Il mondo ha bisogno dei poeti. Interviste e autocommenti 1948-1990 9788866556763, 9788866556770, 9788866556787

Intrigante e apparentemente facile, l'intervista può a volte essere generatrice di stress. In ogni caso è quello ch

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Il mondo ha bisogno dei poeti. Interviste e autocommenti 1948-1990
 9788866556763, 9788866556770, 9788866556787

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Giorgio Caproni

Il mondo ha bisogno dei poeti Interviste e autocommenti 1948-1990 a cura di

Melissa Rota introduzione di

Anna Dolfi

FIRENZE UNIVERSITY

PRESS

Il mondo ha bisogno dei poeti Interviste e autocommenti 1948-1990

A. Dolfi G. Caproni

(1912–1990) è sicuramente tra i grandi autori del Novecento europeo. A latere di una ricca attività di narratore, traduttore, saggista, è alla poesia, tradotta ormai integralmente anche all’estero, e in Italia raccolta nel “Meridiano” dell’Opera in versi, che è legata l’importanza del suo nome.

M. Rota

Intrigante e apparentemente facile, l’intervista può a volte essere generatrice di stress. In ogni caso è quello che pensava Caproni, che però era anche convinto che solo nel rapporto con il lettore la poesia potesse trovare il “suo reale valore” e la sua possibilità di esistenza. Per questo, piegandosi con garbo e ritrosia alle domande, accettò negli anni di guidare i suoi interlocutori nel mondo misterioso e inafferrabile dell’arte, là dove si producono idee e emozioni con la sola “musica delle parole”. Per aiutarci ad afferrarla, quella imprendibile musica, in questo libro struggente ed ironico, ci parla delle dimore vitali (Genova, Livorno), delle figure lariche, delle passioni giovanili, delle ferite immedicate (Olga, la guerra), del bisogno di scrivere, tradurre, conoscere, e della proustiana introiezione del passato sulla “carta velina della memoria”. Per oltre centoquaranta volte (tanti sono i pezzi ricostruiti e riuniti adesso per la prima volta grazie al prezioso e accurato lavoro di ricerca di Melissa Rota) le interviste restituiscono - come sottolinea Anna Dolfi nella bella introduzione - al di fuori di ogni retorica e gigantografia, le grain de la voix, le grain de la vie di un intellettuale ‘eretico’, libero nelle scelte e nella determinazione del proprio destino. Sì che una sottile malia ci guida nel seguire su queste pagine troppo a lungo dimenticate i segni di una vocazione, e il ‘tremore’ che, stroncando una carriera, lasciò gli scatti nervosi del violinista all’inconfondibile piglio dei versi a venire.

si è laureata in Letteratura Italiana moderna e contemporanea all’Università di Firenze e fa parte di un gruppo di ricerca diretto da Anna Dolfi che si occupa di edizione e catalogazione di testi contemporanei.

insegna Letteratura Italiana moderna e contemporanea all’Università di Firenze ed è socio dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Tra i migliori studiosi di Leopardi e di narrativa e poesia del Novecento, ha pubblicato un libro su Caproni, la cosa perduta e la malinconia (Genova, San Marco dei Giustiniani, 2014).

€ 24,90

ISBN 978-88-6655-676-3

In copertina: Giorgio Caproni nella casa romana di Via Pio Foà, 1985 (©Dino Ignani). 9

788866 556763

MODERNA/COMPARATA

—7—

MODERNA/COMPARATA COLLANA DIRETTA DA Anna Dolfi – Università di Firenze

COMITATO SCIENTIFICO Marco Ariani – Università di Roma III Enza Biagini – Università di Firenze Giuditta Rosowsky – Université de Paris VIII Evanghelia Stead – Université de Versailles Saint-Quentin Gianni Venturi – Università di Firenze

Giorgio Caproni

Il mondo ha bisogno dei poeti Interviste e autocommenti 1948-1990 a cura di Melissa Rota Introduzione di Anna Dolfi

Firenze University Press 2014

Il mondo ha bisogno dei poeti : interviste e autocommenti 19481990 / Giorgio Caproni ; a cura di Melissa Rota ; introduzione di Anna Dolfi. – Firenze : Firenze University Press, 2014. (Moderna/Comparata ; 7) http://digital.casalini.it/9788866556770 ISBN 978-88-6655-676-3 (print) ISBN 978-88-6655-677-0 (online PDF) ISBN 978-88-6655-678-7 (online EPUB) Progetto grafico di Alberto Pizarro Fernández, Pagina Maestra snc

Certificazione scientifica delle Opere Tutti i volumi pubblicati sono soggetti ad un processo di referaggio esterno di cui sono responsabili il Consiglio editoriale della FUP e i Consigli scientifici delle singole collane. Le opere pubblicate nel catalogo della FUP sono valutate e approvate dal Consiglio editoriale della casa editrice. Per una descrizione più analitica del processo di referaggio si rimanda ai documenti ufficiali pubblicati sul catalogo on-line della casa editrice (www.fupress.com). Consiglio editoriale Firenze University Press G. Nigro (Coordinatore), M.T. Bartoli, M. Boddi, R. Casalbuoni, C. Ciappei, R. Del Punta, A. Dolfi, V. Fargion, S. Ferrone, M. Garzaniti, P. Guarnieri, A. Mariani, M. Marini, A. Novelli, M. Verga, A. Zorzi. © 2014 Attilio Mauro Caproni-Silvana Maria Caproni Università degli Studi di Firenze Firenze University Press Borgo Albizi, 28, 50122 Firenze, Italy www.fupress.com Printed in Italy

INDICE

Introduzione di Anna Dolfi Nota al testo di Melissa Rota Tavola delle sigle

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INTERVISTE E AUTOCOMMENTI 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25.

Io genovese di Livorno [1948] La poesia e i ragazzi [1949] Incontro con un poeta [1951] Il più commovente fatto dell’anno [1953] [La giovane poesia italiana] [1957] Premio Marzotto 1954-1955-1956 [1957] [Essere un poeta facile] [1959] Ritratti su misura [1960] Sette domande sulla poesia [1962] Polemico premio senza vincitore [1962] Discussione su politica e cultura [1962] Caproni considera la critica una cattiva azione [1965] Due domande a Giorgio Caproni [1965] Tra Genova e Livorno [1965] Il mestiere di poeta [1965] [Premio Viareggio I] [1965] Intervista ai poeti e narratori liguri di nascita o d’adozione [1967] [Humile et orgoglioso] [1972] Dai caruggi al Righi. Un genovese di Livorno [1972] [Premio Viareggio II] [1973] [La poesia non è mai narcisismo] [1974] Sorgente di espressività [1974] Perché gli italiani dicono macchina e non carrozza? [1974] [Esercizio della traduzione] [1975] Molti dottori nessun poeta nuovo [1975]

33 35 37 39 40 43 45 48 50 53 55 57 61 64 66 74 75 77 79 82 83 85 87 88 91

Melissa Rota (a cura di), Giorgio Caproni. Il mondo ha bisogno dei poeti: interviste e autocommenti 1948-1990, ISBN 978-88-6655-676-3 (print), ISBN 978-88-6655-677-0 (online PDF), ISBN 978-88-6655-678-7 (online EPUB), © 2014 Firenze University Press

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26. 27. 28. 29. 30. 31. 32. 33. 34. 35. 36. 37. 38. 39. 40. 41. 42. 43. 44. 45. 46. 47. 48. 49. 50. 51. 52. 53. 54. 55. 56. 57. 58. 59. 60. 61. 62. 63. 64. 65. 66. 67. 68.

INDICE

Lei è per il voto ai diciottenni [1975] Ritratto d’autore [1975] Settimo giorno [1975] Oggi serve ancora scrivere? [1975] Perché Roma scompare dai romanzi d’oggi [1976] Solo la poesia può ridare vita alla parola [1976] Le mie città più amate [1976] [Ricordo di Nicola Lisi] [1976] Una sofferta solitudine [1976] [Il fine ultimo del poeta è solo quello di far poesia] [1977] Inchiesta sul Premio Nobel [1977] Domande su Esenin e Ungaretti [1978] Poesia: un bene-rifugio [1979] Genova [1979] Com’è difficile tradurre una musica [1980] [La musica del verso] [1980] [La traduzione non può essere fredda operazione da laboratorio] [1980] Ascoltiamo i nostri poeti [1980] [La ricerca della propria realtà] [1980] Io amico del dolore [1981] Il libro più importante del dopoguerra [1981] [Realtà come un’allegoria] [1981] Via Foà a Monteverde [1981] Se mi lamentassi che poeta sarei? [1981] Caproni il poeta dell’esilio [1981] Luoghi della mia vita e notizie della mia poesia [1981] E dopo il limite c’è solo «niente» [1982] Le letture dei poeti [1982] Disperato ma con calma e ostinazione [1982] Il poeta è «uno spatriato» [1982] Sono un genovese in esilio [1982] Poesia e condizione umana [1982] La conquista del «preticello deriso» [1982] Il cacciatore di verità [1983] In via Pio Foà con candore e con sgomento [1983] Nostalgia dei Pancaldi [1983] Un poeta in cerca dell’anima [1983] Cinquant’anni ricuciti [1983] [I maggiori riconoscimenti non sono premi in denaro] [1983] A proposito di un… furto! [1983] Credo in un Dio serpente [1984] Poeta a occhi aperti [1984] Non esiste, ma nella disperazione l’ho sempre cercato [1984]

97 98 105 113 115 116 117 119 120 124 134 136 139 149 152 153 155 157 161 164 166 168 175 176 184 188 191 193 194 196 197 198 200 204 206 211 214 219 221 225 228 230 232

INDICE

69. 70. 71. 72. 73. 74. 75. 76. 77. 78. 79. 80. 81. 82. 83. 84. 85. 86. 87. 88. 89. 90. 91. 92. 93. 94. 95. 96. 97. 98. 99. 100. 101. 102. 103. 104. 105. 106. 107. 108. 109. 110. 111.

Ascoltate il vate della foresta [1984] E tu, poeta, salirai all’ultima stazione [1984] Tensioni e stupori di un cacciatore [1984] [L’ironia salva dall’enfasi] [1984] Il partigiano Giorgio [1984] La musica è la regola della mia poesia [1984] Un canzoniere dell’esilio [1984] Non mi sazio di guardar le stelle [1984] La nostalgia di narrare [1984] La poesia al servizio dell’uomo [1984] Mio Dio, perché non esisti? [1984] Come fare un’enciclopedia oggi [1984] L’infanzia, età pura dell’uomo [1984] Poeti al microfono [1985] Rigore significa evitare il tranello delle mode [1985] [La mia più remota ambizione era di fare il narratore] [1985] [Per scrivere poesia bisogna prima di tutto vivere] [1985] Perché scrivete? [1985] Eppur resiste [1985] Livorno è nostalgia di luce e fantasia [1985] [La poesia, come la musica, non si può spiegare] [1985] [Intervista su Ungaretti] [1985] Il poeta [1985] Le contraddizioni della poesia [1986] «O Lorenzo Da Ponte o il diavolo» [1986] [Intervista sul Premio Nobel] [1986] [Il poeta è il più strenuo difensore della singolarità] [1986] Parere sulla città di Ostia [1986] [Conversazione a Sanremo] [1986] Il poeta obbedisce a una vocazione [1986] Parere sul fumo [1986] In vacanza io porterei questi libri [1986] E dal grembo della Bestia nacque la nuvola nera di Chernobyl [1986] Il poeta dà la caccia alla Bestia nascosta [1986] Anche un poeta ha la sua Chernobyl [1986] Il poeta, la tromba e il flauto [1986] Chi è la Bestia [1986] [Conversazione a Biella] [1986] Poesia fatta in casa, come le tagliatelle [1986] La fine del libro-oggetto [1986] Aria del tenore [1986] Ciao, stella del mare! [1986] [Il tempo dell’Ermetismo] [1986]

9

239 245 248 252 257 259 262 268 270 272 273 280 281 284 288 289 292 297 298 301 305 308 311 312 315 316 317 320 321 325 329 330 331 333 335 338 340 343 347 348 349 351 358

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112. 113. 114. 115. 116. 117. 118. 119. 120. 121. 122. 123. 124. 125. 126. 127. 128. 129. 130. 131. 132. 133. 134. 135. 136. 137. 138. 139. 140. 141.

INDICE

Quando Penna vagabondava per la città [1987] Il poeta del vino si confessa [1987] Se la Musa è dentro di noi [1987] Parole che dissolvono [1987] Ma Roma è razzista? [1987] Vita da poeta [1987] All’origine della poesia di Caproni [1988] Intervento sul rapporto con il denaro [1988] Oltre la parola [1988] Il percorso poetico-musicale [1988] Come su un pentagramma [1988] Quattro domande agli scrittori italiani sulla televisione [1988] Interventi per il Trentennale del Trebbo poetico [1988] Ma i figli della tv non leggono versi [1989] Una straziata allegria [1989] Aspettando i cammelli tra le palme [1989] Puri distillati di versi [1989] Su e giù come un minatore [1989] Amore Amore [1989] Un uomo libero nella letteratura [1990] Sempre solo [1990] Con le parole sino al cuore della realtà [1990] Sono un musicista mancato che adesso fa il paroliere [1990] Il mio «Carissimo Pinocchio» [1990] Quel volto di poeta tagliente e affabile [1990] Poesia oltre la ragione [1992] La poesia, l’unica parola [1992] I miei versi nel vento [1995] [Uccel di bosco anziché di voliera] [1997] [Una poesia macchiaiola] [1998]

364 365 368 372 375 376 377 379 380 381 386 393 396 397 398 403 405 409 417 419 423 426 429 430 431 436 439 442 448 450

Notizie sui testi

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Indice dei nomi

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INTRODUZIONE LE MODULAZIONI DELLA VOCE TRA INTERVISTE E AUTOCOMMENTI

Qu’est-ce que dessiner? […] C’est l’action de se frayer un passage à travers un mur de fer invisible, qui semble se trouver entre ce que l’on sent et ce que l’on peut. Comment doit-on traverser ce mur, car il ne sert de rien d’y frapper fort, on doit miner ce mur et le traverser à la lime, lentement et avec patience à mon sens. Vincent Van Gogh, Lettres à Théo1 Voix L’opération qui consiste à tirer de ma douleur un chant magnifique […]. Paul Valéry2 Pascal afferma che il tono stesso della voce può alterare un poème. Trovare il tono giusto non è facile. Io odio il rumore delle parole, ma quando le parole sono ordinate da una loro legge logica come nelle scienze, o musicale come nella poesia, la voce umana mi attrae molto e vorrei che le poesie, anche da noi, venissero più di frequente incise su dischi o registrate su nastri. Giorgio Caproni3 1 La lettera di Van Gogh a Théo (La Haye, 22 ottobre 1882) è tra quelle citate anche da Antonin Artaud nel suo Van Gogh le suicidé de la société (Paris, Gallimard, 2001), ed è stata non a caso ripresa nella primavera-estate 2014 all’interno della bella mostra parigina organizzata dal Musée d’Orsay (Van Gogh / Artaud. Le suicidé de la société). 2 La citazione tratta dai Cahiers (Paul Valéry, Cahiers. Édition établie, présentée et annotée par Judith Robinson-Valéry, Paris, Gallimard, «La Pléiade», 1980, II, p. 422), sottolineando il contrasto tra disperazione e canto, negatività e sua immediata sublimazione, utilizza termini sui quali, non casualmente, hanno avuto occasione di soffermarsi alcuni tra i lettori privilegiati di Caproni: gli amici poeti Luzi e Pasolini. 3 La citazione proviene da un’intervista a Claudio Marabini: Poesia. Un bene-rifugio nell’età del consumismo, in «Il Resto del Carlino», 24 ottobre 1979 (ora, con il titolo Poesia: un benerifugio [Risposte a Claudio Marabini], in questo libro, al quale si farà riferimento con la sigla IA, seguita dal numero progressivo con il quale le interviste sono numerate nella raccolta). Il passo a cui Caproni fa riferimento citando Pascal è «Le ton de voix impose aux plus sages et change un discours et un poème de force», anche se in realtà sappiamo trattarsi di una riflessione mediata, nel caso di Pascal, dagli Essais di Montaigne. La memorizzazione della citazione caproniana non

Melissa Rota (a cura di), Giorgio Caproni. Il mondo ha bisogno dei poeti: interviste e autocommenti 1948-1990, ISBN 978-88-6655-676-3 (print), ISBN 978-88-6655-677-0 (online PDF), ISBN 978-88-6655-678-7 (online EPUB), © 2014 Firenze University Press

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ANNA DOLFI

1. «Je n’ai rien à dire»4 D’une manière générale, les interviews me sont assez pénibles et à un moment j’ai voulu y renoncer. Je m’était même fixé une sorte de «dernière interview». Et puis j’ai compris [que …] l’interview fait partie […] d’un jeu social auquel on ne peut pas se dérober […] d’une solidarité de travail intellectuel entre les écrivains, d’une part, et les médias, d’autre part […] à partir du moment où l’on publie, il faut accepter ce que la société demande aux livres […] il faut se prêter à l’interview, tout en essayant parfois de freiner un peu la demande5.

Così Roland Barthes, in un’intervista a «Lire» dell’aprile 1979. Continuando, in quello stesso contesto, il grande critico si sarebbe interrogato (come suo costume) sulle ragioni della propria resistenza, riconducibile al rapporto per lui esistente tra parola e scrittura, e alla necessità «d’une parole juste», in grado di rispondere a quel rapporto con la messa in atto di un’appropriata proporzione. Comunque, dal momento che quel che si vuol dire si può dirlo solo scrivendo, ridirlo parlando non poteva secondo lui che comportare una diminuzione. Sperimentata, sia in scrittura che in parola, con il rischio dell’afasia (o della chiacchiera, della logorrea, per certi versi equipollente), minaccia perpetua, d’après lui, per chi scrive. Qualche mese dopo, ma sempre nel 1979, Giorgio Caproni, in un pezzo che sarebbe stato all’insegna di una delle sue costitutive dimore vitali (Genova), avrebbe dichiarato di non volere «più parlare di me né della mia poesia»6. Il proposito era conseguente non solo, per dirla con Barthes, con una qualche tendenza all’afasia, divenuta segno caratteristico (tra i più intriganti per giunta) della sua terza maniera (quanto meno a partire dal Muro della terra), ma di un imbarazzo da sempre vinto soltanto in presenza di alcuni intervistatori amici. Appena pochi anni prima infatti, conversando con Enzo Fabiani, aveva esplicitato il proprio disagio e disadattamento («l’idea di dover parlare di me e della mia poesia mi mette in agitazione») in uno star male/dormire male nell’attesa dell’incontro7. Qualche anno dopo, a Luca Doninelli, avrebbe risposto di esse-

è comunque di poca importanza, anche perché rinvia a una lettura/rilettura del filosofo francese all’altezza cronologica dell’ultima produzione poetica. 4 Così Roland Barthes, in risposta e difesa, più o meno cosciente, alla pratica da lui definita traumatizzante dell’intervista (Roland Barthes s’explique. Propos recueillis par Pierre Boncenne), in «Lire», avril 1979 (ora in Roland Barthes, Œuvres complètes. Tome III 1974-1980. Édition établie et présentée par Éric Marty, Paris, Seuil, 1995, p. 1069). 5 Ibidem. 6 Genova, in «Weekend», VII, ottobre 1979, 42 (poi parzialmente in Genova di tutta la vita, a cura di Giorgio Devoto e Adriano Guerrini, Genova, San Marco dei Giustiniani, 1983, pp. 9-13; ora in IA 39). 7 «Trovo Giorgio Caproni inquieto. / Che hai? Che ti è successo? / Stanotte ho dormito male. / Perché, non stai bene? / No, è per via di questa intervista: l’idea di dover parlare di me e della mia poesia mi mette in agitazione» (Se mi lamentassi che poeta sarei?, a cura di Enzo Fabiani, in «Gente», 3 aprile 1981; ora in IA 49).

LE MODULAZIONI DELLA VOCE TRA INTERVISTE E AUTOCOMMENTI

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re contrario a ogni tipo di «commento e spiegazione» della poesia8. Eppure anche lui, così schivo e riservato, si era prestato al rito dell’intervista, piegandovisi (possiamo dirlo ormai, con questo libro di Interviste e autocommenti alla mano) per oltre centocinquanta volte, rinunciando dunque, se prendiamo alla lettera il suo dichiarato malessere, ad almeno cinque mesi di sonno tranquillo nell’arco di un quarantennio9. Con una percentuale di insonnia indotta, a conti fatti, non esorbitante, ma che sfiora comunque l’1%; sì da meritare in risarcimento quel lettore non superficiale, destinatario inscritto nelle risposte/conversazioni con un qualche intento esplicativo10, capace di collocarsi, come l’autore richiede, al centro di un discorso poetico che si propone – nella nostra civiltà tecnologica che sembra sancire la fine della letteratura – di avvicinare alla poesia11, toccando «il cuore»12, e facendo, grazie alla vibrazione di quella corda13, durare l’opera, e conseguentemente il poeta. Già che Caproni (per averla sperimentata su di sé come lettore) è convinto che «soltanto nel rapporto vivente poeta-lettore» la poesia «trovi il suo reale valore»14, e che perfino «Dante esisterà finché ci sarà un lettore sulla Terra che lo leggerà. Quando non c’è più un lettore che lo legge, in sé non esiste»15. Non c’è altro modo per esistere dunque che generare idee e provocare emozioni16 tramite quanto il discorso poetico ha di più inafferrabile e imprendibile, ovvero «la musica della parola»17. Per quella musica scritta, calata su carta, Caproni pretende il massimo ascolto, teorizzando non solo la necessità della stampa, ma quella della lettura e del commento da parte di chi può vedere l’opera ormai alla pari di colui che l’ha fatta e che (con un vezzo depistante e cortese tipico degli scrittori, sul quale personalmente avanzerei più di un dubbio), dichiara di non saperne dire necessariamente di più. Se la grandezza del lettore (come vuole Leopardi, e forse anche Proust, da Caproni citato18) sta nella capacità di captare il messaggio, quella dell’autore sarà allora nell’inventarsi il lettore necessario, fingendolo, anche ove carente,

«Ho finito, proprio qualche giorno fa, di scrivere la risposte di un’intervista in cui mi si chiedeva, tra l’altro, di spiegare alcune mie poesie inedite. Ho risposto che sono contrario ad ogni commento e spiegazione» (Mio Dio, perché non esisti?, in «Avvenire», 29 novembre 1984; ora in IA 79). 9 L’arco delle interviste rilasciate da Caproni va infatti dal 1948 al 1990. 10 Si pensi in particolare a La poesia e i ragazzi (IA 2). 11 Cfr. [Essere un poeta facile], IA 7. 12 Ivi. 13 Ma non si scordi che una corda suscettibile di vibrazioni è anche quella della funicolare. 14 Cfr. Sette domande sulla poesia (IA 9). 15 [Ritratto d’autore. Risposte a Giorgio Albertazzi] (IA 27); ma in proposito si veda anche Ascoltiamo i nostri poeti (IA 43). 16 Settimo giorno [Risposte a Enzo Siciliano], IA 28. 17 Cfr. per questo Su e giù come un minatore (IA 129). 18 Evocato da Caproni in [Il fine ultimo del poeta è solo quello di far poesia (IA 35)]: «Mi par che sia stato Proust a dire che il lettore di un poeta in fondo non fa che leggere se stesso». 8

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ANNA DOLFI

come un’imprescindibile alterità. Al suo lettore Caproni chiederà di essere dotato di «intelligenza o sensibilità»19, di maturità ed esperienza (giacché non si capisce che ciò che si è sentito, sia pure a livello inconsapevole), e di avere con lui, con il mondo in cui vive, una qualche cultura comune. Se «la poesia esiste (vive) sempre e soltanto nel rapporto fra il testo e il lettore»20, il poeta non può che volere, cercare il colloquio: Lo scrittore vuole il colloquio. Lo scrittore sa che un’opera, una volta stampata, esiste soltanto nel rapporto testo-lettore. Ma se il pubblico non c’è, lui se lo inventa. Scrive (deve scrivere) come se il pubblico ci fosse, e tale da saper captare il suo messaggio. Sta in questo la sua dignità21.

Alla sua dignità/verità il compito di perdurare nella ricerca e di «costringere il lettore» (di cui parlerà in più di un’occasione come del suo «unico collaboratore diretto») a seguire struttura, metri (fondamentale in questo senso, per il Novecento, la lezione ungarettiana), alonature, armonici della poesia, obbligando a un nuovo linguaggio, educando alla sua interna dizione. Fino al punto (il caso personale delle ultime opere, Conte di Kenkhüller in testa) di lasciargli la responsabilità dell’interpretazione, mantenendo aperta la soluzione dell’enigma (cosa sia la Bestia, cosa la res amissa, cosa il Bene…). Dopo avergli affidato (per via di dichiarata confessione) quanto può essere detto delle dimore vitali (le ritornanti Genova, Livorno), delle figure lariche (Anna Picchi e Attilio), delle passioni giovanili (il violino), dei ripetuti tradimenti (visto che ogni allontanamento è abbandono), delle ferite immedicate (Olga, la guerra), delle predilezioni e idiosincrasie di lettura, delle denuncie (quella verso un maestro impietoso che legge un «libro tremendo», Cuore, atto solo a formare piccoli e acquiescenti funzionari dalla vocazione masochista22), delle straordinarie descrizioni di città, di paesaggi (Livorno «malata di spazio», con il trifoglio nero nei campi vicino al cimitero e i becolini con il loro carico di semi di lino dall’aroma polveroso23), della proustiana introiezione del passato nella «carta velina della memoria»24. E anche dell’emozione suscitata dalla poesia che conserva la coerenza del proprio dettato e verifica quella verità che si nutre in primis della fedeltà a se stessa (e alla propria necessità), quando a nutrirla c’è, da parte di chi ha le qualità per praticarla e/o fruirla, la lentezza, la contemplazione, l’esperienza di cultura e di vita, una lunga e matura abitudine che serve a liberarsi e a liberare da ogni abitudine.

19 20 21 22 23 24

Domande su Esenin e Ungaretti (IA 37). Luoghi della mia vita e notizie della mia poesia (IA 51). Oggi serve ancora scrivere? [Risposte a Domenico Porzio], IA 29. Io genovese di Livorno (IA 1). Ivi. «La mia infanzia livornese è ancora tutta in me»; «Livorno è in me» (ivi).

LE MODULAZIONI DELLA VOCE TRA INTERVISTE E AUTOCOMMENTI

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Avendo scelto, Caproni, consapevolmente, nella pratica quotidiana, tra la nudità dei dati biografici e il romanzo dell’esistenza25, una via intermedia che consiste nel vivere e mostrarsi senza esibizione, con serietà e coraggio, con quella necessaria propensione al silenzio che non esclude la civile comunicazione, ecco che le interviste proprio in questa direzione ci restituiranno, al di fuori di ogni retorica e di ogni gigantografia, le grain de la voix, le grain de la vie di un intellettuale «eretico», libero nelle scelte e nella determinazione del proprio destino (anche di poeta, una volta ricordato che la poesia non è per lui un lavoro, ma una chance e un azzardo26), nell’obbedienza al proprio timbro, e a un carattere che solo «da dentro» fa scaturire la propria ragione27. Se il poeta, naturaliter impegnato, fedele all’ispirazione che lo fa capace di tentare e rischiare, parla la lingua di tutti, rendendola diversa e ad un tratto rivelatrice; le sue risposte ci parleranno di quanto lo differenzia e di quanto ha in comune con gli altri: la commozione e l’indignazione per inaccettabili fatti politici (l’esecuzione dei Rosenberg…), la preoccupazione per un mondo disumanizzato, l’attaccamento alla famiglia, al lavoro. Mentre una sottile malia si desta in noi nel trovare in queste pagine troppo a lungo dimenticate i segni della formazione (Mazas, Kreutzer, Fiorillo…); il «tremore» che stroncò una carriera con l’esecuzione della Méditation nella Thaïs di Massenet, lasciando in compenso gli scatti nervosi del violinista al piglio dei versi a venire; nel seguire il poeta per le strade di Genova; nello scoprirlo garbato contestatore di ogni accomodante acquiescenza, anche di quella della, in definitiva innocua, gabbia/«uccelliera» rappresentata dalla società letteraria. Nel ritrovarlo anche quando si confronta sui dialetti e sulla traduzione, sui premi letterari e sulle amicizie romane, sulla nostalgia pungente di una Genova che ha il sapore della giovinezza, e ci parla della sua litania, e della costruzione dei sonetti monoblocco, dissonanti, stridenti, così intimamente, prepotentemente caproniani. 2. Le chant de hasard 28 Pochi termini come quello di voce vengono usati abitualmente per indicare/riconoscere la presenza della poesia. Attribuire a qualcuno «voce di poeta» (come farà Caproni nel 1951 per il giovane Pasolini29, o nel 1986, ricordando Cfr. Premio Marzotto 1954-1955-1956 (IA 6). Cfr. Due domande a Giorgio Caproni (IA 13). 27 Cfr. Polemico premio senza vincitore (IA 10). 28 Così Paul Valéry nei suoi Cahiers chiama un canto sentito all’improvviso che commuove profondamente, giacché corrisponde a una cosa lontana, dimenticata, depositata nel fondo dell’essere: «sentiment d’un degré dont la vie ne peut jamais approcher» (P. Valéry, Cahiers cit., I [1983], p. 53). 29 L’espressione proviene da un’intervista, Incontro con un poeta, in «Alfabeto», 15-30 novembre, 1951, 21-22 (poi anche in «Il Lavoro nuovo», 1 marzo 1952; recentemente riproposta in G. 25 26

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l’impatto con La Barca di Luzi) significa inscriverlo nello spazio dell’improvvisa, miracolosa apparizione di un’emozione («nel mio cuore che tuffo», si leggerà in Res amissa30), destinata a durare nel tempo, in grado di restituire, per via di sole parole, la natura, l’essenza «della vita»31. Parlare poi (come inevitabile nel contesto) di timbro, di tono, significa individuare in una pronunzia quanto la fa squisitamente individuale, riconoscibile dalle altre per novità e verità. Una novità fatta spesso (a parte alcuni casi di evidente e clamorosa rivoluzione formale) soprattutto dalla capacità di investire il «favoloso», il «privato», di una forza categoriale misurata nell’adesione ad un proprio linguaggio da scoprire, per poi «risvegliarlo» negli altri, grazie a quella connessione goethiana tra poesia e verità che tanto aveva colpito Caproni quando, «da ragazzo», assieme a Verne, aveva letto nelle edizioni Sonzogno l’Autobiografia del giovane autore tedesco32. Dare voce a un’intima pulsione che si interroga sulla possibilità di conoscere le cose e la ragione del mondo oltre il punto a cui anche la capacità razionale può condurre da sola, è quanto lo porta a modulare il canto in una parola che gli si configura come «vera voce del profondo»33, facendo della pagina il luogo di qualcosa che non è più neppure il «surrogato della musica tradita»34, ma la necessitata creazione di un’altra, complessa musica, diversamente parlante35: La mia ambizione, o vocazione, è sempre stata un’altra: riuscire, attraverso la poesia, a scoprire, cercando la mia, la verità degli altri: la verità di tutti. O, a voler essere più modesti, e più precisi, una verità (una delle tante verità possibili) che possa valere non soltanto per me, ma anche per tutti quegli altri «mézigues» (o «me stessi») che formano il mio prossimo, del quale io non sono che una delle

Caproni, Prose critiche 1934-1989, a cura di Raffaella Scarpa, Torino, Nino Aragno, 2012, I, pp. 459-461, prima di essere raccolta in IA 3). 30 Cfr. A Ettore Serra (in Res amissa. I testi poetici di Caproni saranno ogni volta implicitamente citati, senza bisogno di ulteriori rinvii, dal volume dell’Opera in versi. Edizione critica a cura di Luca Zuliani. Introduzione di Pier Vincenzo Mengaldo. Cronologia e Bibliografia a cura di Adele Dei, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 1998). 31 Caproni parlerà di un sussulto alla lettura della poesia, attribuendo a quell’emozione un effetto analogo a quello di una fucilata che potrebbe anche uccidere (cfr. «L’anno era il 1942: l’anno più chiuso a ogni nostra speranza; e io non so ridire l’emozione, la commozione – mentre il mio zaino era pieno di bombe e di buio – che mi colse al suono di quelle limpide sillabe […]. Mi batteva il cuore: più d’una fucilata m’avrebbe ucciso, quella notte all’addiaccio sotto una luna gelida che pur bastava a illuminarmi la furtiva lettera, una delusione. Ma non ci fu nessuna delusione […] era la voce d’un poeta quella che, per un miracolo, mi aveva raggiunto in così nera circostanza. Era la voce – viva – della vita»: Incontro con un poeta, IA 3). 32 Cfr. Settimo giorno [Risposte a Enzo Siciliano], IA 28. 33 Si veda, a livello di testimonianze d’autore, «chi crede che la poesia sia l’unica parola, la vera voce del profondo, continua a comprare versi», nell’intervista rilasciata a Luigi Amendola (La poesia, l’unica parola, IA 138). 34 Di «musica tradita» parla Caproni anche in un’intervista del 1957, ora riproposta con il titolo Premio Marzotto 1954-1955-1956 (IA 6). 35 Per la poesia come «voce parlante» cfr. l’intervista Poesia: un bene-rifugio (IA 38).

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tante cellule viventi. / Il poeta è un minatore, certo. È poeta colui che riesce a calarsi più a fondo in quelle che il grande Machado definiva las secretas galerías del alma, lì attingere quei nodi di luce che, sotto gli strati superficiali, diversissimi tra individuo e individuo, sono comuni a tutti, anche se pochi ne hanno coscienza36.

Che poi, nell’un caso come nell’altro (quello dell’originario violino, come quello della poesia; o del loro imprevedibile e magico incontro37), il frantumato (necessario allo scavo nelle secretas galerías del alma) tenda all’afasia, è solo il segno di una leopardiana spoliazione dalle illusorie speranze, già che (per richiamare la verdiana Violetta, non a caso citata in un’altra intervista dal nostro poeta) si vive, anche nel migliore dei casi (Parigi), in un «popoloso deserto»38, ed è nel/ dal/per il deserto, o quasi, che ci si rivolge a… Misurando le parole, riducendole al minimo, per esaltarne il senso ridimensionando il rumore, sì da diminuire (si potrebbe dire, con un sintagma gattiano), se non «la vergogna», la fatica, la stanchezza, del loro «esser dette»39. Che accompagna il poeta – per antonomasia «cacciatore di verità»40 – fin dalle origini, se già nella giovanile Come un’allegoria – a proposito di quanto si può dire della voce del mondo – il sinestetico «fiato del fieno» era stato «acre», e la bocca «assopita», le cose «scipite»41; se perfino nel ricordo, «nell’ora in cui l’aria s’arancia», si «scheggiava ogni voce / sotto l’arcata del cielo»42, lasciando solo l’eco dei canti43 (perfino quello del «confuso» «vociare»44 nel vino), che si fanno «balbettanti parole» all’affacciarsi dell’alba45. Il fatto è che la voce, quando appare oggettivata, nella poesia di Caproni, è per definizione «in fuga»46, talmente leggera da potere essere portata via dalla brezza47; mentre quella che dice, con funzione soggettiva (e dunque meta-poetiLuoghi della mia vita e notizie della mia poesia (IA 51). Si pensi alla memoria di passi musicali (Beethoven, Schubert…) talvolta inscritta, a detta (o per riconoscimento) dell’autore, nel sottotesto dell’opera poetica (ma per una ricerca in questa direzione si veda adesso il bel libro di un mio allievo, Lorenzo Peri, Là dove non esiste paura. Percorsi e forme del “pensare in musica” di Giorgio Caproni, Firenze, SEF, 2014). 38 Cfr. per questo l’[Intervista su Ungaretti] del 3 dicembre 1985 (IA 90). 39 Il riferimento è all’Alfonso Gatto di Fummo l’erba, che non a caso propone, sub specie di ermetismo, la poetica di una generazione (ma in proposito si veda adesso Anna Dolfi, L’ermetismo: una generazione, in Visitare la letteratura. Studi per Nicola Merola, a cura di Giuseppe Lo Castro, Elena Porciani, Caterina Verbaro, Pisa, ETS, 2014, pp. 91-99). 40 Questo il titolo di una bella intervista rilasciata a Luciano Luisi (Il cacciatore di verità, IA 59). 41 Le citazioni vengono rispettivamente dalle prime poesie della raccolta (d’ora in poi CA, così come si presenta nella sua ultima sistemazione): Marzo e Alba. 42 Cfr. Ricordo (CA). 43 Cfr. Vespro (CA). 44 Cfr. Borgoratti (CA). 45 Cfr. Prima luce (CA). 46 Cfr. Nudo e rena (in Ballo a Fontanigorda, d’ora in poi BF). 47 Cfr. San Giovanbattista (CA). In un altro testo, «Tu che ai valzer d’un tempo», le canzoni saranno «diroccate dal vento» (in Cronistoria, d’ora in poi C). 36 37

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ca), appare, anche nei casi di più dispiegata cantabilità, dubitosa di sé e del proprio avvicinarsi a una verità che – unendo in comunità sostanziale autore e lettore48 – non può che rinviare al fondo dell’io. All’esterno non ci saranno che i suoni delle «sere silvane»49 e le campane della speranza per resistere50 alle parole che accompagnano il transito, anche nella memoria51; mentre all’interno la difficoltà del dire, che progressivamente, in percorso ascendente, si istalla, porterà, in un’urgenza di spoliazione, a sognare «poesie di una sola parola»: Oggi sono stanco del rumore delle parole e sogno poesie di una sola parola52. Il mio ideale sarebbe di scrivere poesie di una parola sola. Il rumore delle parole, della loro sovrabbondanza mi ha stancato presto53.

Né la cosa stupisce, se si ricorda che all’origine, a giustificare la nascita della poesia, sta la perdita della voce («Non più la dolce voce / del tuo canto di sera / dona la tua figura / all’aria»54; «la tua voce distrutta»55), insieme a quella del nome56, inghiottiti entrambi «dentro la notte»57, nell’oblio di quanto accompagna ogni transito al cui andare non si può opporre l’«alt». A squillare forte nella poesia – insieme a pochi nomi, a poche parole – non saranno allora che il canto del gallo58, che ricorda il tradimento, e il tempo diviso59 (esemplare il refrain che chiude ogni lassa delle Bicliclette, o quello che sigilla l’inesorabile procedere della funicolare del Righi); il «cupo colpo d’un portone / sbattuto»60 o il basso e patetico parlottio di «uomini miti»61. Diversamente gli stornelli, le litanie, prevederanno soprassalti nella voce contrapposti al parlare sommesso, interno, di una diversa preghiera: quella che guida/

48 «[…] funzione del poeta è quella – oggi come sempre – di riuscire ad attingere nel proprio io quelle verità che sono di tutti» ([Il fine ultimo del poeta è solo quello di far poesia], IA 35). 49 Cfr. Ballo a Fontanigorda (BF). 50 Cfr. A Rina (BF); ma si veda anche «Ma le campane concordi» (C). 51 Si pensi, nella lirica (in memoria), dedicata Ad Olga Franzoni, a «qui dove bassa / canta una donna china / sopra l’acqua che passa» (BF). 52 E tu poeta salirai all’ultima stazione (IA 70). 53 [Conversazione a Sanremo] (IA 97). 54 Mentre senza un saluto (in Finzioni, d’ora in poi F). 55 Strascico (in Il passaggio d’Enea, d’ora in poi PE); ma di «parole morte» parlerà anche il primo e il secondo dei Lamenti (PE). 56 «Quale debole odore» (C). 57 Giro del Fullo (F); ma si vedano, in C, anche i Sonetti dell’anniversario. 58 Cfr. il XVI dei sonetti dell’anniversario (C) . 59 Ma per una lettura del ricorrente tema della colpa mescolata al ricordo e alla malinconia sia consentito il rimando all’insieme dei saggi raccolti ora in A. Dolfi, Caproni, la cosa perduta e la malinconia, Genova, Edizioni San Marco dei Giustiniani, 2014 (in particolare il primo capitolo). 60 Cfr. «Pastore di parole, la tua voce» (PE). 61 Cfr. All alone (2. Versi), PE.

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induce l’anima a farsi messaggera d’amore62, conducendo colui che ha perduto in prossimità dell’oggetto del pianto, o diversamente portando quest’ultimo (la cosa, la persona perduta) nel luogo del congedo dagli altri e da sé. Di gridato non rimarranno, in mezzo ai fischi del guardiacaccia e agli spari, che l’«Attenti»63 e gli addio lanciati al vuoto, visto che per parlare ai morti non serve altra voce, e in ogni caso non c’è nessuno per ascoltare/rispondere. Quasi basso continuo all’orecchio rimbalza piuttosto l’interno rimescolio che frange le voci perdute, e articola (soprattutto a partire dal Muro della terra) con quella scheggiata materia singolari monologhi o dialoghi al limite dell’assurdo. «Battendo»/creando però, in tal modo (alla maniera di Campana64), l’unica voce possibile, quella della poesia (luminosa portatrice di una profonda verità, che pochi, oltre ai poeti, sanno di possedere65) in grado di dare forma ai nomi e di bucare il silenzio. Parlando nello schema sottinteso, necessario della complementarità, dell’impotenza dell’altra voce, quella che inutilmente cerca di dire, ricevendo sassate66, e che, quando non è ricettacolo della «preda»67, si rifugia in coretti che con fare scherzoso si bloccano in stallo sul sospetto dell’inesistenza o della morte di Dio68. Spingendo di nuovo ai limiti di quel silenzio che sta prima e dopo la parola, dentro la forza della sua stanchezza69: Sono per una poesia scarna. Il minor numero possibile di parole. È un versificare frantumato: versi talvolta di una parola sola o di due parole. Odio il rumore delle parole. Forse sono stanco della mia stessa voce70.

3. «La voix est un organe de l’imaginaire»71 Alto, magrissimo, il «grande livornese» somiglia a un capitano di mare che abbia perduto la nave in chi sa quale tempesta; e più ancora alla statua gotica di

Cfr. Preghiera (in Il seme del piangere). Cfr. Prudenza della guida (nel Congedo del viaggiatore cerimonioso); ma si veda anche il terzo tempo (Idillio) della Poesia per l’Adele (in memoria) nel Franco cacciatore (d’ora in poi FC). 64 Si veda il famoso Omaggio a Campana: Batteva (nel Muro della terra, d’ora in poi MT). 65 [Il fine ultimo del poeta è solo quello di far poesia], IA 35. 66 Cfr. Sassate (MT). 67 Cfr. La preda (nel Conte di Kevenhüller); ma si veda anche, ivi, Io solo; Di un luogo preciso, descritto per enumerazione. 68 Così in particolare nel Franco cacciatore, con il conseguente invito a sparare (in particolare nel Conte di Kevenhüller). 69 Per la componente leopardiana di questa stanchezza del dire sia consentito il rimando ad A. Dolfi, Sul principio di non contraddizione. Qualche nota aggiunta su una dialettica improgressiva, in Leopardi e il Novecento. Sul leopardismo dei poeti, Firenze, Le Lettere, 2009. 70 Disperato ma con calma e ostinazione (IA 54). 71 L’espressione è prelevata da Le grain de la voix di Barthes (per quanto il grande critico fosse attento all’interazione tra voce e biografia cfr. la scheda di un suo corso del 1974, in Œuvres completes cit., III, pp. 55-56). 62 63

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un eremita che si maceri per i suoi immaginari peccati di gioventù. Il sorriso è amaro e un po’ ironico; la voce tranquilla e aspra; gli occhi, che sembrano fissare al di là dell’interlocutore, esprimono una melanconia che potremmo definire azzurra. Il carattere, infine, è ruvido, ma l’anima è ricca di fiori. Diciamo che Caproni ricorda il biancospino.

Così Enzo Fabiani, nell’introdurre l’intervista Se mi lamentassi che poeta sarei? (IA 49). In modo più asciutto e meno pungente (visti i biancospini), entrando di più nel merito della voce, che è qui quanto interessa, Luciano Luisi, in Ascoltiamo i nostri poeti (IA 43), parla di tenerezza nei confronti di una voce «rattratta»: Mi intenerisce, della sua voce, quella cadenza toscana, ma un po’ rattratta come è quella dei livornesi, di noi livornesi, mi vien fatto di pensare, ricordando anche i progettati viaggi insieme in questa nostra città odorosa di acque stagnanti nei fossi

mentre Marabini, in Caproni il poeta dell’esilio (IA 50), ricordando che l’autore «non ama parlare della sua poesia», ne sottolineava l’amara tonalità musicale («“Che posso dire io?”, chiede con la voce amara e musicale»). Riferendosi alla lettura di due poesie del 1970 dallo stesso nome (Via Pio Foà), Renato Minore ricorda che Caproni «le legge con quella sua voce di gola che conserva un inconfondibile timbro ligure: le parole sembrano ancor più essenziali e non rattrappite, ma mirabilmente condensate intorno alla nuda verità di una improvvisa folgorazione che regola la musica interna e inesorabile della versificazione»72. Di voce «secca e tremante» parlerà invece Antonio Socci73, mentre Domenico Astengo seguirà la partitura di una poesia attaccata «con slancio giovanile» da una voce «ferma, senza incrinature»74. Si potrebbe anche continuare, ma le esemplificazioni sono credo già sufficienti per mostrare nella loro variabilità (anche solo a mettere in sequenza gli aggettivi: tranquilla, aspra, tremante, ferma, rattratta, non rattrappit[a], toscana, livornese, ligure, amara, musicale, di gola, secca…) quanto sia soggettiva (oltre che legata allo status, all’età, dunque anche a qualche innegabile fattore, nel tempo, di mutamento) la percezione della voce. Eppure ognuno di questi ritratti è a suo modo fedele, nell’attenzione al timbro, all’altezza (piuttosto che all’estensione, all’intensità). Forse perché, oltre quella reale, concreta, o meglio anche tramite quella, finisce per colpire l’interna voce mentale di cui Valéry parlava come di un sinonimo della poesia75. Già, perché a differenza di Mallarmé, qui «voulait

In via Pio Foà, con candore e con sgomento (IA 60). E tu poeta salirai all’ultima stazione (IA 70). 74 Parole che dissolvono (IA 115). 75 «[…] la voix intérieure ne supporte que les paroles dont le sens est secrètement d’accord avec l’être vrai» (P. Valéry, Cahiers cit. II, p. 1076). 72 73

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que ce fût le Language» a parlare, Valéry pensava all’anteriorità della voce, dunque per certi versi alla priorità dell’Essere vivente e pensante. Basti ricordare: Mais, au fait, qui parle dans un poème? Mallarmé voulait que ce fût le Langage lui-même. / Pour moi – ce serait – l’Être vivant et pensant […] sur la corde de la voix. En somme, le Langage issu de la voix, plutôt que la voix du Langage76.

Per quanto sussurrata (per quanto sommessa) dunque la voce delinea «sur la corde» dell’intonazione un assetto specifico, che si può descrivere arrivando a un parallelismo/fusione di dedans e di dehors. Là dove la distinzione pare annullarsi (il caso delle letture che il poeta fa della propria poesia: Anima mia leggera77) con tutte le asperità e dissonanze di una secca pronunzia che si ripercuotono sulla dolcezza del verso e viceversa. Sì che si potrà parlare o leggere indifferentemente il discorso come proprio di quella natura che muove la voce dall’essere al linguaggio. Portando dall’esterno all’interno dell’io anche l’esilio, unificando i quattro temi (città, madre, viaggio, esilio) che Raboni, con acuta e precoce intelligenza critica, aveva posto a includere l’intero arco dell’opera caproniana: I tre temi […] sono ineccepibilmente giusti, tanto più che Raboni […] non li vede come temi isolati e distinti, ma come temi riducibili a un comun denominatore: quello dell’esilio, che davvero abbraccia l’intero arco della mia opera. Esilio da che? […] dallo spazio (la città), dal tempo passato (la madre), dalla vita (il viaggio) […]. Ma il mio esilio è ancora un altro: è l’esilio da me stesso. Il continuo esser messo fuori di me stesso dall’incalzare del tempo, e più ancora dalla nostra medesima sostanza di uomini, mai certi di essere noi stessi e in noi stessi, nonché dalla nostra continua insicurezza di «esserci» in quello che comunemente viene detto «il reale»78.

Non è un caso che proprio su una pagina raboniana si possa verificare – ove si sostituisca con voce il sema poesia, che propongo in corsivo, e viceversa – la funzionalità della doppia valenza e dello scambio: […] la poesia di Caproni ha un assetto ritmico e sintattico veramente specifico e tipico, in forza del quale la pronuncia […] appare come una delle più originali e inconfondibili nella poesia italiana di questo secolo. Mi riferisco, è chiaro, a quel ritmo ansioso e turbinoso, apparentemente cantabile ma in realtà irto di sottili inceppamenti, décalages, dissonanze, che dà alla voce di Caproni una sorta di strascicata e trascinante dolcezza nevrotica. Dal punto di vista metri-

P. Valéry, Cahiers cit., I, p. 293. Non a caso uno dei testi più ricorrenti (cfr., in IA, rispettivamente 6, 34, 49, 115: l’intervista per il Premio Marzotto; Una sofferta solitudine; Se mi lamentassi che poeta sarei?; Parole che dissolvono). 78 Cfr. l’intervista a Claudio Marabini, Caproni il poeta dell’esilio (IA 50). 76 77

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co, Caproni finge o mima, spesso, il rispetto di forme tradizionali: ma non ci vuol molto ad accorgersi che i suoi settenari hanno, molte volte, otto o nove sillabe, che le sue rime sono non di rado paradossali o parodistiche, che il suo uso dell’enjambement (la sua tendenza a infrangere la corrispondenza tra frase e verso, tra l’unità di senso e unità di ritmo) è così frequente da diventare una regola, la sua regola79.

4. La variazione continua «La verità in assoluto è irraggiungibile»80, e allora, per approssimarvisi, non si può che ripetere. Ripetere e variare, come nel passaggio tante volte evocato dall’Allegro al Grave, allo Scherzo, al Lento, all’Adagio, al molto Adagio del Quartetto in La minore opera 132 di Beethoven81 («Io di questo Quartetto ho voluto seguire il sistema che in musica si chiama della variazione continua»82) o dell’Arte della fuga di Bach, di cui l’autore confessava di avere subito, scrivendo il Conte, forse inconsciamente, la suggestione83. Ma non solo a partire da lì, se qualche tempo dopo la variazione si sarebbe estesa all’ideazione del Franco cacciatore84, per proiettarsi poi nel futuro, in direzione di Res amissa85. Mentre i versi si facevano più brevi, le poesie più frammentate, e dislocate, anche nello spazio della pagina… Perché? Solo «per essere incisivo al massimo», per essere «percutant», come hanno scritto i francesi?86 Forse, piuttosto, perché la narratività che era stata dentro la scrittura non obbediva più a un logos del quale aveva attuato la decostruzione, ma cercava per altra via la propria verità. «Toutes le déterminations méthaphisiques de la vérité» (perfino quelle che rimandano alla verità heideggeriana) «sont plus ou moins inséparables de l’istance du logos», ha scritto Derrida, riflettendo su Le signifiant et la verité 87. Ora quanto interessava a Caproni era risalire al legame originario con la phonè, nel logos inscritta, ma troppo spesso perduta, che si può ritrovare solo quando ci si riavSi tratta di un testo di Raboni pubblicato su «Paragone» nel dicembre 1977, ripreso poi nell’introduzione all’antologia caproniana L’ultimo borgo (1980), infine affidato (in un’ultima revisione) alla parte conclusiva dell’edizione, negli «Elefanti», delle Poesie (Milano, Garzanti, 1989, pp. 796-797, da cui si cita). 80 Così Caproni, in Poesia e condizione umana (IA 57). 81 Cfr. Il poeta dà la caccia alla Bestia nascosta (IA 102). Ma per un’analisi di questo aspetto della poesia e poetica caproniana si veda ormai L. Peri, Là dove non esiste paura. Percorsi e forme del “pensare in musica” nella poesia di Giorgio Caproni cit. 82 Il poeta dà la caccia alla Bestia nascosta (IA 102). 83 Cfr. Anche un poeta ha la sua Chernobyl (IA 103). 84 Cfr. All’origine della poesia di Caproni (IA 118). 85 Cfr. Una straziata allegria (IA 126). 86 E come ricordava l’autore, in Oltre la parola (IA 120). 87 Nel primo capitolo del De la grammatologie (Paris, Les Éditions de Minuit, 1967) dedicato a La fin du livre et le commencement de l’écriture. 79

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vicina al senso, a ciò che, con una certa libertà, si può interpretare con quanto è tangibile. Con quanto trascorre da una voce all’altra, senza dimenticare il corpo, gli spazi, i luoghi, i silenzi nei quali la stessa voce (quella umana, quella poetica), si è poi costituita. «Si, pour Aristote […] “les sons émis par la voix […] sont les symboles des états de l’âme […] et les mots écrits les symboles des mots émis par la voix” (De l’interprétation 1, 16 a 3), c’est que la voix, productrice des premiers symboles, a un rapport de proximité essentielle et immédiate avec l’âme. Productrice du premier signifiant […]»88. Le interviste, insomma, con il Derrida «aristotelico» della Grammatologie (là dove si parla del commencement de l’écriture), potremmo anche leggerle come il luogo della voix, di una voce straordinariamente vicina all’essere: «de la voix et du sens de l’être, de la voix et de l’idealité du sens»89. Anna Dolfi

88 Ivi, p. 21. Sul Derrida della Grammatologie I, 2, riflettendo sulla aristotelica voce del Logos, ha avuto occasione di soffermarsi anche Adelia Noferi, in uno splendido saggio, Le figure della voce, raccolto in Adelia Noferi, Soggetto e oggetto nel testo poetico. Studi sulla relazione oggettuale, Roma, Bulzoni, 1997, [pp. 291-304], p. 292. 89 J. Derrida, De la grammatiologie cit., p. 22.

NOTA AL TESTO

Presentiamo qui la raccolta delle interviste rilasciate da Giorgio Caproni dagli anni Quaranta fino al 1990, anno della sua morte1. In totale avrebbero dovuto essere 154 pezzi (inclusi autocommenti e inchieste) tra editi e inediti, se ne sono recuperati 141 grazie a uno spoglio diretto di quotidiani e riviste e al controllo e trascrizione di quanto conservato a Firenze nei Fondi Caproni dell’Archivio Contemporaneo A. Bonsanti del Gabinetto G.P. Vieusseux e della Biblioteca Nazionale, o nell’Archivio delle Teche RAI. Dal censimento complessivo soltanto tre articoli sono sfuggiti al reperimento a causa di qualche errore di datazione o di titolo trasmessosi di bibliografia in bibliografia, che ha fatto sì che le nostre ricerche in intere annate non abbiano dato alcun risultato2. È stata impossibile anche la consultazione di due articoli presenti unicamente all’Emeroteca della Biblioteca Nazionale di Firenze presso il Forte Belvedere, al momento non agibile3. Quanto al materiale di genere audiovisivo trasmesso dalla RAI, abbiamo ritrovato quattordici interviste4; non è stato tuttavia possibile 1 La ricerca dei testi è stata condotta utilizzando la recente e documentatissima bibliografia caproniana Giorgio Caproni. Bibliografia delle opere e della critica (1933-2012), a cura di Michela Baldini, con una nota di Attilio Mauro Caproni, Bibliografia e Informazione, Pontedera (Pisa), 2012. A questo importante lavoro si aggiungono ora nuovi materiali inediti o non segnalati precedentemente conservati presso l’Archivio A. Bonsanti di Firenze e due interviste a cura di Silvio Riolfo Marengo, pubblicate sull’ultimo numero di «Resine. Quaderni liguri di cultura», XXXII, 2012-2013, 134-135, pp. 67-69, 70-72 (si vedano intra le interviste [97] e [106]). 2 Nello specifico si tratta dei testi: I grandi lettori consigliano, in «La Repubblica», 13 dicembre 1984 (poi in «Il Segnalibro» supplemento a «Il Messaggero», 3 dicembre 1986); Dichiarazioni di Caproni su “Il Conte di Kevenhüller”, a cura di Laura Lilli, in «Oggisud», 8 luglio 1986; Son targato 1912, in «Il Tirreno», 6 agosto 1988. 3 Si tratta di Dialogo col grande Caproni, a cura di Francesco Scarabicchi, in «Il Resto del Carlino» di Ancona, 9 agosto 1981 e Che dicono, che fanno, in «Il Tempo», 26 settembre 1980. 4 In particolare le interviste televisive: Tra Genova e Livorno, in «L’Approdo» 6 dicembre 1965, 93; Intervista per il Premio Viareggio, 1965; Intervista ai giudici del Premio Viareggio 1973, in «Un’ora con Leonida Rèpaci», aprile 1973; Ritratto d’autore. I poeti: Giorgio Caproni, a cura di Franco Simongini, con Giorgio Albertazzi, 17 ottobre 1975; Settimo giorno, a cura di Francesca Sanvitale ed Enzo Siciliano, regia di Luigi Perelli, 19 ottobre 1975; Intervista, a cura di Melo Freni, in «Tg1», 6 luglio 1976; Il cacciatore di verità, a cura di Luciano Luisi, in «Primissima», 16

Melissa Rota (a cura di), Giorgio Caproni. Il mondo ha bisogno dei poeti: interviste e autocommenti 1948-1990, ISBN 978-88-6655-676-3 (print), ISBN 978-88-6655-677-0 (online PDF), ISBN 978-88-6655-678-7 (online EPUB), © 2014 Firenze University Press

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recuperare otto documenti segnalati dalla bibliografia di Michela Baldini che sono stati distrutti5. La nostra trascrizione rispetta il testo delle edizioni a stampa, o in loro assenza le versioni d’autore (manoscritte o dattiloscritte; si è privilegiata l’ultima stesura approvata quando sono presenti più redazioni). Eventuali aggiunte del curatore sono inserite tra parentesi quadre. Tranne i casi di interlocutori d’eccezione, per fama o particolare amicizia con il poeta, sono state invece ridotte le domande cassando le frasi ridondanti, i paragrafi introduttivi e i cenni bio-bibliografici. Si è scelto di limitare le citazioni delle poesie ai soli versi iniziali seguiti dal titolo collocato tra parentesi quadre, all’infuori dei casi nei quali la lettura integrale fosse funzionale a una migliore comprensione dell’intervista. L’interpunzione è stata quasi sempre rispettata, mentre in qualche caso i capoversi sono stati soppressi per rendere più agevole la lettura. Nel caso degli interventi audiovisivi si è scelto di mantenere per quanto possibile il ritmo e lo stile dell’oralità, eliminando solamente le espressioni con pura funzione fatica, le interiezioni del parlato e gli anacoluti. Si è fatto ricorso nella trascrizione ai criteri tipografici correnti, riportando in corsivo i titoli delle opere, le parole straniere e ciò che negli autografi risultava sottolineato; i titoli delle riviste e le citazioni sono indicati tra caporali, mentre si sono utilizzate le virgolette alte per i modismi. Quando i dattiloscritti conservati presso l’Archivio A. Bonsanti presentavano varianti rispetto all’edizione a stampa ne è stata data indicazione in nota; le aggiunte di mano caproniana inserite in interlinea o a margine del testo sono state trascritte nell’ordine più probabile di lettura. Quando possibile si è preferito mantenere i titoli originali delle interviste, pur sapendo che si tratta quasi sempre di scelte redazionali; quelli tra parentesi quadre, invece, sono da ascrivere al curatore, estratti dal corpo del testo. Per febbraio 1983; Poeti d’oggi: Giorgio Caproni, a cura di Franco Simongini, 3 luglio 1984; Vita da poeta, in Le voci della scrittura, a cura di Giorgio Weiss, 17 dicembre 1987; Oltre la parola, a cura di Claudio Angelini, in «L’Aquilone», 17 giugno 1988; e gli interventi radio Intervista, a cura di Claudio Angelini, Radio Giornale Due, 25 febbraio 1980; Poeti d’oggi in discussione con Luciana Corda, dicembre 1983; Poeti al microfono. Viaggio attraverso la poesia italiana contemporanea: Giorgio Caproni, a cura di Gianni Bisiach. Un programma di Matteo Maria Giorgetti e Fabio Doplicher, con letture di Giorgio Albertazzi, 15 gennaio 1985; Intervista radiofonica a cura di Mario Picchi, gennaio-febbraio 1985. 5 Si tratta dei seguenti titoli: Incontri con i poeti. Giorgio Caproni, a cura di Geno Pampaloni, Secondo Canale Rai, 29 aprile 1962; Il suono e la mente, a cura di Dina Luce, Rai Radio Tre, 18 dicembre 1978; Intervista su Apollinaire, a cura di Claudio Angelini, Rai Radio Giornale Due speciale, 25 gennaio 1980; Intervista, a cura di Franco Scataglini e Francesco Scarabicchi, Rai (Ancona), 17 ottobre 1980; Domenica Tre, settimanale di politica e cultura del Giornale Radio sul Terzo Programma Rai, a cura di Enrico Moratti, Rai, 23 gennaio 1984; Poeti al microfono. Oggi Giuseppe Ungaretti. Notiziario della poesia, in studio Giorgio Caproni, a cura di Matteo Maria Giorgetti e Fabio Doplicher, regia di Angelo Marcoaldi, Rai Radio Uno, 27 gennaio 1986; Frangitempo, Radio della Svizzera Italiana, 5 giugno 1987; Buonanotte Europa (Un poeta e la sua terra: Giorgio Caproni, Il franco cacciatore), a cura di Francesco Bolzoni, IV puntata, Rai Radio Due, 28 giugno 1987.

NOTA AL TESTO

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ogni intervista si riporta l’indicazione bibliografica completa nelle Notizie sui testi collocata in calce a questo libro. L’ordine di successione dei brani, scandito da una numerazione progressiva, è strettamente cronologico; nei casi di inediti o quando non sia stato possibile rintracciare il luogo di pubblicazione, ci si è affidati alle date registrate sui dattiloscritti o si è tentato di ricostruire la cronologia sulla base dei documenti presenti nell’Archivio A. Bonsanti. Di tutte le interviste rintracciate, è stata esclusa dalla raccolta solamente quella trasmessa nel gennaio del 1988 nel corso della trasmissione radiofonica «Antologia» del Terzo Programma della Rai, perché già pubblicata di recente integralmente6. È stato invece inserito, pur non essendo registrato dalle precedenti bibliografie come intervista, il brano La poesia e i ragazzi apparso su «Mondo operaio» il 14 maggio 1949, in quanto affine al genere degli interventi qui riportati. In conclusione del lavoro desidero esprimere un sincero ringraziamento a Silvana e Attilio Mauro Caproni per avere creduto in questo progetto ed aver permesso la trascrizione e pubblicazione dei testi. Ringrazio inoltre Gloria Manghetti e il personale dell’Archivio Contemporaneo Alessandro Bonsanti del Gabinetto G.P. Vieusseux per la preziosa disponibilità, nonché il personale dell’Archivio delle Teche Rai di Firenze e della Biblioteca Nazionale. Tutta la mia riconoscenza, infine, va ad Anna Dolfi7, che con grande disponibilità e competenza ha seguito e guidato nel tempo la mia ricerca. Melissa Rota

6 Si veda Era così bello parlare. Conversazioni radiofoniche con Giorgio Caproni, prefazione di Luigi Surdich, Genova, Il Melangolo, 2004. 7 A cui si deve anche la scelta del titolo del libro, desunto dall’intervista 31.

TAVOLA DELLE SIGLE

I testi di Giorgio Caproni sono stati citati con le sigle proposte nel «Meridiano» Mondadori (con la sola esclusione di Giorgio Caproni. Tutte le poesie, Milano, Garzanti, 1999 all’epoca non ancora edito): CA – Come un’allegoria (1932-1935), prefazione di Aldo Capasso, Genova, Emiliano degli Orfini, 1936. BF – Ballo a Fontanigorda, Genova, Emiliano degli Orfini, 1938. F –

Finzioni, Roma, Istituto Grafico Tiberino, 1941.

C –

Cronistoria, Firenze, Vallecchi, 1943.

SF –

Stanze della funicolare, Roma, De Luca, 1952.

PE – Il passaggio di Enea, Firenze, Vallecchi, 1956. SP -

Il seme del piangere, Milano, Garzanti, 1959.

CVC – Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee, Milano, Garzanti, 1965. TL – Il «Terzo libro» e altre cose, Torino, Einaudi, 1968. MT – Il muro della terra, Milano, Garzanti, 1975. PG – Poesie, Milano, Garzanti, 1976. EF – Erba francese, Luxembourg, Origine, 1979. UB – L’ultimo borgo. Poesie (1932-1978), a cura di Giovanni Raboni, Milano, Rizzoli, 1980. Melissa Rota (a cura di), Giorgio Caproni. Il mondo ha bisogno dei poeti: interviste e autocommenti 1948-1990, ISBN 978-88-6655-676-3 (print), ISBN 978-88-6655-677-0 (online PDF), ISBN 978-88-6655-678-7 (online EPUB), © 2014 Firenze University Press

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FC – Il franco cacciatore, Milano, Garzanti, 1982. VC – Versicoli del Controcaproni (sezione introdotta in TP, 19831). CK – Il Conte di Kevenhüller, Milano, Garzanti, 1986. AB1 – Allegretto con brio, Lugano, Laghi di Plitvice, febbraio 1988. AB2 – Allegretto con brio, Lugano, Laghi di Plitvice, giugno 1988 (seconda edizione accresciuta). AB3 – Allegretto con brio, Paris, Fourbis, 1988. P –

Poesie 1932-1986, Milano, Garzanti, 1989.

RA – Res Amissa, a cura di Giorgio Agamben, Milano, Garzanti, 1991. TP – Giorgio Caproni. Tutte le poesie, Milano, Garzanti, 1999.

INTERVISTE E AUTOCOMMENTI 1948-1990

1 IO GENOVESE DI LIVORNO

Io sono nato a Livorno, ma cosa può dire della sua città chi l’ha abbandonata dopo la terza elementare per non tornarvi più? Abbandonai Livorno proprio mentre il maestro Melosi mi leggeva il Cuore, questo tremendo libro d’un uomo che, senza un filo di carità o di poesia, allettava i bambini per farli piangere e per ricavarne tanti piccoli funzionari dell’esistenza: tanti futuri «scrivani fiorentini», inzuppati fino alle midolla di lacrime e di sopportazione sotto la mano di pietra d’un loro Iddio piccino e cattivo come un capoufficio. Mentre l’ultima bandiera rossa s’ammainava in fiamme in via del Corallo, io lungo via dei Riseccoli e viale Emilio Zola, pieno di ghiande e di polvere, in carrozza me ne andai per sempre alla ferrovia. E da quel giorno Livorno non la rividi più, vidi per l’ultima volta dal finestrino i campi rigati dai sentieri fra il trifoglio quasi nero degli Archi e il camposanto dei Lupi dove erano sottoterra i miei nonni (vidi anche il Cavalcavia, l’Acqua della Salute in abbandono, la villa rosicata di ruggine, che accantonò quelli ch’ebbero la casa spaccata in due dal terremoto), e con tutto il languore di cui m’aveva infradiciato la malinconia in servizio permanente effettivo del capitano Edmondo De Amicis io su quell’ultimo lembo della mia città lasciai le mie più labili lacrime di bambino che sapeva di non tornare più. Ora di Livorno ho un’immagine che appartiene alla geografia e alla mitologia della mia infanzia. Ed è perciò del tutto inutile il dirmi (credendo di farmi dispetto), che Livorno è quasi totalmente a pezzi, io sapendo bene che la mia Livorno nessun bombardiere può averla toccata; cioè che esisterà sempre, finché esisto io, questa città malata di spazio nella mia mente, col suo sapore di gelati nell’odor di pesce del Mercato Centrale lungo i Fossi, e con l’illimitato asfalto del Voltone (un’ellisse coronata di panchine bianche e in mezzo due monumenti anch’essi bianchi e altissimi, dedicati a non so che personaggi) alle cui grate di ferro sul catrame io potevo vedere, sotto il piazzale immenso schiacciando ad esse il viso fino a sentire il sapore invernale del metallo l’acqua lucidamente transitata dai becolini pieni di seme di lino. Dire Livorno è per me risentire l’odore di seme di lino lungo i fossi, ma a che pro’ dovrei domandare alla gente se esiste ancora quell’aroma polveroso, o se è ancora ritto l’Istituto del Sacro Cuore dove feci la prima e la seconda elementare tra i «mi rallegro» di Suor Michelina, lei ogni volta minacciandomi di togliermi il distintivo di «guardia d’onore»? Io non voglio nemmeno domandare se esiste ancora il carrozzone elettrico dell’Hotel Giappone (la prima auto elettrica da me vista smaltata di bianco come un torrone), di cui m’impressionavano soMelissa Rota (a cura di), Giorgio Caproni. Il mondo ha bisogno dei poeti: interviste e autocommenti 1948-1990, ISBN 978-88-6655-676-3 (print), ISBN 978-88-6655-677-0 (online PDF), ISBN 978-88-6655-678-7 (online EPUB), © 2014 Firenze University Press

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prattutto il silenzio assoluto del motore (appena un armonioso ronzio d’ape) e il davanti senza il cofano, rincagnato proprio come la grinta di un giapponese. Non voglio domandare queste cose, né se esiste ancora via Palestro o via dell’Oriolino e via della Madonna o il Parterre o il Pallone o il quartiere del Gigante, perché io non soffro di senili nostalgie. Dirò anzi che non me ne importa proprio nulla se tali cose non esistessero più, io non avendo la minima piega di nostalgia per la mia infanzia. La mia infanzia livornese è ancora tutta in me, col Caffè dello Sbolci nei pressi di via Garibaldi, colla Tazza d’Oro dove mi portavano tra gli specchi e le indorature rococò i miei genitori pieni di gentilezza e di finezza nei giorni festivi, e io penso davvero che un raffronto tra la mia Livorno e quella attuale è del tutto inutile e perfino pericoloso, potendomi anche capitare questo: che le due immagini, dico quella sulla carta velina della memoria e quella reale (sia pure prima dei bombardamenti), in alcun modo combacino più. Gli amici ora mi dicono, anche per questa mia mancanza di nostalgia, che io ho dimenticato la mia città: che sono ormai del nord, di Genova, dove ho ancora i genitori e un’altra lunga somma di affetti. I miei amici non sanno che se io non ho una minima nostalgia per Livorno, è proprio perché Livorno è in me com’è nella somma dei miei anni anche la mia infanzia devastata dalla guerra. Non sanno i lunghi discorsi che io faccio a Genova con i miei migliori e più vicini amici, dico con mio padre livornesissimo o con mia madre anch’essa livornesissima. Una conversazione quasi sempre topograficamente circoscritta in Livorno, coi personaggi livornesi di cui soltanto noi conosciamo il “fisico” sotto i nomi, e che per noi vivono ancora così la loro vita di un tempo senza che noi sentiamo un’unghia di desiderio di sapere se in realtà sono vivi o morti. Con gli altri amici e perfino con i miei figlioli genovesi (loro sì!) io sarei un evocatore di nomi vuoti se ne parlassi. A meno che il mio discorso non piegasse verso la nostalgia, una cosa che farò forse da vecchio, ora avendo ancora un po’ di tempo per non rattristarmi se coi miei bambini o con mia moglie è inutile parlare di Livorno; o se voi, cari amici di «Italia socialista», avete scritto ch’io sono genovese. Un genovese, per la verità, di Livorno.

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2 LA POESIA E I RAGAZZI

Mi si domanda spesso, perché la mia professione mi pone ogni giorno a contatto con i ragazzi, quali sono le poesie e quali i poeti preferiti dai bambini al di sotto dell’adolescenza. È una domanda che mi ha sempre un po’ imbarazzato, perché ogni volta, per esser sincero, dovrei rispondere seccamente così: che di rado i miei ragazzi, di fronte a un testo poetico, hanno mostrato di gustar gran che la poesia. Si capisce: per poesia non intendo soltanto il ritmo del verso e il suono delle parole. In questo senso devo anzi dire che i ragazzi, ritmo e suono, li apprezzano molto, indipendentemente dal significato delle parole. Tant’è vero ch’essi di rado chiedono la spiegazione, in una cantilena o in una filastrocca di simil genere, d’una parola ignorata, la quale per il sopravvento di queste loro elementari esigenze non costituisce affatto uno scoglio. E nemmeno per poesia intendo l’immaginetta vezzosa o il lepido raccontino in versi, che sono anch’esse cose assai apprezzate dai ragazzi. Intendo piuttosto proprio ciò che essi raramente mostrano di gustare (e questo è il punto) nella lettura d’un poeta, cioè non tanto la concretezza visiva dell’immagine, quanto l’emozione che tale immagine mira a suscitare secondo lo scopo precipuo della poesia stessa. Io credo di poter spiegare questo fenomeno grosso modo, ricordando la diversità profonda fra il tempo fisiologico e psicologico del fanciullo e quello dell’adulto. Tempo di natura dinamica nel ragazzo, statica nell’adulto. A differenza della prosa, la cui scrittura e la cui lettura sono di carattere squisitamente dinamico, la poesia invece ha una struttura statica se non propriamente estatica (il lettore avrà capito che qui, per poesia, intendo la lirica in senso stretto), e statica è in certo senso la lettura poetica, il che già spiega come il ragazzo ponga maggior attenzione alla prosa che non alla poesia. La poesia è, come ognun sa, per più di tre quarti memoria, cioè esperienza acquisita. O meglio, è un mezzo atto a risvegliare l’emozione degli oggetti, dei sentimenti, delle passioni di cui anche il lettore ha memoria o, appunto, esperienza acquisita. E non soltanto degli oggetti nominati, bensì, anche e direi quasi soprattutto, dei loro armonici, avendo in poesia i vocaboli significati plurivalenti (trascendendo, cioè, essi il loro significato letterale per esprimere rapporti e assumere significati altrimenti indicibili), i quali significati tanto più saranno sentiti dal lettore dotato di sensibilità quanto maggiore sarà la sua esperienza vissuta, anche in senso di educazione e di cultura. È, insomma, la parola di un poeta, come una moneta violentemente gettata su di un salterio, la quale non soltanto farà vibrare la corda urtata, bensì anche e impensatamente, tutte

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le altre corde in armonico con quella. E non per nulla infatti Rilke afferma che quanto più un uomo ha vissuto, tanto più egli ha probabilità di diventare poeta. Nel ragazzo sono appunto queste corde (queste esperienze) quelle che mancano, e proprio perché la memoria o esperienza del ragazzo, e quindi la sua cultura, sono limitate o comunque diverse in confronto con quelle su cui il poeta, scrivendo, ha fatto assegnamento. Il ragazzo, ripeto, ha un tempo interiore affatto dinamico. Un fiore scarlatto è per lui, ogni qualvolta lo vede, un fatto nuovo o quasi: è insomma, quella del ragazzo, un’esperienza anch’essa dinamica (una continua invenzione o scoperta), su cui non è ancora caduta la polvere dell’esperienza acquisita, o abitudine, non possedendo egli ancora se non proprio la memoria del fiore (che sarebbe dir troppo) certo la memoria dell’emozione e dei trasporti che quel fiore gli ha procurato e può ancora, vivo, procurargli. Talché per lui resta inerte o quasi la parola del poeta, mirante a risvegliare tale memoria divenuta subconscia riportandola quasi di soprassalto nella memoria viva, anzi nella viva e attuale esperienza dinamica. Già, perché lo strano fine della poesia è appunto anche questo: di presupporre come condizione un’abitudine proprio per rompere il guscio di tale abitudine. Niente poesia per ragazzi, dunque? Sta di fatto che quasi tutte le cosiddette poesie per ragazzi non tengono conto di queste condizioni, o meglio, avvertendone un oscuro sentore, cercano di eludere il problema stuzzicando l’immaginazione dei piccoli (la quale è sempre prontissima), volgendola di contrabbando al favoloso e allo straordinario fine a se stesso. E ciò anche per quel diffuso falso concetto della poesia intesa, appunto, come evasione dalla realtà, nonché per una sbagliata considerazione sull’origine della poesia: la quale, sì, in antico, tesseva favole, ma favole in cui allora religiosamente si credeva e che perciò non erano favole ma verità – e come tali ancor oggi belle nella loro verità di allora e quindi di sempre. Ma oggi il togliere di frodo il ragazzo dalla realtà (da una realtà ancora dinamica per lui) è proprio un farlo entrare nel territorio della poesia? Io direi precisamente il contrario: è un allontanarlo ancor di più dalla poesia, la quale ha sempre avuto lo scopo opposto: quello di riscattare dal cimitero dell’abitudine, e far comprendere e amare oltre la superficie, in tutte le sue possibili corrispondenze, il reale, cioè appunto la vita veramente vissuta. Quella vita in memoria (eccoci da capo) che ai ragazzi manca per possederla invece in atto, in progrediente naturale scoperta.

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3 INCONTRO CON UN POETA

«Fontana d’acqua del mio paese. / Non c’è acqua più fresca che al mio paese. / Fontane di rustico amore» (P. P. Pasolini, Casarsa, in Poesie a Casarsa). Sono, questi versi, i primi ch’io lessi di Pier Paolo Pasolini. Li trovai a pagina uno di un libricino intitolato Poesie a Casarsa, e fu in friulano che le lessi, anzi, in quell’idioma friulano dolcemente intriso di veneto che si parla sulla riva destra del Tagliamento. L’anno era il 1942: l’anno più chiuso a ogni nostra speranza; e io non so ridire l’emozione, la commozione – mentre il mio zaino era pieno di bombe e di buio – che mi colse al suono di quelle di quelle limpide sillabe. Voltai – ma non subito, per timore d’un disinganno – la pagina. Mi batteva il cuore: più d’una fucilata m’avrebbe ucciso, quella notte all’addiaccio sotto una luna gelida che pur bastava a illuminarmi la furtiva lettera, una delusione. Ma non ci fu nessuna delusione. La seconda pagina confermava, avvalorava la prima. E così la terza, così la quarta, così le rimanenti. Giacché era la voce d’un poeta quella che, per un miracolo, mi aveva raggiunto in così nera circostanza. Era la voce – viva – della vita. La storia segreta del mio primo incontro con Pasolini è tutta qui. E non significherebbe nulla, né l’avrei raccontata, se nel corso dei successivi anni Pasolini, anziché arricchirlo avesse deluso quel mio subitaneo affetto, avesse cioè commesso qualche atto di infedeltà verso se stesso. Atto che invece io non ho riscontrato né attraverso le sue poesie edite (alcune in quei bianchi quaderni dell’Accademia de Lenga Furlana di lui fondata e diretta) né attraverso quelle, che ho avuto modo di vedere, ancora inedite. Pasolini è rimasto, come mi apparve allora, un poeta esemplare per il nitore e la fermezza della propria parola. Non so fino a che punto gli abbia giovato in questo l’esperienza, che non è mai stata dialettale, della lingua friulana. Se lingua vale letteratura, cioè tradizione scritta, può darsi che quell’idioma ladino, rimasto letterariamente a un’ora antelucana, lo abbia aiutato a carbonizzare fino al nitore del diamante, grazie alla forza di assimilazione e alla duttilità d’ogni lingua assunta ancor quasi vergine, i più felici innesti. Dalla Provenza alla Francia (compresa la Francia di Mallarmé e di Rimbaud), dalla Spagna all’America negra, non sarebbe difficile a un critico individuare altrettanti pontili d’imbarco per questo piccolo e felice Mississipi, che nella sua feconda valle riesce a fondere, fino a conferir loro una commovente impronta, le origini più diverse. Ma qual è, d’altra parte, il poeta che non ha origini? Il miracolo della poesia, che in

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Pasolini più d’una volta accade, consiste appunto nell’assimilare tali origini fino a dar loro un timbro nuovo, fino a dar loro la novità d’una prima pronuncia. Codesto timbro nuovo, lo ripetiamo, è estremamente limpido nella voce del nostro giovane autore. La sua abilità tecnica di rado altera la naturalezza delle immagini, che rimangono d’un’esemplare trasparenza anche quando sembrano le più arrischiate, pietre, acque, fiori, sangue, latte, ogni vocabolo è un ben preciso oggetto, e acutamente vive sono le figure (la madre, i parenti, le ragazze, i compagni, spesso chiamati per nome) che concorrono a formare il Friuli di Pasolini. La rigorosa composizione, che per lo più fa di ogni poesia un poemetto a sé, perfetto tanto da rendere perfino possibile parlare di nuove forme chiuse, stacca – oltre il temperamento indubitabile – Pasolini dagli altri suoi coetanei, smarriti la maggior parte in un lirismo tanto più dissipato quanto più essi si accaniscono in preoccupazioni di cosiddetto contenuto. Egli, infatti, lo ha compreso fin dalle sue prime righe che la poesia – dopo la lezione di Ungaretti, e proprio grazie alla lezione di Ungaretti – doveva tornare, come più d’una volta un nostro illustre critico ha precisato, dalla poetica della parola al discorso. Salto piuttosto difficile, dopo l’esperienza – chiamiamola anche noi così – ermetica, ma che Pasolini è riuscito il più delle volte a compiere, e non rinnegando ma amando fino a coniugazione piena, e quindi fino al completo superamento, chi l’ha preceduto. Nella giovane poesia d’oggi non è facile rintracciare, a questo proposito, un discorso più diretto del suo. Discorso che vorrei dire addirittura oggettivo, tanto è reale – localizzato, e perciò universale – il Friuli ch’egli ci dona: Friuli come regione, sì, ma allo stesso titolo, semmai, delle Marche nel canto leopardiano: una regione fattasi concreta garanzia d’esistenza della voce, marchio della sua autenticità. Il nome di Leopardi non è un nome qui adombrato a caso. Esso, se non vale certo ad avvicinarsi al temperamento di Pasolini, né alla sua poesia in toto, d’un empito vitale che rasenta un narcisismo corrucciato e ribelle – vale però a introdurci meglio d’ogni altro alla letteratura da lui prescelta su un solo versante: quello italiano. Poesie che non rappresentano, forse, la parte più avventurosa dell’animo e del sangue di Pasolini, ma che peraltro ci sembrano, proprio per la loro distesa calma, e proprio perché direttamente scritte in lingua italiana, le più adatte a comprovare quanto quella pungenza, quel rustico amore che con tanto incanto ci colpì la prima volta, siano qualità non dell’idioma friulano, ma propriamente del poeta Pasolini.

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4 IL PIÙ COMMOVENTE FATTO DELL’ANNO

Qual è il fatto che, nel corso del 1953, vi ha più emozionato e commosso?

L’esecuzione dei Rosenberg1, se vogliamo uscire dal limite ristretto, e senza importanza nel mondo, dei miei fatti personali. È stato soprattutto il modo a offendermi, e a lasciarmi scosso. Quanta odiosa pubblicità, quanto chiasso e, ahimè, quanta inclemenza! Nessuna ragione postuma (nessuna spiegazione ufficiale) è riuscita a convincere la mia coscienza della necessità di tanta inclemenza, che per me è suonata come un atto di debolezza. Un atto di debolezza proprio da parte di quelle Autorità costituite nella cui forza, io semplice uomo della strada, ho tanto bisogno di credere. È stata, tutto sommato, una brutta macchia, un’eclisse di cui non so fino a quando perdurerà l’ombra.

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5 [LA GIOVANE POESIA ITALIANA]

[Risposte a Ugo Reale] Pomeriggio di sabato, da Caproni. Trovo il clima delle tradizionali quattro chiacchiere: vive ancora la civilissima abitudine di dedicare un po’ di tempo agli amici. Si sta bene a parlare degli ultimi libri, a leggere versi di classici e di moderni, a rafforzare la speranza nella poesia, immaginando un assurdo mondo futuro. Mentre mi versa un bicchierino di cognac, dico a Caproni dell’intervista. Sembra un brutto tiro, ché mi guarda disapprovando con la testa e, data un’occhiata al foglietto delle domande, mi obietta subito che per rispondere ad ognuna di quelle ci vorrebbe un volume. Non nego, ma mi accontenterei di poche parole. Gli parlo dell’iniziativa dell’amico Gori1 di aprire sulla rivista «La Soffitta» un’inchiesta per accertare le attuali condizioni della giovane poesia italiana. Perché hanno pensato a lui? Tutti sanno che egli è uno dei poeti e critici più cari ai giovani, generoso di consigli e di indicazioni, che da anni va trattando su riviste e giornali i problemi letterari della nuova generazione. Chi segue «La Fiera Letteraria», uno dei settimanali più diffusi e importanti d’Italia, conosce la chiarezza e la sincerità che egli usa, sia nel parlare dei giovani poeti (e anche non giovani), sia nell’esporre ogni tanto, in succose divagazioni, le sue idee sulla poesia, castigando spesso, col suo umorismo bonario, le esagerazioni, le ambizioni smodate e la povertà d’invenzione di tanti versificatori. Eccolo già sorridente che ascolta la prima domanda: Che cosa pensi della giovane poesia, quella della cosiddetta quarta generazione?

Ci sono giovani facitori di versi e giovani poeti. Imitatori, magari dignitosi, ungarettiani, montaliani, sbarbariani. La loro posizione, a condizione che sia provvisoria, è umanamente comprensibile, per il bisogno che si ha, durante il tempo dei primi passi, di sorreggersi a chi è più grande di noi. E ci son quelli che, con tutto il rispetto per i maestri, sentono un gran bisogno di disobbedire, di creare una poesia propria, ripetendo cioè quanto fecero ai loro tempi i maestri di oggi: Ungaretti, Montale, Sbarbaro e altri. È naturale che a questo secondo tipo di poeti vada tutta la mia simpatia: sono uomini vivi e veri, tormentati dalla continua ricerca di un discorso che sia il disegno stesso della loro anima. Quali sono secondo te le cause principali dell’attuale esigua diffusione della poesia?

La colpa è un po’ dei poeti e un po’ dei lettori. Lasciamo stare per ora la colpa dei poeti, per non rinnovare un dolore. Esaminiamo la colpa – se così si può dire – del pubblico. Direi che si tratta piuttosto delle mutate esigenze della vita

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moderna. Oggi la lotta per l’esistenza assorbe tutte le energie, anche delle classi cosiddette medie, e non lascia né tempo né voglia per la lettura in genere, e tanto meno per la poesia. Si aggiunga il gusto del pubblico (già viziato dai rotocalchi, amplificatori in scala nazionale dei pettegolezzi paesani, dal cinema provinciale e conformista, dai giochetti della televisione), il gusto, dico, di ricercare nella scrittura notizie e fatti non di cultura, ma grezzi, non elaborati ma volti a conclusioni sensazionali. È chiaro che ci troviamo agli antipodi della disposizione alla lettura della poesia. Non credo tuttavia che il numero dei lettori di poesia del tempo nostro sia inferiore a quelli dei tempi passati. In fondo, coloro che gustano i tartufi sono sempre di meno di quelli che si cibano di patate. Dopo questa efficace comparazione gastronomica, che per altro accende una piccola discussione sulla difficoltà di assicurare tartufi a tutti, gli domando se apprezza l’iniziativa di giovani come Comello e Della Monica2, ai quali ora s’aggiungono Gori e Mandarà3, che portano la poesia tra il popolo. Caproni è addirittura entusiasta di iniziative del genere. Figuriamoci che una volta dichiarò di avere la sensazione di scrivere le poesie per nessuno.

La poesia detta è qualcosa di più della poesia letta. Il merito di questi giovani è di portare la poesia presso un pubblico che talvolta non ne sospetta nemmeno l’esistenza. Durante queste riunioni sarebbe però opportuno potenziare quanto l’ottimo Comello ha cominciato a fare durante i suoi Trebbi: invogliare l’uditorio all’acquisto dei libri dei poeti divulgati. Dunque Comello sta rendendo alla poesia e ai poeti un prezioso servizio sotto diversi aspetti…

Certo. La vendita dei libri è per un autore una grande soddisfazione ed un aiuto economico. Le case editrici, gli Enti di cultura dovrebbero approfittare di questa lodevole opera di divulgazione, la Radio… Dato che siamo oramai su un piano pratico (non trascurabile del resto in questi tempi «aurei») chiedo all’amico Caproni un pensierino sui premi letterari.

Non credo che i premi letterari giovino alla diffusione dell’opera premiata. Giovano, caso mai, allo scrittore premiato, risolvendogli una piccola difficoltà finanziaria. È che i premi hanno quasi sempre scopi pubblicitari, turistici; sono organizzati per lanciare o rilanciare una stazione balneare o un certo prodotto. Il pubblico delle serate di premiazione è quello che è: la folla delle villeggiature che vede solo l’aspetto fugace e mondano dell’avvenimento. E allora quali iniziative si potrebbero prendere per rinverdire l’interesse della gente per la poesia, per scuoterne almeno l’apatia?

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Forse l’iniziativa più efficace sarebbe quella di diffondere i testi poetici moderni nelle scuole (sin dalle elementari). I ragazzi, in questo modo, verrebbero abituati alla lettura, che oggi sembra difficile, ed educati nel gusto. Ma si tratterebbe di superare certe prevenzioni ancora largamente diffuse negli ambienti accademici contro la poesia moderna. Vuol dire dei famosi insegnanti ancor fermi a D’Annunzio? Gli racconto di un professore di mia conoscenza che, se appena gli accenno alla poesia moderna, comincia a recitare: «La nebbia agl’irti colli… » e mi guarda con aria di sfida. La domanda seguente ha per argomento le traduzioni dei testi poetici.

La traduzione non lascia mai inalterati i valori originali della poesia. Se la traduzione è letterale, allora avviene che del testo rimanga solo il contenuto, l’informazione, con tutte le alterazioni derivanti dal diverso significato e peso di una parola nelle due lingue. Prendiamo, per esempio, la parola «pane». In italiano, presso di noi latini e cattolici, ha una pluralità, tutta una gamma di significati, entra in un’infinità di espressioni. Vuol dire sacrificio, lotta per l’esistenza, il minimo indispensabile, la speranza e la sicurezza. Non altrettanto può dirsi per le corrispondenti parole inglese e tedesca, in quanto gli inglesi son parchi consumatori di pane ed i tedeschi mangiano patate. Oppure il traduttore è un poeta, e allora necessariamente metterà nella traduzione qualcosa di suo, qualcosa di diverso. E così è bene che sia. Se i traduttori si limitassero a tradurre alla lettera, oggi non avremmo due Eneidi in luogo di una sola. Ad ogni modo, anche a costo di una minore diffusione della mia opera, preferirei che le mie poesie fossero lette come le ho scritte.

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6 PREMIO MARZOTTO 1954-1955-1956

Come si fa a parlare della propria vita e del proprio lavoro… Quand’ho detto che sono nato a Livorno il 7 gennaio 1912, e che dall’età di dieci anni fino alla maturità ho vissuto soprattutto a Genova (con la guerraccia di mezzo), per poi venire qui a Roma con mia moglie e due figli, mi par d’aver detto tutto, e nulla. Una vita infatti o la si riassume nei dati anagrafici, più gli altri documenti di rito, o la si monta in un romanzo (ad averne voglia e il genio: ché chiunque ha materia per scrivere le proprie Confessioni), o, come ho fatto io, la si vive, e zitti. Non mi sono mai sognato, questo posso dirlo, di «far lo scrittore». Pensavo di fare il violinista, questo sì, e la musica era il mio «ideale»: «ciò che avrei voluto fare da grande». Invece, dopo aver strimpellato un po’ i due Mazas, più il Kreutzer e il Fiorillo1, dovetti impiegarmi (oggi fo l’insegnante), e i versi furono per me il surrogato della musica tradita, mosso per la prima volta a tentarne, coi pantaloni corti, per dare una voce a certi miei elementari esercizi di composizione musicale. Non ho mai fatto il poeta di professione. Non ho mai capito come lo si possa fare, giacché ho sempre pensato, in genere, che l’esser poeti sia, prima di tutto, una qualità quasi fisiologica, non commerciabile, come l’avere un naso camuso o aquilino. Una qualità che non dipende – secondo le leggi della natura – da noi, e avverso la quale nulla possiamo fare, in quanto se è vero che oggi una progredita chirurgia plastica è in grado di trasformarci il naso avuto in dotazione in un altro di maggior gradimento, in poesia ogni prova del genere (dico l’innesto artificiale di un naso poetico su un altro di qualità diversa) non pare aver dato finora risultati soddisfacenti; visto che chiunque ci tenga, Dio sa perché, a sembrar poeta senza esserlo (e quel chiunque potrei impersonarlo io), preferisce al rischio d’un’operazione, di cui rimane sempre dubbio il risultato, il ricorso a un naso posticcio di cartapesta. Con tutto questo non nego che chi – naturalmente dotato di un naso camuso o aquilino, o d’un naso-poesia – voglia di tale naso far pubblica esposizione, non abbia il dovere di ricorrere, come meglio può e meglio sa, all’arte; affinché, con l’aiuto di questa, tale naso venga non dico alterato, ma anzi favorito nel suo essere veramente un naso camuso o aquilino; o un naso-poesia, se è di quest’ultimo che l’interessato ha deciso di far pubblica mostra. Scherzi a parte, è soltanto in tal senso che ho sempre inteso l’intervento della volontà sulla voglia di far poesia, non importa se piccola o grande. Giacché l’unico lavoro da me concepibile nella direzione della poesia (non esercitata per lucro; starei fresco) mi par che rimanga quello, fondamentale ed eterno, riassu-

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mibile nella primordiale fatica, da parte di ogni poeta che si reputi nato tale, di diventarlo davvero; cioè di tentare con tutte le proprie forze (istinto e cultura associati) di scoprire la propria anima vera fra le varie anime posticce, o fantasmi di anime, suscitate dalla suggestione: che è come dire di scoprire la propria intima natura, e infine il modo più approssimato possibile (la poesia è sempre e soltanto un’approssimazione) per esprimere tale intima essenza (non importa se di gigante o di nano, ripeto) con sincerità. Non ho segreti di mestiere da svelare, perché per la poesia non ce ne sono, e ognuno sceglie gli strumenti che gli tornano meglio. Così se uso spesso e volentieri il ritmo scandito e la rima (che per me vuol essere consonanza o dissonanza di due idee che devono suonare «contemporaneamente») non ne faccio una regola, né per me né, tantomeno, per gli altri. Un’altra mia «idea» è la profonda differenza tra la funzione del linguaggio pratico (puro e semplice segnale acustico o grafico d’un codice convenuto) e la funzione della parola nel linguaggio poetico, dove essa, oltre il senso letterale, assume una serie pressoché infinita di significati «armonici», dipendenti dalla sua forma fonica (dai «contenuti» culturali in quella data lingua) e dalla sua posizione. Prova ne sia che basta soltanto far la cosiddetta «versione in prosa» (mettendo in altro ordine gli stessi vocaboli) d’un qualsiasi verso famoso (e non dico quando si muta addirittura uno di quei vocaboli con un sinonimo d’uso più corrente: un «appo» – così ingrato da solo – con un «presso») per demolire in gran parte l’effetto poetico di quel verso, il cui senso letterale peraltro rimane intatto. (Un esempio grossolano? La cornetta che chiama al rancio è un segnale acustico, e tutti prendono la gavetta. E la prenderebbero ugualmente, purché avvertiti prima, se quel segnale mutasse codice. Ma ha anche un significato musicale – che insieme con quello codificato è la sua «bellezza» – ed è questo che andrebbe totalmente distrutto, appunto perché reso diverso). Ma sono questioni generali, che qui non c’entrano, e che del resto, da molti anni, ho già detto meglio altrove. Anima mia leggera, va’ a Livorno, ti prego… [Preghiera, SP]

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7 [ESSERE UN POETA FACILE]

[Risposte ad Adolfo Chiesa] Ho provato più volte a ricostruire con l’immaginazione la mattina di un sabato di qualche settimana fa, quando il poeta Giorgio Caproni, fermo all’angolo di una via di Monteverde Vecchio, aspettava accanto ad un’edicola che arrivassero i giornali del pomeriggio. Caproni aveva vinto il «Viareggio»; alcune indiscrezioni lo davano vincitore, è vero, ma di certo non si sapeva ancora nulla. Poi, finalmente, arrivarono i giornali con la notizia: Il Seme del piangere, il nuovo libro di versi di Giorgio Caproni stampato da Garzanti, aveva vinto. Il poeta mise un abito scuro nella valigia e partì subito per Viareggio, dove giunse tardi, a tempo per partecipare alla cerimonia della premiazione e riscuotere il milione che aveva vinto. Caproni arrivò a Viareggio in diretto. C’era un treno rapido, è vero, ma non se ne servì per poter usufruire dello sconto del cinquanta per cento di cui gode in qualità di dipendente dello Stato. O forse, chissà, il poeta voleva fermarsi almeno un quarto d’ora alla stazione della sua città, risentire – in quella che senza dubbio era per lui una grande giornata – i rumori di Livorno: l’ombra dei Fossi, del Voltone, di via Palestro, di Cors’Amedeo; i luoghi che aveva cantato nel Seme del piangere erano lì, a tiro di schioppo; poi il treno (mentre odora di pesce / e di notte il selciato) ripartiva, riportava il poeta verso un notevole riconoscimento ufficiale, verso una sempre maggior notorietà… Lì a Livorno, e più su a Genova, a Torino, e in Val Trebbia, dove aveva partecipato attivamente alla guerra partigiana, Caproni è nato e vissuto, ha lottato per affermarsi. Proviene da una famiglia povera che raramente ha conosciuto l’agiatezza; il padre del poeta era impiegato in una ditta di caffè, la madre – Anna Picchi – è quella creatura stupenda cantata nel Seme del piangere. Lui, Giorgio Caproni, fin da bambino sentì uno spiccato richiamo per la musica: studiò il violino a lungo, sistematicamente. Presto tuttavia fu costretto ad abbandonare gli studi, compresa l’università, per iniziare ad esercitare più di un mestiere. A Genova Caproni fece anche il fattorino nello studio dell’avvocato Colli.

