Il narcisismo
 8815116451, 9788815116451

Table of contents :
Frontespizio
Premessa
Dalla mitologia alla botanica
Il mito di Narciso
Specchi antichi e moderni
Narcisismo e psicoanalisi
Uno sguardo d’insieme
Chi è l’altro?
Narcisismo felice e infelice
L’immagine del pendolo
Narcisismo e pulsioni
Per fare il punto
Il narcisismo nella vita quotidiana
Fissazione e regressione: la reintegrazione narcisistica
Apprendere dal mondo politico
Gli «oggetti» narcisistici: l’esempio delle religioni
Sosta e primo bilancio
In famiglia
Dal narcisismo primario a quello secondario
La mamma è sempre la mamma?
La mamma, il papà e il narcisismo
Chi ama chi?
Narcisismo e concezioni dell’individuo
Tirando le fila
Narcisismo e oralità: voracità con e senza virgolette
Antipasto
L’oralità e la mamma
Un caso clinico
Neonati e uomini voraci
E le turbe dell’alimentazione?
Equilibri felici...
… con qualche inquietudine
Narcisismo anale: l’elaborazione dei limiti
Includere o escludere gli altri?
Elaborazione dei limiti
Espellere o trattenere?
Carattere e analità
L’ostinazione
La parsimonia e la tendenza all’ordine
Uno sguardo d’insieme e un’occhiata al masochismo
Narcisismo fallico
Dal pene al fallo
Il carattere fallico-narcisistico
Un esempio femminile...
… e uno maschile
E le relazioni narcisistiche?
Un’immagine di sé inattaccabile
Narcisismo sano
Uno sguardo al conflitto edipico
Edipo e Narciso
«Ama il prossimo tuo come te stesso»?
Ovidio e Freud
Nota finale: il narcisismo come difesa
Per saperne di più

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Nel linguaggio comune siamo abituati ad associare al termine narcisismo vanità, esibizione, megalomania ma anche nevrosi e comportamenti patologici. Siamo fuori strada: il narcisismo è una dimensione fondamentale e normale dell'attività psichica, che ci riguarda tutti e in ogni fase della vita. Ripercorrendo il mito di Narciso creato da Ovidio e giungendo fino a Freud e alla ricerca psicoanalitica attuale, questo libro ci fa capire quanto Narciso sia presente nella nostra quotidianità - dal mondo della famiglia a quello della politica - e ci influenzi nella costruzione delle nostre relazioni affettive e sociali. Ci mostra infine come l'amore di sé possa anche danneggiarci, ma come sia necessario per poter stare bene in compagnia degli altri. Antonio Alberto Semi è membro ordinario della Società psicoanalitica italiana. Tra le sue pubblicazioni: "Trattato di psicoanalisi" (a cura di, Bollati-Boringhieri, 1988-89), "Sigmund Freud. Opere scelte" (a cura di, Bollati-Boringhieri, 1999) e "La coscienza in psicoanalisi" (Cortina, 2003).

Antonio Alberto Semi

Il narcisismo

Copyright © by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i diritti sono riservati. Per altre informazioni si veda http://www.mulino.it/ebook Edizione a stampa 2007 ISBN 978-88-15-11645-1 Edizione e-book 2010, realizzata dal Mulino - Bologna ISBN 978-88-15-30055-3

Indice Premessa

1.

Dalla mitologia alla botanica

2.

Narcisismo e psicoanalisi

3.

Il narcisismo nella vita quotidiana

4.

Narcisismo e oralità: voracità con e senza virgolette

5.

Narcisismo anale: l’elaborazione dei limiti

6.

Narcisismo fallico

7.

Narcisismo sano Per saperne di più

Premessa

Scrivere un libro sul narcisismo può mettere a dura prova sia il narcisismo mio sia quello dei lettori. Il mio, perché su questo tema si sono cimentati, in oltre un secolo di psicoanalisi, tutti i maggiori studiosi di questa disciplina e può essere frustrante trovarsi a ripetere solamente il pensiero degli altri o dover constatare di non aver detto alcunché di nuovo. Quello dei lettori perché ogni lettore potrebbe chiedersi se questo libro ha qualcosa da dirgli, cioè se lo considera un interlocutore o, viceversa, se si tratta di un libro «tecnico», staccato dalla vita quotidiana, interessato solo a se stesso. In questo caso, l’interrogativo sarebbe più che giustificato. Innanzitutto, allora, dichiaro di aver cercato di evitare di scrivere un libro narcisistico sul narcisismo e quindi di aver cercato di mostrare gli aspetti del narcisismo che ci riguardano tutti e che quindi ciascuno può sentire in parte come propri. E soprattutto che mi sono prefisso di far vedere l’importanza del narcisismo per la vita quotidiana. Ma desidero avvertire il lettore del fatto che questi interrogativi sono naturalmente legati al tema stesso perché, appunto, il narcisismo è caratterizzato dalla eliminazione dell’altro o perlomeno da un tentativo di questo tipo. In particolare, la persona che soffre acutamente di narcisismo patologico non può tollerare di vedere gli altri, è cieca, sorda. E dunque leggere di atteggiamenti dai quali gli altri ci escludono può essere fastidioso, così come può essere stato – in qualche angolino di me stesso – in qualche misura umiliante, accorgermi che altri pensatori, prima di me, hanno scritto testi fondamentali sullo stesso argomento e che quindi questo mio piccolo testo è «poco mio». In un’altra e più matura logica, naturalmente, il fatto che altri abbiano già studiato il campo ci riempie di gratitudine o il fatto che esistano persone che non riescono a vederci o a considerarci quel che siamo (cioè degli esseri umani) ci stimola la curiosità. Questo libro spera di considerare gli altri, cioè innanzitutto i lettori, ed affronta perciò una piccola descrizione di una serie di situazioni nelle quali tutti ci possiamo ritrovare, con l’aspirazione di consentire una visione umana dei fenomeni narcisistici. Lo farà elencando anche le modalità di una visione narcisistica dei fenomeni umani. Dopotutto, il narcisismo è una componente fondamentale dell’animo umano e solo vedendolo nella sua naturalità si può evitarne la demonizzazione e, anche, si può cercare di capire come apprezzarlo. In ogni caso, va tenuto presente che il concetto di narcisismo fa riferimento a costrutti teorici e a situazioni umane assai complesse, che non possono essere indebitamente semplificate, perché

allora si rischia di perdere proprio il clou del fenomeno: qualche difficoltà, perciò, è inevitabile. Anzi, visto che di narcisismo qui si tratta, ogni lettore – e non solo per questo libro, beninteso – farebbe bene sempre a chiedersi dove stia la difficoltà di comprensione di un testo o di un problema: le difficoltà obiettive esistono, è ovvio, ma non c’è sempre anche una componente nostra, individuale, una attiva resistenza alla comprensione? E non è – questa resistenza – un primo fenomeno narcisistico che possiamo osservare con sufficiente facilità? Introdurre qualcosa, un’idea, un’immagine, uno stimolo proveniente da «fuori» costituisce una alterazione del nostro interno ed una dimostrazione della nostra vulnerabilità. A questa alterazione ci opponiamo sempre e in certi periodi della vita – quando abbiamo più bisogno di sentirci noi stessi proprio perché stiamo cambiando –, come nell’adolescenza, questo atteggiamento può essere molto evidente. Pensiamo solo alle difficoltà scolastiche in adolescenza, che molto spesso esprimono un rifiuto a «far entrare» qualcosa di proveniente (e proposto e in una certa misura imposto) dall’esterno, qualcosa che può modificare il mondo interiore, proprio nel momento in cui c’è il massimo bisogno di sentire di poter dire «io», di potersi sentire padroni di se stessi. Siamo dunque entrati nel tema: i difetti e le complicazioni inutili di questo libro sono da attribuire solo a me, ma un certo tipo di difficoltà spetta anche a ciascun lettore: se questa difficoltà verrà riconosciuta, il lettore potrà comprendere bene una prima accezione del termine «narcisismo». A questo proposito, un’ultima premessa: nel linguaggio quotidiano, la parola «narcisismo» ha assunto una serie di significati che solo parzialmente hanno a che fare con la concezione psicoanalitica del narcisismo. Si usa spesso l’aggettivo «narcisista» per indicare una persona vanitosa, piena di sé, che non si interessa agli altri. Spesso, il termine «narcisista» viene usato accompagnato da un implicito o esplicito giudizio di condanna. I lettori sono invitati a lasciar da parte questa concezione limitata e semmai, ogni tanto, a tirarla fuori per confrontarla con quella che qui viene esposta. E, innanzitutto, a riflettere sul fatto che il narcisismo è un modo essenziale di essere dell’animo umano. Certo, può avere delle declinazioni eccessive, può essere alla base di patologie gravi ma, prima di tutto, è una modalità di pensiero normale, sana, essenziale per la vita stessa.

1.

Dalla mitologia alla botanica

Il mito di Narciso Esporrò, in questo capitolo, il mito di Narciso secondo la formulazione che ne dà Ovidio, nelle Metamorfosi. Prima, però, vorrei che riflettessimo un attimo su una caratteristica dei miti. Ogni mito che si rispetti ha, infatti, differenti versioni e su questo fenomeno occorre soffermarsi un po’ perché si tratta di una regola, la quale esprime, in fondo, la possibilità di dare differenti soluzioni ad un medesimo enigma. Inoltre possono anche esserci degli enigmi che non hanno una soluzione, enigmi la cui funzione è dunque semmai qualificabile come interrogativa, come una sorta di invito continuo a trovare soluzioni sempre diverse e nuove, sapendo però che, per definizione, ci troveremo sempre a pensare, dopo averne trovata una, che «non è la soluzione giusta». Vedremo poi, alla fine di questo capitolo, che la formulazione di un enigma può anche essere indice di un’altra domanda, precedente alla formulazione finale, e che riguarda tutt’altro argomento, ad esempio un interrogativo di botanica: che significato ha o può assumere l’esistenza di un fiore? Questa precisazione iniziale ha una sua importanza, perché sulla sua base possiamo pensare anche che qualunque formulazione e spiegazione di un enigma può non esser altro che un’ulteriore soluzione, magari dotata della medesima efficacia o, per essere più esatti, efficace perché formulata nei termini necessari a quel dato momento storico e a quel dato tipo di fruitori. Ma mai quella «giusta». A proposito della creazione dei miti, in una sua famosa opera intitolata Le grandi correnti della mistica ebraica (1957), Gershom Scholem racconta una vicenda illuminante e la pone – significativamente – a mo’ di conclusione del suo libro. Dopo aver sottolineato l’importanza dell’attività mitopoietica ed aver sostenuto che essa costituì in fondo la più grandiosa novità del chassidismo rispetto alla tradizione ebraica, Scholem fa appunto vedere con un esempio il valore delle variazioni o delle varianti di un racconto mitico. Mi sarà consentito – scrive Scholem – concludere le mie considerazioni con una […] storia che raccontavano i chassidim e che sta ad indicare lo svolgimento del chassidismo stesso. Eccola così come l’ho sentita raccontare dalla viva voce del grande narratore ebreo S.J. Agnon. «Quando Bàal-Shem doveva assolvere un qualche compito difficile, qualcosa di segreto per il bene delle creature, andava allora in un posto nei boschi, accendeva un fuoco, e diceva preghiere, assorto nella meditazione: e tutto si realizzava secondo il suo proposito. Quando, una generazione dopo, il Maggìd di Meseritz si ritrovava di fronte allo stesso compito, riandava in quel posto nel bosco, e diceva: “Non possiamo più fare il fuoco, ma possiamo dire le preghiere” – e tutto andava secondo il suo desiderio. Ancora una generazione dopo, Rabbì Moshè Leib di Sassow doveva assolvere lo stesso compito. Anch’egli andava nel bosco, e diceva:

“Non possiamo più accendere il fuoco, e non conosciamo più le segrete meditazioni che vivificano la preghiera; ma conosciamo il posto nel bosco, dove tutto ciò accadeva, e questo deve bastare”. E infatti ciò era sufficiente. Ma quando di nuovo, un’altra generazione dopo, Rabbì Ysra’èl di Rischin doveva anch’egli affrontare lo stesso compito, se ne stava seduto in una sedia d’oro, nel suo castello, e diceva: “Non possiamo fare il fuoco, non possiamo dire le preghiere, e non conosciamo più il luogo del bosco: ma di tutto questo possiamo raccontare la storia”». «E – così prosegue il narratore – il suo racconto da solo aveva la stessa efficacia delle azioni degli altri tre».

Scholem ironicamente pone questo racconto alla fine del suo dottissimo libro per lasciare al lettore il dubbio (fertile) che egli stesso, che infatti afferma di averlo sentito da Agnon, rappresenti un ulteriore passaggio – un passaggio riflessivo – di questo processo e non lo voglia dire esplicitamente non solo perché certe cose le si lasciano intendere solo a chi ha orecchie adatte ma anche perché egli, che ora ri-racconta e ridiscute questo aneddoto, può ottenere, questa volta tramite la scrittura, la stessa efficacia degli altri cinque. La cosa, naturalmente, può continuare senza fine. Pongo questa citazione di Scholem all’inizio del mio libro perché anch’esso potrebbe essere visto come una delle possibili descrizioni-spiegazioni dell’enigma sempre eguale contenuto nel mito, in questo caso in quello di Narciso. Il problema resta sempre quello dell’efficacia e del senso da attribuire a questa parola: un mito nasconde o rivela? Non si può facilmente rispondere a questa domanda, magari sostenendo troppo facilmente che fa tutt’e due le cose contemporaneamente. Il fatto è che, in un dato momento storico, certe formulazioni svelano, a chi le pensa, di più di quanto non facciano altre formulazioni. E, in quanto «svelanti», queste formulazioni possono avere un’efficacia sull’utilizzatore del mito, illuminarlo su se stesso. Perciò, se vi ritrovate in alcune delle descrizioni che troverete nei capitoli seguenti, anche questo libro sarà stato efficace ma non è detto per questo che abbia svelato la verità: essa sta sempre al di là, in un inconscio che, per definizione e per statuto, è inconoscibile con i mezzi che la nostra ragione ci mette, per così dire naturalmente, a disposizione. Detto tutto questo, veniamo a Narciso. Qui mi tocca aggiungere – il che vi sembrerà in contraddizione con quanto ho scritto all’inizio – che del mito di Narciso abbiamo pochissime versioni iniziali. La storia che racconta Ovidio, l’ha creata lui. Ci sono pervenute pochissime storie o allusioni a Narciso o a personaggi che abbiano in qualche modo avuto una storia come la sua, precedenti le Metamorfosi di Ovidio. Se fosse stato un mito circolante nell’area mediterranea, come mai non sarebbe stato scritto prima? La risposta più semplice è forse quella giusta. Qualche frammento di storia circolava, ma era di secondaria importanza. Poi, un poeta geniale intravede in questa vicenda secondaria una descrizione di uno dei grandi misteri

dell’umanità. E la scrive. Da allora in poi, siamo stati posti davanti ad una ulteriore difficoltà: ignoriamo questo colpo di genio o invece ci pensiamo su? Il fatto è che il racconto di Ovidio è di una tale straordinaria forza da costringere a pensarci su. E infatti, se ci sono pochissime versioni iniziali del mito di Narciso, se anzi possiamo senz’altro attribuire la creazione del mito ad Ovidio, è vero anche che ci sono state molte, moltissime versioni seguenti. Ovidio ha colpito nel vivo, ha toccato qualche corda presente in tutti noi. E ha profondamente colpito l’immaginario di pittori, scrittori, poeti europei. Si può dire che il mito di Narciso è attivo fino ai giorni nostri. Formulato, dipinto, riformulato, ridipinto. Quello di Narciso è un fantasma che sembra non lasciarsi catturare ma che, viceversa, sembra interrogare impietosamente ogni generazione. I lettori che vogliano saperne di più – e godersi una lettura appassionante – acquistino il libro di Bettini e Pellizer intitolato Il mito di Narciso. Troveranno lì due parti: la prima (di Bettini) è un’ennesima – e assolutamente contemporanea e assolutamente attuale – formulazione della vicenda di Narciso, in forma di racconto. Quasi una dimostrazione in laboratorio della possibilità di ripresentare sempre la stessa vicenda ma collocandola in contesti spaziali e temporali del tutto diversi. La seconda, invece, traccia le linee degli interrogativi sulla nascita e sul divenire del mito di Narciso e fa vedere anche le possibili interpretazioni – o la possibilità di reinterpretarlo continuamente. È bello che ci siano queste due parti, perché si ha la sensazione, leggendo man mano le vicende e le fortune del personaggio di Ovidio descritte da Ezio Pellizer, di uscire dal tempo e di ritrovare costantemente alcuni degli elementi che sono contenuti nella prima parte, quasi che la seconda parte cercasse di spiegare la prima e però anche di astrarla dalla sua dimensione temporale, mentre la prima, a sua volta, vanifica ogni tentativo di spiegazione. Alla fine restano molti interrogativi al lettore. E sono proprio questi interrogativi il lascito più bello e più ricco di un mito e delle sue letture: un aumento di pensiero – e di pensiero (auto)critico. Beh, ma che razza di storia ha raccontato Ovidio? Ancora prima: cosa ricordate di questa storia? Badate: potete non aver mai letto le Metamorfosi e «conoscere» egualmente la storia di Narciso. Questa è un’altra caratteristica del mito. Qualcuno vi ha raccontato la storia, oppure ne avete trovata una citazione qua e un’altra là, o avete sentito un modo di dire o qualcuno vi è stato descritto come un Narciso. Una versione che circola attualmente è ridotta all’osso: Narciso sarebbe stato un tizio che, innamoratosi della propria immagine rispecchiata dall’acqua, sarebbe annegato nel tentativo di acchiapparsi. C’è del vero, in questa versione. Ma poco, rispetto alla ricchezza della storia raccontata da Ovidio. Se volete leggerla direttamente, la trovate appunto nel III libro delle Metamorfosi di Ovidio, dal verso 316 al verso 510. Vale la pena, credetemi. Se invece qui vi accontentate della mia riformulazione, vi dirò che Ovidio fa nascere tutta la

storia da una sbornia di Giove. Mentre è inebriato di nettare – bevanda degli dei e garante della loro immortalità – Giove butta là a Giunone di esser certo che le mogli godano di più dei mariti, durante l’attività sessuale. Giunone, la quale aveva il suo bel daffare a tener a bada Giove, ad inseguirlo per l’Olimpo ed altrove per non essere tradita in continuazione con svariate ninfette, su questo non è affatto d’accordo (sentirsi dire che le ninfe se lo godono, il suo Giove…) ma i due ritrovano l’accordo ad un altro livello: domanderanno a Tiresia un parere. Il tutto, però, avviene nell’ambito di una conversazione giocosa. Bisogna aggiungere che Giunone non è d’accordo con Giove anche perché in amore vale – per lei qui ma per tutti nella classicità – la regola della reciprocità e, se si comincia ad introdurre un criterio quantitativo («godi più tu o godo più io?») questa regola è minata alla base, come sanno tutti gli innamorati. Bisogna fare attenzione a questa regola della reciprocità: essa implica che chi offre amore deve ricevere amore. Come vedremo fra poco, essa implica che un amante deluso può maledire l’amato che non ricambia il suo amore e che gli dei sostengono e realizzano questa maledizione perché l’amato che non ricambia ha infranto una legge generale. Ma torniamo a Giove e Giunone: perché chiedere a Tiresia? Anche qui c’è un elemento giocoso. Immaginiamoci la scena: Giove e Giunone giocherellano (mezzo ubriaco lui, ma forse anche lei non del tutto sobria), si trovano in disaccordo e poi eccoli là tutti e due a dirsi «Chiediamo a quello lì, che è stato sia femmina sia maschio» e con una risata ristabiliscono l’accordo. Tiresia infatti, chiarisce subito Ovidio, aveva avuto una disavventura notevole: mentre era in un bosco aveva bastonato due serpi accoppiate tra loro (coëuntia) ed era stato trasformato di colpo in donna. Passati sette anni, nell’ottavo aveva nuovamente incontrato le serpi ed aveva pensato che, se ad ogni colpo che ricevevano esse facevano mutare sesso al persecutore, tanto valeva dar loro un altro colpo: e difatti era ritornato ad essere un uomo. Tiresia è stato l’inventore del concetto dell’interruttore «on/off»: pigi sul tasto e spegni, rischiacci il tasto e accendi. Se ritorniamo alla scenetta tra Giunone e Giove, ci si può immaginare che, quando a tutti e due viene in mente Tiresia, essi stessero appunto scherzando – magari pesantemente – sulla sua malasorte e che però gli offrissero anche l’occasione di riderne un po’ tutti assieme, visto che la disavventura era stata superata. Invece Tiresia arriva e, anziché mettersi a scherzare, prende la faccenda sul serio, dando per giunta ragione a Giove. «Finché si scherza si scherza ma, se questo fa sul serio, mi arrabbio», deve aver pensato Giunone, che aveva un caratterino con i fiocchi. E, detto fatto, acceca Tiresia il quale, secondo lei, non aveva visto giusto. Giove, che non può annullare il decreto di un altro dio e restituire la vista all’infelice, si salva la coscienza dando a Tiresia una vista metaforica: d’ora in poi sarà sì cieco, ma veggente. Non vedrà dunque davanti a sé nello spazio, ma nel tempo sì. Che c’entra tutto questo con Narciso? Parecchio. E non solo perché, divenuto famoso per la

sua capacità, Tiresia viene interpellato qualche tempo dopo dalla mamma di Narciso (la ninfa Liriope) per sapere se il neonato vivrà fino a diventare vecchio. Ma perché egli stesso anticipa i termini del problema: è stato sia maschio sia femmina, non ha tollerato la dualità – i due serpenti che ha preso a bastonate e i due coniugi che si stavano disputando – e ha perso gli occhi (che sono due ed eguali) e quindi non potrà mai più vedere se stesso in carne ed ossa. Narciso viceversa (lo anticipo) potrà vedere solo se stesso. La risposta di Tiresia a Liriope è quindi anche la profezia-maledizione di un invidioso. Davanti ad un bambino che gli dicono essere bellissimo, ad una mamma che gli chiede se il suo tesoro potrà vivere a lungo, questo individuo malevolo sputa una sentenza perfida: «Si se non noverit». Frase che si può tradurre sia con «se non conoscerà se stesso» sia con «se non guarderà se stesso». Lì per lì la risposta suona strana (anche se fino ad un certo punto: gli indovini e i profeti dicono sempre frasi ambigue, per salvarsi la reputazione). Ma è proprio da questa profezia che Ovidio svolge la storia di Narciso. Passano gli anni, infatti, e Narciso resta sempre bellissimo, ma anche superbo. Un tipo che non si lascia toccare né dalle ragazze né dai ragazzi (non dimentichiamo l’importanza dell’omosessualità nella cultura classica) che pure gli corrono dietro continuamente. Sennonché, mentre va a caccia, viene visto da una splendida ninfa – di nome Eco – la quale si innamora perdutamente di lui. E qui ritorna in ballo Giunone e le pene che infliggeva a destra e a manca. Giunone era costretta continuamente a sorvegliare Giove, il quale cercava altrettanto continuamente di sfuggirle per potersela spassare con le ninfe. Sennonché le ninfe avevano trovato un sistema per evitare di essere sorprese (e punite): una di loro, Eco appunto, si metteva a chiacchierare con Giunone e la tirava tanto in lungo che le altre facevano in tempo a scappare. Dài e dài, però, Giunone se n’era accorta e, naturalmente, si era arrabbiata moltissimo con Eco, punendola proprio nella sua capacità di parlare: ah, mi hai ingannato con la tua lingua lunga? D’ora in poi sarai stringatissima. E infatti Eco, da allora in poi, non poté far altro che ripetere la fine delle parole udite. Da notare che Eco – anche oggi – deve dire perfino il suo pensiero tramite le parole degli altri, visto che aveva parlato, per così dire, per conto terzi. Eco la ninfa, beninteso, non Eco Umberto. Quindi, quando Eco si innamora di Narciso, non può far altro che parlare tramite le parole di quest’ultimo. Un geniaccio come Ovidio giocherà a fondo su questo limite di Eco, lo vedremo tra poco. Prima però notiamo che le vicende di coppia di Giunone e Giove hanno fatto sì che Tiresia sia diventato cieco ma veggente e Eco sia diventata una muta con alcune caratteristiche particolari: non può tacere se qualcuno parla, però deve sempre parlare tramite le parole altrui e non può prendere l’iniziativa: se incontra un tizio taciturno – poniamo Narciso – non può dire

nulla. E quanto a Narciso, ricordiamo che egli è uno che concretamente vede ma non deve vedersi, ma metaforicamente non vede gli altri e vede solo se stesso. Il gioco – tragico – è tutto sul «chi parla a chi» e «chi vede chi». Ecco: solo a questo punto abbiamo tutti i personaggi e possiamo intravedere la complessità del mito di Narciso. Torniamo alla povera Eco e a Narciso il superbo. Eco vede Narciso mentre questi, da solo, va a caccia di cervi: se ne innamora perdutamente e lo insegue ma, giustappunto, non può parlargli. Tutto quel che può accadere a questo punto è che Eco faccia qualche rumore spostando qualche frasca, mentre cerca di stare dietro a Narciso. Il quale infatti sente i rumori e chiede «Chi c’è qui?», ed Eco risponde «qui», allora Narciso grida «Vieni» e Eco di rimando «Vieni» dice, quasi che si ritraesse e invitasse Narciso a farsi avanti lui. Il dialogo prosegue finché, giocando sul senso delle parole, Ovidio fa cadere il velo: «Huc coëamus», «troviamoci qui» grida Narciso, ma «coëamus» vale anche per «uniamoci» ed Eco risponde appunto «coëamus», uniamoci, contentissima di aver avuto la possibilità di esprimere il proprio desiderio. Esce dal bosco e butta le braccia al collo di Narciso, il quale, nel suo stile, grida «Crepo, piuttosto di stare con te!». Ma Eco può solo ribattere, ovviamente, «stare con te» e prova una grande vergogna e – per le pene d’amore – un dolore che la fa smagrire fino a portarla a morire: da allora di lei ci è rimasta solo la voce (notate che la condanna di Giunone resta valida, anche se Eco muore: un decreto divino non può essere cancellato). Narciso, invece, continua a fare strage di cuori e a negarsi a tutti, tanto che uno dei delusi gli augura che capiti anche a lui di amare senza mai poter possedere l’amato. Preghiera raccolta dagli dei, appunto per via della regola della reciprocità. Un giorno, stanco, si stende a riposarsi al fresco vicino a una sorgente e vede con la coda dell’occhio riflessa nell’acqua la sua stessa immagine bellissima e crede che si tratti di un altro, del quale si innamora ma che inutilmente cerca di abbracciare. Specchiandosi, ha l’impressione che l’altro gli si avvicini quando lui si avvicina alla superficie, lo vede tendere le braccia quando lui gliele tende, lo vede piangere quando lui piange, lo vede sparire quando lui intorbida l’acqua della fonte con il suo pianto. Fino alla rivelazione: «Iste ego sum», che si potrebbe liberamente tradurre con un «Accidenti, ma questo sono io stesso!», rivelazione che non spegne però la fiamma dell’amore, ma la rende terribile perché condannata alla insoddisfazione. Disperato, Narciso si straccia la tunica, si lacera il petto, insanguina la sorgente. La povera Eco, che pur era arrabbiata e offesa per il rifiuto di Narciso, prova un grande dolore a vederlo in queste condizioni e ad ogni grido di lui ripete l’«Ahi», facendo risuonare il bosco. Narciso, avviandosi alla morte per sfinimento, guarda ancora nella fonte, dicendo «Tutto è inutile, fanciullo diletto!» ed Eco ripete, straziata, «fanciullo diletto!». E quando Narciso reclina

il capo e saluta la sua immagine con un «Ciao» prima di morire, «ciao» ancora ripete Eco in preda al dolore. Ma quando le Driadi si accingono a preparare il rogo per bruciare il cadavere di Narciso, non lo trovano più: al suo posto (è qui la metamorfosi) è cresciuto e sbocciato un fiore rossoarancione circondato da una bianca corolla. Che da allora si chiamò appunto Narciso. Greci e romani conoscevano bene, perché diffusa nell’ambiente, la pianta bulbosa che i botanici ora chiamano Narcissus poeticus. Questo è il racconto delle disgrazie di Eco e Narciso raccontate da Ovidio. Mentre scrivo, il maledetto correttore automatico del programma di scrittura continua a correggermi «Ovidio» con «Oidio». L’oidio è un parassita delle piante, che provoca malattie talora mortali. E, a ben pensarci, anche noi siamo arrivati ad una pianta, il narciso, e a una malattia che nella sua forma pura è mortale, appunto il narcisismo. Ci potremmo chiedere – anzi: ce lo chiediamo senz’altro – che c’entra questa pianta con la storia di Narciso. Pensiamoci un po’: il narciso è una pianta bulbosa che spunta precocemente, appena prima della primavera, e il cui fiore reclinato sembra particolarmente adatto a specchiarsi nell’acqua di un fosso o di una sorgente. Appena prima della primavera è un modo per dire che siamo ancora in inverno, la stagione morta, appunto. E forse, quando i contadini greci o romani arrivavano nei campi ancora irrigiditi dall’inverno per bruciare le stoppie (i cadaveri, come fanno le Driadi), si stupivano se trovavano già sbocciati dei narcisi. O si accorgevano che la stagione era già avanzata, e che loro erano arrivati troppo tardi per poter bruciare le stoppie. Ogni frutto, ogni fiore, ogni attività ha la sua stagione. Ho cercato di mettere in evidenza gli elementi che sono comuni agli accadimenti naturali e agli eventi raccontati da Ovidio: la morte (l’inverno), i cadaveri (le stoppie) da bruciare, il fiore precoce e solitario. Aggiungo ora che le piante bulbose, la cui vita è prevalentemente sotterranea, sono piante collegate al mondo degli inferi e dunque alla morte. Non mi soffermo qui, invece, su altre caratteristiche che gli antichi attribuivano – anche sulla base di false etimologie – al narciso, come quelle ipnotiche (da narké, nark-issos).

Specchi antichi e moderni Potremmo insomma pensare che l’attività osservativa acuta e costante che è caratteristica del pensiero selvaggio (come ci ha spiegato Lévi-Strauss) abbia indotto qualche contadino a riflettere sulla stranezza di questa pianta bulbosa, a distinguerla da altre e, più tardi, a metaforizzare questa sua caratteristica. Questo è un fiore che non sta con gli altri, che si inclina a rispecchiarsi, che muore presto, mentre molte altre piante vegetano e fioriscono più tardi, durano più a lungo, si accostano le une alle altre. E potremmo pensare anche che questo sia stato lo spunto realistico che consentì prima alcune costruzioni poetiche di secondaria importanza, poi invece la costruzione geniale che Ovidio ci ha lasciato. In linguaggio quotidiano, si potrebbe dire che Ovidio ci ha lasciato la patata bollente in mano, una patata bollente con la quale tutti dobbiamo fare i conti. Perché, infine, che cosa ci vuol dire questo mito? Che vicenda umana rappresenta? Bisogna stare attenti, quando ci poniamo queste domande. Perché – riprendendo il concetto che avevo espresso all’inizio, della necessaria pluralità del mito – si possono dare molte risposte e, a seconda del livello di realtà cui si riferiscono, esse possono essere tutte «vere». Per esempio qui potremmo azzardare, da un punto di vista antropologico, che la vicenda umana rappresentata sia quella del passaggio dal mondo della caccia (Narciso è un cacciatore) e della raccolta a quello della coltivazione, dell’agricoltura: man mano che si sedentarizzano, i nostri antenati scoprono che la terra va coltivata, curata, ripulita, fertilizzata, arata e così via. E scoprono che certe operazioni vanno fatte in certi tempi. E che certe piante costituiscono degli indicatori del passaggio delle stagioni. Per esempio il narciso anticipa l’arrivo della primavera. In un universo regolato – e l’attività osservativa è scientifica proprio perché cerca di introdurre un ordine nella natura altrimenti incomprensibile – il narciso ha un suo significato di segnale: se non hai fatto certi lavori nei campi prima che spuntino i narcisi, non puoi più farli, perché danneggi il campo. Una risposta di questo tipo può essere vera (e, naturalmente, ci riempie di ammirazione per quei nostri progenitori) ma può anche essere complementare ad un’altra, legata invece alla realtà psichica. Anticipando un concetto che illustrerò nel capitolo successivo, ricordo che la percezione non è un procedimento «obiettivo»: da un lato, infatti, essa ci fa percepire la realtà secondo determinate proprie regole (che spesso distorcono la realtà stessa), dall’altro – cosa che qui ci interessa particolarmente – essa è un’attività in qualche modo sempre tendenziosa. È il desiderio che ci spinge a tastare l’ambiente per cercare qualcosa di soddisfacente e il desiderio deforma la percezione e addirittura qualche volta la percezione di qualcosa di interiore, di uno stato d’animo, di un pensiero, di qualche cosa di inconscio, viene proiettata sull’esterno per poterla raffigurare coscientemente.

