Il negazionismo. Storia di una menzogna 885812331X, 9788858123317

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Il negazionismo. Storia di una menzogna
 885812331X, 9788858123317

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Storia e Società

Claudio Vercelli

Il negazionismo Storia di una menzogna

Editori Laterza

© 2013, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione gennaio 2013

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Edizione 5 6

Anno 2013 2014 2015 2016 2017 2018

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-0519-1

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

alla rodente passione del Castoro, che mi ama del pari solo a quanto riesce ad amare i libri, sapendo che ogni libro ha più modi di essere letto, molteplici storie e tante stagioni

Introduzione Il frutto nutriente di ciò che viene compreso storicamente ha al suo interno come seme prezioso ma privo di sapore il tempo. Walter Benjamin Sul concetto di storia

Questo libro si occupa di negazionismo olocaustico. Lo indaga da più punti di vista, non solo ricostruendone la storia ma cercando di mettere a fuoco, nel limite delle sue pagine, gli aspetti concettuali e ideologici, gli addentellati politici e le ricadute nella discussione pubblica. Così facendo, si pone il problema di affrontarne la natura di fatto sociale, sulla falsariga di come Émile Durkheim definisce tale concetto, laddove ci si riferisce a «tutto ciò [che] nella società – essendo parte intrinseca di questa, non riducibile a fatti psicologici o biologici o fisici, sul genere del costume, delle norme di legge, delle forme di insediamento – si presenta vuoi all’esperienza dell’uomo comune, vuoi all’osservatore, come un dato esterno e indipendente, non modificabile né dalla loro volontà né dal modo in cui lo interpretano»1. Il perché di questo approccio è presto detto: si tratta di affrontare un tema altrimenti sfuggente – come tale capace da subito di mobilitare gli animi e di tradursi, nel caso nostro, in una condanna inappellabile – in quanto oggetto di studio, riconducendolo al suo essere even-

1   Fatto sociale, in Luciano Gallino (a cura di), Dizionario di sociologia, Utet, Torino 1983, p. 313.

­VIII Introduzione

to nella sua oggettività, da sviscerare in tali vesti. Non è quindi, la nostra, l’assunzione di un’impossibile neutralità valoriale ma il tentativo, peraltro molto difficile, di circoscriverne la natura (posto che esso tende a sfuggire a questa ricognizione), per poi meglio adoperarsi in una sua lettura critica. Non ci si è astenuti dall’esprimere le proprie opinioni ma lo si è fatto cercando di usare la necessaria distanza critica, almeno laddove possibile, per non trasformarle subito in polemiche. Poiché se si trattasse solo di formulare un giudizio di valore non ci sarebbe la necessità di scriverne ancora sopra. Il negazionismo, si cercherà di argomentare in tal senso, somma falso a vero, li miscela e rende relativa la nozione stessa di evento. Per ristabilire un ordine logico richiede quindi che lo si affronti in quanto fatto sociale, cioè nella sua chosité, nel suo insieme di autori, pensieri ed eventi che si impongono agli interlocutori e al grande pubblico, per poi letteralmente smascherarlo, obbligandolo a scendere al piano più concreto degli accadimenti storici la cui oggettività è l’obiettivo del suo attacco. Ma sulla onerosità di tale impresa, ovvero sull’impossibilità di dare per scontato ciò che tale non è, quindi per meglio capirci su quale sia la posta in gioco, ci aiutano due affermazioni di Pierre VidalNaquet: «La caratteristica della menzogna è quella di presentarsi come verità [...] Quando un racconto fittizio è ben congegnato, non contiene in sé i mezzi per essere demolito in quanto tale»2. E ancora: «Non si confuta un sistema chiuso, una menzogna totale che non rientra nell’ordine del confutabile dal momento che la conclusione precede le prove»3. In questo libro non si giudica la menzogna. Piuttosto ci si interroga in che cosa consista e cosa comporti. Poiché, per citare un altro importante autore, Georges Bensoussan: «La ragione misura i suoi limiti di fronte ad un sistema di pensiero tautologico, chiuso su sé stesso, dove la risposta precede la domanda e l’essenza spiega l’esistenza»4. 2   Pierre Vidal-Naquet, Gli assassini della memoria: saggi sul revisionismo e la Shoah, Viella, Roma 2008 (ed. or., Les assassins de la mémoire: ‘un Eichman de papier’ et autres essais sur le révisionnisme, La Découverte, Paris 1987), pp. 112-113. 3   Ivi, p. 147. 4   Georges Bensoussan, Négationnisme et antisionnisme: récurrences et convergences des discours du rejet, in «Revue d’histoire de la Shoah», n. 166, maggioagosto 1999.

Introduzione

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La totalità della menzogna non sta nelle singole affermazioni ma nel loro utilizzo in sequenza, all’interno di un universo di significati che è menzognero poiché perviene a negare la realtà dei fatti. E allora, per ragionare su un sistema coordinato di affermazioni che negano certi eventi comprovati, bisogna assumere che quel sistema sia un fatto in sé, ovvero un modo di porsi nei confronti della realtà, alla quale però si sostituisce completamente. Il negazionismo, sul piano dei concetti, non è propriamente un’ideologia compiuta così come, sul versante di coloro che lo professano e lo condividono, non costituisce una setta, anche se molte delle sue manifestazioni e dei comportamenti di coloro che si riconoscono in esso farebbero pensare altrimenti. Si tratta piuttosto di un atteggiamento mentale che si traduce in un modo di essere nei confronti del passato. Al giorno d’oggi si presenta come il prodotto della stratificazione e dell’interazione di tre elementi: il neofascismo, il radicalismo di alcuni piccoli gruppi della sinistra più estrema e il viscerale antisionismo militante delle frange islamiste. Su ognuno di questi aspetti, tra di loro spesso ibridati, interviene poi il sistema delle comunicazioni di massa, laddove la ricerca dello ‘scandalo’ purchessia diventa un invidiabile volano di pubblicizzazione di tesi e affermazioni sospese tra l’inverosimile, il bizzarro e il diffamante. «Il revisionismo è un fenomeno antico, ma la crisi si è aperta, in Occidente, solo dopo la massiccia diffusione di Olocausto, cioè dopo la spettacolarizzazione del genocidio, la sua trasformazione in linguaggio puro e in oggetto di consumo di massa»5. In tali condizioni, come ha sostenuto al riguardo il regista Jean-Luc Godard, «l’objectivité, c’est 5 minutes pour Hitler, 5 minutes pour les Juifs». Credo non necessiti di traduzione. Il negazionismo è un piccolo universo autoreferenziato, per alcuni aspetti quasi un genere letterario a sé, che non viene scalfito dalla ragione poiché ha una sua ragione, che riposa sulla negazione. C’è chi ha parlato, e non a torto, di «letteratura esasperante»6. Sta   Pierre Vidal-Naquet, Gli assassini della memoria cit., pp. 169-170.   Così Michael Shermer e Alex Grobman, Negare la storia. L’Olocausto non è mai avvenuto: chi lo dice e perché, Editori Riuniti, Roma 2011 (ed. or., Denying History: Who Says the Holocaust Never Happened and Why Do they Say It?, University of California Press, Berkeley 2000). 5 6

­X Introduzione

di fatto che il negazionismo, nei suoi parossismi, chiama in causa le questioni capitali delle rappresentazioni ricorrenti del passato e dello statuto della narrazione storica: su quali basi riposa il consenso collettivo, linguistico, semantico ma anche cognitivo, che ci occorre affinché una certa idea di passato sia patrimonio comune? La domanda è tanto più importante se si pensa alla rilevanza che il ricordo della Shoah ha assunto nelle società occidentali. I negazionisti intervengono pesantemente su questa complessa tela, fatta di infiniti fili intrecciati, dilacerandola. In tale modo, presentandosi sotto le mentite spoglie di innovatori, di demistificatori, sfidano non tanto ciò che riguarda il passato ma il modo in cui intendiamo concepire e vivere il presente, mettendo in discussione aspetti fondamentali della convivenza civile, a partire da un linguaggio e da dei significati condivisi. Poiché, come è stato sostenuto: La negazione del genocidio ebraico, fenomeno che potrebbe apparire, prima facie, periferico e congiunturale, apre in realtà uno squarcio sulla realtà attuale estremamente significativo, in quanto mette in gioco valori, abitudini del discorso e del pensiero, col preciso intento di collocare e far radicare quella negazione nel cuore della cultura occidentale. [...] esso attacca la memoria storica in uno snodo cruciale, negando un evento che è stato un punto di non ritorno della storia7.

Rileva con la puntualità che gli è propria lo storico Henry Rousso: È meglio considerare questo movimento [il negazionismo] come un fatto della società e della cultura, addirittura come un sintomo che ci parla dei margini delle nostre società democratiche. [Esso] ha sollevato seri problemi epistemologici sullo statuto della verità in storia, sulla questione dei sistemi di veridicità, sull’aspetto delle interpretazioni plurali del passato, elementi che [sono] oggetto di accese controversie. Esso ha sollevato domande sui metodi per il migliore modo di analizzare le strutture argomentative della negazione di un fatto così netto e incontestabile quale l’Olocausto, un problema che gli storici hanno sovente evitato per soffermarsi o sulla concretezza dei fatti manipolati 7   Daniela Bifulco, Negare l’evidenza:. Diritto e storia di fronte alla “menzogna di Auschwitz”, Franco Angeli, Milano 2012, p. 12.

Introduzione

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o sulla posizione dei negazionisti. La questione dell’argomentazione è essenziale poiché la negazione dell’Olocausto appartiene a un registro del discorso sempre più diffuso, fondato nella sua essenzialità sul sospetto universale, che rende vana ogni argomentazione scientifica di tipo classico, la quale si basa su un minimo di convenzioni, di fiducia, di proposizioni implicite condivise, come l’impossibilità radicale di poter «provare» tutto in un enunciato scientifico8.

La narrazione controfattuale negazionista – si cercherà di argomentare – è l’apoteosi della mitografia. Non è un caso se essa si presenti nei termini di un disvelamento, un’accecante ‘liberazione’ dai fumi della menzogna dominante. Così facendo essa non assolve a nessun obbligo di conoscenza ma istituisce un paradigma assoluto, un totem che vorrebbe contrastare il tabù ‘sterminazionista’. Da ciò si origina una ricostruzione del passato amorfa, neutra, senza vita, priva di dinamiche interne che non siano quelle derivanti dalle congiure e dai complotti, dalle ombre e dai fantasmi, dalle omissioni e dalle manipolazioni. È una ‘storia’ doppiamente traditrice, vuoi perché sostituisce al vero il finto, vuoi perché adoperandosi per dire che i morti non sono tali celebra non certo la vita bensì la morte medesima.

8   Henry Rousso, Les racines politiques et culturelles du négationnisme en France, http://www.chgs.umn.edu/histories/occasional/Rousso_Roots_of_Ne gationism_in_France.pdf, pp. 19-20.



Il negazionismo Storia di una menzogna

1. Il negazionismo: una definizione in forma di introduzione 1.1. Mettere a fuoco il problema: il senso delle parole Partiamo da un paio di dichiarazioni. La prima sostiene che Le pretese camere a gas hitleriane e il preteso genocidio degli ebrei formano un’unica menzogna storica che ha permesso una gigantesca truffa politico-finanziaria di cui i principali beneficiari sono lo Stato d’Israele e il sionismo internazionale, e di cui le principali vittime sono il popolo tedesco, ma non i suoi dirigenti, e il popolo palestinese nel suo insieme1.

Nella seconda, invece, si afferma: Su una tragedia reale era stato edificato un mito che la travisava ed amplificava alle dimensioni di accadimento senza precedenti nella storia e la sostanza di questo mito si dileguava mano a mano che le asserite modalità di attuazione del preteso sterminio, la sua asserita progettazione e i suoi asseriti esiti venivano sottoposti ad un’indagine incardinata su quei criteri al cui impiego metodico la ricerca storica è debitrice della propria capacità di produrre certezze, e, con ciò, del proprio statuto di disciplina scientifica2.

  Pierre Guillaume, Droit et histoire, La Vieille Taupe, Paris 1986, p. 18.   Cesare Saletta, Prefazione a Paul Rassinier, La menzogna di Ulisse, Graphos, Genova 1996 (ed. or., Le Mensonge d’Ulysse, Éditions Bressanes, Bourgen-Bresse 1950). 1 2

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Il negazionismo. Storia di una menzogna

Entrambe si inquadrano dentro il fenomeno del negazionismo olocaustico. Che cos’è? Si tratta di un insieme di affermazioni nelle quali si contesta o si nega la realtà del genocidio sistematico degli ebrei perpetrato dai nazisti, e dai loro complici, nel corso della Seconda guerra mondiale. Questa negazione può assumere forme e caratteri diversi, tutti accomunati però dal rifiuto di considerare come effettivamente accaduto lo sterminio in massa della popolazione ebraica. Allo stesso modo, coloro che si rifanno a queste posizioni, e che sono stati quindi definiti negazionisti (benché rifiutino seccamente tale denominazione, preferendovi quella di «revisionisti»)3, ritengono che il Terzo Reich hitleriano non intendesse procedere all’uccisione in massa degli ebrei, ovvero che tale obiettivo non fosse nei suoi progetti politici e nelle sue motivazioni ideologiche. Se il nazismo non aveva questa intenzione, argomentano i negazionisti, pare assai poco verosimile che abbia pianificato e attuato uno sterminio sistematico della popolazione ebraica europea. Vi furono senz’altro dei morti tra gli ebrei europei, ma questo rientrava nelle logiche brutali della guerra. Pertanto, «per il negazionista, l’inesistenza delle camere a gas è un dato posto come inconfutabile, a partire dal quale riscrivere radicalmente la storia della Seconda guerra mondiale, rifiutando aprioristicamente qualunque documento o testimonianza che attesti l’esistenza dello sterminio»4. Più in generale il negazionismo va inteso come «un fenomeno culturale, politico e giuridico non nuovo» che «si manifesta in comportamenti e discorsi che hanno in comune la negazione, almeno parziale, della verità di fatti storici percepiti dai più come fatti di massima ingiustizia e pertanto oggetto di processi di elaborazione scientifica e/o giudiziaria di responsabilità»5.

3   Il primo ad usare questa espressione è stato Henry Rousso nel suo volume Le Syndrome de Vichy: De 1944 à nos jours, Seuil, Paris 1987, p. 176: «Il grande pubblico scopre [nel 1978] l’equivoco ambiente dei ‘revisionisti’, un titolo che si attribuiscono impunemente: [al] revisionismo della storia, essendo un metodo classico tra gli studiosi, si preferirà qui il barbarismo, meno elegante ma più appropriato, di ‘negazionismo’, perché si tratta chiaramente di un sistema di pensiero, di una ideologia, e non di un criterio scientifico o semplicemente critico». 4   Valentina Pisanty, I negazionismi, in Storia della Shoah, vol. I, La crisi dell’Europa, lo sterminio degli ebrei e la memoria del XX secolo, a cura di Marina Cattaruzza, Marcello Flores, Simon Levi Sullam, Enzo Traverso, Utet, Torino 2005, p. 425. 5   Joerg Luther, L’antinegazionismo nell’esperienza giuridica tedesca e comparata, Dipartimento di Politiche Pubbliche e Scelte Collettive - Polis, Università

1. Il negazionismo: una definizione in forma di introduzione

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I sostenitori di tale approccio si descrivono come individui che, a vario titolo e in diversi modi (soprattutto in qualità di studiosi, pubblicisti, opinionisti), chiedono genuinamente prove concrete, ossia riscontri oggettivi, nel merito della Shoah e del suo effettivo consumarsi durante gli anni della Seconda guerra mondiale6. In altre parole: lo sterminio non c’è stato, ma chi sostiene che è effettivamente avvenuto ha l’onere di comprovarlo in maniera incontrovertibile. Noi, che non ci crediamo, lo ascolteremo e vaglieremo criticamente le prove che dovesse esibire. Ciò affermando, più che nel rinviare da subito alla netta negazione del passato, i negazionisti si autoassegnano la qualità di «storici revisionisti». Sarebbero da intendersi come tali poiché pretendono di rileggere criticamente l’ampia messe di studi disponibili sullo sterminio ebraico. Posta questa premessa, in chiave di rassicurante autolegittimazione, il passaggio successivo del negazionismo è l’affermazione, sospesa tra un marcato scetticismo e il cinico rifiuto, che l’intera storiografia sarebbe viziata da un pregiudizio di fondo, quello di sostenere aprioristicamente e pregiudizialmente l’esistenza dello sterminio, quando in realtà di esso non è comprovato – al di là di ogni ragionevole dubbio – pressoché nulla. Al limite, ed è questa la posizione «riduzionista» che ha un discreto seguito anche tra chi non necessariamente si richiama alla più stretta vulgata negazionista, esso ebbe luogo con modalità e proporzioni diverse da quelle richiamate dalla storiografia; comunque senz’altro minori. Di quest’ultima – che è il loro vero obiettivo polemico – i negazionisti mettono in discussione ciò che essi chiamano, a vario titolo ma quasi sempre con intenzioni sarcastiche, offensive e demolitorie, l’«olocaustomania»7, la «menzogna olocaustica»8, la «sacra vulgata olocaustica»9 e così via.

del Piemonte Orientale «Amedeo Avogadro», Working Papers n. 121, giugno 2008, p. 2. 6   Ad esempio Robert Faurisson, Le falsificazioni di Auschwitz, pubblicato da «Sentinella d’ltalia», n. 259, 1995. 7   Arthur R. Butz, Contesto storico e prospettiva d’insieme nella controversia dell’«olocausto», Graphos, Genova 1998. 8   Holywar, Le ragioni del revisionismo storico contro la menzogna olocaustica, documento in rete del 2005, ora http://www.vho.org/aaargh/fran/livres5/ ragioni.pdf. 9   Carlo Mattogno, Da Francesco Germinario a Luigi Vianelli, ossia il tracollo dell’anti-‘negazionismo’ in Italia, Effepi, Genova 2002.

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Il negazionismo. Storia di una menzogna

L’autoappropriazione del termine «revisionismo» viene fortemente contestata dalla comunità scientifica, che vede in essa un tentativo di occultare, dietro una parola di uso corrente in ambito storiografico, un’operazione di ben diverso costrutto, poiché scientificamente infondata, politicamente indirizzata e moralmente inaccettabile. Il termine «negazionista», in genere non accetto dai negazionisti medesimi, che ne colgono le implicazioni delegittimanti, è invece quello propriamente usato dagli studi storici per definire le condotte che, sotto la parvenza di un’elaborazione critica della rilettura delle fonti, rivelano da subito un intendimento dichiaratamente ideologico, volto a stravolgerne il senso ultimo, sostituendolo con un orizzonte di significati destituito di fondamento fattuale. Quest’ultimo è tale non solo perché non corroborato dall’evidenza dei fatti medesimi, ma – soprattutto – perché indirizzato a un travisamento di senso, funzionale a un obiettivo manipolatorio più o meno palesato da subito. Nei paesi di lingua francese si utilizza quindi la parola négationnisme; in quelli di lingua inglese ci si riferisce all’Holocaust denial (dal verbo to deny, che significa per l’appunto negare); in Germania ci si rifà ad Holocaustleugnung (dal verbo leugnen, che significa negare, ma anche mentire), nei paesi di lingua spagnola Negacionismo del Holocausto; nei paesi di lingua portoghese Negação do Holocausto. La radice comune di queste diverse, ma associabili, denominazioni linguistiche non sta nel solo termine «negazione» ma nel rimando che è immediatamente operato verso ciò che è fatto oggetto di rifiuto: la realtà tout court. I negazionisti, nel non volersi riconoscere come tali, rivendicano il ruolo – che diventa per certuni una sorta di missione – di liberare dalla «menzogna» la storia, affermando quindi di portare alla luce le verità celate. Da ciò deriverebbe l’emancipazione del passato da un’interpretazione cristallizzata, mitologica, in altre parole fondata su qualcosa d’inesistente. Anche per questo risultano seducenti e convincenti per una certa parte del pubblico di ascoltatori e lettori, più o meno ingenua, comunque proclive a interpretare il discorso storiografico come una ‘versione pubblica’, e quindi di comodo, della storia. Il messaggio negazionista può esplicitarsi indipendentemente dai riscontri di fatto; oppure, il che è elemento che ne costituisce il reciproco inverso, per la rilettura capovolta del senso condiviso dei fatti trascorsi. Sono due modi logici di agire complementari,

1. Il negazionismo: una definizione in forma di introduzione

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perché si rinforzano a vicenda: affermare qualcosa senza sforzarsi di comprovarlo ma dichiarandolo alla stregua di una verità indiscutibile (certe cose non sono mai successe, punto e basta); non negare qualcosa che c’è ma attribuirgli un significato alternativo (la parola «evacuazione» non è l’espressione cifrata, di natura burocratica, che indica la deportazione nazista verso i campi della morte, bensì il termine che esprime il trasferimento di una parte della popolazione in altri territori). A questo punto si può affermare che il negazionismo è soprattutto il «tentativo»10 di negare recisamente che la Shoah, lo sterminio sistematico degli ebrei per opera dai nazisti, abbia mai avuto corso. Ad esso rinviano in parte anche quei fenomeni, strettamente connessi alla negazione, che sono invece da intendersi come affermazioni riduzioniste. Il riduzionismo batte soprattutto il chiodo sull’inverosimiglianza del numero dei morti nei Lager. Non furono così tanti. Aprendo una dura polemica sul problema della definizione delle reali misure di grandezza di un crimine di massa, cerca così di delegittimare la comune consapevolezza della volontà omicida che stava alla base del Terzo Reich. Il negazionismo va quindi letto sotto una doppia luce: sul piano metodologico e contenutistico, come l’aggressione preordinata all’agire dello storico, tanto più nel momento in cui questi si adopera nell’indagine relativa alla definizione di una verità di fatto condivisibile (evento e sue correlazioni di senso); sul piano politico e ideologico, come la prosecuzione, sotto mentite spoglie, di un discorso di legittimazione del nazismo attraverso la cancellazione degli aspetti più aberranti e impresentabili della sua storia. Pur nella sua radicalità, che lo rende oggetto di molti rifiuti, esso va inteso anche come parte di un più ampio universo di atteggiamenti e significati tipici di certo populismo culturale, soprattutto laddove «le retoriche negazionistiche hanno ereditato [...] dal ‘socialismo’ nazista antisemita una finta critica dei rapporti sociali dominanti, la mania di spiegare tutto e l’ambizione teorica totalizzante»11. 10   Francesco Germinario, Negazionismo, antisemitismo, rimozionismo, in Giovanna D’Amico (a cura di), Razzismo, antisemitismo, rimozionismo, Israt, Asti 2007, p. 65. 11   Michele Battini, Il socialismo degli imbecilli. Propaganda, falsificazione, persecuzione degli ebrei, Bollati Boringhieri, Torino 2010, p. 225.

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Il negazionismo. Storia di una menzogna

Il negazionismo non intende solo rimuovere fatti e atti scomodi. Vuole ricostruire la storia, darle un indirizzo diverso, un significato nuovo. Come insieme di atteggiamenti ha conosciuto dal dopoguerra ad oggi almeno quattro stagioni: la prima, caratterizzata dall’indirizzo neonazista, teso semplicemente ad occultare i crimini del regime hitleriano (tra il 1945 e il 1965); una seconda fase, economicista, che ha raccolto alcune suggestioni del negazionismo della destra radicale ritraducendole però all’interno di un apparato concettuale di derivazione marxista (tra il 1965 e il 1978); un terzo momento, quello del cosiddetto «negazionismo tecnico», che ha tentato di sganciare l’intero impianto critico da alcune delle sue più marcate premesse ideologiche, fondando i suoi giudizi di valore sull’analisi e la rilettura polemica delle fonti (tra il 1978 e il 1990); il quarto e ultimo periodo, tutt’oggi operante, che nasce dall’intreccio tra l’adozione che del negazionismo è stata fatta dall’islamismo radicale e la sua capacità di propagarsi sul web. Ovviamente questa cronologizzazione non è da intendersi rigidamente. Motivazioni, atteggiamenti, convincimenti si trasfondono da una stagione all’altra, da un autore all’altro. La ricerca storica considera i negazionisti degni di una qualche attenzione, ritenendoli semmai alla stregua di impostori. E non a caso questi ultimi hanno bollato con l’anatema di «sterminazionisti» la totalità dei membri della comunità degli storici, rei, a loro dire, di ripetere pedissequamente una versione ‘ufficiale’, ossia di comodo, della storia. I motivi dell’impossibilità per la storiografia di una qualsiasi comunicazione sono i più vari, a partire dal rifiuto morale, che è soprattutto ripugnanza, nel dare voce, anche solo marginalmente, a coloro che alimentano il diniego dell’evidente, tanto più se questo riguarda violenze e massacri abbondantemente comprovati. Più in generale, chi nega la concretezza dei fatti non può essere considerato per nessuna ragione uno storico, non avendone alcun titolo. Semmai il suo comportamento è ascrivibile ad altro ordine di obiettivi e, soprattutto, a un criterio di natura ideologica. Il problema della concreta incidenza del negazionismo, tuttavia, non si pone sul piano storiografico, fenomeno che può contare su scarsa o nulla udienza (pur a volte cercandola), bensì in due ben diversi e distinti ambiti: il primo è quello della formazione del giudizio di senso comune, dove proprio ciò che in un

1. Il negazionismo: una definizione in forma di introduzione

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contesto scientifico appare intollerabile qui può invece assumere maggiore credibilità, se non altro per l’aura di anticonformismo e alternatività con il quale viene presentato. Non è indifferente a ciò l’ambito in cui si diffonde la comunicazione negazionista. Lo sviluppo del web, dei social network, di siti tematici e, più in generale, di una ‘blogsfera’, ha oggi un forte impatto da questo punto di vista, costituendo la nuova frontiera nella quale le teorizzazioni di tal genere trovano una sorta di tapis roulant che fa scorrere l’impensabile, dandogli patente di nobiltà per il fatto stesso di essere oggetto di ripetute conversazioni. Il secondo ambito è quello se si vuole più tradizionale, ma per questo anche più solido, poiché dotato di una sua intrinseca costanza, che rinvia al nesso stretto tra negazione della Shoah e immaginario antisemitico dal dopoguerra in poi. «L’argomento che lo sterminio degli ebrei (con le articolazioni argomentative che ne seguono: inesistenza delle camere a gas e dei forni crematori, assenza di un preciso ordine scritto firmato da Hitler ecc.) sia stato una gigantesca invenzione per legittimare lo Stato d’Israele, colpevolizzando le nazioni occidentali [...] si è integrato perfettamente in quell’universo argomentativo proveniente dalla ricca quanto secolare tradizione antisemita, la quale, accanto alla figura dell’ebreo come cospiratore o finanziere, prevedeva anche la figura dell’ebreo come persona incline alla menzogna»12. Da questo punto di vista il negazionismo si propone ai suoi interlocutori come un’impresa di igiene ideologica e culturale, volta a sgombrare l’orizzonte del presente dalle incrostazioni di un passato fasullo, poiché ricostruito ad arte, che per il suo illegittimo persistere sarebbe all’origine dell’incomprensibilità dei tempi correnti. Per smontare l’ingranaggio negazionista è bene quindi soffermarsi sull’analisi critica delle posizioni neoscettiche, orientate a ritenere la prova solo come fonte di sé e non di una trama storica più ampia, dentro la quale va comunque contestualizzata. L’attenzione deve essere quindi rivolta anche a quanto Marcel Gauchet rilevava quando andava denunciando il rischio del consolidarsi di una «posizione inesistenzialista»13, che pone aprioristicamente 12   Francesco Germinario, Estranei alla democrazia. Negazionismo e antisemitismo nella destra radicale italiana, Bfs Edizioni, Pisa 2001, p. 59. 13   «Le Débat», maggio 1980.

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in discussione la veridicità dei fatti storici, tanto più laddove essi siano conclamati, per la premessa stessa che essendo giudizio di senso comune costituirebbero in sé un ‘pregiudizio’, qualcosa di fondato su un erroneo convincimento, al limite dell’inganno collettivo. Si tratta di un groviglio di questioni che rendono il negazionismo qualcosa di più di una devianza occasionale. Poiché nel loro operare, «rovesciando l’onere della prova, i negazionisti intendono sfregiare l’etica della verità»14. 1.2. Cosa dicono i negazionisti e come lo fanno I negazionisti non negano l’antisemitismo nazista. Tuttavia ne rifiutano l’esito criminale, che portò all’uccisione indiscriminata di donne e uomini in base all’«appartenenza di razza». È senz’altro vero che Hitler e i suoi gerarchi odiassero gli ebrei. Non è meno vero che il regime nazista li perseguitasse. Le leggi razziste di Norimberga del 1935 sono esistite e con esse le pratiche di esclusione dalla vita sociale e la confisca dei beni delle famiglie ebraiche. In genere i negazionisti non rifiutano l’evidenza storica della deportazione. I campi di concentramento tedeschi, i Konzentrationslager (conosciuti anche con gli acronimi KZ e KL), sono esistiti, essendo parte della politica repressiva attuata dalla Germania contro i suoi «nemici» tra il 1933 e il 1945. Peraltro i nazisti, secondo questa interpretazione, facevano le medesime cose che, in tempo di guerra, venivano compiute dai loro avversari. Il concentramento dei civili era una prassi ordinaria, motivata sia da ragioni militari (sottrarre la popolazione ai luoghi di combattimento, impedire di intralciare il corso delle operazioni) che di sicurezza (porre sotto controllo coloro che potessero risultare pericolosi, contrari o avversi allo sforzo bellico, e tra questi gli ebrei). Già da ciò si può desumere come la parola «deportazione», che per i più ha un significato inequivocabile, indicando la procedura attraverso la quale i perseguitati razziali e politici venivano mandati a morire, nel discorso negazionista assuma un connotato completamente diverso. Infatti i negazionisti rifiutano con deci  Michele Battini, Il socialismo degli imbecilli cit., p. 254.

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sione l’esistenza di Vernichtungslager-VL, i campi di sterminio propriamente intesi15, dove l’obiettivo era quello di uccidere tutti i deportati nel più breve tempo possibile, molto spesso nella stessa giornata in cui vi erano arrivati con i convogli merci. In ragione di ciò pongono anche in discussione i tre elementi essenziali dello sterminio: 1. la sua natura tecnologica, ovvero il ricorso alle camere a gas e ai forni crematori; 2. la sua dimensione quantitativa, ossia i sei milioni di morti; 3. l’intenzionalità e la progettualità: la prima derivata dalla teoria razzista che era a presupposto del nazionalsocialismo; la seconda come insieme delle azioni consapevolmente compiute dalle amministrazioni tedesche chiamate in causa nella realizzazione dello sterminio, affinché esso potesse materialmente attuarsi. Gli ebrei furono imprigionati in campi di concentramento, non di sterminio. Subirono senz’altro violenze e vessazioni ma non furono mai fatti oggetto di una politica di sterminio poiché i nazisti non intendevano assassinarli sistematicamente. Da ciò deriva anche che: 1. le cause principali delle morti nei KZ furono l’inedia e le malattie, causate soprattutto dalla distruzione da parte alleata delle linee di rifornimento e di distribuzione delle risorse tedesche. Se vi furono fucilazioni, impiccagioni ed eventualmente il ricorso, ma solo in chiave sperimentale, al gas, ciò non fu la ragione della maggior parte delle morti. Le camere a gas erano usate per la disinfezione degli abiti. I forni crematori servivano per liberarsi dei corpi dei morti, inevitabilmente numerosi perché le difficili condizioni in cui si trovavano i campi nei tempi di guerra facilitavano i decessi, soprattutto tra quei prigionieri meno giovani e già debilitati in origine; 2. gli ebrei costituivano una comunità nemica e come tali furono trattati, in tempo di guerra; il fatto che avessero la cittadinanza tedesca o dei paesi che dal 1939 i tedeschi andavano occupando nulla toglie all’ostilità dichiarata che essi nutrivano nei confronti della Germania; 15   Per un sintetico inquadramento si veda Judith Tydor Baumel, Campi di sterminio, in Alberto Cavaglion (a cura di), Dizionario dell’Olocausto, Einaudi, Torino 2004, pp. 137-142.

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3. gli ebrei morti nei Lager, come nei ghetti istituiti dai nazisti nelle principali città dell’Est europeo, furono tra un minimo di 200/300mila e un massimo di due o tre milioni. È fuorviante parlare della cifra di sei milioni, come invece la storiografia abitualmente fa nelle sue pubblicazioni; 4. non esisteva una politica nazionalsocialista di sterminio: la «soluzione finale della questione ebraica», come gli stessi nazisti avevano definito la loro politica contro gli ebrei, consisteva nella loro deportazione fuori dal Reich. Con l’espansione militare delle aree occupate i tedeschi si trovarono con un numero sempre maggiore di ebrei da controllare. A causa dell’andamento della guerra, e poi dei successivi fallimenti bellici, iniziò il loro concentramento nei ghetti e in seguito nei KZ16. L’imprigionamento degli ebrei, comunque lo si voglia intendere, non fu un passaggio nella realizzazione di un coerente piano sterminazionista ma il risultato delle necessità contingenti, dettate dall’evoluzione del quadro bellico17. A sostegno di queste considerazioni aggiungono inoltre che: 1. i resoconti sulla Shoah erano un falso, inizialmente creati dagli Alleati in lotta contro la Germania e poi acquisiti e diffusi dagli ebrei per avvalorare l’obiettivo di creare un proprio Stato nazionale sulle terre palestinesi; 2. le evidenze documentarie sullo sterminio, dalle fotografie alle memorie scritte pervenuteci, sono state fabbricate ad arte; 3. i sopravvissuti che hanno testimoniato delle loro vicissitudini sono inattendibili. I loro resoconti sono pieni di incongruenze ed errori; 4. le deposizioni e le confessioni dei prigionieri di guerra nazisti sono state estorte con la violenza, le torture e la minaccia della pena di morte. L’evidenza documentaria e testimoniale – in altri termini la tangibilità fattuale – del genocidio degli ebrei per mano nazista è fuori discussione. Sussiste una totale convergenza di prove in tal senso. Si tratta di un grandissimo numero di documenti scritti 16   Così, tra gli altri, Bradley R. Smith, The Holocaust Controversy: The Case for Open Debate, in «The Michigan Daily», 25 ottobre 1991. 17   Mark Weber, Holocaust: Myths and the Facts, Institute for Historical Review, Newport Beach 1993. Sempre dello stesso autore, The Holocaust: Let’s Hear Both Sides, Institute for Historical Review, Newport Beach 1994.

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(lettere, diari, appunti, memorie, ordini di servizio, documenti di lavoro, articoli e così via), per parte sia delle vittime che dei carnefici. Benché i secondi, poco prima della fine della guerra, abbiano tentato di distruggerli per lasciare il minore numero di tracce possibili, ben sapendo quale fosse la natura del crimine che avevano commesso, è pervenuta a noi una notevole quantità di materiali. Alle cose su carta si legano quelle dette a voce, le testimonianze dei sopravvissuti così come delle guardie dei campi, dei loro capi, dei leader nazisti, delle popolazioni che vivevano nelle vicinanze dei Lager, ma anche dei parenti e dei corrispondenti degli uni e degli altri, che se non videro con i loro occhi a volte intuirono, da quanto veniva loro riferito, che qualcosa di tragico si stava consumando. Un terzo genere di riscontri è fornito dai repertori fotografici, di parte sia alleata che tedesca. Tuttavia non sono certo gli unici elementi sui quali fare affidamento. Ad essi si aggiungono quelle foto, preziosissime ancorché assai rare, fatte segretamente dagli stessi deportati18; le immagini riprese dalla popolazione locale e i reportage dei militari tedeschi. Anche qui il tentativo di cancellare le tracce non è riuscito, almeno non nella proporzione sperata dai persecutori. Un quarto elemento di prova sono i Lager stessi, ossia i campi di lavoro, quelli di concentramento e, infine, di sterminio. La persistenza di alcune installazioni come quelle di Auschwitz I e II è risultata oltremodo preziosa per ricostruire le dinamiche dello sterminio attraverso un vero e proprio lavoro archeologico. Un ultimo fattore è quello, statistico-probabilistico, relativo alla demografia (sul piano civile, ai registri anagrafici): confrontando i dati di prima e dopo la guerra, dove sono finiti milioni di persone di cui più nulla si è saputo? Tutte queste fonti convergono quindi su un unico obiettivo, confermando che i nazisti fecero di tutto per eliminare fisicamente tutti gli ebrei che cadevano nelle loro mani. Mai un crimine di tali proporzioni, per occultare il quale ci si adoperò da subito, ha lasciato così tante tracce. Ma per i negazionisti e i loro libri le cose non stanno in questi termini. Parafrasando ancora una volta Pierre Vidal-Naquet, viene allora voglia di pensare che «nella nostra 18   Su questo punto si veda Georges Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, Raffaello Cortina, Milano 2005 (ed. or., Images malgré tout, éditions de Minuit, Paris 1993).

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società dello spettacolo e dell’immagine un tentativo di sterminio su carta si sostituisce allo sterminio reale»19. I negazionisti si sono autodefiniti come «storici revisionisti», per essere meglio identificati con il metodo, comune in ambito storiografico, che consiste nel rivedere costantemente i risultati raggiunti dal sapere storico sulla base delle nuove acquisizioni di fonti o sulla scorta di interpretazioni innovative, verosimili e plausibili al punto tale da rendere obsolete quelle precedenti. Il metodo della revisione implica comunque il rispetto rigoroso e quindi l’uso delle regole del mestiere di storico. I negazionisti, che non apportano al dibattito storico nessuna nuova fonte, prediligendo invece la lettura ipercritica e polemica del materiale già esistente, nella misura in cui tradiscono le regole condivise dalla comunità dei ricercatori non costituiscono una corrente d’interpretazione bensì un gruppo di persone che dà vita ad una anti-storia o ad una storia controfattuale, spesso basata sulla manipolazione del significato del materiale che è oggetto delle loro valutazioni. Come tali, quantunque vogliano essere alternativi alla «storia ufficiale», alla quale imputano una posizione rigidamente «sterminazionista» – secca aggettivazione che assume una connotazione negativa, a tratti quasi offensiva –, non sono assolutamente riconosciuti come legittimi interlocutori dalla comunità degli storici, che ne condannano le affermazioni ma anche le metodologie di azione, non riconoscendo ad essi in alcun modo la qualità di studiosi. 1.3. Il metodo negazionista Il negazionismo, benché ambisca a presentarsi come politicamente neutro, ovvero estraneo a preoccupazioni di collocazione ideologica, è un fenomeno che riguarda perlopiù autori identificabili con la destra radicale, di connotazione neofascista e neonazista e, più raramente, con simpatizzanti o appartenenti a gruppi dell’estrema sinistra. Negli ultimi vent’anni si è andato diffondendo 19   Pierre Vidal-Naquet, Gli assassini della memoria: saggi sul revisionismo e la Shoah, Viella, Roma 2008 (ed. or., Les assassins de la mémoire: ‘un Eichman de papier’ et autres essais sur le révisionnisme, La Découverte, Paris 1987). La citazione è presa dall’edizione francese, a p. 33.

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anche attraverso il web e nei paesi arabo-musulmani, raccogliendo consensi. Il collante dei negazionisti è l’antisemitismo. Buona parte di essi definisce la Shoah come un «mito», ovvero una deliberata mistificazione della storia a beneficio degli stessi ebrei, coalizzati in una vera e propria «internazionale giudaica» (o «sionista»), che manipolerebbero la memoria del passato per rinnovare e garantirsi un potere egemonico sul mondo intero. La ‘favola dell’Olocausto’ sarebbe infatti funzionale al complotto ebraico, un meccanismo che regola aspetti significativi della vita quotidiana degli uomini. Gli ebrei si sarebbero adoperati a costruirla già negli anni della guerra, presagendo i benefici economici e politici che avrebbero potuto ricavare da tale colossale menzogna, sfruttando il senso di colpa del mondo occidentale dinanzi all’ampiezza del massacro imputatogli. Su questi ed altri aspetti, che si intrecciano ripetutamente con la scrittura e le argomentazioni negazioniste, si avrà comunque modo di tornare ripetutamente nelle pagine che seguono. Alla base delle tesi del negazionismo si riscontra sovente un’accusa rivolta agli ebrei, quella di essere stati responsabili dello scatenamento della Seconda guerra mondiale. L’inverosimiglianza di questa ed altre affermazioni non deve sorprendere. Per meglio capirne la necessità dal punto di vista negazionista, bisogna però entrare nel merito dei suoi costrutti retorici e ideologici. Il negazionismo olocaustico si focalizza su un crimine, lo sterminio di massa degli ebrei, di cui nega la concretezza fattuale. Anzi, cerca di esercitare un ribaltamento: il crimine sarebbe il perpetuare la finzione di un genocidio che non c’è mai stato. Il vero cuore pulsante è quindi questo, variamente argomentato, vuoi con la presunta impossibilità tecnica della sua realizzazione vuoi per l’indisponibilità politica degli stessi tedeschi. Il ricorso ad un repertorio di roboanti accuse, più o meno palesemente non credibili, tra le quali quelle sulle responsabilità ebraiche nel conflitto, è funzionale soprattutto alla giustificazione del comportamento nazista nei confronti degli ebrei e, più in generale, al modo in cui lo si vuole giudicare a distanza di tanti anni. L’obiettivo dei negazionisti è di attenuare in tutti i modi possibili le colpe della condotta tedesca tra il 1933 e il 1945, gli anni del regime nazionalsocialista, arrivando, laddove possibile, a capovolgere i ruoli. Ad essere vittima della guerra fu la Germania; gli ebrei, semmai, vanno considerati, per le loro responsabilità,

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alla stregua di carnefici. Il rinnovarsi del «mito dell’Olocausto» serve allora a coprire le autentiche responsabilità trascorse non meno che a tenere in scacco, in una congiura collettiva, la nazione tedesca, imputandole oneri morali e risarcimenti materiali che non le spetterebbero in alcun modo. Alla luce di queste premesse i negazionisti presentano le tesi dei molti storici che hanno studiato il periodo della Seconda guerra mondiale e il genocidio nazista come propaganda a sostegno di quel «nuovo ordine mondiale» che è seguito alla sconfitta tedesca e dal quale è nato lo Stato d’Israele. Nel campo della ricerca storica, come già si osservava, le tesi negazioniste non hanno ottenuto nessuna ricezione, essendo state rigettate per la loro palese inconsistenza scientifica, per la più assoluta mancanza di rigore metodologico ma, non di meno, per la loro smaccata tendenziosità ideologica. In genere, chi si è dedicato alla lettura dei testi di questi autori ne ha evidenziato il ricorso esasperato ad un «metodo ipercritico», l’omissione di dati significativi, quando non funzionali al proprio discorso, e l’enfatizzazione di altri, irrilevanti, fino all’uso deliberato di menzogne. Il metodo ipercritico consiste nell’assumere alcuni fatti, in sé esatti ma insignificanti e comunque sempre isolati dal contesto in cui si sono verificati, per arrivare, per il loro tramite, ad una indebita generalizzazione. Se una testimonianza risulta imprecisa o lacunosa, ad esempio, da tale inadeguatezza i negazionisti traggono la conclusione che tutte le testimonianze sono inattendibili se non addirittura menzognere. Un altro esempio, in tal senso, è quello legato all’autenticità del Diario di Anne Frank. Alcune pagine, infatti, contengono delle frasi scritte con la penna a sfera, uno strumento la cui diffusione data a dopo la fine della guerra. Da ciò si è polemicamente concluso che l’intero testo fosse un falso, quando in realtà è abbondantemente risaputo che era il padre dell’autrice ad avere inserito delle correzioni personali, così come altri interventi esterni si erano verificati dopo la morte di Anne20. La versione critica della sua opera, realizzata con 20   Rileva al riguardo Valentina Pisanty: «I primi attacchi all’autenticità dei diari di Anne Frank risalgono a un articolo uscito in Svezia (sul giornale «Fria Ord») nel 1957. L’articolista, tal Harald Nielsen (danese), sosteneva che il vero autore dei diari fosse l’agente letterario Meyer Levin, che nel 1952 scrisse un copione – poi rifiutato dal padre di Anne, Otto Frank – per produrre uno spettacolo teatrale dal testo originale. Simili critiche erano state ribadite

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criterio rigorosamente filologico, è peraltro disponibile a chiunque intenda conoscerla21. A tale modo d’operare tendenzioso si somma poi l’abitudine di occultare o comunque di minimizzare il valore di quei dati e quelle fonti che contraddicono i postulati negazionisti. Il gioco, in questo caso, è duplice, trattandosi non solo di dissimulare, ossia omettere, ciò che è avverso al proprio disegno interpretativo, ma anche di simulare che un particolare insignificante possa invece essere usato come la matrice per comprendere un insieme di situazioni. Anche qui un esempio può tornare utile. Si è detto, da parte di certuni, che le porte di alcune camere a gas fossero troppo deboli per resistere alla pressione della massa di individui che vi erano rinchiusi. A suffragio di questa tesi i negazionisti presentano alcune foto che, tuttavia, riguardano locali dove non si è praticato lo sterminio di esseri umani. L’ossessione tecnicista, piegata alle proprie volontà, accompagna un po’ tutto quel negazionismo cosiddetto «tecnico», andato affermandosi dagli anni Ottanta, che vorrebbe confutare la grandissima massa di prove adducendo a motivo singole incongruenze occasionali. Qui, più che cercare la razionalità del particolare ed interrogarsi su quanto questo possa veramente incidere rispetto all’interpretazione condivisa dalla comunità scientifica e dalla pubblica opinione, vale la pena di interrogarsi sulla maniacalità con la quale i fatti vengono travolti in Norvegia, in Austria e in Germania occidentale, e nel 1958 erano sfociate in una querela per diffamazione sporta da Otto Frank contro un insegnante di Lubecca, il quale aveva ritrattato pubblicamente la sua tesi dopo che una perizia sull’autenticità dei diari ne aveva dimostrato l’assoluta infondatezza. Ciò nonostante la tesi continua a circolare e viene ripresa da vari autori tra cui Richard Harwood (Did Six Million Really Die?, 1974), Ditlieb Felderer (Anne Frank Diary: A Hoax?, 1978) e lo stesso Faurisson, il quale, in una lettera inviata a Jean-Marc Théolleyre nel 1975, scrive: «Gli specialisti del Monde si tengono al corrente dell’attualità? Leggono gli studi o le testimonianze che si moltiplicano sulla ‘menzogna’ o la ‘truffa’ di Auschwitz? [...] Sanno che il Diario di Anne Frank è una montatura di Meyer Levin?» (Valentina Pisanty, I negazionismi, in Storia della Shoah, vol. I, La crisi dell’Europa, lo sterminio degli ebrei e la memoria del XX secolo, a cura di Marina Cattaruzza, Marcello Flores, Simon Levi Sullam, Enzo Traverso, Utet, Torino 2005, pp. 447-448, nota 7). Si veda anche Dix questions sur l’authenticité du journal d’Anne Frank, http://www.annefrank. org/ImageVaultFiles/id_14670/cf_21/dixquestions_fr.pdf. 21   Anne Frank, I diari, a cura dell’Istituto per la documentazione bellica dei Paesi Bassi, Einaudi, Torino 2002.

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dalle rappresentazioni di comodo. Oltre che un problema politico è qualcosa che ha senz’altro a che fare con le perversioni dello spirito di certuni. Ma questo riscontro non è in sé sufficiente. Al tecnicismo si lega la capziosità lessicale, ovvero l’interpretazione alterata, prodotto di un cortocircuito semantico, di certe parole che vengono stravolte nel loro senso, affinché dicano ciò che gli si vuol fare dire, ancora una volta indipendentemente dal contesto in cui sono state scritte o pronunciate. Da ultimo, si inseriscono le menzogne deliberate che, in certi casi (non essendo però questo un discorso che possa essere esteso immediatamente a tutta la letteratura negazionista), inframezzano i testi di alcuni autori. Può allora tornare utile, a titolo riepilogativo, identificare quali sono i passaggi logici della costruzione negazionista. Per questi autori si tratta di: 1. spostare l’onere della verifica da sé al gruppo avversario, chiedendo continuamente ‘prove specifiche’ che dovrebbero testimoniare, una volta per sempre, della veridicità di quanto affermato. In assenza di questi riscontri (che anche nel caso in cui fossero prodotti verrebbero comunque definiti come lacunosi o insufficienti se non addirittura manipolati), ciò che viene sostenuto è da ritenersi falso o inattendibile o comunque infondato; 2. dire poco o nulla riguardo alla propria posizione, attaccando piuttosto i punti deboli e gli errori altrui. Il gioco della polemica richiede sempre di portarsi sul campo dell’avversario, non solo anticipandone le mosse ma obbligandolo a subire il proprio schema d’attacco, in modo che possa solo replicare a quanto viene aggressivamente contestato; 3. generalizzare l’imputazione d’errore, secondo il principio falsus in uno, falsus in omnibus, attribuendo all’avversario una sequenza di sbagli a partire da una singola incongruenza: d’altro canto, secondo questa impostazione, se un particolare non regge è l’intera costruzione che non sta in piedi; 4. decontestualizzare le affermazioni altrui, privandole di tutti quei rapporti e quei nessi che fanno sì che le singole fonti abbiano un senso: isolarle fa in modo che perdano di aderenza e senso storico e possano quindi essere piegate a letture di circostanza; 5. trasformare ogni elemento critico in una disamina sulla validità dell’intero impianto storiografico e, non di meno, del suo oggetto di studio (ad esempio, il tradizionale dibattito tra la scuola

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intenzionalista e quella funzionalista, all’interno della storiografia, viene ricondotto alla discussione sul fatto che l’Olocausto abbia effettivamente avuto luogo, quando né l’una né l’altra ne mettono in discussione la sua concretezza storica); 6. concentrarsi su ciò che non è noto e ignorare quello che invece lo è, selezionando attentamente le informazioni conformi e tralasciando invece quelle che non fungono al supporto delle proprie tesi; 7. istituire un nesso di equivalenza morale tra sterminio e delitti diversi (ad esempio, con il bombardamento di Dresda e la bomba atomica) nonché con fatti distinti (l’internamento dei civili americani di origine giapponese nei campi istituiti dagli statunitensi durante la guerra). Tale approccio, falsamente comparativo e ‘comprensivo’, serve in realtà a ridurre il dirompente tratto morale di uno dei due elementi dell’eguaglianza. Se lo sterminio è identico all’atomica, allora uguali sono le colpe. Questo criterio di rilettura degli eventi ha l’obiettivo di chiamare in causa gli Alleati e l’Unione Sovietica, attribuendo agli uni e all’altra responsabilità pari (o superiori) a quelle tedesche; 8. adottare la tattica dello zig-zag, alternativamente enfatizzando o sminuendo l’impatto del medesimo dato, a seconda delle necessità retoriche che il testo impone, di pagina in pagina; 9. recuperare la teoria del complotto pro domo propria: non ci fu né intenzione né, tantomeno, pianificazione e realizzazione da parte nazista di un genocidio contro gli ebrei mentre esiste senz’altro un progetto ‘sionista’ per diffamare la Germania attribuendole un passato così intollerabile per lucrare, da tale senso di colpa, denari a proprio vantaggio; 10. associare il silenzio e le omissioni adottati dai responsabili dello sterminio, mentre esso veniva perpetrato, alla sua inesistenza: i carnefici non hanno parlato perché non avevano nulla da dire, non avendo commesso nessun delitto; 11. chiedere ossessivamente una singola prova, sapendo che essa non esiste se non è mantenuta all’interno del contesto di eventi ove assume uno specifico significato (rischiando altrimenti la desemantizzazione), e che per interpretare un fatto come lo sterminio occorre stabilire nessi logici attraverso una pluralità di prove. Pierre Vidal-Naquet ha condensato questa architettura del depistaggio e della disintegrazione dei riscontri in un’unica fra-

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se: «le camere a gas non esistono perché non possono esistere, non possono esistere perché non devono esistere, o ancora: non esistono perché non esistono»22. E aggiunge una serie di incisi sui principi del metodo negazionista: 1. Qualsiasi testimonianza diretta resa da un ebreo è una menzogna o un’invenzione. 2. Qualsiasi testimonianza, qualsiasi documento anteriore alla liberazione, è un falso o viene ignorato o viene considerato una ‘voce’. [...] 3. Qualsiasi documento, in generale, che fornisca di prima mano informazioni sui metodi dei nazisti è un falso o un documento manipolato. [...] 4. Qualsiasi documento nazista che apporti una testimonianza diretta è preso per buono se scritto in codice, ma ignorato (o sottovalutato) se scritto in linguaggio diretto [...]. 5. Qualsiasi testimonianza nazista posteriore alla fine della guerra, che sia stata resa in un processo a Est o a Ovest, a Varsavia o a Colonia, a Gerusalemme o a Norimberga, nel 1945 o nel 1963, è considerata come ottenuta sotto tortura o per intimidazione [...]. 6. Un intero arsenale pseudo-tecnico [...] è mobilitato per mostrare l’impossibilità materiale della gassificazione di massa [...]. 7. Un tempo l’esistenza di Dio veniva provata col fatto che l’esistenza era insita nel concetto stesso di Dio. È la famosa ‘prova ontologica’. Si può dire che, per i ‘revisionisti’, le camere a gas non esistono perché l’inesistenza è uno dei loro attributi. È la prova non ontologica. [...] 8. [...] Tutto ciò che può rendere concepibile, credibile questa storia spaventosa, segnarne l’evoluzione, fornire termini di comparazione politica è ignorato o falsificato [...]23.

In generale quello che emerge dal confronto con le affermazioni negazioniste, presentate come assiomi rivoluzionari da assumere come la verità alternativa alla ‘versione ufficiale’, è un senso di disagio che si accompagna al quesito su dove finisca l’incoscienza e dove inizi la malafede. Il negazionismo rivela allora la sua intima natura, quella di essere un meccanismo per la riscrittura della storia, buttando fuori da essa quei crimini contro l’umanità che rivelano la natura assassina dei regimi nazifascisti.   Pierre Vidal-Naquet, Gli assassini della memoria cit., p. 129.   Ivi, pp. 81 sgg.

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A questo punto del discorso va rilevato un aspetto, senza il quale ogni argomentazione storica è priva di gambe. A dimostrare un evento, ovvero a rendere plausibile il ricordo del suo essere successo e, quindi, il suo divenire parte di una memoria collettiva, è una convergenza di prove e mai un solo indizio. Questo principio vale tanto più nel caso di fatti come la Shoah, la cui genesi, il cui sviluppo e le cui motivazioni sono di per sé di non facile indagine. Nel merito del negazionismo c’è chi ha opportunamente constatato che: Se gli storici praticassero la storia come fanno i negazionisti, non ci sarebbe la storia, solo ideologie in competizione che urlano per essere ascoltate, in mezzo ad una cacofonia di voci dogmatiche. La pseudostoria prospera perché la storia conferisce potere. Per alcuni, è accettabile decostruire la storia di chi è al potere e ricostruirla dalla parte di chi non lo è. Mettere in discussione la storia scritta da chi è al potere è senz’altro un’impresa legittima, ma possono sorgere dei problemi quando la riscrittura della storia è guidata da un particolare programma ideologico, senza prendere in considerazione ciò che indicano la maggioranza delle prove24.

E ancora: Sappiamo che l’Olocausto è avvenuto attraverso il metodo sperimentato – utilizzato da tutti gli scienziati storici – della convergenza di prove su una conclusione provvisoria ma plausibile. Come un criminologo che trova la soluzione del crimine, assembliamo la miriade di elementi di prova finché dal garbuglio di dati non emerge una conclusione plausibile. Le migliaia di elementi di prova per le migliaia di eventi in migliaia di luoghi in tutta l’Europa continentale dal 1933 al 1945 costituiscono quello che chiamiamo Olocausto. Non esiste una fonte unica che dimostri l’Olocausto perché non è così che vengono dimostrati tali eventi storici fondamentali. Ma nel contesto degli eventi della seconda metà del 1941 e della prima metà del 1942 che portarono i nazisti a modificare l’obiettivo della soluzione finale dalla

24   Michael Shermer e Alex Grobman, Negare la storia. L’Olocausto non è mai avvenuto: chi lo dice e perché, Editori Riuniti, Roma 2011 (ed. or., Denying History: Who Says the Holocaust Never Happened and Why Do they Say It?, University of California Press, Berkeley 2000), p. 318.

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deportazione allo sterminio, ci sono insiemi omogenei che spiccano. [...] Sappiamo che l’Olocausto è avvenuto25.

Naturalmente, la risposta è data al come, non al perché della Shoah. La risposta, in quest’ultimo caso, sfugge a una dimensione unanime proprio perché chiama in causa la coscienza di ognuno di noi. La cognizione collettiva non è la somma di tutte le coscienze individuali. La pericolosità della negazione, in questo caso, non sta solo nel rifiuto di un passato autentico, ma anche e soprattutto di un passato significativo.   Michael Shermer e Alex Grobman, Negare la storia cit., pp. 322-324.