Un santo uomo, con una biblioteca stupenda che potevo consultare a piacimento. Poi fu militare, impiegato; un giorno, per guadagnarsi la cena, si ritrovò a suonare il violino in un’orchestrina da ballo genovese.

Noi siam come le lucciole. Ero lì col mio violino a suonare quest’aria, fra la gente che mi osservava. Adesso basta, dove andiamo a finire?, mi chiedevo. Dopo qualche tempo Caproni prese il diploma di maestro, venne a Roma; qui insegna tutt’ora in una scuola di Monteverde, dal 1946. La sua vita si svolge modesta, tranquilla, in un appartamento dell’INCIS a via dei Quattro Venti. Quando non è a scuola Caproni scrive, collabora: su un settimanale letterario escono con regolarità le sue critiche di poesia.

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Che mestiere difficile quello del critico. Sono travolto dai libri, dalle richieste di recensione, dalle lettere ora supplichevoli, ora minacciose di una grossa masnada di poeti; non so più dove rigirarmi. Siamo seduti nella sala da pranzo della casa del poeta. L’uomo che ho di fronte è sicuro, modesto. Da come parla, da come ascolta sembra cercare in tutte le cose il lato più umano, quello più vero. Che parli o scriva, usi versi o parole il poeta tende a mettere in evidenza il suono delle cose, la loro realtà musicale. Non sembrino argomenti futili: voglio dire che il discorso umano di Caproni, come quello poetico, è un discorso ricco di segreti e di suggestioni, di «accozzi leggiadri», di passioni dolci e inconcluse; un discorso monodico che sembra una musica. Il poeta mi indica un violino mezzo nascosto in alto, nella cima di una credenza. Non posso fare a meno di guardarmi intorno con attenzione: alcune sigarette (Nazionali semplici) sono dentro un piccolo recipiente di porcellana, lettere e telegrammi sono ordinati in una scatoletta, i libri sono disposti con ordine e precisione da metter paura. Ma quel che conta è il quadro complessivo che se ne trae, l’armonicità. Mi trovo sì a contatto con un uomo che sembra aver fatto della modestia la sua prima virtù, ma non ci metto molto ad accorgermi che quella stessa modestia, quella serenità sono servite all’individuo a filtrare, a poetizzare tutta la difficile materia umana che s’è trovato di fronte. Ebbene, i versi del Seme del piangere premiati a Viareggio si raccomandano alla lettura proprio perché racchiudono – in un certo senso – questa esperienza poetica umana, semplice allo stremo.

Ho fatto un difficile tentativo: ho cercato di riavvicinare il lettore medio alla poesia. Oggi – per molti – scrivere versi è diventato un fatto di cultura, un complicato esercizio tecnico. Senza prendersela con nessuno – Caproni anzi stima molto i poeti della sua generazione e di quella precedente – l’autore del Seme del piangere pensa che tanto tecnicismo abbia allontanato il pubblico dalla poesia moderna, divenuta oggi – purtroppo – fonte di interesse per un ristretto gruppo di appassionati e professionisti.

Ma non vorrei si credesse che nei miei versi io mi sia lasciato cadere nel crepuscolarismo o nel sentimentale; non mi sembra: nessuno me lo ha rinfacciato. Io ho cercato, dopo tanti anni, di toccare nuovamente le corde del cuore del lettore, componendo quasi un’unica canzonetta dedicata a mia madre. Nel libro non si parla mai di me: tuttavia – debbo riconoscere – avevo da elaborare una materia presente, viva: il fatto di essere sempre vissuto in ambienti popolari mi ha molto aiutato. Mi vengono in mente quei versi del Seme del piangere dove il poeta descrive la morte e i funerali della madre: Il sole della mattina in me, che acuta spina. Al carro tutto di vetro perché anch’io andavo dietro? Portavano via Annina

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(nel sole) quella mattina. Erano quattro i cavalli (neri) senza sonagli. Annina con me a Palermo di notte era morta, e d’inverno. Fuori c’era il temporale. Poi cominciò ad albeggiare. Dalla caserma vicina allora, anche quella mattina, perché si mise a suonare la sveglia militare? Era la prima mattina del suo non potersi destare. [Il carro di vetro, SP] Asciuttezza di espressione, vigore di immagini: Caproni è un poeta da cui c’è ancora molto da attendere.

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8 RITRATTI SU MISURA

[Risposte a Elio Filippo Accrocca] Non mi sono mai sognato, questo posso dirlo, di «far lo scrittore»: tantomeno di «fare il poeta», giacché ho sempre pensato, in genere, che l’esser poeti sia, prima di tutto, una qualità quasi fisiologica, non commerciabile, come l’avere un naso camuso o aquilino, qualità ch’io non dico di possedere. Pensavo di fare il violinista, questo sì, e la musica era il mio «ideale»: «ciò che avrei voluto fare da grande». Invece, dopo aver faticato fino a diciott’anni sul “mio” bellissimo Candi (prestatomi dal mio troppo buon maestro Armando Fossa1), e dopo aver infranto le mie illusioni di gloria in un dopolavoro ai tempi di Noi siam come le lucciole e Adagio Biagio, preferii sotterrare i miei sogni paganiniani o semplicemente sivoriani2 insieme col piccolo feretro nero che fino allora avevo portato amorosamente sotto il braccio, per impiegarmi come fattorino nello studio legale dell’Avv. Ambrogio Colli, un illustre penalista che non dimenticherò, al n. 42 di Via XX Settembre. L’avvocato Colli (un sardo di Nuoro dalla bella faccia maschia e «sofferta»: un poco stile Direttorio) aveva in quello studio una fornitissima biblioteca, e proprio lì che un giorno, per puro caso, finita di copiare la mia solita istanza «All’Illustrissimo Signor Procuratore del Re», m’imbattei in un libretto che m’incuriosì, per la ruvidezza della carta e lo strano modo (quasi una parola sotto l’altra ) com’era scritto. Titolo: Allegria di naufragi; autore: Giuseppe Ungaretti; editore: Vallecchi, Firenze, 1919. Che dovrei dire? Che galeotto fu il libro, con quel che segue? Mi contento di confessare che il libercolo me lo portai a casa e non lo restituii più (in parole povere me lo fregai) e che da allora, a casa, non riuscii più a mettere in musica «L’aria di pianti s’oda risuonare / Che d’ogni luce è priva […]»3, mio grande amore poetico fino a quel momento, e la biblioteca del Colli, ricca anche di classici greci e latini, e d’ottime traduzioni, finii col saccheggiarla da capo a fondo (questa volta metaforicamente, s’intende) entrato proprio di furto, grazie a quell’Allegria che fu per me un vero e proprio sillabario, nel segreto poetico. Illusione. Fatto è che i versi per le mie esercitazioni musicali cominciai a scriverli da me provandoci per giunta un certo gusto, e presi il vizio che, ancor oggi, non mi ha abbandonato del tutto, alimentato dal fatto che fin dalla mia prima raccoltina (Come un’allegoria, stampata a spese dell’editore Emanuel Gazzo – «Emiliano degli Orfini» – che non ho mai conosciuto o sollecitato) non ho mai dovuto faticare (sarebbe contrario alla mia indole dal momento che i versi, per

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me, non sono la cosa più importante della mia vita, esercitando tutt’altro mestiere, e vivendo in tutt’altro ambiente che quello letterario) per veder stampate le mie cose. Su tutto il resto, il pudore fa velo.

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9 SETTE DOMANDE SULLA POESIA

Si è anche di recente parlato di una «crisi del romanzo». Si può parlare analogamente di una «crisi della poesia»? Se sì, in quale senso?

Sì. Fino a Gozzano la poesia ha avuto un notevole campo di lettori, e quindi una ben determinata funzione di dialogo, di commercio, di scambio, che oggi non ha più. C’era corrispondenza fra richiesta ed offerta. Oggi no. Né con questo dico che la colpa sia dei poeti. È una crisi che rimonta al principio del nostro secolo, e che coincide con la crisi della nostra borghesia, la quale trovava allora buoni, e perciò consumabili, i suoi figli Carducci, Pascoli, D’Annunzio e Gozzano. Ma il discorso è troppo complesso perché io lo possa esaurire qui. Si tratta comunque d’un divorzio determinato, più che da ragioni estetiche, da ragioni storiche e di cultura. Divorzio malefico, giacché la poesia trova il suo reale valore soltanto nel rapporto vivente poeta-lettore. La poesia del dopoguerra è stata caratterizzata, fra l’altro, dalla «reazione» ideologica all’Ermetismo: che ne è ora, di tale «reazione all’Ermetismo»? E che ne è dell’Ermetismo?

Le ragioni che muovono la poesia del dopoguerra sono ottime, ma spesso incontrollate o troppo controllate, quest’ultime consumate fra le pareti del laboratorio, capaci certo d’interessare la cronaca dei movimenti poetici ma non sempre la poesia. Tuttavia, al di sopra del gran chiasso che s’è fatto, non penso che l’ultimo decennio sia del tutto vuoto di poeti nuovi. Pasolini, per fare un solo un esempio, è riuscito a trovare i suoi lettori, e quindi a parlare non soltanto a se stesso. Quanto all’Ermetismo, non amo la definizione troppo generica. So di poeti cosiddetti ermetici che nel dopoguerra ci hanno dato le più valide testimonianze dell’epoca che stiamo vivendo. Si sostiene da molte parti che il compito della poesia d’oggi è di sviluppare i nuovi «contenuti» e temi che il nostro tempo propone, il che comporta altresì nuovi problemi di comunicazione. Le si rivolge l’invito ad una energica presa di coscienza intellettuale delle direzioni in cui muove la storia, e magari le si assegna un fine pratico di chiarimento e di animazione, com’è avvenuto in altre epoche anche non recenti. Cosa ne pensate?

I contenuti della poesia sono sempre suppergiù gli stessi, da che mondo è mondo. Sorgono nuovi problemi, è vero, ma sempre relativi agli stessi eterni contenuti. Ciò che cambia è l’angolo visuale dal quale li si guardano. La poesia del dopoguerra ha cercato lodevolmente d’adeguarsi alle istanze sociali e del reali-

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smo, ma o le è mancato il Poeta con la maiuscola, o le è mancato un pubblico preparato a riceverlo, e oserei dire ad inventarlo. Qualunque poesia, o meglio qualunque poetica concreta, postula, esplicitamente e implicitamente, un problema di linguaggio, comportante una esigenza di innovazioni e, insieme, quella di un particolare rapporto con la tradizione, che è l’angolo sotto cui qualunque poeta «innova». Cosa pensate delle esperienze linguistiche o stilistiche della poesia recente? Cosa pensate del neo-sperimentalismo? Della tendenza di alcune correnti a riassorbire atteggiamenti e forme della cosiddetta «avanguardia» europea o americana? Cosa pensate del dialetto nella poesia recente?

I legami con la tradizione sono stati rotti, o meglio interrotti, non dai poeti ma dalla società stessa, per l’improvviso progresso dei mezzi meccanici e per il denaro affluito in mani non preparate a spenderlo in direzione di cultura. Ma penso che si tratti d’una sospensione (d’una confusione) momentanea, e che la società, senza rinunziare ai vantaggi offerti dalla tecnica, debba pur un giorno ritrovare un equilibrio: far sì che l’impiegato, l’operaio, il professionista, non più abbagliato o affaticato soltanto dai problemi del denaro, possa ancora trovare un riposo nella sua giornata, durante il quale, giungendo a casa, non senta più il bisogno, per terminar di stordirsi e per evadere, di accendere il televisore, bensì di aprire un libro (la lettura richiede molto riposo o agio) per sollevarsi. Quanto a tutte le altre domande contenute in questo quarto numero del questionario, penso che si tratti semplicemente di mezzi tecnici, concernenti l’esterno della questione, e che tutti i mezzi tecnici siano buoni qualora sia buono colui che li sente necessari per esprimersi. È definibile il momento irrazionale della poesia, di qualunque poesia? E se lo è, in che cosa si differenzia l’«irrazionale» di un poeta «impegnato» dall’«irrazionale» di un poeta «puro»? Coincide la nozione di irrazionalismo con la nozione di decadentismo fino a una identificazione totale, oppure c’è un irrazionalismo necessario, non decadentistico, cioè non mitizzato come unico modo di conoscenza possibile?

Credo di no. Altrimenti, forse, non sarebbe più irrazionale. A meno che non si voglia ricorrere alle solite definizioni scolastiche. Quanto al resto, ogni vero poeta è un poeta impegnato, cioè un uomo che ha in primo luogo delle idee e dei sentimenti da sostenere: cioè, semplicemente, un poeta. L’altro, puro o impuro che sia, ermetico o neorealista che sia, non è un poeta, ma un cantore. Ma torno a dire che tutto, più che dai contenuti, dipende dal modo. Cavalcanti della Ballatetta, pur parlando d’altro, era impegnato, capace di suscitare in noi sentimenti ed idee anche civili, come al contrario non sa suscitarle Vincenzo Monti nella sua Bassvilliana, pur così gremita di dichiarazioni e di proposizioni legate alla storia concreta. Comunque, non credo che la nozione di irrazionale coincida con la nozione di decadentismo. Semmai, con la nozione stessa di poesia, per quel quid che la fa consistere e che soltanto a cose fatte può fino a un certo punto essere tradotto in termini logici. Il decadentismo si ha quando questo ir-

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razionale, motore segreto della poesia, diventa un programma e quindi la negazione di se stesso per l’intervento esterno della ragione. La poesia appare sempre determinata da un suo particolare necessario contatto con la prosa. Cosa pensate dei rapporti dell’attuale poesia con l’attuale prosa, di romanzo o di saggio?

Non direi che «la poesia appare sempre determinata da un suo particolare necessario contatto con la prosa», anche se è vero che il poeta deve leggere e scrivere molta prosa. Ma c’è poi un’intercapedine fra prosa e poesia? È che oggi, forse, per poesia s’intende soltanto la poesia lirica: la lirica, anzi, preferendo togliere il sostantivo anziché l’aggettivo. Ma tornando alla proposizione di sopra, essa mi par del tutto reversibile. Quanto al linguaggio, devo riconoscere che tanto il prosatore quanto lo scrittore in versi si sono oggi quasi interamente liberati dalla servitù d’una lingua astratta che non è mai stata parlata da nessuno per avvicinarsi a una lingua concreta e attuale, in continua trasformazione. Una lingua, naturalmente, che varia da autore a autore, ma che nella sostanza dev’essere in tutti la più atta a rappresentare (non a ricalcare) il parlato, cioè la vita, la concreta realtà. I dialetti, in questo senso, possono esser sempre di validissimo aiuto, ma non credo che si debba per forza sostituire il dialetto alla lingua nazionale, che bene o male va sempre più estendendosi e diventando concreta. Fra Dante, che usò il volgare della borghesia nascente, e il Belli che usò il dialetto della plebe asservita, c’è una differenza sostanziale. Il primo è l’inizio d’un arco ascendente, quando il cristianesimo e i comuni erano forze in progresso, mentre l’altro è l’estremo opposto di quell’arco, determinato da una reazione o rivolta verso il basso contro Istituzione e Lingua ormai vuote di contenuto ma persistenti a fini dispotici di classi privilegiate. Oggi l’uso del dialetto non saprei quale giustificazione storica o sociale potrebbe avere. Anche la poesia costituisce un «valore» sociale, qualunque posto voglia ad essa assegnarsi nella gerarchia dei valori del nostro tempo. Come s’inquadra, in particolare, la poesia con le altre espressioni dell’arte di oggi? Cosa pensate della situazione del poeta nella nostra società?

Ho in gran parte risposto nei numeri precedenti. Quanto alla posizione del poeta nella nostra società, non si sono fatti progressi, ed è (o è di nuovo) una posizione di solitudine e d’isolamento. La società, oggi, poco ascolta i suoi poeti: poco li legge. E poco essi agiscono non dico sulla sua cultura, ma nei suoi gusti e sul suo costume. Ma è proprio vero che D’Annunzio, da questo punto di vista, sia stato maggiore di Leopardi?

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10 POLEMICO PREMIO SENZA VINCITORE

[Risposte a Pietro Cimatti] Senti, le interviste televisive servono ai poeti o alla poesia?

Che domanda, ai poeti naturalmente. Tu che sei giudice letterario di molti premi, trovi buona la produzione media dei concorrenti?

No. L’Arcadia monta. Sono tutti così bravi, così bravi, così in ordine con le richieste del mercato, che diventa sempre più difficile trovarne uno che vada per conto suo, uno che sappia sbagliare, un poeta, insomma. Discutendo ieri sera con Quasimodo hai sostenuto la tua tesi della (relativa) intraducibilità della poesia. Ne vuoi dare l’idea qui, in breve?

La poesia si traduce perché è bene farlo, perché la debbono leggere anche quelli che non conoscono la lingua originale del poeta. Ma quando un inglese traduce, mettiamo, «bread», mi sai dire che fine ha fatto quel «pane» dall’originale che in italiano voleva dire sudore della fronte, maledizione di Adamo, liti in famiglia ascoltate fin dall’infanzia? «Bread» è una parola fredda, senza sbavature, senza religione. «Pane» è una parola magica, piena di storia, di fame. Non è che un esempio, naturalmente. Ma capisci cosa voglio dire. La poesia italiana è già impossibile tradurla in italiano. Il verso di Quasimodo: «quel cupo murmure di mare» traducilo in «quel cupo mormorio di mare» e vedi che rimane. Non è più Quasimodo. Certo che si deve tradurre, traduco anch’io, ma non si può negare che tradurre è impossibile (o quasi). Pensaci tu, adesso, a risolvere il problema. Sei troppo modesto per il «rango» cui sei giunto. Sei forse abituato a una immagine fissa di Giorgio Caproni che ti dispiace abbandonare?

Ti dico solo una cosa. Quel che sono ho voluto esserlo. Faccio proprio quello che mi piace fare. Il mio carattere viene solo da dentro. Il cinema è arte? Accostandosi alla narrativa può giovargli, e così giovare alla cultura generale?

Il mio è il parere di uno che al cinema ci va ogni morte di papa. Per me, non è arte. Lo era di più, se così posso dire, quando era muto, “piovoso”, grigio e nero.

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Ma il problema non mi interessa affatto. Cosa consiglieresti a un giovane poeta?

Di scrivere poesie. Infine, a chi sono utili i premi letterari?

Ai giudici. Posso dirlo?

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11 DISCUSSIONE SU POLITICA E CULTURA

Il poeta – come l’ingegnere, come lo scienziato, ecc. – è prima di tutto un uomo: un cittadino. Uomo è il sostantivo, poeta l’aggettivo. E come tale, dunque, non può estraniarsi dalla politica. Ma altra cosa è la politica e altra cosa è il politico di professione. Con quest’ultimo il poeta va di rado d’accordo. Son due personaggi opposti. Il politico di professione tende spesso e volentieri alle generalizzazioni, agli schematismi, alle astrazioni. Il poeta è la concretezza in persona, e quindi è portato per natura a rompere proprio quegli schemi e quelle generalizzazioni, seminando fecondamente il dubbio dov’è il dogma, e l’inquietudine dov’è l’acquiescenza. In seno a un partito, perciò, il poeta è quasi sempre destinato, quando non si rassegna a diventarne il bardo o il tamburino, a far la parte dell’eretico, non potendo accettare in tutto e per tutto la cosiddetta disciplina di partito, che giustamente e necessariamente impone dei limiti ai militanti. Il poeta è fondamentalmente un critico e un bastian contrario, e per questo deve conservare intatta la sua libertà di pensiero e d’espressione. Non può essere in nessun modo unilaterale e sempre deve avere il diritto di disubbidire e magari di contraddirsi. Non deve e non può aver rispetti, nemmeno di fronte alla cosiddetta ragion di Stato. Di fronte ai partiti, compreso quello che il poeta sente come il suo e perciò lo appoggia perché il più vicino ai suoi ideali, è meglio ch’egli rimanga fuori della loro organizzazione interna e della loro disciplina. È sul banco di prova di questo testimone ch’è il poeta, e di questo costruttore di cultura libera (e non c’è cultura vera se non è libera) che i partiti hanno modo di saggiare le proprie verità e di correggere i propri errori. E non viceversa. Il Partito è un terribile organismo astratto, anche se necessario, di fronte al quale il poeta dev’essere in continua posizione di diffidenza, con tutte le sue punte tese, come l’istrice. Ma i capi di partito devono al contrario ascoltare il poeta (quello che vien chiamato, bestialmente, il «produttore di cultura»), e non suggerirgli ciò che è necessario dire. Possono ribatterne le idee, combatterne gli errori. Ma possono anche correggere i propri sulla viva testimonianza della sua voce e soprattutto sul continuo vivo suo richiamo alla realtà e alla concretezza. Il pericolo maggiore che un poeta (e continuo a usare questo termine, per me comprensivo al massimo anche se a me antipatico) vede in un partito di massa, è la tentazione di tale partito a farsi l’unico partito possibile (e quindi a non essere più un partito) e a identificarsi con lo Stato. Il pericolo insomma che la disciplina di partito diventi la disciplina dello Stato. Il quale cessa d’essere Stato (res publica) e diventa Regime, appunto quand’è in mano a un solo partito, ossia

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a una sola classe dirigente. La «civiltà» non l’hanno mai fatta i teologi o i teoreti o gli statisti (i politici) di professione. Sembra una lapalissade, ma è proprio il contrario: sono stati i singoli individui, i singoli inventori, ad aver «fatto» la teologia, e la teoria, e lo Stato. La «massa» è un’altra di quelle astrazioni cui volentieri son portati i politici di professione. Coi mezzi attuali di propaganda, non ci vuole molto a un «partito di massa» per creare una «massa». Cioè un agglomerato di gente che la pensa tutta allo stesso identico modo, senza persone realmente capaci di pensare in proprio. E a questo modo i partiti di massa non fan che ripetere la chiesa, con la differenza che alla giustificazione d’un premio ultraterreno al crescete e moltiplicate, sostituiscono il miraggio d’un premio terreno: un aspirapolvere, un frigorifero, una macchina, una casa, una villeggiatura (campa cavallo) per tutti. La lotta fra i partiti è la condizione per una reale vita in movimento. Quando non ci saranno più i partiti, perché quello più organizzato li avrà aboliti tutti, il poeta diventerà l’antipartito. Diventerà un incomodo e una persona «punibile». Ma da chi, e ai sensi di quale legge?

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12 CAPRONI CONSIDERA LA CRITICA UNA CATTIVA AZIONE

[Risposte a Gian Antonio Cibotto] Una delle più dolci sorprese di questa stagione letteraria, che si annuncia piena di libri ma avara di opere valide, è venuta dalla tua nuova raccolta di poesie. Ci ho ritrovato il colpo d’ala dei momenti migliori e insieme una preoccupazione di sobrietà, scandita dal desiderio di aderire più intimamente alla realtà. Questo avvicinarti sempre più alle cose in una stagione in cui gli altri cominciano invece a distaccarsene, da che cosa deriva?

Dagli anni. Potrei dire dall’approssimarsi della vecchiaia, se questo termine non avesse, in Italia, un senso così dispregiativo. A cinquant’anni ci si può permettere il lusso, ci si deve permettere il lusso di ricapitolare, di riguardar la vita per sommi capi, nella sua giusta essenza, smorzando gli aloni e concentrando il fuoco. Si è giunti su un pianoro dal quale si può alfine scorgere intero almeno uno dei due versanti dell’esistenza nostra e quindi altrui. L’orizzonte delle esperienze (della ragione), a quota cinquanta è per forza più vasto che a quota venti: più vasto e più preciso. L’occhio, pagati tutti gli scotti, s’è illimpidito, s’è fatto più acuto e penetrante, riesce meglio a vedere in profondità, a distinguere le reali dimensioni di quelle che tu chiami «le cose», le cose che sono i fattori stessi della vita, che sono i fattori della vita, che sono la vita; riesce meglio a paragonarle fra loro, a raccogliere quelle essenziali e a buttare tutto ciò che è posticcio, provvisorio, «fabbricato». Se prendo in mano la raccolta dei tuoi primi versi Come un’allegoria, che porta la data del 1936, oppure Ballo a Fontanigorda, uscito due anni dopo, e li confronto con le tue raccolte più recenti, trovo che tua preoccupazione costante è sempre stata quella di superare certi residui sperimentalistici e intellettualistici (definiamoli così). Già con le famose Stanze della funicolare, però, avevi raggiunto un tono sciolto e felice, fluido e disteso, nel quale le immagini respiravano in piena luce. Ora a leggere attentamente le tue ultime liriche si ha l’impressione che questo lavoro implacabile di scavo continui, che un’ombra di perplessità cali a intermittenza sul verso, quasi frenandolo. È un’impressione mia oppure colgo nel segno?

Credo di non aver mai confuso il verbo «ricercare» col verbo «sperimentare», così come oggi lo si intende. Ogni artista, grande o piccolo, è in perenne ricerca d’una sua verità e d’un suo linguaggio. Lo sperimentalismo fine a se stesso è vuoto formalismo, prono conformismo a certe idee correnti che vorrebbero essere anticonformiste al massimo e che proprio per questa loro volontà (non necessità) obbediscono invece alla peggiore retorica del nostro secolo, il quale ha

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perso tanti dei suoi anni migliori (da quando ne aveva cinque ad oggi che s’avvia alla settantina), a sembrare – perbacco! – «avanguardista», con tutto il corredo di pregiudizi – spacciati con grande spreco d’intelligenza ma con pochissime valide pezze di appoggio – che tale «idea» comporta. Quella certa perplessità che ti sembra di notare nei miei versi anche ultimi – quel «freno» – potrebbe appunto nascere dal continuo tremore ch’è in me di cedere al formalismo: di restare al di qua o di andare al di là della «cosa» (della verità che mi sono formata), lasciandomi trasportare dalla corrente dei puri giochi verbali. Prima ancora di conoscerti, sapevo già di una fiaba che ti descrive nei panni di suonatore di violino, scaraventato nei posti più imprevedibili per suonare i motivi di moda. E poi nei panni più strani, in un crescendo di amarezza che però non t’impediva di coltivare in segreto la poesia. Alla tua esperienza di orchestrale devi qualcosa del tuo tono lirico che immerge il paesaggio e la memoria autobiografica in un alone di rara e musicale suggestione? Oppure si tratta d’una stagione dispersa, che ami ignorare?

Ti ringrazio d’avermi offerto l’occasione per mettere in chiaro la «fiaba» cui accenni. La verità – per quanto possa interessare – è molto più semplice e piatta. Certo meno pittoresca. Ho studiato seriamente violino e composizione, anche se non sono giunto al diploma. Il mio sogno di fare il concertista e il compositore fu stroncato all’improvviso da un trauma che ancor oggi mi impedisce di spiccicar quattro parole davanti a più di due persone. Una sera, in un’orchestra di studenti ma presente il pubblico, dovetti su due piedi sostituire il violino di spalla e suonare io la Méditation della Thaïs di Massenet. Non ero preparato alla sortita, e mi prese una fifa tale che, giunto in fondo Dio sa come, giurai di cambiar mestiere. Mi arruolai in un’orchestrina da ballo, tanto per racimolar qualche soldo. Ma ci stetti poco, e non fui per nulla «scaraventato nei posti più imprevedibili», bensì in onesti «circoli ricreativi», compreso un dopolavoro dei carabinieri. Fino a quando preferii impiegarmi in un ufficio legale. Tutto qui. Da allora (prima del soldato) non ho più toccato il violino, ma non m’è rimasta nessuna amarezza. La poesia avevo già cominciato a «coltivarla» prima di quella felice disgrazia, e non quindi come rivalsa, ma per cercar di mettere delle parole ai corali che andavo costruendo durante il corso d’armonia. Caduta la musica, rimase in me il vizio di scrivere le «parole». Scherzi a parte, credo che lo studio della composizione mi abbia aiutato a risolvere certi problemi che sono anche della poesia – problemi non di «musicalità», ma di «musica», – così come credo che il temperamento del violinista si rifletta inevitabilmente in certi scatti nervosi – in certo piglio – del verso. Qualche tempo addietro ho letto una tua storia a puntate della poesia ligure, nella quale ricordi con tenerezza vibrante certa aria intellettuale che circolava intorno a «Riviera ligure» e poi a «Circoli». Sembra quasi che tu abbia respirato quell’atmosfera stimolante, mentre poi consultando le tappe della tua vita uno scopre che sei toscano (di Livorno, per la cronaca) e che le pagine delle due riviste le hai sfogliate in biblioteca. Eppure sei lo stesso dei loro, come mai?

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Quando mi trasferii a Genova, nel ’22, avevo dieci anni. Mi sono dunque formato nell’ambiente «ligustico», non in quello «tosco». Studiando musica mi occupavo, necessariamente, anche di letteratura, ed è perciò naturale che io abbia avvicinati per primi i poeti della «Riviera Ligure», o per meglio dire i poeti del «gruppo ligure» cui accenna Boine a proposito di Sbarbaro, Mario Novaro, ecc., cui si aggiunsero poi, con altri, Montale, Grande, Barile, Bianchi, Descalzo, Laurano, Capasso che per primo s’occupò delle mie cose e le stampò. Nulla di strano dunque che io abbia in qualche modo subito, anche per certe affinità di carattere che andavo scoprendo, l’influsso di quell’ambiente: ambiente allora molto vivo, com’è risaputo. Per due volte, a distanza di oltre un decennio, hai saggiato il terreno della prosa. E direi positivamente, con molti consensi. Avrei pensato a nuove prove ed invece hai tirato subito indietro il piede, quasi si fosse trattato di cedimenti, di scherzi. Perché un timore del genere? Quasi tutti i tuoi colleghi, in fondo hanno amato coltivare insieme alla produzione lirica una poesia trasformata di tono, da Cardarelli a Ungaretti e Diego Valeri e Sbarbaro, tanto per citare i primi nomi che vengono alle labbra, a Luzi, Sereni, Sinisgalli, Gatto...

Non ti so dare una risposta precisa. Racconti ne ho scritti e pubblicati parecchi qua e là (forse troppi) e il romanzo mi ha sempre tentato. Ne ho cominciati due... ma poi ho sempre finito col consumarli (col bruciarli) in poesie. La prosa mi mette soggezione. Abituato ad andare a cavallo (a scrivere in versi), quando vado a piedi (quando scrivo in prosa) mi par di conservar troppo il passo caracollante del cavallerizzo, appunto, appiedato. Il che, naturalmente, mi irrita. Forse soltanto una terza persona coraggiosa potrebbe mettere le mani in quel mio mucchio di raccontini, e farne una scelta. Ma non ho mai pensato seriamente a tale possibilità. Le parole son traditore, e cerco sempre di pubblicarne (te ne accorgi dalle mie smilze raccolte) il meno possibile. Da alcuni anni fai il critico militante di un grande quotidiano1. Sei molto bravo e stimato, perché ti distingui per una sorta di cordiale chiarezza, che ti permette di mettere talora il dito sulla piaga non dimenticando mai l’uomo. Ma se parli di questa tua attività non sai celare un senso di disappunto, di stanchezza, quasi in fondo al cuore ti rimordesse qualcosa. È segno di scontentezza sul piano critico oppure significa che il compito non ti è gradito ed ameresti scrivere altro?

Hai colto nel segno: significa, appunto, che «il compito non mi è gradito». La figura del giudice è una figura certamente necessaria e benemerita, ma... ma non fa per me. Spesso la critica, magari involontariamente, diventa una cattiva azione, specialmente se esercitata sui vivi. Non bisogna mai dimenticare che quando si tocca un libro si tocca un uomo, spesso un bravo uomo anche se il libro è cattivo, o se tale ci sembra. Ora, a parte certi casi clamorosamente evidenti, sui quali del resto basta stendere il velo discreto del silenzio, si è proprio sicuri che la nostra opinione sia tanto giusta da... giustificare il cruccio che si procura a un uomo, censurando? La critica, checché se ne dica, non è o non è ancora una

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scienza esatta: si fonda su un’opinione. Montaigne forse esagera quando dice, a disfavore della critica, che mai due uomini giudicano allo stesso modo la stessa cosa, e che non solo è impossibile trovare due opinioni esattamente eguali in uomini diversi, ma addirittura due opinioni eguali in uno stesso uomo in ore diverse. Montaigne forse esagera, ma certamente ha ragione quando aggiunge che «si lavora più a interpretare le interpretazioni che a interpretare le cose», e che «mentre sovrabbondano i commentatori, di autori c’è invece carestia». Perché allora insisto nello scrivere recensioni, e per giunta con crescente malumore? Ma lo domando anch’io, senza trovare una risposta plausibile. Per il semplice gusto di ficcare il naso nelle cose altrui? Per puro dovere professionale? Per non venir meno agli impegni presi? L’interrogativo rimane aperto. (Forse perché un uomo veramente vivo non può esimersi del tutto dal giudicare, anche se il compito è sgradito? La vogliamo mettere così?). Ogni tanto ti vedo intrappolare nella eterna bagarre dei premi dove un uomo distaccato, civile e gentile come te, non capisco che ci stia a fare. Ancora mi chiedo che compito assolva. Mi puoi venire in aiuto?

A «intrappolare», nei premi, non sono i giudici, sono i candidati. Come si avvicina un premio ritenuto importante o «gadollo» [toscanismo per «pieno zeppo»], il telefono non ha più tregua. Tutte le stagioni sono buone per mendicare un voto: l’amicizia sviscerata, la famiglia a carico, la tarda o troppo giovane età, il parente – magari alla lontana – malato; ed è veramente pietosa, questa questua spesso indiretta, da parte di uomini (di scrittori) che per la loro stessa funzione dovrebbero essere i primi a dar buon esempio di serietà e di distacco. Quelli che, come te, scrivono davvero per scrivere, col solo scopo di mettere al mondo un buon libro e di dar così qualche aiuto agli uomini che lo leggeranno, si contano, credimi, sulle dita. Troppi scrittori par ormai che mirino unicamente al «successo» (alla grande tiratura, ai soldi), e davvero non capisco come, allora, non preferiscano fare i cantautori, per i quali successo ed introiti son tanto più facilmente conquistabili, grazie ai cosiddetti mezzi di diffusione della cultura, così perfettamente attrezzati. Se ho avuto delle sollecitazioni e delle pressioni, t’assicuro, è sempre stato da parte dei concorrenti al premio e mai da parte di colleghi di giuria.

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13 DUE DOMANDE A GIORGIO CAPRONI

[Risposte a Francesco Palmieri] Già nelle poesie del Seme del piangere apparivano quei «segni del reale» che più espliciti e chiari si ritrovano nel Congedo. Si ricava, da essi, che il percorso dell’esistenza individuale muta nel tempo, ma la storia non può sottrarlo ad un suo destino, implicito nella stessa condizione umana. È possibile per te, poeta, tentare una dimensione dell’uomo al vaglio della storia?

Se con «segni del reale» vuoi alludere alla presenza o evidenza, nella scrittura d’un poeta, degli oggetti fisici che lo circondano e lo completano oltre che dei fatti, dei problemi e dei conflitti dell’hic et nunc in cui il poeta è immerso, mi sembra che in effetti tal «segni» già si possono scorgere nei miei primissimi versi di Come un’allegoria (1932-35), anche se lì si tratta d’un «reale» ancor più pertinente alla natura che alla società. «Segni» cui, già a quei tempi, in quel mio macchiaiolismo, più che impressionismo, già tentato dalle sirene dell’espressionismo, davo un valore di quasi un’allegoria: un significato sempre volto ad esprimere un qualcosa d’altro (una mia e altrui inquietudine) al di là del puro significato letterale o figurativo della parola. Il peso d’una storia generale, opprimente l’esile storia privata che di quella s’imbeve, comincia a farsi più esplicito, mi pare, negli Anni tedeschi e nel gruppo delle Stanze. E, sempre se afferro al giusto il senso della tua domanda, credo di poter dire al proposito che il «tentativo» di «una dimensione dell’uomo al vaglio della storia» già avevo cominciato a compierlo in quelle mie cose. Il mézigue degli Anni tedeschi e delle Biciclette, i «piccoli uomini» umiliati e offesi di All alone (non All’Alone né Al alone, come qualche critico poco attento ha tradotto per proprio conto), l’Enea del Passaggio e, per tutti, l’«utente» delle Stanze della funicolare, possono forse essere indicativi in questo senso. Senza gonfiar troppo le penne per questo, potrei anche dire d’essere stato il primo a cercar di rappresentare una ventina d’anni fa col mio «utente» (definizione antieroica e antiumana rafforzata, nelle Stanze della funicolare, per contrasto, dall’aulico pronome «ei»; definizione che poi ha trovato, ahimé, conferma e fortuna in questa nostra era d’industrializzazione e di alienazione) la condizione e la dimensione dell’uomo d’oggi ridotto, dallo sconcerto e dai crimini della guerraccia prima, dalla cosiddetta civiltà di massa e del «miracolo» poi (un «miracolo» fondato sul relativo raggiungimento d’un benessere meramente elettrodomestico, estratto magari su bisogni artificiosamente creati per il solo reale benessere dei cosiddetti produttori od operatori economici, ma senza uno spiraglio di luce), ad anonimo e amorfo souffre-douleur d’una società

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tutta sbagliata perché mal diretta nelle sue proprie aspirazioni profonde, senza più un preciso volto o una precisa figura. La stessa vita di Annina nel Seme del piangere è tutta luttuosamente ombreggiata, nonostante l’apparente spensieratezza, dalla guerra o dal presentimento della guerra, e quindi dalla «storia», e anche il soggiacere e il soccombere di lei, come quello degli altri «personaggi» che l’hanno preceduta, mi sembra già un implicito giudizio e una condanna di tutto un sistema di Istituzioni (religiose, morali, politiche, sociali ecc., pur se i «fatti» della «storia» e i riferimenti diretti a questi fatti non sono mai esplicitamente «detti», ma «suggeriti») che, svuotate ormai d’ogni originario contenuto e d’ogni concreta giustificazione, son mantenute artatamente in vita, e artatamente sopravvivono, soltanto come sopruso «contro la storia»: soltanto come strumento a salvaguardia di ben altri interessi non confessabili, o di più piccoli ma meno tenaci e falsi interessi legati al loro medesimo insistere e persistere. Quando l’«utente» avrà raggiunto l’ultimo fondo della propria (e altrui, giacché dell’altrui egli è la cavia) dispersione, nasceranno allora – probanti nei modesti limiti delle mie forze – i «personaggi» non meno disperati, ma già coscienti, del Congedo. Personaggi che se non propongono, né tantomeno impongono, loro soluzioni nuove (e del resto non credo che ciò sia compito della poesia, la quale non può che testimoniare), già abbastanza nettamente, mi pare, oppongono il più radicale rifiuto a uno stato di cose ch’essi non considerano affatto fatale, ma fondato anche su ben determinate colpe di pochi (le dichiara, per tutti quanti, il «preticello»), interessantissimi, questi pochi, al condizionamento dei molti. Sono tutti personaggi, dirò en passant, che apparentemente non credono più a nulla se non alla morte, ma che nel profondo riescono invece a conservare, nel caos, una loro unità e dignità di uomini, sia pure unicamente e paradossalmente basata sul puro e semplice dovere di vivere. Procedere oltre su questa strada (poiché la parola «congedo» non si riferisce affatto alla mia singola persona, come qualcuno ha interpretato, ma soltanto alla singola prosopopea del «viaggiatore cerimonioso») non so se potrà essere nelle mie possibilità e nelle mie fortune. Ovviamente è nelle mie ambizioni, anche se tutto quanto fino a questo momento ho cercato di spiegare – e mi riporto così, subito, alla seconda domanda – è frutto non d’un programma a priori, ma del piccolo senno di poi. Il tuo far poesia è anche un raccontare emblematico, sempre drammatico nei significati ma ironico e distante della resa. È forse anche per questo che hai salvato la tua poesia dalle secche della retorica dei sentimenti. Vorresti parlarci delle tue prospettive di lavoro secondo questi risultati, nonostante il tuo cerimonioso «congedo»?

Il far poesia è un atto sommamente incerto e, comunque, preterintenzionale. Non ho mai creduto ai programmi, ai manifesti, ai piani, alle «prospettive di lavoro» in fatto di poesia. Intanto, la poesia non è un «lavoro», ma una pura e semplice chance, un azzardo, una intermittente qualità. Nasce ogni volta inaspet-

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tata, quando nasce (e non è detto che un poeta sia sempre poeta come un ingegnere è sempre ingegnere e un autista è sempre autista), e quasi ogni volta nasce – imprevedibilmente come la vita stessa – in una direzione diversa e direi insospettata. L’uomo, nel momento in cui è spinto a scrivere una poesia, è sempre preda di forze oscure (le chiami il demone, la grazia, l’ispirazione, la necessità, il subconscio: dia loro il nome che vuole) ch’egli soltanto fino a un certo punto può dominare. Può tuttalpiù non intralciarle, assecondarle con la sua tecnica (che etimologicamente vuol dire far bene), e convogliarle con la sua intelligenza critica, scartando tutto ciò che è da scartare. Ma gli è impossibile dire: «ora farò questo, poi farò quest’altro». Egli può soltanto «fare», e in quanto a «sapere» può sapere soltanto (e ancora fino a un certo punto, perché il più delle volte si dimentica e resta, di fronte a se stesso, nella posizione d’un qualsiasi altro lettore) ciò che ha già fatto. Le potrò perciò dire le mie «prospettive di lavoro» soltanto quando questo futuro eventuale «lavoro» l’avrò, se mi sarà dato, compiuto.

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14 TRA GENOVA E LIVORNO

Sono nato in questa città cinquantatre anni fa, il 7 gennaio 1912, precisamente dietro quelle case in Cors’Amedeo. Nelle sue poesie, però, la città del cuore è e rimane Genova.

Beh, non saprei dare una risposta esatta; son due città… son due momenti diversi della mia vita. Potrei dire che per me Livorno è l’infanzia, Livorno è la madre, son le prime esperienze; Genova sono io, è dove mi sono formato, ho studiato, mi sono sposato. Quindi son tutte e due città del cuore, in fondo. Qual è il motivo profondo che lega lei, Caproni, a Livorno, alla sua città?

Beh, il motivo che lega ogni uomo al proprio luogo d’origine, qualunque uomo è legato al proprio luogo d’origine: un motivo affettivo più che altro. A Livorno ha dedicato qualche libro di poesie?

Sì, ho dedicato Il seme del piangere che racconta in versi la storia di Anna Picchi, che era mia madre, e che appunto da Cors’Amedeo percorreva tutta Livorno per andare a lavorare, eccetera. Mi sono immaginato mia madre ragazza e l’ho ambientata nella sua città, naturalmente. Come ha cominciato a far versi?

Eh, come ho cominciato a far versi è una storia un po’ curiosa, per combinazione. Io studiavo composizione e dovevo mettere delle parole alla musica, delle parole a certi corali. Un po’ le prendevo dal Tasso, un po’ da altri poeti illustri; finché un giorno volli provare a scrivermele da solo queste parole. Poi abbandonai la musica e rimase il vizio di scrivere le parole. Ha scritto niente in prosa?

Eh, in prosa ho scritto forse troppo. Ho scritto parecchi racconti, poi le solite critiche letterarie, recensioni. Però non le ho mai raccolte in volume, ad eccezione di un diario di guerra, Giorni aperti, e di un racconto che poi era il capitolo di un romanzo: Il gelo della mattina. E basta.

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Ma ha intenzione di scrivere un romanzo?

No. Son troppo pigro per poterlo fare. Nei suoi ultimi libri lei fa un frequente uso della rima, non usa espedienti letterari d’avanguardia; pensa lo stesso di essere al passo con certi movimenti poetici d’oggi?

La rima veramente l’ho usata da molto tempo. Non perché pensi che la rima sia un elemento essenziale della poesia, ma perché a me la rima serve come elemento costruttivo, come elemento anche di effetti psicologici e di espressione, come in musica servono gli accordi, le consonanze, le dissonanze. Certo la rima non deve essere un puro ornamento, per esempio la rima con il participio passato, ma è un modo di far consonare insieme due idee, come in musica si fan consonare due note, e far scaturire una terza idea. Se prendiamo per esempio la Divina Commedia, e noi esaminiamo le rime, vediamo già che sono delle colonne, che tengono degli archi portanti: la «vita» che è «smarrita», sono due idee che si richiamano e già abbiamo la chiave del I Canto; la «paura» che è «oscura» e «dura», e così via. Deve essere una rima funzionale. Naturalmente nessuno è obbligato a usare la rima. Quanto alle forme, diciamo così, apparentemente tradizionali che sembrano in contrasto con certe poetiche d’oggi, io penso il contrario: penso che dopo tanta distruzione, dopo tanta demolizione, e il discorso che si era fatto accademico, si era fatto aulico, oggi si possa benissimo ricostruire un discorso compiuto, un discorso da uomo a uomo, un discorso chiaro in poche parole.

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15 IL MESTIERE DI POETA

[Risposte a Ferdinando Camon] Nato a Livorno («Livorno è Annina, mia madre»), vissuto lungamente a Genova («Genova sono io»), Caproni abita ora a Roma («enfasi e orina»), in una via della circonvallazione gianicolense dall’arioso nome di Quattro Venti. Non ha alcun fascino su di lui la capitale religiosa, custode del verbo di «un Dio di cui la società si ricorda solo quando le fa comodo». Reduce da un’operazione, ha un viso affilato e severo quale non si aspetterebbe chi avesse visto il profilo volitivo e quadrato reso da Gentilini1 in un disegno nervoso, di poche linee. Davvero lei pensava, da piccolo, di fare il violinista? Il fatto potrebbe costituire oggetto di una curiosità tutt’altro che oziosa, ove si pensi che tanta sua poesia è musica, e per di più (io credo che si possa dire) «musica per violino».

Ho studiato molto seriamente violino e composizione per vari anni, senza tuttavia giungere al diploma. Lo studio del violino è uno studio duro, egoistico, che richiede otto, dieci ore giornaliere d’applicazione, ma per me questa non era una fatica, piuttosto una lenta conquista che mi appassionava, come immagino accada all’alpinista, per il quale è gioia anche il sudore necessario per giungere sulla vetta. Smisi per via d’un trauma nervoso, dopo essere decaduto a suonare, per necessità, nelle orchestrine da ballo, come allora si chiamavano (eravamo ai tempi di Noi siam come le lucciole, viviamo nelle tenebre, e di Adagio, Biagio). Non so quale conseguenza possa avere avuto tale studio sui miei versi. Sulla mia vita ne ha avuta molta. Mi ha esercitato alla pazienza e, soprattutto, giacché il violinista è in primo luogo un interprete, alla quotidiana scoperta dei miei e degli altrui sentimenti. Qualche più visibile profitto, semmai, i miei versi possono averlo tratto dallo studio dell’armonia e della composizione. La musica, come l’architettura, più d’ogni altra arte, forse, rende evidente quanto sia importante, anzi necessaria, la tecnica, non certamente come fine ma come mezzo. La traccia più scoperta di tale mutazione la si potrebbe vedere, ad esempio, nell’uso che io faccio del ritmo e soprattutto della rima, da me intesa come consonanza o dissonanza di vocaboli (di idee) che fondendosi insieme (o richiamandosi) generano una «terza» idea poetica ch’è quella che conta nella composizione. Con tutto questo, non so fino a che punto sarebbe giusto dire che «tanta mia poesia è musica, e per di più musica per violino». Un’arte non può mai essere un’altra, a meno che non si voglia restare nel campo delle approssimazioni e dei vezzeggiativi. Ma forse la sua domanda vuol semplicemente significare questo: che nei miei versi per Annina si sente più che negli altri il “temperamento”

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(la “nervosità”, ossia la sveltezza, l’agilità, la concisione, la snellezza e, oso dire, la profondità della “quarta corda” dopo gli acuti del “cantino”) del violinista. E questo è naturale. L’antica boutade, che alle origini di un poeta ci debba sempre essere una donna, è vera per lei in una forma tutta particolare: forse la donna più amata nella sua vita, e che più ha influito nel suo destino, è stata la madre, Anna Picchi, ormai una delle figure poetiche più cospicue del Novecento.

All’origine dei miei versi, più che una donna, direi che c’è la giovinezza e il gusto quasi fisico della vita, ombreggiato da un vivo senso della labilità delle cose, della loro fuggevolezza: coup de cloche, come dicono i francesi, o continuo avvertimento della presenza, in tutto, della morte. Sono versi un poco «macchiaioli», che risentono molto del mio soggiorno, da bambino, nelle campagne tra Pisa e Livorno, in casa di un certo Cecco, allevatore e domatore di cavalli. La donna viene dopo, e non è mia madre. Si fa presente con la morte di una ragazza che mi era cara, morte improvvisa che mi lasciò molto scosso, finché a ridarmi l’equilibrio venne Rina, quella che oggi è mia moglie. La mia non è una poesia amorosa in senso stretto. Dopo Cronistoria essa mira sempre di più (così mi par di leggervi oggi, con mente distaccata) ad essere un’allegoria della vita con tutto quanto ha di sgomentante la vita stessa. La guerra, o la paura della guerra, ha gravato su tutta la giovinezza, fino alla maturità, della mia generazione. La guerra ingiusta, la guerra fascista. E credo che questa continua condanna si senta un po’ ovunque nella mia poesia, che è così poco autobiografica, come invece alcuni lettori frettolosi, incapaci di leggere a fondo, l’hanno qualificata. Il personaggio di Anna Picchi, mia madre, appare per la prima volta nell’Ascensore, che scrissi a Genova, in via Bernardo Strozzi, tornato da Roma per fare una visita a mia madre ammalata, e dopo aver sentito la condanna irrevocabile del medico. Ripensai allora a mia madre giovane, a mia madre ancora ragazza, e a tutto il dolore e il male che la maternità le aveva recato, e con la maternità «le guerre», a cominciare da quella del 1912, la miseria, i lutti. Nel Seme del piangere Anna Picchi si precisa e assume il volto che è stata capace di darle la leggenda ch’io m’ero formato di lei, udendo i discorsi in casa e guardando le fotografie. Tentar di far rivivere mia madre come ragazza, mi parve un modo, certo ingenuo, di risarcimento contro le molte sofferenze e contro la morte. È perciò inesatto dire che la madre è stata la donna più amata della mia vita. Non si può «amare» la madre, e anzi io, come tutti i giovani, del resto, mi sono presto allontanato da lei, lasciandola sola e malata, essendomi fatta una famiglia mia. Ho invece amato moltissimo (e amo ancora moltissimo) l’Annina che non s’era ancora maritata e che io ho conosciuto, ripeto, soltanto nella leggenda. In questo senso l’affermazione della sua domanda può essere giusta.

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Vuol darci qualche notizia biografica di Annina?

Anna Picchi nacque a Livorno nel 1894 ed è morta a Palermo nel 1950. Figlia di Gaetano Picchi, guardia doganale ed «ebanista» a tempo perso, e di Fosca Bottini, frequentò da ragazza il Magazzino Cigni, una delle case di moda allora in auge a Livorno: nella Livorno ancora ottocentesca che tanto mi attira. Fu donna d’ingegno fino e di fantasia, sarta e ricamatrice abilissima, suonatrice di chitarra, ecc. Amava molto frequentare i «circoli» e ballare. Continuò a far la sarta e la ricamatrice anche nella mia prima infanzia, in Corso Amedeo, presso il Parterre, e forse fu ascoltando i suoi discorsi che s’affinò in me il gusto e la passione per l’arte. Non ricordo l’anno del suo matrimonio con mio padre, Attilio Caproni, avvenuto nella chiesa di Sant’Andrea. Da Corso Amedeo trasferì il suo laboratorio in via Lardarelle, e di lì poi, scoppiata la guerra del ’15, e mio padre partito, in via Palestro, in casa della bellissima Italia Bagni, nata Caproni. Furono anni di lacrime e di miseria nera. Poi, nel ’22, il trasferimento a Genova. Eppoi, nel ’50, la morte, avvenuta a Palermo, dove ora riposa con mio padre, la figura del quale è vivissima, proprio come «padre», a ben cercarla, nei miei versi. L’amor filiale diventa tenerissimo, devoto innamoramento, e la madre è pensata nella sua svelta e gentile figura, nel suo alone di cipria, nel suo profumo di pulito. È errato dire che in una simile atmosfera possono essere (e sono) innocentemente mutuati, e perciò stesso riscattati, temi e toni e figure e modi della poesia amorosa? La madre infatti è talvolta chiamata solo per nome (in Preghiera), tal altra come «ragazza» (in Quanta Livorno d’acqua), al cui passaggio un giovane resta col bicchiere in mano, smesso di bere (in Quando passava)...

No, non è affatto errato dirlo, appunto perché Anna Picchi non è presente come «madre», ma come ragazza da me vezzeggiata e vagheggiata. Ripeto, dei miei genitori, quello ad esser più presente come tale, è mio padre, l’Anchise di quell’Enea in cerca, dopo la guerra e l’incendio, d’una mai trovata nuova terra dove fondare la mai fondata nuova città: di quell’Enea che simboleggia un po’ il destino della mia generazione. Le pare che la linea di sviluppo dal Passaggio di Enea al Seme del piangere al Congedo stia anche in una progressiva acquisizione (penso all’ultima raccolta) di motivi razionali e logici?

Non trovo molti modi puramente narrativi nel Passaggio di Enea, o per esser più precisi in quelle parti del libro che fanno seguito ai Sonetti dell’anniversario. Gli oggetti e i personaggi e i pochi fatti nominati o presenti hanno un valore che li trascende, son pieni di significati che vorrei dire, per usare un vocabolo appartenente alla tecnica della musica e della fisica, «armonici». Del resto ho sempre pensato che in poesia non basta «dire» patria amanda est per fare, putacaso, poesia... patriottica. Si deve semmai suscitare l’amor di patria parlando d’altro, ma-

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gari, per fare un paradosso, di... cipolline. Parlarne con tanta forza da suscitare in chi legge uno spontaneo amore per la terra che le produce e per gli uomini che le coltivano! Anche da questo punto di vista val molto di più la ballatetta del Cavalcanti che non tutta la Bassvilliana di Vincenzo Monti, pur così ricca di fatti importanti, esplicitamente «detti». Qual è allora per lei, se c’è, la linea di svolgimento?

L’unica «linea di svolgimento» che vedo nei miei versi, è la stessa «linea della vita»: il gusto sempre crescente, negli anni, per la chiarezza e l’incisività, per la «franchezza», e il sempre crescente orrore per i giochi puramente sintattici o concettuali, per la retorica che si maschera sotto tante specie, come il diavolo, e per l’astrazione dalla concreta realtà. Una poesia dove non si nota nemmeno un bicchiere o una stringa, m’ha sempre messo in sospetto. Non mi è mai piaciuta: non l’ho mai usata nemmeno come lettore. Non perché il bicchiere o la stringa siano importanti in sé, più del cocchio o di altri dorati oggetti: ma appunto perché sono oggetti quotidiani e nostri. Parlavo, poco fa, dell’acquisto di motivi razionali; ma con ciò non volevo significare in lei l’acquisto di qualche certezza, che mi pare non ci sia.

L’unica certezza che c’è nei miei versi è quella della vita e della morte. Oggi come oggi, sento che tutte le strutture (le «istituzioni») classiche e ottocentesche non reggono più. Oggi non viviamo più in un mondo geometricamente perfetto, anche se pieno d’orrende ingiustizie, come all’età di Pericle o nel Medioevo, o nel positivista e progressista Ottocento. Oggi dobbiamo rifare tutto da capo, oserei dire Dio stesso, se questa non fosse, per credenti e miscredenti, una boutade. La mancanza di una certezza, più che mia, mi sembra dell’epoca. Penso che lei stia con coloro i quali credono che dall’ambiente in cui è nato l’uomo tragga il suo patrimonio spirituale più intimo. M’inganno?

No, non s’inganna. Tutto sta a intendersi sulla parola «ambiente», che per un uomo vivo comincia nella culla e s’amplifica nella società che lo circonda, ambiente che lo forma e che egli stesso forma. Ma è un moto eccentrico, che parte dal centro (dall’ambiente familiare e cittadino) per arrivare alla circonferenza, e non viceversa. E se dunque non m’inganno con la domanda precedente, tra Livorno, Genova e Roma, quale città è rimasta più «sua»?

La città più «mia», forse, è Genova. Là sono uscito dall’infanzia, là ho studiato, son cresciuto, ho sofferto, ho amato. Ogni pietra di Genova è legata alla mia storia di uomo. Questo e soltanto questo, forse, è il motivo del mio amore per

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Genova, assolutamente indipendente dai pregi in sé della città. Ed è per questo che da Genova, preferibilmente, i miei versi traggono i loro laterizi. Livorno per me è l’infanzia: è Annina, è la madre. Genova, invece, è mézigue2. Con Roma, anche se ci vivo da anni e non so staccarmene, non lego molto: non è il mio ambiente, manca il paesaggio industriale a me tanto caro, manca il porto, mancano le navi, anche se ci sono in compenso tutte le cose stupende che ognuno sa. Ma amo molto, egualmente, questa città, anche se mi sa un poco di Medio Oriente, forse per il clima, forse perché è la città santa, che induce ad aspettarsi, in certi tramonti al Gianicolo, a due passi di casa mia, di veder apparire fra le palme i cammelli. Comunque, ripeto, non lascerei Roma, forse nemmeno per Genova. Genova, forse, diventata ormai in me pura città dell’anima, mi piace sospirarla. In nessun’altra città d’Italia, e forse del mondo, credo che si possa godere la libertà che si gode a Roma. E in questa Roma, oggi, come vive? Non è un ambiente fatto di intrighi e di rapporti sotterranei?

Vivo a Roma come vivrei in qualsiasi altra città dove si vive per ragioni di lavoro. Frequento poco l’ambiente letterario, non per sciocca superbia, ma perché lavoro moltissimo (non come «poeta», si badi) e perché le distanze sono immense. Fra gli scrittori «romani», cioè residenti a Roma, ho infatti amici carissimi, a cominciare da Libero Bigiaretti, che mi ha aiutato in tutti i sensi, materialmente e moralmente. E potrei poi nominare Libero De Libero, Gianna Manzini, Enrico Falqui, Attilio Bertolucci, Alfonso Gatto e... (inutile far l’elenco di tutti gli scrittori e artisti di qui, che, a parte i loro meriti, ho sempre trovato cordialissimi e pieni di bontà per me, tutti quanti, a dispetto del mio starmene rintanato. Del loro sincero affetto per me ho avuto più d’una prova durante la mia recente degenza in clinica). Troppi pensano che l’ambiente romano sia pieno di camarille e di chiesuole. Non è vero. Io, fin da quand’ero assolutamente sconosciuto, ho sempre trovato le strade aperte, e non ho mai avuto bisogno di raccomandazioni o baratti. A Roma poi ho la mia scuola3, i miei bambini, che amo molto. Vorrei insomma sfatare la leggenda, che presso alcuni corre, di un povero Caproni pittorescamente sperduto ai Quattro venti. (Del resto, ho una casa a Genova, dove ogni tanto mi reco, e finora, ripeto, non sono affatto riuscito a lasciare Roma, anche se mi piace, polemicamente, far arrabbiare il mio amico romano de Roma Ugo Reale). Agli occhi dei più (mi pare, quasi tutti) lei si configura come poeta ligure. Riconosce l’influenza di una tradizione ligure sulla sua poesia?

Non tutti accettano l’idea dell’esistenza di una «linea ligustica»4 nella nostra poesia. Boine, credo, fu il primo a parlare di un «gruppo ligure»5, a proposito di Sbarbaro. Anceschi, a proposito di Montale, scrisse che la sua «terra nutriente è,

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si sa, quella natale, dei poeti liguri: da Ceccardo a Sbarbaro, con le loro solenni e radicali desolazioni e negazioni, col loro nudo, aspro paese emblematico»6. Sia come sia, è certo che l’ambiente ligure (allora si poteva parlare di «ambiente ligure») ha influito molto sulla mia formazione. Quand’io mi recai a Genova era ancor vivo il ricordo della novariana «Riviera Ligure», e le mie prime letture (dopo, cronologicamente, nella mia storia privata, Ungaretti) furono appunto Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Boine, Sbarbaro, Mario Novaro, ecc., fino a quando, sempre a Genova, apparve, verso il ’30, «Circoli», con Adriano Grande, Angelo Barile, Eugenio Montale, ecc. Ricordo ancora l’enorme impressione che mi fecero gli Ossi di seppia di Montale, un nome per me allora sconosciuto, nel ’30 quando me li comprai (avevo diciott’anni). Ma credo che soprattutto Pianissimo di Sbarbaro abbia influito su tale mia formazione, per la virile disperazione che leggevo in quei versi, e per la dolcezza che sentivo dentro la parola «aspra» e disadorna. Di più, comunque, sarebbe troppo lungo a dirsi, e non spetta a me dirlo. Leggiamo insieme questi suoi versi: […] Col gesto delle tue mani solito, tu chiudi. Dietro i vetri, nello specchiato cielo coi suoi rondoni più fioco, da me segreta ormai silenziosa t’appanni come nella memoria. [Dietro i vetri, CA] A me pare che il processo, il procedere della sua creazione poetica sia esattamente come quello qui descritto, ma capovolto: la sua poesia cioè procede come tentativo di fissare una memoria appannata, di creare figure leggere, spesso senza parola. M’inganno?

No, almeno in parte, non s’inganna. Non condivido però l’impressione che i miei personaggi siano senza parola. Specie nelle Prosopopee del Congedo mi sembrano anzi dei gran chiacchieroni. Ma può esser vero che, più delle loro parole, contino i loro gesti. Ma neppure nel Congedo non c’è mai la parola del dialogo. Non le è mai capitato, neanche nelle poesie inedite, che io non conosco, di inserire qualche dialogo? A volte le si presentò l’occasione (nel Congedo, per esempio), ma fu subito abbandonata.

Mi è capitato più di una volta, ma poi ho sempre depennato. La «risposta» m’è sempre parsa pleonastica, tautologica, già inclusa nella domanda, ma soprattut-

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to m’è sempre parsa impossibile di fronte a certe domande di fondo. Impossibile oggi come oggi. Mi riallaccio a quant’ho già detto in altra mia risposta. A meno che non si voglia riportare un dialogo «utilitario», di «codice» contro «codice». Comunque, il dialogo come elemento drammatico, ripeto, mi interessa molto, e, se avrò modo e voglia di continuare a scrivere, chissà che un giorno non mi si tramuti in necessità quello che ora è un mio vagheggiamento. Lei scrisse: […] prego (e in ciò consiste – unica – la mia conquista) non, come accomoda dire al mondo, perché Dio esiste: ma, come uso soffrire io, perché Dio esista. [Lamento (o boria) del preticello deriso, CVC] È la più scoperta confessione contenutistica, e la più aderente, perché implica quella buona dose di riserva e di sfiducia con cui lei accompagna il proprio fare. O sbaglio?

Forse non sbaglia. Ma badi che chi parla non sono io, o sono io fino a un certo punto: è il «preticello». Di mio c’è la forza (o la debolezza) dell’inventiva contro la comoda società del benessere d’oggi, tutta tesa ai beni elettrodomestici, al carrierismo, ecc., facendosi puntello, magari, d’un Dio nel quale, in fondo all’animo, non crede più. Il «bisogno di Dio» del preticello è soprattutto bisogno di un poco di giustizia, di un poco di «luce», di un poco di «anima» in tanta massa condizionata dai potenti mezzi di diffusione (e di educazione alla rovescia) oggi esistenti. Quanto a quella che lei chiama la mia «sfiducia», il discorso diventerebbe troppo grosso, e purtroppo non posso affrontarlo qui, su due piedi. Per dirla molto sommariamente, la mia «sfiducia» non è sfiducia assoluta nell’uomo, ma nella società così com’è andata conformandosi. La religione e le ideologie scricchiolano e si conservano in piedi o con la forza o per ipocrisia. Davvero un uomo d’oggi, soltanto perché viaggia tanto più comodamente, perché conosce gli antibiotici, perché ha una «macchina», perché fra poco potrà andare sulla luna, perché ha acqua corrente in casa, aria condizionata, ecc. ecc., è più civile e più felice d’un greco antico, d’un pigmeo, ecc., e magari addirittura d’uno schiavo romano ben trattato dal padrone perché costoso? Ma paradossi a parte, ripeto, il discorso sarebbe troppo lungo, qui. Alcuni (avanguardisti) sentono i suoi modi tecnici, le strofe e le rime, come una cifra aurea che la lega al passato più che al futuro. Come risponde a questa osservazione?

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Prescindo dal mio caso personale. Non spetta a me la difesa. In linea generale, però, posso dire che si può fare poesia nuova usando versi e rime, e poesia vecchia (ma i due aggettivi uccidono il sostantivo) usando il verso libero e i “chimismi lirici”, del resto, per restare in casa nostra, già usati da Soffici e altri agli inizi del secolo. Il pericolo di molti avanguardisti nostrani e stranieri è proprio il loro formalismo alla rovescia, il loro conformismo sotto specie di anticonformismo, la loro obbedienza alla retorica del secolo, insomma, che non è morta né col futurismo (salutare, del resto) né col «novecento». Più d’una volta m’è parso di tornare indietro di non so quanti anni (ho sentito tanfo di vecchio) leggendo cose pur scritte oggi da giovani pur ferratissimi culturalmente e aggiornatissimi. Ogni frutto ha la sua stagione, e l’avanguardismo la sua stagione l’ha già avuta da un pezzo. Insistere nelle rivoluzioni lessicali o sintattiche (delle «forme»), questo sì che mi sembra un guardare al passato più che al futuro (ma perché, poi, non guardare al presente?). Mi sembra un vivere in un’epoca tramontata, anche se allora necessaria. Troppa poesia che passa per assolutamente nuova, a me che ho i capelli bianchi, dà la noia che viene appunto dalla sterile imitazione del passato, la stessa noia che mi danno i superstiti sonettisti di maniera. L’avanguardia, quella vera, è un fatto irripetibile, già avvenuto quand’era il momento che avvenisse. Non vedo perché il futuro (ma, ripeto, perché, fuor d’ogni retorica, non si bada al presente?) non potrebbe esser proprio nella cifra aurea cui lei accenna, in una cifra aurea, s’intende, ricostruita dal di dentro, e non dall’esterno. Dopo tante salutari demolizioni e distruzioni di idoli (dell’ultimo titanismo ottocentesco, non più corrispondente alla squallida e dolorosa figura dell’uomo di oggi), perché non si dovrebbe tentare di nuovo, con mente e sensibilità nuove, un discorso diatonico, antropomorfo? Si va dicendo che oggi l’uomo non è che un oggetto, che in tutto c’è il caos, ecc., e che perciò tale discorso, qualsiasi discorso, è impossibile. Ma si può rappresentare il caos o il vuoto col caos o col vuoto? Ma intorno all’arte, ha ragione Proust, si può teorizzare all’infinito e dir tutto quello che si vuole, e poi può scappar fuori l’artista che di tutti quei discorsi non tiene il minimo conto, se non come fenomeno di cultura. Ben venga quest’artista nuovo, questo poeta nuovo, capace di farci invecchiar tutti quanti d’un colpo, avanguardisti e no, con la sola forza della sua poesia.

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16 [PREMIO VIAREGGIO I]

Vorremmo sapere da Caproni, poeta che ha avuto la fortuna di vincere per ben due volte il «Viareggio» e che da quest’anno è in giuria, cosa ne pensa della partecipazione così sparuta e così, potremmo dire sproporzionata dei poeti in mezzo ai narratori, perché sono a parità per lo stesso premio, concorrono allo stesso premio.

Caro Luigi, sai benissimo che la poesia è molto amata, anzi direi è coccolata, è un pochino il ninnolo di casa, ma appunto per questo la si prende poco sul serio, in parole povere. Perché non suscita interessi commerciali, editoriali, interessi reclamistici come più spesso suscita il romanzo. Forse è per questo che i poeti diffidano in certo senso dei premi e preferiscono restarsene in disparte. Del resto lo vediamo sui grandi rotocalchi, lo vediamo nei direttori dei grandi quotidiani che raramente concedono al critico di parlare con ampiezza e con spazio sufficiente di un libro di poesia come invece fanno di un libro di narrativa. Quindi praticamente un libro di poesia che concorre al «Viareggio» è come il classico vaso di cocci in mezzo ai vasi di ferro… Come si può risolvere questo problema?

Esattamente; dovrebbero esser proprio i premi stessi a dare maggior risalto alla poesia. A questo proposito, se Rèpaci me lo consente e se non commetto un’indiscrezione, vorrei dare una notizia che mi rallegra profondamente e credo che rallegri tutti gli amatori di poesia: cioè che dal prossimo anno, probabilmente dico, il Premio Viareggio verrà articolato non più in due sezioni, ma in tre sezioni; cioè verrà aggiunta una sezione per la poesia, naturalmente di cinque milioni, come adesso vi è una sezione di saggistica e di narrativa.

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17 INTERVISTA AI POETI E NARRATORI LIGURI DI NASCITA O D’ADOZIONE

[Risposte a Minnie Alzona] Ha qualcosa da obiettare sulla sua appartenenza alla «linea ligure» che molti critici le riconoscono? Rammentando le parole che Angelo Barile scrisse in occasione di una serata dedicata dalla nostra città alla sua poesia: «Nessun poeta merita quanto Caproni di essere onorato e ringraziato da Genova che è la città del suo cuore e del suo canto», vorremmo chiederle sino a che punto questa città di adozione abbia influito sulla sua formazione artistica e culturale.

L’unica cosa che ho da obiettare è che non credo, criticamente parlando, a una «linea ligure». Boine, a proposito di Sbarbaro, parlò per primo d’un «gruppo ligure», cui va aggiunto l’accenno fatto da Anceschi a proposito di Montale: accenno alla «sua terra nutriente» che «è, si sa, quella natale, dei poeti liguri: da Ceccardo a Sbarbaro, con le loro solenni e radicali desolazioni e negazioni, col loro nudo, aspro paese emblematico». Su questi due temi non strettamente critici, mi divertii a tessere una «Linea» che per primo preferii dire ligustica, sperando che l’aggettivo liscoso lasciasse trapelare l’ironia sottintesa all’affetto: una linea non coinvolgente lo stile, ma il caso dato ad alcuni poeti, nati in una certa terra, d’aver saputo trarre da essa, ciascuno secondo le proprie indipendenti risorse stilistiche, un’occasione di canto. E mi dispiace la fortuna che tale mia proposizione ha avuto in un campo (critico) che non le compete, fino a meritar gli onori di confutazioni «critiche» come per esempio quella dell’amico Guerrini1, cui certamente sfuggì il vero senso del mio – molto vezzeggiativo – «concertino». Quanto all’affermazione, che non conoscevo, di Barile, penso che avesse voluto alludere unicamente al mio grande affetto per Genova in particolare e per la Liguria in genere, dalle quali anch’io ho tratto i miei primi succhi per i miei versi. Che Genova abbia «influito sulla mia formazione artistica e culturale», è ovvio. A Genova mi trasferii a dieci anni, a Genova studiai (violino e composizione, oltre gli studi classici), e a Genova soprattutto vissi fino a sposarmici e ad averne dei figli, senza contare che quando io cominciai a scrivere era ancora vivo a Genova il ricordo dei poeti liguri della «Riviera ligure», che per primi cominciai a leggere. È vero che la sua prima raccolta di versi apparve a Genova nel 1936?

Sì, e la stampò, col titolo di Come un’allegoria, Emanuel Gazzo, direttore della casa editrice «Emiliano degli Orfini». Si trattava di versi inviati a un concorso2,

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del quale erano giudici Aldo Capasso, Giuseppe Ravegnani, Giovanni Titta Rosa ed Elpidio Jenco. Il premio consisteva, appunto, nella pubblicazione in volume dei versi prescelti. Sempre da «Emiliano degli Orfini» stampai nel ’38 la seconda raccolta: Ballo a Fontanigorda. Ritiene che si possa reperire un timbro schiettamente ligure nella contaminazione ricca della sua poetica tutta giocata tra maniera naturale, antiletteraria ed una esplicitamente classicheggiante? Vi è chi ha trovato che la sua «disperazione aperta, intenta a dare del proprio mal di vivere un polemico e angosciato referto» sia più prossima a Boine ed a Sbarbaro che non a Montale. A me pare che la questione dovrebbe porsi in altri termini in quanto la sua voce greve e ilare, popolaresca e preziosa si distingue almeno nei modi espressivi da tutta la poesia ligustica. Non è d’accordo? Sempre a questo proposito non ritiene che l’agilità, la grazia, la libertà dei suoi versi abbiano una schietta origine pascoliana e che solo alcuni oggetti fissi delle sue liriche – gli esterni, per intenderci – inducano il lettore a fare scambiare il suo discorso per ligustico?

Non spetta a me fare esami critici dei miei versi, e quindi preferisco non rispondere alla domanda. I fautori (i critici) d’una linea ligure, non dimentichino comunque che di classicismo è imbevuto Ceccardo (il grande, anche se disordinato, anticipatore) e che senza Pascoli è impossibile concepire Montale. E un’altra cosa vorrei notare: che la «mia» Genova non è limitata agli «esterni», come Lei dice. Genova m’ha offerto i simboli dei miei versi perché a Genova ho vissuto gli anni più importanti della mia vita, strettamente legato alla realtà che mi circondava, e in questo senso Genova dev’essere una città ricca di suggestione se anche un poeta straniero (André Frénaud) tanti anni dopo, «cantandola», è ricorso nella strofa finale d’un suo poemetto, al simbolo quasi freudiano della funicolare del Righi, come già io feci nelle Stanze della funicolare3. È risaputa la sua nostalgia per il periodo «genovese», l’attaccamento che lei nutre per questa città. Di Genova rimpiange più le bellezze naturali o i modi di vivere? Come può la sua natura toscana, spesso in competizione con quella ligure, aver assimilato tanto dalla nostra città?

La mia nostalgia per il periodo genovese non è altro che la nostalgia per la mia gioventù, per la mia «vita». Di Genova (della «mia» Genova, forse geograficamente inesistente) non sono né le «bellezze naturali», né «i modi di vivere» che rimpiango: rimpiango, della «mia» Genova, il me stesso di allora.

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18 HUMILE ET ORGOGLIOSO

[Risposte ad Antonio Altomonte] È curioso che a conclusione degli anni Sessanta la nostra poesia sia entrata in una stagione delle più interessanti, grazie ai testi di De Libero, di Luzi, di Sinisgalli, di Penna, di Bertolucci, di Pasolini, oltre che di Montale, eccetera: tutti poeti scarsamente coinvolti in quell’«astratto furore linguistico» che ha caratterizzato appunto gli anni della più accesa sperimentazione. Si può dire insomma che in questo scorcio del Settanta la poesia italiana, uscita da quella fase avanguardistica che pur ha avuto risultati per i quali sono da ricordare un Sanguineti, una Ombres, e in genere i «Novissimi», sia tornata ad una sua linea di rappresentatività tradizionale: nel senso di una ricerca che prescinde da tendenze di gruppo, da scuole. Questo significa che la ricerca poetica è sempre legata all’unicità, o meglio alla personalità individuale del suo autore, o che gli sperimentalisti hanno vinto delle buone battaglie perdendo però la guerra di quella contestazione totale di talune forme di poesia, dalle quali facevano dipendere la loro polemica?

Un poeta non è mai, in assoluto, un isolato. Accanto (o intorno) alla ricerca individuale, che appunto è quella che conta, vi è sempre stata una ricerca – nelle sue linee generali – comune: si sono sempre formati dei gruppi, con relativi interscambi, generando una certa civiltà o città poetica anche se poi ogni singola personalità rimane in sé diversa e distinta, e per proprio conto evolutiva. È il caso dei cosiddetti ermetici. Quanto agli «sperimentalisti», pur essendo vero che le loro atomiche non hanno sfondato la provetta, ritengo che la polemica – necessariamente ad oltranza – sia valsa almeno a impedire il ristagno delle acque, e in certo senso a sollecitare quella generazione che avrebbe dovuto uscirne con le ossa rotte. In definitiva, in quale misura ritieni che lo sperimentalismo degli anni Sessanta e quel che di esso rimane si possano acquisire alla nostra poesia come lezione, contributo, guadagno di temi e modi d’espressione?

Il contributo lo vedo soprattutto in sede teorica, come movimento o sommovimento di idee, essendo stato maggiore il numero dei dottori di poesia che non quello dei poeti. Dei poeti veri, dico, e non di quelli a proposito dei quali (anche la neoavanguardia è diventata subito di dominio pubblico) «pour trouver bons leurs vers il faudrait faire une loi» (Voltaire). Parliamo della tua poesia: a cosa stai lavorando, e che novità presenta rispetto alle tue ultime raccolte?

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A cosa sto lavorando? Fare versi non è un «lavorare», penso come non lo è il piangere o il ridere o il semplice parlare. Comunque, sto piano piano ultimando una delle mia solite magre raccolte. Potrei forse già pubblicarla, ma per il momento ho la mente altrove. Non vedo ipotetici lettori tra tanta gente nova, un poco fabbricata in serie. Sono humile et orgoglioso. La gente, ora, ha il benessere, e dall’altra parte ha le bombe. Che cosa se ne fa dei miei versi? Quanto alla «novità», non so nemmeno io. Sono i miei consueti temi, più scarniti: la solitudine dell’uomo d’oggi nella massa, forse la morte stessa dell’uomo, Enea sempre più solo e che sempre meno sa quale città fondare. E forse potrei aggiungere scherzando, anche se nel «contesto» non scherzo affatto, uno strano modo di prendermela con Dio, che certi miei piccoli personaggi accusano (e non gliela perdonano) di non esistere. (Una poesia, dunque, religiosamente atea, o viceversa?). È ormai d’obbligo ricordare, accanto alla tua opera di poeta, la tua attività di traduttore. In quale rapporto stanno l’una e l’altra? In quale misura di poeta «serve» il traduttore?

Approfitto della domanda per dire che va in giro un Baudelaire1 col mio nome, il quale invece non è affatto mio, tant’è stato riveduto e «scorretto», forse sul modello di più pregiate traduzioni. Fino al punto di spianare in prosa (rifatta) anche il luogo che invece era ondulato in versi. A parte questo, non fo differenza fra il tradurre o lo scrivere direttamente. E se in me il poeta c’è, senza dubbio m’aiuta, con le sue invenzioni e infedeltà, ad arrivare dove la semplice trasposizione linguistica non arriverebbe. Fra i tuoi titoli di poesia e di traduzioni, ne compare anche uno di narrativa, Il gelo della mattina, che pubblicato da Sciascia una ventina d’anni fa veniva ad aggiungersi a Giorni aperti, un volume di ricordi di guerra. Come mai le tue prove di narratore sono rimaste limitate a quei due soli libri?

Per lunghi anni ho scritto e qua e là pubblicato racconti. Scegliendo fra i troppi, ora sto pensando ad un volumetto. Una mia segreta ambizione è sempre stata il romanzo. Ma il romanzo richiede tempo, ahimè. Quasi quarant’anni di lavoro letterario, con tutta una serie di pubblicazioni e di riconoscimenti, non ti hanno fatto abbandonare – nelle dichiarazioni e nell’atteggiamento di tutti i giorni – una curiosa aria: come di chi si trovi per caso in un ambiente (quello letterario) nel quale prova gusto a stare, ma del quale può fare a meno, tranquillamente, come alla cosa non certo più importante della sua vita. Perché? Per le caratteristiche dell’ambiente, o per certe particolarità della tua natura?

Soltanto perché, quell’interessantissima uccelliera ch’è l’ambiente letterario, è troppo «ambiente», cioè «circondante». Tutti gli ambienti, come tali, m’incuriosiscono, ma poi mi piace viverne fuori. Sono troppo limitati nella loro specializzazione. Troppo chiusi nella loro gabbia. Questo non m’impedisce d’avere i miei migliori amici anche o proprio fra gli scrittori; ma fuori dall’ambiente, all’aria aperta.

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19 DAI CARUGGI AL RIGHI. UN GENOVESE DI LIVORNO

[Risposte a Maria Luisa Valenti] Credo che solo con mano scarna e leggera, come ebbe a dire egli stesso alla sua mano di scrivere («Sii magra, sii poesia se vuoi essere vita») [Battendo a macchina, SP] possa farsi un ritratto di Giorgio Caproni, il poeta scarno anche nell’aspetto, il poeta di Livorno ma ligure tanto che Angelo Barile scrisse: «Nessun poeta di Liguria merita quanto lui di essere onorato e ringraziato a Genova, che è la città del suo cuore e del suo canto». Spontaneo mi viene il ricordo della splendida Litania [SP] dedicata a Genova (e mai nessuna città, credo, ne abbia una eguale) il cui ritmo melodico ricorrente serve a staccare i temi di un monologo sinfonia.

Sì, mia città intera, l’unica interamente mia, come una madre: la città dell’anima. Ci andai a vivere che avevo dieci anni e ogni pietra, in essa, mi ricorda qualcosa. «Geranio Polveriera...». È come dire qualcosa di gentile e di esplosivo insieme: ci sono i gerani, fiori che s’accontentano di poca terra, c’erano le polveriere. «Genova di ferro e aria...»: ferro dell’industria, aria di mare, aria d’infinito. «Mia lavagna, arenaria...»: è fatta di ardesia e di pietra arenaria. E poi, lì, sulla lavagna, ho imparato a leggere e a scrivere. «Genova che mi struggi»: mi ricorda la mia giovinezza; in essa ritrovo me stesso. «Intestini, caruggi»: i vicoli sono gli intestini che digeriscono le merci che arrivano da ogni parte; i caruggi sono sinonimo di città vecchia, ricca di tesori d’arte inestimabili. Grandi uomini hanno amato Genova; alcuni, vivendoci, hanno avuto le mie stesse sensazioni. Il poeta André Frénaud, senza avermi mai visto, senza aver letto niente di mio, ha scritto una poesia, Le silence de Genova in cui rivede la mia stessa allegoria freudiana nella funicolare del Righi. E poi Dino Campana, Paul Valéry e anche Nietzsche, che quando visse a Genova fu chiamato dal popolo «il piccolo santo» (e le donne gli offrivano i ceri, soggiogate dalla sua personalità, dal suo aspetto1), ritrassero questa città e ne compresero il valore intrinseco. «Genova, nome barbaro. Campana, Montale, Sbarbaro». I poeti della «Riviera Ligure», la famosa rivista fondata e diretta da Mario e Angelo Silvio Novaro, i due fratelli mecenati poeti e scrittori di Oneglia. A proposito della «Riviera Ligure», io scrissi una serie di articoli su quella corrente che da Ceccardi a Boine al Novaro e allo Sbarbaro tanto ha influito sulla poesia italiana del Novecento, soprattutto grazie al loro erede: Eugenio Montale. I poeti della «Riviera Ligure» hanno saputo cogliere nel paesaggio di Liguria l’emblema della disperazione dell’uomo d’oggi, la sua solitudine.

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Il poeta nasce dunque dal dolore?

Poeta... poeta è una parola antipatica, direi. La gente intende per poeta un uomo con la testa fra le nuvole. Niente di più falso. Il poeta è un uomo vero, l’uomo più concreto che esista sulla terra. Proprio chi dice di aver la testa sul collo è tra le nuvole: l’uomo d’affari, il politico di professione... Tra le nuvole perché è distratto, è tutto nei suoi problemi e non vede la realtà. È alienato, per usare un termine moderno, come lo è la piccola borghesia massificata, che vede la realtà solo attraverso i rotocalchi o la televisione. No, non mi sono mai sentito poeta nel senso che comunemente s’intende. Musicista sì, perché sono arrivato alla poesia dalla musica (ho studiato a Genova all’Istituto Musicale Giuseppe Verdi che era in salita Santa Caterina). Mi sono sentito «diverso». Badi bene «diverso», non superiore. Meno esposto quindi all’aggressione del mondo tecnologico e più sensibile ai dolori e alle gioie della vita. Gli altri sono più corazzati. Vedendo troppo si soffre assai di più di quelli che vedono poco o nulla. Lei mi parla di fiaba e di poesia. Ho insegnato nella scuola elementare, ma abituavo i ragazzi allo spirito critico, a riflettere più che a sognare. La poesia è il contrario della fiaba; non è evasione dalla realtà: è un vedere la realtà come gli altri la vedono, le persone pratiche soprattutto. Andersen era un poeta e per questo mostrava la realtà nella sua essenza; aveva anche un impegno sociale. La vera favola, come la vera poesia, aiuta a scoprire la realtà, non a mascherarla. «Genova di lamenti, Enea, bombardamenti...». Enea per me è un simbolo. Enea sono io, siamo tutti. Enea non come eroe, ma come espressione dell’uomo d’oggi con sulle spalle il peso di un passato che vorrebbe salvare (Anchise) e con la speranza per mano (il figlio) che deve proteggere. Deve sostenere tutti e due i fardelli e la sua forza sta nello stoicismo di accettare la vita com’è, senza orizzonti. Crede nella critica letteraria? Nei premi di poesia? Anche ultimamente le è stato conferito un premio.

Sì; il «Gabicce Mare». Credo alla critica, ma non sempre ai critici, specie quando questi, ricchi di strumenti culturali, mancano della dote essenziale: il fiuto. Del resto, penso che il lettore di poesia vada sparendo, oggi. Nella civiltà tecnologica l’utente di poesia è destinato a scomparire... Le classi dirigenti mirano a creare il consumatore, non l’uomo. Un uomo soddisfatto sente meno bisogni spirituali. La poesia di rado nasce dal benessere; più spesso dalla ribellione, dallo scontento. I giovani, è vero, sono scontenti (alcuni, almeno): si ribellano e hanno ragione. Si sono accorti che tutta la nostra società è diventata una mistificazione e cercano da soli una libertà, una verità. Inizialmente hanno ragione (quando sono sinceri), ma spesso si disperdono, si confondono, non sanno amministrare la loro giusta libertà... Però, come ho detto, inizialmente hanno ragione; la loro ribellione è legittima, anche quella verso l’istituzione familiare. Nella famiglia oggi c’è più che mai incomunicabilità tra figli e padri: non c’è dialogo, non c’è amicizia. Un figlio si sfoga con altri, mai col padre o con la ma-

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dre. Eppure hanno un gran bisogno d’amore, di sentimento (il successo di Love Story lo dimostra). Sono più di noi sentimentali e amano anche la poesia. Ma la poesia d’oggi ha paura dei sentimenti, li esorcizza. Sono però convinto che l’uomo è ancora capace di provare dei sentimenti: l’uomo vero, schietto, s’intende. Poesia: amore e morte. I temi essenziali. Lei ha scritto: «Quando mi sarò deciso / d’andarci, in paradiso / ci andrò con l’ascensore / di Castelletto, nelle ore / notturne...». [L’ascensore, PE]

Certo il poeta pensa alla morte, ne parla, ha familiarità con essa, anche se, pensando alla morte che incombe, pare che non abbia più senso il passato, il presente, il futuro. Dopo che io avrò parlato, dopo di questo, il nulla. Per questo oggi più che mai occorre stoicismo e fede nell’uomo. Oggi questa fede manca e per questo, forse, gli uomini si scannano senza pietà. La guerra è una cosa terribile. In guerra ho avuto paura: non sono mai stato un eroe, ma mi sono fatto coraggio. Ho combattuto sul fronte occidentale (ho scritto anche un diario2, censurato a quel tempo e oggi introvabile); poi la lotta partigiana. «Genova sempre umana, presente, partigiana», e il motivo su Genova ci riprende.

Genova è sempre stata presente nelle buone lotte politiche. A Genova esiste un proletariato cosciente. Genova è una città umana, aperta, non respinge nessuno. L’avarizia dei liguri, Genovesi, è un luogo comune che ho sempre rifiutato. Non è avarizia, ma amore per il solido, il sicuro, la terraferma sotto i piedi per chi ha sempre avuto sotto il mare. Il ligure non è avaro, ma economo. Non disperde il capitale perché sa quanto gli è costato. «Genova palpitante, mio cuore, mio brillante...».

Genova palpita, sì, nelle sue mille luci, nel movimento del porto. Palpita dentro di me come il mio cuore. Palpita come il luccichio di un diamante.

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20 [PREMIO VIAREGGIO II]

Il Premio «Viareggio» va verso i quarantaquattro anni. Ha sempre una giuria di prim’ordine, una delle più qualificate in campo europeo. Che cosa ne pensano del premio coloro che lo assegnano?

Io sono il giudice, penso, più anziano e dovrei dire, forse, che il premio dovrebbe avermi annoiato ormai, dopo tanti anni; invece macché! Ogni volta scopro un aspetto… non so, così, con vivo desiderio perché c’è qualcosa in questo premio di avventuroso, di vivace, che mi attira.

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21 [LA POESIA NON È MAI NARCISISMO]

[Risposte a Gina Lagorio] Quando ha scritto la prima poesia?

Chi se lo ricorda più. Forse quando ero alle medie, come voi. Però mi ricordo bene che i miei primi versi me li ispirò il vento, che a Genova soffia forte. Lo paragonavo e confondevo col tempo, che passa veloce e si soffia via tutto. Ma la prima poesia stampata è del 1932, cioè di quando avevo vent’anni. È intitolata Marzo ed è d’un’estrema semplicità. Volli con quella tornar di proposito all’abbicì, dopo i sempre più presuntuosi e spericolati versi (d’«avanguardia», si direbbe oggi) che da qualche po’ avevo preso a comporre. Che cosa significa, nella sua vita, il far poesia?

Nient’altro che cercare me stesso, e in me quelle verità di tutti degne d’esser risvegliate anche negli altri. Conoscer se stessi non è facile, ma è il primo passo necessario per conoscere il prossimo e il mondo che ci sta intorno. Per questo la poesia (e scusate i paroloni difficili, che vi farete spiegare dal vostro bravo professore) non è mai un atto di narcisismo, ma sempre un atto profondamente sociale. Ha pensato qualche volta di avere tra i suoi lettori dei ragazzi?

Anche se non ci avessi mai pensato, mi ci avrebbero fatto pensare loro, che più di una volta mi hanno scritto cose bellissime e molto giuste dal lato critico. Ma a parte questo, i «ragazzi» – quando non si tratti di lattonzoli o giù di lì – son sempre stati i miei lettori «ideali», pur non avendo mai scritto «poesie per ragazzi». Alle poesie scritte apposta per i ragazzi non ci credo: sono un’offesa alla poesia e ai ragazzi stessi: una sciocca diminuzione. Col che non voglio dire che per apprezzare a fondo certe poesie non occorra un’esperienza e una cultura che un ragazzo non può ancora possedere. Ma guai a quegli «adulti» che incalliti nel conformismo e nelle idee ricevute (anche questo ve lo farete spiegare dal professore) hanno perso in tutto l’originaria freschezza e libertà mentale del ragazzo. Un aneddoto, un pensiero, una riflessione da donare ai giovani lettori.

Affermano i cosiddetti «uomini con la testa sul collo» (quelli che «badano al sodo e non alle fantasie») che «i poeti hanno il capo fra le nuvole». È vero tutto

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il contrario, perché se c’è un uomo cui non sfugga nulla – nemmeno una formica, nemmeno il più nascosto pensiero o sentimento – è proprio il poeta, che appunto per questo soffre ma anche gioisce più degli altri. Mentre son proprio gli «spiriti pratici», cioè quelli interamente immersi e astratti nei loro «problemoni» di amministrazione, di tecnica, di politica, ecc., a non veder nulla o ben poco del concreto della vita. Vivono rinchiusi nella loro gabbia di presunta «superiorità», e nemmeno gli balena in testa che fuori – o nel loro intimo – possa esservi qualcosa di più «serio» e di più «importante» della loro forsennata caccia alla «posizione solida», al «benessere», al «successo». Vuole dirci da quali occasioni son nate le poesie qui riproposte ai ragazzi e quello che ritiene essere il loro senso più vero?

Preghiera la scrissi dopo un mio viaggio a Livorno, mia città natale lasciata per sempre mentre facevo le elementari. Rivedendo certe strade, il mio pensiero è corso spontaneo a mia madre, Anna Picchi, che ingenuamente mi misi a cercare nei luoghi dov’era nata e vissuta. Tornato deluso a Roma, pregai la mia «anima» d’andarla a cercare lei. Nacque così Il seme del piangere, che appunto tenta di ritrarre Anna Picchi, prima che si sposasse e oltre. Il gibbone nacque dopo una delle mie tante visite a Genova, dove spesso mi spinge la nostalgia. Chi conosce Genova, sa che di giorno è immersa in una fresca luce grigia d’ardesia e d’ulivi, e che di notte, dai monti alle navi in porto, è tutta un scintillio di lumi, disposti a grappoli e festoni. È la mia città ideale perché vi trascorsi le due età che più contano nella vita: l’infanzia e la giovinezza. La poesia credo che voglia esprimere, più che l’impossibilità d’un ritorno stabile a Genova, l’impossibilità d’un ritorno, appunto, all’infanzia e alla giovinezza. Ma è una poesia, mi rendo conto, tutt’altro che facile, e forse non è soltanto questo il suo significato vero o il più importante. Nel Gibbone Genova potrebbe anche non avere più nulla a che vedere con la Genova della geografia o della mia memoria, e magari significare quella «patria» o «condizione» diversa cui tutti, senza saper bene di che si tratti, aspiriamo. Ma… come si fa a «spiegare» (a ridurre in termini logici) una poesia? Come una musica, o la si sente o… niente da fare. La poesia comincia proprio dive finisce il comune discorso d’informazione. Qui però fo punto, per non annoiarvi con troppe parole.

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22 SORGENTE DI ESPRESSIVITÀ

[Risposte a Walter Della Monica] Quale peso lei crede possano avere la conoscenza e l’uso dei dialetti sulla nostra cultura contemporanea? Un rinnovato interesse ai dialetti potrebbe caratterizzare una nuova cultura?

Cultura è vocabolo troppo vago e abusato. Anche la matematica è cultura, per la quale non credo che la conoscenza e l’uso dei dialetti possa essere di capitale importanza. Ma se per cultura s’intende, secondo la definizione scolastica, precisamente l’insieme delle tradizioni, delle nozioni, del comportamento, ecc. di un dato gruppo etnico o dell’umanità in genere, è chiaro che la conoscenza dei dialetti sia indispensabile in quanto i dialetti stessi non sono altro che l’espressione di tale insieme. Il che però non vuol dire che l’uso esclusivo del dialetto in luogo della lingua implichi per necessità tale conoscenza. Si può parlare in genovese o in siciliano (per ignoranza della lingua) senza conoscer nulla o ben poco della cultura genovese o siciliana. Secondo lei i dialetti hanno ancora qualcosa da dare alla lingua italiana?