Freud ha studiato questo fenomeno lungamente e lo ha interpretato nella Psicopatologia della vita quotidiana (1901). In questo libro, nel dodicesimo capitolo per l’esattezza, Freud fa l’esempio dell’antico romano che, se fosse inciampato nell’uscir di casa per andare a svolgere un compito importante, avrebbe interpretato questo accidente come un segno divino e avrebbe rinunciato all’impresa, rientrando a casa. Freud conclude che il romano era superiore a noi, perché poteva permettersi una concezione integrale del mondo – che la nostra concezione scientifica non potrà mai darci – e quindi poteva «comprendere», seppure in maniera oscura, proiettata sui voleri di una divinità, che c’era qualcosa che avrebbe ostacolato il successo dell’impresa e che, se non si hanno a disposizione tutte le proprie risorse, è meglio non mettersi in certe imprese. Credo dunque che il mito di Narciso, così com’è stato elaborato da Ovidio, raffiguri non solo un passaggio cruciale nella realtà materiale (dalla caccia all’agricoltura), ma anche uno dei grandi tentativi dell’umanità di comprendersi e, al tempo stesso, di celarsi. Una realtà interiore coscientemente intollerabile viene proiettata su un fiore che spunta alla fine dell’inverno e muore presto e che perciò è idoneo a ricevere questa proiezione. Ma si tratta di una realtà interiore mascherata. Nessun mito è interpretabile direttamente, così come non lo è alcun sogno. Bisogna lavorarci su, comprenderne gli elementi, valutare i rapporti evidenti e nascosti tra le figure dei protagonisti e le loro caratteristiche. Da Ovidio a Freud, passano due millenni: è, questa distanza temporale, anche una misura della difficoltà del passaggio dalla proiezione alla introiezione ed infine alla comprensione «scientifica», che qui viene posta tra virgolette perché, in qualche misura, anch’essa ha sempre una dimensione mitologica. Solo se vediamo il mito in questa sua complessità di testimonianza del passaggio dell’umanità da una fase operativa e culturale ad un’altra e di testimonianza dell’attività di pensiero fatta per passare da una all’altra fase, ma anche e contemporaneamente come testimonianza del tentativo di impossessarsi di una realtà interiore, psichica, sempre sfuggente eppure anche fondante per l’esistenza stessa dell’individuo, possiamo apprezzare la grandiosità – e la miseria: perché tende a nascondere il contenuto – di questo prodotto del pensiero. Prima di lasciare Ovidio e il suo racconto e di passare – con un salto di duemila anni – alla psicoanalisi, vediamo dunque di elencare gli elementi che abbiamo potuto osservare: questo elenco risulta assai più ricco dell’immagine stereotipata del povero giovane che s’innamora di se stesso e muore annegato. Molti elementi del mito rimangono ancora inesplicati nelle teorie psicoanalitiche e varrà la pena di averli ben presenti, nei prossimi capitoli. Innanzitutto c’è una coppia singolare: Giove e Giunone. Dalla loro vicenda matrimoniale nasce tutto l’intrigo. La ninfa Eco viene punita da Giunone perché le sue parole servono a

nascondere la realtà: d’ora in poi riferirà solo le parole altrui ma – si noti – in modo parziale e tale da favorire degli equivoci. Eco diventa l’immagine di uno specchio sonoro. Tiresia viene punito da Giunone perché ha preso troppo sul serio l’interrogativo che gli è stato rivolto: non ha visto la realtà (del gioco di coppia) e non potrà più vederne alcuna. E il dono di Giove (la chiaroveggenza) non compenserà certo la cecità materiale. Narciso, infine, apparentemente – ai nostri occhi datati XXI secolo – non ha commesso alcuna colpa tale da attirargli le ire divine ma nell’ottica classica ne ha commessa una enorme: ha infranto la regola di comportamento che vuole una reciprocità ed una risposta positiva da parte del corteggiato. Strana regola, a ben guardare, eppure psicologicamente ben fondata: se una persona prova un sentimento di amore per un’altra e riceve in cambio un sentimento dello stesso tipo tutto va bene, mentre se riceve in cambio indifferenza o odio, si sentirà ferita. Dunque il non contraccambiare costituisce un male ed un disordine. Perciò, se la persona non amata chiederà l’intervento degli dei, verrà ascoltata perché chiede il ripristino dell’ordine – e lo richiede, si badi, seguendo la regola della reciprocità: mi fa male, che provi il male. Non sarà Eco a maledire Narciso – anche perché Eco non può parlare da sé – ma un corteggiatore snobbato che, alzando le braccia al cielo, ne chiede la condanna. Ovidio affida l’esecuzione di questa condanna – per sottolinearne la irrevocabilità – a Nemesi, la dea implacabile per antonomasia. E come è un maschio innamorato a maledirlo, così sarà un maschio – lui stesso – a perderlo. In più, ovviamente, c’è il problema dello specchio, in questo caso visivo. Segnalo qui che nel testo di Ovidio il problema dello specchio visivo è posteriore a quello dello specchio acustico (che è il problema di Eco). Narciso si rispecchia nell’acqua della sorgente e quando scoprirà l’enigma dello specchio, quando comprenderà di essere lui stesso riflesso dalla superficie dell’acqua, avvertirà il dramma suo e di tutti coloro per i quali l’altro non esiste. Dunque anche lo specchio visivo inganna o confonde. Verrebbe da chiedersi quale inquietudine avesse spinto Liriope ad interpellare Tiresia, quale gioco di rispecchiamento tra madre e bambino fosse accaduto, quale impossibilità di tollerare che il figlio diventasse l’oggetto d’amore di un altro fosse all’opera. Ma questi sono tutti interrogativi che ci facciamo noi, oggi. Ovidio accenna solo. Però per noi è importante anche ricordare che gli specchi antichi non erano così limpidi come i nostri attuali e che, nell’antichità classica, sovente si riteneva che lo specchio «portasse male» e che il rispecchiarsi – anche nel sogno, come afferma Artemidoro – annunciasse la morte propria o di qualche parente: lo specchio aveva a che fare con il malocchio. Del resto anche oggigiorno i superstiziosi di numerose regioni italiane ritengono che rompere uno specchio «porti male». Insomma, è opportuno tener presente che – comunque – lo specchio rimane un oggetto inquietante e problematico, sul quale l’umanità si interroga sia a livello pratico («sono proprio

così brutto?») sia a livello teorico (lo stadio dello specchio di Lacan) o a livello interiore: «specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?» chiede la regina della fiaba di Biancaneve. E la brama della regina è quella di essere la più bella, cioè che lo specchio le rimandi un’immagine di cui essere assolutamente fiera e innamorata. Comunque notiamo che, nel racconto di Ovidio, gli specchi di diverso tipo hanno un ruolo importante. Come hanno un ruolo fondamentale i personaggi femminili: Giunone, Liriope, Eco, Nemesi. Da qui possiamo partire per il nostro salto verso il pensiero del XX secolo.

2.

Narcisismo e psicoanalisi

Uno sguardo d’insieme Abbiamo appena ripassato il e ripensato al mito di Narciso, così com’è stato scritto da Ovidio e abbiamo anche constatato come in quella formulazione la questione dello specchio abbia una rilevanza notevole: uno specchio visivo per Narciso, uno acustico per Eco. Osserviamo tuttavia che, in entrambi i casi, il mito parla – e non potrebbe fare altrimenti – di elementi coscienti. Dal punto di vista psicoanalitico, proprio questa è una delle funzioni principali del mito: consentire di rappresentare coscientemente, proiettandolo su un mondo esterno, un contenuto psichico che altrimenti non potrebbe essere accettato dalla coscienza. L’esempio classico è quello di Laio e di Edipo: nessun padre e nessun figlio accetterebbero tranquillamente di coltivare desideri omicidi nei riguardi rispettivamente del figlio o del padre, mentre la formulazione mitica – tanto più quando viene espressa nelle forme teatrali della tragedia greca – consente di pensare coscientemente a questa possibilità. Certo, si tratta di pensieri che vengono attribuiti all’esterno, a qualcun altro: ma questo qualcun altro, se volete, è il nostro inconscio. Anche per quanto riguarda Narciso il mito assolve a questa funzione che potremmo chiamare di «svelamento mascherato» e il successo del mito di Narciso è certamente anche dovuto al fatto che svela – ma non facendocene sentire protagonisti – una nostra componente. Se ricordo qui questa caratteristica dei miti, però, è per sottolineare una differenza tra la formulazione mitica e quella scientifica di un determinato contenuto psichico. La scienza, infatti, non può permettersi di collocare in un «altrove» o in un altro tempo il fenomeno che studia. Deve dire dove si colloca, come si svolge, che cosa implica per la persona nella quale si svolge. Ora – ed è qui il problema – grandissima parte dei fenomeni narcisistici sono inconsci. Il che significa una difficoltà che dovremo affrontare assieme: come descrivere un fenomeno inconscio? Che collegamento c’è tra i fatti percepibili e i fenomeni inconsci? Cerchiamo, innanzitutto partendo dalla vita quotidiana e dalla psicologia ingenua che adoperiamo per «conoscere» gli altri, di affrontare questa difficoltà, che è caratteristica della psicoanalisi ma che, nel caso del narcisismo, ha qualche particolare asperità in più. Passa una bella ragazza, che squadra in modo condiscendente gli uomini attorno a sé, consapevole della sua bellezza ed attrattiva. Possiamo dire che si tratti di una persona narcisista? Nella vita quotidiana è frequente che qualcuno lo affermi: dopotutto, è manifesto – almeno così sembra – che la ragazza ammira soprattutto se stessa e che il gioco di sguardi che instaura le serve innanzitutto a cogliere nell’occhio degli altri l’ammirazione per la propria bellezza, quasi che il mondo fosse fatto di specchi che le rimandano la propria amata immagine. Gli occhi degli altri, dunque, sostituirebbero in questo caso la fonte nella quale si specchiava Narciso. Tuttavia, se questa stessa ragazza si sdraiasse sul divano di uno psicoanalista e cominciasse ad

associare liberamente, questo aspetto potrebbe rivelare diversissime origini: certo, potrebbe anche rivelarsi come un aspetto narcisistico, ma potrebbe essere anche il contrario, ad esempio una conseguenza di una profonda, costante insicurezza delle proprie qualità che la obbliga a cercare un continuo riscontro positivo negli altri, senza mai esserne completamente soddisfatta. Una persona che ebbi modo di conoscere molti anni fa (e che aveva un comportamento di questo tipo) disprezzava gli idioti che la guardavano, inebetiti dalla sua bellezza, perché era convinta che in lei «qualcosa non andasse» e cercava continuamente conferma di questo suo giudizio nevrotico. Oppure questo atteggiamento potrebbe essere collegato ad una tendenza sadica, al desiderio cioè di far soffrire le persone che la amano: «Guardami, ti piaccio? Mi vuoi? E io non ti guardo nemmeno». Che cosa voglio dire con questo esempio? Che uno stesso comportamento può avere motivazioni diversissime e che quindi ben difficilmente da un comportamento motorio o da uno verbale possiamo trarre una conclusione circa la «reale» caratteristica psicologica di quella persona. Ho messo tra virgolette la parola «reale» perché, a questo proposito, va fatta una precisazione. È indubitabile che, se una persona consciamente si considera bella, questa considerazione ha una sua realtà psicologica – ossia che questo pensiero c’è stato nella testa di quella persona – ma la psicoanalisi fin dalla sua nascita ha potuto mostrare che c’è un’altra realtà, del tutto inconscia e non solo assai più potente della prima ma anche, spesso, tale da spiegare la prima in modo assai diverso e da farla vedere come una conseguenza di un compromesso tra molte tendenze e pensieri inconsci, come un effetto insomma di un procedimento di pensiero che non è mai arrivato alla coscienza. Ed è sempre sorprendente, in psicoanalisi, vedere come un giudizio apparentemente logico e conseguente possa mutare anche radicalmente allorché ne vengono comprese le motivazioni inconsce. A volte siamo costretti a pensare all’individuo come composto da diversi soggetti, perlopiù inconsci, ciascuno con le proprie caratteristiche e dinamiche e come se l’individuo fosse obbligato ad unificare in qualche modo questi diversi moti dell’animo per poterli esprimere coscientemente. Anche perciò lo psicoanalista non giudica: perché sa che c’è dell’altro e che solo la comprensione di almeno una parte di quest’altro può permettere di avere una immagine più complessa: frastagliata, problematica e talora drammatica ma comunque sempre assai più realistica di quella che egli potrebbe farsi di primo acchito. La «realtà», dunque, va posta tra virgolette perché ce n’è più d’una: a quale realtà ci riferiamo? In questo libro cercherò di sottolineare costantemente a quale realtà – percepibile, inconscia, conscia – mi riferirò quando descriverò un fenomeno. Per quanto riguarda il narcisismo, poi, c’è ancora qualche difficoltà in più: per definizione,

Narciso è uno che ha un rapporto d’amore solo con se stesso e che evita di stabilire relazioni significative con gli altri. Una conseguenza di ciò sta nel fatto che Narciso non si fa conoscere, non gli interessa affatto farsi conoscere. E allora come possiamo comprenderlo? Una domanda di questo tipo se la fece già Freud. Egli aveva osservato che mentre alcuni pazienti – isterici e ossessivi – applicando il metodo psicoanalitico sviluppavano un tipo di relazione particolarissima che chiamò di transfert, nell’ambito della quale queste persone ripresentavano modi di pensiero e di azione caratteristici di altre epoche della loro vita e altamente incongrui attualmente, altre persone non sviluppavano una relazione di transfert. O, per essere più esatti, che molte componenti psichiche – alcuni dei soggetti che compongono l’individuo, per usare il paragone di poco fa – sfuggivano a questa relazione: e che si trattava, appunto, delle componenti narcisistiche. Tutte queste precisazioni servono dunque a chiarire che: a. le costruzioni astratte che illustrerò in questo libro sono appunto tali e che, se è vero che non si può mai ridurre una persona ad una teoria, è altrettanto vero che i fenomeni inconsci sono descrivibili solo attraverso costruzioni astratte mescolate a teorie; b. non si può valutare una persona da un dettaglio, attribuendole una «categoria diagnostica» che dovrebbe spiegarne tutta la complessità; c. è importantissimo tener presente che un comportamento non è praticamente mai un indice diretto di un particolare orientamento psichico. Perché tutte queste precisazioni (e preoccupazioni) mie? Perché le teorie psicoanalitiche hanno avuto un ben strano destino, quando hanno incontrato il pubblico non-psicoanalitico: spesso sono state usate a scopo «moralistico», ossia come base per formulare giudizi morali sugli altri. Non c’è nulla di più contrario alla psicoanalisi di ciò, eppure… Dunque è importante tenere sempre presente che i chiarimenti suindicati debbono stare sempre davanti agli occhi di un lettore di psicoanalisi, proprio per potersi permettere di avere una visione più complessa dell’individuo ma anche per potersi permettere di continuare a sorprendersi quando incontra una persona in carne e ossa. Nello sviluppo della ricerca psicoanalitica, la concezione del narcisismo ha subito molte e notevoli modificazioni. È importante, innanzitutto, tener presenti alcuni termini del problema e alcune concezioni iniziali, in modo da poterne vedere l’evoluzione. Fin dai primi studi dedicati al narcisismo (Introduzione al narcisismo, 1914) o alla costruzione teorica dell’apparato psichico (Metapsicologia, 1915) e ancora nel Compendio di psicoanalisi (1938), Freud ha distinto due livelli o, se si vuole, due tipi di narcisismo: da un lato una

situazione inaugurale, che non si può esperire direttamente ma che è necessario supporre dal punto di vista teorico, di narcisismo assoluto o primario, dall’altro una situazione psichica più tardiva – e, questa, collegabile a fenomeni clinicamente osservabili – denominata narcisismo secondario ma, di fatto, narcisismo e basta. In generale, quando si parla di narcisismo e di patologia narcisistica, ci si riferisce a questo secondo concetto: ma non sempre. È importante, in ogni caso, tener presente la differenza tra i due: il narcisismo primario si riferisce in prima istanza all’individuo, il narcisismo secondario (con tutte le vicissitudini cui va soggetto e che vedremo) si riferisce all’Io, ossia ad una parte dell’apparato psichico. Sulla esistenza reale o sulla necessità teoretica di un narcisismo primario si è molto dibattuto e si continua a dibattere. Il problema è formulabile in questi termini: l’individuo – alla sua nascita – attraversa uno stadio di indifferenziazione tale da poter essere raffigurato come una «vescicola» (è l’immagine usata da Freud) o una cellula ripiena di energia psichica che spinge a vivere? In tal caso, il narcisismo primario è una sorta di amore che, più che di se stesso, può essere definito con se stesso. Non esiste, in altri termini, un oggetto amato. Solo la differenziazione dell’apparato psichico in diverse istanze (l’Es, l’Io, il Super-Io ma soprattutto le prime due, all’inizio) consentirebbe un narcisismo secondario nel quale l’oggetto d’amore è l’Io stesso. E, in questa fase, l’energia psichica (la «libido») verrebbe investita sull’Io sicché questi diverrebbe una sorta di serbatoio dal quale dovrebbe essere presa una certa quantità di energia per essere investita all’esterno, sugli oggetti della realtà. Ma anche in questo caso con qualche complicazione, perché in tal caso la domanda legittima è: chi ama chi? È l’Io che ama se stesso o è l’intero apparato che, nelle modalità caratteristiche di ciascuna sezione, ama l’Io? In altri termini: il narcisismo è una dinamica che coinvolge solo una parte dell’apparato psichico (l’Io) o invece riguarda continuamente il rapporto tra l’insieme e le sue parti? Si potrebbe fare un paragone economico: in questa ipotesi, l’individuo è all’inizio ricco e si gode il fatto di esserlo, un po’ come Paperon de’ Paperoni che nuota nel suo deposito di dollari d’oro. Poi però (e vedremo perché) questa situazione mostra delle crepe e l’individuo crea una banca (che chiamiamo «Io»), alla quale delega non solo la custodia di gran parte delle sue ricchezze, ma anche la gestione di questo patrimonio. A questo punto, l’individuo ama la banca e accetta ogni tanto che la banca investa i suoi dollari all’esterno ma perché spera sempre di avere un ritorno vantaggioso in banca. Anzi, addirittura ad un certo punto questo tizio pensa di essere la banca e nient’altro, come se non fosse anche l’Es o il Super-Io. Viceversa, si può ipotizzare – nella forma più chiara lo fece Michael Balint per primo – una situazione di rapporto primario con l’ambiente (dunque non una «monade» chiusa in se stessa ma un qualcosa facente parte di un’unità più ampia, una diade) dalla differenziazione del quale nasce

da un lato l’individuo, dall’altro (e contemporaneamente) l’oggetto d’amore (e di odio). In questo caso il narcisismo primario non esisterebbe e, invece, esisterebbe una condizione di ritiro dal rapporto con gli altri (e con le loro rappresentazioni interiori) che costituirebbe il narcisismo tout court. Questa seconda posizione può essere formulata in modi molto diversi e le differenti scuole di psicoanalisi post-freudiane hanno sviluppato concetti e modelli assai differenziati. Ma, per quello che qui ci interessa, l’importante è notare come questa seconda ipotesi generale da un lato accentui l’importanza dell’ambiente (e delle relazioni umane iniziali in primo luogo), dall’altro implichi un lavoro di differenziazione dall’ambiente ma anche una differenziazione interiore, psichica, già fin dall’inizio della vita psichica. L’Io, in tutte le teorie che sostengono la seconda ipotesi, è già dato. Debole, arcaico, primitivo come lo si voglia definire, ma già esistente. Quel che è in gioco, in queste due ipotesi che ho delineato in modo assolutamente schematico, è il ruolo e il peso delle pulsioni nella vita psichica. Il rischio della seconda ipotesi è quello di enfatizzare l’importanza dell’elemento «sociale», relazionale, fino a poter concepire, in forme a volte non tanto velate, una sorta di determinismo sociale o microsociale (con l’ambiente familiare). Il rischio della prima ipotesi, viceversa, è quello di enfatizzare l’importanza delle dinamiche interiori, intrapsichiche, al punto da rendere quasi irrilevanti le conseguenze delle interazioni con gli altri esseri umani. Inoltre la prima ipotesi, quella tipicamente freudiana, nella misura in cui non risolve la dicotomia mente/corpo e colloca in quest’ultimo la fonte delle pulsioni (e dunque dell’energia psichica) rischia di avere delle «aperture» fallimentari verso il determinismo biologico. Fallimentari perché, creando una dipendenza da un altro dominio fenomenico e scientifico, minano alla base la possibilità che la psicoanalisi sia una scienza a sé stante.

Chi è l’altro? Messe così le cose, sembrerebbe che si tratti di una questione riservata ai teorici. Ma non è così. Se ho formulato in modo schematico ed estremo le due ipotesi fondamentali, è solo per questione di chiarezza. In realtà, queste due linee di ricerca si sono sviluppate pian piano e, soprattutto, sono state conseguenti alla riflessione sulla patologia psichica, sulle sue variazioni e sulle forme che venivano man mano delineate e descritte. Perché man mano l’attenzione degli psicoanalisti si è concentrata sul fatto che numerose persone sembrano non riconoscere davvero l’esistenza degli altri. Naturalmente, nella pratica, queste persone hanno a che fare con gli altri e instaurano conseguentemente rapporti più o meno buoni, funzionali o meno agli obiettivi che desiderano raggiungere ma, se li si sta ad ascoltare, ci si accorge che l’altro, anche il più prossimo, non viene riconosciuto da costoro come portatore autonomo di affetti, idee, desideri, progetti che possono incontrarsi con i loro ma anche differenziarsi o scontrarsi. Semplicemente, l’altro è considerato uno strumento per il raggiungimento dei propri fini. Che si tratti di uno strumento animato o inanimato, ha poca importanza. Spesso, il riconoscimento (obbligato, perché la realtà si impone) dell’esistenza dell’altro provoca solo una reazione di rabbia, di aggressività, di odio, senza alcuna curiosità per la differenza, alcuna simpatia per chi è l’altro. Ho fatto una descrizione centrata sulla «inesistenza dell’altro» perché questo aspetto psichico è comune a tutta una serie di persone, che possono essere categorizzate (e differenziate tra loro) clinicamente in vario modo: gli psicotici ma anche le personalità antisociali, i borderlines o casi al limite, molti perversi possono essere compresi in questa generalissima categoria. E tutte queste persone, se per caso giungono ad un trattamento psicoanalitico, pongono uno specifico problema: nella misura in cui non riconoscono l’altro, difficilmente stabiliscono quel tipo particolarissimo di relazione che si chiama transfert. Tutto un filone di ricerca psicoanalitica si è concentrato sui problemi tecnici e teorici relativi alla possibilità o meno dell’instaurarsi di un transfert narcisistico e della sua risoluzione. E le due ipotesi esposte nel paragrafo precedente hanno implicazioni cliniche e tecniche assai diverse. Infatti, benché entrambe considerino che nella realtà non possa esistere – che letteralmente non sia compatibile con la vita – solo una condizione di narcisismo primario, la prima considera comunque fisiologico un certo grado di autonomia «assoluta», la seconda tende a considerare fisiologico un certo grado di dipendenza altrettanto assoluta. Però, entrambe queste ipotesi sostengono che le dinamiche narcisistiche sono inconsce: che cioè il soggetto non se ne accorge per nulla. Proprio perciò, è bene considerare quanto nel linguaggio comune la parola narcisismo abbia una serie di significati lontanissimi dal significato che essa ha in psicoanalisi: spesso per

narcisismo si intende (e si condanna) un atteggiamento cosciente strafottente oppure si usa questa parola come un sinonimo della parola «vanità» o di «egoismo». Per contro, in psicoanalisi il narcisismo non riguarda atteggiamenti coscienti (anche se sulle conseguenze coscienti del narcisismo ci soffermeremo in vari capitoli) ma inconsci e, soprattutto, riguarda un equilibrio che – comunque lo si veda – è di fondamentale importanza per la vita umana. Ricapitolando: per la vita di ciascuno di noi è fondamentale sviluppare un certo grado di autonomia, di autosufficienza, di stima di sé, di sicurezza, di piacere nello stare con se stessi, di sentimento di essere un tutt’uno ben integrato. Il narcisismo «serve» a questo. Ma, mentre realizza queste condizioni, mette tra parentesi l’esistenza degli altri. Perlopiù questa esclusione degli altri è un modo inconscio di pensare, del quale si possono percepire solo alcune conseguenze e solo in casi estremi può essere manifesta agli altri e cosciente al soggetto che la esprime.

Narcisismo felice e infelice Ritorniamo ora alle due ipotesi di base e notiamo come, in ogni caso, esse descrivano un tragitto che – idealmente – va dalla esperienza della soddisfazione, della felicità, del piacere a quella del dispiacere e dei rimedi che possono essere recati a questo stato deprecabile. Infatti, sia che l’individuo-«vescicola» sia soddisfatto con se stesso, inondato da una energia psichica sessuale ben equilibrata, che non gli fa avvertire il bisogno né il desiderio, sia invece che la soddisfazione derivi da una condizione diadica (infante-mamma) fusionale e indifferenziata di continua soddisfazione dei bisogni, quel che entrambe le due ipotesi mettono in evidenza è il fatto che questa condizione non può durare. Anzi. Che essa è un’esperienza necessariamente puntiforme, episodica, transitoria. E che il compito che si impone al neonato è quello di ripristinarla. Ma non solo al neonato: durante tutta la vita ciascuno di noi ha bisogno di cercare di ripristinare o comunque di tendere ad una situazione di soddisfazione particolare, quella che – coscientemente – possiamo definire di «stare bene con se stessi e senza alcun altro». E tuttavia, il fatto di tendere o di cercare di ripristinare segnala di per sé come questo stato sia inattingibile: il narcisismo, perciò, è sempre anche infelice, in quanto reca in sé un’esigenza di completezza, in questo senso di perfezione, che noi non possiamo mai raggiungere. Se questa è la condizione umana – quella di un essere incompleto – in molte situazioni il narcisismo diventa particolarmente infelice, facendo precipitare l’individuo in una condizione di sofferenza e di angoscia, o il tentativo di ripristinarlo diventa particolarmente intollerabile per gli altri. Ne vedremo man mano degli esempi.

L’immagine del pendolo La ricerca psicoanalitica è sempre partita dall’attività clinica, fatto di per sé sufficiente a ricordarci che, se il narcisismo è balzato agli onori della ricerca, ciò è stato dovuto al fatto che esso era lì, presente. Dunque si tratta di aver ben chiaro anche nella riflessione teorica che il narcisismo non riguarda una fase particolare della vita, non è (solo) una condizione degli inizi della vita psichica, ma che, anzi, è un modo della vita psichica. Costantemente presente. Ai nostri fini, per poterci raffigurare il funzionamento inconscio dell’apparato psichico, possiamo perciò utilizzare l’immagine del pendolo: come per questo oggetto concreto, anche per la vita psichica possiamo parlare di oscillazione continua tra due poli, quello dell’investimento dell’energia libidica sulle rappresentazioni degli oggetti esterni e quello dell’investimento di questa stessa energia su se stessi, in particolare sull’Io. Questa immagine è utile perché ci consente di raffigurarci la condizione costante dell’apparato psichico e di superare l’impasse determinata dal fatto che la coscienza – quella nostra, di me che scrivo e di voi che leggete – non è in grado di raffigurarsi la condizione di atemporalità che vige nell’inconscio: in realtà, se non c’è il tempo, non c’è nemmeno oscillazione. Ma questa immagine è anche realistica perché, nell’arco della giornata, esiste anche una oscillazione evidente tra sonno e veglia: il nostro apparato psichico oscilla tra questi due poli e non può permettersi di arrestare questa oscillazione. Ebbene: proprio il sonno è la manifestazione più diretta del modo di funzionamento narcisistico dell’apparato psichico. Questa osservazione si deve già a Freud, il quale, nel Supplemento metapsicologico alla teoria del sogno (uno dei saggi della Metapsicologia, 1915), prima di effettuare alcune aggiunte alla teoria generale del sogno, si soffermò appunto sul sonno sottolineando come esso comporti due tipi di regressione: «quella che riguarda lo sviluppo dell’Io e quella che riguarda lo sviluppo della libido. Quest’ultima, nello stato di sonno, giunge fino al ripristino del narcisismo primitivo, mentre la prima perviene allo stadio del soddisfacimento allucinatorio dei desideri». Si tratta di una oscillazione di grandissima importanza per vari motivi. Innanzitutto, in linea generalissima, essa mostra come – per dirla in termini mitologici – la natura abbia risolto un problema quantitativo (come badare alla realtà esterna e a quella interna) in termini economici, adoperando l’apparato psichico ora prevalentemente in un senso (verso l’esterno, durante la veglia) ora prevalentemente nell’altro (verso l’interno, durante il sonno) anziché sviluppare un macroapparato capace di tutt’e due le funzioni contemporaneamente. Questo spiega anche – fa notare Freud nello stesso saggio appena citato – la capacità «diagnostica» dei sogni, per cui si possono riconoscere in anticipo alterazioni corporee che nella vita vigile sarebbero passate inosservate ancora per un po’. È più esatto parlare di una prevalenza

del funzionamento psichico in una direzione o nell’altra, perché proprio il fenomeno del sogno dimostra come uno stimolo o un problema non risolti allo stato di veglia possano venire affrontati nello stato di sonno oppure come uno stimolo esterno durante il sonno venga comunque percepito e «liquidato» tramite il sogno (fino ad un certo grado di intensità): il sogno è «custode del sonno» proprio perché cerca di liquidare questi residui diurni o esterni senza interrompere il sonno. E anche nello stato di veglia l’apparato psichico – benché prevalentemente orientato all’affrontamento degli stimoli esterni – deve badare costantemente anche al proprio equilibrio interno. In secondo luogo, l’oscillazione sonno/veglia mostra come lo sviluppo dell’Io (e del Super-Io) sia una acquisizione dinamica continuamente passibile di regredire in forme (e modi di funzionamento) attualmente superate ma costantemente possibili. Il «mito» della continuità personale di ciascuno di noi ne esce piuttosto scosso. Quel sentimento di continuità e di stabilità che coscientemente è essenziale per la nostra stessa vita è un prodotto fallace della nostra coscienza, del nostro sistema conscio. In terzo luogo, nella pratica si evidenzia una situazione – quotidiana ma che cerchiamo di dare per scontata e quindi poco importante – nella quale la realtà esterna non esiste più e tutta l’attenzione, tutto il lavoro psichico, si concentra su noi stessi: il narcisismo, da questo punto di vista, potremmo per così dire toccarlo con mano… se non fosse per il fatto che, quando dormiamo, non siamo in grado di compiere quell’operazione psichica fondamentale – l’autosservazione – che implica il costituire noi stessi come oggetto di attenzione. Quando dormiamo siamo noi stessi e basta. Solo da svegli possiamo chiederci – dunque esaminando un ricordo, quello di aver dormito – che cosa diavolo sia accaduto in quelle ore lì. E in ogni caso constatare che, in quelle ore, abbiamo tagliato i ponti con gli altri, con le cose. Infine, il sonno e l’oscillazione tra sonno e veglia sono importantissimi per la questione delle pulsioni, che la regressione consente di studiare con maggiore chiarezza. Ma sul rapporto tra narcisismo e pulsioni è bene soffermarsi un attimo, anche perché il seguito del libro sarà continuamente intessuto di questa questione.