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2. Lo sviluppo del negazionismo 2.1. Il revisionismo storiografico americano All’origine del negazionismo olocaustico si pone non la Seconda bensì la Prima guerra mondiale. La discussione sulle cause e le responsabilità, che negli Stati Uniti si era accompagnata alla sua conclusione, aveva trovato in alcune figure intellettuali i sostenitori della tesi che il suo scatenamento non fosse da attribuire ai tedeschi. Sidney Bradshaw Fay, docente allo Smith College, nel 1920 in una serie di articoli apparsi sull’«American Historical Review», argomentò ripetutamente in tal senso, attribuendo alla propaganda interventista la creazione di una colpa inesistente, quella imputata agli imperi centrali. Harry Elmer Barnes, collega di Fay, si fece ben presto sostenitore dell’approccio più radicale alla critica della politica estera americana, divenendo nella Germania postbellica un personaggio noto e apprezzato. Barnes collaborò dal 1924 alla Zentralstelle zur Erforschung der Kriegschuldfrage, il Centro per lo studio delle cause della guerra, un’istituzione pseudoculturale voluta e finanziata dal governo tedesco per argomentare le proprie ragioni ai tavoli delle trattative con i paesi vincitori della Grande Guerra. In tale veste si espresse anch’egli contro l’opinione corrente che attribuiva alle potenze centrali la responsabilità del primo conflitto mondiale. Nel suo testo The Genesis of the World War (New York, 1929) non si accontentava di contestare la lettura ortodossa ma ne rovesciava il paradigma, ‘svelando’ (ovvero inventando) un complotto franco-russo alla base della guerra. Conosciuto per la sua irruenza intellettuale e per la propensione alla polemica,

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spesso anche di taglio personale, contro i sostenitori delle tesi più ‘ortodosse’ della storiografia, Barnes dopo il 1945 fu tra i primi autori che cercarono di mettere in discussione la storiografia che andava sviluppandosi intorno allo sterminio degli ebrei. Negli ultimi anni della sua vita, infine, avrebbe fatto proprie molte delle suggestioni negazioniste1. Nel 1962, infatti, nel pamphlet Revisionism and Brainwashing, sostenne la tesi del carattere diffamatorio delle accuse rivolte alla Germania nazista. Nel 1964, in un articolo comparso sull’«American Mercury» e intitolato The Zionist Fraud (L’imbroglio sionista), lo storico americano, riprendendo le tesi di Paul Rassinier, autore negazionista francese, da lui reputato un «brillante storico», metteva in relazione lo sterminio degli ebrei, in quanto invenzione propagandistica, con la volontà di ricattare la Germania, imputandole la colpa del conflitto mondiale e di un genocidio che mai era avvenuto. Sulla scia di questi due autori, la cui rilevanza derivava dalla loro collocazione accademica, si muovevano anche altri studiosi, come ad esempio Charles Austin Beard. Comune era non solo la rilettura dell’attribuzione delle responsabilità belliche, ma anche la netta propensione a condannare il trattato di pace di Versailles del 1919, sia nel suo dispositivo politico, che riversava su Berlino e sui suoi alleati l’intera colpa della guerra, sia negli effetti, che imputavano alla Germania gli elevatissimi oneri per le riparazioni di guerra. La critica revisionista era di ordine tanto politico quanto morale. Mentre si riteneva inaccettabile, anche da un punto di vista storiografico, volere attribuire ad una sola parte la volontà di essere arrivati ad un confronto armato, si accusavano i francesi, gli inglesi e gli stessi americani di avere omesso di riconoscere le proprie responsabilità. Tale atteggiamento era ritenuto tanto più censurabile, dal momento che nel dopoguerra la Germania era stata sottoposta a molte vessazioni che ne avevano colpito la dignità di paese, sia pure sconfitto. Alla Francia e all’Inghilterra si attribuivano inoltre condotte vendicative, che andavano a sommarsi alle atrocità commesse sui campi di battaglia. Così, tra gli altri, anche Barnes, che nel citato The Genesis of the World War giudicava la 1   Harry Elmer Barnes, Zionist Fraud, pubblicato in appendice a David L. Hoggan, The Myth of the Six Million, Noontide Press, Los Angeles 1969, http:// www.vho.org/GB/Books/tmotsm/A5.html.

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politica di Woodrow Wilson falsamente neutralista, giacché fin da subito Wilson aveva nutrito l’intenzione di partecipare allo scontro bellico. Le medesime accuse sarebbero poi state rivolte da autori revisionisti al presidente Franklin Delano Roosevelt nel merito dell’intervento americano nella Seconda guerra mondiale. Gli argomenti revisionisti non erano del tutto gratuiti: mettevano in rilievo alcuni inconfessati interessi materiali che ruotavano intorno alla partecipazione al conflitto in Europa, di contro alle rappresentazioni idealistiche offerte al pubblico dalle classi dirigenti americane. Gli autori erano peraltro molto spesso esponenti dell’establishment intellettuale, le cui attività scientifiche si inserivano di buon grado all’interno della più ampia discussione sulle origini della politica americana nell’Atlantico e nel Pacifico. L’influenza delle loro tesi poteva in alcuni casi essere tale da condizionare le scelte di membri del Congresso. Nondimeno, la modalità d’approccio all’interpretazione dell’evento bellico, posto in termini ipercritici e a tratti quasi cospirazionisti, avrebbe costituito la cornice concettuale per i futuri negazionisti. Andava in questo senso tutta una serie di assunti. Tra di essi, l’attacco sistematico alle motivazioni addotte dal governo per l’intervento in guerra, reputate false o comunque ispirate alla mera propaganda di parte; l’idea che ciò che arrivava da una fonte ufficiale fosse di per sé aprioristicamente sospetto, per la sua stessa origine, non potendo non occultare un qualche interesse inconfessabile; il convincimento che i tedeschi non solo non avessero colpe ma costituissero la vera parte lesa nel conflitto; la necessità di denunciare i discorsi politici come intrinsecamente falsi, rivolgendosi direttamente al pubblico per demistificarne i contenuti. Dopo il 1945, nonostante la vittoria degli Alleati e dei sovietici, le posizioni più rigidamente isolazioniste e neutraliste, che male avevano digerito l’intervento americano nel conflitto mondiale, ripresero fiato. L’isolazionismo, soprattutto nella sua variante conservatrice, si era nutrito di molte delle motivazioni della storiografia revisionista statunitense. L’intreccio tra diffidenza verso il potere federale, visto come un Moloch, indifferente al ‘sano spirito’ individualistico della provincia americana, e l’estraneità verso l’Europa e l’area del Pacifico, luoghi lontani e alieni dagli interessi nazionali, costituiva una miscela potente. In generale le rinnovate critiche isolazioniste si accordavano poi alla critica nei

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confronti del New Deal di Roosevelt, identificato come un esperimento politico ed economico ai limiti del socialismo. La partecipazione al secondo conflitto mondiale era quindi interpretata come un espediente per non affrontare i problemi innescati dalle misure di politica interna. Così secondo quanto scriveva John Thomas Flynn, in un acceso volume, The Roosevelt Myth (New York, 1948), dove la presidenza era accusata di avere aperto le porte alla bolscevizzazione dell’Europa orientale. Dello stesso tenore, laddove però le tonalità anticomuniste si facevano in genere ancora più violente, erano testi come quelli del già citato Charles Austin Beard, President Roosevelt and the Coming of the War (New Haven, 1958), di William Henry Chamberlain, American’s Second Crusade (Chicago, 1950) e di Fredric R. Sanborn, Design for War (New York, 1951). In particolare, Beard argomentava come il crollo del totalitarismo nazista avesse consegnato il Vecchio Continente nelle mani di Stalin, rendendo così ingiustificabile l’intervento in guerra degli Stati Uniti nel 1941. Tutto ciò si era rivelato infatti enormemente controproducente per gli interessi americani. Un elemento, quest’ultimo, che doveva fare riflettere sulle vere ragioni dell’interventismo, evidentemente motivato da calcoli di interesse occulti. Le critiche si muovevano su molteplici filoni, essendo perlopiù espressione di autori filotedeschi, oppure anticomunisti o comunque legati a una lettura geopolitica che vedeva nell’Oriente una minaccia incombente. L’idea di una Germania forte, militarmente attrezzata a fare da barriera all’Est, era il perno di questa letteratura. In tale ottica, l’esperienza nazista veniva riletta e reinterpretata. Scremata degli elementi più radicali e sgradevoli, veniva riproposta come una forma legittima di risposta all’aggressione comunista. Il libro Back Door to War (Westport, 1952) di Charles Callan Tansill, docente di Storia diplomatica americana alla Georgetown University, costituiva un po’ la summa delle motivazioni revisioniste. Per l’autore l’obiettivo più rilevante dell’azione politica statunitense era stato fino al 1945 la «preservazione dell’Impero britannico». Ma già l’intervento americano nella Prima guerra mondiale aveva frantumato gli equilibri europei e internazionali, di fatto concorrendo a creare le premesse per la successiva ascesa del nazismo in Germania. Per Tansill tutta una serie di eventi era quindi da rileggere alla luce di una loro diversa interpretazione. La Germania

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nazionalsocialista, affermava, era originariamente intenzionata a stabilire un condominio egemonico in Europa in accordo con la Polonia. Il rifiuto di questo progetto, poiché Varsavia confidava nell’alleanza con i franco-britannici e nel sostegno di Washington, avrebbe indotto Hitler a modificare i piani e a procedere all’invasione. Nondimeno, in questa come in altre vicende politicodiplomatiche, il ruolo di Roosevelt era giudicato severamente, imputandogli la responsabilità di avere indotto i partner europei, e di riflesso la Germania, a compiere passi azzardati. La guerra tedesca sarebbe quindi stata non la logica realizzazione di un piano di conquista e di distruzione, per più aspetti preordinato, ma la reazione obbligata all’atteggiamento vessatorio degli Stati Uniti, alle ambiguità occidentali e all’espansionismo sovietico. In tal modo non solo le responsabilità tedesche, ma anche l’ideologia razzista che era alla base dell’operato del Terzo Reich, venivano attenuate se non completamente omesse. Tansill, al pari di altri autori, si sforzava di porre la Germania sotto una diversa luce, meno sfavorevole al giudizio comune. L’immagine del paese negli anni del nazismo veniva quindi rivalutata, tacendo o ridimensionando la natura criminale del regime, come pure la sua condotta negli anni della guerra. A ciò si contrapponevano le violenze commesse dagli Alleati, cercando così di confrontare e infine parificare le responsabilità degli uni a quelle degli altri. Si ripeteva continuamente, come un articolo di fede, che in guerra ogni parte compie imprese poco onorevoli, attribuendo agli americani la responsabilità di un grande numero di atrocità. I tragici bombardamenti di Dresda e Colonia, che avevano causato un elevatissimo numero di vittime tra la popolazione civile, iniziarono ad essere associati, per l’intensità degli effetti ma anche per il disdoro morale, alle brutalità naziste. I trasferimenti forzati di grandi segmenti di popolazioni civili d’origine tedesca, originariamente stanziate nella Prussia orientale, avvenuti tra il 1944 e il 1945, con l’avanzata delle truppe sovietiche verso il centro dell’Europa, erano equiparati alle deportazioni nei Lager dei «nemici del Reich». Per soprammercato li si attribuiva ad un piano preordinato, dove la distruzione dell’etnia tedesca sarebbe stato il vero fine, così come sosteneva Freda Utley nel suo The High Cost of Vengeance (Chicago, 1949). L’autrice si spingeva ad affermare, con una vera e propria iperbole, che «le donne e i bam-

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bini che perirono di fame e di freddo nella lunga fuga dalla Slesia e dai Sudeti verso ciò che rimaneva del Reich tedesco, devono aver pensato che una morte rapida in una camera a gas sarebbe stata, al confronto, più misericordiosa»2. Di riflesso, i criminali nazisti giudicati a Norimberga erano da considerarsi meno colpevoli dei russi. I sovietici, al pari dei polacchi e dei cechi, si erano infatti adoperati in un «genocidio» contro i tedeschi dal momento in cui le sorti della guerra si erano ribaltate. Non c’erano colpe naziste che non potessero trovare ‘almeno’ un equivalente nelle condotte alleate e dei sovietici. Francis Parker Yockey (sotto lo pseudonimo di Ulick Varange) in Imperium: The Philosophy of History and Politics (1948)3 descriveva un sistema ‘imperiale’ modellato sul nazismo di Hitler, in cui la democrazia si era estinta, le elezioni non si tenevano più e il potere era in mano pubblica poiché le imprese erano divenute di proprietà collettiva. Impedimento maggiore a questo sistema era l’ebraismo, che cospirava contro gli assetti costituiti. Yockey, seguace di Oswald Spengler, elitista, suprematista razziale, affine al nazismo, antisionista e antisemita, è stato uno dei padri della destra radicale americana nel periodo postbellico, anche se la sua influenza si è misurata soprattutto in Europa, nel milieu della Nuova destra, e in particolare tra alcuni dei suoi esponenti, come il belga Jean Thiriart, il russo Aleksandr Dugin, e i francesi Alain de Benoist e Guillaume Faye. La lettura revisionista americana si spingeva quindi verso un crinale particolarmente insidioso. All’interno di un percorso dove la riabilitazione della Germania doveva obbligatoriamente passare attraverso la relativizzazione delle sue responsabilità, passo dopo passo, in un vero e proprio crescendo, si ribaltavano sui vincitori le colpe dei vinti. I primi, poi, sarebbero stati colpevoli di non aver inteso che nel quadro geopolitico dell’Europa degli anni Trenta la guerra contro i sovietici era inevitabile, poste le intenzioni bellicose ed espansioniste di questi ultimi. Si tratta2   Freda Utley, The High Cost of Vengeance, Henry Regnery Company, Chicago 1949, p. 14. 3   Ora all’indirizzo http://www.vaidilute.com/books/imperium/imperiumcontents.html. Si veda Kevin Coogan, Dreamer of the Day: Francis Parker Yockey and the Postwar Fascist International, Autonomedia, New York 1998.

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va, in questo caso, della ripresa di un tema di fondo della stessa propaganda nazista. Ma il revisionismo isolazionista, che negli anni a cavallo tra il 1946 e il 1956 trovò nel crescente anticomunismo un terreno fertile per la riaffermazione delle sue ragioni, non si curava troppo dell’origine e della veridicità documentaria delle sue affermazioni. Così come le antiche simpatie per la Germania di personaggi come Charles Lindbergh, il noto aviatore, o del senatore repubblicano ultraconservatore Robert Taft, che ripresero spessore nel dopoguerra, facevano sì che anche una parte del pubblico americano giudicasse il trattamento imposto al paese sconfitto, a partire dalla sua divisione in quattro aree di controllo, passando per la denazificazione e arrivando a Norimberga, come una manifestazione inumana e ingiusta, basata sullo spirito di vendetta e sulla soggezione ai sovietici, i veri nemici dell’Occidente. Parallelamente alla saggistica revisionista andò sviluppandosi un’ampia pubblicistica che rileggeva la documentazione, soprattutto audiovisiva, sulla guerra con atteggiamento polemico. Il materiale raccolto dai Signal Corps, le unità incaricate dall’esercito statunitense di documentare la situazione in cui versavano i campi di concentramento mano a mano che venivano liberati, fu fatto oggetto di critiche. Da più parti ci si espresse contro il ricorso a immagini cruente, ricordando il precedente della violenta propaganda durante la Prima guerra mondiale, quasi a voler lasciare intendere che ci fosse un nesso tra esibizione della altrui atrocità e giustificazione del proprio spirito di vendetta4. Alcuni si spinsero oltre, mettendo in dubbio l’autenticità di ciò che veniva mostrato5. Così nel caso di William Best Hesseltine, storico dell’Università del Wisconsin, quando comparò le false storie sulle violenze commesse durante la guerra di Secessione, un evento bellico di cui era un noto studioso, con le notizie che arrivavano dal Centro Europa6. Spiccavano nei testi di questi autori atteggiamenti allusivi e riduzionisti: spesso, più che negare recisamente la nettezza dei riscontri, si introducevano dubbi sulla veridicità di alcuni loro aspetti, riconoscendo che se di brutalità si doveva parlare non   Così James Agee, «Nation», 19 maggio 1945.   Milton Mayer, «Progressive», 14 maggio 1945. 6   William Best Hesseltine, «Progressive», 9 maggio 1945. 4 5

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erano colpa di una sola parte; i vincitori avevano tutto l’interesse a enfatizzarle, per rendere più sgradevole il ruolo dei vinti, ma non ne erano esenti. Una parte di queste affermazioni si inseriva nel vivace dibattito in corso negli Stati Uniti sulle ragioni della partecipazione alla Seconda guerra mondiale, che riprendeva, con maggiore intensità, quanto già veniva detto e discusso alla fine del conflitto precedente. Di mezzo c’era ora il bipolarismo e il clima di guerra fredda che andava montando. Pur forzando l’interpretazione di alcuni fatti e, talvolta, arrivando a metterne in dubbio l’esistenza, tuttavia il fuoco dell’argomentazione non era lo specifico del destino degli ebrei. Piuttosto, gli scettici cercavano di procedere a una riduzione dell’impatto emotivo e (quindi) politico sul pubblico, delle responsabilità tedesche negli anni del Terzo Reich. Il procedimento, però, risultava ancora una volta particolarmente fertile per quanti avessero voluto andare oltre. Di fatto il revisionismo isolazionistico americano, sviluppatosi tra il 1919 e il 1950, costituì così una prima intelaiatura concettuale che sarebbe stata ripresa, nei tempi successivi, dai negazionisti non solo statunitensi. Temi come la non responsabilità della Germania nello scatenare il conflitto, le colpe omesse degli Alleati e dei sovietici, il ricorso metodico alla propaganda (laddove l’informazione veniva ridotta ad una sua mera variabile), l’inconoscibilità o la manipolazione regolare dei fatti e, soprattutto, i loro resoconti, entrarono di buon grado nel carniere delle argomentazioni di chi voleva rimuovere l’ingombrante presenza dell’Olocausto. L’approccio di fondo diventava il sospetto sistematico, giustificato come una sorta di imprescindibile paradigma metodologico con il quale rapportarsi agli eventi. A questo punto, però, si impone un piccolo passo indietro. Non sarebbe accettabile presentare la negazione in fieri dello sterminio come l’esclusivo prodotto laboratoriale di un dibattito politico e storico, con tutte le gratuite capziosità che spesso un tale genere di esercizio comporta, indipendentemente dal suo oggetto. Quest’ultimo, infatti, si intrecciava con altri fattori. Poiché, se di negazionismo a tutto tondo si deve parlare, è bene allora rinviare agli stessi nazisti, che furono parte rilevantissima in questo gioco. La negazione del crimine è infatti consustanziale al nazionalsocialismo in quanto impresa politica in sé criminale. Elementi di un diffuso atteggiamento negazionista erano pre-

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senti nelle azioni delle leadership naziste7 quando, dovendosi pronunciare sul crimine di massa che si stava consumando, ricorrevano a un vero e proprio gergo di copertura, la Sprachregelung (regolazione del linguaggio), che doveva occultare o rendere indecifrabili gli eventi attraverso il ricorso a un linguaggio elusivo, eufemistico, allusivo, metaforico, spesso intriso di parole anestetizzate dal burocraticismo espressivo in cui erano avvolte. I primi a praticare esercizio di negazione della realtà dei fatti furono quindi gli stessi assassini, consapevoli non solo della responsabilità che andavano assumendosi nel momento in cui portavano a termine uno sterminio di massa ma anche della necessità, affinché questo fosse compiuto fino in fondo, di cancellare le tracce anche più elementari di quanto era stato fatto. Se nessuna memoria dei morti fosse rimasta, il crimine sarebbe stato pressoché perfetto. Alla cenere avrebbe corrisposto l’oblio. Va detto, pertanto, che la negazione era parte stessa della tragedia che si andava consumando, entrando a pieno titolo nelle dinamiche della macchina dell’assassinio di massa. La quale funzionava in tre direzioni: la disintegrazione dei corpi; la cancellazione delle tracce dell’esistenza trascorsa delle vittime, sia di quella individuale che di quella collettiva; la rimozione di ogni prova di quanto era avvenuto. In tale logica rientrava la distruzione, laddove fu possibile, non tanto dei campi di concentramento quanto delle installazioni di sterminio, sorte nella Polonia e nell’Est occupati. E con essi, di tutti gli strumenti dell’assassinio di massa, a partire dalle camere a gas, insieme ai corpi dei fucilati dai reparti mobili, sotterrati in gigantesche fosse comuni che, a partire dal maggio 1942 e per i due anni successivi, vennero riaperte. Da queste fosse furono riesumati i cadaveri per poi bruciarli in giganteschi roghi nel quadro dell’Aktion 1005. La stessa sorte toccò a tutta la documentazione burocratica e d’archivio, l’immensa quantità di carte che costituivano in sé delle sentenze di condanna inappellabili, distrutte ogniqualvolta fu possibile. Poiché il calcolo razionale lasciava intendere ai carnefici che se un Konzentrazionslager stava ancora dentro una dimensione di grandezza per così dire ‘accettabile’ 7   Walter Laquer, Il terribile segreto: la congiura del silenzio sulla ‘soluzione finale’, Giuntina, Firenze 1983 (ed. or., The Terrible Secret, Weidenfeld & Nicolson, London 1980).

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per gli Alleati e i sovietici, nulla invece sarebbe stato concesso dinanzi alla visione della macchina sterminazionista effettivamente operante nei Vernichtungslager. E allora è bene lasciare parlare, e per intero, gli stessi registi di questa operazione di azzeramento dell’evento. Così Heinrich Himmler in un discorso divenuto poi famoso, quello tenuto a Poznan il 4 ottobre 1943, dinanzi a una selezionata platea di alti dirigenti e dignitari del Terzo Reich, chiamati alla corresponsabilizzazione: È assolutamente sbagliato proiettare la nostra anima intrepida con i suoi sentimenti profondi, la nostra gentilezza, il nostro idealismo su popoli alieni [...]. Dobbiamo essere onesti, corretti, leali e camerateschi con i nostri consanguinei e con nessun altro. Quello che accade ai russi, quello che accade ai cechi, mi è assolutamente indifferente. Tutto il sangue buono che può trovarsi tra le diverse nazioni dovremo acquisirlo per noi, se necessario portando via i bambini e facendoli crescere tra noi. Che gli altri popoli vivano confortevolmente o muoiano di fame mi interessa solo nella misura in cui ne abbiamo bisogno come schiavi per la nostra cultura; a parte ciò, il loro destino non mi interessa affatto. Che 10.000 donne russe periscano esauste mentre scavano una trincea anticarro mi interessa solo nella misura in cui la trincea anticarro è completata per la Germania. Non dobbiamo essere rozzi e spietati se non necessario, è chiaro. Noi tedeschi che siamo il solo popolo al mondo ad avere un atteggiamento decente verso gli animali, assumeremo un atteggiamento decente anche verso questi animali umani, ma è un crimine contro il nostro stesso sangue preoccuparci di loro e attribuirgli ideali. Vi parlerò qui con grande franchezza di un argomento molto serio. Dobbiamo ora discuterne apertamente tra di noi, ma non di meno mai accennarne in pubblico. Mi riferisco alla evacuazione degli ebrei, allo sterminio del popolo ebraico. Si tratta di una di quelle cose che sono facili da dire. «Il popolo ebraico deve essere sterminato», sostiene ogni membro del partito. «È chiaro, è parte del nostro programma, la eliminazione degli ebrei, lo sterminio, ebbene, lo faremo». Ma ecco che vengono tutti, gli ottanta milioni di buoni tedeschi, e ognuno ha il suo ebreo decente da segnalare. Certamente gli altri sono maiali, ma questo è proprio un ebreo speciale. Di tutti coloro che parlano così nessuno ha dovuto assistere, nessuno ha dovuto sopportare. La maggioranza di voi sa che cosa significhi vedere cento cadaveri che giacciono insieme, cinquecento o mille. Essere passati attraverso tutto ciò e, a parte qualche caso, esempio di debolezza umana, essere rimasti decenti, questo ci ha reso duri. Questa è una

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pagina gloriosa nella nostra storia che non è mai stata scritta né sarà mai più scritta in futuro. [...] Abbiamo sottratto agli ebrei le loro ricchezze. [...] Per noi stessi non ne abbiamo trattenute. Individui che abbiano contravvenuto a questo principio saranno puniti conformemente a un ordine che ho emesso in principio e che minaccia: chiunque sottragga anche solo un marco morirà. Un certo numero di SS, non molti, hanno disobbedito a questo ordine e moriranno, senza pietà! Abbiamo il dovere morale, abbiamo il dovere verso il nostro stesso popolo di uccidere questo popolo che voleva ucciderci. Ma non abbiamo alcun diritto di arricchirci anche solo di una pelliccia, un orologio, un marco o una sigaretta o altro. Non lo abbiamo perché alla fine di questo, avendo sterminato il bacillo, non vogliamo ammalarci e morire dello stesso bacillo. Non lo vedrò mai accadere: neanche un briciolo di putrefazione verrà in contatto con noi o attecchirà in noi. Al contrario, dove cercherà di mettere radici, lo bruceremo. Complessivamente, comunque, possiamo dire di avere adempiuto questo compito molto difficile per amore del nostro popolo. E non ne abbiamo sofferto danno nella nostra interiorità, nella nostra anima, nel nostro carattere8.

Parrebbe, lette queste parole, che non occorra altro per argomentare ulteriormente sulla necessità della negazione da parte di chi ha commesso il crimine o si riconosce in esso9. Ancora la voce ad altri, in questo caso a Primo Levi, quando riporta il beffardo ammonimento delle SS alle loro vittime: In qualunque modo questa guerra finisca, la guerra contro di voi l’abbiamo vinta noi; nessuno di voi rimarrà per portare testimonianza, ma se anche qualcuno scampasse, il mondo non gli crederà. [...] E quando anche qualche prova dovesse rimanere, e qualcuno di voi sopravvivere, la gente dirà che i fatti che voi raccontate sono troppo mostruosi per essere creduti10.

La devastante potenza di quell’omicidio di massa si misurava, infatti, non solo nel numero dei morti, nelle tecniche adottate, 8   Il discorso di Heinrich Himmler è disponibile in rete, tra gli altri, anche all’indirizzo http://www.rainews24.rai.it/it/canale-tv.php?id=17662. 9   Alain Finkielkraut, L’avenir d’une négation. Réflexion sur la question du genocide, Seuil, Paris 1982. 10   Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986, p. 7. Il riferimento è alle parole di Simon Wiesenthal.

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nell’apparato chiamato in causa per realizzare l’obiettivo, ma nell’idea che lo sterminio potesse essere radicalmente espulso dalla storia dichiarandone l’inesistenza. Il fenomeno negazionista avrebbe recuperato, nel suo manifestarsi a partire dalla fine della guerra, quei moventi di fondo. 2.2. La Francia del dopoguerra La conclusione della Seconda guerra mondiale non poteva non accompagnarsi alla denuncia dei crimini del fascismo e del nazismo. La tragedia dello sterminio delle comunità ebraiche europee assunse nella coscienza collettiva, passo dopo passo, il significato di metonimia del male. Dal 1945 in poi «lo sterminio degli ebrei è vissuto come un drammatico crocevia della storia contemporanea europea ed è una declinazione fondamentale della memoria della coscienza comune»11. Inevitabile che quei regimi che ne erano stati la causa subissero un’inappellabile condanna, destinata a perdurare nel corso degli anni. Non si trattava di paesi vinti ma di sistemi oppressivi, criminali e assassini. Lo stesso rimando al fascismo e al nazismo assunse una connotazione e dei significati estremamente negativi, non attenuati neanche dal conflitto politico che dal 1945 al 1989 divise il pianeta in due aree di influenza, quella occidentale e quella orientale. Del pari, l’antisemitismo perse ogni residua giustificazione, avendo definitivamente rivestito i panni di ideologia dello sterminio. Per i neonazisti continuare a sostenere le proprie posizioni, dinanzi alla responsabilità diretta nel genocidio degli ebrei e nello scatenamento di una guerra di aggressione e di annientamento di massa, diveniva impossibile. L’unico modo per cercare di renderle un po’ più accettabili era il tentare di attenuare, se non di rimuovere, la colpa dell’Olocausto. Poiché se il nesso tra il Terzo Reich, i regimi fascisti collaborazionisti e lo sterminio era evidente, allora la possibilità residua per cercare di evitare una condanna morale perpetua era quella di trovare il modo per dichiarare come non accaduto quanto invece si era verificato. 11   Francesco Germinario, Estranei alla democrazia: negazionismo e antisemitismo nella destra radicale italiana, Bfs Editore, Pisa 2001, p. 61.

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Lo stesso atteggiamento antisemita, peraltro, doveva ora essere smussato e travestito. Non era possibile continuare a sostenere le vecchie tesi contro gli ebrei dopo quello che era successo. Benché l’avversione nei loro confronti fosse parte integrante, e dunque ineliminabile, dell’ideologia razzista professata dalla destra radicale, ora l’atteggiamento da assumere richiedeva un preciso calcolo di compatibilità politica. Dirsi antisemiti, se si fa eccezione per pochissimi gruppetti di nostalgici, totalmente marginali rispetto al dibattito in corso nelle società europee dal dopoguerra in poi, avrebbe altrimenti implicato l’estromettersi da sé dalla discussione. In Germania, per diverso tempo non venne lasciato alcuno spazio a ciò che restava del vecchio regime e della sua ideologia. Piuttosto, dopo una difficile e incompleta opera di denazificazione della società tedesca e dell’amministrazione pubblica, ci si adoperò per depotenziare le spinte eversive ancora presenti nella collettività assorbendole, là dove possibile, dentro le dinamiche politiche del nuovo sistema democratico. L’Italia conobbe una profonda trasformazione con l’adozione di una Costituzione, il passaggio alla Repubblica e lo sviluppo di una vivace dialettica democratica, dalla quale i sostenitori di Mussolini non erano del tutto esclusi, avendo un proprio partito di riferimento, ma essendo relegati in un ruolo di opposizione relativamente secondario. Diverso fu invece il percorso della Francia, liberatasi dall’occupazione nazista nel 1944. Il paese, infatti, pur essendo assicurato al sistema dei regimi democratici, conobbe una traiettoria a sé, divenendo già nella seconda metà degli anni Quaranta l’epicentro del nascente negazionismo. La sua centralità, in tal senso, si inscrive nella natura specifica di nazione laboratorio dell’ideologia fascista12, quest’ultima supporto alla mobilitazione delle organizzazioni eversive che si contrapponevano all’evoluzione in senso liberaldemocratico delle società europee. I rimandi, ripercorrendo a ritroso la storia nazionale, rinviano al rifiuto della rivoluzione del 1789 e ai moti reazionari che da quel momento in poi ebbero corso, passando per le vicende dell’affaire Dreyfus, sul finire del XIX secolo, per poi arrivare fino al periodo dell’État français, il 12   Zeev Sternhell, Ni Droite ni Gauche. L’ideologie fasciste en France, Complexe, Bruxelles 1983.

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regime collaborazionista, pesantemente colluso con l’occupante tedesco, promosso dal maresciallo Philippe Pétain. Si tratta di una storia a destra ma che intercetta e coinvolge anche la sinistra, da Pierre-Joseph Proudhon ad Alphonse Toussenel fino a inquietanti figuri rosso-bruni come Pierre Laval. «Il negazionismo contemporaneo è anche un risorgere di quella tradizione»13. In centocinquant’anni di storia francese il peso dell’antisemitismo, e il suo connubio con le posizioni più rigide dello spettro politico, quelle caratterizzate da un ferreo antimodernismo, da un richiamo alle virtù dell’ancien régime e da un’ossessiva polemica antidemocratica, svolsero un ruolo fondamentale nel creare e nell’alimentare una tradizione avversa al repubblicanesimo e, più in generale, al mutamento politico. La centralità laboratoriale della Francia trovava peraltro riscontro anche nell’interscambio fruttuoso tra destra e sinistra, ovvero tra nazionalismo e socialismo, fenomeno ambiguo già presente alla fine dell’Ottocento, emerso poi pienamente negli anni dell’affaire Dreyfus14. Questo si fondava su di una piattaforma ideologica che identificava nella lotta al capitalismo, in quanto negazione degli equilibri tradizionali, e nel rifiuto radicale della democrazia, simulacro dell’ordine politico, i suoi punti di equilibrio. Peraltro una ragione fondamentale del fiorire proprio in Francia dell’ideologia fascista, e dei suoi molteplici addentellati e cascami, dal populismo al tradizionalismo religioso, era dovuta al fatto che essa, benché diffusa in certi strati sociali, a tratti forte e quindi prossima ai centri di potere, non era però mai riuscita a coagularsi al punto tale da costituire una concreta minaccia al sistema repubblicano, se si fa eccezione per il momento in cui venne imposta sulla spinta delle baionette dai tedeschi, tra il 1940 e il 1944. Dall’asimmetria tra seguito sociale, elaborazione culturale e concreto radicamento politico, laddove quest’ultimo non comportò mai un’alternativa di sistema, è quindi derivata per il fascismo, quasi come un moto di obbligata compensazione, la tenace elaborazione di un’ideolo13   Philippe Videlier, Il negazionismo in Francia: Faurisson e non solo, in Enzo Collotti (a cura di), Fascismo e antifascismo. Rimozioni, revisioni, negazioni, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 127. 14   Michel Dreyfus, L’antisémitisme à gauche. Histoire d’un paradoxe, de 1830 à nos jours, La Découverte, Paris 2009.

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gia del risentimento e della rivincita che, di fatto, costituì il vero collante tra le diverse componenti dell’arcipelago nero. Il senso dell’espropriazione e il bisogno di rivendicare il diritto a un perenne risarcimento divennero così due moventi essenziali nella costruzione e nelle infinite rigenerazioni dell’antisemitismo francese, anch’esso «compensatorio e violento»15. Ancora una volta la modernità, intesa come connubio tra capitalismo espropriatore e democrazia livellatrice, costituì il perno polemico contro il quale, allora quanto oggi (e in quest’ultimo caso parlando di «mondialismo»), si è articolata la lotta all’ebraismo che di tale consorzio d’interessi è stato il vero garante16. I momenti di crisi, come negli anni dell’affaire Dreyfus e di Vichy, hanno fatto emergere questa costellazione di risentimenti, permettendole di trovare nuovi interlocutori e insperate convergenze. Ma la matrice permanente rimane quella della frustrazione, derivante da una sorta di mito incapacitante, quello che consente di indicare l’obiettivo – il potere – senza però fornire gli strumenti politici per raggiungerlo. Così, quindi, nel caso della fascinazione intellettuale per il nazismo in personaggi come Louis-Ferdinand Céline, molto diffusa nella Parigi degli anni dell’occupazione e che nell’immediato dopoguerra, a disfatta del Terzo Reich oramai consumatasi, trovò il suo epigono in Maurice Bardèche, intellettuale, critico letterario e scrittore, cognato di Robert Brasillach, quest’ultimo noto cantore della potenza totalitaria del fascismo, fucilato nel 1945. Nel dopoguerra, infatti, la necessità di rielaborare la sconfitta ideologica, oltre che militare e politica, indusse ciò che rimaneva delle residue forze fasciste ad adoperarsi per una rilettura delle vicende da poco trascorse. Si trattava sia di darsi nuove motivazioni che di denunciare il giudizio corrente come voce dei vincitori. Bardèche entrò in gioco in quegli anni, e più precisamente nel 1947, quando pubblicò un primo volume, Lettre à François Mauriac17, nel quale difendeva la politica del collaborazionismo. Già in quel primo testo andavano delineandosi le due principali linee di attacco: at15   Pier Paolo Poggio, Il negazionismo alla francese, in «Studi bresciani. Quaderni della Fondazione Micheletti», n. 9, 1996, p. 157. 16   Jean-Yves Camus, René Monzat, Les droites nationales et radicales en France, Presses Universitaires de Lyon, Lyon 1992. 17   Maurice Bardèche, Lettre à François Mauriac, La Pensée Libre, Paris 1947.

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tribuire alla propaganda alleata la responsabilità di avere disegnato un’immagine cupa e tragica del nazionalsocialismo, riversando sui paesi antifascisti la colpa dei crimini di guerra, e cercare di imputare agli ebrei lo scatenamento del conflitto. Quanto si raccontava sulle colpe dei vinti era in buona sostanza una ‘menzogna’. Si trattava quindi di dare corpo ad una strategia di decolpevolizzazione dei veri responsabili della tragedia della Seconda guerra mondiale. L’anno successivo uscì il libro di Bardèche Nuremberg ou la terre promise18, poco prima che un altro autore, peraltro per molti aspetti diverso, Paul Rassinier, un ex deportato, pubblicasse il suo primo libro, Passage de la ligne. Du vrai à l’humain (1949). Tra i due in origine non intercorrevano rapporti personali. Bardèche provvide da sé a fissare gli standard del discorso negazionista, che avrebbe preso poi vera quota solo diversi anni dopo19. In sintesi, fin dalle sue prime opere affermava che non esistevano prove certe dei crimini attribuiti ai tedeschi. Quand’anche ci fosse chi le potesse esibire, esse erano da intendersi come false, create ad arte dagli Alleati per screditare la Germania sconfitta; in generale, le varie testimonianze provenienti dai Lager erano da ritenersi inattendibili, sia da un punto di vista metodologico che sul piano dei contenuti, poiché fortemente inficiate dall’orientamento ideologico, inesorabilmente contrario ai tedeschi, di chi le formulava; questi ultimi, peraltro, non avevano mai pianificato né tanto meno realizzato lo sterminio degli ebrei, intendendo semmai spostarli a Oriente, liberando così della loro presenza l’Europa occidentale; nei campi di concentramento tedeschi, istituzioni assimilabili a quelle create dagli Alleati e dai sovietici, la mortalità media non eccedeva quella registrata in condizioni di guerra, quando le epidemie e i problemi sanitari sono purtroppo frequenti; peraltro, nei Lager nazisti il trattamento dei prigionieri era migliore di quello praticato nei luoghi di detenzione dei paesi nemici e molti decessi erano da attribuire alla violenza degli stessi detenuti. Non negando la presenza di campi di concentramento tedeschi ma parificandoli a quelli istituiti dalle nazioni in guerra, Bardèche 18   Maurice Bardèche, Nuremberg ou la terre promise, Les Sept Couleurs, Paris 1948. 19   Valérie Igounet, Histoire du négationnisme en France, Seuil, Paris 2000, pp. 37-60.

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cercava di intervenire nell’evidenza dei fatti offrendo di questi una lettura piegata in favore dei tedeschi. Il ricorso ai gas asfissianti era riconosciuto solo in quanto metodo di disinfezione. A questo insieme di affermazioni si aggiungevano poi quelle più manifestamente politiche: gli Alleati erano responsabili di crimini di guerra, a partire dai bombardamenti contro la popolazione civile; i nazisti erano stati coinvolti in una guerra preventiva, in realtà voluta dalle potenze antifasciste; le condizioni poste dal trattato di Versailles del 1919 erano state tali da schiavizzare economicamente e politicamente la Germania, vittima della volontà predatoria della parte restante dell’Occidente e della Russia stalinista; gli ebrei erano all’origine della guerra, non come vittime bensì in quanto carnefici; era immorale chiedere ai tedeschi perché non avessero disobbedito a ordini criminali, poiché l’obiettivo di combattere il comunismo stava alla radice dei loro comportamenti, giustificando condotte che si motivavano sulla scorta della necessità di sopravvivere all’aggressione bolscevica; anche e soprattutto per questa ragione occorreva uno Stato forte, autoritario, in grado di coordinare gli sforzi contro il comunismo. In generale, al tema della negazione dello sterminio si accompagnava l’obiettivo, in sé in un primo tempo ancora più rilevante, di rivalutare l’immagine della Germania a partire dagli stessi ambienti della destra radicale europea, per rilanciare politicamente il nazismo, uscito disastrosamente sconfitto dalla guerra. Gli Alleati non avevano scelta. Se non avessero affermato solennemente, se non avessero provato non importa con quale mezzo che erano stati i salvatori dell’umanità, non avrebbero potuto essere che degli assassini. Se un giorno gli uomini cessassero di credere alla mostruosità tedesca non chiederebbero conto delle città distrutte?20

Il rifiuto del trattato di Versailles, come pure l’accusa rivolta agli Alleati di essere responsabili di crimini di guerra, non erano peraltro patrimonio solo degli autori neofascisti, coinvolgendo – come già si è avuto modo di osservare – i revisionisti isolazionisti presenti in America. La considerazione che le camere a gas   Maurice Bardèche, Nuremberg ou la terre promise cit., p. 19.

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fossero luoghi di disinfezione e la contestazione delle evidenze fotografiche furono invece elementi che Bardèche introdusse per primo. Vi pervenne per gradi, trattandosi di affermazioni funzionali alla difesa ad oltranza del fascismo. La denuncia dello scrittore francese come uomo della menzogna non si fece attendere. Su «Le Monde» del 1° gennaio 1949, in un articolo a firma di Hubert Beuve-Méry intitolato Heil Hitler!, la stroncatura del libro di Bardèche era totale: «Ad appena quattro anni dalla fine dei massacri, l’antisemitismo e il nazionalsocialismo più puri qui debordano a profusione»21. Di fatto, nonostante fosse l’autore che pure aveva dato i natali al negazionismo, egli fu assai poco citato dai suoi successori, soprattutto per la sua esplicita professione di fascismo, condensata nel volume Qu’est-ce que le fascisme?22, una collocazione ideologica che imbarazzava non poco. Nel dicembre del 1952, infatti, fondò il periodico «Défense de l’Occident», pubblicazione di riferimento per il neofascismo francese, e partecipò alla costituzione del Mouvement Social Européen, un’organizzazione internazionale estremista. Nondimeno, fu Bardèche a intuire le possibilità che la testimonianza di una figura come Paul Rassinier poteva offrire al neofascismo europeo. Già nel 1949, infatti, intervenendo con un altro volume, Nuremberg II ou les faux monnayeurs, eleggeva l’ex deportato a vera e propria figura feticcio del nascente microcosmo negazionista. La motivazione di fondo era condensata nel quesito con il quale polemicamente Bardèche chiedeva ai suoi contraddittori quale potesse essere l’interesse per un testimone di tal fatta, socialista, libertario e pacifista, di mentire sul merito dell’inesistenza dello sterminio. D’altro canto, argomentava lo scrittore in uno sforzo di relativizzazione, «è inevitabile allorché lo sterminio degli ebrei non ci appaia [altro] che come uno dei procedimenti nuovi di questa guerra, che lo si abbia a giudicare così come giudichiamo gli altri, lo sterminio degli slavi, i bombardamenti delle grandi città

21   Citato in Philippe Videlier, Il negazionismo in Francia: Faurisson e non solo, in Enzo Collotti (a cura di), Fascismo e antifascismo. Rimozioni, revisioni, negazioni, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 120. 22   Maurice Bardèche, Qu’est-ce que le fascisme?, Les Sept Couleurs, Paris 1961.

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tedesche»23 e così via. E, dopo aver ribadito che la «maggior parte» dei tedeschi, élites comprese, ignorava la Shoah, a rinforzo aggiungeva l’ipotesi che essa fosse stata il prodotto della volontà di uno solo, ovvero «che la politica di Himmler sia stata una politica tutta personale, eseguita discretamente e di cui solo lui porta la responsabilità»24. Bardèche liquidava in questi termini l’intera architettura sterminazionista. Difficile, tuttavia, attribuirgli la qualifica di falsificatore in manifesta malafede. Credeva in ciò che diceva per il semplice motivo che aveva bisogno di negare l’evidenza. La negazione era la precondizione per continuare a fare politica. Anche da ciò derivava l’accordo con un piccolo universo intellettuale di idee chiaramente irrazionali, altrimenti inverosimili. La necessità di sradicare l’evidenza era una legge che diveniva atto di fede. 2.3. Paul Rassinier La figura di Rassinier è decisamente più interessante ed eclettica di quella del suo mentore25. Dopo avere aderito giovanissimo al Partito comunista francese ed esserne stato escluso nel 1932, Rassinier era diventato segretario della federazione di Belfort della Sfio, la Section française de l’Internationale ouvrière, il Partito socialista fondato da Jaurès e Guesde nel 1905. Di tendenze anarco-pacifiste, al momento dell’occupazione tedesca costituì con altri il movimento clandestino Libération Nord. Arrestato dalla Gestapo, fu torturato e poi deportato per motivi politici a Buchenwald e Dora. In tale veste subì la prigionia nei campi di concentramento ma non entrò mai in contatto con i campi di sterminio, operanti nella Polonia occupata. Sopravvisse alla prigionia

23   Maurice Bardèche, Nuremberg II ou les faux monnayeurs, Les Sept Couleurs, Paris 1950, pp. 193-194. 24   Ibidem. 25   Nadine Fresco, Rassinier Paul, in Dictionnaire biografique du mouvement ouvrier français, Les Éditions Ouvrières, Ivry-sur-Seine 1991, pp. 394-395. Inquadramenti più approfonditi sono quelli offerti da Nadine Fresco, Fabrication d’un antisémite, Seuil, Paris 1999 e Florent Brayard, Comment l’idée vint à M. Rassinier, Fayard, Paris 1996.

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nel Lager ma tornò a casa invalido. Nel 1946 venne eletto deputato socialista alla seconda Assemblea costituente. Battuto alle successive elezioni politiche, prese la strada del pacifismo integrale e dell’anarchismo sociale rappresentata dalla rivista «Défense de l’homme» del dirigente anarchico Louis Lecoin (1888-1971), amico di Rassinier fin dall’anteguerra. Da allora l’ex deportato svolse le sue attività nell’ambito della Federazione anarchica, che abbandonò negli anni Sessanta per aderire a uno dei suoi scismi, l’Alleanza operaia anarchica. In tale veste collaborò con un’altra formazione eterodossa, i Gruppi anarchici di azione rivoluzionaria (di tendenza cosiddetta ‘nera e rossa’, anarco-comunista), continuando nello stesso tempo a militare nell’Unione dei pacifisti. Solo negli ultimi tre anni della sua vita (morì nel 1967) le polemiche sul negazionismo dell’Olocausto costringeranno Rassinier a dimettersi dall’Unione dei pacifisti. Ma fino alla morte manterrà rapporti con spezzoni del movimento anarchico, i quali ricorderanno alla sua scomparsa il militante del pacifismo integrale e della lotta anarchica contro l’ordine sociale e contro la religione (la militanza atea fu un’altra costante dell’intera vita dell’ex deportato). Ancora nel 1987 un articolo di una delle maggiori figure storiche del mondo anarchico francese, Maurice Joyeux, apparso sull’organo ufficiale della Federazione anarchica, «Le Monde libertaire», commemorava il vecchio compagno di lotte a vent’anni dalla morte, rivendicandone l’opera come pienamente appartenente alla tradizione degli anarchici. Nel 1948 Rassinier intraprese la sua attività di prolifico pubblicista che in vent’anni si concretizzerà nella redazione di una quindicina di volumi. In successione pubblicò, tra gli altri, Passage de la ligne (1948), Le Mensonge d’Ulysse (1950), Le discours de la dernière chance (1953), Candasse, ou le huitième péché capital (1955), Le Parlement aux mains des banques (1955), L’Équivoque Révolutionnaire (1961), Ulysse trahi par les siens (1961), Le véritable procès Eichmann (1962), Le Drame des juifs européens (1964), L’opération ‘Vicaire’ (1965), Les responsables de la seconde guerre mondiale (1967). Da notare che dal 1962 i suoi libri vengono pubblicati dalla casa editrice Les Sept Couleurs, diretta da Bardèche, mentre negli anni Settanta le ristampe sono editate dalla Vieille Taupe, collocata nell’estrema sinistra. Nel 1977, dieci anni dopo la sua morte, la Noontide Press, una casa editrice dell’estrema destra

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radicale americana, ha provveduto a pubblicare i maggiori testi di Rassinier in un unico volume, Debunking the Genocide Myth26. L’obiettivo sul quale l’opera di Rassinier si concentrò da subito fu lo sforzo di argomentare l’inconsistenza delle accuse rivolte ai tedeschi per quel che riguardava le loro responsabilità belliche, in particolare nella conduzione dei Lager. In Passage de la ligne e Le Mensonge d’Ulysse l’attenzione è rivolta ai campi di concentramento e alle dinamiche tra deportati e guardiani. Rassinier argomenta così alcune proposizioni fondamentali del suo pensiero: i sopravvissuti alla prigionia hanno esagerato nel racconto di ciò che è avvenuto durante la loro permanenza nei Lager; le testimonianze relative alle atrocità sono inattendibili o gonfiate ad arte mentre il numero di ebrei morti è stato enormemente aumentato; la responsabilità della maggior parte delle violenze avvenute nei campi è da attribuire agli stessi prigionieri; in generale, la letteratura sulla deportazione non solo enfatizza ciò che fa oggetto di racconto ma è intrinsecamente contraddittoria. Lo sforzo di Rassinier è in un primo tempo volto a contestare che dietro l’uccisione degli ebrei vi fosse una precisa scelta politica della classe dirigente nazista. Più in generale l’atteggiamento tedesco veniva letto come una reazione ai comportamenti che erano attribuiti agli ebrei, ritenuti un gruppo nazionale (e politico) a sé, omogeneo, economicamente influente e sostanzialmente sleale e infedele nei confronti della Germania. Così asserendo, fino ad arrivare ad affermare che la causa della guerra era da attribuire all’«aggressività ebraica», che prima si era giovata delle difficoltà della Repubblica di Weimar e poi aveva mantenuto e alimentato continue tensioni contro il nazismo, Rassinier capovolgeva le colpe degli eventi, recuperando molti dei motivi della propaganda antisemita. Il giustificazionismo nei riguardi dei comportamenti tedeschi, oltre che la secca attenuazione delle responsabilità nei delitti, erano i due punti di riferimento dell’autore francese. Questi si incontravano con quel comune sentire che a cavallo tra la seconda metà degli anni Quaranta e la prima metà dei Sessanta accompagnava la destra neonazista e neofascista, la quale stava giungendo a fare 26   Paul Rassinier, Debunking the Genocide Myth: A Study of the Nazi Concentration Camps and the Alleged Extermination of European Jewry, Noontide Press, Torrance 1978.

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proprio l’antisemitismo del Terzo Reich, così da incorporare molti dei suoi motivi. Peraltro l’apparente contraddittorietà della traiettoria esistenziale di Rassinier, figura a tratti imponderabile, trovava una sua robusta sintesi nell’anticomunismo. Un atteggiamento di dura ostilità verso quelli che erano stati, prima della guerra, i suoi compagni di lotta politica lo aveva indotto nel corso del tempo a fiancheggiare la sponda opposta. Un fatto che trovò riscontro nella partecipazione, sotto lo pseudonimo di Jean-Pierre Bermont, al periodico del radicalismo di destra «Rivarol», fondato nel 1951 da André Malliavin. Come tale egli portò alla luce un ambiente poco conosciuto, perché effettivamente esistevano alcune frange militanti uscite dalla sinistra che già prima della guerra avevano rinunciato a scegliere fra Hitler e il Fronte popolare facendo perno su uno strano «pacifismo integrale» («piuttosto la schiavitù che la guerra») o uno pseudo «radicalismo anticapitalista» («le democrazie non valgono più del fascismo»). Queste frange, che si definivano con i termini di «libertario» o di «ultrasinistra», erano inclini ad accogliere il genere di discorso di un Rassinier27.

L’ex deportato si incaricò quindi di rappresentarne l’essenza facendola ruotare, per parte sua, intorno al negazionismo. Se Bardèche doveva dare nuovo smalto a una destra estrema uscita con le ossa rotte dalla guerra, Rassinier seguiva un registro a sé nell’evoluzione delle sue posizioni. Preso all’interno di una logica di ferreo anticomunismo (laddove all’Urss e ai partiti comunisti era imputata la colpa di avere sottratto ai socialisti il campo della rappresentanza del mondo del lavoro), ossessionato dalla guerra e dai suoi orrori egli cercava di argomentare non della ‘verginità politica’ della Germania nazista bensì della comparabilità, che diveniva immediata equiparazione, dei suoi crimini a quelli di Stalin e del «capitalismo». Denunciare le colpe tedesche avrebbe peraltro comportato il rischio di una nuova guerra, questa volta tra potenze atomiche. Da questa prospettiva, quindi, deriva il legame con la destra estrema: non è tanto la fascistizzazione di Rassinier ad entrare in gioco quanto l’opportunismo con il quale i neofascisti sposano le sue tesi. Per l’uno e per gli altri, comunque, la   Philippe Videlier, Il negazionismo in Francia cit., pp. 120-121.

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storia diventa una menzogna ipso facto poiché è scritta attraverso la «giustizia dei vincitori». Per il Rassinier negazionista era quindi fondamentale mettere in discussione la credibilità dei testimoni della deportazione, attribuendo loro la tendenza a deformarne l’esperienza, ingigantendone gli aspetti più deteriori. Se questa considerazione, ponderata caso per caso, poteva presentare anche qualche singola conferma (così come valeva il fatto inverso, ossia che molti potevano avere rimosso gli aspetti più sgradevoli di ciò che avevano subito o visto), per l’ex deportato, convinto di governare la materia in quanto sopravvissuto anch’egli, diveniva invece la regola generale, sulla quale procedere allo smantellamento sistematico delle altrui testimonianze, di cui era messa in discussione aprioristicamente la credibilità. L’atteggiamento di Rassinier si alimenta di paradossi. Lo scetticismo, che diventa poi rifiuto, rispetto ai resoconti altrui che non collimino con le proprie idee trovava già nella tradizione di rilettura critica, inaugurata da Jean-Norton Cru dopo la Prima guerra mondiale, un calco robusto28. Con la differenza, tuttavia, che quest’ultima non si piegava ad un obiettivo ideologico che invece Rassinier aveva fatto proprio. Tutto ciò si incontrava con la deresponsabilizzazione dei carnefici, ossia dell’ampia platea di figure coinvolte nella gestione dei campi di concentramento, dalle guardie fino ai gruppi dirigenti nazisti. Poiché se le SS non erano necessariamente partecipi della vita quotidiana dei Lager, non facendosi coinvolgere in ciò che avveniva, ne derivava che le colpe delle violenze che in essi si consumarono erano da attribuire esclusivamente agli stessi prigionieri. Ecco un esempio, tra i diversi possibili, delle sue idee, e della sua prosa fluente e polemica: Sono quindi sicuro nel dire che quanti, come David Rousset o Eugen Kogon, si sono lanciati in minuziose e patetiche descrizioni dell’operazione [di gassazione], non l’hanno fatto che su dei pettegolezzi [ragots]. Ciò [...] non vuole assolutamente dire che non ci siano state delle camere a gas nei campi né che non ci sia stato uno sterminio con il gas: una cosa è l’esistenza dell’installazione, un’altra la sua de28   Christophe Prochasson, Anne Rasmussen (a cura di), Vrai et faux dans la Grande Guerre, La Découverte, Paris 2004.

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stinazione e una terza la sua utilizzazione effettiva. In secondo luogo, è rilevante che in tutta la letteratura concentrazionaria e neanche oltre il Tribunale di Norimberga, si sia potuto produrre un documento attestante che le camere a gas erano state installate nei campi di concentramento tedeschi, su ordine del governo, all’interno di un piano che le destinasse allo sterminio sistematico dei detenuti. I testimoni, perlopiù ufficiali, sottufficiali e semplici SS, sono certo venuti alla sbarra a dire che essi avevano proceduto a delle gassazioni e che avevano ricevuto un ordine: nessuno tra di loro ha potuto esibire l’ordine dietro al quale si proteggevano e nessuno di questi ordini [...] è stato ritrovato negli archivi dei campi alla Liberazione. Bisogna dunque credere a questi testimoni sulla parola. Chi mi prova che essi non abbiano detto ciò per salvare la loro vita nel clima di terrore che cominciò a regnare sulla Germania all’indomani del suo annientamento?29

Questi facili sofismi sostituivano alla concretezza dei riscontri un capzioso modo di rileggere i fatti, orientando e piegando ossessivamente ogni dato che da essi emergeva verso un unico obiettivo: liberare i nazisti dalle nefandezze di cui si erano macchiati. Il giudizio che sarebbe stato formulato in merito dai suoi molti critici è (e rimarrà) secco: «dato il suo precedente ruolo nella Resistenza francese, i suoi argomenti assumono il gusto di manifestazioni di un peccatore pentito. I suoi libri sono una mistura di chiassose falsità, mezze verità, citazioni fuori contesto e attacchi all’‘establishment sionista’»30. L’entusiasmo della destra radicale, invece, si può desumere anche da quanto Louis-Ferdinand Céline andava scrivendo della Mensonge d’Ulysse, ossia che «tende a fare dubitare della magica camera a gas! Non è poco. [...] Era tutto la camera a gas! Ciò permetteva TUTTO»31. Ciò facendo Rassinier aveva di fatto fondato il metodo negazionista, quello che si basava sulla contrapposizione autistica tra i fatti e la propria versione. Quest’ultima, che si presentava come 29   La citazione è tratta dalla prefazione alla seconda edizione della Mensonge d’Ulysee, del 1954, poi ristampata nell’edizione del 1979, a p. 241. Il corsivo è nel testo originale. 30   Deborah Lipstadt, Denying the Holocaust. The Growing Assault on Truth and Memory, Plume Book, New York 1994, p. 51. 31   Da una lettera ad Albert Paraz, 8 novembre 1959, in Cahiers Céline, vol. 6, Lettres à Albert Paraz, 1947-1957, Gallimard, Paris 1980, p. 276. Il corsivo è mio.