La lingua ha sempre attinto dai dialetti, e sempre continuerà ad attingervi, anche se è vero che molto più spesso accada, attraverso i vari mezzi di comunicazione di massa, che la lingua dei «chierici» vada sempre più influenzando (annacquando) la lingua del popolo (anche perché il «popolo» va scomparendo come tale). Resta il fatto, però, che l’avvicinarsi al dialetto costituisca sempre un acquisto da parte dell’espressione in lingua, nel senso di una maggiore naturalezza e concretezza, contro la tendenza sempre più spinta di una lingua asettica e pianificata, e in definitiva troppo astratta per riuscire veramente espressiva. Lei ritiene positivo o negativo l’abbandono dell’uso del dialetto specie da parte dei giovani?

Nel senso che ho detto prima, la totale ignoranza del dialetto (non dico «l’uso») da parte dei giovani, non lo ritengo un fatto positivo, anche se con tale abbandono essi credono di salire di un gradino nella scala sociale. (Ma poi, quale italiano essi scelgono? Una lingua popolare italiana, valida da un capo all’altro della penisola, si sa, non esiste ancora. Al massimo – e anche questo è risaputo – esistono vari italiani regionali). Lei possiede un dialetto? Se sì, ha inciso sulla qualità linguistica della sua opera?

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Sono nato a Livorno, in ambiente popolare e da genitori non borghesi, ma chissà perché in casa non ho mai parlato livornese; così come poi, trasferitomi a Genova a dieci anni, non ho mai parlato genovese nemmeno con gli altri ragazzacci, miei compagni di giochi e di risse. La mia conoscenza dei due dialetti, dunque, è puramente passiva, nel senso che li capisco bene ma non li ho mai usati, tranne nel caso in cui non vi sia stato costretto dall’ignoranza della lingua da parte del mio interlocutore. Certamente modi (se non proprio vocaboli) dialettali hanno inciso sulla mia scrittura, che sempre ho cercato d’avvicinare alla lingua parlata. Come insegnante, cosa ne pensa dell’uso del dialetto da parte dei giovani?

Se il dialetto è linguaggio naturale del ragazzo, penso che impedirgli di usare il dialetto significhi calare una cateratta sulle sue possibilità di esprimersi. Un errore pedagogico, dunque.

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23 PERCHÉ GLI ITALIANI DICONO MACCHINA E NON CARROZZA?

Da un punto di vista, come dire, impressionistico e sentimentale, certo le domeniche senza le quattro ruote erano una gran bella cosa a vedersi. A vedersi e, per un pedone a vita, come me, anche a godersi. D’incanto pareva che la città – ripulita dall’aggressività del traffico, e perduto ogni orgoglio e dismisura – avesse riacquistato il suo umano spazio. Le strade erano di nuovo fatte per passeggiare: da soli, a gruppi, a famiglie intere. E magari anche per fantasticare, o osservare, con rinato amore per la poesia e la filosofia. Erano subito riapparse, melodiose e lievi, le biciclette, e forse, alla lunga, sarebbe risorto anche il carnevale. Così come le case, da chi preferiva restarci liberato dall’obbligo di andar fuori perché aveva la macchina, parevano tornate ad essere (ma siamo qui nel regno dell’utopia) luogo di raccolta lettura. Eppure… eppure proprio per quell’aria d’incanto, qualcosa di non naturale – di non più naturale – si sentiva intorno. Troppi «ri» davanti ai verbi: troppi «di nuovo», ossia troppi passi all’indietro. Ora, la storia non è dotata, si sa, di retromarcia. Può soltanto alternare aree temporali migliori con aree temporali peggiori: vacche grasse con vacche magre, ma senza che le vacche magre (o grasse) di oggi possano essere eguali alle vacche magre (o grasse) di ieri. L’uomo abituato alla macchina (ma chissà perché gli italiani dicono macchina e non carrozza o carretta, come tanti altri popoli: forse lo sa lo psicologo); l’uomo abituato alla macchina, e per giunta alla macchina come fine e non come mezzo, ha sofferto in quelle giornate; o al più le ha considerate una provvisoria vacanza, godibile appunto perché provvisoria. E allora? Un mondo senza macchine sarebbe migliore? Forse, se la macchina non fosse mai stata inventata. Ma oramai la macchina c’è, e non la si può abolire di colpo, con un divieto. Si strappano troppi fili che io conosco solo approssimativamente e di qui nasce il trauma anche di chi non ama la macchina. Spetta ai competenti, a questo punto, il discorso. E io quindi passo e chiudo.

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24 [ESERCIZIO DELLA TRADUZIONE]

Nell’ultimo libro di Manacorda, il suo nome appare con altri a lei coetanei, nel capitolo dedicato alla poesia «tra privilegio e impegno». Come riesce a difendere oggi il suo speciale privilegio e cioè la sua incrollabile fiducia nella sintassi e nella metrica tradizionale?

Non so il significato preciso dato da [Giuliano] Manacorda ai termini di «privilegio» e di «impegno». Devo ancora leggere il volume1, che a una prima occhiata m’è parso interessante. Ma detti così, cioè isolati dal contesto, tali termini sono troppi vaghi ed estensivi per poter stringere ed esprimere un qualsiasi esatto giudizio critico da prendere come unità di misura. Posso comunque dirle che non ho assolutamente niente da difendere (da aggredire, semmai) e che quanto alla «incrollabile fiducia», la lascio volentieri al Duce. La «incrollabile fiducia nella vittoria». Dieu m’en preserve! Non sono uomo da incrollabili fiducie, io. La mia fede in quella che lei chiama «la sintassi e la metrica tradizionale», ammesso e non concesso che di tali due cose di tratti nel caso mio, è la medesima fede, fatte le debite distinzioni, di Valéry, d’Eliot e, al polo opposto, di Apollinaire. Che non definirei davvero «classicisti» per questo, giacché trovo più «rivoluzionaria», e non soltanto sul piano della tecnica, la loro apparente fedeltà alle regole, di tutte le innovazione metriche e sintattiche divenute oramai una facile arcadia e un lusso alla portata di tutti i meno abbienti intellettualmente. È, semmai, un modo diverso di comporre, che non pretende certo di diventare una regola unica e fissa, ma che non è meno importante né davvero marginale rispetto agli altri modi. Lo ritengo semmai l’espressione d’una più decisa volontà d’uscire dal «comune», dalla norma o voga che dir si voglia, e in ultima istanza un andar controcorrente più valido di tanta pseudoavanguardia che invece si adagia su formule ormai indistinte e generiche di pubblico dominio, come lo fu il sonetto nel Settecento. Una fede che cerca l’innovazione dal di dentro e non dall’esterno, e che mira ad esprimere il nostro tempo proprio con gli stridori generati dall’orchestra: per fare un modesto esempio, a me pertinente, quell’aulico e cinquecentesco «Ei»2 nelle Stanze della funicolare divenuto pronome d’un essere ormai ridotto (e credo che il vocabolo, poi divenuto così corrente, sia per la prima volta apparso in quel testo, come per la prima volta apparve in altro mio scritto un altrettanto fortunato termine di sottobosco) a semplice e anodino «utente» della vita. Al paragone l’avanguardia d’oggi la sento molto più vecchia, molto più «classicista». O meglio, nemmeno vecchia, ma fuori dal tempo, ch’è la condizione più penosa. La sento a galla sui sargassi delle idee ricevute, in balia del condizionamento agli ultimi «gridi» e incapace di scendere giù in pro-

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fondità, dove il colore del tempo non è dato dalla papale ripetizione o adozione dei segni esterni (non è necessario nominare la guerra del Vietnam per deprecarla) ma dall’espressione del sentimento generato da tale ambiente esterno, che così viene anche giudicato. È un punto che ho già trattato tante volte, con la mia teoria della cipolline3, e non voglio ripetermi. Cosa significa per lei e per la sua attività poetica, l’esercizio costante della traduzione? Può essere una mediazione per futuri suoi sviluppi poetici?

Per me e per la mia «attività poetica», ammesso ch’io mi dedichi a «un’attività poetica», significa semplicemente una croce, non sempre compensata dalla relativa delizia. Cominciai a tradurre per necessità economica, poi ci presi gusto, fino a quando non diventò un vizio, tale da ingombrarmi di continuo la mente a tutto scapito, penso, di altre mie possibili attività. Ma v’è anche un lato positivo, dato che per me la traduzione vuol essere più che altro creazione: il piacere di scrivere in prosa (ho sempre sognato di scrivere un romanzo), e soprattutto di esercitarmi in una prosa, nei limiti del possibile, «mia», pur tenendo il massimo conto del testo e del suo particolare stile, si capisce. (Dal matrimonio autore-traduttore nascono sempre figli che assomigliano al primo e al secondo e finiscono con l’essere per forza un’altra cosa, una terza esistenza rispetto alle due, pur dipendendo dalle altre due). Non è detto che questo esercizio di prosa non mi abbia giovato per la scrittura in versi. Anzi. L’ha smagrita e sempre di più avvicinata alla res, penso, pur mantenendo sempre profondamente diverse le due vie per giungere alla poesia, diverse nel modo d’usare la parola. Un punto, anche questo, da me già trattato e sul quale non voglio dilungarmi. A proposito delle sue traduzioni ci può dire cosa l’ha indotta ad accostarsi al difficile francese di un creatore di «fotogrammi verbali» quale è Blaise Cendrars o allo stile allucinato e «vivente» di un imbarazzante e sconvolto anarchico come Céline?

La traduzione della Main coupée di Cendrars mi fu suggerita, per la verità, da Attilio Bertolucci, e non fui perciò io a sceglierla. Anche se è vero che Bertolucci ebbe buon naso nel fiutare quanto mi fosse congeniale nel testo. L’avanguardia di Cendrars (a parte la sua calda e saporosa umanità, anche se un poco spaccona) è proprio quale la intendo io, non fondata sulla sintassi o sulla rottura esterna della prosodia, ma sull’interna rivoluzione dei «valori» umani così come tradizionalmente vengono concepiti. Il che è più che mai vero anche per Céline, al proposito del quale va aggiunta anche la profonda affinità (parlo del Céline di Mort à credit) tra certe sue esperienze durante l’infanzia, e certe esperienze mie nella medesima stagione, esperienze non soltanto di vita ma, proprio, anche di linguaggio (non si dimentichi ch’io sono figlio della città più anarchica d’Italia, anche se anarchico non sono). Del resto, non ho tradotto soltanto Céline e Cendrars, ma anche Proust (pur se riveduto dall’editore), René Char, Maupassant

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e, ahimé, un Baudelaire (I fiori del male) dove i «ritocchi» cervellotici dell’editore o di chi per lui sono tanti da costringermi a ripudiarne la paternità: apposizione di un testo diverso da quello da me seguito, e comunque da me non riveduto, eliminazione cervellotica di intere poesie (tutte le «poesie condannate», ad esempio, lasciando le illustrazioni ad esse inerenti!) e, guaio più grave ancora, correzione della mia interpretazione sino al punto di sostituire in prosa non mia un’intera strofa del Voyage che invece io avevo tradotto in versi! Triste avventura, dopo la quale ho deciso, terminati gli impegni, di smetterla una buona volta con questo mio vizio. La poesia di André Frénaud è nata verso il ’40 sotto la stella letteraria di quel gran catalizzatore d’ingegni che fu Aragon, quando si andava organizzando una poesia francese della guerra e della Resistenza: quali sono i suoi interessi per questo tipo di poesia e quali le intenzioni nell’offrirne la lettura al pubblico italiano?

Quanto a Frénaud, è proprio la sua diversità (e quindi difficoltà estrema per me) ad avermi tentato, nonché certe affinità diciamo così, ideologiche, nonché (e sono le più scoperte) sentimentali. Nel Silenzio di Genova soprattutto, dove addirittura Frénaud (che non sa l’italiano, e che quindi non deve aver mai letto le mie Stanze) termina il suo Poème proprio con la mia medesima immagine della funicolare del Righi. Passando dalle avanguardie di ieri a quelle di oggi, cosa ci può anticipare sui lavori ancora in corso su Genet?

Su Genet e sulla sua avanguardia, non avrei che da ripetere quanto già detto. Ho tradotto di lui Le Balcon, Les Bonnes, Les Paravents, Pompes funèbres, e sto ultimando un’antologia che comprenderà Le Miracles de la Rose, Querelle de Brest, Notre Dame des Fleurs e Le Journal du Voleur. Dopodiché, punto e basta, spero.

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25 MOLTI DOTTORI NESSUN POETA NUOVO

[Risposte a Jolanda Insana] La ricerca dei valori ritmici e metrici tradizionali (come l’uso della quartina, nonché la rima) ha sempre caratterizzato la sua poesia. Dai lontani inizi di Come un’allegoria del ’36 al Congedo del viaggiatore cerimonioso. Con il risultato che talora è stato accusato di manierismo. Negli anni Sessanta c’è stato un rivolgimento cosiddetto neo-avanguardistico per cui certi modi si volevano, e si vorrebbero ancora oggi, affossati. Lei cosa ne pensa?

Non mi pare che «la ricerca dei valori ritmici e metrici tradizionali “abbia” sempre caratterizzato la mia poesia». Non ho mai cercato schemi prefabbricati o prêtà-porter. Semmai, talvolta ho cercato – quei «valori» – di forzarli verso soluzioni nuove, con spirito inventivo e non imitativo. Ma bisogna correre sino a Finzioni (1941) per trovare qualche larva di sonetto. Un sonetto piuttosto lontano da quello tradizionale. Un sonetto monoblocco, dissonante, stridente, perfino: un tentativo di far musica nuova diatonicamente slargando o comprimendo i classici accordi di tonica, quarta e dominante, con ampio uso, a fine verso, della settima diminuita. E così per le stanze, per la prima volta usate nel Passaggio di Enea. Stanze per modo di dire, mentre non vedo traccia di vere e proprie quartine o sestine. Non a tutti i critici è sfuggita l’ironia (Stanze della... funicolare, appunto) di quelle «forme chiuse» o presunti manierismi. Ne ho parlato nel preamboletto al Terzo libro (1968: parziale ristampa del Passaggio di Enea). Ma dal Seme del piangere in poi, anche la rima si fa sempre più rada e rarefatta: e sempre in quella funzione portante (di due idee che si richiamano fondendosi o cozzando insieme: «vita – smarrita», «paura – dura – oscura», chiave del I Canto dell’Inferno1) che già tante volte – col senno di poi, si capisce – ho cercato di precisare. Quanto ai neo-avanguardisti, non limiterei il loro ruolo a quello di affossatori o becchini di forme già morte. Altro hanno cercato – nelle giuste intenzioni – di affossare. Il neo del loro avanguardismo, piuttosto, è che da tanti dottori di poesia non sia uscito fuori un vero poeta nuovo: il solo che avrebbe potuto farci invecchiare, tutti quanti, di colpo. Per i Ritratti su misura a cura di Elio Filippo Accrocca lei ha scritto: «i versi non sono la cosa più importante della mia vita, esercitando tutt’altro mestiere e vivendo in tutt’altro ambiente che quello letterario». È vero? Vuole meglio precisare e raccontare dell’altro suo lavoro?

Verissimo, se l’ho detto. Non avrei scritto versi senza – sotto – la mia vita concreta di uomo. Sono una delle conseguenze di tale vita, e non il fine ultimo. L’altro

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mio lavoro (cioè, il lavoro, giacché lo scriver versi non è un lavoro in senso economico) è stato fino a pochi anni fa la scuola elementare, accanto alla mia vita di pubblicista, di traduttore, di consulente letterario, ecc. Il che non toglie che proprio fra gli scrittori conti i migliori amici. Ma li ho sempre frequentati fuori dell’uccelliera: dei troppi garruli salotti. Ma ci risulta che lei faccia parte di importanti giurie letterarie.

Non vedo contraddizione in questo. Mi hanno chiamato, e ho risposto. Ha anche scritto che «l’esser poeti sia, prima di tutto, una qualità quasi fisiologica, non commerciabile, come avere un naso camuso o aquilino». Cosa intendeva?

Che uno non può scrivere sulla porta «Poeta», come ci si scrive «Spedizioniere» o «Commendatore». Allora, io potrei scriverci «Resecato gastrico»: è un bel titolo. Nulla m’infastidisce più di una busta con su scritto: «Al poeta Giorgio Caproni». Chissà che pensa il portinaio. È vero che voleva diventare violinista e invece è finito poeta?

Più che violinista, musicista. M’è andata male. Non credo d’aver scritto che son finito poeta. Non si può fare il poeta come si fa il violinista. Come sono stati i suoi inizi? Quali furono le scoperte, i primi incontri, i primi contatti?

Il baco della letteratura lo presi alle elementari. Ho ancora un quadernino con un racconto rimasto a mezzo. Un racconto sul diavolo. Poi scrissi versi oscurissimi, che oggi si direbbero d’avanguardia. Buttai via tutto e ricominciai a sillabar da capo, dopo i Surrealisti, il vecchio Carducci. Leggevamo molto, io e un altro mio amico violinista. Lo choc più grosso lo provammo quando comprai gli Ossi di seppia nell’edizione Ribet, 1928. Chi era Montale? Lo scoprimmo da soli, come avevamo scoperto Ungaretti, Cardarelli, Valéry, Apollinaire, Machado, Lorca, ecc. La poesia non era genere di consumo a quei tempi. Più tardi mandai qualche verso a «Circoli», e giustamente fui bocciato. Imparai a non rivolgermi più né a riviste né ad editori, se non «dietro» invito. Non ricordo come arrivai ad Aldo Capasso. Gli devo moltissimo. Fu lui ad aprirmi le porte di qualche giornale, e in seguito a farmi stampare le mie due prime plaquettes. Poi andai soldato, da Genova a San Remo. Fidia Gambetti, Gian Battista Vicari e Giorgio Bassani, mentre ero ancora in servizio di leva, mi pubblicarono qualche verso, o prosa. Ricordo anche Ferdinando Garibaldi, che un giorno venne a trovarmi a San Martino per chiedermi di collaborare ad «Espero», una rivista nel cui comitato di redazione figuravano Ungaretti, Valéry Larbaud ecc. Bevemmo insieme un lampone accanto alla stufa a petrolio, in «sala da pranzo». Mi disse (e ne rimasi un po’ scosso) che «la poesia è un’esplosione riflessa». A Libero Bigiaretti e

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al compianto De Luca devo, dopo il mio primo trasferimento a Roma, la pubblicazione di Finzioni e delle Stanze della funicolare. Vicari intanto mi aveva stampato una poesia su «Lettere d’oggi», che indusse De Robertis (lo conoscevo soltanto di nome) a scrivermi per chiedermi, «d’urgenza», «tutte le mie opere». Tremai di gioia e di sgomento. Scrisse una recensione bellissima, ripresa poi nel successivo saggio. Nel ’43 Carlo Bo recensì Cronistoria su «La Nazione». Ma ero già «in contatto» coi fiorentini. Di Luzi fui io a scriverne per primo nel ’35. Ero già adulto. La mia teoria che le poesie devono camminare con le proprie gambe, senza chieder le dande, aveva funzionato. Era più facile allora per un giovane poeta essere ascoltato e riconosciuto? Penso che ciò sia dovuto al fatto che l’editoria era ancora ai suoi inizi industriali, o sono altre le ragioni del maggiore (o più attento) ascolto?

Il campo di attenzione e d’ascolto era più ristretto ma più qualificato. Il pubblico ha sfottuto Ungaretti per interi decenni. Ma in compenso c’era un editore come Attilio Vallecchi, e soprattutto c’erano critici come Gargiulo, Pancrazi, Cecchi, De Robertis, Bo e via dicendo. Ho avuto la ventura di crescere in un’epoca di nascita della poesia nuova. Ai riconoscimenti ufficiali nessuno ambiva. Il massimo premio era la recensione di uno di quei critici. Di «successo», nessuno ne parlava. L’america era ancora in America. Sappiamo che lei non ha mai sollecitato la pubblicazione delle sue opere, tanto è vero che la seconda raccolta, Il passaggio d’Enea, compare nel ’56, alla distanza cioè di vent’anni da Come un’allegoria. È per questa ragione che lei ci fa aspettare il nuovo libro o esistono riserve, esitazioni e insoddisfazione da parte sua?

La mia seconda «opera» non è Il passaggio di Enea ma Ballo a Fontanigorda (1938), seguito da Finzioni (’41), Cronistoria (’43), Stanze della funicolare (’52), per non contare la prosa di Giorni aperti (’42) e de Il gelo della mattina (’54). Nel ’56 nel Passaggio di Enea, accanto ai versi nuovi misi tutti gli altri, scritti dal ’32 ad allora. Quanto al nuovo libro, lo consegnerò tra non molto. Del ritardo non posso davvero incolpare gli editori. Lo farò uscire nel ’75. È vero, secondo lei, che per capire i poeti occorre indagare sulla loro fanciullezza?

Può aiutare a capirli meglio criticamente. Nell’infanzia è sempre la radice del carattere d’un uomo. Quali segni intercorrono tra la sua fanciullezza e la sua poesia? Esiste qualche episodio particolarmente indicativo?

I segni, forse, li reco più sulla pelle che sui versi. Ero un ragazzaccio, sempre in mezzo alle sassaiole, quando non me ne stavo incantato o imbambolato. Non ero

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molto allegro: tutto «mi metteva veleno» in partenza: mi noleggiavo per un’ora la barca o la bicicletta e già vedevo quell’ora finita. Ne soffrivo in anticipo la fine. Ho anche sentito il peso della guerra ’15-’18, pur se fantolino, e delle fucilate per la strada. Livorno non era una città tranquilla. Ne ho vista ammazzar di gente, sul marciapiede. C’era già la guerra quando nacqui, nel ’12. Con le sue strade e vicoli e porte e mare, Genova (la città «cui nulla, nemmeno la morte / – mai – mi ricondurrà»[Il gibbone, CVC]) è per lei luogo di mito, come anche Livorno, come la Val Trebbia. Cos’è e cos’è stata, invece, Roma?

È stata il luogo dei fecondi incontri, delle fruttuose amicizie. Roma ha lasciato tracce visibili in Cronistoria. «Porta» è termine frequente nei suoi versi. Ha un particolare valore simbolico?

Spero di no. Sarebbe troppo ovvio. Il bozzetto, le scene popolari, gli scorci rapidissimi, i fatti quotidiani e gli oggetti usuali possono essere annoverati tra i segni fondamentali della sua tematica?

Il bozzetto e le scene popolari, come lei dice, non mi hanno mai interessato letterariamente. I gesti e le parole della gente, sì. E tutti gli oggetti d’uso quotidiano, da me sentiti non visceralmente ma come segni, anche terribili del nostro poco decifrabile esistere. Certificano oltretutto la storia, che appartiene solo agli uomini. (Gli animali, si sa, non hanno storia). La loro presenza è importante. Si sente in qualche modo poeta ligure, nella tradizione di Sbarbaro, se non altro per il senso della disperazione e della tenerezza insieme?

La «linea ligustica» la inventai io, ma ha poco fondamento critico. Alludevo a certe affinità di cultura, di reazione al paesaggio, di sentire. «Che affinità di sentire», scrisse a un amico Sbarbaro, parlandogli di me. Ci conoscemmo tardi (ma ci volemmo un bene immenso), quando Millo mi ringraziò d’un articolo dicendomi che ero l’unico ad essere entrato nel merito della sua poesia. Si può dire che mentre nel Seme del piangere (’59) la figura di Annina, la madre, incarna il mito della giovinezza e il recupero di un mondo passato, Il passaggio d’Enea (’56), di quell’Enea che va alla ricerca di una nuova terra dove fondare la nuova città, rappresenta l’opposizione al presente, alla civiltà delle macchine, al condizionamento generale che ci livella tutti?

Nessun «mito della giovinezza», nella mia poesia, e nessun rimpianto per il passato. La ragazza Annina (non la madre) ho cercato di immaginarla nel suo tempo per renderla più viva. Il Seme è un fiore posto sulla sua tomba: un libro tutto vezzeggiativo, anche se sottilmente polemico – forse – contro la guerra ecc.

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Il mio Enea è quello del monumentino di Piazza Bandiera, a Genova: la piazza più bombardata. Ho visto in lui l’immagine dell’uomo d’oggi (o meglio degli anni Cinquanta) solo a dover sostenere un passato decrepito e un avvenire ancora incerto sulle proprie gambe. Oggi la sua poesia è volta a indicare qualche certezza?

La mia poesia ha sempre indicato certezza: stoica certezza. Pochi hanno saputo leggerla in questa direzione. Afferma per negazioni. La dedizione (in senso militare di resa) sulla quale insiste il mio più recente mézigue, ha anch’essa sapore oppositivo, se non proprio aggressivo. Treno, locomotiva, stazione, viaggiare per ferrovia, che significato hanno per lei? Se si pensa ai versi del Congedo («Di questo sono certo io: / son giunto alla disperazione / calma, senza sgomento. / Scendo. Buon proseguimento» [Congedo del viaggiatore cerimonioso, CVC]), si può dire che indicano il valore di transito della vita stessa, laddove Le stanze della funicolare, come ha scritto Bàrberi Squarotti, rappresentano «un viaggio attraverso la vita e attraverso una specie di lucido, meccanico inferno moderno»2?

Non saprei. Sono metafore, quelle ferroviarie, venutemi da sé. Forse il treno (che non può fermarsi né deviare quando vuole, come l’automobile) potrebbe darmi il senso quasi dell’agostiniana predestinazione, in luogo del libero arbitrio. E così la funicolare, con quel cavo che la tira. Ma le Stanze (la funicolare del Righi sbuca da una galleria) potrebbero essere lette anche in chiave freudiana. Per tornare al Congedo del viaggiatore cerimonioso, ci pare che qui sia possibile rintracciare in modo più scoperto la tematica fondamentale della sua poesia. Qui infatti le piccole cose quotidiane – nello stile dimesso che sappiamo, popolare a tratti (pensiamo a Il fischio, a Prudenza della guida, al Lamento (o boria) del preticello deriso, ecc.), schivo sempre e quasi di smalto – si accendono di una luce di verità, si fondono con i problemi dell’esistenza, con il sentimento della morte, accennano a un «altrove-al di là» che incombe, al «nemico» che «è già dentro». Il libro che ancora lei non ha dato alle stampe si muove nella stessa direzione? Ed è altrettanto potente e suggestiva la sensualità dell’al di qua?

Sì, ma in modo più scarno, più trivellato. Vorrei però chiarire che io non pongo nessun aldilà oltreterreno. In Versi incontrati poi [MT] potrà leggere, ripreso da Emily Brönte: «We would not leave our native home / for any world beyond the tomb»3. Beyond the tomb io non vedo nulla: nemmeno il nulla, che sarebbe già qualcosa per quel determinativo «il». Forse Pascal4 mi annovererebbe fra i ciechi. Cieco o no, per me il rovello o mistero dell’esistenza è qua, impenetrabile alla vista opponendosi «il muro della terra», per usare un’espressione dantesca che forse adotterò come titolo. C’è un piccolo pazzo del mio libro, che vorrebbe forare quel muro, ma non per vedere cose c’è di là, bensì cosa c’è di qua: qua. Lei usa la parola «sensuale». È una parola equivoca. Ma capisco cosa intende dire. Ho già spiegato di che genere è il mio attaccamento agli oggetti.

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È stato detto che esistono misteriose assonanze e consonanze con Pascoli. Lei che ne pensa?

Carlo Martini ha accennato a mie «suggestive assonanze e consonanze», in un suo discorso sul linguaggio pascoliano e la poesia italiana del Novecento5. Certamente Pascoli ha insegnato molto a tutti, tranne forse a Ungaretti, per le ragioni chiaramente spiegate da Leone Piccioni6. È stato il primo, in Italia, a gettare l’inquietudine nella parola, a svegliarne i significati «armonici», come si dice in fisica. Oggi si può tranquillamente affermare che Pascoli è un montaliano. Ma i miei primi versi sentono di più il Carducci «macchiaiolo» (anche di questo s’accorse De Robertis). Nella prefazione a il Terzo libro lei parlava, per gli anni ’44-’54, di «una bianca e quasi forsennata disperazione, la quale proprio nell’importance formale della scrittura... e quindi nell’anch’essa disperata tensione metrica (prolungamento dell’umanistico e ormai crollato «ei» opposto con stridore, nella funicolare, all’anodino «utente»), forse cercava per via di paradosso, e del tutto controcorrente rispetto alle altrui proposte... un qualsiasi tetto all’intima dissoluzione di tutto un mondo di istituzioni e di miti sopravvissuti ma ormai svuotati e sbugiardati». Oggi esiste la stessa «forsennata disperazione»?

Semmai una desperatio fiducialis (o che confida solo in se stessa), e con più «allegrezza», in una poesia sempre più à la lisière de la prose, o viceversa. Ed ecco l’ultima domanda. L’annoiano i discorsi dei critici sulla «necessaria evoluzione del poeta di fronte a se stesso»?

O non capisco bene, o l’«evoluzione del poeta ecc.» mi sembra una lapalissade. Comunque, i discorsi dei critici non mi annoiano mai, quando sono davvero discorsi di critici e non di pseudoscienziati che parlano in hexagonal.

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26 LEI È PER IL VOTO AI DICIOTTENNI

[Risposte a Carlo Barrese e Gianni Pennacchi] Oggi a diciotto anni si è molto più maturi di quanto non lo fossimo noi ai nostri tempi con i mezzi che ci sono oggi d’informazione, di divulgazione e di interessamento alla politica. Certo il voto è un po’ pericoloso perché la massa dei diciottenni, salvo pochi casi, non è molto preparata e può quindi dare delle curiose sorprese.

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27 [RITRATTO D’AUTORE]

[Risposte a Giorgio Albertazzi] Allora siamo qui, sul prato, oggi per il terzo incontro: Giorgio Caproni, eccolo qua… sornione, sembra un Viani.

No… Eh sì, qualche segno di Viani. Livornese, ma, genovese.

Genovesizzato. Genovese d’elezione. Insomma, ha lasciato tante cose a Genova e tante anche a Livorno, devo dire. Quindi la tua poesia è anche una poesia liberatoria, indignata, e crede nella funzione del poeta come suscitatore di vita. Ecco Caproni. Ed è un poeta straordinario per leggere, anche; dopo su questo parleremo, anche.

Questo non è vero. Non so leggere. No, per leggere… da leggere. Sei da leggere ad alta voce. Qui sul tavolo: Chianti (questa non è mica pubblicità, no? Chianti, definizione generica), bicchieri, eccetera. Speriamo che arrivino dei panini. Allora io direi di cominciare a presentarlo ai telespettatori, leggendo una poesia relativamente breve…

…uno scherzo, eh! No, questo non è uno scherzo. Questo è Battendo a macchina.

Ah…! Io insisto su questa poesia, sì, te l’ho detto già prima, perché mi sembra che questa poesia sia una chiave per leggere Caproni, nel senso che, partendo da un dato, per leggere tutta la poesia in genere, lo trascenda e diventi un manifesto quasi di poesia. Mia mano, fatti piuma: fatti vela; e leggera muovendoti sulla tastiera… [Battendo a macchina, SP]

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È una bellissima poesia… ci sono tutti gli aggettivi per la tua poesia: il popolare, il fine, il trepido, il gentile anche, e l’ardore. Le sue descrizioni delle donne genovesi sono memorabili.

Vorrei spiegare anche questa, se permetti. Il Seme del piangere, il titolo, è tratto da Dante, naturalmente. Vorrebbe essere dedicata a mia madre, ma mia madre non mamma, per evitare il mammismo, mia madre ragazza prima naturalmente che si sposasse. È tutta ambientata a Livorno perché vivevamo a Livorno, e vorrebbe attraverso la giovinezza di questa donna dare la precisa impressione di un’epoca, che purtroppo fu terribile, sia per la guerra, sia per i moti, ché Livorno era una città abbastanza calda. È un libro apparentemente vezzeggiativo, che però ha anche un suo lato di condanna nei confronti di una certa società, che può sfuggire magari a un lettore superficiale. E questa poesia appunto raccomanda di andar cauto, di non falsificare questa storia, questa piccola storia di questa donna che poi diventa la storia di un’epoca, insomma… di questo liberty. Ecco, appunto, stamani parlando tra noi, mi riallaccio a quello che hai detto, ci ha molto interessato il rapporto con tua madre, cioè con l’immagine della madre. Questa immagine che è quasi, oltre che da figlio, da innamorato, da fidanzato. A questo proposito io (Patrizia, poi lo affrontiamo questo discorso: entra in ballo un po’ Freud1) leggerei Ultima preghiera. Sono dei versi scritti per la madre, ma scritti da Genova, quando tu sei già a Genova. Cioè, tu mandi qualche cosa all’immagine della madre, che è morta. Anima mia, fa’ in fretta. Ti presto la bicicletta, ma corri… [Ultima preghiera, SP] Allora, su questa cosa della madre, e poi c’è una cosa interessante sul padre, invece, come immagine…

Ma questo libro è tutto impermeato sul padre. Sul padre… allora questo è importante. Io adesso non vorrei esagerare le mie letture, ma magari dopo non leggo più, quindi…

Quella del padre è la prima... L’Idalgo Deo optimo maximo «Ma,» domandai (il vinaio si forbiva la bocca col pollice) … [L’Idalgo, MT ]

100 GIORGIO CAPRONI Ora dico che… mi pare esplicita questa cosa. Cioè, voglio dire, il rapporto del padre rispetto a quello della madre… del padre il ricordo è questo gabbano, che ha sulle spalle.

Beh, sì, naturalmente, diventa una metafora: la protezione è il gabbano. Diventa una protezione (non vorrei fare il freudiano) o un peso?

È difficile spiegare questi due rapporti, sia verso la madre che verso il padre. Io penso che Freud non c’entri; il complesso di Edipo verso mio padre non l’ho mai sentito, la voglia di ucciderlo neanche. Anzi, eravamo molto amici, anche perché lui si occupava di musica: suonavamo insieme e non c’è miglior cosa per costituire una comunità di una piccola orchestra, dove veramente esiste questo dialogo, che purtroppo non esiste più… nella città, no? Poi io penso che la poesia assolutamente non si possa tradurre in termini logici, perché dovrei ripetere parola, per parola. Non ha senso, la poesia è quello che è: quell’oggetto lì da guardare, da scoprire, da sentire.

Forse il rapporto viene meglio spiegato nella poesia precedente, dove io immagino di incontrare mio padre in un mendicante. «Non c’è più tempo, certo,» diceva. E io vedevo lo sguardo perduto e bianco e il cappottaccio, e il piede (il piede) che batteva sul vetrone – la mano tesa non già lì allo stremo della scala d’addio per un saluto, ma forse (era un’ora incallita) per chiedere la carità. Eh, Milano, Milano, il Ponte Nuovo, la strada (l’ho vista, sul Naviglio) con scritto: «Strada senza uscita». Era mio padre: ed ora mi domando nel gelo che m’uccide le dita, come – mio padre morto fin dal ’56 – là potesse, la mano tesa, chiedermi il conto (il torto) d’una vita che ho spesa tutta a scordarmi, qua

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dove «Non c’è più tempo,» diceva, non c’è più un interstizio – un buco magari – per dire fuor di vergogna: «Babbo, tutti non facciamo altro – tutti – che .»

E finisce così… Leggi benissimo! Come tutti i poeti.

Come Albertazzi. Leggi ancora meglio degli altri.

Sono poesie che vanno un po’ recitate. [Intervento di uno degli studenti presenti alla trasmissione]: «Secondo me le poesie non si possono leggere. Come ha fatto lui adesso e così un sacco di gente. Perché ognuno ha un proprio modo di leggere una poesia, poi soprattutto quando il poeta scrive una poesia sa perché la scrive, mentre il lettore la legge un po’ da un punto di vista passivo, e un po’ senza neanche interessarsi, senza neanche entrare nel mondo della poesia».

La poesia è un po’ come uno spartito musicale, che aspetta un’interpretazione. Aspetta interpretazioni diverse, naturalmente, da direttore a direttore, ma ciascuno di questi interpreti, chiamiamoli, può aiutare pure un lettore svogliato o impreparato ad avviarlo alla lettura diretta, all’interpretazione diretta. Naturalmente le interpretazioni sono infinite. Poi lui ha detto che il poeta ha il vantaggio di sapere perché ha scritto la poesia. Ecco, io non sono di quest’opinione: penso che il poeta non lo sappia affatto perché l’ha scritta, né come l’ha scritta, né per quale bisogno l’ha scritta… L’ha scritta. Certamente non l’ha scritta in esito a un ragionamento, non gli è venuta da un ragionamento. [Albertazzi] Ma è piuttosto una pulsione?

Sì, un atto di vita che non si sa come spiegarlo, io penso. Ci sarà chi lo spiega, io non sono mai riuscito a spiegarlo. Non è del tutto chiaro nemmeno a lui stesso.

No, no, il movente, il perché di questa poesia. È venuta, è nata. Anzi, ha dato un’inquietudine tale che, finché non si è fissata sulla carta, non ha avuto pace. Scusami, allora si potrebbe dire che ogni poesia, come ogni pezzo musicale o ogni quadro, è una nascita di qualche cosa, una nascita di un essere nuovo.

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Tu hai detto una cosa giusta: il poeta si pone come campione. [Studente] Dire che la poesia non ci dice niente è un fattore di secondaria importanza perché, anche se non ci dice niente, il poeta ha scritto quella poesia perché in quel momento gli veniva da scriverla per determinate ragioni interiori. Poi quando tu dicevi…

… scusa un po’, ma se la poesia non ci dice niente, non è una poesia. Prendiamo Dante, il solito Dante esisterà finché ci sarà un lettore sulla Terra che lo leggerà. Quando non c’è più un lettore che lo legge, in sé non esiste. Una poesia che non dice niente, non è una poesia. [Studente] Ma deve dire a se stessa la poesia, no? Cioè la poesia, è molto difficile da spiegare…

Non è comunicazione, vuoi dire. … può essere un sistema di comunicazione, ma secondo me, è un qualcosa per se stessa, fine a se stessa, un corpo a sé, basta. [Albertazzi] Beh, ma gli altri lo devono vedere però. [Studente] Sì, gli altri lo possono vedere e possono interpretarlo ciascuno a proprio piacimento.

Ah, quindi non è che non dica nulla, dice. Perché a me anche una formica dice qualcosa. Ora, la differenza tra la formica e la poesia è che la formica è un oggetto della natura, mentre nella poesia c’è una carica in più. [Albertazzi] Forse lui vuol dire una cosa: forse vuol stabilire una differenza (e questo mi sembrerebbe interessante) fra un linguaggio di comunicazione e un linguaggio poetico. È evidente che è diverso; è evidente che nel linguaggio di comunicazione le parole sono usate secondo uno schema, un codice condizionato al linguaggio di comunicazione, tant’è vero che più basso è questo linguaggio, più facile è il veicolo di comunicazione, e meno però accresce, dice, vitalizza. La poesia certamente rifonda le parole, ritrova o vuole almeno ritrovare un significato originario, che è quello unito al suono, unito al significato profondo, al di là della comunicazione. Infatti la poesia non è un oggetto nella comunicazione; abbiamo detto che è un corpo vivente, quindi in quanto tale misterioso, con tutti i misteri che ha un corpo vivente. Io vorrei che tu [Albertazzi si rivolge a una studentessa] leggessi, prima avevi detto che avevi qualcosa da leggere. Da dove? [Studentessa] Sia dal Congedo del viaggiatore cerimonioso, sia dal Seme del piangere. Non porterà nemmeno la lanterna. Là il buio è così buio che non c’è oscurità. [La lanterna, CVC]

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Poi sempre sulla stessa orma: Un uomo solo, chiuso nella sua stanza. Con tutte le sue ragioni. Tutti i suoi torti. Solo in una stanza vuota, a parlare. Ai morti. [Condizione, MT]

Poi ancora: «Cosa volete ch’io chieda. Lasciatemi nel mio buio. Solo questo. Ch’io veda.» [Istanza del medesimo, MT] [Studentessa] In tutte e tre a me era parso di trovare dei temi ricorrenti: sia il buio, sia l’aldilà. Questo perché? C’è una ricerca di pace nel buio?

Io veramente volevo, specialmente con Condizione, precisare la posizione in cui viene a trovarsi una persona, dico, non un uomo, una persona di oggi nella civiltà tecnologica, nella civiltà industriale. Io appartengo ancora alla civiltà preindustriale. Io mi sento terribilmente solo, quindi non ammetto questa società, questi poteri che oggi si sono costituiti; e vedo il poeta in particolare, ma l’uomo in generale in fondo, solo, chiuso nella sua stanza che se parla non parla agli altri, perché non lo ascoltano: è impossibile, non c’è possibilità d’ascolto. [Albertazzi] Rileggiamoli questi sei versi dopo quello che ha detto Caproni: Un uomo solo, chiuso nella sua stanza. Con tutte le sue ragioni. Tutti i suoi torti. Solo in una stanza vuota, a parlare. Ai morti. [Altra studentessa] Come mai questi titoli: Il muro della terra, Il passaggio di Enea?

Mettiamo in ordine cronologico. Il passaggio di Enea: ecco, un’immagine che mi è venuta da Genova. Credo che Genova sia l’unica città al mondo che abbia un monumento a Enea. Proprio Enea nella maniera più banale e scolastica rappresentato con Anchise sulle spalle e il bambino Ascanio per la mano. Mi pare che sia una statua del Baratta, una statua che si usava allora. Che poi è stata trasfor-

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mata in fontana. Ma piaceva molto anche a Nietzsche, che abitava vicino a salita delle Battistine. Questo Enea mi ha colpito perché scampato dall’incendio di Troia, poveraccio, è andato a finire proprio sulla piazza più bombardata (eravamo in tempi di guerra, Genova è stata macellata), nella piazza più bombardata di Genova. Allora io ho visto in questo Enea proprio il simbolo della mia generazione, con sulle spalle un passato ormai cadente, che cade da tutte le parti ma in qualche modo lo dovevamo sostenere; e per la mano un avvenire che però non si reggeva ancora in piedi. Quindi proprio l’uomo solo, nella guerra, in questo mondo crollante. Un Enea che ancora non ha trovato dove fondare la sua città. [Albertazzi] A Caproni sarebbe piaciuto che io avessi letto questa qua, è stupenda, la conosco benissimo: Congedo del viaggiatore cerimonioso, è una poesia del ’60 che apparve, mi pare, in «Palatina»2. Amici, credo che sia meglio per me cominciare a tirar giù la valigia… [Congedo del viaggiatore cerimonioso, CVC]

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28 SETTIMO GIORNO

[Risposte a Enzo Siciliano] Un poeta e il suo libro. Stasera parleremo del Muro della terra di Giorgio Caproni, pubblicato di recente dall’editore Garzanti. È l’ultima raccolta di poesie che Caproni stampa. Caproni è qui con noi, stasera. Io non ho bisogno di ripeterti quanto questo tuo libro sia significativo. Tutta la critica italiana è stata d’accordo. Non è soltanto un tuo bel libro, ma credo che sia un acquisto per la poesia italiana... Ma ti chiedo: il muro della terra, il titolo, di dirci qualcosa, di spiegarlo, per noi.

È un titolo che ho cercato a lungo. E l’ho trovato in Dante. Ma non nel preciso significato dato da Dante alle mura della città di Dite... Ecco, perché è un mezzo verso di Dante. Qual è il verso...?

Dice: «Ora sen va per un secreto calle, fra il muro della terra e li martiri, lo mio maestro, e io dopo le spalle». Pressappoco, perché non ho molta memoria... E per me questo muro della terra vorrebbe significare l’impossibilità umana, nostra, di sorpassare la nostra condizione, la nostra formazione di animali, diciamo, antropomorfi, per capire la verità. Per capire veramente che cos’è il mondo... In un senso religioso, che è anche un senso, direi, scientifico. Questo muro della terra potrebbe essere il nostro cranio. La caverna famosa di cui parlava Platone. Poi naturalmente si presta anche ai sensi religiosi... Ecco, ma volevo dirti questo: poi, del senso del libro, e del titolo, ne sentiremo parlare, e avrai modo di aggiungere e di spiegare, credo, molto più ampliamente di quanto, scusami, ti ho permesso di fare fino ad ora... Ma vediamo un filmato, prima di tutto, che riguarda la tua opera di poeta, la tua carriera di poeta, il tuo progresso di poeta, in modo che il senso del libro venga a collocarsi all’interno di una vicenda... della tua vicenda di scrittore e di poeta. [Durante la trasmissione televisiva viene mandato in onda un primo contributo video: una presentazione biografica del poeta con una lettura delle poesie Scandalo e La gente se l’additava. Le parole sono accompagnate da fotografie del padre e della madre, immagini di Livorno, di Genova, della Val Trebbia. Segue il video dell’intervento di Sergio Pautasso1]. Da dove cominciare? Pautasso ha ragione?

Vorrei fare una precisazione a proposito di «Riviera Ligure». È stato detto che fu fondata nel ’19. Invece nel ’19 morì, e morì proprio l’anno della morte di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, che ne era l’animatore; ma Ceccardo più che

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altro è l’iniziatore di quella linea ligure, o ligustica, come la chiamavo io... Di cui si è parlato a lungo. Sì, ma appunto, da dove cominciare con la tua poesia. Sì, tu fai, tu ci inviti a fare delle chiose di storia e di filologia, ma io vorrei parlare di te. È vero, ha ragione Pautasso quando dice che tu sei un poeta sostanzialmente... è questo che mi pare che ci dica... che tu sei un poeta non allineato.

Non allineato... Un po’ marginale, diciamo. Ecco, no, è lì il punto... in una letteratura come la nostra, in cui la raccolta a schiere sembra molto facile e chi non si allinea rischia di apparire ai margini.

Ti dirò, se è lecita una confessione, ch’io avevo cominciato con rime... con versi astrusissimi, perché leggevo la «Fiera» o «L’Italia letteraria», come allora si chiamasse. Me la compravo a 50 centesimi... e c’era una rubrica di Prampolini che riportava poesie surrealiste soprattutto dell’America del sud, dove pare che tutti i poeti, anche i popolari, siano surrealisti. E scrivevo poesie surrealiste che io chiamavo futuriste... ho fatto tentativi futuristici in ritardo, naturalmente... Senonché un bel giorno, proprio con un atto di volontà mi dissi: basta, voglio ricominciare da capo, e mi presi il Carducci, poeta che amavo meno, naturalmente, il Carducci che io chiamo macchiaiolo... e mi venne così la prima poesia: «Dopo la pioggia la terra / è un frutto appena sbucciato», eccetera. [Marzo, CA]. E poi, piano piano, dico, comincio dalle sensazioni per arrivare alle emozioni generatrici di idee. A qualcosa di più complesso. Sì, perché la questione mi sembra... con la tua poesia, l’impatto che si ha è di una tersa trasparenza e anche ingannevole nel senso che questo tuo versificare alla breve e tendere alla rima o a leggere dissonanze che però sono sempre dominate dal gusto della rima... farebbero pensare appunto a un poeta che ricade dentro un albero, diciamo così...

Musicale. Invece è musica. Ecco, ecco, che cosa vedi quando tu distingui tra musicalità e musica...

...che la musica è costruttiva... costruisce... la musica è fisica, matematica, architettura... Naturalmente in poesia costruisce... oggi si direbbe degli strumenti che generano emozioni o addirittura idee nel lettore… Mentre la musicalità è la piacevolezza del verso e nient’altro. Ora io non credo che tendessi alla piacevolezza, anzi, la critica, fin dai primi tempi, ha riscontrato qualcosa di... Di scabro...

Di aspro, di duro... Di scabro sì, una musica un po’ dura, insomma... dissonanze sotto un’apparenza settecentesca, sulla quale hanno abusato.

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Non sei per niente un Jacopo Vittorelli...

Hanno tirato in ballo perfino un Rolli... No, non sei affatto di quello stampo di poeti, insomma.

Mi sembra, appunto, sotto la parola, come un’allegoria cioè… che non lo chiamavo ancora simbolismo ma significasse qualcosa di più il bicchiere del bicchiere in se stesso. Certo, e poi ha ragione ancora Pautasso quando tira fuori il nome di Dante non solo per il titolo, Il muro della terra, ma perché la tua attenzione di poeta e il libro, questo ultimo, rivelano in modo assolutamente dichiarato... un’attenzione religiosa... Religiosa in questo senso, in senso molto moderno, in senso scottante, molto drammatico...

In negativo... Una religiosità in negativo, perché è una religiosità che mi inquieta. Ecco, la tua rabbia è quella...

...di non credere. Com’ha detto un bravissimo critico che qui non cito, che tu conosci bene... Un romanziere e un critico... [Caproni si riferisce allo stesso Enzo Siciliano]. Ma dunque, questa tensione, questa rabbia di non credere è quella che poi in definitiva unifica questo strano libro che è Il muro della terra, che sembrerebbe fatto di frammenti, di frammenti anche di due versi.

Sì, uno strano libro nato, sembra, con un piano prefabbricato di costruzione, e, viceversa, io disperavo oramai, dopo Il congedo, di scrivere ancora versi. E invece mi nascevano così... Poi, nel coordinarli, nel fare il volume tanto sollecitato… che io non volevo nemmeno stampare… perché mi sembravano versetti troppo brevi. Poi invece mi sono accorto che c’era una certa consequenzialità. Ho aggiunto quei vocalizzi appunto per dar subito la chiave del libro, e poi quel bellissimo inizio della lettera di Annibal Caro, che potrebbe essere... Dice: «Siamo un deserto, e volete...»2. «Lettere da noi». Ecco perché?

Perché uno dei centri del libro è anche questo, poi... Scusa, parlo troppo. No, no, devi parlare.

Uno dei centri del libro vorrebbe essere anche la solitudine dell’uomo d’oggi nella società tecnologica, di fronte agli interrogativi… E quanto alla mia resa, la mia chamade è leggermente aggressiva, cioè vorrebbe essere una condanna...

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Quest’uomo solo, chiuso nella sua stanza a parlare di morti... Non è che io parli coi morti passati, purtroppo io intendevo dire coi vivi che sono morti, che non intendono più certe cose... quindi io mi trovo solo... non sono più della tribù. Dunque, il filmato che vedremo è un filmato su Il muro della terra. Però io ti chiederei una cosa prima di passare a vederlo. Appunto ci sono tre vocalizzi, tu li hai citati, che introducono al libro. Io te ne leggo uno. Ti leggo il primo. Sono quattro versi che tu hai fatto stampare in corsivo... chiedendoti di spiegarli, in modo che tu stesso possa introdurci a una lettura più ravvicinata del libro. Il titolo di questi versi è, come sai, Falsa indicazione: «Confine», diceva il cartello. Cercai la dogana. Non c’era. Non vidi, dietro il cancello, ombra di terra straniera. [Falsa indicazione, MT]

Sì, penso... non è che io sappia spiegare bene... ma arrivati al termine del nostro viaggio, per lo più, diciamo ufficialmente, si immagina che vi sia un altro mondo, cioè che arrivati al confine della vita... Si scopra l’aldilà. Io, infatti, diciamo sempre metaforicamente, viaggiatore non più cerimonioso, com’è stato detto, questa volta, ma un po’ più duro, arrivato a questo cancello ho cercato la dogana, naturalmente per pagare, onestamente. La dogana non c’era. Poi ho visto che al di là non c’è assolutamente nulla... nemmeno il nulla, perché se ci fosse il nulla... Ci sarebbe già qualcosa...

È una negazione totale... All’inizio, quando ti ho chiesto di parlarci del titolo, tu hai detto che il muro della terra è in un certo senso l’impossibilità di andare al di là...

… (oltre) il nostro confine. Siamo noi stessi confine.

Australopitechi un poco più evoluti, insomma, ma che di fronte... non siamo... i francesi direbbero più avanzati, plus avancés in fatto di metafisica... di religione... Abbiamo sempre questo muro davanti. Adesso passiamo al filmato sul Muro della terra. [Viene trasmessa una scheda-video sul Muro della terra]. C’è una strana allegria, in questa tua disperazione. Ma voglio chiederti una cosa: una recensione del libro, quella di Attilio Bertolucci...

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Sì... ...che è un poeta, credo, molto caro anche a te...

Lo amo moltissimo. Fa un nome: uno scrittore che non ha assolutamente niente a che vedere con i nomi, con gli scrittori che abbiamo fatto fino ad ora te ed io qui. È il nome di Kafka, e dice, mi pare di ricordare: «In questo libro c’è un Kafka letto benissimo».

Sì, dice: «con molta intelligenza». Ecco, letto con molta intelligenza. Tu che cosa hai da dire su questa osservazione che può sembrare assolutamente spaiata rispetto alle letture consuete che si fanno della tua poesia.

Beh, effettivamente Bertolucci ha ragione. Kafka per me è stato una lettura... una delle letture fondamentali, fin da giovanissimo; quindi, quel suo mondo misterioso, enigmatico e così aderente alla realtà come lo vedo io, no? Una realtà… di sensi diversi da quelli comuni, è facile che mi abbia in qualche modo suggestionato. Sì, perché ci sono apparizioni, nei tuoi versi, apparizioni di vetturali, di personaggi vagabondi.

Sì, però, ti dirò che un altro… che un altro critico… posso dire il tuo nome? Ha tirato giustamente in ballo il nome di Goethe. Il primo Goethe romantico, il Goethe giovanile, non tanto quello, naturalmente, del Werther. Ma delle prime ballate.

Ed anche Poesia e verità, che allora uscì col titolo Autobiografia nelle edizioncine Sonzogno, mi suggestionò moltissimo. Da ragazzo. È una lettura che tu hai fatto…

Da ragazzo, insieme a Giulio Verne. Leggevi Poesia e verità di Goethe… Certamente, c’è quest’aria di romanticismo…

…nordico e visionario. Trasportato dentro la nostra lingua più parlata, più tersa e più parlata.

Sì. Il tuo italiano è dei più impeccabili.

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Eppoi, volendo ancora, non so trovare delle ascendenze. Un autore che… un grandissimo che mi suggestionò moltissimo fu il Kierkegaard naturalmente, infatti… Il caso opposto alla necessità come tematica, senza arrivare a Monod3, che ho letto adesso, che lo porta addirittura alla biologia, no? Ma già c’è quel seme d’inquietudine nella teologia e nella filosofia di Kierkegaard. Questo sempre aspettare la morte dietro l’uscio… insomma… non per la paura della morte… No, ma per la resa dei conti.

Appunto, per arrivare a quella dogana che, insomma, non ci si arriva mai… In quanto all’allegria, è giusto, tanto che a volte mi viene da ridere leggendo alcuni versi, per esempio quelli del vetturale, no? «Avanti, ancora avanti, gridai. Il vetturale si voltò. Signore, più avanti non ci sono che i campi…». Pur essendo tragica, mi sembra che conservi un ritmo, una musicalità, una musica allegra, insomma… C’è questa tua possibilità di guardare a quei temi… che è il tema dell’angoscia, dell’angoscia esistenziale.

Sì, in un certo senso. Giunto al pozzo ultimo della disperazione, trova l’allegria… È felice di non sperare, forse, più… Ecco, per guardarla con una strana felicità. È abbacinato dall’angoscia.

Eh, sì. Allucinato più che altro. Sì, infatti. Senti, ma ascoltiamo due testimonianze su Il muro della terra, una di Alessandro Parronchi e una di Alfredo Giuliani4. Hai da rispondere?

No, mi sembra che abbiano detto cose giuste e molto pertinenti. Sia Parronchi, sia… Sia Giuliani.

Con molta finezza, con molta intelligenza. Sì, forse quel muro della terra… Ecco, che cos’hai da dire a quella lettura del titolo del libro che ha fatto Parronchi?

Sì, si può accettare anche in quel senso, ma non è tanto la paura del crollo di questo muro… Del muro della terra…

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…sulle nostre spalle. Io insisto nel… potrei sbagliarmi… proprio nel concepirlo come confine, come limite alle nostre possibilità conoscitive, no? Alle nostre possibilità di scoprire la verità, se una verità esiste. Ma questo… prendere, appunto, immagini, come diceva Giuliani, desuete… vetturali, il gabbano invece del cappotto.

Sì. Da dove arrivano?

Arrivano dal mio amore per le citazioni, e nient’altro, probabilmente, no? Io amo molto citare, e leggermente anche plagiare… come del resto si usava una volta. Già nel Passaggio d’Enea vi sono versi presi di sana pianta da De Nerval e da Baudelaire… Son citazioni incluse. Poi anche un illustre critico scrisse: «peccato che qui Caproni sia montaliano. Ma si capisce, son della stessa terra… ». Certo, era una citazione.

Enea, no? Enea come El Desdichado, cioè… questa statuetta che si trova a Genova. Credo che sia l’unico monumento a Enea, una statuetta del Baratta, del ’600, proprio nella piazza più bombardata. E lì vidi la condizione proprio dell’uomo di allora… cioè del tempo della guerra. Solo, con un passato sulle spalle crollante da tutte le parti, che va sorretto, no? E per la mano un futuro che neppure si regge sulle gambe; vedovo, nevvero, proprio l’uomo solo, in mezzo alla guerra. Ecco il mio Enea… che non è affatto l’Enea, nevvero… tradizionale, un Enea che ancora non ha fondato nessuna città. Che cerca… cerca, ma è tremendamente solo con questa tradizione da salvare ma che casca da tutte le parti e questa prospettiva ancora così incerta che ha bisogno d’essere sostenuta: il figlioletto, no? Sì, senti, ma dunque… in una società non solo culturale come la nostra, in cui si è più inclini a cataloghi per quantità che a cataloghi per qualità, la poesia ha vita difficile. Anzi, a dirla, questa parola, è quasi irritante… Non la si vede beatamente come un movimento dialettico della nostra esperienza del privato e esperienza del mondo storico. È irritante. Tu che sei poeta, ecco, vuoi dirci, a concludere, qual è il mestiere del poeta? Lo so che è una risposta da dare forse lunga e intera quanto la vita di un poeta, ma…

Sai, il poeta… Io, intanto, non so se sono un poeta o un paroliere o uno scrittore di versi, ma comunque io concepisco il poeta come un… Lo scopo del poeta è… È un seminatore di dubbi. Cioè, di rimettere in discussione tutto quanto le sacre istituzioni e le legittime istituzioni danno per sicuro, per garantito, no? E poi imbroglia le carte. Ecco, ecco, ecco… leggi tu…

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Vorrei che fosse questo lo scopo del poeta, nevvero, di inserirsi, ma con un urtone, no? Di essere un pochino esplosivo. Imbrogliare le carte, far perdere la partita. È il compito del poeta? Lo scopo della sua vita? [Le carte, MT]

Naturalmente gli interrogativi sono retorici. La mia risposta è sì. Dovrebbe essere questo, dunque… Il grande poeta dovrebbe arrivare a questo: a rimettere in discussione tutto ciò che è dato per scontato, per accettato e per pacifico…

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29 OGGI SERVE ANCORA SCRIVERE?

[Risposte a Domenico Porzio]1 Oggi, serve ancora scrivere? Lo scrittore presume di avere ancora un pubblico al quale rivolgersi, col quale aprire un colloquio? La sua funzione o missione ha ancora un senso?

Lo «scrittore nato», come si diceva una volta, cioè il poeta, non si pone queste domande. Per lui il pubblico, più che una realtà, è una speranza. E penso che tale scrittore (o poeta) continuerebbe a scrivere, anche quando avesse la certezza d’essere rimasto il solo abitante della terra. Puro narcisismo? O onanismo? No. Lo scrittore vuole il colloquio. Lo scrittore sa che un’opera, una volta stampata, esiste soltanto nel rapporto testo-lettore. Ma se il pubblico non c’è, lui se lo inventa. Scrive (deve scrivere) come se il pubblico ci fosse, e tale da saper captare il suo messaggio. Sta in questo la sua dignità. Egli ha bisogno (un bisogno che direi fisiologico) di scrivere: di comunicare quelle che per lui sono delle verità. E questo bisogno vive in lui anche quando il pubblico non sente più il bisogno di leggere. Anche perché non è detto che la risposta del pubblico debba essere immediata. Già negli anni Trenta, Robert Musil si chiedeva: «Il poeta di lingua tedesca non è da un pezzo un sopravvissuto a se stesso? Così parrebbe, e così a rigore è sempre stato, per quanto lontano possa risalire il mio pensiero… Il secolo che ha prodotto le scarpe su misura e gli abiti fatti in tutte le taglie sembra ora sul punto di presentare il poeta-prefabbricato in ogni sua parte interna ed esterna. Già il poeta tagliato sulla misura propria vive quasi dappertutto estraniato dalla vita…»2. Dove «estraniato dalla vita» non vuol dire chiuso nella torre d’avorio, ma rifiutato (o ignorato) dalla vita: dal pubblico, distratto o stordito dalla massa di «altri interessi» a lui ventilati, se non reso indifferente a tutto ciò che esuli dalla immediata praticità. «Ma d’altra parte – e queste son parole notissime di Giacomo Leopardi, utili a farci capire come il “problema” non sia soltanto d’oggi – i libri composti, come sono quasi tutti i moderni, frettolosamente…, ancorché siano celebrati per qualche tempo, non possono mancare di perire in breve… l’uso che oggi si fa dello scrivere è tanto, che eziando molti scritti degnissimi di memoria, e venuti pure in grido, trasportati indi a poco… dall’immenso fiume di libri nuovi che vengono tutto giorno in luce, periscono senz’altra cagione…». Parole che si prestano, mi sembra, a una proficua meditazione ai fini delle domande poste, condannando senza equivoci il professionalismo letterario e la

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commercializzazione dello scrivere (senza alcuna autentica necessità), ragione non ultima, certo, dell’attuale disinteresse verso lo scrittore come puro e semplice operatore di diversione o di svago, quando le fonti di diversione e di svago sono tante e tante altre.

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30 PERCHÉ ROMA SCOMPARE DAI ROMANZI D’OGGI

Molti romanzieri hanno oggi perduto il contatto con i luoghi geografici reali. La causa? Potrebbe essere la propensione degli scrittori, come dei poeti, verso l’elemento irrazionale o fantastico. Potrebbe essere, ancora, lo sperimentalismo linguistico in senso astrattamente arcadico. In particolare, Roma non offre più concreti agganci con la storia dell’uomo: questa città pare, insomma, diventata un luogo promiscuo.

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31 SOLO LA POESIA PUÒ RIDARE VITA ALLA PAROLA

La poesia non dice, ma suggerisce, non dà messaggi ma comunica scampoli di esperienze, sofferte in prima persona. La lingua è morta perché è morta la parola. La civiltà contemporanea è deserto, è solitudine, è presenza di assenze, è folla di fantasmi. Solo la poesia può ridare la vita alla parola e all’uomo, perché solo la poesia è linguaggio. Il mondo ha bisogno dei poeti. Lo hanno capito gli inglesi, i francesi e gli altri popoli che si impegnano ad autenticarsi nella creatività del linguaggio poetico, soprattutto a livello di fruizione.

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32 LE MIE CITTÀ PIÙ AMATE

Sono targato Livorno 1912. Ho già fatto i miei bravi chilometri, dunque. Ma ho ben poco da raccontare. I fatti privati restano privati, e dirò soltanto che mi sposai nel ’38 e ho due figli: Silvana e Mauro. Gli altri, sono i fatti che hanno investito intera la mia generazione, a cominciar dalla guerra, nella quale sono nato e cresciuto, e che dopo aver gravato plumbea sulla mia infanzia e prima giovinezza, ho direttamente sofferto (e anche combattuto) dal ’39 alla Liberazione. Parlerò quindi, più che di fatti, di luoghi. Di luoghi che, secondo me, insieme con la guerra e il resto, hanno lasciato orme nel mio carattere e, qua e là, nei miei versi: e non davvero come elementi pittorici, ma anch’essi come laterizi (o metafore) di quell’umana condizione che ho sempre cercato di esprimere. Oggi, la «mia» Livorno di allora mi appare – con la sua immensa Piazza Carlo Alberto o Voltone e i suoi larghi e rettilinei Fossi o canali, solcati da lunghi e silenziosi becolini neri – una città malata di spazio: troppo grande, cioè, per lo sperduto bambino che ero, e per il non folto numero di abitanti, pur se vivacissimi, questi, e pronti al tumulto e alle sparatorie: una Livorno ciana e scamiciata, specie dalle parti del porto, coi Quattro Mori incatenati che mi colmavano d’angoscia, o da quelle del Gigante dove il maestro Melosi, sadicamente, si divertiva a farmi piangere sul De Amicis. Ma anche una Livorno gentile nel suo Liberty, del quale resta fra gli altri un delicato esempio, purtroppo in abbandono, l’Acqua della Salute presso la ferrovia. Di Corso Amedeo dove nacqui, accanto al Cisternone e al piccolo zoo del Parterre, ricordo soltanto gli animali chiusi in gabbia, forse perché il mistero degli animali mi ha sempre affascinato, mentre ho ben vive in mente le mattonelle bianche e nere in Via De Larderel, e la formosa «donna» di cartone nero, senza testa né braccia né gambe, che a mia madre Anna Picchi, «finissima sarta» contornata di belle e profumate signore (nonché da uno stuolo di ciarliere ragazzone: le lavoranti), serviva per le prove. Erano i tempi in cui mio padre Attilio, ragioniere, la domenica mi portava con mio fratello Pier Francesco agli Archi, in aperta campagna, o – se d’estate – ai Trotta o ai famosi Pancaldi, quando addirittura, un po’ in treno e un po’ in carrozza, non ci spingevamo fino a San Biagio nella tenuta di Cecco, allevatore e domatore di cavalli, bravissimo in groppa ai più focosi. Finché, dopo il richiamo alle armi di mio padre, non capitombolammo in Via Palestro, in coabitazione con la bellissima e contegnosissima Italia Bagni nata Caproni e suo marito Pilade, massone e bestemmiatore di professione, nonché barbiere dirimpet-

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to allo Sbolci, arcifamoso tra gli scaricatori per i suoi fulminanti ponci al rhum. Anni duri, in cui non ancora decenne vidi ammazzare la gente per la strada, e che nel ’22, nata mia sorella Marcella, si conclusero con un definitivo trasloco a Genova, mia vera città. È a Genova infatti che son cresciuto, che ho amato e sofferto non più da bambino ma da uomo, ed è là che ho scritto i miei primi versi nello «scagno» di mio padre in Piazza della Commedia, e ho cominciato, chiuse per sempre le infantili ma feroci sassaiole, a guadagnarmi la vita: prima col violino (studiato con impegno: violino e composizione, ma senza giungere al diploma), poi – falliti i miei sogni paganiniani in un’orchestrina da ballo – in uno studio legale, infine insegnando. Genova è la mia «città dell’anima», e sempre mi ha stregato con le sue severe e slogate architetture, la sua disposizione verticale, la zona intestinale dei «caruggi» digerenti le mercanzie sbarcate in porto, gli ascensori e le funicolari, Castelletto e il Righi, il monumentino a Enea in Piazza Bandiera, per non dire dell’aspro retroterra verso Fontanigorda, e di Loco di Rovegno in particolare, sempre nell’Alta Val Trebbia, dove presi moglie e dove puntuale torno ogni anno da Roma, raggiunta per lavoro nel ’46 dopo una prima calata nel ’39, annullata dalla cartolina precetto. Sono tutti luoghi che più o meno, al modo già accennato, stanno al fondo di molte mie poesie (anche se la mia non è affatto una «poesia di luoghi»), e reperibili sia nel Passaggio d’Enea, comprendente anche le prime plaquettes stampate a Genova (Come un’allegoria e Ballo a Fontanigorda) e le successive raccolte (Finzioni, Cronistoria, Stanze della funicolare ecc.), sia nel Seme del piangere, proiettato in prevalenza su Livorno, sia nel Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee, sia infine nel Muro della terra e nei successivi versi non ancora raccolti in volume. Dopodiché, che altro dire? A Roma, di cui è rimasta qualche traccia soprattutto in Cronistoria, ho continuato per molti anni a insegnare, felice di vivere tra i ragazzi, e a scrivere racconti e articoli per quotidiani e riviste, di nuovo aggiungendo una lunga attività di traduttore, che per me è stata un’esperienza faticosa ma utile, costringendomi a svegliare, con lo sforzo dell’interpretazione, zone della mia coscienza che altrimenti sarebbero rimaste addormentate e inerti.

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33 [RICORDO DI NICOLA LISI]

[Risposte a Melo Freni] Nicola Lisi, che nel 1974 vinse il Premio Napoli con Parlata alla finestra di casa, si era affermato presso il grande pubblico di lettori di romanzi con Diario di un parroco di campagna, uscito nel 1941. All’indomani della sua scomparsa, il poeta Giorgio Caproni diceva così:

Il suo cattolicesimo era, evidentemente, di tipo contemplativo: è la sua stessa anima direi nata e cresciuta cristiana, che irraggiando da ogni sua pagina e per il suo medesimo candore avvolge subito il lettore nel proprio alone magico. La parola magico, infatti, è stata usata spesso dalla critica, a cominciare dal De Robertis, a proposito di Lisi. Più vicino a Francesco, che a Jacopone, all’Angelico che al Masaccio, la sua visione del mondo è una visione serena, gioiosa e ispiratrice di letizia, anche se Lisi non ha ignorato, tutt’altro, il male.

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34 UNA SOFFERTA SOLITUDINE

«Via Pio Foà» (una traversa di via Vitellia; dalle finestre si vedono gli alberi di Villa Pamphili). Alla strada in cui abita, Caproni ha dedicato due liriche, quasi due invettive, nella sua più recente raccolta di versi (Il muro della terra), pubblicata da Garzanti: «…Qua / dove nel tronfio rigoglio / bottegaio, la città / sputa in faccia il suo Orgoglio / e la sua Dismisura», «una giornata di vento» («di vento genovesardo») lo sorprende atteggiato in uno «sguardo / di fulminato spavento». Non è un po’ radicale («Un po’ cattiva?»), questa analisi lirica del suo quartiere? Caproni mi risponde che sì, «forse sì»; è come quando aveva scritto di Roma: «…enfasi e orina», e Pampaloni gli domandò se la odiasse. La verità è che Roma è venuta, per lui, dopo Genova, dopo Livorno (dove nacque), e «se invece di Roma fosse stata Milano, probabilmente sarebbe stata la stessa cosa». Ma anche, Caproni è turbato dalla grandiosità del Barocco. Inoltre, più che un discorso su un quartiere, egli ha inteso fare un discorso sulla gente che vi abita: «Gente piena di spocchia, la cui massima preoccupazione è la partita domenicale». Delle diverse città in cui è vissuto (con le parentesi della Val Trebbia, «montana e quasi longobarda ancora», che fa sfondo a Il muro della terra), la televisione ci ha dato – in una puntata di Settimo Giorno1 – degli interessanti filmati. Ma, al di là delle circostanze di tempo e di luogo, il problema centrale di Caproni, quale viene messo in evidenza soprattutto in quest’ultimo libro, è quello di una sofferta solitudine; di una sostanziale difficoltà – egli, tutto teso a «rappresentare il linguaggio quotidiano, dando alle frasi più banali un significato più profondo» – a comunicare con gli altri; l’altro da sé; l’Altro, forse. Della sua ricerca di Dio, è stato detto (da Cavalleri, nella rivista «Studi cattolici») che essa si svolge per vie razionali, alla maniera di Nicodemo; Enzo Siciliano ha ravvisato in Caproni «la rabbia di non credere»; Alfredo Giuliani lo ha definito: «religiosamente ateo». La verifica di queste definizioni, la cerchiamo, Caproni ed io, nei suoi testi. A memoria, egli cita un proprio spunto di tanto tempo fa, tuttora inedito: Credevo di seguirne i passi. D’averlo quasi raggiunto. Inciampai. La strada si perdeva tra i sassi. [Falsa pista, FC]

Nel Muro della terra, questo tema, allora espresso con un vago accento biblico,

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assume un tono più concitato, più drammatico: […] Una volta, o m’è parso, […] Ma ero io, era lui? C’era un fumo. Una folla. […] Cercai, a urtoni, d’aprirmi un passo tra la calca, ma lui (o ero io?) lui già s’era alzato: sparito, senza che io lo avessi incrociato. [Andantino, MT]

A proposito del pensiero che lo assilla, «qualcuno pensa che ci sia di mezzo Freud, io lo nego», dichiara Caproni. E in quel suo modo d’esprimersi asciutto, quasi dimesso, che così marcatamente lo distingue dalla saccenza di tanti letterati, di tanti «arrivati», egli mi confida che la sua è una ricerca di Cristo «da uomo a uomo» («ma, forse, non ho capito l’uomo…»). Arpeggio è del 1964: Cristo ogni tanto torna, se ne va, chi l’ascolta… Il cuore della città è morto, la folla passa e schiaccia – è buia massa compatta, è cecità… [Arpeggio, MT]

Lo stravolto è del 1972: «Piaccia o non piaccia!» disse. «Ma se Dio fa tanto», disse, «di non esistere, io, quant’è vero Iddio, a Dio io Gli spacco la Faccia» [Lo stravolto, MT]

Riguardo al suo stile ([Alfredo] Giuliani ne ha sottolineato, elogiandolo, le immagini, le parole desuete), Caproni ritiene che vi abbiano inciso le sue Letture disordinate.

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«Oggi l’intellettuale legge professionalmente, per farsi – come si usa dire – gli strumenti. Io mescolavo Verne con Schopenhauer, Darwin con Kierkegaard e Dostojevskij. Nelle edizioni Sonzogno, a novanta centesimi il volume, si trovavano Shakespeare, Esopo, Michelet…». Parla di un «modo spontaneo di fare le cose» che, tradotto in un linguaggio meno riduttivo di quello adoperato da Caproni verso se stesso, significherebbe seguire il filo delle proprie intuizioni, dei propri interessi. Nell’arco breve della nostra conversazione, emerge il fascino esercitato su di lui (come su Pound, come su Eliot), «da Dante, più che non dal Petrarca; come pure, dal Cavalcanti, più che non dal Vittorelli». (Dantesco, è pure il titolo del libro: Il muro della terra, e il titolo di un libro precedente: Il seme del piangere; mentre alla ballata cavalcantiana dell’esilio fa capo la preghiera-ricordo dedicata a Anna Picchi, sua madre: «Anima mia leggera, / va’ a Livorno, ti prego. / […] / Anima mia, sii brava / e va’ in cerca di lei. / […]» [Preghiera, SP]). Gli chiedo della sua parentela letteraria con Saba, sulla quale ha insistito Gianni Pozzi2: «Saba, per molti anni, lo ignorai; lo conobbi molto tempo dopo Montale, dopo Ungaretti». Ma allora, la sua diminutio antidannunziana, antiretorica? «La diminutio la presi semmai da Betteloni» (il poeta romantico veneto, morto suicida). Qualche spunto polemico – ma senza intonazioni intellettuali, professionali; vi è piuttosto una difesa, molto umana, delle cose nelle quali si è impegnato, pur nel continuo dubbio, nella continua autocritica («…l’ultimo libro, non volevo neppure pubblicarlo…») affiora anche riguardo alle tante teorizzazioni che si fanno, di certi aspetti che nel suo «modo spontaneo di fare le cose» egli ha sempre presentito con molto anticipo. Negli anni Quaranta, ad esempio, egli già si interessò approfonditamente dei problemi della semiologia, oggi di moda. Parlava già allora di segnali; del linguaggio come di un codice. In quegli anni pubblicò un proprio saggio dal titolo I poeti e la tromba. In caserma – era questo, il concetto – i segnali si trasmettono con la tromba. Supponiamo che l’ufficiale di picchetto dia l’incarico di suonare a un flautista: il soldato rimarrebbe stupito. Perché? Perché c’è un quid in più; ci sono un timbro, una musicalità differenti. Così è della poesia, rispetto al linguaggio comune. E, a proposito di concetti come quelli di «interdisciplinarità», «scuola attiva», «metodo di insegnamento globale», egli mi racconta di quando insegnava nelle scuole elementari. Usava il metodo socratico; scombussolava i programmi. Fingeva di non ricordarsi la rivoluzione francese; così, qualche ragazzino gliela spiegava. Poi, magari, scoppiava un temporale: e passavano a parlare di tuoni, di fulmini, di fenomeni acustici, elettrici… Nello studio in cui si svolge il nostro incontro, qualche oggetto richiama, ogni tanto, un particolare autobiografico: la fotografia di lui piccolo, con il padre e la madre (Anna Picchi); la sua traduzione di Proust («Proust, Cendrars, li tradussi volentieri; altri, solo per necessità»).

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Ma il ricordo è soltanto l’occasione per tornare a parlare di problemi di fondo. (La musica; la sua connessione con la fisica, la matematica, la poesia. La rima, elemento portante dell’opera poetica: «Vita – smarrita»; «paura – dura – oscura…» [Inferno, I, 1-6]).

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35 [IL FINE ULTIMO DEL POETA È SOLO QUELLO DI FAR POESIA]

[Risposte ad Ada Muntoni Comparini] Non si può iniziare un’intervista senza partire dal passato: le chiedo perciò di rievocare per noi la sua infanzia, le esperienze, qualche ricordo saliente, perché ciò aiuta a comprendere meglio la sua poesia.

La mia infanzia è tutta livornese. Venni via da Livorno che avevo dieci anni giusti, nel ’22. Fu un’infanzia, economicamente, povera, ma ricca di cose, di personaggi e di fatti per me indimenticabili, che hanno lasciato una profonda traccia, prima che nei miei versi, nel mio carattere. Intanto, il volto stesso della città. Con le sue grandi piazze (il Voltone), i suoi canali solcati da silenziosi becolini neri, la Livorno di allora mi appare oggi una città malata di spazio, come più volte ho avuto modo di ripetere. Una città troppo grande per il numero relativamente esiguo dei suoi abitanti. Ma non una città triste o malinconica, tutt’altro. Popolaresca ed elegante insieme (la zona portuale, coi quattro mori incatenati che mi facevano tanta pena; il liberty dell’Acqua della Salute o di Viale Regina Margherita), forse son proprio l’acqua e le pietre di quella mia Livorno ad aver contribuito, più dei libri, alla mia formazione. Avrei tutto un romanzo da scrivere, a proposito di «ricordi salienti» e di «esperienze livornesi». Ma come si fa? L’infanzia l’ho vissuta molto intensamente, troppo intensamente per poterla riassumere in pochi episodi significativi, che vanno dalla gentilezza del «salotto» della signora Nella, a Sant’Jacopo, sede di abilissime e finissime ricamatrici, alle fucilate e agli ammazzamenti di Via Palestro, dove abitavo in casa di Pilade Bagni (massonico e bestemmiatore di professione, oltre che barbiere) e della bellissima Italia Bagni nata Caproni, sua contegnosissima sposa. Dopo aver lasciato la nativa Livorno, l’ha rievocata con nostalgia, ricordandone in particolare qualche angolo, amicizie particolari? Vi è ritornato qualche volta? Vi tornerebbe volentieri oppure Roma è divenuta ormai la vera patria?

Tutta la mia «livornesità» (o liburnicità) credo d’averla sfogata più che altro nel Seme del piangere, dove tento di rappresentare la vita di mia madre Anna Picchi ancora ragazza. Negli altri libri Genova, che forse è la mia vera città, essendovi vissuto più a lungo e dove puntualmente torno ogni anno, ha il sopravvento. È da Genova che la mia poesia ha tratto, il più spesso, le proprie metafore. Perciò, se dovessi «tornare», tornerei più volentieri a Genova che non a Livorno, dove non sono più stato se non di sfuggita. Ma non provo nostalgie. Non per-

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ché Roma mi piaccia più di Genova o di Livorno (con Roma, per la verità, non ho mai legato), ma perché non è nel mio carattere il soffrir nostalgie. Preferisco sempre il presente al passato e sempre con l’angoscia di vedere il presente trasformarsi in passato. A quale ricerca ritmica o metrica, o meglio, a quale flusso interiore obbedisce, tale che caratterizzi la sua poesia?

Non mi piace parlare della mia poesia. Dirò comunque che ho sempre cercato la modernità in una tradizione rinnovata dal di dentro, più che negli sperimentalismi linguistici fine a se stessi. Ho sempre pensato che si possa fare musica moderna senza per forza abolire la diatonicità. Mi piace il discorso antropomorfo. La dissoluzione della figura umana d’oggi può essere anch’essa rappresentata ed espressa all’interno, non sulla superficie linguistica. Non per questo condanno gli sforzi di taluni giovani d’oggi, tesi a cercare nuovi sbocchi alla poesia o, come dicono loro, nuovi «strumenti espressivi». Avessi la loro età, forse farei lo stesso. Il primo obbligo di un giovane poeta è quello di disobbedire alla poetiche che lo hanno preceduto, se davvero vuole portare avanti il discorso. So che i suoi inizi di poeta sono stati molto precoci, ma interesserebbe conoscere meglio la causa occasionale e l’iter percorso per rivelarsi.

La causa occasionale che mi indusse a scrivere versi – e anche questo l’ho ripetuto cento volte – fu la musica. Ero stanco di cercar versi famosi (del Poliziano, del Rinuccini, ecc.) per costruirvi, sotto, i miei primi corali. La pigrizia m’indusse a scrivermeli da me, quei versi-pretesto. Evidentemente ci presi gusto, se continuai a fare il paroliere anche dopo il fallimento musicale. Se ne traggano le dovute conseguenze. Ma forse questo spiega meglio anche la mia risposta a proposito delle mie ricerche ritmiche e metriche. Quali correnti di pensiero e quali letture hanno influito su di lei? Se dovesse inserirsi in una determinata tradizione quale sceglierebbe come più congeniale?

Che domanda… imponente. Tutte le «correnti di pensiero» interessano non soltanto l’uomo di cultura (l’intellettuale, il philosophe, quale certamente io non sono) ma un qualsiasi uomo di una qualche cultura che voglia rendersi conto delle umane possibilità di conoscenza, attraverso le loro varie stazioni nel tempo. Le scelte (gli influssi) avvengono sotterraneamente, per vie capillari e intersecantesi, che è difficile disbrogliare e discernere con chiarezza. Ciò che conta è il pensiero e non questa o quella corrente di pensiero, in posizione privilegiata e univoca. E così dicasi per le lettere: il primo libro da me letto a quattro o cinque anni (Le avventure di Compare Grillo mi sembra di Ildebrando Bencivenga1) certamente «ha influito» su di me non meno della lettura di Agostino o Marx. (Da ragazzo leggevo avidamente e disordinatamente: Darwin e Schopenhauer accan-

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to a Jules Verne, Nietzsche e Max Nordau (Le menzogne convenzionali) accanto a Blasco Ibáñez, Goethe e Diderot accanto a Wells, Severino Boezio e Rousseau accanto a Jack London e così via. Quale frutto ne traessi dal pastone, lo sa Dio. Finché venne la scuola, e con essa un certo ordine, a cominciare dalla scoperta degli epicurei e degli stoici, rimasta per me di fondamentale importanza). Quanto alla seconda domanda, se per «tradizione» lei intende «tradizione letteraria», la linea che sento a me più vicina è senz’altro, in area moderna e contemporanea, quella del «gruppo ligure», come Boine ebbe a chiamare i poeti della novariana «Riviera Ligure»: Ceccardo Roccaglia Ceccardi, Mario Novaro, lo stesso Boine, fino a Camillo Sbarbaro. Quali sono stati i principali autori che hanno inciso sulla sua formazione culturale?

Credo d’aver già risposto un momento fa. Quale poeta preferisce tra gli antichi? E dei nostri contemporanei?

Forse Lucrezio. Ma come ridurre le preferenze a un solo nome, in un così vasto territorio di secoli e di civiltà diverse? Non mi è mai piaciuto il gioco dei «dieci autori da salvare». Tanto più che le «preferenze» possono anche variare a seconda del nostro stato d’animo: del momento. E lo stesso discorso valga per i contemporanei. Mi limiterò a dire, a quest’ultimo proposito, che il primo decisivo impatto con la nostra poesia novecentesca lo ebbi intorno al ’30, quando m’imbattei nell’Allegria di naufragi d’Ungaretti o negli Ossi di seppia di Montale. Come intende la funzione del poeta ai giorni nostri?

Assolutamente non diversa da quella di sempre. Il fine ultimo del poeta, se di un fine si può parlare, è soltanto quello (mi si perdoni la lapalissade) di far poesia. Non vedo altro modo o altra possibilità d’intervento per lui. La vera poesia, parli di una rosa o della Rivoluzione, rimette sempre in discussione ciò che l’ufficialità, interessata o no, dà per scontato. E questo con la stessa forza d’urto della viva vita, contro qualsiasi tentativo di sopraffazione ideologica. Oggi la poesia, è stato più volte detto, è un anacronismo. Ma a patto che si svesta questa poesia della sua tinta dispregiativa. Cogliere ciò che nell’uomo è stabile nel tempo, oltre ogni totale abbandono della pura e semplice attualità, tale è la funzione primaria (civile) della poesia. E funzione del poeta è quella – oggi come sempre – di riuscire ad attingere nel proprio io, quelle verità che sono di tutti. Nel proprio io, dico. Narcisismo? Ma ogni sospetto di narcisismo cessa quanto più il poeta scende nel profondo di se stesso, quanto più il poeta, che vorrei paragonare a un minatore, riesce a calarsi nel profondo del proprio io, per scoprirvi e portare al giorno quei nodi di luce che sono non soltanto dell’io ma di tutta intera la tribù: quei nodi di luce (quelle verità) che tutti i membri del-

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la tribù possiedono, ma che non tutti i membri della tribù sanno di possedere, o riescono ad individuare. Mi par che sia stato Proust a dire che il lettore di un poeta in fondo non fa che leggere se stesso. La funzione sociale della poesia sta, o dovrebbe stare, appunto in questo, fuori di ogni immediata strumentalizzazione. (Preferisco il Leopardi al Berchet, e non proprio per ragioni estetiche – sarebbe ovvio – ma etiche, convinto come sono che il Leopardi agisca ancor oggi molto più del Berchet). Quale volume dei suoi e in particolare quali liriche le sono più care e preferite? E perché? E quali gli argomenti?

È una domanda troppo imbarazzante perché io possa rispondere. Adesso è in procinto di pubblicare qualche nuova opera?

Dovrei pubblicare una scelta dei miei numerosi racconti e scritti vari rimasti sparsi qua e là. Ma non so decidermi, anche se l’editore sta sollecitandomi. Sono troppo pigro per imbarcarmi in una simile impresa. Avrei pronta anche una raccoltina di versi secondari, intitolata Versicoli del controcaproni, ma preferisco aspettare, forse per pubblicarla insieme con un nuovo libro di poesie. Sono passati appena due anni da Il muro della terra. Quali sono le ideologie filosofiche che hanno più profondamente inciso su di lei?

Francamente, non lo so. Anzi, non capisco bene che cosa lei intenda per «ideologia filosofica». Se intende, secondo l’uso corrente, un sistema di idee posto a fondamento di questo o di quel partito o movimento ecc., anziché lo studio delle idee, istintivamente diffido di tutte le ideologie, come di ogni altro sistema chiuso: costruzioni spesso in sé perfette, ma pericolose come castelli affrontati. Quante guerre di religione hanno insanguinato il mondo? Oltre la poesia, quali sono le sue occupazioni preferite?

La poesia non è mai stata per me una vera e propria «occupazione». I versi mi sono nati in tram, in treno, passeggiando, andando al lavoro ecc., e in pratica quando mi sono seduto al tavolino per scriverli erano già composti o quasi. Non conservo, infatti, quasi nessun autografo, con tanto di relative varianti. Non ho insomma mai fatto il poeta, né concepisco come si possa fare professionalmente. Per lunghi anni ho fatto con passione e con rabbia (con rabbia perché non sempre me lo hanno lasciato fare a modo mio) l’insegnante, e parallelamente il traduttore, il pubblicista, il consulente editoriale ecc. Quanto alle altre occupazioni – dico quelle non di lavoro – sono quelle di tutti. Ed è bene che sia così. Il poeta è uomo come tutti gli altri, e come tutti gli altri prima deve vivere e poi scrivere. Altrimenti, che mai avrebbe da dire?

128 GIORGIO CAPRONI Della letteratura straniera chi gode le sue preferenze?

Mi è impossibile, anche qui, fare un elenco. Mi limiterò a rispondere: tutti gli autori che puntano sul concreto dell’uomo – sulla sua ansia o angoscia di fronte al «muro della terra»: di fronte alla nostra impossibilità di raggiungere non antropologicamente la verità (o una delle verità) oltre le apparenze fenomenologiche. Come definirebbe l’arte contemporanea? Quale inquadratura eventualmente le imporrebbe? Ha sempre una visione negativa nei confronti delle nuove leve della cultura?

La definirei arte, e basta. Un’arte in crisi, dicono taluni. (Che cosa mai non è «in crisi», oggi?). Comunque è, nelle sue più genuine espressioni, una grande arte, a parte i deviamenti e gli epigonismi facili, che contribuiscono a confondere le idee. Troppi sono coloro che fanno dell’avanguardia soltanto perché l’avanguardia è di moda, e contrabbandano sotto l’etichetta di avanguardia i loro troppo facili formalismi o peggio: la loro vuotezza. Fanno uno scarabocchio, o un rutto, e dovremmo accettare il loro parto come pittura d’avanguardia o musica d’avanguardia. Quanto all’ultima domanda, io non ho mai avuto «una visione negativa nei confronti delle nuove leve della cultura». Se ho a volte avanzato qualche riserva, l’ho fatto nel ristretto ambito dell’ultima poesia, mai però generalizzando2. Crede che oggi vi sia un calo, in Italia, dell’interesse verso la poesia?

Non so. Intanto distinguerei fra interesse del pubblico e interesse di quelli che oggi, in bella lingua exagonale, vengono detti gli operatori di poesia. Quanto al pubblico, ho l’impressione che la poesia nel nostro secolo, dopo D’Annunzio, sia sempre vissuta un po’, come dire?, in regime di autoconsumo. È sempre stata merce, cioè, riservata a pochi, se non ai soli che la producono. I libri di poesia, si sa, si vendono poco, o nulla. La poesia non è più al centro dell’attenzione pubblica. Ma non dev’esser diverso altrove, se già nel ’30 Musil lamentava che il poeta tedesco appariva un sopravvissuto a se stesso, e viveva estraniato dalla vita, cioè ignorato o respinto dal pubblico, preso da altri interessi propinatigli dall’alto…3 Se invece ci riferiamo all’interesse verso la poesia da parte di chi usa la penna, allora più che di calo parlerei di décalage, di spostamento o sfasamento di tale interesse dalla pratica alla teoria, soprattutto da parte dei giovani e dei giovanissimi. In Italia non si è mai discettato tanto sulla poesia: sul come s’ha da fare la poesia. Anziché nascere dalla poesia, le poetiche la precedono, magari avvalendosi dei canoni, spesso soltanto orecchiati, della nuova linguistica. Fino a far della poesia una pseudoscienza o parascienza. L’intelligenza è senza dubbio necessaria in poesia, come in ogni altra cosa. Ma la sola intelligenza in sé non vale nulla quando alla base non sia l’istinto. Dal solo teorizzare possono nascere, e nascono, esperimenti senza dubbio interessanti, ma che conservano, tutti,

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il freddo del laboratorio, e che quindi sono incapaci di passer la rampe e di toccare il pubblico: il lettore. Può parlarci delle sue esperienze come traduttore e saggista?

Come traduttore, posso dire che non ho mai fatto differenza, o posto gerarchie di nobiltà fra il mio scrivere in proprio e il mio tradurre. In entrambi i casi si è sempre trattato soltanto di esprimere me stesso nel migliore dei modi. Non vedo altro modo onesto per esprimere l’autore tradotto, anche se fra il mio prodotto e il suo rimarrà sempre, e per forza, una diversità, ben lontano come sono dal sognare una traduzione quale perfetto double dell’originale. Ogni poeta, dice René Char, non «inventa» ma «scopre» des bouts d’existance incorruptible4. Ora – né sembri un paradosso – anche nella traduzione che «scopre» non è il traduttore ma l’autore che vien tradotto, il quale investendo il traduttore del suo potere, suscita in lui, e in lui rende diurno, ciò che già era in lui ma dormiente, notturno, e quindi ignorato; giacché uno scrittore (poeta o narratore che sia) è un uomo, e il suo mondo è sempre quello dell’uomo: di ogni uomo; e tutto il piacere del traduttore, tutta l’attrazione che lo porta a tradurre, consiste nel sentire, grazie ad un altro testo, un allargamento nel campo della propria esperienza e della propria coscienza, del proprio essere ed esistere, più che del conoscere, al di sopra di ogni scopo didattico o utilitario, filantropia culturale compresa. Scendendo su un piano più strettamente tecnico, le maggiori difficoltà le ho incontrate traducendo Mort à crédit di Céline. Noi non abbiamo una lingua popolare nazionale com’è l’argot. Così, ho dovuto, in un certo senso, inventarla. Ma lei non può immaginare quanta mia infanzia livornese ormai dimenticata ha risuscitato in me quel testo, costringendomi a ripensarla attraverso l’infanzia parigina di Ferdinand, e dei personaggi che lo attorniano. (Quanto alla mia esperienza di saggista, non mi sono mai sentito un saggista). Nella sua poesia di storica certezza, sembra affiori un rimpianto forse inconscio per il passato (per esempio il mito di Enea). Tale posizione è stata un tempo da lei sconfessata: è sempre della stessa opinione?

Sì, anche se non ricordo tale mia… sconfessione. Non provo nessun rimpianto per il passato, che per me resta sempre inimmaginabile, mancandoci il clima fisico capace di farcelo sentire e quindi apprezzare o meno nella sua interezza. Ciascuno rimane confitto nell’epoca che ha avuto in sorte di vivere. Quanto ad Enea, il mio Enea non è propriamente o soltanto, l’ho detto parecchie volte, quello virgiliano. L’idea del poemetto Il passaggio d’Enea mi nacque (e mi dispiace di dovermi ancora ripetere) da un fontanile genovese (opera – pare – del carrarese Francesco Baratta) sormontato da un monumentino raffigurante il classico gruppo di Enea con sulle spalle il vecchio padre Anchise e per la mano il figlioletto Ascanio. Si trova in piazza Bandiera – una delle piazze più bombarda-

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te di Genova – e lo scoprii proprio durante la guerra. Quell’Enea mi diede precisa l’immagine dell’uomo d’oggi o, se vogliamo, di quegli anni terribili: solo nell’incendio della guerra, con sulle spalle un passato cadente da tutte le parti, e per la mano un futuro (una speranza) ancora incapace di reggersi sulle gambe5: […] Enea che in spalla un passato che crolla tenta invano di porre in salvo, e al rullo d’un tamburo ch’è uno schianto di mura, per la mano ha ancora così gracile un futuro da non reggersi ritto […] [Versi, in PE]

Un Enea, insomma, sola guida di se stesso e disperata guida di quelle (la tradizione: il padre; la speranza: il figlio) che dovrebbero essere le sue guide. Altro punto. Nelle sue liriche, ad esempio il Congedo del viaggiatore cerimonioso, la poesia delle piccole cose quotidiane si fonde con i grandi problemi dell’esistenza, con una sorte di assonanza pascoliana non so fino a che punto voluta e inconsapevole. Anche qui sarebbe interessante una delucidazione.

Pascoli è il padre di quasi tutta la poesia moderna italiana. È stato lui il primo a gettare il seme dell’inquietudine nella parola. A volte sembra perfino… montaliano. (È stato Eliot a dire che a volte i poeti d’oggi influenzano quelli di ieri). Non so comunque fino a che punto Pascoli abbia influito sulla mia poesia. È un’indagine che spetta alla critica e che lascio volentieri alla critica. Condivide le preoccupazioni espresse da Cassola in Ultima frontiera?

Sì, punto per punto. Cassola ha il raro dono di saper dire con semplicità le cose più difficili a dirsi perché scomode, e quindi di farsi capire da tutti. I politici soprattutto dovrebbero imparare da lui almeno la chiarezza del linguaggio, che è poi la chiarezza delle idee. Dall’ambiente familiare ha avuto qualche stimolo a diventare uomo di cultura, poeta? Tanto mio padre quanto mia madre amavano molto la musica. Mio padre suonava il violino. Forse ho ereditato da loro la passione per la musica. Ma amavano molto anche la lettura. I libri che mio padre non poteva comprarsi, se li copiava pazientemente su dei taccuini che ho conservato fino a quando la guerra non me li ha distrutti. La guerra ha inciso sulla sua vocazione e sulle sue ideologie?

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Guerra e dittatura hanno investito in pieno la mia generazione. Nacqui (1912) che c’era la guerra, crebbi col peso della guerra sulla mia povera famiglia, tutta la giovinezza l’ho bruciata nella guerra, e i miei figli sono nati nella guerra. Come non avrebbe potuto incidere, su di me, la guerra? Si è mai chiesto perché scrive? Se tornasse indietro, lo farebbe ugualmente? Cioè, reputa una missione sociale l’essere poeta e lanciare alla gente un certo tipo di messaggio?