Narcisismo e pulsioni Per i nostri scopi, sarà bene ricordare che il concetto di pulsione è stato elaborato da Freud per definire una forza costante e interna all’organismo, che viene percepita dalla psiche come uno stimolo che può essere acquietato solo modificando la realtà esterna. Gli stimoli interni (espressione delle pulsioni) costituiscono i bisogni. L’ipotesi di base è che l’apparato psichico serva innanzitutto a padroneggiare gli stimoli, che l’aumento di questi produca dispiacere e la loro diminuzione piacere e che, attribuendo una intenzionalità all’apparato, si potrebbe dire – con le parole di Freud – che questo «vorrebbe, sol che ciò fosse possibile, serbare uno stato del tutto esente da stimoli». Come si vede, alla base, esiste una istanza narcisistica (nel senso del narcisismo primario) che consiste nel poter rimanere in uno stato di quiete soddisfatta. Quando Freud elaborò questo concetto di pulsione, era ancora abbastanza «dualista», cioè tendeva a distinguere tra corpo e apparato psichico: perciò ipotizzava che le pulsioni fossero «un concetto limite tra lo psichico e il somatico, come il rappresentante psichico degli stimoli che traggono origine dall’interno del corpo e pervengono alla psiche, come una misura delle operazioni che vengono richieste alla sfera psichica in forza della sua connessione con quella corporea». Non è qui il caso di discutere il concetto di pulsione e in particolare l’origine degli stimoli pulsionali. Quel che è importante, invece, è tener presente le caratteristiche di questi stimoli. Essi sono di per sé continui (se non interviene la soddisfazione, la fame non si interrompe, ad esempio) e chiedono un’azione sulla realtà esterna (ad esempio la ricerca del cibo) per essere attenuati o almeno transitoriamente annullati (poi, la fame riprenderà). Ora, una parte di questi stimoli acquista, nella vita dell’essere umano, una importanza del tutto particolare: si tratta degli stimoli sessuali. L’essere umano impara ben presto – appoggiandosi alle prime esperienze – che la soddisfazione del bisogno (ad esempio la fame) non solo calma quello stimolo ma anche un altro dapprima indistinto e che quest’altro può essere disgiunto dal primo fino ad autonomizzarsi totalmente. Il seno calma la fame ma il succhiare provoca anche un altro piacere e quest’altro piacere può essere riprodotto succhiando il pollice. La pulsione sessuale, allora, si manifesta come autonoma rispetto agli altri bisogni e, per di più, come una sorta di lavoro psichico continuo che tende ad una unificazione ma che attraversa molte e diverse fasi prima di raggiungere questo scopo, peraltro sempre rinegoziabile e riequilibrabile. Dal punto di vista della specie, la pulsione sessuale tende alla sua conservazione ponendosi al servizio della funzione riproduttiva ma, proprio in quanto essa è al servizio della specie, si configura come metaindividuale. Dal punto di vista dell’individuo, invece, essa rimane sempre collegata all’ottenimento dello

specifico piacere sessuale. La storia dell’umanità ci mostra quanto la divaricazione dei due scopi – della specie e dell’individuo – sia sempre stata osservata e come essa sia stata sempre soggetta a norme, divieti, prescrizioni di tutti i generi. E la storia dell’individuo ci mostra come la divaricazione tra gli scopi della specie e quelli dell’individuo sia la realtà e come l’unificazione della pulsione sessuale e della sua meta (il piacere) con la meta della funzione riproduttiva non sempre venga raggiunta né sia necessaria, dal punto di vista dell’individuo. Si tratta, piuttosto, di una convergenza possibile. Ma, prima che questa convergenza sia possibile e che l’unificazione eventualmente si realizzi, come si avverte e come si manifesta la pulsione sessuale? Qui, è interessante ricordare come la psicoanalisi abbia scoperto una serie di situazioni precedenti l’unificazione e come queste abbiano in comune il fatto di riguardare parti del corpo, in particolare zone cutaneo-mucose. Si tratta delle famose «fasi» dello sviluppo psicosessuale, descritte ad esempio da Freud nei Tre saggi sulla teoria sessuale (1905). Benché, in senso stretto, tutto il corpo possa essere una zona erogena, ci sono alcune aree corporee che sono – di fatto – particolarmente idonee allo scopo sia perché legate ad altre funzioni (appoggiandosi alle quali si sviluppa l’erogeneità della zona), sia perché dotate di una particolare sensibilità. Le zone più «predestinate» sono così quella orale, quella anale, quella uretro-genitale e i capezzoli. Esistono fasi dello sviluppo psicosessuale caratterizzate dalla centralità dell’esperienza autoerotica legata ad una di queste aree: perciò si parla di fase orale, anale, uretrale, fallica. È importante osservare che questa scoperta ha molto a che fare con il narcisismo, proprio perché in queste fasi l’individuo ama una parte di se stesso, dalla quale e con la quale trae piacere sessuale. Ma è esatto descrivere in tal modo le cose? Oppure bisogna riservare il termine «narcisismo» (in questo caso, secondario) solo al momento in cui si è costituito un Io strutturato e unificato, che diventa l’oggetto d’amore anche perché, come fanno notare Laplanche e Pontalis, esso è «l’immagine unificata del corpo»? Su questo punto – a partire dalle ricerche, degli anni ’20, di Abraham sull’oralità – il dibattito è stato assai vivo tra gli psicoanalisti. Credo che, attualmente, si possa concordare nel formulare la questione in questi termini: la pulsione sessuale si sviluppa a partire dalla separazione dell’esperienza del funzionamento fisiologico di alcune parti dell’organismo dall’esperienza di piacere che può essere tratta dalle stesse parti anche in assenza dell’espletamento delle loro funzioni. La caratteristica dell’«assenza» è fondamentale perché, al suo posto, si attua un’attività psichica (ad esempio un’attività di fantasia). Durante ciascuna delle fasi dello sviluppo psicosessuale si ha non solo la scoperta del piacere d’organo ma anche l’elaborazione psichica di procedimenti conoscitivi e affettivi che vengono applicati a tutta la realtà e, in ciascuna di queste fasi, l’esperienza della propria capacità di produrre piacere e l’amore legato ad una particolare parte del proprio corpo costituiscono il polo narcisistico di una situazione che oscilla continuamente tra la ricerca

dell’oggetto esterno (o la sua attualizzazione tramite il ricordo) e la ricerca della stimolazione del proprio corpo. Allorché l’Io è sufficientemente strutturato può accadere una ulteriore separazione: l’amore di sé che finora si era appoggiato sulla esperienza autoerotica legata a specifiche zone corporee può rendersi autonomo e divenire solo «amore del (proprio) Io». Ossia anche il narcisismo (secondario) ha bisogno di una maturazione, di una evoluzione. In questo senso, è importante considerare che esiste un narcisismo «orale», uno «anale», uno «fallico» e così via. Vedremo, nei capitoli che seguono, le caratteristiche di questi diversi modi del narcisismo. Ma, prima di concludere questo sguardo d’insieme del problema del narcisismo, complichiamolo ancora un po’. L’esperienza delle singole zone erogene, ad esempio la bocca e le labbra, è sì destinata a confluire nell’esperienza di amare «con tutto il corpo e con tutta l’anima» ma è, in precedenza, a sua volta un’esperienza unificante: su quella determinata zona e a partire da essa si esercitano tendenze pulsionali diverse e «parziali», che tendono ad una coordinazione e ad una integrazione. Così, la bocca diventa il luogo attraverso il quale viene conseguito il piacere sessuale ma questo risulta di componenti diverse: il piacere del possesso, ad esempio, del capezzolo o del dito, il piacere più manifestamente sessuale o anche quello conseguente allo spezzettamento dell’oggetto (la tendenza a mangiucchiare, a divorare, a mordere). Come si vede, la tendenza ad unificare segnala come l’integrazione sia un compito difficile per l’individuo: integrare differenti tendenze pulsionali attorno all’attività sessuale legata ad una zona erogena, integrare le esperienze psichiche di differenti zone erogene in una esperienza sessuale complessiva, integrare l’amore per una parte del corpo in un investimento libidico dell’Io. Ognuna di queste tendenze all’unificazione è espressione – sarà bene ricordarcelo – di una esigenza narcisistica: e se in qualche misura non tendessimo costantemente anche verso questa meta, saremmo davvero nei guai dal punto di vista psichico. La disintegrazione dell’individuo è, infatti, tipica delle patologie mentali più gravi.

Per fare il punto Riguardando questo capitolo, vedrete che il concetto fondamentale è sempre quello per cui il narcisismo è un modo di essere fondamentale dell’individuo. Questo modo di essere è caratterizzato o dall’avere tutta l’energia psichica (libido) contenuta in sé (narcisismo primario) o dall’investire questa energia su una parte di sé (narcisismo secondario o narcisismo tout court), in particolare sull’Io. Tuttavia, l’esigenza narcisistica deve fare i conti con la realtà, in primo luogo con la propria: qualcosa, dall’interno dell’individuo, produce stimoli che chiedono di essere acquietati (la pulsione). La pulsione sessuale, la cui meta è la scarica della tensione e il piacere conseguente, si differenzia dalle funzioni fisiologiche con le quali è all’inizio sperimentata e delle quali assume l’oggetto, determinando diverse fasi dello sviluppo psicosessuale: fase orale, anale, uretrale, fallica, genitale. In ciascuna di queste fasi, l’energia psichica investita sull’oggetto può essere reinvestita sull’Io. Ognuna di queste fasi determina la strutturazione dell’Io, sicché si avrà un Io «orale», uno «anale» e così via. La tendenza generale è quella di unificare queste diverse esperienze fatte nelle diverse fasi, fino a concepire l’oggetto (ad esempio la persona da amare) nella sua globalità, fino a concepirsi come una totalità complessa. Tutte queste tappe vengono riassunte e integrate nelle successive ma non vengono eliminate ed anzi possono ricomparire come distinte. In ognuna di queste fasi, così come c’è un modo specifico di amare (sicché c’è un amore anale o orale o fallico) c’è anche un modo specifico di amarsi: perciò c’è anche un narcisismo orale, anale ecc. L’immagine che può aiutarci a pensare a questa situazione psichica inconscia è quella del pendolo, che oscilla tra il polo narcisistico e quello libidico-oggettuale. Ma si tratta di un’immagine che abbiamo bisogno di usare per pensare coscientemente questa situazione. Nell’inconscio, infatti, vige una condizione di atemporalità. Nella condizione di sonno, il pendolo oscilla prevalentemente verso il polo narcisistico, nella condizione di veglia verso quello oggettuale: si tratta di una condizione fisiologica e necessaria. Nella cosiddetta patologia narcisistica anche durante la veglia l’investimento libidico prevalente è su se stessi e questo determina gravi problemi nel rapporto con gli altri: ne accennerò nei prossimi capitoli, anche se l’intento di questo libro è piuttosto quello di mostrare gli aspetti narcisistici della vita quotidiana.

3.

Il narcisismo nella vita quotidiana

Con le avvertenze e le cautele indicate nel capitolo precedente, ma anche forti dei concetti che possiamo ora usare, vediamo alcune situazioni che riguardano l’importanza e il rischio del narcisismo nella vita quotidiana. Il semplice modello dell’oscillazione del pendolo, ossia del continuo investimento del polo narcisistico o di quello libidico-oggettuale, dell’Io o degli oggetti e delle loro rappresentazioni, ci sarà utile per comprendere sia l’importanza sia il rischio implicati dal narcisismo nel corso della vita di tutti i giorni. Non ritornerò sul tema delle notti, del sonno insomma, perché nel capitolo precedente l’ho già indicato all’attenzione di chi legge: esso resta comunque l’esempio pratico più evidente – forse il solo evidente – della condizione di oscillazione dell’energia psichica sessuale verso il polo narcisistico. Partirò da alcuni esempi che possono capitare a chiunque.

Fissazione e regressione: la reintegrazione narcisistica Un paio d’anni fa, mentre passeggiavo per strada, nella mia città, venni fermato da un tizio che, lì per lì, non riconobbi. Lui, al contrario, mi riconobbe immediatamente e mi indirizzò un «Ciao!» assolutamente cordiale. Il tono della sua voce mi aiutò a ricordare di chi si trattava: un conoscente che non vedevo da moltissimi anni (più tardi, ripensandoci, mi sembrò di non averlo incontrato da almeno dieci anni). Cominciò ad addentrarsi subito in un argomento di cui non afferravo i termini e che ricordavo vagamente esser stato di mio interesse un tempo. Poi, d’un tratto, compresi che non stava parlando a me, a quel «me» che era lì, presente, ma a un «me» che non esisteva più, a quello lì che ero stato molti anni prima, senza minimamente pensare che nel frattempo potevano essermi occorse parecchie cose, che magari quel tema non mi interessava più, insomma senza poter nemmeno concepire l’idea che il tempo – per me – fosse passato. Non era semplice interromperlo, tuttavia gli dissi che da molto tempo non seguivo più gli sviluppi di quel tema e che, per giunta, avevo molta fretta: dovevo dunque salutarlo. «Ah – disse – non importa», e mi salutò, ancora assai cordialmente. Mi chiesi chi avesse salutato: me o quel Semi lì, che continuava a «tenere in caldo» dentro di sé? In effetti, la sua risposta era stata decisa, se intesa in un certo senso: «Non importa affatto che tu te ne vada, tanto per me sei sempre eguale, non contemplo neppure la possibilità che tu sia diventato un altro, né ho, di conseguenza, alcuna curiosità di sapere cosa ti sia capitato in tutti questi anni. Quello sei e quello resterai: una specie di oggetto che mi serve per certi miei pensieri, non una persona con una sua storia e un suo divenire». Ecco un aspetto abbastanza tipico del narcisismo nella vita di relazione quotidiana: l’altro, qualunque altro, non esiste in se stesso ma solo come specchio (vedi Ovidio) di una propria attività psichica. In termini psicoanalitici potremmo dire che in queste situazioni la percezione dell’oggetto serve solo ad evocare quelle rappresentazioni interiori dell’oggetto che sono funzionali a sé. E, subito dopo aver funzionato come miccia, la percezione è gettata via, rimossa o scissa dal campo della coscienza, mentre viene agito un dialogo interiore tra sé e sé. Un esempio analogo e abbastanza frequente ma nient’affatto maligno come il primo è quello dell’incontro con un «amore passato». Un mio paziente, in un periodo piuttosto difficile della sua vita, incontrò casualmente una signora della quale, quand’era ragazzo, si era innamorato. Si era trattato di una infatuazione adolescenziale, che egli non era stato nemmeno capace di esprimere in qualche modo. Ma l’incontro con questa signora, ora assai differente «eppure ancora lei», gli aveva consentito il ricordo del suo stato di innamoramento, quando era sì molto inibito nella realtà ma anche capace di provare dentro di sé forti e vitalissimi sentimenti: questo ricordo gli era molto servito a sentirsi

di nuovo vitale. Chi aveva incontrato questo signore? L’amata di un tempo o l’amore che egli aveva provato un tempo? Oppure aveva potuto riprovare amore per se stesso in quanto capace di amare? Quest’ultimo è dunque un esempio dell’utilità del narcisismo nella vita quotidiana: ritornare a se stessi, regredire fino a ritrovare in sé una capacità reale, sperimentata, importante, significa poter reinvestire l’Io dell’energia che in qualche modo gli è stata sottratta – come nel caso della depressione – e dunque anche poter ripartire per l’avventura della vita. In un certo senso, potremmo affermare che l’Io ha bisogno di essere amato. Certo, anche in questo caso l’altro (la signora in questione, ad esempio) non è particolarmente importante, anzi in un certo senso è irrilevante. Ma c’è una grandissima differenza tra il primo esempio e questo. Nel primo caso, la nota dominante dell’equilibrio psichico del protagonista è il polo narcisistico dell’economia psichica. In termini psicoanalitici, si può affermare che l’individuo è fissato in una condizione narcisistica, non ne esce né sembra avere alcuna motivazione ad uscirne. Viceversa, nel secondo caso si tratta di una persona infelice che regredisce tramite un’occasione offertagli dal caso ad una situazione relazionale della quale ora può valorizzare il polo narcisistico – il quale comunque è essenziale alla vita. Dunque il secondo esempio ci è utile per mettere in evidenza come il movimento verso il polo narcisistico abbia sempre finalità reintegrative. A volte, per poterci reintegrare, per potere – come si direbbe in linguaggio quotidiano – ritrovare noi stessi, abbiamo bisogno di regredire, di ritrovare e risperimentare modi di essere narcisisticamente riusciti. Ma, in questi casi, si tratta di una regressione al servizio della progressione. La funzione reintegrativa dell’equilibrio narcisistico – che avevamo già osservato all’opera durante il sonno – è dunque la principale funzione fisiologica del narcisismo nella vita quotidiana. Questi due esempi servono però anche a mettere in evidenza una distinzione fondamentale nell’ambito della teoria del narcisismo ma – e soprattutto – una differenza fondamentale per la vita quotidiana: quella tra la fissazione e la regressione ad un equilibrio narcisistico. Mentre la seconda è espressione di una possibilità dinamica dell’apparato psichico, la prima manifesta una pericolosa staticità. Pericolosa sia per gli altri sia per se stessi. Non pensate, quando leggete questa nota sulla pericolosità, alle psicosi: cerchereste di allontanare da voi stessi, dalla vostra esperienza quotidiana con gli altri, la sensazione di pericolo. Sì, è vero che anche nelle psicosi esiste una fissazione narcisistica, ma nella vita quotidiana questa fissazione è presente – anche se vogliamo cercare di non vederla – assai frequentemente e se ne possono osservare facilmente le manifestazioni, a volte anche tragiche.

Apprendere dal mondo politico Ormai Tangentopoli – così fu chiamata l’immagine del nostro paese creata dalla grande inchiesta penale degli anni ’90, partita da Milano e dilagata in tutt’Italia, sui finanziamenti illeciti dei partiti e di singoli uomini politici – è tramontata e ognuno può averne il giudizio etico o politico che preferisce (un mio amico fece un gustoso lapsus durante una conferenza, allorché, preso dalla foga oratoria, disse «sia chiaro a tutti che Tangentopoli è tremontata»). Ai nostri fini, tuttavia, è importante ricordare che in quegli anni ci furono alcuni suicidi di persone inquisite dalla magistratura, in carcere o fuori. Nella polemica di allora la morte di queste persone fu attribuita – a seconda dell’orientamento del commentatore – alla persecutorietà della giustizia o, viceversa, al senso di colpa del suicida, quasi che il suicidio costituisse di per sé un’ammissione di colpa. Tuttavia, se stiamo ad osservare le cose con animo alquanto sgombro da pregiudizi (oggi è più facile di ieri, ovviamente) alcuni almeno di questi suicidi hanno delle caratteristiche particolari, quasi che all’improvviso delle persone che appartenevano alla nomenklatura, ad un gruppo che si considerava intoccabile, avessero percepito che la costruzione dell’immagine di se stessi (dell’Io) che avevano amato e che li aveva fino ad allora sorretti era non solo falsa ma franata. E che ciò fosse incompatibile con la vita: «se non ci sono più Io, tanto vale che muoia». Ragionamento paradossale ma tipico dell’inconscio. Siamo qui, quindi, di fronte ad un esempio di fissazione narcisistica. Una situazione statica anche se sempre incerta, nel senso che necessita di continue conferme (allo specchio, beninteso). Ci possiamo chiedere, pensando a questo tragico esempio, quale equilibrio narcisistico reggesse queste persone, quale tipo di illusione governasse i loro atti e perfino come mai persone con questo tipo di equilibrio avessero raggiunto posizioni sociali così ragguardevoli. Il successo del narcisista… Che effetti produce sulle altre persone un individuo con un equilibrio psichico prevalentemente orientato in senso narcisistico? Per quanto a tutta prima possa sembrare strano (se uno dà segno di non percepirmi, perché dovrei a mia volta considerarlo?) un equilibrio psichico prevalentemente narcisistico è alla base di moltissimi successi sociali: il narcisista esercita un fascino straordinario sulle persone circostanti. La sua sicurezza, il suo orgoglio, la sua ambizione, la sua certezza di superiorità costituiscono un invito alla identificazione per moltissime persone le quali, assicurandogli il proprio appoggio, facilitano il suo successo. Si istituisce così un circolo di autopotenziamento del fenomeno, perché il successo aumenta la sicurezza, l’orgoglio, l’ambizione, il sentimento di superiorità e di invulnerabilità del narcisista ma ciò aumenta il suo fascino, il che produce ulteriori identificazioni che aumentano le probabilità di successo le quali… Andrebbe tutto «bene», con un aumento reciproco di soddisfazione, in questo circolo vizioso,

se non fosse per un dettaglio non dappoco: che esso induce a lasciar perdere la realtà. Vediamo un po’ la situazione: da un lato c’è una persona che qui chiamiamo narcisista ma che ha un effetto fascinatorio o carismatico, dall’altro una certa quantità di persone che si identificano con lui e che, contemporaneamente, lo spingono a continuare sulla sua strada. È in questa «spinta» l’elemento critico della faccenda. Perché il narcisista diventa sempre più convinto – contro ogni realtà, ma egli guarda solo l’immagine che gli viene riflessa dai suoi fan – di poter fare tutto e, di fatto, viene isolato e messo su un piedistallo dal quale facilmente, prima o poi, cadrà. E la caduta, se uno ha puntato tutto sull’amore di sé, è terribile: la sicurezza estrema crolla, l’orgoglio smisurato frana, l’ambizione insaziabile viene improvvisamente frustrata, l’onnipotenza si rivela per quel che è: un effetto illusorio e quasi delirante. La persona sottoposta all’esperienza del crollo dell’oggetto narcisistico (ossia dell’immagine di se stesso) sente che «è finita» e cerca talora di essere ancora una volta protagonista della propria vita togliendosela. Se non potrà più amare se stesso, potrà solo sparire: ancora una volta, la descrizione della morte di Narciso ad opera di Ovidio si rivela essere una possibilità sempre attuale. Tuttavia non si creda che questo tipo di suicidi avvenga frequentemente: spesso, al contrario, questo tipo di narcisisti ha e mantiene un effettivo successo sociale (ed economico e di potere). Occorrono situazioni critiche particolari per farli precipitare – l’inchiesta della Procura della Repubblica di Milano, ad esempio – con un effetto per loro traumatico, ma queste evenienze sono, tutto sommato, rare. Beninteso non tutti i coinvolti nell’inchiesta «Mani Pulite» avevano questo tipo di equilibrio psichico, forse nemmeno tutti quelli che si sono suicidati. Però per qualcuno di essi la descrizione appena fatta è certamente adeguata. … e le cause del suo fallimento. In termini psicoanalitici, possiamo dire che il narcisista di successo spinge gli altri all’idealizzazione e all’identificazione con se stesso idealizzato e si alimenta dei rimandi positivi che continuamente ottiene: il narcisista ha bisogno di costruirsi continuamente degli specchi, per il suo tragico gioco continuo di rispecchiamento (marchio distintivo di Narciso). Ma prepara tuttavia in tal modo il proprio fallimento personale. Bisogna infatti distinguere tra il successo sociale e la realizzazione personale e non è affatto detto che il primo garantisca la seconda. Anzi, spesso proprio il fatto che la seconda non avvenga (se usiamo la storia scritta da Ovidio: il fatto che Narciso non riesca ad abbracciare quel «se stesso» lì) induce un fenomeno di ripetizione ad oltranza, una insaziabilità di successo che, alla fine, rende assai povera la vita privata – sarei tentato di dire: la vera vita – di queste persone. Quando una persona è occupata 18 ore al giorno in riunioni, attività promozionali, esposizioni al pubblico, elaborazioni ulteriori di strategie per avere maggior successo, le restanti 6 ore, impiegate prevalentemente nel sonno e nell’alimentazione, non sono più sufficienti ad avere una vera e propria vita privata, fatta di relazioni affettive ed autentiche, di soddisfazione derivante dalla

condivisione della gioia altrui. In queste situazioni, l’impossibilità di uscire dalla spirale successo sociale → soddisfazione narcisistica → successo sociale manifesta non solo l’intrappolamento in cui cade il narcisista e l’obbligatorietà della sua azione ma – e soprattutto – l’insufficienza del narcisismo. Di per sé, nella misura in cui diviene costantemente preponderante nella vita psichica di un individuo adulto, il narcisismo è infelice. La ricerca cui spinge non è mai del tutto soddisfacente perché continuamente testimonia dell’assenza dell’altro. Molte delle continue traversie amorose dei «personaggi mediatici» di successo sono anche dovute a questo fenomeno: se si ribalta nella vita privata, la ricerca dello specchio porta il personaggio prima o poi – e in genere prima – ad accorgersi che quella persona lì, scelta come partner narcisistico, è differente, troppo differente. In poche parole, che è davvero una persona, non uno specchio. Allora, la relazione narcisistica si spezza. L’irrilevanza degli altri. Il fenomeno narcisistico è particolarmente frequente nel campo del potere e ne vedremo le implicazioni nel capitolo dedicato al narcisismo fallico. Qui, mi soffermerò su alcuni aspetti facilmente rilevabili perché sono assai dimostrativi dell’importanza del narcisismo nella vita quotidiana. Nel nostro paese, ad esempio, viene sovente interpretato come un effetto dell’ipocrisia nazionale il fatto che i parlamentari sostengano dei principi e delle pratiche politiche che nella pratica privata disattendono. L’esempio tipico è quello della tutela della famiglia monogamica basata sul matrimonio tra persone di sesso diverso, un’espressione che sembra trovare concorde la stragrande maggioranza del Parlamento. È stata più volte sottolineata – e appunto perlopiù per denunciare una supposta ipocrisia – l’elevata percentuale di parlamentari che ha una doppia famiglia o che convive felicemente in una coppia di fatto o che ha tutt’altro orientamento sessuale e convivenze conseguenti, ossia la discrepanza tra un’affermazione di principio e una pratica. Se tuttavia si osserva questo fenomeno – reale – alla luce delle categorie appena illustrate, si può anche pensare che una certa quota di uomini politici viva nella spirale narcisistica e non sperimenti affatto un conflitto tra l’affermazione di principio e la condizione di fatto. Semplicemente, quest’ultima riguarda solo loro, mentre la prima deve riguardare gli altri. Così si spiega, ad esempio, come – mentre finora (2006) la maggioranza dei parlamentari si oppone ai «Patti civili di solidarietà» (Pacs) che prevedono la regolamentazione delle convivenze di qualunque tipo e garanzie per i membri delle stesse – i parlamentari stessi si siano dati la possibilità, sulla base di una «comunicazione di convivenza», di estendere al convivente l’assistenza sanitaria integrativa dei parlamentari. Un esempio tragico e disperato di questo tipo di situazione narcisistica fu, a mio avviso, il discorso che Bettino Craxi pronunciò alla Camera dei deputati allorché scoppiò Tangentopoli. In

questo discorso, Craxi sostenne di fatto che il finanziamento dei partiti – e chiese chi, in quell’aula, poteva affermare il contrario, nel silenzio generale – era altra cosa rispetto alle prescrizioni della legge. La possibilità di «farsi la legge da sé», di vivere una condizione che gli altri non vivono né possono permettersi di vivere, è un effetto di quella costruzione dell’adorata immagine di sé come individuo al di sopra della legge (anzi, in questo caso: artefice della legge) autosufficiente e autosoddisfacente, una condizione che, come abbiamo visto sopra, costituisce (a livello inconscio) un invito alla identificazione rivolto a coloro i quali, magari, coscientemente criticano tale atteggiamento. Vediamo qui una conseguenza tipica del narcisismo: nella misura in cui Narciso guarda solo se stesso, non vede gli altri. Ma è interessante osservare che gli altri – proprio per effetto dell’identificazione inconscia – non si preoccupano particolarmente di ciò. Se osserviamo la letteratura di tutti i tempi o anche il linguaggio comune, possiamo notare come questo fenomeno, benché non teorizzato in questi termini, sia noto da sempre: il potere acceca, il tiranno impazzisce, perde il contatto con la realtà. Nerone strimpella mentre Roma brucia; Riccardo è disposto a distruggere il regno pur di impossessarsene; Stalin elimina tutti i suoi collaboratori man mano che gli sembrano sostenere idee diverse da quelle che vuole sentire… possiamo fare elenchi infiniti e abbiamo sentito questa storia fin da piccoli, quando ci raccontavano la fiaba di Biancaneve. Ricordate? La regina cattiva che chiede allo specchio «Specchio, specchio delle mie brame / chi è la più bella del reame?». Ebbene possiamo chiederci se non sia tanto il potere ad accecare, quanto la cecità del narcisismo che facilita l’ascesa al potere. Eppure, noi – in quanto cittadini – non traiamo conseguenze operative da questa apparente consapevolezza. Apparente, perché se fossimo davvero consapevoli che il potere (narcisistico) acceca e fa impazzire o, in altri termini, che la condizione di potere facilita l’espressione delle tendenze narcisistiche e di conseguenza la perdita del senso della realtà, correremmo rapidamente ai ripari, nell’interesse nostro e degli uomini che noi – almeno in regime di democrazia – deleghiamo all’esercizio del potere. Invece, lo spettacolo dell’esercizio narcisistico del potere ci affascina talmente da spingerci a desiderare di arrivare ad occupare un posto sul palcoscenico o da indurci ad identificarci negli attori (accontentandoci di restare in platea). La metafora che ho appena adoperato non è casuale: sempre, nella polis, c’è il teatro e c’è l’agorà. Lo spettacolo (anche) tragico e il luogo del ragionamento e della decisione. E tuttavia capita che il teatro funga da agorà e l’agorà da teatro. In quest’ultimo caso, nell’agorà si rappresentano azioni drammatiche altamente simboliche, che affascinano il cittadino

trasformandolo in «pubblico» e distraendolo dal proprio realistico compito critico. Lo scambio tra politica e spettacolo si appoggia sui meccanismi psichici che stiamo descrivendo. Una sana, realistica, visione politica dovrebbe tener conto di queste dinamiche. Ma a noi, qui, interessa ciò che possiamo imparare sul narcisismo osservando coloro i quali, per la loro posizione, sono maggiormente visibili: gli uomini politici, appunto. Poi vedremo, nelle conclusioni di questo capitolo, come queste osservazioni possano esserci utili.

