzione. Inoltre il film tratta della profondità e della varietà di emozioni con cui gli americani hanno reagito ai traumatici eventi susseguitisi in Europa e in Asia. Si mostra come le nostre posizioni sono passate da una totale indifferenza a una completa partecipazione non appena ci siamo resi conto che la perdita della libertà delle altre nazioni minacciava da vicino anche la nostra libertà. Quest’ultimo film della serie era ed è ancora una delle più vivaci storie illustrate degli Stati Uniti che siano mai state realizzate. Questi erano i sette film della serie «Perché combattiamo» che dovevano rivoluzionare non solo il documentario cinematografico in tutto il mondo ma anche i rozzi metodi di indottrinamento e di informazione adottati per le truppe. Concepiti dapprima dall’esercito per l’esercito, i film furono usati anche dalla Marina e dalla Guardia Costiera. Servirono poi come strumenti di formazione per le armate inglesi, canadesi, australiane e neozelandesi. Doppiati in francese, spagnolo, portoghese e cinese furono presentati alle truppe alleate in Cina, Sud America e in vari paesi europei e africani. Uno di quei film uscì anche nelle sale cinematografiche americane. E Winston Churchill volle che fossero presentati tutti al pubblico civile. La battaglia di Russia fu dato nelle sale cinematografiche dell’Unione Sovietica. E nei caotici mesi dell’occupazione, dopo la fine della guerra, le ambasciate americane fecero proiettare i film della serie nei paesi nemici facendo pagare l’ingresso dieci centesimi. Il Dipartimento di Stato ha valutato l’ammontare delle entrate realizzate con queste proiezioni a due milioni e mezzo di dollari, una somma sei volte più grande di quella impiegata per realizzare i film. Fu così che la serie «Perché combattiamo» divenne la nostra definitiva e ufficiale risposta alla domanda: qual è stata la linea di governo nell’arco compreso fra il 1931 e il 1941? Dato che lo
Stato, la Casa Bianca e il Congresso erano restii o impossibilitati a spiegarci qual era stata la linea politica di governo (cosa che accadeva frequentemente), feci mio il suggerimento del generale Marshall: «In questi casi tragga lei le sue conclusioni, meglio che può, poi veda se loro sono d’acccordo». Finì che il messaggio contenuto nei film fu accettato come linea politica ufficiale anche dai nostri alleati. Si può dunque affermare che i documentari di «Perché combattiamo» non soltanto enunciarono ma per molti versi elaborarono, fissandola una volta per tutte, la linea politica prebellica americana e del mondo. Non so se dirlo o no. E va bene, lo dirò: sono stato la prima «voce dell’America». Intorno al 10 maggio del 1942 la signora Capra arrivò a Washington con la sua tribù: Frankie (otto anni), Lulu (quattro), Tommy (uno), Rosa e Kelly. Traslocammo in una casa a due piani, con quattro camere da letto, a Bethesda nel Maryland, una casa circondata da un bel prato rasato e alberi dai grandi tronchi neri. E, sorpresa!, vedemmo le lucciole! Era la prima volta che ci capitava e ci sembrò uno spettacolo incredibile. I ragazzi le infilarono dentro a delle bottiglie e, schiamazzando per l’eccitazione, le usarono come torce per esplorare la casa e il giardino. Le lucciole erano bellissime ma non altrettanto belli erano gli spazi riservati alla servitù nel seminterrato: due cubicoli orrendi, stretti, senza tappezzeria alle pareti, attraversati dai tubi scoperti dell’acqua e delle fognature, fatti con il preciso intento di tenerci dentro i negri a servizio. Infatti mi dissero che la maggior parte delle case intorno a Washington erano tutte squisita ospitalità del Sud di sopra e rifiuti e fanatismo di sotto. Traslocai dalla mia stanza numero 308 al Carlton ma non rinunciai a tenerla. Per i successivi quattro anni quella sarebbe stata la mia casa saltuaria e l’angolo di pace dentro il vortice di Washington per quelli che venivano a lavorare per noi, poche ore magari o pochi giorni. Anche mentre ci stavo io, non avevo mai trascurato di lasciare la mia 308 a chi ne aveva bisogno. C’erano giorni in cui dormivamo in tre in quella stanza. Mogli in visita avevano lì i loro appuntamenti coi mariti in uniforme. Celebrità in visita come John Gunther o Charles MacArthur non avevano che da chiedere la chiave a Frank Swazey, il direttore dell’hotel, per venir su a far stalla insieme a me un giorno o due. Leonard Lyons citò così la stanza 308 in un suo articolo sul New York Post: Marc Connelly scriverà un film per la divisione Cinema di Frank Capra [...] Connelly si è presentato per il lavoro in una Washington sovraffollata. Nell’ufficio di Capra ha incontrato il noto compositore Kurt Weill e il commediografo Maxwell Anderson. «Capra è stato abbastanza previdente da prenotarmi una cameretta», disse Connelly a Weill. «E tu, sei riuscito ad avere una prenotazione?» «Sì», rispose il compositore. «Sto alla stanza 308 del Carlton Hotel» «Ma quella è la mia stanza...», disse Connelly. «Quindi devo supporre che la valigia che ho visto in un angolo sia la tua...» «No», replicò Weill, «la valigia è di Maxwell Anderson...»