No, non me lo sono mai chiesto, anche se da piccolo «facevo dannare», come si dice a Livorno, mia madre, col tiro a mitraglia dei perché. La seconda domanda, per me, non ha senso. Nessuno torna indietro, è il titolo di un romanzo di Alba De Céspedes6. E nemmeno mi sento missionario o latore di un messaggio. Già Domenico Porzio mi aveva posto una domanda simile: «Oggi, serve ancora scrivere? Lo scrittore presume di avere ancora pubblico al quale rivolgersi, col quale aprire un colloquio? La sua funzione o missione ha ancora un senso?». Ed ecco, pressappoco, la mia risposta (in succinto): «Lo “scrittore nato”, come si diceva una volta, e quindi il poeta, non si pone queste domande. Per lui il pubblico, più che una realtà, è una speranza. Se non esiste, se lo inventa. E penso che tale scrittore continuerebbe a scrivere anche se avesse la certezza di essere rimasto il solo abitatore della terra. Lo scrivere è per lui, prima di tutto, un bisogno quasi fisiologico. Lo scrivere, e quindi il comunicare. Ha bisogno di scrivere (di comunicare) anche quando il pubblico non sente più il bisogno di leggere. Anche perché non è detto che la risposta del pubblico debba essere immediata»7. Dedica molto tempo alla poesia e alla lettura?

Dipende dai momenti, o meglio, dai periodi. Non ho mai tenuto una precisa contabilità al proposito. E poi i versi io non li scrivo ad orario fisso. «Dedicare tempo» vuol dire adottare un metodo. Li scrivo quando «mi vengono», e nemmeno a farlo apposta a volte mi vengono proprio nei momenti meno opportuni: quando sono tutto intento (o mi sembra) ad altro. Che cosa pensa della situazione attuale? È pessimista riguardo al futuro o crede che, nonostante tutto, il buon senso dell’uomo prevarrà?

Mi sgomenta, soprattutto, la mostruosa crescita della popolazione. L’umanità sta scoppiando. Fra nemmeno Trecento anni, ho letto da qualche parte, tutto il globo sarà superpopolato come una grande metropoli. Non ci sarà più posto né per una tigre, né per un albero, né per una pulce. Penso che un «arresto» esterno debba per forza avvenire. E questo pensiero mi sgomenta ancor di più. Non riesco a far previsioni per il futuro. Che cosa pensa della violenza contemporanea? Quale tipo la colpisce di più?

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Non sono né un antropologo, né un sociologo. Credo comunque che in gran parte provenga, appunto, dalla soverchia crescita della popolazione. Senza accettare in tutto la tesi di Desmond Morris (The Naked Ape8), penso anch’io che tale crescita sviluppi nell’uomo, come in tanti altri animali, l’aggressività. Ma sono anche convinto che la violenza (un fatto, del resto, tutt’altro che nuovo nella storia) non avrebbe raggiunto le proporzioni attuali (fino a diventare, per usare un’espressione a lei cara, una «ideologia») se la fosse arginata per tempo, senza l’inerzia o la sotterranea complicità dello stesso «sistema» contro il quale essa si scaglia. E dico «arginata», non con l’uso della forza (occhio per occhio, dente per dente), ma col tempestivo soddisfacimento di certe richieste che stanno alla radice della violenza stessa, o che comunque si prestano ad ammantare di «legittimità» anche gli atti della più comune e sfrenata delinquenza che colpisce (è la parola adatta) di più, che spaventa di più: la violenza per la violenza, che anche la mia generazione, del resto, covava nel sangue, se penso alle feroci sassaiole tra quartiere e quartiere, delle quali porto ancora le cicatrici. (Chissà quanti giovani di allora – noi eravamo appena ragazzi – si fecero squadristi soltanto per il gusto di menar le mani, di sparare e di distruggere). È scontato che specialmente i giovani leggono poco e male. Che cosa proporrebbe per risolvere e migliorare il problema?

Non bisogna mai generalizzare. Conosco giovani che invece leggono molto e molto bene, e ne danno prova attraverso le loro conversazioni e pubblicazioni. La massa è sempre stata, «per necessità di cose», piuttosto inerte. Ha sempre preferito lo sport alla cultura. Nessun periodico culturale ha mai potuto vantare la tiratura di un periodico o di un giornale sportivo. D’altronde non si può pretendere che un barbiere ci parli più volentieri di Joyce o di Adorno che non di Boninsegna o di Valsecchi9. Fanno forse qualcosa, i cosiddetti mass media, per curare la cronica disappetenza culturale di tanti italiani? E la scuola? Nei confronti della scuola ha suggerimenti da proporre data anche la sua viva esperienza in materia?

È un problema grosso, quello della scuola. La società è malata perché è malata la scuola e la scuola è malata perché è malata la società. Occorrerebbero, in primo luogo, degli insegnanti di coscienza. Ce ne sono pochi, mentre la popolazione scolastica è sterminata. Io ho provato, ad esempio, a tenere per un anno una «classe atipica» di… poesia. Non certo facendo il maestro di poesia. Perfino nelle classi elementari, lei non può immaginare con quanto entusiasmo i miei piccoli «compagni di gioco» hanno accolto le mie letture: dal Foscolo a Brecht, da Rilke a Montale, ecc. Anche quelli che la maestra riteneva «i più asini». Bisognerebbe, prima di pensare – come va pensato – a «far la scuola», cominciare col pensare – altrettanto seriamente – a «fare scuola». Ma quanti… infiniti, in queste facili frasi.

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Pensa che se fosse vissuto in provincia avrebbe raggiunto gli stessi traguardi?

Non credo d’aver «raggiunto traguardi». Se lo pensassi, sarei un uomo finito. I «traguardi» anche per uno che scrive, rimangono e devono sempre rimanere un passo più in là di quanto egli ha scritto. A meno che lei non intenda, per traguardi, i riconoscimenti. Le dirò che io sono sempre rimasto nella mia privata «provincia», a Genova come a Milano o come a Roma; voglio dire che son sempre vissuto piuttosto lontano dal cosiddetto ambiente letterario, pur avendo in esso i migliori amici.

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36 INCHIESTA SUL PREMIO NOBEL

[Risposte a Pirkko-Liisa Ståhl] Che cosa pensa del Nobel in generale?

È una nobile e benemerita istituzione, anche se non infallibile nelle sue scelte, e anche se non ritengo che un Nobel, come del resto ogni altro Premio, valga in sé come assoluto giudizio critico o assoluta consacrazione della Storia. Secondo quali criteri e meriti lo assegnerebbe Lei?

Non ho particolari critiche da fare in proposito. Vorrei però che si cedesse meno alle opportunità politiche (un colpo a destra, uno a sinistra) e che si badasse di più anche a quei nomi che per ragioni varie (d’area linguistica, di mancate traduzioni e quindi di scarsa o nulla diffusione all’estero, nonché di fortuna) non cadono sotto il raggio dell’attenzione internazionale. È soddisfatto dell’operato e della competenza dell’Accademia svedese o non pensa, per esempio, che la giuria dovrebbe essere più ampia e possibilmente avere carattere internazionale?

Certamente se all’Accademia svedese si affiancassero dei rappresentanti delle varie nazioni, questi, con la maggiore o più diretta conoscenza, potrebbero allargare considerevolmente il campo visivo dell’Accademia stessa. Ma mi rendo conto delle difficoltà in merito. Le nazioni, per non stabilire odiose gerarchie, dovrebbero essere rappresentate tutte. E come sarebbe possibile? Semmai, con opportuni accordi, si potrebbe istituire un pre-Nobel in ogni nazione, così come esistono pre-olimpiadi selezionatrici. Quali sono gli scrittori o poeti non più viventi che, secondo Lei, avrebbero meritato di ricevere il premio, ma furono trascurati dall’Accademia svedese?

Gli esempi più clamorosi sono sulla bocca di tutti: Tolstoj, Proust, Kafka, Joyce, eccetera eccetera. E per restare in Italia, e nell’Italia di oggi, mi duole per esempio che non sia stato riconosciuto Ungaretti. Quali sono invece gli scrittori e i poeti viventi che dovrebbero essere candidati al Premio? (Le sue preferenze rimarranno anonime).

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Mi limito ai primi nomi che mi vengono in mente: Guillén (Jorge), Char, Borges, anche se sono felice che quest’ultimo sia stato battuto dal nostro Montale. Quali considera i più importanti scrittori e poeti del Suo Paese?

È impossibile rispondere a una domanda così estensiva. Indicherò quindi soltanto i poeti, scegliendoli fra quelli viventi: Bertolucci, Betocchi, Bigongiari, De Libero, Fortini, Luzi, Montale, Parronchi, Sereni, Sinisgalli, Solmi, Spaziani, Vigolo, Zanzotto. Per non dire dei più giovani, fino a Sanguineti e al gruppo della neoavanguardia, che però ormai ha già fatto il suo tempo.

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37 DOMANDE SU ESENIN E UNGARETTI

[Risposte a Serena Vitale] Quando e in che modo (se lo ricordi) hai «incontrato» per la prima volta i versi di Esenin? Puoi dare un rapidissimo giudizio sulla sua poesia? E la sua poesia ti ha dato qualcosa, ha lasciato delle tracce nella tua personale ricerca poetica?

«Quando e in che modo ho incontrato per la prima volta i versi di Esenin». La domanda mi costringe a un bel salto in lungo di oltre quarant’anni: a misurare senza orgoglio la mia agilità di atleta, ahimè direttamente proporzionale, trattandosi di tempo e non di spazio, alla mia età. 1936. Nelle Edizioni di Novissima, a Roma, esce, come si sa, una raccolta di Traduzioni di Giuseppe Ungaretti, comprendente testi di Saint-John Perse, William Blake, Góngora, Esenin, appunto, Jean Paulhan, più due canti africani. Nel 1936 avevo ventiquattro anni. E ancora ero tutto preso dall’Allegria di naufragi e dal Sentimento del tempo, che già nel ’33, rilegati insieme, mi portavo nel tascapane durante il servizio di leva, in compagnia di quegli altri pochi libri ch’esso era capace di contenere senza gonfiarsi troppo. Il mio primo Esenin, dunque, è un Esenin «ermetico»: voglio dire tutto un Esenin dovuto a un poeta oggi definito «ermetico», ed entrato in me (come del resto in molti altri giovani della mia generazione) sulla scia della grande poesia d’Ungaretti, al quale certamente va il merito – almeno fuori dalla cerchia degli specialisti – della prima vera «scoperta» in Italia del poeta di Rjazan, da lui immesso, col prestito della sua traduzione, nel flusso vivo della nostra poesia in atto. Di Esenin, Ungaretti aveva scelto Sorokoust e Kobylj korablj, rispettivamente diventati Requiem e Le navi delle cavalle. Due testi «folli» (così allora mi apparvero, e per questo allora mi fascinarono), che già in linea col futuro Ungaretti baroccheggiante, io ancor oggi conosco soltanto in lingua ungarettiana, volendo con questo dire – ma non soltanto questo – che ignoro il russo, e che nessun’altra traduzione in cui poi mi sono imbattuto – magari anche più vicina al «vero» – è valsa a sovrapporsi alla forza di quella musica. Un Esenin attendibile, il mio Esenin-Ungaretti? Un Esenin falsato, e magari «gonfiato» dalla densa cavata ungarettiana? Non conosco il russo, ripeto, e non sono quindi in grado di fare confronti o verifiche. Ma la «fusione» (la «lega») già allora avvenuta, valga non foss’altro a testimoniare, oltre che l’antica data dell’acquisto da me fatto, l’anzianità della cittadinanza onoraria italiana conferita a Esenin, anche se è vero che, per il pubblico, egli diventò un poco più di casa soltanto dopo la guerrac-

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cia: prima grazie al quadernetto a cura di Franco Matacotta (Guanda, 19461), sul quale naturalmente – già così predisposto – puntai subito gli occhi come su ogni altra apparizione nel mio campo visivo, poi attraverso le non meno note antologie di Renato Poggioli (Il fiore del verso russo, Einaudi, 1949) e di A.M. Ripellino (Poesia russa del Novecento, Guanda, 19542) fino – ancora del Poggioli – a Poemetti, liriche, frammenti dell’Universale Einaudi, 1961, e in ultimo alla recente ristampa della scelta matacottiana (Guanda, 1977), con la lucida introduzione di Serena Vitale. Ma non di questo devo parlare, e veniamo piuttosto alla seconda domanda che mi è stata posta: cioè se «la poesia di Esenin mi ha dato qualcosa»: se «ha lasciato tracce nella mia personale ricerca poetica». Come rispondere. Prima di tutto ci tengo a ribadire un fatto. Io conosco Esenin – una modesta parte di Esenin – soltanto attraverso lo spessore delle traduzioni, che se addirittura non ne offuscano o dissolvono, come una nebbia, la figura, certamente e fatalmente ne spengono o travisano la musica, cioè proprio quell’elemento che di Esenin, a quanto sento affermare dagli intenditori, costituisce l’energia primaria. Voglio dire insomma che di lui – traduzione d’Ungaretti a parte, che è una poesia in sé e a sé, pur se altra – conosco, più o meno ritmati e parafrasati, soltanto i segnali di pura informazione che le parole private del loro timbro e della loro collocazione originali ci danno. O poco più. Ma evidentemente Esenin ha più d’un diavolo in corpo per resistere a qualsiasi escamotage, compresa la trasposizione – dal piano della poesia al piano «descrittivo» della letteratura. Altrimenti come spiegare l’attrazione che ancora sento verso di lui, o almeno verso l’immagine che di lui mi sono fatta? Esenin è il poeta più oggettivo-soggettivo ch’io conosca, e appunto per questo del tutto imparentabile coi poeti del nostro realismo, che pur ne hanno favorito la diffusione in Italia. Non fosse che per quel tanto di visionario ch’è in lui. Il suo alfabeto, più che di parole, è fatto di cose. Anzi, di «corpi». Di cose o «corpi», non è un bisticcio, che sono il suo alfabeto interiore. È fatto di alberi, ogni volta distinti e nominati uno per uno, di miti animali domestici, di umili e grandi personaggi strettissimamente legati all’humus della sua Russia, di attrezzi e aromi rurali, ecc., il tutto coinvolto nel caldo d’un sentimento – forte ed elementare, per non dire addirittura primitivo – piuttosto raro nell’intellettualistica e quindi aristocratica poesia novecentesca. E tutte le vesti che gli sono fatte indossare – di poeta della natura meglio che della storia, di poeta contadino, di contadino malamente inurbato, e via dicendo – sempre gli sono state o troppo strette o troppo larghe, e sempre hanno finito per cadergli di dosso per lasciarlo nudo nella sua nuda verità di essere spaesato, terrificantemente solo e straniero fra una gente (una Storia) troppo in dissonanza con lui, che lo soverchierà fino a schiacciarlo e a indurlo a un forsennato atto di rifiuto o repulsa. L’irruenza del suo amore non bastano le traduzioni a smorzarla. Non bastano le traduzioni a eliminare la «presenza» delle sue parole-cose: dei suoi aceri, delle

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sue betulle, delle sue mucche, dei suoi cani, dei suoi sosia, amici o nemici che siano, e che per forza, in ogni lettore dotato di qualche intelligenza o sensibilità si stamperanno indelebilmente, generando per induzione una corrente parallela di stimolo – di incitamento – alla vita. Perché questo insomma è per me e il mio Esenin: un suscitatore di vita – di vita integrale, per quell’interiore incendio ch’egli riesce sempre a operare tra le ceneri spente del vivere cittadino- anche se e proprio perché, forse, la sua è stata una vita bruciata: fulminata da corto circuito avvenuto fra la propria anima ancora arcaica e la Rivoluzione in cui aveva pur tentato di buttarsi a capofitto. Una vita esaltata appunto nel presentimento continuo della sua perdita, della sua scomparsa in un «diverso» dove per lui, si potrebbe dire, si est vita non est vita: in quel «rituale del congedo», come perfettamente scrive Serena Vitale in limine alla ristampa matacottiana, «che più nascostamente si compie nei tentativi eseniani di tracciare un consuntivo, di trovare dei punti finalmente fermi, di raccogliere e di ricostruire i pezzi della propria immagine umana». Forse è tutto questo e soltanto questo a legarmi ancor oggi al mio Sergej Esenin: ad accoglierlo e a conservarlo – sia pure soltanto come figura riflessa o acquisita «per sentito dire» – nella ristretta cerchia delle mie amicizie e frequentazioni poetiche. Ma che concludere, detto ciò? Mi imbattei la prima volta in Esenin, torno a ripetere, a ventiquattr’anni. Lo lessi con amore, oltre che con sorpresa. Ma è difficile dire fino a che punto certi nutrimenti giovanili, commisti con tanti altri, contribuiscano per la loro parte alla formazione dei nostri tessuti vitali.

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38 POESIA: UN BENE-RIFUGIO

[Risposte a Claudio Marabini] Non è facile parlare con Giorgio Caproni. Tosco-genovese, la parola parca e pungente, Caproni, assalito da qualche domanda sull’attualità e la poesia, guarda in tralice.

Non parlo. Non so parlare io. Può essere. Quale poeta ama parlare «giornalisticamente»? Deve esserci però un equivoco. Forse Caproni sospetta un colloquio pubblico? Niente affatto: il pubblico è solo quello della poesia, lontano da noi: quel pubblico che alcuni oggi dicono molto aumentato. Non si tratta di andare noi in pubblico per uno show, ma di conversare pacatamente sulla poesia e il pubblico. Del resto, se n’è parlato con Montale, con Sereni, con Luzi; se ne parlerà con altri.

Ma che ti posso dire io? Non vedo nessuno, sto per conto mio. Un poeta è sempre come se fosse fuori, in mezzo alla realtà. Chi si chiude più nelle torri? Men che meno il Caproni che conosciamo da molti anni e che la realtà ha saputo prenderla di petto quando ha voluto, e l’ha voluto spesso. E poi, se sono bene informato, qualche esperienza davanti al pubblico della poesia l’hai avuta.

Con esattezza. Se si fanno le cose, si facciano per bene. Ci credi a questo boom della poesia?

Penso che sia, più che altro, una gonfiatura. Boom comunque è una parola iperbolica. Non si fa la fila davanti alle librerie per comprare libri di versi. Non si disertano in massa gli stadi o i cinematografi per trascorrere il tempo libero nel «raccoglimento» di una stanza o di una biblioteca a leggere «il poeta del cuore»; né ci si riversa sulle piazze per andare ad ascoltare “con religione”. La poesia, che fino ai tempi di Gozzano (quando ancora esisteva una certa concomitanza o unità di cultura tra autore e lettore) entrava con naturalezza nelle buone case borghesi come l’acqua corrente, il gas, l’energia elettrica e gli altri comfort, è ancora lontana – per sua fortuna? – dall’essere un genere di normale consumo: magari uno di quei generi di consumo – nell’imperante mercificazione anche di quelle che una volta venivano chiamate le aspirazioni spirituali – il cui bisogno vien di proposito inventato e imposto dalle case produttrici tramite il martellamento della pubblicità. Ma fuori d’ogni montatura, e su un piano più pulitamente

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culturale, non si può negare che in questi ultimi anni, specie da parte dei giovani, l’interesse per la poesia sia andato allargandosi e, soprattutto, affinandosi. Dei giovani, dico in particolare, come lettori o comunque, per usare una parola ormai démodée, come fruitori. Quali, i segni?

A Roma come a Milano e in tante altre città d’Italia si è assistito all’apertura di «cantine», «salette», «teatrini», «cabaret» ecc. dove s’invitano poeti d’ogni età e d’ogni corrente a un incontro diretto col pubblico. E devo dire, sull’esperienza da me fatta, che si tratta di un pubblico sempre molto attento e per nulla passivo, pronto anzi al dialogo e magari, quando le parole ascoltate non sono di suo genio, alla contestazione. Un pubblico, e questo è molto importante, formato in gran parte da giovani, mentre le «pubbliche letture» di poeti tenute nel buontempo andato – così dissimili nello spirito – erano rivolte, si sa, a computissime dame o a vecchi professori in pensione. Altro segno, poi, il sorgere di «società» o «movimenti» in favore della poesia, del tutto imparagonabili per la loro maggior coscienza critica, anche se non sempre insospettabili di qualche interesse «di gruppo», ai vecchi «sodalizi» dilettanteschi. E le ragioni che spingono questi giovani alla poesia?

Qualcuno ha parlato, papale papale, di «riflusso»: di stanchezza, di delusione, dopo le ultime esperienze, anche politiche. Altri di semplice curiosità o di moda, quest’ultima sorta dalla sazietà di altre mode. Un frutto della noia, comunque. E può darsi che qualcosa di vero esista in queste opinioni. Ma io preferisco accostarmi a chi vede il fenomeno sotto una luce meno sbrigativa. La società in cui viviamo minaccia con sempre maggior pesantezza i più elementari diritti del singolo: minaccia la distruzione, come da più parti è già stato detto, del privato (dell’io), per ridurre l’individuo a semplice numero di una somma di consumatori destinata ad alimentare una macchina economica (certe case discografiche e cinematografiche comprese) che trae a sé tutto il profitto, a pieno scapito d’ogni libertà interiore. Ora, poesia significa in primo luogo libertà. Libertà e disobbedienza di fronte a ogni forma di sopraffazione e di annullamento della persona: di fronte a ogni forma di irreggimentazione o, peggio, di massificazione. E il poeta – grande o piccolo che sia – è il più deciso oppositore, per sua propria natura, a un siffatto sistema. È il più strenuo difensore della singolarità, rifiutando d’istinto ogni parola d’ordine e cercando assiduamente se stesso per trovare gli altri: per scoprire ciò che nel profondo dell’io, al di fuori del mero autobiografismo e narcisismo, è comune a tutti gli uomini, anche se non in tutti presente alla coscienza. Oggi sono molti i giovani che sentono vivo il bisogno di trovare in primo luogo se stessi.

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Che senso può avere la poesia portata nelle piazze (o recitata nelle chiese)?

Della poesia «recitata nelle chiese», ho un ricordo personale bellissimo. Fu a Milano, quando venni invitato a leggere miei versi nella chiesa di S. Maurizio al Monastero Maggiore, in occasione di un ciclio di incontri con la musica e con la poesia. Molti intellettuali, fra il pubblico, ma anche molti giovani studenti. Non vedo perché in chiesa dove si fanno concerti non si debban leggere poesie. Quanto alla poesia «portata nelle piazze», il discorso è un altro. Intanto, la poesia in piazza non è una novità. Molti ricorderanno Il trebbo poetico, che a cura di Toni Comello e di Walter Della Monica1, sul finire degli anni Cinquanta, portava in giro, appunto nelle più proletarie piazze, poeti d’ogni genere e d’ogni epoca, riscuotendo applausi, a dimostrazione che la poesia, nonostante la cronica scarsità di lettori, può sempre piacere, purché la si tolga dal chiuso dei libri (che la gente è disabituata a frequentare) e la si faccia vivere con la viva voce. Ma c’è modo e modo, e certe grosse piazzate come quelle messe in scena quest’anno con i barocchi esiti che tutti sappiamo, hanno a che fare con la poesia poco o nulla. Son soltanto occasioni per far baccano o peggio, anche se con la pretesa di contribuire, così, a «socializzare» la poesia stessa. Conosci giovani poeti di valore? Hai rapporti con qualcuno di loro?

Finite le scalmane del neorealismo e del neoavanguardismo, per altro utili e necessarie a rimuovere le acque dal ristagno del postermetismo, sono sorti giovani poeti più d’una volta veramente «nuovi» oltre che giovani, coi quali ho più o meno diretti contatti, sia come amici sia (è naturale anche questo) come nemici. Non elenco nomi per non far torto a nessuno, ma in tutti ammiro la serietà dell’impegno e della preparazione, di fronte ai troppi che invece, per l’eccessivo discettare e sperimentare, mi danno più l’impressione di dottori in poesia che di poeti tout court. Quelli – lo ripeto volentieri – i cui testi riescono soltanto a conservare tutto il gelo del laboratorio, senza la forza di passer la rampe. Credi possa mutare nei tempi il modo di praticare la poesia (o anche di concepirla)?

Purché l’oggetto resti la poesia, e non qualcosa di diverso o magari anche di più bello, penso che un qualsiasi modo di praticarla (o di concepirla) valga l’altro. Non ci sono canoni fissi: regole infrangibili e inossidabili. Per te la poesia è silenzio o voce parlante?

Non sarebbe più poesia – perdona l’ovvietà – se non fosse voce parlante. Quanto al modo di recepirla, come si dice oggi, mi piace la lettura muta ma anche la lettura ad alta voce. Dico la lettura, non la recitazione. Per molti un testo poetico, come un testo musicale, ha bisogno di un interprete. Ma certo occorrono in-

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terpreti di tal bravura e finezza da non togliere o aggiungere nulla al testo stesso. Pascal afferma che il tono stesso della voce può alterare un poème. Trovare il tono giusto non è facile. Io odio il rumore delle parole, ma quando le parole sono ordinate da una loro legge logica come nelle scienze, o musicale come nella poesia, la voce umana mi attrae molto e vorrei che le poesie, anche da noi, venissero più di frequente incise su dischi o registrate su nastri. Che cosa è mutato, nell’ambito della poesia, dall’epoca dei tuoi esordi a oggi?

La mia generazione ha esordito ai tempi della cattività babilonese. I non allineati con la «cultura» ufficiale venivano additati al pubblico abominio, o peggio. Anche noi cercavamo, pur se con meno fracasso pubblicitario e senza mire accademiche, una poesia «di rottura». Quale credi possa essere l’avvenire della poesia in una civiltà di massa come la nostra?

Se è davvero una «civiltà», non potrà esser che roseo. Da semplice spettatore, giudico però che il bailamme attuale, a meno che non avvenga una salutare svolta, progredendo di questo passo ci porterà non soltanto alla morte della poesia ma – in ogni senso – dell’umanità. Che cosa pensi della difficoltà di pubblicare poesia da parte dei giovani?

Purtroppo, in Italia, nessuno ha difficoltà a pubblicare i suoi versi. Basta che paghi. E così si spiega come in Italia, dove tutti o quasi son poeti e pochissimi leggono poesia, si sfornino ogni giorno, «a piene carra», Sillogi di liriche. Il discorso cambia se si allude al grande editore. Son finiti i tempi quando un editoremecenate tipo Vallecchi (Attilio) non si peritava di stampare (1919) un giovane sconosciuto come Ungaretti. Oggi la grande editoria è un’industria, e vuole andare coi piedi di piombo. Comunque, anche se la sua politica in campo poetico non è sempre ineccepibile, più di un giovane ce l’ha fatta ad entrare in una «grande collana». È che i giovani d’oggi sono spesso impazienti, e vorrebbero «sfondare» subito, senza pensare che di rado nella storia un poeta (anche dei maggiori) ha esordito con un grande editore.

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39 GENOVA

Il punto di stazione da cui io guardo Genova non è quello, scelto ad arte, del turista. È un punto di stazione che si trova dentro di me. Perché Genova io l’ho tutta dentro. Anzi, Genova sono io. Sono io che sono «fatto» di Genova. Per questo anche se nato a Livorno (altro porto: altra città mercantile), mi sento genovese. Per un uomo, si sa, la città che conta non è quella dell’anagrafe. È la città dov’ha trascorso l’infanzia, dov’è cresciuto, dov’ha faticato per il pane, dov’ha fatto a botte con amici e nemici, dov’è andato a scuola, dov’è andato a donne, dove s’è innamorato e magari sposato: in breve, la città dove s’è formato. È la città che lo ha formato. Ora, io mi trapiantai a Genova che facevo le elementari. Erano i tempi quando ancora i lampioni a gas li accedeva, uno per uno, l’omino con la sua asta, e gli omerici cavalli portuali, attaccati in fila indiana ai massicci carri stracarichi, facevano scintille sui selciati, mentre in mezzo alla strada un organetto di Barberia macinava malinconico la sua canzone. Se Genova mi ha visto crescere, io ho visto crescere lei: imbruttendo, naturalmente, come sono imbruttito io. Da Genova nemmeno la guerra valse a sradicarmi. Sono stato al fronte, è vero, mi sono accampato in tante altre terre, ma alla fine, il giorno della Liberazione, dalla Val Trebbia dove mi trovavo coi partigiani, anch’io mi riconquistai la mia città. A Genova ho scritto le mie prime poesie, che la domenica andavo a ricopiare a macchina nello scagno di mio padre in piazza della Commenda, in pieno porto, e più tardi in piazza dell’Acquaverde, accanto all’antica chiesa di San Giovanni di Prè, grigia e buia – nel suo buio Medioevo – come un sommergibile. È quindi naturale che, come la mia persona, anche la mia poesia sia fatta, in discreta misura, di Genova. Non avrei mai scritto il Passaggio di Enea, per esempio, se non avessi incontrato, in piazza Bandiera, Enea in persona. Credo che Genova sia l’unica città al mondo ad aver eretto un monumento ad Enea. A Enea secondo la figurazione più scolastica, col vecchio padre Anchise in spalla e il figlioletto Ascanio per la mano. Nulla d’eccezionale dal punto di vista artistico. Si tratta di un modesto fontanile, opera del Baratta, del quale si servivano le bisagnine per lavare gli ortaggi. E forse, per attinger acqua, le stesse pie donnette che, stando a Guy de Pourtalès1, andavano a portare una candela – «per farsi lume in camera e per le sue divozioni» – a quello che nella zona chiamavano «il piccolo santo»: ossia a Nietzsche, allora alloggiato in salita delle Battistine. Nulla di artisticamente eccezionale, ripeto. Ma eccezionale è il fatto che giustappunto Enea, scampato dall’incendio di Troia, sia andato a finire proprio sulla piazza più bombardata d’Italia. In quel povero Enea vidi chiaro il simbolo dell’uo-

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mo della mia generazione, solo in piena guerra a cercar di sostenere sulle spalle un passato (una tradizione) crollante da tutte le parti, e a cercar di portare a salvamento un futuro ancora così incerto da non reggersi ritto, più bisognoso di guida che capace di far da guida. È solo un esempio, e ne potrei far tanti altri. Ma non voglio più parlare di me né della mia poesia. Mi sono dilungato soltanto per scusarmi in qualche modo se la mia immagine di Genova non potrà mai avere l’impersonalità necessaria per riuscire oggettiva. Genova è una città che mi ha stregato. Nemmeno ora che vivo a Roma riesco a levarmela di dentro, e a considerarla spassionatamente dal di fuori. Me la sogno di notte, la sospiro di giorno. Per dirla alla francese, je suis malade de Gênes. D’altronde, è capitato a tanti altri illustri personaggi di passaggio (l’elenco dei grandi spasimanti di Genova è lungo, e lo trovi in ogni rispettabile guida) di lasciarsi prendere dalla Maliarda, e di offrirle fiori. Ma ragioni sentimentali a parte, forse fu la sua verticalità da esaltarmi fin dal primo impatto. Con le sue salite, le sue rampe, le sue scalinate, i suoi ascensori pubblici, le sue funicolari e le sue strade disposte una sull’altra, Genova è infatti città tutta verticale. Verticale e quindi, almeno per me, lirica se non addirittura onirica. Una città che direi, urbanisticamente, tra le più irrazionali, se non sapessi come invece, tale apparente irrazionalità, altro non sia che il frutto d’un ben ponderato calcolo: quello di trarre il maggior profitto possibile, e nel modo migliore, da una tirannica configurazione geografica, che sempre ha imposto ai genovesi d’espandersi soltanto in altezza. (Però, un piccolo grano di felice follia deve pur esserci, nel tanto e giustamente decantato buonsenso ligure. Non è necessario per forza pensare a Colombo, al Magnasco, a Paganini. Basta, per esempio, ascoltare i vecchi genovesi quando, all’osteria, cantano i loro “trallalero” in falsetto, imitando con la voce gli strumenti d’accompagnamento. O meglio ancora, basta osservare certi bocciofili inveterati, che gravi e contegnosi vanno a scegliere i loro campi di gioco nei luoghi più impervi: sul greto ghiaioso del Bisagno come sulla più erta e dissestata viuzza, costringendosi a virtuosistici calcoli nel tiro per far compiere alla boccia, in una specie di complicatissima gimcana, i giusti scarti e rimbalzi per avvicinarsi al pallino). Comunque, tanto sono attaccato a Genova (o, viceversa, tanto Genova è attaccata a me) da non saper nemmeno discernere le parti brutte dalle parti belle. Bello e brutto li trovo così intimamente commisti (così «alla rinfusa», nel senso più marinaresco) da formare un unicum che proprio da tale commistione stretta trae il suo irripetibile fascino. Di questo s’era già accorto Dickens, quando di Genova scriveva: «È un luogo che non si finisce mai di conoscere… È ricco dei più strani contrasti: ad ogni svoltata vi si presentano alla mente cose pittoresche, brutte, abbiette, magnifiche, deliziose e sgradevoli»2. Immagino la sorpresa del turista che per la prima volta, da via Garibaldi a via Cairoli, cuore della suntuosa Genova cinquecente-

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sca, prosegua nella già barocca via Balbi, anch’essa splendida di palazzi uno più degno dell’altro d’ospitare una reggia. Basta ch’egli scantoni da un piccolo archivolto, ed eccolo di soprassalto nei Truogoli di Santa Brigida, dove se le chiassose lavandaie d’una volta non ci sono più, ancora ci sono le cordate di panni stesi da facciata a facciata, come in uno de più popolari rioni napoletani. È la stessa sorpresa di chi, nella zona intestinale della città, cioè in uno di quei bui vicoli o caruggi al cui interno si elabora la digestione delle mercanzie sbarcate in porto per tramutarle in introiti, scorga il più banale negozietto di «Riparazioni calzature», o di «Tutto per la casa», sotto una stupenda sovrapporta di lavagna nera, magari con San Giorgio e il Drago, opera d’un Gaggini o d’un suo emulo. Questi caruggi – dicono le guide – formano la città storica per eccellenza, e io, ancora coi pantaloni corti, non mi stancavo di girarli, proprio per le loro continue sorprese, con la furtiva golosità del topo in cerca di croste nelle chiaviche. Le più antiche e fascinose chiese di Genova – da San Matteo a San Donato, da Sant’Agostino a Santa Maria di Castello – le devi andare a scovare lì, in quel medioevo in cui però nulla sa di museo, perché tutto vi è ancora vivo e operante, come del resto vivo e operante è lo stesso Palazzo San Giorgio. Lì infatti è ancora il centro affaristico, anche se la spinta al decentramento è notevole, e lì ancora vanno le signore eleganti per le loro compere, sicure di trovare in Campetto o in via Luccoli le più raffinate boutiques. Già certi toponimi, in realtà d’innocente origine ma per me eccitantissimi, bastavano allora a farmi girare la testa: vico del Pelo, vico dell’Amore, piazza dell’Amor perfetto, vico del Cinque Lampadi, vico Calabraghe, poi ribattezzato Carabaghe, ambigui e calamitanti pendants, per l’allupato ragazzino che ero, ai luminosi nomi dell’Acquasola, dell’Acquaverde, delle Fontane Marose, quando da quest’ultima piazza, dominata dal bianco e nero del Palazzo Spinola, svicolavo, col feretro del mio violino sotto il braccio, in salita Santa Caterina, dov’era l’Istituto Musicale Giuseppe Verdi. Ma i dickensiani contrasti non li trovi soltanto in quel dedalo, così fitto e intricato da dar l’impressione, visto da Castelletto dove si può salire con l’ascensore del Portello, di un gran mucchio di grigie macerie. Anzi, addirittura di grigia cenere, per via dei tetti tutti d’ardesia e tutti così stretti l’uno all’altro da formar quasi un’unica superficie, scabra e rugosa. L’intera Genova, nel suo insieme, è città doppia: bifronte come il Giano che ne sormonta lo stemma e ne vigila le aiuole e i giardini. Alzatevi fino al Righi con la funicolare che parte dalla Zecca. Già il viaggio è di per sé un attrait, in quanto quella funicolare è un po’ come un’allegoria della nostra nascita, se non – per le prospettive che apre – della nostra intera vita. Esce da un buio tunnel, come da un ventre materno, e su su si arrampica ben oliata e silenziosa, tirata dal suo inarrestabile cavo, per portarti diritto nella luce sempre più accesa, fino alle cupole dorate del proustiano Hôtel Pagoda, vicino alla tozza torre di bei mattoni rossi dalla quale, prima della guerra, rombava il cannone delle dodici. Dal Righi, seguendo la strada che va verso il forte Begato e oltre, si ha perfetta la vi-

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sione dei due volti della città, nettamente divisi dalla catena massiccia delle seicentesche mura. Sul versante sud, in piena luce meridiana, il volto radioso della città marittima, che da Circonvallazione a monte digrada a Circonvallazione a mare, abbracciando l’intero porto e il litorale, in una mezzaluna che da ponente della Lanterna arriva col corno orientale – oltre il Capo di Santa Chiara – addirittura al promontorio di Portofino. È la Genova più nota dei cantieri, delle navi, dei transatlantici, dei cubici palazzi col tetto d’ardesia a tronco di piramide, spesso culminante in un minigiardino pensile stipato d’ortaggi e di fiori, dove l’occhio non si sazia di spaziare su torri e campanili, cupole e grattacieli, colline illustri (Carignano, Albàro), che gareggiano fra loro in luminosità, in un quadro d’insieme dove il verde si sposa così teneramente col grigio da formare, e da dare all’aria stessa e allo stesso mare, quell’inconfondibile tinta cinerina che è poi il colore ideale della città. Sull’altro versante, tutto a tramontana, verso il Cimitero di Staglieno e oltre le ossificate trine delle sue tombe «monumentali», il volto della Genova, diciamo così, più dimessa. Quella che i turisti non cercano: la Genova dei canili, delle carceri, dei gasometri, dei mattatoi, che lungo il putrido e a modo suo affascinante Bisagno (affascinante proprio per la sua incommensurabile bruttezza, così male incassato nel grigioverde dei suoi monti spellati), t’accompagna alla Volpara, al Giro del Fullo, a Molassana, alla Doria, fino a Prato, limite del perimetro urbano. Una Genova non certo in abito da ricevimento, ma a me cara per la sua aria terragna e semicampagnola, dove del mare non par esistere nemmeno il ricordo, come se ci trovassimo già in Emilia. È un bifrontismo, del resto, che salta agli occhi anche senza bisogno di salire, percorrendo il litorale da Vesima a Nervi, capi estremi – in lunghezza – della città. A ponente, da Voltri al porto, la città del ferro e del fuoco, la Genova delle acciaierie e dei laminatoi, delle raffinerie e degli altiforni, che specie a Cornigliano e a Bolzaneto si trasforma in un’allucinante bolgia di velenose fiamme e di tossici fumacchi industriali, che appestano gli abitanti e ammaliano il mio occhio corrotto. Perché anche l’orrido ha i suoi lirismi. E quei perniciosi suffumigi, contro i quali giustamente si scagliano tanti comitati di quartiere, e quelle fiamme lucerine, hanno colorazioni ora così tenere, ora così fosche, da farti – vergognosamente – dimenticare ogni preoccupazione ecologica. Specie di notte, quando le nuvole di quell’incendio e gli incandescenti bollori e vapori, attraversati da grandiosi lampeggiamenti, appaiono in tutto il loro infernale bagliore. Ma a Levante passa la Foce provenendo da Corso Maurizio Quadrio e Corso Aurelio Saffi, costeggiante l’esaltante paesino dei moli e delle banchine, in un viavai di rimorchiatori, di chiattoni, di grandi e piccoli bastimenti d’ogni tipo e bandiera, il limpido lungomare di Corso Italia, soleggiato paradiso di borghesie quiete, che fino all’avvento della motorizzazione di massa costituiva, insieme coi portici di via XX Settembre, uno dei luoghi topici delle passeggiate domenicali: fino al Lido d’Albàro e a Boccadasse, quest’ultima, con tutto il suo

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pittoresco di vecchie case policrome, di viuzze a strapiombo sul mare, di barche tirate in secco e di reti stese, una specie di piccolo parco nazionale degli ultimi pescatori superstiti. Tale doppia faccia di Genova, infine, appare in un’altra dimensione ancora, e molto più intima: quella dello stesso spirito o animo genovese. Nell’uomo come nel paesaggio genovese, infatti, vive acuto il contrasto fra la continua tentazione al dissolvimento ch’è nella stessa estatica luce marina e il ritmo d’una vita che invece tende tutta, con minuzioso accanimento, alle cose solide e ferme. Costretto da secoli a far vita sul mare, nessuno più del genovese ama la terra ferma. Ma quella poca terra di cui dispone, stretta com’è la città tra i flutti e i monti, vuol che sia ben ferma davvero. E così nacquero quelle famose viuzze o «crose», fino a ieri digradanti in gran numero dalle zone alte al litorale, e oggi ridotte a pochi esemplari, saldamente contese – contro l’erosione dei rovinosi piovaschi – di viva ghiaia marina conficcata nel suolo, e con al centro il bel tappeto rosso di mattoni piantati di costa: che sono poi i segni alfabetici più vistosi, perché ancora dialettali come certe case rivierasche dalle vivaci facciate dipinte a fresco contro i terribili solventi dell’aria salina, di questa perenne rixa ch’è nell’animo ligure, per nulla disposto a cedere agli incanti delle sirene. Rixa testimoniata del resto, in linguaggio illustre, dagli stessi aulici palazzi, la cui severa forma geometrica par esprimere, in tutti, l’antica volontà di capitalizzare i beni immobili, nell’avaro spazio concesso, uno spirito che vuol rimanere concreto. Queste «crose» sono parte integrante del mio essere genovese. Quante ne percorsi, da ragazzo, o per scendere da San Martino a San Giuliano dove andavo a fare i bagni, o per salire alla Madonna del Monte, più per cogliere corbezzole nel tratto verso il forte di Santa Tecla, oggi conquistato dall’avanzata edilizia, che per dir preghiere o accender candele. In genere s’incassano (o s’incassavano) fra due muri d’orto o fra ville anche di lusso, inaccessibili spesso ai veicoli e quindi ideali, in ogni ora del giorno, per gli amori furtivi, in un sottile odor di limoni o, d’estate, di fichi maturi, mentre sul capo sciamano grigioazzurri i pesciolini delle foglie di ulivo. Qualche troncone puoi ancora vederlo anche in pieno centro: per esempio tutta la via Santa Maria di Castello, o all’inizio di quella salita della Tosse che, da via San Vincenzo presso il nero grattacielo della Sip, ti porta in via Ugo Foscolo e quindi all’aristocratica Spianata dell’Acquasola: già «luogo deserto e di mala voce per ree opere e sconci congressi», stando all’Alizeri3, e oggi una specie di piccolo Luxembourg, dirimpetto all’erta Villetta di Negro (con quel curioso Mazzini stilita, ritto sulla sua colonna in cima alla scalinata bianca), da cui la divide la sempre fiorita piazza Corvetto, cuore – o punto cruciale – della Genova «bene». Chi voglia conoscere il raccolto sussiego della Genova borghese, è da piazza Corvetto infatti che deve partire. Da Corvetto a via Corsica, scavalcando col Ponte Monumentale la via XX Settembre, il passo è breve, e vale la pena di farlo. Sei sulla collina di Carignano, in alto sul mare, e anche se son quasi scomparse le ville gentilizie d’una volta, puoi sempre raggiungere, da via Nino Bixio,

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la chiesa di Santa Maria Assunta dell’Alessi, quella che da ragazzo, quando andavo a ripetizione di violino proprio in via Bixio, dal prof. Armando Fossa, mi faceva ammattire con i suoi scampanii. Da piazza Corvetto s’impenna diritta e composta la via Assarotti, fino all’alta e un poco cupa piazza Manin, dalla quale, lungo una sequela di corsi uno più «bene» dell’altro (Corso Armellini, Corso Solferino, Corso Magenta, Corso Paganini, Corso Firenze), godi intero il panorama della città dalla parte del mare e del porto, in un floreale che proprio per il suo «signorile decoro» m’incuteva, quando ancora dai quartieri piccoloborghesi e popolari di San Martino e di San Fruttoso la mia famiglia non si era trasferita nell’empireo di via Bernardo Strozzi, più soggezione che suggestione. Ma a proposito di sussiego borghese come non ricordare quel gran genio e maestro del kitsch che fu il Coppedè? Lo chiamò a Genova il ricchissimo assicuratore Mackenzie sul finire del secolo scorso, per commettergli il gran castello neogotico di via Cesare Cabella, in alto sulla piazza Manin, modello di tanti altri castelli o castelletti sparsi nella città e adiacenze. Coppedè trovò a Genova la sua Mecca, e si deve a lui il trionfo di quel sembenellismo architettonico culminante in Zoagli. Ma il suo ingegno non si esercitò soltanto in castelli. Suo è anche il famoso stabile in via Maragliano, che spicca per la cementizia sovrabbondanza e trionfaggine dei suoi fregi e ornamenti, tutti d’una pesantezza da lasciar senza fiato. Di tali ornamenti e paramenti, e di tale pesantezza – fedele specchio della gonfia e danarosa borghesia dell’epoca – la città ha del resto esempi un po’ dappertutto: in piazza De Ferrari come in via XX Settembre, in corso Torino come in via Casaregis, due contegnose avenues, queste ultime, ormai un po’ decadute, dove il folto dei platani, incupendo con la sua ombra quegli orpelli, li fa ancora più tetri. È decisamente (insieme con il tanto celebrato Cimitero di Staglieno, dove non son mai riuscito a digerire i capolavori – ordinati da quella medesima borghesia – di un Galletti, di un Monteverde, di un De Albertis, di un Baroni: lo stesso del mostruoso monumento del Quarto) la Genova che non mi piace. Ma son troppo legato alla città per prendermela, malgrado tutto, con tutte quelle massicce prove di cattivo gusto, le cui ghirlande e cariatidi in calcestruzzo raggiungevano perfino il modesto casamento della mia fanciullezza in via San Martino, precisamente nel punto (ma allora era terra selvaggia, o quasi, e comunque campo libero alle feroci sassaiole con le bande degli altri rioni) dove ora diparte corso Europa, uno dei vanti, con la Sopraelevata, della Genova nuova: quella che fa commoventi e a volte davvero eroici sforzi per metropolizzarsi, riuscendo troppo spesso soltanto a sfigurare se stessa. (Penso a Piccapietra, a via Madre di Dio, a tanta Genova di Dino Campana: e il mio non vuol essere il solito lamento dell’esteta o del nostalgico contro l’ingegnere o l’igienista, ma il rammarico di chi è costretto a constatare come, nelle nuove strutture sostituite alle vecchie, non si tenga il minimo conto del linguaggio architettonico locale, facendo di interi quartieri, che spiccavano per la loro originalità, «centri» o «habitat residenziali» che puoi trovare identici in qualsiasi altra regione).

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Meglio il kitsch, forse, che almeno fa parte della mia Genova, anche se le giovanili preferenze mi portavano verso altre pieghe della città, tutte innervate in una geografia del cuore le cui raisons, al di sopra (o al di sotto) d’ogni altro più plausibile metro, soltanto nel sentimento possono trovare illustrazione e giustificazione. Così, mi piaceva perdermi in quella che forse è la Genova più ovvia: fra le vetuste e silenziose chiese dei vicoli, o immergermi nel popolaresco e fragoroso cosmopolitismo delle zone portuali: via Prè, oggi formicolante (è la cosiddetta «Sciangai») di venditori semiclandestini d’oggetti nuovi d’ogni genere a prezzo «d’occasione», o Sottoripa con le sue friggitorie di baccalà e i fascinosi «magazzeni» di forniture navali, fino a tutta l’attuale via Gramsci, anche allora sede di locali «equivoci» per rissosi marittimi d’ogni parte del mondo, nonché, la sera, di giunoniche passeggiatrici, che da Caricamento facevano frangia fino alla lanterna e oltre. «Postacci», mi diceva mia madre. E appunto per questo, forse, da me cercati e bazzicati, pur senza dimenticare, in tale randagia geografia del cuore, certe trasognate stradine d’Albàro, tutte perbenismo e deliziose al crepuscolo, quando anche i vetri delle case prendevano il blu e la trasparenza del mare, o degli occhi delle fanciulle da me sospirate. Che mai potevano avere in comune quelle caste straducce all’ombra di Villa Paradiso, con la già allora poco raccomandata zona della cintura interna, tra Porta Soprana o di Sant’Andrea e Porta Sottana o dei Vacca, dove pur m’avventuravo in cerca di ben altre Veneri? Mia madre per fortuna non sapeva che frequentavo anche via del Campo, veramente paurosa nella sua buia decrepitezza e oggi, insieme con vico della Croce Bianca e vico delle Cavigliere, stanza di drogati e di travestiti. O peggio. È che Genova, ripeto, è il mio stesso corpo. E nel corpo, si sa, accanto alle celesti aspirazioni, albergano anche i più bassi istinti. Ma già ho divagato troppo sulle pietre. E la gente? «Mi piace la nave, ma non l’equipaggio». Così ebbe a dirmi, a proposito di Genova, un marittimo d’altri lidi che conosceva assai bene l’Italia e un poco anche la nostra lingua, una sera che sedevamo allo stesso tavolo in un bar del porto. Che intendeva dire, il mio compagno d’occasione, con tale battuta? Che Genova è bella, e brutti, o comunque antipatici, i genovesi? Che i genovesi in genere non siano Adoni, è risaputo. Spesso paganiniamente segaligni o cammellescamente atticciati, col mobile pomo d’Adamo in fuori e il volto un poco spiritato o, al contrario, fin troppo «posato», può darsi che come tipi non obbediscano uno per uno al canone greco o winckelmanniano. E certo non possiamo sempre dirli cordiali o accattivanti, parchi come sono di parole, ogni volta spese con estrema parsimonia, se non con lesina, e più volentieri in quell’aspra e stupenda lingua in salamoia ch’è il zeneixe4. Parlo, si capisce, di genovesi vecchio stampo. Dei genovesi di prima delle demolizioni operate dalla guerra e dalla febbre di rinnovamento, quando ancora tanta gentuccia rifattasi nel «benessere» non aveva assunto il «parlare italiano» quale segno di promozione sociale: quasi che il vero genovese, aristocratico per natura anche quando fa il netturbi-

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no, ne avesse bisogno, e a parte il fatto che, comunque, la tipica calata nessun genovese riuscirà mai a perderla: col risultato d’un italiano lento e cantilenante (beccheggiante), ch’è poi lo stesso italiano dell’aulica prosa – cadenzatissima – del già nominato Alizeri (autore fra l’altro d’una stupenda guido ottocentesca di Genova), e non soltanto dell’Alizeri, ma di molti altri prosatori italo-linguistici, fino allo Sbarbaro di Trucioli. È un peccato che gli autentici genovesi – chiusi e calafati come i loro scafi, e abituati ai lunghi silenzi della navigazione – vadano sempre più scomparendo. Come ogni altra grande città, anche Genova ha cominciato da un pezzo ad essere etnograficamente ibrida. La prima annacquata si rafforzò dopo la guerra, quando dalle vallate intensificarono la loro discesa i «paesanetti», tanti da riuscire in breve a innestare forti caratteri contadini in una cittadinanza nata marinaresca. Venivano dalla Val Bisagno, dalla Val Trebbia, dalla Val d’Aveto, dalla Val Polcevera, e cominciarono con l’aprir bottegucce, magari di carbonaio o d’erbivendolo, che prestamente crebbero e si trasformarono in grandi e ben avviati negozi, magari di elettrodomestici o di alimentari, mentre i più giovani preferivano far gli scaricatori in porto o i guardiani negli stabilimenti e, i più evoluti, i commessi o gli spedizionieri. Finché in massa, dietro il miraggio d’un posto sia pure di semplice manovalanza nell’industria, arrivarono i meridionali: calabresi in particolare, che soprattutto trovarono stanza – anche se ora sono sparsi un po’ ovunque – nei vecchi quartieri occidentali, e alcuni negli alti casamenti d’Oregina, o al Biscione nella zona di Marassi, nonché in certe Delegazioni, sedi delle fabbriche. Ma di genovesi schietti qualche campione si trova ancora, anche se non c’è da fidarsi dato che molti sono i metechi che si spacciano per genovesi di vecchio lignaggio, e dei quali hanno assunto tutte le parvenze. Basta fare un passo in piazza Banchi, per esempio, fra gli ingaggiatori marittimi che lì, fra la Loggia dei Mercanti e la chiesa di San Pietro, sostano in buon numero. Non sono affatto bruschi, come li fa la leggenda, e son perfino arguti anche nel contrattare, lontani comunque dalla fama di musoni regalata ai genovesi in genere. Mi tengo di proposito sul piede della Genova popolare, perché è quella da me meglio conosciuta e vissuta: quella che tutt’oggi riconosco senza troppa fatica anche fra le brave casalinghe che, ferme per la strada con la borsa o il carrello come se il tempo e il traffico per loro non scorressero, provano un gusto matto a confabulare l’una con l’altra, o per dir meglio a «far ceti», cioè a spettegolare alle spalle degli assenti. Le giovani come le vecchie, nonostante i jeans. Che scilinguagnolo, a confronto dei mariti. Parlottano sottovoce, come sempre chi fa confidenze, o come chi è abituato a stare in chiesa. E anzi, a proposito di chiesa, sono loro a tener vivo il culto di Maria Santissima, Patrona della città, di fronte all’indifferenza dei mariti. È grazie a queste donnette che Genova, col suo rosario di Santuari e Tabernacoli tutti dedicati alla Madonna (e «la Madonna degli Ulivi» del Barabino non mancava a capo del mio letto infantile), può esser creduta la città più religiosa d’Italia. Ma anche se salgo a livello della Terrazza Martini, sor-

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ta di piccolo e ambizioso Empire State, e luogo deputato (panoramico, naturalmente) dell’élite imprenditoriale e intellettuale (quella che di preferenza ha dimora sulle colline «nobili» di Albàro, di Carignano, di Castelletto, o dei nuovi quartieri residenziali verso Nervi, sull’asse di corso Europa), non stento a ritrovare i segni della genovesità, a cominciar dal dialetto, che non manca di suonare ancora tra professionisti, giornalisti, manager, artisti, a dispetto dei sottopiccolo-borghesi che ne arrossiscono. E questo mi fa piacere: mi riconcilia con la mia Genova, pur sapendo che i mass media (e la stessa scuola) bombardano forte contro quelle «lingue tagliate» che sono, appunto, i dialetti in genere, distruggendo patrimoni incalcolabili. Una Genova senza la sua splendida «lingua», non la immagino. Ma preferisco non affrontar la questione, che mi porterebbe lontano e che investe anche l’architettura, da quando è cominciato lo scempio delle case dialettali (cioè costruite secondo i moduli dei capimastri locali), che davano un volto inconfondibile alle due riviere e ai paesi dell’entroterra. Per la verità, i primi a sostituirle con «moderne» ma sciape «palazzine» standard, in nessunissima armonia col paesaggio, sono stati proprio i vecchi proprietari, dopo il loro inurbamento: gli stessi ex contadini o ex pescatori che, imborghesiti, si sono vergognati del dialetto. Ma ripeto, non voglio affrontar la questione. S’è fatto tardi, ed è già buio. Ne approfitterò per godermi ancora una volta – anche se sa un po’ troppo di cartolina illustrata – l’imparagonabile spettacolo della Genova notturna. Dalle bianche lune delle navi, o dalle gialle fiamme della zona industriale, è tutto un rincorrersi e un salire di lunghe file di luci: linee oblique, linee orizzontali, linee verticali, tutte da dar l’impressione d’una vetrina di gioielliere in pieno scintillamento. O, se vogliamo un’immagine meno logora, di un firmamento rovesciatosi sulla terra e sul mare. Quand’ero bambino, quei lumi, l’ho già detto, li vedevo nascere uno per uno, seguendo gli omìni che allora, con la loro asta, percorrevano le vie per accenderli. Oggi, mentre la Lanterna ha cominciato a carezzare il cielo, s’accendono tutti insieme, di botto. E fa impressione. Anche in questo senso – che è il più facile e ovvio, d’accordo, essendo molto più profonde le ragioni che la suggerirono – capisco la domanda che per tutti noi si pose il poeta marsigliese Joseph Autran: «Fut-il jamais une ville mieux faite pour inspirer la poésie?».

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40 COM’È DIFFICILE TRADURRE UNA MUSICA

[Risposte ad Antonio Debenedetti] È una mattina sul presto. La conversazione con Caproni inizia subito scorrevole. Verte, da principio, intorno alla complessità di Apollinaire. Un uomo e un artista che, lasciano intendere i suoi biografi, voleva sedurre meravigliando. Poeta dalla vena facile, qualche volta trasandato all’apparenza, era in realtà attentissimo al linguaggio e alla costruzione delle poesie. Ci sono, nelle sue pagine, neologismi o arcaismi, preziosità. Un rompicapo, insomma. Ed è proprio questa la materia d’una prima domanda, a Caproni. Lei ha spesso affrontato, traducendoli in italiano, autori di particolare difficoltà: Proust, Céline, Cendrars, Genet e, ora, Apollinaire. Contro quali intoppi ha dovuto, ciascuna volta, lottare? Quali, in particolare, le difficoltà per Apollinaire?

Sono tutti autori, per una ragione o per un’altra, non fotocopiabili in altra lingua. Si può restituire, più o meno fedelmente, il senso letterale dei loro testi. Ma la musica? Il frizzante francese proustiano, per esempio, come renderlo nella nostra lingua, plurisillabica e un poco marmorea, senza appesantire la miracolosa levità? Quanto a Céline e Genet (e, in parte, anche a Cendrars) lo scoglio maggiore è che non esiste un argot italiano: voglio dire un italiano popolare nazionale. Tradurre clèb con cane, o mec con uomo, è fare una doppia traduzione, sostituendo chien a clèb e homme a mec. Un clèb è zoologicamente un cane, certo; ma non lo è, come dire? Psicologicamente. Trovare, fra le chiavi possibili, la più giusta chiave linguistica italiana è il problema primo: la croce e la delizia del traduttore, che deve farsi inventore. Il senso della mia versione di Apollinaire vuole essere più che mai questo. Ho cercato di offrire, nei limiti delle mie capacità, dei testi quali Apollinaire stesso ci avrebbe dato se li avesse scritti e pensati in italiano. La lingua a volte condiziona il poeta. Se fosse stato francese, chissà come avrebbe disposto i vocaboli, il Foscolo, o chissà che cosa avrebbe scritto, per raggiungere l’effetto musicale di: «Felice te che il regno ampio de’ venti / Ippolito, a’ tuoi verdi anni correvi!»1. È proprio dalla musica del verso, spesso, che nasce uno dei maggiori incanti di Apollinaire.

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41 [LA MUSICA DEL VERSO]

[Risposte a Claudio Angelini] Quali interventi ha operato sul linguaggio di Apollinaire? Ha seguito fedelmente il testo o si è preso delle libertà?

Uno dei maggiori incanti d’Apollinaire, spesso, nasce dalla musica del verso. Dico dalla musica interna, non dall’esteriore musicalità. E questo anche quando Apollinaire (a parte le chansons, è ovvio, dove la musica è tutto, o quasi) usa in apparenza il verso più prosastico. Di norma, nella mia versione ho cercato di mantenermi, quanto più possibile, fedele al senso letterale. Ma quando tale fedeltà sarebbe andata a tutto scapito della musica, o dello spirito o brio linguistico che con le sue trovate squisitamente francesi anima così di frequente il testo, non ho esitato a intervenire con invenzioni e trovate mie, tali da restituire in italiano quella musica e quello spirito, quel brio. A costo, magari, di trasformare – pongo un caso limite – in guardia giurata un vigile urbano, dove tutta l’espressività stava non in quella qualifica insignificante, ma nell’effetto di certa rima. La lingua, si sa, spesso condiziona il poeta. Un Leopardi francese non ci avrebbe dato, parola per parola, il corrispondente di «negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi»1. Avrebbe usato altri vocaboli per generare lo stesso gioco musicale. Non credo tuttavia d’aver abusato in questo senso. Ha tenuto conto, come punto di riferimento, di qualche altra traduzione precedente?

Naturalmente, per scrupolo di coscienza, ho guardato il maggior numero possibile di traduzioni già esistenti. Ma per la verità, non mi hanno aiutato molto. Semmai, mi sono state preziose, per una giusta interpretazione, certe osservazioni di Sergio Solmi2, poeta di prima grandezza oltre che saggista di acuta intelligenza e sensibilità. Quanto somiglia questo Apollinaire tradotto da Giorgio Caproni alla poesia di Giorgio Caproni?

Non so – non posso dirlo io – fino a che punto l’Apollinaire tradotto da me somigli alla mia poesia. Quando a tradurre un poeta è un altro poeta, avviene come un matrimonio. Il figlio che nasce dal connubio (anzi la figlia, trattandosi di traduzione) somiglia un po’ al padre un po’ alla madre. Ma non credo che

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la mia personalità – avrei fallito lo scopo – prevalichi. Non credo che la mia traduzione somigli più a me che ad Apollinaire. Avrà certamente preso qualcosa anche da me (me lo auguro, dato che per me anche il tradurre è inventare), ma il mio Apollinaire italiano vuole soltanto essere un equivalente (scartata la pretesa di un’impossibile fotocopia) dell’Apollinaire francese. Che cosa resta oggi di Apollinaire, specie nella poesia dei più giovani?

La domanda mi mette in imbarazzo. Non si può precisare in poche parole l’influenza di Apollinaire sulla poesia successiva: un problema, del resto, non ancora del tutto risolto dalla critica. È certo che, nella nostra poesia del Novecento, Apollinaire impose per molti una scelta. O lui o l’asse Mallarmé-Valéry. I giovani mi sembrano molto più vicini ad Apollinaire che a Valéry, mirando più al quotidiano che al sublime. Senza contare che Apollinaire fu spesso un avanguardista tra i più genuini, e uno straordinario alchimista della parola, qualità dai giovani apprezzatissime.

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42 [LA TRADUZIONE NON PUÒ ESSERE FREDDA OPERAZIONE DA LABORATORIO]

[Risposte a Paolo Mattei] Secondo lei la traduzione è anche esegesi, lavoro critico?

È ovvio che non si può tradurre un testo poetico se non lo si è capito a fondo. Ora, per capire a fondo un testo poetico, a parte la necessaria sensibilità e il necessario intuito, non vedo altro mezzo che quello di sottoporlo preliminarmente a un attento studio critico ed esegetico. Uno studio, aggiungerò, che non deve limitarsi al singolo testo in sé, bensì deve estendersi, nei limiti del possibile, all’intera opera (e all’intero linguaggio) del suo autore. Alla sua intera poetica. È un lungo e paziente esercizio di raffronti, comparazioni eccetera, anche e forse soprattutto di carattere filologico, necessario, oltre che per stabilire il significato che quel testo viene ad assumere nell’insieme, per cogliere con maggior precisione il valore che nella specifica lingua di quel poeta (giacché ogni poeta, si sa, ha la sua lingua) acquista un particolare vocabolo o una particolare espressione o metafora. Soltanto dopo aver compiuto questo delicato lavoro preparatorio, che non può prescindere dai più salienti elementi biografici, nonché dall’esame della più pertinente saggistica sull’autore in questione, il traduttore potrà accingersi alla sua opera: che è in primo luogo opera di «invenzione», certo, ma su quelle salde fondamenta, delle quali dovrà tener conto in certe sue medesime (apparenti) «infedeltà» rispetto allo stretto senso letterale, quando queste saranno compiute proprio per conservare una più importante fedeltà al senso poetico: alla poesia in genere e, in particolare, alla poesia di quel poeta. Non ritiene che la fedeltà al verso di Apollinaire (la ricerca della rima, in particolare) vada a discapito di quella sua poetica dello scorrevole e del discorsivo?

Per la verità non insisterei troppo, a proposito di Apollinaire, su una sua «poetica dello scorrevole e del discorsivo». A parte il noto uso e abuso (un vero vezzo) di ricercati e compiaciuti riferimenti eruditi, che poco concorrono a favorire la chiarezza e l’immediatezza, il suo verso, anche quando appare il più prosastico, è sempre sapientissimo, spesso e volentieri pigmentato di arcaismi, neologismi, invenzioni o inversioni anche di significato (in un misto di linguaggio nobile e popolaresco che giunge fino all’argot), appunto come sa chi s’è provato a tradurlo. La magia, semmai, sta in lui proprio nell’essere riuscito a risolvere

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con timbro di perfetta naturalezza e scioltezza tale consumata sapienza. Senza contare che in Apollinaire il verso è sempre sostenuto da una sua profonda musica interna (e dico musica, no musicalità), privandolo della quale lo si priva di una della maggiori fonti d’incanto. È una dote (o virtù) che naturalmente raggiunge l’apice in certe chansons, dove la musica è tutto, o quasi: per esempio Les cloches o, ancor più vistosamente, La blanche neige: due piccoli gioielli che tradotti soltanto letteralmente (cioè in prosa), senza tener conto né del ritmo né delle rime, perdono tutto il loro profumo: tutto il loro sapore di fresche ariette o cantatine popolari. In definitiva, perdono proprio tutta la loro scioltezza o «scorrevolezza». Il traduttore (senza voler presumere che sia il mio caso) deve essere abbastanza poeta da riuscire, con spontaneità, a tramutarne la cantabilità tipicamente francese in cantabilità tipicamente italiana, solo modo di restar fedeli allo spirito di quei testi, pur conservando al massimo possibile la fedeltà al senso letterale. Il tradimento, o travisamento, nasce quando la ricerca del ritmo e della rima sa di fatica e di sforzo: di fredda operazione da laboratorio. Pensa che le cosiddette ultime avanguardie debbano qualcosa all’esperienza di Apollinaire?

Direi di no, o ben poco, se si allude specificatamente – restando in casa nostra – a quei movimenti che si svilupparono negli anni Sessanta. Fra la nostra avanguardia e la cosiddetta avanguardia storica, nella quale bene o male (la questione è ancora controversa) si iscrive la poesia di Apollinaire, o almeno certa poesia di Apollinaire, vi è ovviamente un divario di condizioni storiche e di premesse culturali che rende problematica la definizione di un rapporto di dipendenza o conseguenza. A meno che, molto superficialmente, non si voglia pensare ai non molti veri e propri calligrammi (un’«invenzione», del resto, relativa, avendo antichissimi precedenti) di fronte a certe manifestazioni di poesia – diciamo grosso modo – ideografica, o meglio che mescola immagini (disegni o fotografie) con frasi o semplici parole. Ma è comunque un discorso che andrebbe approfondito, né questa mi par la sede adatta, a parte il fatto che io non sono né uno storico, né un teorico della letteratura.

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43 ASCOLTIAMO I NOSTRI POETI

[Risposte a Luciano Luisi] La stanza è immersa nella luce ovattata del mattino romano che già preannuncia la primavera. «Non la musicalità, che ripete moduli preesistenti, tutta esteriore dunque, ma la musica, che ogni poeta trova in sé, quella musica che è costruzione, come in Dante, o venendo ai nostri giorni, come in Montale. Solo Verlaine aveva musica e musicalità insieme, ma è un’eccezione» – dice Giorgio Caproni, parlando lentamente ma con grande forza interiore, proprio di chi possiede una verità alimentata per tutta la vita. E così offre una sua prima definizione di poesia. Mentre parla libera un piccolo tavolo posto tra due grandi librerie, su una delle quali (e gli occhi vi si sono posati quando diceva «musica»), vi è un violino con le corde fermate da una molletta per i panni, forse per vincere la tentazione di tentarle ancora, a ricercare così i suoi anni giovanili quando vi ripose molte speranze, studiandolo per tante ore al giorno, e che invece gli servì soltanto per guadagnarsi da vivere suonando nelle orchestrine da ballo. Ma quello studio (non del violino, dice, ma della composizione, dell’armonia), quello sì, ha giovato certamente al suo modo di essere poeta.

Con Apollinaire, per esempio ti accorgi che anche nei versi che sembrano più trasandati, più volutamente scritti, prosastici, c’è una musica interna, difficilissima. Traducendo hai cercato di riprodurre la musica di Apollinaire o di Caproni?

Certo, ho cercato di rendere quella sua, ma si sa che quando il traduttore è un poeta (ma l’ho già detto tante volte) il figlio che nasce assomiglia un po’ a tutti e due i genitori. L’importante è che il testo tradotto sia un testo di poesia. Il discorso ora si sposta sulla differenza tra le due lingue.

Prova a tradurre in un buon italiano Marcel Proust e tutto quel frizzante dove va a finire… Con questo non voglio dire che l’italiano sia inferiore al francese, no, certamente, ma che c’è questa intraducibilità, o addirittura incomunicabilità sino al paradosso. Insomma, la lingua condiziona il poeta: questa è una mia idea fissa. Se il Foscolo fosse stato francese, non avesse conosciuto l’italiano, non avrebbe mai scritto: «Felice te che il regno ampio de’ venti / Ippolito, a’ tuoi verdi anni correvi!» (Caproni recita con una sola emissione di voce, con un grande abbandono). Da dove viene il fascino di questi versi che come linguaggio di comunicazione in fondo non vogliono dire nulla, e viceversa, come poesia sono stupendi: viene proprio dalle parole italiane. Anche il Leopardi «negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi» non l’avrebbe nemmeno pensato, non poteva:

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avrebbe scritto altre cose, altre parole per rendere quell’immagine, altre disposizioni metriche: insomma, ogni lingua suscita pensieri diversi. Ora Caproni si è seduto di fronte a me e posso osservarne meglio i lineamenti asciutti, e quel senso di virile malinconia che mi pare sia sempre stata una delle sue più scoperte caratteristiche, e che del resto permea la sua poesia, tutta, da quella degli anni giovanili (e basti pensare alla famosa Alba con l’ancor più famoso attacco: «Amore mio nei vapori di un bar […][CA]») a quella di questa pensosa maturità così che si può dire, come per pochi altri poeti, che egli assomigli fisicamente a ciò che scrive. E ora, nel suo ritmare le parole, nel pausarle, nei suoi sottovoce, nei brevi silenzi così densi, quasi risento le pause, i «bianchi» fra i suoi versi, fra emistichio ed emistichio, di quel dialogare interiore, che se pure suggerisce sempre l’immagine della vita come teatro, come rappresentazione, è spesso senza un interlocutore esplicito, quel suo dire e non dire, suggerire insomma, che è una delle connotazioni più tipiche, più sue, dal Seme del piangere al Il muro della terra. Mi intenerisce, della sua voce, quella cadenza toscana, ma un po’ rattratta come è quella dei livornesi, di noi livornesi, mi vien fatto di pensare, ricordando anche i progettati viaggi insieme in questa nostra città odorosa di acque stagnanti nei fossi. Ma a soli dieci anni, nel ’22, Caproni ha lasciato Livorno ed è andato a vivere a Genova, che con le sue più ricche tradizioni letterarie ha maggiormente inciso sulla sua sensibilità. Comunque le due città fanno da indimenticabile scenario a tante sue poesie con le quali quasi ce ne ha fatto sentire l’afrore, il sapore salino.

Certo, anche il paesaggio condiziona: ti manda le sue onde addosso. Prendi le metafore da dove ti trovi. Ora dal mare sono passato alla montagna. Nel Muro della terra ci sono i boschi della Val Trebbia, i monti della Val Trebbia. Cosa vuol dire per te essere poeta? Se non ricordo male una volta hai detto che è un dato fisiologico, come essere alti o bassi, biondi o bruni. E dunque, in questa giusta visione, che senso ha per te una parola forse logora ma che è emersa in conversazioni con altri poeti, cioè l’ispirazione? La poesia è per te, diciamo ispirazione, cioè emozione, stato d’animo, o esercizio, lavoro, mestiere?

È l’uno e l’altro. Occorre istinto, se non vogliamo usare la parola ispirazione troppo romantica; senza l’istinto la poesia non nasce, non c’è niente da fare: col cervello, con l’intelligenza non si crea la poesia, altrimenti uno scriverebbe poesia sempre. C’è chi dice che lo si possa fare: si possono tutt’al più allineare dei versi, che non sono nemmeno dei versi… Molti libri, fra i troppi che escono, e che consentono, almeno esteriormente, di parlare di boom della poesia, danno l’impressione di essere il risultato di operazioni così: mentali, da tavolino. Operazioni di laboratorio che ne conservano tutto il freddo: restano nelle provette, non hanno la forza di passare alla ribalta, di arrivare al pubblico, la battuta rimane sul palcoscenico. Tu pensi al pubblico, cioè al lettore, quando scrivi?

Io sì, perché la poesia nasce da questo rapporto autore-lettore, e il lettore deve essere un collaboratore sempre. Vi sono autori incomprensibili che possono es-

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sere letti soltanto da se stessi: è una forma morbosa di narcisismo. Se il testo è talmente chiuso, il lettore non sa da che parte entrarvi. La poesia in sé non esiste: se non ci fossero lettori non esisterebbe nemmeno Dante. Datelo, non so, agli aborigeni australiani, e Dante non ha più significato. Si parla ora delle avanguardie che ripetono in ritardo esperienze già consumate in tempi storicamente giusti; per converso della sciatteria di certa poesia impegnata, e infine dei giovani che possono essere disorientati da un panorama così variegato come è quello della nostra poesia di oggi.

Sai cosa manca a parecchi di questi giovani? La filologia, il peso filologico della parola: loro scrivono con la lingua quotidiana, con la lingua di normale comunicazione: io penso che la poesia non si possa scrivere così: la poesia è un linguaggio a sé e molti lo ignorano. Ecco, tu allora mi consenti questa domanda: qual è lo scopo della poesia?

Se vogliamo, nessuno scopo, o, se vogliamo, uno scopo profondo: quello di scavare nel proprio io, di trovare un punto, come il minatore, andando sotto terra, che è l’io di tutti. Dove scopri impressioni, emozioni, idee che hanno tutti ma che negli altri dormivano. Una volta hai detto che la poesia stava morendo…

Beh, pensavo a ciò che avverrà nella civiltà di massa, alla quale ci stiamo avviando: perché la poesia è un fatto individuale, e non si può fare la poesia di massa. Ci alziamo dal piccolo tavolo, andiamo verso il salotto che si affaccia su un paesaggio d’alberi a perdita d’occhio, ora quasi spogli ma non per questo meno suggestivi nella loro fitta rete quasi nebbiosa contro il cielo. La terrazza che fa da diaframma è anch’essa piena di piante. Il poeta le guarda con amore. Mi vengono a mente questi versi: «Mi lega l’erba. Il bosco. / Il fiume. Anche se il fiume è appena / un rumore e un fresco – dietro le foglie» [Parole (dopo l’esodo) dell’ultima della Moglia, MT]. C’è un grande silenzio. Non sembra che la strada sia quella di via Pio Foà dove trovarono un covo delle BR legato al sequestro Moro. Una strada che è entrata anche nella sua poesia: «Via Pio Foà: il mio sguardo / di fulminato spavento [Via Pio Foà II, MT]». Gli chiedo, ora che sto per congedarmi, che cosa abbia in preparazione.

Tu lo sai, che abbiamo sempre qualcosa in preparazione. Anzi, io ho due libri pronti: uno che ironicamente intitolo I versicoli del controcaproni: sono piccoli epigrammi che mi divertono. L’altro è un libro serio, ma non ne ho ancora trovato il titolo. E qual è la tematica?

La tematica è la stessa, o almeno porta avanti il discorso de Il muro del piangere. Cioè questa difficoltà a conoscere il reale, i difficili contatti con la realtà…

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Questo fatto di essere al limite della conoscenza: di non poter conoscere, di non poter sapere… È un libro di ricerca, ecco: di che cosa non si sa. Una ricerca continua: se si sapesse di chi, di che cosa…

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44 [LA RICERCA DELLA PROPRIA REALTÀ]

[Risposte a Guido Garufi] Fin dal suo esordio (Come un’allegoria, Genova, 1936) lei ha sempre cercato un difficile accordo tra i modi e i modelli della tradizione (per es. la rima, la strofetta) e le strade scelte dalla sensibilità novecentesca. In questo senso come situa la sua poesia nel panorama degli anni Trenta?

Non direi che fin dal mio esordio io abbia cercato l’accordo di cui lei parla. A scorrere le mie prime raccolte, con versi che vanno dal ’32 al ’38, non mi par difficile notare come invece l’uso della rima, in quelle brevi e spesso agri composizioni (che non hanno nulla della canzonetta in puro senso melico) sia piuttosto parco: specie se paragonato all’uso che della rima avevano fatto e continuavano a fare (prima e dopo di me) poeti di non dubitabile «sensibilità novecentesca»: Saba e Montale, in primo luogo, per non dire poi di Betocchi, di Penna, di Gatto, fino a Luzi ecc. (D’altronde, avevano forse ripudiato la rima poeti come Apollinaire, Valéry, Lorca e via dicendo?). Ma purtroppo si è cristallizzata nei miei recensori l’idea di un Caproni tutto rime e quartine (sic!) e, appunto, strofette e canzonette. Di un Caproni tutto cantabile, insomma, e legatissimo alla tradizione metrica. Vorrei invitare a leggere, a proposito della mia «metrica», quanto hanno scritto, per esempio, Giovanni Raboni («Paragone», n. 334, dicembre 19771) e il giovane, ma valorosissimo, Antonio Girardi («Nuovi Argomenti», n. 61, gennaio-marzo 19792). Quando cominciai a capire la forza che veniva dalle forme, diciamo così, convenzionali (da Cronistoria al Seme del piangere), il mio volle essere un lavoro non di perfetto ossequio, o di impossibile «ritorno», ma di stravolgimento, volto a superare la facile musicalità a tutto vantaggio della musica: una musica (era la mia ambizione) la cui modernità voleva essere raggiunta con mezzi – in apparenza – tradizionalmente diatonici, ma slargando o comprimendo (o parodiando) i classici accordi di tonica, quarta e dominante per toccare, con continue cadenze d’inganno, effetti nuovi: soluzioni nuove, con spirito inventivo e non imitativo. Ma detto questo (e l’ho già detto tante altre volte), devo anche aggiungere che, dopo Il seme del piangere, col quale cercai di risolvere in modernità la classica canzone cavalcantiana, la rima si fa di nuovo più rara e comunque più rarefatta: e sempre in quella funzione portante di due o più idee che si richiamano fondendosi o cozzando insieme, secondo la grande lezione dantesca: «vita – smarrita», «paura – dura – oscura», dove già le rime così concatenate quasi ci porgono da sole la chiave del I Canto dell’Inferno. Cose, anche queste, che già ho ripetuto cento altre volte.

162 GIORGIO CAPRONI Seguitando su questa linea si nota una progressiva scomparsa della cantabilità delle prime raccolte, sostituita da un senso sempre più lacero e arido del vivere. Lei crede in sostanza alla continuità della sua poesia o pensa invece che vada distinta in fasi?

Credo d’aver già risposto sopra alla prima parte della domanda, concernente la «cantabilità». Comunque, più che di «un senso sempre più lacero e arido della vita», parlerei di una più ampia presa di coscienza di fronte alla realtà della storia. Tra le prime raccolte e le successive, c’è stata di mezzo la dura esperienza della guerra e della Resistenza. La «continuità» consiste, o dovrebbe consistere, nella non insensibilità di fronte a tali sconvolgimenti. Tutti i vecchi idoli (tutti i vecchi miti) sono irreparabilmente caduti. L’uomo non è mai stato tanto solo con se stesso come in questi anni. Dico un uomo della mia generazione. Una lacerazione c’è senza dubbio stata, ma non parlerei di «aridità». Semmai, di stoicismo. Pur in mezzo alla guerra, potrei dire con Ungaretti di non aver mai amato tanto la vita, anche se questo mio amore, forse, appare in negativo nelle mie più recenti cose. (Quanto alle «fasi», la vita ha le sue fasi. E la poesia le riflette). Un suo titolo emblematico è Il passaggio di Enea. Concorderebbe con quanti definiscono virgiliana la sua poesia?

Anche questa è una domanda che mi è stata rivolta più volte, e mi dispiace di dovermi ripetere. Il mio Enea ha poco a che fare con quello di Virgilio. A Genova, in piazza Bandiera, mi colpì durante la guerra il monumento a Enea che là si trova. Enea che fuggito dall’incendio di Troia era venuto a capitare proprio nella piazza più bombardata della città. Enea non eroe ma uomo, che cerca di trarre in salvo, sulle spalle, un passato che crolla da tutte le parti (il padre Anchise) e per la mano un futuro (il figlioletto Ascanio) che ancora non si regge dritto. L’uomo colto nella sua più assoluta solitudine, simbolo, per me, dell’uomo di quegli anni, e forse non soltanto di quelli, se ancora oggi ci troviamo soli di fronte a una tradizione che sta per sgretolarsi e una speranza che non riesce a prendere consistenza. Nei suoi ultimi libri (specie Il muro della terra, 1975) assistiamo a una sempre ossessiva e pressante presenza se non del problema religioso, almeno della figura di Dio. Vorrebbe chiarire meglio?

Non saprei come «chiarire». Il tema di Dio (il dramma dell’uomo che non è ancora riuscito ad assuefarsi all’inesistenza o assenza di Dio) è uno dei temi del libro, ma il tema principale è un altro: l’impossibilità, da parte nostra, di «perforare il muro della terra»: cioè di poter avere una visione dell’universo non soltanto antropomorfica: cioè oltre i limiti (e le forme) della nostra ragione. E accanto a questo, il tema della ricerca: la ricerca per se stessa, senza necessità di saper di che cosa. La ricerca di una propria identità, addirittura di una propria realtà.

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È largamente nota la sua opera di traduttore (da Char fino all’ultimo Apollinaire). Quali sono stati i criteri scelti e i problemi che deve affrontare un poeta che ne traduce un altro?

La mia opera di traduttore è rivolta soprattutto alla prosa e al teatro (Proust, Céline, Maupassant, Cendrars, Genet, ecc.). In fatto di poesia, oltre a Char e Apollinaire, comprenderei Frénaud e García Lorca (di quest’ultimo la commedia in versi Il maleficio della farfalla), nonché Wilhelm Busch (Max e Moritz. Storiella malandrina in sette baie) più varie poesie sparse (Verlaine e Germain Nouveau compresi), ma raccolte in volume e in gran parte andate perdute. Il primo problema che mi sono posto nel tradurre un poeta, è sempre stato lo stesso: dopo una scrupolosa analisi filologica ed esegetica, nonché un attento studio dei più salienti dati biografici e apporti critici, accingermi all’opera: che è soprattutto opera d’invenzione, certo, ma su quei saldi fondamenti, dei quali il traduttore dovrà tener conto in certe sue medesime «libertà» o «infedeltà» rispetto allo stretto senso letterale, quando queste saranno compiute proprio per conservare una più importante fedeltà al senso poetico: alla poesia in genere e, in particolare, alla poesia di quel poeta. Ma anche queste son cose che ho già detto e ridetto, e più estesamente, mentre ora mi preme cogliere l’occasione per ribadire, poiché si continua ad attribuirmi anche un Baudelaire, che io sono stato costretto a ripudiare quel lavoro a causa dei molti e spesso cervellotici interventi dell’editore, che col suo testo riveduto e «scorretto» ha reso pressoché irriconoscibile il mio. (La traduzione di un poeta resta un lavoro appassionante: obbliga il poeta traduttore a scoprire in sé zone che altrimenti sarebbero rimaste sepolte nel sonno. E non importa, anzi è bello, se il lavoro che ne risulta, oltre che del poeta tradotto, sa però anche un poco del poeta traduttore, così come una figlia sa quasi sempre di entrambi i genitori).

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45 IO AMICO DEL DOLORE

[Risposte a Giuseppe Frangi] Come poeta lei s’è raramente concesso – contrariamente alla moda in voga – a uscite pubbliche di qualsiasi tipo. Ora una sua antologia di poesie è apparsa nella più diffusa collana popolare: quale interlocutore crede avrà la sua poesia e da chi invece vorrebbe venisse soprattutto letta?

È vero, le «piazzate» non mi sono mai piaciute. Non mi è mai piaciuto far l’attore di me stesso. Questo però non vuol dire che una «lettura diretta» eseguita dal poeta – purché non istrionesca – non giovi talvolta ad avvicinar la gente alla poesia: specie coloro che non hanno l’abitudine di leggere versi, e che quindi attraverso tale lettura – che è sempre interpretazione – possono anche scoprire in sé un bisogno fino a quel momento poco sentito, o del tutto ignorato. È la sola ragione per cui in qualche caso, e sia pure mal volentieri, mi sono prestato. Quanto all’antologia cui si accenna, e che del resto non ho voluto né composto io, non vedo in essa nessuna volontà esibizionistica. Non mi sono mai sognato, mi creda, di conquistare il popolo. Ho sempre scritto i miei versi in primo luogo per me: per cercare di capire meglio me stesso, senza mai pensare ad un particolare genere di lettori. Tantomeno di lettori specializzati. Semmai, la mia segreta ambizione è sempre stata quella di scrivere per tutti, e le mie soddisfazioni maggiori le ho avuto quando persone comuni, lette o ascoltate per caso cose mie, hanno poi sentito il bisogno di scrivermi due parole «di ringraziamento» per quanto son riuscito a suscitare nel loro animo. La BUR è una collana che va nelle mani di tutti, che arriva nelle scuole, che comprano soprattutto i giovani e in particolare gli studenti, una collana insomma che ha il suo pubblico proprio fra i non specialisti. L’esibizionismo non c’entra, semmai la fortuna. La fortuna, intanto, di aver avuto un presentatore e un curatore della finezza di Giovanni Raboni1, che con estrema intelligenza e sensibilità è riuscito ad aprire i miei versi (a parte il loro valore, che naturalmente resta quello che è) alla mente anche dei meno preparati, senza rinunziar per questo al rigore critico. (Col che mi par d’aver risposto, sciogliendo il nodo, alla domanda da lei postami). Letteratura e vita nella recente tradizione culturale italiana sono cresciute come corpi separati, e questo nonostante tante proclamazioni di «socialità». Qual è nella sua poesia il punto di congiunzione tra poesia ed esperienza?

Tutti o quasi tutti i miei versi sono nati da un’esperienza diretta. È la mia stessa esperienza – diciamo pure la mia stessa vita – che ho sempre cercato di tra-

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durre nelle mie parole. Non riesco ad immaginare una poesia del tutto campata in aria, cioè senza profonde radici nel vissuto. Soltanto, ho ogni volta tentato di fare in modo che anche il fatto più strettamente personale travalichi i limiti del puro autobiografismo per dilatarsi piuttosto fino a raggiungere un significato, nei limiti delle forze concessemi, valido anche per gli altri. In questo senso, più che di punto di congiunzione, vorrei parlare, se non apparissi troppo ambizioso, di identità. La poesia è – vorrebbe essere – soprattutto esperienza. A leggere i suoi versi, da quelli di molti anni fa sino ai più recenti, sembra che scrivere poesia sia quasi un atto sacrificale, di offerta e presentazione del proprio dolore. Si riconosce in quest’impressione?

Non so se sempre e soltanto di dolore (del mio proprio dolore) si possa parlare a proposito dei miei versi. Comunque, se l’impressione di chi li legge è davvero quella netta, sì, mi riconosco anche in essa, e anzi la cosa mi conforta perché significa oltretutto che toccando il tasto del dolore (mio o… universale) son riuscito a evitare il rischio – sempre in agguato – di cadere nel mero vittimismo. La storia recente della poesia, della grande poesia ci insegna che l’unica strada che sembra praticabile è quella della continua frattura, del dramma, della tensione, dell’allarme. Lei non sente nostalgia per un altro orizzonte di poesia, per una poesia che riesca a farsi forza propositiva?

Sì, ma una poesia che riesca a farsi «forza propositiva» nel senso qui inteso richiede una fede (un credo: laico o religioso, non importa) che l’uomo d’oggi, nella maggioranza dei casi, ha perduto, o non ha ancora trovato. La frattura, il dramma, la tensione, l’allarme nascono dal vuoto che l’uomo d’oggi più che mai sente in sé, e intorno a sé. Sono nella sua medesima coscienza. Ma a parte questo, e in senso generale, penso anche che la vera poesia, pur quando si forma sulle più corrosive negazioni, sia sempre di per se stessa una forza propositiva, non fosse che come affermazione dello spirito.

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46 IL LIBRO PIÙ IMPORTANTE DEL DOPOGUERRA

[Risposte ad Aurelio Andreoli] Dal momento che Einaudi ristampa Le ceneri di Gramsci con alcune poesie inedite, qual è la sua opinione su questa raccolta?

Per me fu un libro assai importante per la svolta decisiva dalla poesia pura a una poesia ideologica volta alla prosa. Questa rinuncia alla poesia pura in certo qual modo fu un sacrificio per il Pasolini dalle origini preziose e rimbaudiane delle Poesie a Casarsa. Storicamente è il libro più importante del dopoguerra: al dolore «metafisico» si sostituiva un nuovo dolore «politico». Nessun poeta del Novecento era entrato così deciso nella questione sociale. Il libro, edito nel ’57, lo avevo visto nascere frequentando la casa di Pier Paolo, dal ’54. Scriveva su piccoli fogli con una vecchia macchina di ghisa1. Le nostre letture erano limitate ai francesi e ai nostri testi. Ricordo come leggeva i miei versi in Via dei Quattro Venti: «Uomini miti con piccole borse / di cuoio, dove vanno parlottando / soli – scansando con brevi rincorse / i veicoli […] [All alone, C]». Quando ebbe inizio la vostra amicizia?

Attraverso le lettere. Ero stato tra i primi a recensire le poesie in friulano sulla «Fiera» (’47) e sul «Lavoro di Genova» (’49), seguì una recensione su La meglio gioventù su «Paragone» (’55), e ancora interventi critici su riviste come «Il Punto» e «Officina», ma allora lo conoscevo già bene. Vogliamo ripercorrere il significato della vostra amicizia, le sue ragioni, anche cronologicamente?

Quando Pier Paolo andò via da Udine e si trasferì a Roma, negli anni ’46-’47, mi telefonava, chiedeva un lavoro, andavo a trovarlo. Viveva con la madre Susanna dalle parti di Rebibbia, una casa né urbana né rurale, un piano terra di borgata con l’unico vantaggio di un po’ di sole. Lì la fame, anni durissimi. Chiacchierando a piedi attraverso Pietralata, la via Tiburtina e il Verano si arrivava a piazza di Spagna per il caffè. A Roma fui il primo a conoscerlo. Più tardi qualche grande estimatore: Gadda, Bertolucci, Moravia, Bassani, poi Penna, Volponi. Ricordo le cene romane e quelle primavere odorose di pini, fuori porta, e lui timido e impacciato, cerimonioso, che si tirava sempre indietro. Quel soggiorno nella estrema periferia romana, fino agli anni Cinquanta…

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Poi nel ’54 la prima casa decente, in via Fonteiana, a Roma, e poi a via Carini nel palazzo di Attilio Bertolucci. Si vedeva il verde, lotti vacanti, colline, cantieri, sterri, mentre a Rebibbia viveva tra le ferraglie. Ricorda gli interni, la vita nella casa in cui scriveva Le ceneri di Gramsci?

Una casa piccolo-borghese: la camera dei genitori, la sua stanzetta-studio, l’angolo in cui si mangiava. La madre pareva una vecchia ragazza molto civettuola. Il padre, vecchio ufficiale, sedeva solo al tavolo del bar, attendeva un gesto, un cenno. L’impossibile unione dei figli, degli sposi… La disciplina dello scrivere Pier Paolo l’ha avuta precoce, una forza incredibile di lavoro, insieme a una salute da contadino. Tutta la sua fortuna, quel che ha pubblicato dopo, seguiva il lavoro di quegli anni.

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47 [REALTÀ COME UN’ALLEGORIA]

[Risposte a Geno Pampaloni] Per dare una collocazione alla tua poesia nel panorama novecentesco, sono stati fatti parecchi nomi, pur nella considerazione concorde della tua indipendenza e originalità. Quali sono stati, per te, i poeti formativi? Quali sono quelli cui ti senti più congeniale?

Ti sembrerà strano, ma davvero non saprei dire quali siano stati per me i poeti formativi. Molti recensori frettolosi, considerandomi a torto un ligure (forse perché vivendo a Genova ho tratto dal paesaggio e dallo spirito genovesi gran parte delle mie metafore), mi hanno posto in quella che io stesso – giornalisticamente più che criticamente – volli chiamare la «linea ligustica», intendendo con quella espressione i poeti della novariana «Riviera ligure» (da Ceccardo Roccatagliata Ceccardi allo stesso Mario Novaro, da Boine a Sbarbaro ecc.), da me accomunati, più che da veri e propri legami stilistici, da certa affinità di sentire, con le loro (cito una frase di Anceschi1) solenni e radicali desolazioni e negazioni, col loro nudo, aspro paese emblematico. In realtà questi poeti, tranne Sbarbaro, forse, li conobbi più tardi, alcuni addirittura nel dopoguerra, quando ormai la mia formazione era, bene o male, già avviata. Le mie prime letture novecentesche furono altre. Sulla soglia di quei lontani anni Trenta, seguivo la «Fiera (o Italia) letteraria», poi la rivista «Circoli», e avevo buona conoscenza di Cardarelli, di Ungaretti (quello di Allegria di naufragi e del Sentimento del tempo), ma anche di Angelo Barile, di Adriano Grande, di Salvatore Quasimodo e non ricordo di quali altri. Ma la più forte scossa, oltre che dall’Allegria ungarettiana, la ricevetti dagli Ossi di seppia, che comprai nell’edizione Ribet (II edizione). Ma a proposito della mia formazione, vorrei aggiungere che dopo essermi sbizzarrito, ancora coi pantaloni corti, a scrivere versi astrusi che mi piaceva definire futuristi, un bel giorno, con un fermo atto di volontà, volli ricominciare tutto da capo rifacendomi proprio al poeta che credevo di amare di meno: il Carducci, o meglio un certo Carducci (quello impressionista o macchiaiolo), alla cui ombra scrissi i primi versi da me riconosciuti, datati 1932. Un Carducci naturalmente (almeno nelle mie intenzioni) rinnovato dal di dentro, come ben si accorse per primo, facendomene un punto di merito, Giuseppe De Robertis. Quanto alla seconda domanda: «quali sono i poeti cui mi sento più congeniale», per rimanere in casa nostra e nel novecento, oltre Ungaretti e Montale

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citerò in primo luogo Sbarbaro, Campana, Rebora, John Donne, Laforgue, Apollinaire, Machado. In sostanza ero un isolato, un periferico, non appartenevo a nessun gruppo. In particolare il professor Mengaldo istituisce un parallelo con Saba, poiché egli nota in entrambi, mi sembra giustamente, «un rapporto inverso necessario fra la “facilità” melico-prosastica… e uno psicologismo estremamente complesso e aggrovigliato». D’altro canto, con accostamento più sottile, egli trova un’affinità con Dino Campana, in virtù delle «strutture testuali iterative e cicliche». Qual è la tua opinione?

Credo che Mengaldo2 abbia senz’altro ragione. Quanto a Saba, però, il cui nome è stato fatto da molti altri, vorrei notare una cosa curiosa. È un poeta che ho avvicinato piuttosto tardi, e che per giunta, al primo incontro, non suscitò in me scintille di eccessivo entusiasmo: non accese troppi fuochi nella mia mente, come invece mi era accaduto per Ungaretti, Campana, Montale, Sbarbaro. Nella mia sordità di allora, mi pareva, quella di Saba, una poesia troppo musicale, di fronte, per esempio, alla musica profonda degli Ossi o delle Occasioni: una musicalità, per giunta, che credevo di aver già assaporato in Ceccardo, per esempio quello di Cantilene e ritmi. Questo però non m’impedì di accorgermi poi del mio errore: della grandezza davvero eccezionale del Canzoniere, che non ha mancato d’influenzare tanta nostra poesia. Rimanendo sullo stesso tema, quali sono stati i rapporti con l’Ermetismo? Pasolini negava ogni parentela, per la mancanza, in esso, del «senso tragico della vita»; e preferiva ricordarti insieme con Boine, Jahier e i vociani del «decadentismo virile». Anche Fortini giudica presso a poco, aprendo il ventaglio delle analogie ai cinquecentisti e a Carlo Betocchi. Mengaldo invece trova possibile l’accostamento agli ermetici (e in particolare all’«impressionismo idillico e al melodismo» di Alfonso Gatto, un nome che ricorre abbastanza spesso a partire dalla seconda fase del tuo lavoro). Io aggiungerei anche Sereni: in Ad Olga Franzoni c’è infatti, mi sembra, una musica non dissimile a quella dei versi che Vittorio di lì a qualche anno avrebbe raccolto in Frontiera. Che cos’hai da dirci?