Gli «oggetti» narcisistici: l’esempio delle religioni E allora osserviamo un altro fenomeno interessantissimo: frequentemente accade che gli uomini politici si costituiscano un oggetto (sul quale intervenire) che è costruito da loro stessi e che non ha alcuna o scarsissima corrispondenza con la realtà, mentre si può supporre che abbia a che fare con il loro desiderio. L’esempio tipico in questi anni è quello delle religioni: si costruisce una religione come non esiste e di essa si parla, a favore o contro. Che si tratti dell’Islam o del Cristianesimo. L’«Islam» così come viene adoperato mediamente nel lessico corrente dei nostri – e non solo dei nostri – uomini politici (ovviamente con le debite eccezioni) non esiste. Esiste, beninteso, un insieme di religioni che derivano dalla riflessione sul Corano ma esse sono talmente differenziate tra di loro e per di più talmente prive di una organizzazione interna paragonabile a quella della chiesa cattolica da rendere assolutamente impossibile parlare di «Islam» in senso generale, a meno che non ci si riferisca a dibattiti teologici. Qui, invece, ci si riferisce a fenomeni sociali e, dal punto di vista della rilevazione sociologica, nulla consente di parlare di «Islam» come se si trattasse di una entità unitaria e coerente. Di più. Se si guardano i fatti sociali si può dimostrare che le diverse religioni derivate dal Corano sono mediamente poco seguite – o in forma assai lasca. Ancor di più e più vicino a noi: se si osservano gli immigrati in Italia (giacché uno dei temi è quello dell’«Islam in Italia»), si può rilevare che di essi meno della metà si riferisce a una qualche religione «islamica» e che, per giunta, solo una piccola percentuale di quella metà (siamo quindi ben sotto il 10% del totale degli immigrati) frequenta qualche luogo di culto. E allora: non sarebbe più corretto parlare di senegalesi, marocchini, tunisini, polacchi, rumeni, turchi, anziché far pensare che ci siano oggi in Italia milioni di «islamici»? Sarebbe più corretto ma… non si tratta di una scorrettezza. Magari. Forse qualche attore politico sarà anche scorretto, ma temo che una buona parte degli uomini politici che usano questa pseudocategoria ci credano. Il che vuol dire che non si sono preoccupati di reperire adeguate fonti di informazione sulla realtà (dei paesi del Medio Oriente, del Nord Africa ecc. e degli immigrati in Italia) nonostante esistano ovviamente numerosi studiosi in grado di fornir loro una informazione adeguata. Ci si può dunque costruire un oggetto astratto e ci si può comportare nella realtà come se si avesse a che fare con quell’oggetto (che in realtà non esiste). Più sopra avevo annotato che, se un oggetto inventato non ha a che fare con la realtà, deve pur avere a che fare con qualcosa e avevo indicato il desiderio come il motore della creazione dell’oggetto. Ora, di che desiderio può trattarsi? Si potrebbe rispondere: il desiderio che esista un universo religioso coerente e unitario, che dia senso al comportamento di tutti gli aderenti ad esso. Ma perché desiderare che questo universo sia «altrove» e si stia infiltrando tra noi? Ad uno psicoanalista non sfugge la dinamica tipica del desiderio inaccettabile: lo si proietta su qualcun altro e poi lo si vede avvicinarsi

progressivamente. In questo caso, il desiderio è inaccettabile perché contrasta con la realtà: ma quale realtà? La nostra. Non esiste più – e da secoli, in Europa – un universo religioso coerente ed unitario, che dia un senso al comportamento di tutti gli adepti; esistono da un lato varie religioni cristiane, con diverse organizzazioni, dall’altro la realtà sociale di uno scarso seguito effettivo da parte della popolazione: i «praticanti» sono pochi, i «fondamentalisti» una frazione minuscola. Ora, l’oggetto fantasticato (l’«Islam») permette di pensare – come per un rispecchiamento – che questo universo possa esistere anche da noi: l’«Europa cristiana», le «radici cristiane dell’Europa» ecc. Se esistesse da noi una realtà siffatta – che non esiste neppure altrove, ricordo – davvero gli uomini politici sarebbero più lieti e più sicuri? Se si pensa alla fine delle ideologie – e delle certezze che comportavano –, alla crisi dei rapporti tra agenzie politiche e cittadini e insomma alla crisi della democrazia che stiamo vivendo, in effetti l’idea di avere un universo di senso condiviso (da tutti i cittadini) e magari anche un universo gerarchico e normativo indiscutibile potrebbe essere un gran sollievo (per chi fa di mestiere l’uomo politico), una riconferma della propria sicurezza. E forse il desiderio narcisistico è quello che questa condizione si realizzi. E che si realizzi in tal modo una immagine narcisistica di sé. In questo senso un desiderio narcisistico può essere proiettato sulla realtà esterna per costituire un «oggetto narcisistico» che costituisca uno specchio di se stessi. Questo oggetto raffigura quindi dell’altro e per l’esattezza raffigura un’immagine dell’Io come istanza priva di conflitti, onnipotente, sicura, coerente. Un’immagine ideale, ciò che in psicoanalisi chiamiamo «Io ideale», qualcosa che precede la costituzione del Super-Io e che rinvia a quella fase antichissima nella quale l’Io non è ancora differenziato dall’Es: insomma un «ideale di onnipotenza narcisistica costruito sul modello del narcisismo infantile», come scrivono Laplanche e Pontalis.

Sosta e primo bilancio Soffermiamoci un attimo su quel che abbiamo appena scritto e letto nei paragrafi precedenti: da Tangentopoli all’Islam o al Cristianesimo, dalle dinamiche di successo del narcisista al dramma dei suicidi o al supposto delirio di Nerone. Davvero la teoria del narcisismo può spiegare tutti questi fenomeni così diversi tra loro? Non rischiamo, io che scrivo e voi che leggete, di costituirci a nostra volta un oggetto narcisistico che spiega tutto, che ci fa sentire capaci, comprensivi, intelligenti? È, questo, un rischio tipico delle teorie: se esse non mantengono una relazione significativa e costante con l’esperienza, diventano qualcosa di così strutturato e «bello» da nascondere la realtà. Nel nostro caso, la realtà di ciascuno degli esempi fatti è, evidentemente, assai più complessa di quel che abbiamo descritto e il punto di vista psicoanalitico è solo uno dei molti che possono aiutare a gettare luce su quel che accade nella realtà quotidiana, per esempio in quella politica. Bisogna sempre tenere a mente che nessuna teoria e nessun punto di vista specialistico sono in grado di esaurire un fenomeno. Ma è facile dimenticarselo, perciò mi è sembrato utile ricordarlo qui. In fondo, abbiamo fatto un’esperienza insieme, sulla quale è importante riflettere, perché essa ci insegna anche quanto l’oscillazione narcisismo/interesse per l’oggetto si attui costantemente e facilmente venga misconosciuta. Questa esperienza ci insegna anche quanto si perda nelle situazioni narcisistiche. Se infatti avessimo creduto che la teoria del narcisismo sia sufficiente a spiegare le degenerazioni di un sistema politico, ad esempio, avremmo perduto l’interesse per comprendere questo sistema, non saremmo stimolati a studiarlo, a cercare di approfondirne la conoscenza e così via. Ora possiamo fermarci un momento. Cos’abbiamo imparato fin qui? Abbiamo potuto distinguere una condizione narcisistica legata alla fissazione ed una legata alla regressione, poi abbiamo stabilito la funzione reintegratrice delle dinamiche narcisistiche fisiologiche. Abbiamo in seguito visto un esempio tragico – quello dei suicidi di Tangentopoli – di fissazione narcisistica e abbiamo così posto in evidenza come il crollo dell’immagine amata di sé possa essere incompatibile con la vita. Ma abbiamo anche visto un esempio di interazione narcisistica (tra narcisista e supporters) di vaste implicazioni nella vita quotidiana, anche in famiglia, come vedremo fra poco. Infine, tramite l’esempio di un oggetto costruito ma inesistente (l’oggetto narcisistico), siamo arrivati a intravedere l’Io ideale, un polo che attrae pericolosamente il desiderio. Con questi pochi concetti, possiamo ora anche guardare più vicino a noi: quando guardiamo lontano, possiamo vedere chiaramente certi fenomeni ma quando sbattiamo il naso contro il

muro ci riesce difficile vedere tutta la casa. Passiamo dunque dall’uso di esempi tratti dai politici o dai personaggi pubblici in genere a quello della famiglia.

In famiglia Una simpatica e intelligente paziente, vedendo un giorno sul mio tavolo un pacchetto di sigarette con la fatidica scritta «il fumo uccide», commentò sorridendo: «Però, dottore, anche la famiglia non scherza!». Usciva da una grave crisi, nel corso della quale aveva sperimentato un tipo particolare di solitudine, quella di chi si è d’improvviso reso conto di non aver mai conosciuto i propri parenti, benché avesse con loro condiviso gran parte della sua vita. Per motivi che non starò qui ad elencare, essi si erano occupati sostanzialmente solo di se stessi, impedendole di comprenderli. E lei stessa aveva elaborato una strategia narcisistica basata sull’autorispecchiamento continuo. «Ho vissuto con delle maschere» diceva amaramente. Andare al di là della maschera era stato un compito difficile, doloroso. Ritornando all’immagine che tante volte già abbiamo usato, si era trattato di andare al di là dello specchio e di apprezzare finalmente in modo positivo che lo specchio non rispecchiasse fedelmente, che lasciasse intravedere qualcosa di là, qualcosa di se stesso. I genitori della paziente erano gravemente impegnati in vicende legate alla loro sopravvivenza e, in questo senso, avevano sviluppato una reazione narcisistica di difesa: «dovevano» continuamente badare a se stessi. Torneremo proprio alla conclusione di questo libro sulle reazioni narcisistiche difensive, perché si tratta di reazioni diffuse e in parte ben motivate. Qui, voglio solo sottolineare come, in conseguenza di questo loro equilibrio, essi avevano badato a lei come si bada ad una cosa che va «tenuta bene» ma che, per il resto, deve fare da sé: una pianta, ad esempio. O, almeno, questa era stata l’immagine che la signora era riuscita a costruirsi di essi. E, peggio, che si era costruita di sé. In questo senso, la famiglia può uccidere o, in certi casi, può incentivare il fatto per cui un suo membro si senta inesistente (letteralmente) come persona. Le relazioni narcisistiche. Questo esempio – certamente estremo e non comune – serva all’inizio di questo paragrafo per indicare una situazione che abbiamo già visto in quello precedente: il narcisismo, per definizione, è una situazione personale che elimina l’altro e che è caratterizzata dall’investimento affettivo su se stessi. E tuttavia ciò non toglie che gli altri esistano e che quindi si stabiliscano comunque delle relazioni; dire che una relazione è narcisistica sarebbe una contraddizione in termini, se non si precisasse che si tratta di una ellissi: più esattamente, bisogna dire che esistono relazioni con o tra persone particolarmente narcisiste e che queste relazioni hanno sempre un po’ la caratteristica di provocare un effetto di solitudine. È importante poi poter pensare che – essendo il narcisismo anche un fenomeno fisiologico – in parte ciò che sto per descrivere capita sempre. L’esperienza umana, cioè, non è mai «pura», non avviene mai all’insegna di un solo sentimento o di un solo tipo di equilibrio. Anche con il miglior amico può capitare che ci si senta soli, che si avverta che in quel determinato momento egli è tutto ritirato su se stesso. Sappiamo che gli passerà, tornerà a stare con noi, scambiando

parole e affetti, ma intanto… Se consideriamo la famiglia, vediamo dunque che anche in essa le componenti narcisistiche delle relazioni interpersonali non mancano mai. L’importante è che non siano dominanti. Ma sarebbe tragico che mancassero del tutto. La famiglia come palestra. La famiglia è infatti come una palestra: il cucciolo dell’uomo fa qui alcune esperienze fondamentali, che gli serviranno per tutta la vita. Esperienze affettive e di pensiero. In generale, tuttavia, non capita che queste esperienze vengano più tardi ripetute meccanicamente. Solo quando, per qualche ignoto motivo, il processo di sviluppo fallisce drammaticamente, si può assistere talora ad una ripetizione pressoché meccanica di forme di pensiero e di affetti originati nella prima infanzia. E questo vale anche per il narcisismo che, in famiglia, è implicato in moltissimi modi. Le esperienze in famiglia però servono perlopiù proprio perché, sulla base di un paradigma che si costituisce, le esperienze successive (e che alle prime si possono ricollegare per riconoscerle proprio nel momento in cui si differenziano parzialmente da esse) si possono declinare in mille modi diversi. E i collegamenti sono fatti a molti e diversi livelli. Qui, quelli che ci interessano sono soprattutto quelli inconsci, che abbiamo imparato ad indovinare sulla base del metodo psicoanalitico. Ma quali sono le esperienze narcisistiche fatte in famiglia? Beh, innanzitutto ce ne sono molte che vengono compiute nella primissima infanzia: quando nasce, nudo, incapace di agire e di parlare, perfino incapace di pensare, l’essere umano è totalmente in balia dell’ambiente. In pratica, sa solo respirare. Sopravvive e poi vive solo perché viene soccorso, aiutato, stimolato, amato. Come scrisse Freud, in un certo senso la psicologia sociale precede quella individuale. Le relazioni umane sono necessarie per la vita. E, perciò, le relazioni con l’«adulto soccorritore» fanno parte delle esperienze fondamentali cui accennavo. Sennonché, il problema di ciascuno alla nascita è quello di «diventare quel che (ormai) è» ossia un individuo, un essere staccato da tutti gli altri, diverso da tutti gli altri, dotato di un certo grado di autonomia e di un certo grado di capacità di procurarsi non solo di che vivere in senso materiale, ma di che vivere in senso psichico: capace dunque di cercare e provare piacere, di riconoscere la realtà, di modificarla o di adattarvisi a seconda delle circostanze, di stabilire relazioni con persone sulla base di propri criteri. In poche parole: la «miseria» del neonato, la sua necessità di tutto, si scontra con l’altra necessità, quella progressiva, che lo porta verso l’autonomia. Il problema del narcisismo per il neonato si colloca in questa situazione: da un lato infatti egli «è» – e, inconsciamente, sa di esserlo – un individuo, dall’altro la dura esperienza gli dimostra

che egli non ha le caratteristiche necessarie ad una concezione positiva dell’individuo: è sì un tutt’uno ma questo tutt’uno non è un «completo», una totalità che possa bastare a se stessa. Facciamo un momentaneo balzo in avanti e notiamo che questa condizione (di sapere di essere un individuo ma di non essere in grado di «esserlo davvero») si prolunga, ma sotto altre vesti, per tutta la vita: un problema classico della nostra specie sta nel fatto che, a fronte della percepibilità dell’individuo, essa deve constatare la impensabilità (cosciente) dell’individuo. Ne consegue ad esempio che dal punto di vista scientifico l’individuo può essere studiato come un oggetto risultante dalle determinazioni che lo coinvolgono (biologiche, sociali, culturali, economiche ecc.) come se, dall’esterno, si cercasse di delimitare man mano, per successive approssimazioni, il «chi è» l’individuo. Ma solo la psicoanalisi freudiana ha affrontato questo problema direttamente. E si confronta tuttora con la difficoltà di questa ricerca. Il neonato però, di fronte alla sua disastrosa situazione iniziale (ma disastrosa solo se vista con gli occhi dell’adulto), ha la possibilità grandiosa di concepirsi in forma allargata: chi sono? Sono l’insieme delle mie condizioni piacevoli, delle forze che mi danno piacere. Questa formulazione del problema del narcisismo primario (o riformulazione, perché l’avevamo visto nel capitolo precedente e poi vedremo anche quello secondario) sottolinea gli aspetti cognitivi o autocognitivi del narcisismo. In realtà, questa formulazione è un modo per esprimere un problema nei termini dell’adulto: per il neonato verosimilmente non si pone il «problema», l’interrogativo «chi sono?», ma si compie immediatamente l’esperienza di sentirsi allagato dal piacere e, viceversa, di sentire come estraneo tutto ciò che provoca dispiacere. Nei termini che usò Freud fin dall’inizio della sua ricerca, si può dire che, di fronte agli stimoli provenienti dall’interno (ad esempio la fame), che disturbano la quiete e chiedono di essere eliminati, il neonato reagisce considerandoli esterni a sé e considerando viceversa «sé» lo stato di appagamento piacevole e pacifico che consegue alla eliminazione dello stimolo. Uno stato piacevole e, per certi versi, trionfale, perché in questa condizione il neonato sente se stesso come totalmente positivo e questa sensazione è collegata ad una sorta di autostima, di sensazione di capacità di darsi questo piacere. Inutile dire che questa condizione di narcisismo primario non ha molto a che fare con la realtà. È utile viceversa sottolineare come essa sia utile. Se il neonato avesse un precisissimo giudizio sulla sua realtà, verosimilmente si sentirebbe disperato e drammaticamente in balia degli altri, mentre il «sentirsi» capace di provare soddisfazione e l’illudersi che ciò sia conseguente ad una propria potenza gli consente di guardare con fiducia ai numerosissimi compiti che la vita gli chiede di svolgere. Una delle funzioni fondamentali della famiglia, allora, è quella di consentire al neonato di compiere questa esperienza narcisistica, di consentirgli cioè di accumulare sufficiente fiducia in se stesso da poter affrontare l’altro. E l’altro, all’inizio della vita, è sì

qualcuno dal quale ci si può aspettare cibo, amore, calore ma è anche qualcuno di enorme, sproporzionato. Un nano deve essere molto fiducioso di sé, per poter affrontare il mondo dei giganti.

Dal narcisismo primario a quello secondario Tuttavia, ricordiamo subito una differenza tra questa condizione di narcisismo primario e quelle condizioni narcisistiche che abbiamo finora incontrato, a partire da Ovidio per giungere agli uomini politici o alle vecchie conoscenze incontrate per strada. Tutte queste ultime condizioni erano caratterizzate dall’amore di sé: Narciso che si specchia nella fonte ama l’immagine che vede, scambiandola per un altro, diverso da sé. Insomma in tutte queste condizioni esiste un oggetto o qualcuno che è utilizzato per raffigurare un oggetto (ossia serve da schermo per la proiezione di un’immagine interiore). Invece nella condizione appena descritta del neonato, non esiste questo oggetto: il neonato non si rispecchia all’inizio in nessuno, non guarda se stesso riflesso altrove. Semplicemente si piace perché prova piacere. Dobbiamo sempre dunque ricordare la distinzione (vedi cap. 2) tra una condizione di narcisismo primario (primario anche in senso cronologico) e una di narcisismo secondario, caratterizzata dall’investimento di libido (ossia di energia psichica derivante dalla pulsione di vita) su un oggetto specifico, che a livello conscio possiamo chiamare l’immagine di sé ma che, a livello inconscio e nei termini della struttura psichica, è l’Io. Come è evidente, questa seconda condizione implica una differenziazione interna all’individuo: deve esserci un «Io» distinto dal resto dell’apparato psichico perché questo «Io» diventi un oggetto investibile di libido, una sorta di serbatoio di libido. Il passaggio dal narcisismo primario a quello secondario è determinato dal fallimento del primo. Il narcisismo secondario nasce dalle ceneri di quello primario ed esprime un tentativo di ricostituire delle condizioni interiori, psichiche, di piacevolezza, di autoconservazione, di sicurezza, che quello illusoriamente garantiva. Ma il passaggio non è piccolo e il fallimento non è indolore. Il passaggio implica infatti la costituzione di un oggetto d’amore interno e dunque di una parte di sé da amare: certo, si tratta di una parte di sé, ma è anche vero che si tratta di una parte. Il sogno della completezza narcisistica è compromesso alla radice, anche se l’amore di sé (dunque verso l’Io) tende a percepire l’oggetto come una totalità. Quanto al fallimento, esso non è indolore non solo perché dimostra la impossibilità di una illusione «splendida» ma perché implica anche il passaggio per l’esperienza della «necessità di aiuto», ossia il riconoscimento che qualcosa (che poi viene riconosciuto come «qualcuno») dall’esterno deve intervenire per eliminare la fonte della tensione o del dispiacere. L’illusione di potersi dare soddisfazione da sé cede in ogni caso e ben presto di fronte alla immancabile esperienza dell’attesa: non sempre la madre è lì, a dare cibo, calore, amore. Può tardare o comunque può non essere in una condizione di disponibilità che consenta al neonato di

sperimentarla come una parte di se stesso. A posteriori, possiamo dire: per fortuna la madre non è sempre perfetta. Se lo fosse, infatti, non consentirebbe, non obbligherebbe o non incentiverebbe il neonato ad uscire dalla condizione di narcisismo primario che, come ormai sappiamo, è del tutto irrealistico. E tuttavia… siamo fatti in modo strano. L’esperienza del narcisismo primario è sì alla fin fine fallimentare, ma è anche stata talmente soddisfacente (dal punto di vista soggettivo) e talmente importante (perché ci ha consentito di concepirci come una totalità a sé stante) che ad essa dobbiamo continuamente cercare di ritornare, il che facciamo assai volentieri: il sonno, come avevo anticipato nel capitolo precedente, è proprio questo tentativo necessario di ritornare ad una condizione narcisistica nella quale la realtà esterna non esiste e tutta l’energia dell’individuo è investita su se stesso. Il fatto è che la realtà esterna viene avvertita come – ed è – disgregante, mentre l’individuo ha la necessità di integrarsi, di essere e sentirsi un tutt’uno. Se il sonno serve a reintegrarsi è perché la realtà esterna obbliga ad investire su di essa per comprenderla o per elaborare in qualche modo gli stimoli che continuamente essa ci invia. E, mentre gli stimoli – degli «estranei» che continuamente entrano dentro di noi, rendendoci diversi da com’eravamo un attimo prima – attirano la nostra attenzione, l’energia ad essa legata viene sottratta alla propria necessaria attività di integrazione. Una fantasia esplicativa. Se vogliamo pensare – preferirei il termine «fantasticare» – questa condizione umana in termini biologici (operazione non priva di significato, perché implica la costituzione di un oggetto, il corpo, come separabile dalla psiche) potremmo immaginarcela come una situazione di conquista: il sistema nervoso man mano conquista il territorio del corpo, innerva la muscolatura, le viscere, gli organi interni, la superficie cutanea o mucosa del corpo, riesce a «comandare», acquisendo la motricità e il suo controllo, sente di esser capace di tenere sotto il suo potere – relativo ma effettivo – tutto il territorio conquistato e, di più, di sentirlo come un territorio integrato, nel quale ciascuna parte funziona in armonia con tutte le altre. Paragonando questa situazione alla conquista di un impero, potremmo dire che l’imperatore – il sistema nervoso, nella nostra fantasia – gode della propria capacità di conquista ed è ben consapevole che quest’ultima è costata un lungo e duro lavoro. Anzi. Proprio perché sa quanto questo lavoro gli sia costato, sa anche che esso implica un continuo investimento per mantenerne il frutto, ossia il controllo del territorio e sa che basta poco per perderlo. Perciò, periodicamente, l’imperatore chiude le frontiere e fa un controllo accurato dello stato dell’impero: invia messaggeri fin nelle più lontane province, chiede e ottiene informazioni, fino a potersi permettere di ricostituire dentro di sé la consapevolezza che l’impero è davvero un tutt’uno, che non ci sono forze che cospirano a disfarlo. Freud – nel Supplemento metapsicologico alla teoria del sogno – richiama a questo proposito

il potere apparentemente predittivo dei sogni, i quali possono indicare l’insorgenza di una malattia con qualche anticipo sulla coscienza nello stato di veglia. Rimanendo nel nostro paragone, non si tratta di un potere predittivo, quanto del fatto che i messaggeri, tornati dalla periferia, raccontano ai funzionari dell’imperatore di aver visto questo o quel disordine, di aver percepito questo o quel malfunzionamento. I messaggeri lo raccontano subito e i funzionari cercano di eliminare il disturbo tramite un meccanismo tipico del narcisismo primario: la realizzazione allucinatoria del desiderio tramite un sogno. Essi pensano (comportandosi come fanno certi nostri ministri…) che basti denunciare il malfunzionamento perché esso vada a posto o, almeno, perché essi siano a posto. Il sogno serve allora per continuare a dormire, ossia per continuare a sperimentare quello stato di integrazione che il sonno garantisce: l’impero è sotto controllo, non deve riaprire le frontiere per cercare altrove qualcosa di utile a soddisfare una propria esigenza. Il criterio fondamentale è quello della conservazione dello status quo ante. Ciò che vale per le malattie vale – e ancor più – per i bisogni biologici. Sono classici i cosiddetti «sogni di comodità», nei quali un bisogno biologico che viene rilevato durante il sogno viene trasformato tramite la raffigurazione di una situazione della realtà esterna: i messaggeri raccontano di aver visto una vescica piena d’urina e di dover segnalare la necessità di svuotarla ma i funzionari, che ritengono questa situazione negativa perché interromperebbe il censimento in corso, elaborano un messaggio-sogno mascherato: nel sogno piove a dirotto, oppure una fontana sta zampillando o, peggio, una diga sta per traboccare. Finché si riesce a soddisfare il bisogno biologico in questo modo allucinatorio, il sonno può continuare (e perciò il sogno fa comodo) ma, dài e dài, la cosa non funziona. A questo punto magari il sognatore si sveglia e corre in bagno ma intanto, cioè per tutto il tempo passato tra l’arrivo dello stimolo e la formazione del sogno, egli ha potuto continuare a dormire. Però, se ci si ricordasse e si comprendesse il sogno di malattia, al mattino, si avrebbe un’informazione utile per spingerci ad andare dal medico. Più spesso, capita che la malattia si sviluppi e – a posteriori – ci ricordiamo di aver sognato qualcosa che poteva aver a che fare con essa o rivalutiamo ciò che avevamo sognato ed avevamo invece sottovalutato. L’impero è molto complesso e prima che i funzionari facciano pervenire alle debite istanze le informazioni ricevute dalla periferia, tradotte nelle debite forme, passa del tempo. Fuor di metafora: prima che il sistema conscio di pensiero sia in grado di utilizzare le informazioni inconsce che riceve dall’interno, non solo passa del tempo, ma è spesso anche necessario che arrivino ulteriori informazioni, travestite da stimoli esterni. «Mi fa male una gamba»: è la gamba che «mi» provoca un dolore, come se essa fosse qualcosa di distinto da me. Quest’ultimo esempio è utile per mettere in evidenza come tracce del narcisismo primario rimangano anche nelle forme del pensiero cosciente adulto: lo stimolo doloroso o comunque

disturbante è collocato «fuori», come a rappresentare ancora una volta la necessità che «dentro» sia l’appagamento, la sicurezza, la tranquillità, mentre tutto ciò che disturba debba essere collocato «fuori». Beninteso sappiamo che la gamba è nostra ma c’è una differenza tra il pensare «mi fa male una gamba» e, invece, «sento un dolore alla gamba»: nel secondo caso viene rappresentata un’unità che nel primo viene, invece, rigettata. Infine, cosa abbiamo visto finora? 1. L’esperienza fondamentale del narcisismo primario e la sua ripetizione durante tutta la vita nel sonno. 2. Il fallimento necessario del narcisismo primario e lo stabilirsi del narcisismo secondario. 3. La fondamentale importanza dell’ambiente (in generale materno) per lo sviluppo di queste situazioni psichiche. 4. L’impossibilità di non-amarsi: la libido può essere distribuita su tutto l’individuo (narcisismo primario) o investita solo su una parte (narcisismo secondario) ma, comunque, viene investita su di sé.

La mamma è sempre la mamma? Ah, la mamma! Su di essa bisogna ora soffermarsi un po’, perché tutte queste esperienze del neonato la implicano. Per fortuna, però, non esiste una mamma eguale all’altra e dunque, se bisogna costituire la categoria «mamma», è anche importante ricordare che si tratta di una categoria astratta, mentre in realtà esistono solo mamme singole. Dunque quel che scriverò di seguito non riguarda direttamente alcuna delle mamme esistenti. O le riguarda tutte, ma solo in parte. Come fa la mamma a far uscire il neonato dal narcisismo primario? Una domanda di questo tipo non ha senso pratico, per fortuna. La mamma, del narcisismo primario del neonato, non ha alcuna considerazione; essa bada al fatto che il neonato succhi il seno per bene, che dorma, che si ingrassi, che faccia la cacca e la pipì, che sia pulito, che le sorrida, che le si adagi sul corpo, sulla pancia o sulla spalla, con quell’abbandono totale che solo i neonati sanno darsi e comunicare. Sente che il bambino è un tutt’uno con lei e che, sì, è uscito dalla sua pancia ma in qualche modo è ancora «dentro». Ma una domanda siffatta non ha nemmeno un senso teorico: siamo proprio sicuri, infatti, che sia la mamma a far uscire il neonato dal narcisismo primario? E, per giunta, non abbiamo appena visto che dal narcisismo primario si esce solo per modo di dire, che ad esso si ritorna in continuazione? Il fatto è che, di tutte le importantissime cose che avvengono al neonato in questo delicatissimo periodo, non sappiamo direttamente nulla, perché il neonato non parla e non può raccontarci quel che gli succede. Le nostre sono ipotesi, suffragate dall’esperienza clinica con bambini, adolescenti ed adulti, ma pur sempre ipotesi. Tuttavia le ipotesi sono importanti e quindi val la pena di guardarle un po’. Una prima ipotesi – che risale allo stesso Freud – è che la madre consenta l’uscita dal narcisismo primario nella misura in cui rende tollerabile al bambino la frustrazione di avere a che fare con la realtà ma che, fondamentalmente, sia il bambino a cercare di uscire dall’equilibrio narcisistico, perché la soddisfazione allucinatoria del desiderio e del bisogno fallisce e perché la ricerca del piacere spinge il neonato ad osare, ad esplorare, a ricercare nella realtà esterna la ripetizione delle condizioni che gli hanno dato soddisfazione. La madre, in questa ipotesi, aiuta, occorre, consente ma il protagonista resta lui, Sua Maestà il neonato. E quel che caratterizza la situazione è la presenza di una forza che «spinge verso». Verso qualcosa che il neonato ancora non sa cosa sia, ma che comunque è qualcosa che deve «rendergli» lo stato di piacere perduto. Questa forza viene chiamata «pulsione». E, conseguentemente, l’ipotesi freudiana è chiamata pulsionale. Un’altra ipotesi – che è stata formulata in modi diversi ma che è centrata comunque sul peso

della relazione tra madre e bambino – è che sia la madre a stimolare, indurre, sedurre (Laplanche) il bambino, elaborando in forme tollerabili gli stimoli che il bambino non potrebbe decodificare, comprendere, tollerare (Bion). Qui la funzione materna è fondamentale, primaria, antecedente l’attività psichica autonoma del neonato: c’è chi pensa che questa possa svilupparsi solo se la madre è in grado di elaborare per il bimbo gli stimoli, chi ritiene (Laplanche) che gli stessi stimoli materni diretti al bambino siano complessi e portatori di significati enigmatici che costituiscono un deposito di rappresentazioni ignote ma interrogative nel bambino. Il narcisismo primario, in questa ipotesi, viene visto come una condizione di non-organizzazione che, in presenza di continui stimoli provenienti dall’esterno, può provocare situazioni caotiche e fortemente traumatiche, tali da impedire o deformare gravemente lo sviluppo psichico successivo, se la madre non svolge il suo compito di filtro e di elaborazione degli stimoli. Qui ho espresso in forma schematica e assolutizzata le due ipotesi, per farne vedere le differenze tra loro. Ma, evidentemente, si tratta di ipotesi che sono state man mano elaborate in forma molto sviluppata, sicché all’interno di ciascuna delle due grandi correnti – pulsionale e relazionale – si trovano ipotesi molto differenziate tra loro. Ma lo scopo, qui, è quello di mettere in evidenza un dilemma fondamentale, che per certi versi ripropone il classico problema dell’uovo e della gallina: vien prima la mamma o prima la pulsione? Nessuna delle due ipotesi, infatti, ritiene che l’individuo non abbia un ruolo attivo fin dalla nascita o che l’individuo possa svilupparsi senza l’apporto dell’altro, dell’adulto, della madre in primo luogo, ma ciascuna delle due ipotesi pone in rilievo ed anzi attribuisce un ruolo fondamentale e primario ad uno dei due elementi: la relazione con la madre o, viceversa, la spinta pulsionale autonoma del bambino.