Il commediografo Charles MacArthur, ora maggiore MacArthur, aiutante del comandante in capo del segretissimo Servizio Guerra Chimica, non era mai stato un grande ammiratore dei miei film. Troppo povere cose per quell’ex reporter dal naso fino. Eppure, una notte, appena buttato il sacco nella 308, si mise a punzecchiarmi e mi chiese: «Voglio sapere una cosa da te. Il mio generale mi ha raccontato di un tipo che si chiamava Capra che al Caltech, venticinque anni fa, fece una ricerca coi fiocchi: combustione spontanea di solfuro di carbonio saturato con idruro di silicio gassoso, per rendere inefficaci le maschere antigas dei nemici. Eri tu quello lì?» «Charlie! Ma tu ti esprimi con assoluta proprietà...» «Eri tu quello?» Feci cenno di sì. Mi strinse forte la mano. «Sei proprio un maledetto dago, lo
sai questo? Lo sai?», disse, e spense la luce. La 308, fuori catalogo e inaffittabile, era una stanza di due metri per quattro, ma c’era un letto a una piazza e mezzo, un vano aperto per i vestiti, e un comò a tre cassetti con sopra uno specchio ovale nel cui vetro opaco si potevano vedere misteriosi tramonti. E poi c’era una sedia, e una finestra sempre sporca che fiaccava lo zelo delle giornate più assolate trasformando la luce piena del giorno in un anemico crepuscolo. Una persona sola poteva ancora cavarsela davanti alla sequenza di ostacoli costituita da stivali, valigie, gambe del letto e la chitarra di Peter Hurd, senza rompersi un dito del piede, se portava le scarpe. In due si doveva strisciare come granchi. Se entrava una terza persona il traffico si paralizzava. Eppure talvolta eravamo anche in otto, ammucchiati sul letto e incastrati contro il soffitto a discutere ad alta voce e in libertà, o ad ascoltare Peter Hurd, Paul Horgan e Eric Knight che suonavano canzoni folk. Una delizia per il mio vicino di stanza, il caro vecchio Barney Baruch, che di tanto in tanto – quando non era impegnato con F.D. Roosevelt e i membri del Gabinetto, o non sedeva in un parco a scambiare socratiche ironie coi suoi compagni scaldapanchine – si univa a noi. Stanza 308. Uno sgabuzzino. Uno sgabuzzino meraviglioso. E adesso anche la Torre di raffreddamento sembrava essersi ridotta a un altro sgabuzzino. Proprio come i virus affamati occupano un batterio e si moltiplicano a spese dell’ospite, così Edgar Peterson e io avevamo invaso la Torre di raffreddamento e ci eravamo moltiplicati nell’834esimo Photo Signal Detachement, che ora contava otto ufficiali e una dozzina di soldati di leva. Erano tutti professionisti di Hollywood (registi, scrittori, e montatori). In più c’erano un’altra ventina di civili occupati in varie faccende. Come disciplinatissime e intruppate formiche cominciammo a lavorare alla serie «Perché combattiamo». Un gruppo di traduttori (coadiuvati da Iris Barry, responsabile della sezione cinema del Museo di Arte Moderna di New York e dall’Intelligence dell’esercito) riscrisse in inglese i film tedeschi e giapponesi. Un altro gruppo catalogò e archiviò le scene dei film: lavoro quanto mai noioso e sedentario. Il nostro gruppo lavorava sulla ricerca storica e sulle sceneggiature. Come produttore esecutivo io cercavo di mettere in rilievo i propositi e la forza d’impatto di ciascun film. Con Tony Veiller scrivevo la maggior parte dei testi sostenuto dal valido aiuto di altri bravi scrittori, autori come Eric Knight e James Hilton, sceneggiatori come Alan Rivkin e Leonard Spiegelgass e giornalisti come William Shirer e Bill Henry. Da principio formai singole squadre di assistenti alla produzione, scrittori, montatori e ricercatori che lavorassero simultaneamente, ciascuna su uno dei sette film, ma poi la colossale quantità di film del nemico sequestrata che si ammucchiava intorno fece sì che lì non ci fosse più spazio neanche per una squadra. Inoltre Paul Horgan aveva bisogno di una squadra tecnica per girare il suo soggetto sulla Scuola Ufficiali, e il sottosegretario del ministero della Guerra Patterson stava premendo perché facessimo un film a sostegno del soldato di colore. Il sottosegretario mi mise in contatto con il suo consigliere nero, Truman Gibson, il quale ci squadernò davanti un nutrito dossier di vergognosi atti di discriminazione contro i soldati neri nel Sud. C’era dell’esagerazione in tutto ciò? Il segretario del ministero della Guerra non la pensava così. C’erano troppe testimonianze in tal senso e tutte terribili. Cosa per cui ordinò ai Servizi speciali di dare priorità assoluta a un film sul soldato di colore e assegnò alla nostra squadra un giovane scrittore nero, Carlton Moss, che collaborasse al soggetto. E non finiva qui: ero anche molto ansioso di varare l’Army-Navy Screen Magazine, la rivista cinematografica dell’Esercito e della Marina, e un’altra serie di film d’orientamento: «Know Your Ally, Know Your Enemy».43 Chiesi perciò di poter trasferire la sezione cinema a Hollywood. Osborn e Munson erano d’accordo, specialmente se avessi trovato una sistemazione anche per la
Radio delle forze armate di Tom Lewis, che aveva un disperato bisogno di persone di talento e di condizioni ottimali per andare in onda sulla West Coast. Mia moglie non aveva ancora finito di disfare i bagagli nella nostra casa di Bethesda che le dissi di rifarli subito mentre mi fiondavo a Hollywood in cerca di aiuti. Sapevo anche esattamente dove andare: dal colonnello Darryl Zanuck che conosceva bene la mia situazione e aveva assistito al diverbio con il colonnello Schlosberg. I vecchi studi della 20th Century Fox sulla Western Avenue erano stati abbandonati anni prima. Erano ormai ridotti a una catasta di edifici pericolanti: uno studio fantasma. Chiesi a Darryl se me li lasciava come sede per la sezione cinema e per la radio delle forze armate di Tom Lewis. «Naturalmente», disse «è tutto tuo». E avrebbe anche fatto dare una bella ripulita. A Hollywood c’era un ufficio rifornimenti del Corpo Trasmissioni al quale mi rivolsi ufficialmente per avere apparecchiature e mobilia per la mia nuova base in Western Avenue. La richiesta fu negata. Allora contattai amichevolmente i capi magazzino di vari studi. Chiedevo mobili usati e apparecchiature di cui potessero privarsi senza difficoltà. Riuscirono a scovare macchine da scrivere, scrivanie, sedie, schedari e anche vecchie moviole e tavoli e attrezzi per la sala di montaggio. Quella operazione di ben dissimulato «latrocinio» spinse George Stevens a unirsi alla nostra unità. Lui stava girando un film negli studi della Columbia e mi beccò mentre, insieme a Ray Howell, capo dei trovarobe, stavo caricando una vecchia scrivania su un camion dello studio. Ero in uniforme. «Frank!», mi disse. «Che diavolo stai facendo, un trasloco?» «Shhh! Fai finta di non conoscermi. Questa roba la sto rubando!» «Tu stai cosa? Hai bisogno di una vecchia scrivania? Io pensavo che tu fossi capo di qualcosa...» «George, per ottenere qualcosa nell’esercito bisogna esser pronti a fare di tutto». «Bene! Anch’io me la cavo bene a far di tutto. Perché non mi prendi con te?» «Ma sì, certo che sì. Raggiungici al vecchio studio Fox in Western Avenue». George Stevens venne davvero. Ed ebbe i gradi di maggiore prima che potesse alzare una mano e dire ciao. Chiese di guidare un gruppo di fotografi sui campi di battaglia. E così fece. Andò in Europa e vi restò fino alla resa. Le uniche apparecchiature che non potevo «prendere in prestito» erano i proiettori per il sonoro. I vecchi proiettori da 35 mm erano molto ricercati perché l’esercito aveva la precedenza su quelli nuovi. Così ordinai che i due proiettori vecchio stile della Torre di raffreddamento fossero segretamente sottratti e imbarcati verso i nostri quartieri generali all’Ovest. Ci portammo via anche il proiezionista della Torre, Walter West, perché era l’unico uomo che sarebbe stato capace di farli funzionare. E dato che i proiettori non erano concepiti per il sincrono, lui faceva scorrere la pellicola con le immagini su un proiettore e quella del sonoro sull’altro mantenendo il sincrono con le dita, che di volta in volta rallentavano lo scorrere dell’una o dell’altra. Tutta la serie «Perché combattiamo» nonché quella di «Chi è il tuo alleato, chi è il tuo nemico», l’Army-Navy Screen Magazine e The Negro Soldier in World War II44 furono tutti realizzati in quello studio abbandonato preso in prestito, con mobili e apparecchiature sgraffignate, e quei proiettori trafugati dagli uffici del ministero degli Interni che bisognava mantenere in sincrono con le dita. In tempo di guerra s’impara presto a fregarsene di colonnelli col culo di piombo accovacciati sui loro imperi. Nel nostro caso la necessità non fu una madre ma una pulzella che ridusse molti cavalieri hollywoodiani pronti a combattere per la sua salvezza. Alcuni in uniforme: Anatole Litvak, Tony Veiller, John Huston, George Stevens, Willie Wyler, Sam Briskin, William Hornbeck, Leonard