Ermetismo, come sai meglio di me, è parola inventata dopo a proposito di poeti fra loro ben diversi: da Betocchi e Luzi, da Gatto a Sinisgalli, da Parronchi a Bigongiari, da Penna a Bertolucci a Sereni. Poeti, quasi tutti, pressappoco della mia generazione, che io ho sempre seguito con interesse e più di una volta con amore. (A proposito di Luzi, anzi, sono stato proprio io in Italia il primissimo a recensirlo quando uscì La Barca, sul «Popolo di Sicilia» del 29 novembre 1935). È un fatto, comunque, che io ho sempre considerato il cosiddetto Ermetismo come una delle stagioni più ricche e feconde di risultati del primo cinquantennio, di fronte al quale non sono di certo rimasto insensibile, fino al punto di massima collisione rappresentato dalla mia raccolta intitolata Cronistoria (1943), che mi fruttò un articolo di Carlo Bo sulla «Nazione».

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Ma ad impedirmi una piena adesione – a parte un’educazione del tutto differente – fu forse il mio innato amore per il concreto, e direi addirittura per l’esperienza vissuta o, se il termine non si prestasse ad equivoci, per il reale. Non che io sia mai stato un «realista». Mai più: anzi ho sempre considerato il reale come una mera apparenza, e questo sin dalle mie prime prove, nonostante la loro palese fisicità. Ho insomma sempre pensato che quanto colpisce i nostri sensi sia come un’allegoria (e proprio questo è il titolo della mia primissima plaquette: Come un’allegoria) di qualcosa d’altro che ci sfugge: una sequela di finzioni (e Finzioni intitolai, tanti anni prima di Borges, un’altra delle mie prime plaquettes). Quanto al «melodismo» di Gatto (Gatto è un altro poeta che ho amato tantissimo), sarei più cauto nell’accostamento, giacché a mio parere mentre esso ha le sue radici in Di Giacomo, il mio si rifà piuttosto all’antica canzone o ballata, e dichiaratamente, nel Seme del piangere, a Cavalcanti. È sempre stata infatti una mia idea fissa quella di far musica moderna usando quanto più possibile il sistema diatonico, costringendolo a nuove risoluzioni e cadenze come ne sono prova (buoni o cattivi che siano) soprattutto i miei pseudo sonetti monoblocco, o le mie stanze. Tu fai anche un accostamento tra i miei versi Ad Olga Franzoni e la musica di certi versi raccolti da Sereni, qualche anno dopo, in Frontiera. In realtà Sereni, però, lo conobbi soltanto quando apparve da Vallecchi il volumetto intitolato Poesie (1942). Eppoi, mi sembra che la sintassi già abbastanza sinuosa di Ad Olga Franzoni sia piuttosto lontana dalla esemplare linearità delle prime poesie di Vittorio. Poesie che amo moltissimo, e molte delle quali so ancora a memoria. Forse ha ragione Pasolini quando parla di «decadentismo virile». Ma tutto questo non vuol dire che i poeti cosiddetti ermetici non abbiano lasciato una feconda traccia in me. È legittima, a tuo giudizio, la scansione in tre tempi della tua poesia? Il primo dell’anteguerra (sino a Cronistoria), il secondo caratterizzato da una diversa ricerca metrica (da Stanze della funicolare sino a Il passaggio di Enea), e il terzo aperto da Il seme del piangere?

Specie se si riferisce alla ricerca metrica, forse sì. Però vorrei precisare che dei sonetti (anche se poi rifiutati) già appaiono in Finzioni (1941), mentre tutta una sezione di Cronistoria (1943) è appunto composta dai Sonetti dell’anniversario. Quindi non direi che la diversa ricerca metrica cominci da Stanze della funicolare (1944-1951, 1952). Le stanze (nostalgia o semiparodia di quelle del Poliziano) non sono che l’ampliamento dei sonetti. Semmai dalle Stanze comincio un secondo tempo rispetto ai contenuti, sottili schiavi della guerra. Quanto al Seme del piangere (1959), lo considero un po’ un libro a sé, anche se segue l’abbandono definitivo dell’end[ecasillabo] e una certa schiarita del groviglio metrico, e un terzo tempo lo inaugurerei semmai con il Congedo del viaggiatore cerimonioso, necessario preludio al Muro della terra, dove più risolutamente, sem-

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pre per restare in campo metrico, cerco di portare la «canzonetta» a dimensioni e frantumazioni capaci di romperne in pieno la nativa struttura, diventata nel Settecento puramente melica. Che parte ha avuto la tua esperienza di traduttore? Le traduzioni corrispondono a una scelta di consanguineità, a un esercizio di verifica metrica e stilistica, o a ragioni occasionali? E, per esempio, Frénaud l’hai tradotto in omaggio a Genova, o per altre ragioni? Infine, è splendida la tua traduzione di Céline: perché non hai insistito, dopo Il gelo della mattina, del ’54, nella prosa di racconto?

Le traduzioni, in parte eseguite su ordinazione, in parte per mia libera scelta, mi sono state di grandissimo aiuto non solo come arricchimento stilistico, ma come stimolo a risvegliare in me zone della coscienza che forse sarebbero rimaste inerti, come la Bella addormentata nel bosco. In questo senso anche la traduzione di Frénaud mi ha giovato molto, tanto da tradurne, dopo Il silenzio di Genova (dove mi colpì una strana concomitanza con le mie Stanze della funicolare, da me scritte anni prima), quasi intero il volume Non c’è paradiso3. Le maggiori croci e delizie, comunque, me le hanno date Céline (il rovello di trovare un italiano popolare da opporre in qualche modo all’argot) e Apollinaire. Quanto all’altra domanda: perché non ho più scritto racconti, è che io i racconti li ho sempre scritti per forza, meno tre o quattro (tanto che, se li raccogliessi, li intitolerei appunto Racconti scritti per forza), forse anche perché (come scrive Luigi Surdich) la mia autentica vena narrativa ha trovato compiuta realizzazione nelle mie composizioni poetiche. È sempre arduo, e spesso indiscreto, forzare le porte del laboratorio di un poeta. D’altra parte, la tua esperienza metrica e musicale è uno dei temi su cui la critica ha insistito di più, e sono molti i paragoni musicali (da Hoffmann a Schubert) che sono stati fatti. D’altra parte ancora, se riapro il tuo primo libretto, delle prime poesie, datate 1932-1935, quasi mezzo secolo fa, e rileggo Borgoratti, ingiustamente dimenticata nelle antologie, leggo: «Come un’allegoria, / una fanciulla appare / sulla porta dell’osteria», e trovo l’identico passo, le stessa levità di canzonetta, e la stessa figuratività popolare che saranno poi celebrate nel Seme del piangere, oltre che la stessa sapiente ipermetria (i settenari scivolano nel novenario). La domanda (e ti chiedo scusa per la grossolanità della formulazione) è questa: in che misura ritieni che la ricerca metrico-musicale caratterizzi la tua poesia, e in che misura ritieni che la condizioni? Come ritieni che nasca la tua opzione linguistica?

Ti confesso che mi riesce difficile rispondere alla tua domanda. Ho già detto che è sempre stata una mia ambizione quella di scrivere musica moderna cercando di portare a nuove risoluzioni, e volentieri violentandolo, il classico sistema diatonico. Tale ricerca (e a proposito della mia metrica rimando al lungo e acuto studio pubblicato da Antonio Girardi sul n. 61 di «Nuovi Argomenti»4) è certamente uno dei supporti maggiori, e forse più caratterizzanti, dei miei versi, e a mio parere raggiunge l’acme nei sonetti da me intitolati Gli anni tedeschi, scritti sotto l’incombere dell’immane tragedia che fu la guerra. Detto questo, vorrei

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aggiungere alla ragione estetica un’altra ragione di carattere, diciamo così, esistenziale. Come scrissi nella mia Nota al Terzo libro5, in quella oramai disperata tensione metrica (prolungamento dell’umanistico e oramai crollato «ei» apposto con stridore e ironia all’anodino «utente» delle Stanze della funicolare), forse cercavo per via di paradosso, ma con lucida coscienza, un tetto all’intima dissoluzione non tanto della mia privata persona, ma di tutto un mondo d’istituzioni e di miti sopravvissuti ma oramai svuotati e sbugiardati dalla storia. Insomma, cercavo nella «finzione» o «inganno» delle strutture metriche (e con perfetta consapevolezza: basti leggere i sonetti Io come sono solo sulla terra e Nella profondità notturna il corno, dove tale «finzione» e «inganno» vengono esplicitamente dichiarati) un illusorio ma necessario punto d’appoggio, come del resto non è sfuggito a Pier Vincenzo Mengaldo e allo stesso Girardi. Ma mi accorgo con questo di essere andato fuori campo rispetto alla tua domanda, e ti prego di scusarmi. E questo ci porta all’altra domanda. È stato osservato da molti (per es. da Cecchi) che la tua poesia, formalmente molto elaborata, ha una sua forte espressività popolaresca. Ti sembra un’osservazione giusta? E come spiegheresti quella contraddizione, e la ricchezza che ne deriva?

Già De Robertis aveva notato, in quella ch’egli chiama la mia «metrica barbara», «un lontano lume di tradizione antica, popolare e illustre»6. Penso che tanto Cecchi quanto De Robertis siano nel giusto. La cosa nasce forse dal fatto che un’altra delle mie ambizioni (vedi quante ne ho!) è stata quella di portare il linguaggio di normale comunicazione (e diciamo pure il parlato) sul piano alto della poesia (o viceversa). Senza contare, naturalmente, le mia antica passione per il classici, l’antologia ecc. ([ero] innamorato del Tasso), che furono il mio nutrimento primo, i poeti delle origini, i siciliani, i toscani. E veniamo ai temi. Nella bellissima prefazione a L’ultimo borgo, Raboni ne individua tre fondamentali, la città, la madre, il viaggio, per concludere che la tua opera poetica è un «canzoniere d’esilio». Concordi con questa affermazione? E da quale patria il poeta che è in te è in esilio?

Sì, concordo con quanto dice Raboni7, nella sua davvero luminosa introduzione all’Ultimo borgo, e proprio perché riassume i tre temi principali che veramente abbracciano l’intero arco della mia opera, mentre il tema della città, della madre e del viaggio da lui individuati, pur aggrovigliabili tra loro, possono restare circoscritti in quello dell’«esilio». Esilio da che?, mi domandi. Raboni dice dallo spazio (la città), dal tempo passato (la madre), dalla vita (il viaggio). Si potrebbe forse pensare a Girovago d’Ungaretti: «In nessuna parte di terra mi posso accasare […]. Cerco un paese innocente [Girovago, L’Allegria]». In realtà, mai come oggi (come nella società d’oggi) il poeta è stato uno spatriato (ho scritto con questo titolo una poesia, pubblicata sull’«Almanacco dello Specchio» nel ’77).

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Ma il mio «esilio» è ancora un altro: è l’esilio da me stesso. Il continuo essere messo fuori di me stesso dall’incalzare del tempo e più ancora dalla nostra stessa condizione di uomini, mai sicuri di essere se stessi e in se stessi, nonché dalla nostra impossibilità o insicurezza di «esserci» in quello che comunemente viene detto il «reale». Ma a questo tema uno e trino, un altro ne aggiungerei, il conseguente: quello della ricerca. Della ricerca di un qualcosa che potrebbe essere Dio o la verità, se non precisamente la ricerca di sé, senza un suo precisabile oggetto, e sempre destinata a raggiungere un ultimo borgo (o a cozzare contro il muro della terra), oltre il quale non dico ci sia il nulla, ma l’inconoscibile tramite la nostra ragione (le religioni non sono che ipotesi). È la stessa nostra natura di animali-uomini, dal cui guscio è impossibile uscire, a condizionare e a rendere «relative» tutte le nostre conoscenze. Al di là c’è «l’altra terra», ci sono i «luoghi non giurisdizionali» cui non potremo mai accedere con la mente (le religioni, non sono che ipotesi, ripeto). Qual è il significato esatto dell’aggettivo «cerimonioso» che tu attribuisci a te stesso viaggiatore?

Il significato più ovvio di «eccessivamente complimentoso», e nello stesso tempo quello di «attore forzato» di tutte quelle «cerimonie» che sono i necessari atti della vita. Il «canzoniere d’esilio» comprende anche l’esilio da Dio. Via via che passano gli anni, i tuoi versi si arricchiscono di interrogativi e di risposte in negativo. «Io non ho ubicazione» può essere un emblema, che sta in parallelo a quel Dio che va cercato «dove non si trova». Si tratta di un tema squisitamente attuale, poiché coglie l’essenza di molta religiosità di oggi, che si esprime soltanto per via di contraddizione: Dio è una necessità e al tempo stesso un’assenza, un interlocutore inevitabile e al tempo stesso un silenzio. Questa intuizione, che ha una forza tremenda, e certo ha avuto un peso decisivo nell’evoluzione anche formale della tua poesia: versi carichi di parentesi, animati da un sottinteso o esplicito dialogo essenziale, che condensa le tue composizioni sino all’epigramma o addirittura all’epigrafe. A me viene spontaneo di collocarla accanto a due tra i più alti spiriti del secolo, la religiosa Simone Weil e l’ateo Franz Kafka. Ma se, come è probabile, questi parametri culturali non sono i tuoi, di quale linfa si nutre questa tua solitudine?

Specie da giovane con molta discrezione ho amato Kafka, e può darsi che qualcosa di kafkiano (lo ha notato Bertolucci) sia entrato nella mia più recente poesia. Poco so, invece – e perdona la mia ignoranza – di Simone Weil. Qualcosa forse devo, in negativo ma fino a un certo punto, ad autori come Agostino, Pascal, Kierkegaard, per non scomodare nomi più di moda come Bonnoeffer, o Van Buren, o Altizer, ecc. La verità è che ero giunto da solo, magari scoprendo l’ombrello (ma sulla graticola della mia personale esperienza e sofferenza) a certe proposizioni a-teologiche eppur religiose contenute nel Muro della terra.

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Quello che è certo, è che mi riesce difficile, di fronte al problema del Male, ammettere Dio come Provvidenza. Se Dio c’è, potrebbe anche essere un dio-serpente. Quello che mi premeva mettere in luce, era l’assenza di Dio e il bisogno di Dio come padre, come guida: il bianco, appunto, lasciato da questa assenza. Bisogno di guida è proprio uno dei sottotitoli del Muro della terra. Anche Monod8 l’ho conosciuto dopo, che fa dell’uomo un essere nato per caso, i margini di un universo assolutamente sordo alle sue musiche e ai suoi crimini. Un essere, dunque, terribilmente solo. Anche se la vera solitudine dell’uomo d’oggi mi fu ispirata durante la guerra dalla vista di quel monumentino a Enea (del Baratta, credo) che si trova a Genova in piazza Bandiera, una delle piazze più bombardate della città. Enea con sulle spalle il peso di una tradizione crollante da tutte le parti (il padre Anchise), e per la mano un futuro anch’esso bisognoso d’essere sorretto non reggendosi ancora sulle proprie gambe. Enea simbolo, insomma, contrariamente alla tradizione classica, del punto di estrema solitudine raggiunto dall’uomo, e che tenta invano di salvare una tradizione morente e senza ancora potersi appoggiare a una sicura speranza, che invece deve sorreggere. Ne nacque il poemetto intitolato Il passaggio di Enea.

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48 VIA FOÀ A MONTEVERDE

[Risposte ad Antonio Debenedetti] Come Attilio Bertolucci, lei abita a Monteverde. La strada, dove affaccia il suo portone, è di transito. C’è traffico e, almeno in certe ore, c’è molto rumore. Si può voler bene, mi domando, a una strada così volutamente anonima e «faticosa»?

A una via si vuol bene quando si può dire: quello è il «mio» vinaio, quello il «mio» fornaio, quello il «mio» salumiere, il «mio» tabaccaio, il «mio» cartolaio, ecc. Ora, in questo senso, via Pio Foà per me non esiste. Tutti i miei fornitori si trovano nelle adiacenze, e via Pio Foà mi limito a «transitarla». Tanto che non saprei nemmeno dire che volto ha, coi suoi casamenti tutti uguali di mattoni rossi, e da che ceto è abitata, guardando le facce né proletarie né borghesi, socialmente indefinibili, che mi è dato incontrarvi. Parla della sua strada come se fosse una vecchia ruga, ampliata dagli anni. Non le piace, dunque, abitare dove abita?

C’è il fatto che la mia ubicazione è curiosa: sto in via Pio Foà, è vero, ma casa mia non si trova in via Pio Foà. Vi si accede da un lungo cortile fiorito – frequentato da bei gattoni malandrini – che la allontana da quella strada per portarla direttamente sulla villa Doria Pamphili, i cui boschi e i cui prati selvatici, coi loro vari colori a seconda delle stagioni, sono i miei veri vicini e formano la delizia giornaliera dei miei occhi. Con in più una sorpresa per il visitatore: se lo porto sulla terrazza a nord, se lo invito a affacciarsi, scopre inaspettatamente, sotto di sé, tutto un altro mondo, che è l’opposto di quello ultramoderno dal quale è entrato. Una doppia sorpresa, ripensando alla sua casa così risolta dall’interno: una casa, appunto, per leggere e per lavorare. A quale inaspettato mondo si riferisce, dunque? A un vero e proprio piccolo borgo di ben affiancate casucce basse: le cosiddette casermette d’origine pontificia. Almeno credo. Sono abitate da gente semplice e senza albagie ch’è la mia vera compagnia, specie durante la buona stagione, quando, coi vetri aperti, ne sento il continuo vociare. Anche se ora nelle casermette ha preso a insediarsi «gente nova», rimodernandole e magari, qualche volta, alterandone troppo il buon sapore d’antico.

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49 SE MI LAMENTASSI CHE POETA SAREI?

[Risposte a Enzo Fabiani] Trovo Giorgio Caproni inquieto. Che hai? Che ti è successo?

Stanotte ho dormito male. Perché, non stai bene?

No, è per via di questa intervista: l’idea di dover parlare di me e della mia poesia mi mette in agitazione. Ma se il 99% degli artisti e dei letterati darebbe chi sa che cosa per farsi pubblicità: e tu stai lì a inquietarti!

Sì, lo so, ma io sono di un’altra pasta. Alto, magrissimo, il «grande livornese» somiglia a un capitano di mare che abbia perduto la nave in chi sa quale tempesta; e più ancora alla statua gotica di un eremita che si maceri per i suoi immaginari peccati di gioventù. Il sorriso è amaro e un po’ ironico; la voce tranquilla e aspra; gli occhi, che sembrano fissare al di là dell’interlocutore, esprimono una melanconia che potremmo definire azzurra. Il carattere, infine, è ruvido, ma l’anima è ricca di fiori. Diciamo che Caproni ricorda il biancospino. Ha avuto una vita molto dura, per povertà, malattie e malanni. Per vivere, per mandare avanti la famiglia (moglie e due figli), ha fatto per molto tempo il maestro elementare; e lo ha fatto con tanta originalità e passione che avrebbe meritato, almeno, di essere nominato direttore didattico, o ispettore. Ed invece è rimasto lì, alle elementari.

Seguivo i bambini dalla terza alla quinta. Mi volevano bene perché mi presentavo senza autorità. Mi facevo ignorante come loro, e imparavamo insieme. Eppoi mi ero specializzato nell’insegnare ai trovatelli, ai figli di nessuno, e diventavo il loro padre, il loro fratello. Per tirare avanti ha fatto anche il traduttore dal francese. Ha tradotto opere impervie di Céline, di Genet, di Apollinaire, di Frénaud, di Cendrars; e di Proust e di Maupassant. Opere impervie, cioè difficilissime: come Morte a credito di Céline, che con quel suo terribile argot gli richiese due anni di lavoro.

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Fu una fatica terribile, ma io, oltreché per guadagnare qualcosa, lo facevo per scoprire zone inesplorate di me stesso. Si sarebbe meritato, almeno, una cattedra universitaria: ed invece è rimasto lì, alle elementari, a insegnare ai trovatelli… Il successo (un certo successo) gli è arrivato qualche mese fa, a sessantanove anni, quando è stata pubblicata l’antologia L’ultimo borgo. Poesie 1932-1978, e in quell’occasione persino scrittori sofisticati come Italo Calvino e Carlo Cassola1 si sono mossi per dirne meraviglie. Prima, Caproni non era stato certo ignorato dalla critica; ma i critici, impegnati com’erano (salvo qualche giovane) a sostenere il carnevale dei cosiddetti «grandi», si erano limitati a parlare di lui come un raffinato «canzonettista», senza capire di quali lacrime grondassero quei suoi versi, di quale vivo sangue quella sua poesia «con le rime» palpitasse.

Sì, però hanno anche scoperto che sono popolaresco… A proposito delle poesie «popolaresche» di Caproni, ecco un esempio stupendo in Preghiera: una poesia «dedicata alla leggiadra e struggente memoria di Anna Picchi, la madre del poeta», che dice: Anima mia leggera, va’ a Livorno, ti prego… [Preghiera, SP] E ce n’è un’altra, che io stimo un capolavoro: si intitola Alba, e la scrisse nel 1945, in una latteria romana vicino alla Stazione Termini, mentre aspettava la giovane moglie che arrivava in treno da Genova. Dice: Amore mio, nei vapori d’un bar all’alba, amore mio che inverno lungo e che brivido attenderti! … [Alba, PE] Frammenti, se si vuole, ma mirabili: che possono dare un’idea del grande poema che Giorgio Caproni ha scritto in una ventina di raccolte di versi e prose, tra le quali ricordiamo Come un’allegoria (1936), Finzioni (1941), Stanze della funicolare (1952), Il passaggio d’Enea (1956), Il seme del piangere (1959), Il muro della terra (1975). Ma ecco il testo del nostro amichevole incontro, prima del quale Caproni mi ha chiesto, tra il severo e lo scherzoso, di non fargli «domande difficili»… Quale impressione ti ha fatto il grande successo dell’antologia L’ultimo borgo?

Beh, è superfluo dire che mi ha fatto piacere leggere certi articoli di lodi sperticate, e per me esagerate. Però, subito dopo, mi son detto: ma che strano, queste lodi potevano anche scriverle dieci o vent’anni fa, quando uscivano i libri che contenevano appunto queste poesie… Sì, capisco che in questa antologia sono rappresentato più o meno dall’inizio, cioè da Come un’allegoria, che pubblicai nel 1936; capisco che queste poesie danno di me un ritratto quasi completo; però, a dirla tra noi, alcuni critici sembravano scoprirle per la prima volta.

178 GIORGIO CAPRONI Cose che capitano a te e anche ad altri che senatori non sono.

No, guarda, se con senatori alludi a Montale, ti ricordo che io per lui ho avuto sempre ed ho una grande ammirazione. Bontà tua. Però cosa provavi quando pubblicavi libri come Ballo a Fontanigorda o Il passaggio d’Enea e vedevi che venivano notati sì, ma non quanto avrebbero meritato, essendo la maggior parte dei critici impegnati a suonare la grancassa per i «maestri».

Che vuoi che pensassi? Che il mio tempo non era ancora venuto. Eppoi avevo ben altro da fare che star lì a pensare alla gloria altrui… Tuttavia è stato bene così. Non mi lamento: altrimenti, che uomo, che poeta sarei? Vorrei che tu mi chiarissi alcuni piccoli segreti. E il primo è questo: tu sei nato a Livorno, ma dal 1922 al 1946 sei vissuto a Genova, per poi trasferirti a Roma. Ti domando: ti senti più livornese, genovese o romano, come poeta?

Io sono nato e rimasto a Livorno fino a dieci anni: quindi le mie radici sono lì (anche se la mia famiglia veniva, a quanto pare, dall’alto Lago di Garda, e addirittura, in antico, dalla Germania); le mie radici sono lì, anche se Genova mi ha visto crescere ed acquistare coscienza umana e culturale. Non credo che Genova, e poi Roma, sia stata determinante per me e per la mia poesia, pur se mi ha offerto molti spunti, molte metafore e un particolare paesaggio (anche se la mia poesia di paesaggio non è). Penso però che se fossi stato a Milano, sarei diventato milanese, e così via. Ma il mio spirito rimane comunque toscano: tanto è vero che Il seme del piangere si riallaccia al Cavalcanti, che più toscano di così non c’è. Eppoi non è affatto vero, come è stato detto, che io ho preso qualcosa dai poeti liguri. Non è vero. È vero, però, che la tua attività di poeta è cominciata grazie a un furto.

Questo sì. Ma prima di quel furto era nata e si era sviluppata in me un’altra vocazione: quella della musica. Io volevo diventare un grande compositore (da ragazzi si sogna sempre la grandezza), e perciò mi misi a studiare musica e violino. Non frequentavo il Conservatorio, perché non avevo soldi, ma l’Istituto musicale in Salita Santa Caterina. Così, fino ai diciotto anni studiai con un bellissimo violino di marca Candi, prestatomi dal mio maestro Armando Fossa. Studiavo di giorno; ma la sera, per guadagnare qualcosa, andavo a suonare in un dopolavoro, in una balera, insomma. Era un trio formato da un violino, un pianoforte e una chitarra. I motivi che furoreggiavano erano Noi siam come le lucciole, Adagio Biagio e simili capolavori… Un giorno mi stufai, mi ribellai, piantai tutto, e mi impiegai come copista e fattorino nello studio legale dell’avvocato Ambrogio Colli, al numero 42 di via XX Settembre.

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Dove avvenne il furto…

Precisamente. L’avvocato Colli, che era sardo, aveva una biblioteca molto ricca; e un giorno, dopo aver ricopiato la solita istanza diretta «All’Ill.mo Signor Procuratore del Re», mi misi a guardare i libri. Per caso ne presi uno intitolato Allegria di naufragi di Giuseppe Ungaretti, Vallecchi editore, Firenze 1919… Mi incuriosirono quelle parole scritte una sotto l’altra, mi incuriosì la carta ruvida sulla quale erano stampate. Fatto sta che me lo presi e non lo riportai più. Devo confessare che per me fu una specie di scossone; tanto che decisi di scrivere da me i versi per mie composizioni musicali che continuavo a fare, nonostante il mio lavoro di copista e di fattorino. E che versi scrivevi?

Diciamo che scrivevo versi astrusi, surrealisti, anche perché avevo cominciato a leggere (sempre pescando nella biblioteca del Colli) opere di poeti sudamericani. Un bel giorno, però, e questo è importante, con un atto di volontà mi dissi: basta con queste astruserie, voglio risillabare la poesia da capo. E così presi come modello il poeta che credevo di amare meno, ovvero Giosuè Carducci; il Carducci impressionista, che io, da buon livornese, definivo «macchiaiolo». Così, a denti stretti, ricomincia, e nella scia delle «canzonette» carducciane (come «La nebbia agl’irti colli» e «L’albero a cui tendevi») scrissi versi come «Dopo la pioggia la terra / è un frutto appena sbucciato [Marzo, CA]». Ecco: questa è proprio la mia prima poesia, datata 1932. Hai fatto dunque una specie di calco, di imitazione.

Calco non direi: volevo portare quel genere di poesia su un altro piano. Insomma, per rimanere nel campo della musica, che è quello a me più congeniale, volevo fare della musica moderna senza ricorrere alle dodecafonia (cioè all’ermetismo, diciamo), ma con i modi diatonici più perfetti, più ortodossi. Già, anche perché io credo alla forza della tradizione, che va rinnovata dal didentro. Da qui il tuo ritorno alla «canzonetta» dolcestilnovistica, del tipo Perché io non spero di tornar giammai.

La partenza, come ti ho detto, fu carducciana, e se ne accorse De Robertis. In più cercavo di superare il puro descrittivismo per ritrarre la realtà come allegoria di una verità che altrimenti è imprendibile. Quindi, laterizi carducciani e poi stilnovistici, ma costruzione a modo mio. Tanto è vero che, se io leggo col senno del poi i miei titoli di allora, e cioè Come un’allegoria, Finzioni (un titolo che ho adoperato molto prima di Borges), vedo questa specie di rimando se vuoi filosofico. Ad ogni modo non vorrei che si esagerasse con questa storia della canzo-

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netta, e si pensasse a un Caproni tutto melico. Se vedi i miei sonetti, ad esempio, sono ben costruiti in una forma classica, ma con uno spirito che li fa scoppiare… Un esempio di questa tua poesia «che scoppia» è Alba, che per me è una delle tue più belle. Come e quando la scrivesti?

A Roma, verso la fine del 1945. Ero in una latteria, solo, vicino alla Stazione, e aspettavo mia moglie Rina che doveva arrivare da Genova. Una latteria di quelle con i tavoli di marmo, con le stoviglie mal rigovernate che sanno appunto di «rifresco». Mia moglie non poteva stare con me a Roma, perché non trovavo casa e dovevo stare in pensione. Erano tempi tremendi. Io insegnavo. Tu hai fatto sempre il maestro elementare?

Sempre no, ma per molti anni sì. Lasciata l’orchestrina e l’impiego, a ventitré anni, non sapendo più che pesci prendere (il violino lo avevo fracassato in un momento di rabbia verso me stesso), decisi di mettermi a studiare per maestro. Mi presentai come privatista. Allora gli esami erano una cosa seria, ma io mi ero preparato bene. Presidente della commissione era Ugo Spirito, il quale domandò: «Chi ha fatto questo bellissimo tema d’italiano?». Mi feci avanti e lui mi disse: «Sei stato bravissimo: ti ho dato nove, il massimo voto». Il tema era sul Pascoli, che io avevo studiato molto bene. E l’orale come andò?

Molto bene anche lì, ma litigai con il professore (che non era Spirito, ma un altro). Avrei dovuto dirgli con una sola parola che cosa aveva di particolare Leopardi. Non lo sapevo, cioè, non capivo bene la domanda. Alla fine mi disse: «Ma il pessimismo!». Io replicai sostenendo che non era affatto vero, perché nessuno come Leopardi aveva amato la vita! Comunque andò bene, e presi il diploma. È vero che i tuoi alunni ti volevano un gran bene?

Eh sì… Io ero, mi presentavo, come l’amico maggiore sì, ma ignorante come loro; e chiedevo la loro collaborazione per imparare tutti insieme. Poi ti dirò che io ero, a Roma, in una scuola frequentata anche dai trovatelli… Quei poveri figli di nessuno, chiamati bastardi, venivano messi tre o quattro per classe; ma la cosa triste, pienamente razzista, era che dovevano indossare un grembiule nero, mentre tutti gli altri l’avevano blu… E quando gli altri tiravano fuori una ricca colazione, loro avevano soltanto una «rosetta», cioè un panino senza niente. Si vedeva che si sentivano esclusi, umiliati… E allora che facesti?

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Cosa feci? Andai dal direttore, e gli dissi: «Li dia tutti a me i trovatelli!». Rispose che non si poteva, che bisognava tenerli mescolati. «Facciamo un esperimento», insistei. Me lo concedette. Lo sai? Quei bambini (che io seguivo dalla terza alla quinta) mi adoravano. Io ero per loro il padre, il fratello, l’amico. Si confidavano con me. Insomma, quella divenne una classe eccellente in tutti i sensi. Ecco, io facevo scuola così. Un altro capitolo importante per te è stata la vita militare.

Sì, ho fatto il soldato per sette anni, e la guerra. E anche la Resistenza.

Sì. Ero ufficiale da un mese quando mi mandarono in congedo. Io tornai prima a Genova, poi in Val Trebbia, dove ero stato anni prima ad insegnare e avevo conosciuto mia moglie, Rina. C’erano i partigiani, che fecero una specie di Commissariato di amministrazione, nel quale misero anche me. C’era poco da amministrare perché c’era soltanto la fame. Per prendere qualcosa, il grano, il sale, bisognava attraversare la zona tedesca. Poi ci furono i combattimenti… Ma tu hai mai sparato?

Sparato no, ma avevo la casa piena di armi. Eppoi c’era mia cognata che faceva le bandiere partigiane. Insomma, quando arrivarono i tedeschi la paura era tanta, e tanto anche il pericolo. Poi, finita la guerra, dovetti occuparmi del recupero delle macchine… Ci furono anche dei processi?

Eh sì: ce ne fu uno, diciamo, curioso. Una mattina presto mi sentii chiamare: «Signor maestro, venga giù. Bisogna fare subito il processo a una donna!». Mi alzai, scesi, e mi spiegarono che avevano arrestato una vecchia signora, rea di aver scritto sulla facciata della sua casa frasi inneggianti al duce… «Ma che frasi?», domandai. Be’, alla fine venne fuori che su quella facciata c’era una scritta latina che diceva: Labore duce, fortuna comite…, che più o meno vuol dire: con il lavoro come guida e la fortuna come compagna… Rimandai tutti a casa. E poi?

Poi, siccome avevo vinto tre concorsi (avevo dato esami a Pavia, Torino e Roma) fui mandato a Casorate Primo, vicino a Pavia (e questo spiega perché nella mia poesia parlo spesso di nebbia). Finché un giorno un amico mi telefonò per consigliarmi di andare a Roma, dove avevo vinto il concorso di prima categoria. Mi

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convenne partire, portandomi dietro, appunto, il ricordo della nebbia. A Roma in quel periodo feci una vita d’inferno: mancanza di case, fame, eccetera. Passiamo ad un altro argomento: come hai fatto a diventare un grande traduttore dal francese?

Beh, come avevo studiato il latino, avevo studiato anche il francese. Mi piaceva, e così mi ci misi d’impegno, specialmente per la lingua, la parlata, popolare, l’argot insomma. Così quando mi venne offerto di tradurre Morte a credito di Céline accettai volentieri. Fu una grossa fatica, che mi richiese due anni di lavoro. Per fortuna, ero amico del poeta Frénaud, il quale mi aiutò molto. Gli mandavo liste di vocaboli, e lui mi mandava la traduzione… in francese; dato che Céline scrive in un linguaggio popolare che appunto va «tradotto» in francese e poi in italiano. È un vero ginepraio, pieno di doppi sensi tra gastronomici e osceni… Fu una fatica tremenda, anche perché io cercavo di tradurre i testi nei corrispondenti più o meno, dialetti italiani. Ad ogni modo, il tradurre l’ho amato per molti anni perché mi aiutava a scoprire zone inesplorate di me stesso. Anche Genet (del quale ho tradotto quasi tutto il teatro e due romanzi) mi ha aiutato in questo senso, anche se non lo amo molto. Chi però mi ha dato più filo da torcere è stato Apollinaire, anche perché ho voluto tradurlo immaginando come lui avrebbe scritto quelle poesie in italiano. E di tuo stai per pubblicare qualcosa?

Ho un libro pronto da due anni, ma ancora non mi decido. Il titolo quale sarà?

Dovrebbe essere Sparizione… Sì, perché a me la realtà sfugge; se la guardo svanisce, e quindi non ci credo: e allora… Però negli ultimi libri nomini spesso Dio: questo vuol dire che vuoi cercare di capire la sua realtà?

Sì, negli ultimi libri… Ma io cerco Dio negandolo. Il mio Dio non è quello della Chiesa, è un Dio particolare. La mia è una a-teologia: nel senso doppio di mancanza di teologia e di teologia dell’ateo. Io, ecco, non ammetto la Provvidenza… Il titolo del mio libro Il muro della terra voleva appunto indicare, giustificare, l’incapacità dell’uomo, o mia, di superare il muro della ragione per poter capire la verità… Ma io non riesco a credere nella trascendenza… Eppoi il male: un problema contro al quale hanno battuto la testa tanti più grandi di me, a cominciare da Sant’Agostino… Tuttavia non riesco più ad allontanarmi da questo problema. Per finire: c’è stato qualcuno che, sia pur tra le righe, ha scritto che le tue poesie sono spesso canzonette. Come ti difendi?

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Mi difendo dicendo che io dubito che siano «canzonette». Chi va ad esaminarle da buon critico dovrà accorgersi che sono ben al di fuori del «cantabile». C’è sempre il problema morale ed esistenziale. E allora quando mi parlano di «canzonette» mi vengono i nervi. E giustamente. E della definizione di popolare o popolaresco?

Beh, anche qui siamo alle solite. Io ho l’impressione che il popolo non esista, come lettore almeno. In me c’è sì una volontà di parlare un discorso comune, anche usando ad esempio le frasi fatte (come «buon proseguimento», «col favor delle tenebre»); ma io le uso con ironia, o amabilità, cercando di dar loro direi un senso arcano! Eppoi vorrei precisare che bisogna stare attenti a parlare semplicemente di «musicalità», per la mia poesia. Anche qui mi difendo, perché io non cerco la musicalità, bensì la musica… e la musica è architettura (come hanno detto Valéry e altri). Anche per quanto riguarda la rima bisogna stare attenti: essa, nella mia poesia, non è semplicemente un rintocco, poiché ha la precisa funzione di colonna portante! In questo senso, anche in questo senso, mi rifaccio a Dante: se tu pensi alle prime rime della Divina Commedia («vita […] smarrita»; «paura […], dura […], oscura») vedi che le rime ti danno subito il senso profondo di quella grande poesia… Ovviamente il richiamo è fatto con tutta la doverosa umiltà. Non arrabbiarti: so bene che tu sei uno di quei pochi poeti che, con Dino Campana e Clemente Rebora, hanno «risillabato» la poesia…

Per arrivare a dire, con semplicità, alla poesia stessa: «Con pochi tratti, con pochi / primitivi colori, / per te il mondo ritorna / coi più casti pensieri [Al primo galletto, BF]».

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50 CAPRONI IL POETA DELL’ESILIO

[Risposte a Claudio Marabini] Ho incontrato Giorgio Caproni in un albergo di Milano. Caproni vive da tempo a Roma ma dietro la sua figura, come dietro la sua poesia, non stanno queste grandi città: bisogna invece sentirci una terra amara e aspra che si distende tra Toscana e Liguria, il cui paesaggio somiglia allo stile della sua poesia: spezzato, vario, luminoso. A Milano Caproni ha il suo editore, Garzanti. («Ho un libro pronto ma siccome mi è già stato pagato non ho nessuna fretta di metterlo fuori», dice con un mezzo riso e un brillio metallico degli occhi). Una visita a Livio Garzanti e via, di ritorno a Roma o in giro per qualche conferenza. È uscita da poco nella BUR la prima antologia della sua poesia, curata da Giovanni Raboni (L’ultimo borgo. Poesie 1932-1978), e si sa che certi libri portano a spasso i loro autori, specie quando sono maturati lentamente e gli autori sono molto schivi. Caproni non ama parlare della sua poesia. «Che posso dire io?», chiede con la voce amara e musicale. Accetta però di rispondere a qualche domanda. Riconosci un cammino, un’evoluzione dei temi della tua poesia dagli esordi a oggi? Qualcosa è cambiato nel tuo modo di vedere il mondo e di sentire la vita? La critica sembra riconoscere nella tua poesia una continuità e coerenza, e quindi una fedeltà a certi temi (Giovanni Raboni nella prefazione al volume uscito nella BUR ne indica tre: la città, la madre, il viaggio). Sei d’accordo?

Le prime poesie da me accettate risalgono al 1932. Tra il ventenne di allora e il quasi settantenne di oggi un cammino deve pur esserci stato. È lo stesso «cammin della vita». In cinquant’anni un uomo non può restar sempre identico. La sua «visione del mondo» muta o si allarga col crescere e mutare delle proprie esperienze. Ora, i miei versi (ed ecco, forse, la continuità e la coerenza oltre il medesimo campo stilistico) sono sempre nati, appunto, dall’esperienza diretta della vita. (Fortissima e con tracce indelebili per me, l’esperienza della guerra). I tre temi indicati da Raboni1 sono ineccepibilmente giusti, tanto più che Raboni, nella sua luminosa presentazione dall’antologia da lui scelta e curata, non li vede come temi isolati e distinti, ma come temi riducibili a un comun denominatore: quello dell’esilio, che davvero abbraccia l’intero arco della mia opera. Esilio da che? Mi è già stato chiesto. Raboni dice esilio dallo spazio (la città), dal tempo passato (la madre), dalla vita (il viaggio). Qualcuno potrebbe anche pensare a Girovago di Ungaretti: «In nessuna parte di terra mi posso accasare […] Cerco un paese innocente [Girovago, L’Allegria]». In realtà, mai come oggi (come nella società d’oggi) il poeta è apparso uno spatriato. Ho scritto con questo titolo, Lo spatriato, e su tale condizione del poeta, una breve poesia pubblicata sul n. 6 dell’«Almanacco dello specchio». Ma il mio esilio è ancora un altro: è l’esilio da me stesso. Il continuo esser messo fuori di me stesso dall’incalzare del tempo, e più

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ancora dalla nostra medesima sostanza di uomini, mai certi di essere noi stessi e in noi stessi, nonché dalla nostra continua insicurezza di «esserci» in quello che comunemente viene detto «il reale». Il «reale» che io ho sempre sentito fin dalle mie prove iniziali, pur nella giovanile festa dei sensi, come un’allegoria o una sequela di finzioni di un qualcosa d’altro che ci sfugge. (E Come un’allegoria intitolai esattamente la mia primissima plaquette, mentre chiamai Finzioni, anticipando così di molti anni lo stesso titolo che Borges diede a una sua opera, la mia terza raccoltina). Ma a questo tema uno e trino (dell’esilio) un altro ne sottolinerei, che è quello (forse conseguente, e già avvertibile nelle Stanze della funicolare) della ricerca. Della ricerca di un qualcosa che potrebbe anche essere Dio o la verità, se non semplicemente la ricerca in sé, senza un precisabile oggetto, sempre destinata a raggiungere un «ultimo borgo» (o a cozzare contro «il muro della terra»), oltre il quale non dico ci sia il nulla, ma l’inconoscibile tramite la ragione. Il cosiddetto tema dell’assenza, che sta al fondo della tua poesia (Dio che non c’è ma c’è il vuoto da lui lasciato: un’orma, un buco, un abisso…) ti sembra correttamente individuato e formulato? Non è forse possibile affermare che ogni assenza, quando sia così nettamente circoscritta, è una presenza? Si può dire che c’è la presenza di chi è astante e quella di chi è partito da poco, o da molto, o di chi è atteso e si sa esistere, e non arriva o non può arrivare?

Mi riesce difficile – almeno qui – rispondere a questa tua selva di domande. Potrei cercar di cavarmela con una breve digressione tra il serio e il faceto, cominciando col dire che forse Dio è soltanto una malattia. Ma non mi piace scherzare sull’argomento. Il mio «rovello religioso» o «religioso ateismo» (come qualcuno l’ha chiamato), anch’esso patito direttamente sulla graticola della mia esperienza, non so esprimerlo altrimenti, nei suoi multiformi e contraddittori aspetti, da come l’ho espresso nei miei versi. Già nel Congedo del viaggiatore cerimonioso il «preticello» prega «non perché Dio esiste, ma perché Dio esista». Mentre in altre mie poesie dico che Dio va cercato dove non si trova, o che esiste soltanto nell’attimo in cui si uccide. Scendendo su un piano più agevole, che è quello della vita pratica, credo che per l’uomo d’oggi l’assenza di Dio (la morte o il suicidio di Dio) sia sofferta, oltre che come un vuoto metafisico, come un vuoto storico. L’uomo d’oggi, non ancora assuefatto alla propria solitudine, spesso sente ancora il desiderio di un padre, di una guida. Si potrebbe così concludere che se non c’è più Dio, resta per molti il bisogno (la speranza) di Dio. La sua assenza, volendo giocare con le parole, è dunque in questo senso – come tu dici – una presenza. Quanto all’ultima domanda che mi poni, non ho difficoltà a rispondere affermativamente punto per punto, anche se dopo quando ho detto la mia mi sembra ormai una risposta fuori campo. Se è vero che il tuo approdo più profondo è quello di una lucida e alta disperazione, tu pensi che esso potrebbe avere un valore socialmente, qualora la società imparasse a guardare in faccia alla vita? Non è questa una società dell’assenza? Oppure si tratta di una soluzione (se è una soluzione) valida soltanto per un poeta, un uomo singolo e privatissimo, che ha regolato su di essa la sua esistenza?

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Non so se il mio approdo più profondo sia quello che tu dici. Lo vorrei. Comunque penso che la «disperazione», stoicamente intesa come assenza di ogni sorta di illusioni, e non come sgomento, potrebbe senz’altro avere un valore sociale, portando l’uomo a risolvere i suoi problemi – di condotta, di giustizia, ecc. – senza veli sugli occhi: senza confidar troppo nelle fate. Potrebbe insomma aiutarlo a non soccombere di fronte alla scoperta della propria – vera o falsa che sia – orfanezza. Qual è stata la tua formazione? Quali le prime letture? I primi amori letterari? Chi sentisti più vicino?

Scusami se inverto un poco l’ordine delle domande. All’ultima ho già risposto sopra. Quanto alle altre, oltre al solito repertorio scolastico fondato soprattutto sui classici (che amavo moltissimo: in particolare Virgilio, Dante, Tasso, Leopardi) ti dirò che come tutti i ragazzi di allora leggevo (a capofitto e alla rinfusa) un po’ di tutto, non esitando, tanto per fare un solo esempio, a mettere insieme, non so con quale profitto, Verne e… Agostino (o Minucio Felice, che sapevo quasi a memoria in latino), ricco com’ero della piuttosto eclettica bibliotechina di mio padre, nonché delle abbondantissime edizioncine Sonzogno, che con pochi centesimi potevo comprarmi al chiosco dei giornali. Finché con l’età più adulta non sopravvennero le prime scelte, da Poe e Hoffmann, da Dostoevkij a Kafka ecc., fino a Le grand Meaulnes di Alain-Fournier (in francese), primo grande amore di molti lettori della mia generazione. Ma se per formazione intendi propriamente chiedermi quali siano i poeti del nostro Novecento da me meglio avvicinati sulle soglie di quegli ormai remoti anni Trenta, ti dirò che fin da giovanissimo avevo buona conoscenza di Cardarelli, e che le emozioni più forti le provai quando per la prima volta mi imbattei in Campana, in Ungaretti (Allegria di naufragi e poi Sentimento del tempo), in Sbarbaro, in Rebora e più tardi in Saba, mentre ricordo ancora la scossa grandissima quando comprai (nelle edizioni Ribet) gli Ossi di seppia. Senza con questo perdere il mio antico amore per i cosiddetti poeti delle origini (i Siciliani, i Toscani), che forse hanno contribuito alla genesi di certo accento «tra popolare e illustre» che molti critici (a cominciare da De Robertis2 e Cecchi) hanno riscontrato al fondo del mio linguaggio, e a certa mia presunta predilezione per la «canzonetta», anche se mi sembra che tale accento e tale «predilezione» non siano i soli elementi caratterizzanti del mio (buono o cattivo che sia) fare poetico. Che cosa chiedesti, quando la sposasti, alla poesia? Che cosa le chiedi oggi? Consolazione? Possibilità di personale testimonianza (lasciare un segno di te nel mondo)? Penetrazione e intelligenza (conoscenza) della vita? Un modo di comunicare qualcosa agli altri?

Soltanto una cosa ho sempre chiesto alla poesia: scoprire me stesso. Scoprire me stesso anche per gli altri. Il poeta è un minatore. È poeta chi riesce a calar-

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si così a fondo in quelle che il grande Machado chiama las secretas galerías del alma da potervi attingere quei nodi di luce che, sotto gli strati superficiali, diversissimi tra individuo e individuo, sono comuni a tutti, anche se non tutti ne hanno coscienza. Perché ultimo il borgo di cui parla il titolo del volume della BUR? Ultimo nello spazio e nel tempo? E poi, il vuoto assoluto?

Ho già risposto anche a questa domanda. L’ultimo borgo, in senso metaforico, è l’ultimo limite cui può giungere la ragione nella sua ricerca (o viaggio di ricerca). Al di là (e anche questo l’ho già detto) c’è «l’altra terra», ci sono «i luoghi non giurisdizionali» cui non può accedere la mente.

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51 LUOGHI DELLA MIA VITA E NOTIZIE DELLA MIA POESIA

Mi riesce estremamente difficile, anzi impossibile, parlare della mia poesia. Il che equivarrebbe in definitiva a parlare del concetto che io ho di poesia: cioè della poesia stessa. Non ho un laboratorio mentale abbastanza attrezzato allo scopo. Forse, non sono che un modesto artigiano. Non credo che l’antico vasaio si preoccupasse troppo di discettare con teoretica esattezza intorno alla natura e all’essenza di un vaso. Si preoccupava piuttosto di modellar vasi che fossero quanto più possibile «vasi», nel senso della bellezza oltre che in quello dell’utilità: in senso estetico e funzionale, si direbbe oggi. Definire che cos’è la poesia non è mai stato nelle mie aspirazioni, anche se talvolta m’è capitato di dover precisare in che consista, secondo me, la differenza (e la relazione) tra linguaggio di normale comunicazione e linguaggio poetico. (Si veda, ad esempio, quanto dico al proposito nel secondo volume dell’Antologia popolare di poeti del Novecento a cura di Vittorio Masselli e Gian Antonio Cibotto, edita da Vallecchi nel 19641). La mia ambizione, o vocazione, è sempre stata un’altra: riuscire, attraverso la poesia, a scoprire, cercando la mia, la verità degli altri: la verità di tutti. O, a voler essere più modesti, e più precisi, una verità (una delle tante verità possibili) che possa valere non soltanto per me, ma anche per tutti quegli altri «mézigues» (o «me stessi») che formano il mio prossimo, del quale io non sono che una delle tante cellule viventi. Il poeta è un minatore, certo. È poeta colui che riesce a calarsi più a fondo in quelle che il grande Machado definiva las secretas galerías del alma, lì attingere quei nodi di luce che, sotto gli strati superficiali, diversissimi tra individuo e individuo, sono comuni a tutti, anche se pochi ne hanno coscienza. L’esercizio della poesia rimane puro narcisismo finché il poeta si ferma ai singoli fatti esterni della propria persona o biografia. Ma ogni narcisismo cessa non appena il poeta riesce a chiudersi e inabissarsi talmente in se stesso da scoprirvi, ripeto, e portare al giorno, quei nodi di luce che sono non soltanto dell’io, ma di tutta intera la tribù. Quei nodi di luce che tutti i membri della tribù possiedono, ma che non tutti i membri della tribù sanno di possedere o riescono ad individuare. Mi pare che sia stato Proust a dirlo: quando uno legge un poeta, in fondo non fa che leggere se stesso. Quel poeta ha raggiunto in se stesso una verità che vale per tutti, e che già come la Bella addormentata nel bosco, sonnecchiava in tutti, in attesa d’essere svegliata.

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E si arriva così al paradosso che quanto più il poeta si immerge nel pozzo del proprio io, tanto più egli allontana da sé ogni facile accusa di solipsismo: appunto perché in quella profondissima zona del suo io, è il noi: un io che, dalla singolarità, passa immediatamente alla pluralità. La funzione sociale – civile – della poesia sta, o dovrebbe stare, appunto in questo. C’è chi dice che oggi, nella cosiddetta civiltà di massa, la poesia è un anacronismo. E perché no? Ma a patto, s’intende, di dar lo sgambetto alla troppo facile e astratta nozione di civiltà di massa, e a patto, soprattutto, che si svesta la parola «anacronismo» della sua tinta dispregiativa, per restituirla al suo colore legittimo. Ora, cogliere – e confermare – nel tumultuoso e mutevolissimo flusso dell’immediata attualità ciò che nell’uomo è stabile, perenne (eterno, si sarebbe detto una volta), non è forse il genuino senso che va dato alla parola «anacronismo», in perfetto e ardimentoso contrasto con tutto ciò che di deteriore, e di detestabile, ha il nostro tempo? «Andare contro i tempi» in favore, mi si perdoni il bisticcio, del nostro tempo. Ecco, secondo me, il vero anacronismo della poesia. Si dice che oggi non vi siano più lettori di poesia. Se fosse del tutto vero, non vi sarebbe più poesia, in quanto la poesia esiste (vive) sempre e soltanto nel rapporto fra il testo e il lettore. Certo, oggi la poesia non riesce più ad avere una posizione o funzione di privilegio come quando in anni andati (almeno fino a Gozzano) entrava in quasi tutte le case «bene», al pari dell’acqua potabile, o del gas, o dell’energia elettrica. Dico quando ancora non vi era «iato» fra cultura del poeta (diciamo pure borghese) e cultura del pubblico (diciamo pure borghese). Certo. E a questo proposito dovrei inclinare al più nero pessimismo, almeno dando retta ai rendiconti editoriali, dai quali si vede che quando un poeta contemporaneo, anche dei più celebrati, riesce a vendere, in dieci anni, ventimila copie d’un suo libro (a meno che non intervenga un Nobel o un altro fatto grosso a proiettar su di lui l’attenzione dei mass media), può già dirsi fortunatissimo. Ma se questo è innegabile, un certo risveglio d’attenzione verso la poesia oggi esiste (sia pure un poco «coltivato»), e dobbiamo pur prenderne atto. È un risveglio che si manifesta soprattutto fra i giovani (il che è confortante), anche se la gente non è ancora giunta a far la fila davanti alle librerie (non l’ha mai fatta) per comprarsi un libro di versi. Le letture pubbliche, perfino spettacolari, sono addirittura diventate una moda, e c’è chi per questo le esecra. La poesia, dicono molti, va letta in privato, e non ascoltata in piazza, dove del resto non potrà mai avere il successo del rock and roll. A parer mio questi tentativi di porgere alla gente la poesia vanno incoraggiati anziché rifiutati in blocco, purché, naturalmente, non se ne approfitti per farne delle pure e semplici chiassate.

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Ascoltare una poesia dalla viva voce dell’autore è un fatto innegabilmente istruttivo. Aiuta a capirla (anzi a sentirla) meglio. Ma a me non dispiacciono, né trovo inutili, nemmeno le letture fatte da attori, se questi si limitano a leggere e non a recitare: a indossar la veste di interpreti e non quella di gigioni.

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52 E DOPO IL LIMITE C’È SOLO «NIENTE»

[Risposte a Sandra Petrignani] Ho sempre avuto l’abitudine di «rubare» i titoli. Ne avevo già saccheggiati due da Dante, Il seme del piangere (del ’59) e Il muro della terra (’75), ora mi sono rivolto a Weber. Ma in realtà il riferimento alla celebre opera è piuttosto vago. Diciamo che le poesie ne richiamano, non tanto il tema, quanto lo spirito per il loro «latente romanticismo», come è stato osservato; nel senso hoffmanniano naturalmente, nel senso del romanticismo gotico-tedesco, e non del sentimentalismo romantico. Ma il cacciatore chi è, cosa rappresenta?

Il cacciatore è colui che spara, o almeno ha la tentazione di farlo, ma è soprattutto colui che cerca, è il poeta stesso. E qual è l’oggetto di questa ricerca? Per un cattolico sarebbe Dio; ma per me (l’assenza di Dio è anzi uno dei miei temi fondamentali) l’oggetto è se stessi. Cercarsi fin dove è possibile, fino ai limiti della ragione, quel limite che ho altrove simbolizzato nell’immagine del «muro della terra» o dell’«ultimo borgo». La domanda che sottende la ricerca è che cosa ci sia dopo il limite. L’inconoscibile. Il nulla sarebbe già qualcosa. E invece probabilmente c’è solo niente, senza articolo. Perdita totale e conclusiva d’identità… Assenza di Dio, confusione e perdita d’identità, idea della ricerca e del viaggio, che però porta sempre al punto di partenza, all’infanzia, sono alcuni dei temi principali della sua poetica, come hanno messo in risalto critici e poeti, quali Mengaldo, Raboni, Sereni. Il franco cacciatore riserva qualche sorpresa di tipo tematico?

Direi di no, a meno che non si voglia considerare una sorpresa, una novità, l’accentuazione dei temi che lei ha elencato. Soprattutto quello della confusione fra l’io e il lui, fra soggetto e oggetto. Del resto grandi sorprese non ci possono essere anche perché la maggior parte delle poesie di questa raccolta, che va dal ’75 a oggi (le ultime le ho aggiunte nel dicembre dell’81) sono uscite quasi tutte su alcune riviste, dall’«Approdo letterario» all’«Almanacco dello specchio» di Mondadori al recente volume Poesia tre della Guanda1. Solo il gruppo finale è inedito. Ma ho ancora qualche indecisione sulle inclusioni e sulle esclusioni. Finché il libro non andrà in stampa credo che continuerò ad avere ripensamenti.

192 GIORGIO CAPRONI Anche da un punto di vista metrico si può parlare dell’accentuazione di una tendenza: quella di una progressiva riduzione del verso e di una aumentata frammentarietà del linguaggio…

Sì, è molto evidente. Una frantumazione dei ritmi che corrisponde alla stringatezza del linguaggio, alla paura delle parole. Ci sono molte cesure, molti bianchi in queste poesie: è un modo di opporsi con i versi al rumore insopportabile delle parole che invade la nostra vita, lo avverto con un fastidio terribile. Per lo stesso motivo ho praticamente eliminato le città dalle poesie, perché sono diventate luoghi intollerabili, invivibili. Sarebbe dunque inutile cercare le mie città, Genova, Livorno, anche in questa raccolta. Ero un poeta cittadino ma ora non più, preferisco la natura. La Val Trebbia, per esempio, tra Genova e Piacenza… Nel Franco cacciatore troveremo anche traduzioni, come nel volume Rizzoli dell’Ultimo borgo?

No. Un quaderno di traduzioni uscirà in seguito da Einaudi2; ma è prematuro parlarne. Sto ancora scegliendo i poeti da tradurre.

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53 LE LETTURE DEI POETI

Legge molto o poco? Preferisce i moderni o va indietro nel tempo?

È un periodo che leggo poco i moderni; a una certa età si sente più il bisogno di rinnovare vecchi incontri. Ora sto rifacendo le mie letture giovanili dove accanto magari a Kierkegaard si trova Giulio Verne; allora facevo di queste mescolanze. Kierkegaard è uno dei miei autori, non si finisce mai di leggerlo. Ci sono poi naturalmente gli autori da me tradotti, come Apollinaire, Char, Frénaud, Celine, Genet, Cendrars… restando intatta la passione per i classici italiani e stranieri, amo molto i poeti della mia generazione e anche i poeti della generazione precedente.

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54 DISPERATO MA CON CALMA E OSTINAZIONE

[Risposte ad Aurelio Andreoli] Che cos’è mai la vita, per un poeta? In quale modo immagina che la storia si muova? L’unico metodo, l’unico stile della creazione consiste nell’inviare a ogni sua svolta un tipo di uomo nuovo: uomo che deve farsi largo lottando, che nella materia del tempo deve innestare il principio della propria generazione, agendo e soffrendo, come impone la legge della vita. La disperazione ha un senso? Perché non costituisce più un fenomeno particolare, e la si ritrova nella vita di ciascuno di noi? A questa ed altre domande risponde Il franco cacciatore. Tra i vari temi quello della confusione della propria identità con quella degli altri: si ripete qui, nelle varianti dello spaesamento, il je est un autre di Arthur Rimbaud. L’«io» si confonde al «lui». Vogliamo spiegare in poche righe l’ultimo Caproni?

Sono per una poesia scarna. Il minor numero possibile di parole. È un versificare frantumato: versi talvolta di una parola sola o di due parole. Odio il rumore delle parole. Forse sono stanco della mia stessa voce. La critica aveva parlato in precedenza, a proposito della mia poesia, di canzone. Semmai la canzone dura – non più la lingua fluida degli stilnovisti – dei cosiddetti poeti delle origini, i Siciliani e i Toscani. Uno dei temi del libro è forse anche la duplice angoscia di non poter sfuggire né al proprio destino particolare, né alla dura sorte collettiva, e di trovarsi solo in un universo incomprensibile.

Dico nella raccolta: vi sono casi in cui accettare la solitudine può significare attingere Dio. Ma v’è una stoica accettazione più nobile ancora: la solitudine senza Dio… È l’adito a tutte le libertà possibili. Quindi una poesia della disperazione, che non esclude però una letizia di fondo. L’uomo, privo delle speranze trascendenti, richiamato alle proprie responsabilità in terra, è soprattutto un uomo libero. La mia non è purtroppo una poetica della redenzione (come in Eliot, e da noi Rebora, n.d.c.). Questa sua disperazione che non ha origini metafisiche, conserva allora delle motivazioni costituzionali e psichiche?

No. Semmai ha delle origini culturali. È la disperazione dello stoico, che non si affida più a un intervento trascendente, ma a se stesso come uomo, alla propria coscienza e dignità. In questa nuova raccolta c’è una progressiva acquisizione di motivi razionali e logici rispetto

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alle poesie precedenti, Il congedo del viaggiatore cerimonioso (’65), Il muro della terra (’75)?

È un tentativo di approfondimento di quella disperazione calma, senza sgomento. L’uomo che sa di essere solo. In questo caso il cacciatore che sa di fallire tutti i bersagli. Tuttavia ritenta la partita. Vogliamo chiarire questa idea della caccia? Perché Il franco cacciatore? È anche una metafora della caccia nelle nostre città?

La musica, forse, ha sempre un poco influito sulla mia poesia, nella versificazione, nella rima. Qui, più che la trama è ripresa la musica di Carl Maria Von Weber. Nel Der Freischütz, si sa, l’azione comincia in un’osteria, davanti alla foresta, in Boemia, dove i cacciatori fanno a tirassegno (misteriosi richiami sembrano ridestare nella natura assonnata i geni dei boschi e delle acque, da qualche parte si avverte il rauco suono del corno, n.d.c.). Di questo c’è un vago accenno nella mia opera, ma forse non si va più in là. Un motivo dominante della raccolta è quello della ricerca oltre i limiti della ragione. Nell’alternanza di assassino e assassinato, forse che la vicenda biografica di Pasolini si riallaccia a queste metafore ossessive?

Può darsi. Tutto in poesia concorre. Mi sono interrogato su questa follia omicida che del resto non è soltanto di oggi, e che si risolve in follia suicida, poiché chi uccide l’altro in fondo non fa che uccidere se stesso, appunto come uomo. Dicevamo: una metafora della città…

C’è un accenno assai vago alle città della mia vita: Genova, Livorno. Per esempio la dogana dell’acqua, che a Livorno esisteva davvero. Una dogana come limite di giurisdizione. E altrove si insiste sull’altra terra, sulla frontiera. Quindi dei luoghi a diversa giurisdizione, in cui la nostra ragione non può avere accesso. Più che il nulla, l’inconoscibile. L’ambiente del cacciatore è quello della montagna e della foresta. Ma la foresta, sì, potrebbe anche essere una metafora delle nostre città. In generale le mie poesie erano sempre centrate sull’ambiente cittadino. Si avverte un senso storico alla base del suo ultimo libro. Corre un parallelo interno tra la storia e la poesia?

Uno dei pretesti può essere nato dalla guerra partigiana, da me vissuta nell’Alta Val Trebbia, nella montagna, nel bosco. Ma attraverso l’allegoria poetica si è perduta ogni datazione del fatto storico. Qual è il mio senso della storia, oggi? C’è una grande confusione nel mondo. Avverti una mancanza di equilibrio e di centralità. Alcune istituzioni sopravvivono vuote di ogni contenuto. Si avverte un’assenza di chiarezza anche nelle grandi ideologie.

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55 IL POETA È «UNO SPATRIATO»

Qual è il rapporto della sua poesia con Genova?

Genova è la città dove mi sono formato. È la città che mi ha formato. Sono fatto, potrei dire, di Genova. È quindi naturale che da Genova io abbia tratto spesso laterizi per la costruzione delle mie metafore, specie nel primo periodo della mia attività. Devo anche aggiungere che Genova, non essendo la mia città natale, mi ha fortemente stimolato alla scoperta. La sua è una poesia sempre limpida, leggibile. È una ricerca o un risultato naturale?

L’una e l’altra cosa insieme. La ricerca in se stessa non basta se non c’è una predisposizione naturale. Ho sempre pensato che la poesia, pur conservando quel tanto di mistero che le è proprio, deve avere in sé la forza di toccare il lettore, di passer la rampe, se vogliamo usare il gergo teatrale. Quale spazio vede oggi per la poesia?

Nel mio ultimo libro, Il franco cacciatore, c’è una poesia che mi pare risponda perfettamente alla domanda. È intitolata Lo spatriato1. Titolo che già basta a dire, mi sembra, la condizione del poeta nella società di oggi massificata e tecnologica. Ma con questo non penso che il poeta debba tacere: anzi, la sua voce è più che mai necessaria per tutti coloro che vogliono ritrovare e salvare la propria identità: la propria persona.

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56 SONO UN GENOVESE IN ESILIO

Ferruccio De Ceresa è nei camerini del teatrino di Portofino. La lettura di Caproni l’ha spossato. Elsa Albani, sua moglie, gli asciuga la fronte. Entra una signora bionda: è la figlia di Caproni: «Volevo ringraziarla, lei ha capito mio padre. È stato perfetto». L’anziano poeta fuma nel ridotto una sigaretta, per mascherare l’emozione che gli ha stretto la gola sul finale del recital. Stringe forte la mano di De Ceresa e scopre di abitare, a Roma, in un palazzo vicino al suo. «Siamo genovesi in esilio – sorride – e bisogna convenire che Roma è sempre peggio». De Ceresa annuisce e lascia capire che ha una gran voglia anche lui di tornare definitivamente a Genova. Dice Caproni: «È stata una lettura impeccabile. Sono soddisfatto. Ha letto, poverino, le poesie più lunghe, estenuanti. Ho sofferto per lui». Sottovoce, chinandosi verso l’interlocutore (Caproni è altissimo, filiforme, etereo) con accento ironico che conserva ancora un vago timbro toscano, ma con espressioni lessicali liguri, commenta d’essere soddisfatto: «Ieri, a Genova, e stasera, a Portofino, mi avete celebrato con discrezione», temeva la retorica, le parole grosse, i diplomi istoriati. «La mia poesia s’è rarefatta», accenna all’ultimo volume, Il franco cacciatore, uscito da Garzanti da poco, «ma resta la parola essenziale e la rima». Racconta con parole semplici che la poesia gli è nata a Genova e per Genova: è vissuto dall’infanzia alla maturità nello «Scagno» paterno (import-export) nella città vecchia, nel porto. La poesia è figlia dunque degli aromi della darsena. Persino dello stoccafisso, come ha scritto. «Peccato che debba tornare a Roma», è il commento e il commiato prima di lasciare la piazzetta di Portofino.

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57 POESIA E CONDIZIONE UMANA

[Risposte a Diego Zandel] Che cosa significa essere poeti oggi, in un mondo come l’attuale?

Significa non arrendersi di fronte alla Storia, di fronte al nero potere stabilito dai politicanti, dagli intriganti, dai truffatori, dai criminali. Significa cercar di salvare gli autentici valori umani contro i falsi valori sbandierati da Istituzioni di comodo. La sua poesia è sempre tesa verso una ricerca della propria identità. È forse questo il destino dell’uomo?

Certo. E oggi più che mai, in una società massificata che minaccia sempre più pesantemente di distruggere la persona. Ma più che un destino, direi che è un dovere. Una delle tematiche ricorrenti nella sua poesia è quella dell’errore come condizione umana. Chi invece è o crede di essere nel giusto?

La verità in assoluto è irraggiungibile, almeno tramite la ragione. La ragione porta a verità differenti e contrarie che erigono nel dominio del pensiero castelli spesso stupendi, ma posti o meglio contrapposti l’uno di fronte all’altro per sopraffarsi o distruggersi a vicenda. In nome di una presunta verità, quante guerre si sono scatenate e, purtroppo, si stanno scatenando. Nessuno può dire in assoluto di essere nel giusto. Il torto e la ragione, aveva già affermato Manzoni1, non si tagliano col coltello. La coscienza o il dubbio di essere nell’errore elimina la peste dell’intransigenza, causa di tutti i mali. Il quadro del mondo che viene fuori dalla sua opera è drammatico ma il tono spesso è ironico, al limite satirico. Che funzione assegna all’ironia?

In primo luogo, quella d’un salutare correttivo ad ogni mia possibile tentazione di presumere il possesso d’un qualsiasi Verbo, e in secondo luogo quella di una non meno salutare frusta contro qualsiasi falsità. Al di là di ciò che possono dire o non dire i critici (e nel suo caso la Storia), che cosa chiede lei alla poesia?

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Di essere poesia, e stop. Nei giorni scorsi Genova ha festeggiato i suoi settant’anni. Che cosa hanno significato per lei queste celebrazioni, e che cosa ha provato?

In realtà non vi sono state, secondo lo stile severo della Città, vere e proprie «feste» in senso mondano. Niente balletti o mortaretti. In compenso, e giocando sulla sorpresa (mi hanno tenuto all’oscuro di tutto fino ad opera fatta), mi è stato offerto un volume2 di ben trecento pagine, dove critici, scrittori, poeti d’ogni parte d’Italia, invitati a mia insaputa a scrivere sulla mia opera, hanno concorso a comporre uno strumento di interpretazione della mia poesia che ritengo prezioso per il valore degli interventi. Tale opera, mirabilmente curata anche nella veste editoriale dall’Assessorato alla Cultura, è stata presentata e dibattuta nell’austera Sala Vecchia del Consiglio comunale a Palazzo Tursi, e il tutto si è concluso con una bella e spensierata gita nei luoghi genovesi della mia poesia (grazie alla quale molti degli invitati dal Comune, che ha limitato le sue scelte ai soli autori dei vari interventi critici, e al di fuori dunque d’ogni aria festaiola, hanno avuto modo di confrontare la realtà cittadina con la mia fantasia), nonché con una lettura dei miei versi da parte di Ferruccio De Ceresa nel gremito teatrino di Portofino. Quello che ho provato, è superfluo dirlo. Una profonda commozione, accompagnata dall’indelebile gratitudine verso tutti coloro che hanno contribuito alla perfetta riuscita della «bella sorpresa».

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58 LA CONQUISTA DEL «PRETICELLO DERISO»

[Risposte a Gloria Piccioni] Interrogare un poeta – scrivevo a Giorgio Caproni nel sottoporgli le domande di questa intervista – è un grande impegno. Tanto più se per orientarsi ci si attiene a una sua Indicazione; a questi versi: «Smettetela di tormentarvi / Se volete incontrarmi, / cercatemi dove non mi trovo. / Non so indicarvi altro luogo» [Indicazione, FC]. Dice infatti Caproni: «Non credo che la poesia sia traducibile in termini logici: cioè che il linguaggio poetico lo si possa trasformare in linguaggio o discorso di normale comunicazione». Ma, nonostante le evidenti difficoltà, eccoci a chiedergli: Lei ha scritto nel Franco cacciatore: «Vi sono casi in cui accettare la solitudine può significare attingere Dio» [Inserto, FC]. Ma parla anche della «solitudine senza Dio». In questa sua nuova opera, il tema dell’assenza e/o presenza di Dio è riemerso più vigoroso. Può dirne qualcosa?

Mi sembra che quanto è detto nell’Inserto cui lei allude non abbia bisogno di «spiegazioni», trattandosi d’una idea compiuta in sé. Posso tutt’al più aggiungere che secondo me, nella nostra società così dissestata e orfana di «valori», soltanto in un saldo stoicismo, fuori d’ogni convenzione o illusione di comodo, sia dato all’uomo di ritrovare la propria dignità, e magari anche la propria fede a dispetto della ragione e dei suoi limiti. Quanto al tema di Dio, sul quale però a mio parere si insiste troppo anche se fondamentale, tralasciandone molti altri, è un tema che risale al Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee, dove in un suo «lamento», ch’è del ’61, uno dei personaggi del libro, il «preticello deriso», dopo aver confessato di non saper più agire in un mondo che senza badare al domani pone nel denaro e nel successo la sua unica religione, dice ai suoi schernitori: […] non so più agire e prego; prego non so ben dire chi e per cosa; ma prego; prego (e in ciò consiste – unica! – la mia conquista) non, come accomoda dire al mondo, perché Dio esiste: ma, come uso soffrire io, perché Dio esista. Questo faccio per voi, per me, per tutti noi.

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D’altro non mi chiedete. Sono un semplice prete. [Lamento (o boria) del preticello deriso, CVC]

E c’è già in queste parole un’istanza morale, prima che metafisica o religiosa in senso stretto (un’istanza, dirò meglio, etica), che naturalmente è andata crescendo in me con gli anni e con la piega presa dagli eventi. Il «no», il «non saper sapendo» di Giovanni della Croce1, sono anche nella sua poesia attività affermativa del negare?

L’ipotesi è seducente, e lei è la prima ad avanzarla. Ma in coscienza non saprei rispondere in modo perentorio. Non ha detto il mio cacciatore che Dio esiste soltanto nell’attimo in cui lo si uccide? Io non so esprimere altrimenti da come ho espresso in versi il mio animo e le mie idee, e quindi stabilire paragoni o confronti. Un poeta – penso – non può essere l’illustratore o il parafrasatore di se stesso. Se tentasse di farlo, diverrebbe per forza qualcosa di diverso, e quindi di falsificante (o di limitativo). Sta al lettore (al critico) interpretare e commentare, se gliene viene il prurito. La sua attività di poeta comincia negli anni Trenta, ma solo in questi ultimi tempi le sono stati conferiti importanti riconoscimenti. Di recente ha ricevuto il Premio Librex Eugenio Montale, il Premio Etruria a Volterra, e ora il Premio Feltrinelli dell’Accademia dei Lincei. Crede che si sia modificato qualcosa nella sua opera, o semplicemente che critici e lettori siano, rispetto a lei, in ritardo?

Non è esatto dire che «solo in questi ultimi tempi mi sono stati conferiti importanti riconoscimenti», se come tali s’intendono i premi letterari. Fuor di ogni sciocca vanteria, e per amor di giustizia, posso tranquillamente affermare che fin dagli esordi, senza che mi sia mai dato daffare al proposito (gli amici mi conoscono), non c’è stato un mio libro, compresi quelli di carattere antologico o di traduzione, che non sia stato premiato. Premi non certo della rilevanza di un «Montale» (allora non ne esistevano di così cospicui) ma comunque assai ambiti, come ad esempio, fra i tanti altri ricevuti, un «Viareggio» nel ’52 (Stanze della funicolare), un «Marzotto-Selezione» nel ’56 (Il passaggio di Enea), un altro «Viareggio» nel ’59 (Il seme del piangere), e così via di raccolta in raccolta nel corso degli anni ’60 e ’70. Ma io appartengo a una generazione che ha sempre badato, più che ai premi, al consenso della critica, e anche da questo lato, in complesso, avrei torto a lamentarmi, se già in anni ormai remotissimi ebbero a occuparsi di me, fra i molti altri sostenitori più qualificati, un Carlo Bo, un Giuseppe De Robertis, un Emilio Cecchi e via dicendo, senza contare l’attenzione già allora prestatami nella varie antologie ed enciclopedie, a cominciare dalla lontana Treccani. Resta però vero che l’interesse sia andato crescendo con il trascorrere del tempo (fatto che trovo del tutto naturale), specie nel senso di un maggior avvicina-

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mento al pubblico o di una maggiore «popolarità», ammesso che di pubblico e di popolarità si possa parlare in casa nostra a proposito di poesia. Quanto al «Feltrinelli» lo considero – dato l’altissimo prestigio dell’Accademia dei Lincei che lo attribuisce per l’intera opera – qualcosa di ben più significativo e qualificante d’un semplice premio: quasi una consacrazione che davvero non avrei mai osato sperare (la massima esistente in Italia), e senza ipocrisie non nascondo che mi ha profondamente commosso. Credo così d’aver risposto, implicitamente, alla sua domanda. Come si modifica nel tempo l’ispirazione poetica?

Ciò che si modifica nel tempo non è tanto, penso, l’ispirazione, ma piuttosto il suo oggetto o, se vogliamo, le sue sollecitazioni. Un uomo non è mai il medesimo nel corso degli anni. Cambiano le sue esperienze e i suoi interessi, anche in relazione al mutare delle condizioni storiche, ed è quindi naturale che tali metamorfosi si riflettano anche nella sua poesia. Le città della sua poesia sono Livorno e Genova. Come mai Roma, dove vive da molti anni, non è mai entrata in modo determinante nel suo paesaggio poetico?

Livorno è la città della mia infanzia. Genova la città della mia adolescenza e della mia giovinezza. Sono le città dove mi sono formato: anzi, le città che mi hanno formato, avendovi vissuto le esperienze che contano nella determinazione del carattere e della propria personalità. A Roma invece giunsi quando ormai ero uomo fatto. Trovo dunque naturale che Roma abbia lasciato minori tracce nella mia poesia, la quale del resto non ha quasi mai avuto come oggetto una città in sé. Non si è quasi mai ispirata a una città. (Le città, per me, sono come libri: le prime letture entrano, e rimangono, nel sangue, restando basilari nella cultura d’un individuo, pur destinata ad arricchirsi in continuazione). Quali sono stati e quali sono i suoi riferimenti, i suoi maestri?

Francamente, non so rispondere in modo preciso. Fosse lecito il paradosso potrei dire Kierkegaard e… Giulio Verne; Dante e… il Vittorelli. Tutte le letture, come le stesse esperienze della vita, concorrono alla humanitas di un poeta. E di tutte, di volta in volta, egli vorrebbe essere l’«imitatore» (o l’«emulo»), pur non avendo altro vero maestro, ahimè, che se stesso. Dopo i più spericolati sperimentalismi, da giovanissimo volli rifarmi al «vecchio» Carducci «macchiaiolo», ma sempre avevo in mente i Siciliani e i Toscani delle origini, letti per caso da bambino. Mi affascinava la loro musica dissonante, in rude lotta, nel loro tentativo di musicalità, con un linguaggio ancora tutto da fabbricare. Comunque è da tutti che, magari inconsapevolmente, ho tratto e traggo «insegnamenti». Tutti, per un verso o per l’altro, mi servono da modelli e da maestri. Limitandomi alla

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poesia novecentesca, i primi libri che in giovinezza mi scossero profondamente furono l’Allegria di naufragi di Ungaretti e gli Ossi di seppia di Montale. Non conoscevo ancora Sbarbaro e Campana (altri miei giovani amori), nei quali m’imbattei un poco più tardi.

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59 IL CACCIATORE DI VERITÀ

[Risposte a Luciano Luisi] Questo che si è concluso è stato, come hanno scritto in molti, l’anno di Caproni, perché ha pubblicato uno dei libri più significativi e alti della poesia del Novecento: Il Franco cacciatore, edito come gli altri da Garzanti; e perché al traguardo dei settant’anni il suo nome è divenuto popolare grazie anche ad alcune antologie di larga diffusione e ha vinto il premio «Montale» e il prestigioso «Feltrinelli dei Lincei», consegnati entrambi dal Presidente della Repubblica. Infine per un convegno di larga risonanza che Genova ha dedicato alla sua poesia.

Riconosco che il 1982 sia stato un anno particolarmente felice e corollato di certi riconoscimenti non richiesti, non cercati, e questo me li ha resi ancora più cari. A cominciare proprio da questo convegno genovese, tenuto a mia insaputa, è stata una sorpresa a palazzo Tursi, con grande solennità in questa città austera, per lo più. E che tu ami molto.

Ah beh, io… è la mia città, la città che mi ha fatto. Io sono fatto di Genova. Genova mia città intera. Geranio. Polveriera. Genova di ferro e aria, mia lavagna, arenaria… [Litania, PE] Che cosa rappresenta Il Franco cacciatore nello sviluppo della tua poesia?

Beh, rappresenta sempre il tema della ricerca, ricerca chi dice di Dio, chi dice della verità, chi dice dell’aldilà… io dico la ricerca ai fini della ricerca e basta, che è il tema poi conduttore del Muro della terra, e questa nostra impossibilità di viaggiatori, di cacciatori, di arrivare al traguardo, che è una preda. Il muro della terra non deve significare altro che (è un titolo dantesco) il limite a cui può giungere la ragione umana. Però gli spari del Franco cacciatore tentano di oltrepassare questo muro, forse.

Gli spari di questo Franco cacciatore, sì, ma è anche vero che trovano poi L’ultimo borgo scoraggiati e al di là non vedono altro che la frontiera.

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No, il paese non è spopolato. Sono tutti nel bosco… [Lui, FC]

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60 IN VIA PIO FOÀ CON CANDORE E CON SGOMENTO

Come le altre della zona di Monteverde, la via è dedicata a un «benefattore dell’umanità», il medico Pio Foà. Ma nessuno la conosceva, i tassisti dovevano consultare la guida, prima che essa entrasse nella funesta leggenda di questi ultimi anni. Qui c’era infatti la tipografia delle Brigate Rosse dove stampavano, durante i giorni di Moro, i comunicati che seminavano sull’opinione pubblica attesa, sgomento e lugubri presagi. Sulla porta sostava spesso un vecchietto simpatico e ciarliero, attraverso lui passavano le più comuni ordinazioni, biglietti da visita, annunzi di nascite o di matrimoni: tutti segni fermi e riconoscibili di una vita di quartiere ormai devastata e sfigurata, come in tante zone neoricche della capitale, che espongono i modelli arroganti di improvvisi arricchimenti mercantili, con condomini anonimi che celano, dentro, i simboli sfacciati dell’accumulo. Con quel vecchietto s’era fermato spesso a parlare Giorgio Caproni che abita proprio di fronte alla tipografia, da quasi quindici anni. E spesso curiosava dentro: «Le tipografie mi hanno sempre attratto. Ho fatto il correttore di bozze da Tumminelli, nella città universitaria, mi piace il lavoro manuale che vi si respira». E, poi, la sorpresa letta sui giornali: «Mi meravigliai e non mi meravigliai: in fondo una tipografia così può esistere nel luogo più impensato, può essere nell’appartamento accanto, adesso mentre stiamo parlando». E la meraviglia, semmai, è un’altra: che questa via gli abbia sempre suscitato «un senso di paura, non di essere aggredito, ma paura proprio esistenziale». E prende due poesie del 1970, si chiamano entrambe Via Pio Foà, le legge con quella sua voce di gola che conserva un inconfondibile timbro ligure: le parole sembrano ancor più essenziali e non rattrappite, ma mirabilmente condensate intorno alla nuda verità di una improvvisa folgorazione che regola la musica interna e inesorabile della versificazione. La prima: «La luce sempre più dura, / più impura. La luce che vuota / e cieca, s’è fatta paura / e alluminio, qua / dove nel tronfio rigoglio / bottegaio, la città / sputa in faccia al suo Orgoglio / e la sua Dismisura» [Via Pio Foà I, MT]. La seconda ancora più netta, un vero colpo di rasoio: «Una giornata di vento. / Di vento genovesardo. / Via Pio Foà: il mio sguardo / di fulminato sgomento1» [Via Pio Foà II, MT]. Paura, sgomento… Nella poesia caproniana i sentimenti si definiscono in macchie anche colorate molto forti, in oggetti tanto nitidi, in paesaggi che hanno una concretezza piena e dolorosa. Questa volta i versi parlano di Roma, la terza città: non più Livorno e Genova, le prime due, che sono diventate ormai luoghi tra i più memorabili della nostra poesia contemporanea. Livorno e Genova viste nei chiari mattini della nostalgia, con le ragazze odorose di latterie, i bar, gli addii nella calma luce di giorni trasparenti e inesistenti: come trasparente, inesistente, impenetrabile è l’immagine e la condizione stessa della memoria. E ora Roma… Caproni ricorda…

Io conoscevo bene questi posti, Pasolini abitava da queste parti, lo andavo spesso a trovare, passeggiavamo insieme. Ma erano molto diversi, avevano un carattere popolare, se non plebeo. Poi tutti hanno fatto i quattrini chissà come, hanno la macchina, casa al Circeo. Ma non si sa più cosa siano: non sono né proletari né borghesi. Vivono in un quartiere residenziale gonfi e sazi. Mi dà un sen-

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so di solitudine terribile non poter agganciare questa gente: ma insomma, chi siete? Mi sgomenta questo non sapere le loro origini. Il tema della perdita e vana ricerca della propria identità è costante nella sua poesia. Penso alla centralità della figura di Enea. È una ricerca che parte da una condizione storica precisa. Lei stesso ha scritto pagine acute sulla sua generazione che si è a lungo trascinata con sensi di colpa per cose di cui non aveva colpa: il fascismo, la guerra.

L’ho addirittura definita una bianca generazione. Bianca nel senso appunto di inesistente perché sopraffatta dalla dittatura e poi dal conflitto. Io Enea me lo vidi davanti, credo che Genova sia l’unica città al mondo che gli abbia dedicato un monumento. Un uomo con il padre addosso, cioè la tradizione sulle spalle che cade ormai da tutte le parti, in mano una speranza che ancora non si regge dritta: quindi proprio l’uomo solo al culmine della solitudine che deve reggere un passato che crolla e cercare di portare avanti un avvenire che non si conosce… Ecco il mio Enea. Si spiegano così certe sue scelte poetiche apparentemente controcorrente. Ad esempio la rima…

Sulla rima ci sarebbe a lungo da parlare. Anche Montale, anche Saba la usano: non è una mia novità. E poi ho cominciato con versi liberi. In seguito ho usato la rima quasi per estrema disperazione: era un afferrarsi sapendo che uno si afferra al niente, alla forma letteraria come ultimo tetto. Questa sfiducia nelle parole fino a Il franco cacciatore è dichiarata. Qui c’è una poesia sulle parole che dissolvono l’oggetto. Questa posizione ha messo a disagio spesso la critica perché per essa non ero abbastanza novecentesco. Si dilatava, cioè, l’aspetto più fintamente tradizionale della sua poesia.

Già, si esagerava. L’ho ripetuto spesso: siccome vengo dagli studi di musica, la mia ambizione era di fare musica moderna usando il sistema diatonico, cioè quello tradizionale. Infatti i miei sonetti sono pseudosonetti, sono ritmi allargati e costretti. Poi… mi sono stancato, non potevo andare oltre. Sono tornato ad una versificazione più semplice, più immediata. Ora l’ambizione è di usare il minimo delle parole possibile. Ma un poeta è in qualche maniera consapevole di ciò che scrive?

I miei libri obbediscono a una progettazione inconscia. Quando scrivo versi non penso mai al senso che avranno nell’insieme. Forse, è vero che oggi per il poeta, al posto della Musa, c’è il subconscio. C’è un filo di vissuto che tiene insieme il testo: una poesia che non contenga né un bicchiere né una stringa mi mette sospetto. Concepisco il libro come una sinfonia, con vari tempi: l’allegro, l’adagio, il grave, lo scherzo.

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Non sono capace di tradurre un verso in termini logici. Ma hanno importanza anche le pause, i «bianchi» tipografici, i versi troncati, così come nella musica hanno funzione espressiva gli improvvisi silenzi. Nei suoi ultimi versi infatti c’è una nettezza quasi epigrafica: una «testamentaria secchezza», ha scritto Mengaldo.

Forse, dimagrendo di corpo, sono dimagrito anche di spirito. L’ideale sarebbe risparmiare al massimo il rumore delle parole. Scrivere con tre parole una poesia. Tutta punti, punti fermi. Qui vale, penso, la lezione del Céline di Morte a credito, da lei magnificamente tradotto nel 1964. Uno scrittore, comunque, tanto diverso da lei. Come e perché se l’è scelto?

Come le altre mie traduzioni: Char, Genet, Apollinaire, Cendrars, Frénaud… Per ragioni di ordinazioni, ma anche per un mio puntiglio di prendere i testi più contrari alla mia conformazione intellettuale. Perché ho creduto che, traducendo, uno arricchisce le proprie esperienze in campi diversissimi. Io ho tradotto anche il Wilhelm Busch, Max e Moritz ovvero Pippo e Peppo2 senza conoscere una parola di tedesco, o quasi. Ma c’erano i fumetti, avevo la tradizione letterale, dovevo indovinare l’arietta. Sa, proprio quella: «Qui comincia l’avventura…». Céline era invece tanto più complicato.

È stata la traduzione mia più complicata, ma anche la più appassionante, per i problemi linguistici che comportava. In alcuni punti ho dovuto inventare. È un’impresa terribile tradurre dall’argot, perché in Italia non abbiamo una lingua nazionale e popolare. I dialetti sono un’altra cosa. Adesso sono usciti dei dizionari etimologici sull’argot. Allora non c’erano. Ed è una lingua interessantissima: il 25% delle parole viene dall’italiano. Per esempio Nibergue non è altro che la traduzione di Nisba. Mi ricordo quando ero bambino a Livorno. «Me la presti la bicicletta?» «Nisba». Lei parla dell’argot come lingua popolare e parlata. E io penso alla sua poesia, a ciò che da sempre l’ha caratterizzata: da un lato il linguaggio quotidiano, umile, dall’altro l’ambizione di portarlo su di un registro «alto», quasi aulico.

Sì: ho sempre voluto alzare la frase banale e qualunque dal linguaggio della normale comunicazione. Prenda il Congedo del viaggiatore cerimonioso. «Scendo, buon proseguimento» è un modo di dire ordinario, ma può anche assumere altri significati. E qui si tocca una corda a cui la sua poesia è tanto sensibile: l’apparente «facilità». Cioè la capacità di comunicare al di là dell’universo della comunicazione. Una sorta di incredibile scommessa: tutto ciò che ci circonda vuole comunicare, cioè dire parole chiare e riconoscibili che di-

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ventano incerte, gommose, semplificanti. Le sue sono ugualmente parole chiare e nette, ma vengono da una profondità diversa…

La vita non è una cosa chiara, non c’è dubbio, ma si può dire con parole chiare. Anche sotto l’apparenza della leggerezza, della cantatina. Questo lo penso forse perché, lo ripeto, ho studiato musica. Ma in ogni caso, il poeta vero, se c’è, ha in mano un’arma che nessun altro mezzo può avere, perché sia il romanzo che le altre forme d’arte in un certo senso limitano. E allora qual è il senso di scrivere versi rispetto ad altri strumenti di conoscenza e di indagine sulla realtà che oggi l’uomo ha ancora a disposizione?

La poesia ha possibilità infinite di diffrazione, di sovrasensi. Ha possibilità di cogliere l’inconscio meglio del cinema, della arti figurative. Forse solo la musica le è accanto. Con la poesia, partendo da fatti autobiografici, si scava in se stessi: ma si va proprio in giù, come un minatore, e si può trovare una zona dell’io che è di tutti, soltanto che negli altri dormiva. Partendo dai laterizi delle proprie esistenze, e costruendo con tali laterizi le proprie metafore, il poeta riesce a chiudersi e a inabissarsi talmente in sé da scoprirvi, ripeto, quei nodi di luce che son di tutta intera la tribù. Insomma, il massimo di narcisismo possibile porta al paradosso di ritrovare gli altri. Certo bisogna partire da cose concrete, da realtà vissute e non dalla stratosfera. E oggi mi sembra che si giochi un po’ troppo sul verbalismo, sullo strutturalismo, sulle combinazioni verbali. Poco sulle idee. Anzi non contano quasi più nulla: conta la forma, il formalismo eccessivo. Fa, così, d’ogni erba un fascio? Siamo dunque alla hegeliana notte che rende bigi tutti i gatti?

No, assolutamente: non voglio generalizzare. Per certe generazioni di anni recenti la poesia era irrisa come il massimo di incongruenza. Oggi invece c’è un’attenzione grandissima, inattesa, che fa piacere. Lo constata di persona? Gli altri poeti intervistati in questo mio giro raccontano a proposito aneddoti, curiosità con cui confermano le proprie certezze.

Certo. Il maggior interesse lo colgo tra i giovani. Anche le recensioni più acute sono fatte da giovani che hanno tendenze magari opposte alle mie. E il torto degli editori è di proporre edizioni di poesia troppo care. Dovrebbero fare libri economici. Come è accaduto per L’ultimo borgo che è l’unico mio volume che è andato alla seconda edizione. Non perché è il più bello, ma perché costa soltanto 3500 lire. E dai giovani ai bambini il passo è breve. Per tanti anni lei è stato maestro. Ha anche insegnato poesia alle elementari, un esperimento pilota in tutta Italia. Ma di tutto ciò ha sempre parlato poco. O sbaglio?

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Sì, e per modestia. Io non mi sentivo con le carte in regola: non avevo fatto le scuole magistrali, non mi sentivo un vero maestro. Ero un amico dei ragazzi con i quali chiacchieravo molto. Un anno, alla Crispi, c’erano tutti gli alunni di un orfanotrofio, i figli di nessuno, come si diceva allora. Non li voleva nessuno. Con un grembiule nero per distinguerli dagli altri, questo già in democrazia. E lei li prese?

Andai dal direttore e gli dissi: «Perché non me li dà tutti a me». «Ma non possono essere mescolati», mi fu risposto. Ed io insisto. Sa cosa succedeva alla merenda? C’era il compagno benestante, borghese: tirava fuori le sue ricche brioches e loro poverini avevano una rosetta e basta. Si sentivano mortificati e orgogliosi. E poi, come ci si avvicinava, si ritraevano, si vedeva che erano abituati a pigliar botte. Beh, alla fine, ce la feci, li raccolsi tutti. E in breve divenni il padre, il fratello, ero diventato tutto per questi ragazzi. Ancora adesso mi telefonano, chi fa il falegname, chi il maresciallo, chi l’idraulico. Caproni parla ancora di quell’esperienza, dei suoi metodi didattici. «Ero un anticipatore senza volerlo. Facevo gruppi di ricerca, senza sapere nulla di quella teoria». Ricorda come insegnò a calcolare il perimetro del rettangolo, maieuticamente, facendoselo «insegnare» dai bambini. Racconta in modo stringato, quasi ritmico, calando nelle molte esclamazioni la sorpresa che si rinnova, una sorta di candore infantile. Prima mi ha parlato della sua adolescenza a Livorno, del fascino della città commerciale, portuale, dei «fumaioli, delle ciminiere, delle navi che arrivano e che partono». E ancor prima ha rievocato le sue prime emozioni di spettatore cinematografico appassionato di Francesca Bertini: «Lo prendevo come un fatto vero, uscivo tutto scosso, come se avessi assistito a quei fatti per la strada». Sempre con la stessa sorpresa, lo stesso candore. Forse è proprio questa la chiave per penetrare nella sua ineguagliabile semplicità, quella che gli ha fatto scrivere: Com’è alto il dolore. L’amore, com’è bestia. Vuoto delle parole che scavano nel vuoto vuoti monumenti di vuoto. Vuoto del grano che già raggiunse (nel sole) l’altezza del cuore. [Senza esclamativi, MT]

Il nostro destino è quello di scontrarci con il muro della terra, o di incontrare l’ultimo borgo, oltre il quale risuonano i luoghi interdetti, non quelli istituzionali… È lì, dove finiscono la ragione e le scienza che comincia la poesia: nei luoghi dell’ignoto, della non-conoscenza.

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61 NOSTALGIA DEI PANCALDI

[Risposte a Corrado Pizzinelli] Una volta erano tanti i toscani a Roma. Ricordo Angioletti, Cassola, Cancogni. Adesso siamo di meno. In questa città io ci venni nel 1929, ma ci rimasi poco tornandovi solo nel 1948. Facevo l’insegnante elementare e collaboravo con molte riviste letterarie. Sono nato a Livorno. Mio babbo era ragioniere in una ditta importatrice di caffè. Poi diventò amministratore della società che costruiva le nostre motosiluranti d’assalto, i famosi MAS. Da Livorno mio padre trasferì la famiglia a Genova perché aveva assunto la direzione di una ditta genovese export-import di pesce in scatola e così io feci una parte dei miei studi a Genova. Però, nonostante tanta parte, e importante, di vita trascorsa a Genova, io sono toscano. Dentro. In che senso?

Ma non so… mi ritrovo toscano nel carattere. Nella mia strafottenza, semplicità e schiettezza. Spiritualmente poi, pur ammettendo che se ho nostalgia per una città questa è Genova, debbo dire che Livorno resta la mia città del cuore e del sogno. Il mio libro Il seme del piangere è tutto ambientato a Livorno, una Livorno immaginaria dove si svolge la vita di Anna Picchi, cioè di mia madre. Cosa resterà tra cinquanta o cent’anni della sua poesia?