La mamma, il papà e il narcisismo E la mamma? L’abbiamo lasciata sola per un momento, distratti dalle polemiche teoriche, e ora torniamo a trovarla. Come si è potuto vedere, essa è comunque, in entrambe le ipotesi, assai importante. Soprattutto – bisogna aggiungere – la mamma non è sempre la mamma. In che senso? Mettiamoci un attimo nei panni del neonato: allorché nasce, egli non ha la possibilità, ancora, di distinguere tra sé e il resto del mondo: quel che esiste, in quel momento, è un sentimento vago ma importantissimo di totalità e questa totalità comprende sia se stesso sia la madre. Solo quando si differenzia un sentimento di sé «realistico», limitato al proprio spazio interno, psichico e fisico, si può costituire un oggetto, diverso da sé e contemporaneamente fondamentale. Dunque all’inizio la madre non esiste come tale, ma esiste invece una sorta di bolla comune madrebambino. Qualcuno parla della «diade» madre-bambino, ma questa parola ha già un elemento di differenziazione che «bolla comune» non ha. E quindi si può sostenere che la madre – in quanto tale – nasce per il bambino quando il bambino comincia a percepirsi come «a sé stante», come individuo. La madre, dunque, costituisce il primo oggetto psichico per differenziazione da un’entità indistinta ma, proprio perciò, non è sempre la mamma: prima, è una parte della «bolla». Vogliamo poi complicare un po’ le cose? Non solo il bambino – man mano che nasce psicologicamente – costituisce la madre come oggetto, ma anche percepisce se stesso come distinto e quindi diverso dalla madre. Ora, un individuo diverso dalla madre ma attratto da lei configura una immagine di sé «paterna». In questo senso, Freud parla di una identificazione primaria con il padre, che avviene prima di ogni costituzione dell’oggetto. Paradossale, no? Il padre, ancorché finora sconosciuto, sarebbe in tal modo presente fin dall’inizio. E si tratta di una concezione importante, perché, dal momento in cui il neonato-bambino si differenzia dalla madre e si identifica primariamente con il padre, inizia l’uscita dal narcisismo primario ma anche la differenziazione interna dell’Io dal magma iniziale Io-Es. Ora, l’Io, cioè l’istanza che ha per così dire in gestione i rapporti tra la realtà psichica e quella esterna, si forma man mano attraverso due strumenti che – semplificando molto, evidentemente – sono da un lato le sensazioni e le percezioni corporee, dall’altro le identificazioni: le prime, per quanto spesso imprecise, configurano comunque la rappresentazione dell’unità dell’Io a partire dall’unità del corpo, dai limiti corporei che divengono psichici attraverso un lavoro di simbolizzazione e di rappresentazione, mentre le seconde tendono prevalentemente a configurare modi di essere, configurazioni interne all’Io. Ora, è proprio l’Io che diviene oggetto d’amore nel narcisismo secondario. Ma questo Io è, comunque, debitore dell’altro, costruito tramite identificazioni, a partire da quella primaria con il

padre e da quelle seguenti con la madre. Questo vuol dire che, per poter essere se stessi, bisogna essere gli altri. Che possiamo sviluppare un nostro modo personale di essere nel mondo e con noi stessi solo a partire dall’esperienza fondante di essere gli altri. Nell’inconscio, non ci sono le sfumature che la coscienza consente: se ci si identifica con qualcuno, lo si è. In un certo senso, l’identificazione è un modo necessario di alienazione. È proprio in questo contesto che la psicoanalisi freudiana sottolinea l’importanza del punto di vista pulsionale: il corpo, dal quale emergono le pulsioni, è comunque qualcosa di proprio, è dunque un elemento «di garanzia» a fronte della continua possibilità di essere obbligati ad alienarsi. E nell’equilibrio tra questi due fattori – derivati dal corpo e identificazioni – si gioca la potenziale emancipazione dell’individuo. A tutto ciò, va aggiunta un’altra annotazione. È già molto difficile – dal punto di vista narcisistico – tollerare di riconoscere la inesistenza della nostra autosufficienza assoluta e della nostra onnipotenza (e il premio dato dal godimento del rapporto con la madre, oltreché dai vantaggi vitali che ne derivano, lo allevia sempre solo in parte) e tollerare poi la necessità di passare per l’altro per poter essere se stessi, ma è ancora più difficile tollerare l’esperienza della inesauribilità dell’altro, della sua inconoscibilità, insomma della impossibilità di impossessarsene totalmente prima di e per identificarcisi. Noi ci identifichiamo sempre con qualcuno che è almeno parzialmente sconosciuto. Intendo dire che il problema psicologico del neonato – all’uscita dal narcisismo primario – non è soltanto quello di riconoscere i limiti propri e dell’altra ma, contemporaneamente, di riconoscere che il possesso è sempre parziale, che nell’altra c’è sempre di più di quel che sarà mai possibile conoscere, essere-avere. E mi chiedo quanto, della attualmente frequente difficoltà di stabilire legami duraturi, dipenda da questa difficoltà, che può generare, anziché un piacevole senso di sempre nuove possibili scoperte, un sentimento di incertezza e di estraneità. Lo vedremo nei prossimi capitoli.

Chi ama chi? Nella vita quotidiana di una famiglia, il narcisismo ha un gran peso. Strano, perché sembrerebbe che il narcisismo implichi l’assenza o l’irrilevanza degli altri. Ma se ci pensiamo ora abbiamo tutti gli strumenti per vedere la complicazione di questa situazione. Ricapitolando: il narcisismo garantisce positivamente la sensazione di unità di se stessi, i sentimenti di autostima e di certezza di essere se stessi e non altri, la piacevolezza di sentirsi capaci di darsi piacere. All’uscita dal narcisismo primario, questi sentimenti sono garantiti dall’amore per l’Io. Ma l’Io è derivato in parte (in gran parte) dalle identificazioni con gli altri. Chi ama chi? Amare se stessi è, in questa situazione, sempre anche un po’ amare quegli altri che abbiamo introiettato e con i quali ci siamo identificati. Ora, in famiglia ognuno ha a che fare non solo con gli altri membri della famiglia, ma anche con le identificazioni con loro. Da ciò derivano una serie di situazioni paradossali (apparentemente). Per esempio, avete presente le baruffe tra genitori e figli adolescenti? A volte un estraneo – che ha sempre il vantaggio di poter guardare da fuori, senza esser travolto dalle emozioni implicate nella lite – può osservare che padre e figlio (o madre e figlia o le altre due combinazioni possibili) non si sopportano perché «hanno proprio lo stesso carattere». Sembra un’osservazione banale, ma non lo è mica tanto: perché due individui con tanti punti di somiglianza non dovrebbero andare d’accordo? Il nostro piccolo sguardo panoramico sul narcisismo ci può aiutare a comprendere la difficoltà della situazione: proprio nel momento in cui un figlio adolescente affronta i dilemmi della prospettiva realistica di diventare adulto, sente di poter diventare qualcuno di autonomo, di responsabile, di indipendente dai genitori, ebbene proprio allora scopre – inconsciamente – di «essere» uno dei genitori. La rabbia che prova verso quel genitore, allora, corrisponde in un certo senso alla rabbia che uno può provare allorché scopre di esser stato truffato: ma come, io faccio tutta questa fatica per crescere, nella speranza di diventare me stesso, di poter realizzare i miei desideri, diversi da quelli dei miei genitori, e mi tocca scoprire che diventare adulto non significa diventare l’adulto che voglio io ma (anche, ma nell’inconscio le cose sono più assolutizzate) quell’adulto lì, proprio quello dal quale voglio liberarmi? Una vera ferita al proprio narcisismo. E, in più: se lui c’è ancora, lì fuori, percepibile, io (che inconsciamente mi sono identificato in lui) ci sono o no? Naturalmente le cose vanno in modo molto diverso se la «riserva» narcisistica è sufficientemente dotata e sicura e se quindi il peso delle identificazioni non sarà così determinante. Ma in ogni caso, in un modo o nell’altro, avrà luogo questa negoziazione tra sé e gli altri e le identificazioni con loro. Un caso particolare – e non infrequente – è quello del genitore «narcisista», cioè con un

equilibrio psichico nel quale le valenze narcisistiche hanno un peso notevole. Abbiamo fatto, all’inizio di questo capitolo, l’esempio dei «politici di successo». Ebbene: pensiamo ora ai «genitori di successo», politici o meno che siano, e al particolare gioco di identificazioni che può svilupparsi. Che succede se un figlio si identifica con un padre del genere? Da un lato può accadere che il narcisismo del figlio si accresca, aggiungendo l’identificazione con un narcisista al narcisismo proprio (pensate ai tanti «figli di papà»), dall’altro, però, può accadere che l’istanza alla differenziazione divenga gravemente ostacolata, come se il figlio si trovasse imprigionato in un gioco di specchi senza fine. Anche senza voler entrare nel merito della difficoltà – in questi casi – di elaborare un Super-Io buono, utile, che genera una critica costruttiva per l’Io, in queste situazioni frequentemente si osservano scoppi di rabbia distruttiva, diretti contro il genitore o contro la realtà extrafamiliare. Nel primo caso per cercare – inconsciamente e disperatamente – di distruggere l’immagine narcisistica del padre e trovargli degli aspetti umani nel modo di affrontare il proprio fallimento, nel secondo per realizzare concretamente ciò che il padre attua simbolicamente, ossia la irrilevanza degli altri. Chiunque abbia avuto figli adolescenti ha passato qualche esperienza di questo genere con loro, magari anche solo transitoria. E la faccenda è complicata dal fatto che chiunque, in precedenza, è stato adolescente e in qualche misura, se tollera di regredire per cercare di comprendere il proprio figlio, risperimenta la stessa difficoltà (ma con il proprio genitore).

Narcisismo e concezioni dell’individuo Notate come la questione del narcisismo sia davvero fondamentale: essa sta alla base di concezioni assai diverse tra loro dell’umanità. Perché quel che è in ballo, qui, è l’idea stessa di individuo. Poiché queste ipotesi hanno scatenato autentiche guerre tra i sostenitori, forse è utile sintetizzare – anche in forma estrema – le critiche reciproche, perché spesso ci è più facile vedere il fuscello nell’occhio dell’altro che la trave nel nostro. Ma ciò non significa che il fuscello non ci sia e dunque… L’individuo «freudiano», potrebbero dire i relazionalisti, è una specie di monade che si sviluppa solo spinta dalle proprie pulsioni, che considera l’altro, che diviene oggetto del suo pensiero, principalmente o a volte esclusivamente per il piacere che ne può trarre o per il dispiacere che può evitare; l’altro è dunque un oggetto che può essere preso o lasciato in base a questo criterio egoistico. Per contro, i freudiani pulsionalisti potrebbero affermare che l’individuo «relazionale» è un personaggio ambiguo, privo di una propria autonomia, dipendente in forma estrema e, in ultima analisi, più un prodotto di una determinazione (micro)sociale che un soggetto almeno potenzialmente dotato della possibilità di divenire protagonista della propria storia. Come si vede, queste due ipotesi, quella freudiana o pulsionale e quella relazionale, espresse appositamente in questa forma estrema, sono antitetiche e incompatibili. Storicamente, esse sono nate in momenti diversi, la prima all’origine della psicoanalisi e quando i casi clinici studiati erano prevalentemente casi di nevrosi (isteria, nevrosi d’angoscia, nevrosi fobica, nevrosi ossessiva) mentre la seconda si è sviluppata in seguito al progressivo allargamento dell’indicazione all’analisi anche ai casi della cosiddetta patologia narcisistica (casi al limite, nevrosi di carattere, alcune psicosi). Nella realtà sia delle formulazioni teoriche sia della pratica professionale e clinica, esse non sono mai formulate in modo così estremo, ovviamente, se non nei momenti di più accesa polemica. Ma è utile tener presente cosa queste due ipotesi implicano. La prima è più «biologica», centrata com’è sulle pulsioni, che hanno origine secondo Freud nel corpo, la seconda è più «sociologica» e rischia anche di essere «psicologistica», nel senso di mettere da parte l’importanza della struttura biologica dell’essere umano.

Tirando le fila Nella vita familiare quotidiana, l’equilibrio tra le esigenze narcisistiche e quelle libidiche, che spingono verso le altre persone, è continuamente messo alla prova e proprio in ciò sta una delle funzioni fondamentali della famiglia: all’ombra della certezza che comunque un figlio resta figlio e un genitore resta genitore, qualunque cosa accada nel gruppo familiare, questo equilibrio può continuamente mutare e diventare in tal modo sufficientemente elastico e mobile. Solo così esso può essere introiettato come un’esperienza fondamentale, che costituirà una sorta di lente attraverso la quale potranno essere viste anche le esperienze con gli altri esseri umani. Ma, in ogni caso, sia nel passaggio dal narcisismo primario a quello secondario, sia in ciascuna di queste due fasi, è importante tener presente che sempre il narcisismo è frustrante (perché necessariamente fallisce nel raggiungimento di una soddisfazione realistica del desiderio) ma anche che sempre è necessario, perché solo lo spostarsi dell’attività psichica verso il polo della configurazione narcisistica consente di riprovare quel sentimento di totalità e di re-integrazione che corrisponde ad una realtà interiore fondamentale ma mai conquistata del tutto o con assoluta certezza. Vedremo nei prossimi capitoli come però il narcisismo secondario, del quale ora ci occuperemo prevalentemente, abbia declinazioni diverse in funzione dello stato dell’Io e come questo stato dell’Io dipenda, in primo luogo, dalle vicissitudini legate allo sviluppo delle pulsioni e al «pellegrinaggio» attraverso varie zone corporee (le famose zone erogene) le quali strutturano man mano alcune esperienze essenziali sia sul piano cognitivo sia su quello affettivo.

4.

Narcisismo e oralità: voracità con e senza virgolette

Antipasto Quando la pulsione di vita dispiega i suoi effetti nel bambino che cresce, essa cerca il suo oggetto di soddisfazione tramite quelle che sono esperienze importanti legate a funzioni corporee essenziali, come l’alimentazione, l’evacuazione delle scorie accumulate, l’allentamento della tensione sessuale. Da un lato l’attuazione di queste funzioni corporee è premiata dal piacere – e dunque ci può essere tutto un autoerotismo legato all’espletazione di queste funzioni – dall’altro ognuna di queste funzioni non solo comporta una specifica sensazione di capacità ma anche uno specifico modo di considerare e di ricercare l’oggetto del desiderio. In un certo senso, ciascuna delle famose fasi dello sviluppo psicosessuale (orale, anale, fallica, genitale) costituisce anche l’occasione per concepire i rapporti con la realtà attraverso un’ottica particolare, appunto orale, anale, fallica ecc. Al termine dell’evoluzione normale di questa migrazione attraverso il proprio corpo e le sue funzioni, se il processo di simbolizzazione e di rappresentazione di queste funzioni si è svolto regolarmente non si avrà il superamento di ciascuna di queste fasi nel senso di «annullamento», di «sorpasso», ma in quello della loro integrazione in forme altamente individuali che risentiranno del «come» queste fasi si sono succedute o accavallate una con l’altra, se sono state soddisfacenti e in che misura lo sono state e via di seguito. Ebbene: in ognuna di queste fasi si ripete il problema della costituzione di un equilibrio tra le esigenze narcisistiche e le spinte verso la ricerca, nella realtà esterna, di «oggetti», ossia persone assieme alle quali realizzare i propri desideri, con le quali stabilire relazioni. Cercherò, in questo capitolo, di far vedere come si declini questo paradigma nella fase orale e quanto di ciò possa rimanere e trasparire nella vita quotidiana, patologica o no. La fase orale dello sviluppo della psicosessualità è particolarmente delicata, perché essa si situa proprio nel periodo del passaggio dal narcisismo primario a quello secondario. È in questo periodo, ricordiamolo, che si costituisce l’altro come oggetto esterno e diverso da sé e che contemporaneamente si costituisce un «Io» ossia una parte differenziata dell’apparato psichico che media tra le esigenze pulsionali «selvagge» e le esigenze – pericolose ma potenzialmente utili, anche se inizialmente avvertite come ostili, perché contrastano il piacere – della realtà. Tutto, in questo periodo, è dunque in discussione e perciò moltissimi autori ritengono questo periodo particolarmente importante per lo sviluppo umano. Se fallisce, sono guai. Per attenuare però la sensazione di pericolosità che si può avere da questa (iper)valorizzazione della fase orale, bisogna tenere sempre presente: a. che lo sviluppo psichico è «premiato» da esperienze di piacere e che questo piacere è tanto più intenso quanto maggiore è il rischio di fallimento, quasi che l’incentivo ad «andare

avanti» serva ad evitare la tendenza alla rinuncia; b. che lo sviluppo psichico è stato… progettato in modo particolarmente accurato, per cui non esistono (quasi) mai situazioni irrimediabili, perché un problema mal affrontato in un determinato periodo della vita può essere riaffrontato in un altro. È un po’ come se lo sviluppo psichico si potesse concepire come una serie di indovinelli collegati tra loro: ad ogni fase psicosessuale corrisponde un gruppo di indovinelli ma a volte la risposta adeguata ad un gruppo cronologicamente più tardivo consente di acquisire il «punteggio» che non si era ottenuto con le risposte date al gruppo precedente. Dunque degli indovinelli «orali» possono essere riproposti in forma «anale» e allora risolti e così via.

L’oralità e la mamma Durante la fase orale, il bambino ha davanti a sé diversi compiti: deve ovviamente imparare a mangiare, riconoscere che il cibo gli viene dato dall’esterno e tollerare la frustrazione data dall’attesa, che gli indica come le sue fantasie di onnipotenza siano false e come non sia automatico che alla richiesta di cibo corrisponda l’arrivo del seno materno. Soprattutto, deve cominciare a differenziare il sentimento di amore dalla semplice spinta a cercare la soddisfazione. L’amore si appoggia su questa ricerca ma, man mano, parzialmente se ne emancipa. Riuscire a concepire l’oggetto amato (tipicamente, in questa fase, la madre) in forma relativamente distaccata dalla soddisfazione che può procurare significa fare un salto di qualità veramente notevole. Per arrivare a ciò, è necessario che l’oggetto amato si assenti – e quindi possa essere solo pensato e desiderato – ma poi possa esser ritrovato in tempi ragionevolmente brevi nella realtà. Già il potersi permettere di ritrovare nella realtà l’oggetto rappresentato nel pensiero è una fonte di soddisfazione. E, aggiungiamo subito, una soddisfazione mista, in parte determinata dal ritrovamento effettivo della mamma, in parte invece dalla constatazione della propria capacità di «aver presente» psichicamente la mamma anche durante la sua assenza. Ma la mamma, come è raffigurata dal bambino? Già nel precedente capitolo avevo messo in evidenza come la mamma non sia sempre la mamma. Ora, più in dettaglio, se pensiamo all’esperienza inaugurale del neonato, non ci riesce difficile immaginare che il bambino si raffiguri dapprima un capezzolo con un’area circostante che sfuma verso un qualcosa di indeterminato; non ci vede bene, perché ancora non sa coordinare le immagini, sente fame, avverte che dentro la bocca gli sta entrando qualcosa di caldo e «buono» perché appagante, vede solo appunto una macchia piacevole collegata a qualcos’altro. Solo un po’ alla volta vedrà com’è fatta la madre, la sua autonomia nello spazio, le forme del suo corpo. Ma la prima impressione sarà quella che conta. Questa esperienza, infatti, nella quale il collegamento seno-piacere-mamma-sazietà è continuo, lo spingerà a concentrare la sua attenzione sulla zona oro-labiale, che diventa sia una fonte di piacere, sia una fonte di conoscenza: gli oggetti, dalle proprie mani, ai propri piedi, ai primi giochetti, ai vestiti della mamma, alle lenzuola della culla, verranno tutti «assaggiati», non tanto per mangiarli quanto per differenziarli dalla mamma e, anche, per provare a vedere se con questi oggetti è ripetibile (e in che misura) l’esperienza piacevole della suzione. Se pensiamo al passaggio dal narcisismo primario a quello secondario, qui l’elemento di sicurezza, di certezza, l’elemento narcisistico di valorizzazione di sé consiste nella constatazione della propria capacità – di succhiare, gustare, differenziare. L’Io viene amato in quanto

succhiante, gustante, differenziante. In quanto capace di provare (e procurare a tutto l’individuo) piacere. Ma, come avevo ricordato nel capitolo precedente, in questo periodo si sviluppano anche le identificazioni e proprio con la mamma avvengono le prime identificazioni secondarie: l’Io allora comincia a formarsi sia sulla base delle sensazioni provenienti dal corpo, sia su quella delle identificazioni con la mamma.

Un caso clinico Queste sono le premesse. Ma forse è meglio vedere alcune conseguenze o, meglio ancora, alcuni esempi di «oralità» che si possono sperimentare nella vita quotidiana. Perché, come dicevo nell’altro capitolo, le diverse fasi alla fine tendono ad integrarsi ma in qualche situazione, per qualche persona, una di esse è così importante da rimanere relativamente distinta, riconoscibile in qualche modo. Siccome è fin troppo facile – e fuorviante – pensare subito alla cosiddetta «patologia dell’alimentazione», cominciamo con un esempio un po’ più quotidiano. Quanti di noi conoscono persone che sanno sempre cosa sarebbe bene per gli altri? Credo che quasi tutti noi possiamo trovare, tra i nostri amici o conoscenti, degli esempi. Un signore che ora conosco abbastanza – perché è stato in analisi con me per parecchi anni – chiese un primo appuntamento perché rattristato e sconvolto dall’improvviso abbandono della sua partner. Questa, da un giorno all’altro, approfittando di una sua assenza per lavoro, se n’era andata portando con sé tutte le sue cose (un vero e proprio trasloco) e lasciandogli solo un biglietto sul quale era scritto «Almeno una volta resterai sorpreso». Durante il primo colloquio, egli mi raccontò una vita di sacrifici per gli altri, amici, conoscenti, dipendenti e, naturalmente, la partner. Lamentava di non avere avuto riconoscenza per questo suo atteggiamento e anzi di aver dovuto subire, spesso, attacchi che riteneva del tutto ingiustificati. Mentre parlava, osservava accuratamente il mio tavolo, con gli oggetti per la scrittura, il computer, alcuni libri. Poi, continuando a parlare, cominciò a spostare un fermacarte verso i libri, si fermò, diede un colpetto sapiente ad una pila di carte riuscendo in effetti a compattare la pila un po’ sfasciata. Infine, il discorso slittò sul suo lavoro, sul suo timore di perdere sempre qualcosa, quindi su alcuni strumenti (cartelle, vaschette di plastica) che utilizzava per metter ordine e non perdere le carte nella confusione. A questo punto, soavemente, mi disse che certamente nella cartoleria, che aveva visto venendo da me, erano in vendita quelle vaschette e che mi sarebbero state molto utili. E, al secondo colloquio, me ne portò gentilmente un set intero. Durante la psicoanalisi balzò in primo piano (per me, che ascoltavo) la figura di una madre opprimente, che preveniva ogni desiderio del figlio ma che, soprattutto, sapeva sempre cosa poteva esser bene per lui: dai vestiti alla scelta delle scuole, dagli amici all’arredamento della stanza, agli sport, la mamma gli aveva sempre indicato le cose giuste da fare. E veniva descritta in termini grandemente elogiativi dal paziente. Apparentemente, il paziente non si era adattato passivamente ad una madre del genere ma anzi si era attivamente identificato con questo tratto di carattere della madre e, in tal modo, era riuscito ad ottenere importanti risultati: primo a scuola, ottimo sportivo, attivo in parrocchia. Ma non molto amato dai suoi compagni, che lo accusavano

di voler comandare. Che importa? I risultati che otteneva sostenevano la sua autostima, la sua sicurezza, il suo sentimento di essere capace e, per giunta, buono. È qui che possiamo fermarci a chiederci che rapporto ci fosse, in questo signore, tra narcisismo e oralità. Perché, in superficie, il paziente provava un autentico sentimento di trionfo narcisistico allorché riusciva ad ingozzare gli altri, alimentandoli con buone soluzioni ai loro problemi, addirittura fornendo loro – come a me il set di vaschette – gli strumenti per attuare queste buone soluzioni. Ma le cose stavano diversamente. Ad un altro livello, il paziente riusciva a far provare agli altri la rabbia che lui aveva provato (e represso) per il fatto di essere costantemente anticipato, di avere sempre indicata (dalla madre) la strada giusta per il suo bene. L’identificazione con sua madre era stata – si vide – un tentativo fallimentare di eliminarla, mettendosi al suo posto. Ma in realtà, per così dire, era stata la madre a mettersi in tal modo al suo posto. E la rabbia narcisistica del paziente, la rabbia di non poter mai esprimere il proprio desiderio, pena il rischio di perdere la relazione – vitale – con la madre, esprimeva anche una drammatica incertezza, una sensazione di incapacità, di incompletezza, che veniva proiettata sugli altri. Questi divenivano allora incapaci, raffigurazioni di se stesso in balia di sua madre. Qui vediamo allora come l’esperienza orale del paziente fosse una sorta di ingozzamento, che garantiva sì la vita ma al prezzo di metter da parte la propria autonoma vita psichica. E come l’apparente soddisfazione narcisistica di essere sempre quello che aveva soluzioni buone per gli altri nascondesse una crisi narcisistica, quella di non poter mai sperimentare di avere una buona soluzione per sé. Soprattutto, vediamo da questo esempio non solo come l’apparenza inganni ma anche come uno schema orale di concezione di sé e del mondo abbia la possibilità di persistere nel tempo, strutturando tutti i rapporti con gli altri. Però vediamo anche un altro aspetto: finché l’ambiente, magari malamente, tollerava il modo di stabilire relazioni del paziente, tutto sommato il gioco era ripetibile, ossia l’equilibrio (patologico) che si era stabilito in qualche modo funzionava. Era stato l’improvviso, inaspettato abbandono da parte della partner a rompere questo circolo vizioso, a mettere il paziente di fronte alla sua angoscia, alla sua paura di restare solo, abbandonato e di non avere la capacità di sopravvivere.

Neonati e uomini voraci I casi clinici sono utili (drammaticamente) perché fanno vedere in modo particolarmente netto degli aspetti psichici che però si possono trovare in moltissime persone, mescolate ad altri tratti di carattere. Ripeto dunque la domanda posta più sopra: quanti di noi conoscono persone che sanno sempre cosa sarebbe bene per gli altri? Non è affatto detto che tutti abbiano questo tipo di problema o che il loro modo di fare abbia questa origine ma, in un certo numero di casi, si può pensare che cerchino di ingozzarci (oralità), e che non siano felici di farlo (narcisismo orale infelice). Poi, naturalmente, ci sono tutte le persone voraci: a volte voraci in senso proprio, più spesso voraci in senso lato, metaforico. In quest’ultimo caso, la voracità si miscela a qualche altro aspetto psicologico, com’è caratteristico dell’attività psichica. Un esempio tipico maschile è quello di «divorare con gli occhi» una donna: l’atteggiamento orale si embrica allora con il desiderio sessuale ma, frequentemente, si ferma qui. E allora? vien da chiedersi. Spesso, in analisi, si può comprendere come queste situazioni abbiano a che fare con l’autoerotismo, in un duplice modo. Da un lato il divoratore davvero mangia, mette dentro di sé le immagini della persona vista, dall’altro può utilizzare queste immagini per attività masturbatorie o equivalenti alla masturbazione nel corso delle quali egli prova la soddisfazione di darsi da sé il piacere, di non dipendere da qualcun altro. In entrambe le situazioni, egli sperimenta piacevolmente la propria attività (ma si ferma lì). A questo proposito, bisogna notare come sia caratteristico della fase orale dello sviluppo psicosessuale un dilemma tra attività e passività: sono io che mangio o invece io vengo alimentato? È facile, da adulti, comprendere che una cosa non esclude l’altra, ma per il neonato e per il suo narcisismo la questione non è altrettanto semplice: se si sente alimentato, voglia o non voglia, abbia fame o no, egli sperimenta una situazione di passività che rafforza lo sconforto narcisistico, la sensazione della propria incapacità e debolezza, del non poter neppure difendere i propri confini corporei, di poter essere sempre invaso dal seno e dal latte. Ma se prevale nettamente l’altro aspetto, quello di sentirsi capace di mangiare, di gustare il latte e il capezzolo, di provare piacere, il rischio è quello di negare la dipendenza, di fantasticare di essere capace non solo di mangiare e provare piacere, ma anche di non aver bisogno della mamma. Nel primo caso si avrà una tendenza ad una svalutazione di sé, nel secondo ad un eccesso di fiducia (irrealistica) in sé. Perciò, delle persistenze dell’ottica orale attraverso la quale il bambino vede il mondo, sono soprattutto delicati gli equilibri tra attività e passività, tra piacere tratto dall’esperienza della propria capacità e piacere tratto dalla relazione con la madre. Anche nella insicurezza che alberga

nell’animo di tantissime persone nei confronti del futuro si può spesso intravedere una radice orale: avrò da mangiare, quando sarò vecchio? Una realistica valutazione del futuro non prescinde mai dall’uso della lezione del passato e perciò diventa meno realistica se si confronta inconsciamente con le due soluzioni narcisistiche estreme (eccesso di fiducia in sé o eccesso di svalutazione di sé) indicate più sopra.

E le turbe dell’alimentazione? Si può vedere nelle cosiddette «patologie alimentari» un esempio efferato di prevalenza narcisistica («posso permettermi di non mangiare, a differenza di tutti gli altri») sull’esigenza alimentare e sulla relazione orale? A volte anche sì. Ma quasi mai o forse proprio mai del tutto in una forma così semplice: l’essere umano, fortunatamente, è sempre complesso. Anche quando alla superficie dell’attività psichica compaiono sentimenti di trionfo che fanno pensare ad un narcisismo che si alimenta (notate) tramite la capacità di non alimentarsi, dovremmo stare attenti ad accontentarci di una descrizione siffatta. Perché spesso il fatto che l’apparato psichico ponga come proprio oggetto d’amore un «Io» (o meglio un ideale dell’Io, ricordate l’esempio dell’oggetto falso costruito apposta? Dell’Islam in Italia?) costretto ad una situazione così impraticabile e, contemporaneamente, così necessitato a configurarsi in questo modo, fa pensare a questa realtà psichica come alla risultante di una manovra difensiva disperata, alla ricerca di un’affermazione di sé a qualunque costo, anche a rischio della vita. E forse è proprio dalla propria morte psichica, dal non-esserci, che queste pazienti a volte si difendono. Altro che narcisismo! Bisognerebbe sempre parlare, in questi casi, di fallimento dell’esigenza e delle dinamiche narcisistiche e chiedersene il perché, inevitabilmente diverso da persona a persona. Anche nelle situazioni più disperate, nelle quali il narcisismo diventa distruttivo – o al servizio di pulsioni distruttive – e quindi cerca attivamente l’assenza dell’oggetto, tende a distruggerlo, umiliarlo, eliminarlo rendendolo inservibile (ad esempio col vomito) abbiamo sempre a che fare con la disperazione narcisistica, con il bisogno disperato di affermare se stessi anche tramite pratiche e condotte che possono condurre a morte. Le manifestazioni di tripudio narcisistico di alcune anoressiche di fronte alla perdita di peso o all’evitamento riuscito del cibo sono soste durante una battaglia con il cibo, una battaglia che fa parte di una guerra che purtroppo spesso andrà perduta.

Equilibri felici... Ma su un altro aspetto dell’intreccio tra oralità e narcisismo val la pena di soffermarsi. Quello che, in linguaggio quotidiano, si potrebbe chiamare il «narcisismo della pancia piena». Anche qui conviene guardarsi da una semplificazione eccessiva o da una lettura troppo diretta delle manifestazioni psichiche altrui: certo, i mangioni gaudenti possono fare parte di questa schiera, ma sono più interessanti gli aspetti che testimoniano di una simbolizzazione della cosa. Comunque: sì, spesso i mangioni gaudenti mostrano un intreccio abbastanza riuscito di narcisismo e di oralità. E, anche, una particolare fissazione a questa fase dello sviluppo. Sono le persone che per qualche parte di sé vivono per mangiare anziché mangiare per vivere. E non si creda che si tratti di persone per ciò stesso volgarmente materialiste, che vivono solo per desideri terra-terra come quello, appunto, di avere la pancia felicemente piena. Ho conosciuto illustrissimi professori che, di ciascun congresso che avevano frequentato in ogni angolo del mondo, ricordavano in ogni più piccolo dettaglio il ristorante nel quale erano stati invitati, il piatto prelibato che era stato loro offerto, la più minuta caratteristica della cucina locale. In alcune situazioni, ho ipotizzato che costoro facessero il giro del mondo per confermare felicemente a se stessi che sarebbero potuti andare ovunque e ovunque sarebbero stati alimentati e vezzeggiati, come se il rapporto tra legame con la madre e proprio narcisismo fosse diventato una condizione di reciproca alimentazione (è il caso di dire): una grande, soddisfacente mangiata aumenta il proprio narcisismo e la sensazione narcisistica di esser sempre e ovunque in grado di provare piacere (orale) aumenta il desiderio di compiere nuovamente l’esperienza. Patologia? No, non credo: si tratta di un particolare tipo di equilibrio interiore che garantisce un buon livello di amore per sé. Certo, qualche malevolo potrebbe sostenere che, in tal modo, queste persone preparano la loro disfatta fisica (aumento del colesterolo, malattie cardiovascolari…) ma, appunto, ci si può chiedere se questa non sia una annotazione malevola e in qualche misura invidiosa di un equilibrio oralità/narcisismo soggettivamente riuscito. Il fatto è che ognuno vuol vivere e morire a modo suo e le prescrizioni sociali relative al modo «buono» di morire lasciano il tempo che trovano.