Spiegelgass, Merrill White, William Claxton, William Lyon, Henry Berman, Ted Geisel, Claude Binyon, Carl Foreman, Stu Heisler, David Miller, Bill Mellor, Joe Biroc, Joe Valentine, Eric Knight, e Meredith Wilson e la sua grande orchestra delle Forze Aeree di Santa Ana. Altri come civili: Walter Huston, Lloyd Nolan, Robert Stevenson, Bill Henry, Robert Flaherty, James Hilton, Alan Rivkin, Joe Sistrom, Edgar Peterson, Dimitri Tiomkin, Alfred Newman e in più i reparti sonoro, musica e doppiaggio della 20th Century Fox, della Paramount, della MGM e (cosa di eccezionale importanza) quel grande talento di Walt Disney e i suoi migliori animatori per realizzare delle mappe animate tanto belle quanto utili sotto il profilo dell’informazione. I film di informazione furono realizzati a dispetto della greve opposizione di supertrincerati colonnelli che pure avevano magazzini pieni di attrezzature inutilizzate e possibilità a iosa. Eppure noi avevamo i cervelli, il talento, e la voglia di fare. E fu con questi e con la collaborazione senza profitti della nostra industria – senza profitti ma non senza spese, talora – che dei professionisti di Hollywood fecero storia nel cinema in un campo che era loro estraneo, quello dei documentari, riserva privata degli intellettuali. Nell’ottobre del 1942, proprio a tre anni dalla prima di Mr. Smith, quando dovetti fuggire dalla città, ritornai a Washington con un altro film: Preludio alla guerra. Il generale Osborn descrisse la reazione del capo di stato maggiore al primo film della serie «Perché combattiamo» in questi termini, in una lettera indirizzata a mia moglie Lu: Cara Mrs. Capra Il film di suo marito, Preludio alla guerra, è stato presentato ieri al generale Marshall. [...] Quando si sono riaccese le luci in sala c’era un assoluto silenzio che è durato più di due minuti. Poi il generale Marshall si è girato, si è guardato intorno finché non ha visto suo marito e ha detto: «Colonnello Capra, come è riuscito a fare una cosa così meravigliosa». Lo ha chiamato accanto a sé e ha analizzato il film momento per momento, in ogni dettaglio. [...] È stata un’occasione davvero commovente. [...] F.H. Osborn
Il giorno in cui fu fissata la presentazione del Preludio alla Casa Bianca il generale Marshall mi invitò a pranzare da solo con lui nel suo ufficio. Era di buon umore e tutto compiaciuto che la sua idea di film orientativi per le truppe avesse avuto un avvio così felice. Mi chiese se il materiale del film era tutto autentico. Risposi che sì, lo era e che erano stati ricostruiti soltanto i titoli dei giornali e, naturalmente, le mappe di guerra di commento realizzate con l’animazione grafica. Mi chiese da dove venivano i film dei nemici. Gli dissi che ero entrato in possesso di tutti i documentari tedeschi, giapponesi e italiani che erano stati realizzati negli ultimi vent’anni. E anche della maggior parte del materiale di propaganda girato prima e durante la guerra. Poi volle sapere come avevo ottenuto i film. «Generale Marshall», risposi, «è una lunga storia, una storia noiosa. L’importante è che io abbia avuto tutto il materiale cinematografico preso al nemico, che ora sto prendendo accordi per avere i film russi, che T.Y. Lo dell’agenzia di stampa cinese mi ha promesso i loro film e che la divisione Servizi speciali di Donovan sta trafugando per me nuovo materiale documentario del nemico...» Speravo che non facesse quella domanda, e invece: «Osborn mi ha fatto capire che lei ha avuto difficoltà col Corpo Trasmissioni. È vero?» «Niente di grave, signore». «Frank, questa serie «Perché combattiamo» ha un valore immenso, per noi e per i nostri alleati. Se c’è qualche impedimento, da qualunque parte venga, me lo dica direttamente». «Generale Marshall», dissi scherzosamente, «facciamo un patto. A lei il bastone del comando per vincere la guerra, a me quello per far provvista di film».
Sorrise. Gli piaceva la gente che riusciva a fare quello che aveva in mente. Mi disse inoltre che il segretario Stimson voleva accertarsi che tutte le posizioni di linea politica prese in Preludio alla guerra fossero state verificate preliminarmente. E mi chiese se si fosse proceduto in tal senso. Risposi che tutti i quesiti concernenti la linea politica erano stati sottoposti al Dipartimento di Stato, all’OWI (Office of War Information) e a consiglieri presidenziali come Lowell Mellett, e che, perlopiù, avevamo avuto risposte sbrigative, talvolta ellittiche, in alcuni casi solo silenzio. Ragion per cui il mio staff e io ci eravamo limitati a seguire i consigli del generale: dedurre la fisionomia della nostra linea politica da ipotesi quanto più oggettive possibili. Anche allora sorrise e aggiunse che avrebbe invitato Osborn a presentare i film al Dipartimento di Stato, all’OWI, e ai leader del Congresso. Solo allora ebbi piena coscienza di quanto il generale Marshall fosse pronto a rischiare perché l’esercito realizzasse i film d’informazione (i detrattori li avrebbero chiamati «di propaganda») per il pubblico coatto delle truppe. Solo la sua ferma convinzione che degli uomini liberi sono migliori combattenti se sono bene informati poteva indurre quel gran soldato a entrare in un’arena politica e psicologica dove gli angeli in abito borghese temono di mettere piede. Nei due anni che seguirono mi capitò molto spesso di avere degli incontri faccia a faccia con il generale Marshall, specialmente in cene a due nella residenza del capo di stato maggiore, l’alloggio numero 1, una grande, comoda costruzione a due piani di mattoni rossi a Fort Myer in Virginia. Con il generale stava solo un cuoco filippino in divisa. Tra le sette e le sette e mezza ci veniva servito da bere, bourbon Old Fashioned che il generale amava preparare da sé. Si parlava, naturalmente, ma mai di guerra. Magari il giorno aveva dovuto prendere delle decisioni che implicavano il destino di tutto il mondo e la mattina dopo avrebbe dovuto affrontare problemi non meno decisivi, eppure quella sera mi ascoltava chiacchierare, sereno, senza visibili apprensioni. Una volta gli chiesi come faceva a reggere la tensione. Mi rispose così: «Devo far sì che le preoccupazioni non mi sovrastino una volta presa una decisione. Ci si può preoccupare prima, mai dopo. Bisogna raggiungere una piena consapevolezza del problema che devi svolgere e poi dimenticartelo. Se non si fa così la mente non è pronta a prendere un’altra decisione». Alle sette e mezza esatte il filippino ci serviva la cena e per un’ora dovevo rispondere a tutte le domande concernenti le tecniche cinematografiche: dalla recitazione alla fotografia, dalla registrazione del sonoro ai cartoni animati, alle commedie musicali. Oppure gli raccontavo dei miei primi anni, o del pollice verde di mio padre, di come lui sapeva far crescere un albero da un ramo d’arancio facendone sviluppare le radici e di come ne seguiva la crescita e poi mostrava agli amici le piante colme di frutti, di come spargeva intorno alle radici delle rose dei minerali che modificavano il colore del fiore. Quando scoprì che avevo un grande ranch con frutteto volle sapere in ogni dettaglio cosa facevo, ed essendo lui stesso un esperto entusiasta del concime fu tutt’orecchie mentre gli descrivevo i nostri grandi pozzi di concime e le macchine che usavamo per impastarne e mischiarne gli ingredienti. Da lì prendeva lo spunto per parlarmi, ispirato, della sua tenuta di Dodona a Leesburg in Virginia, dove sperava di ritirarsi a coltivare ogni genere di piante, verdure e fiori. E io gli raccomandai di non usare mai prodotti velenosi. Gli brillavano gli occhi a parlare della terra e del lavoro che essa esigeva Ma gli brillavano ancora di più quando raccontava le sue esperienze di comando nei campi dei Civilian Conservation Corps in Florida e nel nordovest del Pacifico. Giacché in quei campi egli si trovò faccia a faccia per la prima volta con la derelitta, anemica, fragile gioventù della Grande Depressione. Fu in quei campi che suo compito precipuo era ridare ai giovani la salute, il coraggio, l’umanità acquisita attraverso l’educazione – nutrire la mente non meno del corpo – e di insegnar loro a costruirsi quelle competenze in cui avrebbero trovato esito le loro naturali capacità.