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una revisione globale del giudizio su quei tragici trascorsi, doveva letteralmente ‘ricostruire’ gli eventi, e il loro senso, in funzione di un obiettivo politico e ideologico. Se tale revisione era presentata come un legittimo sforzo di rilettura critica del recente passato, tanto più credibile poiché svolto da un ex deportato, essa esulava completamente da qualsiasi reale confronto con la storiografia che andava sviluppandosi e, ancora di più, da un qualche impegno di obiettività. L’uno e l’altra erano preclusi a Rassinier poiché la sua scrittura si spingeva oltre il campo dell’interpretazione, per trasformarsi in asserzione fine a sé. Fondamentale diveniva quindi per il lettore l’atto di fede verso ciò che gli veniva presentato come una verità così sconcertante da risultare scomoda e, in quanto tale, da essere stata deliberatamente omessa dal discorso pubblico. Il nucleo del discorso negazionista risiedeva nel fatto che si fosse presentato da subito nei termini di una sconvolgente rivelazione: la storia ‘ufficiale’ era menzognera. Andava in questo senso anche il falso assunto per il quale i campi di concentramento non costituivano il peculiare sistema di oppressione, persecuzione ed eliminazione degli avversari del regime nazista, ma la versione tedesca di una modalità adottata da tutti i paesi belligeranti nei confronti di quella parte della popolazione che di volta in volta doveva essere fatta destinataria di misure straordinarie di controllo e coercizione. Luoghi di internamento, in buona sostanza. Ancora una volta una falsa equivalenza, che poteva però trovare qualche assenso di giudizio in quella parte della pubblica opinione più ingenua, o simpatizzante per gli sconfitti, che cercava di controbattere apertamente ai dati di fatto, mitigandone la reale portata. Ed è qui che il metodo inaugurato dall’autore francese rivelava la sua trama, poiché nel momento in cui il ricorso alle dichiarazioni apodittiche non era più sufficiente per supportare il registro delle proprie affermazioni subentrava la necessità di piegare l’evidenza celando, manipolando e mistificando i dati incontrovertibili in quanto tali. La negazione si trasformava in menzogna. Dentro questa intelaiatura ideologica, che diveniva un vero e proprio laboratorio della riscrittura del senso del passato, entravano così anche considerazioni che rimandavano alla presunta benignità del comportamento nazista: i campi, in questa ottica, sarebbero serviti non per perseguitare ma per tutelare i prigionieri che, altrimenti, avrebbero subito le violenze

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della «rabbia collettiva». Il tema della funzione protettiva e rieducativa dei Lager (e di tutti i luoghi di detenzione illegale creati in dodici anni di regime nazista) era stato peraltro uno dei cavalli di battaglia della propaganda tedesca. Se durante gli anni Cinquanta Paul Rassinier andò argomentando prevalentemente sulla non responsabilità dei nazisti per quanto avveniva nei campi di concentramento, evitando di affrontare di petto il tema dello sterminio degli ebrei, durante il decennio successivo si focalizzò invece su questo aspetto. Il testo chiave è, in questo caso, Le Drame des juifs européens del 196432. Contrariamente a quanto potrebbe lasciare intendere il titolo, ciò di cui si parla nel libro non è la persecuzione e l’assassinio in massa dell’ebraismo continentale, bensì la costruzione del ‘mito’ delle camere a gas. Il quale, secondo l’autore, sarebbe un artificio propagandistico del «movimento sionista internazionale», inteso come una sorta di emanazione planetaria dell’ebraismo. Il dramma starebbe nel fatto che gli ebrei vogliono far credere di essere stati delle vittime. L’associazione lessicale e semantica tra ebraismo e sionismo, due parole che diventano intercambiabili all’interno del vocabolario antisemita, vuole indicare la natura manipolatoria del discorso sullo sterminio, rinviando alla dimensione complottistica che si celerebbe dietro ad esso. La responsabilità della ‘menzogna’, infatti, non cadrebbe sulle spalle degli ex deportati, che avrebbero semmai esagerato la descrizione di quanto subìto da loro o dai loro compagni di prigionia per comprensibili motivi dovuti al risentimento. Rassinier, si ricordi, non negò mai l’esistenza dei campi di concentramento nazisti. Neanche agli ex carnefici, che resero testimonianza davanti agli Alleati, descrivendo i crimini di cui si erano macchiati o che andavano attribuendo alla responsabilità dei commilitoni, va imputata colpa in materia, avendo dovuto confessare in condizioni di costrizione, spesso sotto la minaccia della pena capitale, cercando così di assecondare i giudici nel tentativo di ottenere una pena più mite. In generale l’autore assolve i protagonisti della vicenda, spostando invece il fuoco polemico contro quello che considera il backsta32   Paul Rassinier, Il dramma degli ebrei europei, Edizioni Europa, Roma 1967 (ed. or., Le Drame des juifs européens, Les Sept Couleurs, Paris 1964; disponibile nella versione online all’indirizzo http://www.aaargh.codoh.info/ fran/livres/PRdje.pdf).

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ge dell’intera costruzione, ovvero i «sionisti», parola dentro la quale sono compresi gli storici e gli organismi di ricerca, perlopiù ebraici, che hanno indagato sui fatti dello sterminio. Particolare livore è esercitato contro Raul Hilberg, che nel 1961 aveva pubblicato la sua monumentale ricerca The Destruction of the European Jews33, con la quale aveva ricostruito sia il complesso meccanismo che portò allo sterminio sia i soggetti che vi presero parte, in testa la burocrazia tedesca. Per Rassinier è fondamentale attribuire a Hilberg l’intenzione di manipolare i dati. In ragione di ciò si adopera in un vero e proprio gioco sulle cifre, imputando allo storico americano omissioni, interpretazioni deliberatamente errate, incongruenze e altro ancora. Non disdegna, per raggiungere l’obiettivo, di metterlo in cattiva luce, di citare erroneamente, di decontestualizzare, di raffrontare forzatamente, disinvoltamente e maliziosamente i numeri, leggendo ogni manifestazione di differenza d’opinione tra gli storici non come l’espressione del pluralismo delle interpretazioni bensì come il riscontro dell’infondatezza dell’intero impegno di ricerca34. Il calcolo di interesse, personale e collettivo, che si celerebbe dietro alla diffusione di un’interpretazione menzognera del passato, oltremodo calunniosa e oltraggiosa nei confronti della Germania, sarebbe quindi la vera chiave di lettura dell’intera vicenda. L’identità ebraica di un gruppo di donne e uomini legati tra di loro da un vincolo di affiliazione e reciprocità costituirebbe poi il fulcro di una montatura clamorosa. Alterare il passato serve a manipolare il presente a proprio interesse, per trarne vantaggi altrimenti insperabili. Di ciò lo Stato d’Israele, autonominatosi il garante della memoria dei sei milioni di ebrei morti nei campi di concentramento e di sterminio, sarebbe pertanto l’effettivo beneficiario, tenendo in scacco la Germania, alla quale sono stati chiesti riparazioni e risarcimenti onerosissimi per una colpa inventata. Buona parte di coloro che sono conteggiati tra i deceduti sarebbero in realtà in vita, anche se ciò non viene riconosciuto da chi, invece, ha tutto l’interesse a diffondere una tesi, quella dello 33   Raul Hilberg, La distruzione degli ebrei d’Europa, Einaudi, Torino 1995 (ed. or., The Destruction of the European Jews, Holmes & Meier Publisher Inc., New York-London 1985). 34   Su questo modo di procedere si veda Deborah Lipstadt, Denying the Holocaust cit., pp. 58-64.

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sterminio, completamente falsa. Di questa e di altre affermazioni Rassinier non dà peraltro nessuna prova documentaria, non essendo in alcun modo in grado di farlo se non attraverso una serie di congetture presentate come analisi verosimili. Così afferma, a un certo punto, dopo aver condotto per molte decine di pagine il lettore in un dedalo di statistiche, calcoli, conteggi: Ma se questi 3.167.410 ebrei [corrispondenti al numero di individui che Rassinier considera sopravvissuti, conteggiati invece dagli storici tra i morti nell’Olocausto] che erano ben vivi nel 1945 non sono più in Europa, e non sono in Israele, devono pur essere da qualche altra parte, assieme a quelli di cui si sono naturalmente accresciuti, dopo. Dove? Per poterlo dire bisogna qui, ancora, attendere le nuove rivelazioni che gli incoscienti chiacchieroni in vena di pubblicità del Movimento sionista internazionale non tarderanno a fare sbadatamente un giorno o l’altro35.

Nel frattempo un tentativo di risposta, tra gli altri, è il seguente: Il problema degli ebrei polacchi, baltici e romeni che, durante gli anni 1941-42, sono stati evacuati verso l’Asia centrale e che, se si deve credere al giornalista ebreo David Bergelson, sarebbero stati da 2 milioni a 2.200mila nel 1942 essendovi 3 milioni di ebrei in Russia nel 1939, e che alla fine del 1942 erano arrivati – secondo lui – a circa 5.200mila. Quanti di costoro vivono ancora in Asia centrale (leggi: Siberia) con la progenitura? Dove sono andati? Tutto lascia credere che quelli che sono riusciti a scappare clandestinamente hanno raggiunto il continente americano [...]. A loro riguardo, mi viene in mente un’ipotesi che vale quello che vale e che mi guarderei bene dal dare come certezza: è possibile che in sedici anni la metà di loro sia riuscita [...] a lasciare l’Asia centrale per il continente americano. In questo caso, dato che il Movimento sionista internazionale non li situa né in Argentina, né in Brasile, e nemmeno nel Canada, né in alcun altro paese di questo continente, devono per forza essere negli Stati Uniti36.

Se non rasentasse la demenzialità, e non fosse cupa contabilità dei morti, una interpretazione di questo genere andrebbe bene in 35   Paul Rassinier, Le Drame des juifs européens cit., http://www.aaargh.codoh. info/fran/livres/PRdje.pdf, p. 162. 36   Ivi, p. 163.

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un manuale per illusionisti. Nel volume, infatti, Rassinier dedica un intero capitolo, il terzo, ad analizzare la statistica demografica ebraica in Europa, cercando di mettere in discussione le interpretazioni correnti, suffragate da molteplici riscontri, sul destino di quella parte della popolazione che fu annientata. Anche per tale acribia – pari solo all’acrimonia contro quelli che considera i suoi avversari – che Rassinier esibisce nel tentativo di argomentare i suoi convincimenti, così come per il ricorso continuo a un simulacro di analisi scientifica dei dati, affiancando alle sue interpretazioni deduzioni non comprovabili ma spiazzanti e, quindi, per alcuni versi seducenti, egli si dimostra un autore sui generis rispetto alla vulgata neofascista. Di quest’ultima non condivide l’approccio superficiale e puramente propagandistico, preferendo invece colpire il lettore con una quantità di affermazioni che diventa verbosità e logorrea pura, l’una e l’altra basate però sulla ripetizione del medesimo standard, che miscela e fa coincidere il convincimento personale, espresso con enfasi, al suo rivestimento scientista. L’aritmetica demografica alla quale fa ricorso ripetutamente nel Drame des juifs européens va in questo senso, stendendo una cortina fumogena sui dati reali e, quindi, sullo stesso lettore. Ogni affermazione degli storici, un gruppo interessato a riprodurre la ‘falsità’ dello sterminio, viene sottoposta a un durissimo attacco nei punti più critici. La questione dei numeri – quante furono le vittime, quanti sopravvissero – viene usata come un cavallo di Troia per delegittimare l’evidenza del fatto stesso e per costruire una sorta di realtà parallela, quella che emerge dalla revisione radicale alla quale Rassinier sottopone la storia. Il metodo è chiaro e l’autore francese lo inaugura a beneficio di coloro che gli sarebbero succeduti nell’opera: aprire continue falle nel discorso altrui, innescando dubbi molteplici sulla base delle proprie asserzioni e obbligando gli autori attaccati a comprovare la fondatezza dei propri riscontri. In tale modo si è già trascinati dentro l’agire polemico negazionista, offrendogli una pericolosa sponda legittimante. L’attacco al particolare serve poi per decostruire il generale: la questione del conteggio delle vittime, spesso incerta, è un varco di cui approfittare per far franare la credibilità dei ricercatori, insinuando la loro malafede e, di riflesso, l’inesistenza dell’evento stesso, lo sterminio. Rassinier usa le armi scorrette che attribuisce ai suoi avversari: il sistema della

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diceria è da lui eletto a criterio di indagine e, avvolto dentro una copertura di plausibilità metodologica, offerto poi ai lettori come l’indice di una nuova visione delle cose, in quanto tale tanto più apprezzabile poiché finalmente ‘non ideologica’. Un altro aspetto che emerge con forza è la questione delle riparazioni e dei risarcimenti derivanti dai danni materiali causati dalla guerra nazista alle sue vittime. È un ulteriore passaggio, in sé importante, poiché richiama sia la questione del denaro (e di riflesso il simbolismo legato allo stereotipo dell’ebreo usuraio) sia l’identità di chi ne avrebbe beneficiato. Allo Stato d’Israele furono riconosciute riparazioni postbelliche per l’accoglimento di circa mezzo milione di sopravvissuti37. Si trattava di compensazioni di natura civilistica e che derivavano da accordi politici. Questo aspetto, nella letteratura negazionista, ovvero nell’immaginario di cui si alimenta, assunse ben presto una grande rilevanza, permettendo di razionalizzare meglio le affermazioni sui moventi della «menzogna dell’Olocausto». C’era un beneficiario, per l’appunto, questo era lo Stato degli ebrei. Ma se qualcuno beneficia di qualcosa ha tutto l’interesse a che tale situazione si mantenga inalterata, perché offre un potere di ricatto nei confronti della comunità internazionale. Da ciò usciva rafforzato il paradigma dell’inesistenza dello sterminio, una sorta di trama drammaturgica utilizzata per mungere la ‘vacca tedesca’. 2.4. L’entrata in scena di Robert Faurisson Se negli anni Sessanta Rassinier, che diventa l’autore di maggiore rilievo (e prolificità) del negazionismo, viene pubblicato dalle case editrici dell’estrema destra, in quanto «eretico» e «anticonformista», due aggettivi che erano entrati a far parte del lessico autopromozionale di quell’area politica, all’inizio degli anni Settanta entra in gioco la casa editrice La Vieille Taupe (La Vecchia Talpa) di Pierre Guillaume, di opposto orientamento ideologico38. Si avrà 37   Nana Sagi, German Reparations: A History of the Negotiations, Palgrave Macmillan, Basingstoke-London 1986. 38   Sull’intera vicenda si veda lo studio di Valérie Igounet, Histoire du négationnisme en France cit.

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modo, nel prosieguo di queste pagine, di tornarci sopra. Tuttavia, trattandosi dell’anello di congiunzione tra il vecchio negazionismo, già di Bardèche e Rassinier, e quello che sarebbe subentrato nel decennio successivo alla contestazione studentesca, qualche parola va spesa da subito. Già nel 1965 era stata fondata la libreria omonima, punto di raccordo tra comunisti antistalinisti e antisovietici, legati sia al lascito di Rosa Luxemburg che al situazionismo, che in Francia in quegli anni prende progressivamente piede. Separati, in quanto ostili, dal comunismo nella sua versione maggioritaria, in rotta quindi con il Partito comunista francese, gli aderenti al gruppo della Vecchia Talpa riconoscono nella persona di Amadeo Bordiga, già fondatore del Partito comunista d’Italia, il ruolo di nume tutelare39. Si tratta di un personaggio particolare nella complessa storia del movimento comunista, per certi aspetti figura eterodossa ma, soprattutto, esponente della critica da sinistra dell’antifascismo. A quest’ultimo, infatti, è imputato d’essere un vero e proprio inganno adottato dal capitalismo per attirare i comunisti in alleanze innaturali e distoglierli dalla lotta contro il vero obiettivo, l’abbattimento dei rapporti sociali di produzione dominanti. Lo Stato, secondo Bordiga, è per definizione iniquo, che vesta panni democratici, fascisti o stalinisti. Lo stalinismo è infatti l’ennesimo travestimento del dominio del capitale. Qualsiasi critica che non superi l’antifascismo è in sé insufficiente, poiché rinvia a un orizzonte, quello delle alleanze di classe, che costituisce un passo indietro rispetto ai reali interessi della comunità proletaria. Dalla critica alle alleanze che, dietro il discorso ideologico e la sua verbosità, cela in realtà i conflitti e i contrasti tra gruppi e gruppuscoli della sinistra radicale, il passaggio alla critica del discorso storico, inteso come pura mistificazione, si fa breve. Data a quel periodo la circolazione di un articolo, Auschwitz ou le grand alibi, pubblicato anonimo, in ottemperanza al principio vigente di non dare adito a «personalismi», ma la cui ispirazione parrebbe essere propriamente bordighiana (una paternità tuttavia contestata). Apparso nel 1960, sul numero 11 del «Programme 39   Una ricostruzione dei passaggi più densi, dal punto di vista culturale e ideologico, è offerta dal saggio di Alain Bihr, Les mésaventures du sectarisme révolutionnaire, in Alain Bihr (a cura di), Négationnistes: les chiffoniers de l’histoire, Éditions Golias et Éditions Syllepse, Villeurbanne Cedex et Paris 1997.

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Communiste», periodico del Parti communiste international, e poi ristampato come brochure a sé, il testo costituisce il tentativo di fornire una lettura organicamente economicista della Shoah e del sistema concentrazionario. In esso si sostiene che l’‘uso’ della memoria di Auschwitz e dei campi di sterminio per corroborare l’idea che l’alleanza tra democrazie liberali e Unione Sovietica fosse politicamente e moralmente superiore al nazismo, costituisce un falso ideologico. In realtà l’una e l’altro sono volti della medesima medaglia, quella capitalista. L’esortazione a combattere il fascismo nel nome della ‘democrazia’ è un inganno destinato a fare dimenticare al proletariato che il suo vero nemico da abbattere rimane il capitale nel suo insieme. Auschwitz, assunta come simbolo della barbarie nazista, sarebbe quindi il «grande alibi» delle democrazie capitalistiche. Nondimeno il testo afferma che gli ebrei furono deportati in quanto «classe» e non come razza, abbandonati a sé perché parte di una piccola borghesia non più utile al capitalismo, in ragione «dell’irresistibile avanzata della concentrazione del capitale». Il Terzo Reich non si poneva aprioristicamente il problema di sterminare gli ebrei. Il motivo del suo disinteresse era peraltro da attribuirsi non a ragioni etiche, ma ad un calcolo economico, che rendeva poco o nulla utile procedere al genocidio. Dopo di che, l’evoluzione del percorso bellico avrebbe fatto sì che l’assassinio in massa dei deportati, evento che in quanto tale l’articolo non nega, si rendesse necessario poiché questi costituivano degli scarti da eliminare nel processo di produzione schiavistica messo in atto nei campi di concentramento. Lo stesso antisemitismo si spiegherebbe quindi dentro queste logiche rigorosamente socioeconomiche, essendo il prodotto di quella componente della piccola borghesia che, nel tentativo di salvare sé stessa, era disposta a distruggere la parte restante della sua classe, incaricandosi essa stessa di portare a termine tale operazione. Così il testo medesimo: Dinanzi all’orribile pressione economica, alla minaccia di distruzione diffusa, che rendevano incerta l’esistenza di ognuno dei suoi membri, la piccola borghesia ha reagito sacrificandone una delle sue parti, sperando così di salvare e di assicurare l’esistenza alle altre. L’antisemitismo non deriva da un «piano machiavellico» così come da «idee perverse»: risulta direttamente dal vincolo economico. L’odio per gli

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ebrei, lontano dall’essere la ragione a priori della loro distruzione, non è che l’espressione di questo desiderio di delimitare e concentrare su di essi la distruzione40.

I nazisti avrebbero quindi tentato di sbarazzarsi degli ebrei espellendoli dalla Germania, ma nessun altro paese era pronto ad accoglierli, essendosi avviato un po’ ovunque un regolamento di conti all’interno delle piccole borghesie nazionali. Durante la guerra il grande capitale tedesco si sarebbe pertanto deciso a procedere alla loro distruzione. Pierre Guillaume, e una parte degli aderenti alla Vecchia Talpa, si riconoscono con entusiasmo in questa chiave di lettura, raccordandola a quello che era il lascito di Paul Rassinier. A partire da quegli anni si avviò così un percorso che, passo dopo passo, in un processo di radicalizzazione delle tesi che di volta in volta sarebbero andate affermandosi, rese la casa editrice punto di riferimento sempre più acceso e convinto del negazionismo41. Nel 1978, infatti, il gruppo della Vecchia Talpa, sia pure mutato in parte nella sua originaria composizione interna, incontrò Robert Faurisson, l’erede intellettuale di Rassinier, che accettò di buon grado il rapporto con la componente bordighiana. Negli anni Settanta avviene così il trapasso del negazionismo da fenomeno di nicchia, prevalentemente ancorato all’ambito neonazista e fascista, a evento mediatico. 2.5. La figura di Robert Faurisson Le fortune di Rassinier, autore riassorbito poi completamente dentro la destra radicale francese, furono invero molto modeste finché rimase in vita. Soltanto con il suo più significativo esegeta e prosecutore, Robert Faurisson, avrà una visibilità di riflesso, 40   Auschwitz ou le grand alibi, in «Programme Communiste», n. 11, 1960, poi ripubblicato come supplemento di «Le Prolétaire», novembre 1978, ora anche all’indirizzo http://www.marxists.org/francais/bordiga/works/1960/00/ bordiga_auschwitz.htm. 41   Una ricostruzione di tale percorso è nel capitolo intitolato L’ultra-gauche, terrain favorable au révisionnisme, puis au négationnisme (de la décennie 1960 à la fin des années 1990) nel libro di Michel Dreyfus, L’antisémitisme à gauche cit.

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capace di andare oltre il recinto della parte politica che lo aveva adottato. Ma il quadro degli anni Settanta, in cui si trova ad operare Faurisson, è già profondamente diverso rispetto a quello di vent’anni prima, o poco meno. La sua figura è quindi nettamente diversa da quella di Rassinier, se non altro perché appartiene alla seconda generazione dei negazionisti, il cui padre può a ragione essere ritenuto l’americano Arthur Butz42. Per costoro, infatti, la necessità di adottare un criterio ‘obiettivo’, sempre di più ispirato a un’apparenza scientifica e sempre meno identificabile con una parte politica precisa, era divenuta esigenza inderogabile43. Il docente e saggista francese non solo aderisce al nuovo canone ma concorre attivamente a forgiarlo. Intorno alla figura e all’opera di Faurisson si cristallizza un importante mutamento nelle retoriche del negazionismo. I negazionisti della prima generazione si ponevano come gli unici garanti della veridicità delle loro affermazioni. La forma assunta dai loro scritti non era quella del saggio storiografico, quanto piuttosto quello dell’autobiografia, della testimonianza di prima mano o del pamphlet politico, mentre Faurisson adotta la forma del saggio storico e cerca di guadagnare una rispettabilità scientifica44.

Va detto da subito che ciò che alla fine ne è risultato non è propriamente l’adempimento delle intenzioni originarie. Faurisson, infatti, è divenuto una sorta di icona del radicalismo politico e culturale di alcuni ambienti estremistici, di destra ma anche di sinistra. Il suo contributo più rilevante, nel corso di almeno trent’anni di interventi non solo polemici ma esasperati, è consistito nel cercare di negare l’esistenza delle camere a gas, sviluppando un approccio di rilettura ipercritica delle fonti, e di confutare l’«asserita» volontà di Hitler di sterminare gli ebrei. Il criterio adottato, mutuato dalla sua attività di studioso della letteratura francese, verrà subito bollato come pseudoscientifico, 42   Valérie Igounet, Robert Faurisson: portrait d’un négationniste, Denoël, Paris 2012, p. 188. 43   Per una ricostruzione d’insieme si veda Valérie Igounet, Robert Faurisson cit. 44   Massimiliano Tomba, Valter Zanin, L’incantesimo revisionista, in «Contemporanea. Rivista di storia dell’800 e del ’900», a. II, n. 3, 1999, pp. 558-559.

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ispirato com’è alla ricerca della mistificazione che si celerebbe inesorabilmente in ogni fonte. La sua attività sarà quindi oggetto non solo di contrasti a non finire ma anche di una serie di vicende giudiziarie, in più di una occasione conclusesi con la sua condanna per «incitazione all’odio razziale» e per la fattispecie di quei reati perseguiti dalla legge Gayssot, approvata il 13 luglio 1990, che punisce il negazionismo45. Prima di entrare nel merito di ciò che Robert Faurisson ha rappresentato per il negazionismo è necessaria qualche breve considerazione di contesto. Il negazionismo francese si muove su coordinate autonome rispetto a quello di altri paesi, a partire dagli Stati Uniti. Mentre qui ci si concentra sul destino degli ebrei europei, ambendo all’obiettivo di dipingere un improbabile affresco generale di controstoria del Novecento, gli omologhi francesi si concentrano su alcuni aspetti particolari per ricavarne considerazioni più generali. Inoltre, mentre il negazionismo francese ha ottenuto nel corso del tempo una vasta eco mediatica, nel caso di altre nazioni come la Germania, l’Inghilterra, l’Italia e gli stessi Stati Uniti è rimasto un fenomeno marginale, riconducibile a gruppi nettamente caratterizzati sul piano politico, nella quasi totalità dei casi appartenenti alla destra estrema, o all’attività di alcuni siti web. Peraltro la vulgata negazionista francese è forse quella che è riuscita meglio a mettere a fuoco, dagli anni Settanta in poi, la metodologia che, a tutt’oggi, è universalmente diffusa nell’ambiente dei ‘ricercatori’. Per affinamenti successivi è infatti pervenuta a una intelaiatura che si rifà a tre passaggi basilari. In primo luogo si dà un approccio parcellizzante e selettivo ai temi storici così come ai documenti e alle fonti che li riguardano: si scelgono gli aspetti su cui fare leva per argomentare il proprio punto di vista e si tralasciano completamente le connessioni e le considerazioni di contesto (esempi in tal senso sono quelli relativi all’indifferenza manifestata nei confronti dell’ideologia antisemita 45   La legge persegue «ogni atto razzista, antisemita e xenofobo». All’articolo 9 qualifica come «delitto» la contestazione o la negazione dell’esistenza dei crimini contro l’umanità così come definiti dallo statuto del Tribunale militare internazionale di Norimberga. Norme simili alla legge Gayssot sono presenti nelle legislazioni di Israele, Austria, Germania, Svizzera, Spagna e Belgio. Per un repertorio completo si veda http://www.sissco.it/index.php?id=25.

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nazista, la rimozione dell’attività degli Einsatzgruppen, i reparti mobili che nelle retrovie dell’Est fucilarono circa un milione e mezzo di civili, l’omissione di qualsiasi riferimento all’assassinio dei malati di mente e dei portatori di handicap praticato con l’Aktion T4 e l’Aktion T4F13). Un secondo passaggio è l’interpretazione capziosa, fondata su un oggettivismo ipertestuale, volutamente indisposto a cogliere allusioni e riferimenti di rimando laddove essi sussistono, come nel caso del linguaggio della burocrazia nazista; nella situazione alternativa, dinanzi a certe evidenze che emergono di primo acchito dal testo medesimo, si rivela invece l’intolleranza a cogliervi ciò che c’è privilegiando, in quest’altro caso, la lettura metaforizzante. Da tale condotta, palesemente distorcente poiché basata su un’alterazione dei significati, deriva un’interpretazione dei documenti e dei reperti pressoché insostenibile, ovvero del tutto dissonante con quella che comunemente viene fatta non solo dagli storici ma anche da chi è dotato di comune buon senso. Paradossalmente, più tale insostenibilità è corroborata dalle tante affabulazioni di corredo, maggiore è il successo della rilettura negazionista tra i suoi apologeti. Il terzo e ultimo passaggio, riflesso obbligato dei primi due, è la deriva verso un’interpretazione assurda, surreale dei fatti. Se non sono esistite le camere a gas non può esserci stato neanche il genocidio degli ebrei. Una delle prove che non sono mai esistite è data dal fatto che nessuno ha potuto testimoniare credibilmente della loro esistenza, laddove si dice invece che esse sono effettivamente esistite. In altre parole, i morti non hanno parlato e i vivi, poiché sono tali, non possono essere creduti (altrimenti, se dicessero la verità, sarebbero morti). Per i negazionisti se non c’è l’arma non c’è neanche il crimine. Anche dinanzi ai cadaveri che, a questo punto, non possono essere considerati tali ma vanno semmai «raddrizzati»46. Il paradigma dell’indimostrabilità sta quindi alla radice della letteratura negazionista, basandosi su di una interpretazione circolare, tautologica, a tratti autocontraddittoria, a rasentare quasi il paradosso di Jourdain, dove si afferma contemporaneamente che «la frase seguente è falsa» e «quella che precede è vera». 46   Nadine Fresco, Les redresseurs de morts. Chambres à gaz: la bonne nouvelle. Comment on révise l’histoire, in «Les Temps Modernes», n. 407, giugno 1980.

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La vicenda di Faurisson inizia negli anni Sessanta e arriva ai giorni nostri. Per più di una decina d’anni, tra il 1957 il 1969, è docente di letteratura nei licei francesi; negli anni successivi diventa maître assistant stagiaire e occupa la cattedra di Letteratura contemporanea all’Università di Parigi III. Nel 1972 consegue il dottorato47 e dal 1973 al 1980 lavora come maître de conférences all’Università di Lione II. Dopo, e fino al 1995, anno in cui va in pensione, viene distaccato, su sua stessa richiesta, al Centro nazionale di teleinsegnamento (poi divenuto Centro nazionale d’insegnamento a distanza), senza però svolgere nessuna attività di docenza. Dentro questa cornice, che lo colloca all’interno del mondo scolastico e poi accademico, si dipana la sua storia. Già nella sua attività di studioso della letteratura rivela ben presto una marcata propensione a cercare nei testi gli elementi che, a suo dire, connoterebbero una mistificazione dell’interpretazione corrente. Non a caso la sua attività di critico si rivolge alla «ricerca del senso e del controsenso, del vero e del falso»48, quasi a voler marcare che la ricerca va fatta non tanto dentro un documento ma dietro di esso, per poter carpire il segreto che nasconderebbe. Iniziatore di quello che egli stesso, sulla scorta dei suoi studenti, chiama il «metodo Ajax»49 (dal nome del detersivo, a voler dire che in tal modo si ottiene una assoluta intelligibilità), basato sull’assunzione letterale del testo, decontestualizzato e slegato dallo stesso autore e dalle circostanze che l’hanno prodotto, fondato quindi su un ipercriticismo interpretativo, nella convinzione che solo così si possa pervenire alla effettiva conoscenza del suo reale contenuto, applica questo opinabile metodo di investigazione letteraria anche alle fonti storiche. Per Faurisson si tratta di pervenire ad una conoscenza oggettiva, intesa come senso unico, inappellabile, fondato sul ricorso a un postulato interpretativo univoco di cui egli stesso si considera depositario. Da ciò gli deriva «una notevole propensione per la lettura sospettosa dei testi, che per lui nascondono sempre un segreto che qualcuno ha interesse a mantenere celato»50.   Robert Faurisson, A-t-on bien lu Lautréamont?, Gallimard, Paris 1972.   Valentina Pisanty, Abusi di memoria. Negare, banalizzare, sacralizzare la Shoah, Bruno Mondadori, Milano 2012, p. 20. 49   Valérie Igounet, Histoire du négationnisme en France cit., p. 203. 50   Valentina Pisanty, Abusi di memoria cit., p. 20. 47 48

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Infatti: All’interno del sistema di valori attivato da Faurisson l’interpreteeretico (cioè Faurisson stesso) viene investito della missione di strappare i veli a una realtà tenuta celata per troppo tempo in passato. Implicita in queste pagine è la strisciante accusa che la mistificazione di volta in volta denunciata non sia casuale, ma che sia il frutto di una consapevole falsificazione. I testi di Faurisson sono infarciti di espressioni relative all’inganno, al segreto, alla truffa, alla contraffazione e agli abbagli collettivi51.

Tra i suoi tanti critici, alcuni parlano al riguardo di «delirio interpretativo» e «follia ossessiva», basata su un «pensiero fisso», mentre Rassinier apparterrebbe alla categoria degli «scienziati pazzi»52. C’è chi invece ha ravvisato nel suo metodo una «nevrosi interpretativa»53, che rifiuta il pluralismo delle letture sostituendolo con una sorta di fondamentalismo totalizzante, quello che deriva dalla propria chiave di interpretazione, eletta a unico criterio autentico e pertanto in grado di smascherare le mistificazioni di cui tutti gli altri interpreti sarebbero responsabili. Altri, più prosaicamente, lo definiscono come un «provocatore»54, alla perenne ricerca delle luci della ribalta. Di certo la convinzione di essere il portatore di un’idea nuova capace di sbaragliare le interpretazioni precedenti, in grado di emancipare gli uomini dalla sudditanza alle ‘mitologie’, è il tratto più forte di Faurisson, che non a caso scriverà di sé e delle sue convinzioni che «il revisionismo è la grande avventura intellettuale della fine del secolo»55. Già nel 1960, sulla scorta della lettura di un articolo dell’autorevole storico tedesco Martin Broszat56 – futuro direttore del 51   Valentina Pisanty, I negazionismi, in Storia della Shoah, vol. I, La crisi dell’Europa, lo sterminio degli ebrei e la memoria del XX secolo, a cura di Marina Cattaruzza, Marcello Flores, Simon Levi Sullam, Enzo Traverso, Utet, Torino 2005, pp. 430-431. 52   Ad esempio Jean Stenger, Quelques libres propos sur Faurisson, Roques et Cie, in «Revue belge de philologie et d’histoire», vol. 82, 2004, p. 505. 53   Valentina Pisanty, Abusi di memoria cit., p. 21. 54   Valérie Igounet, Robert Faurisson cit., pp. 123-205. 55   Robert Faurisson, Révisionnisme et «pluralisme», in «Écrits de Paris», novembre 1987, p. 72; una tesi ripetuta, ad esempio nei numeri 3, 4, e 5 degli «Annales d’histoire révisionniste». 56   Keine Vergasung in Dachau, in «Die Zeit», 19 agosto 1960, p. 16.

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prestigioso Institut für Zeitgeschichte di Monaco –, nel quale si affermava che nel territorio della Germania nazista non vi sarebbero state installazioni con camere a gas (costruite invece nei luoghi di sterminio edificati durante la guerra nei territori orientali occupati), Faurisson aveva avviato un’indagine personale, entrando poi in contatto con Paul Rassinier, con il quale aveva intrattenuto una relazione epistolare tra il 1964 e il 1967. Durante il periodo seguente, in cui si occupò prevalentemente del suo specifico ambito disciplinare, la critica letteraria (o, per meglio dire, l’approccio scettico ai contenuti della letteratura), aveva effettuato anche una serie di «ricerche», sia ad Auschwitz che al Centro di documentazione ebraica contemporanea di Parigi. Nell’uno e nell’altro caso, non appena i suoi interlocutori ravvisarono il carattere polemico delle sue attività, interruppero i rapporti. Di fatto Faurisson non è per nulla interessato a uno sviluppo delle conoscenze sull’ampio tema delle deportazioni ma si interroga sostanzialmente su un solo punto, che già dal carteggio con Rassinier era emerso come dirimente: sono esistite le camere a gas? La questione, posta in termini tanto perentori, sembra quasi più un problema di natura filologica che non di analisi storica: i complessi meccanismi che avevano portato alle persecuzioni e poi allo sterminio, così come la specificità della dittatura nazionalsocialista, non lo interessano. Al centro del suo agire c’è l’ossessione per l’autenticità dei documenti, ovvero per l’interpretazione del loro contenuto. Sulla scorta di questo periodo di lavoro, e delle riflessioni che ne erano scaturite, Faurisson va maturando definitivamente la risposta al quesito. La trova nell’assunto base di tutta la sua opera, che sancisce l’inesistenza delle camere a gas in quanto strumento di assassinio di esseri umani. L’unica gassazione effettuata nei Lager era quella necessaria per eliminare i molti pidocchi. L’attribuzione di un carattere sterminazionista alle deportazioni naziste costituisce quindi una deliberata falsificazione. Come avrà poi ancora modo di dire, si è in presenza di una frode di cui gli stessi ebrei sono i responsabili57.

57   Robert Faurisson, La chambre à gaz supposée d’Auschwitz I, in www.robertfaurisson.blogspot.com, 31 dicembre 2001.

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L’approccio scettico e poi ipercritico si traduce nelle stesse attività che svolge all’università, laddove uno dei testi la cui autenticità è posta in dubbio, nel corso dei seminari che tiene agli studenti, è il Diario di Anne Frank, già fatto oggetto di ripetuti attacchi da parte di altri negazionisti soprattutto d’oltreoceano58. Di questa fatica darà poi testimonianza con il volumetto Le Journal d’Anne Frank est-il authentique? (1978)59, «una raccolta di argomentazioni confuse e contraddittorie in cui non è chiaro se l’obiettivo di Faurisson sia dimostrare che i diari sono contraffatti [...] ovvero menzogneri nel contenuto»60. Sta di fatto che «le strategie interpretative sono sempre le stesse: scetticismo programmatico, presentimento di un’impostura, interrogazione sospettosa del testo, denuncia del presunto complotto (‘come volevasi dimostrare’), sebbene Faurisson non ne identifichi né gli artefici né i moventi occulti»61. Il criterio dell’insinuazione diventa lo strumento attraverso il quale separare e alienare il testo e la sua lettura dal lettore, da subito introducendo in quest’ultimo il convincimento che il significato condiviso è il risultato non di un riscontro certo bensì della costruzione di un falso. La diffusione dei suoi primi scritti di taglio negazionista, perlopiù lettere rivolte ai quotidiani, risale al 1974, con il relativo corredo di polemiche, che tuttavia, a parte una menzione da parte del «Canard enchainé» del 17 luglio di quell’anno e di «Le Monde», non ottiene altri riscontri. Faurisson, come molti negazionisti, si rivela ben presto un grafomane alla ricerca di un podio pubblico. È solo verso la fine degli anni Settanta che la sua fama inizia a consolidarsi. Nel 1978, infatti, pubblica sulla rivista «Défense de l’Occident» un articolo in cui recupera le tesi di Rassinier, di Richard Harwood (al secolo Richard Verrall) e di Arthur Butz, nel 58   Al riguardo, si veda Deborah Lipstadt, Denying the Holocaust cit., pp. 223-235. 59   Robert Faurisson, Le journal d’Anne Frank est-il authentique?, in Serge Thion (a cura di), Vérité historique ou vérité politique?, La Vieille Taupe, Paris 1980. 60   Valentina Pisanty, I negazionismi cit., p. 432. Il testo di Faurisson è stato sottoposto a più critiche, tra le quali quella di Dene Bebbington, Anne Frank: Rebuttal of Faurisson on Anne Frank Diary, http://www.holocaust-history.org/ anne-frank/. 61   Valentina Pisanty, Abusi di memoria cit., pp. 21-22.

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quale rende omaggio a François Duprat (morto in un attentato quell’anno), già militante trotskista, poi socialista, nel 1969 dirigente de L’Ordre nouveau e infine cofondatore nel 1972 del Front National di Jean-Marie Le Pen, nonché autore di diverse pubblicazioni tra cui una Histoire des SS62. L’attenzione per questo politico non è casuale, trattandosi di colui che per primo aveva introdotto le tematiche negazioniste nell’estrema destra francese, analizzandole già negli anni Sessanta sia sulla rivista fondata da Bardèche che nella pubblicistica d’area. Duprat viene ricordato anche per avere diffuso, attraverso i «Cahiers européens», le traduzioni in lingua francese dei testi sacri di negazionisti stranieri63 come Thies Christophersen64 e degli stessi Verrall65 e Butz66. Infaticabile attivista della destra, fu anche il demiurgo di un Rassemblement pour la Libération de la Palestine, attraverso il quale inaugurò il sistematico utilizzo dei temi antisionisti e filopalestinesi per diffondere un esacerbato antisemitismo. Nel Fronte nazionale lepenista Duprat aveva dato vita anche ai Groupes Nationalistes Révolutionnaires e alla «Revue d’Histoire du Fascisme», gli uni e l’altra impegnati a usare la storia come strumento di lotta politica. Di fatto l’attenzione pubblica che cerca, e che riceve dalla destra radicale, colloca definitivamente Faurisson in quel campo, sul piano culturale e ideologico prima ancora che politico. I temi che l’autore va affrontando si rivelano infatti sia speculari che funzionali alle affermazioni che trovano riscontro in tali ambienti. È un deciso cambio di passo: se il negazionismo francese era stato fino ad allora un fenomeno circoscritto, incapace di emanciparsi   François Duprat, Histoire des SS, Les Sept Couleurs, Paris 1967.   Valérie Igounet, Histoire du négationnisme en France cit., in particolare il capitolo L’extrême droite diffuse les thèses négationnistes / François Duprat, un passeur idéologique, pp. 161-180. 64   Thies Christophersen, La fandonia di Auschwitz, La Sfinge, Parma 1984 (ed. or., Die Auschwitz Lüge: ein Erlebnisbericht, Kritik-Verlag, Mohrkirch 1973). 65   Richard Harwood, Ne sono morti davvero sei milioni?, Effepi, Genova 2000 (ed. or., Did Six Million Really Die?, Historical Review Press, Richmond 1974). In Francia uscì con il titolo Six millions de morts le sont-ils réellement?. 66   Arthur Butz, The Hoax of the Twentieth Century: The Case Against the Presumed Extermination of European Jewry, Historical Review Press, Carshalton 1976. In Francia fu pubblicato in edizione integrale con il titolo La mystification du vingtième siècle, La Sfinge, Roma 2002, ora anche all’indirizzo http:// vho.org/aaargh/fran/livres3/ABmysti.pdf. 62 63

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dalle sue stesse premesse di nicchia, con l’arrivo di Faurisson assume una dignità insperata. Questi può fornire ad esso una piccola sponda accademica ma è soprattutto l’impetuosità con la quale sostiene le tesi che fa proprie a inaugurare una nuova stagione. Faurisson, infatti, è lanciato sull’agone mediatico. Non è interessato a parlare a una cerchia ristretta, già consenziente, cerca il grande pubblico. A questo punto la fisionomia dello ‘studioso’, negli ambienti negazionisti reverenzialmente chiamato il «professore», è già definitivamente delineata. La saldatura con la ribalta mediatica dona al personaggio, al tema che va trattando e al modo in cui lo fa, un carattere peculiare, sospeso tra provocazione e scandalo, una miscela che se ripugna ad alcuni attrae altri. Le uscite pubbliche di Faurisson, di lì in avanti, assumeranno sempre di più il carattere di vere e proprie performance. Si può criticare o assentire con ciò che dice, non lo si può però facilmente ignorare. Il merito delle affermazioni si incontra con il metodo utilizzato per farsi strada. Faurisson opera infatti su tre livelli. Prima di tutto, nel momento stesso in cui nega l’esistenza delle camere a gas batte attentamente il chiodo della trasgressione calcolata, cercando quindi di far pesare la questione della manifestazione della libertà di pensiero. Il pubblico deve immediatamente accomunare l’iperbole contenuta nella posizione negazionista al diritto, in democrazia, di pronunciarsi, anche in modi al limite della sgradevolezza, secondo la propria opinione. Nel prosieguo della sua azione per Faurisson conterà molto questo elemento. Gli era peraltro noto il fatto che, spostando su tale terreno la polemica, gli assensi sarebbero stati senz’altro maggiori che nel caso della semplice riproposizione delle tesi negazioniste. Da allora, quindi, il raccordo tra negazione delle camere a gas e diritto a esprimersi diventa un elemento imprescindibile, sopravanzando il merito della negazione medesima. Quasi una battaglia di libertà, in altre parole. Un secondo fattore, nel discorso di Faurisson, verte sulla necessità di svincolare il negazionismo dalla sua origine fascista, cercando di rivestirlo di una verginità politica e, di riflesso, anche di una neutralità ideologica che, nelle sue intenzioni, avrebbero dovuto rafforzarne definitivamente la credibilità. Il tentativo non è riuscito, a parte le autocelebrazioni nelle quali si sostiene l’esatto opposto, e tuttavia, soprattutto con gli anni Novanta, il negazionismo ha rafforzato le sue posizioni in parte della sinistra radicale,

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soprattutto di tendenza antisionista. Un terzo livello, infine, fortemente intrecciato a quello precedente, è lo sforzo di offrire un discorso ‘scientifico’ sull’impossibilità dello sterminio, concentrandosi soprattutto sulla sua presunta impraticabilità materiale, ossia organizzativa, tecnica e logistica. Per Faurisson diventa centrale scindere lo sterminio dal nazionalsocialismo, decontestualizzando il primo per poi smontarne, pezzo dopo pezzo, l’interna costruzione. Lo fa mettendo in luce singole incoerenze dalle quali deriva un giudizio generale di inverosimiglianza. È nota, in tal senso, l’affermazione dell’autore francese, quando dichiara di aver cercato «un solo deportato capace di provarmi che egli aveva realmente visto con i suoi occhi una ‘camera a gas’»67, senza esservi riuscito. Faurisson opera un capovolgimento logico nella presentazione del tema negazionista: lo scetticismo non è connaturato a una peculiare posizione politica, di cui è diretta espressione, ma deriverebbe dalla crescente incredulità, supportata da sempre nuovi riscontri scientifici, tutti avversi, nel loro verdetto, alle posizioni della storiografia ‘ufficiale’. Ciò che egli va dicendo è che non sta prendendo una posizione precostituita verso l’Olocausto poiché, malgrado la sua buona disposizione d’animo in tal senso, non è possibile avere una posizione verso ciò che semplicemente non esiste se non il denunciarne l’inesistenza. La vera trama ideologica di Faurisson si rivela in realtà ben presto, quando anch’egli attribuisce, del pari agli altri negazionisti, alla logica del complotto oscuro il perché della «menzogna di Auschwitz». Ma è un fatto che sfugge a chi coglie solo gli echi polemici, la dimensione cronachistica, e non l’intera querelle. L’accesso all’arena pubblica, dalla quale non è più uscito, data al 1978. È un po’ come venir fuori dalle catacombe. Nell’ottobre di quell’anno il settimanale «L’Express» aveva pubblicato un’intervista con Louis Darquier, dettosi «de Pellepoix», già Commissario generale agli affari ebraici del regime di Vichy. Antisemita e filonazista, collaborazionista, condannato a morte in contumacia nel 1947 in quanto criminale di guerra, era riparato nella Spagna franchista. Al periodico francese Darquier aveva ripetuto le menzogne abituali, sostenendo che «ad Auschwitz non si sono gassati   «Le Monde», 16 gennaio 1979.

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che i pidocchi», rifiutando inoltre l’evidenza della sua responsabilità nella formulazione della legislazione antisemita francese durante gli anni dell’occupazione tedesca. Il tutto era condito, con un linguaggio sprezzante, dalla più completa mancanza di rammarico per quanto era successo in Francia tra il 1940 e il 1944, quasi a voler resuscitare i fantasmi del più vieto antisemitismo, quello del periodo dell’affaire Dreyfus. Campeggiavano affermazioni che riducevano l’Olocausto a un’opera di «propaganda» degli ebrei, i quali sarebbero «tipicamente bugiardi», essendo disposti a «fare tutto per pubblicità»68. Al delirio era seguito lo sconcerto del pubblico francese. Faurisson fece quindi la sua prima comparsa pubblica di rilievo proprio in questa occasione. Il 16 novembre, sul quotidiano «Le Matin de Paris» compariva un articolo intitolato Les chambres à gaz: ça n’existe pas che, commentando criticamente le tesi del docente francese, gli faceva la cortesia di nominarlo in più passaggi. Eco maggiore, tuttavia, ebbe la pubblicazione su «Le Monde» il 29 dicembre di una sua lettera, Le problème des «chambres à gaz», ou «la rumeur d’Auschwitz» (sintesi di un articolo pubblicato sei mesi prima su «Défense de l’Occident», dove l’autore sosteneva che la morte per gassazione era una invenzione dei ‘sionisti’), accompagnata da una replica di Georges Wellers, chimico e storico, ex deportato ad Auschwitz e Buchenwald. La chiusa dell’epistola affermava: «Il nazismo è morto, decisamente morto, con il suo Führer. Resta oggi la verità. Osiamo proclamarla. L’inesistenza delle ‘camere a gas’ è una buona notizia per la povera umanità. Una buona notizia che si avrebbe torto di tenere ancora per molto tempo nascosta»69. Alle considerazioni critiche di Wellers il giorno successivo il quotidiano aggiungeva l’articolo della storica Olga Wormser e la lettera di Maurice Bernadet, presidente dell’Università Lione II, dove lavora il docente, che si esprimeva severamente contro le sue affermazioni, prendendo le distanze anche a nome dell’istituzione accademica. Se «Le Monde» riteneva che il caso fosse chiuso le cose, invece, assunsero da subito un’altra piega poiché la vicenda 68   Gill Seidel, The Holocaust Denial: Antisemitism, Racism & New Right, Beyond the Pale Collective, Leeds 1986, p. 99. 69   http://robertfaurisson.blogspot.it/1978/12/nul-ne-conteste-lutilisationde-fours.html.

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segnava l’avvio di «una lunga controversia sul ruolo della stampa, i diritti e i doveri degli studiosi e su ciò che si intende riguardo alla loro ‘libertà accademica’ la quale non si confonde con la libertà d’espressione di tutti i cittadini poiché si esercita nel quadro dell’università, da cui deriva la necessità di rispettare un’etica scientifica»70. Faurisson, infatti, utilizzò ripetutamente il diritto di replica che le circostanze gli offrivano, consapevole anche del fatto che la visione in molti paesi d’Europa della miniserie televisiva Holocaust stava provocando una forte attenzione da parte del grande pubblico sull’argomento della deportazione. In Francia sarà poi messa in onda dal febbraio 1979 su Antenne 2. Il testo dell’articolo apparso sulla «Défense», prima ancora che fosse pubblicato, era già stato recapitato, nella versione più lunga, ad alcuni personaggi pubblici, con una postilla nella quale si affermava che dopo «trent’anni di ricerca degli autori revisionisti» non si poteva concludere altrimenti che: 1. Le «camere a gas» di Hitler non sono mai esistite; 2. il «genocidio» (o il «tentato genocidio») degli ebrei non ha avuto luogo; più precisamente Hitler non ha mai dato l’ordine (o mai l’avrebbe approvato) che qualcuno fosse ucciso in ragione della sua razza o religione; 3. le presunte «camere a gas» e il presunto «genocidio» sono parte della medesima menzogna; 4. questa menzogna, che è essenzialmente [una creazione] sionista in origine, ha originato una truffa politica e finanziaria enorme di cui lo Stato d’Israele è il principale beneficiario; 5. le principali vittime di questa menzogna e di tale truffa sono il popolo tedesco e palestinese; 6. il potere tremendo dei media ufficiali ha fin qui garantito il successo di questa menzogna e censurato la libertà di espressione di quelli che l’hanno denunciata; 7. i sostenitori della menzogna ora sanno che la loro bugia ha solo pochi anni ancora per continuare ad esistere; hanno manipolato l’obiettivo e la natura della ricerca revisionista; quella che è semplicemente la preoccupazione di tornare alla verità storica la chiamano «ritorno del nazismo» o «falsificazione della storia»71. 70   Henry Rousso, Les racines politiques et culturelles du négationnisme en France, http://www.chgs.umn.edu/histories/occasional/Rousso_Roots_of_Negationism_in_France.pdf, p. 11. 71   In Serge Thion, Vérité historique ou vérité politique? Le dossier de l’affaire Faurisson: la question des chambres à gaz, La Vieille Taupe, Paris 1980, p. 89.

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A ben vedere era un vero e proprio proclama quello che il docente francese andava pronunciando. Peraltro, già negli anni precedenti aveva avuto modo, perlopiù attraverso la corrispondenza personale72, di cercare udienza e raccogliere qualche attenzione sul merito di quel tema che poi sarebbe stato ribattezzato la «diceria di Auschwitz». Nel marzo del 1974 Faurisson aveva inviato un documento a diverse personalità pubbliche intitolato Les chambres à gaz hitlérienne vous semblent-elles un mythe ou une réalité?, senza però riscontri. Ora lo scenario che si configurava era ben diverso. Passo dopo passo andava così definendosi un affaire Faurisson. Mentre Marius-François Guyard, rettore dell’Università di Lione II, su richiesta del ministro delle Università, sottoponeva il docente a un’inchiesta amministrativa, quest’ultimo, con la sua Lettre en droit de réponse publiée par le journal, apparsa il 16 gennaio 1979, rivendicava le ragioni della sua adesione al «revisionismo», avendo acquisito la certezza di trovarsi «di fronte ad una menzogna storica». Ciò ribadendo denunciava l’isolamento e l’ostracismo subiti non solo dalla comunità degli storici ‘ufficiali’, o ‘ortodossi’ ma anche «il silenzio, l’imbarazzo, l’ostilità e, per finire, le calunnie, gli insulti, i colpi»73. Il connubio tra la denuncia, con clamore, della scoperta di una «menzogna», quella delle camere a gas, e l’enfasi sferzante contro il «silenzio», prodotto dalla denuncia medesima (connubio che si sarebbe trasformato in una deliberata persecuzione), diventò da subito il mix dominante con il quale Faurisson si presenterà da allora in poi al pubblico, orientando immediatamente il baricentro dell’attenzione non nel merito delle affermazioni sostenute bensì nelle presunte persecuzioni subite. Il 21 febbraio 1979 ancora una volta l’autorevole «Le Monde», divenuto il proscenio del confronto, dava spazio a una Déclaration d’historiens, redatta da Pierre Vidal-Naquet (che diveniva così il capofila degli antinegazionisti) e da Léon Poliakov e sottoscritta da trentaquattro studiosi, tra i quali Philippe Ariès, Jean-Pierre 72   L’intero percorso è ricostruito da Valentina Pisanty, L’irritante questione delle camere a gas. Logica del negazionismo, Bompiani, Milano 1998, pp. 15-17. 73   Il testo è reperibile nel volume curato da Serge Thion, Vérité historique ou vérité politique? cit.

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Vernant, Paul Veyne, Fernand Braudel e François Furet. In essa si ribadiva, tra le altre cose, che il grande numero di testimonianze rendeva inoppugnabile il giudizio sull’esistenza delle camere a gas. Più in generale, si rifiutava la richiesta avanzata da Faurisson, laddove questi chiedeva prove documentali o verifiche sperimentali, ribadendo quello che diventò da allora un principio da contrapporre ai negazionisti: con essi non si interloquisce, mentre senz’altro si può e si deve parlare di negazionismo in quanto fenomeno sociale, ma non certo come ‘ipotesi storiografica’. Esso va infatti inteso semmai come strategia di manomissione del processo di conoscenza della storia. Più in generale ai negazionisti si contestava di fingere di cercare un riscontro problematizzante quando in verità ciò che volevano ottenere era uno scontro tra tesi contrapposte, per potere avere una qualche chance di vedere riconosciuta la sostenibilità e la legittimità delle proprie dichiarazioni. Ma queste ultime, ribadivano i loro critici, non costituivano ipotesi storiografiche bensì semplicemente delle falsità, fatte più o meno abilmente passare per nuove interpretazioni e in ciò nobilitate soprattutto dal clamore che si accompagnava ad ogni loro manifestazione pubblica. Il problema che in parte sfuggiva ai contestatori di Faurisson e del suo vittimismo è che a determinare i fuochi di attenzione e le coordinate del dibattito in un sistema di comunicazioni di massa, allora così come oggi, sono gli stessi contenitori dell’informazione e non necessariamente il contenuto di quest’ultima. La quale può risultare tanto più accattivante se alza la ‘posta’ della polemica, rendendo verosimile o comunque plausibile ciò che in linea di principio è altrimenti considerato inaccettabile. Un altro punto debole era l’affermazione con la quale si sosteneva che «non ci si deve chiedere come tecnicamente un tale assassinio di massa abbia potuto essere possibile. È stato possibile tecnicamente perché è avvenuto», tralasciando così di affrontare il problema della ricostruzione scientifica dei passaggi attraverso i quali fu effettivamente possibile la gassazione in massa. Una sorta di pornografia pseudostoriografica risultava così promettere un saporito confronto tra tesi contrapposte (Olocausto sì, Olocausto no), da comprovare entrambe, secondo un approccio aprioristicamente relativizzante, laddove il criterio di equivalenza pareva essere il vero metro di giudizio al quale conformarsi. La trappola, fiutata solo in parte dagli storici, alla fine

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non scattò, almeno non nelle proporzioni sperate dai negazionisti. Faurisson, infatti, in risposta alla dichiarazione dei trentaquattro studiosi inviò ancora il 26 febbraio 1979 una lettera al quotidiano, intitolata Une preuve... une seule preuve, in cui chiedeva che gli fosse fornita una singola prova, in sé inoppugnabile, sull’esistenza delle camere a gas. «Le Monde» questa volta rifiutò di pubblicare la sua lettera. Faurisson, tuttavia, a quel punto era divenuto la star del piccolo firmamento negazionista. La vicenda del saggista da quel momento si dipana attraverso tutta una serie di tornanti che lo vedono protagonista sempre più indiscusso. Non infrequentemente dalla polemica si passava velocemente alle aule giudiziarie. Faurisson figurava sia come parte offesa che come convenuto, chiamato a rispondere soprattutto di reati come l’apologia e la diffamazione. La sua prima condanna risale al luglio del 1981. La strategia della repressione giudiziaria del negazionismo si rivelò da subito incerta se non impervia, generando una vera e propria eterogenesi dei fini. Le aule dei tribunali permettevano al saggista di godere di una tribuna mediatica, attraverso la quale amplificare ed enfatizzare il proprio messaggio. Quando le sentenze gli erano favorevoli non esitava poi a celebrarle come una «vittoria del revisionismo». Se risultavano contrarie assumeva i panni della vittima. Al riguardo il giurista Thomas Hochmann ha notato come «Faurisson sembri sottoporre le decisioni della giustizia al medesimo trattamento che riserva ai documenti storici»74. Non di meno, quello che a volte è il tenue e discutibile margine di differenza tra l’accettazione dell’espressione di un’opinione, per quanto radicale, e la repressione di una deliberata diffamazione attraverso il giudizio di un tribunale, rischiava di andare in cortocircuito nel caso in cui le corti fossero state chiamate a giudicare, nel merito, l’attività di ricerca svolta dal negazionista francese. Ad esempio, nel processo intentatogli sulla base di un duplice capo d’imputazione, quello di «danni contro terzi» e «falsificazione della storia», Faurisson fu condannato nel 1983 dalla Corte d’appello di Parigi. Tuttavia il medesimo tribunale si dichiarò incompetente a 74   Thomas Hochmann, Faurisson, «falsificateur de la jurisprudence»?, in «Droit et cultures», n. 61, 2011.

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esprimere un giudizio di merito sull’esistenza o meno delle camere a gas, demandando al dibattito storico e alla stessa pubblica opinione la risposta definitiva. Allo stesso tempo non riconobbe la sussistenza dell’ipotesi di «falsificazione della storia», giudicando che l’accusa rivolta a Faurisson di avere assunto nella sua ricerca come metodo di condotta una deliberata superficialità (laddove questa richiamava la consapevole volontà di non considerare l’inoppugnabilità dell’evidenza) non era sufficientemente argomentata. La negligenza e l’incuria attribuitegli dai suoi accusatori a giudizio della Corte, invece, non sussistevano. Ad opinione del giudice il materiale prodotto in aula testimoniava quanto meno della meticolosità con la quale lo studioso si era mosso75. La sentenza, ancora una volta, manifestava della difficoltà di risolvere, tanto più in un ambito giudiziario, una controversia dove vero, verosimile, falsificabile e falso trascoloravano ambiguamente dall’una all’altra categoria, in un continuo gioco di rifrazioni pseudodialettiche. Non di meno rilanciava il tema della libertà di espressione, intesa dai negazionisti come una sorta di licenza totale. Non a caso Faurisson, a seguito della sentenza, ebbe gioco facile, cogliendone le inevitabili ambiguità di sfumatura, ad affermare che se le cose stavano così come diceva la Corte d’appello, allora i suoi studi dovevano considerarsi immuni da falsificazioni 75   Così parte del dispositivo della sentenza: «rifacendoci sommariamente al problema storico che il signor Faurisson ha voluto sollevare su questo punto preciso, va constatato che le accuse di leggerezza rivoltegli contro mancano di pertinenza e non sono sufficientemente corroborate; che in effetti il criterio logico del signor Faurisson consiste nel tentare di dimostrare, attraverso un’argomentazione [che egli stesso ritiene] di natura scientifica, che l’esistenza delle camere a gas, così com’è descritta abitualmente dal 1945, si scontra con un’impossibilità [materiale] assoluta, che sarebbe di per sé sufficiente ad invalidare tutte le testimonianze esistenti o almeno a renderle sospette; che se non è compito della Corte pronunciarsi sulla legittimità di un tale metodo, né sulla portata degli argomenti esposti dal signor Faurisson, non è ulteriormente permesso affermare, avuto riguardo alla natura degli studi ai quali si è dedicato, che ha scartato le testimonianze per leggerezza o negligenza, o deliberatamente scelto di ignorarle; che, inoltre, nessuno può attribuirgli [la colpa della] menzogna quando enumera i molteplici documenti che afferma di avere studiato [...] durante più di quattordici anni; che il valore delle conclusioni difese dal signor Faurisson [devono derivare] quindi dalla sola valutazione degli esperti, degli storici e del pubblico», in Robert Faurisson, L’incroyable affaire Faurisson, http://www.aaargh.com.mx/fran/archFaur/1980-1985/RF8212xx5a.html.