… con qualche inquietudine Certo, se stiamo ad osservare i «mangioni dalla pancia piena», qualche elemento di inquietudine possiamo scoprirlo: perché hanno bisogno di ripetere continuamente l’esperienza? C’è solo la ricerca della soddisfazione ben nota, a spingerli verso una ripetizione continua, o c’è anche dell’altro? Che cosa può accadere se – per un evento imprevedibile – l’esperienza della «pancia piena» non può ripetersi? Ad un congresso di medici, molti anni fa, per un incidente banale (un principio d’incendio nella cucina del ristorante prescelto) la cena inaugurale dovette essere sospesa: molti dei congressisti presero con umorismo l’accaduto e si organizzarono rapidamente invadendo i ristoranti nel quartiere prossimo alla sede del congresso ma uno stimatissimo collega – uno dei relatori principali della giornata inaugurale – sentì l’accaduto come un’offesa personale e, il giorno dopo, infarcì (la terminologia orale qui non è casuale) la propria relazione di critiche velenose nei confronti delle relazioni (prepubblicate) presentate dai colleghi ospitanti. Restai colpito dall’osservazione di un endocrinologo seduto vicino a me, il quale, ascoltando la raffica di critiche del relatore, borbottò: «se oggi eliminano anche i coffee break, questo ci ammazza tutti». Penso che, pur essendo egli totalmente digiuno di psicoanalisi, avesse colpito nel segno: quale tipo di rabbia può provocare il fallimento dell’esperienza di soddisfazione orale? Se li guardiamo così, allora, i mangioni dalla pancia piena possono avere anche degli aspetti inquietanti e, per così dire, il perimetro della loro pancia può essere anche visto come una diga che trattiene ondate di rabbia distruttiva. Però, volgendoci agli aspetti simbolici dell’oralità, provate un po’ a pensare cosa accade quando, al posto del cibo concreto, il «narcisista della pancia piena» mette un cibo simbolico. Ossia quando la «logica» orale è così importante che molti altri aspetti della realtà simboleggiano il cibo. Che si tratti di donne (o uomini) o di saperi. Qual è, ad esempio, la soddisfazione che una «mangiatrice di uomini» prova? È legata prevalentemente all’esperienza piacevole (eventualmente anche sessuale) con ogni nuovo uomo conquistato o invece a quella della propria capacità di, appunto, «papparsi» un altro oggetto? Verosimilmente c’è sempre questa e quella componente, ma è assai importante la proporzione tra le due: se prevale la seconda, infatti, il partner diventa trascurabile. O non esiste proprio come persona, ma solo come oggetto di soddisfazione narcisistica. Pensate poi anche a certi eruditi che continuano a studiare studiare studiare senza mai poi trarre da questo loro studio un’opera che restituisca agli altri qualcosa di più. Non c’è, in loro, la soddisfazione di riempirsi la pancia (metaforica in questo caso) di elementi, nozioni, teorie per il solo gusto di essersele mangiate? E lo sguardo compiaciuto che ci elargiscono quando viene offerto loro un ulteriore banchetto nozionistico ad esempio ad un congresso – uno sguardo che

dice «dammi, dammi, ne ho già mangiato tanto ma ne voglio ancora» –, va spessissimo accoppiato ad un cortese rifiuto di farci conoscere quel che sanno: è una loro proprietà, un cibo riservato solo a loro, al quale possono fare allusione ma che non possono condividere. Di questa specie di ingordi fa parte, tipicamente, anche la persona con tendenza a posare da «guru», la quale coniuga al rifiuto di dare l’esibizione dell’avere. Ma quel che ha il guru è così importante, così sacro, così elevato da non poterlo condividere con altri: in realtà (psichica e inconscia) vuol tenerlo solo per sé. E vedremo nel prossimo capitolo come ciò possa avere numerosi addentellati anche con la logica anale. In conclusione: che tipo di narcisismo è quello orale? Se pensiamo un attimo all’immagine classica di Narciso che si specchia nell’acqua della fonte, verrebbe da dire che l’immagine amata dal narcisista «orale» è molto strana: aperta, certo, e disponibile ad accettare quel che vien da fuori ma anche singolarmente interessata alla sensazione di pienezza e di gusto, più che alle altre caratteristiche dell’oggetto, dal quale tuttavia dipende. L’immagine è dunque quella di una persona che da un lato è alla perenne ricerca di dimostrare a se stessa che il cibo, benché venga dall’esterno, non sia dunque di produzione propria, è comunque garantito (il che è almeno in parte illusorio) dall’altro che privilegia le proprie sensazioni di pienezza e di gusto, restandone appagato, piuttosto che cercare di conoscere altre caratteristiche dell’oggetto.

5.

Narcisismo anale: l’elaborazione dei limiti

Includere o escludere gli altri? Come si è visto nei capitoli precedenti, il narcisismo non va inteso come un singolo stadio dello sviluppo psicosessuale. Esso anzi è un continuo riferimento a se stessi in un movimento continuo che ho paragonato a quello del pendolo, oscillante tra il polo costituito da sé e quello costituito dall’oggetto esterno amato. Tuttavia questo paragone ha i suoi limiti, perché la duplice tendenza del narcisismo – come ce l’ha mostrata in modo esemplare Lou Andreas-Salomé in un suo scritto del 1921 – consiste sia nell’investire se stessi sia nell’allargare in tal modo i limiti di sé fino al punto da cercare di ri-assumere in sé tutto il resto del mondo. In questo senso mentre, se guardiamo il narcisismo come «ritiro» su di sé della libido, tendiamo a concepire il narcisismo come qualcosa che esclude gli altri (e in particolare proprio gli oggetti d’amore), se concepiamo il narcisismo come allargamento inondante dei limiti di sé abbiamo invece la concezione del narcisismo come inclusivo degli altri. Certo, possiamo chiederci come gli altri vengano concepiti, pensati, utilizzati in questa seconda prospettiva ma dobbiamo tenerne conto perché essa non è necessariamente un’ottica regressiva o negativa e, anzi, si manifesta nei momenti più evoluti e felici della vita. Tipicamente, essa si manifesta nell’adulto allorché l’unione sessuale con la persona amata consente di sperimentare proprio quell’inondazione di libido che fa andare al di là dei limiti propri, che permette una situazione di fusione felice e appagante: in quei momenti privilegiati, la distinzione tra sé e non-sé si attenua, nel senso che consente di avvertire che «tutto è sé» come quando, all’inizio della vita all’esterno dell’ambiente uterino, la distinzione soggetto-oggetto non esiste. In questo caso, appunto, il paragone con il pendolo non regge.

Elaborazione dei limiti Come vedete, all’inizio di questo capitolo sto ponendo il problema dei limiti. Limiti da superare, da reinvestire, ma innanzitutto limiti da conoscere e riconoscere. Ora, la fase di sviluppo psicosessuale che chiamiamo anale è fondamentale a questo scopo. Perché essa consente di affrontare ed elaborare in forma assolutamente chiara la distinzione tra interno ed esterno e perché consente questa elaborazione in forma attiva. Béla Grunberger sottolinea che la caratteristica essenziale dell’universo narcisistico-orale consiste nel suo essere aperto e privo di limiti, mentre quella dell’universo narcisistico-anale consiste nel suo essere chiuso, delimitato e attivo, sicché in rapporto all’oggetto il soggetto «anale» può conquistare la sua autonomia e unicità – elementi essenziali del narcisismo – tramite un’attività, una distanza che lo delimita ma anche lo pone al di sopra dell’oggetto, al quale viene rifiutata la qualità di soggetto. La caratteristica di essere una totalità, delimitata dall’esterno, è fondamentale per la costituzione dell’individuo e la caratteristica di essere una totalità unica, diversa da tutte le altre, è fondamentale per le avventure seguenti di ciascuno di noi, perché raffigura la possibilità di essere i soggetti della nostra storia. Il narcisismo anale ha dunque queste due caratteristiche: l’investimento su di sé come chiuso, delimitato, unico e l’investimento su di sé come capace, attivo, produttore. Qualcuno di voi, leggendo queste righe, avrà già associato gli aggettivi che ho usato ad altri contesti: in effetti, la descrizione-prescrizione che frequentemente si rivolge ai giovani in cerca di lavoro è proprio di questo tipo. Si chiede ai nuovi lavoratori di privilegiare un’ottica anale. Calcolo miserabile, se vogliamo, ma non ingenuo. Ne vedremo le conseguenze nell’ultimo capitolo di questo libro, considerando i tipi di equilibrio possibile tra narcisismo e salute mentale. Ma ritorniamo all’analità, tenendo presente che l’esperienza di una propria capacità inizia a livello corporeo, con il riconoscimento (inconscio) della maturazione delle capacità motorie. Ora, l’esperienza della capacità di azione sfinterica è precoce e, soprattutto, consente una attività che riguarda l’interno del corpo. Anche nella fase orale l’esperienza della capacità di chiudere la bocca è importante ma, come si sa, essa può servire per escludere, per lasciar fuori il capezzolo o il latte e – a parte casi gravissimi – dura davvero poco. Nella acquisizione della capacità di controllo dello sfintere anale, viceversa, non solo la durata può essere maggiore ma anche il movimento è inverso: il contenuto intestinale viene trattenuto tramite la chiusura dello sfintere e può essere evacuato tramite l’apertura e la contrazione di altri muscoli. La chiusura, in altri termini, non determina una perdita: provoca una sensazione di autosufficienza e determina una conservazione dell’oggetto. Di più: come sottolinea Andreas-Salomé, l’esperienza anale è strettamente legata alla

esperienza della propria capacità generatrice: qualcosa che sta dentro di sé – il contenuto rettale –, che non viene distinto da sé e viene sentito anzi come una parte di sé, viene trasformato in un oggetto esterno – le feci – senza che l’individuo si senta per questo diminuito o amputato. Da qui derivano fortissime e persistenti connessioni inconsce con ogni produzione, da quelle più materiali a quelle più elevate, dall’attività di pensiero a quella artistica: in ognuno di questi casi, l’individuo utilizza la lezione appresa durante la fase anale e sa dunque di poter produrre senza perdere parti di sé. Inoltre, questa produzione avviene con un premio di piacere: l’ano e la zona perineale sono delle zone erogene.

Espellere o trattenere? È anche vero, tuttavia, che l’oggetto prodotto ha determinate caratteristiche – dopotutto di cacca si tratta – e che queste non sono sempre gradevoli. Ma l’esperienza sia del trattenere sia del produrre è un’esperienza piacevole che riguarda sia la propria capacità sia le caratteristiche dell’oggetto: il bambino sa che trattenendo le feci può poi sentirle più nettamente e che, se le trattiene troppo, potrà provare anche dolore. Un elemento caratteristico della relazione anale sta proprio in queste modalità: un oggetto amato può essere trattenuto o espulso, provando piacere in entrambi i casi, senza che l’oggetto possa in alcun modo ribellarsi. Proprio perciò, come ricordavo sopra, Grunberger sottolinea il fatto che, nella relazione anale, all’oggetto viene negata la caratteristica di soggetto. Un elemento importante dell’analità, però, sta appunto nel cambiamento che l’oggetto subisce nel passaggio dall’interno all’esterno del corpo: mentre prima è un oggetto stimolante, dopo eccita il disgusto (e tutti i bambini prima o poi assaggiano la loro cacca) e la vergogna (se non la si è eliminata correttamente o se gli altri se ne accorgono). Sennonché queste caratteristiche sono attribuite all’oggetto: è la cacca ad essere disgustosa, della cacca ci si deve vergognare ecc. Ora, questo passaggio è cruciale, perché in tal modo il soggetto «anale» trasferisce sul materiale delle caratteristiche negative mentre lui si sente – appunto – pulito. L’oggetto va eliminato perché sporco, mentre il soggetto è «a posto», ne trae dunque un premio narcisistico, un aumento della stima di sé. E non solo, perché in tutte le società umane viene premiato il comportamento di eliminazione delle feci. E quando, come sempre avviene, questa esperienza viene simbolizzata, essa ha conseguenze importanti: nel momento in cui l’oggetto d’amore viene evacuato, esso viene anche eliminato perché sporco, bisogna fare «piazza pulita». In fondo, una pratica per ripulire la coscienza è quella di trovare un capro espiatorio, appunto un qualcosa che si possa eliminare, inviare lontano, escludere dal campo della percezione. E questa pratica assai diffusa è una pratica di sicura origine anale. Dal punto di vista del narcisismo, Grunberger sostiene che l’esperienza sia del piacere anale sia del piacere legato al controllo anale è il fondamento stesso del sentimento di sicurezza. Concezione di sé come una totalità unica, sicurezza, delimitazione dell’interno dall’esterno, attività e possesso dell’oggetto amato sono dunque elementi fondamentali del narcisismo anale.

Carattere e analità Ma le cose hanno anche un altro risvolto e fu proprio Freud a metterlo in evidenza per primo, in un suo breve articolo del 1908 intitolato Carattere ed erotismo anale. Qui, Freud indaga i rapporti fra tre caratteristiche che si trovano spessissimo associate tra loro – l’esigenza di ordine, la parsimonia e l’ostinazione – e l’erotismo anale. Egli si sofferma a chiarire che si definisce «ordinata» una persona che cura la propria persona ma anche una che è scrupolosa e accurata nell’eseguire atti anche di poca importanza e che l’opposto di «ordinato» sarebbe disordinato o trascurato. Sottolinea poi che la parsimonia può arrivare fino alla franca avarizia e infine che l’ostinazione può giungere fino alla caparbietà, alla quale va facilmente ad aggiungersi una propensione alla collera e alla vendicatività. Ebbene egli sostiene che «dalla storia della prima infanzia di questi soggetti si viene facilmente a sapere che essi impiegarono relativamente parecchio tempo per giungere a padroneggiare l’incontinentia alvi infantile, e che anche dopo, nell’infanzia, ebbero a lamentare singoli infortuni in questa funzione». Nell’ambito di un esame del narcisismo (e, ora, del narcisismo anale) la questione del carattere è importante, perché ciò che chiamiamo carattere è in realtà una serie stabile di modi di affrontare la realtà (sia psichica sia materiale) che ciascun individuo elabora man mano nella vita (soprattutto nella prima infanzia) e che ha una notevole importanza economica: ciascuno di noi evita, tramite il proprio carattere, di affrontare le diverse situazioni della vita come sempre nuove e si risparmia dunque la fatica di cercare ogni volta soluzioni nuove agli interrogativi che gli si pongono. Naturalmente, il rischio intrinseco al carattere è quello di impedire soluzioni nuove, di spingere verso stili di vita stereotipati, al limite di impedire di percepire le novità e gli interrogativi che esse pongono. Però, non si tratta solo di una ripetizione economica, ma anche di una ripetizione che trae le sue origini da antiche gioie, magari proibite: «le particolarità del carattere – conclude Freud – sono o prosecuzioni immutate delle pulsioni originarie, o loro sublimazioni, o formazioni reattive contro di esse». In tutti e tre i casi, quello che sta alla base delle formazioni del carattere è un piacere provocato dall’esperienza della soddisfazione della pulsione. Per i nostri scopi, è importante allora notare come il piacere anale, nelle varie forme che qui sopra ho elencato (piacere di trattenere, di stimolare la mucosa rettale e la regione perineale, piacere di evacuare, della propria capacità di controllare) sia così rilevante da, talora, strutturare degli stili di vita che accompagnano per così dire l’individuo per tutto l’arco della sua esistenza. Questi stili di vita hanno di narcisistico il fatto che si attuano al di là della loro corrispondenza con la realtà. E, naturalmente, a volte accade che proprio perciò falliscano. Un po’ come se un meccanico avesse a propria disposizione solo una chiave inglese: se incontra il dado giusto, riesce a svitarlo adeguatamente ma, se il dado è più piccolo o più grande, sono guai. E tanto più sono guai quanto più egli si ostina ad usare lo stesso quello strumento.

Le persone ostinate, avare, pedanti e, spesso, ipermoraliste (cioè costrette a lavarsi continuamente sul piano morale) hanno, tipicamente, una buona e spesso esagerata stima di se stesse. Ora, la stima di sé è originata appunto dall’esperienza della propria capacità e, benché ovviamente nel corso dell’infanzia essa si debba confermare e rafforzare sulla base di tutta una serie di esperienze interiori e in rapporto con la realtà, essa ha un’origine «forte» nella soddisfazione provata a «farcela» e, soprattutto, a «farla» quando e come si desidera.

L’ostinazione Vediamo dunque, dal punto di vista che qui ci interessa, cioè quello del narcisismo, alcune implicazioni dei tratti di carattere (tendenza all’ordine, parsimonia, ostinazione) che abbiamo prima citato. Una persona che venne in analisi da me molti anni fa giunse una volta alla seduta trafelata e ansimante: mi spiegò che il ritardo – ed era una persona puntualissima – era dovuto al fatto che, uscendo di casa, non era riuscito a chiudere bene il portone dello stabile e aveva dovuto restare lì, a chiudere e richiudere, constatando sempre più arrabbiato che qualcosa non andava. Mi descrisse la scena come una vera e propria situazione da incubo, nel corso della quale, man mano che egli ripeteva l’azione, l’ondata di collera diventava sempre più importante e l’azione sempre più violenta. Era stato fermato da un inquilino dello stesso edificio, il quale, attirato dai colpi che sentiva dal proprio appartamento, era sceso a vedere quel che accadeva e gli aveva fatto notare che, continuando a sbattere la porta in tal modo, l’avrebbe scassata definitivamente. Aveva provato una reazione di vergogna, come se fosse stato sorpreso a fare qualcosa che non doveva ed era scappato per arrivare alla seduta. Qui abbiamo un esempio di ostinazione cieca: il paziente non si era soffermato a cercare di capire perché la porta non si chiudesse ma aveva semplicemente ripetuto il gesto abituale per ottenere l’effetto abituale, aumentando ogni volta la forza impegnata. E rischiando, come si vede, di rovinare la porta. Quest’ultimo punto è importante, perché mette in evidenza come l’oggetto dell’azione fosse letteralmente irrilevante: ciò che contava davvero era che l’azione avvenisse come d’abitudine e fosse coronata da successo. L’elemento narcisistico, in questa situazione, balza in primo piano: non c’è preoccupazione per l’oggetto, c’è solo la ricerca di ripetizione dell’esperienza piacevole della propria capacità ed efficienza. Il narcisismo, notiamo di sfuggita, fa a volte apparire stupide le persone: non sarebbe stato «più intelligente» cercare di comprendere perché la porta non si chiudeva ed affrontare semmai il problema relativo, magari cercando l’aiuto di un tecnico? La persona di cui sto narrando questo dettaglio, tuttavia, era – a detta di tutti coloro i quali lo conoscevano – intelligentissima. Personalmente non do mai giudizi di «intelligenza» perché penso che le capacità intellettuali finali siano il risultato di troppi equilibri interiori e ho avuto sovente occasione di osservare sia la parzialità (una persona può essere intellettualmente brillante in un campo e apparentemente stupida in un altro) sia l’andamento temporale dell’intelligenza (una persona può diventare all’improvviso «stupida» per un mutamento di umore, ad esempio). Invece che considerare «stupida» la condotta del mio paziente, però, la si può considerare incongrua, inadatta alla circostanza. Il problema che si pone, se la si vede così, è allora il

seguente: «A che cosa era congrua la condotta del paziente?», quale altra circostanza era più importante di quella concreta, materiale, legata alla opportunità di chiudere il portone di casa uscendo? Aggiungerò che, nel corso del trattamento, questo episodio fu importante perché stette ad indicare come una rete di difese intrapsichiche, fino ad allora funzionanti e facenti parte appunto del carattere del paziente, stessero mostrando la corda e come, in tal modo, il paziente mi raccontasse, in seduta, che bisognava trovare un altro modo per affrontare la realtà (interiore ed esterna). Spesso, infatti, cogliamo le dinamiche narcisistiche quando stanno mutando o quando non funzionano abbastanza bene e quindi provocano angoscia. Se un equilibrio narcisistico funziona, per definizione non lo vediamo, perché ne siamo esclusi. È il caso, questo, della declinazione anale del narcisismo, perché se la sicurezza, la tranquillità, il sollievo, dipendono dalla constatazione di poter ripetere l’esperienza della propria efficienza e della propria capacità di aprire e chiudere volontariamente i confini tra interno ed esterno, ogni situazione che simbolicamente raffigura l’impossibilità di mantenere questa posizione può creare angoscia. Nel mio paziente – badate – sarebbe troppo facile pensare che il problema aprire/chiudere si manifestasse direttamente, scopertamente, nella situazione della sua rabbia di fronte al malfunzionamento della porta. Le cose erano molto più complicate. Tuttavia, quel che era andato in crisi quel giorno era un modello motorio di azione che si collegava a tantissime altre esperienze compiute nel corso della lunga storia di questo signore. Ma quel che volevo mettere in evidenza era l’ostinazione cieca, la ripetizione rabbiosa, l’accanimento del tutto illogico. A proposito di accanimento. Come si sa, questo termine è spesso collegato ad un aggettivo qualificativo: «accanimento terapeutico». È un ossimoro, evidentemente. Credo sia utile, superando un po’ l’orrore che l’accanimento terapeutico provoca, vedere il rapporto tra narcisismo e analità a proposito della medicina e di alcune sue declinazioni attuali. L’accanimento terapeutico è una condotta incongrua e sadica che un medico può attuare nei riguardi di un paziente, insistendo con pratiche apparentemente terapeutiche e in realtà inutili nonché, spesso, dolorose o invasive e comunque tali da ledere la dignità del malato. Spesso l’accanimento terapeutico si attua nei riguardi di un paziente giunto al termine della sua vita, ma non solo: questo è il caso più evidente (e a volte anche più doloroso) ma esso può essere attuato anche nei riguardi di molti altri pazienti. E ricordo con gratitudine il mio vecchio medico di famiglia il quale, allorché avevo sette anni e avevo collezionato una malattia infettiva dopo l’altra per tutto l’inverno, interrogato da mia madre sul che fare, visto che mi restava ogni tanto una febbricola serotina, disse tranquillo: «Signora, butti via il termometro!».

Faccio questo esempio personale perché l’accanimento terapeutico non è semplice da riconoscere, visto che il confine tra la dedizione del medico al paziente e la pratica di accanimento è molto sfumato. Che cosa sarebbe accaduto – o cosa potrebbe accadere oggi, in un caso simile ma in un contesto scientifico e tecnico mutato – se il medico avesse sostenuto la necessità di «andare a fondo del problema»? Esami a non finire, magari invasivi. Non solo: bisogna tener conto del fatto che l’accanimento terapeutico può essere anche conseguente alle richieste dei parenti del malato, i quali possono insistere perché sia tentato tutto, fino a tormentare il paziente impedendogli di vivere o di morire in santa pace. Nel mio caso, fortunatamente mia madre non avvertì il consiglio del medico come una manifestazione di disinteresse nei miei riguardi ma come una decisione saggia. Non gettò il termometro (allora costavano cari) ma nemmeno lo usò più. Tuttavia, nell’accanimento terapeutico si può vedere all’opera un atteggiamento assai simile a quello del mio paziente che si accaniva – appunto – a chiudere una porta inchiudibile. Anche nel caso dell’accanimento terapeutico capita che ci si possa domandare che peso abbia il malato e che peso, viceversa, abbia il bisogno di ripetere all’infinito delle azioni che hanno dato soddisfazione in altre situazioni e che ora si rivelano inefficienti. Detto nei termini usati all’inizio di questo capitolo: il malato è ancora un soggetto, una persona, o è solo un oggetto della pratica medica attuata da un soggetto, il medico, che cerca di trattenerlo o di plasmarlo per la propria soddisfazione? L’insistenza nel trattenere il paziente in vita non è analoga all’insistenza nel trattenere il contenuto rettale, il quale, una volta espulso, può solo essere gettato via, eliminato, sepolto? Come se questo tipo di medico si domandasse: «Ma come, ho lavorato tanto e poi mi tocca gettare via tutto?». In questa forma estrema, fortunatamente, è raro che l’accanimento terapeutico si manifesti e, quando capita, è relativamente facile riconoscerlo. Ma, appunto, le cose sono talora più sfumate o collocate su un altro piano. Mentre la madre novantenne di un mio conoscente rantolava, dopo aver avuto una imponente emorragia cerebrale (e aveva già un’insufficienza cardiaca e renale) nel suo letto d’ospedale con tubi e tubetti che entravano e uscivano dal suo corpo, mostrando a tratti segni di grande sofferenza, il figlio chiese al medico quali probabilità avesse la madre di cavarsela e gli fu detto che non c’era alcuna possibilità. Chiese allora se la madre soffrisse, come sembrava evidente e gli fu risposto che, visto che lo stato di coscienza oscillava e ogni tanto sembrava risvegliarsi, era probabile che soffrisse. Chiese infine se, in questo caso, non fosse meglio sospendere le cure disturbanti e, piuttosto, somministrare della morfina. Ma il medico si indignò a questa richiesta, affermando seccamente di essere lì per curare la gente, non per ucciderla. L’agonia della signora durò alcuni giorni e il mio conoscente, al funerale, mi raccontò la sua sensazione di impotenza e di colpa per non aver potuto proteggere la madre dal medico: era

disperato e non seppi dargli torto. Ma, come si vede, qui il confine era labile: certo la paziente sarebbe morta in ogni caso, certo la sospensione delle cure invasive e la somministrazione di analgesici potenti avrebbero potuto abbreviare di qualche ora la sua esistenza, certo il medico lavora per curare. E tuttavia… nell’affermazione del medico di esser lì per curare, non per uccidere, non c’era forse anche l’affermazione della propria ostinazione a ripetere una propria azione, indipendentemente dal fatto se essa fosse sensata o insensata, solo per garantire la propria identità, sostenuta dalla propria capacità di ripetere all’infinito e in modo efficiente atti che – in altro contesto – avevano anche valore terapeutico ma che in quel contesto non ne avevano alcuno? A proposito di accanimento terapeutico, capita talora che esso sia il risultato di una interazione tra medico e ambiente circostante: è il caso degli uomini politici importanti – in genere dei capi di stato, soprattutto se dittatori – che vengono mantenuti, al di là di qualsiasi considerazione circa il dolore che possono provare o circa la loro dignità che può essere lesa, in condizioni di nonvita-non-morte fino a che l’ambiente circostante (i gruppi di potere, i partiti, le istituzioni) non ha risolto o perlomeno avviato a soluzione il problema della successione: Andropov, Tito, Franco, Arafat sono esempi terribili di questa pratica che solo con grande difficoltà può ancora essere chiamata medica. La richiamo qui perché si vede, in queste situazioni, come il dittatore non venga in alcun modo considerato una persona (forse come egli stesso considerava gli altri, finché era al potere…) ma come un oggetto il cui valore sta tutto nell’esser trattenuto (in vita, ma simbolicamente nel retto). Dopo, può essere gettato via. Questo esempio serve ad introdurre un altro concetto: il rapporto tra potere e analità è intriso di narcisismo. Esiste un narcisismo anale di gruppo, che consiste nel godere di far parte di un gruppo potente e limitato, capace di trattare gli altri come cose. Ma, diciamocelo francamente, se pensiamo un po’ a noi stessi, alla vita quotidiana, non ci ricordiamo di tante piccole evenienze nelle quali abbiamo rischiato di trattare o abbiamo di fatto trattato gli altri come «cose»? Penso a piccolissime situazioni. Comprare il giornale senza aver nemmeno degnato di un’occhiata l’edicolante o scansare un pedone che è inciampato sul marciapiede senza nemmeno chiedergli «tutto bene?» o… (pensateci voi, a un vostro esempio). Faccio questa annotazione perché si tratta di piccole esperienze quotidiane possibili che rivelano come, dentro di noi, un certo tipo di efficienza (prendere rapidamente il giornale, non perder tempo per strada) possa anche procurare una certa soddisfazione narcisistica ma sia anche un modo di fare collegato alla persistenza isolata (non integrata con le altre tendenze pulsionali) del narcisismo anale, il quale – ricordo – non attribuisce caratteristiche soggettive all’oggetto.

La parsimonia e la tendenza all’ordine Il che ci riporta ai tratti di carattere: abbiamo visto l’ostinazione. Ma vediamo ora la parsimonia che, a volte, giunge fino alla franca avarizia. Qui il piacere e la gratificazione narcisistica non consistono, come nel caso dell’ostinazione, nella ripetizione dell’azione («farla» ogni mattina alla stessa ora, con la stessa efficienza, negli stessi tempi ecc.), ma nella capacità di trattenere e di accumulare. Per far cosa? ci si domanda talora davanti a casi terribili (e francamente patologici) di persone ritenute miserabili e invece rivelatesi ricche alla loro morte. La parsimonia, a volte, si collega strettamente con la tendenza all’ordine: alla morte di un suo zio, un mio amico trovò un ripostiglio stipato di scatole di vario formato, ognuna con la sua brava etichetta: c’era la scatola contenente gli «spaghi troppo corti per fare un nodo», quella dei «bottoni spaiati», quella degli «aghi da cucire storti», quella dei «manici da pentola bruciati», quella degli «strofinacci consunti» e così via. Il mio amico mi confidò che, da un lato, aveva avuto l’impressione di scoprire un aspetto folle e fino ad allora sconosciuto dello zio, mentre dall’altro era rimasto affascinato dall’ordine perfetto del ripostiglio e ne aveva avuto una impressione estetica che gli aveva reso difficile affrontare il compito di gettare via tutto, cosa pur necessaria perché il ripostiglio era pieno di oggetti inservibili. Questo esempio, oltreché a mostrare l’intreccio tra parsimonia e tendenza all’ordine, serve anche a mettere in evidenza ancora una volta la relativa irrilevanza delle caratteristiche dell’oggetto: gli «spaghi troppo corti per fare un nodo» non venivano conservati per altri scopi ma, semplicemente, venivano conservati perché l’attività del trattenere era piacevole e, in qualche modo, perché per il narcisismo del vecchio zio era gratificante la sensazione della propria capacità di trattenere e, chissà, di non fare disordine, di non sporcare. È curioso – apparentemente – come il piacere e l’autostima conseguenti alla capacità di trattenere siano spesso talmente importanti da impedire altri piaceri. Ma, com’è ovvio, tutti i gusti sono gusti. Naturalmente, l’oggetto più direttamente implicato nella parsimonia è il denaro. Esso è un oggetto che ha numerosi valori simbolici e l’equivalenza simbolica che spesso si fa con le feci è troppo semplificata. Però è vero che, se le feci sono il «prodotto» per eccellenza (e comunque il primo prodotto di ciascuno di noi), il denaro è qualcosa di concreto che ci dà la misura di quel che abbiamo prodotto. E che si vede perciò attribuite molte caratteristiche fecali, quando non viene addirittura connotato direttamente come tale: il denaro è lo sterco del diavolo. Comunque è sporco. Quel che ci interessa qui, però, è il versante narcisistico della faccenda: ognuno può trovare esempi al proposito, ma tutti ormai conoscono zio Paperone e ricordano la gioia con la quale egli si tuffa nella enorme vasca piena di dollari d’oro. Non si tratta, nel caso di zio