Fu proprio l’esperienza con i ragazzi dei CCC che lo portò a concepire un nuovo e rivoluzionario settore per l’esercito americano: una Sezione Morale che contribuisse al benessere mentale e spirituale del soldato. Per la prima volta un sistema militare dove gli uomini erano «corpi» e «numeri» scoprì di avere un cuore. E un risultato di quella nuova idea furono i film di «Perché combattiamo». Ne posso aggiungere un altro: la mia duratura amicizia con uno dei più grandi uomini del nostro secolo, George Catlett Marshall. Per quelli che lo conoscevano e lo amavano non sembrò certo una scelta casuale quella che vide il capo di stato maggiore Marshall, architetto della vittoria militare in Europa, trasformarsi nel segretario di Stato Marshall, architetto del Piano Marshall destinato ad aiutare l’Europa a uscire «dalla fame, dalla povertà, dalla disperazione e dal caos». Né fu una sorpresa il premio Nobel che gli venne assegnato. 42. Letteralmente, «Perché combattiamo», 1942-1945. [n.d.t.] 43. Letteralmente: «Chi è il tuo alleato, chi è il tuo nemico». [n.d.t.] 44. Il soldato negro, 1944.
18. FRANKLIN DELANO ROOSEVELT, IL SIGNOR PRIMO MINISTRO E LA SECONDA GUERRA MONDIALE
«Capra!», disse il generale Sommervell mentre andavamo dal Pentagono alla Casa Bianca su un’auto che faceva sventolare bandierine a tre stelle. «Ha mai incontrato il Presidente?» «No, signore». «Ha mai visto il Gran Canyon?» Annuii. «Ebbene, conoscere Franklin Delano Roosevelt è un po’ come vedere per la prima volta il Gran Canyon, ti fa sentire piccolo piccolo». Franklin Delano Roosevelt non era certo l’uomo più imponente del mondo, e neppure il presidente più imponente. Lo era stato Taft. Eppure F.D.R. quel senso di possente grandezza te lo comunicava comunque. Così almeno accadde a me quando mi accinsi a stringergli la mano con l’elegante sicurezza di un uomo che abbia infilato per la prima volta dei pattini per il ghiaccio. La sua testa era la più grande che avessi mai visto, il volto il più largo, il sorriso il più espansivo. Era un grand’uomo, insomma, da qualunque parte lo si volesse misurare, tempo compreso: nessun altro presidente era rimasto alla Casa Bianca più a lungo di lui e soprattutto non dava alcun segno di voler traslocare. Non appena gli uomini dei servizi segreti lo condussero davanti alla prima fila di sedie, il Presidente mi presentò a una donna che gli sedeva vicino – una duchessa tal dei tali, del Lussemburgo o di non so dove – e mi disse indicandomi due altri ospiti: «Quei due lì deve conoscerli». E infatti feci un cenno di saluto ad Harpo Marx e ad Alexander Woollcott. «Sommervell!», chiamò ad alta voce il Presidente, lasciando tracce scritte di fumo dopo una lunga tirata alla sigaretta. «C’è un film dell’esercito stasera, no? Allora perché non ce lo presenta in breve con qualche bel particolare di grande effetto... ma non dimentichi il significato della parola “breve”». Aveva anche una risata grande, e davvero contagiosa a dispetto del dovere di ridere alle battute del Presidente. Il generale Sommervell rise più forte; giacché, almeno all’apparenza, lui e F.D.R. erano vecchi amici e si prendevano in giro vicendevolmente. Il Presidente si girò verso Woollcott. «Alex, non c’era una commedia su qualcosa di breve... Breve...» «Breve momento, signor Presidente, di Sam Behrman...» «Già, proprio quella lì. Avanti Sommervell, e si goda il suo breve momento». (Restavo sempre allibito davanti alle scemenze che dicevano i leader nazionali in tempo di guerra, senza capire quanto avessero bisogno di distendere di tanto in tanto i nervi consumati dalla tensione.) Il generale si mise davanti al Presidente e sembrò pronto a gustarsi il gioco. «Un breve istante, signor Presidente! Su questo film basta sapere una cosa e per dirla ci vogliono solo sei parole: è un film di Frank Capra!» Harpo Marx si mise a sghignazzare e diede il la agli applausi. «Touché, touché», disse applaudendo il Presidente, poi si girò verso di me. «Un inchino, ragazzo, un inchino!» Mi alzai, feci un inchino in tutte le direzioni. È evidente che con F.D.R. o si comincia bene o non si comincia affatto. Harpo mi fece un gran gesto di approvazione alla Mack Sennett. Feci cenno al proiezionista che si poteva cominciare. Giù le luci. Il generale Sommervell si sedette alla mia destra; come un fantasma, nel posto alla mia sinistra scivolò un tale che mi sussurrò: «Frank Capra, sono Harry Hopkins, benvenuto!» Gli strinsi la mano delicata e guardai nei dolci occhi di daino dell’uomo del Presidente, alto, magro, affilato, il cui nome e le cui ulcere erano
diventati argomenti popolari in tutto il mondo. Ero arrivato al punto cruciale della giornata e il mio povero stomaco non reggeva più quando gli accordi iniziali della magnifica musica di Alfred Newman ci fece scattare tutti in piedi (Newman aveva composto, arrangiato, diretto e registrato la colonna sonora di Preludio alla guerra alla 20th Century Fox praticamente gratis). Sullo schermo la nostra campana della libertà cominciò a suonare. E apparvero i titoli: L’Esercito degli Stati Uniti presenta Preludio alla guerra prodotto dal Dipartimento della Guerra
seguiti da una dichiarazione scritta a firma del generale Marshall, in cui si diceva che quel film e gli altri che sarebbero seguiti erano stati realizzati dal Dipartimento della Guerra per «informare i membri dell’esercito sui fatti e le cause che ci hanno condotti all’entrata in guerra e rammentare i principi per i quali stiamo combattendo». (Nessun nome fu mai menzionato o accreditato in nessuno dei film di informazione realizzati per l’esercito.) Franklin Roosevelt non era persona di facili consensi eppure dopo i primi cinque minuti di proiezione, durante i quali aveva continuato a chiacchierare con quanti aveva intorno facendo segno allo schermo, rimase immobile come una statua. Harry Hopkins richiamò la mia attenzione e mi sussurrò: «Congratulazioni, Frank. L’hai conquistato. Ed è l’uomo più grande del mondo». Il film si chiudeva sulle facce dei soldati-cittadini di tutte le nazioni che marciavano. In sovrimpressione compariva la draconiana dichiarazione dei loro compiti: Non c’è spazio per alcun compromesso e la vittoria delle democrazie può essere definitiva solo con la completa disfatta della macchina bellica della Germania e del Giappone. G.C. Marshall Capo di Stato Maggiore