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di sorta. Da ciò, proseguiva l’autore, deriva la legittimità del dubitare dell’esistenza delle camere a gas e, nondimeno, il diritto a farne pubblica dichiarazione e diffusione senza per questo essere contrastati. Sul versante antinegazionista le reazioni furono opposte, suscitando le contestazioni di Wellers e Vidal-Naquet. Le successive vicende di quella che era divenuta, dopo Rassinier, l’icona vivente del negazionismo, registrarono il ripetersi di queste ed altre schermaglie polemiche. Faurisson diede vita a una corposa produzione bibliografica avversa agli storici, polemicamente definiti «sterminazionisti». Nel 1990 subì la rimozione di fatto dalla docenza attiva, con il trasferimento al Centro nazionale d’insegnamento a distanza76, e dové poi affrontare ancora diversi processi, in parte vinti e in parte persi. Ancora nel dicembre del 2006, quando si tenne a Teheran, sotto gli auspici del presidente della Repubblica islamica iraniana Mahmud Ahmadinejad, una conferenza sul tema dell’Olocausto, di dichiarato indirizzo negazionista, Faurisson ebbe modo di prendere la parola rivendicando le sue posizioni, peraltro condivise da una grande parte dell’uditorio. Autoincensandosi, di sé avrebbe poi detto e ripetuto di avere avuto il coraggio di condurre una battaglia ingrata, quella per la «verità», e di averla vinta sulla base del fondamento scientifico delle sue affermazioni. 2.6. Durante e dopo Faurisson, la sinistra negazionista Nella vivace discussione storiografica sulla Shoah il nome di Faurisson è inesistente mentre le sue tesi sono costantemente richiamate, e celebrate, nei siti e nelle pubblicazioni di stampo neonazista e negazionista. In Italia la presenza del saggista d’oltralpe si manifestò con la pubblicazione nel 1979, sulla rivista di divulgazione «Storia Illustrata», dell’articolo dal provocatorio titolo Le camere a gas non sono mai esistite. Seguendo un prevedibile copione, ne derivarono secche reazioni e dure repliche che si trascinarono per quattro numeri del periodico77. Poi, come già   Valérie Igounet, Robert Faurisson cit., pp. 295-298.   I numeri 261, 262, 263 e 265.

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era avvenuto in Francia, calò apparentemente il silenzio. Mentre la pubblicistica si ritraeva da una polemica che scopriva di non riuscire a gestire il germe del dubbio, ottenuta l’eco che andava cercando, entrava così in circuito. Di fatto l’effetto di spostamento che Faurisson esercitava era duplice. Sul piano dei numeri il negazionismo, da fenomeno di nicchia, quindi strettamente autoreferenziato, investiva ora una platea ben più ampia, sollevando una ridda di dichiarazioni, affermazioni e smentite. Quel che il grande pubblico percepiva era più che altro il polverone che rischiava di ricoprire ogni parola detta, mettendo sullo stesso piano cose comprovate a illazioni e congetture. Tutto ciò non faceva altro che facilitare il gioco di Faurisson, permettendo ai suoi sostenitori di vedere lievitare l’attenzione collettiva nei confronti propri e delle proprie tesi. Sul piano dell’orientamento ideologico, si transitava dalla funzione di sostegno alle posizioni strumentalmente affini alla destra radicale verso quel tipo di «negazionismo tecnico»78 che sembra invece tralasciare l’affanno politico per soffermarsi sulle dinamiche materiali dei processi di gassazione nei Lager, denunciandone gli aspetti di presunta inverosimiglianza fattuale. Così facendo il baricentro della polemica veniva progressivamente riorientato dalla netta contrapposizione ideologica a quello della ‘rilettura critica’, ancorché radicalmente opposta a quella corrente, dei dati di fatto. Per il negazionismo questo approccio corrispondeva appieno al più recente percorso di autolegittimazione, nel quale aveva cercato di disancorare i propri contenuti dai vincoli dettati dall’immediata identificazione con un’area politica, privilegiando piuttosto un metodo che, nel corso degli anni Ottanta, cercherà di fare apparire sempre più come fondato su un’impostazione scientifica. Non è un caso, quindi, se Faurisson abbia trovato, negli anni Ottanta, anch’egli dei compagni di viaggio solidali in coloro che già avevano adottato Paul Rassinier. Il saggista francese ha infatti incontrato nelle persone di Pierre Guillaume, di Serge Thion e di ciò che restava del gruppo minoritario della Vieille Taupe, 78   Francesco Rotondi, Luna di miele ad Auschwitz. Riflessioni sul negazionismo della Shoah, con una nota di L. Parente, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2005, p. 28.

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segmento dell’estrema sinistra antistalinista79, degli interlocutori tanto insperati quanto particolarmente recettivi. D’altro canto la Vecchia Talpa si rivelava preziosa poiché basava la sua azione sull’innovatività: 1. si doveva superare l’isolamento penetrando nella giungla mediatica; 2. si cercava di catturare attenzione altrui attraverso lo scandalo, gli atti di rottura, con il deliberato rifiuto delle pratiche separatiste dei gruppuscoli rivoluzionari, dialogando, nell’eventualità, anche con la destra estrema. Pierre Guillaume, definito come dotato di una personalità «perversa» e «megalomane», «convinto di avere compreso i segreti della rivoluzione mondiale»80, si incontrò con un uomo come Robert Faurisson, «a cui della rivoluzione mondiale non importava un fico secco, ma che, in preda ad una delirante passione antisemita, sognava per sé una gloria scandalosa»81. Ne derivò un matrimonio duraturo, basato sulla reciprocità. Già si è fatta veloce menzione delle vicende dell’omonima libreria parigina, nata nel settembre del 1965 e gestita da un collettivo82 che portava il suo stesso nome. Una parte dei suoi membri militò nell’organizzazione francese Pouvoir ouvrier, fondata dal filosofo Jean-François Lyotard, fino all’espulsione, avvenuta nel 1967. Impegnata nella diffusione di libri, opuscoli e periodici del radicalismo marxista, spesso in rottura con le linee seguite dalle organizzazioni maggioritarie, la libreria diventò quindi uno dei punti di riferimento di quei militanti del ’68 francese che vivevano l’azione politica all’interno della ramificata intelaiatura delle micro-strutture di cui la diaspora marxista era allora particolarmente ricca. Proprio nel 1967 Pierre Guillaume, figura di spicco in questo piccolo ambiente, aveva scoperto il volume di Paul Rassinier Le Mensonge d’Ulysse, giudicandolo di grande interesse. 79   Pierre Milza, Le négationnisme en France, in «Relations internationales», n. 65, primavera 1991. 80   Pierre Vidal-Naquet, Gli assassini della memoria: saggi sul revisionismo e la Shoah, Viella, Roma 2008 (ed. or., Les assassins de la mémoire: ‘un Eichman de papier’ et autres essais sur le révisionnisme, La Découverte, Paris 1987), p. 195. 81   Ibidem. 82   Composto, tra gli altri, da Pierre Guillaume, François Cerutti (noto sotto lo pseudonimo di François Martin), Jacques Baynac, Bernard Ferry e Americo Nunes da Silva. Notizie al riguardo si possono ricavare da Christophe Bourseiller, Histoire générale de l’ultra-gauche, Denoël, Paris 2003, pp. 276-280.

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La ristampa nel 1970 di Auschwitz ou le grand alibi, il testo bordighiano che sta indubitabilmente all’origine del negazionismo di sinistra83, aveva poi fatto precipitare i rapporti tra Guillaume da una parte e quegli altri membri del collettivo che, su un tema così delicato come lo sterminio degli ebrei, non condividevano le tesi economiciste e riduzioniste. Nel dicembre del 1972 la libreria chiuse i battenti. La Vieille Taupe conosceva poi una seconda stagione come casa editrice quando nel 1979 Guillaume ristampò il libro di Rassinier. Il sostegno aperto nei confronti della causa negazionista venne a quel punto stigmatizzato da molti vecchi militanti del gruppo. Tuttavia, costituiva un segnale che Faurisson non poteva non gradire. Nel 1990 Guillaume aprì un’altra libreria, dove venivano venduti, tra gli altri, anche diversi testi negazionisti di autori prossimi se non organici alla destra radicale. Cinque anni dopo iniziò la pubblicazione di un periodico, «La Vieille Taupe», il cui secondo numero conteneva il saggio di Roger Garaudy, Les Mythes fondateurs de la politique israélienne84, poi rieditato come volume a sé. Il libro era diviso in tre parti, la prima dedicata ai «miti teologici», la seconda ai «miti del Ventesimo secolo» (dove si negava la Shoah e si contestava la legittimità giuridica e morale del processo di Norimberga) e la terza all’«utilizzazione politica del mito». In esso l’autore, già filosofo e scrittore marxista, successivamente convertitosi alla religione musulmana, riassumeva, facendola propria, tutta una serie di posizioni negazioniste. Lo sterminio degli ebrei veniva definito come un «mito sionista» alimentato ad arte per giustificare la politica coloniale ed espansionista dello Stato d’Israele, equiparabile a quella nazista. Pur dichiarandosi contro l’antisemitismo Garaudy si pronunciava contro il sionismo politico. L’intera politica internazionale e i media occidentali, inoltre, affermava l’autore, sarebbero condizionati da una lobby il cui obiettivo è quello di favorire Israele economicamente e militarmente. Su Norimberga ritornava per affermare che servì 83   Pierre Vidal-Naquet, De la Vieille Taupe et des cannibales, in http://www. anti-rev.org/textes/VidalNaquet87a/part-2.html. 84   Roger Garaudy, I miti fondatori della politica israeliana, Graphos, Genova 1996 (ed. or., Les Mythes fondateurs de la politique israélienne, La Vieille Taupe, Paris 1995, poi rieditato l’anno successivo come R. Garaudy-Samiszdat).

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per distogliere l’attenzione collettiva dai crimini alleati. Di fatto il volume era una rassegna dei clichés consolidatisi in trent’anni di letteratura negazionista. Nel 1998 l’autore subì una condanna per «negazione dei crimini contro l’umanità», istigazione all’odio razziale e diffamazione. Nel 2003 la Corte europea dei diritti dell’uomo confermò la condanna, specificando che l’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che tutela la libertà d’espressione e al quale Garaudy si era appellato, non può applicarsi «alla negazione o alla revisione di fatti storici acclarati tali quali l’Olocausto». Lo scandalo che derivò dalla pubblicazione e il processo che portò alla condanna di Garaudy ebbe ampi echi mediatici. Contò in ciò anche il fatto che una figura come quella di Henri Grouès, l’Abbé Pierre, noto e stimato come il «prete dei poveri», fondatore del Movimento Emmaus, si fosse presentato a testimoniare a favore dell’integrità dell’amico filosofo, pur sottolineando di non condividere il negazionismo. Dopo la vicenda Garaudy il piccolo circuito che ruotava intorno a Pierre Guillaime ha sensibilmente ridotto le attività. Si è trattato del combinarsi degli effetti dell’approvazione della legge Gayssot, punitiva verso le manifestazioni di negazionismo, con l’isolamento politico subito nell’ambito della sinistra radicale francese. Al riguardo ha notato efficacemente Henry Rousso che «la seduzione di questi gruppuscoli per le teorie di Rassinier, poi di Faurisson, si motiva per una forte identificazione con le teorie del complotto, alla ‘cripto-storia’ e all’‘ipercriticismo’, ma anche per la loro incapacità di ammettere che lo sterminio degli ebrei non è riconducibile ad una razionalità materialista, fino al punto di negare ciò che non risponde ad una logica di lotta di classe»85. Se la parabola discendente della Vecchia Talpa, peraltro non ancora del tutto esauritasi, può essere letta come espressione di dinamiche di gruppo, essa è tuttavia anche indice di un fenomeno culturale assai più diffuso. Il sostegno da parte di segmenti della sinistra radicale alla causa negazionista ha infatti un’antica radice ideologica. Il suo fondamento è il «rifiuto retrospettivo [...] del consenso antifascista»86. 85   Henry Rousso, The Political and Cultural Roots of Negationism en France, in «South Central Review», vol. 23, n. 1, 2006. 86   Pierre Vidal-Naquet, Gli assassini della memoria cit., pp. 194-195.

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Partendo dal presupposto che vi sia una equivalenza tra fascismo e antifascismo, manifesta un’incomprensione totale della novità storica dei regimi di Mussolini e Hitler. Non meno netta è l’incapacità di comprendere la trama dei complessi rapporti tra politica ed economia. La democrazia è letta come forma politica del capitalismo, che è controllato dalla finanza ebraica. Chi svela tale disposizione dei poteri diventa così l’autentico anticapitalista. Esiste quindi uno stretto nesso di continuità tra Paul Rassinier, il suo epigono e mentore Robert Faurisson e La Vieille Taupe. Rassinier, annegando il giudizio storico nell’indistinzione, non vede differenze tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, l’una e l’altra momenti di grandi massacri. La Vecchia Talpa, in nome della rivoluzione proletaria, ritiene che i nazisti non siano peggiori dei capitalisti, se non altro perché gli uni e gli altri sono la medesima cosa. Il momento del disinganno coincide quindi con il dichiarare mitologia certo passato. Se così non fosse, le coscienze rimarrebbero confuse. Per l’approccio bordighiano, d’altro canto, non vi poteva essere nulla di specifico nel nazismo che lo potesse differenziare dalle altre tirannidi moderne e, in prospettiva, dal capitalismo medesimo inteso come barbarie reale e definitiva. Da questo punto di vista il problema non è l’esistenza o meno dei Lager ma la loro funzione produttivistica. I campi di sterminio non possono essere esistiti «perché a rigor di logica non dovevano essere esistiti»87, nella misura in cui essi non si attagliavano alla teoria interpretativa. La congruenza ideologica dei ragionamenti precede (e segue) il riscontro dei fatti. Questi si devono accordare alla prima. Le memorie dell’affaire Dreyfus, poi dello scontro con il Fronte popolare negli anni Trenta, e infine del collaborazionismo si saldano quindi con la polemica contro l’antifascismo che una parte della sinistra radicale vede come la cristallizzazione dell’azione politica e la rimozione della vera natura del conflitto di classe. I negazionisti di destra e di sinistra sono da sempre alla ricerca di ciò che possa dare corpo permanente a questa posizione. Non si tratta di un connubio incestuoso poiché il terreno comune è dato dall’anticapitalismo. Nell’antisemitismo, in quanto spiegazione del funzionamento del sistema dominante di produzione della ricchezza,   Ivi, p. 195.

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hanno quindi trovato il punto di saldatura. L’antisionismo, che interviene con particolare forza in Europa dopo i fatti che si accompagnano al quindicennio compreso tra il 1967 e il 1982 (ossia tra la guerra dei Sei giorni e la guerra in Libano), rafforza questa posizione, permettendo di leggere nel sionismo stesso il reciproco del nazismo, così come in Israele la controfigura della Germania di Hitler e negli ebrei, vittime di ieri, i carnefici di oggi. In questo atteggiamento c’è ben più di una lettura selettiva del passato, soprattutto laddove si attribuiscono all’ebraismo gli aspetti più sgradevoli del nazifascismo. Il nazismo, si va dicendo, regime pur deprecabile, aveva comunque in sé elementi di opposizione al capitalismo giudaico. La nascita e il consolidamento d’Israele sono allora il segno tangibile della lotta che è in corso, ovvero della rovina che è derivata per i popoli con la fine della Seconda guerra mondiale, quando il materialismo americano e il totalitarismo stalinista hanno celebrato la spartizione del mondo. In entrambi c’è l’impronta ebraica. L’urgenza della lotta contro il sionismo, in quanto forma concreta del complotto giudaico, si impone quindi da sé poiché solo così facendo si può porre un limite al potere debordante del capitalismo. Israele si legittima nel consesso internazionale attraverso l’Olocausto. Demistificarne la sua natura di mito, in grado di paralizzare la società internazionale ricattandola perennemente, diventa allora un obiettivo prioritario. Infatti, se si svela la sua vera essenza, quella di costruzione di comodo, si indebolisce il sionismo. Se si delegittima il sionismo si mette in discussione il potere ebraico. Se il giudaismo è messo a nudo, ne sono denunciati i pericolosi obiettivi, allora sarà più facile porre un freno alle iniquità del capitalismo, qui inteso non tanto come modo di produzione e di consumo bensì come sistema culturale che ha disintegrato gli ordini antichi, quelli lealisti e organicisti dell’ancien régime. Nell’età della finanza globalizzata l’identificazione tra denaro ed ebreo e tra crisi economica e usura è resa tanto più agevole dall’affannosa evoluzione delle cose, che chiede da subito una sua semplificazione affinché si possa dare a fenomeni, altrimenti incomprensibili, un nome e, soprattutto, una responsabilità. Se la globalizzazione rimanda alla mancanza di confini e la finanza all’invasione degli spazi vitali di società e individui l’ebreo assume, in questo scenario, la fisionomia universale di agente della modernità sovversiva. «Tutto si dissolve

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mentre l’ebreo rimane sempre uguale a sé stesso: ‘mantiene, o sembra mantenere, una propria identità attraverso, e grazie, al continuo dissolversi delle identità altrui’ (S. Levi Della Torre)»88. Questo nesso tra negazionismo e antisemitismo è qualcosa di molto profondo e come tale va indagato. Poiché il primo rinnova le fortune del secondo e ciò facendo gli dà una plausibilità e un’attualità che altrimenti potrebbero venirgli a mancare. «Il negazionismo, diventato centrale nella propaganda dell’estrema destra [e transitato in quella di parte della sinistra radicale], ha assunto la funzione di cemento ideologico, permettendo a essa di riannodarsi ai temi dimenticati dell’anteguerra e di legare a sé solidamente una clientela che altrimenti avrebbe potuto farsi influenzare da un populismo xenofobo passeggero»89. D’altro canto, centrale è nella costruzione negazionista il nesso tra evidente e occulto. Il negazionismo si presenta rivestendo gli abiti della moralizzazione della storia. Di contro alle sue falsificazioni, alla convenzione che prescrive di seguire una ‘versione ufficiale’ sotto la quale si occultano interessi reali e inconfessabili, il negazionista agita lo scandalo di ciò che è omesso. La dialettica che così si instaura è tra un visibile, che non corrisponde al vero, e un invisibile che coincide con l’essenza delle cose. Non è in sé un criterio estraneo all’agire scientifico, del quale, semmai, assume alcune movenze dando corso, ancora una volta, a quello ‘scientismo’ di cui Hannah Arendt parlava come di un corredo fondamentale nelle logiche del totalitarismo nazista90. Il negazionismo, infatti, ambisce ad essere scienza integrale, lavorando, a tratti quasi spasmodicamente, sui reperti. Ma di essi ne dà una resa caricaturale poiché, rendendoli feticci incontrovertibili di una ‘vera verità’, li decontestualizza completamente, sottraendoli da quei nessi di complessità che sono gli unici che possono dare ad essi (e di essi) un significato plausibile. Si potrebbe, e anche a ragione, da ciò far derivare subito il   Citato in Pier Paolo Poggio, Il negazionismo alla francese cit., p. 154.   Philippe Videlier, Il negazionismo in Francia cit., p. 123. 90   Della Arendt si vedano La banalità del male, Feltrinelli, Milano 1964 (ed. or., Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil, The Viking Press, New York 1963) e Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano 1967 (ed. or., The Burden of Our Time, Secker & Warburg, London 1951). 88 89

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giudizio su di una scimmiottatura dei procedimenti scientifici, ma è bene comprendere che dietro l’agire negazionista non sta necessariamente la menzogna in quanto tale bensì il fondamentalismo ideologico, che è soprattutto un modo di leggere il mondo: laddove le relazioni si cristallizzano, la dimensione umana si estingue e al suo posto subentra il feticismo del documento, che parlerebbe da solo, assumendo una natura a sé stante. Anche da questo approccio al mondo, prima ancora che alle sue singole cose, deriva quindi l’ossessione per il particolare, l’acribia per il tratto specifico, l’acrimonia verso chi rivendica invece la necessità di una storia autenticamente comprensiva, che metta in gioco, in tensione e in comunicazione le illinearità, le discontinuità, il pluralismo degli elementi, dei soggetti e degli eventi che, inevitabilmente, si accompagnano alle piccole e alle grandi opere, e in particolare a quelle criminali. Dal momento che il crimine non si è consumato se non attraverso la mistificazione che ha portato a dichiarare l’esistenza di uno sterminio che non c’è mai stato, per il negazionista la storia vera è quella dove ogni tassello si interseca perfettamente all’altro, dove tutto combacia, dove esiste un’intima coerenza e una causalità assoluta nella trama dei fatti. Questi ultimi, semmai, si incaricano di dimostrare che prima d’essi viene la trama (di cui sono mera esecuzione) che è, per definizione, occulta. Almeno finché qualcuno non si incarica di denunciarne l’esistenza. La storia è trama, da questo punto di vista, nel duplice senso che assolve a un copione preordinato e che si realizza attraverso la cospirazione. La cospirazione non può avere lasciato delle tracce di sé: è opera dei ‘veri’ storici andare alla ricerca di esse. Finché non verrà ripristinato l’ordine naturale che era garantito dalla piramidalità dell’ancien régime, distrutto dal pensiero illuminista prima e dalle rivoluzioni poi, di cui l’ebreo è l’agente per definizione, non potrà che essere così. Al cuore del problema il negazionismo pone la dissoluzione del disegno superiore costituito dagli equilibri tradizionali, quelli antecedenti il 1789. Anche per questo la negazione è una forma compiuta di fondamentalismo, perché si incontra con l’idea della corruzione che abiterebbe la storia, la quale sta alla base di ogni approccio reazionario basato sull’ossessione per le ibridazioni, il segno del disordine antropologico. Ma in questo sogno di restaurazione il negazionismo, in quan-

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to lettura del presente, si incontra con le ansie che una parte della sinistra classista ha continuato a maturare. L’impossibilità di leggere l’evoluzione del tempo secondo le coordinate del più stretto materialismo storico ha indotto alcune parti d’essa a concordare su di una declinazione etnicista del capitalismo, dove l’ebreo è il riscontro di tale visione. Lettura che ha trovato una sponda strategica nelle vulgate terzomondiste, dove all’analisi dei rapporti di dominio di cui le società coloniali sono depositarie si è sostituita, in ordine di rilevanza, l’identificazione acritica con le istanze indipendentiste. L’antisionismo entra all’interno di questa dinamica, permettendo di nobilitare il discorso antisemita laddove esso, per gruppi e individui che si rifanno alla sinistra, non dovrebbe invece avere cittadinanza intellettuale e morale. La possibilità di presentare Israele come un paese basato sul suprematismo razziale, la riduzione del sionismo a ideologia razzista, l’inversione e la sostituzione di ruoli simbolici tra vittime e carnefici, l’identificazione dei palestinesi come le vittime per eccellenza del complotto giudaico sono passaggi che si tengono insieme e si alimentano vicendevolmente, permettendo all’antisionismo, presentato come anticapitalismo, di agire legittimato, ottenendo infine anche un’apertura di credito nell’area del fondamentalismo islamico. Nella polemica negazionista il richiamo al colonialismo riveste un ruolo strategico, esso costituisce l’antecedente storico che annulla la pretesa unicità del genocidio ebraico e pone l’Occidente sullo stesso piano del nazismo. Un discorso che viene ulteriormente sviluppato in termini antisemiti [;] riprendendo una tesi di Werner Sombart, si sostiene che la colonizzazione venne finanziata dagli ebrei e così pure la tratta degli schiavi. Quindi i crimini del colonialismo e del capitalismo sono da imputare agli ebrei, inventori di entrambi91.

La digressione sul colonialismo, e sullo sfruttamento degli esseri umani da esso praticato, ha anche un’altra funzione, oltre a quella di gettare discredito storico sull’ebraismo. Infatti se il colonialismo rappresenta il frutto moderno del razzismo è perché si basa su una motivazione economica e produttiva. Le violenze contro le vittime dello schiavismo contemporaneo sono legate allo   Pier Paolo Poggio, Il negazionismo alla francese cit., p. 154.

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sfruttamento dei corpi e della loro capacità lavorativa, in regime di totale dominio. Si tratta di un criterio utilitarista. Ma se il razzismo dell’età contemporanea ha questa natura, non ha senso, dal punto di vista negazionista, attribuire ai nazisti, in quanto razzisti, una volontà genocida. Questi ultimi, aderendo alla logica degli sfruttatori, non possono che avere cercato manodopera a basso o nullo costo per ricavarne i benefici che da ciò derivavano. Distruggere gli individui non era un’azione di loro interesse. Anche per questo motivo il genocidio ebraico risulta non solo incomprensibile ma soprattutto assurdo. Se gli ebrei erano manodopera, risorsa fondamentale in una guerra totale qual era in effetti il conflitto del 1939-1945, non si vede per quale motivo i loro persecutori avrebbero dovuto ucciderli in massa. Questa impostazione economicista, estremamente funzionale alle analisi della sinistra negazionista, nell’omettere qualsiasi riflessione di merito sulla natura dell’antisemitismo nazista, così come sulla storia e le trasformazioni dell’antisemitismo in generale, si avvalora del riferimento ai campi di concentramento in quanto luoghi di sfruttamento, per rafforzare le sue tesi. Tale interpretazione rigetta non solo lo sterminio ma anche le peculiarità del sistema di dominio del nazismo, ricondotte a parte di una più ampia sequela di violenze storiche, tra di loro di fatto eguagliabili in quanto espressione della medesima volontà di sopraffazione. Viene così omessa la specificità dell’antisemitismo dello sterminio, laddove questo aveva teorizzato gli ebrei come razza sì inferiore dal punto di vista biogenetico ma socialmente pericolosissima, non governabile con gli abituali strumenti di oppressione. In questo i nazisti avevano fatto una netta differenza rispetto alle altre razze, a partire dai popoli slavi, contro i quali avevano invece adottato la prassi della prevaricazione e, frequentemente, della riduzione in schiavitù. Per gli ebrei, espressione di un’alterità totale, non conciliabile con gli assetti socio-demografici che il Terzo Reich avrebbe voluto costruire, non si poneva altra soluzione che non fosse l’assassinio in massa. Altro discorso è il ragionare su come si sia pervenuti a tale esito, ossia per il tramite di quali complesse dialettiche interne alle amministrazioni e agli apparati nazisti, e come tutto ciò si sia poi tradotto in un concreto percorso di annientamento. Ma tali ordini di considerazioni non interessano i negazionisti, essendosi posti oltre e al di fuori di qualsiasi riflessione in materia.

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2.7. Relazioni durature Il rapporto tra Pierre Guillaume e Robert Faurisson non si esaurisce in un solo libro. Nel dicembre del 1980, infatti, la pubblicazione per i tipi della Vieille Taupe del testo faurissoniano Mémorie en défense contre ceux qui m’accusent de falsifier l’histoire92 segna un ulteriore passo in avanti, insieme all’intervista all’autore fatta dal canale radiofonico Europe 1. Nell’aprile dello stesso anno Serge Thion, ricercatore presso il Centre National de la recherche scientifique (rimosso poi da questo incarico nel 2000 per avere «ridimensionato l’esistenza dei crimini contro l’umanità»), giornalista e già militante dei movimento anticoloniale, dà alle stampe il volume Vérité historique ou vérité politique? Le dossier de l’affaire Faurisson: la question des chambres à gaz93. Negli anni successivi Thion avrebbe contribuito molto alla diffusione delle tesi di Faurisson, fino ad arrivare, in tempi più recenti, alla loro promozione sul web attraverso il sito Aaargh, acronimo di Association des anciens amateurs de récits de guerres et d’Holocaustes. La sua acquisizione alla causa negazionista passa attraverso le ricerche che ha svolto sulla Cambogia e il Vietnam, soffermandosi sugli assassini di massa praticati dai Khmer rossi contro la popolazione civile tra il 1975 e il 1979, per i quali ha messo in discussione la loro natura di genocidio. Data a quel periodo di tempo anche un’altra liaison che fece scalpore, quella con Noam Chomsky. Il noto linguista e cattedratico, esponente della sinistra liberal americana, aveva firmato una petizione promossa da Mark Weber, altro militante del negazionismo, a favore della «libertà di parola e di espressione» di Faurisson. Le forti reazioni suscitate dalla presa di posizione di Chomsky lo inducono a precisare il perché della sua scelta, indirizzando allo stesso Thion sette pagine dedicate a Some Elementary Comments on The Rights of Freedom of Expression94, dalle quali trapela indirettamente un qualche imbarazzo. Con espressioni singolari 92   Robert Faurisson, Mémoire en défense contre ceux qui m’accusent de falsifier l’histoire, La Vieille Taupe, Paris 1980. 93   Serge Thion, Verité historique ou verité politique? Le dossier de l’affaire Faurisson: la question de chambres à gaz, La Vieille Taupe, Paris 1980. 94   Disponibile in http://www.chomsky.info/articles/19801011.htm.

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dichiara di non volersi esprimere in merito al lavoro del saggista francese, del quale afferma di non conoscere più di tanto né di nutrire «precise idee» al riguardo. Ciò non gli impedisce di sostenere che: «notiamo innanzitutto che anche se Faurisson fosse per ipotesi un antisemita scatenato o un filonazista fanatico [ciò] non avrebbe assolutamente nessuna conseguenza sulla difesa dei suoi diritti civili [...]. Come ho detto, non conosco bene i suoi lavori. [...] Per quel che posso giudicare, Faurisson è una specie di liberal relativamente apolitico»95. La stessa sorpresa per avere visto pubblicato come prefazione alla Mémoire di Faurisson il suo testo non stempera l’affermazione di principio. Pierre Vidal-Naquet replicherà duramente al linguista americano, accusandolo di un atteggiamento superficiale al limite della disonestà intellettuale96. Chomsky, peraltro, ancora nel 2010 avrebbe firmato un’altra petizione di tale genere, questa volta a favore di Vincent Reynouard, insieme a Jean Platin uno dei più accesi e attivi seguaci di Faurisson97. Reynouard è noto per le sue posizioni ispirate al nazionalsocialismo e al cattolicesimo tradizionalista di impostazione sedevacantista. Gli anni Ottanta segnano quindi un’ascesa nella notorietà di Faurisson che, dopo il «convegno revisionista» del settembre del 1979 a Los Angeles, assume il ruolo di oratore principale nei dibattiti e negli incontri che vengono organizzati dai diversi gruppi negazionisti presenti in Europa e negli Stati Uniti. Il decennio è costellato però anche da tornanti e tensioni. La prima tra queste chiama in causa il rapporto tra il saggista e Jean-Claude Pressac98. Di professione farmacista, simpatizzante della destra radicale, cultore di storia contemporanea, inizialmente su posizioni di   Citato in Valentina Pisanty, Abusi di memoria cit., p. 23.   Pierre Vidal-Naquet, Faurisson e Chomsky (1981), in Id., Gli assassini della memoria cit., pp. 129-138. A Chomsky furono fatti molti rilievi e innumerevoli critiche, a cui ebbe modo di controbattere con Réponses inédites à mes détracteurs parisiens (Risposte inedite ai miei detrattori parigini) pubblicato a Parigi da Spartacus nel 1984, reperibile ora su http://www.vho.org/aaargh/ fran/chomsky/reponses.html. 97   Valérie Igounet, Robert Faurisson cit., pp. 310 sgg. 98   Ivi, pp. 258 sgg. Su Jean-Claude Pressac si veda Nicole Lapierre, L’effet Pressac, in «Communications», n. 84, 2009, ora anche in www.phdn.org/negation/index.html. 95 96

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estremo scetticismo nei confronti della veridicità storica dell’Olocausto (la «scienza concentrazionaria» è una storia «viziata dai comunisti»)99, dopo un primo periodo di collaborazione con Robert Faurisson tra il 1980 e il 1981 matura un atteggiamento critico verso le posizioni negazioniste. Dedicandosi con acribia filologica allo studio dei documenti sui forni crematori e sulle gassazioni, a partire da quelli disponibili nel museo-memoriale di Auschwitz, che visita ripetutamente, e per la cui interpretazione rivela una buona competenza tecnica in quanto in possesso di un curriculum con una solida formazione in ambito chimico, ribalta i risultati ai quali sono pervenuti i negazionisti. Pur mantenendo una serie di riserve sul numero effettivo dei morti, che per Pressac furono meno di quanti ufficialmente dichiarati100, arriva a definire lo sterminio degli ebrei una realtà storica, ritenendo invece le affermazioni di Faurisson «completamente superate e screditate»101. I documenti, sentenzia Pressac, mostrano semmai ripetute «tracce di progettazioni criminali».   Valérie Igounet, Robert Faurisson cit., p. 268.   Per Chelmno da 80 a 85.000, invece di 150.000; a Belzec da 100 a 150.000, al posto dei 550.000; a Sobibor da 30 a 35.000 in alternativa ai 200.000; per Treblinka da 200 a 250.000 invece di 750.000; a Majdanek, meno di 100.000 al posto di 360.000. Così in Valérie Igounet, Histoire du négationnisme en France cit., p. 640. Anche il numero delle vittime di Auschwitz risulterebbe complessivamente ridimensionato, corrispondendo a non più di 700.000 rispetto al 1.100.000 computato (Jean-Claude Pressac, Le macchine dello sterminio. Auschwitz 1941-1945, Feltrinelli, Milano 1994, p. 173 [ed. or., Les crématoires d’Auschwitz. La machinerie du meurtre de masse, Cnrs Éditions, Paris 1993]). Il ricorso a questa contabilità gli è valsa l’accusa di «riduzionismo», ovvero anche di «cripto-revisionismo», avanzatagli, tra gli altri, da Franciszek Piper, Die Zahl der Opfer von Auschwitz, Verlag Staatliches Museum in Oświęcim, Oświęcim 1993, p. 202. Serge Klarsfeld, che ne aveva sostenuto le ricerche, ne ha preso in parte le distanze. Una stima accettata è quella fatta da Henry Friedlander, Le origini del genocidio nazista, Editori Riuniti, Roma 1997 (ed. or., The Origins of Nazi Genocide: From Euthanasia To The Final Solution, University of North Carolina Press, Chapel Hill 1995) dove si parla di 3.062.000 vittime nei soli Vernichtungslager così suddivise: Auschwitz-Birkenau (1942-1944), 1.100.000 (con Zyklon B, acido cianidrico); Treblinka (1942-1943), 900.000 (con monossido di carbonio); Belzec (1942), 600.000 (con monossido di carbonio); Sobibor (19421943), 250.000 (con monossido di carbonio); Chelmno (1941-42), 152.000 (con monossido di carbonio); Majdanek (1942-1944), 60.000 (sistema misto). 101   Da una lettera di Pressac a Tadeusz Iwaszko, archivista e studioso del memoriale-museo di Auschwitz. 99

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Per Faurisson, ma anche per il suo sodale Pierre Guillaume, si tratta di un duro colpo poiché le competenze del ‘discepolo’ erano divenute oramai indispensabili al supporto del loro lavoro. Pressac continua peraltro a nutrire un atteggiamento sostanzialmente critico nei confronti della storiografia. Intervistato al riguardo afferma infatti che «la questione dei campi di sterminio è putrefatta. L’attuale forma, pur tuttavia trionfante, della presentazione dell’universo dei campi è condannata. Tutto ciò che è stato così inventato attorno a delle sofferenze troppo reali è destinato alle pattumiere della storia»102. Dopo di che intraprende una collaborazione con studiosi come Vidal-Naquet, Serge Klarsfeld e Anne Freyer che, passo dopo passo, porterà alla pubblicazione di due testi importanti, Auschwitz. Technique and Operation of the Gas Chambers103, opera uscita nel 1989 negli Stati Uniti, e Les crématoires d’Auschwitz. La machinerie du meurtre de masse104, del 1993, oltre che al concorso scientifico nella redazione di volumi come L’Allemagne nazie et le génocide juif 105, L’Album d’Auschwitz106 e The Struthof Album107. Di fatto Jean-Claude Pressac, celebrato poi come un importante e stimato ricercatore, rimarrà per tutto il resto della sua breve vita – è morto prematuramente nel 2003 – una figura sospesa nel vuoto, quella della ricerca tecnica fine a sé. L’onestà della condotta gli verrà riconosciuta a più riprese; tuttavia il suo concorso scientifico, anche per il modo in cui si è sviluppato, controargomentando rispetto alla sua stessa tesi d’origine, rivela la generale carenza di riflessioni sistematiche sugli aspetti più strettamente tecnici dello sterminio. Un compito, quest’ultimo, delegato paradossalmente agli stessi negazionisti, nella misura in cui i loro attacchi hanno obbligato gli studiosi a una maggiore attenzione – e

102   Così nell’intervista rilasciata a Valérie Igounet e pubblicata nella sua Histoire du négationnisme en France cit., alle pp. 651-652. 103   Jean-Claude Pressac, Auschwitz. Technique and Operation of the Gas Chambers, The Beate Klarsfeld Foundation, New York 1989, ora in http://www. holocaust-history.org/auschwitz/pressac/technique-and-operation/. 104   Jean-Claude Pressac, Le macchine dello sterminio cit. 105   Colloque de l’École des hautes études en sciences socials, L’Allemagne nazie et le génocide juif, Seuil, Paris 1985. 106   L’Album d’Auschwitz, Seuil, Paris 1983. 107   Jean-Claude Pressac, The Struthof Album, Beate Klarsfeld Foundation, New York 1985.

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quindi a una lettura più critica – dei diversi aspetti dell’universo concentrazionario e del sistema dello sterminio. Il secondo evento che contraddistingue gli anni Ottanta chiama in causa Henri Roques108 e rinvia al progressivo affermarsi di una nuova generazione di negazionisti. Militante già negli anni Cinquanta dell’estrema destra, all’interno della quale prende parte alle attività di gruppi di chiara impronta neofascista come il movimento Citadelle e la Phalange française, Roques si interessa ai testi di Paul Rassinier, che incontrerà nel 1962. Nel corso di un conciliabolo viene a conoscenza del Rapporto Gerstein, redatto nei mesi di prigionia, poco prima del suo suicidio, dall’ufficiale delle SS Kurt Gerstein, figura per più aspetti discussa109, ingegnere, collaboratore del dipartimento di «igiene dell’acqua» e responsabile del settore di «igiene tecnica» dell’Istituto di igiene delle SS. In tale veste, quindi come consulente e specialista, fu testimone nel campo di Belzec dello sterminio in massa degli ebrei. Rassinier se ne era già occupato nel suo Le Drame des juifs européens, dove aveva dedicato cinquanta pagine per confutare l’attendibilità del rapporto. Nei primi anni Ottanta Roques entra in contatto con Faurisson, il quale gli consiglia di redigere una tesi di dottorato sui documenti e le testimonianze di Gerstein. Nel 1982 viene depositato il titolo della tesi, Les confessions de Kurt Gerstein. Étude comparative des différentes versions, mentre l’autore inizia il lavoro adottando il criterio di lettura critica dei testi fornitogli da Faurisson. Nel 1985, quando la tesi è ultimata, viene giudicata da un consesso di docenti dell’Università di Nantes (e non di Parigi IV, dove inizialmente era stato depositato il titolo) fortemente orientato a destra110. La tesi di Roques confronta le quattro versioni francesi e le due tedesche della testimonianza scritta di Gerstein. Ne mette in rilievo le incoerenze e le incongruenze per dichiarar  http://www.vho.org/aaargh/fran/ACHR/ACHR.html.   Sul Rapporto Gerstein si veda http://www.ihr.org/jhr/v07/v07p115_Hall. html. Sulla figura dell’ufficiale delle SS cfr. Saul Friedländer, Kurt Gerstein o l’ambiguità del bene, Feltrinelli, Milano 1967 (ed. or., Kurt Gerstein ou l’ambiguïté du bien, éditions Casterman, Paris 1967); Bernd Hey, Matthias Rickling, Kerstin Stockhecke, Kurt Gerstein (1905-1945): Widerstand in SS-Uniform, Verlag für Regionalgeschichte, Bielefeld 2003; Pierre Joffroy, L’espion de Dieu. La passion de Kurt Gerstein, Robert Laffont, Paris 1969. 110   Valérie Igounet, Histoire du négationnisme en France cit., pp. 417-421. 108 109

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ne la sostanziale nullità documentale. I riferimenti a Rassinier e a quelli che l’autore chiama gli «storici della scuola revisionista» sono diffusi. Durante la discussione orale Roques arriva a sostenere l’inesistenza delle camere a gas. Il giudizio della commissione d’esame sul suo lavoro è oltremodo favorevole. Nei mesi successivi un comunicato stampa raggiunge centocinquanta tra storici e giornalisti. In esso si esalta il contenuto del testo di Roques. A quel punto quella che era stata fino ad allora una vicenda in sordina acquista gli onori della cronaca. Lo scalpore che suscita, trattandosi di un elaborato negazionista discusso con i crismi dell’ufficialità in una università di Stato francese, si traduce in un’inchiesta amministrativa. Dai suoi esiti, il 3 luglio 1986, deriva l’annullamento del conferimento del titolo di dottorato a Roques, sulla base, tuttavia, non di un giudizio di merito del testo bensì per le numerose irregolarità amministrative riscontrate nei verbali di sessione. Si tratta di una soluzione che rivela l’imbarazzo delle autorità. Benché il lavoro di Roques abbia una caratterizzazione schiettamente negazionista, il suo invalidamento non ha ad oggetto questo aspetto, al medesimo tempo politico, culturale e morale, bensì gli elementi procedurali e di forma. Henry Rousso, chiamato insieme a Annette Becker, Florent Brayard e Philippe Burrin a far parte di una Commissione sul razzismo e il negazionismo all’Università di Lione III Jean Moulin, cenacolo accademico del negazionismo, redigerà nel 2004 un severo rapporto111 dove, insieme alle discrepanze amministrative, verranno messi in rilievo i gravi difetti di ordine deontologico che l’intera vicenda aveva portato alla luce, con un atteggiamento di chiara connivenza e di netto fiancheggiamento nei confronti dell’impostazione culturale di Roques da parte di esponenti del mondo universitario. In altre parole, sottolinea Rousso, benché le deliberazioni assunte in sessione e la titolazione del candidato siano state poi invalidate, le istituzioni accademiche non hanno avuto 111   Commission sur le racisme et le négationnisme à l’université Jean Moulin Lyon III, Rapport à Monsieur le Ministre de l’Éducation nationale, par Henri Rousso, septembre 2004, ora in http://www.education.gouv.fr/cid2146/commisssion-sur-le-racisme-et-le-negationnisme-a-l-universite-jean-moulin-lyon-iii. html. Si veda anche Henry Rousso, Les racines politiques et culturelles du négationnisme en France cit.

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il coraggio di prendere una chiara posizione sull’intera vicenda, mascherandosi dietro una serie di questioni formali per affrontare un problema che è invece di sostanza: il negazionismo può avere legittimazione, e quindi udienza, nelle aule d’università? La domanda è rimasta di fatto senza risposta. I ricorsi presentati dal candidato vengono intanto respinti in successione, sia dal tribunale amministrativo di Nantes che dal Consiglio di Stato. Il testo dell’elaborato sarà infine diffuso dalla libreria Ogmios, cerniera culturale dell’estrema destra112. L’Ogmios, infatti, è stata diretta da Tristan Mordrelle e Jean-Dominique Larrieu, cofondatori delle edizioni Avalon, le prime a pubblicare in Francia, nel 1986, Il mito del ventesimo secolo, l’opera più importante del teorico del razzismo nazista Alfred Rosenberg. In tal modo sembrava così definitivamente chiudersi la parabola di un testo negazionista approdato in un consesso accademico. Tuttavia la vicenda Roques non si ferma a tale riscontro. Con la prevedibile coda polemica, sgradevole e velenosa, si sarebbero innescati ancora una volta il circuito mediatico e quello giudiziario, tra affermazioni, smentite, prese di posizione, querele e controquerele. Henri Roques, nel frattempo, diverrà direttore della «Revue d’Histoire révisionniste», periodico che avvia le pubblicazioni nel maggio del 1990 per poi cessarle due anni dopo, con l’uscita complessiva di sei numeri, subendo i rigori della legge Gayssot. Un terzo episodio rimanda a quello che divenne uno dei più importanti feticci del circuito negazionista, il cosiddetto Rapporto Leuchter strettamente collegato al processo intentato contro Ernst Zündel, negazionista canadese ripetutamente chiamato in giudizio per la sua attività di autore e di editore. Sul Rapporto, come su Zündel, si avrà ancora modo di tornare. Faurisson sollecita il contributo di Fred Leuchter, affinché egli testimoni a favore dell’imputato, cosa che avviene anche attraverso un documento di circa duecento pagine preparato per la circostanza. Per il saggista francese il testo redatto dall’«ingegnere» americano (si rivelerà poi non essere tale), che cerca di comprovare l’impossibilità tecnica delle gassazioni nei termini descritti dalla 112   Pierre-André Taguieff, Antisémitisme: la boutique de la haine, in «Le Nouvel Observateur», 28 settembre-4 ottobre 1989, ora anche in http://referentiel.nouvelobs.com/archives_pdf/OBS1299_19890928/OBS1299_19890928_067.pdf.

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storiografia, diventa un nuovo punto di riferimento, imprescindibile per la sua attività. Di certo, però, segna anche un trapasso, nella misura in cui focalizza l’attenzione negazionista dall’attacco alle fonti scritte e alle testimonianze orali alla ricerca di indizi di natura materiale, in questo caso indagando direttamente nei siti di Auschwitz e Majdanek. Gli anni successivi, che in Francia non furono comunque privi di ulteriori sviluppi, non vedono però più Faurisson come diretto protagonista o ispiratore. Già il 13 settembre 1987 il presidente del Fronte nazionale Jean-Marie Le Pen, nel corso di una trasmissione radiofonica, aveva pubblicamente dichiarato a proposito delle camere a gas che costituivano un «dettaglio della storia della Seconda guerra mondiale» («je crois que c’est un point de détail de l’histoire de la Deuxième guerre mondiale») e che «ci sono storici che discutono di queste questioni», a volere ribadire che la discussione era aperta e il negazionismo poteva trovare ospitalità in un partito a base parlamentare. Queste parole non cadevano peraltro a caso. Il processo a Klaus Barbie, responsabile della Gestapo a Lione, e condannato poi all’ergastolo per crimini contro l’umanità, era la cornice dentro la quale si andava consumando l’autosmascheramento del lepenismo, che dalle allusioni e dai giochi di parole passava ora alla denuncia di quella che veniva presentata come «la verità rivelata alla quale tutti devono credere»113. Dieci anni dopo lo stesso Le Pen avrebbe ripetuto le medesime parole in un’intervista a «The New Yorker» e poi a Monaco di Baviera. Nel gennaio del 1990 era poi esploso l’affaire Notin. Bernard Notin, docente di economia all’Università di Lione III, membro del partito di Le Pen, aveva pubblicato sul periodico «Économie et sociétés», sovvenzionato dal Consiglio nazionale delle ricerche francese, un articolo dai toni razzisti e negazionisti. Ne era seguita un’accesa polemica, il processo e la condanna pecuniaria oltre alla sospensione dall’insegnamento, malgrado il sostegno ricevuto dal presidente della sua università. Di lì a poco, nel mese di maggio, con la profanazione del cimitero ebraico di Carpentras, l’attenzione pubblica si era fatta più accesa. Non è un caso, infatti, se le 113   Si veda Valérie Igounet, «Révisionnisme» et négationnisme au sein de l’extrême droite française, in AA.VV., Négationnistes: les chiffoniers de l’histoire, Éditions Golias et Éditions Syllepse, Paris 1997, pp. 39-81.

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norme restrittive comprese nella legge Gayssot siano approvate dall’Assemblea nazionale francese nel luglio di quell’anno. Una vicenda simile a quella di Notin si sarebbe ripetuta nell’aprile del 1999, quando Jean Platin, accusato di essere titolare di una libreria negazionista a Lione e direttore del periodico «Akribeia. Histoire, Rumeurs, Légendes» (uscito tra il 1997 e il 1999), nell’anno accademico 1990-1991 aveva presentato e utilizzato materiale negazionista all’interno delle Università di Lione II e III. 2.8. Fine di una stagione? In realtà con il passaggio agli anni Novanta il ‘magistero’ di Faurisson nel circuito negazionista inizia a subire un relativo declino. Benché rimanga per i più una figura insostituibile, il trascorrere del tempo determina anche un mutamento degli interlocutori e delle priorità. Una nuova generazione di negazionisti si affaccia alla ribalta, in maggiore sintonia con lo spirito dei tempi. La caduta del muro di Berlino nel 1989 e poi il crollo del sistema sovietico hanno degli effetti di ritorno anche nel piccolo milieu. L’apertura della frontiera ad est e l’immigrazione in massa proveniente dai paesi arabo-islamici concorrono a ridefinire i termini della discussione sul passato europeo. Le nuove figure, come Olivier Mathieu e Alain Guionnet, che si autodefiniscono «post-revisionisti», emergono sull’onda lunga della vicenda Roques. Maggiormente disinvolti rispetto al ‘maestro’, non avvertono più il bisogno di mascherare o di abbellire l’atteggiamento antisemita, affermando che il loro radicalismo è una risposta difensiva a quello delle giovani generazioni ebraiche114. Per questi autori si tratta di passare all’attacco, sul piano culturale come su quello politico, senza più sensi di colpa o eccessi di cautele poiché «un’epoca si è conclusa [...], il mito delle camere a gas si è definitivamente sgonfiato, il revisionismo dei primi tempi ha perso definitivamente la sua ragion d’essere»115. 114   Olivier Mathieu, Le post-révisionnisme est né à la foire du livre de Bruxelles, citato in Valérie Igounet, Histoire du négationnisme en France cit., p. 549. 115   Ibidem.

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Mathieu, nato nel 1960, è un giornalista che pubblica sui periodici dell’estrema destra. Pur avendo fatto parte del Grece116, movimento solidamente presente nel corpo accademico dell’Università di Lione III, ne è stato poi marginalizzato a causa delle sue dichiarazioni pubbliche filonaziste e antisemite. Una parte dei suoi compagni di strada ne hanno denunciato lo stile eccessivamente provocatorio. Afferma infatti di riconoscersi in «concezioni globalmente nazionalsocialiste», essendo cresciuto in un ambiente familiare orientato in tal senso e ritenendo tale dottrina politica l’unica che risponda alle esigenze di riorganizzazione razziale delle società contemporanee. A tale riguardo sostiene che «il nazionalsocialismo, questa reazione razionale, razziale e sociologica, di legittima difesa, fu il regime della spiritualità». Collaboratore e consulente della libreria Ogmios, è prossimo agli ambienti belgi di connotazione rexista, un movimento politico estremista di impostazione fascista, legato al cattolicesimo tradizionalista, che continua a riconoscersi nella figura del suo fondatore Léon Degrelle, già combattente nelle Waffen SS e poi icona del neofascismo europeo postbellico. Per Olivier Mathieu la democrazia è «lo strumento politico dell’ebraismo». Quest’ultimo rappresenta i peggiori disvalori materialisti di contro al nazismo, che ha invece posto l’estetica del bello al centro della sua azione politica. All’interno di questa visione che recupera in toto i paradigmi della destra neonazista, il posto riservato al negazionismo è quello che si offre a un gradito ospite, senza però che ad esso sia concessa nessuna autonomia rispetto al discorso politico di fondo. ‘Naturalmente’ ad Auschwitz non si sono gassati altro che i pidocchi. Il 116   Acronimo di Groupement de recherche et d’études pour la civilisation européenne; meglio conosciuta come Nuova destra, anche se di quest’ultima rappresenta solo una parte, è una organizzazione che si autodefinisce «società di pensiero a vocazione intellettuale», o «comunità di lavoro e di pensiero», fondata nel gennaio del 1969 da esponenti dell’estrema destra francese, tra i quali Dominique Venner e Jean Mabire. Il suo esponente più importante è il filosofo Alain de Benoist. L’obiettivo è quello di coniugare allo studio della «tradizione» del pensiero occidentale, soprattutto in campo filosofico, letterario, antropologico ma anche scientifico, il rilancio culturale e politico della destra antiliberale, oggi meglio conosciuta come «antimondialista», superando i clichés e le aporie della vecchia destra radicale fascista e nazista. Al riguardo si veda Pierre-André Taguieff, Sur la Nouvelle Droite. Jalons d’une analyse critique, Descartes et Cie, Paris 1994.

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numero dei morti è stato esagerato di almeno il 1.000 per cento. Parlare di 6 milioni di morti è una aberrazione politica orchestrata dallo Stato d’Israele che ne ricava delle somme assolutamente colossali. [...] Sono più nazionalsocialista dei nazionalsocialisti. Penso che Hitler, che rispetto ed ammiro, abbia avuto delle debolezze inconcepibili che spiegano la sua sconfitta. [...] Nutro effettivamente dell’odio per gli ebrei. [...] L’odio è un sentimento nobile. C’è una frase magnifica di Abel Bonnard. Diceva degli ebrei: «gli ebrei non mi hanno fatto nulla». Ed effettivamente, anch’io potrei dirmi: «gli ebrei non vi hanno fatto nulla». Abel Bonnard aggiungeva: «è perché essi non mi hanno fatto nulla che li odio»117.

Alain Guionnet è la seconda colonna del post-revisionismo. Nato nel 1954, già militante dell’estrema sinistra studentesca negli anni Settanta e nel gruppo Oser lutter, come tale promotore, insieme a Pierre Guillaume, della rivista «La guerre sociale»118, Guionnet è entrato in rapporti con Faurisson nel decennio successivo. Sotto diversi pseudonimi (tra gli altri L’Aigle Noir, Attila Lemage, Jacques Moulin) firma volantini, articoli e pamphlet di taglio giudeofobico, che gli valgono processi e condanne. Tra le diverse produzioni editoriali campeggiano Le Mode de production des hommes-plantes (del 1980, firmato come Jacques Moulin), La Campagne pour la constitution du Reich allemand (del 1981, ancora come Jacques Moulin), Josef Kramer contre Josef Kramer (del 1988, questa volta come L’Aigle Noir), il Manifeste antijuif (del 1991, firmato Attila Lemage) e Contre Einstein (del 1996, L’Aigle Noir). Il suo modo di procedere è, a tratti, quello di un neoantisemita situazionista, che gioca pesantemente sulle parole e sul loro significato119. Dopo essere stato collaboratore degli «Annales d’histoire révisionniste», nel marzo del 1989 dà vita al mensile «Revision», le cui uscite sono tuttavia irregolari, 117   In André Dartevelle e Micheline Leblud, Auschwitz ou l’introuvable sens, TV 5, 1988 citato in Valérie Igounet, Histoire du négationnisme en France cit., p. 553. 118   Emmanuel Ratier, Encyclopédie politique française, Faits et Documents, Paris 1992, alla voce Révision. 119   Si veda anche il suo blog http://guionnet.wordpress.com/.

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arrivando a una distribuzione per numero tra le duemila e le quattromila copie. Sulle pagine di «Revision» Guionnet pubblica, suddividendoli in puntate, come una sorta di feuilleton, I Protocolli dei Savi di Sion. L’intenzione è quella di andare oltre il negazionismo faurissoniano, passando da quello che viene chiamato «revisionismo storiografico» a una integrale «revisione della storia». Al primo viene imputato il limite di essersi soffermato solo sulla inesistenza delle camere a gas e sul «preteso» genocidio degli ebrei, quando lo sguardo critico dovrebbe invece muoversi a trecentosessanta gradi. Si tratta infatti di passare a una «critica del giudaismo» che sia integrale e senza tabù, per opporsi frontalmente al «terrorismo culturale» dei «membri della diaspora», combattendo l’egemonizzazione materiale e morale esercitata dall’ebraismo e da Israele. I fantasmi del complotto ebraico sono quindi recuperati integralmente. Ancora: «il mio nemico è il sistema ebraico, che Guillaume Faye ha definito come ideologia soft»120. Segnatamente, Guillaume Faye è stato a lungo uno degli animatori più vivaci degli ambienti della Nuova destra, avendo ricevuto una solida formazione in campo politologico con il conseguimento di un dottorato in Scienze politiche. Nella sua vita (è nato nel 1949) ha tuttavia conosciuto diverse svolte che l’hanno portato anche a collaborare a riviste come «Figaro Magazine» e «Paris Match». In un primo tempo ha fatto proprie posizioni marcatamente terzomondiste e antioccidentali, proponendo analisi che rivelano suggestioni del pensiero di Michel Foucault. Con la fine degli anni Novanta ha assunto una posizione nettamente contraria all’immigrazione musulmana e araba in Europa che, a suo dire, metterebbe in discussione l’identità dei popoli continentali. Aderendo all’identitarismo comunitarista e differenzialista ha comunque mantenuto l’approccio filosofico che si rifà ad autori come Friedrich Nietzsche, Carl Schmitt e Martin Heidegger. Tra i numerosi libri che ha scritto risaltano opere come La soft-idéologie, cofirmato insieme a François-Ber  Tutte le citazioni sono tratte da Pierre-André Taguieff, Antisémitisme cit.