Non lo so. Mi domando piuttosto cosa resterà di tutta la poesia. Vivrà ancora fra cinquant’anni in una società come questa? La nostra è una civiltà massificata che non ha più lo scatto poetico, non ha più quello che io chiamo il «grano di follia» poetico. Oggi predomina il ragionamento e la sociologia ha preso il posto della letteratura. Tutto oggi è sociologia e mai si sono commessi tanti errori quanti se ne commettono oggi! Senta, se al poeta Caproni fossero dati particolari poteri e la possibilità di fare quello che vuole, ma per una volta sola, cosa farebbe?

Oh sì, so cosa farei… vorrei che ogni giovane ritrovasse se stesso e avesse il senso della propria poesia. Ma lei stesso poco fa non diceva che oggi non c’è più poesia e che fra cinquanta o cent’anni forse non ci sarà più?

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Sì, non c’è poesia. L’ho detto, ma aggiungo anche che i giovani soffrono di questa mancanza. Aver la poesia è per me avere il dono di trovare la propria identità. I giovani vogliono essere se stessi, ma come possono in questo mondo massificato? Io ho passato la mia vita coi bambini e conosco i giovani. Le piaceva insegnare? Star coi bambini?

Molto. Amavo soprattutto stare coi trovatelli. Gli ultimi anni della mia carriera mi feci dare una classe composta solo da questi poveri bimbi. Alla scuola dove insegnavo, qui vicino, ce n’erano una quarantina sparsi in tre o quattro classi. Convinsi allora il direttore a fare una classe sola e darmela. Quei bambini vivevano dalle suore e arrivavano a scuola già diversi dagli altri: tutti col grembiulino nero e con solo una rosetta di pane. Erano ostili e soffrivano per essere diversi e per non avere i genitori che li venissero a prendere all’uscita. Erano ostili anche ai compagni, in classe, anche a chi alla ricreazione delle dieci, offriva loro qualcosa da mangiare. Insomma, odiavano tutti e tutto. Io allora li misi assieme e cominciai a stare e a vivere veramente con loro. È stata la più bella esperienza della mia vita d’insegnante. Quando camminavo per la strada mi venivano dietro felici, poi venivano a casa a trovarmi… Molti ci vengono ancora, si son fatti uomini e non mi hanno dimenticato. Li trattavo da pari: leggevo loro poesia e facevo ascoltare musica… Anch’io, assieme a loro, ero felice. Forse perché inventavo la giornata. Qualche volta, ad esempio, entravo in classe arrabbiato. «Che hai sor maestro?», chiedevano. Oggi sono adirato perché il direttore vuole che faccia una lezione su Napoleone, ma se io avessi una classe di bravi bambini, questi saprebbero già chi è e mi risparmierebbero la fatica di spiegare… Il giorno dopo essi tornavano sapendo tutto. Ogni tanto fingevo di sbagliare e mi facevo correggere da loro, così i compagni più piccoli imparavano… Insomma, facevo della maieutica, ed ero in pace con me e con loro mentre li plasmavo. Ma questi sono ormai tempi lontani, perduti. Per sempre. Cosa rimpiange di non aver avuto dalla vita, lei che ha avuto il dono della poesia?

Rimpiango di non essere diventato musicista. Sognavo di diventare compositore. Infine, non a torto, alcuni critici dicono che io ho portato nella poesia l’amore per la forma, l’uso della rima e la versificazione… e che Il franco cacciatore è un poemetto che non si può leggere soltanto… Ogni poesia è legata all’altra. E perché non diventò musicista?

Per motivi economici. Ha dedicato liriche a Firenze?

No, ma a Livorno un libro intero, Il seme del piangere.

INTERVISTE E AUTOCOMMENTI. 1948-1990 213

Se facesse sulla scorta del suo libro un giro di Livorno, dove andrebbe?

Oh… ai Pancaldi, che erano i bagni, poi sulla Passeggiata Lungomare, al Voltone, in via Palestro, in Corso Amedeo, al Calambrone, in località Venezia, all’Acqua della Salute… Oh, quanto era bella Livorno. Era una stupenda città… Perché, ora non lo è più?

L’hanno massacrata. Prima la guerra e poi le nuove costruzioni. Comunque è sempre bella. E come si sente quando va a Firenze?

Mi sento in una città molto bella, viva, accogliente, culturalmente attiva e fraternizzante nonostante i fiorentini sempre così critici e ironici. Potessi scegliere una città dove abitare, andrei subito a Firenze, anche se non è più quella che conobbi, cioè quella dei tempi delle Giubbe rosse, di De Robertis, di Bigongiari, di Luzi… Firenze è stata tutto per me. Un fiorentino, il letterato De Robertis mi segnalò per primo alla critica… A Firenze l’editore Vallecchi stampò il mio primo libro… Andrei a Firenze perché Firenze è ancora se stessa nonostante i tempi che viviamo. La città è una delle poche al mondo, come Parigi, che si è mantenuta intatta. Il romano a Roma non c’è più. Come in quasi tutte le città italiane, i caratteri si son persi, ma a Firenze il fiorentino c’è sempre con la sua battuta, la sua civiltà e la sua cultura. Direi che il fenomeno non è limitato solo a Firenze, ma un po’ a tutte le città della Toscana, una regione che ha goduto gli effetti della rivoluzione e delle riforme del Granducato, che era uno stato assai progredito e aveva un fior di governo…!

214 GIORGIO CAPRONI

62 UN POETA IN CERCA DELL’ANIMA

[Risposte a Cesare Cavalleri] Che cos’è la gloria?

Questa è proprio una domanda a cui non so rispondere. Non sono un santo… Riformuliamola così: per quale motivo ha cominciato a scrivere e continua a scrivere?

Da giovane dicevo che mi ero messo a scrivere per cercare, chiamiamola così, la mia anima. Volevo vedere chi sono: era un modo di chiarirmi a me stesso. E c’è riuscito?

Mah, non posso dirlo. Se avessi la convinzione di esserci riuscito, non continuerei a cercarmi. Forse un indizio di questa ricerca è anche il suo gusto – o bisogno – dell’antologia. Nel senso che molte volte ha ripreso nematicamente poesie di varie epoche in raccolte successive. Cronistoria (1943) e Stanze della funicolare (1952) sono confluite nel Passaggio di Enea (1956); L’ultimo borgo (1980), con la splendida introduzione di Giovanni Raboni, riepiloga il meglio della sua opera, comprese le poesie apparse sull’Almanacco dello Specchio n. 6 (1977) che poi sono recuperate anche nell’ultimissimo Il franco cacciatore (1982).

Nel Franco cacciatore non è che ci siano poesie recuperate. Alcune erano state anticipate nell’Almanacco, ma appartenevano già al libro, erano anticipi, non recuperi. Come nasce, allora, la fisionomia di un libro?

I primi erano, più che altro, delle raccolte di poesie. Avevo poco patrimonio, e dunque cercavo di radunare il già fatto e di unirlo alle novità. Poi, invece, mi è venuta l’idea di fare dei libri che fossero unitari, almeno nel tema centrale, da Il seme del piangere in poi. I libri antologici sono però nati anche da un bisogno di revisione del già fatto. Per esempio, se si confrontano le ultime stesure del Passaggio di Enea con gli originali, si trovano variazioni notevoli. Lo ha notato molto bene, nell’omaggio che mi fecero a Genova, il professor Mariani che puntualmente le ha annotate1. Poi c’è anche un bisogno di riordinarle cronologicamente. Ora questa mania mi è passata.

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Adesso c’è questa Opera Omnia garzantiana in fieri…

Opera omnia2 che mi imbarazza moltissimo, per tutte queste successioni. Il segno più vistoso dell’evoluzione della sua poesia appare proprio sul versante formale, della presentazione dei versi. C’è stato un progressivo scarnificare le parole per arrivare all’essenzialità «vetrosa» delle ultime poesie, con la loro delicatezza vertiginosa, ma anche con la loro forza dirompente.

C’è stato un movimento, se si può dire, a fuso, «fusolare»: ero partito da una scarnificazione ancora di carattere impressionistico, macchiaiolo, che pian piano si è amplificata e gonfiata nel poemetto, nell’endecasillabo, nel sonetto; finché poi, forse anche per il trauma della guerra, mi è venuta la saturazione di queste forme, troppo ampie, e allora ecco il bisogno di tornare alla massima semplicità possibile. Il rumore della parola, a un certo punto, ha cominciato a darmi terribilmente fastidio, tanto che adesso vorrei aver scritto poesie di tre, quattro parole al massimo. La sua poesia, infatti, è «fintamente» cantabile…

È una forma di canzonetta indurita. Se uno la legge scorrevolmente, è sempre una canzonetta; non la canzonetta del Cavalcanti (eccetto nel Seme del piangere), ma la canzone dei primitivi, dei poeti delle origini, una canzone ancora dura, come nella scuola siciliana, come nei primi toscani, o in Giacomino Pugliese. La lingua italiana non c’era ancora: c’era questa durezza. Forse questo deriva dal fatto che nella biblioteca di mio padre c’era un’antologia proprio di quei poeti, fino a Cavalcanti. Un nome riportato in voga lo scorso anno, per via del centenario, e che attende ancora una piena rivalutazione: Metastasio. Non le dice niente?

Metastasio mi dice moltissimo. Però credo che sia abbastanza lontana la mia poesia da quella di Metastasio, che pur merita un riconoscimento al di là delle mode. Comunque Metastasio l’ha letto, l’ha studiato…

Sì, sì, mi piaceva molto la sua «musicalità»: ma io cerco invece la musica. L’ho trovata più spesso nel Tasso lirico, nel Poliziano. Nel suo itinerario poetico spicca l’evidenza dell’ossimoro, della coincidenza degli opposti: il viaggiatore che non parte, il cacciatore che è preda, l’esistenza e inesistenza di Dio. Che ripercussioni hanno questi temi, e soprattutto l’ultimo, nella sua esistenza personale?

Mi riesce difficilissimo dirlo altrimenti da come l’ho detto nei versi. Certamente non è un tema letterariamente assunto. È un tema sofferto (se la parola non è esagerata) nella vita, nell’esistenza. C’è un bisogno di ricerca, di continua ricerca.

216 GIORGIO CAPRONI Ma lei prega, per esempio?

Io prego, prego molto. Ma nella maniera del «preticello deriso». E non c’è il rischio – questa è forse una domanda un po’ cattiva – che questa ricerca sui temi così alti, al confine con la teologia, finisca per diventare una specie di prezioso sofisma?

Il pericolo ci sarebbe se questi temi li facessi diventare dei pretesti letterari, ma io credo di non avere più neppure il tempo per poterlo fare… E poi c’è anche il controllo critico, la consapevolezza di averli portati all’estremo limite e dunque di doverli abbandonare. A meno che non avvenga qualche sconvolgimento a capovolgere la situazione. Quindi il pericolo è evitato dal riscontro biografico che sottostà alla ricerca letteraria…

Certamente. Qual è il suo atteggiamento nei confronti del valore della vita, oggi così in ribasso nella considerazione sociale?

Credo che tutto dipenda dall’esser venuto meno di qualcosa: di una legge, di una regola, sia essa cristiana o anche pagana. È una crisi, si può dire, di religione. E il culmine più allarmante di questa crisi mi sembra proprio consistere nel disprezzo del valore della vita fin dal suo sorgere.

Certamente. La vita, una volta che è data, non la si può togliere. Chi non la desidera, non la dia. Tanto più che dando una vita non è che si faccia, da un punto di vista non-cristiano, un grosso regalo. Perché la vita è più sofferenza che gioia: a maggior ragione, quindi, non bisogna stroncarla. Semmai, bisogna cercare di aiutarla. Lei ha un’attività intensissima e molto apprezzata di traduttore. Tra l’altro ha tradotto, in anni lontani, Querelle de Brest, di Jean Genet. Come mai?

Quella fu un’ordinazione, non una scelta. Fu una cosa professionale. La scelta fu organizzata da Giacomo Debenedetti. Non che mi attirasse l’osceno, tutt’altro. Anche nel caso di Céline, di cui ho tradotto Mort à credit, ciò che mi attirava, paradossalmente, era la bontà. Era un uomo buono, Céline. Del resto nelle traduzioni lei si è applicato soprattutto alla poesia: Char, Frénaud, García Lorca, Apollinaire. E gli autori in lingua inglese?

È una lingua che non domino, e quindi quegli autori li ho frequentati poco. Conosco abbastanza bene Robert Lowell, anche perché l’ho avvicinato perso-

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nalmente. Ho anche un ricordo abbastanza curioso. Una volta Lowell venne a Pisa, e mi invitarono a incontrarlo, insieme a Mario Luzi. Ad un certo momento, dopo la riunione conviviale, qualcuno disse: «Adesso ognuno legga una sua poesia». Tutti lessero e quando venne il mio turno lessi Lamento (o boria) del preticello deriso, dove, a un certo punto, si dice: […] prego non so ben dire chi e per cosa; ma prego; prego (e in ciò consiste – unica! – la mia conquista) non, come accomoda dire al mondo, perché Dio esiste: ma, come uso soffrire io, perché Dio esista. [Lamento (o boria) del preticello deriso, CVC]

L’indomani mattina rivedo Lowell, lì nell’albergo del Duomo, e mi dà un suo libro con una dedica: «Sperando che Dio esista almeno nella nostre preghiere». Diceva di non capire l’italiano (infatti ci parlavamo in francese), ma il Lamento del preticello lo aveva capito. Fra le sue amicizie letterarie, Sbarbaro che posto ha?

Il primo posto. Ho uno scaffale con tutti i suoi libri, e là ho i suoi dattiloscritti, le letterine che gli aveva scritto la Vivante3 e che egli mi ha lasciato prima di morire. Il nostro era un vero e proprio sodalizio. Lo conobbi in una maniera buffa: recensii, non ricordo dove, non so più quale suo libro, ed egli mi scrisse che per la prima volta aveva letto qualcosa di pertinente alla sua poesia. «Altri – diceva – hanno scritto articoli bellissimi, ma io non ci ho ci ho capito nulla». A mia volta, emozionato, gli scrissi una lettera indirizzandola: «All’Illustrissimo poeta Camillo Sbarbaro – Spotorno». Allora lui prese una cartolina illustrata e l’indirizzò: «All’illustrissimo signor Giorgio Caproni». Testo della cartolina: «Pari e patta. E mi venga a trovare». Lo andai a trovare, con Angelo Barile. E sebbene ci siamo rivisti pochissimo, ho una corrispondenza abbastanza folta. Mi scriveva spesso. Io non lo andavo a trovare perché son sempre stato un po’ appartato; non per timidezza: per pudore. E Sbarbaro aveva certe finezze. Mi ricordo che una volta mi portò in una trattoria, sempre con Angelo Barile (erano amici, ma proprio amici amici), e tutt’a un tratto, a tavola, notai che s’era annuvolato. Mi domandavo: «Avrò detto qualche corbelleria?». Ma poi, all’uscita, Barile mi indicò il nome della trattoria: «Guarda, trattoria Da Rina», il nome di mia moglie. Io non l’avevo notato, e Sbarbaro se l’era un po’ presa.

218 GIORGIO CAPRONI Siamo nel ventennale della Neo-avanguardia. Il Gruppo ’63 sarebbe oggi Gruppo ’83. Come ha vissuto quella stagione?

Sento molto il freddo del laboratorio, in quella poesia. È una poesia come in fiala. Non riesce, per me, a passer la rampe, a superare la ribalta, ad arrivare al pubblico. E tuttavia è stato l’ultimo movimento, in qualche modo, vivente. Ma, tornando alla sua prima domanda, vorrei dire che il poeta non è un uomo superiore agli altri, tutt’altro. È una qualità quasi fisiologica, come avere il naso aquilino o camuso. Il poeta non è qualcosa di speciale, come forse pensava Saba. Saba un po’ si coccolava: «Il poeta, il poeta… ». A me quella parola dà fastidio; è ingombrante. Io ho sempre pensato che nella vita ci sono tante cose da fare, oltre ai versi. Poi, se vengono i versi, uno li scrive. Ora come ora vorrei non averne mai scritti. Vorrei aver speso meglio quella che Machado chiamava la monedita del alma4.

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63 CINQUANT’ANNI RICUCITI

[Risposte a Renato Minore] È possibile ora, in un solo volume, leggere tutte le poesie di Giorgio Caproni: il fitto volume è appena uscito da Garzanti. Si inizia con Come un’allegoria (1932-1935), la conclusione è Poesia aggiunta del 1982, una lirica inedita che anticipa un nuovo libro in fieri. In mezzo c’è il Caproni più conosciuto, quello del Passaggio d’Enea, del Congedo del viaggiatore cerimonioso, del Seme del piangere, del Franco cacciatore. E c’è una breve antologia critica con testi di De Robertis, Pasolini, Raboni, Citati, Pampaloni. Un’opera di mole imponente, quasi «monumentale». O no?

L’apparenza non inganni. Le pagine sono più di seicento, ma in realtà si tratta di un totale di trecentosessanta poesie, alcune delle quali con pochissimi versi: magari un verso solo. In cinquant’anni esatti di lavoro, dunque, una media di sette poesie l’anno. Non mi sembra davvero d’aver abusato. Ma perché in un solo libro tutto il Caproni già noto?

Non si tratta propriamente di tutte cose già note. La raccolta comprende quarantotto testi inediti, almeno in volume, o pubblicati fuori commercio, come l’intera sezione di Erba francese apparsa nel 1979 in un piccolo taccuino nel Lussemburgo. Ma a parte questo, credo che abbia indotto Garzanti all’impresa l’introvabilità odierna delle mie prime raccolte, da Come un’allegoria a Il seme del piangere, cercando di venire incontro, così, alle richieste, specie da parte dei giovani. Alla ristampa dei singoli libri, ha preferito mettere insieme Tutte le poesie da me composte del 1932 al 1982, o meglio rappresentare in un sol tomo tutte le mie pubblicazioni riproducendole consecutivamente nella loro originale integrità. Rileggersi che effetto le ha fatto? Qualcuno preferisce non farlo mai.

Avrei volentieri fatto a meno, lo confesso, di trovarmi di fronte ai miei trascorsi. Ma vi sono stato costretto dalla correzione delle bozze. L’impressione provata è quella che ho cercato di esprimere nella Poesia aggiunta: una specie di aggressione di tutti i vari io («Oh cari. Oh odiosi») che sono stato nel corso della mia vita dalla quale ho tentato di difendermi chiudendo a doppia mandata la finestra, il cuore, la porta.

220 GIORGIO CAPRONI Sono molte le varianti apportate nel riprendere i vari libri che compongono il volume?

Nessuna per quanto riguarda Il muro della terra e Il franco cacciatore, salvo l’aggiunta a quest’ultimo di cinque versi intitolati Benevola congettura. Pochissime per Il seme del piangere e Congedo di un viaggiatore cerimonioso dove, più che di varianti si tratta semmai di spostamenti. Le vere e proprie varianti si trovano nelle prime raccolte, riprese dal volume vallecchiano Il passaggio di Enea (che del resto erano già in esso avvenute in gran parte), uscito nel ’56 e presto scomparso dalla circolazione. Un attentissimo studio di tali varianti, da Come un’allegoria a Cronistoria è stato compiuto da Gaetano Mariani1: purtroppo la sua morte prematura gli ha impedito di estenderlo, come aveva in progetto, fino alle ultime opere. Considera il libro il coronamento della sua opera?

Tocco ferro. Tanto che per scacciare lo spettro di una tale ipotesi (cioè per non sentirmi morto prima del tempo) ho già quasi approntato (mi scusi la parola) un nuovo libro che, per coerenza o necessità di cose, dopo la pubblicazione di Tutte le poesie dovrei intitolare… Postpoesie2! Ma le sue prose non le raccoglie più? Correva voce che stesse per farlo. È fondata?

Sì, Garzanti questa intenzione ce l’ha e da tempo. Sono io a nicchiare. Mi spaventa l’idea di rimettere mano a tutti quegli scritti, tra l’altro non facilmente ritrovabili3.

INTERVISTE E AUTOCOMMENTI. 1948-1990 221

64 [I MAGGIORI RICONOSCIMENTI NON SONO PREMI IN DENARO]

[Risposte a Luciana Corda] Giorgio Caproni assomiglia alla sua poesia, è una persona estremamente asciutta, anche nella figura, vive in maniera molto semplice, ha in casa sua molti libri e un violino perché è stato violinista.

Un semplice studente… Però tutt’ora suona.

Ma… strimpello. La vita di Caproni si potrebbe riassumere così: è nato a Livorno poi ha vissuto a Genova, poi a Roma. È stato maestro elementare, ma ha fatto anche tanti altri mestieri, vero Caproni?

Sì, ho fatto diciamo il commesso in studi legali, ho suonato in orchestrine da ballo, le quali mi hanno poi nauseato del violino perché, appunto, io pensavo a cose serie, a musica seria, poi, umiliato, ho piantato lì… Cominciai nel ’32, a scrivere; cioè, avevo cominciato molto prima scrivendo cose astruse che io chiamavo futuriste, finché poi un bel giorno capii che era la strada sbagliata e volli ricominciare da capo a sillabare la poesia e proprio prendendo il poeta che allora veniva più esecrato, il Carducci, il Carducci impressionista. L’ermetismo si può dire non era ancora sorto, se si intende con ermetismo quello fiorentino. Io posso vantarmi di essere stato il primo a parlare di Mario Luzi, il quale, studente di filosofia, mi mandò un libricino, La barca, e io pubblicai un articolone su un giornale di Sicilia, e questo mi avvicinò naturalmente. Lui mi scrisse contentissimo, e mi avvicinò appunto ai fiorentini dei quali divenni molto amico, soprattutto di Luzi, di Betocchi, Parronchi, Nicola Lisi, eccetera eccetera. Però non ho mai fatto parte di gruppi, sono sempre vissuto appartato… isolato. Ecco, lei non ha fatto né fa, come fanno molto i giovani poeti d’oggi, di andare nelle pubbliche piazze a leggere le poesie, a fare della poesia uno spettacolo.

No, non credo che la poesia possa mai rivaleggiare con il rock and roll. Non avrà mai questo potere sulle masse, quindi evito queste… piazzate, insomma. Senta Caproni, ci vuol leggere una sua poesia?

222 GIORGIO CAPRONI

Sì, nei limiti delle mie possibilità di lettore. Leggerò L’ultimo borgo. Dirò prima che il tema di questa poesia è uno dei temi fondamentali delle mie ultime raccolte, che è il tema della ricerca, non dico di che cosa. Forse proprio il gusto della ricerca in se stessa. Perché sono convinto che l’uomo con la ragione, trova sempre un limite, un ultimo borgo oltre il quale gli è impossibile procedere. Non dico che trovi il nulla, ma certamente trova l’inconoscibile e si ferma disarmato. E questa è la poesia forse più esemplare di questa ricerca. S’erano fermati a un tavolo d’osteria… [L’ultimo borgo, FC]

È una poesia che ha una coda ironica. Indicazione sicura, o: Bontà della guida (Al forestiero, che aveva domandato l’albergo) Segua la guida, punto per punto. Quando avrà raggiunto il luogo dove è segnato l’albergo (è il migliore albergo esistente) vedrà che assolutamente lei non avrà trovato – vada tranquillo – niente. La guida, non mente. [Indicazione sicura, o: Bontà della guida, FC] Ecco, senta Caproni, mi pare da quello che ho capito di questa bellissima poesia, che lei tocca proprio il problema centrale di oggi, cioè lo smarrimento, in fondo, di questa nostra società, specialmente dei giovani, che cercano qualcosa che non c’è più. Una volta forse c’erano delle certezze, oggi invece queste certezze non ci sono, tant’è vero che basta vedere questi giovani che… alcuni vanno in India a cercare chissà che, altri si drogano, altri fanno l’amore col primo che capita, insomma c’è questo smarrimento. Lei pensa che i giovani la leggano e possano dalla sua poesia avere un’indicazione?

So che molti giovani mi cercano, amano parlare con me, però non so quale conforto possano trovare da una poesia che in fondo poggia sulla negatività. È una poesia, appunto, più che altro di denunzia del crollo di tutti quelli che furono i

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cosiddetti valori di una volta. Valori bugiardi evidentemente perché uno dopo l’altro si sono frantumati e oggi l’uomo è rimasto un po’ nel vuoto insomma, non sa dove appoggiarsi più. Ecco questa ricerca, ricerca… io credo che dipenda proprio dalla costituzione umana, dal muro appunto. Della terra, come lei dice, che è il titolo di una sua famosa raccolta di versi.

È un titolo dantesco, naturalmente, tolto dal Dante. L’uomo incontra questo muro che è il limite della nostra ragione, oltre il quale non si può andare. Non riusciremo mai a varcare questa crisi esistenziale?

No, io, anzi mi correggo, quello che propongo io è appunto quello che si potrebbe chiamare ampollosamente, lo stoicismo: riuscire a fare a meno della speranza, di una speranza nell’aldilà e contare tutto sul qui e ora, insomma. Risolvere questi problemi sarebbe già molto. Io prima di venire da lei per cercare di approfondire un po’ la mia conoscenza della sua poesia, avevo cercato di leggere dei saggi critici e mi sono incontrata con espressioni di questo genere: «In Caproni si trova la situazione deittica, la deissi, le consonanti fricative…». Ora, a parte il fatto che io non ho capito cosa vogliono dire, secondo lei i critici, oggi, aiutano la comprensione di voi poeti com’era una volta, cioè fanno da mediatori tra voi e il vasto pubblico, oppure confondono le idee come a me sembra?

Beh, vi sono critici e critici: vi sono dei critici, per esempio, come Mengaldo, Raboni, che aiutano perché sono ancora chiari nelle loro espressioni, vi sono poi i cosiddetti strutturalisti, linguisti che sfoggiano appunto tutti questi termini della retorica, che per il pubblico profano sono incomprensibili. Sarebbe lo stesso se io in musica mi mettessi a spiegare le quinte coperte, le quinte scoperte, e… non so, la settima diminuita, la settima di dominante e parlassi tutto su questo tono, invece di cercare di capire lo spirito di una certa sonata. A proposito di critica, Caproni, io sempre su queste antologie poetiche e saggi critici ho letto, ed è una cosa che ho visto un po’ dappertutto, che lei ha avuto il riconoscimento dell’alta qualità della sua poesia solo negli ultimi anni.

Beh, direi di no, perché i maggiori riconoscimenti ho cominciato ad averli negli anni ’40, il primo da Bo, il secondo da Oreste Macrí e poi nel ’52 De Robertis scrisse parecchi articoli su di me che ha raccolto nel volume Altro Novecento. Poi Cecchi nel ’56; poi, dico, riconoscimenti maggiori di questi… non penso che oggi ci siano. A meno che per riconoscimenti non si intendano certi premi in denaro che allora non c’erano naturalmente così cospicui. Senta, perché secondo lei i critici continuano a dire che lei non aveva questi alti riconoscimenti prima?

224 GIORGIO CAPRONI

Beh, io credo perché siano male informati, e poi perché pensino che i premi siano i riconoscimenti. A parte che ogni mio libro, neanche a farlo apposta, è stato premiato, perfino le ristampe, perfino il libro di Einaudi ristampato nel ’68 ebbe un premio internazionale insieme a Julien Green, no? Non posso lamentarmi… Quindi allora proprio questi critici non sono attendibili in niente?

Ma non sono informati, ecco. Il maggior successo, diciamo, forse. Il successo di vendita, ma questo perché c’è in Italia un maggior interesse per la poesia. Senta Caproni per finire, lei ha intitolato il suo ultimo libro che appunto ha vinto il Premio Feltrinelli dell’anno scorso Il Franco cacciatore, che è il titolo, come tutti sanno, di una splendida opera di Weber. Come mai?

Beh, prima di tutto per il grande amore che ho per quest’opera e per questo musicista; poi perché mi ha balenato appunto che il ricercatore… il cacciatore, è uno che cerca, cerca una preda. Infatti c’è un poesia, la prima poesia del Franco cacciatore che è un dialogo fra il guardiacaccia e il cacciatore. E poi questa ricerca di qualcosa che poi non si trova, no? Questa famosa assenza. C’è un suo verso che mi ha molto colpito che dice «Dio, oh mio dio, perché non esisti?».

Prima era venuta come un’espressione così banale: «Oh mio Dio!», poi «mio Dio, perché non esisti?». Questo è successo durante la guerra partigiana che mi sono trovato questa amica di fronte e purtroppo… Ha dovuto sparare?

Non ho sparato, ma… ci siamo sparati, insomma…

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65 A PROPOSITO DI UN… FURTO!

Conobbi per la prima volta la poesie di Ungaretti di furto: letteralmente di furto, giacché fu in un libro – perdonatemi la frase un po’ volgaruccia – da me fregato, che per la prima volta ebbi modo di leggerla, e di goderla. Ammainati da poco gli adolescenziali sogni paganiniani, e seppellito per sempre il piccolo feretro nero del mio violino, portato fino ad allora così amorosamente sotto il braccio, m’ero messo a studio, tanto per non restare in ozio in attesa della chiamata alle armi, presso l’avvocato Ambrogio Colli, a Genova dove allora vivevo. L’illustre penalista (un sardo di Nuoro dalla bella faccia maschia e «sofferta», quasi direi stile Direttorio) aveva una fornitissima biblioteca formata non soltanto da tomi giuridici. E fu in quella che un giorno, per puro caso, finita di copiare la mia solita istanza «All’Illustrissimo Signor Procuratore del Re», m’imbattei in un libretto che, all’istante, m’interessò, o m’incuriosì, per la ruvidezza della carta e, soprattutto, per lo strano modo – quasi una parola sotto l’altra – com’era composto. Titolo: Allegria di naufragi, autore: Giuseppe Ungaretti. Editore: Vallecchi, Firenze, via Ricasoli 8. Anno di pubblicazione: 1919, proprio lo stesso anno della morte della novariana «Riviera ligure», nono del genovesissimo – anche se tanti Dizionari letterari, pur curati da eminenti studiosi, lo fanno nato a Ortonovo – Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, poeta di primaria importanza nella storia della nostra poesia novecentesca, al cui proposito non mi stancherò di lamentare come ancora non esista un’edizione critica della sua opera. Già molti altri libri m’ero portato a casa dalla studio di quell’intelligente legale, che poi – presi i miei appunti – avevo scrupolosamente rimesso al loro posto. Quel povero libricino no, non trovò la via del ritorno. Rimandai di settimana in settimana la restituzione, finché lasciato l’avvocato per partire militare, e sofferta fin nelle ossa la non allegra storia vissuta dalla mia generazione (nato nel ’12 con la guerra Italo-Turca, son cresciuto nella guerra ’15-18, per poi essere investito in pieno dalla dittatura e dalla seconda guerra mondiale, fino alla Liberazione), eccolo ancora, quel mio Ungaretti, qui a portata di mano nella mia libreria, rozzamente rilegato insieme col Sentimento del tempo, che mi comprai nel ’33, cioè appena uscito. L’avvocato Colli mi avrà certamente perdonato la ruberia. Quel libercolo, introvabile nelle librerie, mi era allora troppo necessario. A furia di leggerlo e di rileggerlo, sempre più in profondità, era diventato il mio abbecedario, o sillabario, della vera nuova poesia. Anzi, dirò tout court della poesia.

226 GIORGIO CAPRONI

M’insegnava per primo a ritrovare intero il sapore perduto della grande, semplice poesia parola per parola, silenzio per silenzio, e non unicamente sulle pagine rubate che mi stavano sott’occhio, ma anche, chissà per quale contagio od osmosi (ed è la più grande lezione che mai abbia ricevuto da un nostro poeta contemporaneo), sulle pagine che già credevo d’aver letto di altri grandi poeti, compresi i classici, che ora invece, dopo la scansione dell’Allegria, mi pareva non di rileggere, ma di leggere e di scoprire per la primissima volta, e con una partecipazione intima che prima non mi ero mai sognata, nemmeno con l’aiuto volenteroso, e spesso intelligente e sottile, dei miei professori. Ricordi personali a parte, credo di poter dire in assoluto che davvero Giuseppe Ungaretti sia stato per tutti noi, oltre che un grande Maestro di scrittura e di stile, il primo e forse unico maestro di lettura. L’Allegria, specie quella sua prima versione, costringe il lettore, come ho già detto, a risillabare – a compitare la poesia parola per parola – silenzio per silenzio – rieducandolo così a sentire ancora una volta, nel linguaggio lirico, come sempre in antico era accaduto, la sovranità assoluta del Verbo sulla frase (e magari sul verso e sulla medesima immagine) e a restituire quindi alla Parola (alla Poesia) tutto il suo primitivo (primordiale) potere d’incanto e d’emozione, oltre il mero significato letterale. Forse in nessun altro poeta, come in Ungaretti, la parola consentì tutt’intera l’elementarità delle energie prime, delle fonti prime: come se prima la letteratura e la poesia stessa non fossero mai esistite: come se la scaturigine del canto fosse «quella» e soltanto «quella». La sua parola che ci ha accompagnati, dentro, per tutta la vita, sempre pronta a soccorrerci, e che ancor oggi, ad appena scandirla, fulmina e calcina l’intero castello di cartapesta (orgoglio e dismisura) di questo nostro mondo chiacchierone e vano nei suoi programmi e manifesti poetici, per richiamarci di colpo alle sorgenti pure delle verità: del Verbo, appunto. Son cose che la Critica, certo, ha già detto assai meglio di me, né io qui voglio paludarmi nella veste di critico: un abito troppo ampio per la mia magra persona. Voglio soltanto cercar di giustificare qui, il motivo vero, o movente, di quel mio giovanile furto. Ma già che siamo in tema di furti, un altro devo confessarne, sempre a proposito di Ungaretti, anche se questa volta in chiave metaforica. Quando uscì il Sentimento del tempo, m’innamorai talmente di quel libro, da quasi impararlo a memoria. Ungaretti oramai mi era penetrato, come si suol dire, nel sangue. Tanto che in una mia vecchia poesia, dedicata a un albero e ripresa più tardi anche se non ancora pubblicata in volume con la debita nota, non esitai a «plagiarne» (tra virgolette, s’intende) un’immagine, per me d’un’insostituibile forza e necessità. «È nuda anche la quercia, ma tuttora Abbarbicata al suo macigno» dice Ungaretti ne Le Stagioni, in quell’edizione del 1933. E io, a un certo punto: «[…] E com’è forte, / un albero / com’è saldo / e fermo, “abbarbicato / al suo macigno” [Su un vecchio appunto, FC]».

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Insomma, già dai tempi del primo e del secondo furto (e mi si perdoni se lo dico con un pizzico di vanteria), mi ero oscuramente accorto, con cinquant’anni di meno sulle spalle, e senza nessunissimo senno del poi, della straordinaria lezione ungarettiana: dello straordinario potere rivoluzionario e (chiedo scusa per l’orrenda parola) «energetico» della poesia ungarettiana, di un avanguardismo – se proprio si vuol usare questa parola – che non aveva assolutamente nulla a che fare né con la rumorosa esplosione quasi goliardica del Futurismo, scaturita soprattutto da un gusto molto borghese di scandalizzare i borghesi, né con gli altri «-ismi» allora in azione, compresa la pur feconda esperienza crepuscolare e l’irresistibile ironia palazzeschiana. Ungaretti era, com’è rimasto d’altronde fino alla morte, un uomo intero: un classico nato e vissuto in epoca di dissoluzione della persona e della voce. E se dovette, per sorte, ricorrere al piccone demolitore contro ogni ormai logora letteratura accademica, lo fece con la necessità ch’è propria dell’architetto di genio di fronte a una stupenda cattedrale manomessa dai troppi «abbellitori»: giacché dai marmi e dalle calcine atterrate con un formidabile «colpo di cuore», per primo riuscì mirabilmente a rimettere in piedi (raccattando e ricomponendo con pazienza estrema – con estrema sofferenza – gli elementi essenziali del discorso poetico dopo averne tolte tutte le incrostazione retoriche) l’uomo nella sua naturale dimensione o grandezza: l’uomo – e sia detto questa volta senza la minima ombra di ironia – grandeur nature: senza nulla aggiungergli e senza nulla togliergli. Ebbi piena conferma di questo quando, molto più tardi, e qui a Roma, lui per primo volle conoscermi e demmo principio a una amicizia mai venuta meno, anche se a volte, maliziosamente, mi divertivo a farlo arrabbiare, non fosse che per godermi lo spettacolo delle sue memorabili ire. Finché con una risata, di quelle che sapeva fare soltanto lui, «Matto», mi diceva. «Matto». E smaltiva subito i suoi fumi per tornare ad essere quell’impareggiabile maestro di vita, in tutto degno del maestro di poesia. Anche su questo piano, era veramente un uomo intero: un cuore intero, sempre pronto a irradiar calore e fiducia intorno, e coraggio. Mi aveva sempre capito fino in fondo, e fino in fondo mi aveva sempre aiutato a capirmi. È stato lui a insegnarmi che l’uomo è solo, e che è proprio nella disperazione (nel deserto della disperazione) che nasce l’allegria del poeta. Una lezione, purtroppo, non da tutti noi messa a frutto nella sua interezza, noi che troppo spesso siamo portati a «morire di lamento» (proprio come lui non avrebbe mai voluto: lui che poi sostituì vivere a morire) «come un cardellino accecato» [Agonia, Allegria]. Proponeva dunque una vita accettata stoicamente, anche sotto i colpi più duri. Una vita – mai – di resa. E per concludere, cito appunto, sempre dal libro rubato, La filosofia del poeta: «E subito riprende / il viaggio / come / dopo un naufragio / un superstite / lupo di mare» [Allegria di naufragi, Allegria].

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66 CREDO IN UN DIO SERPENTE

[Risposte a Stefano Giovanardi] Forse, se fossi vissuto in un’epoca d’oro la mia poesia sarebbe stata del tutto diversa. Invece sono nato durante la guerra di Libia, ho assistito da bambino alla prima grande guerra, sono cresciuto sotto la dittatura, ho fatto la seconda grande guerra e sono stato per giunta partigiano. Insomma… I suoi lunghi anni di piombo Caproni li ha depositati nei versi che, pagina dopo pagina, si sono accumulati nell’arco di cinquant’anni, dal 1932 al 1982, e che ora vengono integralmente ripubblicati (Tutte le poesie, Garzanti). Un’edizione definitiva? Non esattamente. È già quasi pronta, infatti, una nuova raccolta, il cui titolo sarà con ogni probabilità Il conte di Kevenhüller: un personaggio storico firmatario di un manifesto che sul finire del XVIII secolo incitava i milanesi a dare la caccia a un enorme cane assassino, una «grossa bestia di color cenericcio». Mi dà quest’annuncio con uno sguardo un po’ divertito, che svela nel viso asciutto un’improvvisa venatura ingenua, quasi disarmata. È seduto al suo tavolo di lavoro, in quella calma casa di via Pio Foà, a cui ha dedicato ben due poesie. Sotto il cristallo, in bella evidenza, la riproduzione del manifesto firmato dal conte di Kevenhüller.

Chissà, dal titolo immagineranno che si tratti di un romanzo in versi. E invece romanzo non è. È solo la tappa più recente di un cammino poetico cominciato a ridosso dell’Ermetismo, sebbene lui ermetico non sia mai stato («Io e Bertolucci siamo i due poeti meno etichettabili della nostra generazione») e proseguito secondo un itinerario che aveva ed ha, come stella polare, la dizione essenziale, il corteggiamento di quell’unica parola capace, una volta pronunziata, di compendiare se stessa e il mondo, l’esistenza individuale e la Vita: una parola assente, eppure ammaliante, come tutti i feticci.

Il mio ideale sarebbe scrivere poesie di una parola sola. Il rumore delle parole, della loro sovrabbondanza, mi ha stancato presto. Ho provato con l’orchestra sinfonica, ma poi ho preferito la musica da camera. E anche in questo caso col massimo possibile di dissonanze: ho cercato insomma di fare musica moderna usando il sistema tonale. Un po’ quello che ha fatto, da genio, Stravinskij. Eppure c’è un sapore di antico, talvolta, nelle sue poesie…

Certo che c’è. Guardi: io ho cominciato, da giovanissimo, scrivendo poesie vagamente surrealiste, o forse futuriste, non so. Poi a un certo punto ho detto basta: ho sentito il bisogno di rimmergermi nella tradizione, dopo tante invenzioni

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lambiccate e incomprensibili. E siccome la cura doveva essere radicale, ho scelto, per iniziare questo viaggio all’indietro, il Carducci, ossia il poeta che mi era più antipatico. E così parecchi hanno detto, ma quasi sempre dietro mia indicazione, che c’è in me un che di carducciano (del Carducci «macchiaiolo», naturalmente). Comunque, Carducci a parte, le mie vere fonti sono i poeti delle origini, dai siciliani ai toscani prima di Cavalcanti: poeti che usavano una lingua in fondo ancora inesistente, e quindi dura, spigolosa, non addomesticata a ritmi cantabili. Ed è stata proprio questa durezza, questa musicalità non dico sgradevole, ma tuttavia non consolatoria, che ho cercato di riprodurre, almeno da un certo momento in poi. Neanche le immagini di mondo che lei trasmette, del resto, sono consolatorie. «Fa freddo nella storia», dice in una sua poesia [Proposito, FC]. Che cos’è, questo «freddo»?

Credo che sia la disperazione ad essere «fredda»: ma non una disperazione patetica, bensì l’azzeramento consapevole delle speranze che è proprio dello stoico. Lo sfacelo della storia che abbiamo vissuto non ammette riscatti di illusione, né la poesia è un rifugio, o un’isola felice: anzi, è lo strumento forse più acuminato per esprimere un vuoto che non può certo essere colmato da istituzioni fatiscenti e artificiose. Valga, per tutti, l’esempio delle religioni istituzionali.

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67 POETA A OCCHI APERTI

[Risposte ad Alberto Toni] Cosa si prova a veder pubblicato un libro con un titolo così definitivo come il suo: Tutte le poesie?

È un po’ come leggere sulla vetrina della propria bottega il cartello: «Svendita in blocco per chiusura esercizio». Ci si sente – o si corre il rischio di sentirsi – finiti: vecchi, se non addirittura già morti. Per fortuna, ad allontanare da me una tale luttuosa impressione, stanno le nuove cose già scritte e le altre che sto scrivendo in vista di un più o meno prossimo libro, del quale ho voluto dare un anticipo con la Poesia aggiunta, e che forse intitolerò: Il conte di Kevenhüller. Ma a parte questo, e a parte il supplizio di dovermi rileggere intero durante la correzione delle bozze, sta il fatto che molti miei libri o libretti erano da anni diventati introvabili, e sono grato all’Editore (perché l’iniziativa è stata tutta sua) di aver preferito alle singole ristampe, che avrebbero troppo alzato il prezzo dell’insieme, un unico volume contenente, appunto, tutti i versi da me scritti e pubblicati da quando avevo vent’anni (1932) al 1982; ossia tutte le mie raccolte, riprodotte nella loro naturale successione, da Come un’allegoria a Il franco cacciatore, con in più – in appendice – 44 testi rimasti inediti per il loro particolare carattere, anche se composti tra il ’65 e il ’78. Se dovesse definire il suo percorso poetico, in quali termini lo definirebbe? Quali sono le tappe che lo caratterizzano?

Mi auguro di non essere mai costretto ad una simile definizione. Come si fa a definire se stessi? Comunque – se proprio mi si mettesse il coltello alla gola – potrei chiamarlo, un po’ ampollosamente, una caparbia ricerca della mia propria persona (della mia anima, sarei tentato di dire), e quindi dell’identità nonché, dopo le prove iniziali, dell’Altro. (Ma badi che tra mezz’ora potrei anche pensarla del tutto diversamente, non avendo mai reputato definitive le definizioni). Quanto alle «tappe», pur diffidando di tale vocabolo, credo che siano le «tappe» stesse della mia vita: la giovanile, ma già inquieta, euforia dei sensi, la caduta – con la guerra – di tutte le illusioni e di tutti i falsi valori istituzionalizzati, sbugiardati dalla storia, e quindi l’estrema solitudine in cui l’uomo è venuto a trovarsi: questo povero Enea (l’ho già detto e ripetuto mille volte) con sulle spalle il peso d’una tradizione ormai crollata da tutte le parti ch’egli cerca affannosamente di trarre in salvo, e per la mano un futuro ancora così incerto da

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non reggersi dritto. Infine il vuoto lasciato dalla scomparsa di Dio, e non dico soltanto di quello bigottamente presentatoci come buon père nourricier. A quale periodo della sua poesia è maggiormente legato?

Ora come ora, soltanto a quello posteriore a Tutte le poesie: cioè al nuovo libro che sto cercando di mettere insieme. Il conte di Kevenhüller è un personaggio realmente esistito, firmatario (Milano, li 14 luglio 1792) di un pubblico Avviso esortante alla Caccia d’una «feroce Beftia di colore cenericcio mofcato quafi in nero», dalla quale «trovafi infeftata la Provincia». Ma questo non significa che le pagine «tratteranno» proprio o soltanto di tale Caccia e di tale Bestia (e semmai in termini molto sotterraneamente metaforici), bensì, come in ogni altro mio libro, anche e soprattutto di quanto compone e scompone il momento che sto vivendo. La sua è una poesia pessimista?

Non mi piace l’aggettivo «pessimista», specie nell’uso corrente che se ne fa, o meglio che ne fanno i «trionfalisti» a tutti i costi. C’è chi lo appioppa, senza pensarci troppo perfino al grande Leopardi, così potente «datore di vita» anche nelle sue radicali negazioni. Direi piuttosto che, la mia, è una poesia (se si tratta davvero di poesia) ad occhi aperti, che non ama cullarsi in illusioni di sorta (con le quali le piace talvolta divertirsi), e che proprio nella sua maggior disperanza o disperazione (intesa questa come assenza d’ogni ingannevole speranza) trova i suoi lampi d’allegria e, se mi è lecita la parola logora, di «felicità». Senza contare che la poesia, appunto perché è poesia, non è mai – né mai può essere – pessimista. Il mio «pessimismo» vero – e nero! – è un altro: è quello del cittadino che sono in questa nostra società. Le pongo una domanda, forse fuori campo: si può essere ottimisti in tale società? Se alla tv mi capita di vedere le facce di certi nostri «politici», rabbrividisco. Che cosa si nasconde dietro quelle maschere per lo più grasse e ripugnanti? Il Male (la Bestia) che proprio loro son deputati a combattere, e che tanto ci avvilisce? Mi sembra che il tema dell’assenza si radicalizzi nella sua ultima produzione…

Può darsi, così hanno detto, e certo con le loro buone ragioni, alcuni critici. Senonché tale enunciato ha finito col generalizzarsi in uno slogan troppo volentieri ripetuto dai recensori più frettolosi, col risultato di rendermelo fastidioso. La mia non vuol essere una poesia a fondo filosofico o dottrinale. Penso – o m’illudo – che nella mia «ultima produzione» ci sia qualcosa d’altro – o accanto – al «tema dell’assenza».

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68 NON ESISTE, MA NELLA DISPERAZIONE L’HO SEMPRE CERCATO

[Risposte a Giuseppe Grieco] Settimo colloquio su Dio. Si confessa Giorgio Caproni, settantadue anni in questi giorni, il maggiore poeta italiano vivente. Di lui, è appena uscito un grosso volume di oltre seicento pagine nel quale è raccolta la sua intera opera poetica, costruita lungo l’arco di un mezzo secolo esatto: 19321982. Il libro, che si intitola Tutte le poesie, ha suscitato un coro pressoché unanime di elogi, ma non è stato accolto con buona grazia dal suo autore.

Io lo odio. Perché? Ma perché libri come questo si fanno ai morti. Sono monumenti funebri che si erigono alla memoria di un poeta scomparso. Ma io non sono morto. Io sono un poeta ancora in attività di servizio. Lo dimostra il fatto che ho a buon punto un altro libro tutto nuovo, che si chiamerà Il conte di Kevenhüller. Un libro di poesia?

Naturalmente. Le prose che ho scritto, e scrivo, fanno parte di un discorso diverso. E chi è questo conte di Kevenhüller a cui si ispira la tua ultima Musa?

Per quello che ne so io, è solo il firmatario di un curioso manifesto, datato 14 luglio 1792, con il quale si avvisano i cittadini che una bestia mostruosa infesta le campagne e si ordina una «generale caccia» per stanarla e distruggerla. Il tema del mio nuovo libro, in senso umano e in senso metafisico, è proprio questo: la caccia alla bestia. E chi sarebbe la bestia a cui dai la caccia?

Potrebbe essere Dio. Potrebbe essere il Male. Come faccio a saperlo? Per rispondere alla tua domanda dovrei riuscire a stanare la bestia, a identificarla. Invece… Io non sono un uomo di fede, e ne soffro. Ma non ci posso fare niente. La fede non è un bene che si può acquistare al supermercato della vita. C’è chi ce l’ha, e chi non ce l’ha. Io non ce l’ho, e non me la posso inventare: tutto qui. Dunque un ateo, e per giunta un ateo che si compiace di definire la sua ricerca una forma di «ateologia», e cioè di teologia della negazione? Ma che senso ha cercare un Dio di cui si nega l’esistenza? La contraddizione tra la ricerca e la negazione è palese. Lo stesso Caproni l’ammette senza difficoltà. E cerca di spiegarla.

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Non è che io rifiuti il soprannaturale. Che ne so io, uomo, per affermare che dopo la vita terrena non c’è niente? La verità è che io mi fermo dove si ferma la Ragione. È la mia Ragione che nega l’esistenza di Dio. Ma la tua poesia no. La tua poesia, specialmente negli ultimi tempi, è diventata una specie di continua, ossessiva caccia a questo Dio che la Ragione ti dice che non c’è. Nella tua raccolta Il franco cacciatore c’è una breve prosa che intitoli Inserto e che dice:

Vi sono casi in cui accettare la solitudine significa attingere a Dio. Ma v’è una stoica accettazione più nobile ancora: la solitudine senza Dio. Irrespirabile per i più. Dura e incolore come un quarzo. Nera e trasparente (e tagliente) come l’ossidiana. L’allegria ch’essa può dare è indicibile. È l’adito – troncata netta ogni speranza – a tutte le libertà possibili. Compresa quella (la serpe che si morde la coda) di credere in Dio, pur sapendo – definitivamente – che Dio non c’è e non esiste. [Inserto, FC] Ora io ti domando: come si può andare a caccia di un Dio che non c’è?

Ti rispondo con le parole della stessa raccolta. C’è una poesia che dice: Andavo a caccia. Il bosco grondava ancora di pioggia M’accecò un lampo. Sparai. (A Dio, che non conosco?) [Preda, FC]

E ce n’è un’altra che suona così: L’occasione era bella. Volli sparare anch’io. Puntai in alto. Una stella o l’occhio (il gelo) di Dio? [L’occasione, FC]

Posso solo aggiungere, a commento, che la Ragione mi ha portato nel deserto di uno spazio-tempo vuoto. È in questo luogo desolato che io mi muovo, e ascolto e interrogo, soprattutto il silenzio. Un critico, Pietro Citati, ha scritto a proposito di questo «luogo», che esso «confina con tre regni: il regno dei Morti (morti che nessuna risurrezione riporterà in cielo o in terra), il regno dell’Altro (dove gli antichi geografi avevano sistemato il trono di Dio) e il regno del Vuoto. Forse il regno dei Morti e il regno dell’Altro non sono che forme del regno del Vuoto, dove non c’è spazio né tempo, né oggetti, dove respira il terribile vento dell’assenza e dell’inconsistenza…». Dopo questa premessa, lo stesso Citati si interroga sul colpo che tu spari contro la stella-occhio di Dio. Ecco le sue parole: «Che significa questo colpo? È un nuovo, reiterato assassinio di Dio, come se l’avventura metafi-

234 GIORGIO CAPRONI sica dovesse culminare nel deicidio? O egli vuole soltanto cogliere Dio, capire, afferrare, intendere Dio, con tutte le forze protese della sua mente pura e geometrica? Nello spirito polare di Caproni, le due possibilità si identificano. Dio è stato resuscitato: il Dio unico della Bibbia e del Corano, non amore, ma tremenda, incombente presenza, una stella immota nel cielo, uno sguardo gelido che ci fissa dall’alto1». Così, eccoti insieme «assassino» e «resuscitatore» di Dio. Cosa rispondi?

Che io scrivo poesie, e che la poesia è come la musica, che non deve star lì a spiattellare le cose. La poesia, ciascuno ha il diritto di intenderla e spiegarla come vuole. E Citati, quando ci si mette, è davvero bravo, molto bravo. Sempre a proposito de Il franco cacciatore, un uomo di fede qual è Giovanni Testori, ha scritto a sua volta: «Mai, credo, la negazione di Dio è stata, come in queste poesie di Caproni, la sua affermazione: quasi che Caproni avesse qui ingaggiato, con Dio, una battaglia, un ultimativo corpo-a-corpo»2. Sei d’accordo sul corpo-a-corpo?

L’immagine è bella. Perché non dovrei accettarla? Dopo tutto, l’idea del corpo-a-corpo mi piace. Io non sono un filosofo. Non sono un uomo di pensiero. Io sono un bracciante della parola. E quella faccenda della mia «ateologia» non bisogna prenderla troppo sul serio: è piuttosto uno scherzo, una cosa inventata per allegria. Da bambino hai avuto un’educazione religiosa?

Un’educazione religiosa vera e propria, no. Io sono nato a Livorno, una città dalle radicate tradizioni anarchiche e anticlericali. Il padrone della casa dove ho visto la luce, Pilade Bagni, era un barbiere che possedeva lo stemma della massoneria e che faceva rimbombare il cielo con le sue bestemmie. Sai, quelle bestemmie toscane così colorite, così piene di fantasia. Io le ascoltavo strabiliato, mi facevano una grande impressione. Forse, un pochino, l’ho anche invidiato quel tremendo bestemmiatore di Pilade Bagni. E, forse perché ho capito assai presto che non sarei mai riuscito a contendere con lui, ho rinunciato in partenza al piacere della bestemmia. Io, l’«ateologo» Giorgio Caproni, sono un uomo che in vita sua non ha bestemmiato mai. E tuo padre?

Lui sì, qualche volta. Mio padre era un uomo molto intelligente. Suonava il violino e amava la Scienza con la «S» maiuscola. Il suo Dio, se così posso dire, era la Ragione, sempre con la «R» maiuscola. In materia di religione il suo atteggiamento era quello di un’assoluta indifferenza. Ma quando stava per morire, all’età di settantasei anni, l’ho visto a un tratto farsi il segno della croce. Quel segno e basta. Appena l’ha fatto, è sceso su di lui il silenzio della morte. Allora io non ci ho capito più niente della sua religione.

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E tua madre?

Mia madre, Anna Picchi, era una donna straordinaria. Non so se andasse in chiesa. E non parlava mai di religione. Ma teneva in capo al letto un arazzo che riproduceva l’immagine di una famosa Madonna. Da bambino io non ho conosciuto il Padreterno, ma questa Madonna bellissima. Così, nella tua infanzia, non c’è stato nessuno che ti ha parlato di Dio?

Oh, sì che c’è stato. Io ho frequentato l’asilo presso le suore del Sacro Cuore. Venivano a prendermi con la diligenza, in via Palestro, dov’era la mia casa. Mi riempivano di santini. Erano molto affettuose. Ma il «buon Dio» che si sforzavano di farmi amare passava su di me come l’acqua su una pietra dura. La verità è che il Dio come lo presentano le religioni istituzionalizzate io non sono mai riuscito a concepirlo. E poi, al tempo della mia infanzia a Livorno, tutti i miei pensieri erano bloccati nel piccolo universo di via Palestro. Che cosa aveva di speciale questa via che ritorna così spesso nella tua poesia?

Era la peggiore via di Livorno, dal punto di vista della religione. Gli uomini erano quasi tutti anarchici, massoni, bestemmiatori di Dio. Non c’era solo Pilade Bagni che teneva banco di blasfemia e che per questo faceva tanto soffrire sue moglie, che era una Caproni. In quella via il Padreterno aveva concentrato i suoi figli più rognosi, che si ricordavano di Lui solo quando sentivano il bisogno di scaricare la propria rabbia contro la società, anzi contro la vita in generale. Dunque un Dio indifferente al destino degli uomini, se non addirittura cattivo?

Diciamo piuttosto un Padrone lontano, che veniva accusato di aver costruito male la fabbrica del mondo. E poi un Dio che se la faceva con i potenti. Non a caso, quando scoppiò la guerra, ci venne presentato come il Dio degli eserciti, che naturalmente doveva stare dalla nostra parte. Mi sono rimaste ancora nella memoria le parole che vennero adattate sul motivo di un popolare inno religioso. Eccole: «Deh benedici o padre / l’italiche bandier / fa che trionfino le nostre spade / nel nome santo del nostro re». Capisci benissimo che questo Dio non potevo accettarlo. Ma non potevi cercartene un altro, diciamo così «personale», che ti soddisfacesse?

È proprio quello che ho fatto, a strappi e sui tempi lunghi. Io non sono arrivato sprovveduto a Il franco cacciatore, come uno che si sveglia al mattino e decide di iniziare la caccia a Dio. La caccia a Dio c’è anche nelle mie prime poesie. Ma non è una cosa che mi è venuta dai banchi della scuola, perché la scuola che

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io ho frequentato era tutta imbevuta di positivismo e Dio non lo considerava. Questa caccia l’ho iniziata sui libri di mio padre. Quali libri?

Tre soprattutto: Il concetto dell’angoscia di Kierkegaard, Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer, e un libro di Darwin di cui non ricordo il titolo. Mio padre aveva una curiosa biblioteca dalla quale attingevo per soddisfare la mia sete di conoscenza. Devi sapere che da adolescente io sono stato un lettore furioso. Mi piaceva in primo luogo Giulio Verne, i cui romanzi divoravo come se fossero pane. Ma cercavo anche libri che non accendessero soltanto la mia fantasia. A parte i tre che ti ho già citato, leggevo molto Sant’Agostino. Ed è stato appunto sulle pagine di Sant’Agostino che ho cozzato contro il problema del Male, voglio dire il Male che proviene dalla Natura. Lì mi sono fermato. Questo problema neanche Sant’Agostino lo ha risolto. Mi sono tenuto il mio Dio che non c’è e ho continuato a dargli la caccia. Sono come il «preticello deriso» di una mia poesia, che prega affinché Dio esista. Anch’io sono un uomo che prega: un orante non so di chi o di che cosa. Forse, da questo punto di vista, sono rimasto il fanciullo che continua a ripetere le preghiere che la mamma gli faceva dire, la sera. Un giorno, a Pisa, ho incontrato il poeta americano Robert Lowell. C’è stata una lettura di poesie, e il tema era Dio. Io ho tirato fuori il mio «preticello». Mi sono detto: «Tanto lui non la capisce, perché non sa l’italiano». Invece il giorno dopo Lowell mi regala un suo libro con una dedica nella quale dice: «Perché Dio esista anche nelle nostre preghiere». Aveva capito tutto. Misteriosamente. C’è chi dice che la mancanza di Dio ti ha portato a una visione pessimistica della vita…

Non è vero niente. Io non sono pessimista, come non lo era Leopardi, il poeta che amo tanto. Per me Leopardi, anche quando si dispera e accusa, è un «datore di vita». È stato lui che mi ha impedito di diventare un nichilista, lui che non ha mai rinunciato alle sue «illusioni». La parola «pessimista» per me non significa nulla. Ha un significato, invece, la parola «disperazione». Ma per disperazione io non intendo l’uomo che si strappa i capelli, che magari si ammazza. La disperazione a cui mi riferisco è quella che sopravviene quando nell’uomo si crea un vuoto esistenziale, e in questo vuoto egli si mette alla caccia di quel che non c’è. Naturalmente, sono un lettore dell’Ecclesiaste. C’è stata una volta, nella tua vita, in cui le circostanze ti hanno portato d’istinto a invocare Dio?

Sì. Fu durante la guerra di liberazione. Io ero in una formazione partigiana, in Val di Trebbia. Fummo attaccati dai fascisti. Mentre infuriava il combattimento, un mio uomo si trovò faccia a faccia con un nemico. Tutti e due impugnavano la pistola. Ci fu un attimo di sospensione. Il partigiano e il fascista erano

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due amici, che la guerra aveva diviso. E adesso si trovavano di fronte, in una sfida mortale. Il partigiano sparò, e l’altro cadde morto. Forse anche lui sparò, ma fallì il bersaglio. Un episodio tremendo. Se Dio fosse intervenuto, la cosa non sarebbe successa. Nella guerra partigiana io ci ho fatto i capelli bianchi. Sbaglio, o questo episodio lo hai raccontato in una tua poesia intitolata I coltelli? Ma in quella poesia il protagonista che invoca Dio sei tu.

Io sono un poeta che si esprime spesso per interposta persona. L’invocazione è mia, l’orrore del gesto appartiene a un altro. Ma non siamo tutti nella stessa barca? Ecco la poesia, che fa parte de Il muro della terra: Beh? Mi fece. Aveva paura. Rideva. D’un tratto, il vento s’alzò. L’albero, tutto intero, tremò Schiacciai il grilletto. Crollò. Lo vidi, la faccia spaccata sui coltelli: gli scisti. Ah, mio dio. Mio Dio. Perché non esisti? [I coltelli, MT] Ti capita, magari distrattamente, di entrare in una chiesa?

Le chiese mi hanno sempre affascinato. Molti anni fa mio padre venne a trovarmi a Roma. Uscimmo a passeggio. Gli domandai: «Vuoi vedere la chiesa del Gesù? È un capolavoro». Entrammo insieme. C’era la Messa in latino, quella che piace anche a me. A un certo punto vidi che mio padre si inginocchiava. Sono cose che capitavano, allora. Quella Messa aveva un fascino enorme. Il torto della Chiesa cattolica, oggi, è di aver adottato l’italiano anche nella Messa per rendere comprensibile il mistero di Dio. Ma Dio non si può spiegare razionalmente. Dio è una suggestione. Nelle tue poesie parli tanto di Dio, un Dio che non esiste, e quasi mai di Cristo. Perché?

Cristo non lo nomino perché lo rispetto troppo. Il colloquio con Lui lo lascio a mia moglie, che è una cattolica praticante. Mia moglie è della Val Trebbia. Aveva un fratello che era cappellano e che è stato cameriere segreto del Papa. Aveva anche una sorella, Adelina, che è morta di un male tremendo, sopportato serenamente, con una rassegnazione tipicamente cristiana. La sua fede era di una purezza cristallina. Mi parlava del paradiso in cui sperava di essere accolta, e io non le ho mai detto: «Guarda, Adelina, che proverai una delusione». Mi chiedeva spesso di scrivere qualche poesia per lei. Ho esaudito questo desiderio solo dopo la sua morte, e me ne dispiace tanto, ma proprio tanto.

238 GIORGIO CAPRONI Vogliamo concludere con una tua poesia inedita, che faccia un po’ da sigillo alla nostra conversazione?

Perché no? Mi sembra una buona idea; ce n’ho proprio una dedicata al Diavolo. Si intitola Iattura. È uno scherzo. Sta a indicare che Giorgio Caproni, un uomo che crede solo nel Singolo come lo intendeva Kierkegaard, non solo lamenta la morte di Dio, sparito purtroppo dalle coscienze, ma anche la morte del Diavolo. Ma lasciamo la parola alla poesia, che deve essere allegra anche quando affiora dalla fonte della disperazione. Ecco i versi3: Siedo solo al mio tavolo. Mi chiedo con malinconia che altra iattura ci sia peggiore della morte del Diavolo. Il Male, senza più fantasia. [Iattura, CK]

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69 ASCOLTATE IL VATE DELLA FORESTA

[Risposte a Michele Dzieduszycki] Che effetto mi fa? Brutto direi. Mi sembra una pubblicazione postuma, commemorativa. Anche per il titolo: Tutte le poesie. Suona così definitivo… Giorgio Caproni guarda con una certa diffidenza il grosso volume che Garzanti ha pubblicato in questi giorni. Il grosso libro rappresenta anche, tra le altre cose, la conclusione di un lungo itinerario tra gli editori: che parte da Emiliano degli Orfini, di Genova (Come un’allegoria, 1936), passa dall’Istituto Grafico Tiberino (Finzioni, 1941) da De Luca (Stanze della funicolare, 1952) fino ad arrivare a Vallecchi (Il passaggio d’Enea, 1956) e infine a Garzanti (Il seme del piangere, 1959): l’itinerario di un poeta della generazione che ha seguito quella di Ungaretti, Saba, Montale. Insieme con quello di Caproni si fanno spesso altri due nomi: quello di Sandro Penna, più anziano, e quello di un suo coetaneo, un altro poeta di cui si parla in questi giorni, Attilio Bertolucci. Questi ha scritto di recente che Caproni «è fra i maestri d’arte riconosciuti (con qualche ritardo) dalla generazione che fu, e non è più, di mezzo». Oggi Caproni, 71 anni già compiuti, vive a Roma, nel quartiere di Monteverde. La sua è una vita austera, quale ci si aspetta da uno che è andato in pensione dopo aver lavorato 35 anni da maestro elementare, che dopo aver tradotto Louis Ferdinand Céline e Jean Genet ha visto Parigi per la prima volta cinque anni fa. Nel suo studio c’è uno spartito musicale aperto e c’è anche un violino, la sua grande passione giovanile.

Ogni tanto lo suono ancora, ma cerco di far piano, per non disturbare i vicini. Come è nato il poeta Caproni? A proposito della sua formazione si fanno alcuni nomi: Umberto Saba, Camillo Sbarbaro, che fu anche suo amico, ma anche un altro nome più inaspettato: Giosuè Carducci.

Eh già, Carducci. Ne parlò molti anni fa Giuseppe de Robertis, che trovò nei miei sonetti «una idea di battere e ritmare, una metrica barbara»1. Per la verità a De Robertis glielo avevo confessato io. Oggi nessuno lo legge più, il Carducci, eppure ha influito su poeti come Rebora e Campana, che ne ha utilizzato, per così dire, i mozziconi… A me da giovane Carducci non era simpatico, ma lo scelsi come modello per un atto di volontà, per avere un punto di riferimento solido. La prima poesia che ho pubblicato, quasi 50 anni fa, Marzo, comincia così: «Dopo la pioggia la terra / è un frutto appena sbucciato. / Il fiato del fieno bagnato / è più acre… ». Certamente c’è un’aria di San Martino, de «La nebbia agli irti colli». Si tratta naturalmente del Carducci impressionista, macchiaiolo. Dopotutto sono livornese.

240 GIORGIO CAPRONI Livorno, la città che Caproni lasciò a dieci anni, nel 1922, torna regolarmente nelle sue poesie, con i suoi luoghi tipici: il Voltone (l’attuale piazza della Repubblica, chiamata così perché sotto di essa passa un grande canale), lo Scalo dei fiorentini, «l’odore vuoto del mare / sui Fossi, e il suo sciacquare» [Il seme del piangere, SP]. Ma è soprattutto la città della madre di Caproni che lui rievocò nel 1959, de Il seme del piangere, un libro che segnò l’inizio di una fase nuova della sua poesia.

Mia madre l’ho amata molto. Era una sarta e una ricamatrice bravissima, tutti la cercavano; suonava anche la chitarra, è stata una delle prime a Livorno ad andare in bicicletta. Nel libro cercai di immaginarmela come era prima che io nascessi, prima che si sposasse, di ritrovare insomma la ragazza Anna Picchi. A Livorno ci torno qualche volta, ma di rado, perché non ci conosco più nessuno. E poi la mia era una bella città liberty, come le ragazze che uscivano a gruppi, la sera, dal cantiere Orlando… Oggi non esiste più. Questa storia della città ideale e perduta, cui si torna sempre col ricordo, è una costante nella vita di Caproni. Ora che vive a Roma, per esempio, rimpiange molto Genova…

Mi manca il mare, ma il mare, per così dire, commerciale. Mio padre lavorava in una ditta di export-import, mio fratello nella marina mercantile. È curioso: detesto il progresso tecnologico, ma mi piacciono i paesaggi industriali, come quello, per esempio, di Cornegliano. Ma ormai anche lì tutto è cambiato, le industrie chiudono, nel porto ci sono pochissime navi… Ma cosa faceva Caproni nel periodo tra le due guerre, quando Genova era ancora Genova? Frequentava un istituto musicale…

Sognavo di fare il compositore, non il poeta. Del resto nella poesia ho cercato sempre la musica. Poi dovette andare a lavorare come commesso nello studio di un avvocato. Fu lì che scoprì una copia de L’Allegria di Ungaretti, che fu una vera rivelazione. Decise infine di diventare maestro elementare.

Allora e dopo, con i ragazzi non ho mai avuto problemi: bastava mi sedessi in mezzo a loro e li guardassi negli occhi. Forse mi piaceva perché insegnare è un po’ come dirigere un’orchestra. Nel 1935, a 23 anni, il maestro Caproni arriva nella Val Trebbia.

Era un bel posto allora, con i suoi grandi boschi, le sue pietre rosse, le case costruite con l’architettura un po’ dialettale dei capomastri. All’inizio mi guardavano con diffidenza perché sostituivo un vecchio maestro molto amato, ma poi tutto si è accomodato. Fu lì che conobbi Rina, che divenne mia moglie. È una strana regione, quella: un po’ lombarda, un po’ ligure, un po’ emiliana. Intorno

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al Seicento, al tempo della regina Teodolinda, arrivò un santo irlandese, San Colombano, che fondò l’abbazia di Bobbio. E, secondo me, molti abitanti, ancora oggi, hanno un fisico da irlandesi. Anche mio figlio Attilio. Tanto che in una poesia parlo del suo «profilo irlandese» (molti non hanno capito perché) e anzi dell’«arpa del tuo profilo / biondo, alto / già più di me che inclino / già verso l’erba» [A mio figlio Attilio Mauro che ha il nome di mio padre, MT]. In Val Trebbia Caproni doveva tornare di nuovo nel 1943…

Se faccio i conti, mi accorgo che ho fatto sette anni di guerra. Sono stato mandato sul fronte occidentale, a combattere contro la Francia, nel giugno del 1940. È stata l’esperienza peggiore: faceva un freddo terribile, in estate vedevamo i nostri compagni morire sapendo che l’armistizio era imminente e che il loro sacrificio era inutile. Ho raccontato tutto questo in uno scritto in prosa, che sarà ripubblicato da Rizzoli tra qualche settimana col titolo Il labirinto. L’8 settembre invece mi ha sorpreso in Val Trebbia, dove ero andato in licenza. Poi hanno detto che ho combattuto con i partigiani… Non è vero niente! Non ho sparato nemmeno un colpo! I partigiani mi avevano chiesto di occuparmi dell’amministrazione, ma in pratica non potevo fare gran che. La nostra casa era piena di armi, e certo che il pericolo c’era, ma insomma… Dopo la guerra Caproni vince una cattedra a Roma, in una scuola elementare di Trastevere, e si trasferisce nella capitale con la famiglia. Negli anni successivi le sue poesie cominciano a circolare. Quella intitolata Alba (che comincia: «Amore mio nei vapori di un bar») è già molto citata tra i giovani letterati negli anni Cinquanta. Uno dei critici più autorevoli, Giuseppe De Robertis, loda le Stanze della funicolare: «un viaggio, un’epopea casalinga, vivida di umori e di amari lampi…»2. Caproni abita, allora come oggi, nel quartiere di Monteverde, alle spalle del Gianicolo.

Non lontano da qui venne a stare anche Pier Paolo Pasolini. Eravamo già in corrispondenza fin da quando abitava ancora a Casarsa. Povero Pier Paolo, insegnava anche lui, era allampanato e poverissimo. Arrivava con un biglietto del tram in mano, guardava che numero aveva, sperava che gli avrebbe portato fortuna… Abbiamo fatto insieme tante passeggiate, parlavamo anche di poesia, ma senza dir male degli altri poeti come Ungaretti e Cardarelli, i poeti della generazione precedente, che erano terribili. Camminavamo in silenzio, magari per delle ore… Nel 1954 Caproni pubblica uno dei suoi libri maggiori, Il passaggio d’Enea.

Enea è un personaggio molto più tragico di Ulisse. Ulisse vuol tornare a casa, mentre Enea la sua patria non ce l’ha più, ne deve fondare un’altra, ma non sa dove…

242 GIORGIO CAPRONI E poi, di colpo, nel 1959, con Il seme del piangere, il suo stile cambia completamente, le sue poesie diventano sempre più chiare, sempre più brevi.

A un certo punto mi sono stancato di esercizi di stile troppo complicati. Mi dava fastidio proprio il rumore delle parole. Ora le mie poesie sono state definite «canzonette» e questo termine mi dà un certo fastidio; perché in realtà non sono così semplici come appaiono. Comunque oggi il mio ideale è di scrivere poesie composte di tre o quattro parole, non di più. Questo cambiamento nello stile accompagna un mutamento nella sua vita: una grave malattia, un’ulcera a metà degli anni Sessanta…

Stavo male, mi sentivo sempre più debole, non capivo perché, bevevo per farmi forza… È stato allora che ho scritto il Congedo di un viaggiatore cerimonioso, il lungo monologo di un uomo che deve scendere dal treno, cioè dalla vita, e che comincia col dire: «Amici, credo che sia / meglio per me cominciare / a tirar giù la valigia…» [Congedo del viaggiatore cerimonioso, CVC]. Poi è passata anche questa. Ora sto meglio, ma sono debole, non posso più bere vino, faccio una vita molto tranquilla, in questo quartiere che si è imbarbarito sempre di più. Un tempo ero entusiasta di Roma. Poi mi è piaciuta sempre meno, mi è sembrata sempre più estranea. Oggi non vedo quasi più nessuno e ogni tanto uno che incontro mi dice: «Ma come, sei qui? Pensavo tu vivessi a Genova…». In realtà Caproni va a Genova, di tanto in tanto, ma torna molto più spesso in Val Trebbia.

Lì sto bene, perché almeno mi sento libero dall’ossessione letteraria. I giovani se ne sono andati, sono rimasti i vecchi paesani della mia età che ormai mi considerano uno dei loro. Il negozio più vicino è distante molti chilometri, i campi non sono più coltivati, il bosco sta invadendo tutto. Io che sono stato definito «poeta delle città» mi sto trasformando in un poeta forestale. Proprio questa poesia Forestale (ambientata in un paesaggio che ricorda quello della Val Trebbia, una campagna piena di villaggi abbandonati) che si impone nel libro Il franco cacciatore del 1982 ha avuto un grande successo di critica. Finalmente si è parlato di Caproni come di uno dei maggiori poeti italiani. Così Giovanni Raboni ha detto: «La pronuncia caproniana ci appare come una delle più originali e inconfondibili nella poesia italiana di questo secolo». E Geno Pampaloni aggiunge a sua volta che il mondo poetico di Caproni «viene riconosciuto tra i più intensi e significativi della poesie europea»3. In queste ultime poesie però c’è anche un personaggio nuovo: Dio. Un Dio che probabilmente non esiste, ma che Caproni vorrebbe tanto che ci fosse. Commentando questa che il poeta chiama scherzosamente la sua «ateologia», Giovanni Testori è intervenuto inserendolo d’autorità nelle file dei credenti, con l’argomento seguente, con un ardito stratagemma logico: «Mai, credo, la negazione di Dio è stata come in queste poesie, sua affermazione»4. Ma lui cosa ne pensa?

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So solo che l’articolo di Testori mi è piaciuto. Altro non potrei dire, ci sono domande cui non sono in grado di rispondere. Sono ateo, non sono ateo? E che ne so! Certo che da giovane non mi ponevo questi problemi, anche se è vero che mio padre, il quale era povero ma amava molto la lettura, aveva tra i suoi libri Il concetto di angoscia di Kierkegaard. Io credo nell’esistenza di quello che ho chiamato «il muro della terra» (un’espressione dantesca), cioè una barriera che non possiamo superare, al di là della quale non riusciamo a vedere. È tutto qui. Come in una delle sue poesie, L’ultimo borgo: […] Un tratto ancora, poi la frontiera e l’altra terra: i luoghi non giurisdizionali. […] [L’ultimo borgo, FC] Cosa c’è in questi luoghi? Forse Dio? L’ultima poesia del volume, pubblicata per la prima volta, si intitola Oh cari. Comincia così: Apparivano tutti in trasparenza. Tutti in anima. Tutti nell’imprendibile essenza dell’ombra. Ma vivi. [Oh cari, ora in CK] Cosa sono queste apparizioni? Sono forse i morti?

Qualcuno l’ha interpretata così, ma ha sbagliato. Sono i tanti me stesso, che si sono succeduti, e che mi sembra di vedere tutti riuniti insieme, in un solo momento. «Oh cari / oh odiosi». Arrivato, in un certo senso, alla conclusione della sua carriera, non le sembra che questo riconoscimento le sia arrivato un po’ tardi?

Prima di tutto la mia carriera non la considero conclusa e sto scrivendo un nuovo libro che si chiamerà Il conte di Kevenhüller. Per quanto riguarda i riconoscimenti mi sono sentito incompreso a lungo, ma forse ho esagerato. Dal mio secondo libro, Ballo a Fontanigorda, del 1938, in poi, non ce n’è uno che non

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abbia avuto un premio. Ho avuto due volte il «Viareggio», nel 1982 mi hanno dato il Premio Feltrinelli. In fondo non posso davvero lamentarmi, posso essere considerato una premiata forneria. Un’ultima cosa. Parlando con lei, ripercorrendo la sua vita, ci si accorge che le sue poesie non toccano o sfiorano appena certi argomenti come la guerra, la scuola, la vita a Roma, il viaggio compiuto qualche anno fa negli Stati Uniti…

Sì, è vero. Di certe cose si scrive volentieri, di altre no. E quelle su cui non si scrive, chissà perché, spesso sono proprio le più importanti.

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70 E TU, POETA, SALIRAI ALL’ULTIMA STAZIONE

[Risposte ad Antonio Socci] La poesia di Caproni si avventa sul mistero della vita e della morte come Giacobbe nella lotta con l’angelo: «Ho provato anch’io. / È stata tutta una guerra / d’unghie. Ma ora so. Nessuno / potrà mai perforare / il muro della terra» [Anch’io, MT].

La mia poesia è nata dalla ricerca del significato del vivere. È una ricerca che per me ha sempre cozzato contro un muro, il dantesco «muro della terra», oppure ha trovato un ultimo borgo oltre il quale la ragione non può più andare. Sono i luoghi non giurisdizionali; io sono un razionalista che pone dei limiti alla ragione: l’angoscia dell’uomo deriva dal non sapere cosa c’è oltre la frontiera della nostra struttura umana. Giacobbe che voleva vedere Dio in volto, Giacobbe lo zoppo, segnato per sempre da un colpo d’angelo. Maledizione o benedizione che sia, questo stesso passo claudicante è anche il ritmo della poesia di Caproni; «musica» ha osservato Giovanni Raboni «via via più difficile, irta, amara, dissonante»1. I settenari di nove sillabe, gli ossimori (il viaggiatore che non parte, il cacciatore che è preda), le asprezze della poesia italiana primitiva sono tutte conseguenze di una ferita. Ed ora il sogno di una poesia di una sola parola. Una Parola forse.

L’itinerario del mio linguaggio è fusolare: dall’iniziale scarnificazione rigonfiai verso il poemetto e l’endecasillabo. Oggi sono stanco del rumore delle parole e sogno poesie di una sola parola. A mo’ di esergo una pagina del libro riporta una frase di Annibal Caro: «Siamo in un deserto e volete lettere da noi?». È un’espressione scherzosa tratta da una lettera all’amico Gaddo de’ Gaddi che il Caro spedì dalla desolata campagna romana; ma fra le mani, fra le parole di Caproni si trasforma in un’espressione di una desolazione metafisica. Nella prossima raccolta analogalmente riporterà questa frase del Caro: «Piove e siamo all’osteria e in una terra dove non sappiamo né che dire né che fare»2. Nella poesia di Caproni, insomma, l’usuale si trasforma in mesta terra di frontiera.

Mi piace chiamare «pane» il pane, per cercare di sollevare il linguaggio quotidiano a significati quasi metafisici. Qualcuno ha parlato per la sua opera del più «grande, struggente e severo canzoniere d’esilio»3…

Sì, esilio innanzi tutto da se stessi, incertezza sulla propria identità, ricerca dell’«altro».

246 GIORGIO CAPRONI L’incognita è su questo «altro». La voce secca e tremante di Caproni ci descrive l’incontro (con Dio o con un io?). Così di rado l’ho visto e, sempre, così di sfuggita. Una volta, o m’è parso, fu in uno dei più bui cantoni d’un bar, al porto. Ma ero io, era lui? [Andantino, CVC]

Ci sono tantissimi «io» nella mia vita, e Il Conte di Kevenhüller vuol parlare di queste perdute identità. Caccia, grido, preghiera? Sì, io prego, ma alla maniera del mio «preticello deriso». Io non sono credente, ma non mi definite ateo; è una parola questa che mi ricorda, quando ero bambino, la Società degli atei che c’era a Livorno: erano tali (forse massoni) che manifestavano con stendardi dove si leggeva: «I nemici di Dio». Ed io chiedevo a mio padre: «Ma se non ci credono perché gli sono nemici?». Mio padre era un agnostico, ma appena prima di morire si fece il segno della croce. E di Cristo Caproni non parla mai…

Forse perché lo rispetto troppo. Tutto sommato io credo in ciò che scrisse Monod: «L’uomo è nato per caso, ai margini di un universo insensibile ai suoi crimini e alle sue musiche»4. Eppure c’è una generazione a cavallo tra l’epilessia del ’68 e la febbre del sabato sera che ha trovato anche in Caproni l’itinerario di una sua religiosità. Si leggeva Leopardi insieme al Viaggiatore cerimonioso di Caproni, ascoltando le canzoni di Guccini. Per alcuni giovani il poeta livornese con il suo «Fa freddo nella storia» è stato un compagno nella ricerca del senso della vita.

Questo mi lusinga moltissimo. Io cominciai a scrivere per cercare la mia anima, per cercare me stesso. E non continuerei a scrivere se mi fossi ritrovato. Mi hanno accusato di essere un pessimista, ma lo hanno detto anche di Leopardi che invece è stato il più grande esaltatore della vita. L’artista in genere tende all’evasione, io invece ho cercato di fare poesia ad occhi aperti e guardare in faccia la realtà fino a metterne in dubbio l’esistenza. Nella mia prima raccolta, Come un’allegoria, esprimevo proprio il dubbio che tutta la realtà non fosse che allegoria di qualcosa d’altro che sfugge alla nostra ragione. È forse questa ansia di significato il motivo della riscoperta della poesia da parte dei giovani, di poesia scritta, sofferta, vissuta?

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È un fenomeno eccezionale. Non è sempre poesia di qualità, ma comunque esprime bene l’ansia di una ricerca. Ci sono tantissimi giovani che mi scrivono. Io non credo nella bontà di manifestazioni come il festival dei poeti di Castelporziano. Sono un kierkegaardiano e credo nella persona: la poesia non può avere sulle masse la forza d’urto che ha il rock and roll. È un aiuto alla ricerca di se stessi. La crisi dei giovani è proprio in questa perdita d’identità, il non saper più chi sono che li fa trovare smarriti. La poesia può aiutare a cercarsi, sia che scrivano sia che leggano, perciò ha sempre una rilevanza sociale, anche se non parla di politica. Il nastro registratore ha impresso tutte le parole. Nella memoria restano le immagini del violino, dei libri e di un vecchio uomo che parla della vita. Si ripassa per via Foà, al confine tra la vegetazione di un parco e la selva dei palazzi: in alto la casa a cui Caproni ha dedicato due poesie. Si ripassano anche le parole per capire solo adesso perché fra tutte le sue poesie il vecchio poeta preferisca Parole (dopo l’esodo) dell’ultimo della Moglia.

La Moglia è un paesino dell’alta Val Trebbia dove vado ogni anno. C’è rimasto solo un vecchio; tutti gli altri si sono inurbati e si sono perduti, mentre prima lassù erano qualcuno, erano se stessi. Nella mia poesia il vecchio dice: «io non me ne voglio andare, finché ci sono io ho qualcuno che mi fa compagnia, se me ne vado in città mi perdo». Lui vuole essere se stesso fino all’ultimo5.

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71 TENSIONI E STUPORI DI UN CACCIATORE

[Risposte a Isabella Donfrancesco] «Amore mio, nei vapori d’un bar / all’alba, amore mio che inverno / lungo e che brivido attenderti!» recitano i primi versi di Alba, certamente una delle liriche d’amore più belle e struggenti di tutti i tempi. Deve essersi segretamente commosso Giorgio Caproni nel rileggerla, timida e prepotente, in apertura del Passaggio di Enea oggi incluso dall’editore Garzanti con le altre opere dello scrittore livornese in Tutte le poesie (1932-82), cinquant’anni di militanza poetica vissuta in prima persona fuori d’ogni parrocchia culturale, in volontario esilio senza commenti, senza l’enfasi di gesti inutili, lontano dal grottesco e dai clamori della mischia a cercare e cercarsi, ad autoridursi attraverso parole sempre più asciutte e armonie sempre più stilizzate. E si sarà commossa soprattutto Rina, da sempre compagna del poeta, nel riscoprirsi forse con antica curiosità e grazia destinataria di alcune tra le più singolari pagine del Novecento che ora ci giungono in questa raccolta poderosa che ne sottolinea i passaggi e le censure, le evoluzioni e le contraddizioni, le scelte e i rifiuti.

Ho già detto altrove la pena provata nel dovermi rileggere intero per la necessaria correzione delle bozze. Mi pareva d’essere aggredito da tutti i mézigues, gli «io», che sono stato in cinquant’anni di vita. Oh cari. Oh odiosi. È quanto ho cercato di esprimere nella Poesia aggiunta. Ma ora sono contento (e grato all’editore che l’ha voluto) del volume unico. Mi ha permesso di riordinare anche quelle raccolte apparse (e disperse: almeno fino a Il passaggio d’Enea) in edizioni piuttosto affrettate e confuse. Ho avuto in sorte d’esser più uccel di bosco che uccel di voliera. Forse perché vissuto a lungo in provincia, e proprio nel periodo della formazione, anche se è vero che fin dal ’35 m’ero avvicinato ai fiorentini, coi quali contrassi numerose e feconde amicizie, pur non entrando a far parte di quel movimento che fu detto Ermetico. Così come in seguito rimasi fuori del Neorealismo e della Neoavanguardia. Quanto a Saba, cui talvolta mi ha associato certa critica, devo confessare con tutta franchezza, e a mio disdoro, d’aver conosciuto la sua poesia soltanto nel dopoguerra, insieme con quella di Sbarbaro e degli altri poeti della novariana «Riviera ligure» (a cominciare da Ceccardo Roccatagliata Ceccardi), di cui m’occupai per la prima volta in una serie di trasmissioni Rai nel ’54. Il primo libro di poesia novecentesca da me incontrato fu – sul finire degli anni Venti – l’Allegria di naufragi di Ungaretti, seguito dal Montale degli Ossi e da Cardarelli, quest’ultimo da me letto allora soltanto in antologie. Ma son tutte esperienze fatte, ripeto, quando già la mia piccola macchina s’era mossa, e non so quale nutrimento abbiano potuto darmi. Forse si è fatto il nome di Saba per

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il comune amore della «quotidianità» (brutta parola coniata da alcuni recensori), almeno nelle mie mosse iniziali. Ma il poeta che sento a me più vicino è rimasto Sbarbaro, nonché l’Ungaretti dell’Allegoria e di alcuni Inni, per non dire del primo Rebora, di Campana e, naturalmente, di Montale. Questo per restare nell’ambito del Novecento italiano. Altrimenti dovrei correre indietro fino ai «poeti delle origini» (i Siciliani più che i Toscani), e di là cominciare una lista che non finirebbe più e dove spiccherebbero, fra gli altri grandi, il Tasso lirico e Leopardi. Ché se poi emigrassi all’estero, oltre i nomi canonici della nostra cultura novecentesca, dovrei pur citare il Poe-Mallarmé e gli spagnoli della «generazione del ’98» (Antonio Machado in testa), nonché, più tardi, certi romanzieri piuttosto «eccentrici» – e non sembri strano – come Céline e Genet. «Andavo a caccia. Il bosco / grondava ancora di pioggia. / M’accecò un lampo. Sparai / (A Dio, che non conosco?)»[Preda, FC]. E ancora: «Hanno rubato Dio. / Il cielo è vuoto. / Il ladro non è ancora stato / (e non lo sarà mai) arrestato»[Furto, ora in VCC]. È il motivo conduttore di molte liriche di Caproni. Rincorso e negato in varie opere. Il franco cacciatore soprattutto, attraverso la inquieta continua allusione ad “assoluti” mai nominati. («A proposito di lui – io, muto: / Lo conosco. Lo riconosco. Anche / se non l’ho mai conosciuto»[Sprazzo, FC]).

Se questi «assoluti» non li nomino forse è perché per nominarli dovrei conoscerli e quindi non più cercarli. Ma ho già detto e ripetuto la mia riluttanza (e incapacità) a parlare in termini filosofici della mia poesia. Come quando si insiste sul mio essere ateo o credente, quasi «il tema di Dio» fosse l’unico dei miei versi; e come se non si sapesse che non sono legato a nessunissima chiesa istituzionalizzata, pur se rispetto ogni fede quand’è sincera e senza secondi fini. Nella scelta di una «musica nuova ma tonale» Caproni sembra rifiutare le istanze di una dodecafonia esclusivamente strutturale, optando per un’armoniosa libertà che circoli all’interno della scrittura.

La mia «scelta», ovviamente, va intesa in senso metaforico, né vuol essere davvero una dichiarazione di voto contro la Dodecafonia in campo propriamente musicale. Parlando di «linguaggio tonale» ho sempre voluto dire sic et simpliciter, che si può fare poesia nuova senza per forza ricorrere alla frantumazione integrale del lessico e della sintassi diciamo così «tradizionali», salvo – s’intende – le innovazioni o i rinnovamenti che contribuiscono basilarmente a distinguere il timbro d’un poeta da quello d’un altro. Ungaretti, Montale e lo stesso Saba mi sembrano, al proposito, esempi più che convincenti. Presenza mai ingombrante ma costantemente vigile in un non facile percorso, è, in realtà, a lei, a Rina, che avrei voluto rivolgere alcune domande. Cosa si prova e, soprattutto come si fa a ispirare un grande scrittore – per esempio. È, invece, a lui che chiedo quanta parte giochi la donna nella sua poetica.

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Non sono in grado di definire in termini teoretici – e soprattutto mi ripugnerebbe farlo – una cosa del genere. È certo che di donne (specialmente di ragazze del popolo) se ne incontrano parecchie nei miei versi, a cominciare dall’emblematica «fanciulla che apre una finestra» della mia prima poesia, per non dire dell’Annina (mia madre ancora nubile, prima della mia nascita), protagonista de Il seme del piangere. Ma non sono forse proprio le donne ad animare, con la loro sola presenza, la cosiddetta realtà? La donna è sempre «datrice di vita», amata o solo guardata che sia, come colei – appunto – «che mette al mondo»: genetrix non soltanto di figlioli, ma di tutto, poesia compresa, senza dovere essere per forza una Beatrice o una Laura. Forse la favoletta biblica di Eva costruita con una costola di Adamo andrebbe invertita nei suoi termini. Quanto a Rina, è mia moglie: la mia Musa, direi se mi piacessero l’enfasi e la retorica, tanto più che non è così sfegatatamente femminista da pretendere che semmai la chiami… il mio Muso! Se trova questa mia risposta troppo mondana, mi perdoni! C’è molto stupore in questa frase divertita e divertente. Solitudine e stupore, dialetticamente congiunti in versi sempre più asciutti, a tratti spigolosi, aguzzi eppure straordinariamente umidi di curiosità, oggi come in passato, sono costanti di Caproni.

Solitudine e stupore. Il tema è seducente, ma preferisco consegnare il foglio in bianco, senza lo svolgimento. Solitudine e stupore, certo: i miei versi ne sono pieni. Quanto alla «secchezza» o «spigolosità» delle mie più recenti raccolte, penso che provenga anche dal fastidio che oggi, molto più di ieri, mi dà il rumore delle parole, riducendole perciò al minimo necessario e frangendone il flusso con silenzi sempre più frequenti e lunghi, del resto anch’essi in funzione espressiva per la «risonanza» che concedono (o vorrebbero concedere) alle percezioni soggettive del lettore (o ascoltatore). Dal sentimento brullo e solitario delle cose Giorgio Caproni ha tratto infatti i suoi molti stupori, scegliendo come simbolo d’inquietudine, nel momento delle certezze androcentriche, il momento di Ulisse, la critica pensosità di Enea. È la dichiarazione di una poetica, il gusto del contrappunto, l’esaltazione della vita attraverso le sue scordature, il proporsi per sottrazione o quella che è stata definita «ontologia del negativo»?

Enea indipendentemente dalla rappresentazione virgiliana, mi sembra una figura molto più drammatica e tragica di quella di Ulisse. Ulisse, in fondo, vinta la guerra, non faceva che tornare a casa. Enea, persa la guerra, e la patria, e la moglie, e tutto, è l’uomo solo d’oggi con sulle spalle il peso d’una tradizione crollante da tutte le parti e per la mano una speranza che anziché sorreggerlo ha bisogno d’essere sorretta. Quante volte l’ho già detto… …ripete glissando su tutto ciò che qualche parola in più potrebbe trasformare in enfasi. I tratti nervosi della sua personalità riassumono il rifiuto profondo per il clamore. Me lo conferma l’ul-

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tima risposta che mi dà, a proposito del nuovo libro che ha in cantiere. Dovrebbe intitolarsi Il Conte di Kevenhüller. Chi è questo personaggio?

È un personaggio realmente esistito, firmatario (Milano, li 14 luglio 1792) di un grande Avviso murale, esortante alla «Caccia di una feroce Beftia di colore cenericcio mofcato quasi in nero», dalla quale era «infeftata la Provincia». Ma sono ancora in dubbio se prender proprio da lui il titolo del mio futuro libro, dato che il motivo della caccia (e ancor più quello della «feroce bestia»), se vi appare, è in modo molto sotterraneo, almeno per ora.

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72 [L’IRONIA SALVA DALL’ENFASI]

[Risposte a Paola Lucarini] Centro della sua ricerca poetica è la questione dell’assenza di Dio; ma l’assenza di Dio non è totale, dal momento che l’uomo sente dentro di sé – inquietante – la presenza dell’assenza. Questa lotta fra credere e non credere potrebbe essere Dio?

Penso proprio di sì. Questo, e non altro. Lei ha detto molto meglio di quanto sarei riuscito a dire io che «l’assenza di Dio non è totale, dal momento che l’uomo sente dentro di sé – inquietante – la presenza dell’assenza». Inquietante, e aggiungerei – almeno nel mio caso – rabbiosa: di quella rabbia che si prova sempre di fronte a un sopruso, qual è appunto il furto che ci è stato fatto di Dio: forse da parte di Dio stesso, in questo imperdonabilmente colpevole. Cito a proposito un critico d’eccezione – il poeta Mario Luzi – il quale recensendo Il muro della terra ha messo perfettamente a giorno questa che forse è la più nascosta radice del mio malessere. «Caproni», ha scritto, «accusa qualcuno – e qui la sua poesia è irresistibile – di questo furto: qualcuno che potrebbe essere la storia dell’uomo moderno e Dio stesso, il quale così raramente era stato presente col suo paradosso come in questi versi. Non mi stupirei se essi divenissero il codice di una provata religiosità moderna tanto più che la richiesta di una fede rimbalza con tenerezza e con rabbia tra le ferme e quasi estatiche ipotesi sull’assenza del suo oggetto»1. (Luzi non aveva certo letto questo mio epigrammuccio scritto per scherzo e rimasto inedito: «Hanno rubato Dio. / Il cielo è vuoto. / Il ladro non è ancora stato / (non lo sarò mai) arrestato» [Furto, ora in VCC]). Comunque, io non so parlare di Dio. Dio, per me, è ineffabile. Basta nominarlo (ridurlo a un nome) per negarlo. Tra uomo e Dio, tra simbolo e realtà, la partita è aperta: quali mosse lei si appresta a fare sulla scacchiera?

Alla mia età, il futuro è un’ipotesi tropo labile perché uno possa meditar programmi. Per giunta, non so giocare a scacchi, e le mie mosse le ho sempre fatte d’azzardo e improvvisando a lume di naso. Credo però che la partita alla quale allude resti – per tutti – perduta in anticipo. La realtà dell’uomo le sfugge, la realtà di Dio le sfugge: e allora a che cosa si volge? Forse all’incapacità dell’uomo di superare il muro della ragione, oltre il quale ci attende la verità?