Quando si riaccesero le luci F.D.R. sbottò in un applauso che suonò molto sincero. A cena se ne uscì dicendo: «Uomini, donne, bambini, tutti devono vedere questo film». Sia Harpo Marx, uno dei prediletti della cricca più esclusiva della costa orientale, che Alex Woollcott, uno dei capi-in-testa di quella cricca, si congratularono con me: una sorta di cresima da parte della curia intellettuale. «Frank Capra», disse il Presidente, «questo film... come si chiama? Ah sì, Preludio alla guerra, sarà dato nelle sale cinematografiche?» «No, signor Presidente: solo nei campi dell’esercito». «E perché? Anche i civili hanno bisogno di vederlo, non meno dei nostri soldati». «Signor Presidente», risposi a difesa della nostra industria, «le sale cinematografiche sono strutture a capitale privato. Se si proietta un film d’informazione del governo avranno paura che ne seguirà un’intera ondata. E dicono che il pubblico reagisce male ai film ufficiali. Oltre a ciò, signor Presidente, io ho ottenuto dei film liberi da diritti e aiuti non retribuiti a condizione che il film fosse proiettato solo in campi militari. «Già. Un vero peccato, no?», disse il Presidente con mordente simpatia. Quindi ordinò a Harry Hopkins di contattare Elmer Davis, capo dell’OWI, e Lowell Mellett, coordinatore federale della produzione cinematografica, al fine di persuadere i proprietari di sale cinematografiche a presentare
il film. Più tardi, mentre eravamo seduti in un salotto-biblioteca sorbendo whisky e soda e godendo dei giochi di parole e delle battute del Presidente, cominciai a capire perché quel ricco estroverso rampollo di Harvard era diventato il santo patrono dei diseredati. Aveva charme e carisma da vendere. Ma la sua più grande risorsa era il modo in cui ti faceva sentire importante a prescindere da chi o cosa fossi. E ci riusciva soprattutto grazie alla sua eccezionale capacità di starti ad ascoltare. Lui sapeva bene che la prepotente presenza del presidente degli Stati Uniti poteva ridurre un uomo forte in un debole e un debole in un imbecille. Perciò con un grande sorriso amichevole e uno sguardo intensamente partecipe di quei suoi occhi luminosi, ti incoraggiava a parlare, di te, della tua famiglia, del tuo lavoro, di qualunque cosa. «Oh, questa, poi!», esclamava quando tu te ne eri uscito con qualche sciocchezza. Con risatine, incitamenti, sollecitazioni – «Davvero? Voglio saperne di più!... Ebbene, com’è andata?... Mi è capitata la stessa cosa una dozzina di volte!... Oh, davvero affascinante! – il suo calore riusciva a trasformarti in un fine dicitore da povero balbuziente che eri. E ti sentivi sempre in debito con lui. E chissà? Potevi metterti dietro la sua scia e professare il Roosevelt-per-sempre. Per quanto mi riguarda fui lì lì per diventare un democratico. Ero sul punto di partire per la West Coast quando il colonnello Munson, il mio capo, mi sottopose un messaggio urgente secondo il quale avrei dovuto presentarmi immediatamente al colonnello Fitzgerald, all’ufficio di Sicurezza Interna dei servizio segreti militari. Munson era inquieto e mi domandò se sapevo cosa significasse quel mandato di comparizione. «Oh», risposi io, «il G2 mi ha probabilmente scovato un’altra mezza dozzina di traduttori per i miei film giapponesi. Adesso dovrò trovarne altrettanti per i film russi. Sarò qui fra cinque minuti». Trovai il colonnello Fitzgerald giù nel reparto off-limits del G2. Con lui c’erano un giovane maggiore con uno schedario aperto e un anonimo stenotipista in abiti borghesi. Dopo aver controllato il mio documento di identità il colonnello, un uomo imperturbabile con gli occhiali, mi annunciò solennemente che ero agli arresti e che non avrei potuto comunicare con l’esterno sino al termine dell’inchiesta. Mi avvisò che qualunque cosa avessi detto avrebbe potuto essere usata contro di me e che avevo diritto a un avvocato scelto da me, altrimenti la segreteria dell’aiutante generale me ne avrebbe procurato uno d’ufficio. Se sceglievo di essere rappresentato da un avvocato, si sarebbe fatta un’inchiesta formale, ma se vi avessi rinunciato, lui avrebbe proceduto con un interrogatorio informale. «Colonnello Fitzgerald», domandai, «posso sapere di cosa diavolo sta parlando?» Si piegò in avanti e disse: «Sto parlando di una grave violazione degli Articoli di Guerra, una violazione che in tempo di guerra può essere considerata un’offesa capitale». Di che violazione si trattasse l’avevo facilmente intuito ma volevo giocare a fare il tonto. «Mio caro colonnello», dissi, «non ho mai sentito parlare di Articoli di Guerra. Tutto quel che so di norme militari è che si saluta militarmente e ci si rivolge ai superiori col termine “signore”. Cos’è allora questa violazione per cui rischio la forca?» Mi porse una fotografia 8 X 11. Era un’immagine sgranata, presa da molto lontano, di me che fischiettavo davanti a una porta d’ingresso con le mani in tasca. «Ehi, ma questo sono io, colonnello! Sono davanti all’ambasciata sovietica. Quindi voi fotografate tutti quelli che entrano ed escono dalle ambasciate! Davvero una trappola geniale!», dissi, ostentando la massima ammirazione. L’imperturbabile colonnello aveva un’espressione stranita in faccia. Il suo aiuto, il maggiore, si portò la mano davanti alla bocca e il povero stenotipista sembrava una pallida imitazione del clown triste. «Questo significa che lei ammette di essere l’individuo fotografato davanti all’ambasciata sovietica?»