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nard Huyghe121 e La Nouvelle question juive122. Nel primo volume il riferimento è allo spirito ebraico e alla sua presenza nel mondo contemporaneo, discorso di fondo che va ben oltre i ristretti ambienti antisemiti e negazionisti, essendo uno dei cavalli di battaglia di alcune componenti del microcosmo «antimondialista», che si oppone alla globalizzazione nel nome dei «valori tradizionali». Questa nuova impostazione del negazionismo, per più aspetti piegato o comunque orientato verso la battaglia politica contingente e immediata, è risultata naturalmente indigesta agli autori delle vulgate precedenti. Tanto più dal momento che i post-revisionisti non sono alla ricerca di riscontri dal grande pubblico così come di riconoscimenti dalla ricerca scientifica. Semmai disprezzano gli uni e gli altri. Inoltre, l’ibridazione del discorso ‘storico’ con le più marcate posizioni politiche rende impossibile scindere la ­tematica specifica sulle camere a gas da quella sui grandi destini della ‘civiltà occidentale’, minacciata dall’avanzata dell’immigrazione musulmana e dal complotto giudaico. Più in generale, poi, non è solo la memoria dello sterminio ad essere fatta oggetto di attacco ma il racconto storico medesimo, inteso come una costruzione artefatta e mistificata per via delle manipolazioni ebraiche. L’antiebraismo, infine, è conclamato. L’autoreferenzialità, l’impegno politico, il rifiuto della storia e l’avversione dichiarata contro gli ebrei sono quattro elementi che fanno a pugni con la logica del negazionismo tradizionale, mettendone addirittura in discussione il suo statuto. Fanno saltare quei compartimenti stagni che Faurisson e i suoi hanno cercato di costruire per anni, dando vita e respiro a un negazionismo che vorrebbe essere tecnico e, quindi, ‘neutrale’, almeno nell’immagine offerta al grande pubblico, sperando così di costruirsi una piattaforma di interlocuzione anche al di fuori del proprio ambiente. Per gli autori più giovani, invece, le tematiche negazioniste sono un punto di partenza, non di arrivo. Servono a corroborare l’atteggiamento antisemitico: se la modernità è il prodotto demoniaco dell’egemonia giudaica, sono duemila anni di storia a richiedere una completa revisione, affinché si possa 121   Pierre Barbès (pseudonimo di Guillaume Faye) e François-Bernard Huyghe, La soft-idéologie, Robert Laffont, Paris 1987. 122   Guillaume Faye, La Nouvelle question juive, Les Éditions du Lore, Chevaigné 2007.

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finalmente giungere a una comunità di uomini liberati dal dominio ebraico. «La camera a gas non è che il nuovo Tempio dei circoncisi. [...] La scelta è tra un’Europa ariana e un’Europa ebraica; ancor meglio, la scelta è tra un’Europa di sotto-uomini e di uomini»123. Dinanzi alla piega assunta dal discorso, mentre Pierre Guillaume continua a riporre la sua fiducia in questa nuova leva di ‘studiosi militanti’, Robert Faurisson e Henri Roques se ne distanziano, temendo che gli effetti possano essere estremamente negativi. L’approvazione e l’entrata in vigore della legge Gayssot, ridisegnando anche dal punto di vista normativo e penale la fisionomia di ciò che era da considerarsi come punibile nel campo della negazione dell’evidenza di fatto, costituiva peraltro un contesto del quale gli autori francesi non potevano non tenere conto. Alla metà degli anni Novanta la pubblicazione per le edizioni della Vieille Taupe del già citato volume di Roger Garaudy su Les Mythes fondateurs de la politique israélienne, che sancisce il passaggio di ciò che resta della sinistra radicale negazionista all’islamo-negazionismo, segna anche il transito di Faurisson verso lidi diversi da quelli fino ad allora praticati. Se la destra antiliberale francese, a partire dal Fronte nazionale di Jean-Marie Le Pen, si rivela progressivamente sempre più scettica verso il negazionismo, ritenendolo impresentabile rispetto a quelli che sono divenuti i suoi obiettivi elettorali, per Faurisson si aprono nuove porte nel mondo arabomusulmano. Con l’inizio del nuovo secolo, infatti, in concomitanza con il periodo più intenso della seconda Intifada, tra il 2000 e il 2003, quando lo scontro tra israeliani e palestinesi si trasforma in una sequela di violenze fisiche, aggressioni e attentati, il negazionismo si incontra con l’ideologia islamista. È una fase inedita per il saggista francese, che troverà il suo culmine nell’assunzione da parte della Repubblica islamica dell’Iran, nella persona del suo presidente Mahmud Ahmadinejad, del negazionismo come discorso di Stato. Un fatto che avviene anche per effetto del libro di Garaudy124, che se in Occidente raccoglie una levata di scudi, nei paesi arabomusulmani invece sollecita adesioni e condivisioni 123   Oliveir Mathieu, De la splendeur en milieu post-révisionniste, citato in Valérie Igounet, Histoire du négationnisme en France cit., p. 559. 124   Sulla vicenda Garaudy si veda Michaël Prazan, Adrien Minard, Roger Garaudy. Itinéraire d’une negation, Calmann-Levy, Paris 2007.

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al tema della negazione della Shoah anche nell’opinione pubblica locale. Per Robert Faurisson, sempre più spesso riverenzialmente definito come «il professore», l’apertura delle porte a Teheran costituisce quindi la consacrazione che da tempo va cercando. La possibilità di erigere la controstoria a narrazione ufficiale, incorporata nel discorso pubblico, è il suggello di una vita di sforzi. Dal 2006 Faurisson viene chiamato ripetutamente a intervenire a conferenze negazioniste organizzate in Iran, con profusione di risorse e vasta eco. Non di meno ha accesso ai media nazionali. Nei fatti, quanto va avvenendo è l’effetto della saldatura di tre fenomeni distinti, molto lontani tra di loro: la messa in mora e poi al bando, per via giudiziaria, del negazionismo in diversi paesi europei; la sovraesposizione mediatica, e i ritorni di visibilità, che un atteggiamento pseudoculturale, malgrado tutto di nicchia, ha ottenuto nel corso degli ultimi trent’anni; la ricerca, da parte di alcuni settori del mondo arabo e islamista, di un elemento di rinforzo della loro ideologia antisionista. Non è quindi un caso se il negazionismo al quale fanno riferimento gli antisionisti e gli islamisti non sia tanto quello che sottolinea le incongruenze tecniche e le discrasie delle singole testimonianze, bensì quello, assai più diretto e militante, che assume a priori il genocidio degli ebrei come una pura e semplice falsità. Una postura ideologica di questo tipo identifica nella lotta a un crimine immaginario, a un mito menzognero, a una manipolazione della realtà quale sarebbe la Shoah, parte di una più generale guerra contro il «giudeo-sionismo». Si tratta di delegittimare lo Stato d’Israele dalle sue fondamenta, decolpevolizzando le ideologie antisemite, invertendo il ruolo tra vittime e carnefici e imputando agli ebrei le responsabilità della situazione in cui versano i paesi del Terzo Mondo. In Francia, dal 2000 in poi, sono due i personaggi che calcano le scene negazioniste. Da una parte c’è Paul-Éric Blanrue e dall’altra il comico Dieudonné. Si è lontani da quelle premesse che, attraverso Bardèche, passando poi per Rassinier, avevano infine portato a Faurisson. Il negazionismo, più o meno esplicitato, diventa il punto di equilibrio per praticare un antisionismo radicale, dietro al quale si conferma l’antisemitismo. Ma ancora una volta tutte e tre le componenti sono parte di una miscela che sempre di più serve a unire individui con storie politiche diverse, accomunati, nel declino delle loro ideologie di riferimento, dalla

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necessità di trovare un principio unificante, una causa unica alla quale attribuire la colpa della e nella storia, laddove quest’ultima è intesa come il prodotto di un complotto. Rimane da chiedersi perché la Francia, di cui già si sono identificate le premesse favorevoli allo sviluppo di una destra negazionista, abbia mantenuto questo non invidiabile primato anche negli anni più recenti. Ancora una volta bisogna rifarsi alla sua storia. Negli anni Sessanta gli effetti di lunga durata della battaglia per l’«Algeria francese» e la presenza eversiva e paragolpista dell’Organisation armée secréte fecero da indiscusso traino al radicalismo. Dopo il periodo gollista, che aveva sottratto spazio alle componenti più ingovernabili, con la comparsa del Fronte nazionale lepenista, federazione di gruppi e gruppuscoli, la scena politica nazionale poté contare su un soggetto solido e permanente. François Duprat si incaricò di introdurvi i temi negazionisti. Per la destra estrema rimaneva il fatto che negare la Shoah era una delle precondizioni essenziali per risultare appetibile a un pubblico più ampio di quello abituale. La Nuova destra degli anni Settanta, all’interno di un programma di recupero della radice antidemocratica attraverso la denuncia dell’universalismo e dell’egualitarismo ‘mondialista’, la condanna della tradizione giudaico-cristiana laddove essa aveva esaltato l’individualismo e i diritti dell’uomo, l’enfatizzazione della «civilizzazione indo-europea» e il razzismo differenzialista, non poteva non subire i richiami delle tesi negazioniste, anche se poi si sarebbe smarcata dalle posizioni più rigide. Se ne ha riscontro nella presenza di alcuni appartenenti al Grece all’Università di Lione III. Il turning point per tutta la destra estrema fu tuttavia l’avvio di una riflessione collettiva nel paese sugli anni di Vichy e sul collaborazionismo. Tra il 1970 e il 1990 la discussione sul passato, che investì non solo gli studiosi ma anche l’opinione pubblica, rese più urgente l’elaborazione di un negazionismo tecnico e ‘scientifico’, così come l’affaire Faurisson comprova. Tutto ciò non avrebbe comunque prodotto l’impatto che si è invece registrato se non fosse intervenuto l’effetto di amplificazione giocato dai mezzi di comunicazione di massa. I fattori politici e mediatici non esauriscono tuttavia lo spettro delle interpretazioni. L’attenzione che a partire dalla fine degli anni Settanta è stata riservata alla Shoah, ma anche alle compromissioni dei collaborazionisti e all’antisemitismo, in Francia come in altri paesi, se da un

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lato ha alimentato una ricca e vivace storiografia, che ha rivisto ex novo i risultati raggiunti precedentemente, ha dato involontariamente fiato, in una sorta di eterogenesi dei fini, anche a un altro tipo di revisione. Qui si trova il raccordo tra negazionismo di destra e di sinistra: nella messa in discussione degli oramai vecchi paradigmi apologetici, che avevano accompagnato le narrazioni postbelliche, il negazionismo si è ritagliato un ruolo, senz’altro di nicchia ma in espansione. L’ha fatto rivolgendosi al suo pubblico; ma quel pubblico è nato dalla sua stessa proposta culturale, quella di una interpretazione «non conformista» dei trascorsi, agevolata dalla rilettura critica che, su ben altre coordinate, la storiografia e la stessa pubblicistica andavano facendo. L’«età del testimone»125 ha dato voce ai sopravvissuti, in accordo con una società dove la testimonianza pubblica ha assunto uno statuto forte. Il negazionismo ne ha a sua volta beneficiato, ricorrendo all’esito di drammatizzazione che il resoconto mediatico in genere alimenta. Ciò facendo ha capovolto, seguendo una prassi abituale, i riscontri comuni, mettendosi in piazza come racconto alternativo del passato. Il negazionismo finge di parlare di ciò che è stato, quando invece ha al centro della sua comunicazione sé stesso, i suoi personaggi, le sue modalità inverosimili e ‘scandalose’. In altre parole, ha goduto di una sorta di effetto di trascinamento nel confronto sui grandi temi pubblici, in sintonia con il suo modo di agire parassitario. Un ultimo passaggio, oggi senz’altro il più importante, è quello che riconduce il negazionismo alla reviviscenza dell’antisemitismo. Il nodo è la presenza dello Stato d’Israele, che ha concorso ad alimentare, ma anche a modificare, l’impianto degli stereotipi antigiudaici. L’attribuzione ad esso della colpa di avere generato un falso clamoroso, lo sterminio, a proprio beneficio, serve a decolpevolizzare le ideologie antisemite. Il negazionismo si interfaccia agevolmente con esse, poiché ne è il naturale complemento. La sua diffusione nel mondo arabomusulmano, in un contesto totalmente differente da quello europeo, senza i vincoli culturali e i freni giuridici presenti nel vecchio continente, è il segno della sua attualità. Esiste al riguardo un inquietante divario tra l’attenzione 125   Annette Wieviorka, L’età del testimone, Raffaello Cortina, Milano 1999 (ed. or., L’ère du témoin, Plon, Paris 1998).

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riservata alle manifestazioni negazioniste in Europa e l’indifferenza con la quale si lascia che si alimenti un’onda lunga, che rischia di colpire anche i paesi continentali. Questo divario non è legato solo all’impossibilità materiale di intervenire sulle legislazioni e sui processi educativi e comunicativi altrui. C’è infatti qualcosa di più insidioso, che rinvia al fatto che la «nuova giudeofobia», come la definisce Pierre-André Taguieff126, è praticata da quanti appartengono a quella parte di popolazione considerata vittima delle violenze coloniali, dell’esclusione sociale, del mercato internazionale. Per una sinistra, soprattutto estrema, che non ha ancora fatto i conti con il 1989, rappresenta un rebus e, nel medesimo tempo, una tentazione. Il rebus della ‘cattiveria delle vittime’, che rende più difficile la solidarietà nei loro confronti, ma anche la tentazione di sposarne le tesi, ancora una volta cadendo nel tranello che l’antisemitismo, in quanto «socialismo degli imbecilli», si rivolge a chi fa proprio un approccio populista, oggi peraltro molto in voga.

  Pierre-André Taguieff, La nouvelle propagande antijuive, Presses Universitaires de France, Paris 2010. 126

3. Il negazionismo americano 3.1. Un background consistente A metà degli anni Settanta Faurisson aveva conosciuto e indagato i testi del negazionismo americano, il secondo grande filone ideologico che era andato affermandosi nel campo della negazione dello sterminio degli ebrei, e in particolare l’opera di Arthur Butz, The Hoax of the Twentieth Century1. Negli Stati Uniti, e in misura minore in Inghilterra, con la fine della Seconda guerra mondiale si era a sua volta costituita una corrente negazionista fondata sull’antisemitismo e, ancora, sulla teoria del complotto giudaico: si veda il già citato Imperium di Francis Parker Yockey (1948), dedicato ad Hitler, quando sentenzia che il genocidio è una invenzione che gli ebrei intendono usare per distruggere la civiltà occidentale. Su questa falsariga anche Harry Elmer Barnes con The Struggle against Historical Blackout (1947), Blasting the Historical Blackout (1962) e Revisionism: A Key to Peace (1966), e David L. Hoggan con The Myth of the Six Million (1969). Si trattava, in questo caso, di un «filone di esegesi alternativa dei testi classici della testimonianza della Shoah»2, dove il significato che da questi derivava veniva ribaltato nel suo contrario. Hoggan, accademico influenzato dalle idee di Barnes, di cui è il 1   Arthur Butz, The Hoax of the Twentieth Century: The Case Against the Presumed Extermination of European Jewry, Historical Review Press, Carshalton 1976. 2   Valentina Pisanty, L’irritante questione delle camere a gas. Logica del negazionismo, Bompiani, Milano 1998, p. 12.

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prosecutore, dopo avere assunto una posizione filotedesca, protesa a scaricare Hitler – a suo dire vittima di una cospirazione anglopolacca – dalla colpa di avere scatenato la Seconda guerra mondiale3, ed essersi esercitato in una poco verosimile giustificazione delle misure antisemite assunte dai nazisti prima del 1939, aveva poi spostato il fuoco di tiro della sua polemica sullo sterminio degli ebrei. Già in contatto con ambienti neonazisti e negazionisti4 scrisse il volumetto sul ‘mito dei sei milioni’ nel 1960, di cui uscì sei anni dopo un’edizione pirata per la Noontide Press di Los Angeles, senza il nome dell’autore e, soprattutto, senza la sua autorizzazione. Da ciò, tra l’altro, derivò un contenzioso giuridico tra Hoggan e Willis Allison Carto, il vero grande sacerdote del negazionismo statunitense. La cosa, per la cronaca, si risolse in via extragiudiziale. Hoggan nel suo libro cercava di argomentare riguardo all’inattendibilità di tutte le prove sulla Shoah, costruite ad arte nel dopoguerra per screditare la Germania di Hitler, vera vittima di un conflitto d’aggressione. Il volume pubblicato dalla Noontide comprendeva sei appendici con altrettanti articoli di altri autori del pensiero negazionista5. La storica Lucy Dawidowicz ha accusato Hoggan di avere manipolato i brani dei testi delle testimonianze di ex deportati da lui utilizzate a sostegno delle sue tesi. Non è quindi un caso se negli anni Ottanta l’oramai ex accademico fosse divenuto un esponente di rilievo del milieu negazionista americano, raccoltosi intorno all’Institute for Historical Review (Ihr). Da allora e dopo la sua morte, avvenuta nel 1988, le sue opere, scarsamente considerate dagli storici, hanno continuato a circolare negli ambienti antisemiti e filonazisti. Un altro negazionista della prima ora e, per molti aspetti, più significativo di Hoggan, è Austin Joseph App. Docente di Lette3   David L. Hoggan, Der erzwungene Krieg, Grabert Verlag, Tübingen 1961 (ed. ingl., The Forced War: When Peaceful Revision Failed, Institute for Historical Review, Costa Mesa 1989) e The Myth of New History: Techniques and Tactics of Mythologists, Institute for Historical Review, Costa Mesa 1985. 4   Lucy S. Dawidowicz, Lies About the Holocaust, in «Commentary», vol. 70, n. 6, dicembre 1980, p. 34, poi in Neal Kozodoy (a cura di), What Is The Use of Jewish History? Essays, Schocken Books, New York 1992. 5   Zionist Fraud, di Harry Elmer Barnes; The Elusive Six Million, di Austin App; Was Anne Frank’s Diary a Hoax?, di Teressa Hendry; Paul Rassinier: Historical Revisionist, di Herbert C. Roseman; The Jews that Aren’t, di Leo Heiman, e una recensione di Paul Rassinier all’opera di Barnes.

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ratura medievale inglese, già durante la Seconda guerra mondiale si era adoperato nella difesa della Germania nazista. Da ciò, e dal convincimento sofistico che ogni ebreo in vita è una confutazione dell’idea di genocidio, il quale non si sarebbe mai compiuto poiché gli ebrei, nel dopoguerra, erano appunto in vita, si adoperò per sviluppare un’assiomatica della negazione. Ne è derivato un repertorio logico, contenuto nel pamphlet The Six Million Swindle (1973)6, composto da «asserzioni incontrovertibili», al quale tutti gli autori avrebbero dovuto da allora in poi rifarsi: 1. la «soluzione finale del problema ebraico» proclamata dal nazismo consisteva nell’emigrazione e non nello sterminio; 2. non ci furono gassazioni e comunque un programma di sterminio di massa non poteva tecnicamente svolgersi nei termini in cui si dice invece che si sia consumato; 3. la maggior parte degli ebrei scomparsi emigrarono in Usa e nell’Urss, facendo poi perdere le proprie tracce; 4. i pochi ebrei giustiziati dai nazisti lo erano in quanto criminali; 5. l’ebraismo mondiale perseguita preventivamente chiunque intenda svolgere un lavoro di critica delle fonti sulla Shoah; 6. non vi sono prove coerenti del genocidio ma solo una serie di dichiarazioni, testimonianze, memorie tra di loro contraddittorie o indimostrabili; 7. vi sono contraddizioni insanabili nei calcoli demografici della storiografia ufficiale, il che dimostra l’inattendibilità della storiografia ufficiale; 8. l’onere della prova, come in ogni costruzione indiziaria, sta dalla parte degli accusatori, definiti come tali «sterminazionisti». L’alacre attività di App, abituato a spedire a giornali, periodici ed esponenti del mondo politico un grande numero lettere dai contenuti fortemente antisemiti, è stata di ispirazione per i fondatori dell’Institute for Historical Review, di cui si dirà ancora nelle prossime pagine. Nel 1974 l’uscita del pamphlet Did Six Million Really Die? firmato da Richard Harwood, alias Richard Verrall7, esponente 6   Austin Joseph App, The Six Million Swindle: Blackmailing the German People for Hard Marks with Fabricated Corpses, Boniface Press, Takoma Park 1973. 7   Richard Harwood (pseudonimo di Richard Verrall), Did Six Million Really

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dell’estrema destra britannica, nel rilanciare il verbo dell’inesistenza della Shoah lo coniugava a un altro tema abituale, quello del complotto ebraico contro la Germania del Terzo Reich, che avrebbe subito nel 1939 una dichiarazione di guerra da parte del «giudaismo mondiale», di cui il processo di Norimberga fu un ulteriore, fondamentale passaggio. Militante del National Front, Verrall ha usato le pagine del periodico estremista «Spearhead» per affrontare questi temi. La pubblicazione del suo volumetto in Canada, per opera di Ernst Zündel, è valsa una lunga vicenda giudiziaria, risoltasi con l’assoluzione dell’editore ma con il riconoscimento, da parte della Suprema corte del Canada, chiamata ad esprimersi, che il testo costituiva un «travisamento del lavoro degli storici» oltre a una manipolazione di testimonianze e fonti8. Nella rassegna dei negazionisti antecedenti la costituzione dell’Ihr non può infine mancare il già spesso citato Arthur Butz, professore associato di Ingegneria elettrica alla Northwestern University di Evanston e Chicago9. Nel 1976 Butz diede alle stampe The Hoax of the Twentieth Century: The Case Against the Presumed Extermination of European Jewry10, che costituisce la summa e il vademecum dei negazionisti statunitensi: lo sterminio degli ebrei non è mai avvenuto, il cosiddetto Olocausto è una menzogna e la sua diffusione è da attribuire ai circoli sionisti, che hanno utilizzato propaganda alleata per i propri calcoli d’interesse. Rivestendo il testo di una patina di rispettabilità scientifica, Butz cerca di smarcarsi dalla più triviale polemica antisemita, sostituendo le accuse con insinuazioni e allusioni. Le ripetute prese di posizione da parte di Mahmud Ahmadinejad contro la Shoah hanno indotto l’autore a congratularsi pubblicamente con il presidente iraniano, provocando la dissociazione della sua università.

Die? The Truth At Last, Historical Review Press, Richmond 1974 (originaria­ mente pubblicato come Six Million Lost and Found), anche in http://www.ihr. org/books/harwood/dsmrd01.html. 8   Il testo della sentenza è in http://scc.lexum.org/en/1992/1992scr2731/1992scr2-731.html. 9   Deborah Lipstadt, Denying the Holocaust. The Growing Assault on Truth and Memory, Plume Book, New York 1994, pp. 123-136. 10   Ora in http://vho.org/dl/ENG/Hoax.pdf.

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3.2. Il passaggio alla dimensione ‘tecnica’ Nei paesi di lingua inglese il negazionismo, di contro alle successive ibridazioni invece subite in Francia, è quindi rimasto ancorato per un lungo tempo alle sue solide e indiscusse radici di estrema destra. L’intendimento di fondo, rivolto all’opinione pubblica di società che si erano contrapposte alla Germania di Hitler senza subire il fenomeno del collaborazionismo, era duplice: relativizzare i crimini del nazismo per poi riabilitarlo e nobilitarlo politicamente. Anche qui un salto di qualità si consumò quando questo filone, stretto fiancheggiatore dell’antisemitismo fascista, e quindi condannato alla marginalità, tentò di accordarsi ad altre sensibilità, cercando di approdare a una qualche sponda storiografica. Il capitolo Faurisson segnò infatti un mutamento di paradigma anche per gli Stati Uniti, poiché proiettò su un agone mediatico, fino ad allora insperato, quelli che altrimenti sarebbero rimasti i conati settari di una minoranza trascurabilissima. Alla fine degli anni Settanta negli Stati Uniti si sommarono così una serie di eventi. Nel settembre del 1979 si tenne a Los Angeles il primo convegno mondiale di «studi revisionisti» dove Faurisson si incontrò con altri esponenti dell’universo negazionista, tra i quali Austin App, Richard Verrall, Thies Christophersen e Udo Walendy, sotto gli auspici di Willis Allison Carto. Quest’ultimo è probabilmente la figura più importante nell’universo negazionista statunitense. Influenzato dagli scritti dello storico filotedesco Francis Parker Yockey, nei quali si critica apertamente l’influenza ebraica nella politica americana e mondiale, nel 1958 fondò la Liberty Lobby, un gruppo di pressione, operante a Washington, su posizioni iperconservatrici e modalità di azione populista nonché una concezione sostanzialmente razzista e antisemita della società statunitense11. Carto aveva fondato nel 1978, insieme a David McCalden (alias Lewis Brandon), a Torrance, in California, l’Institute for Historical Review (Ihr)12 che divenne ben presto il punto di riferimento per l’elaborazione degli indirizzi interpretativi negazionisti a livello 11   Anti-Defamation League, Willis A. Carto: Fabricating History, in http:// www.adl.org/holocaust/carto.asp. 12   Deborah Lipstadt, Denying the Holocaust cit., pp. 137-156 e anche Anti-Defamation League, Institute for Historical Review, http://www.adl.

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internazionale. Di sé stesso l’Istituto dice di essere «un centro di ricerca, formazione e divulgazione rivolto a promuovere tra il grande pubblico una più elevata coscienza della storia», offrendo un sito (www.ihr.org) sufficientemente nutrito e aggiornato di dati e link13. Di fatto la presenza dell’Ihr, una struttura permanente, dotata di risorse finanziarie e in grado di creare occasioni di incontro, permise ai diversi esponenti dell’area negazionista non solo di entrare in contatto tra di loro ma anche di trovare i modi e le opportunità per coordinare i diversi contributi, evitando così la contraddittorietà che molti scritti presentavano tra loro. Una delle ambizioni dell’Istituto era peraltro anche questa, insieme a quella di riuscire a fare azione di promozione delle proprie posizioni verso il pubblico, cercando di ottenere sostegno di opinione ma anche finanziario. Dopo il convegno di Los Angeles, nella primavera del 1980, vi fu il lancio e la diffusione del primo numero di «The Journal of Historical Review», che assunse una periodicità quadrimestrale. Se si fa eccezione per una sospensione, tra il 1986 e il 1987, la rivista continuò ad essere prodotta e distribuita fino al 2002, quando cessò definitivamente le pubblicazioni. A tutt’oggi sono distribuiti dei reprint a cura della Noontide Press, anch’essa fondata da Carto. La Noontide Press ha un catalogo di libri dedicati prevalentemente al suprematismo razziale bianco e al negazionismo, tra i quali testi come Imperium di Yockey e The Myth of the Six Million di Hoggan. L’Istituto californiano ha fatto suoi gli otto assiomi del negazionismo formulati da Austin App nel 1973. Insieme a questi standard, la cui forza sta nella ripetitività, secondo il principio per cui più una cosa viene ribadita, nel modo più semplice e lineare possibile, maggiore è la probabilità che venga creduta se non come vera quanto meno come verosimile, i negazionisti hanno adottato i criteri di organizzazione dei testi che sono tipici dei lavori di taglio accademico, con il ricorso a note approfondite, a bibliografie di corredo e a una documentazione che, nel suo insieme, dovrebbe incrementare l’indice di credibilità di quanto vanno sostenendo. org/learn/ext_us/historical_review.asp?LEARN_Cat=Extremism&LEARN_ SubCat=Extremism_in_America&xpicked=3&item=ihr. 13   Una descrizione piuttosto approfondita è quella dell’Anti-Defamation League, Institute for Historical Review cit.

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Intorno alle attività dell’Ihr, a vario titolo, nel corso degli anni si sono esercitati David Irving, Robert Faurisson, Ernst Zündel, Fred Leuchter, Arthur Butz, Joseph Sobran, Pete McCloskey, Bradley Smith, Carlo Mattogno, Jürgen Graf, Doug Collins e Radio Islam, fondata da Ahmed Rami. L’Ihr è divenuto nel corso del tempo la matrice internazionale del negazionismo, vivendo tuttavia una sorta di irrisolta tensione tra la componente più smaccatamente antisemita e razzista, ben espressa da Carto, e quanti ritenevano, anche sulla falsariga del confronto in atto nel negazionismo europeo, che l’Istituto dovesse assumere una veste meno partigiana e più ‘scientifica’14. Al di là delle divisioni interne, che in più di un caso hanno portato a fratture con lo stesso Carto, fino all’assunzione della direzione da parte di Mark Weber15 nel 1995, il negazionismo americano ha infine trovato per un lungo periodo di tempo un suo terreno elettivo nelle attività studentesche delle università nordamericane16. La pubblicazione di testi dichiaratamente negazionisti ha raccolto un qualche successo, non tanto in omaggio alla verosimiglianza delle affermazioni in essi contenute quanto in base a un principio di libera espressione declinato indipendentemente da qualsiasi vaglio critico preventivo. Attivo in questo settore si è rivelato Bradley Smith, direttore dal 1987 del Committee for Open Debate on the Holocaust (Codoh)17, di cui è anche l’unico membro, nonché autore di un volume pubblicato in proprio, Break His Bones: The Private Life of a Holocaust Revisionist (2002). Il Codoh è un piccolo organismo impegnato a diffondere tra gli studenti le tesi negazioniste nel nome del diritto di espressione, avendo pubblicato anche l’unico bollettino mensile americano sulla negazione della Shoah, lo «Smith’s Report». A tale riguardo Smith si è adoperato per divulgare gli scritti dei suoi autorevoli sodali come Germar Rudolf, George Brewer, Bill Halvorson, Samuel Crowell, David

  Valentina Pisanty, L’irritante questione delle camere a gas cit., p. 18.   Il profilo biografico di Mark Weber si può leggere in Anti-Defamation League, http://www.adl.org/holocaust/weber.asp. 16   Deborah Lipstadt, Denying the Holocaust cit., pp. 183-208. 17  Si veda Anti-Defamation League, Holocaust Denial: Committee for Open Debate on the Holocaust, http://www.adl.org/poisoning_web/codoh.asp. Il sito è www.codoh.com. 14 15

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Thomas, Richard Widmann, Martin Henry, Ernest Sommers e MacKenzie Paine. Malgrado i tanti sforzi, la letteratura negazionista rimane non solo un genere a sé, con scarsissime produzioni che offrano qualcosa di innovativo rispetto alla ripetizione dei medesimi canoni, ma anche un ambito editoriale incapace di andare oltre i già abituali consumatori. L’incerto tentativo di darsi uno status scientifico è inesorabilmente fallito, malgrado le incessanti autocelebrazioni. Le ragioni sono ovvie, e si legano non solo all’inconsistenza dell’oggetto in sé ma anche alla propensione polemica e al timbro apologetico, insieme alla palese cornice politica di riferimento di molti di questi autori. Fin qui il negazionismo bianco, ovvero quello legato o riconducibile, almeno in alcuni suoi esponenti, all’estremismo politico, ovvero al circuito del White Power e del Ku Klux Klan, un’organizzazione che anche in questo campo ha spesso tirato le fila del discorso, avendo la forza per fungere da megafono delle tesi più radicali. A tale scenario se ne aggiunse però uno nuovo, quando gli estremisti afroamericani, figli dell’identitarismo più acceso e secessionisti all’interno delle organizzazioni per i diritti civili, si fecero a loro volta portavoci di una nuova frontiera del negazionismo, socializzandone le idee a cerchie di fruitori del tutto diverse da quelle del tradizionale radicalismo di destra americano. In realtà il processo d’identificazione di una parte di questi gruppi radicali con gli umori antisemiti e, di riflesso, con le teorie cospiratorie e avverse all’evidenza storica del genocidio ebraico, hanno anch’esse una radice robusta, risalendo ai primi anni Sessanta, quando una parte del movimento rafforzò le sue posizioni separatiste, avverse all’integrazionismo di Martin Luther King. Una linea di divisione che serviva a marcare la diversità rispetto al carismatico leader protestante era quella che, di contro all’alleanza che si era stabilita nel corso del decennio precedente, quando la comunità ebraica americana e quella nera avevano condiviso la lotta per il pieno accesso ai diritti civili, metteva ora in rilievo quelle che erano denunciate come le inemendabili responsabilità ebraiche nelle disgrazie delle popolazioni di colore18. 18   Joshua Muravchik, Facing Up to Black Anti-Semitism, http://www.disco verthenetworks.org/Articles/Facing%20Up%20to%20Black%20Anti-Semiti sm.html.

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Già Malcolm X nel 1961 aveva avuto modo di affermare che «l’ebreo sta dietro al movimento per l’integrazione razziale e usa il nero come suo burattino», trovando così un terreno di insolita convergenza con il suprematismo bianco, laddove l’uno e l’altro concordavano sulla necessità di separare le «razze». La Nation of Islam, diretta da Louis Farrakhan, pur esercitandosi in difficili equilibrismi, consapevole di come l’accusa di antisemitismo, tanto più negli Stati Uniti, rappresenti una macchia difficilmente emendabile, va tutt’oggi sostenendo le tesi della responsabilità diretta degli ebrei nel commercio degli schiavi dal XVI secolo in poi. Ad essa aggiunge altre accuse assortite, come quella riguardo alla loro vocazione egemonica, nonché il fantasma di un loro presunto coinvolgimento nella diffusione dell’Aids, il tutto preordinato alla volontà di annullare la «purezza razziale» della comunità afroamericana. L’elemento comune a queste diverse affermazioni è quello di volere attribuire all’ebraismo una volontà contaminatoria e predatoria rispetto alla separatezza coltivata dal proprio gruppo. La sintesi di queste originali amenità si trova nei due volumi pubblicati dall’Historical Research Department of the Nation of Islam, The Secret Relationship between Blacks and Jews (1991) e Jews Selling Blacks (2010). Si realizza così un’improbabile alleanza tra alcune frange del Ku Klux Klan e l’estremismo afro-americano di ispirazione islamica e separatista. Al fine di delegittimare la comunità ebraica, entrambi i gruppi operano una rilettura della storia della persecuzione nazista degli ebrei in senso revisionista (ridimensionamento e banalizzazione della Shoah) e negazionista. Il Black African Holocaust Council (BAHC, fondato da Eric Muhammad nel 1991) si è appropriato di termini quali ‘pogrom’, ‘campi di concentramento’ e ‘Olocausto’ per riferirsi alle persecuzioni razziali subite dai neri d’America, sostenendo che l’Olocausto nero conta non sei, ma decine di milioni di vittime dello schiavismo19.

Peraltro dal 1984 sono comprovati rapporti e scambi tra gruppi dell’estremismo nero e l’Ihr. Con la diffusione di internet come strumento di comunicazione, la moltiplicazione dei blog e, più in generale, con l’effetto di amplificazione che i social network   Valentina Pisanty, L’irritante questione delle camere a gas cit., pp. 21-22.

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inducono nei fruitori, il web è divenuto il terreno elettivo dei negazionisti. Di fatto questo permette di esercitare un’azione di proselitismo intellettuale senza eccessivi filtri o evitando quelli esistenti. Tra l’ampia varietà di siti dediti alla negazione ci sono quelli di Radio Islam, del Vho, di Aaargh e dell’Adelaide Institute20, quest’ultimo costituitosi in Australia nel 1994 e considerato dalla Commissione governativa per i diritti umani come un’organizzazione antisemita. L’Adelaide Institute si è adoperato nella diffusione di materiale negazionista insieme alla promozione di campagne di ‘controinformazione’ attraverso l’invio di lettere firmate da privati e pamphlet ai grandi mezzi di comunicazione. 3.3. Leuchter, Zündel e Irving I siti negazionisti, o che ospitano testi negazionisti, si avvalgono prevalentemente del ricorso alle posizioni che intendono delegittimare ‘scientificamente’ la praticabilità del sistema di gassazione di massa. Si tratta del cosiddetto «negazionismo tecnico» che, sulla scorta del criterio che già Faurisson aveva adottato per rileggere le fonti documentarie su carta o orali, con la seconda metà degli anni Ottanta si concentra su alcuni aspetti materiali dello sterminio. Una pietra miliare di questo approccio è il cosiddetto Rapporto Leuchter. A questo si sono poi affiancati altri due documenti, il Rapporto Rudolf del 199321 e il Rapporto Lüftl, dell’anno precedente22. Redatto nel 1988 da Fred A. Leuchter, un consulente dei tribunali americani specializzato in materia di tecnologia per le esecuzioni capitali, il rapporto che porta il suo nome fu utilizzato nella difesa del negazionista canadese Ernst Zündel, durante il secondo processo intentatogli presso il tribunale di Toronto. Zündel23, nato in Germania

  Il sito è all’indirizzo http://www.adelaideinstitute.org/.   Su questo punto Francesco Rotondi, Luna di miele ad Auschwitz. Riflessioni sul negazionismo della Shoah, con una nota di L. Parente, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2005, p. 31. 22   Francesco Rotondi, Luna di miele ad Auschwitz cit., p. 38. 23   Rimandi biografici e documentari a Zündel si trovano in http://www.adl. org/holocaust/zundel.asp, in Deborah Lipstadt, Denying the Holocaust cit., pp. 157 sgg. e, infine, http://www.nizkor.org/hweb/people/z/zundel-ernst/. 20 21

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nel 1939, trasferitosi in Canada all’età di diciannove anni, grafico, pubblicista, seguace di Adrien Arcand, leader neonazista canadese, per circa vent’anni, usando gli pseudonimi di Christof Friedrich e Mattern Friedrich (rivelati solo nel 1978), ha pubblicato scritti di taglio filonazista e antisemita. Tra di essi spicca The Hitler We Loved and Why, redatto insieme a Eric Thomson di cui tuttavia ha rifiutato la copaternità. A questa attività ha affiancato anche quella di diffusore e venditore di libri sugli Ufo e le medicine alternative. Una delle tesi che ha sostenuto in una sua pubblicazione, UFO: Nazi Secret Weapons?, è che i dischi volanti siano in realtà armi segrete naziste, utilizzate per esplorare i poli e raggiungere basi segrete. È anche uno dei sostenitori della teoria della «terra cava», secondo la quale il pianeta conterrebbe al suo interno uno spazio vuoto. Tali suggestioni non erano peraltro estranee ad alcuni esponenti del regime nazista24, provenienti soprattutto dall’area völkisch della Thule-Gesellschaft, che raccoglieva coloro che cercavano i fondamenti di un’identità ancestrale germanica nell’occultismo. L’apparente eterogeneità ed eclettismo degli interessi di Zündel non deve stupire poiché la contiguità di un certo negazionismo con questi filoni di pensiero, a volte folcloristici altre volte decisamente più inquietanti, trova nelle teorie del complotto il suo tessuto connettivo. Nel 1977 Zündel fondò una casa editrice, la Samisdat Publishers, il cui catalogo si è presto riempito di titoli negazionisti nonché di quei materiali di memorabilia che fanno la felicità di nostalgici e feticisti. In tale veste ha quindi editato, tra gli altri, i lavori di Germar Rudolf, un chimico negazionista, di Butz, di App e di David Duke, quest’ultimo esponente di spicco del Ku Klux Klan. Nel 1995 la messa online dello Zundelsite (www.zundelsite.org), gestito dalla moglie Ingrid Rimland, ha garantito alla rete quello che è presto divenuto uno dei maggiori serbatoi di materiali e letteratura negazionista e neonazista. Ripetutamente accusato di essere un propagandista neonazista e un istigatore dell’odio razziale, ha subito diversi processi25 (oltre a tre attentati: uno nel 1984, gli altri due nel 1995), dai quali ha ricavato

24   Tra di essi Rudolf Hess, Alfred Rosenberg, Hans Frank, Julius Lehmann, Gottfried Feder, Dietrich Eckart e Karl Harrer. 25   Litigation and Trials, http://www.adl.org/holocaust/zundel.asp.

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una discreta notorietà, complice anche la sua innata capacità di calcare istrionescamente le scene mediatiche. Nel gennaio 1988 fu chiamato a giudizio e in quel caso l’incarico di patrocinarne gli interessi fu affidato a Douglas Christie, il legale che in Canada aveva seguito le vicende processuali di molti esponenti del milieu della destra estrema e neonazista. Il dibattimento si trasformò ben presto in una sorta di agone dove i negazionisti si confrontavano con la parte restante del mondo. L’opportunità di dare fiato alle trombe dello sconcerto e dello ‘scandalo’ si presentava come estremamente appetitosa. Sia Robert Faurisson che David Irving vi presero quindi parte, per supportare la difesa di Zündel (insieme a Mark Weber, Bradley Smith e Ditlieb Felderer). Ed è in quella sede che entrambi convennero sul fatto che occorresse un tipo di supporto tecnico per avvalorare la tesi – alla quale sia il tribunale che l’opinione pubblica avrebbero potuto rivelarsi sensibili – dell’impossibilità tecnica del sistema di gassazione così com’era presentato dagli studiosi della Shoah. La scelta cadde su Frederick (Fred) Leuchter, presentato da Bill Armontrout, direttore del penitenziario di Stato del Missouri, come la persona giusta. Il sedicente ‘ingegnere’ di Boston, come si presentava, essendo di fatto un perito tecnico, era consulente di alcune pubbliche amministrazioni statunitensi per l’installazione e l’attivazione di strumenti per l’esecuzione delle pene capitali. In tale veste aveva costituito la Fred Leuchter Associates. Nell’incontro che ebbe con Irving e Faurisson (una triangolazione tra gatto, volpe e topo) si convinse della fondatezza delle affermazioni dei suoi due interlocutori. Dopo un ulteriore meeting con Zündel e l’avvocato Christie, e non prima di avere ricevuto una somma fra i 30 e i 35mila dollari, Leuchter si mise in viaggio, insieme alla moglie, con la quale era in luna di miele. Accompagnato da un piccolo staff di supporto si trattenne per tre giorni ad Auschwitz-Birkenau e uno a Majdanek. Armato di scalpello prelevò illegalmente alcuni frammenti degli edifici di disinfezione e dei locali in cui furono gassate le vittime dei nazisti. Si trattava, per l’esattezza, di 32 segmenti, da lui definiti poi «reperti forensi». Tornato a casa li fece sottoporre ad analisi chimica e sintetizzò le sue conclusioni in un documento di 192 pagine, The Leuchter Report: An Engineering Report on the Alleged Execution Chambers at Auschwitz, Birkenau, and Majdanek, Poland (pubbli-

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cato poi in inglese con il titolo Auschwitz: The End of the Line. The Leuchter Report - The First Forensic Examination of Auschwitz)26. Il compito affidato a Leuchter era chiaro: dimostrare che le uniche gassazioni avvenute erano quelle dei parassiti. Per l’‘ingegnere’ il riscontro sussisteva ed era dato dal fatto che «mentre nel campione prelevato dalle camere di disinfezione, usate per eliminare con lo Zyklon B i parassiti dagli indumenti, vengono riscontrati cianuri a concentrazioni molto elevate [...], nel rimanente materiale le concentrazioni di cianuri risultavano non determinabili [...] o in concentrazioni molto basse»27. Da ciò Leuchter fece derivare la conclusione inappellabile che «quelle installazioni [le camere a gas] non furono camere di esecuzione mediante gas»28. A queste considerazioni ne aggiungeva poi altre sulla presunta inverosimiglianza funzionale e tecnica dei locali in quanto luoghi di morte, oltre ad alcune valutazioni di merito. In altre parole, se la presenza di acido cianidrico (la sostanza tossica rilasciata dallo Zyklon B, usato sia per uccidere i parassiti presenti nei capi di abbigliamento che le persone) era minore negli edifici usati per la seconda funzione, non poteva che conseguire l’insostenibilità fattuale dell’assassinio in massa tramite gassazione. Se per i negazionisti ciò era l’agognata prova del nove di quanto erano venuti sostenendo fino ad allora, per i tecnici le cose non stavano affatto così. Il motivo era semplice: i parassiti sono più resistenti all’azione dello Zyklon B. Pertanto richiedono una concentrazione superiore di sostanze tossiche29. Non di meno, mentre le gassazioni duravano all’incirca una decina di minuti, le disinfezioni potevano terminare solo dopo diverse ore. Un’altra tesi centrale dell’autore verteva sull’impossibilità di aerare e riscaldare con 26   Fred Leuchter, Rapporto Leuchter, Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma 1993 (ed. or., The Leuchter Report: The End of a Myth. A Report on the Alleged Execution Gas Chambers at Auschwitz, Birkenau and Majdanek, Poland, by an Execution Equipment Expert, Samisdat Publishers, Toronto 1988, anche in http://www.ihr.org/books/leuchter/leuchter.toc.html). 27   Francesco Rotondi, Luna di miele ad Auschwitz cit., p. 73. Il testo di Rotondi si occupa diffusamente del Leuchter Report e delle vicende ad esso connesse alle pp. 67-88. 28   Ivi, p. 74, dove si cita testualmente il rapporto. 29   Una sintetica esposizione tecnica si ha alle pp. 77-88 del citato volume di Francesco Rotondi.

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adeguata rapidità i locali che sarebbero stati usati come luoghi di sterminio30. La decontestualizzazione che Leuchter faceva delle tecniche di gassazione dal luogo e rispetto all’epoca in cui erano state applicate, paragonandole invece con la strumentazione adottata dal sistema carcerario americano di cui aveva alcune cognizioni, risultò da subito fragile31. Le risposte a Leuchter non tardarono infine ad arrivare, a partire da quella, più nota, del francese Jean-Claude Pressac32, farmacologo e tossicologo; del suo connazionale Georges Wellers, sopravvissuto ad Auschwitz33; del tedesco Werner Wegner34. Si trattava di confutazioni di merito, ovvero di taglio tecnico, che rispondevano, passo dopo passo, affermazione dopo affermazione, alle false evidenze di Leuchter, nella convinzione, espressa poi chiaramente da Wegner, che la contrapposizione all’aura di pretesa scientificità non potesse basarsi sulle sole dichiarazioni di principio, quelle di ordine etico né, tanto meno, su scomuniche fini a sé: le une come le altre avrebbero rischiato di dare soltanto l’impressione di una debolezza argomentativa, ovvero di un tentativo di non rispondere ai quesiti per reticenza. Sta di fatto che il Rapporto Leuchter non fu ammesso dalla Corte d’appello e Zündel venne quindi condannato. Il testo del falso ingegnere non è rilevante per quello che contiene ma per il fatto che esso, benché palesemente inattendibile, anche una volta cassato dagli studiosi, è divenuto uno degli strumenti più importanti nell’autopromozione della causa negazioni-

30   Till Bastian, Auschwitz e la «menzogna su Auschwitz»: sterminio di massa e falsificazione della storia, Bollati Boringhieri, Torino 1995 (ed. or., Auschwitz und die «Auschwitz-Lüge»: Massenmord und Geschichtsfälschung, Beck’sche Reihe, München 1994). 31   Sull’intera vicenda si veda anche il materiale disponibile all’indirizzo http: //www.nizkor.org/hweb/people/l/leuchter-fred/. 32   Jean-Claude Pressac, Le macchine dello sterminio. Auschwitz 1941-1945, Feltrinelli, Milano 1994 (ed. or., Les crématoires d’Auschwitz. La machinerie du meurtre de masse, Cnrs Éditions, Paris 1993). 33   Georges Wellers, Der «Leuchter-Bericht» über die Gaskammern von Auschwitz: Revisionistische Propaganda und Leugnung der Wahrheit, in «Dachauer Hefte», n. 7, novembre 1991. 34   Werner Wegner, Keine Massenvergasungen in Auschwitz? Zur Kritik des Leuchter-Gutachtens, in U. Backers et al., Die Schatten der Vergangenheit. Impulse zur Historisierung des Nationalsozialismus, Propyläen, Frankfurt a.M.-Berlin 1990.

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sta. Riprendendo lo schema argomentativo che ribalta i riscontri, ossia trasformando ciò che è ad essi avverso in un elemento invece a proprio favore, i negazionisti sono andati sostenendo, dalla pubblicazione del rapporto in poi, di avere per le mani la prova definitiva della «menzogna di Auschwitz». L’abitudine ad affidarsi a «rapporti tecnici» si consolidò quindi negli anni successivi. Leuchter firmò ancora altri tre documenti35, uno più inattendibile dell’altro, patrocinato in ciò da Faurisson. Ad essi si aggiunsero il Lüftl-Report e il Rudolf-Report36. Se l’inconsistenza e la pretestuosità delle procedure e delle conclusioni negazioniste è evidente, meno chiaro è il meccanismo che questa sovraproduzione di testi pseudoscientifici innesca. Se gli ignavi si aggrappano affannosamente al documento di parte, ritenendolo immacolato e come tale non giudicabile, in quanto ‘prova incontrovertibile’, i più accorti, invece, accettano la confutazione attraverso lo spostamento delle argomentazioni e la sollecitazione della polemica. È un percorso dialettico tanto sottile quanto furbesco. Si basa sulla cavillosità, laddove il negazionista sta alla storia così come l’avvocato Azzecagarbugli di manzoniana memoria sta al diritto. L’uno e l’altro conoscono la disciplina ma la usano per i fini esattamente opposti a quelli per i quali è stata creata. È stato notato che nel gioco delle parti incoraggiato da questi autori, i sostenitori della storiografia scientifica si trovano costretti a difendere la propria versione dei fatti la quale, essendo enunciata in positivo, offre necessariamente il fianco alle critiche (il metodo scientifico è per propria costitutiva vocazione aperto ai tentativi di falsificazione). Per rispondere esaustivamente a ciascuna delle micro-obiezioni dei negazionisti, gli storici si trovano costretti a ricostruire ogni dettaglio tecnico [...]. I negazionisti, dal canto loro, concentrano tutti i propri sforzi sulla demolizione della tesi accettata37. 35   Si veda al riguardo la bibliografia sulle opere revisioniste alla fine di questo volume. 36   Al riguardo si veda Francesco Rotondi, Luna di miele ad Auschwitz cit., pp. 88-97. 37   Valentina Pisanty, I negazionismi, in Storia della Shoah, vol. I, La crisi dell’Europa, lo sterminio degli ebrei e la memoria del XX secolo, a cura di Marina Cattaruzza, Marcello Flores, Simon Levi Sullam, Enzo Traverso, Utet, Torino 2005, p. 439.

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Ciò facendo evitano accuratamente di offrire riscontri certi alle proprie affermazioni. Il presupposto è chiaro: «se ci concentriamo su quello che non sappiamo e ignoriamo quello che invece sappiamo apriamo la porta al ragionamento fallace»38. Posto e premesso che: «i negazionisti non cercano prove che convergano su una conclusione; cercano prove che si adattino alla loro ideologia»39. In generale, il negazionismo raccoglie tutti i caratteri propri alla logica dell’estremismo ideologico e culturale. Questa riposa su alcuni assunti, facilmente riassumibili: 1. le credenze del modo di pensare ideologico estremista sono talmente amorfe e ambigue che è difficile confutarle: sfuggono alla razionalizzazione; 2. queste convinzioni creano coesione di gruppo, ovvero appartenenza; 3. ingenerano nei seguaci entusiasmo e condivisione, oltreché un attaccamento appassionato e quasi ossessivo a pochi ma cristallini motivi di fondo. Da ciò deriva una reiterazione maniacale dei temi e il fatto che essi si rinforzino vicendevolmente; 4. si dà la polarizzazione del mondo in categorie apparentemente non ambigue ma completamente prive di riscontro; 5. si adotta un modo di argomentare retorico e semantico prevenuto; 6. si prediligono sistemi onnicomprensivi, che offrono una chiave di accesso univoca alla conoscenza; 7. si fa ricorso in maniera dogmatica (attraverso una lettura neutralizzante, che presuppone un solo significato) ai testi di riferimento; 8. si nega l’esistenza di informazioni contraddittorie e si procede a una selezione sistematica delle notizie, escludendo ciò che potrebbe perturbare le proprie convinzioni; 9. si vive la realtà come dicotomica e quindi polarizzata: c’è la necessità di avere un nemico purchessia, poiché la sua esistenza

38   Michael Shermer e Alex Grobman, Negare la storia. L’Olocausto non è mai avvenuto: chi lo dice e perché, Editori Riuniti, Roma 2011 (ed. or., Denying History: Who Says the Holocaust Never Happened and Why Do they Say It?, University of California Press, Berkeley 2000), p. 253. 39   Michael Shermer e Alex Grobman, Negare la storia cit., p. 315.

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crea un terreno valoriale comune di condivisione che rinsalda perennemente i legami; 10. quando non si hanno argomenti si aggredisce l’altrui reputazione: gli estremisti spostano il fuoco polemico dal contenuto delle idee alle quali si oppongono alla moralità di chi le afferma, che è sottoposta al fuoco incrociato del sospetto e dell’allusione. All’interno del mainstream ‘tecnico’ si è infine inserita un’altra figura di rilievo, acquisita al milieu negazionista progressivamente, dalla seconda metà degli anni Ottanta in poi, anche se dice di non riconoscersi in esso. Si tratta di David Irving. Scrittore con un buon seguito di lettori e una discreta conoscenza delle fonti, appassionato scandagliatore di molti aspetti della Seconda guerra mondiale, già a metà degli anni Settanta, all’atto della pubblicazione del volume Hitler’s War40, aveva dipinto un ritratto benevolo del dittatore tedesco, attenuandone le colpe nelle tragiche vicende di quegli anni e arrivando a sostenere che le maggiori responsabilità del conflitto mondiale fossero da attribuire ai leader alleati. L’invasione tedesca dell’Unione Sovietica del 1941 era descritta come una guerra preventiva contro una possibile aggressione russa (tesi, questa, sostenuta dalla propaganda nazista). Negli anni successivi Irving è andato affermando, con toni sempre più accesi, che Hitler fosse all’oscuro dei piani di sterminio, almeno fino al 1943, attribuendone l’ideazione e la realizzazione ai suoi sottoposti. A corredo di queste dichiarazioni ha poi amplificato la rilevanza dell’inesistenza di documenti firmati dal dittatore tedesco in grado di comprovare inequivocabilmente la sua volontà di procedere al genocidio. In tale mancanza è andato progressivamente leggendo la ragione di una possibile negazione della Shoah. L’applicazione del principio per cui se non c’è un testo scritto che lo certifichi è improbabile, se non impossibile, che lo sterminio di Stato abbia avuto corso, trovava in Irving un autore particolarmente proclive. Il clamore delle sue tesi, avversate da studiosi come John Lukacs, Walter Laqueur, Gitta Sereny, Martin 40   David Irving, Hitler’s War, Hodden & Stoughton, London 1977. È stato tradotto in italiano nel 2001 per le edizioni Settimo Sigillo di Roma ed è ora disponibile con il titolo La guerra di Hitler, in due volumi per le Edizioni Clandestine, Marina di Massa 2010.

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Broszat, Lucy Dawidowicz, Gerard Fleming, Charles W. Sydnor e Eberhard Jäckel, lo avvicinò quindi ad alcuni circoli della destra radicale, nei quali aveva incontrato Gerhard Frey, editore della Deutsche Volksunion, che divenne ben presto il suo maggiore sostenitore economico nei tour di conferenze che egli andò facendo in Europa (finché alcuni paesi come l’Austria e l’Italia non gliene fecero esplicito divieto). Nel 1988 Irving testimoniò a favore del già citato neonazista e negazionista canadese Ernst Zündel, affermando in seguito che questi l’aveva convinto del fatto che l’Olocausto non avesse mai avuto luogo. Fece quindi proprie le conclusioni di Leuchter, anche se poi si distanziò da esse rilevandone le incongruenze tecniche41. A cominciare dall’inizio degli anni Novanta, Irving sviluppò quanto già implicitamente affermato in Hitler’s War: poiché non si trovava un ordine scritto del dittatore, ciò significava non solo che egli non ne sapeva nulla, ma che l’Olocausto stesso non aveva mai avuto luogo. Nell’edizione del libro del 1991 l’autore eliminò quindi ogni passaggio che si riferiva ai campi di sterminio tedeschi. La dose fu poi rincarata, giocando sul forte impatto mediatico del ‘personaggio Irving’, guru del suo verbo, con una lunga serie di iniziative pubbliche, a partire dalle conferenze, nel corso delle quali sempre più spesso si adoperò per fiancheggiare le posizioni negazioniste, considerando anch’egli tutta la questione dello sterminio come un modo da parte delle presunte vittime per avere delle buone compensazioni in denaro dalla Germania, paese al quale si sentiva molto vicino. Tra istrioneria e aggressività il saggista britannico iniziò a parlare di sé come di un «one-man Intifada», impegnato come un novello Davide nella lotta contro il Golia della storiografia ‘ufficiale’. Benché in genere pignolo nel ricorso alle fonti, ancorché tutte usate per avvalorare le sue tesi, l’autore sembrava essersi fatto prendere la mano dalle circostanze: al pari di Faurisson, probabilmente anche Irving era alla ricerca di un riscontro mediatico. La reputazione di Irving come saggista fu messa a dura prova dopo lo scoppio di una violenta polemica con la storica statunitense Deborah Lipstadt, alla quale seguì una causa per diffamazione 41   D.D. Guttenplan, Processo all’Olocausto, Corbaccio, Milano 2001 (ed. or., The Holocaust on Trial, Norton, New York 2001), pp. 128 e 169.

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intentata nel 1996 da Irving stesso contro la Lipstadt e l’editore Penguin Books. La Lipstadt, nel suo spesso citato Denying the Holocaust (1994), aveva definito Irving «negazionista» (denier) e «falsificatore» (falsifier), accusandolo di avere alterato le fonti o di averle deliberatamente ignorate quando queste non si attagliavano ai suoi pregiudizi. Nella sentenza – che rigettò la causa, dando torto al saggista inglese – la corte osservò che Irving stesso era un «attivo negatore dell’Olocausto», antisemita e razzista, nonché «associato con degli estremisti di destra che promuovono il neonazismo». Il giudice affermò anche che Irving aveva «per sue ragioni ideologiche continuativamente e deliberatamente manipolato e alterato l’evidenza storica; per le medesime ragioni aveva ritratto Hitler in un’ingiustificata luce favorevole, in particolar modo riguardo all’atteggiamento e alla responsabilità [da questi assunta] nel trattamento degli ebrei»42. Preziosa, nell’arrivare a questa conclusione, era stata la consulenza fornita alla corte dallo storico di Cambridge Richard Evans, che aveva messo in rilievo, con un’elaborata dissertazione, quali fossero le strategie argomentative alle quali Irving faceva ricorso nel suo lavoro43. Ne emergeva il ritratto di un uomo abituato al sensazionalismo, nel nome del quale aveva piegato, se non capovolto completamente, il significato delle fonti, cercando di avvalorare in tutti i modi possibili le sue tesi. Tra le procedure adottate Evans elencava il ricorso selettivo alla documentazione (enfatizzando quanto compiacente al suo disegno ed escludendo quanto invece dissonante); la decontestualizzazione delle citazioni; le traduzioni volutamente caduche nel tentativo di ‘aggiustare’ i testi di alcuni documenti. Questi e altri modi di procedere erano tipici dei negazionisti. Tale testimonianza risultò fondamentale per il giudizio del tribunale. Dopo le disavventure giudiziarie Irving, sempre più fagocitato dal ruolo di polemista, fu arrestato in Austria nel novembre 42   The Ruling against David Irving, estratto da High Court Judge Charles Gray’s Ruling, in «The Guardian», 11 aprile 2000. Sulle fasi dell’intero processo si veda Holocaust Denial on Trial: Irving v. Lipstadt. Transcript, Emory University, Atlanta, http://www.hdot.org/en/trial/transcripts. 43   Per una ricostruzione di prima mano si veda Richard Evans, Lying about Hitler: History, Holocaust, and the David Irving Trial, Basic Books, New York 2001.