Paperone, del gusto di investire o di arricchirsi: il piacere è tutto nel trattenere, nell’accumulare, nel poter ingrandire il deposito a forma di cubo che sta su una collina. Walt Disney ha raffigurato la cosa aggiungendo l’elemento dell’esibizione: il salvadanaio di zio Paperone è visibile a tutti. Ma per l’avaro questo elemento non solo non è importante ma, spessissimo, è proprio da evitare. Perciò spesso egli veste malamente, è trascurato, ha la casa in disordine: bisogna nascondere la propria ricchezza, perché il godimento dell’esser ricco è assolutamente privato. La ricchezza (i contenuti rettali) è dentro, lo sporco (le feci) è fuori. Un altro modo per nascondere la propria brama di possedere è assolutamente paradossale: si può infatti elaborare, anziché un tratto di carattere di avarizia, uno di prodigalità. Qui bisogna fare attenzione, perché si tratta di distinguere la prodigalità dalla generosità e di osservare quanto il narcisismo anale abbia a che fare con la prima. Di passaggio, notiamo che la relazione tra avarizia e prodigalità è nota da sempre e che Dante accomuna prodighi e avari nella stessa pena (Inferno, canto VII, vv. 1-66). La generosità – ammettiamolo anche se con rammarico – è un fiore raro, una virtù (o un riuscito equilibrio personale) che si incontra solo qualche volta e, allora, ci incanta. Perciò la generosità ha intrinsecamente qualcosa di seduttivo. Poiché non è di essa che qui dobbiamo occuparci, basta definirla come la difficile capacità di dare rispettosamente all’altro quanto all’altro in quel momento è utile perché possa realizzarsi, senza mettere in conto altro contraccambio che la contentezza per la contentezza altrui. Può trattarsi della parola giusta al momento giusto, di un piccolo aiuto materiale, o anche di un grande aiuto materiale o di una possibilità offerta: ma l’elemento caratteristico di questa qualità è la capacità di rispettare l’altro, di non farlo sentire dipendente per via del «regalo», anzi: di farlo sentire più libero di prima. Il segreto (psicologico) della cosa sta nella possibilità che hanno le persone generose di godere dell’effetto dell’identificazione. In realtà (psichica) hanno cioè qualcosa in cambio, la possibilità di godere il piacere altrui. Ma lasciamo loro volentieri questo piacere, anche visto che il piacere non è soggetto a spartizioni: se si è contenti della contentezza altrui, non si toglie all’altro alcunché. Andiamo invece con rammarico a guardare la persona prodiga. Il prodigo spreca, butta via, inonda anche gli altri delle cose che egli vuole (inconsciamente) eliminare. Coscientemente, una persona prodiga spende e spande – frase già indicativa – ma si sente generosa, anche se gli altri, i quali pure a volte ne approfittano, in generale non gliene sono affatto grati. Anche perché, nell’attività di «spendere e spandere» il prodigo spessissimo rivela un atteggiamento nei riguardi del prossimo assai simile a quello dell’avaro: non lo considera proprio. Il prodigo può esibire (e di fatto lo fa spessissimo) la propria prodigalità ma allo scopo di sentirsi trionfante della propria capacità di «farla» lì, in qualsiasi momento, indipendentemente dal chi è lì. A livello di acquisti,

ad esempio, il prodigo compera beandosi di comprare, facendo notare che sta comprando senza preoccuparsi (se ha molto denaro a disposizione) ma anche senza minimamente considerare il venditore come una persona. Quest’ultimo può anche esserne soddisfatto, beninteso, ma assai spesso accade che, alla lunga, ne sia seccato. Un esempio di prodigalità spesso misconosciuta è quello di chi cambia l’arredo di casa spesso o, appena acquistato, non ne è più contento e ne acquista un altro. Certo, si può pensare che per essere prodighi bisogna essere ricchi. Ma non è così: nell’ambito di quel che ha, ognuno può essere prodigo. E a volte lo si è nell’ambito di quel che hanno gli altri: si pensi a quanto sono frequenti i figli prodighi con il denaro di mamma e papà. Anche il classico figliol prodigo, quello descritto nel Vangelo di Luca (15, 11-32), usava i soldi di papà e forse un insegnamento di quella storia sta proprio nella differenza tra come il figlio gettava i soldi e come il padre usava la sua ricchezza: il padre era contento del fatto che il figlio fosse contento dell’accoglienza fattagli, perciò organizzava il banchetto col vitello grasso. Un altro esempio di prodigalità è quello della perdita di tempo. Ci sono molte persone che si beano di perder tempo. Non di impiegarlo in cose futili agli occhi degli altri, ma proprio di non combinare niente, saltando di qua e di là, muovendosi un po’ ma senza concludere nulla o arrivando sempre al punto di dover decidere e, all’ultimo momento, lasciando perdere. Alcuni di costoro sono infelici, ma altri sono dei perditempo per così dire professionisti, che provano una certa soddisfazione nell’adottare questa strategia di vita. Ebbene: anche in questi casi, l’incrocio tra narcisismo e analità è in prima linea. Un po’ come se queste persone avvertissero un sentimento di trionfo nel riuscire a ripetere sempre lo stesso giochetto, applicandolo al tempo. Infine un’annotazione sulla ripetizione. Anch’essa può rappresentare simbolicamente la situazione dell’evacuazione o del trattenimento delle feci, perché appunto si tratta di una delle prime esperienze significative – e trionfali – del bambino: anziché temere che – una volta emesse – le feci siano «perdute» per sempre, l’esperienza della ripetizione insegna che non si perde nulla, che si può ripetere, che domani ci sarà dell’altro da «fare». Dei tre tratti di carattere che ho elencato all’inizio, abbiamo visto l’ostinazione e la parsimonia (e la prodigalità collegata ad essa). Consideriamo ora la tendenza all’ordine. Ogni cosa al suo posto: ecco il motto di queste persone. Se questa tendenza è conflittualizzata, l’interrogativo costante della persona con la tendenza all’ordine è: «Ma qual è il posto della cosa?». Ne deriva una costante ricerca, spesso angosciosa, del posto giusto. E, che si tratti di organizzare il personale di una ditta, di collocare un soprammobile o di riordinare le carte sul tavolo, il pensiero della necessità di cercare il posto giusto, di metter ordine, di sistemare le cose è sempre lo stesso: anche qui, ha poca importanza l’oggetto in sé, al quale viene sempre negata la caratteristica possibile di soggetto. Bisogna sottolineare che, quando questa tendenza è

conflittualizzata – cioè tende alla nevrosi ossessiva – l’investimento libidico ossia l’amore del soggetto è rivolto prevalentemente all’oggetto da mettere a posto. E si tratta di una ricerca senza fine, con la sconfortante sensazione che il disordine sia sempre dietro l’angolo o che l’ordine appena conquistato sia in realtà un falso ordine, che abbisogna di un’ulteriore correzione. Nelle situazioni che qui ci interessano, viceversa, l’investimento libidico prevalente è diretto verso se stessi, è appunto narcisistico. In queste persone, l’elemento che consente di sperimentare una sensazione di trionfo consiste nel sentirsi capaci di mettere tutte le cose a posto. Se solo ci si pensa un attimo, è evidente che questa tendenza può essere assolutamente positiva ed utile nella vita quotidiana: è difficile vivere in una casa nella quale le scarpe e le carte sono ammucchiate una sull’altra o nella quale le pentole sono mescolate ai vestiti. Ma, ovviamente, la quantità fa la qualità: un buon ordine casalingo – per rimanere nell’esempio – serve e fa vivere meglio, mentre un eccesso di ordine rende tormentosa l’esistenza. Dunque il tratto di carattere che chiamiamo di «tendenza all’ordine» può convivere bene con altri tratti, ai quali si subordina. Ma qualche volta diventa prevalente e, allora… è più utile per dimostrare quello che qui ci interessa. Già prima avevo riferito dello zio di quel mio amico, che aveva lasciato uno sgabuzzino interamente tappezzato di scatole ordinatamente disposte ed etichettate. Avevo allora sottolineato l’aspetto conservativo di quell’atteggiamento e avevo messo in evidenza come si trattasse di conservare oggetti del tutto inutilizzabili. Se riguardiamo lo sgabuzzino ora, osserviamone soprattutto l’ordine, che aveva tanto affascinato il mio amico: ogni cosa era al suo posto. Aggiungerò che, nella casa dello zio, solo lo sgabuzzino aveva quel particolarissimo, perfetto ordine: le altre stanze erano mediamente ordinate ma senza né caratteristiche né obblighi particolari. Come ho segnalato poco sopra, un eccesso di ordine rende tormentosa l’esistenza – e nel caso dello zio del mio amico questo non accadeva, la sua casa era ospitale ed accogliente. Credo sia bene dire esplicitamente che un eccesso di ordine rende tormentosa l’esistenza degli altri ossia rivela la finalità sadica della tendenza all’ordine. L’oggetto può essere bloccato, collocato in un posto, spostato, spezzato, manipolato a piacere. E, quando abbiamo a che fare con una persona che ha un’eccessiva tendenza all’ordine, ci accorgiamo ben presto che l’oggetto da «mettere a posto» (in tutti i sensi) siamo noi stessi. Noi siamo dunque lo «sporco» da eliminare, la «cosa» (fecale) che va sistemata… Dallo zio del mio amico, saltiamo all’osservazione di quelle persone che hanno delle certezze incrollabili, per cui ad ogni avvenimento della realtà sanno come rispondere. Che si tratti dei rapporti con la Cina o del luogo adatto a mettere gli stracci per la polvere, dei problemi della propria città o della crisi matrimoniale di una coppia di amici, della scelta del tipo di calze o dell’organizzazione delle vacanze. Spesso si tratta di persone che vivono nella costante sensazione – per essi piacevole – di saper mettere le cose a posto. «Se mi lasciassero fare, saprei

io come mettere le cose a posto!»: quante volte abbiamo sentito questa frase, al bar o anche – ahinoi! – in qualche assise politica? La tendenza all’ordine, qui, è sostenuta dalla certezza appagante di esser capaci davvero di mettere ordine, di fare le cose (le feci) al momento giusto e al posto giusto. E poco importa che si tratti – ovviamente – di una certezza illusoria, perché è illusoria ai nostri occhi ma è realistica dal punto di vista simbolico, quasi che, dietro questi signori spesso arcigni, si celasse un bambino trionfante che grida: «Mamma, sono andato da solo in gabinetto, quando ho deciso io e l’ho fatta proprio bene, sul vasetto!». Ad una osservazione clinica – dunque durante un trattamento psicoterapeutico – non sfugge però che la tendenza all’ordine ha spesso qualche piccola crepa o qualche innocua incoerenza. Un mio paziente, che giungeva alle sedute sempre inappuntabilmente vestito in giacca e cravatta, con la piega dei pantaloni perfetta e la camicia evidentemente stirata alla perfezione, aveva però l’abitudine di annusarsi di quando in quando le dita, cosa che stonava un po’ col suo «esser a posto»: esprimeva in tal modo il piacere olfattivo provato durante la defecazione e la successiva operazione di pulizia, la quale non era solo finalizzata appunto alla pulizia ma anche alla goduria di sentire l’odore (o il profumo?) delle proprie feci sulle proprie mani. Inutile dire che questo stesso signore aveva in orrore ogni altro odore o profumo: solo il suo era quello buono. In questo senso, la tendenza all’ordine esprime anche una tendenza alla conservazione dell’oggetto amato. E siccome ben difficilmente si possono conservare le feci, gli altri oggetti possono essere utilizzati per rappresentarle simbolicamente (e inconsciamente). Ma, ripeto, nella tendenza all’ordine l’elemento narcisistico prevalente è il compiacimento della propria capacità. C’è però da osservare anche che la tendenza all’ordine può esprimersi nei riguardi della propria persona, come nel caso del paziente appena citato, o nei riguardi del resto del mondo. A volte le due tendenze si assommano, ma non sempre. E quindi ci possono essere persone che curano in modo estremo la propria persona ma sono invece incuranti dell’ordine esterno (il quale anzi serve di confronto) o, all’opposto, persone che tendono a mettere a posto tutto e tutti ma sono trascurate nel vestire o nelle pratiche igieniche.

Uno sguardo d’insieme e un’occhiata al masochismo Riguardiamo ora l’insieme delle caratteristiche che, man mano, ho esemplificato a proposito del narcisismo anale: l’essere chiuso, delimitato e attivo, autonomo ed unico, il poter disporre dell’oggetto a volontà, il rifiutare la qualità di soggetto all’oggetto d’amore e la tendenza all’ordine, alla parsimonia, all’ostinazione che ne conseguono. Qui, subito, potreste farmi un’obiezione importante: se il narcisismo è caratterizzato dal rivolgere l’amore verso di sé, che cosa significa – nell’ottica anale – rifiutare la qualità di soggetto all’oggetto d’amore, se l’oggetto è l’Io stesso del narcisista? Questa domanda è gravida di importanti conseguenze perché apre la porta di quel mistero importante che è costituito dal masochismo, uno dei veleni dell’animo umano. Nelle pagine precedenti, ho considerato il narcisismo anale dal punto di vista della identificazione di sé con l’immagine ideale di se stessi come capaci di trattenere, eliminare, mettere a posto e via di seguito, ossia con un’immagine attiva di sé. Quando però l’identificazione avviene non con l’immagine attiva ed ideale di sé ma con l’oggetto della pulsione anale, le cose cambiano drammaticamente: la persona gode infatti in queste situazioni del proprio dolore, della propria sofferenza e del proprio tormento. Non mi addentrerò nelle discussioni attorno a questo tema – rinvio chi vuol approfondire questo argomento allo scritto classico di Freud sul Problema economico del masochismo (1924) e al libro di Grunberger più volte citato, nonché alle voci «Masochismo» e «Sado-masochismo» dell’Enciclopedia della psicoanalisi di Laplanche e Pontalis – ma mi limiterò a ricordare alcuni aspetti di carattere che discendono da questo particolare equilibrio psichico. La tendenza a sacrificarsi, ad essere umili, a denigrarsi, può divenire il leitmotiv dell’esistenza di alcune persone: sbaglierebbe chi pensasse che, in tal modo, queste persone si rovinano la vita, perché quando si ha occasione di analizzare per bene il loro modo di pensare ci si imbatte spesso in un sottile senso di trionfo a tutta prima inspiegabile. A volte, vien fatto di pensare che si tratti di una strategia relazionale finalizzata a farsi trattare come un oggetto di scarso valore ma in realtà si può anche osservare come spesso queste persone trattino se stesse, senza bisogno dell’intervento di altri, come oggetti svalutati o facilmente eliminabili (ossia, appunto, come le proprie amatissime feci). Possono sacrificarsi perché in tal modo ripetono una vicenda infantile, allorché ad esempio hanno obbedito all’invito dei genitori di eliminare le feci ma con la serena convinzione che esse sarebbero risorte – come l’araba fenice – dalle ceneri ossia sarebbero di nuovo uscite, eguali a se stesse, da un luogo sporco. Identificarsi con questo oggetto e addirittura strutturare di conseguenza l’Io in modo da poterlo assimilare alle feci, sempre plasmabili, adattabili, svalutabili, eliminabili ma… praticamente ineliminabili consente una soddisfazione

inconscia notevolissima. E, qualche volta, il sorriso di queste persone eccessivamente umili e un po’ troppo disponibili manifesta il segreto trionfo che costituisce la loro esperienza intrapsichica costante. In questo caso, l’intrecciarsi di masochismo e narcisismo raggiunge effetti specialissimi e, spesso, assai difficili da modificare. Perché un atteggiamento del genere può, a tutta prima, essere scambiato per autentica disponibilità, per capacità di ascoltare e apprendere, per a volte eroica tendenza al sacrificio per favorire il prossimo. Il quale, episodicamente, può trarne vantaggio ma, se non si libera rapidamente da questo tipo di relazione, rischia assai spesso di cadere in una trappola infernale perché un’altra pulsione – esibizionistica – spesso si mescola a quella masochistica ed esige che gli altri assistano a questo spettacolo. A quale? Certo, coscientemente a quello della disponibilità a sacrificarsi per il prossimo ma, inconsciamente, alla rinascita continua delle feci. «Avete voluto che le eliminassi? E ora vi faccio vedere non solo che non l’ho fatto ma anche che siete costretti ad assistere alla loro continua rinascita». Lascio al lettore la facoltà di ricordarsi esempi di incontri con persone di questo tipo. Ah, l’analità! È frequentissimo sentir parlare dell’Edipo, dell’oralità, del narcisismo ma è abbastanza infrequente sentir parlare dell’analità. D’accordo, può sembrare che non sia sempre un aspetto gradevole e pulito. Ma tener presente la particolare declinazione che il narcisismo ha durante e in seguito alla fase anale aiuta a comprendere molti tratti di carattere e atteggiamenti di persone peraltro normalissime.

6.

Narcisismo fallico

Nello spostamento progressivo dell’investimento libidico su parti del corpo, una fase cruciale è quella nella quale vengono investiti gli organi genitali. Una precisazione occorre subito: l’investimento dei genitali non avviene se non del tutto parzialmente a scapito di quello degli altri organi precedentemente investiti (la zona orale e quella anale). Ma, bisogna subito specificare, ciò avviene in un doppio modo: da un lato l’investimento principale viene effettuato a carico degli organi genitali, dall’altro questo nuovo investimento ha una sorta di effetto di alone sugli altri organi, che vengono reinvestiti. Di più: proprio perché ognuna di queste tappe dello sviluppo psicosessuale ha comportato lo sviluppo di una sorta di «logica» (orale e anale) possiamo assistere ad un trasferimento di modalità di pensiero sviluppate allora sulla nuova zona di investimento. O, cosa ancora più interessante, della rilettura delle zone e delle logiche precedenti in funzione delle nuove acquisizioni. L’effetto conoscitivo e l’effetto affettivo dell’investimento degli organi genitali, insomma, hanno profonde e reciproche interdipendenze. Ad esempio, nella prima situazione, il pene può essere concepito tramite una logica orale come un capezzolo e quindi un organo «nutriente», mentre nella seconda modalità può accadere che il ripensamento delle vicissitudini anali comporti il ripensare le feci come un pene.

Dal pene al fallo Proprio quest’ultimo passaggio, anzi, ha una notevole importanza, perché consente di pensare come il pene possa essere simbolicamente concepito come staccato o staccabile, come una parte del corpo, sì, ma una parte dotata di una propria autonomia. Questa autonomia è anzi assolutamente tipica e, quando parliamo di «fallo» anziché di pene, ci riferiamo in generale ad una simbolizzazione del pene come organo a sé stante. Come tale, del resto, è raffigurato in sculture e immagini rinvenibili nei più diversi ambiti culturali. E anche in tutti i sex-shop o porno-shop di questo mondo. Notiamo, per inciso, che la concepibilità del pene come organo staccabile abbia a che fare con (e in un certo senso costituisca la base per) l’angoscia di castrazione. Da un lato quindi inconsciamente esiste la convinzione secondo la quale il pene può essere perduto, a seguito di una punizione, dall’altro però esiste anche la concezione del fallo come organo a sé stante dotato di una fortissima valenza simbolica. Ora, quando si parla di narcisismo fallico, ci si riferisce appunto ad una situazione intrapsichica nella quale l’individuo si identifica nel fallo, non nel pene. In un organo cioè sempre potente, eretto, fertile, ma anche appunto staccato e, in quanto tale, costituente una totalità. Intendo dire che in tal modo l’individuo non si identifica con una sua parte – il pene anatomico – ma con una totalità. È proprio la dimensione squisitamente simbolica del fallo che permette di rispondere alla domanda classica: si tratta di una dimensione psichica (e prevalentemente inconscia) solo maschile? La risposta, evidentemente, è «no», appunto perché il simbolo fallico è comune a tutti. E proprio l’esame del narcisismo fallico ci consentirà di vedere alcuni fenomeni anche direttamente osservabili e distribuiti equamente in persone di entrambi i sessi. Anche se, naturalmente, la differente struttura anatomica degli uomini e delle donne consente e spinge verso differenti elaborazioni sulla base dello stesso simbolo.

Il carattere fallico-narcisistico Una delle descrizioni migliori del narcisismo fallico è, ancor oggi, quella scritta da Wilhelm Reich nella sua famosa opera del 1933 sull’Analisi del carattere anche se l’interpretazione che egli ne dava allora è oggi in parte superata. Bisogna notare, preliminarmente, che Reich qui parla del carattere fallico-narcisistico, ossia di una particolare costellazione di difese intrapsichiche che si manifestano tramite uno stile personale caratterizzato (appunto) da modalità stabili di essere e di interagire con l’ambiente. Per contro, questo capitolo intende occuparsi del narcisismo fallico in generale, non limitandoci dunque alle osservazioni sul carattere. Tuttavia, queste ultime sono preziose perché in qualche modo sono osservabili direttamente. Con queste debite premesse, come descrive Reich il carattere fallico-narcisistico? Egli inizia con l’affermazione per cui «il tipico carattere fallico-narcisistico si presenta sicuro di sé, a volte arrogante, elastico, vigoroso, a volte imponente» e prosegue sottolineando come queste persone ostentino non solo una grande sicurezza di sé, ma anche un senso di superiorità e di dignità esagerate e un orgoglio spesso smisurato e, soprattutto, che si tratta di persone aggressive le quali spesso fanno proprio il motto secondo il quale «la miglior difesa è l’attacco». L’ostentazione mette in evidenza quanto siano importanti, in queste persone, le tendenze esibizionistiche e lo stile aggressivo mostra anche quanto importanti siano le spinte sadiche: c’è un piacere particolare nell’affermare la propria superiorità o nel negare agli altri le caratteristiche di persone, di soggetti e conseguentemente nel desiderare – è l’eredità della fase anale – non solo di dominare ma anche di controllare in tutto e per tutto gli altri. Reich aggiunge – molto opportunamente – che negli uomini fallico-narcisistici la potenza erettiva è molto ben sviluppata, contrariamente a quella orgastica e che «i rapporti con le donne sono normalmente disturbati dalla poca considerazione del sesso femminile; malgrado ciò proprio i rappresentanti di questo tipo sono molto spesso oggetti sessuali ambiti perché sviluppano esteriormente in forma pura tutte le caratteristiche della virilità». Nelle donne, oltre ad una notevole eccitabilità della clitoride, il carattere fallico-narcisistico si contraddistingue da un lato per una grande sicurezza di sé basata sulla forza e sulla bellezza fisica, dall’altro per una certa tendenza alla omosessualità attiva, che però coesiste con una prevalenza eterosessuale. La descrizione degli uomini con carattere fallico-narcisistico merita qualche precisazione: quando Reich sottolinea la differenza tra potenza erettiva e potenza orgastica, egli illustra la conseguenza del predominio narcisistico. La potenza orgastica, infatti, si accompagna sì al piacere ma anche alla conclusione. Naturalmente, nelle persone psichicamente sane è proprio la conclusione e il piacere ad essa collegato che costituisce il clou dell’attività sessuale mentre in queste persone essa costituisce una sorta di dovere obbligato, di secondaria importanza e, spesso,

di malcelata delusione in quanto implica la cessazione dell’erezione. In questo senso, le persone con carattere fallico-narcisistico sono tipicamente delle persone che non possono lasciarsi andare, che temono la spontaneità perché debbono sempre mantenersi «all’altezza» del compito. O meglio: perché il loro compito (intrapsichico e inconscio) è quello di mantenersi sempre in condizione di erezione per potersi rispecchiare come tali. Ne consegue che spessissimo si tratta di persone di successo sul piano delle relazioni sociali ma inconcludenti sul piano delle realizzazioni. E, poiché sulle lunghe distanze questo gioco viene avvertito, il destino di queste persone diviene particolarmente triste con l’avanzare dell’età: da un lato esse non possono smettere o cambiare la loro strategia interiore e interpersonale, dall’altro e progressivamente si ritrovano in condizioni di sempre maggiore isolamento che le spinge ad accentuare il comportamento aggressivo, istituendo così un circolo vizioso che provoca un ulteriore isolamento. Se pensiamo per un momento al mito di Narciso, possiamo raffigurarci la situazione psicologica delle persone con tratti fallico-narcisistici in tal modo: un enorme fallo (risultato dell’identificazione dell’individuo col simbolo fallico) che si specchia e vede se stesso solo nella misura in cui viene mantenuta la condizione di erezione. Da ciò deriva anche una conseguenza economica: queste persone debbono attuare un costante dispendio di energia per mantenersi nella condizione accettabile di mantenimento della propria sicurezza e autostima. Questa modalità di essere umani è, evidentemente, inscritta tra le molte nostre possibili e, come tale, c’è sempre stata. Tuttavia, essa può venire incentivata o disincentivata, nelle diverse epoche storiche. Attualmente, essa gode di notevoli incentivi. Il fatto di essere sempre all’altezza, «sempre in forma» è considerato, oggigiorno, come un valore e la particolare attenzione che viene prescritta nella nostra organizzazione sociale a proposito del corpo ne è un esempio tipico. La palestra è considerata assai spesso non come un luogo nel quale preparare il corpo a compiti da effettuare in seguito quanto come un luogo nel quale l’attività ginnica è fine a se stessa e anzi le attività esterne non sono valutate nei termini del piacere che da esse è ricavabile, ma in quelli di quanto esse possano favorire o danneggiare lo stato fisico che si acquisisce in palestra. All’esterno, si può esibire il frutto di tante cure e fatiche ma spesso non lo si può godere.

Un esempio femminile... Una giovane donna che conobbi anni or sono e che aveva fortunatamente chiesto un’analisi nel momento in cui il suo narcisismo fallico (che ovviamente lei non pensava in questi termini) aveva mostrato tutte le sue fallimentari potenzialità, mi raccontò il rapido mutare del suo stato d’animo mentre tra il suo fidanzato e lei iniziavano i preliminari amorosi: all’improvviso, la voglia di amore si tramutava in rabbia, una rabbia che lasciava lei stessa esterrefatta e che tuttavia le sembrava anche motivata perché i gesti e le iniziative del partner rischiavano di «sciuparla», «rovinarla», «strapazzarla» (sono i termini che usava lei stessa). Tanto era lieta delle attenzioni che il fidanzato le rivolgeva, tanto si arrabbiava quando – con il suo consenso e il suo desiderio – lui le si accostava: il tutto diveniva un corpo-a-corpo aggressivo che terminava in genere nella rabbia di entrambi ma che una volta era terminato nelle lacrime della paziente, che si era sentita ferita non solo da un graffio che, inavvertitamente, si era procurata scostandosi ma dal fatto che questo graffio le aveva simbolicamente fatto percepire in modo acuto la sua vulnerabilità. Curiosamente, la paziente non era frigida né desiderava evitare la penetrazione ma avrebbe voluto che ciò avvenisse in modo «indolore» (così si esprimeva) nel senso di non sentirsi accarezzata, toccata e insomma in qualche modo rovinata. La sua fantasia sessuale dominante era quella di stare in piedi, a gambe leggermente divaricate, dietro ad una tenda di mussola e di essere penetrata attraverso una opportuna apertura della tenda, senza alcun altro contatto. Quando era entrata per la prima volta nel mio studio – non potei fare a meno di ricordare, allorché mi raccontò della sua fantasia – si era accostata alla poltroncina che le avevo indicato rimanendo così, senza sedersi, affermando di essere nervosa e chiedendomi se mi avrebbe arrecato fastidio che restasse in piedi. Mi aveva colpito, allora, il fatto che rimanesse rigida come una statua anziché esprimere con qualche tremore o movimento l’agitazione interiore che denunciava. E una statua molto bella, anche, ma con qualcosa di inquietante, che lì per lì non compresi. C’era già allora in atto – benché inconsciamente – la fantasia sessuale che mi raccontò molto tempo dopo? O invece aveva bisogno di dominarmi, guardandomi dall’alto in basso? O, infine, la sua rigidità-erezione le impediva, in quel momento, di piegarsi per sedersi? Quel che era interessante in questa paziente – e che è interessante nel narcisismo fallico femminile – era l’identificazione di se stessa con un fallo, con conseguenze certo anche fastidiose ma con una gratificazione continua ottenuta dal rispecchiamento di se stessa. Un’attività che, essendo continua (nelle vetrine ma anche negli occhi degli altri) manifestava le difficoltà del mantenimento di questo equilibrio ma che, finché continuava, era davvero funzionante.

… e uno maschile Per la par condicio, come si usa dire oggi, mi soffermerò ora su un esempio maschile di narcisismo fallico – e su alcune sue conseguenze paradossali. La persona di cui dirò ora era, nella sua azienda, un importante dirigente. Non lo conobbi professionalmente ma ebbi modo di seguirne la parabola, anzi talora di seguirne il passo perché per un certo periodo il percorso che facevo io per recarmi in ospedale coincideva per un tratto con il suo. Camminava dritto come una spada e, in una città come Venezia nella quale di necessità ci si deve scansare nelle calli strette quando si incontra qualcuno, tirava dritto come se non incontrasse nessuno. Con l’effetto bizzarro di scostarsi all’ultimo momento per non esser toccato e di scrutare malamente lo «screanzato» che non gli aveva ceduto il passo. Non sapevo chi fosse finché, casualmente, l’edicolante del quartiere in cui abitavo allora (e dal quale aveva ritirato prima di me il suo giornale senza dire parola, solo sporgendo i denari necessari) mi guardò sconsolato e mi disse che, in dieci anni, quel signore lo aveva salutato sì e no due volte. «Bel maleducato, disse, e sì che è…» e mi declinò vita morte e miracoli del tizio. Capii allora che era la persona di cui avevo spesso sentito raccontare da un mio paziente, il quale aveva avuto a che fare con lui per lavoro. Costui mi aveva raccontato della difficoltà di lavorare con questo dirigente, il quale da un lato era capacissimo di individuare un problema e di indicarne la soluzione, dall’altro si disinteressava del problema stesso quando gli sembrava di averne compreso i termini. Il mio paziente – persona piuttosto ansiosa – si era sempre trovato a disagio con lui, benché non avesse con lui un rapporto gerarchico. Diceva che, del resto, il tizio non aveva alcun rapporto amichevole con i suoi collaboratori, benché fosse idolatrato dalle segretarie. E che fosse un seduttore impenitente, benché non fosse mai riuscito a trovarsi una compagna stabile. Non so di più di questo signore, né potrò saperne di più, perché è morto qualche tempo fa. Ma le descrizioni che ne facevano l’edicolante e il mio paziente erano veramente tipiche del narcisismo fallico, così come quel modo particolare di mantenere la stazione eretta. Perché questo tipo di narcisismo spinge ad «andare dritto (eretto) allo scopo» ma – per evitare il conseguente calo dell’erezione – tende ad evitare anche la conclusione. Per questo, spesso capita che queste persone siano soddisfatte della conquista di una donna ma non cerchino di possederla veramente: quando si accorgono di aver fatto colpo, hanno ottenuto la gratificazione che cercavano e, quindi, cercano un’altra fonte di rispecchiamento. Anche sul lavoro si ripete la medesima situazione: l’importante è usare gli altri come specchio della propria capacità. Quando i collaboratori o i dipendenti reagiscono con ammirazione alla esibizione della soluzione di un problema, quest’ultimo cessa di essere interessante.

E le relazioni narcisistiche? Un’ultima osservazione su questo tipo particolare di narcisismo: che succede allorché due narcisisti si incontrano? Chi vede chi? Chi rispecchia chi? Esistono delle coppie basate su un’alleanza narcisistica, su un patto (inconscio) a potenziare reciprocamente l’immagine fallica di sé. Può essere la coppia formata dall’uomo potente con la donna splendida. Ma anche l’uomo splendido con la donna «manager» o ereditiera. Esempi da settimanale, d’accordo. Ma, se ci si pensa, anche nella vita quotidiana si possono trovare molti esempi di questo tipo. Ebbene, spesso queste coppie sono… riuscite. O, perlomeno, durano assai a lungo, perché le valenze narcisistiche dell’uno si embricano con quelle dell’altro membro della coppia in un gioco stranissimo, che ripete nella vita quella situazione singolare che è costituita dall’effetto provocato da due specchi contrapposti: la persona che si pone tra questi due specchi ha il noto effetto di fuga infinita, dell’immagine dell’immagine dell’immagine. Ci si può chiedere in queste situazioni «dove» siano davvero queste persone, perché l’impressione è quella di una certa inautenticità: ci sarà poi un momento nel quale cessano di essere sempre così tronfi, eretti, esibiti? Almeno in privato avranno un calo della tensione, un sollievo nell’atto di togliersi la maschera? Penso che queste siano reazioni che frequentemente abbiamo di fronte alle persone narcisiste e, più particolarmente, alle situazioni di narcisismo fallico. Ma sono le nostre reazioni all’effetto dell’identificazione massiccia di queste persone con il fallo. Come se ci dicessimo «non è vero, non è possibile che una persona si identifichi al punto da essere solo così…». E invece è possibilissimo e la dimensione autentica di queste persone sta proprio nella loro identificazione con il fallo. Che cosa sta «dietro» questa immagine così curata? Nella storia della psicoanalisi si sono date varie risposte a questo interrogativo: un’angoscia di castrazione particolarmente forte, una componente passiva troppo temuta, una tendenza omosessuale attiva ma fortemente inconscia o, anche, il vuoto. Non il vuoto inteso come raffigurazione infantile temuta del genitale femminile, ma il vuoto come insufficiente strutturazione psichica, come timore continuo di disgregazione senza fine, senza possibilità cioè di dire mai più «Io». Forse tutte queste interpretazioni sono vere, nel senso che servono a noi per raffigurarci una situazione psichica nella quale di fronte ad un «troppo» che non possiamo definire (troppa angoscia, troppo timore, troppa omosessualità ecc.) si ricorre ad un «troppo» di segno opposto (troppo eretto, ad esempio). Ancora una volta, ci troviamo di fronte al mistero creato dal narcisismo, il quale – ricordiamolo – mentre cerca un rispecchiamento continuo esclude l’altro.