«Ma è ovvio. E aggiungo che sono stato due volte a pranzo con l’ambasciatore Litvinov e la signora Litvinov, una donna inglese che si chiamava Ivy Low. Un momento! Adesso ho capito! Voi sospettate che io mi sia messo a fare la spia per i russi o qualcosa del genere! Se è così siete proprio toccati. E maledizione, colonnello! Se avrete la cortesia di tenere il naso fuori da questa faccenda per un’altra settimana io sono sicuro di convincere l’ambasciatore russo a darci del materiale di valore enorme per il futuro: filmati che mostrano soldati sovietici mentre utilizzano gli strumenti inviati in aiuto dagli Stati Uniti. Capito?» «Per autorizzazione di chi lei ha preso contatti con i rappresentanti di una potenza straniera?» «Mi sono autorizzato da solo. Il generale Marshall mi ha dato un lavoro da fare e io... Guardi, colonnello, glielo racconto per filo e per segno...» Feci il riassunto di tutta la storia: i film di «Perché combattiamo», il punto a cui ero arrivato per avere i film russi sulla guerra e il punto ancora più avanzato a cui ero giunto per entrare in possesso di prove fotografiche degli aiuti che i sovietici avevano ricevuto da noi per sbaragliare i nazisti. «Se questo è un tradimento», conclusi da buon retore, «allora, avanti! Portatemi davanti al plotone d’esecuzione e fatemi fuori! Se invece non lo è, allora lasciatemi uscire e fatemi tornare subito al lavoro!» Il colonnello Fitzgerald si lasciò andare indietro sulla sedia, senza parole. Gli si leggeva in faccia il fastidio che provava nel sentirsi messo in pericolo da stupidi civili in divisa che non rispettavano le norme. Eppure intorno agli occhi del giovane maggiore il vago indizio di un sorriso balenò un attimo, per poi sparire subito. Il povero stenotipista non accennava a dare segni di vita ma sapevo che quella sera avrebbe avuto una bella storiella da raccontare alla moglie. «E porco mondo!», aggiunsi tenendo a freno la collera. «Se lei insiste nell’impedirmi di portare a termine gli ordini del capo di stato maggiore esigo una trascrizione autenticata di questo folle interrogatorio. Sono sicuro che Drew Pearson lo stamperà parola per parola!» Questo era un metodo che funzionava sia nella vita civile che in quella militare: la migliore difesa è un attacco preventivo e inaspettato. So che le donne comprenderanno bene cosa voglio dire. «Farò sapere al generale Osborn», disse calmissimo il colonnello, «che lei dovrà restare a disposizione per un ulteriore interrogatorio. Adesso può andare». Nell’ingresso, oltre i cartelli che dicevano off-limits, trovai Lyman Munson che andava avanti e indietro. La sua giacca d’ordinanza era bagnata di sudore sotto le ascelle. Lo raggiunsi e uscimmo fuori senza dire una parola. Una volta lontani da eventuali microfoni, dissi quasi sottovoce: «Lyman, io devo delle scuse a te e a Osborn. Ho fatto minacce a un culo di piombo che voleva sbattermi davanti alla corte marziale». Il seguito è pressappoco questo: un’ammonizione verbale da parte dei miei immediati superiori e un incontro ufficiale con due attaché militari sovietici nell’ufficio del colonnello Fitzgerald. Ci scambiammo dei documenti in cui era attestato il reciproco scambio di materiale cinematografico sulla guerra in atto. Quindi il colonnello Fitzgerald chiese che firmassero un documento in cui si incaricavano formalmente gli operatori sovietici di fotografare il nostro materiale bellico tuttora in uso nell’esercito sovietico. Gli attaché russi rimasero a bocca aperta. Poi uno disse: «Ma colonnello, com’è possibile fotografare qualcosa che in realtà non esiste?» E poi di nuovo al lavoro, nei nostri quartier generali in Western Avenue a Hollywood dove il successo di Preludio alla guerra era stato una bella scarica di adrenalina per tutti, e dove le cose procedevano a ritmo incalzante. Tutti gli sforzi erano diretti a terminare quanto prima i film numero due e tre della serie «Perché combattiamo»: L’attacco nazista e Dividi e conquista. E c’era anche in ballo la realizzazione del film sul soldato di colore al quale stavamo lavorando Carlton Moss e io, e della cui regia fu incaricato Stuart «Stu» Heisler. Ma all’improvviso... Le voci arrivarono da Washington all’Ovest volando a tutta velocità: i colonnelli della vecchia guardia stavano per essere esiliati in qualche isola d’Elba del Corpo Trasmissioni. Il primo a cadere
fu il colonnello Schlosberg, il Dalai Lama dell’impero cinematografico dell’Esercito. Peccato. Lo dico veramente. Una disgrazia dovuta alla miopia della sua mente squadrata. Prima che le stelle confermassero la nascita di un nuovo Dalai Lama fu messo sul trono un reggente: il colonnello Kirke B. Lawton, un ufficiale «pulito» del Corpo Trasmissioni, non privo di aperture amichevoli. Ricevemmo un telegramma in cui si diceva: «Avete bisogno di qualcosa? [...] C’è qualcosa che possiamo fare per darvi una mano?» E noi, gentili ma secchi: «No grazie. Non abbiamo bisogno di niente». Tuttavia poco dopo – quasi fosse una punizione per la nostra arroganza – fu addirittura la stessa esistenza dell’unità di Frank Capra a essere minacciata. E la fonte di quelle minacce era tanto inaspettata quanto potente. Ecco qui di seguito dei passi tratti dall’edizione dell’11 febbraio 1943 dell’Hollywood Reporter: MELLETT E IL DIPARTIMENTO DELLA GUERRA GRAN RUMORE SUL FILM PRELUDIO ALLA GUERRA
La diffusione del film nelle sale è motivo di contrasti a Washington. Più d’una controversia s’è aperta a proposito del film Preludio alla guerra. Il senatore Holman pensa che sia propaganda, un termine spregevole per il presidente Roosevelt, e raccomanda un’indagine su questo e su tutti i film governativi. Ma la cosa non finisce lì giacché si è aperta un’altra controversia fra Lowell Mellett e il Dipartimento della Guerra a proposito dell’opportunità o meno di presentare il film nelle sale cinematografiche a tutto il pubblico. [...] Mellett pensa che Capra si sia lasciato prendere la mano, realizzando uno spettacolo troppo infarcito d’odio per un pubblico normale [...] Mellett ha dichiarato ieri all’Hollywood Reporter che dà il benvenuto all’indagine senatoriale di Holman.
Ciononostante, e a dispetto dei balenieri del Congresso e dei blocchi stradali del Corpo Trasmissioni, la serie «Perché combattiamo» fu completata. E a dispetto delle pesanti considerazioni di Lowell Mellett – e cioè che il pubblico di cittadini comuni avrebbe conosciuto la vera natura del nemico e che conoscendola si sarebbe nutrito d’odio – Preludio alla guerra fece il suo ingresso nelle sale cinematografiche. Dieci milioni di persone furono messe di fronte – forse per la prima volta – alla realtà della guerra. Molti ne furono traumatizzati. Giacché essa era un inferno ma un inferno reale. Si veniva feriti. Si moriva. Tutto veniva devastato. E soprattutto una cosa faceva paura: che i capi nemici erano dei pazzi. Dopo una presentazione a invito al MoMa, John Gunther scrisse: «Sono così assuefatto a documentari, film di montaggio, bandiere sventolanti in ogni sequenza di film che dubitavo si potesse fare qualcosa di nuovo... il film era perfetto – tutto era fatto come si doveva – per scuotere gli animi e convincere». H.V. Kaltenborn aggiunse: «un lavoro magnifico. Per quanto ne so, è la prima volta che è stata presentata una documentazione storica vera di questi dieci anni di aggressioni». E anche Harold Ross, direttore e editore della rivista The New Yorker, si lasciò scappare delle parole di apprezzamento: «Sarebbe questo il film a cui l’altro giorno gli uomini del Congresso han fatto le pulci? Non si può certo parlare di propaganda. Quella è tutta verità!» Andò invece molto più in là la nota columnist Dorothy Thompson definendo il film «il più grande romanzo del nostro tempo». I nostri film per l’Esercito non fecero soltanto notizia sui giornali, ebbero anche dei premi. Preludio alla guerra ebbe un Oscar come miglior documentario del 1942. I critici cinematografici di New York compilavano annualmente una loro lista, conferendo dei premi altamente prestigiosi ai migliori. L’agognato riconoscimento l’avevano avuto un mio film, È arrivata la felicità, e una delle mie star, Jimmy Stewart, per Mr. Smith. Io, personalmente, mai nulla. Ero rimasto fuori dalla festa.