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del 2005. Pochi mesi dopo, sottoposto a giudizio, fu riconosciuto colpevole di «aver esaltato ed essersi identificato con il partito nazista tedesco», reato che in Austria è punito secondo i dettami della legge sulla Verbotsgesetz. Gliene derivò una sentenza di condanna a tre anni di reclusione. Dopo essere rimasto in carcere per diversi mesi lo scrittore britannico fu infine scarcerato in seguito alla successiva sentenza della Corte d’Appello. Ai margini di queste vicende, maggiormente incuneato all’interno di un antigiudaismo tradizionalista, si inserisce l’atteggiamento tenuto dai cattolici tradizionalisti legati alla Fraternità San Pio X di monsignor Marcel Lefebvre, vescovo scismatico i cui seguaci sono stati solo recentemente reintegrati nella Chiesa romana. Il prelato tradizionalista, avverso agli esiti del Concilio Vaticano II, e quindi alla stessa dichiarazione Nostra aetate – dove si chiarisce l’atteggiamento cattolico nei confronti dell’ebraismo, delegittimando l’antisemitismo in quanto privo di fondamento teologico –, non indulgeva in alcuna forma di simpatia per gli ebrei, ma tuttavia non si hanno testimonianze di una sua qualche presa di posizione a favore del negazionismo44. Con le vicende dell’11 settembre del 2001 e l’affermarsi di una componente che legge quei fatti alla luce della teoria del complotto, il negazionismo olocaustico ha trovato però anche nel campo del cattolicesimo tradizionalista qualche addentellato, arrivando a coinvolgere pubblicamente uno dei vescovi della Fraternità, monsignor Richard Williamson. Questi, in un’intervista rilasciata al «Catholic Herald», ha affermato di non essere antisemita ma di non gradire «i nemici di Nostro Signore Gesù Cristo» e che «se gli ebrei [sono tali...] allora non mi piacciono». Williamson, riprendendo le teorie cospirative dell’inside job, ha inoltre dichiarato che gli attentati dell’11 settembre 2001 furono organizzati dai militari statunitensi per giustificare le invasioni di Afghanistan e Iraq. Rincarando la dose ha sostenuto l’autenticità dei Protocolli dei Savi di Sion, aggiungendo che gli ebrei stanno lottando per la dominazione mondiale, ossia «per preparare il trono dell’anticristo a

44   Il padre di monsignor Lefebvre, René, esponente della resistenza antinazista, era morto a seguito delle percosse subite nel campo di concentramento di Sonnenburg.

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Gerusalemme»45. In un’intervista rilasciata il 1º novembre 2008 e trasmessa dalla televisione di Stato svedese Williamson ha avuto modo di argomentare sull’inesistenza delle camere a gas, affermando che nei campi di concentramento nazisti fossero morti non più di 200mila o 300mila ebrei. 45   Nick Squires, Bishop Richard Williamson: Profile, in «Telegraph», 4 febbraio 2009.

4. Il negazionismo italiano 4.1. Una dottrina senza padri Il fenomeno negazionista in Italia ha avuto uno sviluppo piuttosto recente: le sue prime manifestazioni di un qualche significato risalgono a diversi anni di distanza dalle sue avvisaglie europee. Un fattore che ha inciso identitariamente è senz’altro il peso che il regime mussoliniano ha avuto nella costruzione di una distinta fisionomia neofascista, quest’ultima debitrice solo in parte delle suggestioni filonaziste così altrimenti ben diffuse in altri paesi. La matrice del Movimento sociale italiano, il partito legalitario che raccolse buona parte, anche se non la totalità, dei motivi espressi dall’area reducista, era scarsamente debitrice del lascito hitleriano, anche se non se ne poteva dire del tutto estranea. Il neofascismo italiano credeva di non doversi togliere di dosso la pesante eredità di Auschwitz poiché non la rivendicava, con l’eccezione di alcune frange del tutto minoritarie e politicamente inconsistenti. Pesava poi l’autoindulgenza, fenomeno a tutt’oggi diffuso, con il quale si giudicava sé stessi e le proprie condotte, tacendo la pesante connivenza e il tragico coinvolgimento degli organi della Repubblica sociale italiana, e delle sue amministrazioni, nella zelante opera di rastrellamento degli ebrei italiani messa in atto dalle autorità naziste a partire dal settembre del 1943. Il fatto che questa proclività si collegasse alle leggi razziali del 1938 non sembrava costituire elemento di imbarazzo. Più in generale, laddove venivano avanzate obiezioni sul merito delle corresponsabilità, si risolvevano i quesiti con il rimando alla diversità del razzismo italiano, informato a principi spirituali, di contro a quello tedesco, «materialista»

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poiché basato sul ricorso alla biologia. L’icona di Julius Evola, il filosofo di riferimento della destra radicale, è stata più volte evocata a riscontro di questo assunto, laddove le sue parole antiebraiche venivano usate per comprovare la sostanziale «diversità» italiana, declinata come un viatico di estraneità agli «eccessi» del «camerata germanico»1. In una sorta di dinamica autoassolutoria si intendeva così dire che era semmai proprio in virtù dell’impianto razzista mussoliniano che gli ebrei italiani conobbero sorte diversa, ovvero meno tragica, di quella dei correligionari europei. Tutta la letteratura neofascista del dopoguerra era quindi percorsa da un duplice affanno: quello del disinteresse, prima ancora che della rimozione, per il tema dello sterminio e, su un versante peraltro immediatamente speculare, quello dell’enfatizzazione della specificità italiana nella generazione del fascismo come modello e, con esso, della susseguente esperienza neofascista. Fatto, quest’ultimo, che nella logica di chi lo rendeva proprio avrebbe dovuto garantire il riparo dall’accusa di atrocità, imputabile in toto ai tedeschi. Elemento, tuttavia, che deliberatamente ometteva di affrontare il tema, invece assai corposo, della corresponsabilità. Giorgio Pisanò, colui che più e meglio di altri si dedicò a un’opera di sistematica rivisitazione del periodo saloino, non lesinò mai giudizi benevoli sulle condotte della propria parte al riguardo2, senza per questo negare l’evidenza dei fatti. Piuttosto quest’ultima, quando riguardava la deportazione razziale, era derubricata a dramma inserito in un più ampio contesto, quello dei massacri consumatisi nel corso del conflitto mondiale. Così, ad esempio, per un testo come Mussolini e gli ebrei (1967)3, dove si sosteneva, tra le altre, la tesi della benevolenza politica verso il sionismo palestinese e l’introduzione delle leggi razziali del 1938 come reazione all’adesione dell’ebraismo italiano all’antifascismo. Con un automatismo che permase poi come tratto distintivo in tutta l’area neofascista – tanto più dinanzi alle contestazioni di merito, che a partire dagli anni Settanta si fecero sempre più intense, sul con1   Francesco Cassata, A destra del fascismo. Profilo politico di Julius Evola, Bollati Boringhieri, Torino 2003. 2   Francesco Germinario, L’altra memoria. L’estrema destra, Salò e la Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1999. 3   Giorgio Pisanò, Mussolini e gli ebrei, Fpe, Milano 1967.

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corso del fascismo repubblicano nella realizzazione dei piani tedeschi di deportazione in Italia – si rispondeva evocando i crimini degli ‘altri’. Gulag, foibe, ma anche le condotte alleate in guerra divenivano il piano obliquo sul quale fare scorrere la discussione. Una strategia retorica, quest’ultima, che più che negare intendeva non riconoscere alcuna specificità storica alla Shoah. Negli anni Cinquanta e Sessanta il costituirsi di un’area esterna al Movimento sociale, composta da una piccola galassia di organizzazioni oltranziste come Ordine nuovo e Avanguardia nazionale, il cui retroterra ideologico era costituito non più dal regime mussoliniano bensì dal progetto di Nuovo ordine europeo, caldeggiato a suo tempo dal nazismo, non assorbì comunque il tema negazionista, pur non rimanendo indifferente all’influenza dell’antisemitismo più duro. Anche in questo caso predominò un movente diverso, legato alla banalizzazione, se non alla trivializzazione, dei trascorsi e, con essi, alla rimozione più che alla negazione. Non si trattava peraltro dell’espressione di una particolare mitezza verso gli ebrei ma di un’indifferenza che segnalava, per così dire, una sorta di sfasatura temporale della destra radicale nell’accesso all’agenda dei temi che andavano affermandosi invece in quel momento in Europa. Non di meno, va ricordato che l’attenzione per le specificità delle persecuzioni e le deportazioni subite dagli ebrei tardò ad affermarsi anche nella coscienza antifascista, essendo rubricata per molto tempo all’interno del più generale scenario di violenza che ebbe luogo nel nostro paese durante la guerra. Si preferiva, in una politica della memoria irrisolta, la centralità della deportazione politica, come stretto riflesso della lotta resistenziale. Con gli anni Sessanta, il periodo delle manifestazioni operaie, sindacali e studentesche, la stessa destra radicale andò progressivamente riattrezzandosi, con la consapevolezza di essere chiamata a svolgere una guerra di movimento contro i suoi avversari. Datano a quel periodo di tempo, quindi, le prime avvisaglie di un fenomeno che sarebbe divenuto senz’altro più corposo nei due decenni successivi, con la pubblicazione, nel 1963, di alcune pagine negazioniste per opera del Gruppo di Ar, che faceva capo a Franco Freda4.

4   Francesco Germinario, Estranei alla democrazia: negazionismo e antisemitismo nella destra radicale italiana, Bfs Editore, Pisa 2001, p. 67.

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Prevaleva su ogni genere di considerazioni il rimando all’insostenibilità materiale dello sterminio, in quanto economicamente poco o nulla vantaggioso per il regime nazista, impegnato in una guerra senza quartiere contro i suoi nemici e raffigurato come un Titano in lotta contro le forze nemiche. In tali suggestioni si manifestava ancora l’afflato militante che contraddistingueva le organizzazioni del radicalismo neofascista italiano, dove non si avvertiva nessun bisogno di giustificare la condotta tedesca, privilegiando a qualsiasi analisi, anche quella più compromissoria, la semplice esaltazione dello spirito guerriero e l’immediata identificazione con la milizia del «soldato politico»5. La stessa cosa può essere detta dell’uscita, un po’ di anni dopo, di La verità sul processo di Auschwitz di Paul Rassinier6, la raccolta dei suoi resoconti giornalistici sul processo di Francoforte del 1963 – evento, quest’ultimo, che aveva costituito un tornante fondamentale nella formazione di una coscienza europea sullo sterminio – e, in successione, dei due ‘classici’ dell’autore negazionista, La menzogna di Ulisse7 e Il dramma degli ebrei europei 8. Dall’introduzione nel mercato editoriale italiano, sia pure di nicchia, di questa letteratura derivò poco se non nulla alle organizzazioni neofasciste, che non avvertirono alcun bisogno di farne opera di diffusione né, tanto meno, oggetto di riflessione e produzione propria. I destini del negazionismo e quelli del neofascismo sembravano ancora essere separati nel nostro paese anche quando, dieci anni dopo, altri due volumi – quello di Richard Harwood, Auschwitz o della soluzione finale. Storia di una leggenda9, e quello di Léon Degrelle, intitolato Lettera al Papa sulla truffa di Auschwitz10 – furono a loro volta tradotti e distribuiti. Il primo saggio, utilizzando fonti naziste e antisemite, raccoglieva i temi sui quali la successiva pubblicistica avrebbe insistito ossessivamente. La condotta tedesca contro gli ebrei era attribuita alla «dichiarazione di guerra» che 5   Marco Revelli, I ‘nuovi proscritti’: appunti su alcuni temi culturali della ‘nuova destra’, in «Rivista di storia contemporanea», n. 1, 1983. 6   Jean-Pierre Bermont (pseudonimo di Paul Rassinier), La verità sul processo di Auschwitz, Quaderni di Ordine Nuovo, Roma 1965. 7   Le Rune, Milano 1966. 8   Edizioni Europa, Roma 1967. 9   Le Rune, Milano 1978. 10   Sentinella d’Italia, Monfalcone 1979.

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questi, per il tramite di Chaim Weizmann, presidente del Congresso mondiale ebraico, avrebbero rivolto contro la Germania il 5 settembre 1939; la prigionia nei campi di concentramento sarebbe quindi stata giustificata dai principi del diritto internazionale, in quanto gli ebrei avrebbero costituito di fatto parte di una potenza ostile; la deportazione nei Lager era considerata una misura provvisoria, motivata dall’ostilità degli ebrei medesimi, ovvero come risultato del fallimento dell’«operazione Madagascar» e in attesa di soluzione definitiva; il numero dei morti, tra i prigionieri, era molto più contenuto di quello poi dichiarato dai «sionisti» nel dopoguerra; buona parte d’essi erano peraltro deceduti non per volontà dei tedeschi ma per un involontario concorso di fattori, tra i quali i bombardamenti alleati (che non permettevano l’approvvigionamento dei campi e la necessaria opera di igiene e profilassi), la diffusione di malattie epidemiche, la situazione caotica ingeneratasi soprattutto negli ultimi mesi di guerra; non vi era poi nessuna prova documentale dell’esistenza delle camere a gas. Léon Degrelle si soffermava invece sul solo campo di Auschwitz, ridimensionandone drasticamente il numero dei decessi (non più di 50mila di contro al milione e centomila consensualmente stimati), negando con decisione la comprovabilità di qualsiasi gassazione e parificando la condizione dei prigionieri nei Lager a quella dei combattenti al fronte (con la significativa cancellazione della linea di divisione tra civili disarmati e militari). Harwood e Degrelle appartenevano tuttavia all’universo antisemita del neonazismo, e non nascondevano in alcun modo tale ascendenza, semmai vantandola come titolo di accreditamento rispetto al proprio pubblico. Forte era in questa logica di nicchia la denuncia della «truffa» che l’intero discorso sullo sterminio avrebbe costituito. Si trattava ancora una volta di una messa in scena, consumata ai danni della buona fede di popoli e nazioni che si vedevano così negati i diritti alla propria soggettività. Il rimando al «complotto mondialistico», quello in cui le razze sarebbero state distrutte dalla loro commistione, ibridazione e confusione, era lo sfondo di questi ragionamenti. Diverso fu invece il caso dell’ingresso sulla scena di Robert Faurisson e del «revisionismo olocaustico», laddove la spinta a neutralizzare le componenti più marcatamente ideologiche, quelle impresentabili a una platea più ampia, si fece preponderante. Tale strada risultò

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da subito essere l’unica percorribile per accreditarsi dinanzi alla comunità dei non iniziati. Da questo transito prende le mosse il negazionismo italiano, che riguarda la penultima stagione di quello continentale (ad essa poi, si sarebbe avvicendata e succeduta quella legata al fondamentalismo islamico), non prima, però, di un periodo di relativa indifferenza, dal momento che la fine degli anni Settanta corrispose per le organizzazioni della destra radicale a una fase di scollamento organizzativo e di stanchezza politica. Infatti tra il nascente negazionismo italiano e la destra politica il nesso, almeno in un primo tempo, non sembrò essere così diretto, nonostante l’opera di Cesare Saletta e Carlo Mattogno, due esponenti vivaci e prolifici. Il primo, di formazione marxista bordighista, è di fatto un esploratore, divulgatore e circuitatore delle tesi altrui. Il secondo, invece, è un personaggio più complesso, che aspira ad assurgere al ruolo di figura di primo piano del negazionismo tecnico. Cesare Saletta, affiancato poi da Andrea Chersi, di formazione situazionista (che curò la traduzione e la raccolta in volume11 di alcuni saggi di Robert Faurisson e Serge Thion, già usciti per la Vieille Taupe), avviò la riflessione sulle posizioni espresse da Paul Rassinier12, già nei primi anni Ottanta. Con uno scarto di contenuti significativo, tuttavia, poiché la concretezza dello sterminio non veniva negata ma, piuttosto, calata dentro i paradigmi oramai consolidati del negazionismo. In buona sostanza, si elencavano come dati incontrovertibili l’inesistenza delle camere a gas, l’inverosimiglianza o, peggio, la contraffazione delle testimonianze, la tendenziosità propria a «insostenibili interpretazioni di documenti, di manipolazioni di testi, di statistiche fantasiose, di illazioni o infondate o tutte da dimostrare su cui si era fondata la storiografia ufficiale»13. Lo sterminio vi fu ma non derivò da una chiara intenzione politica, volta palesemente in tal senso, quanto 11   Andrea Chersi (a cura di), Il caso Faurisson, Castenedolo (Brescia) 1981, poi ristampato nel volume a cura di Cesare Saletta, Il caso Faurisson e il revisionismo olocaustico, Graphos, Genova 1998. 12   Per valutare l’insieme delle posizioni di Cesare Saletta si veda il suo volume Per il revisionismo storico contro Vidal-Naquet, Graphos, Genova 1993. 13   Cesare Saletta, Prefazione a Per il revisionismo storico contro Vidal-Naquet cit., che contiene gli scritti degli anni precedenti in cui l’autore ebbe modo di mettere a fuoco la sua posizione.

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dall’evoluzione del sistema concentrazionario così come «dal caos che sommerse progressivamente il III Reich nel ’44-’45»14. Più in generale, il circuito dei Lager, nato con uno scopo peculiare, quello di sfruttare la forza-lavoro detenutavi schiavisticamente, si sarebbe poi trasformato, seguendo e assecondando l’evoluzione della guerra, e subendo con essa una progressiva perdita di razionalità interna, in qualcosa d’altro rispetto a ciò per cui era stato pensato, divenendo infine una macchina della morte. La lettura di Cesare Saletta cercava così di fare coesistere il dato di fatto dello sterminio con un’interpretazione che negava alla radice la funzionalità economica dei Vernichtungslager, i campi di sterminio, ribadendo invece la necessità, per il regime nazista, di quelli di concentramento, intesi come luoghi di brutale lavoro forzato (con relativo corredo di morti). Una rigida applicazione del modello deduttivo induceva questo autore a ritenere che l’insostenibilità non dello sterminio ma della sua esecuzione attraverso le camere a gas dovesse razionalmente derivare dal fatto che l’intera impresa nazista andava letta alla luce delle applicazioni di un modello marxista, che trovava nel determinismo economico il suo fondamento primo e ultimo. La devianza dei nazisti stessi da questo solco, causata dagli sviluppi del conflitto, aveva prodotto il disastro della morte in massa. Per Saletta il giudizio sul Terzo Reich era chiaro e netto, e senza attenuanti. Ma, non di meno, tale giudizio correva su un binario parallelo a quello sull’antifascismo, che Saletta tacciava di costitui­ re una sorta di linea d’interpretazione della realtà falsa e distorta. Men che meno una linea d’azione politica. Ad esso, rifacendosi ad Amadeo Bordiga15, veniva infatti imputato il peccato originale di costituire un’ideologia interclassista, prodotto dell’alleanza tra la Russia di Stalin, che aveva tradito la sua funzione di guida della rivoluzione mondiale, e le potenze imperiali occidentali. Tutte le obiezioni che il gruppuscolo della Vecchia Talpa aveva coltivato in Francia erano quindi recuperate integralmente. L’obiettivo era quello di distogliere il proletariato dalla sua vera missione, quella   Ibidem.   Amadeo Bordiga, Vae victis, Germania, in «Il programma comunista», n. 11, 1960, ora reperibile all’indirizzo web http://www.sinistra.net/lib/bas/progra/vama/vamahdebei.html. 14 15

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di rivoluzionare l’Europa e, in prospettiva, l’intero pianeta. Le camere a gas costituivano un «mito» di comodo, «su cui era stata costruita l’impalcatura teorica di un’ideologia reazionaria e interclassista, l’antifascismo, il quale aveva fornito una visione del nazismo appiattita su una centralità della Shoah che accantonava il problema storico delle radici di classe della dittatura nazista. La negazione della Shoah diveniva la premessa indispensabile per la critica di una ideologia, l’antifascismo, ritenuta reazionaria e antiproletaria»16. Tra gli elementi deboli dell’argomentazione di Saletta c’era senz’altro anche il fatto che le fonti alle quali si rifaceva fossero esclusivamente negazioniste. La storiografia era rifiutata in quanto inattendibile mentre le suggestioni alle quali si ancorava l’autore erano tutte mutuate dalla precedente libellistica: così per l’ipotesi dell’incidenza dell’elemento caos nella determinazione dell’alto numero di morti nei Lager, sulla scia di Harwood e Degrelle; non di meno per quel che concerneva il discorso relativo alla completa mancanza di sincerità, ovvero di legittimità, delle testimonianze. Più in generale la critica salettiana si rivelava subalterna all’insieme delle affermazioni e alle costruzioni argomentative del negazionismo della destra radicale, non cercando altra strada che non fosse l’applicare, con pedanteria, lo schema ideologico di un’ortodossia paleomarxista che si voleva, nelle intenzioni dei suoi sostenitori, di rigida osservanza bordighiana. L’elemento di quadratura del cerchio era infine costituito dal giudizio sullo Stato d’Israele, avversato nella sua esistenza in quanto prodotto per eccellenza dell’imperialismo occidentale, al quale si riannodava la critica al «mito dell’Olocausto». La demolizione di quest’ultimo avrebbe dovuto delegittimare il primo. Come oramai d’abitudine, allo Stato ebraico era attribuito un calcolo malizioso, quello di sfruttare la cattiva coscienza dell’Occidente riguardo allo sterminio per ricavarne un utile politico, un tornaconto diretto, usato per alimentare la sua politica, intrinsecamente colonialista, nei confronti dei palestinesi come, più in generale, di tutto il mondo arabo. Se l’ambizione finale era quella di costruire una coerenza tra parti diverse (il «mito» olocaustico; il suo uso per alimentare   Francesco Germinario, Estranei alla democrazia cit., p. 75.

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una vulgata antifascista reazionaria e vassalla del capitalismo; il ricorso alle camere a gas come a un’arma di ricatto per mettere i propri interlocutori con le spalle contro il muro; la traslazione di questa nel discorso mediorientale, dove Israele e il «sionismo» divengono le epitomi del male) l’esito finale era l’assunzione, nell’argomentazione corrente, dei costrutti provenienti dal microuniverso neonazista, gli unici che, paradossalmente, avessero una qualche coerenza, ovviamente non di ordine storiografico bensì politico. Una sorta di travaso, quindi, era l’effetto ultimo che Saletta otteneva. Suggello tangibile di questa traiettoria è stata l’esperienza della casa editrice Graphos di Genova17, il cui catalogo è andato progressivamente raccogliendo opere di taglio negazionista frammiste a testi di altra origine, a partire dalla raccolta degli scritti di Bordiga. L’elemento totemico era sempre di più la critica al «sionismo», inteso come la manifestazione politica di un certo tipo di ebraismo etnico e razzista, tanto capillarmente diffuso quanto tentacolare18. All’analisi di merito sul sionismo come fenomeno storico e culturale, sulle sue interne articolazioni, sulla dialettica che intratteneva con l’ebraismo così come con le culture politiche della sua epoca, si preferiva da subito una critica demolitrice. Da un lato si attribuiva al sionismo la responsabilità di avere interrotto il percorso d’integrazione degli ebrei nel tessuto delle società liberali avviatosi con il processo di emancipazione illuminista. Dall’altro gli si imputava di avere coltivato gli elementi etnici presenti nell’ebraismo per enfatizzarne la ‘separatezza’ dalle società circostanti. Da ciò, infine, si faceva derivare l’accusa più pesante, quella di costituire in sé un razzismo interfacciato, storicamente, con il nazismo, «due aspetti della medesima medaglia reazionaria, avendo entrambi interrotto il processo d’integrazione degli ebrei europei»19, il primo con la separazione civile, il secondo con la distruzione fisica.

  Il sito della casa editrice è www.graphosedizioni.it.   [Cesare Saletta], Sionismo e Medio Oriente. Israele, il sionismo, gli ebrei. Considerazioni sulla questione palestinese, Gruppo comunista internazionale autonomo, Milano 1984. 19   Francesco Germinario, Estranei alla democrazia cit., p. 79. 17 18

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4.2. Il bisogno di spiccare il volo: Carlo Mattogno Se questo era l’esito di una parte del negazionismo italiano, quello di ascendenza materialistico-storica, diverso era stato il discorso per l’area rimasta invece fedele alla destra radicale, la quale, come già si è avuto modo di osservare, fino alla fine degli anni Settanta aveva mantenuto una sostanziale indifferenza verso l’universo di affermazioni e atteggiamenti ‘antiolocaustici’. Il neo­ fascismo italiano sembrava ancora una volta volere così ribadire il dato di una sua conclamata diversità. La «questione ebraica» non entrava nell’agenda del radicalismo nero italiano, almeno non con la dirompenza presente in altri paesi. Nei primi anni Ottanta, inoltre, il lievitare del dibattito italiano intorno all’ipotesi di una Nuova destra, che si rifaceva alla Nouvelle droite francese20, aveva spostato l’asse della discussione, segnando una nuova stagione nei movimenti che si richiamavano a quell’area del radicalismo politico. La proposta politica che gli intellettuali e i militanti che ruotavano intorno al politologo Alain de Benoist, di cui Marco Tarchi fu il più vivace interlocutore nel nostro paese, e al Grece, il già ricordato Groupement de recherche et d’études pour la civilisation européenne, demandava infatti all’insostenibilità di quegli atteggiamenti che si alimentavano del mero nostalgismo per un passato che, se non era archiviato sul piano culturale, era tuttavia inteso come ben poco produttivo su quello politico. L’orizzonte al quale la Nuova destra intendeva rifarsi era quello di un trapasso generazionale, dove una parte dei modi di dire, fare e pensare che avevano caratterizzato l’ultrasinistra negli anni del suo maggiore successo erano ora presi in considerazione come oggetto di un qualche interesse. La Nuova destra era rigorosamente aliena da qualsiasi contaminazione con l’impostazione classista della sua controparte e tuttavia coglieva, con sempre minore timidezza, che con gli atteggiamenti ribellistici della gioventù sessantottina, ma anche di alcune componenti degli appartenenti al movimento del ’77, si poteva provare ad interloquire. Per più aspetti, tuttavia, il fenomeno del congedo dai vecchi pa20   Tra i molti testi usciti si veda quello curato da Marco Tarchi, La rivoluzione impossibile: dai Campi Hobbit alla Nuova Destra, Vallecchi, Firenze 2010.

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radigmi del neofascismo ne segnalava l’inabissamento di qualsiasi progetto politico, riconoscendone la non praticabilità in società a democrazia matura. La Nuova destra investiva così nell’ambito culturale, altrimenti definito «metapolitico», le sue risorse. In tal modo si adoperava per saccheggiare dal campo avversario quanto risultasse più utile alla costruzione di una propria originale fisionomia. Non a caso si è parlato di un «gramscismo di destra». Al di là della concreta parabola di quest’area di pensiero che, tra le altre cose, registrava e commentava il feroce e tragico declino di quei segmenti del radicalismo di destra che si erano consegnati al terrorismo come il segno dell’impotenza ribellistica di un’intera generazione, rimaneva il fatto che i temi di ‘cassetta’ del vecchio neofascismo e del neonazismo, a partire dall’antisemitismo sterminazionista, le risultavano a loro volta estranei. Semmai, per de Benoist ed altri si poneva il problema di dare corpo ad un’ipotesi differenzialista, dove il fulcro della riflessione verteva sulla possibile coesistenza, nella medesima società, di gruppi e comunità caratterizzati da specificità culturali alternative. Nei primi anni Ottanta la pubblicazione di un pamphlet di Thies Christophersen, La fandonia di Auschwitz21, in cui erano raccolti anche articoli di neonazisti scritti almeno un paio decenni prima, e nel quale si ripercorrevano le accuse più viete e consunte, ottenne ancora una volta scarsa risonanza. Peraltro il testo dell’autore, anch’egli un nazista, che raccoglieva una serie di lugubri e inverosimili affermazioni, vantando una propria esperienza diretta nel Lager in terra polacca, in qualità di agronomo, divenne l’involontario punto di transito da un’epoca, inauguratasi con il dopoguerra e contraddistinta da quella sostanziale indifferenza della destra radicale italiana di cui si andava dicendo, a una nuova stagione, a tutt’oggi aperta. Dal negazionismo inteso come atteggiamento di supporto e sostegno ideologico al vecchio milieu filonazista si stava passando in Italia, anche sulla scorta della ricezione di Faurisson, ad altro. È in quest’ambito che entra il gioco la figura di Carlo Mattogno, il maggiore autore del «negazionismo tecnico». Nato nel 1951, Mattogno inizia a conoscere la ribalta pubblica a metà degli anni

21   Thies Christophersen, La fandonia di Auschwitz, La Sfinge, Parma 1984 (ed. or., Die Auschwitz Lüge: ein Erlebnisbericht, Kritik-Verlag, Mohrkirch 1973).

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Ottanta quando pubblica una serie di opuscoli e di saggi presso case editrici della destra radicale22. I primi di essi datano al 1985: Il Rapporto Gerstein: anatomia di un falso; La Risiera di San Sabba: un falso grossolano e soprattutto Il mito dello sterminio ebraico. Vengono pubblicati dalla Sentinella d’Italia, casa editrice il cui catalogo tradisce inequivocabili ascendenze neofasciste. L’anno successivo Mattogno pubblica per le Edizioni La Sfinge di Parma due brevi testi, di una trentina di pagine l’uno, Auschwitz: due false testimonianze e Auschwitz: un caso di plagio, il primo uscito in gennaio, il secondo in febbraio. Pierre Vidal-Naquet lo definisce un «fascista dichiarato»23. Insieme al fratello Gian Pio avvia inoltre una collaborazione con la rivista «Orion», periodico della destra radicale italiana. Buona parte delle sue opere sono però disponibili sul web, che è divenuto il vero terreno elettivo di questo autore. Dal 1988 Mattogno è membro dell’Editorial Advisory Committee dell’Ihr, contribuendo inoltre alla redazione del trimestrale «Vierteljahreshefte für freie Geschichtsforschung» (Quaderni trimestrali di libera ricerca storica)24, collegato al Vrij Historisch Onderzoek, organizzazione dell’estremismo belga. Attraverso la sua attività di conferenziere ha consolidato l’immagine di autore polemico e fuori dai ranghi. Se i primi saggi si rifanno alla pubblicistica negazionista più collaudata, adottandone stili e contenuti, con la pubblicazione nel 1985 del volume su Il mito dello sterminio ebraico25 Mattogno non redige solo una rassegna pressoché completa della produzione negazionista, della quale può vantare una conoscenza millimetrica, ma si produce anche in «un’abile sintesi di tutto l’universo argomentativo passato e recente del negazionismo»26. Ancora una volta, in questa come in altre opere, ne sono presi in

  Un inquadramento biografico è quello offerto dal sito www.revisionist.

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com.

  Pierre Vidal-Naquet, Gli assassini della memoria: saggi sul revisionismo e la Shoah, Viella, Roma 2008 (ed. or., Les assassins de la mémoire: ‘un Eichman de papier’ et autres essais sur le révisionnisme, La Découverte, Paris 1987), nota 65, p. 159. 24   Gli indici e una parte degli articoli si trovano all’indirizzo http://vho. org/VffG/. 25   Carlo Mattogno, Il mito dello sterminio ebraico. Introduzione storico-bibliografica alla storiografia revisionista, Sentinella d’Italia, Monfalcone 1985. 26   Francesco Germinario, Estranei alla democrazia cit., p. 82. 23

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considerazione tutti i maggiori capisaldi. Viene negata qualsiasi intenzionalità sterminazionista da parte della Germania di Hitler e, sebbene si riconosca l’esistenza dei Lager, di essi si dice che siano stati luoghi di concentramento, lavoro, prigionia e transito non diversi da quelli istituiti in altri paesi o in diverse circostanze storiche dove comunque le condizioni di guerra obbligavano il belligerante a un trattamento coatto di parte della popolazione civile. Si trattava di procedere all’evacuazione di persone ritenute pericolose o incompatibili con la sicurezza del paese nel quale si trovavano. Nei confronti degli ebrei, espliciti oppositori del regime nazista, il Terzo Reich si sarebbe adoperato nel senso di incentivarne l’emigrazione. Da questo quadro storico, supportato secondo Mattogno dall’inesistenza di prove documentarie in senso alternativo, deriverebbe l’inesistenza dell’Olocausto, frutto – quest’ultimo – di affermazioni di taglio propagandistico, messe in circolazione dagli stessi ebrei e riprese, nel corso del tempo, dai sovietici e dagli Alleati. Le prove addotte a riscontro dello sterminio sarebbero il prodotto di manipolazioni, testimonianze estorte o false, letture tendenziose di documenti tedeschi e così via. Più in generale, si sarebbe creato un consenso mondiale sulla «leggenda dell’Olocausto», una sorta di tabù, alimentato da interessi anche diversi ma convergenti nel rendere insondabile e indiscutibile una ricostruzione di parte presentata come la verità storica. Il «revisionismo olocaustico», costituito e difeso da pochi, coraggiosi ricercatori, sarebbe quindi la vittima di una vera e propria congiura del silenzio. Fin qui, come si avrà avuto modo di osservare, nulla d’inedito. Tuttavia Mattogno è assai meno grossolano di quanto non possa sembrare, qualora ovviamente non ci si fermi a questi soli primi riscontri di cornice. Un lettore critico e informato come Jean-Claude Pressac27 ha riconosciuto non il valore analitico della sua ricerca quanto la problematicità che solleva, quasi come una sfida sul merito dell’interpretazione della grande messe di fonti e dati. Ciò che di Mattogno viene rigettata è la coerenza che egli 27   Intervistato da Valérie Igounet, Pressac rileva il fatto che «un italiano come Carlo Mattogno è diventato incontestabilmente il migliore ricercatore di parte revisionistica» (Entretien avec Jean-Claude Pressac, in Valérie Igounet, Histoire du négationnisme en France, Seuil, Paris 2000, p. 642).

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vuole attribuire a questi ultimi quando ad essi conferisce un segno esattamente opposto a ciò che la loro lettura contestualizzata invece offre. Già alla fine degli anni Settanta Mattogno aveva compiuto visite ai campi di Auschwitz-Birkenau, Stutthof, Dachau, Gusen, Mauthausen, Gross-Rosen, Buchenwald, LublinoMajdanek, Płaszów, Bełżec, Treblinka, Terezin e Sobibor. Così almeno a dare credito alle notizie disponibili su di lui nel web28. L’acribia documentaria lo avrebbe quindi indotto a consultare numerosi archivi soffermandosi, soprattutto nelle sue prime opere (1985-1995), sulla critica delle testimonianze relative alle modalità di sterminio degli ebrei tramite la gassazione. Di esse Mattogno propende a mettere in rilievo le incongruenze e le contraddizioni, pervenendo infine a dichiararne l’inattendibilità. Un altro caposaldo delle sue argomentazioni demanda alla impossibilità tecnica per i forni crematori costruiti nei luoghi di sterminio di procedere all’incinerazione della grande massa di deportati. Non di meno il saggista ritiene irrealizzabili le cremazioni di cadaveri avvenute nelle fosse e nelle aree adibite a tale funzione nei Vernichtungslager. Nessuna delle sue argomentazioni ha ottenuto cittadinanza da parte della storiografia, mentre risposte di merito gli sono state fornite da alcuni studiosi come l’americano John C. Zimmerman29 o l’italiano Francesco Rotondi30. In sintesi il criterio utilizzato da Mattogno, «con notevole coerenza tematica»31, si rifà alla procedura inaugurata da Faurisson e divenuta l’intelaiatura concettuale del negazionismo di nuovo conio, basata su alcuni passaggi: 1. la repentina e immediata confutazione delle testimonianze. Le si prende in considerazione unicamente per porre in rilievo ed enfatizzare le discrasie che possono offrire a una lettura del loro contenuto nel medesimo tempo ‘letterale’ e decontestualizzata. In tale modo esse perdono vita, ovvero quella sostanza che le fa essere concreto deposito mnestico, per divenire calco assoluto sul quale misurare non l’aderenza dei dettagli in esse raccolte (relativi 28   Si veda anche alla voce biografica pubblicata su Wikipedia, http:// it.wikipedia.org/wiki/Carlo_Mattogno. 29   John C. Zimmerman, Holocaust Denial: Demographics, Testimonies and Ideologies, University Press of America, Lanham (MD) 2000. 30   Nel già citato Luna di miele ad Auschwitz, alle pp. 105-120. 31   Francesco Germinario, Estranei alla democrazia cit., p. 83.

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all’esperienza personale) al più generale evento al quale si riannodano (la deportazione e lo sterminio) bensì per definire il secondo impossibile in virtù delle eventuali incongruenze dei primi; 2. l’immediata proiezione del giudizio di inaderenza, inadeguatezza o addirittura di falsità del deposito testimoniale al giudizio di fatto sull’esistenza del sistema dello sterminio, che viene così destituita di fondamento senza ulteriori indagini. Se il singolo tassello della testimonianza non regge, è l’intera architettura dell’Olocausto a franare; 3. il rinvio ossessivo alla documentazione cartacea come all’indice di principio sul quale misurare la sostenibilità dell’interpretazione dei processi storici. Il principio che sembra valere è quello per cui ‘carta canta’, ma le note che questa produce sono sempre e solo quelle in sintonia con l’interpretazione negazionista. Quest’ultima però ribadisce: laddove non c’è carta non c’è fatto storico; 4. la banalizzazione sistematica degli aspetti peggiori del regime di terrore nazista e fascista; la riduzione, se non la cancellazione, della specificità di quel sistema di oppressione; la noncuranza con la quale è considerato il discorso razzista, che è al cuore del progetto hitleriano e che viene condiviso in toto dai fascismi europei, nel nome di una apoliticità che mentre sembra volere dire che la ‘verità’ non ha colore politico, fa sì che si proceda alla cancellazione dell’evidenza delle responsabilità politiche stesse, quando queste sono – o diventano – incontrovertibili. Così lo stesso Mattogno può affermare che «l’accusa di nazismo che troppo spesso e troppo sconsideratamente viene rivolta ai revisionisti, è pertanto un semplice espediente per screditare le loro argomentazioni e scaturisce da un principio metodologico chiaramente aberrante: quello secondo il quale la veridicità o la falsità di un’argomentazione dipende essenzialmente dal colore politico o ideologico di chi lo sostiene»32. Ancora una volta, il richiamo alla neutralità ideologica della ricerca serve per paralizzare a priori i risultati della medesima, quasi che la formulazione di un corretto giudizio di fatto non dovesse in alcun modo permettere di pervenire a un giudizio di valore. Anche in questo caso agisce 32   Carlo Mattogno, La soluzione finale. Problemi e polemiche, Edizioni di Ar, Padova 1991, p. 174.

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un cortocircuito che antepone gli esiti alle premesse, formulando un veto preventivo a ogni riscontro sgradevole (ossia non in linea con la propria impostazione ideologica), ridotto per l’appunto alla stregua di un ‘pregiudizio’. Nel negazionismo tecnico il discorso sulle responsabilità storiche, comprovate dalle evidenze, si annacqua e trascolora in un’affermazione di fondo opaca poiché, per l’appunto, banalizzante: dal momento che nessuno è in linea di principio innocente, nessuno in fondo è pienamente colpevole. L’azione paralizzante sulla questione della lettura e dell’interpretazione delle fonti serve propriamente a questo. 5. La polemica, non meno ripetuta, nella sua ossessività, contro la storiografia33: è questo un nodo fondamentale, forse il punto più problematico dell’agire negazionista, poiché cerca incessantemente di obbligare gli storici di professione, derubricati al rango di sostenitori di una tesi caduca e incerta da comprovare, a difendersi dalla denigrazione gratuita. Può trattarsi di grossolani attacchi – accuse di malafede, d’incompetenza, d’ignoranza, di dilettantismo, di superficialità ma anche di intolleranza – così come di una ben più sottile operazione di demolizione della credibilità di un’oramai infinita quantità di studi. Ancora una volta ci troviamo di fronte a un ‘gioco degli specchi’, dove la demolizione del senso di una parola ne riflette immediatamente un’altra, mentre l’enfasi polemica su di un aspetto viene ricondotta a un attacco sistematico verso qualsiasi affermazione non in linea con le proprie aspettative ideologiche, in una concatenazione infinita di rimandi il cui obiettivo è di accumulare perplessità e scetticismi in maniera crescente, per poi giungere alla dichiarazione di un anatema non solo contro la storiografia ma contro la stessa storia, accusata di esistere come menzogna. Alla disamina ‘scientista’ (l’ossessiva concentrazione su ogni particolare di alcune documentazioni, a discapito di una contestualizzazione di merito) si lega così un atteggiamento di pregiudizio conclamato verso tutto quello che è il prodotto di un accordo della comunità scientifica sul comune passato. Il fatto stesso che sussista questa concordia, pur nella diversità delle accezioni, viene presentato come un elemento da valutare 33   Carlo Mattogno, Olocausto: dilettanti allo sbaraglio, Edizioni di Ar, Padova 1996.

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con sospetto preventivo, trattandosi di un inganno ai danni della collettività. Il transito verso gli atteggiamenti paranoici è breve e si consuma come esito calcolato, in quanto prodotto di una nuova e diversa razionalità, quella del complotto: gli storici continuerebbero a nascondere la verità poiché essi sarebbero parte in una vera e propria congiura dell’ignoranza; 6. a Mattogno è stata attribuita «una completa estraneità al metodo d’indagine storiografica»34. Gli viene contestato, ad esempio, l’aver dichiarato che il confronto tra le diverse scuole di interpretazione, che sono andate definendosi in questi decenni rispetto allo studio dello sterminio, sia il segno dell’incapacità di pronunciarsi sul suo «aspetto fondamentale [...], la genesi della decisione e le conseguenze»35. Il dibattito storiografico sulla natura del crimine di massa, tanto più acceso poiché quell’oggetto è al centro dell’identità novecentesca, viene così risolto da Mattogno nella negazione dell’esistenza dell’oggetto medesimo: se ne discute così tanto perché non lo si trova, ovvero non esiste. Altrimenti, se ci fosse stato, ci sarebbe stata un’intesa preventiva e definitiva, senza tante discussioni di corredo. Questo falso sillogismo si lega e si sovrappone, in una sorta di reciprocità paradossale – in quanto ribaltata – di cui spesso il negazionismo si nutre argomentativamente, a quello precedente, per il quale il fatto che la comunità degli storici sia d’accordo sull’esistenza del crimine è di per sé il chiaro segno di una falsificazione. Gli storici si dicono d’accordo sullo sterminio, senza presentarne le prove. Ma le prove, se sono esibite, sono costituite sempre da fonti adulterate e manipolate. Vale l’uno come l’altro caso: se non c’è accordo è perché non c’è mai stato quel crimine di cui tanto si parla; se c’è accordo è perché si è creato un sodalizio della menzogna. Ergo, in tutti i casi, nulla è avvenuto. 4.3. Nuovi orizzonti Tra la seconda metà degli anni Ottanta e il decennio successivo in Italia lievita il numero di pubblicazioni, perlopiù opuscoli, che

  Francesco Germinario, Estranei alla democrazia cit., p. 83.   Carlo Mattogno, La soluzione finale cit., p. 47.

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recuperano il tracciato negazionista di radice neonazista. Più in generale, è l’intero ambiente della destra radicale ad essere coinvolto da una discussione sulle proprie radici36. La quale rimanda, sullo sfondo, alle difficoltà sempre più evidenti del paradigma antifascista nel far fronte ai mutamenti in corso nella società italiana, al declino del progetto «metapolitico» della Nuova destra ma anche al consolidarsi di una egemonia subculturale, prima ancora che politica, che trova nello spostamento del baricentro a destra dell’asse politico del paese il punto di sintesi37. La quasi totalità dei testi che vengono così offerti al lettore italiano trova posto nel catalogo delle case editrici di area, dalla padovana Ar di Franco Freda, passando per la monfalconese Sentinella d’Italia e la parmense La Sfinge, fino ad arrivare alla genovese Graphos di Saletta, quest’ultima invece di osservanza bordighiana. Vengono recuperate e tradotte opere come il volume di Ditlieb Felderer, Il diario di Anna Frank: una frode38, ma più in generale la rinnovata vulgata si raccorda al ritorno di fiamma sui temi della Seconda guerra mondiale. Si tratta di una reviviscenza che rinnova, di riflesso, l’attenzione sul vecchio negazionismo, prima maniera. Le riviste «Orion» e «Avanguardia», entrambe concepite come lo strumento di comunicazione e formazione di quella che si vuole una «comunità militante», sia pure con accenti diversi, si dedicano ad accreditare il discorso negazionista. Ad esse si affianca poi «l’Uomo libero» di Piero Sella. Carlo Mattogno collabora alla prima, quella più intensamente impegnata in un’elaborazione autonoma di merito39. Sul periodico di Sella, aperto a contaminazioni d’area, ovvero al confronto tra le diverse anime della destra radicale, compaiono, tra le altre, le firme di Jürgen Graf e del medesimo Mattogno. Una parte di questi autori troverà poi occasionale udienza nel quotidiano «Rinascita», diretto da Ugo Gaudenzi, espressione di quella che si   Francesco Germinario, L’altra memoria cit.   Valgono ancora oggi le considerazioni di Francesco Biscione, Il sommerso della Repubblica: la democrazia italiana e la crisi dell’antifascismo, Bollati Boringhieri, Torino 2003. 38   Ditlieb Felderer, Il diario di Anna Frank: una frode, La Sfinge, Parma 1990 (ed. or., Anne Frank’s Diary: A Hoax?, Institute for Historical Review, Torrance 1978). 39   Con due rubriche, «Sterminazionismo» e «Controstoria». 36 37

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autodefinisce come la «sinistra nazionale»40. Ma siamo qui già in un territorio per molti versi nuovo, poiché costituisce l’ambito di raccordo tra i vecchi filoni del negazionismo e ciò che negli ultimi due decenni ha avuto modo di definirsi e strutturarsi come rifiuto da destra della globalizzazione, intesa come manifestazione concreta del «mondialismo». Un’ultima considerazione su un capitolo che nel momento stesso in cui si apre segna anche la parziale conclusione di qualcosa che è già stato, poiché fa da tramite tra quel che è passato e quanto sta per subentrare. L’interesse per l’Olocausto, ovvero per la sua negazione, rinnova l’attenzione spasmodica per l’ebraismo in quanto regista occulto dei processi di finanziarizzazione dell’economia che dagli anni Ottanta attraversano le società del pianeta. L’accusa che più frequentemente viene levata contro ciò che è chiamato «sionismo» (espressione che sempre più spesso si accompagna a «giudaismo internazionale» o «ebraismo cosmopolita», termini che convergono e concordano nel definire gli ebrei come parte di una massoneria diffusa e ramificata a livello planetario) non è solo quella di muovere le pedine nello scacchiere mondiale per proprio diretto tornaconto economico. Dietro di esso ci sarebbe la volontà di dare corso a un disegno di ibridazione e meticciato culturale che starebbe travolgendo le comunità locali. Il fantasma che viene evocato, sotto diversi nomi – uno dei più richiamati è quello della cosiddetta «americanizzazione» –, è l’omologazione socioculturale, intesa come distruzione della diversità etnica, linguistica, culturale, storica e intellettuale. Dietro a questo processo di distruzione sistematica delle diversità ci sarebbe una volontà precisa. Questo terreno di illazioni si rivela particolarmente fertile e promettente poiché diventa il luogo di incontro tra sensibilità che non necessariamente nascono dal medesimo ambiente, quello  Così recita il suo «manifesto» costitutivo: «Libero da una informazione univoca mediatica di stampo ed interesse filoamericano, ‘Rinascita’ è apartitico e laico, lontano da interessi partitici di destra e di sinistra e da gruppi ed ambienti ad essi legati. Da 12 anni il quotidiano ‘Rinascita’ è la voce di chi vuole una informazione disinteressata, vera e pura, e di chi ricerca un’identità nazionale ed europea svincolata dalle lobbies e dai giochi di potere, da un capitalismo e da una globalizzazione che hanno frammentato progressivamente e ridotto ai minimi le potenzialità sociali e ci hanno costretti ad una crisi mondiale, economica e politica, irreversibile». 40

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della destra, ma che possono senz’altro trovare dei comuni denominatori. Il nesso che viene stabilito tra il «mito dell’Olocausto» e l’azione contro i palestinesi dello Stato d’Israele – oggetto quest’ultimo di un biasimo che mette in discussione la ragione storica della sua stessa esistenza – diventa l’anello di saldatura che permette di riabilitare sotto nuove spoglie l’antisemitismo di antica data, rinnovandolo verso oggetti di avversione più presentabili, ovvero meno direttamente identificabili con quel pregiudizio criminale che è all’origine dello sterminio.

5. Il negazionismo nei paesi arabi e musulmani 5.1. Nuovi approdi, vecchi rancori Con gli anni Novanta si apre la quarta stagione del negazionismo: dopo l’apologetica neonazista, la deriva pseudobordighiana e il ‘revisionismo tecnico’, si perviene infine all’accusa definitiva contro lo Stato d’Israele. La Shoah sarebbe un prodotto dei «sionisti», l’invenzione di uno strumento ideologico con il quale ricattare l’Occidente e il mondo intero per ottenere i peggiori benefici, derivanti dalla politica di persecuzione dei palestinesi e, più in generale, dei musulmani. Non sono temi nuovi ma assumono una valenza pressoché esclusiva. È l’intero ebraismo, ancora una volta, ad essere messo sotto il vaglio di spietate e inappellabili accuse che rimandano, come corollario, alla vocazione egemonica che esso esprimerebbe, volendo controllare il mondo intero. Non è un caso se a sostenere queste asserzioni, che si rifanno al più vieto antisemitismo, siano quei movimenti populisti e fondamentalisti che trovano nell’islamismo radicale un ancoraggio ideologico così come una forte leva di proselitismo sociale. Il negazionismo nel mondo arabo, pur intrecciandosi nel corso del tempo con i filoni tematici sviluppatisi in Occidente, ha goduto tuttavia di uno sviluppo autonomo, alimentando e accreditando essenzialmente la polemica antisionista. Di fatto, l’evoluzione del conflitto arabo-israeliano prima, e le tensioni legate al confronto con i palestinesi poi, hanno costituito il terreno più fertile nella maturazione di un atteggiamento di negazione, di volta in volta sempre più strutturato e argomentato, fino a divenire, come nel caso dell’Iran di questi anni, un’ideologia di Stato.

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Quattro fasi caratterizzano la parabola della sua ricezione nel mondo arabo e musulmano. Un periodo iniziale, che arriva fino all’inizio degli anni Cinquanta, con gli accordi di Cipro, che definiscono le linee armistiziali entro le quali si sviluppa il nuovo Stato d’Israele. Durante questa prima fase la polemica negazionista ha un ruolo marginale ed è prevalentemente usata come elemento di corredo nell’argomentare il rifiuto all’esistenza della nuova comunità politica ebraica. Gli echi della simpatia che una parte delle élites arabe avevano espresso nei confronti del nazismo, inteso sia come movimento anticolonialista che come filosofia organica del mondo, assimilabile ad alcuni aspetti dell’islamismo, si riflettono sulla polemica politica di matrice antisionista, piegandosi alle esigenze di quest’ultima. A questa fase ne segue una successiva, che accompagna gli anni Cinquanta e Sessanta, fortemente connotata dall’investimento sui temi terzomondisti e anticolonialisti. Sono gli anni della definitiva strutturazione del sistema degli Stati nazionali arabi così come oggi li conosciamo. Da ciò deriva la denuncia della presenza d’Israe­ le come espressione diretta degli interessi occidentali, in quanto retaggio attivo del colonialismo. La matrice etnica dello Stato d’Israele viene intesa come riscontro decisivo della volontà di sopraffazione, attribuita sia a un esplicito calcolo politico, di cui i gruppi dirigenti israeliani sono depositari, sia alla natura ebraica stessa, intesa – secondo i clichés antisemiti – come intrinsecamente predatoria. Si tratta di un fenomeno di sovrapposizione, quello che avviene nei due decenni dell’indipendenza africana e mediorientale, dove per progressivi slittamenti si passa all’accostamento prima e all’unione poi tra alcune concezioni anticoloniali e determinati atteggiamenti antisemiti. In quest’ottica, che ovviamente riguarda solo una parte dei processi e dei protagonisti di quegli anni, la polemica negazionista serve a sgombrare il campo dalle pretese di legittimazione d’Israele. Significativo è in questo caso il ruolo del nazionalismo panarabo di Nasser, il leader politico che meglio di altri aveva inteso come la mobilitazione delle popolazioni passasse attraverso il richiamo galvanizzante a un mito in grado di tenere unite comunità altrimenti diverse. Si è tuttavia ancora su un piano per cui, pur recependo le istanze disumanizzanti che connotano l’antisemitismo occidentale e, di riflesso, il

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negazionismo, il vero obiettivo rimane Israele più che i singoli ebrei. Proprio per l’impatto mediatico del processo Eichmann in Occidente, insieme alla sua risonanza morale, sembrò in quella circostanza diffondersi l’idea che il paradigma negazionista fosse l’unica possibile strada per impedire risolutamente ogni residua legittimazione alle ragioni dei «sionisti». Il passaggio successivo si registra con gli anni Settanta, parallelamente all’affermarsi del nuovo negazionismo nei paesi europei. Data a quell’epoca la trasposizione e la progressiva acquisizione delle argomentazioni degli autori negazionisti, i quali non sono più intesi come l’espressione di una destra che in sé aveva anche i caratteri del suprematismo bianco, ma come parte di un più ampio universo politico, e quindi più prossimi agli interessi del mondo arabo. La quarta e ultima fase si ha con l’intensificazione, che si registra a partire dalla fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, della pubblicazione e della diffusione di una libellistica sempre più ampia, di matrice apertamente antisemita, dove i motivi negazionisti sono attivamente incorporati. Va notato che a questo punto «l’intensificazione del tema negazionista nel discorso arabo sull’Olocausto era per più aspetti una ‘immagine specchio’ della crescente importanza dell’Olocausto nell’identità collettiva israeliana e nel dibattito culturale e politico occidentale»1. Da sempre il fuoco del negazionismo arabo è la delegittimazione totale dei fondamenti morali delle pretese sioniste. Il sionismo, secondo questo approccio, si baserebbe su una serie di miti completamente infondati, quindi sulla deliberata propensione a distorcere, a proprio favore, la realtà dei fatti. Più in generale, la creazione di una mitografia olocaustica è funzionale ad alimentare la politica di ricatto economico, ma anche politico, che da sempre Israele promuove nei confronti dei paesi occidentali, a partire dalla Germania, ingiustamente obbligata a pagare compensazioni finanziarie per colpe che non ha mai avuto. Non di meno, la versione lacrimosa che gli ebrei hanno fornito alla comunità internazionale della propria recente storia costituisce il puntello essen1   Meir Litvak, Esther Webman, From Empathy to Denial: Arab Responses to the Holocaust, Hurst & Company, London 2009, p. 156.

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ziale della credibilità dello Stato ebraico, altrimenti messo a nudo nella sua inconsistente ragione storica. Il nesso tra «menzogna» dell’Olocausto e nascita d’Israele è quindi diretto e immediato, la prima alimentando e accreditando la falsa necessità del secondo. Tuttavia il ricorso a tale contraffazione non si sarebbe esaurito con gli anni del consolidamento dello Stato ma è proseguito fino ad oggi, con il tentativo di continuare a estorcere denaro agli occidentali. Più in generale, a partire dagli anni Ottanta, alcuni pubblicisti arabi hanno denunciato il fatto che il ricorso al tema del genocidio sia risultato funzionale alle classi dirigenti israeliane per rinnovare il consenso della popolazione ebraica verso le loro politiche, tacitando qualsiasi voce critica con la paura che esso potesse ripetersi. In questo genere di impostazione del discorso ideologico da parte araba è entrata in gioco anche la competizione per lo statuto di vittime, un vero e proprio capitale politico oggi più che mai ambito. Sottrarre a Israele la capacità di autorappresentarsi come la comunità politica che si è fatta carico del dolorosissimo lascito della Shoah implica non solo il depotenziarne la legittimazione nel consesso internazionale ma anche lo spostare su di sé la raffigurazione di autentiche vittime della storia. Nello specifico delle vicende del conflitto arabo-israeliano conta poi la dissonanza, a tutt’oggi irrisolta, tra la consapevolezza collettiva della debolezza ebraica durante gli anni del nazismo in Europa e la capacità, dimostrata nel 1948 per parte sionista, di vincere il conflitto che si era combattuto al momento della nascita d’Israele. All’esigenza di riflettere e analizzare l’evoluzione degli eventi e le discrasie che l’intervento congiunto dei paesi arabi aveva evidenziato, portando poi alla sconfitta sul terreno di battaglia, si è così sostituita una narrazione basata sul complotto, sulla manipolazione, sulla distorsione che gli ebrei, in accordo con la loro antica indole, avrebbero ordito a proprio favore2, ribaltando dietro le quinte il rapporto di forze sul campo. La sconfitta andrebbe imputata quindi non alla debolezza operativa e alla discordante politica araba, bensì alle mene segrete dei sionisti. Suggestione,   Emmanuel Sivan, Mythes politiques arabes, Fayard, Paris 1995, capitoli

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quest’ultima, che ha trovato ampi riscontri con il diffondersi delle visioni semplificatorie della storia che si sono accompagnate all’incapacità di interpretarne la complessità dei fatti. Le teorie cospirative e complottistiche hanno infatti colmato questo vuoto3. La nuova disfatta araba del 1967, nella guerra dei Sei giorni, ha infine rafforzato tale impostazione di fondo. A tutt’oggi, tuttavia, il riferimento alla dimensione coloniale e all’«egemonia imperialistica occidentale» rimane un elemento centrale nel discorso negazionista arabomusulmano. Le accuse rivolte contro la condotta delle potenze alleate durante la Seconda guerra mondiale, alle quali vengono imputati crimini pari o superiori a quelli commessi dai nazisti, si riannodano al forte risentimento nutrito nei confronti dei paesi occidentali. A questi, e alle loro politiche, è attribuita la responsabilità dei problemi nei quali si trovano i popoli arabi. Non di meno gli si imputa anche una deliberata sottovalutazione delle sofferenze subite dalle popolazioni così come un cinismo manipolatorio di cui la «leggenda dell’Olocausto» sarebbe parte fondamentale, per tacitare anticipatamente ogni legittima rivendicazione. Da ciò deriva quindi il fatto che elementi negazionisti appaiano, a volte anche solo in maniera dissimulata, un po’ in tutti i discorsi politici del mondo arabomusulmano, interessando l’intero spettro delle forze presenti, dai movimenti islamisti fino alla sinistra laica più radicale. L’insofferenza per il discorso ‘occidentale’ sulla Shoah si trasforma in rivendicazione della propria sofferenza e in strumento di verbalizzazione del senso dell’impotenza. Va inoltre aggiunto che i presupposti del negazionismo nel mondo arabo-islamico non coincidono con quelli praticati in Europa. Come già si è avuto modo di osservare, il ventaglio delle motivazioni è, in questo secondo caso, riconducibile al bisogno, a destra, di depurare il nazismo degli elementi più intollerabili; a sinistra, invece, c’è la necessità di denunciare l’Olocausto come un diversivo rispetto ai veri crimini del capitalismo o, comunque, di ricondurlo alle logiche produttivistiche di questo; nei paesi dell’Est, infine, si cerca di ridare una verginità storica e morale al collaborazionismo. 3   Daniel Pipes, The Hidden Hand: Middle East Fears of Conspiracy, Palgrave MacMillan, New York 1996.