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Vedo che lei ammette implicitamente, come un’evidenza, che esista una realtà dell’uomo e una realtà di Dio. A me non è che «sfuggano» tali realtà. È che io non credo alla cosiddetta realtà. Le cosiddette figure reali che noi percepiamo (ombre filtrate dalle crepe del nulla, e transitoriamente condensatesi in forme e colori), forse non sono che allegorie di un qualcosa d’altro e d’imprendibile. Come un’allegoria e Finzioni volli di proposito intitolare le mie primissime plaquettes, pur tutte accese come sono della festa dei sensi. Lei è definito un «Maestro silenzioso», in quanto ha sempre lavorato nell’ombra seguendo l’inclinazione della sua natura schiva: come vede la bagarre rumorosa dei poeti che per imporsi approfittano di ogni opportunità come i mass media e i sistemi pubblicitari pur di esibirsi, pur di ottenere udienza?

Lasciamo andare il «Maestro silenzioso». Ma quelli di cui lei parla non sono mica poeti. Appartengono alla fauna – da noi numerosissima in tutti i campi – degli istrioni, dei gigioni. Lasciamoli fare. Hanno bisogno di «successo» come i pesci hanno bisogno d’acqua. Vogliono trasformarsi – e sono sulla buona via – in mostri sacri. Facciamo un passo indietro: vogliamo ricordare la Livorno della sua infanzia? Le radici sono lì, lo spirito resta toscano, anche se in seguito si è trasferito a Genova e a Roma, dove attualmente risiede.

È vero, la «mia» Livorno deliziosamente ciana e liberty, e così pronta di mano, mi è rimasta nel sangue. Anche se poi mi sono ingenovesito. A Genova mi sono formato, anzi è Genova ad avermi formato. È naturale che mi senta attaccatissimo a quella città, mentre con Roma non sono mai riuscito a far lega. Comunque, la toscanità uno non se la leva di dosso neanche facendo un bagno nell’acqua bollente. I modi asciutti (nel fisico come… nella sintassi) mi vengono da lì, dalla Toscana. Quale episodio degli anni in cui, maestro, insegnava ai bambini delle elementari le piace ricordare?

Volessi far lo spiritoso potrei ricordare questo. Novizio dell’insegnamento, il primo giorno mi misi in cattedra recitando una lezione – informatissima dal punto di vista scientifico – sulla digestione. Poi intimai il rituale riassunto. Il più bravo della classe (mentre gli altri rimasero col foglio in bianco), scrisse di getto: «La digestione si mastica coi denti, poi ci sono due tubi che si chiamano feci». Alzò la mano, e mi disse: «Sor maè, non so più andare avanti». Sfido. Aveva fatto una sintesi stupenda. E io imparai ad abbassar le penne, e a trasformarmi, da maestro, in amico e compagno, traendo dalla frequentazione coi ragazzi (preferivo radunare nella mia classe tutti i «trovatelli» o «figli di nessuno», allora distinti da un grembiulino nero invece che blu) le maggiori soddisfazioni. Scappavano dal brefotrofio per venirmi a trovare. Uno di loro, ormai già macchinista nelle FF.SS., mi fece, incontrandomi: «Signor maestro, lei è certamente un bravo scrittore. Ma quello che ha fatto per noi vale mille volte di più». Fosse vero.

254 GIORGIO CAPRONI Carlo Betocchi mi ha rivelato che durante il periodo di guerra avevate intrecciato una corrispondenza; non vorrei sembrar curiosa, anche se lo sono per davvero: che cosa vi siete scritti?

Di tutto, ma senza nulla di trascendente nei nostri discorsi sempre puntati sui piccoli (o grossi) patimenti quotidiani: sulle nostre piccole (o grosse) croci. Lui con la sua viva allegrezza confortatrice di cristiano, io col mio piatto piagnisteo di povero miscredente. La nostra corrispondenza, anche se a strattoni, non si è mai interrotta, e ogni sua lettera è sempre stata e continua ad essere una festa per me. Quando abitava a Roma lo andavo a trovare spesso, in quel buio quartieraccio che era allora il Tuscolano. La Mima mi voleva bene, e anche la piccola Silvia, che ascoltavo a bocca aperta al pianoforte. Di persona l’avevo conosciuto soltanto nel ’50, quando di sorpresa Ferruccio Ulivi, da poco morta mia madre, me lo portò in casa in Viale dei Quattro Venti. Rimasi così emozionato, da buttar giù a tamburo battente, per l’occasione, una poesiola in verità assai bruttina che si trova nel Seme del piangere: mentre lui, il 18 aprile del 1957, me ne scrisse su cartolina postale una delle sue più belle, poi pubblicata nell’Estate di San Martino col titolo: Per Pasqua: auguri a un poeta. La rilegga. Capirà meglio gli argomenti dei nostri discorsi. Durante la Resistenza è stato partigiano: quali tracce ha impresso nella sua formazione quel periodo?

Mi trovavo in Val Trebbia (nell’Alta Val Trebbia, dov’è una casa di mia moglie, e precisamente a Loco di Rovegno sotto Fontanigorda) e all’arrivo dei partigiani non ho esitato ad affiancarmi a loro. Ho assistito a combattimenti atroci: tedeschi, mongoli, turkestani, alpini della «Monte Rosa», repubblichini e via dicendo infuriavano nella zona in continuo fuoco incrociato coi «garibaldini» della VI Divisione «Cichero». È stata una esperienza terribile, che ha lasciato nel mio animo impronte di sgomento e sbigottimento, assai più che la guerra vera e propria. I morti mi inorridivano, di qualunque parte essi fossero. Di tale mio «smarrimento» si ha un’eco, oltre che in alcuni sonetti intitolati Gli anni tedeschi, in vari miei sonetti mai raccolti in volume tra i quali, soprattutto, Il labirinto, scritto nel ’45 e apparso su «Aretusa» un anno dopo2. La sua passione per la musica – ha suonato il violino fino a diciotto anni – è ben nota. Quale rapporto vibra fra la musica e la sua poesia?

Più che allo studio del violino, attendevo allo studio dell’«armonia», avviamento alla composizione. Arrivare a comporre musica, più che a fare il violinista, era la mia ambizione, ahimè frustrata. Credo che tale studio abbia influito molto (in bene o in male, non so) sulla mia ricerca in campo poetico. Aborrendo la «musicalità», ho sempre tentato di raggiungere i risultati della «musica» attraverso il linguaggio poetico. Credo che musica e poesia siano arti sorelle, proprio perché le meno (o le più, secondo il senso che si dà al vocabolo) esplicite.

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Mirano entrambe a suscitare, più che a suggerire, emozioni destinate a mutarsi in sentimenti e in idee. Attraverso un lungo iter di sperimentazione, un’assidua ricerca di forme metriche combinate, è approdato alla elaborazione di un linguaggio nuovo, tra popolaresco e aristocratico, una strategia compositiva d’incredibile suggestione, di straordinaria grazia. Pensa che la fedeltà intelligente a questo piano di lavoro – incessante attenzione alla metrica e alla ritmica – le consentirà esiti formali ancora più felici e inattesi in futuro?

A proposito del mio «futuro», potrei ripetere la risposta alla sua seconda domanda. Ma non voglio civettare, e le dirò soltanto: me lo auguro. Anche perché così mi auguro una più lunga vita, e soprattutto evito il pericolo – sempre in agguato come l’indiano-ombra di Apollinaire – di peccare d’immodestia. L’ironia tormentosa risulta componente essenziale dei suoi versi, ne sorregge magnificamente la struttura, viene dal profondo, chi lo sa, forse dalla toscanità cui accennavamo prima…

L’ironia salva dall’enfasi, e anche dalla voglia di tener alto l’indice. Sì, probabilmente, in me, la sua origine è «etrusca». Quali poeti ritiene compagni di strada? C’è chi indica Cattafi, purtroppo scomparso, come il più vicino a lei per affinità di pensiero e altezza d’ingegno. È d’accordo?

Se per «compagni di strada» intende i poeti della mia stessa generazione che – per virtù della loro poesia più che del loro pensiero – ho più attentamente e appassionatamente seguito, dirò in ordine alfabetico Bertolucci, Bigongiari, Gatto, Luzi, Parronchi, Penna, Sereni, ecc., tanto per limitarmi a quelli apparsi prima della fine della guerra. Non nomino i poeti delle precedenti generazioni, perché mi parrebbe ovvio, anche se un’eccezione voglio farla per Betocchi e per Sbarbaro, che sempre ho sentito a me così vicini nella loro assoluta diversità. Quanto a Cattafi, che ho conosciuto più tardi perché di dieci anni più giovane di me, mi vanto d’essere stato tra i suoi primissimi «estimatori» e recensori, pur non stando a me stabilire possibili paralleli. Lei viene considerato uno dei più fini traduttori di poeti e letterati francesi: Céline, Genet, Apollinaire, Frénaud, Cendrars, Proust, Maupassant. Quali di questi grandi l’ha ispirato di più, a quale si sente maggiormente vicino?

Può aggiungere, alla già lunga lista René Char, da me tradotto per Feltrinelli nel ’62. Ed è una lista che di per sé basta a testimoniare come io non abbia mai seguito, nella mia «carriera» di traduttore, il criterio della cosiddetta «congenialità». Anzi, par che di proposito abbia scelto autori quanto più possibile lontani da me. Così devo a tutti indistintamente qualcosa, proprio perché mi hanno costretto, appunto per la loro «diversità», a esplorare e a risvegliare in me, por-

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tandole allo stato diurno, zone della mia coscienza che altrimenti sarebbero rimaste dormienti, e allo stato notturno. Senza dire l’arricchimento che mi hanno dato dei miei mezzi o strumenti espressivi, pur non avendo mai fatto il verso a nessuno.

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73 IL PARTIGIANO GIORGIO

[Risposte a Claudio Marabini] Leggo alcuni dei racconti più belli che mi sia capitato di leggere. Sono di un poeta, non di un narratore; ma di un poeta che ha la narrativa nel sangue e che conosce, con la verticalità vertiginosa dei sondaggi nel mistero della vita, l’orizzontalità piatta dell’ossessivo procedere delle cose quotidiane. Si tratta di Giorgio Caproni e questi racconti gli sono stati strappati dal fiuto di Sergio Pautasso, che li ha recuperati dagli anni lontanissimi in cui videro la luce. Esattamente: Giorni aperti fu scritto a Roma nel 1940 durante una breve licenza militare e apparve nel ’42 nella collana di «Lettere d’oggi» creata da Giovanni Macchia e da Gian Battista Vicari; Il labirinto fu scritto tra il ’42 e il ’45 in Alta Val Trebbia, vinse un concorso e fu stampato nella rivista «Aretusa» del gennaio-febbraio 1946 (ampliato in «Tempo presente» del luglio 1960); Il gelo del mattino fu scritto a Roma sul finire del ’47 (ultimo capitolo di un romanzo, La dimissione, mai portato a compimento e del quale apparvero qua e là, nel ’48, alcuni frammenti) e pubblicato in parte su «Il lavoro nuovo» all’inizio del ’49, intero su «Paragone» del ’52 e in plaquette nelle edizioni di Salvatore Sciascia di Caltanisetta nel ’54. Queste notizie, che ricaviamo da una noticina dell’autore1 al volume Il labirinto, sono importanti perché anticipano i testi rispetto a quella narrativa del neorealismo a cui qualcuno può essere tentato di accostarla; in particolare a quelli di Pavese e soprattutto di Fenoglio, che comparvero sulla scena più tardi. Il riferimento va ai racconti partigiani di Fenoglio, alle superbe pagine dei Ventitrè giorni della città di Alba, che uscì nel 1952. Qualcuno potrebbe definire «fenogliano» proprio il racconto che dà il titolo al libro, Il labirinto, e dovrebbe invece capovolgere l’aggettivazione, anticipando a Caproni il diritto di incominciare un illustre solco. Ma non è questo un punto fondamentale. Fissate le date a conforto della filologia e della storia letteraria, e magari riconosciuta una temperie che dalla guerra ricavava modi e ritmi, quello che vale sottolineare è lo spirito caproniano di queste prose, che non è altro che remotissimamente collegato alle maniere del neorealismo. Personalizzate al massimo, anche quando si svolgono sulla terza persona, le tre storie vivono profondamente di atmosfere spirituali, di vertiginose angosce e ansie, di sottilissime nostalgie: anche Il labirinto, che per certa secchezza, per il peaesaggio, per il fatale incalzare della tragedia può essere avvicinato al ricordo dei posteriori racconti di Fenoglio. Il primo racconto, come dice l’antico sottotitolo2, narra l’itinerario di un reggimento dal fronte occidentale ai confini orientali; il secondo, l’esecuzione di una traditrice da parte di un gruppo di partigiani; il terzo la morte per malattia di Olga, una giovane donna alla quale l’«io» narrante è legato d’amore contrastato, scavato con disperazione sino all’abisso dell’anima. Ora, nel primo non v’è il minimo sentimento della guerra ma soltanto un freschissimo senso della verginità del vivere anche dove il sangue macchia l’erba; nel secondo basta il ricordo di Ada, magistralmente sovrapposto in sogno alla ragazza uccisa, a proiettare il racconto nell’orbita del più alto romanzo d’atmosfera; il terzo è un capolavoro psicologico: ma entro la psicologia misteriosa che presuppone la fatalità del male. Da questo libro rizzoliano il discorso può prendere le mosse e attaccare un territorio invitante: avendo subito stabilito che la qualità del narratore, non quello che avrebbe potuto essere, ma quel-

258 GIORGIO CAPRONI lo che è concretamente e precocemente stato – precocemente su se stesso ma soprattutto su gli altri contemporanei – è meravigliosamente assodata. Ne abbiamo parlato con lo stesso Caproni. Accendendo mozziconi di sigarette divise in tre per fumare di meno, con un mezzo divertito sorriso, Caproni dice:

Pensa che ero partito con l’idea di fare il narratore! Amavo di più i romanzi! … Certo, è facile scoprire una vena narrativa nella mia poesia. Ora, con questi racconti in mano, mi trovo sbalestrato. Non li so giudicare. Nessuno mi ha detto che sono brutti. Ma nessuno dice la verità. Certo, credo di avere il diritto di considerare Il labirinto il primo racconto partigiano uscito da noi… Mi chiedi quanti racconti ho scritto nella vita? Tanti, ma nel ’48 ho chiuso con la narrativa: da allora ho scritto solo interventi critici in prosa. Scrivevo racconti per guadagnare qualcosa. La poesia non bastava. Alcuni li pubblicavo anche tre o quattro volte. Ma mi costavano fatica: non mi venivano, scusa, come una pisciata e mi ci impegnavo molto. Me li chiesero in seguito Debenedetti e poi Rizzoli; ma andrebbero riveduti… Neppure li posseggo, né li ho riletti. Furono tutti scritti per forza, tranne questi tre del libro. Sono molto affezionato a Giorni aperti, dove c’è il linguaggio della mia prima poesia. Il labirinto sta con Funicolare. Il gelo della mattina è quello che mi sta più caro: Olga è un lontanissimo amore. Il labirinto è tutto autobiografico: la donna mi ricordava una mia ragazza e il dilemma se liberarla o ucciderla è stato vissuto… Vedi, nella narrativa la parola deve sparire nel fatto. Nella poesia deve diventare musica. La poesia non deve essere musicale ma musica. Musica sono anche gli spazi bianchi. La rima diviene portante; in Dante è tale. Nel ’47 scrivevo nella «Fiera» sul linguaggio poetico e quello della comunicazione, e senza saperlo facevo della semiologia parlando di codici di normale comunicazione e di segnali. Dicevo segnali e non segni, come si direbbe oggi. «Beato te che il regno ampio de’ venti»3, è musica… Mio padre e mia madre amavano la musica e quando ero ragazzo Livorno era assai viva musicalmente. Mio padre era ragioniere, aveva molti libri, sapeva a memoria il Monti e il Tasso e copiava spartiti. Suonava violino e mandolino; mia madre suonava la chitarra. Mio padre aveva anche forti curiosità scientifiche. In casa c’erano Darwin insieme a Schopenhauer… E io leggevo di tutto: Alain Fournier, Kafka, Kierkegaard e Verne… Ma torniamo ai racconti…

Mi trovo sbalestrato, sì. Chi dice la verità? Vero è che qui tutto è vero: veri sono i luoghi di Giorni aperti, e anche i personaggi. Nel Labirinto sono cambiati solo i nomi: io sono Mariano… Belli o quel che sia, chi ha scritto un racconto partigiano prima del Labirinto?

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74 LA MUSICA È LA REGOLA DELLA MIA POESIA

[Risposte a Nico Orengo] Giorgio Caproni alza appena la sua bella testa, scavata come un tronco d’ulivo, inquieta e nobile come quella di un’upupa. Minuto e composto nello studio ordinatissimo della casa romana vuol correggere gli errori nei suoi due libri da poco usciti: Tutte le poesie da Garzanti, e Il labirinto, tre racconti poco conosciuti nella raffinata collana «Piccola Scala» di Rizzoli.

Son pignolerie da letterato. Ma intanto con la biro, corregge, a pagina 61 delle poesie, nel secondo verso, un «suo» con «tuo». E nei racconti a pagina 23 un «era», con «ero», a pagina 88 un «e io non pensai» in «e io pensai», a pagina 106 cambia «aggiunsi con voce» in «aggiunsi a caso con voce».

Non rileggo i libri che pubblico proprio per non trovare errori. Ma quel «suo» al posto di «tuo», l’ho sentito in televisione. Ci sono rimasto male. Comunque, quando dico che l’uomo è nato per caso ai margini dell’universo penso alla teoria di Monod1. Ma aggiungo che non riesco a immaginare il cosmo senza l’uomo. Dalle sue esperienze militari, prima a Sanremo, poi in Val Trebbia, nascono i racconti de Il labirinto, un girovagare senza senso tra il confine con la Francia e i paesi appenninici, un incontrare drammatico la morte in combattimento, l’accorgersi tragico che una spia può essere una bella ragazza, sorella di un amico. Sono racconti scritti, agli inizi degli anni Quaranta, prima de Il partigiano Johnny di Fenoglio o La casa in collina di Pavese?

Sì, e sono racconti a sfondo autobiografico. Provavo un senso labirintico di fronte ai morti, i nostri, quelli tedeschi. La morte è sempre morte, da qualsiasi parte avvenga. Ma questi racconti li ho scritti per forza, me li chiedevano le riviste, i giornali. Già fra il ’37 e ’38 avevo scelto la poesia. La nostalgia del narratore mi è sempre rimasta. Quanti racconti ho scritto? Quanti ne ha scritti Hemingway. Ma vorrei che proprio le mie poesie fossero lette come un romanzo, a frammenti. Giuseppe De Robertis, negli anni Sessanta, ha parlato di «epopea casalinga»2 e Franco Fortini, nel ’70, di «sorta di romanzo familiare3», per l’opera in versi, che oggi il volume garzantiano testimonia in un arco di cinquant’anni. Dal 1932 al 1982, da Come un’allegoria a Poesia aggiunta, è riunito il lavoro di uno dei nostri poeti più solitari, estranei ai novecentismi dell’Ermetismo e Simbolismo, d’influenza italiana o francese o anglo-americana. Ma il libro, dice Caproni, con una punta di civetteria, lo irrita, lo fa monumento, mentre lui è ancora attivo, continua a scrivere.

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A sprazzi, a momenti, in tram, in macchina. Continuo a rimuginare un verso nella testa. In genere è un verso: quello iniziale o di chiusura che fa svolgere il tema. Sono più di 600 pagine.

Sì, ma le poesie sono 350. E se vogliamo giocare alle statistiche, alle medie, dividendole per i miei cinquant’anni di lavoro, fa…? Sono sette le poesie all’anno, che Caproni ha inseguito, perché aggiunge:

Il poeta è uno e bino. La scrittura nasce dall’inconscio, viene da lì, la ragione poi la corregge. La poesia assomiglia al sogno e il poeta ne è responsabile solo fino a un certo punto. Questa sua «epopea casalinga» fra mare e quell’«architettura dialettale» ligure di case in pietra, che «lega con il verde», dove l’intonaco sostituisce, «per risparmiare», il colore, si dipana in racconti di ragazze, squarci di vicoli cittadini, immagini di una madre perduta, viaggi alla ricerca, piccola o grande che sia, dell’avventura dell’uomo, senso angoscioso di un «confine».

Quello del confine è uno dei temi che sento di più. Già era presente nelle Stanze della funicolare, per me è il punto dove la ragione umana si ferma, dove c’è l’ultimo borgo, dopo s’incontra il muro della terra: quello è il confine della ragione umana. L’unica fuga, l’unico «oltre» possibile allora è metafisico? Caproni scuote il capo:

Io non sono trascendente e neppure per una teologia negativa. Sono credente, miscredente: va a momenti. Non aspiro a una vita oltretomba. La specie continua, muta, scompare. Ma non sono nichilista. Eppure i colori nelle sue poesie sono cambiati, dei rossi carichi dei versi giovanili, oggi cosa è rimasto?

Poco, oggi predominano i colori dell’acciaio, del piombo. E dei sensi qual è quello che privilegia?

L’udito, e lo sguardo. Sono stato musicista, la mia mania è di costruire versi che abbiano un loro centro; oggi molti giovani scrivono con parole che vanno per conto loro. Io ho voluto costruire un sonetto moderno, un sonetto monoblocco. Anche in musica, con il sistema tonale si è fatta musica moderna, Stravinskij è arrivato alla dodecafonia tardi. I miei autori sono stati Poliziano e Tasso. La parola per Caproni è un completo amore. Non lo dimostra solo come poeta, ma anche come traduttore. È lui che ci ha fatto leggere, fra gli altri, Céline, Genet, Frénaud, Char.

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Céline mi ha affascinato in Morte a credito. Lì ho capito l’impossibilità di tradurlo. Per i francesi l’argot è una seconda lingua, noi non abbiamo una lingua popolare nazionale. Céline raccoglie le parole dai marciapiedi, Genet inventa un argot letterario. Tradurre è un arricchimento del proprio linguaggio. Obbliga a svegliare in noi zone di coscienza che altrimenti rimarrebbero oscure, dà un’esperienza maggiore alla vita. Dei poeti di «Riviera ligure», la rivista fondata da Mario Novaro, e sulla quale scrissero Boine, Gozzano, Montale, Barile, Sbarbaro, chi ricorda con più affetto? Caproni non ha esitazioni, indica l’archivio di Sbarbaro che tiene parte della sua libreria.

Ci siamo conosciuti in modo buffo. Gli scrissi: «Illustre poeta». Mi rispose con una cartolina illustrata con su scritto: «Pari e patta (mi venga a trovare)». Ci andai con Angelo Barile. Sbarbaro mi aspettava alla stazione di Albisola. Prendemmo una carrozza per arrivare a casa. Barile parlava, parlava. E Sbarbaro gli disse: «Zitto, che non può vedere il paesaggio». A casa aggiunse: «Non le faccio vedere i licheni. Li mostro a chi non mi piace». Mi portò in una trattoria, più tardi. Aveva scelto «La Rina», il nome era lo stesso di mia moglie. Costantemente, nel rapporto con gli amici, aveva queste attenzioni, queste delicatezze. Cosa sta scrivendo Caproni, per non arrendersi al volume di tutte le sue poesie? Il conte di Kevenhüller, il personaggio…

…è il firmatario di un manifesto del 1794, con il quale invitava i cittadini a una «caccia generale» contro un’orribile bestia che infestava le campagne. E questa bestia chi è?

Bisognerebbe prenderla, per saperlo.

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75 UN CANZONIERE DELL’ESILIO

[Risposte a Franco Simongini] Adesso è uscito dalla Garzanti il volume di Tutte le poesie. Mi sembra che tu non sia soddisfatto di questo titolo, no?

No, mi dà un po’ un’idea mortuaria… per lo più, insomma, queste opere omnie si fanno post mortem, no? Come giubilazione. Tu preferivi Tutti i versi, mi sembra.

Ah, il titolo avrei preferito Tutti i versi in quanto uno non è mai sicuro se è una composizione o una poesia; che siano versi non c’è dubbio, magari scritti male, ma versi. La poesia è una parola talmente alta, sebbene oggi sia inflazionata, son tutti grandi poeti, tutti poeti… Eh beh, son tutti grandi pittori, grandi scrittori…

Tutto grande oggi. Ecco, che cos’è per te la poesia, così, in poche parole?

Eh quello proprio non… credo che non lo sappia dire nessuno che cos’è la poesia. Io penso che per me sia stata una ricerca fin da ragazzo di me stesso, della mia identità, cercare di capire chi sono e attraverso di me cercare di capire chi sono gli altri. Perché io penso che il poeta sia un po’ come il minatore, che dalla superficie cioè dall’autobiografia scava, scava, scava finché trova un fondo nel proprio io che è comune a tutti gli uomini, scopre gli altri in se stesso. E adesso tu però stai scrivendo: hai altre poesie inedite?

Infatti l’ultima La poesia aggiunta, l’ultima del libro è la prima del prossimo volumetto che farò. C’è stata un’influenza ermetica nelle prime poesie?

Ma io penso che non poteva esserci perché io cominciai prima. Però dipende da cosa si intende per Ermetismo, perché c’è chi parla di primo Ermetismo, di

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secondo Ermetismo. Il secondo Ermetismo è venuto leggermente dopo di me, quindi le mie prime poesie non possono certamente risentire di poeti del secondo Ermetismo. Il primo Ermetismo era quello di Ungaretti, ma non credo che vi sia un’influenza di Ungaretti nelle prime poesie. Forse di più nelle ultime. Perché Ungaretti è ingiustamente dimenticato; viceversa certe spezzature del verso, certe concisioni, io penso che se si dovesse fare un nome in Italia, il primo è stato Ungaretti. A parte il fatto che, come ti avevo detto un momento fa, il primo libro di poesie dove io ho imparato a compitare la poesia moderna è stata l’Allegria di Ungaretti. Io ero abituato ai poeti classici studiando musica per lo più si ricorre al Poliziano, ai madrigali del Tasso, al Rinuccini… quindi poeti moderni non… Quindi è stato uno shock accostare Ungaretti?

Certo, per l’appunto; ma guarda, m’aiutò poi a capire meglio i poeti cosiddetti classici. Montale, invece?

Ah, Montale anche lì l’urto quando io comprai gli Ossi fu forte, insomma. Questa poesia nella quale… fu strano no? Allora noi non capivamo quasi niente, nel senso volgare della parola capire, però si sentiva quest’ondata di musica, non musicale, di musica, prepotente che ci colpì, colpì molto la mia generazione. Come linea ligure poi, il padre…

Ecco poi da Montale mi venne la curiosità di andare a conoscere gli altri poeti liguri, i poeti di «Riviera ligure», da Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Boine, a Mario Novaro direttore della rivista, il fratello di Angelo Silvio e, poi chi c’era… e poi Sbarbaro. Io Sbarbaro l’ho conosciuto dopo la guerra, siamo diventati amicissimi, anzi si fece un vero e proprio sodalizio. In quell’angolo là ho tutti i dattiloscritti (perché lui se li faceva scrivere a macchina); poi ho un ricco epistolario. Quando lui è morto mi ha lasciato tutto, quasi tutto. Mi ha lasciato perfino delle lettere della Vivante1, no?, delle quali era gelosissimo: un malloppo di lettere così, indecifrabili la maggior parte, occorrerebbe uno studioso, io non ho il laboratorio mentale per farlo, ma ho tutto io e non voglio darlo a nessuno. Me li hanno chiesti, hanno fatto una specie di museo sbarbariano. A parte, poi, che le lettere parlano quasi sempre di me e sarebbe come un mettersi in mostra. Veniamo a uno dei temi che è stato molto dibattuto, cioè l’assenza di Dio: c’è una tua poesia: «Morto io, / morto Dio» [Di conseguenza, o: Proverbio dell’egoista, VCC].

Ma qui hanno esagerato, non sono né un teologo, né un filosofo, parlano di teologia negativa… Sì, qualcosa di Altizer2 l’avevo letta, ma la teologia negativa è

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un’altra cosa; la presenza di Cristo, per esempio, è fortissima nella teologia negativa. Mentre nella mia poesia Cristo appare una volta sola. È molto discutibile. Il mio è un Dio continuamente messo in dubbio, cercato continuamente, continuamente messo in dubbio. Ma poi, semmai, non è certamente il Dio ufficializzato, istituzionalizzato dalla Chiesa vigente, anzi dalle varie Chiese. È un Dio in una poesia addirittura spietato, più vicino addirittura al Dio biblico che a quello evangelico3. La tua opera poetica quindi può essere come un diario di viaggio, un canzoniere dell’esilio?

Tutte le definizioni son buone. Un canzoniere dell’esilio sì, dell’esilio da me stesso più che altro. Più che l’esilio dalla città, l’esilio da Dio; anche l’esilio da me stesso: uno si sente sempre fuori di sè stesso. Anche l’ultima poesia allude chiaramente a questo. Molti la definiscono, pensano… Dice: «Apparivano tutti in trasparenza», eccetera, no? La Poesia aggiunta, pensano ai morti. Non sono i morti, sono i vari «io» che sono stato nell’esistenza. Un uomo cambia, naturalmente, per sonorità d’epoca in epoca. Quindi un viaggio dentro te stesso.

Quindi in un primo momento mi sono visto aggredito da tutti questi «io», e allora ho chiuso la finestra un po’ impaurito, la porta a doppia mandata. Questo è il senso di quella poesia. C’è una secchezza, un pessimisimo, però, nei tuoi versi, uno scetticismo di fronte a tutto?

Di pessimismo no, direi di no. Perché la parola pessimismo è una parola equivoca, la si usa anche per Leopardi. Ora, se c’è un poeta che anche nelle negazioni più radicali afferma la vita, anzi è un datore di vita, dico io, è proprio Leopardi. La matrigna natura finisci con l’amarla proprio attraverso Leopardi. Quindi più che di pessimismo, direi che è una poesia senza illusioni, cioè una poesia ad occhi aperti, che non si culla. Io dico ad un certo momento che l’uomo senza speranza è l’uomo più libero della terra. Quando parlo di disperazione non parlo di colui che si strappa i capelli, a parte che io non ne ho…, ma parlo dell’uomo proprio stoico, che non si illude più e cerca di vivere dignitosamente nel qui, nel presente. Se io penso all’uomo di fede, per esempio, che vive così sulla speranza di un mondo migliore finita l’esistenza terrena, per me è uno che si illude. Io vorrei essere un uomo di fede, è un conforto grande pensare che finita l’esistenza terrena ne comincia una eterna, ma questo la mia ragione non arriva a capirlo. Infatti si potrebbe definire proprio la poesia: il viaggio della ragione. Questa ragione umana che è sempre destinata ad incontrare un muro, Il muro della terra, o un ultimo borgo, oltre i quali non procede.

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In questi ultimi tempi sono uscite molte recensioni al tuo libro; sei soddisfatto?

Beh alcune sono intelligentissime e di gente veramente preparata, di gente che veramente ha letto il libro, ha studiato il libro e ha scritto belle cose e anche in bella prosa. Ma per lo più il recensore è male informato e non fa altro involontariamente che fare l’autoritratto delle proprie insufficienze, sia d’informazione, sia di sensibilità, sia d’intelligenza. Perché oggi siamo arrivati ad una critica quasi illeggibile. Si parla di se stessi, no?

Ma no, ma non solo: il linguaggio che usano, un linguaggio preso dalla retorica, la deissi, insomma… un linguaggio tecnico e sarebbe come io se in musica a proposito di un quintetto di Schubert, vi parlassi, non so, delle quinte coperte e le quinte scoperte con le settime diminuite, nevvero? Il lettore non capisce niente, uno che non conosce quella tecnica. E non sarebbe nemmeno un giudizio critico, io penso in genere che tutta l’arte abbia un fondo, se non vogliamo dire d’amore e vogliamo appunto usare un linguaggio scientifico, di eros, che sia mossa dall’eros. In fondo il volersi far bello… è il pavone che si vuol far bello, insomma, davanti alla baronessa… io poi poesie d’amore, naturalmente da giovane mi innamoravo e ne scrivevo. Proprio d’amore… non d’amore in senso cristiano, proprio d’amore in senso erotico. Quindi anche questo pessimismo potrebbe essere una malinconia, in fondo; c’è questa malinconia che percorre tutti i tuoi versi.

Sì, lo dicono ma io non lo definisco pessimismo. Il pessimismo sai quando mi viene proprio, ma nero? Quando alla televisione vedo le facce dei nostri politici, allora veramente vedo quelle facce, grasse, quelle maschere. Allora davvero io mi domando cosa c’è dietro quelle maschere. Non ci sarà proprio il male che loro dicono di combattere? Il sospetto insomma, eh? Su questa società sono nettamente pessimista. Basta vedere, poverini, i giovani, insomma, che non trovano uno sbocco, non trovano un lavoro. Diciamo perché non sono preparati… ma di chi è la colpa? La responsabilità è nostra se non sono preparati, se son dispersi. La gente comune dice: non hanno voglia di far nulla, non sanno far nulla. Sì, ma la colpa da chi? La colpa, per lo meno la responsabilità, se colpa forse è una parola fuori luogo, ma la responsabilità quella è della società. Il poeta ha una funzione grandissima, sebbene tutti cerchino di tenerla ai margini, io penso invece che sia l’arte che più può incidere sulla coscienza d’un uomo. Certamente, mentre un romanzo trova i lettori nello spazio di un anno, e anche meno, è una gran fiammata, la poesia ha bisogno di anni per trovare i lettori; per trovare mille lettori ha bisogno magari di cinque, sei anni. È una medicina che agisce a tempo ritardato. Infatti vediamo che i grandi libri di poesia,

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i libri di poesia non muoiono: gli Ossi di seppia oggi sono vivi più che mai. I romanzi contemporanei son già sbiaditi, ingialliti, insomma, di fronte alla poesia. Hanno avuto un successo immediato… Poi vediamo tutti capolavori che sfornano ogni anno i premi letterari. Scompaiono dopo pochi mesi.

Sì, sono successi stagionali, no? Capolavori stagionali. Quindi la poesia ha, secondo te, una maggior durata?

Una maggior durata, e una maggior incidenza anche sulla coscienza delle persone, dei lettori, di quei pochi lettori. Poi che vi sia il desiderio di poesia diffuso, si vede dalle centinaia di libri di versi che io ricevo, insomma, che tutti ricevono. Saranno versi scritti male, non importa, ma il desiderio della poesia c’è, esiste. Ha perfino inflazionato… Quindi una volta bastava che ci fossero mille lettori per decretare il successo di un poeta; adesso invece?

Oggi si cerca… si pretende dalla poesia la stessa forza d’urto sulle masse che può avere il rock and roll. Ma questo è impossibile, la poesia non può agire sulle masse. Leopardi ce n’è voluto, pover’uomo, prima che gli sia stato riconosciuto il genio che è, no? Ai suoi tempi lui era considerato bravo, tutto sommato, di buone speranze, come diceva il Manzoni. Il bravo di una notte. Senti, per comodità un critico come Raboni ha diviso la tua poesia in temi, no? Il tema della città, il tema della madre e il tema del viaggio, che mi sembra anche abbastanza interessante.

Sì, sì, è interessante. Perché il tema della città è Genova, no? Diciamo così…

Anche Livorno, insomma. Ecco, il tema del viaggio, questa lontananza, questo rimpianto: cos’è, una nostalgia per un tempo che dici che non si potrà mai più rivivere?

No, nostalgia non credo. Non credo che ci sia nostalgia nella mia poesia: infatti c’è un verso: «ma i ricordi non li ha». Certo che concretamente è la presenza di queste città, non la nostalgia. La lontananza, forse?

Ecco, la lontananza.

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Livorno quindi è legata per te più al tema della madre?

Eh, sì. Non solo, ma una Livorno pre-nascita, prima che io fossi nato. Infatti mia madre la rappresento ancora ragazza, giovinetta. Quindi con Anna Picchi hai creato un personaggio quasi…

Quasi una Livorno liberty, com’era a quei tempi, no? Oggi irriconoscibile. Popolare ed elegante nello stesso tempo, no? Poi è una città anche culturalmente abbastanza viva. Dopo il tema della città, c’è questo tema del viaggio. Che poi è il viaggio della vita, no? L’ascensore, la bicicletta, il treno, la funicolare, la carrozza… ecco, ci vuoi parlare un po’ di questo tema che è importante.

È difficile parlarne perché assume tanti aspetti questo viaggio nella mia poesia, anche come ricerca, come allegoria dell’esistenza; in fondo nella poesia dico tutto questo, che il mio viaggio è stato questo: più un viaggio della mente che un viaggio del corpo. Sì, ci sono tanti treni, l’ascensore, le biciclette. Ma lì più che di viaggio si tratta di movimento. La vita è movimento. C’è questa disperazione, no?, calma, senza sgomento.

Ma quello è Il congedo del viaggiatore cerimonioso. Amici, credo che sia meglio per me cominciare a tirar giù la valigia… [Congedo del viaggiatore cerimonioso, CVC]

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76 NON MI SAZIO DI GUARDAR LE STELLE

[Risposte a Valentina Savioli] Crede che un poeta abbia un rapporto privilegiato con il cielo? Lo interroga come facevano gli antichi? Le succede di invocarlo?

Nessun rapporto privilegiato. Il poeta è un uomo come ogni altro, anche se con maggior sensibilità e fantasia. Quanto a interrogarlo, certo che lo interrogo, ma non per trarne auspici di sorta. Lo interrogo per cercar di capirne i misteri, resi ancor più profondi dalle mie scarse nozioni astronomiche. Mi chiede se mi succede di invocarlo. A mente lucida, no, dopo il crepuscolo degli Dei e la morte di Dio, e non avendo il genio di Hölderlin per credere ai «celesti» che lo abiterebbero. Nell’inconscio, forse sì. Ciascuno di noi è legato più di quanto non creda alla cultura delle generazioni che lo hanno preceduto. E il cielo stellato? La fa soffrire, esultare, gioire? E l’idea di infinito la sgomenta rammentandole la nostra finitezza? Oppure, al contrario, le dà serenità?

Come per tutti, anche per me il cielo stellato è, in primo luogo, uno spettacolo affascinante. Affascinante e inquietante. Purtroppo, in città, il cielo stellato non esiste più. Ma quando mi trovo in montagna, o in campagna, le seimila stelle visibili a occhio nudo (che tante sarebbero stando alle enciclopedie), oltre che incantarmi mi danno, vertiginoso, il senso dell’universo in cui mi trovo, io infinitesimo abitante d’un infinitesimo pianeta perso nelle spirali delle galassie. Perché non seimila mi sembrano le stelle, ma milioni, miliardi, come del resto sono in realtà. Fra questi milioni di astri ci sono io: io che così mi sento non sotto tale cielo, ma in tale cielo. Il che mi fa a un tempo «soffrire, esultare e gioire». Soffrire, pensando alla mia piccolezza. Esultare, pensando che anch’io, come ho detto, sono in cielo, parte – ancorché minima – dell’universo visibile e invisibile. Gioire, per la fortuna avuta, nascendo, d’esser momentaneo testimone del mondo. Anzi, di mondi che vivono la loro turbinante vita del tutto indipendenti da noi. Un’avventura, quella capitatami nascendo, esaltante perché irripetibile. Quando ha «scoperto» il cielo? È stato da bambino? Ha cieli preferiti in qualche angolo del mondo?

Sì, è stato da bambino che ho «scoperto» il cielo. Prima il cielo diurno, divertendomi con mio fratello a guardare le nuvole e a ravvisarvi strane forme d’animali e di mostri. «Nubi lucide e lievi, / che tante avete in ciel vaghe figure […]», come

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dice in una sua ballata il Tasso, non meno attento, in un’altra ballata, al cielo temporalesco: «Accese fiamme, e voi, baleni e lampi […]»1 (Il Tasso e il Leopardi sono, forse, i due poeti moderni che maggiormente hanno sentito il cielo). Poi, il cielo notturno, per mia naturale predisposizione, ma anche perché mio padre amava molto la «volta celeste», e gli piaceva mostrarmi le costellazioni, dirmene il nome con quello dei singolari astri da lui conosciuti e scrutati con un rozzo cannocchiale fabbricato di sua mano (erano i tempi in cui quasi tutti avevano in casa, comprata a dispense, l’Astronomia popolare del Flammarion). Mi faceva notare, di quegli astri, i diversi colori e i lentissimi e veloci moti, felice della mia meraviglia. Da allora non mi sento mai saziato di guardare le stelle, che sempre mi hanno dato l’impressione, pur sapendole incandescenti, di scintillanti punte di ghiaccio, «brillanti di gelo che raggiunge il fuoco», per dirla con Savinio. Non ho cieli preferiti «in qualche angolo di mondo», come lei mi chiede. Dovunque io mi rechi (dico, naturalmente, nel nostro emisfero), il cielo stellato è pressappoco sempre lo stesso, facendomi così sentire «a casa» a Berlino come a Catania. Quando, nel 1969, il primo uomo sbarcò sulla luna, in un’intervista televisiva a caldo, in diretta dallo studio, era quasi l’alba, Ungaretti, visibilmente emozionato, forse anche un tantino commosso, disse di fronte a milioni di spettatori (cito a memoria): «… non per questo la luna perderà il suo incantamento antico…». È così anche per lei? Come mai tanti poeti di questo secolo – penso a Montale, a Penna, ma anche, proprio, Ungaretti – non si sono misurati con il cielo? Per paura della retorica?

Sì, sono d’accordo con Ungaretti. Quando vedo di notte dei lumi sul mare, so benissimo che si tratta di pescatori sulle loro lampare, senza nulla di misterioso e di arcano. Ma non per questo quei lumi perdono ai miei occhi il loro incanto. Anche se la luna fosse fittamente popolata come la Cina, in me non scemerebbe certo la sua malia. La luna, vista a occhio nudo, dalla terra, è prima di tutto una luce. E al Dominio delle luci, rappresentato con tanta suggestiva e delicata forza poetica da Magritte in uno dei suoi quadri più famosi, nessun uomo può sottrarsi. Non direi poi che in Montale, o in Penna, o nello stesso Ungaretti, il cielo sia assente. Anzi. Soltanto, in essi occupa il «giusto» posto e nella misura «giusta», senza mai trasformarsi in idolatria.

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77 LA NOSTALGIA DI NARRARE

Le recensioni in genere sono l’involontario autoritratto di chi le scrive: ne mettono a nudo il grado d’intelligenza, di cultura, di sensibilità, la capacità di compenetrazione ecc., e il più delle volte anche la fretta e la superficialità, compresa magari qualche piccola cattiveria, divagando volentieri dal concreto per un discorso di rado pertinente o illuminante. Ho seguito con interesse il suo pezzo proprio perché si distingue dal solito genere «recensorio», per svolgere un originale concetto di letteratura nel quale i miei tre racconti vengono, per così dire, «incastonati». Non sta a me, corpus vile, commentare le sue argomentazioni. Mi limito quindi a poche osservazioni esterne e marginali. Non vedo una reale «divaricazione» tra il linguaggio delle mie prose e quello dei miei versi coevi. Il linguaggio di Giorni aperti collima con quello delle mie prime poesie, come il linguaggio del Labirinto è rapportabilissimo al linguaggio dei sonetti intitolati Gli anni tedeschi, dove addirittura, del Labirinto, si ritrovano immagini e figure. Che altro aggiungere? Giorni aperti (il mio piccolo… De bello gallico) risente di tutte le mutilazioni allora imposte dalla censura. Ho purtroppo perso il manoscritto, e perciò non mi è stato possibile colmare le lacune. Così non v’è rimasta traccia di certe scene drammatiche, o magari tragicomiche, che caratterizzarono la «bella impresa» contro una Francia che noi giovani non riuscivamo in nessun modo – per affinità e per cultura – a sentire nemica. Quanto a Il labirinto, se ha una qualche importanza, è per la data di composizione, da me precisata nell’«Avvertenza»1. Se non il primo, è certo uno dei primissimi racconti partigiani scritti da un partigiano durante la resistenza, e assolutamente fuori luogo – anche per ragioni cronologiche – è accostarlo al Pavese de La casa in collina e tantomeno al Fenoglio de Il partigiano Johnny. Il gelo della mattina richiederebbe un discorso a sé (ho ritrovato proprio in questi giorni il fascicolo contenente il primo capitolo, nonché altri capitoli, del romanzo di cui avrebbe dovuto far parte), ma anche per questo mi limito a rimandare il lettore all’«Avvertenza». Restando sempre nel campo della pura informazione, le dirò che racconti ne ho scritti molti (più di quaranta), ma non oltre l’anno ’49, che chiuse definitivamente la mia carriera di «narratore». Del racconto però mi è sempre rimasta la nostalgia, e credo che come poeta sia stato fra i primi a dare un indirizzo narrativo anche ai versi, a cominciare dalle Stanze della funicolare, definite da De Robertis «un’epopea casalinga»2, per non dire del Seme di piangere, ecc.

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Certo, una profonda differenza esiste (anche se non esiste una vera «divaricazione») tra la funzione del linguaggio nella prosa narrativa e la funzione del linguaggio nella poesia in versi. La poesia in versi è in primo luogo musica, e come la musica necessita del supporto d’una tecnica (téchne) senza la quale l’edificio crolla. Non si può costruire una resistente (oltre che bella) cupola o sinfonia, senza conoscere certe regole della statica o dell’acustica. La prosa narrativa è molto più vicina al linguaggio pratico di normale comunicazione (assolutamente privo di «armonici»), ma non può (non deve) identificarsi con questo. Sto divagando, e chiudo. Come vede, non ho confutato nessuna delle sue enunciazioni, non essendomi mai piaciuto invadere la proprietà privata, specie se non costretto da ragioni di legittima difesa.

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78 LA POESIA AL SERVIZIO DELL’UOMO

[Risposte a Francesco Mannoni] Quale somma di valori rappresenta oggi per lei l’unità poetica della sua vita raccolta nel volume garzantiano?

Questo va chiesto ai miei lettori e ai miei critici, cioè ai miei interpreti. Da parte mia mi parrebbe inverecondo far la somma, anche perché non dispongo di calcolatrice pronta. Con la pubblicazione del volume di tutte le sue poesie può considerarsi conclusa la sua opera poetica?

No, no. Ho in corso un’altra raccolta di versi che sta maturando lentamente. Non bisogna aver fretta in poesia. La raccolta di racconti Il labirinto pubblicata da Rizzoli quale momento esprime della sua vita artistica?

Lo stesso momento dei miei versi coevi (in particolare quelli degli anni ’40), fortemente «scossi» dalla crisi bellica e dalle sue conseguenze. Non ho più scritto racconti dal ’49 in poi. In tutto una quarantina. Il suo «diverbio» con Dio trova nella sua ricerca della divinità momenti di tregua e di intesa?

Trovo improprio parlare di «diverbio con Dio» e di «ricerca di divinità». Anzi, al mio orecchio la parola «divinità» assume un senso untuoso (da sagrestia, o magari da sinagoga) che m’infastidisce. Comunque, si veda tra gli altri il lucido saggio di Giorgio Bàrberi Squarotti intitolato Poesia e teologia: l’ultimo Caproni, in Genova a Giorgio Caproni, a cura del Comune di Genova, edizioni San Marco dei Giustiniani, Genova 1982. Forse, vi si trova anche la risposta desiderata. Quali valori estetici ed artistici oggi sono maggiormente rappresentati in Italia?

Non saprei dire. Non sono uno studioso d’arte e di estetica. Secondo lei, qual è l’avvenire della poesia in Italia e nel mondo?

Un avvenire che si identifica con quello dell’umanità.

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79 MIO DIO, PERCHÉ NON ESISTI?

[Risposte a Luca Doninelli] Innanzitutto, vorrei ben comprendere perché Caproni parlando del Seme del piangere, che è una tra le sue raccolte poetiche più struggenti, ed è dedicata alla madre, ami sottolinearne l’aspetto giocoso.

Perché sì, perché Il seme del piangere è nato per combinazione, e, se non ci fosse stato il De Robertis ad incoraggiarmi, io non sarei andato oltre le prime due poesiole, Preghiera e La ricamatrice; non ero troppo convinto da questo esperimento cavalcantiano. Queste due poesie m’erano state chieste dal «Raccoglitore di Parma». Il De Robertis, quando mi recensì Il passaggio di Enea, si lamentò perché non avevo incluso quelle due poesie, che gli parevano così belle, a mezzo tra l’antico e il moderno – cosa che, poi, tutti i critici hanno ripetuto. Io, naturalmente, ne fui molto lusingato, poiché stimavo molto il De Robertis, oltre ad essergli molto amico. Il De Robertis, una tra le maggiori intelligenze critiche che l’Italia abbia mai avuto.

Ah sì: andava a lume di naso, ma non sbagliava mai. Oggi sono tutti scienziati, con lo strutturalismo e la linguistica, ma pigliano di quelle cantonate… Beh, non divaghiamo. Dunque, scrissi qualche altra poesia, come l’amico mi aveva suggerito. Più, vi fu l’occasione di un concorso anonimo, il cui premio era la pubblicazione, credo a Cervia, bandito dalla Mondadori. Scrissi ancora qualche poesia, e venne fuori Il seme del piangere, che inviai al concorso. Se non che, in giuria c’era il mio amico Alfonso Gatto, il quale, lette le poesie, si mise a gridare: «Ma questo è Caproni, non si può premiare!», e così mi scartò per far vincere un certo…1, che Gatto confuse con un suo amico. Viceversa, Mondadori mi inviò un telegramma dicendo che voleva stampare lo stesso il libro: solo, era un po’ esile, aveva bisogno di altre poesie. Io non ne avevo delle altre, e allora ne scrissi, non mi vergogno a dirlo, quasi su commissione. Ci misi anche delle traduzioni, per renderlo più consistente. E poi, dietro l’insistenza di Bertolucci, diedi il libro a Garzanti, invece che a Mondadori2. Per ora, l’accenno mi basta, ma su Il seme del piangere si dovrà tornare. Facciamo un salto al Franco cacciatore, la sua più recente raccolta, ispirata all’opera di Weber, e al Muro della terra, che lo precede. Qui, e, segnatamente, nella prima delle due raccolte, emerge, in tutta la sua enormità, il tema, ma sarebbe meglio dire: la presenza, di Dio. In suo celebre articolo del luglio 1982, Giovanni Testori scrive: «Mai, credo, la negazione di Dio è stata, come in queste po-

274 GIORGIO CAPRONI esie di Caproni, Sua affermazione»3. Eppure, guai a cadere nel rischio, che non Testori, ma altri, poi, hanno corso, di dimenticare questa battaglia con Dio che vien combattuta a fil di musica, che l’«hasard» è musicale. L’occasione era bella. Volli sparare anch’io. Puntai in alto. Una stella o l’occhio (il gelo) di Dio? [L’occasione, FC] Guai a restringere il proprio spettro entro una visione contenutistica, ché musica, e senso, e Dio, allora, pigliano il volo. Tutti i luoghi che ho visto, che ho visitato, ora so – ne sono certo: non ci sono mai stato. [Esperienza, MT] Oppure: Hanno rubato Dio. Il cielo è vuoto. Il ladro non è ancora stato (non lo sarà mai) arrestato. [Furto, VC] Oppure: Credevo di seguirne i passi. D’averlo quasi raggiunto. Inciampai. La strada Si perdeva tra i sassi. [Falsa pista, FC] E questa, stupenda: A proposito di lui – io, muto: «Lo conosco. Lo riconosco. Anche se non l’ho mai conosciuto». [Sprazzo, FC]

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Come potremmo, insomma, capire questo gioco esistenziale, se non tenessi conto che è poesia, che è giuoco? «Sii poesia, se vuoi essere vita» [Battendo a macchina, SP], scrive Caproni ne Il seme del piangere.

Perfettamente. Ho finito, proprio qualche giorno fa, di scrivere la risposte di un’intervista in cui mi si chiedeva, tra l’altro, di spiegare alcune mie poesie inedite. Ho risposto che sono contrario ad ogni commento e spiegazione. Quando in Italia non si sapeva ancora niente di semiotica, nel ’47, scrissi un saggio, I poeti e la tromba4, dove ponevo la netta, irrevocabile differenza tra il linguaggio di normale comunicazione, di contenuto – il «significato», si direbbe oggi – e il linguaggio poetico, fondato, viceversa, sul «significante». In caserma, scrivevo, ci sono segnali che il soldato decifra, poiché conosce il codice; quando la tromba suona una certa successione di note: ta-ta-ra-ta-taaa! il soldato prende la gavetta e, almeno ai miei tempi, andava in cortile per farsela riempire di rancio. Ma supponiamo, scrivevo, che un ufficiale di picchetto particolarmente estroso chiamasse, a suonare questo segnale, non un trombettista, ma un grande flautista: ta… ta… ra… ta… taaa… Il soldato capisce, sì, che deve prendere la gavetta ecc., ma capisce anche molte altre cose. In fisica si chiamano «armonici» che non hanno il significato di armonia: sono altri significati, contenuti nelle emozioni che la nota musicale ha suscitate. Così, il soldato rimane perplesso – col rischio di perdere il turno del rancio. Allo stesso modo, quando un poeta scrive: «Felice te che il regno ampio de’ venti, / Ippolito, a’ tuoi verdi anni correvi!»5, secondo i codici di normale comprensione noi dovremmo leggere: Beato te, che sei giovane. Ma pensi all’enorme forza espressiva che si sprigiona da questa musica: qui, due endecasillabi si risolvono in uno solo, con risultati di una potenza inimmaginabile. O pensi a Racine e al suo celebre verso: «La fille de Minos et de Pasiphaé» [Phèdre]. Che cos’è, se non un dato anagrafico? Sono emozioni che vanno ben oltre il significato. …e che, a un tempo, riconducono a un vero significato.

A quello vero, precisamente. «Sii poesia, se vuoi essere vita». Io ho studiato musica, quelli sono stati i miei unici studi regolari. E uso la rima non in modo esornativo, ma esattamente, musicale, come in musica si usano gli accordi, le consonanze e le dissonanze. Così è, ad esempio, della rima: essa deve avere un valore portante di idee: una ne suscita un’altra, poi le due ne suscitano una terza, e così via. Nel I Canto della Commedia, ad esempio, basta leggere le rime per aver la chiave di lettura di tutto il canto: «vita – smarrita», «paura – dura – oscura».

276 GIORGIO CAPRONI E così, discorrendo, ecco che, a poco a poco, si giunge insieme al nodo che ci interessa. E si torna al Seme del piangere a Ultima preghiera. Anima mia, fa’ in fretta. Ti presto la bicicletta… [Ultima preghiera, SP] La parola «anima» ha, qui, molti significati. Io ne trascelgo due: il primo è quello, greco, di «anemos», che significa vento: ossia, voce, ritmo, aria nel senso musicale. Il secondo mi viene suggerito dalla notazione «E bada… di non lasciarti sviare»: l’anima è non solo la voce del poeta, ma anche la sua arte. Il poeta chiede all’arte di non lasciarsi sviare, di eseguire bene il suo lavoro. È come affidare alla manualità, alla artigianalità dell’arte il compito di ricostruire il senso: «Anima» (arte), sta attenta, perché, se non starai attenta, rischierai di restituirmi un’altra figura, non già quella di mia madre. Questa idea a Caproni piace molto, e lo trova prontissimo a proseguire.

Nella mia ultima raccolta, ancora inedita, il Conte di …6, Governatore nel 1792 del Ducato di Milano, mette un avviso che «una feroce Bestia infesta le campagne del Ducato», e invita la popolazione a una generale battuta di caccia. Ma questa bestia che cos’è, per me, se non la parola? Tutto, perciò, rientra in quella considerazione fatta prima, che è anche di ordine estetico. Purtroppo oggi anche i poeti hanno perduto il senso dell’arte: si scrivono poesie come si potrebbe scrivere un articolo sul «Corriere» o sul «Messaggero». Non c’è più né linguaggio né filologia. È vero. Pare che l’estetica sia morta; sono rimasti da una parte il testo, il quadro, lo spartito, e dall’altra, il fruitore, colui che ne ricava emozioni. Anche i critici – a parte le solite lodevoli eccezioni – difficilmente si addentrano in problemi estetici, oggi, e che giudichino, ad esempio, un romanzo in quanto romanzo.

Ma come lei sa i critici oggi sono agenti pubblicitari delle Case Editrici: ogni Casa ha il suo staff. Anche in questo, il De Robertis era un esempio di serietà. Le mie Stanze della funicolare erano un libricino edito da De Luca; e lui scrisse su di esse tre o quattro articoli. Il discorso prosegue su questo argomento, rivelando un Caproni enormemente conscio del valore della propria opera (né sappiamo come dargli torno); si parla di Contini e dei continiani, che faticano non poco a penetrare la sua poesia. Sarà che Contini non lo ha incluso nella sua antologia degli Autori del Novecento (dice lui), o perché i continiani propendono verso una lingua ricca di spunti filologicamente apprezzabili, come quella di Zanzotto (diciamo noi).

E, in effetti, il mio lessico è povero. Comunque, la grande poesia ha da «passar la ribalta»: ha cioè da passare tutti i riferimenti culturali che può contenere e giungere al cuore di chiunque, come la grande musica. E l’esempio di Mozart si fa obbligatorio, come se l’ombra di Mozart non avesse fin troppo aleggiato su questo colloquio assolato. Chi l’ha detto, che Mozart è

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incomprensibile alle masse solo perché scriveva per i principi? Ognuno ha, nella grande Arte, da poterci leggere quel che vuole. Con una precisazione tecnica, però!

Altro che. Col risultato che poi la grande opera supererà la propria stessa tecnica, trasformandola in azione.

Altro che. Inoltre la bellezza ha un’altra funzione: quella di mettere voglia di lavorare, di trasformare il mondo. Livorno, quando lei passava, d’aria e di barche odorava. Che voglia di lavorare nasceva al suo ancheggiare! [Quando passava, SP]

Certo la bellezza mette la frenesia di fare, di pensare, di costruire. È la musa. Questo succede anche tra il popolo. Da bambino vedevo il ciabattino lavorare lentamente: za… za… za Ma non appena vedeva passare una delle ragazze, za-za-zaza!, subito si metteva a lavorar di lena. E così la poesia. Che sia l’eros di Freud? No, io credo sia la bellezza, con la B maiuscola, altro che eros!

Anch’io lo credo. Freud era un gran medico, ma oggi questo eros lo si vuol vedere anche nella pastasciutta. Inoltre, la bellezza, aumenta, per così dire, la realtà. Come il tempio greco di Heidegger rende più mare il mare e più monte il monte, così è per molte espressioni di Caproni. Livorno, quando lei passava d’aria e di barche odorava. [Ibidem, SP] (Perché? Vien da chiedersi: non odorava anche prima o dopo il suo passaggio?). Oppure: […] quanta mattina, il giorno ch’era partita Annina! [Eppure…, SP]

278 GIORGIO CAPRONI O ancora: Quanta Livorno, nera d’acqua e – di panchina – bianca! [Il seme del piangere, SP] Infine – ossia, prima dell’erticella finale – riecco la musica.

Come in musica, anche nella mia poesia ritornano parole, temi, frasi: sono tante riesposizioni, ora ad opera del flauto, ora del corno, ora dei violini… E il senso cambia. Racconta, poi, di quella volta che una vecchia musicista gli telefonò dicendogli che Poesia per l’Adele era stata composta ascoltando il quintetto op. 163 di Schubert.

Diavolo di donna! Era proprio vero. Poi, è il turno degli attori zucconi, che insistono nel leggere «Son già / dentro la morte». Mentre anche un asino capirebbe che si deve leggere «Son già dentro / la morte». Pare proprio che qui, dentro l’ hasard musicale, risieda il segreto dell’«io» del poeta: non un pieno, ma un vuoto, al modo di Mallarmè: uno scavo, uno scavare, anzi, nella parola, e nient’altro. (La mira, ero io. Il resto, tutta una fantasia). [La caccia, FC] Le parole che partono, le fantasie, gli io che compaiono sul teatro dell’opera caproniana, sono gli infiniti attori del grande dramma, il cui protagonista è Dio. Un Dio bestemmiato, deriso, snobbato, un Dio che continua ad esistere dopo la propria morte, dopo che mille e mille volte Lo si è ucciso. «Lo conosco. Lo riconosco. Anche se non l’ho mai conosciuto». [Sprazzo, FC] Eppure Caproni non pone a Dio alcun aut-aut: così dice lui, difendendosi dalla bonaria accusa di un amico, grande poeta anch’egli.

No, io non mi chiedo se Dio c’è o non c’è. Io, molto più semplicemente, provoco Dio, attraverso tutti gli io che metto in scena, affinché Egli esista. Dio non è un problema, non ho alcun diverbio con Lui, come vorrebbe qualche giornalista. Quand’ero bambino c’era, a Livorno, un’associazione con scritte rosse su bandiere nere: i «nemici di Dio». Ma questo mi pareva già allora assurdo: chi

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ci crede perché ci crede, chi non ci crede perché non ci crede, non si può essere nemici di Dio. Io sono solo un orante. Prego. E prego non perché Dio esiste, ma perché Dio esista. E se lo si nega? Appare. […] Dio esiste soltanto Nell’attimo in cui lo uccidi. [Ribattuta, FC] Questa è la sfida a Dio. O la sfida di Dio. Ma si sa, i giornalisti vogliono fare di proprio ingegno, tagliando con l’accetta là dove ci vorrebbe il bulino. Uno, letto il titolo Albania di una sua poesia, titolo che, qui, significa «bianchezza», si sentì autorizzato a dire che era stato – lui, Caproni – comandante partigiano in Albania.

Io, si figuri, che sono sempre un fifone…

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80 COME FARE UN’ENCICLOPEDIA OGGI

In una società come l’attuale, asimmetrica e friabilissima, una Enciclopedia può senza dubbio costituire un polo di conforto, come in antico potè esserlo, per il contadino in tema di penuria, un granaio colmo, o magari la semplice idea di un granaio colmo: voglio dire (per venire al caso nostro) di un presunto deposito di presunta sapienza unitaria, cui si può sempre attingere per riempire i vuoti o turare le falle della mente (in fondo la nostalgia della Bibbia come Somma di Verità assoluta non è ancora tramontata in noi). Questo – ovviamente – a parte l’utilità sempre viva sul piano dell’informazione, data la vastità – e diciamo pure la dispersione – dell’odierno sapere. In tal senso la struttura tradizionale di un’enciclopedia quale repertorio di voci appartenenti a campi disparatissimi, può risultare ancora sufficiente. Ma meglio sarà, a parer mio, se tale impostazione di base riuscirà ad articolarsi verso una «centralità» (e nel contempo una rigorosa «impersonalità») di difficilissimo raggiungimento, capace però di formare un libro di attraente e fruttuosa lettura, da aprirsi anche oltre il bisogno immediato della mera consultazione.

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81 L’INFANZIA, ETÀ PURA DELL’UOMO

Come si ricorda i luoghi e i momenti della sua infanzia?

Li ricordo con grandissima nostalgia. Vorrei tornarvi per un solo istante, magari con la macchina del tempo (la conoscete?) inventata dallo scrittore inglese Wells. Con questo non voglio dire che siano stati per me luoghi e momenti del tutto felici. Non è vero che i bambini siano sempre felici. Hanno anch’essi i loro dolori e le loro malinconie, accanto alle esaltazioni e alle gioie. Se li ricordo con nostalgia, è perché l’infanzia è la sola età pura dell’uomo, quando il suo cuore e il suo cervello non sono ancora offuscati o intorbiditi dalle cosiddette preoccupazioni pratiche. Il bambino vive in uno stato di grazia che non si ripete più. (Ho cercato di tornare con l’anima nella mia Livorno di allora rincorrendo la figurina di mia madre Anna Picchi nel libro intitolato Il seme del piangere). È stato mai a Pistoia e dintorni? Che ricordo conserva?

No, non ci sono mai stato. O meglio, ci sono stato di striscio, qualche anno fa. Dovevano portarmi in macchina da Viareggio a Roma. A un certo punto la macchina si ferma, perché all’amico che la guidava vien voglia di comprarsi una bella fetta di cocomero ad un banco vicino a una fontana. Io, più che dal rosso e dal verde dei cocomeri, rimango incantato dalla vista di una città che pareva cominciare proprio di lì. Doveva essere un pomeriggio di festa. Tutte le finestre e tutti i balconi erano addobbati e impavesati di drappi multicolori, mentre sulla destra un viale pieno di verde conduceva in una villa o giardino pubblico. La bellezza del luogo mi colpì a fondo. Domandai dove ci trovavamo. A Pistoia, mi fu detto. Ma la macchina riprese la sua corsa, e di Pistoia non mi è rimasta che quell’immagine, insieme con una gran voglia di andarla a visitare, un giorno. Quali sono stati i suoi viaggi più importanti?

Mi è sempre piaciuto viaggiare, sia in Italia sia, quando mi è stato possibile, all’estero. Non saprei dire quali siano stati per me i viaggi più importanti. Per me un viaggio è sempre «importante» come fonte di nuove conoscenze e di nuove emozioni. Quelli che ricordo più volentieri sono i viaggi compiuti in Sardegna, in Polonia, a Parigi soprattutto, a New York, in California. Come ci si accorge di diventare poeti?

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Non ci se n’accorge mica. Eppoi, di solito, soltanto i vanitosi o i mediocri sono sicuri di essere poeti. Come è diventato poeta?

Dicono che poeti si nasce, non si diventa. Come nascere biondi o bruni. Io ero bruno (ora sono quasi bianco). Quindi è come se mi domandaste: «Come è diventato bruno?». Chi è un poeta?

Chi riesce a scoprire dentro di sé, e a comunicare agli altri, quelle sensazioni, quelle emozioni, quei sentimenti, quelle idee che son di tutti, e che tutti son pronti a riconoscere con gioia come proprie, pensando: «To’, anch’io ho sentito questo, anche se non sarei riuscito a dirlo». Il poeta parla non solo per sé ma anche per gli altri. Ho sempre scribacchiato versi fin dalle elementari. Ma la prima vera poesia l’ho scritta a vent’anni. Quale è stata la sua prima poesia?

Quella intitolata Marzo, appunto scritta nel 1932. Dopo la pioggia la terra è un frutto appena sbucciato. Il fiato del fieno bagnato è più acre, ma ride il sole bianco sui prati di marzo a una fanciulla che apre la finestra. [Marzo, CA] In quanto tempo si può scrivere una poesia?

Dipende. A volte vien giù di netto (è raro). A volte la si rimugina per mesi, magari per anni, prima di trovare la forma soddisfacente. Quanti libri di poesie ha pubblicato?

Di libri veri e propri (escluse le ristampe e le antologie) soltanto quattro o cinque. Per lei quello del «poeta» è un lavoro o un passatempo?

Scrivere poesia non è né un lavoro né un passatempo. È un bisogno.

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La vita del poeta è molto sola?

Non più di quella di ogni altro uomo. Come ogni altro uomo, anche il poeta vorrebbe la comprensione e l’affetto di tutti. Forse, avendo una sensibilità più fina, soffre più degli altri quando questa comprensione e questo affetto vengono a mancare. Bisogna studiare tanto per diventare poeti?

Non è con lo studio che si diventa poeti, l’ho già detto. Questo però non vuol dire che il poeta non debba studiare. Dante non avrebbe mai potuto scrivere la Divina Commedia se non si fosse reso padrone di tutta la cultura del suo tempo. Lo studio allarga il campo dell’esperienza e della conoscenza, e apre mondi nuovi che arricchiscono chiunque vi si avventuri. Chi è stato il primo poeta?

Vattelappesca. Forse il primo uomo che ha sentito il bisogno di usare la parola senza un preciso scopo pratico: cioè non soltanto per chiedere cibo o altro, o per imbastire un ragionamento, ma così, semplicemente per esprimere un moto del proprio animo o una sua emozione profonda in modo nuovo e attraente (o magari chi per primo colse una rosa non per cercare di mangiarla, ma perché gli apparve – per la prima volta! – bella).

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82 POETI AL MICROFONO

[Risposte a Matteo Maria Giorgetti] Vorrei invitare Giorgio Caproni a leggerci alcune poesie. Caproni, sono inedite o tratte da qualche suo libro?

Preferisco leggere delle poesie inedite, anche per non dar l’impressione che Tutte le poesie sia il mio monumento definitivo. Sono tratte da un libro che è già quasi… che è in avanzato stato di composizione, intitolato Il Conte di Kevenhüller. Un libro che uscirà probabilmente nel 1986. Ne leggerò Pasqua di Resurrezione. È preceduta da un incipit di una lettera di Annibal Caro, una lettera qualsiasi con parole però che qui assumono un valore decisamente emblematico: «Piove e siamo all’osteria, / ed in una terra come questa, / dove non abbiamo né che fare / né che vedere». Filtravano. Dalle crepe del nulla, filtravano… [Pasqua di Resurrezione, CK]

Rifiuto dell’invitato. Questo invitato potrebbe essere Dio… Dio che oggi è morto, come si sa, nelle coscienze delle persone, oppure viene invocato solo per scopi pratici, utilitari, eccetera eccetera. Non so giocare, cari. O troppo. Comunque… [Rifiuto dell’invitato, CK] Oh cari. Questi cari sarebbero tutti gli «io», i «me stessi», che sono stato durante la mia già lunga esistenza, dai quali un giorno mi son sentito quasi aggredito, e quasi per difendermi vigliaccamente ho chiuso porte, finestre… Apparivano tutti in trasparenza… [Oh cari, CK]

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Dopo questo particolare momento, passiamo alle domande. Caproni, domanda d’obbligo: quando e come si è avvicinato alla poesia?

È difficile dirlo… Fin da ragazzo avevo questo viziaccio di scrivere versi e leggevo soprattutto i poeti. Stranamente nella biblioteca di mio padre c’era un’antologia di poeti delle origini, Siciliani, i primi Toscani, che mi piacevano molto; quindi, si può dire, da bambino, cercavo di imitarli, forse di lì è venuto quel tono di canzonetta di certe poesie mie. Però, i primi versi coscienti, diciamo, risalgono al 1930, quindi avevo già vent’anni. Nella poesia di Giorgio Caproni, la musica ha una parte molto importante: musica della parola, musica degli equilibri, armonia della poesia; Caproni è anche un poeta che conosce la musica dal di dentro. Ecco, gli vorrei chiedere qualcosa su questo rapporto tra musica e poesia.

I miei studi regolari, sì, sono stati quelli della musica, e precisamente composizione e violino. Ora, la musica è un’arte, come l’architettura, che richiede… che non può fare a meno della tecnica. Un architetto non può costruire una cupola: la può ideare bellissima, ma se non conosce certe leggi della statica e dell’ingegneria la cupola crolla. E così è in musica: se non si conoscono certe leggi dell’acustica e certe leggi anche della matematica, io posso ideare anche una bellissima sonata, ma poi la eseguisco e crolla tutto quanto, provoco dei guai. La parola deve assumere tutte quelle plurivalenze di significati che assume il suono nella musica. Per esempio una frase, banale, di linguaggio di normale comunicazione, può essere portata per virtù di musica ad altissimi significati. Per esempio Racine: «La Fille de Minòs et de Pasiphaé» [Phèdre], sul piano della normale comunicazione non è altro che un dato anagrafico, ma si carica di tanti significati sul piano, viceversa, della musica; significati che sono gli stessi significati che ci dà la musica, intraducibili, naturalmente, in termini logici. La spinta al componimento poetico come le nasce? È di tipo emotivo, oppure fa parte di un progetto?

È una spinta emotiva. Poi naturalmente c’è un’elaborazione mentale; viene anche in certo senso progettata, sebbene il poeta non è mai in piena coscienza di ciò che scrive. E proprio a proposito di pensiero, merita sottolineare il ruolo che ha l’attività di riflessione nella poesia di Caproni, che è una riflessione da poeta, non da filosofo, ma è anche una visione del mondo precisa. Ecco su questo vorrei chiedere a Caproni se può tracciarci un piccolo itinerario della sua posizione in proposito.

Io penso che la poesia debba avere, sì, un sostrato diciamo pure filosofico, anche se non è la filosofia del poeta, può essere la filosofia di un altro, di un altro migliore, di un filosofo vero, ma avere questo sottofondo di pensiero. Avere,

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cioè, quella che una volta a scuola si chiamava «una visione del mondo». La poesia non è solo suono, ma deve suscitare le idee; più che dirle, le deve suscitare. Io vorrei sapere: i materiali poetici quanto tempo vivono il lei? Li fissa subito, immediatamente, seguendo l’impulso, oppure li lascia decantare, li filtra, appunto come diceva prima con la parte critica del poeta?

È rarissimo che a me le poesie nascano di getto, come si usa dire; è accaduto delle volte, ma sono casi rarissimi. Per lo più io prendo un appunto, uno spunto, un inizio, e poi, in toscana si dice lo rimugino, me lo rigiro, me lo rumino… delle volte anche per anni, magari, poi lo abbandono, poi lo ritrovo. La crisi del soggetto è una delle tematiche del Novecento e questa crisi tematica e di referenze è vista da moltissimi autori come uno dei nodi centrali della comunicazione artistica. Per quanto riguarda l’identità poetica, per esempio in Oh Cari, che lei ha letto prima, c’è questa moltiplicazione del soggetto poetico. Come vede questo problema?

Mi resta difficile, quasi impossibile rispondere in termini filosofici a questa domanda. Una persona, l’«io» certo cambia, sia col volgere degli anni, sia con le circostanze, ma certo oggi si è perduto, in questa civiltà terribile di massa, si è perduta veramente questa coscienza dell’«io»: sono io, sono un altro, sono lui, sono l’altro… Quindi quale dovrebbe essere il compito del poeta per difendersi? Primo, cercare il proprio «io», andare proprio alla caccia, non del Dio, come hanno scritto tanti critici, ma dell’«io». È difficile afferrarlo. Una volta afferratolo, come un minatore, scavare vitalmente a fondo, cioè superare tutti gli strati superficiali autobiografici, che naturalmente variano da individuo ad individuo, per calarsi a fondo dove si trova un «io» che poi è un «noi», è l’«io» di tutti gli uomini. Quindi, questo compito della poesia, sarebbe proprio quello della ricerca, oltre che dell’«io», dell’altro: di un’illuminazione per l’altro. In questo penso che consista la funzione civile della poesia. Io mi riallaccio a questa considerazione per chiederle: qual è la funzione della poesia in una società tecnologica? E a chi si rivolge, e che tipo di rapporto ricerca?

Io penso che la funzione della poesia sia sempre identica in qualsiasi civiltà. La civiltà tecnologica, per certi versi, non uccide certamente quello che Kierkegaard chiamerebbe «il singolo», avrebbe chiamato «il singolo». Certamente c’è una minaccia terribile di massificazione, e lo diceva proprio Kierkegaard centocinquant’anni fa, e lo ripete Leopardi nel dialogo… quando parla di civiltà delle macchine1. Ma io penso in fondo che il poeta abbia ancora molte cose da dire, solamente che la sua voce, a volte direi maliziosamente, dal potere viene soffocata. Non viene diffusa dai mezzi di comunicazione di massa, se ne guardano bene. Viene tenuta in disparte, così già lo diceva Cecchi, come una cara bamboletta, sì caruccia caruccia… Viene sottovalutata; ma io penso, viceversa, che

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vi siano parecchi strati di lettori specialmente oggi, che hanno ritrovato nella poesia un punto di conforto, nel senso, non di consolazione, ma di appoggio molto forte. Infatti vedi che si sta riprendendo… si vende. Dicono che la poesia non si vende, ma non è vero, perché io ho fatto tre edizioni in quattro mesi. Sempre spostando il tema della soggettività nella prospettiva di Giorgio Caproni, io vorrei chiedere qualcosa sulle radici liguri e livornesi del poeta.

Anche questo è difficile dirlo. Io sono l’inventore della cosiddetta «linea ligustica» della poesia. Ligustica per ligure, appunto. E per un po’ di ironia, proprio qui alla RAI, nel ’54, mi diedero l’incarico di fare un ritratto della Liguria, e mi venne fatto di parlare dei poeti della famosa novariana «Riviera ligure», una rivista che raccoglieva da Pascoli fino alla Aganòor. Era una rivista eclettica, molto bella, in puro liberty. Vi era un gruppetto capitanato appunto dal fondatore Novaro Mario, il fratello Angelo Silvio, poi Boine (coi suoi famosi, faceva il critico, Plausi e botte), Sbarbaro e, soprattutto, il più fedele di tutti, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi. Ma, dirò che i miei rapporti con questi poeti sono venuti dopo, dopo la guerra. Il mio primo impatto con la poesia fu Ungaretti. Io oramai avevo abbandonato la musica, ero in uno studio legale; io ero abituato, naturalmente, come musicista fallito a studiare il Poliziano, il Tasso lirico, il Rinuccini, e capitò questa Allegria di naufragi, e fu per me uno shock. Poi vennero gli Ossi di seppia, e quindi non so se posso parlare di poesia… Che mi abbia influenzato la poesia ligure di Montale (che, poi, ligure per modo di dire, perché la poesia di Montale è europea) o quella di Ungaretti, che è toscano.

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83 RIGORE SIGNIFICA EVITARE IL TRANELLO DELLE MODE

[Risposte a Giuseppe Conte] Essere rigoroso per un poeta vuol dire scrivere belle poesie. E vuol dire non farsi abbindolare dalle mode, dai gruppi, dalle tendenze quando vengono pilotate e imposte. Vuol dire sentire la necessità di fare poesia, e continuarsi a interrogare sull’impellenza, sulla forza non eludibile di tale necessità. Vuol dire avere orecchio per le esigenze della forma, non diventare formalisti, ma sapere che c’è una scansione ritmica che il linguaggio richiede. Infine vuol dire riconoscere che ci deve essere «pensiero» nella poesia, un pensiero non proclamato, ma suscitato dalle parole stesse. Si rinuncia a qualcosa, in nome della poesia?

Al contrario il poeta scrivendo diventa libero, non soltanto non rinuncia alla vita, ma vive con maggiore autonomia e intensità. Il suo viaggio termina ancora in una «disperazione / calma, senza sgomento» o è cambiato il suo congedo?

Il congedo continua. Come potrebbe cambiare? Ogni giorno si nasce, si muore, si rinasce.

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84 [LA MIA PIÙ REMOTA AMBIZIONE ERA DI FARE IL NARRATORE]

[Risposte a Mario Picchi] Perché hai scelto la prosa, in quel periodo tra il 1940 e il 1947 a cui appartengono i racconti del tuo libro?

Veramente scrivevo in prosa fin dagli anni Trenta, tant’è vero che l’ultimo dei racconti che appare in questo volume, Il gelo della mattina, faceva parte d’un romanzo (La dimissione), che stavo componendo intorno al 1937-1938 e di cui conservo solo dei brani, non avendolo mai portato a termine. Quindi non è che abbia fatto la scelta della prosa proprio negli anni Quaranta. Piuttosto, gli anni Quaranta segnarono per me un periodo di particolare bisogno economico, e fu per questo che intensificai la… produzione di racconti. Me li pubblicavano i giornali e, a differenza delle poesie, me li pagavano. Tant’è vero che se un giorno mi deciderò a raccoglierli in volume li intitolerò Racconti scritti per forza. Ciò però non toglie che un certo gusto a scriverli lo provavo, anche perché la mia più remota ambizione era quella di fare il narratore anziché il poeta. Un’ambizione mai estinta del tutto, se è vero che le mie poesie (molte delle mie poesie) un certo ritmo narrativo lo conservano. Perché allora non sei più andato avanti, con la prosa?

Non mi convincevano i risultati. Avevo l’impressione che la mia prosa, abituato com’ero al verso, fosse un po’ caracollante, come il passo di chi, stando quasi sempre a cavallo (il cow-boy, il buttero, per esempio), si prova a camminare a piedi. Così, sempre per ragioni d’introito, sostituii al narrare il tradurre. Ho, infatti, tradotto come un matto: migliaia di pagine, lo sai, in prosa e in versi. A parte il fatto che molti dei miei racconti mi si trasformavano, sotto la penna, in poesie. A proposito di questo romanzo incompiuto?

Era uno strano romanzo. Quando andai in Val Trebbia come insegnante, mi accorsi che il paese (Rovegno) era diviso in due partiti avversi: quello di coloro che frequentavano la locanda dal Riccardin e quello di coloro che frequentavano la locanda del Luigiottin. Eravamo in piena era fascista, nel 1935, e poiché essere riccardinista o luigiottista dipendeva soltanto dal caso (cioè dalla locanda in cui uno per la prima volta capitava o che frequentava), pensai che in fondo anche

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in politica doveva essere lo stesso. Uno era così piuttosto che così, non tanto per libera scelta, ma in buona parte per l’ambiente di nascita o di frequentazione. Il Governo non poteva far nulla per spengere l’odio fra i riccardinisti e luigiottinisti, perché sia gli uni che gli altri lo ignoravano totalmente, essendo tutti contadini autosufficienti e perciò non avendone nessun bisogno. Naturalmente l’Imperatore (il Dittatore: allora non potevo dire il duce) non tollerava questa ignoranza, e così progettai la storia d’un certo Commissario imperiale (io), inviato là non soltanto per ristabilire l’ordine ma soprattutto per ripristinare la presenza, appunto, del Governo. Fidanzato con una certa Olga, questo Commissario la chiamò con sé, col risultato che si legge nel Gelo della mattina. Ma il succo del «romanzo» poggiava su un altro fallimento, e precisamente su quello della «missione» affidata al Commissario. Un «romanzo» dove l’autobiografia (Olga era un personaggio vero, e vera è la scena della sua morte) si mescolava con la finzione. Fossi più giovane, riprenderei volentieri La dimissione, perché la prosa – ripeto – mi attira. Quanto ai racconti di allora, ne ho salvati dalla dispersione più di quaranta. Quindi potresti farne un volume?

Sì, anche se in genere sono racconti brevi, salvo un inedito, La maliarda, che piacque moltissimo a Palazzeschi (vinse un premio letterario in cui Palazzeschi era giudice) e forse un altro, pure inedito, intitolato, alla maniera di Laforgue, Sous la lune méditerranéenne. Il fatto è che dovrei rivederli attentamente, perché scrivendoli «per lucro», non mi preoccupavo di certe ripetizioni fra l’uno e l’altro. Tanto – mi dicevo – chi se ne sarebbe accorto leggendoli separatamente e a distanza? Il racconto è stato per secoli la forma tradizionale della narrativa italiana, ma oggi sta sparendo. Tu ci credi ancora?

Sì, e leggo più volentieri i racconti che i romanzi. Anche le poesie, in fondo, sono racconti. Per questo mi urta la parola «liriche» (La stessa Divina Commedia è più un racconto che un romanzo. Non è qui il luogo di spiegare il motivo di questa mia opinione). Purtroppo oggi non soltanto il racconto, ma l’intera prosa narrativa sta morendo. Il romanzo è ormai un prodotto industriale, che si «vende» più dei racconti, punto e basta. Il romanziere non è più un artista (salvo rare eccezioni) ma un professionista, costretto a immettere sul mercato un libro l’anno, «pubblicizzato» da un Premio o da uno staff di critici… «editoriali», e mirante più al successo che, per dirla leopardianamente, alla «gloria». Si valuta non in base alla resa artistica, ma all’«indice di gradimento», vale a dire in base alle copie smerciate. Ma si sa che quanto più si allarga l’indice di gradimento (la Tv può insegnare qualcosa in proposito) tanto più si restringe il valore artistico e culturale.

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Come ti sembrano queste tue prose uscite a distanza di quarantacinque anni, o poco meno?

Mi par d’averti già detto, al proposito. Incoraggiato da una critica più che generosa (i racconti rizzoliani son subito stati prenotati per varie traduzioni), riesco ormai a guardarli con un certo distacco, e anche con occhio meno severo. Tanto più se penso che li scrissi in pieno neorealismo. Mi lusinga il fatto che, almeno con Il labirinto, io abbia anticipato di parecchi anni la narrativa partigiana poi trattata da Pavese e Fenoglio. Credo anzi che sia il primo racconto partigiano scritto da un partigiano durante la Resistenza e non dopo. Ne fa fede il fatto che fu pubblicato per la prima volta dalla rivista «Aretusa» nel gennaio 1946, rivista che per forza deve averlo ricevuto almeno un anno prima, o comunque subito dopo la Liberazione. Mi sono inoltre accorto – e con una certa soddisfazione – che quei miei «racconti» non segnano affatto una frattura rispetto alla mia poesia. Già in Giorni aperti, il piccolo diario di guerra del 1940, pur così mutilato dalla censura, un giovane critico intelligente, scrivendo su «Paragone», ha trovato e precisato non soltanto il «nocciolo», diciamo così, delle mie prime poesie giovanili, ma già l’embrione dei temi più impegnativi svolti e poi approfonditi nei libri successivi, fino al Franco cacciatore. Per non dire poi delle concomitanze tra Il labirinto e le poesie che hanno per sfondo la guerra, e tra Il gelo della mattina e la drammatica «visione del mondo» (tanto per usare una frase fatta) che caratterizzerebbe i miei versi meno remoti.

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85 [PER SCRIVERE POESIA BISOGNA PRIMA DI TUTTO VIVERE]

[Risposte a Silvano Tartarini e Marco Betti] Temo che questa periferia vada scomparendo, e diventando anch’essa metropoli. Le metropoli, come sono oggi, non mi piacciono. Distruggono, nella massa, il singolo: la persona. Ma anche da giovane sono stato più uccel di bosco che uccel di voliera. Forse la critica ha sempre faticato a classificarmi proprio per il mio tenermi isolato da gruppi o scuole. Oggi amo più che mai i piccoli centri, o addirittura i paesini più isolati, dove riesco a scrivere e… a salvarmi. Infatti, appena finito il premio (Premio Viareggio n.d.r.), non andrò a Roma dove abito, ma mi ritirerò per qualche mese in una frazioncina dell’Alta Val Trebbia, che per fortuna i turisti ignorano. Dove lei ha fatto il partigiano.

Dove, quando arrivarono i partigiani, mi misi dalla loro, senza per questo vantarmi d’aver fatto l’eroe, ma soltanto il mio dovere contro i tedeschi e, ahimè, italiani. Ne ho passate di brutte se ci ripenso. Le diciamo questo perché Cassola ricordava che lei era già antifascista nel ’40 quando lavoravate insieme alla rivista «Ansedonia».

Sono usciti proprio adesso tre racconti editi da Rizzoli. Uno è intitolato Il labirinto, e narra della fucilazione della sorella di un mio amico carissimo, diventata una spia. Credo sia il primo racconto partigiano apparso in Italia, scritto fra il ’44 e il ’45 e stampato da Muscetta sulla rivista «Aretusa» (gennaio 1946) cui l’avevo mandato per un concorso bandito nel ’45. Non ricordo come quel racconto fosse riuscito a passare la linea gotica per arrivare a Roma. Lei ha conosciuto anche Saba?

Di persona, mai. Letterariamente (mi vergogno a dirlo) molto tardi. Per questo trovo strano che i miei primi critici mi ponessero su una linea decisamente sabiana. Certo lei è su una propria linea con proprie caratteristiche: una totalità discorsiva, una forte carica di umanità. Anche l’uso di aggettivi tipo «acre»…

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Certa asprezza mi viene forse dai liguri. Soprattutto – forse – da Mario Novaro e da Sbarbaro. A proposito di liguri, alcuni, di fronte al Muro della terra (titolo da me rubato a Dante), hanno subito pensato alla «muraglia» di Montale (in genovese il muro si chiama «miaggia»: muraglia). Ma sono due cose diverse il mio muro e quello di Montale. Montale ci mette i «cocci aguzzi di bottiglia»…

La «muraglia» di Montale esprime il senso della prigionia dell’uomo che non riesce e non può superare la sua condizione. Nel «muro» dantesco io invece vedo il limite della ragione umana. La ragione umana può spingersi molto lontano ma a un certo punto si blocca: non può procedere oltre. Lei pensa che ci sia questo punto?

Certo. A un certo punto la nostra ragione sbatte contro un muro, trova un «ultimo borgo» (tanto per usare il titolo d’un altro mio libro) oltre il quale «sono i luoghi non giurisdizionali», dove lei (la ragione, dico) non può accedere. Secondo lei si potrebbe parlare di un nuovo indirizzo poetico della poesia degli anni ’80? C’è qualcosa che si sta concretizzando in questo senso?

I giovani di talento sono molti e mi è impossibile seguirli tutti. Vedo però anch’io che qualcosa di positivo si va concretizzando nel senso di una generale sazietà (o stanchezza) dei semplici giochi sperimentali, incapaci di per sé a passer la rampe, a toccare il pubblico. Ho però notato un fatto: manca un gruppo omogeneo. I giovani formano come tanti arcipelaghi isolati, senza una canoa che li tenga in collegamento, in comunicazione. Questo è il tentativo che stiamo facendo noi, e sappiamo che questo avviene perché sono piccoli gruppi di potere.

Può darsi. Non faccio nomi, ma ho esempi di giovanissimi che appena insediatisi, per esempio, a Milano, subito diventano funzionari di grandi case editrici. Io sono rimasto maestro elementare per tutta la vita. Non ho mai cercato di far carriera. E non me ne sono pentito perché, a parte il fatto che con i ragazzi ci sono sempre stato volentieri, questo mi ha permesso di pensare che se oggi sono abbastanza stimato, lo devo soltanto a virtù propria della mia poesia e non a «interesse» per la mia posizione. Per il mio «potere». Per lei il poeta è più un tecnico – soldato sempre in trincea che spara idee precise o più – o un personaggio scomodo alla Dino Campana, esule in fuga solitaria?

Il caso di Campana è tragico. Non è però detto che il poeta debba essere per forza un pazzo. Un personaggio scomodo, sì, perché è il più acerrimo nemi-

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co di un potere che mira a distruggere il singolo (la persona), un consumatore perso nella massa, a puro lucro di quel potere, e nient’altro. In questo senso il poeta può essere definito un artigiano, che in nessun modo si piega a diventare una ruota dell’ingranaggio «interessata». Credo inoltre una cosa fondamentale: che per scrivere poesia bisogna soffrire, bisogna prima di tutto vivere e non essere dei letterati. Bisogna fare un mestiere, non si può fare il mestiere del poeta. Jahier dice: «Sono morti senza parlare i poeti che han vissuto»1.

Anche Leopardi dice questa stessa cosa mettendo in guardia i giovani dal cercare, nel «soverchio di produzione» (proprio di «produzione» parlava) del secolo, una facile gloria. Tra i critici e poeti nuovi, e per nuovi intendiamo non ancora decisamente affermati, c’è qualcuno a cui va la sua stima?

Ce ne sono molti, ma mi astengo dal nominarli per non far torto a quelli che non conosco. C’è però una cosa da notare: la terribile difficoltà che oggi i giovani (critici o poeti che siano) incontrano per trovare un grande editore. Sono finiti i tempi quando un editore era prima di tutto un mecenate, come per esempio Attilio Vallecchi, che non si peritava di pubblicare illustri sconosciuti come Ungaretti, Palazzeschi o altri. Oggi l’editore è un industriale, e come industriale è giusto che cerchi un prodotto smerciabile. Per questo stampa il poeta noto a scatola chiusa, e diffida (commercialmente) dei nomi nuovi. Come sopra abbiamo ricordato, Cassola ci ha detto che lei era già antifascista nel ’40 quando vi siete conosciuti a Roma. Cosa significa per lei essere antifascista oggi?

Detestavamo il fascismo perché speravamo che la democrazia aprisse nuovi orizzonti. È stata un’amara esperienza per la generazione cui appartengo. Oggi invece di vera democrazia abbiamo una gretta partitocrazia e un generale sbracamento. Le facce di certi politici mi fanno paura. Nascondono forse, quelle maschere, il male che dicono di combattere? Per questo proprio in nome di una democrazia autentica, oggi bisogna essere più antifascisti che mai. In questi ultimi tempi ritiene che siano usciti libri di poesia particolarmente importanti?

Certamente. Basti pensare a Sereni, Bertolucci, Luzi, Betocchi, fino ai più giovani come Giudici, già da voi ricordato, Raboni, Porta, Doplicher, Giuseppe Conte e Dio sa quanti altri il cui nome ora mi sfugge. Sono così felice che Porta sia stato il vincitore del Premio Viareggio di quest’anno. E con Porta c’è tutto il gruppo del ’63, che sebbene su un’altra sponda rispetto alla mia, ho sempre seguito con grande attenzione ed interesse.

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Ma Porta è ormai uscito da quella sponda.

Non direi. Ha cercato (e trovato) altre vie con piena indipendenza, ma non penso proprio ad una sua abiura. E d’altronde il gruppo ’63, con Sanguineti in testa, non si può cancellare con un colpo di spugna. Gli studiosi di Sociologia della Letteratura si stanno chiedendo che genere di letture interessino ai giovani d’oggi. In recentissimi lavori, con il sostegno di eloquenti dati statistici, si scopre che il «rosa» è praticamente l’unico genere letterario in espansione. In questo quadro, non certo entusiasmante, a quale pubblico dovrebbe rivolgersi la poesia e attraverso quali canali?

Non so molto di Sociologia della Letteratura, né di dati statistici. Comunque penso che la poesia debba rivolgersi sic et simpliciter al pubblico (non a questo o a quel pubblico) soprattutto attraverso il libro e magari le pubbliche letture (quando non si risolvono in piazzate) indici di un sentito bisogno di tornare all’oralità della poesia. Senza contare poi i mezzi radio visivi, che se «fanno» poesia (se si occupano di poesia) cercano sempre le ore morte. A rendere spesso odiosa la poesia sono i piccoli editori a pagamento, che ci riempiono gli scaffali pubblicando per qualche milioncino di tutto un po’, senza la minima opera di scelta. Guai a chi ci casca. Anche un genio, caduto nel mucchio, rischia di rimaner seppellito. E poi, quale diffusione garantiscono i piccoli editori di tal genere? Se invece ci fosse una rivista che facesse il lavoro di preparazione, facendo un lavoro anche di editrice, il pubblico comincerebbe ad orientarsi ed a sapere cosa compra. Tornando al discorso sull’oralità vista come uno degli sviluppi possibili della poesia, e sulle potenzialità della poesia stessa, noi riteniamo che la strada da battere sia quella della capillarità dell’educazione alla poesia, creando, attraverso una serie diversificata di strumenti, un’attenzione nuova dove il fruitore della poesia, sia essa ascoltata o letta, si senta diversamente partecipe. Insomma qualcosa di diverso dall’aria sacrale ed assonnata di certi ambienti.

Sono d’accordo che in un certo senso bisogna far scendere il poeta dal piedistallo. Poi ho già detto, e lo ripeto, che spesso la poesia «detta» viene «recepita» dal pubblico più prontamente di quella «letta». C’è chi pensa che se si scrivono poesie sapendo di doverle «dire» in pubblico, si scrivono tecnicamente in modo diverso dalle poesie scritte per essere lette su foglio bianco.

Questo è vero fino a un certo punto. Le poesie, anche se destinate alla «dizione» in pubblico, devono prima di tutto essere «scritte» bene. Quindi non c’è differenza per chi le compone. Lei ha scritto: «con pochi tratti, con pochi primitivi colori per te il mondo ritorna con più casti pensieri» [Al primo galletto, BF]. Caproni è un casto o non ci pensa nemmeno? Cos’è per Caproni l’amore? Stordimento, fantasia o perfetta realtà?

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Non so davvero se io sia un casto. Penso proprio di no, anche se non ho stravizi. Quanto all’amore, è proprio di questo che i giovani hanno bisogno. Il mondo in cui affoghiamo ne offre così poco. Parlo dell’amore vero e in senso alto, che nulla o poco ha a che fare con la semplice sessualità. Fra i romanzieri chi è il suo preferito?

Fra i tre o quattro grandi romanzieri della mia generazione o quasi, prediligo Carlo Cassola. Mi piace soprattutto per il suo continuo tenersi stretto al cuore delle cose concrete e dei sentimenti. Per la sua scrittura, la sua immediata leggibilità. Per la sua (ma soltanto apparente) semplicità di stile, in lui sinonimo soprattutto di chiarezza, anche quando ci trascina nei più intricati labirinti dell’animo e della mente.

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86 PERCHÉ SCRIVETE?