Mi ci fecero entrare con i film per l’Esercito. Nel 1944 «Perché combattiamo» ricevette il New York Film Critics Award come miglior documentario. Questi premi furono consegnati a me come capo della mia unità, ma onoravano e appartenevano alla quarantina di meravigliosi artisti, dal primo all’ultimo, che avevano dato l’anima per realizzare i nostri film. In particolare, voglio dividere tutti gli onori con i miei cinque uomini chiave: il regista Anatole Litvak, gli scrittori Tony Veiller ed Eric Knight, il mio primo impiegato Edgar Peterson, e il montatore William Hornbeck. Senza di loro i film di «Perché combattiamo» non si sarebbero realizzati. Le sale pubbliche in Canada, Gran Bretagna, Australia, nell’Europa non occupata e in Sudamerica proiettavano tutti e sette i film della serie. E la Russia? Così dice Leonard Lyons in un suo articolo del 22 aprile 1944: L’ambasciata sovietica ha fatto sapere al colonnello Frank Capra del Corpo Trasmissioni che Stalin voleva vedere il film sulla Russia (La battaglia di Russia), il quarto film della serie prodotta per l’Esercito. Un bombardiere era pronto al decollo e perciò non c’è stato il tempo per preparare una versione russa del testo scritto dal maggiore Anthony Veiller [...] Stalin ha visto il film in una sala di proiezione. Un interprete sovietico alle spalle del maresciallo traduceva frase per frase [...] Stalin ha ordinato cinquecento copie da avere subito coi sottotitoli sovraimpressi, e [...] il film è stato presentato in tutte le sale cinematografiche della Russia.
Quando il generale di divisione William H. Harrison venne a controllare l’intera struttura della nostra unità, mi inchiodò al muro con una domanda diretta: «Capra! Sta cercando di dirmi quello che Harry Hopkins ha detto pubblicamente e Lyman Munson ha ipotizzato in privato? Che lei sarebbe pronto a prendere il comando dell’Army Pictorial Service?» «No, signore! Io sono un uomo di cinema. Quello di cui avete bisogno voi è un amministratore capace di mobilitare e usare le forze del cinema della nostra nazione perché diano un valido aiuto alla vittoria della guerra. Qualcuno come il colonnello Munson...» Brillanti ufficiali come Lyman Munson non erano adatti a farsi trovare in giro per i corridoi del Pentagono a guardare le belle gambe delle segretarie. Ce n’erano pochi come lui. Proprio per questo doveva essere lui. E il programma dei film per l’esercito prese fuoco. Insieme al generale Harrison e al tenente colonnello Sam Briskin, uno dei più capaci dirigenti di Hollywood (ritirato a vita civile per una disfunzione cardiaca), Munson riorganizzò tutto l’impero cinematografico dell’esercito. Come era da prevedersi, trovò (e già in uniforme) molti bravi uomini di cinema da mettere alla guida di molte imprese cinematografiche: il colonnello Emmanuel «Manny» Cohn, uno dei più importanti dirigenti degli studi Paramount, ebbe l’incarico di dirigere il Photo Center di Astoria a Long Island; il tenente colonnello Robert Lord, uno scrittore-produttore di Hollywood, divenne il produttore esecutivo di tutti i film di addestramento; il maggiore Kenneth MacGowan, scrittore hollywoodiano, succedette alla direzione dei film destinati a incentivare la produzione di guerra e il tenente colonnello Anatole Litvak fu lasciato al comando del nostro Photo Center di Hollywood in Western Avenue. Come ufficiale supervisore della produzione a Washington, Munson scelse il tenente colonnello Buddy Adler (che più tardi diventò capo produzione negli studi della 20th Century Fox). Quale sarebbe stato il mio ruolo nella rinnovata dinastia del cinema? Non sapevo che cosa Munson avesse in mente per me ma certo io sapevo cosa volevo. Io volevo migliorare la posizione del fotografo militare. Le compagnie di fotografi destinati a lavorare sul campo e gli operatori d’assalto erano stipati come piccioni nelle sedi locali del Corpo Trasmissioni, lontanissimi dalle direttive del comando militare di zona e dal suo staff. Gli ordini da Washington arrivavano a loro dopo esser passati da un ufficiale delle Trasmissioni all’altro e la maggioranza di costoro tutto aveva
in mente fuorché l’occuparsi di cinema e operatori. Gli uomini dell’ufficio Pubbliche Relazioni dell’esercito erano, al contrario, in diretto contatto col comandante delle operazioni militari e il suo staff. Se avessi potuto strappare i fotografi d’assalto al controllo controproducente degli ufficiali delle Trasmissioni di zona e metterli alle dirette dipendenze degli ufficiali delle Pubbliche Relazioni, sapevo che i gruppi fotografici sarebbero stati molto più contenti e i servizi fotografici sarebbero decisamente migliorati. Sapevo anche che per ottenere quello strappo ci voleva una leva terribilmente grande, ed ecco che la leva mi fu messa in mano! Proprio così. Nell’agosto del 1943, più o meno quando la serie «Perché combattiamo» era quasi completata e i bastioni della vecchia dinastia cinematografica stavano per essere abbattuti, colonnello dopo colonnello, un nuovo elemento di forza fece il suo ingresso nell’immagine in celluloide: il generale di divisione Alexander P. Surles, comandante in capo delle Pubbliche Relazioni dell’esercito. Il generale Surles era alto, magro e malaticcio. Era il solo uomo che avessi mai visto del quale si poteva dire che avesse davvero un buco nella testa. In una delle tempie aveva un’incisione, la cui forma e misura ricordavano una moneta da cinque cent, e sotto la pelle pareva non esserci più osso, solo quel po’ di carne cicatrizzata. Ho sempre pensato che fosse una finestrella che i chirurghi avevano lasciato aperta per poter andare, di tanto in tanto, a vedere cosa succedeva dentro il cranio di quell’uomo. Immagino che l’esercito avesse tentato di proporgli il congedo permanente per invalidità, ma mi sa che l’unica invalidità che possa indurre quelli di West Point al congedo è il rigor mortis. E del resto pochi potevano eguagliare la geniale pazienza di cui Surles dava prova nel raffreddare le invettive contro l’esercito. L’ultima stizzosa invettiva veniva dallo stesso esercito. Desert Victory («Vittoria nel deserto»), il film prodotto dall’esercito inglese, stava conquistando tantissima popolarità nelle sale cinematografiche di tutto il mondo. Le facce di bronzo del nostro esercito domandavano: come mai Surles e la gente che lavora nelle Pubbliche Relazioni non ha fatto opere come Desert Victory sulle imprese belliche americane? E adesso gli inglesi stavano continuando la produzione in tal senso. Avevano appena finito un nuovo film sullo sbarco degli alleati e sull’occupazione del Nordafrica. Si chiamava Africa Freed («Africa liberata»). Giunsero al generale Surles dei comunicati stampa sul film in cui si diceva che gli inglesi si erano affibbiati il ruolo principale in quello che era stato uno sforzo congiunto delle forze angloamericane, coprotagoniste, con una piccola parte affidata a quelle della Francia libera. Surles protestò con Brendan Bracken (vertice del ministero dell’Informazione) sostenendo che il film inglese minimizzava l’apporto americano nel Nordafrica. Bracken rispose che la cosa era andata così perché i fotografi di guerra americani avevano filmato pochissimo. Surles aggiunse che era un tantino ridicolo fare due versioni cinematografiche separate, una inglese e l’altra americana. E Bracken ribatté che sarebbe stato molto felice di discutere il progetto, soprattutto se il film fosse stato prodotto, da parte americana, dal tenente colonnello Frank Capra (gli uomini del ministero dell’Informazione avevano molto ammirato e contribuito a lanciare la serie «Perché combattiamo»). Il generale Stuff mi aveva temporaneamente fatto entrare nello staff delle Pubbliche Relazioni. «Capra», disse, «vada a Londra per verificare se è possibile realizzare un film angloamericano. Se ne esistono le condizioni, tratti meglio che può con gli inglesi. Mi pare che il nostro presidente e il primo ministro inglese vedano di buon occhio la circolazione di un film realizzato dalle forze alleate. E comunque cerchi di tirare l’acqua al nostro mulino, mi raccomando». Sapevo bene che fare un film assieme avrebbe comportato delle vischiose decisioni di alta politica dato che erano implicati due poteri diversi, e pregiudizi e orgogli nazionali. Ero molto onorato di essere il negoziatore con pieni poteri per le forze armate americane ma sentivo anche che era il momento di prendere la parola per i fotografi di guerra.