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Nel caso degli autori arabi è raro che ci si imbatta con simpatizzanti dei nazisti. Gli obiettivi sono e rimangono il sionismo e Israele, il primo in quanto «dottrina razzista», il secondo come entità politica abusiva. In Occidente, come sappiamo, molti negazionisti sono razzisti. Ad essi è interdetto l’accesso ai più importanti mezzi di comunicazione, potendo semmai contare su network privati, quando ne hanno le risorse. Non di meno le loro posizioni non hanno riscontro sul piano accademico e sono fatte oggetto, in molti paesi, di severe sanzioni penali. Nei paesi arabi le cose vanno ben diversamente. Più che di singoli autori è bene parlare di un diffuso atteggiamento, che trova facile riscontro, nonché immediata ospitalità, nei centri di studio e ricerca, così come ascolto e ricezione il negazionismo ottiene dalle autorità istituzionali e politiche, dalle televisioni e dai più diffusi mezzi di comunicazione. Si tratta quindi di un circuito ampio e variegato, con un elevato grado di legittimazione e una buona capacità di influenzare e orientare il dibattito pubblico. Molti tra coloro che fanno proprie le posizioni negazioniste professano peraltro un netto antirazzismo, disconoscendo però la radice fortemente pregiudiziosa del negazionismo europeo. In sintesi il negazionismo, anche nel mondo arabomusulmano, non nasce dall’ignoranza dei fatti. Si tratta piuttosto di una rilettura selettiva, fortemente ideologizzata, della storia, soprattutto di quella derivante dalle fonti occidentali. Delle quali quasi sempre si ha a disposizione la vasta produzione storiografica sulla Shoah, verso cui si nutre un’indifferenza che a volte si tramuta in aperta ostilità, poiché questa non collima con i propri costrutti ideologici. 5.2. Un universo a sé Un esempio significativo dell’acquisizione dei motivi di fondo del negazionismo è il volume L’altro lato: il rapporto oscuro tra nazismo e sionismo, di Mahmoud Abbas (meglio conosciuto come Abu Mazen)4, presidente dal gennaio del 2005 dell’Autorità nazionale palestinese. Nel 1982 presentò e discusse la sua tesi di 4   al-Wajh al-Akhar: al-’Alaqat as-Sirriya bayna an-Naziya wa’s-Sihyuniya, Dar Ibn Rushd, Amman 1984.

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dottorato, intitolata The Connection between the Nazis and the Leaders of the Zionist Movement, all’Istituto per gli studi orientali dell’Accademia sovietica delle scienze. Da questo testo è tratto il libro che due anni dopo venne dato alle stampe in Giordania. Gli indirizzi di fondo di L’altro lato mettono in discussione il numero di morti causato dal genocidio nazista, ritenendo la cifra di 6 milioni una deliberata esagerazione. Ai «sionisti» viene inoltre imputata la responsabilità di avere creato «un mito» riguardo alle dimensioni della tragedia, interessati com’erano, peraltro, ad alimentare le violenze contro i correligionari europei per consolidare la propria posizione politica nella Palestina mandataria. Di fatto il movimento sionista avrebbe quindi preso parte alla campagna d’odio contro gli ebrei nella speranza di ricavarne un vantaggio. Un altro passaggio critico sul quale Abbas ritorna è l’heskem haavara, l’«accordo di trasferimento»5 che fu stipulato il 25 agosto 1933 tra la Federazione sionista tedesca, la Banca anglo-palestinese (un organismo dell’Agenzia ebraica, che presiedeva allo sviluppo dell’insediamento ebraico nella Palestina sotto il mandato britannico) e le autorità economiche della Germania nazista. L’oggetto dell’accordo era l’agevolazione dell’emigrazione ebraica dalla Germania verso la Palestina. Affinché ciò avvenisse ai migranti veniva richiesto di lasciare nella madrepatria buona parte dei loro averi, che sarebbero poi stati trasferiti come beni 5   Si veda al riguardo di Francis R. Nicosia, The Third Reich and Palestine Question, Transaction Publisher, Piscataway 1985; Avraham Barkai, German Interests in the Haavara-Transfer Agreement 1933-1939, in «Yearbook of the Leo Baeck Institute», n. 35, 1990, pp. 245-266; Edwin Black, The Transfer Agreement: The Dramatic Story of the Pact Between the Third Reich and Jewish Palestine, Brookline Books, Northampton 1999; Werner Feilchenfeld, Dolf Michaelis, Ludwig Pinner, Haavara-Transfer nach Palästina und Einwanderung deutscher Juden 1933-1939, Leo Baeck Institut, Tübingen 1972; Tom Segev, Il settimo milione. Come l’Olocausto ha segnato la storia d’Israele, Mondadori, Milano 2001 (ed. ingl., The Seventh Million: The Israelis and the Holocaust, Picador, London 2000); David Yisraeli, The Third Reich and the Transfer Agreement, in «Journal of Contemporary History», n. 6, 1972, pp. 129-148; R. Melka, Nazi Germany and the Palestine Question, in «Middle Eastern Studies», vol. 5, n. 3, ottobre 1969, pp. 221-233; Hava Eshkoli-Wagman, Yishuv Zionism: Its Attitude to Nazism and the Third Reich Reconsidered, in «Modern Judaism», vol. 19, n. 1, febbraio 1999, pp. 21-40; Klaus Poleken, The Secret Contacts: Zionism and Nazi Germany 1933-1941, in «Journal of Palestine Studies», vol. 5, n. 3-4, primaveraestate 1976, pp. 54-82.

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di esportazione tedeschi. Nella libellistica contro Israele non è infrequente che tale contratto venga additato come la concreta dimostrazione di una collusione con il nazismo: l’interesse che quest’ultimo aveva di rendere i territori della Germania liberi dalla presenza di ebrei si sarebbe incontrato con quelli del movimento sionista per l’accelerazione dell’immigrazione, anche dinanzi all’ostilità degli inglesi, preoccupati di dover far fronte a un repentino mutamento degli equilibri demografici. Inoltre, il libro di Abbas cita erroneamente Raul Hilberg, attribuendogli l’affermazione per la quale il numero delle vittime dell’Olocausto fu inferiore al milione6 e rimanda alle tesi di Robert Faurisson sull’inesistenza delle camere a gas7. L’autore ha poi parzialmente rivisto le sue precedenti affermazioni: nel 2003, divenuto Primo ministro palestinese, intervistato dal quotidiano israeliano «Haaretz» disse che «l’Olocausto fu un terribile, imperdonabile crimine contro la nazione ebraica, un crimine contro l’umanità che non può essere accettato»8. Al «New York Times» dichiarò: «quando scrissi L’altro lato [...] eravamo in guerra con Israele. Oggi non ripeterei quelle affermazioni»9. Gli anni Ottanta segnano il mondo arabo, dal momento che gli autori negazionisti europei e americani vengono tradotti10 e progressivamente acquisiti nella polemica politica quotidiana contro Israele. Le critiche si muovono su due binari paralleli: da un lato si imputa al movimento sionista la corresponsabilità nell’ideazione e nella promozione delle violenze naziste contro gli ebrei tedeschi 6   Rafael Medoff, A Holocaust-Denier as Prime Minister of «Palestine»?, The David S. Wyman Institute for Holocaust Studies, http://www.wymaninstitute. org/articles/2003-03-denier.php. 7   Harold Brackman, Aaron Breitbart, Holocaust Denial’s Assault on Memory: Precursor to Twenty-First Century Genocide, Simon Wiesenthal Center, Los Angeles 2007, p. 11, http://www.wiesenthal.com/atf/cf/%7BDFD2AAC12ADE-428A-9263-35234229D8D8%7D/DENIAL_REPORT.PDF, così come Efraim Karsh, Arafat’s War: The Man and his Struggle for Israeli Conquest, Grove Press, New York 2003, p. 98 e Stephen E. Atkins, Holocaust Denial as an International Movement, Praeger Publisher, Westport 2009, p. 214. 8   Akiva Eldar, Interview with Mahmoud Abbas, in «Haaretz», 28 maggio 2003. 9   Greg Myre, Soft-Spoken but Not Afraid to Voice Opinions, in «New York Times», 11 marzo 2003. 10   Ad esempio, Faurisson viene pubblicato in lingua araba a Beirut nel 1988.

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ed europei; dall’altro si riafferma quello che è oramai divenuto una sorta di articolo di fede, ovvero che il numero delle vittime è stato di molto esagerato e che quanto meno una parte dei massacri e dei crimini tedeschi sono una deliberata invenzione11, ad uso strettamente propagandistico. Gli anni Novanta, invece, si contraddistinguono per una maggiore produzione in loco di testi e volumi negazionisti12. Il mutamento, con l’autonomizzazione di autori e argomenti da quella che è la vulgata euroamericana, risponde alla crescente attenzione che molti paesi occidentali ripongono nella storia della Shoah, sempre più spesso intesa come evento periodizzante nelle vicende continentali e, di immediato riflesso, simbolo morale. Ancora una volta l’atteggiamento negazionista diventa così il terreno dove si misura una saldatura tra il timore che Israele possa beneficiare di questa ondata ‘emotiva’ e il radicato risentimento contro l’Occidente ‘colonialista’. Sintesi dei temi di fondo del negazionismo arabo è il testo di Muhammad Nimr Madani, Gli ebrei sono stati bruciati [burned] nelle camere a gas?13, dove vengono ripresi i capisaldi delle argomentazioni in materia, a partire dalla collaborazione tra sionisti e nazisti per arrivare all’accusa, rivolta alle potenze alleate, di essere i veri criminali di guerra. Rifacendosi agli autori più noti in ambito occidentale, e in particolare a Faurisson, Leuchter, Roques e Garaudy, ai quali viene attribuito un lavoro meticoloso e di elevata caratura scientifica, Madani sposta da subito l’obiettivo polemico verso Israele. La consapevolezza è che c’è una connessione diretta tra negazione e delegittimazione e su ciò va fatto ruotare tutto il discorso storico. Da questo punto di vista, vi era un legame diretto tra la «soluzione finale del problema ebraico» voluta dai nazisti e l’intenzione sionista di trasferire tutti gli ebrei in Palestina: si trattava di una convergenza di obiettivi che fu supportata da un accordo di lungo corso che avrebbe dovuto tradurre in fatti l’emigrazione ebraica. Il legame tra il nazionalsocialismo e l’ebraismo si consumò durante la guerra, quando il primo fu accusato, in   Meir Litvak, Esther Webman, From Emphaty to Denial cit., p. 167.   Un primo elenco è quello che si può trovare in Meir Litvak, Esther Webman, From Emphaty to Denial cit., alla nota 51 di p. 170. 13   Muhammad Nimr Madani, Hal uhriqa al-yahud fi afran al-ghaz?, Damasco 1996. 11 12

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maniera falsa, di volere distruggere il secondo. Se è vero che gli ebrei finirono nei Lager, l’evidenza documentaria dimostrerebbe tuttavia che essi non vi furono massacrati ma piuttosto vennero sfruttati attraverso il lavoro per le industrie di armamenti, al pari di tutti gli altri prigionieri. Non vi fu quindi uno sterminio preordinato mentre non di meno, nel dopoguerra, gli ebrei godettero di un periodo di prosperità e sviluppo, come la nascita dello Stato d’Israele si è incaricata di dimostrare. A queste premesse si riallaccia anche un altro tema di fondo, ovvero quello dell’inesistenza di un ordine scritto da parte di Hitler che disponesse l’eliminazione fisica in massa degli ebrei, così come di una documentazione incontrovertibile sull’intenzione di procedere in tal senso da parte delle autorità naziste. Le conclusioni che da ciò si traggono è che l’assenza di documenti, così come la derubricazione di quelli esistenti a materiale privo di valore, costituiscano un riscontro dell’impossibilità di un crimine di tale genere. Sulla falsariga degli autori occidentali, ciò che di quel passato è rimasto come evidenza di fatto è liquidato come falso, manipolato o comunque non pertinente. Non è del tutto infrequente che la letteratura araba attribuisca agli storici e agli studiosi della Shoah false affermazioni, soprattutto nel merito del numero delle vittime. Come abbiamo ricordato, già nella sua tesi di dottorato Mahmoud Abbas attribuiva a Raul Hilberg la cifra di 896mila ebrei deceduti quando questi, nella sua monumentale ricerca su La distruzione degli ebrei d’Europa, ha stimato che il numero effettivo di assassinati sia stato di circa 5 milioni e centomila. Nello stesso modo Madani si adopera per attenuare i numeri, nel caso di Hilberg ridotti a un milione, di Léon Poliakov a 2 milioni e di Lucy Dawidowicz a un milione e mezzo14. Questa discutibile disinvoltura con la quale certi autori si muovono non ha rispondenze con l’atteggiamento fatto proprio nei paesi occidentali quando si parla di numeri, dove le citazioni, ancorché fatte in chiave polemica e quasi sempre decontestualizzata, sono in genere scelte in modo attento per non stravolgere il contenuto letterale dell’altrui scrittura. Non di meno, più che la palese falsificazione a volte è la distorsione del significato di   Meir Litvak, Esther Webman, From Emphaty to Denial cit., p. 174.

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certi eventi, o per meglio dire la loro alterazione attraverso la sovrapposizione, ad essere usata come mezzo per la contestazione dell’evidenza fattuale. Per cercare di confutare la funzione dei forni crematori, quella di eliminare i cadaveri di circa 3 milioni di ebrei assassinati nei campi di sterminio, Rafiq Shakir Natshe cita il caso in cui, dopo la morte di 30mila civili tedeschi, uccisi dagli Alleati nel bombardamento di Monaco di Baviera nell’autunno del 1944, il cardinale Michael von Faulhaber chiese alle autorità di cremare i corpi a Dachau, ricevendo una risposta negativa poiché la potenza dell’unico forno del campo era del tutto insufficiente a far fronte a un numero così esorbitante. Da ciò Natshe ha ricavato il convincimento che, per similitudine logica, fosse tecnicamente e praticamente insostenibile l’affermazione che attribuiva ai Lager nazisti la capacità di distruggere tutti i cadaveri che si diceva fossero passati per i forni crematori, giudicandola pertanto infondata15. Ciò che tale autore trascurava di valutare, però, è che Dachau era un Konzentrazionslager e non un campo di sterminio, come invece quelli costruiti nei territori polacchi occupati dall’esercito tedesco. Chi conosce la storia dell’universo concentrazionario, e il suo sviluppo omicida nel corso della Seconda guerra mondiale, sa bene quali siano le differenze di destinazione sussistenti tra un capo di concentramento e uno di sterminio, e quindi la diversa natura delle installazioni. Le vie della semplificazione, della banalizzazione e della decontestualizzazione sono, a ben vedere, quelle che meglio si confanno ai negazionisti arabi, i quali vivono la polemica di riflesso poiché l’hanno recepita dagli autori occidentali. Sia le fonti storiografiche che quelle negazioniste sono derivate dall’Europa e dagli Stati Uniti. Di proprio c’è quasi sempre solo la rimaneggiatura dei testi altrui. Nessuna ricerca di un qualche valore scientifico è stata fatta, considerando lo sterminio materia di mera polemica. Un altro pubblicista, Nasr Shimali, riconosce l’esistenza di Auschwitz in quanto campo di lavoro forzato ma ne nega la funzione sterminazionista. All’interno di questo costrutto inserisce una 15   Rafiq Shakir Natshe, Al-Isti‘mar wa-filastin: isra’il mashru ‘isti‘mari, Amman 1984.

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serie di considerazioni, partendo dall’implicito presupposto che l’Olocausto sia un falso. Il trasferimento in massa degli ebrei nel Lager in terra polacca avvenne dopo la loro sollevazione armata nel ghetto di Varsavia, consumatasi nell’aprile-maggio del 1943, afferma del tutto erroneamente l’autore. A quell’epoca, invece, il grosso della popolazione del ghetto, che nel suo complesso ammontava in origine a circa mezzo milione di persone, era già stata deportata e assassinata a Treblinka, campo di sterminio operativo tra il luglio del 1942 e il primo autunno del 1943, quando cessò le sue funzioni. Di ciò nulla dice Shimali. Piuttosto si sofferma sul fatto che la ribellione, la cui origine e ragione non sono raccontate, costrinse i tedeschi al trasferimento coatto della popolazione, poiché essa danneggiava lo sforzo bellico germanico. Ai deportati fu garantita una prigionia dignitosa in un campo di lavoro. Auschwitz-Birkenau, il luogo dello sterminio sistematico, viene riletto come un sito dove trovavano ricovero persone anziane, ammalate o debilitate. I bambini seguivano i familiari adulti poiché era volontà dei tedeschi non separare le famiglie16. Se Hitler si macchiò di crimini di guerra, concede Shimali, non c’è tuttavia nessun indizio per affermare che abbia ordinato lo sterminio degli ebrei. I quali, per inciso, furono perseguitati non per la loro appartenenza razziale bensì solo quando si opposero al regime. Tale tipo di approccio rivela quindi la sua intelaiatura: non si tratta tanto di attenuare le colpe del nazismo, da molti visto come un oggetto lontano, comunque sostanzialmente estraneo alle dinamiche mediorientali, quanto di impedire al «sionismo» di legittimarsi dinanzi al tribunale della storia. La mistificazione del passato che si compirebbe con la «menzogna di Auschwitz» è immediatamente attribuibile all’inconfessabile bisogno che Israele ha di dotarsi di un’aureola vittimistica, per rafforzarsi nella sua perenne lotta contro gli arabi così come per tacitare i critici delle sue condotte criminali. In altre parole, obbligare i propri interlocutori a rendere ossessivo omaggio a uno sterminio tanto terribile quanto inesistente serve a impedire ai medesimi di vedere un presente invece concretamente tragico, quello dei palestinesi e, 16   Nasr Shimali, al-Fariq bayna mu’askar abu ghurayb wa-mu’askar Aushwitz, www.voltairenet.org/article136329.html.

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più in generale, delle genti mediorientali, ancora sottoposte agli effetti di lungo periodo del tallone coloniale e imperialista. Entra in questa logica il riferimento, che spesso si accompagna nella pubblicistica araba, al fatto che i comportamenti degli israeliani e degli americani siano assimilabili, senza soluzione di continuità, a quelli dei nazisti. Una banalizzazione, quest’ultima, che ha un forte riscontro nei giudizi di senso comune e che trova molti addentellati nelle facili associazioni di idee tra la condizione odierna delle aree di conflitto e i luoghi della morte di settanta e più anni fa. Un caso per tutti è l’accostamento tra la Striscia di Gaza e il ghetto ebraico di Varsavia17. Nell’enfatizzare ogni elemento che possa accreditare la tesi dell’insussistenza del genocidio degli ebrei i negazionisti arabi, al pari dei loro colleghi europei e americani, rifiutano le ammissioni di colpevolezza da parte dei carnefici laddove queste sono state raccolte. È quello che fa lo scrittore saudita Abdallah Kahtany18, per il quale le prove dello sterminio ad Auschwitz si ridurrebbero alle confessioni del comandante del campo Rudolf Höss, poi giustiziato dai polacchi nell’aprile del 1947. Le sue affermazioni, così come quelle dei suoi omologhi, sarebbero viziate a priori dal fatto di essere state rese sotto tortura o comunque in condizioni di forte coazione. Non è infrequente che si faccia poi ricorso sia ad affermazioni palesemente fantasiose che a dichiarazioni contraddittorie. Rientrano nel primo caso i richiami alla teoria del complotto, soprattutto in ambito islamista, dove sono più esacerbati i toni antiebraici. La scomparsa delle comunità ebraiche europee, tra il 1941 e il 1945, viene così attribuita agli ebrei medesimi che, dopo avere ordito lo scoppio della Seconda guerra mondiale, avrebbero fatto sì che i loro correligionari potessero riparare negli Stati Uniti, nella Palestina mandataria e in altri paesi19. Nel secondo caso i medesimi autori, come ad esempio Rafiq Natshe o Kamal Sa‘fan20, 17   Tra i tanti esempi possibili, che proprio nella pubblicistica occidentale trovano il loro fondamento, si veda Steve Hutcheson in http://www.arabnews. com/node/309445, versione italiana in http://www.comedonchisciotte.org/site /modules.php?name=News&file=article&sid=4362. 18   Abdallah Kahtany, Zionism, Riyad 2000. 19   Sa‘id Banaja, Nazra hawla al-mu’amarat al-duwaliyya al-yahudiyya wa-asl al-thawrat, Beirut 1985. 20   Kamal Sa‘fan, Al-Yahud: ta’rikh wa-‘aqida, Cairo 1988.

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nello stesso testo accusano gli ebrei di essersi inventati uno sterminio inesistente ma poi imputano agli ebrei stessi, in accordo con i nazisti, il concorso nella sua materiale realizzazione. Anche Muhammad Daud, del «Syria Times», convinto che l’Olocausto sia una menzogna, attribuisce ai «sionisti» la volontà di impedire l’ingresso degli ebrei in Palestina, facendo sì che essi fossero così catturati ed eliminati dai tedeschi21. Comunque lo si voglia leggere, il negazionismo arabo è fenomeno nel medesimo tempo diffuso ed eterogeneo. Più che ambire a un qualche statuto scientifico, esso può vantare un buon insediamento nel giudizio di senso comune, che concorre ad alimentare costantemente con le sue affermazioni. Da questo punto di vista, si pone poco o nulla il problema di una coerenza del suo discorso, cercando piuttosto di intercettare e orientare la discussione pubblica che, per sua natura, non risponde a un genere di consenso che si rifaccia a rigidi criteri epistemologici né a riscontri oggettivi. Il caso più significativo di negazionismo è tuttavia quello offerto dalle attività di Ahmed Rami, il personaggio forse più importante nello stabilire e nel coltivare contatti e intermediazioni tra mondo arabo e società occidentale. Di origine marocchina, nato nel 1946, dopo avere prestato servizio nell’esercito come ufficiale, nel 1973 ottenne asilo politico in Svezia in quanto compartecipe di un tentativo di rovesciamento di re Hassan II. Nel 1987, usufruendo delle possibilità offertegli dal circuito radiofonico svedese, iniziò a trasmettere Radio Islam, un programma, sostenuto finanziariamente dai governi della Libia e dell’Iran, che avrebbe dovuto rivolgersi al pubblico musulmano del paese. I contenuti, fortemente focalizzati sugli ebrei, gli attirarono ben presto l’accusa di condurre trasmissioni di natura antisemita. Tale giudizio fu rafforzato dalla pubblicazione di un suo volume del 1988, Vad är Israel? (Cos’è Israele?). Nel 1990 fu condannato a sei mesi per avere tenuto in pubblico discorsi incitanti all’odio razziale. Le trasmissioni di Radio Islam furono sospese per un anno, per poi essere riprese da un altro conduttore, anch’egli successivamente accusato e condannato per lo stesso reato. Tali vicende valsero a   Muhammad Daud, in «Syria Times», 6 settembre 200.

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Rami una certa notorietà nell’universo underground dei gruppi negazionisti; da ciò derivarono gli inviti a tenere incontri e conferenze in Europa, Canada e Stati Uniti. Già nel dicembre del 1991 Rami era entrato definitivamente in contatto con l’Institute for Historical Review, trovando un terreno d’intesa su quella che era una vera e propria piattaforma ideologica, basata sulla denuncia dell’Olocausto come mito sionista, sulla necessità di liberare le società occidentali dalla dominazione ebraica e sul sostegno alla lotta palestinese. Il tentativo, nel 1992, di dare corso a Stoccolma a un’assise antisionista internazionale, con la partecipazione dei nomi di spicco del negazionismo, fu però impedito dal clamore suscitato dall’iniziativa. L’anno successivo Rami divenne corrispondente del periodico del partito egiziano di opposizione «al-‘Amal» (La speranza), che nel corso degli anni Ottanta aveva fatto proprie le posizioni dei gruppi islamisti. In tale veste si occupò di intervistare Faurisson per la testata. Nel 1996, dopo un periodo di sospensione di tre anni, Rami tornò a condurre Radio Islam, dopo aver fondato un sito con lo stesso nome22, molto attivo, tradotto in una decina di lingue. Le vicende giudiziarie continuarono: Rami venne condannato ancora nel 2000 da una corte svedese e quindi ulteriormente investigato dalle autorità giudiziarie di quel paese e della Francia per il ruolo nella gestione del sito web, senza però che potessero venirgli attribuite specifiche e dirette responsabilità in merito ai contenuti del sito23. Quel che è certo è che Rami ha raccolto nel corso del tempo un buon accredito nei circoli della destra radicale svedese, che hanno diffuso i suoi libri, tra i quali Israels makt i Sverige (Il potere d’Israele in Svezia, del 1989), Judisk häxprocess i Sverige (Caccia ebraica alla strega in Svezia, del 1990) e Tabubelagda tankar (Pensieri interdetti, del 2005). Nel 2000 Rami, in accordo con l’Institute for Historical Review, aveva sostenuto l’impegno di Jürgen Graf affinché si tenesse a Beirut (e successivamente ad Amman, in Giordania), sotto gli auspici del movimento islamista Hezbollah, una conferenza internazionale dei negazionisti, vietata dal governo libanese dopo le molte pressioni internazionali in tal   www.radioislam.org.   Harold Brackman, Aaron Breitbart, Holocaust Denial’s Assault on Memory cit. 22 23

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senso. Nelle intenzioni degli organizzatori l’assise avrebbe dovuto aprire le porte del mondo arabo ai negazionisti, un incontro da sponde diverse, quest’ultimo, fortemente voluto non solo da Rami ma anche da altri personaggi, tra i quali Issa Nakhleh, avvocato palestinese residente negli Stati Uniti, estensore di una Encyclopaedia of the Palestinian Problem24 nonché di un memorandum rivolto all’allora presidente americano Ronald Reagan nel quale lo invitava a mutare radicalmente la politica nei confronti d’Israele25. Ahmed Rami si è ripetutamente contraddistinto per la sua attività di divulgatore delle affermazioni negazioniste, evidentemente confidando nel fatto che il mondo arabo costituisca a tutt’oggi il terreno più fertile per la loro diffusione. Non di meno l’auspicio di quanti, tra i negazionisti, non si rifanno a un atteggiamento preventivamente islamofobico (tra quelli di estrazione razzista la diffidenza è invece fortissima) era e rimane quello di uno scambio nei due sensi. Durante la Prima guerra del Golfo, tra il 1990 e il 1991, alcuni gruppi neonazisti si impegnarono infatti nel dare corso a proteste insieme ad appartenenti a movimenti islamisti in alcune città europee. Tuttavia, l’ideologia di riferimento costituisce un vincolo difficilmente superabile, anche se l’antisemitismo rimane il terreno comune sul quale futuri tentativi potranno ancora essere praticati. 5.3. Tra rappresentazioni e manipolazioni Oltre alla libellistica, al web e ai rapporti politici, più o meno fruttuosi, un altro fronte di intervento è il cinema che, come vettore di comunicazione, ha un forte impatto popolare. Nei paesi arabomusulmani la diffusione di pellicole che fanno riferimento alla Shoah è spesso sottoposta a molti vincoli. L’introiezione del convincimento che ciò possa giovare alla causa sionista è fatto diffuso anche tra le stesse autorità. Benché queste non si spingano 24   Issa Nakhleh, Encyclopaedia of the Palestinian Problem, Intercontinental Books, New York 1991, ora anche all’indirizzo http://www.palestine-encyclopedia.com. 25   Issa Nakhleh, Memorandum to the President, in «The Journal of Historical Review», vol. 3, n. 3, 1982.

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a sostenere l’inesistenza del genocidio degli ebrei, tuttavia attuano un forte controllo sulle immagini. La nota miniserie televisiva Holocaust, prodotta in quattro episodi e messa in onda per la prima volta dalla NBC nel 1978, è stata variamente giudicata ma non sono mancati accenni nettamente critici nei suoi confronti. Oltre a mettere in rilievo il fatto che si tratta di un’opera di fantasia, c’è chi ha voluto leggere in essa un tentativo di dare fiato alla propaganda israeliana. L’equazione tra ebrei e Israele è pressoché immediata in questi casi. E ne hanno quindi fatto le spese altri film, tra cui La scelta di Sophie (1982) di Alan Pakula, Shoah (1985) di Claude Lanzmann e Schindler’s List (1993) di Steven Spielberg, quest’ultimo vietato in diversi paesi arabi, tra i quali l’Egitto, per le molte «scene di violenza e seduzione». In quest’ultimo caso, dinanzi al grosso successo di pubblico e di critica negli Stati Uniti e in Europa, le polemiche sono state particolarmente accese. Mentre l’«Egyptian Gazette» ha descritto la pellicola come uno strumento per accreditare le pretese sioniste sulla terra palestinese, altri si sono invece soffermati sul rischio che, attraverso una versione pietistica e lacrimosa della loro storia, gli ebrei tentino di plasmare la coscienza collettiva con l’acquiescenza altrui26. L’uscita del film di Spielberg originò peraltro una forte ondata di polemiche, non a caso concomitante al fatto che in quei mesi l’Organizzazione per la liberazione della Palestina e lo Stato d’Israele stavano per arrivare a un accordo, che si sperava definitivo, per la soluzione del conflitto territoriale tra le due comunità nazionali. Significativa, tra le altre prese di posizione, fu quella assunta da «Filastin al-Muslima», l’organo ufficiale del movimento islamista Hamas, ben radicato a Gaza e in alcune aree della Cis­ giordania, che attribuiva al regista americano l’abilità manipolatoria di unire insieme verità a falsificazione. La critica non si spingeva a rifiutare in toto il passato ma metteva in evidenza come il ricordo di quei trascorsi, condotto con abilità e maestria, fosse funzionale a perpetrare il potere di Israele e, di riflesso, degli ebrei. Più in generale, riprendendo così un tema ricorrente, che è parte della più generale teoria del complotto così com’è andata definendosi 26   Una rassegna di queste affermazioni è fornita da Dina Porat e Roni Stauber (a cura di), Anti-Semitism Worldwide. 1994, Tel Aviv University, Tel Aviv 1995.

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dalla seconda metà dell’Ottocento in poi, all’ebraismo viene infatti imputata la volontà di controllare i mezzi di comunicazione. La loro capitale rilevanza, tanto più in una società di massa, fa infatti sì che chi vi possa accedere abbia un potere di condizionamento delle opinioni particolarmente pronunciato. Lo spostamento del baricentro della negazione, in questo caso, si verifica nel momento in cui non si contesta direttamente l’esistenza o meno di un fatto storico bensì il peso della sua rilevanza per la coscienza collettiva. Nel mondo arabo non è infrequente che l’Olocausto assuma, nella disamina critica che di esso si fa soprattutto sul piano dell’impatto simbolico, la discutibile fisionomia di un’«icona occidentale»27, uno strumento per la dominazione culturale e la subordinazione morale delle società orientali. Va sottolineato che queste affermazioni non sono il prodotto di un’impegnativa riflessione sul potere delle rappresentazioni, trattandosi piuttosto del risultato di un atteggiamento molto più grezzo. In genere l’accusa che viene sollevata, infatti, è quella di trovarsi di fronte ad attività di «propaganda» di matrice sionista, in cui il ripetuto discorso pubblico sullo sterminio degli ebrei corrisponde all’obiettivo di rendere credibili le politiche d’Israele. Il passo successivo consiste pertanto nell’affermare che ciò che viene enfatizzato è spesso solo una ricostruzione distorta del passato, funzionale a consolidare l’egemonia culturale che gli ebrei cercano di esercitare da sempre sulle coscienze collettive. L’oggetto storico dello sterminio, in tale modo, perde di spessore. L’attenzione si concentra invece sulla critica della sua rilevanza nella vita pubblica, definita ancora una volta come il frutto di un deliberato calcolo manipolatorio. Da ciò ad arrivare alla negazione del fatto in quanto tale il passo per molti è breve. Un esempio in tal senso è costituito dall’attività promossa da The Zayed Center for Coordination and Follow-Up, un thinktank indipendente ma collegato alla Lega Araba, costituito nel 1999 ad Abu Dhabi. Le sue attività sono cessate nel 2003, a seguito delle ripetute critiche sollevate da molte delle sue iniziative, ispirate a un acceso antiamericanismo ma anche e soprattutto a un forte antisemitismo. Il ricorso ai Protocolli dei Savi di Sion come chiave di lettura del cospirazionismo ebraico è servito da suppor  Meir Litvak, Esther Webman, From Emphaty to Denial cit., p. 183.

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to per argomentare l’esistenza di un «mito olocaustico». Tutta la ricca letteratura e la copiosa produzione culturale sulle persecuzioni e le deportazioni è stata così riletta dal Centro alla luce di questo paradigma. In tale clima, le critiche, veicolate attraverso la stampa quotidiana e periodica di lingua araba, si sono rinforzate e consolidate nel corso del tempo. Al «cosiddetto Olocausto» sono stati contrapposti, come paladini della libertà di pensiero, gli autori negazionisti occidentali. Più che sposare integralmente le tesi da questi sostenute si è verificata un’immedesimazione con la loro attività, presentata come il tentativo di tenere accesa la fiaccola della verità, contro il «pensiero unico» imposto dalla globalizzazione occidentale di cui la narrazione della Shoah sarebbe un elemento di sostegno. Il Forum internazionale sull’Olocausto, tenutosi a Stoccolma del 200028, nel corso del quale si è affrontato il problema di una politica continentale per lo sviluppo della memoria pubblica e il contrasto alle derive genocide, è stato letto da alcuni protagonisti della scena mediorientale come una forzatura attraverso la quale si è cercato di imporre una versione ufficiale della storia. Così, ancora una volta, Hamas, in un commento sulla Conferenza, «riguardante il cosiddetto Olocausto ebraico», invitava tutti «i liberi studiosi del mondo» a non temere «gli ebrei e il loro terrorismo ideologico»29, liberando la storia dalle menzogne del sionismo. Con la fine degli anni Novanta, d’altro canto, dinanzi alla recrudescenza del conflitto israelo-palestinese, soprattutto con l’avvio della seconda Intifada, si era aperta una nuova fase, estremamente esacerbata, nella battaglia ideologica per il controllo del discorso pubblico sul passato all’interno del mondo arabo. La contrapposizione in quei contesti tra i molti scettici (fino alla negazione) e i pochissimi «sterminazionisti» ha ricalcato sempre di più la frattura tra antisionisti e filoisraeliani. Due gruppi rigidamente – e a tratti dogmaticamente – contrapposti che si fronteggiano 28   Si veda il sito http://holocausttaskforce.org/about-the-itf/stockholmdeclaration.html. 29   Si veda quello che scrive Reuven Paz in Palestine Holocaust Denial, in «The Washington Institute: Policy Watch», n. 255, 21 aprile 2000, riguardo alla nota per la stampa prodotta dal movimento Hamas, nella sola lingua araba, il 3 febbraio 2000 e pubblicata in www.palestine-info.org.

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a tutt’oggi, facendo ricorso all’uso forzato della storia, a proprio esclusivo beneficio, come strumento di autoaccreditamento. Un’altra modalità di approccio negazionista, benché all’apparenza più rispettosa dei fatti storici, è stata la relativizzazione delle sofferenze ebraiche. Già nel marzo del 1965 Nasser, il carismatico leader egiziano, rivolgendosi in un discorso pubblico ai suoi ascoltatori, si era retoricamente interrogato sull’intensità del dolore e dei tormenti subiti dagli ebrei per mano nazista. «Solo gli ebrei hanno sofferto? I cechi hanno sofferto, gli jugoslavi hanno sofferto, i francesi hanno sofferto»30. In quello che diventa un furbesco sofisma due sono i passaggi critici: gli ebrei hanno sofferto quanto gli altri, benché ingiustamente rivendichino una primazia che non gli spetta; se gli altri popoli non hanno subito lo sterminio neanche gli ebrei ne sono stati vittime. L’Egitto, che negli anni Sessanta era l’antagonista più potente d’Israele, esprimeva molte voci consonanti con quella del suo presidente. Nel 1960, l’allora docente Boutros Boutros Ghali, poi figura di massimo rilievo della politica egiziana e sesto Segretario generale delle Nazioni Unite, dopo aver compiuto una visita ad Auschwitz, sollecitato dal quotidiano cairota «al-Ahram» a esprimersi su quanto aveva visto31, si interrogava sul perché non esistessero memoriali per ricordare le persecuzioni britanniche e francesi in Kenya e in Algeria, stabilendo così un nesso analogico tra l’eliminazione fisica delle comunità ebraiche e le violenze coloniali. La minimizzazione, attraverso la comparazione che si trasforma da subito in relativizzazione, ha accompagnato anche buona parte dell’approccio palestinese alla questione della Shoah. Negli anni Ottanta «al-Hurriya», organo del Fronte democratico per la liberazione della Palestina, quest’ultimo membro della galassia di gruppi dell’Olp di Yasser Arafat, nel commentare le stragi commesse dai tedeschi durante la Seconda guerra mondiale, e parlando del campo di Majdanek, così come di altri eventi, ometteva del tutto di ricordare l’origine ebraica di un gran numero di vittime32. Per un gruppo marxista quale quello di Hawatmeh, vicino alle posizioni dell’Unione Sovietica, si trattava quasi di un   Citato in Meir Litvak, Esther Webman, From Emphaty to Denial cit., p. 186.   «al-Ahram», 17 marzo 1960. 32   «al-Hurriya», 13 ottobre 1984. 30

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riflesso condizionato, facendo proprio l’atteggiamento del mentore politico, che non aveva mai riconosciuto le peculiarità razziali di molte stragi nell’Est occupato dall’esercito tedesco. Il periodico «al-Hayat», nell’ottobre del 1999, identificò e reinterpretò la famosa foto nella quale compare un ragazzino ebreo, terrorizzato e con le mani alzate dinanzi ai nazisti, catturato insieme ad alcuni suoi correligionari in un rastrellamento del ghetto di Varsavia, come scattata durante la repressione tedesca della sollevazione nazionalista della capitale polacca, nell’estate del 1944. L’intento politico, in questo caso, trattandosi di una immagine che è divenuta una delle icone più significative della tragedia ebraica, risultava da subito evidente: traslare il volto della sofferenza su altri soggetti. L’ambiguità era e rimane l’atteggiamento più diffuso in campo palestinese. Se pochi si sentono in animo di negare radicalmente l’assassinio degli ebrei, molti si prendono il diritto di ponderare e mitigare il fatto con una serie di rimandi capziosi al numero delle vittime. In tale modo, dinanzi alle dimensioni di grandezza che hanno coinvolto le popolazioni chiamate in causa dalla guerra, la peculiarità dello sterminio razziale perde il suo impatto. Nella tesi di dottorato sopra citata Mahmoud Abbas, riscontrando la morte di circa 50 milioni di persone, di cui quasi un quinto tedesche – una cifra, questa, che comprende tutti i combattenti della Wehr­ macht deceduti sui diversi campi di battaglia –, polemicamente si chiedeva per quale motivo i 6 milioni di ebrei fossero assurti a un ruolo simbolico tanto significativo. La strategia riduzionista adottata dal futuro presidente dell’Autorità nazionale palestinese consisteva ancora una volta nel rimuovere la specificità della Shoah. Attraverso una sorta di bilanciamento quantitativo, che soppesa numericamente i morti, facendo inclinare il piatto della bilancia verso chi ne conta di più e obliando i motivi razziali che hanno portato all’assassinio sistematico della popolazione civile, si fa derivare infine l’equivalenza morale delle ragioni che hanno causato i lutti. Un bombardamento diventa in tal modo la stessa cosa di una deportazione. E la guerra di conquista e di sterminio nazista non è poi troppo diversa dalla risposta bellica alleata. In questo esercizio di negazione per sottrazione anche altri autori si sono ripetutamente cimentati. ‘Abd al-Wahhab al-Masiri incapsula il massacro degli ebrei all’interno dell’antislavismo

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hitleriano, facendo così derivare il primo dal secondo33. Successivamente, in un libro del 199734, riappropriandosi del vecchio motivo che associa le violenze naziste a quelle coloniali, equipara i rapporti tra israeliani e palestinesi a quelli intercorsi tra ebrei e nazisti nei ghetti del Terzo Reich. L’Autorità nazionale palestinese viene così ridotta al rango di un Consiglio ebraico, l’organismo che i tedeschi imponevano alla popolazione del ghetto per gestire a proprio immediato profitto i ruoli di dominio. Per Masiri l’attenzione spasmodica ed enfatica riservata dall’Occidente all’assassinio degli ebrei, insieme alla scarsa considerazione per le altre vittime, sarebbe inoltre il risultato di una vera e propria congiura per legittimare l’espropriazione delle terre palestinesi intrapresa nel dopoguerra e culminata con la nascita d’Israele. Queste e altre affermazioni, articolate secondo una scala crescente di intensità, entrano di buon grado nella sgradevole competizione politica e culturale che da quasi quattro decenni è in corso, all’interno del conflitto israelo-palestinese, per sottrarre ai propri avversari l’aura di vittime della storia. La delegittimazione altrui che da ciò può derivare è un obiettivo importantissimo, all’interno di un confronto dove i simbolismi contano come i fatti, perlomeno nel momento in cui si cerca di raccogliere consenso per la propria parte. Il negazionismo interviene in questo processo non tanto come teoria definita, ossia interpretazione compiuta del passato, bensì come ingrediente a supporto di posizioni rigidamente oltranziste. Non è un fatto occasionale, peraltro. La sovrapposizione tra vittime e carnefici, laddove le prime assumono i connotati dei secondi, diventa considerazione di senso comune, e come tale condivisa, quando viene messa in circuito quotidianamente da una parte della stampa araba, rafforzandosi poi da sé. Se Auschwitz è esistito, Auschwitz è ovunque e quindi in nessun luogo. Gli israeliani di oggi equivalgono ai nazisti di ieri. Un punto cruciale, in questo percorso perverso, che non si basa sull’ignoranza bensì sulla manipolazione dei dati storici e sulla costruzione di una falsa evidenza, rimane l’effettiva ricezione e la concreta accettazione da parte del pubblico arabo dei temi negazionisti. A fronte dell’indulgenza   ‘Abd al-Wahhab al-Masiri, in «Shu’un Filastiniyya», n. 183, giugno 1988.   ‘Abd al-Wahhab al-Masiri, Al-Sahyuniyya, al naziyya wa-nihayat al-ta’rikh, Cairo 1997. 33 34

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e della disponibilità con le quali i media arabi, e una parte del mondo accademico, accolgono il negazionismo, estremamente flebili e ben poco accette sono infatti le voci dissenzienti. Anche in questo caso, inoltre, gli effetti di amplificazione e di moltiplicazione garantiti dal web sono tali, purtroppo, da condizionare enormemente l’opinione pubblica araba. L’adozione da parte del presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad dei temi negazionisti ha infine rappresentato una netta svolta. Per la prima volta non un esponente accademico e neanche un leader politico ma un capo di Stato ha proclamato come dottrina ufficiale di un paese il rifiuto dell’evidenza storica. L’impatto non poteva non essere violento. La ripetizione monomaniacale di tutti gli stereotipi negazionisti e, con essi, di molti dei luoghi comuni dell’antisionismo più viscerale come dell’antisemitismo, ha dato ulteriore credibilità agli atteggiamenti di demonizzazione degli ebrei. È irrilevante che Ahmadinejad affermi di «non avercela con gli ebrei» poiché la sua azione politica punta a rimuovere lo sterminio trascorso per rendere plausibili (e accettabili) le violenze presenti e future non solo contro ciò che chiama l’«entità sionista» ma contro l’ebraismo medesimo, accomunato in quanto tale al «sionismo». Negazione (dello sterminio), demonizzazione (dei sionisti/ebrei) e delegittimazione (d’Israele) sono allora parti di un’unica strategia che cerca di rendere concepibile ciò che è altrimenti moralmente interdetto, il genocidio35. Ahmadinejad la persegue ben sapendo che le sue fortune di esponente del populismo musulmano sono legate a doppio filo alla radicalizzazione di alcuni temi dell’agenda politica mediorientale, tra i quali quello dell’illegittimità della presenza d’Israele. In tale senso vanno quindi iniziative come la conferenza internazionale The World Without Zionism, tenutasi nell’ottobre del 2005 a Teheran, dove le espressioni di più gratuita brutalità, quali quella per cui «il regime di occupazione deve essere cancellato dalla mappa e questa era [e rimane] un’asserzione molto saggia», si sono accompagnate all’invocazione della creazione di un fronte unico degli «oppressi», da 35   Yigal Carmon, The Role of Holocaust Denial in the Ideology and Strategy on the Iranian Regime, Memri Report, Washington 2006, ora all’indirizzo http:// www1.yadvashem.org/yv/en/holocaust/insights/pdf/carmon_iranian_denial.pdf.

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galvanizzare in una sorta di «lotta per la liberazione» collettiva attraverso la distruzione del sionismo36. Le polemiche succedutesi nei giorni e nei mesi successivi nulla hanno cambiato nella sostanza dell’intenzione originaria, trattandosi, nel caso di alcune rettifiche formulate in sede pubblica, di un procedimento peraltro tipico dei provocatori: si getta il sasso, si nega di averlo fatto e si osserva compiaciuti il consenso raccolto intorno a sé. Il massimo esponente laico della Repubblica islamica dell’Iran gioca quindi una partita pesantissima, istituzionalizzando la negazione e mantenendo la tensione a un livello eccezionalmente alto. Così è avvenuto anche per le iniziative pubbliche successive, come l’International Conference to Review the Global Vision of the Holocaust, tenutasi nel dicembre del 2006 ancora una volta a Teheran37 e che ha visto la partecipazione di una parte del gotha del negazionismo mondiale, tra cui David Duke, Moshe Aryeh Friedman, Robert Faurisson, Fredrick Töben, Richard Krege, Michèle Renouf, Ahmed Rami, Yisroel Dovid Weiss. Alla conferenza si è accompagnato l’International Holocaust Cartoon Contest, una competizione tra vignettisti e disegnatori, sponsorizzata dal periodico iraniano «Hamshahri», per denunciare ciò che è stata chiamata «l’ipocrisia occidentale sulla libertà di parola» e permettere «una libera discussione sulle realtà dell’Olocausto»38. Il negazionismo arabomusulmano celebra la saldatura tra due discorsi apparentemente antinomici, quello di destra e quello di sinistra. Nel nome dell’antisionismo celebra una sorta di sintesi superiore, che dovrebbe permettere di superare i contrasti tra due fronti ideologici oramai superati. Dal momento in cui, con il secondo dopoguerra, l’antisemitismo tradizionale si è fatto politicamente insostenibile, lo svilupparsi di un discorso pubblico che argomenta l’insostenibilità del sionismo e, di riflesso, dello Stato d’Israele, intesi l’uno e l’altro come creazioni artificiali, os36   Ahmadinejad’s Holocaust Denial and Anti-Israel Rhetoric, in Réalité EU, http://www.realite-eu.org/site/apps/nlnet/content3.aspx?c=9dJBLLNkGiF& b=2315291&ct=3284361. 37   http://www.ipis.ir/english/. 38   Il testo dell’articolo, in lingua farsi, è reperibile all’indirizzo http://www. bbc.co.uk/persian/iran/story/2006/02/060214_he-hamshahri.shtml.

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sia prodotto della cattiva coscienza dell’Occidente, fa rientrare dalla porta quello che era stato buttato fuori dalla finestra. La saldatura tra sionismo, colonialismo e razzismo permette così di stabilire una sorta di filiazione nobile al rigetto non solo d’Israele ma anche degli ebrei. In un ribaltamento perfetto dei ruoli, se il sionismo è una moderna forma di razzismo, le ‘false vittime’ di un ‘genocidio inesistente’ di ieri sono, di riflesso, i veri persecutori di oggi. Il perno di questo ragionamento si basa sul riscontro che se la Shoah non è alla radice dello Stato d’Israele essa tuttavia gli conferisce un’indebita patente di legittimità morale. A questo punto, per delegittimare Israele la negazione diventa strategica. È quindi in questo passaggio che due orizzonti ideologici alternativi trovano una comunione: in primo luogo, un discorso antisemita e negazionista centrato sul vecchio tema del ‘complotto ebraico mondiale’ e che va scoprendo la portata dell’antisionismo. In secondo luogo, un discorso antisionista e antirazzista centrato sul ‘complotto sionista mondiale’ e che va scoprendo il negazionismo e, in certi casi, l’antigiudaismo. Si assiste a un alternarsi di motivi: il punto di arrivo degli uni è il punto di partenza degli altri, ma nelle due figure l’‘ebreo-sionista’ finisce per incarnare la figura assoluta del male39.

Il sionismo è l’avatar del complotto giudaico. Lo Stato d’Israele assurge a piattaforma materiale, ideologica e simbolica del nuovo capitolo di un libro senza fine, quello del dominio ebraico. A destra l’accento batte speditamente sulla natura ‘etnica’ dell’ebraismo, al quale, in quanto stirpe, sarebbe consustanziale l’intendimento di soggiogare ai propri voleri il pianeta; a sinistra, invece, ci si sofferma sull’aspetto razzista, colonialista e sulla falsità dell’Olocausto in quanto rendita morale indebitamente autoattribuitasi dagli ebrei. Dalla fine della Seconda guerra mondiale la comunità internazionale ha ricostruito le fondamenta delle sue relazioni basandosi sul rifiuto del nazismo. Come ogni forma di consenso generalizzato 39   Georges Bensoussan, Négationnisme et antisionnisme: récurrences et convergences des discours du rejet, in «Revue d’histoire de la Shoah», n. 166, maggio-agosto 1999.

5. Il negazionismo nei paesi arabi e musulmani

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e omogeneizzante esso maschera anche contraddizioni ed ambiguità. Tuttavia, per certa sinistra estrema pregiudicare questo consenso implica lo smascherare la natura dell’oppressione presente, celata sotto il falso unanimismo dell’antifascismo democratico che serve come copertura ideologica al prosieguo delle pratiche di sfruttamento. Smascherare la falsità dell’Olocausto vuol dire denunciare definitivamente l’impostura dello Stato degli ebrei che, a sua volta, è l’abusivo destinatario di una solidarietà tanto più deviata perché rivolta a un soggetto che è protagonista dell’oppressione attuale. Dall’analisi del suo operato si possono meglio capire forma e natura del dominio capitalistico40. Il connubio tra ciò che resta dell’antimperialismo occidentale e il terzomondismo arabo ha portato alla denuncia della globalizzazione come prodotto del «cosmopolitismo giudaico», e così è ricomparso il paradigma del complotto ai danni degli ‘oppressi’, poiché «le retoriche negazioniste hanno ereditato [...] dal ‘socialismo’ nazista antisemita una finta critica dei rapporti sociali dominanti, la mania di spiegare tutto e l’ambizione teorica totalizzante»41. E così quel negazionismo che legittima l’antisionismo, a sua volta funzionale a riabilitare l’antisemitismo, rischia di diventare la nuova frontiera per comunità sottoposte alle tensioni di un mutamento, quello dei mercati globali, che sta stravolgendo vecchi equilibri. Rileva in ultima istanza Michele Battini: «Che una ideologia si appropri di un fatto non sopprime l’esistenza di tale fatto. Che una delle ideologie ebraiche, il sionismo, abbia elaborato una propria religione della memoria e abbia tratto talvolta dal genocidio una rendita politica non elimina la realtà del genocidio»42. Parole savie ma inutili per chi è alla ricerca di una ragione, ancorché falsa, della sua marginalità.

40   Bernard Granotier, Israël, cause de la Troisième Guerre mondiale?, L’Harmattan, Paris 1982. 41   Michele Battini, Il socialismo degli imbecilli. Propaganda, falsificazione, persecuzione degli ebrei, Bollati Boringhieri, Torino 2010, p. 225. 42   Michele Battini, Il socialismo degli imbecilli cit., p. 223.

6. Negazionismo e revisionismo 6.1. All’origine di un nesso L’esigenza di una falsa storicizzazione del nazismo, nel duplice senso di relativizzarne ma anche di cancellarne le colpe, non risponde né al trascorrere del tempo, laddove semmai si impone una riflessione rinnovata (e non ridimensionata) sul peso di quel passato, né tanto meno a un’ingenua neutralità, assecondando semmai un tracciato politico e ideologico. Chi ritiene che esista un’età dell’innocenza da recuperare liberando il tempo, e la sua cognizione, dal peso dello sterminio, rischia di fare suoi i moventi del negazionismo di matrice neonazista. Non può darsi una piena consapevolezza del passato senza che quel nodo si imponga. Per gli europei è un passaggio obbligato. Non di meno la negazione della Shoah, rispondendo a più ragioni, può tuttavia anche essere indice dell’oggettiva difficoltà di provvedere a un’autentica storicizzazione, questa volta sincera, che sia soprattutto contestualizzazione. Il problema di riannodare le concrete vicende dell’antisemitismo nazista a un percorso di comprensione che riesca a tener insieme specificità e comparabilità, senza procedere né a ipoteche ideologiche preventive né a una banalizzazione totale, è al centro dell’interrogazione sul posto che quella storia è tenuta a occupare nell’età della modernità dentro la quale viviamo. Il revisionismo e, in maniera ancora più netta, il negazionismo rispondono entrambi all’esigenza di normalizzare il passato. Si incontrano su un territorio del pensiero che rendono comune, quello riduzionista, che elide progressivamente l’impatto periodizzante di certi eventi storici, spingendosi poi fino al punto

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di non ritorno della rimozione. In ciò fungono nella stessa misura da elementi risarcitori in una vicenda che, invece, non sembra tollerare facili razionalizzazioni. Nel revisionismo i nodi storici, ma anche morali e civili, richiamati dal nazismo e dalla Shoah vengono semplicemente aggirati, secondo una logica che dalla comparazione porta subito all’assimilazione con gli strazi di altre dittature. Il revisionismo rivendica così il diritto all’esercizio dell’equiparazione come strada maestra attraverso la quale tenere insieme, nel senso di accomunare, le storie del Novecento. «Il revisionismo ha assunto come terreno privilegiato di lotta quello delle grandi ideologie della modernità e, in nome di un preteso superamento di ogni ideologia, ha sviluppato una critica radicale del giacobinismo e del bolscevismo, cioè della rivoluzione francese e russa, proponendo d’altro canto una parziale riabilitazione del fascismo e dei sistemi autoritari di destra in generale»1. In questo modo crolla però il senso della radicalità che animò l’operato nazista, la violenta potenza del suo disegno razziale, la commistione inedita tra modernità scientista e barbarie culturale, tra tecnologie collettive e filosofia quotidiana del Blut und Boden (sangue e terra). Tutto questo, e altro ancora, si perde completamente a favore, invece, di una storia acquiescente alla logica per cui ‘così fan tutti’. Dopo di che, ciò che fin da subito rimane del revisionismo, al di là delle polemiche di taglio interpretativo, ispirate alla filosofia della storia e non alla storia in quanto tale, è ben poca cosa. «L’inadeguatezza della rappresentazione la rende inconcludente, essa deve essere continuamente riproposta. Il revisionismo diventa incessante, e ottiene paradossalmente l’effetto opposto a quello che si prefiggeva: il discorso torna continuamente sul fascismo, nazismo, genocidio ebraico, rafforzando una presenza da cui si intendeva prendere le distanze»2. Il negazionismo sfrutta a sua volta questo spazio di insoddisfazione, dove ciò che si vorrebbe rarefatto si ripresenta invece come ancora più forte. Ha osservato Hans Magnus Enzensberger: «quello che è successo durante gli anni Quaranta non invecchia; invece 1   Pier Paolo Poggio, Nazismo e revisionismo, in «Studi bresciani. Quaderni della Fondazione Micheletti», n. 9, 1996, p. 229. 2   Pier Paolo Poggio, Il negazionismo alla francese, in «Studi bresciani. Quaderni della Fondazione Micheletti», n. 9, 1996, p. 151.