Un’immagine di sé inattaccabile E tuttavia, se passiamo dalle situazioni estreme, utili alla esemplificazione, a quelle più «normali», dobbiamo anche vedere le cose in modo differente, chiedendoci quanto il passaggio per una fase di narcisismo fallico costituisca un passaggio utile e quanto di questo passaggio rimanga anche nella persona sana. Se ritorniamo alla distinzione più volte fatta relativa al narcisismo primario e a quello secondario, possiamo allora pensare che in quest’ultimo che – ricordiamolo – vede l’individuo investire la libido sul proprio Io, oggetto d’amore, la declinazione fallica serva a garantire un certo grado di indipendenza dall’ambiente e dagli altri, consenta di sperimentare cioè una riserva di autonomia e di potere. Certo, si tratta di una riserva poco realistica, ma consente di concepire una propria possibilità di essere autonomi e potenti e indipendenti, orgogliosi di se stessi, trionfanti anche senza l’approvazione altrui, anzi anche contro la disapprovazione altrui. È una gratificazione fantastica, esclusivamente psicologica, d’accordo. Ma questo tipo di gratificazione è necessaria quando la realtà ci pone di fronte a difficoltà e frustrazioni continue, soprattutto in certe età della vita. Nell’adolescenza, ad esempio, lo scarto tra potenzialità e realtà è spesso amplissimo e il pendolo tra l’investimento sulla realtà esterna e l’investimento sull’Io-fallico costituisce un meccanismo anche di salvaguardia dall’eccesso di frustrazione. Il tutto diventa un guaio solo se l’oscillazione si ferma allorché il pendolo si trova dalla parte di Narciso. Pensiamo all’esempio classico del ragazzino in preda a difficoltà scolastiche, incapace di applicare la sua attenzione a materie che gli sembrano sostanzialmente inutili o incomprensibili, intollerante della frustrazione che gli provoca l’incapacità di risolvere – poniamo – un problema di matematica. Una reazione possibile è quella di valorizzare al massimo il proprio narcisismo fallico, di elaborare disprezzo verso gli altri (e gli adulti in particolare), di vantarsi del proprio atteggiamento e di farsi ammirare dai compagni e dalle compagne per la propria capacità di sfidare l’ambiente e l’autorità. È appunto un grosso guaio se questa reazione narcisistica fallica diventa obbligata, appagante, bloccata: ma se, in un brutto momento, essa serve anche a mantenere una per quanto irrealistica stima di sé come potente e ammirabile, essa costituisce appunto una riserva inattaccabile e salvifica… purché duri poco, purché cioè consenta di ritrovare quel tanto di energia che consente di riaffrontare con animo più forte le difficoltà esterne. E nella vita non ci sono solo queste difficoltà. Fallimenti, crisi, scacchi sono sempre possibili. E il ricorso momentaneo (e, ripeto, irrealistico) ad un’immagine di sé potente e inattaccabile può sempre raffigurare anche la possibilità della ripresa. Un mio amico sostiene sempre che, quando si tocca il fondo, si ha la possibilità di darsi la spinta forte per ritornare a galla. Forse, il fondo per alcuni di noi è solido proprio perché raffigura il fallo.

7.

Narcisismo sano

Non far vendetta e non serbar rancore contro i figli del tuo popolo, anzi ama il prossimo tuo come te stesso: Io sono il Signore (Lev 19, 18). «Maestro, qual è il maggior comandamento della Legge?» e Gesù rispose: «Amerai il Signore Iddio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua, con tutta la tua mente. Questo è il primo e massimo comandamento. Il secondo poi è simile a questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Mt 22, 39). I comandamenti si compendiano in queste parole: «Amerai il prossimo tuo come te stesso». L’amore non fa del male al prossimo. Il compimento della legge è dunque l’amore (Rom 13, 9-10).

Caspita – può pensare qualcuno che mi abbia seguito fin qui – che abbia sbagliato libro? No certo, state tranquilli. Se ho richiamato all’inizio di questo capitolo alcuni passi del Vecchio e del Nuovo Testamento è perché essi coniugano l’amore di sé con quello per gli altri e, in questo capitolo, desidero porre la questione, importante e mai esaurita, del narcisismo sano, quello che consente di sviluppare una psicosessualità soddisfacente e, nel contempo, costituisce una solida base della individualità. Dopo aver tratteggiato il narcisismo orale e quello anale, dopo aver visto le vicissitudini di quello fallico, avrei dovuto descrivere le vicende del narcisismo durante quello che è il banco di prova della crescita psichica, il conflitto edipico. Lo farò solo brevemente.

Uno sguardo al conflitto edipico Sul conflitto edipico sono state scritte biblioteche intere e, come per il mito di Narciso, si potrebbe partire dalla formulazione datane in età classica (dalle tragedie di Sofocle, quindi) e arrivare ai nostri giorni. Qui mi limiterò a darne una formulazione schematica – con tutte le cautele che anche qui, come a proposito del Narciso di Ovidio (vedi cap. 1), sono necessarie. In sostanza si tratta di amare e possedere una persona «proibita». Proibita perché legata ad un’altra persona, proibita attivamente da quest’altra persona, proibita perché si rifiuta (in quanto legata ad un’altra persona), proibita perché «impossibile» da possedere. L’esempio più semplice è quello del bambino che si innamora della mamma e vorrebbe poterla possedere e perciò entra in conflitto con il padre, cercando di ucciderlo. Ma tutte le altre eventualità possibili data una situazione triangolare sono di fatto riscontrabili. La psicoanalisi ha potuto dimostrare che il desiderio edipico di uccidere il membro del triangolo che si oppone alla realizzazione del desiderio c’è sempre e che – a livello inconscio – questo desiderio è del tutto realistico: se non ci fossero numerose e importanti barriere e difese, anch’esse inconsce, assisteremmo a faide familiari continue. Non sempre queste difese funzionano e, com’è noto, gli assassini in famiglia sono piuttosto frequenti. Ma anche quando funzionano il desiderio persiste. Così come persiste il desiderio di possedere – sessualmente, cioè integralmente – l’oggetto amato. Riuscire a superare il conflitto implica la rinuncia alla realizzazione diretta del desiderio e il riconoscimento della necessità del «concorrente» (col quale avviene una identificazione) per poter, nel rispetto del divieto dell’incesto, trovare un oggetto d’amore (che sarà sempre secondario rispetto all’oggetto primario). È dunque in questa fase (che capita sì nella prima infanzia ma che riappare nell’adolescenza e che permane in qualche modo nell’inconscio come una modalità di essere alla quale si può facilmente regredire) che i grandi problemi dell’esistenza vengono messi a fuoco: il desiderio di possedere un oggetto d’amore ben determinato, il riconoscimento della o la ribellione contro la legge, il riconoscimento della propria limitatezza e il riconoscimento dell’altro, sia come oggetto sessuale sia come oggetto antagonista. È in questa fase, anche, che le ambizioni smisurate dell’infanzia vengono messe a dura prova e che l’individuo impara a riconoscere che solo accettando la realtà potrà cercare di realizzare il desiderio. Il tramonto del complesso edipico avviene non tramite un annullamento del conflitto ma tramite l’assunzione di responsabilità di chi siamo davvero, con tutte le nostre spinte aggressive e distruttive, con tutti i nostri slanci d’amore, con tutti i nostri limiti e con quelli che ci vengono imposti dalle leggi della natura e della cultura in cui viviamo. Con la consapevolezza del destino che è inscritto dentro di noi, solo conoscendo il quale abbiamo la possibilità di giocarne l’enorme forza anche a nostro favore.

E la questione del destino – sulla quale ha lungamente indagato L. Kahn – è centrale per l’individuo. Anche se essere consapevoli di essere individui di una specie strana, che produce esseri incompleti e aggressivi, disposti e anzi desiderosi di uccidere anche i propri amati parenti, è un’esperienza in parte sgradevole, certamente tragica. Dall’amore inizialmente citato, siamo passati all’odio, all’assassinio, alla distruttività. È appunto questa mescolanza ad essere caratteristica dell’umanità. Ed è appunto durante il lungo periodo di elaborazione del conflitto edipico che questa mescolanza si declina in modo specifico per ciascuno di noi. La finalità del superamento del conflitto edipico, ovviamente, è quella di garantire la possibilità dell’abbandono dell’oggetto primario (la madre per il maschio, il padre per la femmina, nei casi tipici) e del suo ritrovamento nell’oggetto secondario, nelle altre persone che vengono amate e che sono esterne all’area del divieto dell’incesto. Il superamento dunque consente di amare davvero, completamente e senza divieti, un’altra persona ma l’indagine psicoanalitica ci ha consentito di vedere senza ombra di dubbio che quest’altra persona è sempre collegata – magari per contrasto –, nel nostro inconscio, alla prima o alle prime. Perciò, in ogni nuova persona amata ritroviamo anche (inconsciamente) gli oggetti originari, i nostri amati e odiati genitori di quando eravamo piccoli piccoli. Il superamento del conflitto edipico, tuttavia, consente anche di odiare, cercare di aggredire e distruggere quegli altri che sono sentiti come ostacoli alla realizzazione del desiderio. La consapevolezza di cui accennavo nei capoversi precedenti serve a tenerne conto e – se possibile – a guardare con una certa autoironia noi stessi nel momento in cui ci opponiamo per primi a qualcun altro. Senza farcene troppe illusioni: l’aggressività umana è estremamente forte e chi rinunciasse del tutto all’uso della propria aggressività sarebbe immediatamente vittima di quella altrui.

Edipo e Narciso Come si declina, durante il conflitto edipico, il narcisismo? In termini mitologici: com’è il narcisismo di Edipo? È una domanda alla quale è difficile rispondere. Per misurarne la difficoltà, basta pensare che la cultura classica ha posto in primo piano il conflitto edipico e in secondo il narcisismo, il Cristianesimo ha posto in primo piano il narcisismo (vedremo come) e in secondo il conflitto edipico: nessuna delle due culture, cioè, ha potuto porre in evidenza la compresenza dei due aspetti. Eppure, è assolutamente importante che il superamento del conflitto edipico si accompagni ad un riassestamento dell’equilibrio narcisistico. Che l’individuo riesca a sentirsi non solo come unico (diverso da tutti gli altri) ed integrato (nelle sue diverse parti) ma anche come solido e sicuro, capace di padroneggiare gli stimoli interni ed esterni in modo realistico, che sia felice di poter amare e consapevole che – anche se ciò implica una rinuncia fondamentale – davvero quando ama può giungere a… ricongiungersi cioè a sentirsi fuso con il partner in una gioia che non ha bisogno più di parole, che inonda tutto. Che sia gratificato dal saper e poter odiare e che si senta solido proprio perché può in qualche misura decidere se attuare questo suo odio o trattenerlo. Certo, il Narciso che esce dal superamento del conflitto edipico è ridimensionato, riconosce i propri limiti, sa di essere un tutto ma non il tutto, è consapevole di poter arrivare alla soddisfazione del desiderio solo episodicamente. Ma è anche così gratificato dall’esperienza dell’amore da capire che nonostante tutte queste difficoltà vale la pena di vivere. Se, quotidianamente, non accadesse questo, l’umanità sarebbe finita da un pezzo. Che senso può avere, allora, dal punto di vista psicologico il comandamento triplamente citato all’inizio di questo capitolo? Nel famoso saggio intitolato Disagio della civiltà, del 1929, Freud affrontò proprio questo problema e affermò che Il comandamento «ama il prossimo tuo come te stesso» è la più forte difesa contro l’aggressività umana e un esempio eccellente del modo di procedere non psicologico del Super-Io civile. Il comandamento è irrealizzabile; un’inflazione così grandiosa dell’amore può solo sminuirne il valore, non cancella la difficoltà. La civiltà trascura tutto ciò; ci ammonisce soltanto che quanto più difficile è il conformarsi al precetto, tanto più meritoria è l’obbedienza. Eppure, chi nella presente civiltà s’attiene a tale precetto si mette solo in svantaggio rispetto a chi non se ne cura. Che immane ostacolo alla civiltà dev’essere la tendenza aggressiva, se la difesa contro di essa può rendere tanto infelici quanto la sua stessa esistenza! La cosiddetta etica naturale non ha qui da offrire nulla all’infuori della soddisfazione narcisistica di potersi ritenere migliori degli altri. L’etica che si appoggia alla religione fa intervenire a questo punto le sue promesse di un aldilà migliore. A mio avviso fino a quando la virtù non sarà premiata sulla terra l’etica predicherà invano.

Il saggio di Freud è del 1929: una decina d’anni dalla fine della grande guerra, un anno di grave crisi economica, gli anni in cui, inoltre, in Germania covava e iniziava a manifestarsi il mostro nazista. Insomma apparentemente, se si guarda ora la realtà che lo circondava, Freud aveva di che essere pessimista. L’aggressività distruttiva gli sembrava ineliminabile e i rimedi proposti inattuabili. Per di più, vedeva nella civiltà una deriva anti-individuo, una progressiva perdita di autonomia e di importanza dell’individuo in quanto tale, che gli faceva presagire una sempre maggiore difficoltà opposta all’individuo nella sua ricerca della soddisfazione del desiderio e del conseguimento del piacere. Da un certo punto di vista, potremmo sottoscrivere ancor oggi il passo di Freud. Ma è incompleto: l’unico accenno al narcisismo che qui Freud fa è quello del premio narcisistico che può derivare dall’osservare il comandamento e nel sentirsi perciò migliori degli altri. Credo che oggigiorno si possano invece incrementare le osservazioni di Freud proprio valorizzando la componente narcisistica insita nel comandamento: ama il prossimo tuo come ami te stesso. Come si può interpretare questo comandamento? Forse bisogna farlo tenendo conto della saggezza degli antichi, che sapevano bene come l’amore di sé (appunto il narcisismo) fosse una componente fortissima dell’animo umano e che non si illudevano troppo sulla possibilità di superarlo. Non si può amare gli altri più di noi stessi. È già una meta forse irraggiungibile quella di amarli «come» noi stessi. Nella nostra epoca storica, nella quale la patologia narcisistica è aumentata notevolmente, forse questa meta è ancora più irrealistica. Perché quando si parla di patologia narcisistica ci si riferisce a situazioni psichiche nelle quali una persona – benché con manifestazioni diversissime – non riesce ad avere un narcisismo sano, non riesce a godere profondamente, a sentirsi capace di amare, capace di modificare la realtà, di stabilire nuovi legami e di cercare nuove soddisfazioni. Queste persone hanno una fragilissima stima di sé, che va in frantumi per la minima frustrazione e reagiscono con esplosioni di rabbia inefficace, spesso più distruttiva per loro stessi che per gli altri. E, bisogna aggiungere, le varie forme di patologia narcisistica, proprio nella misura in cui concentrano tutta l’attenzione e l’energia psichica su di sé, impediscono di vedere l’altro. Forse anche per questo motivo l’altro diventa solo il deposito (tramite la proiezione) di elementi sgradevoli di sé. Da questo punto di vista – notiamo per inciso – spesso il narcisista odia il prossimo suo come se stesso. Si potrebbe concludere che forse è preferibile una accezione ristretta della parola «prossimo», perché, quanto più per «prossimo» si intende l’umanità tutta, tanto più si rischia che su questo schermo indistinto e indistinguibile si proiettino le peggiori tendenze, giustificando così le peggiori azioni.

«Ama il prossimo tuo come te stesso»? Per amare gli altri, insomma, bisogna essere in grado di amare se stessi. Da questo punto di vista, forse, l’antico comandamento può essere inteso non tanto come una prescrizione ad amare tutti gli altri quanto come un invito a cercare di raggiungere un equilibrio soddisfacente tra l’amore di sé e quello per gli altri. O, a voler essere ottimisti, come una ricetta di vita: potrai amare gli altri solo se e come ami te stesso. Se, tuttavia, colleghiamo – come fa Matteo nel suo Vangelo – l’amore del prossimo con l’amore di Dio, restiamo alquanto perplessi, perché si istituisce una equivalenza tra oggetti: il prossimo è una figura di Dio. E allora non viene percepito in quanto tale perché gli viene attribuita (proiettata) l’immagine di un altro: non siamo, ancora una volta, di fronte a Narciso che vede sempre e solo se stesso? E «Dio» in questa situazione non può essere solo una immagine grandiosa, onnipotente, onnisciente di noi stessi, come avremmo voluto essere in certe fasi del nostro sviluppo? In questo caso, il comandamento avrebbe un significato puramente narcisistico. Insomma, come in tutti i miti che si rispettano, c’è una pluralità di significati cui il comandamento accenna lasciandoli intravedere solamente e forse sarebbe stolto accentuarne uno a scapito degli altri. Nel corso di questo libro, sono spesso ricorso al paragone con il pendolo: è ora giunto il momento di sottolineare come, in questo paragone, l’elemento importante sia la velocità dell’oscillazione; solo se la libido investita su un’altra persona può liberamente ritornare sull’Io del soggetto e poi nuovamente essere reinvestita all’esterno, si ha quel gioco particolarissimo per cui il raggiungimento della soddisfazione narcisistica consente di reinvestire all’esterno e la soddisfazione ottenuta assieme e tramite un’altra persona può ritornare sull’Io rafforzandolo e, contemporaneamente, rendendolo più elastico e ricco. Ma, naturalmente, bisogna anche tener conto dell’accezione più inquietante del comandamento, se si vuol tener conto del narcisismo; ama il prossimo tuo come te stesso: non c’è, qui, nuovamente, il rischio dello specchio? Ossia, non è possibile forse che nell’altro, nel nostro prossimo, cerchiamo in fin dei conti solo noi stessi? Una nostra immagine riflessa, che amiamo disperatamente proprio perché rischia continuamente di sfuggirci? Con la conseguenza per cui, se nell’altro vedo me, la mia immagine riflessa, se gli attribuisco le mie caratteristiche (lo misuro sul mio braccio, come si dice), mi si pone il problema se potrò mai conoscerlo davvero, per quel che di diverso egli è da me. Il vecchio comandamento – dal punto di vista psicologico – può essere dunque letto in doppio modo, proprio come due sono i modi classici (già descritti da Freud nell’Introduzione al narcisismo, uno scritto del 1914) di concepire l’altro e di stabilire con lui una relazione: in modo narcisistico (appunto per somiglianza con noi stessi) o «per appoggio», cioè cercando nell’altro

quel che sappiamo non esserci in noi. Nella vita quotidiana, i due modi di scelta della persona da amare spesso si mescolano in modo difficilmente districabile. Amiamo un’altra o un altro perché troviamo che «abbiamo molto in comune» e, contemporaneamente, perché «solo con lei (con lui) mi sento così bene», o «solo lei (o lui) mi rende felice». È bene tenere presente che la prima componente, quella narcisistica, è soggetta più facilmente dell’altra a rotture, crisi, angosce: quel che è in ballo, in questi casi, è la stessa esistenza dell’Io, ossia di una istanza alla quale non possiamo rinunciare perché è necessaria per la vita. Ma ci può essere un modo narcisistico più indiretto e più sofisticato di amare gli altri: quando l’amore per gli altri ci fa «sentire buoni», ci dà quella particolare soddisfazione che può derivare dall’illusione di riuscire a realizzare una condizione ideale. Quel che è in ballo, in questi casi, è il tentativo inconscio di fare assomigliare sempre di più l’Io all’ideale dell’Io. Di per sé, questo tentativo può non essere malvagio: ma se diviene preponderante, ancora una volta l’altro diviene irrilevante e tende a sparire.

Ovidio e Freud Come si vede, sto tornando ad Ovidio ma in compagnia di Freud: quali sono le necessità e quali le possibilità di uscita dal narcisismo? Diciamo subito che dal narcisismo non si esce: il narcisismo è una condizione, un modo di essere dell’Io. In un certo modo, il narcisismo secondario (quello di cui stiamo parlando) ha origine assieme all’Io e la soddisfazione narcisistica (in termini di stima, di sicurezza, di sentimento di solidità, di capacità ecc.) è il premio che la nostra organizzazione ci dà quando soddisfiamo un vincolo cui non possiamo sfuggire. Questo vincolo è costituito dal fatto che non possiamo muoverci nella realtà, rispondere in maniera adeguata agli stimoli che ci pervengono dall’interno e dall’esterno di noi stessi, se non in maniera indiretta, passando per il pensiero: non esiste alcuna risposta diretta alla percezione e la percezione stessa è un atto complicato di pensiero, che tiene conto sì della realtà ma che la rappresenta in modo molto diverso da quella che essa è, come magistralmente ci ha fatto vedere Paolo Bozzi nel suo libro sulla Fisica ingenua (1990). Ora, questo passaggio necessario è assolto appunto da quella parte dell’apparato psichico che chiamiamo «Io». Lo amiamo, sì, ma lo amiamo anche disperatamente, perché temiamo sempre che ci abbandoni alle tenebre dell’assenza, delle quali non possiamo dire nulla proprio perché, se non c’è l’Io, non ci siamo più. Forse, nell’acqua tremolante della fonte, Narciso vide anche questo e capì che proprio ciò che amava di più e che gli dava le massime soddisfazioni («cogito, ergo sum» disse Cartesio molto più tardi) era anche qualcosa di fragile, delicato, inafferrabile: glielo avevano già detto i giovani da lui tanto disprezzati, quando gli avevano augurato di amare senza mai possedere l’amato («Sic amet ipse licet, sic non potiatur amato!», si ami così e così non possegga mai l’amato!). In altri termini, Narciso vide nell’acqua della fonte il pensiero elaborato dall’Io. E il grido disperato («Iste ego sum!», questo qui sono io) era anche determinato dal terrore di accorgersi di non potersi appoggiare sulla realtà materiale, su qualcuno in carne e ossa che potesse garantire l’esistenza della realtà del pensiero, di esser messo di fronte alla propria difficoltà di doversi dunque fidare di se stesso e della propria incertezza. Che, appunto, è intollerabile per Narciso ma è fondamentale per interrogarsi e interrogare, cioè appunto per sviluppare il pensiero. Che, dopotutto, è appunto quanto di più prezioso abbiamo.

Nota finale: il narcisismo come difesa Avrei potuto concludere con questa nota sulla preziosità del pensiero ma voglio aggiungere una considerazione forse inquietante relativa alla realtà storica nella quale viviamo. All’inizio di questo capitolo, avevo citato un passo tratto da Il disagio della civiltà di Freud. Avevo sottolineato come Freud intravedesse nella civiltà una tendenza ad eliminare l’individuo, a renderlo addomesticato ai fini della civiltà, sempre meno autonomo. Freud riteneva che la civiltà considerasse utile l’individuo e i suoi desideri (in ultima analisi sessuali, quelli che provocano quella soddisfazione per la quale vale la pena di vivere) solo in tanto in quanto funzionali alla prosecuzione della specie. Dal 1929 ad oggi come sono cambiate le cose per l’individuo? Davvero il nostro mondo è divenuto più tollerante e aperto, davvero ha dato maggiori libertà all’individuo, maggiori possibilità di realizzare i propri desideri? Davvero il nostro mondo è così centrato sull’individuo, come alcuni critici delle caratteristiche della nostra epoca sostengono, a discapito delle relazioni e della costituzione di gruppi fortemente stabili, come ad esempio la famiglia? Come si spiegano l’aumento notevolissimo delle cosiddette patologie narcisistiche e quello ancora maggiore di una sorta di narcisismo diffuso, di ritiro in una sorta di ricerca di benessere e gratificazione fine a se stessa, che programmaticamente esclude gli altri e ricerca solamente gratificazioni immediate? È, questo, davvero un trionfo dell’individuo o un suo fallimento? Si potrebbero, naturalmente, fare numerosissime ricerche, sociologiche, psicologiche e psicoanalitiche. Qui mi limito ad esporre, in forma schematica, una ipotesi generalissima, secondo la quale lo spostamento delle patologie verso il polo narcisistico e il più generale aumento dell’importanza della componente narcisistica nella vita quotidiana rappresentano una modalità difensiva (in questo senso e solo in questo senso sana) di fronte alla continua tendenza a rappresentare l’individuo come costantemente insufficiente. Questa rappresentazione, proprio per la sua costanza, suona come una prescrizione sociale: il «buon» individuo, quello che merita l’apprezzamento sociale, è quello che si uniforma ad essa. Pensiamo ai messaggi pubblicitari o a quelli (pseudo)educativi: sempre viene sottolineato – perlopiù implicitamente – che l’individuo «non sa», che da solo non ce la farebbe, che compiti banali e quotidiani devono avere l’ausilio dell’esperto, che azioni e comportamenti qualsiasi abbisognano del tale o talaltro prodotto. Che una mamma non saprebbe come trattare il suo bambino se non ci fosse lo psicologo a dirgli come deve amarlo e trattarlo, se non ci fosse la fabbrica di pannolini a dirgli come tenerlo pulito, se non ci fosse la fabbrica di alimenti per l’infanzia a dirgli cosa deve dargli da mangiare e così via. Un bombardamento di stimoli che,

tutti, tendono a sottolineare come i compiti anche quotidiani siano solubili solo con l’«aiuto» degli altri: contro lo sporco impossibile… ti aiutiamo noi, perché tu non ce la faresti. È sottinteso che «tu, con la tua testa, non ci arriveresti mai» (a trattare bene il tuo bambino, a tener pulita la casa, a mangiare adeguatamente, eccetera). Dunque «ci pensiamo noi», «non occorre che tu pensi con la tua testa». Messaggio terribile e omicida, perché, come ho cercato di mostrare in tutto questo libro, l’Io (oggetto dell’amore del narcisismo secondario) è proprio quell’istanza che tramite il pensiero riesce ad escogitare soluzioni adeguate ai problemi interiori ed esterni. Come meravigliarsi che, di fronte a questo bombardamento che mina l’autonomia del pensiero, non ci sia una reazione narcisistica adeguata, una tendenza a proteggersi proteggendo proprio quella parte di sé che deve essere amata per poter sopravvivere come individui? Ho fatto l’esempio della pubblicità e di certe tendenze pseudoeducative ma molti altri se ne potrebbero fare. Quel che c’è da chiedersi è se non si possa pensare anche che il processo descritto da Freud sia andato avanti e che, in qualche misura, l’oggetto da eliminare sia l’individuo in quanto soggetto pensante. Prima di condannare «il narcisismo sfrenato della nostra epoca», come fanno molti nostalgici del bel tempo passato, converrebbe chiedersi insomma se esso non rappresenti davvero anche una risposta ad una tendenza culturale e sociale in atto e se, in tal modo, non si vada disegnando anche il profilo di un essere umano contemporaneo diverso dall’individuo cui eravamo abituati a pensare, sia nelle modalità di soffrire sia in quelle di godere. Può sembrare, questa, una nota conclusiva pessimistica. Ma per chi, come me, è abituato a considerare l’umanità come inesauribilmente complessa ed estremamente capace di elaborare nuovi strumenti di pensiero, è anche una sfida a pensare l’attualità e il futuro in termini nuovi.

Per saperne di più

Per saperne di più, vale la pena di tornare alle origini, con Ovidio. Le Metamorfosi (la vicenda di Narciso e di Eco è narrata nel libro III, dal verso 316 al 510) sono state pubblicate innumerevoli volte: una buona edizione (e anche economica) è quella pubblicata dall’editore Garzanti, a cura di M. Ramous e di L. Biondetti. Il libro di M. Bettini ed E. Pellizer, Il mito di Narciso (Torino, Einaudi, 2003) è straordinariamente utile (e piacevole da leggere) per seguire nella storia, dalla Grecia a oggi, la costanza e i mutamenti della figura di Narciso il quale, anche dopo morto, ha continuato a fare innamorare di sé moltissimi autori. Narcisses è il titolo di un volume – pubblicato da Gallimard nel 1976 e ancora in commercio – derivato da un numero della «Nouvelle revue de psychanalyse», che contiene saggi di importanti psicoanalisti (D. Anzieu, O. Flournoy, A. Green, R. Khan, M. Masud, J. McDouglas, H. Rosenfeld, G. Rosolato) e studiosi del mito, oltre che i poemi di Rilke su Narciso. Il narcisismo è stato studiato dagli psicoanalisti sotto molti aspetti. In italiano è stata tradotta la maggior parte dei lavori classici sull’argomento. Qui troverete una serie di indicazioni distinte per categoria: narcisismo fisiologico e problema dello sviluppo psicosessuale; patologia narcisistica. Rimane fondamentale – anche per comprendere i termini del problema – il saggio del 1914 di S. Freud, Introduzione al narcisismo (in Opere, Torino, Bollati Boringhieri, 1975, vol. VII, ma anche in Studi critici su «Introduzione al narcisismo», a cura di J. Sandler, E. Spector Person e P. Fonagy, Milano, Cortina, 1992, opera quest’ultima che riunisce importanti saggi di valutazione critica del saggio freudiano a distanza di quasi ottant’anni dalla sua uscita). Si noti che l’anno precedente Rilke aveva scritto le due poesie su citate. Tuttavia, anche per comprendere come Freud sia arrivato a quella teorizzazione, è importante leggere sia le Osservazioni su un caso di nevrosi ossessiva (Caso clinico dell’uomo dei topi) del 1909, sia Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci del 1910, entrambi contenuti nel vol. VI delle Opere. Tutti gli scritti di Freud citati nel testo si ritrovano nelle Opere pubblicate da Bollati Boringhieri. Un classico è anche il saggio di L. Andreas-Salomé su Il narcisismo come duplice tendenza (1921) contenuto nella raccolta Anal und Sexual (Rimini-Firenze, Guaraldi, 1977), nel quale viene posto in evidenza il movimento di fusione con il tutto come meta positiva fondamentale della libido. Per quanto riguarda il rapporto tra carattere e narcisismo, in particolare per quanto riguarda la

fase anale e quella fallica, ha un valore non solo storico – l’edizione tedesca è del 1933 ma poi fu rimaneggiata fino all’attuale versione – l’opera di W. Reich, Charakteranalyse (Köln-Berlin, Kiepenheuer & Witsch, 1970; trad. it. Analisi del carattere, Milano, SugarCo, 1973). Le teorie del narcisismo si sono sviluppate in modi diversi dopo Freud: gli studi di B. Grunberger e quelli di H. Kohut sono esemplari a questo proposito. Di Grunberger lo studio fondamentale è Le narcissisme: essais de psychanalyse, Paris, Payot, 1971 (la cui traduzione italiana è stata ripubblicata da Einaudi nel 1998). Questo testo rimane alla base di moltissimi altri ed ha in parte informato il mio. La distinzione tra narcisismo primario e secondario e la considerazione del narcisismo come istanza autonoma trovano nel libro di Grunberger una trattazione imprescindibile. Per una visione complessiva del problema del rapporto tra relazioni oggettuali e relazioni narcisistiche, molto utile il libro di B. Brusset, Psychanalyse du lien (Paris, Puf, 2005; trad. it. Psicoanalisi del legame: la relazione d’oggetto, Roma, Borla, 1990), in particolare il quinto capitolo (L’objet, le narcissisme et la deuxième topique). Di H. Kohut, The Analysis of the Self (London, Hogarth Press, 1971; trad. it. Narcisismo e analisi del Sé, Torino, Boringhieri, 1976) è l’opera più importante, anche perché inaugura tutta una corrente di studi psicoanalitici che si chiamerà «psicologia del Sé». In questa teoria del narcisismo è centrale lo studio dell’Io, concepito in modo unitario, e si delinea il concetto di Sé. Un ulteriore contributo importante allo studio del narcisismo è quello di A. Green, Narcissisme de vie, narcissisme de mort, Paris, Editions de Minuit, 1983 (trad. it. Narcisismo di vita, narcisismo di morte, Roma, Borla, 1985) che delinea anche nei capitoli introduttivi le vicissitudini del concetto e che dedica un importante capitolo al narcisismo primario. Tutti i testi fin qui elencati contengono anche numerosi esempi clinici di patologia narcisistica, ma non sono specificamente dedicati ad essa. Viceversa, Borderlines Conditions and Pathological Narcissism (New York, Aronson, 1975) è il titolo eloquente dell’importante libro di O.F. Kernberg (trad. it. Sindromi marginali e narcisismo patologico, Torino, Boringhieri, 1978). Si tratta di un saggio abbastanza specialistico ma le descrizioni cliniche sono felicemente chiare. Più «tecnico» è I disturbi del narcisismo (a cura di E.F. Ronningstam, Milano, Cortina, 2001) che reca il sottotitolo Diagnosi, clinica, ricerca. Entrambi questi libri sono molto «americani», nel senso che rappresentano lo sviluppo teorico e clinico della psicoanalisi statunitense e sono assai lontani dalle teorizzazioni francesi (l’altro paese nel quale sono fioriti gli studi sul narcisismo) indicate in precedenza.