«Generale, io mi sono rimboccato le maniche e ho dato vita a un’unità indipendente e separata per realizzare la serie «Perché combattiamo». Perché non fa sì che ci sia una unità del Corpo Trasmissioni separata e indipendente destinata a realizzare servizi di informazione cinematografica, che sia responsabile solo davanti a lei, e agli ufficiali delle Pubbliche Relazioni in tutto il mondo?» La proposta marciò. Abbandonai il comando dell’834° Photo Signal Detachement assegnato ai Servizi speciali e fui messo al comando della sezione copertura speciale del Corpo Trasmissioni, in servizio distaccato alle Pubbliche Relazioni. I miei compiti concernevano l’organizzazione di squadre speciali di servizi fotografici con l’espressa approvazione dei generali al comando nei diversi teatri delle operazioni belliche (c’era una sola clausola: che completassi il settimo film di «Perché combattiamo» e Il soldato negro per il generale Osborn). I primi uomini che portai nella nuova sezione Special Coverage furono Stevens, Huston, Veiller, due montatori (White e Claxton) e i loro assistenti (Dunning e Beetly). Il nostro primo lavoro fu andare a Londra col nostro film sul Nordafrica e trattare con gli inglesi una fusione con il loro per una produzione combinata delle forze alleate angloamericane. Il nostro secondo obiettivo era ottenere l’approvazione del generale di Corpo d’Armata Jacob Devers, al comando dell’ETO (European Theatre of Operations), per l’inclusione nei piani d’invasione delle nostre squadre dello Special Coverage. Una sera vidi Clark Gable nell’ingresso di Grosvenor House. Era capitano nelle forze aeree. C’erano con lui molti altri ufficiali delle Forze Aeree, compreso il suo comandante. Clark sembrava in forma ma non fu granché contento di vedermi, né pareva gradire di stare in compagnia. Chiesi al suo comandante come si comportava. Il generale cominciò a parlare e non si fermò più: «Come va? Ci sta facendo venire un infarto, ecco come va! Quel pazzo vuol sempre fare il mitragliere in ogni bombardamento! Altro che pubbliche relazioni! Quello lì è una patata bollente! Sto tirando tutti i fili che posso per non averlo più sotto il mio comando. Quello lì mi fa venire la pelle d’oca! Sa cosa penso? Che Gable ci stia provando. A farsi ammazzare intendo! Già! Per raggiungere la moglie». Londra era al buio ma si potevano riconoscere le voci dei soldati americani a Piccadilly Circus o in Grosvenor Square (soprannominata Eisenhower Platz). E mi capitò almeno due volte di sentire dei soldati di stanza lì che per scherzo gridavano: «Carica!» Poco dopo, alla mensa della Royal Air Force a Pinewood, un nugolo di avieri inglesi corse verso il mio tavolo brandendo delle sciabole immaginarie e urlando: «Carica!» Puntai il dito verso di loro e gridai: «Ma voi ragazzi avete visto Arsenico e vecchi merletti, vero?!» «Esatto! E siamo morti dal ridere, davvero!» Il vecchio caro Jack Warner aveva fatto circolare il mio film Arsenico vecchi merletti nelle forze armate un anno prima della distribuzione per le sale cinematografiche. Il «Carica!» di Batty Teddy Roosevelt che va su di corsa per le scale era diventato uno slogan dei soldati americani. Più tardi fu adottato come incitamento all’azione dai fan dei Dodger di Los Angeles. E così è stato per altri fan del baseball. Anche oggi «Carica!» è il grido di battaglia in voga fra i sostenitori della squadra del cuore in molti sport. Probabilmente ricorderete come mi ero dato da fare per realizzare Arsenico e vecchi merletti puntando su una percentuale sui guadagni onde non intaccare i risparmi e mantenere la mia famiglia mentre ero nell’esercito. In realtà la cosa si risolse in un disastro. Il film non arrivò alle sale cinematografiche se non nel 1944. E allora sì, cominciò a fruttare danaro, tanto e velocemente: il mio primo assegno fu di 232.000 dollari. Eccezionale! Eccezionale un corno! Le tasse federali e statali si portarono via 205.000 dollari. Credo che sia stato Sidney Bernstein, capo della divisione Cinema del ministero dell’Informazione a
darmi la notizia che mi tolse il fiato: «Il Primo Ministro vuole vederla nel suo ufficio...» Presi in prestito macchina e autista dal maggiore Hugh Stuart e volai al 10 di Downing Street. Fu sublime il momento in cui Winston Churchill chiuse le sue mani intorno alla mia e si congratulò per i film di «Perché combattiamo». Era grato al generale Marshall, a me, ai miei ragazzi per l’intero progetto e disse che se avessi portato una équipe tecnica al completo nel suo studio avrei potuto riprenderlo mentre teneva un discorso che aveva scritto come introduzione per presentare «i suoi bellissimi film al pubblico inglese». La mattina dopo, il 29 settembre, prima dell’alba io e un’équipe tecnica inglese eravamo già al numero 10 di Downing Street a far passare macchine da presa, cavi, giraffe oltre un muro, attraverso un giardinetto, fin dentro la finestra sul retro dell’ufficio di Churchill. Tony Veiller era lì intorno che sperava di poter dare una rapida occhiata al Primo Ministro. Gli dissi di aspettare davanti alla porta d’ingresso: avrei tentato di farlo sgusciar dentro durante le riprese. Quando entrai nel Gabinetto attraverso una porta di servizio, vi trovai là Veiller seduto sulla poltrona del Primo Ministro che leggeva un giornale. «Come hai fatto a entrare qui?», gli chiesi. «Roba da nulla», rispose lui, guardandomi placidamente negli occhi. «Ho bussato e ho detto che ero il capitano Veiller, e che dovevo sovraintendere le riprese. Pronto,