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di sprofondare nella notte dei tempi, tutto ciò piomba addosso e ci obbliga a rivedere tutte le nostre nozioni e tutti i rapporti umani»3. Il negazionismo lo fa radicalizzando il tono del confronto, fino al suo deragliamento. Al centro della sua perentorietà c’è non la plausibilità o meno delle altrui affermazioni ma l’inesistenza stessa dell’oggetto della discussione. La provocazione negazionista è una sfida aperta e totale, che mette al bando la condivisione di un senso comune. Il negazionismo si presenta quindi come protagonista ingiustamente bandito dalla discussione nel momento stesso in cui nega il fondamento della discussione medesima. Di sé e per sé si dichiara alla ricerca di un legittimo risarcimento che il consesso della storiografia ‘ufficiale’ ingiustamente intenderebbe non riconoscergli. Questa estromissione si motiva, a detta dei negazionisti, per via dell’incapacità da parte degli storici di fare una volta per sempre i conti con il passato, rimanendo quindi tributari di un approccio deviato poiché deferente alle ideologie trascorse. Da ciò, e dall’essere queste le ideologie dei «vincitori» (il liberalismo, il marxismo, il socialismo, la democrazia), deriverebbe la grande mistificazione che sta dentro il racconto della storia, quella che testimonia uno sterminio che non c’è mai stato. Il negazionismo dice di ambire invece a una storia non partigiana e come tale priva di reali conflitti. Si tratta di una contraddizione in termini ma il dispositivo con il quale si presenta ai lettori è tanto più seducente quanto più si rifà a questo ingannevole costrutto: bisogna rompere con gli schieramenti che furono, superando la divisione non solo tra fascismo e antifascismo ma anche tra destra e sinistra. Segnatamente, questa ossessione dell’andare oltre le appartenenze è uno dei classici temi masticati dalla destra. Le divisioni fanno da filtro alla riappropriazione del passato che, come tale, va invece ‘condiviso’. Allora, se la storia è sintesi comune, essa deve obbligatoriamente basarsi sulla rimozione degli elementi di perturbazione. Lo sterminio ebraico, nella sua angosciosa fissità, ne è l’epitome. Come tale, argomentano implicitamente i negazionisti, trattandosi di un crepaccio insuperabile, non può ragionevolmente essere esistito. Inutile contestare la natura palesemente artefatta di tale approccio. Esso non parla al rigore della scienza, con la quale pe  Hans Magnus Enzensberger, in «Giano», n. 21, 1995, p. 103.

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raltro non intende confrontarsi (semmai intendendosi esso stesso scienza tout court), ma si rivolge direttamente a un proprio pubblico, l’unico delegato, per acclamazione, a legittimare le sue affermazioni di contenuto. La banalizzazione si inserisce in questa visione priva di conflittualità, dove in campo non ci sono forze differenziate e una dialettica sociale complessa ma una sola logica, quella che deriva dalla contrapposizione tra visibile e occulto. Benché revisionismo e negazionismo si articolino su coordinate distinte, e sulla base di motivazioni non coincidenti, essi si trovano a svolgere discorsi non necessariamente concorrenziali. In alcuni casi scivolano nella complementarietà. Sia pure con modalità diverse, infatti, si incontrano sulla necessità di cancellare gli elementi di inquietudine nel passato europeo. Il revisionismo si rivolge a un pubblico conservatore, intimidito dai rischi che le innovazioni introdotte dalla modernità possono comportare rispetto alle proprie rendite di posizione; si propone come la «metafora di una cultura politica»4, che in origine raccoglieva su di sé una domanda ritenuta inevasa, quella di escludere il comunismo sovietico dal consesso dei beneficiari politici della conclusione della Seconda guerra mondiale, con il grado di legittimazione che da ciò derivò. Per estensione analogica, il revisionismo ha poi sviluppato un tipo di argomentazione storiografica per cui ogni movimento sociale, ogni evento che chiama in causa la collettività, sono visti con sospetto, in quanto spie di una più ampia tendenza totalitaria. Il revisionismo di fine secolo ha infatti recuperato la teoria del totalitarismo di metà del Novecento nelle sue forme più superficiali e banalizzanti. È quindi una sorta di anticomunismo senza comunisti. Va però a questo punto ricordato che «in questo ambito non ha importanza il contenuto storiografico ma l’uso politico della storia»5. Ci troviamo dinanzi ad atteggiamenti che poco hanno a che fare con il confronto disciplinare e molto, invece, con le posture politiche da assumere. Su questo punto si avrà modo di tornare nelle prossime righe. Il negazionismo ha una natura molto più underground e, come tale, movimentista, chiamando a raccolta gli scontenti di ogni gene  Sergio Bologna, Nazismo e classe operaia, Manifestolibri, Roma 1996.   Pier Paolo Poggio, Nazismo e revisionismo cit., p. 191.

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re sulla base di una piattaforma di vera e propria militanza culturale che trascende nella professione di fede ideologica. Ma mentre il revisionismo accademico, nelle sue diverse accezioni, può confidare su molteplici interlocutori, facendo leva sul suo insediamento filoccidentale, anticomunista e oggi più che mai tendenzialmente antislamico, il negazionismo si posiziona su un piano molto più problematico, raccogliendo quanti sono perlopiù estranei alla comunicazione di taglio universitario o, comunque, istituzionale. La fortuna che quest’ultimo ha raccolto, a partire dalla Francia, con la fine degli anni Settanta, non è peraltro casuale. Poiché l’intreccio che esso intrattiene con il revisionismo è, in tale caso, intenso, benché i due fenomeni rimangano distinti. Le narrazioni, infatti, tendono in più di un caso a sovrapporsi e a contaminarsi vicendevolmente, come è avvenuto con Ernst Nolte, essendo l’uno e l’altro prodotti di «uno stesso retroterra politico-culturale»6. Nel corso degli anni Ottanta e Novanta, soprattutto in concomitanza con la caduta del muro di Berlino e la consunzione del sistema di relazioni internazionali dominato dal bipolarismo tra Est e Ovest, si è andato ampliando a dismisura il terreno di discussione che concerne l’«uso pubblico della storia»7. L’espressione, oramai d’uso convenzionale, indica più fenomeni interconnessi: il ricorso sistematico a una rilettura ipercritica (o, con canone speculare inverso, acritica) degli eventi del passato, fatto che si è tradotto in una sua «riscrittura impaziente»8; l’accusa, rivolta a buona parte della storiografia, di essere ideologicamente connotata, ovvero di collocarsi perlopiù a sinistra; la spasmodica proiezione verso l’agone mediatico, il quale non è tuttavia un contenitore passivo di tematiche predefinite ma il medium della comunicazione per definizione e come tale crea e rigenera gli oggetti di attenzione e focalizzazione collettiva, adoperandosi attivamente – tanto più in questo caso – nella riformulazione delle coordinate pubbliche del discorso storico; la decadenza della funzione critica degli intellettuali e l’eclisse del suo ruolo di pedagogia sociale9; l’affermarsi di   Pier Paolo Poggio, Il negazionismo alla francese cit., p. 156.   Nicola Gallerano, L’uso pubblico della storia, Franco Angeli, Milano 1995. 8   Ibidem. 9   Alberto Asor Rosa, Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali, a cura di Simona Fiori, Laterza, Roma-Bari 2009. 6 7

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un relativismo metodologico inteso come viatico per l’esaltazione dell’equivalenza morale tra opposte versioni. Più propriamente, l’uso pubblico della storia ha comportato due atteggiamenti interconnessi: il ricorso alla storia e al discorso storico nella polemica pubblica contingente, a partire da quella di ordine politico, con una forte piegatura delle interpretazioni a seconda degli interessi occasionali e di parte; e l’adeguamento della storia al presente, attraverso un’operazione di estenuante riscrittura della storia, fino ad adeguare quest’ultima al modo di essere del presente. Questa operazione nasce sotto il segno della destra [poiché questa] costituiva il percorso obbligato per processare la cultura politica dell’antifascismo. Almeno nelle sue propaggini più politicizzate e di estrema destra, il ‘revisionismo storico’ ha preteso di ricostruire la storia muovendo da un’ottica di messa in stato d’accusa dell’antifascismo, accusato di tutti gli errori e le nefandezze possibili10.

Se la sinistra politica sembra da molto tempo oramai aver perso interesse per la storia, reputandola un ostacolo rispetto alla propria legittimazione e integrazione nel contesto politico e sociale, privilegiando così all’idea di trasformazione quella di consenso – dove l’unica rivoluzione possibile rimane quella dell’esperienza estetica e culturale –, la destra dagli anni Ottanta ha sferrato un attacco a più livelli per riappropriarsi del passato. In Germania già l’Historikerstreit11, la «controversia tra gli storici», innescatasi nel 1986, e che ha visto contrapposti i revisionisti, capitanati da Nolte, alla parte restante della storiografia, si inseriva nel clima della «rivoluzione liberista» di Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Pur senza apportare contributi disciplinari di rilievo, semmai obbligando a una polemica tarda e stanca, la «controversia tra gli storici» ha poi incontrato la caduta del muro di Berlino e la riunificazione delle due Germanie, laddove l’una e l’altra sono state lette come il crollo delle sinistre, non solo rivoluzionarie. Il nuovo ruolo geopolitico esercitato nell’Europa continentale dalla 10   Francesco Germinario, Estranei alla democrazia: negazionismo e antisemitismo nella destra radicale italiana, Bfs Editore, Pisa 2001, p. 92. 11   Gian Enrico Rusconi (a cura di), Germania: un passato che non passa. I crimini nazisti e l’identità tedesca, Einaudi, Torino 1987.

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Germania, decisiva nel conflitto jugoslavo, ha infine chiuso un cerchio. La storicizzazione del nazismo, di contro all’invito che Martin Broszat aveva fatto nel 198512, è divenuta così il suo superamento per via della normalizzazione. Se la memoria del nazionalsocialismo ha costituito a lungo il vero ostacolo alle tentazioni egemoniche, il deterrente rispetto al ritorno di un nazionalismo senza sensi di colpa e, soprattutto, senza coscienza del limite, oggi il quadro è obiettivamente mutato. In Italia il revisionismo, affermatosi a partire dagli anni Ottanta, in una stagione politica che vedeva Bettino Craxi come interlocutore politico privilegiato (a lui vanno attribuite, nel 1983, le calcolate aperture al leader dell’allora Movimento sociale italiano Giorgio Almirante e al cosiddetto «socialismo tricolore»), partito dalle originarie tesi di Renzo De Felice sulla formazione rivoluzionaria di Mussolini e sul regime fascista come soggetto di consenso popolare, si è poi adoperato nell’esercizio della ridefinizione di una memoria storica nazionale, che si voleva rinnovata poiché non più divisa, in altri termini ‘pacificata’. All’antifascismo, inteso esso stesso come ideologia di ‘regime’, era imputata la responsabilità di avere voluto mantenere artificiosamente in vita la divisione tra fascisti e antifascisti, incentivando una lettura ingiustamente demonizzante degli anni di Mussolini e un’angelicazione della Resistenza. 6.2. Tra Scilla e Cariddi: due procedure ideologiche Il negazionismo olocaustico, pur mantenendo una totale autonomia, in quanto fenomeno sociale a sé stante, si è inserito negli ampi spazi apertisi con la ‘revisione’ dei giudizi sul passato. Il revisionismo infatti ha portato con sé – per meglio dire: ha fatto emergere – molti elementi latenti nella discussione, tra i quali un supplemento di acrimonia nelle letture contrapposte del passato così come la propensione alla radicalizzazione nell’analisi dei testi e delle fonti, nel tentativo di ricavare da esse la conferma delle proprie 12   Martin Broszat, Plädoyer für eine Historisierung des Nationalsozialismus, in «Merkur», n. 5, 1985.

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tesi, anche a rischio di pervenire a vere e proprie torsioni di senso (e di segno). Più in generale, nel clima di «autocompiacimento»13 e di indulgenza verso i «vinti» che ha contraddistinto la stagione revisionistica, il fenomeno della banalizzazione del giudizio storico ha costituito un alveo nel quale le retoriche negazioniste hanno trovato maggiore possibilità di affermarsi. La banalizzazione è il rifiuto della comprensione del processo storico nella sua complessità, ovvero di quell’insieme di variabili che entrano in gioco, orientandolo in maniera quasi sempre imprevedibile. A tale riscontro, sgradito e quindi rimosso, si sostituiscono i meccanismi di immediata causalità e reattività, intesi come elementi propri di un più ampio processo di funzionamento dei fatti, i quali sarebbero informati a un disegno egemonico preciso e come tale non dichiarato. Nel caso italiano ciò risponderebbe agli interessi di una élite, ovvero di un ceto politico, emerso con la lotta di Liberazione e poi parassitariamente insediatosi al potere. «Sotto l’aspetto culturale, la storia dell’ultimo mezzo secolo è presentata come un periodo in cui si è insediata una specie di dittatura morbida che ha filtrato quanto veniva prodotto al di fuori dei confini della nazione. L’Italia, insomma, ha vissuto un inconsapevole ‘socialismo reale’»14. La fortuna dei volumi di Giampaolo Pansa, che ha riletto la lotta di Liberazione sotto il segno dei torti comminati ai vinti, ovvero ai fascisti, è il segno più forte di questa tendenza culturale. Per meglio cogliere il beneficio parassitario che il negazionismo sta ottenendo dal consolidamento di uno spirito revisionista nelle società occidentali, è bene allora procedere a una separazione e a una distinzione di contenuti tra revisionismo e negazionismo. Perché se non sono in alcun modo assimilabili sono senz’altro coagenti. Il revisionismo «nasce dall’intento di storicizzare il nazionalsocialismo per giungere ad una sua relativizzazione ovvero ad un suo ridimensionamento più o meno accentuato»15. Si tratta, più pro13   Marco Revelli, La storia d’Italia riscritta dalla destra, in «Teoria politica», n. 1, p. 6. 14   Francesco Germinario, Estranei alla democrazia cit., p. 95. 15   Francesco Rotondi, Luna di miele ad Auschwitz. Riflessioni sul negazionismo della Shoah, con una nota di L. Parente, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2005, p. 20.

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priamente, dell’Historikerstreit, fenomeno cui abbiamo già accennato sopra. È la contesa, o disputa, tra gli storici in merito alla tesi di Ernst Nolte «sul nazismo come reazione uguale e contraria al comunismo»16. In questo modo Nolte non nega lo sterminio degli ebrei ma lo ‘ricontestualizza’ all’interno di dinamiche europee di cui sarebbe stato il prodotto, a partire dal confronto dell’Europa continentale con la strategia espansionista praticata dall’Unione Sovietica. La tensione permanente tra gli Stati liberaldemocratici e l’Urss, in un arco di tempo che è significativamente definito come il trentennio in cui si sarebbe consumata una «guerra civile europea»17, tra il 1917 e il 1945, avrebbe generato un agire imitativo da parte di Hitler nei confronti di Stalin. In buona sostanza, per usare le note parole di Nolte, «lo ‘sterminio di classe’ dei bolscevichi» costituirebbe «il prius logico e fattuale dello ‘sterminio di razza dei nazionalsocialisti’»18. La paura di una brutale aggressione sovietica, di natura «asiatica», volta a distruggere le fondamenta delle società europee, avrebbe quindi indotto a una sorta di reazione uguale e contraria chi, come i nazionalsocialisti, si poneva in netta contrapposizione ai comunisti. Da ciò deriverebbero, quanto meno sul piano interpretativo, diversi effetti di ricaduta. Tra di essi il posto che deve occupare la Shoah, la cui effettività non è peraltro messa in alcun modo in discussione, ma che andrebbe inquadrata nelle dinamiche contrappositive tra due distinti (ma in qualche modo anche simmetrici) ‘imperi del male’, la Germania di Hitler e l’Urss di Stalin. Tutta la costruzione revisionista si gioca sul livello della persuasività di un’interpretazione presentata come alternativa a quella 16   Si veda Francesco Germinario, Estranei alla democrazia cit., p. 92, ma anche Ermanno Vitale, Nolte e il Novecento. Il comunismo come «male assoluto», in «Teoria politica», n. 1, 1997, pp. 69-81. 17   Ernst Nolte, Nazionalsocialismo e bolscevismo. La guerra civile europea 1917-1945, Sansoni, Firenze 1989 (ed. or., Der europäische Bürgerkrieg 19171945. Nationalsozialismus und Bolschewismus, Herbig Verlag, Frankfurt 1989) e successive edizioni ma anche Controversie. Nazionalsocialismo, bolscevismo, questione ebraica nella storia del Novecento, Tea, Milano 2002 (ed. or., Streitpunkte: Heutige und künftige Kontroversen um den Nationalsozialismus, Propyläen Verlag, Berlin 1993). 18   Ernst Nolte, Il passato che non vuole passare, in Gian Enrico Rusconi (a cura di), Germania: un passato che non passa cit., p. 8.

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corrente, disinteressandosi spesso della coerenza tra dati di fatto, per privilegiare invece un approccio dichiaratamente narrativo, piuttosto incauto rispetto ai riscontri, verso i quali rivela una sostanziale indifferenza di fondo. Il canone dominante, nel revisionismo da Nolte in poi, è peraltro l’eliminazione di ogni filtro teorico nei confronti delle fonti documentarie attraverso il rispecchiamento diretto in esse, ovvero l’identificazione con la loro autorappresentazione. Si instaura così una falsa avalutatività che arriva a rileggere il nazismo come una forma di modernizzazione (come nel caso del lavoro di Rainer Zitelmann su Hitler)19, privilegiando il problema del consenso e della natura di massa dell’organizzazione del regime senza però fornire di entrambi i fenomeni una chiave di lettura che non sia il mero appiattimento su di essi. L’idea stessa di modernizzazione è infatti assunta in chiave acritica, non cogliendone i molti elementi di patogenicità. L’effetto che ne deriva da subito è uno stemperamento della gravità dei crimini nazisti, come della specificità del genocidio ebraico, nel più generale panorama dei massacri e delle tragedie collettive del Novecento. Passo dopo passo, peraltro, lo stesso Nolte è pervenuto a riconoscere implicitamente una corresponsabilità, quanto meno indiretta, degli ebrei rispetto alle loro disgrazie. Più in generale l’affermarsi del fenomeno del revisionismo, che da sempre privilegia l’approccio al quadro generale, tralasciando gli aspetti ritenuti di dettaglio delle vicende storiche, sui quali non si pronuncia (di contro al negazionismo, che invece lavora sul dettaglio per poi mettere in discussione l’intera intelaiatura fattuale), ha costituito per il negazionismo un’opportunità insperata, aprendo nuovi orizzonti alla sua prassi di autoaccreditamento presso una parte del grande pubblico. Non a caso, nel loro reiterare il rifiuto radicale e inappellabile dell’evidenza di un fatto, o di una pluralità correlata di eventi storici, i negazionisti ambiscono a presentarsi essi stessi come revisionisti, demandando per l’appunto a un «revisionismo olocaustico» il senso del loro agire critico. In ciò cercano una legittimazione di ordine storiografico e un riconoscimento di natura politica che dovrebbero garantire 19   Rainer Zitelmann, Hitler, Laterza, Roma-Bari 1991 (ed. or., Adolf Hitler. Eine politische Biographie, Musterschmidt, Göttingen 1989).

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un superamento definitivo di quella soglia critica al di sotto della quale non sono legittimati a interloquire se non con sé stessi. Il revisionismo si presenta quindi come una strategia di rilettura critica dei dati storici aggregati e, del pari, una proposta di reinterpretazione di ampio respiro di interi periodi storici20, secondo un’impostazione a tratti quasi filosofica. Così facendo privilegia un approccio narrativo, discorsivo, basato sulle grandi sintesi, nella convinzione che la storiografia sia una disciplina a statuto debole poiché destinata a misurarsi con i singoli eventi, e con le loro qualità, e non con le quantità. Fortissima è quindi la propensione a rivestire di un abito ideologico le proprie interpretazioni, poiché l’ideologia diventa la garante della solidità dell’impianto culturale di una interpretazione che si vuole onnicomprensiva. Il negazionismo, invece, millanta la sua adesione a un paradigma forte, apparentemente ‘scientifico’, ribadendo la possibilità di poter raggiungere una conoscenza piena, totale dell’evento, in tutti i suoi aspetti. Per tale ragione, più che alla qualità (e alla singolarità) dei fatti punta alla quantità. Nel caso della Shoah quantità significa insieme di numeri, misure, ossia ripetibilità (e quindi, su un piano metodologico, la riscontrabilità e verificabilità dei numeri dentro uno schema rigido). Il tutto deve incastrarsi all’interno di un’intelaiatura precostituita. La storia, dal punto di vista negazionista, non può presentare discontinuità. Laddove le fonti dovessero parlare alternativamente, sarebbero destituite di valore. Ciò facendo cerca di mettere in difficoltà i suoi interlocutori, accusandoli di ‘non stare al punto’, ovvero alla presunta oggettività degli elementi, che invece vengono enfatizzati come dirimenti per avvalorare l’interpretazione negazionista. Questo atteggiamento ha peraltro un buon riscontro tra quanti, soprattutto nel grande pubblico, fanno proprio un approccio ingenuo alla ricerca storica. Tutti gli elementi del passato sono quindi isolati e indagati nella loro singolarità, così come un archeologo può fare per un singolo reperto, evitando però di riportarli al contesto al quale fanno riferimento. Si tratta – in questo caso – di un passaggio strategico, 20   Domenico Losurdo, Il revisionismo storico: problemi e miti, Laterza, Roma-Bari 1996.

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poiché il giudizio che il negazionista dà è legato sempre e solo alla singola fonte. In base alla sentenza inappellabile di veridicità o di inverosimiglianza si fa poi derivare, a cascata, la valutazione sul quadro complessivo. La decontestualizzazione, allora, opera in un duplice senso: da un lato sottrae un dato dal suo ambito, dall’altro lo recupera forzatamente, nel momento in cui, dopo averlo riletto con voce diversa, si estende immediatamente la valutazione che si è formulata su di esso all’intero contesto interpretativo. Non è quindi la conoscenza dell’ambito che dà rilevanza al particolare ma è il particolare che crea l’ambito storico medesimo. Si tratta di un procedimento anch’esso ideologico, che parte dal presupposto – in sé falso – che una fonte, qualunque essa sia, parli da sé, dicendoci, per il solo fatto di esistere, cose significative, senza che debba essere confrontata con il tempo, l’ambiente e il luogo di cui è espressione. Non di meno questo modo di agire, ancorché fallace, dà l’idea agli osservatori meno accorti che il parametro dell’obiettività sia così rispettato. Tale ossessione maniacale per una pseudoggettività del dato si compie definitivamente quando il negazionismo si adopera nella lettura pro domo sua di elementi inventati di sana pianta. Il punto di forza, qui, non sta nell’invenzione ma nella ripetizione: ciò che non esiste, per il fatto stesso di essere riprodotto indefinitamente, assume una vita sua propria. Il modulo comunicativo è quindi quello della reiterazione decontestualizzata: si prende una qualsiasi fonte, o la si crea, semplicemente leggendone i suoi contenuti senza nessun rapporto con l’ambito in cui sono stati generati – tale fonte è preferibile se presenta una connotazione di neutralità e di oggettività (ad esempio, un documento dove non si parla di persone e di deportazione ma di «pezzi» e di «evacuazione»); da tale fonte si ricava un significato che viene blindato, ovvero sottratto a qualsiasi verifica di merito e come tale trasmesso a una platea di lettori e ascoltatori la più ampia possibile. L’effetto di trasmissione acritica produce un consolidamento della plausibilità e della verosimiglianza dell’interpretazione, poiché più ci si allontana dalla fonte, come dal suo contesto, maggiori sono le possibilità di confermare le letture che sono attribuite d’autorità ad essa. Per parte negazionista il fulcro nodale, va ribadito, è rescindere il rapporto tra contesto e fonte: così facendo diventa accettabile un capovolgimento di significati,

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poiché ciò che conta non è più il riscontro logico ma l’investimento ideologico. Su quest’ultimo elemento, peraltro, sono chiamati a pronunciarsi coloro che si riconoscono nelle affermazioni negazioniste, poiché queste necessitano di un plebiscito, ossia di un assenso preventivo, e non di una adesione critica che, se per davvero dovesse darsi, metterebbe in discussione l’impianto di fondo. L’ultimo passaggio è quello della costruzione di un reticolo tra affermazioni diverse ma tutte indirizzate alla negazione, che crea una «realtà parallela»21, la quale può benissimo coesistere con la fattualità e l’empiria, quand’anche queste dovessero smentire le aspettative della narrazione negazionista. Un problema importante, maneggiando materiali come fotografie, discorsi, testi e ogni altro elemento che rimandi al fascismo e al nazismo, è che questi regimi hanno sempre lavorato sulla costituzione di un regno della propaganda dentro il quale collocare la collettività e i tempi storici. La storia, per i fascismi, è pura mitografia. Il presente è una rappresentazione e nient’altro. Da ciò derivano, per lo studioso, due ordini di problemi: primo, la tentazione di dichiarare anticipatamente una completa inutilizzabilità di tali materiali, perché inficiati dai loro contenuti ideologici al punto tale da risultare falsi. Una foto di individui festanti, inneggianti a Hitler, non indica cos’era il nazismo bensì come il nazismo voleva essere inteso. Ma se si adotta questo criterio si rischia di consentire al revisionismo di continuare ad affermare, così come va facendo, che certe dichiarazioni non hanno fondamento. Se Hitler parlava di «sterminio della razza ebraica in Europa», come nel caso del discorso al Reichstag del 30 gennaio 1939, ci si troverà così a dover concludere che si era effettivamente in presenza di un ballon d’essai, ossia di un’iperbole gratuita. Per non rimanere vittime di questa trappola, la contestualizzazione implica allora l’indagare permanentemente sul confine mobile tra costrutto ideologico e azione concreta, senza indulgere nelle semplificazioni ingenue che celebrano a priori il divorzio tra parole e fatti, tra dichiarazioni e condotte. Di converso, adottare una lettura acritica e priva di distanziamento dai materiali medesimi, facendo coincidere le affermazio  Pier Paolo Poggio, Il negazionismo alla francese cit., p. 221.

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ni con i comportamenti, secondo una reciprocità immediata che nessun regime politico, e men che meno quelli totalitari, ha mai voluto né potuto garantire, induce un errore simmetrico a quello precedente: quello di credere a tutto ciò che i fascismi hanno detto di sé. Se si scambia l’immaginario propagandistico con la realtà quotidiana, se si ritiene che la mimesi sia la strada obbligata per interpretare l’autorappresentazione nel nazifascismo, allora si rischia di diventare involontari incensatori della sua opera. Il problema che i regimi reazionari di massa hanno imposto all’attenzione non solo degli studiosi ma anche del grande pubblico, trattandosi di sistemi politici dotati di una grandissima capacità mitopoietica, è piuttosto quello del rapporto tra configurazioni ideologiche e condotte collettive. Nel nesso tra queste e quelle si situa la questione del consenso che hanno saputo costruire e che rimane una sfida con la quale ogni democratico deve confrontarsi. Per lo storico la riflessione non può essere diversa. Ammonisce quindi Pierre Vidal-Naquet: «se il discorso storico non si collega, e sia pure attraverso i più svariati intermediari, a ciò che in mancanza di meglio chiameremo il reale, noi saremo sempre nell’ambito del discorso, ma questo discorso avrà cessato di essere storico»22. Si possono concludere questi brevi cenni sui nessi tra revisionismo e negazionismo affermando che entrambi si adoperano per la decostruzione della storia, sia pure da posizioni diverse. Il negazionismo enfatizza l’approccio del primo: sulla base di false equivalenze nella formulazione del giudizio morale (‘tutti soffrono’) si arriva infine alla rimozione dei fatti storici. La storia in salsa negazionista è fatta da innumerevoli incertezze fattuali intervallate da strenue certezze ideologiche. Gli eventi diventano intercambiabili e il loro resoconto è condiviso o rifiutato in base all’appartenenza ideologica del testimone. Così come la lettura delle fonti è del tutto decontestualizzata, per essere poi meglio indirizzata nel senso di assecondare il giudizio di valore precostituito. A cornice di questo approccio si pone infine il ribaltamento sui propri critici dell’accusa di coltivare un atteggiamento di pregiudizio: sarebbe la storiografia ‘ufficiale’ ad essere condizionata da tale 22   Pierre Vidal-Naquet, Gli assassini della memoria: saggi sul revisionismo e la Shoah, Viella, Roma 2008 (ed. or., Les assassins de la mémoire: ‘un Eichman de papier’ et autres essais sur le révisionnisme, La Découverte, Paris 1987), p. 186.

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impostazione, poiché protesa unicamente a celebrare l’apologia dei vincitori della Seconda guerra mondiale. Di riflesso, il fronte negazionista presenta sé stesso come l’unico titolare di un’autenticità che gli deriverebbe dal non alimentare posizioni precostituite ma dal cercare piuttosto la ‘verità’, celata dal gioco degli interessi. Da questo campo di conflitti delle interpretazioni, dove la posta in gioco è la delegittimazione dell’interlocutore, emerge solo una sorta di stato confusionale, che è favorevole terreno per l’affermazione delle teorie complottistiche della storia. Il modo stesso in cui i negazionisti imputano agli storici la responsabilità di omettere o di mistificare è segno di tale impostazione, che trova poi fertili riscontri in alcuni giudizi di senso comune, quelli volti alla perenne ricerca di una ‘verità altra’ e, quindi, di un colpevole delle presunte manipolazioni.

A titolo di parziale conclusione: il negazionismo tra cospirazionismo e web Come si è già avuto modo di osservare, il nesso che lega in maniera indissolubile il negazionismo all’antisemitismo è l’accusa, rivolta agli ebrei stessi, di essere i costruttori di un «mito», quello del proprio sterminio. Il teorema di fondo che dà spessore a tale affermazione indica nella ‘natura’ degli ebrei la disposizione d’animo a falsificare la storia, naturalmente a proprio esclusivo beneficio. L’antisemitismo si presenta indossando così le nobili vesti di una legittima reazione all’altrui offesa, una necessaria risposta nei confronti dell’aggressione provocata da quanti coltivano un progetto egemonico sotto mentite spoglie. Il vecchio dettato antisemitico è stato ripreso, con rinnovata forza, dall’ultima generazione di negazionisti, quelli che si dividono tra denuncia del «sionismo», attacco al «mondialismo» come prodotto di una globalizzazione senz’anima, dove le differenze culturali vengono distrutte dalla macchina dell’omologazione, ed enfatizzazione del «differenzialismo», ovvero della diversità come trincea contro la barbarie dell’«americanizzazione» del mondo intero. C’è molto di già sentito, in tutto ciò, ma anche qualcosa di nuovo, poiché la prerogativa di questi ragionamenti non sta nella loro presunta innovatività bensì nel coniugarsi a un nuovo interlocutore politico, il radicalismo islamico, e a uno spazio virtuale, il web. Se nel primo caso il negazionismo diventa funzionale a un più ampio appello agli oppressi, quelli dal giogo ebraico, assumendo la natura di una reazione globale, epocale alla sfida del «sionismo», nel secondo fa propri i caratteri di una sfida, quella alla dimensione occulta che presiederebbe l’indirizzo dei processi storici. Questa cornice di false evidenze viene calata in un ambiente quale quello delle chat, dei blog, dei social network, dove l’in-

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finitezza della possibilità di narrazione è pari solo al relativismo delle scale di significati e all’indistinzione tra affermazioni astratte e loro concreto riscontro negli eventi della vita quotidiana. Più in generale, il negazionismo trova qui una sua valorizzazione in virtù del presupposto di assoluta equivalenza tra tesi e antitesi, ipotesi, affermazioni, deduzioni e controdeduzioni, dove i fatti coesistono e coabitano con la controfattualità e dove il principio stesso della prova è reso opzionale, e quindi asservito alla predominanza dei processi di persuasività e seduzione intellettuale. Il web presenta la narrazione storica come la ripetizione di un eterno presente, dove a contare è la ridondanza di certe tesi più che qualsiasi ricerca di merito sulla veridicità delle affermazioni. Le stesse teorie della cospirazione, che trovano ad esempio in un prolifico autore come Maurizio Blondet un punto di riferimento1, si rinnovano grazie agli infiniti percorsi della diceria che accompagnano le forme della comunicazione nell’età della sua virtualità globalizzata. Se si fa eccezione per i siti dichiaratamente neonazisti, che costituiscono un circuito a sé, il registro retorico prevalente nei siti negazionisti si basa su uno schema piuttosto collaudato. La procedura più diffusa consiste in genere nel presentare all’utente una serie di asserzioni sull’esistenza dello sterminio per poi passare subito alla loro confutazione tramite controprove empiriche (come nel caso degli scatti aerei di air-photo2), chimiche, biologiche (così come si può leggere nel sito di Carlos Whitlock Porter3) o infine pseudostoriche. L’attenzione dei negazionisti tende ancora una volta a concentrarsi su microeventi, particolari di nicchia, numeri e cose, che si concludono in sé stessi senza bisogno di quadri storici impegnativi. L’intento è portare il navigatore del web, in quanto lettore passivo, impossibilitato sia a riscontri diretti che indiretti, a un dubbio sempre più marcato sui fatti e sui numeri della   Blondet, giornalista e scrittore appartenente al cattolicesimo tradizionalista, direttore della testata giornalistica online «Effedieffe.com» edita da Effedieffe Edizioni, è un autore prolifico. Ha pubblicato, tra gli altri, I Fanatici dell’Apocalisse. L’ultimo assalto a Gerusalemme, Il Cerchio, Rimini 1993; Chi comanda in America, Effedieffe, Milano 2002; Complotti vecchi e nuovi, Il Minotauro, Roma 2002; Schiavi delle banche, Effedieffe, Milano 2004; Israele, USA, il terrorismo islamico, Effedieffe, Milano 2005. 2   www.air-photo.com. 3   www.cwporter.com. 1

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Shoah. La parvenza storico-scientifica è la condicio sine qua non di un buon sito di tal genere. L’informazione deve essere chiara, immediata, convincente. Concentrare il lavoro nella confutazione di alcune asserzioni è la garanzia per soddisfare queste premesse. Dimostrata la fallacità di alcuni assunti «sterminazionisti» si aprono le porte ai ‘legittimi sospetti’ sulle verità consolidate: sei milioni di vittime? progetti di genocidio? camere a gas? sarà tutto vero o è una finzione? Valgono al riguardo le considerazioni di Sergio Luzzatto quando afferma: le attuali fortune del negazionismo partecipano di una crisi ermeneutica generalizzata, della quale soprattutto meriterebbe discutere: e tanto più in quanto tale crisi investe frontalmente le nuove generazioni. Oggi, chiunque sia insegnante [...] sa che i ragazzi hanno un unico criterio di verità: «L’ho trovato su internet!». Oggi, il digital divide non separa soltanto chi l’accesso a internet non ce l’ha: separa una generazione (la nostra) che ancora si è formata, bene o male, sulla forma-libro e sulla critica dei testi, da una generazione (quella dei nostri figli) il cui nativismo digitale significa un’impreparazione spesso totale rispetto alle insidie conoscitive della rete4.

Internet non è riconducibile alla sola informatica: è una sfera virtuale che chiama in causa significativi aspetti caratteriali dell’individuo, sollecitandone un individualismo assoluto, un narcisismo tanto esasperato quanto debole poiché, come ogni narcisismo, oltre ad essere specchio di morte è anche annullamento della soggettività. Sul discorso della morte, della sua visibilità e del suo occultamento, il negazionismo gioca una parte della sua seduttività, alimentando un relativismo gnoseologico e cognitivo che si incontra con il cinismo e lo scetticismo, fattori che giocano un ruolo rilevante nel modo in cui una parte dei giovani e dei meno giovani si rapporta a sé e al mondo circostante. Rileva Battini che «i negazionisti producono il falso nella forma dell’affermazione di ciò che non è mai accaduto o in quella della dichiarazione dell’irrealtà di ciò che è accaduto [...]. Lo sterminio, 4   Sergio Luzzatto, La neo-ignoranza è un digital divide, in «Il Sole 24 Ore», 31 ottobre 2010.

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comunque, sarebbe una menzogna, e la cosiddetta ‘menzogna di Auschwitz’ costituirebbe l’ultimo documento del complotto ebraico»5. La tesi che la falsificazione della realtà sarebbe funzionale all’occultamento di interessi inconfessabili ha ritrovato così nuovo vigore negli anni più recenti, dinanzi all’evoluzione di una società planetaria contraddistinta dalla globalizzazione finanziaria e dalla sempre maggiore incomprensibilità dei tracciati di una «modernità liquida», come è stata definita dal filosofo e sociologo Zygmunt Bauman. L’ultima stagione del negazionismo sposa completamente il sodalizio tra sapere e potere. Contestare la «menzogna di Auschwitz» vuol dire denunciare il potere ebraico; mettere a nudo l’egemonia sionista sul mondo implica lottare contro le ingiustizie di cui essa si alimenta; adoperarsi contro le ingiustizie, oltre ad essere di per sé nobilitante, è la premessa per costruire un nuovo mondo, ispirato a ideali spirituali e creativi. Si tratta, a ben vedere, di un programma politico che fa della denuncia, a trecentosessanta gradi, di connivenze e compromissioni, volute da poteri «forti» e «occulti», il primo passo per la promessa di un’opera di emancipazione dei popoli. Su questo programma possono convergere più protagonisti, provenienti anche da diverse esperienze politiche. Il negazionismo antimondialista si crea da sé le fonti documentarie, manifestando un sostanziale disinteresse per quella ricerca documentaria che ha contraddistinto alcuni autori delle vulgate precedenti: il suo obiettivo infatti è quello della denuncia non di un passato falsificato ma di un presente intollerabile. Politicamente si alimenta dell’intreccio tra il neopopulismo, il vecchio terzomondismo e il comunitarismo. In campo islamista questa saldatura ideologica è netta. Sono tre ingredienti il cui intreccio è reso possibile dall’identificazione di una nuova «questione ebraica», quella incarnata dall’intollerabilità della presenza dello Stato d’Israele6, inteso come ebreo collettivo, il quale raccoglie e condensa in un’unica istanza i peggiori aspetti attributi all’«eterno giudeo», 5   Michele Battini, Il socialismo degli imbecilli. Propaganda, falsificazione, persecuzione degli ebrei, Bollati Boringhieri, Torino 2010, pp. 253-254. 6   Al riguardo si vedano, tra gli altri, Pierre-André Taguieff, La nouvelle propagande antijuive, Presses Universitaires de France, Paris 2010 e il capitolo intitolato De la création d’Israël à la montée des communautarismes (1948-2009)

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quello che non muta mai nella sua malvagità. Strategico, in questa dinamica, rimane poi il riferimento al trattamento dei palestinesi, inteso come matrice della violenza che sarebbe insita nel giudaismo, incarnatosi ora in una realtà politica permanente. Al di là dei rituali esercizi avversi agli ebrei, tuttavia, quella che è in gioco, in maniera assai più sottile che nel passato, è la competizione per l’assunzione dello ‘statuto vittimario’ attraverso il ribaltamento delle accuse di razzismo sugli ebrei. L’obiettivo è duplice: demanda, in primo luogo, al desiderio di accedere a una lucrosa posta del gioco politico, oggi tanto più ambita in assenza di altre, laddove il definirsi (e l’essere accetto) come vittima dell’azione altrui implica il poter avanzare richieste di riconoscimento e risarcimento pubblico, potenzialmente redditizie sul piano politico. Nel caso dei negazionisti, che di sé hanno sempre offerto la rappresentazione di illegittimamente esclusi dalla comunità scientifica – quindi di vittime per definizione –, il conflitto israelo-palestinese rilancia le loro credenziali morali di titolari di una visione tanto scomoda quanto obiettiva, quella per cui gli ebrei sono agenti della storia non innocenti: «Per accusare i ’sionisti’ di avere inventato la morte degli ebrei, bisogna intanto affermare che questa morte è una menzogna»7. Non a caso, infatti, il secondo obiettivo è quello di costringere alla delegittimazione i destinatari delle proprie accuse, mettendone in discussione lo statuto pubblico di vittime e trasformandoli in carnefici, in un gioco di sovrapposizioni tra persecuzioni subite e comminate al cui termine c’è il capovolgimento dei ruoli: gli israe­ liani sono i nuovi nazisti. La definizione che gli ebrei fanno di sé stessi come vittime è quindi un «mito», usato come strumento per celare le proprie nequizie. Il mito, divenendo narrazione diffusa ad arte attraverso i mezzi di comunicazione, si trasforma in «mitologia dell’Olocausto» che, nel lessico ambiguo di certi autori, trascolora in espressioni più sfumate come «sacralizzazione della Shoah» fino a pervenire al più asettico e neutrale «uso politico nel libro di Michel Dreyfus, L’antisémitisme à gauche. Histoire d’un paradoxe, de 1830 à nos jours, La Découverte, Paris 2009. 7   Nadine Fresco, Fabrication d’une antisémite, Seuil, Paris 1999, pp. 571572, ora citata in Francesco Germinario, Estranei alla democrazia: negazionismo e antisemitismo nella destra radicale italiana, Bfs Editore, Pisa 2001, p. 59.

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dell’Olocausto». Mitologia, sacralizzazione e uso politico indicano tre fenomeni diversi, non assimilabili aprioristicamente sotto un unico indice, quello negazionista. Tuttavia, in alcuni percorsi intellettuali, assurgono a gradazioni distinte di un risentimento comune. Contestare allo Stato d’Israele il ricorso a un uso politico, a proprio vantaggio, dello sterminio degli ebrei non è in sé opera negazionista. E tuttavia, nella misura in cui demanda a un’implicita aspirazione delegittimatoria, laddove è così messo in discussione il fatto stesso che Israele abbia una ragione storica d’esistere, può ricalcare, più o meno inavvertitamente, il solco sul quale si riproduce il discorso negazionista. Che, lo si sarà inteso a questo punto della riflessione, non è lo stravagante esercizio di un piccolo gruppo di eccentrici ma uno degli specchi deformanti della nostra contemporaneità.

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Indici

Indice dei nomi Abbas, Mahmoud (anche Abu Mazen), 147-149, 151, 162. Agee, James, 29n. Ahmadinejad, Mahmud, 72, 96, 104, 164. Almirante, Giorgio, 174. App, Austin Joseph, 102 e n, 103 e n, 105-106, 111. Arafat, Yasser, 161 Arcand, Adrien, 111. Arendt, Hannah, 79 e n. Ariès, Philippe, 68. Armontrout, Bill, 112. Asor Rosa, Alberto, 172n. Atkins, Stephen, 149n. Backers, U., 114n. Banaja Sa‘id, 154n. Barbès, Pierre (pseud. di Guillaume Faye), 95n. Barbie, Klaus, 90. Bardèche, Maurice, 37 e n, 38 e n, 40 e n, 41 e n, 42-44, 53, 97. Barkai, Avraham, 148n. Barnes, Harry Elmer, 22, 23 e n, 24, 101, 102n. Bastian, Till, 114n. Battini, Michele, 7n, 10n, 167 e n, 185, 186 e n. Bauman, Zygmunt, 186. Baynac, Jacques, 74n. Beard, Charles Austin, 24, 26. Bebbington, Dene, 62n. Becker, Annette, 88. Benjamin, Walter, vii. Benoist, Alain de, 28, 92n, 131-132. Bensoussan, Georges, viii e n, 166 e n.

Bermont, Jean-Pierre (pseud. di Paul Rassinier), 44, 125n. Bernadet, Maurice, 66. Beuve-Méry, Hubert, 40. Bifulco, Daniela, xn. Bihr, Alain, 53n. Biscione, Francesco, 139n. Black, Edwin, 148n. Blanrue, Paul-Éric, 97. Blondet, Maurizio, 184 e n. Bologna, Sergio, 171n. Bonnard, Abel, 93. Bordiga, Amadeo, 53, 128 e n, 130. Bourseiller, Christophe, 74n. Brackman, Harold, 149n. Brasillach, Robert, 37, Braudel, Fernand, 69. Brayard, Florent, 41n, 88. Breitbart, Aaron, 149n. Brewer, George, 107. Broszat, Martin, 60, 118, 174 e n. Burrin, Philippe, 88. Butz, Arthur R., 5n, 56, 63 e n, 101 e n. Camus, Jean-Yves, 37n. Carmon, Yigal, 164n. Carto, Willis Allison, 102, 105-107. Cassata, Francesco, 123n. Cattaruzza, Marina, 4n, 17n, 60n, 115n. Cavaglion, Alberto, 11n. Céline, Louis-Ferdinand, 37, 46. Cerutti, François, 74n. Chamberlain, William Henry, 26. Chersi, Andrea, 127 e n. Chomsky, Noam, 83-84. Christie, Douglas, 112.

210 Christophersen, Thies, 63 e n, 105, 132 e n. Collotti, Enzo, 36n. Coogan, Kevin, 28. Craxi, Bettino, 174. Crowell, Samuel, 107. Cru, Jean-Norton, 45. D’Amico Giovanna, 7n. Darquier, Louis, 65. Dartevelle, André, 93n. Daud, Muhammad, 155 e n. Dawidowicz, Lucy, 102 e n, 118, 151. De Felice, Renzo, 174. Degrelle, Léon, 92, 125-126, 129. Didi-Huberman, Georges, 13n. Dieudonné (pseud. di Dieudonné M’bala M’bala), 97. Dreyfus, Michel, 36n, 55n, 187n. Dugin, Aleksandr, 28. Duke, David, 111, 165. Duprat, François, 63 e n, 98. Durkheim, Émile, vii. Eckard, Dietrich, 111n. Eldar, Akiva, 149n. Enzensberger, Hans Magnus, 169, 170n. Eshkoli-Wagman, Hava, 148n. Evans, Richard, 119 e n. Evola, Julius, 123. Farrakan, Louis, 109. Faulhaber, Michael von, 152. Faurisson, Robert, 5n, 17n, 52-57, 58 e n, 59, 60 e n, 61 e n, 62-64, 66-70, 71 e n, 72-74, 76-77, 83 e n, 84-87, 91, 95-97, 101, 105, 107, 112, 115, 118, 126-127, 132, 135, 149 e n, 150, 156, 165. Fay, Sidney Bradshaw, 23. Faye, Guillaume, 28, 94, 95n. Feder, Gottfried, 111n. Feilchenfeld, Werner, 148n. Felderer, Ditlieb, 17n, 112, 139 e n. Ferry, Bernard, 74n. Finkielkraut, Alain, 33. Fiori, Simonetta, 172n. Fleming, Gerard, 118.

Indice dei nomi Flores, Marcello, 4n, 17n, 60n, 114n. Flyn, John Thomas, 26. Foucault, Michel, 94. Frank, Anne, 16 e n, 17n, 62. Frank, Hans, 111n. Frank, Otto, 16n, 17n. Freda, Franco, 124, 139. Fresco, Nadine, 41n, 58n, 187n. Frey, Gehrard, 118. Freyer, Anne, 86. Friedlander, Henry, 85n. Friedländer, Saul, 87n. Friedman, Moshe Aryeh, 165. Friedrich, Christof (pseud. di Ernst Zündel), 111. Friedrich, Mattern (pseud. di Ernst Zündel), 111. Furet, François, 69. Gallerano, Nicola, 172n. Gallino, Luciano, viin. Garaudy, Roger, 75 e n, 76, 96 e n, 150. Gauchet, Marcel, 9. Gaudenzi, Ugo, 139. Germinario, Francesco, 7n, 9n, 34n, 123n, 124n, 129n, 130n, 133n, 138n, 139n, 173n, 175n, 176n, 187n. Gerstein, Kurt, 87. Ghali, Boutros, 161. Godard, Jean-Luc, ix. Graf, Jürgen, 107, 139, 156. Granotier, Bernard, 167n. Grobman, Alex, ixn, 21n, 22n, 116n. Grouès, Henri (Abbé Pierre), 76. Guesde, Jules, 41. Guillaume, Pierre, 3n, 52, 55, 73, 74 e n, 75, 83, 86, 93, 96. Guionnet, Alain, 91, 93-94. Guyard, Marius-François, 68. Halvorson, Bill, 107. Harrer, Karl, 111n. Harwood, Richard (pseud. di Richard Verral), 17n, 62, 63n, 103 e n, 125126, 129. Hassan II (re del Marocco), 155. Hawatmeh, Nayef (nome di battaglia di Abu¯l-Nu¯f), 161. Heidegger, Martin, 94.

Indice dei nomi Heiman, Leo, 102n. Hendry, Teressa, 102n. Henry, Martin, 108. Hess, Rudolf, 111n. Hesseltine, William Best, 29 e n. Hey, Bernd, 87n. Hilberg, Raul, 49 e n, 149, 151. Himmler, Heinrich, 32, 33n, 41. Hitler, Adolf, 9, 27, 56, 77-78, 93, 101-102, 105, 134, 151, 153, 176, 177 e n, 180. Hochmann, Thomas, 70 e n. Hoggan, David L., 101, 102 e n, 106. Höss, Rudolf, 154. Hutcheson, Steve, 154n. Huyghe, François-Bernard, 95 e n. Igounet, Valérie, 38n, 52n, 56n, 59n, 60n, 63n, 72n, 84n, 85n, 86n, 87n, 90n, 91n, 93n, 96n, 134n. Irving, David, 107, 112, 117 e n, 118119. Iwaszko, Tadeusz, 85n. Jäckel, Eberhard, 118. Jaurès, Jean, 41. Joffroy, Pierre, 87n. Joyeux, Maurice, 42. Kahtany, Abdallah, 154 e n. Karsh, Efraim, 149n. King, Martin Luther, 108. Klarsfeld, Serge, 86. Kogon, Eugen, 45. Kozodoy, Neal, 102n. Krege, Richard, 165. Lanzmann, Claude, 158. Lapierre, Nicole, 84n. Laquer, Walter, 31, 117. Larrieu, Jean-Dominique, 89. Laval, Pierre, 36. Leblud, Micheline, 93n. Lecoin, Louis, 42. Lefebvre, Marcel, 120. Lehmann, Julius, 111n. Lemage, Attila (pseud. di Alain Guionnet), 93. Le Pen, Jean-Marie, 63, 90, 96.

211 Leuchter, Frederick (Fred), 89, 107, 110, 112-115, 118-119, 150. Levi, Primo, 33 e n. Levi Della Torre, Stefano, 79. Levi Sullam, Simon, 4n, 17n, 60n, 115n. Levin, Meyer, 16n, 17n. Lindbergh, Charles, 29. Lipstadt, Deborah, 46n, 49n, 62n, 104n, 105n, 107n, 110n, 118. Litvak, Meir, 144n, 150n, 151n, 159n, 161n. Losurdo, Domenico, 178n. Lukacs, John, 117. Luther, Joerg, 4n. Luxemburg, Rosa, 53. Lyotard, Jean-François, 74. Luzzatto, Sergio, 185 e n. Mabire, Jean, 92n. MacKenzie, Paine, 108. Madani, Muhammad Nimr, 150-151. Malcolm X (pseud. di Malcolm Little), 109. Malliavin, André, 44. Martin, François (pseud. di François Cerutti), 74n. Masiri, ‘Abd Al-Wahhab, 162, 163 e n. Mathieu, Olivier, 91 e n, 92, 96n. Mattogno, Carlo, 5n, 107, 127, 131139. Mattogno, Gian Pio, 133. Mayer, Milton, 29n. McCalden, David (alias Lewis Brandon), 105. McCloskey, Pete, 107. Medoff, Rafael, 149n. Melka, R., 148n. Michaelis, Dolf, 148n. Milza, Pierre, 74. Minard, Adrien, 96n. Modrelle, Tristan, 89. Monzat, René, 37n. Moulin, Jacques (pseud. di Alain Gu­ ionnet), 93. Muhammad, Eric, 109. Muravchik, Joshua, 109n. Mussolini, Benito, 77. Myre, Greg, 149n.

212 Nakhleh, Issa, 157 e n. Nasser, Gamal Abdel, 143. Natshe, Rafiq Shakir, 152 e n, 154. Nicosia, Francis R., 148n. Nielsen, Harald, 16n. Nietzsche, Friedrich, 94. Nolte, Ernst, 172, 176 e n, 177. Notin, Bernard, 90. Nunes da Silva, Americo, 74n. Pakula, Alan, 158. Pansa, Giampaolo, 175. Paraz, Albert, 46n. Paz, Reuven, 160n. Pétain, Philippe, 36. Pinner, Ludwig, 148n. Piper, Franciszek, 85n. Pipes, Daniel, 146n. Pisanò, Giorgio, 123 e n. Pisanty, Valentina, 4n, 16n, 59n, 60n, 62n, 84n, 101n, 107n, 109n, 115n. Platin, Jean, 84, 91. Poggio, Pier Paolo, 37n, 79n, 81n, 169n, 171n, 172n, 180n. Poleken, Klaus, 148n. Poliakov, Léon, 68, 151. Porat, Dina, 158n. Porter, Carlos Whitlock, 184. Prazan, Michaël, 96n. Pressac, Jean-Claude, 84, 85 e n, 86 e n, 114 e n, 134 e n. Prochasson, Christophe, 45n. Proudhon, Pierre-Joseph, 36. Rami, Ahmed, 107, 155-157, 165. Rasmussen, Anne, 45n. Rassinier, Paul, 3n, 38, 40, 41 e n, 4247, 48 e n, 49, 50 e n, 51-56, 6162, 72-77, 87-88, 97, 102n, 125 e n, 127. Ratier, Emmanuel, 93n. Reagan, Ronald, 173. Renouf, Michèle, 165. Revelli, Marco, 175. Reynouard, Vincent, 84. Rickling, Matthias, 67n. Rimland, Ingrid, 111. Roosevelt, Franklin Delano, 25-27. Roques, Henri, 87-89, 91, 96, 150.

Indice dei nomi Roseman, Herbert, 102n. Rosenberg, Alfred, 89, 111n. Rotondi, Francesco, 73n, 110n, 113n, 115n, 135 e n, 175n. Rousso, Henry, x-xi, 4n, 67n, 76 e n, 88 e n. Rudolf, Germar, 107, 111. Rusconi, Gian Enrico, 173n. Sa‘fan, Kamal, 154 e n. Sagi, Nana, 37n. Saletta, Cesare, 3n, 127 e n, 128, 130n, 139. Sanborn, Friedrich R., 26. Schmitt, Carl, 94. Segev, Tom, 148n. Seidel, Gill, 66n. Sella, Piero, 139. Sereny, Gitta, 117. Shermer, Michael, ixn, 21n, 22n, 116n. Shimali, Nasr, 152, 153 e n. Sivan, Emmanuel, 145n. Smith, Bradley R., 12n, 107, 112. Sobran, Joseph, 107. Sombart, Werner, 81. Sommers, Ernest, 108. Spengler, Oswald, 28. Spielberg, Steven, 158. Squires, Nick, 121n. Stalin (Josif Vissarionovicˇ Džugašvili), 26, 128, 176. Stauber, Roni, 158n. Sternhell, Zeev, 35. Stockhecke, Kerstin, 87n. Sydnor, Charles N., 118. Taft, Robert, 29. Taguieff, Pierre-André, 89n, 92n, 100 e n, 186n. Tansill, Charles Callan, 26-27. Tarchi, Marco, 131 e n. Thatcher, Margaret, 173. Théolleyre, Jean-Marc, 17n. Thion, Serge, 59n, 67n, 73, 83 e n, 127. Thiriart, Jean, 28, Thomas, David, 108. Thompson, Eric, 111. Töben, Fredrick, 165.

Indice dei nomi Tomba, Massimiliano, 56n. Toussenel, Alphonse, 36. Traverso, Enzo, 4n, 17n, 60n, 115n. Tydor Baumel, Judith, 11n. Utley, Freda, 27, 28n. Varange, Ulick (pseud. di Francis Parker Yockey), 28. Venner, Dominique, 92n. Vernant, Jean-Pierre, 69. Verrall, Richard, 62-63, 103 e n, 104105. Veyne, Paul, 69. Vidal-Naquet, Pierre, viii e n, ixn, 13, 14n, 19, 20n, 68, 72, 74n, 75n, 84 e n, 86, 133 e n, 181 e n. Videlier, Philippe, 36n, 40n, 44n, 79n. Vitale, Ermanno, 176n. Walendy, Udo, 105. Weber, Mark, 12n, 83, 107 e n, 112.

213 Webman, Esther, 144n, 150n, 151n, 159n, 161n. Wegner, Werner, 114 e n. Weiss, Yisroel Dovid, 165. Weizmann, Chaim, 126. Wellers, Georges, 66, 72, 114 e n. Widmann, Richard, 108. Wiesenthal, Simon, 33n. Wieviorka, Annette, 99n. Williamson, Richard, 120-121. Wilson, Woodrow, 25. Wormser, Olga, 66. Yisraeli, David, 148n. Yockey, Francis Parker, 28, 101, 105106. Zanin, Valter, 56n. Zimmerman, John C., 135 e n. Zitelmann, Rainer, 177 e n. Zündel, Ernst, 89, 104, 107, 110 e n, 111-112, 118.

Indice del volume

Introduzione

1. Il negazionismo: una definizione in forma di introduzione

vii

3

1.1. Mettere a fuoco il problema: il senso delle parole, p. 3 - 1.2. Cosa dicono i negazionisti e come lo fanno, p. 10 - 1.3. Il metodo negazionista, p. 14

2. Lo sviluppo del negazionismo

23

2.1. Il revisionismo storiografico americano, p. 23 - 2.2. La Francia del dopoguerra, p. 34 - 2.3. Paul Rassinier, p. 41 - 2.4. L’entrata in scena di Robert Faurisson, p. 52 - 2.5. La figura di Robert Faurisson, p. 55 - 2.6. Durante e dopo Faurisson, la sinistra negazionista, p. 72 - 2.7. Relazioni durature, p. 83 - 2.8. Fine di una stagione?, p. 91

3. Il negazionismo americano

101

3.1. Un background consistente, p. 101 - 3.2. Il passaggio alla dimensione ‘tecnica’, p. 105 - 3.3. Leuchter, Zündel e Irving, p. 110

4. Il negazionismo italiano

122

4.1. Una dottrina senza padri, p. 122 - 4.2. Il bisogno di spiccare il volo: Carlo Mattogno, p. 131 - 4.3. Nuovi orizzonti, p. 138

5. Il negazionismo nei paesi arabi e musulmani

142

5.1. Nuovi approdi, vecchi rancori, p. 142 - 5.2. Un universo a sé, p. 147 - 5.3. Tra rappresentazioni e manipolazioni, p. 157

6. Negazionismo e revisionismo 6.1. All’origine di un nesso, p. 168 - 6.2. Tra Scilla e Cariddi: due procedure ideologiche, p. 174

168

216



A titolo di parziale conclusione: il negazionismo tra cospirazionismo e web

Indice del volume

183

Bibliografia 189

Indice dei nomi 209