Perché scrivo? Ma è «semplice»: per lo stesso preciso impulso che muove voi a chiedermelo. Indagate e riflettete su tale vostro impulso, visto che vi piace il gioco dei perché, e avrete la mia risposta. Una risposta, dunque, già implicita (incapsulata) nella domanda. Il guaio è, però, che tale impulso, nonostante la girandola di saputi rimandi e riferimenti culturali cui può dar luogo (da Gorgia a… Lancan, e oltre), resta, nella sua essenza, ineffabile. Se è abbastanza facile, infatti, physiologia adiuvante, rispondere a un «perché mangi», a un «perché dormi», a un «perché fai all’amore» eccetera, già meno facile sarebbe rispondere a un «perché suoni il violino, anche quando sei solo e nessuno ti ascolta»: domanda dove il bisogno organico entra soltanto di slancio, mentre tante altre «ragioni», molto più tentatrici dal lato della vanità, potrebbero essere sbandierate (naturalmente senza venire a capo di nulla, o quasi). Scribo ergo sum? Scrivo per cercare la mia identità? Frasi, anche queste. Posso soltanto dire, proustianamente, che per me lo scrivere è una pratica igienica che mi dà salute. Quando non scrivo, soffro, anche se lo scrivere, accanto alla gioia, mi dà sofferenza. Piuttosto: perché pubblico ciò che scrivo? Per lucro? Per… filantropia? O forse perché l’uomo è un personaggio di teatro, e ha sempre bisogno di una platea? In definitiva, dovrei magari decidere se «nell’esercizio della scrittura», come «nell’esercizio» di ogni altra arte, si sia più dalla parte di Narciso o più dalla parte di Pigmalione. Probabilmente, il discorso dovrebbe partire di qua. Ma preferisco restare in sala d’aspetto e perdere il treno.

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87 EPPUR RESISTE

[Risposte a Renato Minore] «È il solito catastrofismo», dice Mario Luzi con una perentorietà che non ammette repliche. Il giudizio di Franco Fortini è articolato: «Sento una certa aria mitteleuropea che si respira tra Budapest e Praga, Varsavia e Vienna. C’è molto erotocinismo, c’è l’insofferenza di una società che è contro Don Giovanni». Giorgio Caproni taglia corto: «Sono stupidaggini da scrittore di successo. È una visione aggiornata del vecchio discorso sulla morte dell’arte». «È un paradosso che nasce da una situazione viscerale», questa è l’opinione secca di Alberto Bevilacqua. Oggetto polemico di Luzi, Fortini, Caproni e Bevilacqua è lo scrittore cecoslovacco Milan Kundera il quale, in un’intervista rilasciata a Barbara Spinelli sul «Corriere della sera» del 7 aprile (tra l’altro in essa parla a lungo del suo ultimo, splendido romanzo, L’insostenibile leggerezza dell’essere, ora pubblicato in Italia da Adelphi), ha affermato a proposito del destino della poesia: «Chi legge ancora poesie, chi le recita, chi le pubblica? La poesia discretamente si è spenta e questo è uno dei grandi avvenimenti della storia contemporanea». La poesia uscirebbe di scena, dunque: ma cosa significa questa scomparsa? «Niente di nuovo – incalza Kundera –. Dov’è oggi un Borges di cinquanta o trent’anni? E, se mai esistesse un Borges di trent’anni, chi mai si interesserebbe a lui?». Solo «il romanzo ancora non è perito. Ancora ci sono cose che solo il romanzo può dire. Ancora c’è gente capace di ascoltarlo. Ancora». Dunque, la morte, dopo lunga agonia, della poesia e alla sopravvivenza del romanzo come genere capace di una rappresentazione (della realtà, dei sentimenti, della storia) solo ad esso permessa. Perché Kundera dice queste cose quasi a slogan, con una sicurezza che, dietro il tono di rammarico un po’ di circostanza, trincia giudizi come un rasoio? Questo atteggiamento è spiegabile con lo status culturale dello scrittore, con un suo momentaneo stato d’animo, con una sorta di luogo comune critico che di volta in volta s’incarna in una voce diversa? «Kundera – sostiene Caproni – fa una bella confusione. Confonde il successo, l’audience con la gloria. E non si può mettere sullo stesso piano il successo con il reale valore di una poesia che trova i suoi lettori nel tempo, agisce in esso, non nell’istantaneo. Come certe medicine. D’altro canto quanto tempo c’è voluto per decretare il successo di un libro come gli Ossi di seppia di Montale?» Mario Luzi è dello stesso avviso: «Il tempo irritato e sconvolto, questo tempo tragico consente e forse tragicamente propizia la poesia. E si può essere poeti o aspirare ad esserlo. E non vergognarsi». Per lui il problema non è la consu-

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mazione del genere poetico come strumento di conoscenza, la poesia si trova in una situazione storica diversa e ne deve prendere atto: «Il suo ruolo non è immutabile, come non è immutabile la sua forma e la struttura latente che la sorregge. L’età scientifica già sta modificando la base d’autorità che l’età cosiddetta umanistica aveva eretto alla poesia. Ma anche la poesia sarà in grando di modificare il margine di grandezza delle nuove e delle vecchie scienze». Dunque, una difesa appassionata, non d’ufficio, di due massimi poeti italiani contemporanei: il primo, Giorgio Caproni, può oggi vantare ben cinque edizioni in poco tempo del volume che raccoglie tutte le sue poesie; Luzi è in questi giorni di nuovo in libreria con un volume (Per il battesimo dei nostri frammenti, Garzanti). Franco Fortini, che di recente ha pubblicato un libro da Einaudi, Paesaggio con serpente, cerca di spiegare come si è arrivati ad una diagnosi radicale come quella di Kundera: «Il terreno della poesia si è spostato, si è ridotto a quello della pura lirica. L’insegnamento della letteratura contemporanea ha incoraggiato l’uso della narrativa come fosse lirica e, d’altro canto, esiste ancora un consumo di narrativa, nel mondo, richiesto per avere informazioni sul mondo. Esistono testi narrativi che sono fatti per essere letti, non riletti. Così il consumo critico per frammenti si estende anche nel consumo pubblico della poesia». Entriamo, dunque, nel terreno dell’assimilazione della poesia, della sua diffusione. Alberto Bevilacqua, che è narratore di grande successo, ha recentemente pubblicato un libro di poesia, Vita mia (Mondadori) tornando, con la lingua poetica, alle sue origini padane, alla sua radice. Naturalmente sa in partenza che la circolazione della poesia è minoritaria. «Certo, su questo aspetto non si può essere ottimisti. Ma da qui a dire che la poesia è morta, c’è l’abisso. È questa un’operazione simile a quella che dichiarava tempo fa il romanzo morto e ne praticava il cadavere. Non si possono varare editti di morte così affrettati. Vogliamo con un solo colpo di spugna cancellare tutto il terzo mondo dove un poeta come Senghor, per fare un solo esempio, ha diretto un popolo?». Ma poi, anche su questi dati che riguardano il consumo, la situazione è così nera? Caproni non la pensa così. «Il romanzo sta crollando da tutte le parti. Per la poesia è diverso». E cita l’interesse che sente crescere giorno dopo giorno intorno ai suoi versi. Cita ancora il recente articolo di Asor Rosa in cui si attribuisce ai versi dei nostri «vecchi» poeti (lui stesso, Bertolucci, Luzi) una capacità di folgorazione che non è più concessa ad altri generi. Vale la pena di integrare questa citazione con quella di un linguista, Gian Luigi Beccaria, il quale, sul primo numero del mensile «L’indice», ha scritto tra l’altro: «La poesia è (pare un assurdo) quanto di meno irrilevante, di più terrestre e di maggior tenuta circoli tra gli uomini e oggi proprio, in una civiltà che promuove, invece, l’oggetto di rapido consumo, l’oggetto destinato a cambiare, destinato ad essere utilizzato. Il più inutile (la poesia, appunto) è proprio quanto continua a restare, quello che è cambiato di meno, da Omero ad oggi. Di tutti gli oggetti (e non solo artistici) il meno provvisorio». Già, ma il lettore? Cambia, è cambiato? Mario Luzi ha scritto a proposito nella raccolta dei suoi saggi Discorso naturale: «C’è il lamento di coloro che pro-

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testano perché nessuno li ascolta, come se essere ascoltati fosse un diritto acquisito. C’è lo scetticismo degli altri, i quali non credono importante stabilire il colloquio, lo ritengono superfluo. Ma ascolteranno le domande della poesia e dell’arte gli uomini stessi che con la loro condizione e le loro opere le hanno fatte nascere. E le hanno, forse, essi stessi rinnovate nel poeta che è presente fra loro e non è a parte, non è separato da nessun diaframma». Insomma, la poesia resiste, inutile intonare l’ennesimo suo canto funebre. E forse, tra trenta, cinquanta o cent’anni, quando si vorrà davvero capire cosa è accaduto in questi decenni enigmatici, sconvolti e irati, a restituirci questo clima varrà di più un versicolo o una strofa densa di sapienza, di tutto quell’amore, quel dolore, quei sentimenti che i non molti poeti di oggi, tra i molti che scrivono, riescono ancora a fissare, come per un attimo si fissano le immagini sull’acqua che scorre.

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88 LIVORNO È NOSTALGIA DI LUCE E FANTASIA

[Risposte ad Aldo Santini] Giorgio Caproni è livornese ma lasciò presto Livorno.

Avevo dieci anni. Mio padre, Attilio, che lavorava nell’amministrazione del Teatro Avvalorati, e suonava il violino, e conosceva bene Mascagni, accettò un’offerta di Cardini, trasferendosi a Genova. S’impiegò nella sua industria del pesce. Così Livorno ha segnato la sua infanzia. E ha reso struggenti i suoi ricordi legati alla madre, Anna Picchi. La Livorno di Caproni è luminosa di nostalgia: «Livorno tutt’intorno / com’era ventilata! / Come sapeva di mare […]». E a Genova Caproni diventa poeta, dico bene?

No, prima salta fuori il violinista. Da ragazzo volevo diventare un grande compositore. Studiai musica. Ma non avevo i soldi per il conservatorio. Frequentai l’Istituto musicale in Salita Santa Caterina. Il mio maestro, Armando Fossa, mi incoraggiò prestandomi un bellissimo violino di marca Candi. Ormai ero un giovanotto. Studiavo di giorno e la notte suonavo nell’orchestrina di una balera. Le canzoni in voga erano Noi siam come le lucciole, Adagio Biagio. Intendiamoci: suonavo anche nelle opere. Violino di prima fila. Tutti dicevano che avevo un brillante avvenire. Ma una sera, chiamato a sostituire il primo violino in un a solo del Thaïs di Massenet, me la cavai abbastanza bene, però ebbi un’emozione tale che capii di non essere tagliato per quella professione. E a casa spezzai lo strumento. Avevo diciotto anni. Caproni spezza il violino e fa il poeta. A chiedergli dei suoi studi risponde in modo frammentario. S’impiega presso un avvocato di via XX Settembre, Ambrogio Colli. Dalla biblioteca dell’avvocato tira giù un libretto, Allegria di naufragi di Ungaretti, editore Vallecchi 1919. È incuriosito dai suoi versi, dalla sua carta ruvida. Quel libretto non lo riporta più. Lo legge ogni sera. «E subito riprende il viaggio / come dopo il naufragio / un superstite / lupo di mare…», «M’illumino / d’immenso», «Lontano lontano / come un cieco / m’hanno portato per mare», «Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie». Le poesie di Ungaretti gli danno lo scossone. Lo inducono a scrivere da sé i versi per le composizioni musicali che continua a creare. Scrive versi surrealisti. Ha scoperto i poeti sudamericani. Ma un giorno abbandona le astruserie. Prende per modello un poeta che credeva di non amare, il Carducci tutto musica di Pianto antico, di San Martino. E a vent’anni, nel 1932, ecco la sua prima poesia, Marzo:

302 GIORGIO CAPRONI Dopo la pioggia la terra è un frutto appena sbucciato Il fiato del fieno bagnato è più acre […] E nel 1936 ecco il suo primo libro, un’esile raccolta, Come un’allegoria. Lo pubblica a Genova, da Emiliano degli Orfini. Un inizio dimesso.

Lo sai che Montale, di Ossi di seppia, riuscì a venderne solo venticinque copie? Intanto decide di guadagnarsi da vivere come maestro elementare.

Avevo ventitre anni. Detti gli esami da privatista. Gli esami, allora, erano una cosa seria. Presiedeva la commissione Ugo Spirito che mi lodò pubblicamente per il tema sul Pascoli. «Ti do nove, il massimo». Ma agli orali litigai con un professore che interrogandomi su Leopardi voleva che in una parola dicessi cosa aveva di particolare la sua poesia. Non capii bene la domanda e non risposi. «Ma è il pessimismo!» gridò. Non seppi star zitto e replicai che la storia del pessimismo di Leopardi era un luogo comune e che nessuno più del Leopardi aveva amato la vita. Però venni promosso ugualmente. E Caproni ebbe un posto in provincia, nella Val Trebbia, dove conobbe Rina, la moglie. E dove tornò dopo sette anni di militare. Dove visse la guerra partigiana («Niente eroismi, sia chiaro») che gli ispirò i primi racconti e le prime poesie italiane sulla Resistenza. Dove fu chiamato come esperto del processo di una vecchia signora arrestata perché sulla facciata della sua villa c’era una scritta inneggiante a Mussolini. Questa era l’accusa. Caproni chiese di vedere l’iscrizione. Il tribunale andò per il sopralluogo e Caproni lesse: «Labore duce, fortuna comite». Pazientemente spiegò ai partigiani che quella frase, in latino, significava «Con il lavoro come guida e la fortuna come compagna…». Dopo la guerra Caproni va a insegnare a Roma, nel quartiere Monteverde, dietro Trastevere. È là che si stabilisce con Rina e i due figli. È là che fa amicizia con Pasolini. «Se c’è qualcuno come te, la vita non è persa»1 gli ha dedicato il poeta friulano. È là che traduce Céline, e Cendrars, e Genet, Apollinaire, Proust, Maupassant.

L’opera più difficile è stata Morte a credito. Due anni di lavoro. Céline scriveva in argot. Una fatica terribile. Mi ha aiutato Frénaud, il poeta. Gli spedivo liste di vocaboli e lui mi mandava la traduzione in francese. Céline andava prima tradotto in francese. Oltretutto è pieno di doppi sensi. Ma traducendolo ho scoperto che molto del suo argot è imparentato con le forme dialettali italiane della costa tirrenica. «Nibergue», ad esempio, è il «nisba» livornese. «Me la presti la bicicletta?» si diceva a Livorno. «Nisba» ti rispondevano. Cioè, no. In questi giorni sono andato a rileggermi Morte a credito e anche La mano mozza di Cendrars tradotti da Caproni per Garzanti. E ho gustato delle prose stupende, rigorose, mai una frase sciatta, come troviamo in tante versioni ammannite negli ultimi anni da editori illustri. E anche nel

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suo Céline il nostro caro poeta fa sentire la propria origine livornese. Come quando definisce «troiona» la portinaia, la vecchia signora Bérenge che aveva un cane strabico. Quella «troiona» riporta Caproni alle scritte contro Mussolini vergate sui muri di Livorno.

Ero in viaggio di nozze. Mi fermai a Livorno perché Rina conoscesse la mia città. E lei rimase colpita dall’affetto che i livornesi esternavano per la madre altrui, sui muri, a lettere cubitali. Si stupiva perché la delicatezza d’animo dei livornesi faceva a pugni con la loro violenza verbale, la loro ostentata ignoranza. Sui muri c’era scritto: «Tu mà buona». È a Roma che la poesia di Caproni matura e s’impone alla critica, che guadagna lettori sempre più numerosi e affezionati. È a Roma, nostalgico del mare di Livorno e di Genova, che Caproni viene riconosciuto grande poeta.

Di premi ne ho ricevuti anche troppi… Ormai sembro l’insegna di una premiata pasticceria. E ride compiaciuto della sua battuta di livornese incorreggibile. Negli anni passati è stato male. È andato due volte sotto i ferri. Credeva profetico quel suo Congedo del viaggiatore cerimonioso del 1960: «Amici, credo che sia / meglio per me cominciare / a tirare giù la valigia…». Caproni parla volentieri, con gli amici, dei maestri della poesia che ha conosciuto. Di Montale, di Saba, di Ungaretti. Mi presentarono a Cardarelli, in via Veneto. Sedeva al suo tavolo del caffè Strega, con il suo eterno pastrano che non si toglieva nemmeno d’estate. Io ero un pivello. Venivo da Genova. Cardarelli alzò un dito e disse: «Perfino la Liguria ha dei poeti!». La frecciata non era per me, s’intende: era per Montale. I poeti di quella generazione non si amavano. Non perdevano occasione per dir male uno dell’altro. Noi, invece, che un tempo eravamo definiti della seconda generazione, siamo stati e siamo tuttora molto amici. Ci siamo stimati e ci stimiamo. Allorché Quasimodo vinse il Nobel, Montale e Ungaretti sputarono veleno e misero il lutto. E il giorno in cui festeggiarono l’ottantesimo compleanno di Ungaretti, rimasi sorpreso dalla generosità di Quasimodo che fece un intervento molto bello, e molto apprezzato da Ungaretti. Montale, invece, prese la parola per fare dell’ironia di pessimo gusto. Che peccato… Sovente alla statura del poeta celebre non corrisponde un’uguale statura dell’uomo. Per valutare la statura dell’uomo Caproni basta ascoltarlo quando racconta di una sua esperienza scolastica al «Francesco Crispi» di Monteverde dove ha letto, commentato e fatto commentare poesie di antichi e moderni, da Dante a Palazzeschi.

La mia scuola era frequentata anche dai trovatelli. Quei poveri ragazzi venivano messi tre o quattro per classe, e indossavano un grembiule nero, mentre tut-

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ti gli altri lo avevano blu. Una discriminazione orribile. Io andai dal direttore e gli chiesi di prenderli tutti io, i trovatelli, in una classe di studi differenziati a seconda dell’età. Era un esperimento. Il direttore non voleva, poi si arrese. E quella classe di grembiuli neri divenne eccezionale. Per i miei trovatelli io ero un padre, un fratello maggiore. Si confidavano con me. Mi adoravano. La mia considerazione li spingeva ad approdare per poter essere qualcuno, nel futuro. Mi seguivano nello studio come mai un insegnante è stato seguito. Capisci, ora, perché ho fatto sempre il maestro elementare?

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89 [LA POESIA, COME LA MUSICA, NON SI PUÒ SPIEGARE]

[Risposte a Sergio Palumbo] Si è recentemente tornati con maggior interesse a parlare di Lei per la pubblicazione da parte della Garzanti di Tutte le poesie. Tuttavia, per dirla con Raboni, Caproni rifiuta il monumento e continua a lavorare da buon artigiano della poesia. Ha infatti in corso di preparazione un nuovo libro che intitolerà Il Conte di Kevenhüller. Ci può anticipare qualche cosa?

Ritengo pericoloso, per me soprattutto, far degli anticipi a proposito del mio nuovo libro, il cui stesso titolo, del resto, è per il momento provvisorio. Finché il libro non si sarà interamente composto, e io stesso non ne vedrò intera la figura, penso che ogni ipotesi potrebbe riuscirmi vincolante, e quindi alterare il naturale formarsi dell’opera. Se un romanziere riesce a raccontare agli amici l’intera trama di un suo romanzo ancora da scrivere, o comunque non ancora terminato, quel romanzo non lo scriverà più, scrivendo in sua vece una relazione di fatti o d’altro. Io non sto scrivendo un romanzo, ma tutti i miei migliori libri di poesia formano un insieme (un unicum, vorrei dire), dove le singole pagine son concatenate tra loro, pur nella loro autonomia, al punto che alcune rischiano di restar lettera morta se non riferite al tutto di cui fanno parte, o almeno a quelle che immediatamente le precedono. Il solo anticipo che mi sento di fare, quindi, è un rinvio – quasi a titolo d’assaggio – ai componimenti (o, se vogliamo esser più precisi, ad alcune componenti) visibili si riviste come «Nuovi Argomenti», «Incognita», «Paragone», «Linea d’ombra» ecc., e soprattutto – quando comparirà – sull’«Almanacco» che l’Università di Basilea sta allestendo a cura del Prof. Giovanni Bonalumi1. Per la presentazione del suo ultimo libro a Messina durante l’Omaggio a Giorgio Caproni da parte dell’Associazione Pugliatti sono state lette da Gazzolo tre sue poesie inedite che faranno parte della futura raccolta. Può Lei stesso commentare queste tre poesie?

Posso soltanto dire che la copia di una delle tre poesie inviate (Pasqua di resurrezione) era decurtata, per mia colpa (o più semplicemente per mia distrazione) di due versi: «Il calendario segnava: / Pasqua di Resurrezione», versi che devono precedere il penultimo e l’ultimo2. Quanto al resto, ho sempre pensato che la poesia sia intraducibile in termini logici, come la musica (e del resto, qualsiasi altra arte). Al massimo, ammetto la necessità di qualche nota quando si tratti di precisare un luogo geografico poco conosciuto, o altre cose del genere. Sono proprio i commenti – o peggio la richiesta di commenti – a rendere odio-

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sa la poesia a scuola. Io ho tenuto cattedra di poesia per un anno (dalle elementari ai licei), e ho sperimentato con gioia come i ragazzi siano pronti a «recepire» (come oggi – ahimè – si usa dire) la poesia, se questa vien loro «presentata» nel modo più acconcio: tramite cioè una lettura espressiva (non una recitazione, o una declamazione secondo il vezzo di tanti attori), sinonimo d’interpretazione. (Un violinista non commenta un testo musicale: lo interpreta, appunto). Quando mi si chiede che cosa ha voluto dire Leopardi con «Sempre caro mi fu quest’ermo colle», rispondo, senz’ombra di ironia, che semplicemente e soltanto ha voluto dire: sempre caro mi fu quest’ermo colle, e non di certo, come i pedanti commentano: «Questo colle ermo mi fu sempre caro», o ancor meno «Mi è sempre piaciuto questo colle solitario». C’è una differenza profonda – irriducibile – tra linguaggio di normale comunicazione e linguaggio poetico, anche se entrambi usano lo stesso codice. Oggi è opinione corrente, ma io batto questo tasto fin dagli anni Quaranta, quando ancora in Italia non si avevano nozioni chiare al proposito, e non voglio certamente ripetermi qui. Lascio dunque ogni commento – tornando ai miei inediti – ai critici di professione, spesso dotati di maggior… fantasia dello stesso poeta commentato. Quando le inviai le mie liste per scegliere le poesie da leggere in occasione della manifestazione a Lei dedicata, mi rispose proponendomi una sua lista che meglio coglie i temi fondamentali delle opere. Ebbene, tra le liriche che non figurano nella sua lista noto l’assenza del Congedo del viaggiatore cerimonioso, sovente inserita nelle antologie come lirica tra le più felici e significative. Perché Lei invece l’ha scartata?

Forse per non allungare troppo la lista stessa, che se non erro non doveva superare una certa misura, sacrificandola a favore di altre che mi stanno a cuore; tanto più – appunto – che è una della mie cose più note. Ritiene che possa esistere l’interdisciplinarietà delle arti? Insomma, poeti, pittori, musicisti possono lavorare e creare insieme pur nel rispetto delle forme proprie alle diverse espressioni di linguaggio artistico?

Non capisco bene che cosa intenda per «interdisciplinarietà». Interdipendenza, forse? Se così, il Melodramma è uno degli esempi più vistosi di collaborazione tra cultori d’arti differenti (poeti – appunto – musicisti, pittori, architetti, e potremmo aggiungere arredatori, costumisti, coreografi, mimi e via dicendo), ma è anche l’esempio più lampante di come soltanto ad uno di essi (nel caso, al musicista) tocchi la parte del leone. La grandiosa ambizione wagneriana del WortTon-Drama (più che grandiosa, addirittura maestosa) potrebbe al contrario confermare la possibilità di fusione perfetta, senza distinzioni gerarchiche, di arti diverse, senonché non mi sembra qui il luogo adatto per intavolare un ragionato discorso in merito. Mi limiterò quindi a concludere che la collaborazione è sempre interessante e in certi casi necessaria (teatro, cinema, tv ecc.) senza però godere troppo le mie simpatie.

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Quali sono i musicisti e pittori del nostro tempo che Lei preferisce o ama di più?

Se allude ai viventi, per i musicisti farò un solo nome: Goffredo Petrassi. Quanto ai pittori, dopo Renato Guttuso, o con Renato Guttuso, mi piacciono Lorenzo Vespignani, Mario Marcucci, Domenico Purificato, Primo Conti, tanto per fare i primi nomi che mi vengono in mente. Quali saranno secondo Lei i poeti d’oggi che diventeranno i classici di domani?

Penso che sia impossibile, o perlomeno rischioso, dirlo. Imprevedibili sono sempre i gusti del domani. Troppi sono i poeti che dopo essere stati acclamatissimi in vita, son poi passati in soffitta, o comunque hanno visto molto sprofondati i loro allori.

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90 [INTERVISTA SU UNGARETTI]

Caproni, vuol dirci come conobbe Giuseppe Ungaretti?

Conobbi per la prima volta la poesia di Ungaretti di furto. Letteralmente di furto, perché in un libro da me… rubato. Già. Rubato. Avevo da poco ammainato i miei sogni paganiniani, e per guadagnar qualcosa m’ero impiegato da un avvocato, a Genova. L’avvocato Ambrogio Colli, un sardo, un ottimo penalista, che aveva viva la passione per la letteratura. Fra i suoi libroni di diritto, trovai uno strano libretto intitolato Allegria di naufragi, Editore Vallecchi, Firenze, 1919. Mi incuriosì, e me lo portai a casa per non restituirlo più. Cosa rappresenta a suo giudizio Ungaretti nella poesia italiana del Novecento, la «assolutezza» del suo discorso lirico?

Le risponderò indirettamente, continuando la storia di quel mio furto. L’Allegria m’insegnò in profondo a ritrovare intero il sapore perduto della parola. Parola per parola, silenzio per silenzio. E questo non soltanto sulle paginette rubate, ma anche, chissà per quale contagio o osmosi, sulle pagine che già credevo d’aver letto di altri grandi poeti, compresi i classici, che ora invece, dopo le scansioni ungarettiane, mi pareva non di rileggere ma di leggere (di scoprire) per la prima volta. E con una partecipazione intima che prima non mi ero mai sognata. Ricordi personali a parte, credo di poter dire in assoluto che davvero Giuseppe Ungaretti sia stato per tutti noi (dico per tutti i poeti della mia generazione), oltre che un grande Maestro di stile e di scrittura, il primo e forse unico maestro di lettura. È lui a riportare con estrema energia il discorso lirico alle proprie scaturigini prime: alle proprie primordiali fonti, costringendo il lettore, ripeto, a risillabare la poesia parola per parola, silenzio per silenzio, fulminando e calcinando di colpo l’intero castello di cartapesta di questo nostro mondo chiacchierone e vano nei suoi vari programmi e manifesti poetici. Compresa la rumorosa esplosione quasi goliardica del Futurismo, scaturita soprattutto dal gusto molto borghese di scandalizzare i borghesi. Ungaretti studia e si forma all’estero, scrive anche in francese, che influenza ha questo sulla sua «figura» d’artista, nel panorama italiano?

Credo sia stato Leone Piccioni a sottolineare per primo la diversità di Ungaretti, proprio per la sua formazione in area culturale diversa (soprattutto francese) ri-

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spetto agli altri «padri» del Novecento italiano. Proprio per questa sua formazione diversa, Ungaretti è forse l’unico poeta italiano a non aver subito in nulla l’influsso pascoliano o dannunziano. Ma soprattutto del Pascoli, che gettando per primo il seme dell’inquietudine nella parola, ha così fortemente agito su tutti: Montale in testa, che senza la lezione pascoliana (e dannunziana) avrebbe raggiunto approdi ben diversi. Caproni, Ungaretti a Parigi frequentò autori come Apollinaire e Paul Fort, conobbe le avanguardie; ma egli nell’opera va oltre i movimenti d’avanguardia, come per ogni movimento accade nei vari poeti. Cosa pensa in proposito?

Pur col suo straordinario potere rivoluzionario, Ungaretti era, come del resto rimase fino alla morte, un uomo intero: un classico nato e vissuto in epoca di estrema dissoluzione della persona e della voce. E se dovette, per sorte, ricorrere al piccone demolitore contro ogni ormai logora letteratura accademica, lo fece con la necessità ch’è propria dell’architetto di genio di fronte a una cattedrale manomessa dai troppi «abbellimenti»: giacché dai marmi e dalle calcine atterrate con un formidabile «colpo di cuore», per primo riuscì a rimettere mirabilmente in piedi (raccattando e ricomponendo con pazienza estrema – con estrema sofferenza – gli elementi essenziali del discorso poetico dopo averne tolte tutte le incrostazioni retoriche) l’uomo nella sua naturale dimensione o grandezza: l’uomo – sia detto senz’ombra d’ironia – grandeur nature: senza nulla aggiungergli e senza nulla togliergli. Ebbi piena conferma di questo quando, qui a Roma, lui per primo volle conoscermi, e demmo principio a un’amicizia mai venuta meno, anche se a volte, maliziosamente, io mi divertivo a farlo arrabbiare, non fosse che per godermi lo spettacolo delle sue memorabili ire. Quale fu a suo giudizio il rapporto di Ungaretti col fascismo?

Non ho in merito notizie storiche precise, così su due piedi, sui precedenti politici di Ungaretti. Nell’edizione vallecchiana 1919 dell’Allegria di naufragi, è vero, vi è una poesia, Popolo, dedicata a Benito Mussolini. Dedica poi scomparsa. E ricordo anche d’aver letto che in quello stesso 1919 Ungaretti era corrispondente a Parigi del «Popolo d’Italia», lasciato nel ’20. Ma a parte il fatto che il Mussolini del ’19 non era ancora il duce, almeno gli anni in cui lo frequentai Ungaretti non mi diede mai l’impressione di un fascista militante (come innegabilmente non fu un antifascista militante). Il suo «fascismo», se tale può dirsi, non era diverso da quello d’ogni italiano medio d’allora. Fece parte dell’Accademia d’Italia, certo. Ma anche il socialista Mascagni, anche Pirandello e tanti altri. Certo non fu mai moschettiere del duce come, per esempio, Bontempelli. Comunque, se pensiamo ai casi Pound e Céline, che altro dire? Conosco compromissioni molto più gravi, sulle quali si è scrupolosamente posta una pietra a

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proposito di personaggi poi decantati quali campioni di democrazia. Ma al proposito preferisco tacere. Ci sono rapporti tra la poesia di Ungaretti e quella di Caproni, delle occasioni d’incontro?

Credo d’aver già risposto, almeno in parte. Tutti i poeti della mia generazione, più o meno, hanno appreso qualcosa da Ungaretti. Da quello dell’Allegria, ma anche da quello di certi componimenti del Sentimento del tempo, come, per far due soli esempi, Inno alla morte e La pietà: quest’ultimo, per me, uno dei capisaldi della poesia novecentesca. In un convegno tenutosi all’Università di Roma nel novembre del 1980, lei disse, testualmente: «È stato lui (Ungaretti) a insegnarmi che l’uomo è solo, e che è proprio nella disperazione (nel deserto della disperazione) che nasce l’allegria del poeta». Disperazione e allegria. Vuol spiegarci questo concetto?

Mai l’uomo si è sentito così solo come durante la dittatura fascista o, peggio ancora, come oggi, in questa pesante società massificata, che mira a distruggere l’individuo per trasformarlo soltanto in un consumatore. Già ai suoi tempi Kierkegaard scriveva: «Pare che si tema che l’Io sia una specie di tirannia e che per questo ogni Io debba essere livellato e nascosto». Parole, a distanza di ben oltre un secolo, di una terrificante attualità, cui è impossibile non aggiungere con un brivido – quasi contemporanee – le altre di Leopardi, profetizzanti un’«età delle macchine», così detta «non solo perché gli uomini d’oggidì procedono e vivono forse più meccanicamente di tutti i passati, ma eziando perché ormai non gli uomini ma le macchine, trattano le cose umane e fanno le opere della vita, fino a venire a comprendere oltre che le cose materiali anche le spirituali». Il poeta reagisce a tanta solitudine (il popoloso deserto che chiamano Parigi, si potrebbe dire con Violetta1) col proprio stoicismo, cioè spogliandosi d’ogni illusoria speranza impostole dall’esterno, e solo in questo senso con un’assoluta disperazione. In questo ritrovamento della persona, a vantaggio soprattutto degli altri, sta la sua allegria, intesa nel suo significato più nobile. Ma forse, per esser più chiaro, dovrei auto citarmi, ripetendo l’Inserto primo del mio Franco cacciatore. Non me la sento, anche perché, è ovvio, non lo so a memoria.

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91 IL POETA

[Risposte ad Antonio Debenedetti] Abbiamo chiesto agli uomini di cultura d’indicare un libro su Roma. Hanno già risposto Moravia, Manganelli, Malerba, Vespignani, Montefoschi e Bevilacqua. Tocca oggi a Giorgio Caproni. Quale opera suggerisce?

Non ho dubbi: I rioni di Roma di Giuseppe Baracconi. Perché?

Il libro, nato dagli articoli che l’autore pubblicò nel giornale «La Rassegna» durante l’anno 1885 è la più bella guida immaginaria dell’Urbe che io conosca. Non c’è nessun riferimento a quella realtà di oggi, che ha fatto di Roma una metropoli quasi inabitabile.

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92 LE CONTRADDIZIONI DELLA POESIA

Come giudica la situazione della poesia italiana degli anni ’80, fra le conferme ma anche i ripensamenti di poeti noti e dall’altro lato il manifestarsi di un forte bisogno di esprimersi con versi, da parte dei giovani, delle donne?

Penso che «a tener alta la bandiera», anche in questi anni ’80, siano stati i poeti della generazione intorno al ’10. Non solo per una loro salda conferma, ma anzi per una loro precisa e decisa avanzata o crescita, su una linea di perfetta coerenza (e di meravigliosa tenuta, nel chiasso dei molti presunti rivolgimenti e capovolgimenti programmatici) che senza dubbio non ha impedito la novità e, in alcuni casi, perfino la sorpresa. Il che non mi ha impedito di vedere, contemporaneamente, l’aprirsi a più larghi orizzonti di poeti delle generazioni più giovani. Quanto all’«altro lato» della sua domanda, direi che «il fenomeno» da lei sottolineato già fosse in atto nel precedente decennio, con la differenza che forse oggi ha raggiunto più vistose proporzioni, e aggiungerei un maggior controllo critico. I giovani in particolare, par che si siano decisamente accorti che per salvare la propria identità – o singolarità – in questa sempre più schiacciante massificazione voluta da un interessato potere, la poesia – appunto come ricerca della propria persona – sia il mezzo più idoneo. (E non per nulla questo stesso potere cerca in tutti i modi di relegarla ai margini, non esitando a usare le armi del dispregio e dell’ironia). A un accresciuto interesse verso la poesia, a un più diffuso rispetto della società, si contrappone una situazione editoriale ben poco rosea: la poesia è spesso un fiore all’occhiello, la sua presenza in libreria non è adeguata, il numero dei lettori è inferiore a quasi tutti (per non dire tutti) i Paesi europei. Lei cosa consiglia, per aumentare la presenza della poesia?

Da un pezzo – l’ho già detto altre volte – sono finiti i tempi dell’editore mecenate, tipo il vecchio Attilio Vallecchi, che aveva il coraggio (e diciamo pure il fiuto e l’intelligenza) di pubblicare giovani ancora sconosciuti, diventati poi capisaldi del Novecento, non soltanto poetico (chi vuol capire con chiarezza che cosa abbia significato Vallecchi per tutta la nuova cultura italiana, legga Giorgio Luti, che con Firenze corpo 81, di recente uscito, ci ha dato un libro esemplare per valore critico e storico, nonché per nitore di scrittura). Oggi, il grande editore è prima di tutto un industriale, e come tale «è giusto» che miri a immettere sul mercato prodotti di sicuro smercio. E proprio per questo diffida dei nuovi nomi, specie nel settore poesia, per la quale occorrono sempre tempi lunghi prima di raggiungere la platea. Sui nomi «sicuri» e già «affermati», esita meno, dandogli ragione il fatto che

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di una loro opera, in alcuni casi è arrivato in breve volger di mesi alla III edizione, anche se in verità si tratta di tirature, al massimo, di quattro o cinque mila copie ciascuna. Che poi il numero di lettori di poesia, in Italia, sia molto inferiore a quello degli altri Paesi europei, non ho statistiche sotto mano, ma so che nella civilissima Francia, per esempio, di rado si giunge a superare, nelle vendite, il primo migliaio. La poesia non potrà mai, per sua natura, aver la presa del rock and roll, o del cinema, o del romanzo di consumo. «Per aumentare la presenza della poesia», una sola cosa consiglio: riformare tutte le strutture culturali, dai programmi delle scuole primarie a quelli delle Università e dei mass media, pur se è vero che oggi, nelle più qualificate Università, l’attenzione verso la nuova poesia sia sensibilmente cresciuta. Inoltre, incoraggiare al massimo le iniziative di letture pubbliche intraprese da varie Regioni e da vari Comuni, nonché da alcuni Enti privati. In Italia si è in questi anni costituita una lingua media, parlata e pensata da tutti; è un linguaggio televisivo, povero e pieno di barbarismi, ma è una reale lingua di scambio. All’altro capo della catena delle parole, lei ritiene che anche nella poesia si sia verificato un cambiamento linguistico?

Sì, trovo abominevole quella specie di casalingo esperanto di cui son maestri i doppiatori cinematografici (e purtroppo ripreso subito a volo, anche attraverso la Tv, da chi dal dialetto vede nella «lingua» una sorta di «promozione sociale») capace di privare il timbro naturale della voce d’ogni suo originario gusto o sapore. È una linguaccia burocratica, che purtroppo ora viene anche scritta, perfino da certi accademici o da certi «critici», i quali ultimi, nelle loro critiche, più che il ritratto dell’autore preso in esame, troppo spesso, riescono soltanto a disegnare un loro involontario – e avvilente – autoritratto, mettendo a nudo tutte le loro povertà. Per fortuna, il cambiamento linguistico verificatosi nella poesia (in quella vera, s’intende, non in quella degli innumerevoli versificanti a ruota libera) è diverso. In poesia, si sa, il linguaggio ha sempre seguito un suo proprio movimento, ed è giusto che un testo d’oggi non possa essere costruito con gli stessi laterizi di un testo di ieri. Dopo tante dissertazioni sperimentali, astratte, ha forse vinto il bisogno della realtà, di una parola poetica significante?

Auguriamocelo. Viviamo nell’età dell’immagine, della nuova comunicazione, del suono. Come sente oggi, nella sua poesia, il valore della figura e della musica? Le letture, il teatro, la radio e qualche volta anche la televisione, hanno offerto dei nuovi percorsi per la poesia (o hanno riaperto antiche strade). Ci può parlare delle sue esperienze e delle sue opinioni in proposito? E ancora, ci può dire qualcosa del libro che sta preparando?

Come sempre. Suono e immagine sono sempre esistiti, grazie alla grande pittura e alla grande musica, che nei secoli d’oro avevano funzione pubblica, e non

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soltanto per un’élite di raffinati. V’è certamente un’interdipendenza fra le varie arti, e l’una non può non risentire dell’altra. Il rischio (se tale può dirsi) è che un giorno l’immagine, che quando non è arte è sempre un falso rispetto alla cosa, finisca col soppiantare la scrittura.

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93 «O LORENZO DA PONTE O IL DIAVOLO»

[Risposte a Marcella Smocovich] Il travestimento e la maschera sono certamente una manifestazione per evadere dalla massa, per trovare una nuova personalità, sia pure artificiale. Io questa festa l’ho vissuta come sfogo di vitalità, mentre oggi è troppo industrializzata. In passato mi ricordo che, durante un carnevale, mi armai di un orinale, pulito naturalmente, pieno di maccheroni e girando per le strade invitavo la gente a mangiare in questo imbarazzante contenitore. Oggi con la motorizzazione che c’è, è impensabile uscire per la strada e fare una cosa del genere. Quale personaggio letterario sceglierebbe per mascherarsi?

Indosserei volentieri la maschera di un personaggio ormai morto: il diavolo. Una volta era rappresentato come una bella donna o un principe, comunque con un’immagine seducente. Oggi la malvagità è così diffusa e senza senso che risulta priva di fantasia, quindi non facilmente personificabile. Se, invece, dovessi scegliere un personaggio letterario, sceglierei un uomo del Settecento in nero con nastri e codino: Lorenzo da Ponte, librettista di Mozart. Era un Casanova più intelligente dello scrittore, aveva in più l’amore per la musica. Collaborava con Mozart, amava le donne, quale personaggio migliore? Sarà questo il suo travestimento del prossimo carnevale?

Oggi il carnevale non ha molto senso. Questa festa aveva un clima straordinario, oggi non più, tanto è andato perduto. No, io non uscirò di casa. Non parteciperò a feste, non c’è più quel carattere spontaneo di una volta.

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94 [INTERVISTA SUL PREMIO NOBEL]

Francamente non ho mai capito in che consista il valore autentico del Premio Nobel. Come contributo al successo, certamente il suo valore pubblicitario è notevole, con tutte le conseguenze che una buona pubblicità comporta: allargamento della notorietà e quindi delle vendite e degli incassi, senza contare la cospicua somma elargita. Ma su un piano di un vero giudizio critico, diciamo così di [valore] della storia, a legger la lista dei premiati, e pensando agli esclusi, dubito molto, non lo nascondo. Per i Grandi dell’Accademia di Svezia, per fare un solo esempio, non esiste nemmeno un Marcel Proust. Il caso Valéry mi conferma in questo dubbio. Si è laureata una Pearl Buck, di grandissimo successo ai suoi tempi (ma soltanto ai suoi tempi), e non si è nemmeno sfiorata l’idea, a quanto mi consta, di premiare Paul Valéry. Forse proprio perché fu un autore non di successo? Eppure, l’influenza esercitata da Valéry sui poeti, si può dire, di tutta Europa, se non di tutto il mondo occidentale, è lampante. La Jeune parque, lo stupendo Cimetière marin, gli Charms ecc., hanno sedotto e nutrito più d’una generazione, e ancor oggi vengono ammirati anche da coloro che hanno fatto altre scelte, fuori dall’ambito della cosiddetta «poesia pura». Senza contare poi l’opera in prosa, d’una lucidità che non è certo da meno di quella in versi. È un’esclusione che mi sembra abbastanza, come dire, scandalosa. Comunque, tale da rendermi perplesso sui moventi veri d’ogni scelta, così come mi rese perplesso il fatto che l’Accademia di Svezia si sia accorta di Quasimodo prima che di Montale, e non si sia affatto accorta di Ungaretti, tanto per restare nell’ambito della poesia e di casa nostra.

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95 [IL POETA È IL PIÙ STRENUO DIFENSORE DELLA SINGOLARITÀ]

Nelle sue opere si incontrano con una certa frequenza riferimenti più o meno espliciti, più o meno «tecnici», alla musica. E in effetti l’organizzazione stessa dei suoi versi è intensamente musicale; ma in senso stretto, senza riferimento alla cantabilità o alla facilità melica (metrica): musica, in questi ultimi dieci-quindici anni soprattutto, divenuta certo più acre e scabra; musica, con un prevalere forse del ritmo (e del contrappunto) sulla melodia, con esiti, per dir così, prossimi alla atonalità. Ripensando agli studi musicali (di violino soprattutto) da lei compiuti da ragazzo, quale rapporto le pare sia intercorso tra essi e la sua attività di poeta? E in che misura le trasformazioni subite dalla sua poesia sono state influenzate (o magari, anche, determinate) da ragioni musicali?

Per dare una risposta precisa, dovrei troppo dilungarmi, e per giunta correre il rischio di riuscire poco comprensibile, dato il semi-analfabetismo d’oggi in fatto di armonia e composizione. Un semi-analfabetismo di cui si ha traccia anche nel parlar comune. Quante volte infatti ho sentito dire, anche da «intellettuali», «una cerimonia di tono minore», o «un discorso in chiave di…», quasi che «il tono minore» (detto così soltanto perché l’intervallo fra la tonica e la terza è ridotto di un semitono) debba per forza essere meno solenne del tono maggiore, o che «la chiave» possa mutare la natura (o il tema) del discorso. Comunque rimando, a proposito della domanda, a quanto ho già accennato, in modo abbastanza chiaro, in un mio discorsetto ora raccolto in Quaderni urbinati di cultura classica, Edizioni dell’Ateneo, Urbino, n. 1, 19851. Come considera oggi il rapporto con i suoi auctores (classici o contemporanei)? Di quali ritiene attualmente più valida ed utile la lezione?

Non è mutato da quello di sempre. Nessuno può scrivere senza leggere. E dico leggere in profondità, e di tutto, non soltanto gli autori preferiti, o i «grandi». Da tutti c’è sempre da apprendere qualcosa. Da Tolstoj come da Giulio Verne. La storia o è lontana dalle sue poesie o vi entra nei suoi esiti più essenziali: la mira è così in alto (ovvero le maglie della rete così larghe) che la filosofia della storia sembra sfiorare sempre più la metafisica (o la teologia). Oppure è vero il contrario? E comunque: in che misura le «evoluzioni» del «suo» Dio sono legate alle condizioni esterne, materiali del mondo?

È vero quanto lei dice, come può essere vero il contrario. Quanto a Dio, vorrei che tutti coloro che me lo tirano in ballo mi spiegassero prima cosa intendono con tale parola, o nome. Allora, forse, potrei rispondere.

318 GIORGIO CAPRONI Da molti anni lei si dedica con assiduità ad una assai apprezzata attività di traduttore, della quale ha avuto altre volte modo di valutare i rapporti con la sua attività creativa in proprio. Quale differenza di atteggiamento, quale diverso senso di identità pubblica e privata, caratterizza le due funzioni culturali (di mediatore e di «creatore»)?

Non pongo differenza tra il tradurre e lo scrivere in proprio. Mi piace tradurre (e per giunta di autori a me meno congeniali) perché per me l’esercizio della traduzione è in primo luogo un allargamento della mia propria esperienza, o dirò meglio, della mia propria coscienza. L’autore scelto per la traduzione mi costringe sempre ad esplorare zone dell’io mai toccate, e che per sempre – forse – sarebbero rimaste nel sonno: nel buio. Ma anche questo l’ho già detto – e scritto – troppe volte, e di certo in modo più chiaro. La sua poesia, pur, come s’è detto, antinovecentista per la distanza sostanziale alla quale si è sempre tenuta da mode e «scuole», rappresenta un’espressione notevole di una problematica tipica del nostro secolo (e non solo nell’arte): quella dell’ identità (del soggetto psichico come di quello sociale). In relazione alle recenti «rivoluzioni» della comunicazione del sapere (trionfo dei mass-media, informatica, etc.), con quanto esse comportano di appiattimento e di spersonalizzazione, in che modo giudica oggi tale problematica? E quale lettore (o critico) ritiene ancora possibile (o auspicabile)?

Fin da ragazzo ero un lettore appassionato di Hoffmann, e in particolare dei suoi Elisir del Diavolo. Il monaco Medardo e le sue terribili metamorfosi, chi non le ricorda? Mi par d’aver detto tutto. È da allora che si pone con forza (anche se è sempre esistito) il problema dell’identità. Quanto all’oggi, mi cito da… i citati Quaderni urbinati. La società in cui viviamo – scrissi allora – minaccia con sempre maggior pesantezza i più elementari diritti del singolo: minaccia la distruzione totale del privato (della persona), per ridurre gli individui a una somma di «consumatori», ai quali – nell’imperante mercificazione anche di quelle che una volta veniva chiamate le aspirazioni spirituali – si vorrebbero imporre «bisogni» artificialmente creati per alimentare una macchina economica che trae a sé tutto il profitto, a pieno scapito d’una scelta interiore. Il poeta è il più deciso oppositore, per sua natura, di tale sistema. È il più strenuo difensore della singolarità, rifiutando d’istinto ogni parola d’ordine. E per questo il sistema lo avversa, sia ignorandolo o fingendo di ignorarlo, sia cercando di minimizzare la figura con l’arma della sufficienza e dell’ironia. Ho fisse in mente queste parole di Kierkegaard: «Si è abolito il cristianesimo, perché dappertutto si è ricacciata indietro la personalità. Pare che si tema che l’Io sia una specie di tirannia e che per questo ogni Io debba essere livellato e nascosto». A distanza di ben oltre un secolo, sono parole di una terrificante attualità, cui è impossibile non aggiungere con un brivido – quasi contemporanee – le altre di Leopardi, profetizzanti un’«età delle macchine», così detta «non solo perché gli uomini d’oggidì procedono e vivono forse più meccanicamente di tutti i passati, ma eziando perché ormai non gli uomini ma le macchi-

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ne, trattano le cose umane e fanno le opere della vita, fino a venire a comprendere oltre che le cose materiali anche le spirituali» Si ha l’impressione che l’attuale «confusione» editoriale e la rarefazione della collane di poesia delle grandi case editrici corrisponda ad un accentuarsi della marginalità della poesia, fatto già in atto da lungo tempo, ma forse più acuto in questa fin di siècle. Che cosa ne pensa lei? E, comunque, come giudica le iniziative di piccoli gruppi di rivistine e di lettura disseminati sul territorio?

Penso che nonostante il crescere spaventoso della marea dei versificanti, i poeti veri si facciano sempre più rari. Non si tratta tanto, quindi, di emarginazione (anche se tale fenomeno esiste), ma di rarefazione. Le mie personali esperienze, in Italia come all’estero, mi confermano che il pubblico è ancora sensibile alla poesia: soltanto, non è educato a cercarla, o meglio a sceglierla. Quanto ai piccoli gruppi, alle rivistine, ecc., son fenomeni portati per natura a rimanere isolati. Formano un arcipelago di tante piccole isole, ma separate fra di loro, senza una canoa che le congiunga. E poi, è invalso un linguaggio tale, nel parlar di poesia, che par fatto apposta per allontanare il lettore. Mai si è discettato tanto sulla poesia. Ciascuno vuol dir la sua, e sempre con un’aria di sufficienza da destar scoramento piuttosto che attenzione o, tantomeno, «ammirazione». Ciascuno crede di saper soltanto lui cos’è la poesia, e pontifica senza aver nessun ponte da custodire. E con quanto sussiego, poi! Si mira di più ad apparire intelligenti che ad esserlo. Lasciamo andare…

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96 PARERE SULLA CITTÀ DI OSTIA

[Risposte a Marcella Smocovich] Non ha la luce straordinaria della Liguria, somiglia più a Livorno per il vento e i colori sbiaditi. Ricordo il lungomare e una bellissima cena su una terrazza che si affacciava sulla pinetina, in una notte chiara. Ostia nella memoria è una città di romani antichi, di studenti preparati e lettori di poesie, come hanno dimostrato quando sono andato al loro liceo per una conferenza. E questo è un miracolo, perché oggi le poesie non le legge più nessuno.

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97 [CONVERSAZIONE A SANREMO]

[Risposte a Silvio Riolfo Marengo] A Sanremo, nel 1933-1934, ho fatto il soldato di leva e fu proprio in caserma che, ascoltando i segnali della tromba, quando in Italia non si sapeva ancora cosa fosse la semiotica, mi inventai una linguistica personale scoprendo la profonda differenza che esiste tra il linguaggio di normale comunicazione, quello che usiamo tutti i giorni, e il linguaggio poetico. Ai miei tempi l’ufficiale di picchetto ordinava alla tromba di suonare il rancio e il marmittone che conosceva il codice prendeva la gavetta, perché allora si mangiava nella gavetta, e la metteva al centro del cortile, in modo che potesse riempirsi bene di polvere o peggio. Un giorno pensai a cosa sarebbe accaduto se un ufficiale estroso invece di far suonare quel segnale dalla solita cornetta, si fosse rivolto ad un virtuoso di flauto. Il soldato avrebbe compreso che quello era il segnale del rancio, ma avrebbe sentito – non dico capito – qualcosa di più, cioè l’espressione musicale di quel ritornello e sarebbe rimasto magari a bocca aperta col rischio di perdere il turno del rancio. Ora questo avviene, appunto, in poesia. C’è una musica che esprime qualcosa che va oltre la parola e questo qualcosa è la poesia. A Sanremo ho fatto questa piccola scoperta e proprio qui, in caserma, scrissi i primissimi versi passabili. Mi ero stranamente innamorato della poesia leggendo i poeti sudamericani e avevo cominciato a scrivere cose assurde, surreali, che io chiamavo futuriste, finché un bel giorno mi accorsi di quanto fossero inutili e, con un atto di volontà, ricominciai a sillabare la poesia partendo proprio dal poeta che la mia generazione riteneva più antipatico, il Carducci. De Robertis ha scritto che mi ero ritagliato il Carducci impressionista, a me più congeniale – che io, livornese, dico invece «macchiaiolo» –, quello dell’Estate di san Martino, ma anche di certe Odi barbare. Così iniziai da capo, pian piano, con una poesia come Marzo, pensando che a dire cose difficili ci sarei arrivato col tempo, senza sapere ancora che Rilke aveva consigliato ai giovani di cominciare da cose semplici per poi arrivare al sublime. Lo presi proprio come un esercizio musicale, un Gradus ad Parnassum1. Cominciai da lì la mia carriera, se così posso chiamarla, di versificatore. Ormai la musica è caduta, il paroliere è rimasto. Ma non è caduta, mi pare, la tecnica che avevi appreso nei tuoi studi musicali.

Diciamo di sì, se si può parlare di tecnica. Io credo molto alla tecnica che viene direttamente dalla musica. La rima non è affatto obbligatoria, ne abbiamo

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esempi illustri, basterebbe pensare ai Sepolcri, versi sublimi senza l’aiuto della rima. A parer mio, però, se la rima si usa deve avere la stessa funzione portante delle colonne che reggono l’architrave in architettura e che in musica hanno le consonanze e le dissonanze. Ho già osservato più volte che se prendo il I Canto dell’Inferno e leggo soltanto le rime dei primi versi ho già la chiave perfetta di tutto il canto: sinonimie, intanto (la via e la vita) che diventano sinonimi (vita, smarrita), la selva diventa sinonimo di paura, poi dura, oscura, e così via. Queste sono le mie piccole teorie fino a poter dire tranquillamente che, in un certo senso, la lingua condiziona il poeta. Tu hai detto spesso di essere un musicista mancato, puoi precisare in che senso?

Per me la poesia non è che un modesto surrogato della musica. Opere come L’arte della fuga di Bach o certi quartetti di Beethoven sono pensiero puro, e dico pensiero e non sentimento, perché non è detto che le idee si esprimano solo in parole. Il mio ideale sarebbe di scrivere poesie di una parola sola. Il rumore delle parole, della loro sovrabbondanza mi ha stancato presto. Ho provato con l’orchestra sinfonica, ma poi ho preferito la musica da camera. E anche in questo caso con il massimo possibile di dissonanze: ho cercato insomma di fare musica moderna usando il sistema tonale. Un po’ quello che ha fatto, da genio, Stravinskij. In effetti ci sono, nel Conte di Kevenhüller che hai voluto presentare qui in anteprima, poesie non dico di una parola, ma di soli tre o quattro versi. Come sei arrivato a questo traguardo?

Il mio Gradus ad Parnassum, come ti dicevo, è durato parecchio, anche se non ho mai rinnegato il valore delle mie prime prove che sono, dicono, tutte freschezza di senso, ma dentro vi si sente già il tormento del tempo che fugge, della labilità, delle finzioni. Alludendo proprio a questa imprendibilità del reale, avevo intitolato il primo libro Come un’allegoria e non va dimenticato che con Finzioni avevo anticipato Borges di qualche decennio. Mi sembra di capire che il tuo non sia stato solo un percorso coerente, ma in qualche modo programmato.

Avevo, diciamo, una filosofia in testa, però andavo prudente e pensavo di arrivare pian piano ad esprimerla. Si può affermare che in questo cammino, Il seme del piangere, abbandono puro al sentimento senza la paura del sentimento, sia stata una parentesi?

È una parentesi che mi ha giovato moltissimo, anche perché il mio abbandono, come dici tu, è stato completo, ma sorvegliatissimo. Ho scritto poi anche scherzi, divertimenti come le Litanie su Genova, che avrei potuto tirare avanti per chilometri, scriverle a vita. E tuttavia le implicazioni filosofiche – forse la parola è trop-

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po grossa, diciamo di pensiero – cominciarono proprio con Il seme del piangere, che è un componimento ad portam Inferi, e poi si sono rafforzate nel Congedo del viaggiatore cerimonioso, non tanto nella poesia che ha dato titolo al libro, quanto in altre, per esempio nel Lamento del preticello deriso, che si è fatto prete proprio perché non crede in Dio e prega non perché Dio esiste, com’è comodo a molti, ma perché Dio esista. So che questo verso ha colpito molto il poeta inglese Lowell che poi mi ha dedicato una poesia scrivendo A Giorgio Caproni con la speranza che Dio esista almeno nelle nostre preghiere. Qui nasce appunto questo tormento di cercare Dio, che poi si è sviluppato nel Muro della terra. L’episodio della partigianeria che ho raccontato nella poesia I coltelli è vero. Trovarsi davanti all’amico ed essere obbligati a sparare. Per questo ho scritto: «Ah, mio Dio. Mio Dio. / Perché non esisti?», pensando che se Dio fosse esistito, forse questo non sarebbe accaduto. Il bisogno di Dio è già qualcosa, mi pare. E poi, se vogliamo, anche l’ateo è un credente: crede nella non esistenza di Dio e ha le stesse prove del credente. Quindi non potresti, a rigore, come qualcuno ha fatto, essere definito un ateo?

Qualcuno ha detto che io appartengo alla teologia negativa, quella della morte di Dio: morte nella coscienza dell’uomo, intendiamoci. C’è addirittura chi mi definisce ateo. Cosa falsa. Prima di tutto io non sopporto nessuna definizione. Le definizioni limitano. Non sono ateo, non sono credente, sono io. Poi «ateo» mi dà fastidio. È una parola ottocentesca che mi fa venire in mente certi livornesi col sigaro toscano in bocca, la cravatta alla Lavallière, i liberi pensatori. Tutte cose pittoresche che mi danno fastidio. Io pongo solo un limite alla ragione. Dico che la ragione umana compie miracoli, ma è destinata ad imbattersi in un muro o arrivare ad un ultimo borgo oltre al quale non ha accesso. L’uomo di fede fa presto: scavalca il muro, supera l’ultimo borgo, e beato lui. Ma il povero razionalista rimane interdetto: non dice però non c’è Dio, non c’è nulla. Anzi, c’è un personaggio mio, l’«antimetafisicante», che dice: «Un’idea mi frulla, scema coma una rosa. Dopo di noi non c’è nulla. Nemmeno il nulla, che già sarebbe qualcosa». [Pensatina dell’antimetafisicante, CK]

E un altro personaggio, di rimando: «E allora, sai che ti dico io? Che proprio dove non c’è nulla – nemmeno il dove – c’è Dio». [Pronta replica, o ripetizione (e conferma), CK]

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Come mi si può definire ateo in questo senso? In questa tormentata ricerca di Dio, mi sembra, e penso alle poesie del Franco cacciatore e queste del Conte di Kevenhüller, ha un ruolo centrale il problema del male.

Io non sono certo un teologo, ma in effetti mi pongo da sempre questo problema. I nazisti portavano il nome di Dio inciso nella cintura. «Gott mit uns», Auschwitz… Dio è il mistero di tutti i misteri, non si sa nulla di lui. È inafferrabile, ci vivifica e ci uccide. Eppure ricerco la sua presenza da anni. Certo, molti critici hanno indicato la città, il viaggio, mia madre come temi della mia poesia, ma il vero tema centrale è la ricerca, di che cosa non lo so nemmeno io. È l’uomo che cerca, cerca per sua natura e poi arriva sempre a un limite, purtroppo. La presenza della «Bestia» non è solo emblematica della frenesia con cui viene seguito l’invito ad uccidere del conte, ma diventa protagonista del volume anche se cosa sia non viene detto mai.

La Bestia a un primissimo piano di lettura è il male, soprattutto il male procurato dall’uomo stesso. Potremmo dire «La Bestia siamo noi», ma in lui potremmo scorgere anche qualsiasi nemico, il diavolo, persino Dio. Ma potrebbe anche essere – e forse davvero è – il linguaggio, la parola stessa: il nome che maschera e vanifica, quindi uccide le cose.

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98 IL POETA OBBEDISCE A UNA VOCAZIONE

[Risposte a Gianni Federico] Che cosa spinge un uomo a diventare poeta?

Nulla, poeti si nasce, è stato detto. Comunque, vera o falsa che sia la sentenza, il poeta obbedisce a una vocazione (o a una mania, se vogliamo essere meno aulici). Non opera una scelta. Poeticamente parlando lei è nato come «ermetico», ma di un ermetismo che definirei «accessibile, breve, delicato»: cos’è che l’ha indotta a seguire questo stile così particolare?

Non sono «nato come ermetico». Le mie prime prove sono più vicine al Carducci e al Pascoli che non a Ungaretti o a Montale. Anzi, le mie radici si spingono più indietro, fin quasi a raggiungere (per il movimento di aspra canzonetta) i cosiddetti poeti delle origini, Siciliani in testa. Ho sempre pensato che il miglior modo per riuscire moderni è quello di portare avanti la tradizione, così come Stravinskij è riuscito a far musica nuova senza rinnegare il sistema o linguaggio tonale. Carducci, Saba, Sbarbaro, Pasolini, ovvero quattro differenti modi d’intendere il componimento: in che modo, ciascuno di loro, ha influito sulla sua formazione poetica?

Mi avvicinai di proposito all’antipatico Carducci come correttivo di certe mie spericolate acrobazie, diciamo così, avanguardistiche. Mi ritagliai il mio Carducci più macchiaiolo, e da quello mossi con umiltà per ricompitare da capo la poesia. Quanto a Saba, vivendo in provincia e fuori dall’ambiente letterario, devo dire a mia vergogna che conobbi la sua poesia soltanto nel dopoguerra, e quindi troppo tardi perché potesse esercitare un’influenza su di me. I critici, spesso, vedono corto, e forse, nelle mie prime prove, mi assimilano a Saba, soltanto per aver attinto, io e Saba, alle medesime fonti. Faccio un solo esempio: quando io elogio la rima cuore-amore, tutti dicono: lo aveva già fatto Saba. A parte che Saba parla di fiore-amore, e non di cuore-amore, io testualmente scrivo, a proposito di Annina: «Per lei torni in onore / la rima in cuore e amore» [Iscrizione, SP]. Torni in onore, già, perché è rima già illustre, usata anche da Dante, decaduta poi per l’abuso fattone da librettisti e parolieri. Sbarbaro lo lessi per la prima volta nel ’33, su «Circoli». È il poeta a me più vicino «per affinità di sentire», com’egli stesso ebbe a dire. Senza di lui non sarebbe esistito nemmeno Montale, altro poeta da me amatissimo. Pasolini appartiene a un’altra ge-

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nerazione: quando lui apparve, io ero già formato, né in nessun modo ha agito, nonostante la strettissima amicizia, sul mio lavoro successivo. (Semmai, il contrario). Lei ha pubblicato il suo primo libro nel 1936. Era intitolato Come un’allegoria. Poco dopo iniziò la guerra. Cosa ha pensato in quel momento? Era forse la fine di un sogno appena iniziato?

Mi permette un appunto sull’uso improprio che qui lei fa del verbo iniziare? Sono un pignolo, mi scusi. Comunque, e venendo al sodo, non ho mai inteso la mai poesia come «un sogno». L’esperienza della guerra (terribile anche per me: anzi, terrificante) è stata anch’essa un’esperienza di vita che si è aggiunta alle precedenti e che ho cercato di esprimere con la maggior fedeltà possibile, sia in prosa che in versi. Nel 1959 fa stampare Il seme del piangere, un libro che nella sua produzione rappresenta una pietra miliare e, nello stesso tempo, una svolta: quei versi furono il frutto d’una pausa di riflessione, d’una ormai raggiunta maturità poetica o cos’altro?

L’ho già detto varie volte. Quel libro, e soprattutto quel titolo, mi furono suggeriti da Dante. Mi sentivo, verso mai madre, nella stessa condizione di colpa di Dante verso Beatrice, quando nel Purgatorio le chiede perdono, piangendo, per essere corso dietro ad altre sirene. Dopo averlo lasciato sfogare, Beatrice taglia corto dicendogli: «Basta. Ora pon giù il seme del piangere ed ascolta». «Il seme del piangere»: un titolo bellissimo, che piacque a Contini e lo annotò, facendomene merito, in suo scritto dantesco. È un libro, Il seme, che non considero né «una pietra miliare», né «una svolta», ma semplicemente una delle varie tappe del mio andare e del mio cercare. E come tale si rifà, nel suo sviluppo, ai miei libri e libretti precedenti, e ai successivi. Molti autori, laici e non, si accostano alla figura di Dio all’inizio del loro percorso poetico. Lei invece ha cominciato a scriverne negli ultimi anni: come mai?

È stata la guerra a farmi sentire in pieno tutto l’orrore dell’assenza di Dio. Ma questo di Dio è un tasto che non mi piace toccare. Il mio preticello deriso dice: «Prego non perché Dio esiste, come accomoda dire a voi, ma perché Dio esista, come uso soffrire io» [Lamento del preticello deriso, CVC]. Il mio «rapporto a Dio» è tutto affidato ai miei versi, nei quali troverà anche la risposta (altrimenti indicibile) al suo «come mai». Sovente la poesia italiana del Novecento viene identificata in quattro poeti: Bertolucci, lei, lo scomparso Sereni e Mario Luzi. Tra l’altro vi accomuna una curiosa sequenza cronologica essendo nati a distanza di un anno l’uno dall’altro. Le chiedo: ritiene valido questo giudizio?

No, nessuno ha mai identificato la poesia italiana del Novecento nei nomi da lei fatti. Essi sono i maggiori rappresentanti della loro generazione, a parte la mia persona. Ma non si può ridurre tutto il Novecento ai loro nomi.

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Livorno, Genova, Roma. Nella prima lei è nato, nella seconda ha trascorso l’adolescenza, vive qui a Roma ormai da quasi mezzo secolo: cosa hanno rappresentato per lei queste tre città?

Tre scenari diversi, non possono aver rappresentato altro. Mi permetto soltanto una piccola rettifica: a Genova non mi son limitato a trascorrere l’adolescenza. Ero ancora bambino quando vi arrivai nel marzo del ’22, e già uomo fatto quando, nel dopoguerra, la lasciai per Roma. Ma per modo di dire, la «lasciai». Non ho mai smesso di trascorrervi parecchi mesi ogni anno, e la considero ancora oggi la mia vera città. Quanto a Roma, posso dire che vi abito: non che vi vivo. Ma vi abito volentieri, nonostante tutto il male che si usa dirne. È la città meno provinciale ch’io conosca, lasciandomi liberissimo di fare i comodi miei. Il che è una gran cosa. Chi la definì «poeta della città» e perché?

Italo Calvino, contrapponendosi alla tradizione italiana dominante, di solito «d’ispirazione campestre e paesana» (sono parole sue). Il mio habitat è sempre stato cittadino, e soltanto in anni più tardi mi sono avvicinato ai monti e alle foreste dell’Alta Val Trebbia. Ma nell’animo son rimasto uomo di città, nonostante i miei tentati «travestimenti». Lei oltre ad essere poeta è anche un apprezzato traduttore di autori francesi molto noti, come Proust, Apollinaire, Céline e altri: la traduzione di qualcuna delle loro opere le ha mai fornito lo stimolo necessario per comporre una poesia?

La mia traduzione più «felice», forse, è La mano mozza di Blaise Cendrars, insieme con qualche pagina di Genet, del quale ho tradotto tutto il teatro e due romanzi. Il tradurre è sempre un arricchimento della nostra esperienza, e più d’una volta, quindi, anche da questa mia esperienza, ha preso l’avvio una mia poesia. Pur avendo scritto molti libri di versi non ha mai cessato di fare il maestro elementare. Un altro celebre poeta che lei cita in un suo componimento, Carlo Betocchi, ha abbandonato l’attività di geometra solo al momento di andare in pensione e chissà quanti altri casi esistono come i vostri: ma allora la poesia appaga esclusivamente un’esigenza spirituale e non materiale?

Anche se la poesia, contrariamente a quanto si pensa, può produrre qualche po’ di denaro, non si può fare il poeta di professione. Come, a rigore, non si può nemmeno fare il romanziere di professione. Se oggi c’è un calo sensibile nella qualità dei romanzi ogni anno sfornati, è perché il romanziere s’è trasformato in un professionista, costretto per questo a immettere di continuo nel mercato merce vendibile, puntando anche sulla pubblicità insieme al suo editore, che è sempre un industriale. Sono remoti gli anni (i secoli) in cui lo scrittore mirava alla fama (alla Gloria). Oggi mira al successo, e stop. Senza contare che, sia quella del maestro sia quella del geometra, son due occupazioni bellissime, anch’es-

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se adattissime ad appagare un’esigenza spirituale oltre che (ma fino a un certo punto, con gli attuali stipendi) materiale. Musica e poesia sono un binomio che in lei hanno trovato un cultore eccelso, ma esiste davvero un rapporto tra queste due forme d’arte ed a quale livello?

Lasciamo andare il «cultore eccelso». Io ho studiato un po’ di armonia (sul Richter e sul Savard), sognando d’arrivare alla composizione, e di certe norme dell’armonia mi sono valso scrivendo versi. Ma a parte questo, ogni forma d’arte ha un suo rapporto con le altre, e tanto più la poesia con la musica, se si tengono a mente le origini comuni, quando poesia e musica (e danza) erano una cosa sola. Nella sua carriera poetica ha avuto molti riconoscimenti, tra i quali spiccano due «Viareggio» nel ’52 e nel ’59, la prima edizione del «Librex-Montale» e, nel 1982, il «Feltrinelli». Qual è il suo punto di vista sui premi letterari: è bene che esistano o, come afferma qualcuno, sono inutili?

Se il premio si chiama «Antonio Feltrinelli», che per la letteratura viene conferito ogni cinque anni dall’Accademia dei Lincei a piene classi riunite e senza possibilità di concorrervi, è chiaro che di tale premio va benedetta l’esistenza proprio per il suo prestigiosissimo valore di giudizio critico. Quanto agli altri premi, bisogna distinguere. Sono abominevoli i troppi premiuncoli con «tassa di lettura», veri coups d’epervier per gli ingenui, o gli altri il cui solo scopo è quello di «valorizzare» (oh, illusione!) questa o quella stazioncina climatica. Ma vi sono anche premi seri, o abbastanza seri, utili anche per il soccorso economico che offrono (oggi che il mecenatismo è definitivamente morto), e non vedo motivo di censurarli troppo, se è vero che molto spesso, in essi, son più gli editori a vincere che gli autori.

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99 PARERE SUL FUMO

[Risposte a Marcella Smocovich] La famosa frase che rese nota la voce di Greta Garbo al cinema, nel film «La regina Cristina», «dammi una sigaretta», presto non potrà più essere pronunciata in pubblico. Solo al chiuso, di una casa, a condizione che tutti i familiari siano fumatori. Vietare il fumo rende giustizia a chi è costretto ad aspirarlo contro la propria volontà. E allora, nasceranno luoghi riservati a chi in preda al vizio o al piacere del fumo vorrà goderne? Abbiamo chiesto ad alcuni intellettuali cosa ne pensano delle prescrizioni in arrivo.

La vita è una malattia mortale, quindi è inutile minacciare i fumatori di morte. Io fumo poco, ma a 75 anni il ministro non può minacciarmi di morte. Si arriverà certamente al proibizionismo vero e proprio.

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100 IN VACANZA, IO PORTEREI QUESTI LIBRI

[Risposte a Diego Zandel] Intanto, metterei i libri di Italo Calvino, I nostri antenati e Sotto il sole giaguaro, edito da Garzanti, che sono molto scorrevoli, quindi adatti per un pubblico medio. Un libro di sicura compagnia è Le affinità elettive di Goethe, che per me è il più grande romanzo dell’Ottocento. Metterei poi in valigia: I racconti di Poe, magnificamente tradotti da Manganelli; Alessandro di Piero Citati, un grande libro: c’è la parte storica e la parte di fantastica che può interessare due tipi di lettori; quindi Le rovine di Parigi di Macchia, ottimi saggi, leggibilissimi, perché Macchia non è solo un saggista, ma è anche uno scrittore.

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101 E DAL GREMBO DELLA BESTIA NACQUE LA NUVOLA NERA DI CHERNOBYL

[Risposte a Monica Petacco] Nello studio tappezzato di libri della casa romana del poeta Giorgio Caproni, livornese di nascita (1912), romano d’adozione, ma genovese di spirito, sta appeso alla parete il Bando datato 14 luglio 1792, che ha ispirato il suo ultimo libro. Si tratta di un Avviso a stampa sottoscritto dal «Conte di Kevenhüller», con il quale si promette una lauta ricompensa a chi catturerà la Bestia «feroce, di colore cenericcio moscato», che infesta le campagne del Ducato.

Questo bando, in realtà, potrebbe anche non essere autentico, ma poco importa. L’ho trovato per caso in un rotolo di manifesti d’epoca che mi regalarono anni fa. Sfogliandolo scorsi in riproduzione l’Avviso. Il tema della caccia m’ha sempre attratto, e lo misi da parte. Ma chi era questo Conte di Kevenhüller?

Di preciso posso dir soltanto che era il firmatario di questo vistoso Avviso (riprodotto all’inizio del libro, ma non come semplice ornamento o curiosità storica, bensì in stretta funzione espressiva). Non ho fatto ricerche particolari sulla figura di questo Conte, ma per primo è stato il professor Giovanni Bonalumi dell’università di Basilea a ricordare ai distratti – in una recente nota – che il Parini scrisse la famosa ode Alla musa, nella primavera del 1795, «nove mesi» dopo le nozze del marchese Febo D’Adda e la contessina Leopolda Kewenhüller, dal Parini «rimproverata» di aver distratto dalla carica il marchese, suo discepolo1. Comunque sia, il Conte di Kevenhüller è un titolo che mi è piaciuto per il suo sapore operettistico, infatti il Conte non è il vero protagonista. La vera protagonista è la Bestia che «anche se non esisteva… c’era», e che si aggira nella foreste del Milanese, che, in realtà, nella mente del poeta sono quelle della Val Trebbia in Liguria dove ogni estate si rifugia in un piacevole isolamento. Su chi e cosa sia la Bestia molte sono le interpretazioni.

La vera Bestia è il male in tutte le sue mutevoli ed insidiose forme, come ha al volo capito Alberto Moravia. Bestia che può diventare per un momento, nelle sue labirintiche metamorfosi, la mia pantera nebulosa (felis nebulosa, in latino scientifico), nella quale qualcuno ha visto (e perché no?) una prefigurazione della incombente nube di Chernobyl. Se non è magari vero (lo è) che la Bestia

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siamo noi stessi: questa nostra umanità che sembra aver la vocazione al suicidio, correndo sventatamente verso la propria fine a passo di danza (o meglio di rock and roll). A farmi davvero paura è il nostro non aver paura. Se noi fossimo realmente spaventati dal male in cui siamo immersi spareremmo alla Bestia non per sport, o per «la bassa mira» dei «cinquanta Zecchini effettivi». Naturalmente questo è solo il primo livello di lettura della mia «operetta a brani»; specie nella seconda parte richiede livelli più alti che lascio alla sagacia dei critici, purché non si ostinino a impelagarsi sul solo tema della teologia negativa, cosa di cui non s’è parlato mai tanto come da dopo il mio libro Il muro della terra. La parola (la bestia del suo lavoro) è ancora importante in questa civiltà dell’immagine?

Sono due cose diverse e non in concorrenza. L’immagine è fissa, resta quello che è. La parola genera oltre quello letterale, un’infinità di significati «armonici». Ciò può essere un bene come un male. Da Gli anni tedeschi, io vedo nella parola una maschera della realtà, che in sé resta imprendibile. Il tormento è quello di dover ricorrere alle parole per far poesia. Per questo cerco sempre di usarne il meno possibile, riponendo sempre più fiducia nelle pause: nei silenzi.

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102 IL POETA DÀ LA CACCIA ALLA BESTIA NASCOSTA

[Risposte a Luciano Luisi] Dopo molti anni di silenzio, è rinato il Premio Chianciano: un premio che è stato tra i più prestigiosi per la poesia, e fu guidato, nelle ultime edizioni da Salvatore Quasimodo. Ricucendo il filo della sua tradizione, il premio non poteva che aprirsi nel nome di un grande poeta: lo ha vinto, infatti, Giorgio Caproni per Il Conte di Kevenhüller. Il Conte del titolo (titolo che fa ricordare quello di un’opera, o di un’operetta, dice Caproni) è realmente esistito e nel luglio del 1792 promosse una caccia contro una feroce bestia che infestava il territorio del suo ducato nella provincia di Milano. Da questo pretesto Caproni ha costruito una sorta di «racconto» che ha la struttura di un libretto per musica (e il musicista più prossimo a questa partitura ipotetica è Mozart) tanto che proprio Libretto si intitola la prima parte. Naturalmente il testo – che è pieno anche di suggestioni ambientali e narrative – si presta ad una lettura su più livelli.

Certo. Se ne è accorto anche Alberto Moravia, che mi ha dedicato un pezzo sul «Corriere della Sera». In un primo piano di lettura la Bestia può apparire come metafora del male storico contemporaneo e qualcuno ci ha visto addirittura una prefigurazione della nube di Chernobyl. Ma la Bestia è per me il male che l’uomo porta in sé. L’uomo va spensieratamente verso la propria fine, distruggendosi, trovandosi dentro un male che ha creato egli stesso e non se ne accorge. Tanto è vero che io dico nel preambolo «non sperate paura». Perché? Ecco perché: lo dico da un certo momento: «paura del mio non aver paura». Ciò vuol dire che se l’uomo avesse davvero paura dei pericoli… ma l’uomo è ottimista e non se ne preoccupa. Ma questa caccia alla Bestia ha anche un’altra valenza simbolica?

Naturalmente vi sono diversi livelli di lettura, livelli più ardui, superiori. La Bestia è addirittura per me il linguaggio, la parola stessa, perché io ho visto sempre nella parola, nel nome, una negazione della cosa: il nome nasconde la cosa. Infatti dico: «Spara, spara, prima che la Bestia si nasconda nel suo nome». Nella tua poesia La frana dici: «Anche se non esisteva, / la Bestia c’era. / Esisteva, / e premeva. / Nel cuore.[…]». E la tua poesia conclude: «La frana d’un’alluvione. / La frana della ragione» [La frana, CK]. C’è, credo, la chiave di lettura di questo libro come forse di tutta la tua poesia degli ultimi anni.

Sì, è la frana della ragione. L’uomo si trova in questa frana, non ragiona più. La Bestia, anche se non esisteva, esisteva come male, nella nostra coscienza. Questo

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libro si configura come un’operetta, un po’ musica e un po’ parola. E qui si rifà anche al Flauto magico perché un certo esoterismo lo puoi trovare. Con il passare degli anni sei arrivato ad un linguaggio sempre più stringato, sempre più essenziale…

Sì, ho sempre cercato di fare la maggiore economia di parole, appunto per questa deferenza verso l’efficacia della parola. Il mio tormento è di non poter scrivere in musica. Perché io vedo che è soltanto in musica, nella grande musica naturalmente, che si ha il pensiero puro senza la contaminazione della parola. Se tu ascolti, ed è il supremo esempio, il Quartetto in La minore opera 132 di Beethoven, vedi addirittura che ad un certo momento il suono sparisce, rimane il pensiero puro. Io di questo Quartetto ho voluto seguire il sistema che in musica si chiama della variazione continua. Cioè do un tema che è qui quello della caccia, però variato continuamente. Le note sono sempre le stesse, però in tempo Allegro, poi alternato al Grave, poi lo Scherzo, il Lento, l’Adagio, il molto Adagio… Questo è un libro molto folto e viene dopo poco tempo dalla tua opera omnia. Quindi hai lavorato moltissimo…

E sì (ride), perché avendo visto questo monumento funerario dell’opera omnia forse mi sono sentito sollecitato…

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103 ANCHE UN POETA HA LA SUA CHERNOBYL

[Risposte ad Aurelio Andreoli] Sa dirci qualcosa di preciso intorno alla figura di questo Conte? E perché i cacciatori appaiono così spesso nei suoi libri, fin dalle prime plaquettes, ma soprattutto negli ultimi?

Inverto l’ordine delle domande. A parte il fatto che il gioco dei perché non mi piace, dirò che da ragazzo son vissuto a lungo fra cacciatori arrabbiati in contrada pisana. Mi piacevano pittorescamente, pur aborrendone la crudeltà. Comunque, li ho ben impressi nella mente, e ad essi ho dedicato, alcuni decenni fa, anche un racconto: La lepre, in parte realistico e in parte allegorico. È un testo, per esser precisi, datato 1953, ed è stato raccolto da Giorgio Luti nei suoi Racconti di caccia (Antologia di racconti venatori), Editoriale Olimpia, 1969. Quanto alla persona del Conte, a dire il vero non ho mai fatto ricerche. Ora, è il Prof. Giovanni Bonalumi dell’Università di Basilea (ottimo scrittore oltre che valoroso docente, e curatore di un bell’Almanacco di cronache di vita ticinese, che per varietà d’interessi, anche culturali, meriterebbe maggior diffusione in Italia) a ricordarmi che il Parini, come si legge nelle note di una qualsiasi edizione delle Odi, scrisse la notissima Alla musa nella primavera del 1795, nove mesi dopo le nozze del marchese Febo d’Adda, suo discepolo e amico, con la contessina Leopolda Kewenhüller. Potrebbe essere una preziosa chiave per il non specialista in vena d’indagini. (Una w in luogo di una v, data l’epoca, non credo muti gran che). Vogliamo spiegare in poche righe l’ultimo Caproni? Al tempo del volume di versi Il franco cacciatore lei diceva che preferiva una poesia scarna e il minor numero possibile di parole.

E oggi ribadisco questo mio desiderio, portato forse all’estremo. Nel Conte vi è una pagina, la 168, che non contiene nemmeno una parola. Titolo, una parentesi chiusa. Testo, un bel punto fermo. Non è soltanto un giochetto. La musica, forse, ha sempre un poco influito sulla sua poesia, nella versificazione, nella rima. Per altre sue raccolte era la musica di C. M. Von Weber. Mentre per Il conte di Kevenhüller forse è la musica di J. S. Bach.

Confesso che sono stanco di sentir batter questo tasto. Ne ho già parlato (sono stato costretto a parlarne, e… a straparlarne, fino alla sazietà), e ora preferisco non tornarci. Tanto più che molti critici ne hanno fatto spreco, sino a fantasticarci sopra, vedendo un’intenzione «operistica» anche dove non è. Mi limiterò

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a dire che forse, inconsciamente, scrivendo il Conte ho un poco subito la suggestione, oltre che dall’Arte della Fuga di Bach, del cosiddetto «sistema della variazione continua», di cui si ha un supremo e irraggiungibile esempio nel Quartetto in La minore op. 132 di Beethoven. E che anche in tale mio ultimo libro mi è piaciuto alternare, come in un concerto, l’Allegro all’Adagio, lo Scherzo al Grave e, magari, al Molto grave, per evitare la monotonia e seguir meglio i miei umori. (Fra parentesi, anche se non mi è stata chiesta, una precisazione, sempre a proposito del Conte. La sezione Altre cadenze non è la terza parte de Il conte di Kevenhüller, come alcuni, piuttosto disattenti, hanno creduto, ma una cosa a sé, che col Conte (Libretto e Musica) non ha nulla a che vedere. I caratteri tipografici coi quali è composto il titolo Altre cadenze avrebbero dovuto avvertirli). Italo Calvino, in un suo pertinentissimo saggio1, la definisce «poeta della città». Trova giusta tale definizione?

Sì. Fino al Congedo del viaggiatore cerimonioso, e in parte anche ne Il muro della terra, ho sempre tratto dalla città (Livorno e, soprattutto, Genova: e, di scorcio, anche Roma e Parigi ecc.) il fondo della scena e le mie metafore. Poi, con l’avvento della motorizzazione di massa – e di una società, se società può dirsi, di massa – la città si è trasformata per me in un «popoloso deserto», come, per Violetta, Parigi nella Traviata2 (ossia un luogo invivibile, dove la personalità rimane schiacciata dal numero), e sempre più di frequente ho preso a soggiornare sui monti, al margine delle foreste. Ne Il muro della terra si legge una lunga poesia intitolata Parole (dopo l’esodo) dell’ultimo della Moglia, in cui parlo, appunto, della metropoli come luogo di annientamento dell’io. Si avverte un senso storico alla base del suo ultimo libro. Corre un parallelo interno tra la storia e la poesia?

Certo. Anche la storia atroce di questo secolo è ben presente nel mio ultimo libro. Ho detto: anche. Non ho detto: soltanto. La Bestia (il male in tutte le sue mutevoli e insidiose forme, come ha capito al volo Alberto Moravia, che sul «Corriere della sera» ha voluto dedicare al Il conte di Kevenhüller, con mia sorpresa, un brano del suo Diaro europeo3) può anche diventare, nelle sue labirintiche metamorfosi, la mia Pantera nebulosa (Felis nebulosa, secondo il Linneo), simbolo – magari – dell’incombente nube di Chernobyl. Perché no? E questo, contro le limitazioni di troppi, fissati (fino a stufarmi) su una mia presunta caccia avente come unico punto di mira Dio. Caproni, poeta colto, traduttore, critico. Possiamo chiudere in poche righe, in assenza di una prefazione a quest’ultimo suo libro di versi, una motivazione della sua poesia?

No. La complessità (i vari livelli di lettura) del mio ultimo libro (come del resto degli altri) la ritengo tale da non sopportare indicazioni sbrigative nel senso da

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lei richiesto. Quanto all’«assenza di una prefazione», sono io a non aver mai voluto prefazioni. Il lettore è il mio unico collaboratore diretto, e dev’essere libero da suggestioni o suggerimenti esterni. Eppoi, la poesia non ha mai una sola «motivazione», a meno che non s’intenda, per «motivazione», la poesia stessa. Conserva qualche certezza (umana, poetica, ideologica)? La sua è anche una poesia della crisi (personale e storica)?

Non mi piace esser chiamato «poeta della crisi». Certo è che viviamo in una società (in una cultura) estremamente friabile e asimmetrica, senza una sua precisa centralità: quella centralità (favola o mito, non importa) che ebbero l’età classica, quella cristiana del primo medioevo, quella illuministica, ecc. Una centralità in base alla quale poter distinguere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto ecc. Dicono alcuni che oggi vi siano più centralità, e che ciò sia un progresso. Sarà. Ricordi comunque il mio Enea, in disperata ricerca di un luogo dove fondare la nuova città, totalmente solo nel suo esilio con sulle spalle il peso d’una tradizione ormai crollante (Anchise), e per la mano una speranza quant’altro mai incerta, incapace ancora di reggersi sulle gambe (Ascanio). Un Enea scaturito, dopo una lunga dittatura, dalla terrificante esperienza della guerra, che ha investito in pieno la mia generazione e ha lasciato tante macerie non soltanto materiali. Sappiamo dei suoi recenti successi in Francia. Vuol dirci qualcosa in proposito?

Mi farei della pubblicità a buon mercato. Mi limiterò a dire che dopo la pubblicazione di Le Mur de la Terre (ottimamente tradotto e presentato da Bernard Simeone e Philippe Renard per Maurice Nadeau editore) e di due racconti per l’editore Verdier (tradotti da Bernard Simeone), tutti i maggiori giornali francesi si sono «innamorati» di me («Le Monde» in testa) moltiplicando in Francia le mie vendite, tanto che lo stesso editore Nadeau sta già approntando, per il prossimo autunno, l’edizione bilingue del Conte.

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104 IL POETA, LA TROMBA E IL FLAUTO

[Risposte a Silvia Lagorio] All’origine della poesia, della sua voce nel tempo, è l’esistenza di un’infanzia trascorsa e perduta: il luogo della poesia e quello dell’infanzia si intrecciano fittamente, sconfinano l’uno nell’altro. Nel tentativo di mettere in luce questo legame inestricabile, ci siamo rivolti a Giorgio Caproni, uno dei poeti contemporanei più rappresentativi. In un’intervista rilasciata ai bambini Lei definiva l’infanzia un particolare «stato di grazia» a cui si pensa con nostalgia. Quale filo riconduce la poesia allo stato di grazia infantile?

Già. Dissi, pressappoco, che il bambino vive in uno stato di grazia perché l’infanzia è la sola età pura dell’uomo, quando il cuore dell’uomo e il suo cervello non sono ancora intorbiditi o intorpiditi da preoccupazioni o mire «pratiche» di lucro, di carriera, di successo, ecc., spinte oltre la loro giusta misura. Ora aggiungo: quando ancora la personalità dell’uomo non è schiacciata dal compressore delle convenzioni, e conserva intatta la propria libertà. Il poeta – pur senza venir meno alle proprie responsabilità di adulto – dev’esser libero com’è libero, appunto, il bambino. Tanto più che in questa società massificante e mortificante, tutta tesa a far dell’individuo un avvilito e avvilente consumatore, a vantaggio di interessi che non sono i suoi. È una libertà, ripeto, che non significa affatto irresponsabilità, anzi. Il poeta, nel suo disincanto, dev’essere in primo luogo, e sia pure in indiretto, un giudice. Per questo, forse, il potere «costituito» cerca di tenerlo in ombra. Lo si accusa comunemente di avere la testa tra le nuvole. Magari fosse vero! Come al bambino, invece, al poeta non sfugge nulla: né la formica né l’ingiustizia, né la lucertoletta né il sopruso. Sono proprio coloro che dicono d’aver la testa sul collo (i dirigenti d’azienda, i politici, i sindacalisti di professione & C.) a non veder nulla, o a fingere di non veder nulla, tutti avvolti nelle nebbie dei loro problemi, quasi sempre – sotterraneamente – un poco loschi. (Con tutto questo, si badi, son ben lontano dal voler far qui una mia dichiarazione di fede nella pascoliana teoria del fanciullino). Il linguaggio dei bambini è di per sé ricchissimo di metafore e di giochi di parole: Lei crede che il progressivo «imparare» la lingua, la sua grammatica e le sue regole, significhi minacciare e inibire la produzione linguistica spontanea e l’invenzione del bambino?

Alla poesia del tutto «spontanea» ci credo e non ci credo. È vero che poeti si nasce, e che a commuover la Musa non si arriva per intelligentia, ma è anche vero

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che la poesia, come ogni altra arte, ha bisogno di norme e di studio. Non vedo perché l’arricchimento linguistico e culturale dovrebbe uccidere, anziché potenziare, le innate doti (quando ci sono) inventive e creative. Come si dovrebbero spiegare, secondo Lei, a un bambino le differenze fra linguaggio normale, pratico, e linguaggio poetico?

Con l’esempio della tromba e del flauto. Il bambino non sopporta elucubrazioni dotte. Ama la parabola. In caserma i segnali vengono trasmessi da una tromba. La tromba suona il segnale del rancio e il soldatino, che conosce il codice, prende la gavetta e va a farsela riempire. Ma mettiamo che un ufficiale di picchetto estroso faccia suonare quel segnale, invece che dalla solita cornetta, da un virtuoso di flauto. Il soldatino capirà, sì, che quello è il segnale del rancio, ma sentirà anche la musica di quel segnale: ciò che quel segnale esprime oltre il significato pratico. E rimarrà magari incantato, a rischio di restare a digiuno. Con un semplice dato anagrafico, è risaputo, Racine ha composto un verso ritenuto tra i più «significanti» (proprio grazie alla forza espressiva della sua musica) della poesia francese: La fille de Minos et de Pasiphaé. E il nostro Foscolo ha trasformato un «beato te, che da giovane navigavi tanto», in un’autentica meraviglia poetica: Felice te che il regno ampio de’ venti, Ippolito, ai tuoi verdi anni correvi! Insomma, il linguaggio di normale comunicazione si limita (deve limitarsi) al solo senso letterale della parola. Il linguaggio poetico aggiunge a tale senso la musica della parola. Porta la parola oltre il suo mero significato lessicale rendendola anche musica: arricchendola di tutti quegli altri significati che soltanto la musica può esprimere. Dunque poesia e musica sono unite da un legame necessario: ritiene sia possibile farlo intendere, trasmetterlo e insegnarlo?

Fino a un certo punto sì. Ma soltanto fino a un certo punto. Cito una sua bellissima definizione: «Il poeta è un minatore. È poeta colui che riesce a calarsi più a fondo in quelle che il grande Machado definiva las secretas galerías del alma, e lì attingere quei nodi di luce che, sotto gli strati superficiali diversissimi da individuo a individuo, sono comuni a tutti anche se non tutti ne hanno coscienza»1. Si può, secondo Lei, intravedere nella poesia un’affinità con la fiaba che rappresenta e porta alla luce il patrimonio profondo della storia umana?

Lei cita un brano dove arrivavo alla conclusione che il poeta minatore finisce col trovare in sé il luogo dove l’io si trasforma in noi. In questo, un’affinità tra poesia e fiaba sicuramente esiste, anche se non necessariamente, soprattutto quando la fiaba, come lei dice, porta alla luce il patrimonio profondo della storia umana. Della storia umana e, aggiungerei, dell’umana coscienza.

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105 CHI È LA BESTIA

[Risposte a Laura Lilli] Giorgio Caproni sorride e diffida. Sarà un incontro difficile, penso: esattamente come la sua poesia che sembra elementare, leggera, e invece è ardua. In particolare questa sua recentissima raccolta, Il Conte di Kevenhüller, per la quale Caproni è ancora una volta nelle vetrine più vistose delle librerie, sulle pagine di tutti i giornali, uno dei poeti italiani «consacrati». Sulla porta della sua casa di via Pio Foà (la strada in cui c’era, ai tempi del sequestro Moro, una tipografia delle Brigate Rosse, e alla quale lui ha dedicato due poesie che raccontano il suo disagio di fronte agli abitanti benestanti ma «senza volto» di questo quartiere), su questa porta mi fa un’accoglienza da vecchi amici. Entriamo nel suo studio chiaro, aperto su un balcone fiorito: e, sul tavolo coperto da un panno verde biliardo, vedo un foglio infilato in una macchina da scrivere, scritto fitto, a «spazio uno». «Stavo buttando giù per lei qualche dichiarazione su Il Conte di Kevenhüller», mi dice. Ecco la diffidenza. Probabilmente ne esprime anche la mia faccia, perché aggiunge: «Almeno al primo paragrafo ci terrei proprio». «Va bene», prometto «il primo». Il libro parla di una Bestia, «un grosso cane color cenericcio» a cui il suddetto Conte ordinò di dare la caccia. «Giorno: il 14 luglio. / Anno: quello tra Il Flauto Magico, / a Vienna e, a Parigi, il Terrore»[La frana, CK]. Un manifesto, appeso nello studio (e riprodotto nel libro) documenta l’ordine. «Mia figlia fa collezione di posters, e questo era per caso in un gran rotolo che le avevano regalato». I critici hanno discusso se il Conte sia realmente esistito, e se Caproni abbia fatto ricerche d’archivio. In proposito egli ha preparato, sul foglio scritto a macchina, una dettagliata risposta per dire che è esistito davvero. Ma gli chiedo se questo particolare sia poi tanto importante. «No», conviene dall’altra parte del tavolo, sorridendo nella camicia a scacchi che porta fuori dai pantaloni, asciutto come è, con tutti i suoi settantaquattro anni, e gli piomba addosso senza pieghe come a un cowboy. La verità è che se il manifesto è stato la causa occasionale della raccolta – meglio sarebbe chiamarla cantata, o poema: Il Conte di Kevenhüller racconta in versi essenziali, una vera storia di partite di caccia, di ansie, di appostamenti (alcuni dei quali con se stessi); ed è fitto di episodi e sorprese, nella tessitura del racconto e nei ritmi – il nucleo del discorso poetico è puro Giorgio Caproni al suo meglio. Inquietante e reticente, impietoso con sé e con gli altri. Apparentemente, a volte distratto: e invece sempre più avvitato, come in un tunnel, nell’esplorazione del mistero della condizione umana. Fino ad approdare «dove la ragione umana (e io sono un razionalista, ma riconosco che ci sono dei limiti) pur facendo miracoli, è destinata a trovare un muro, un “ultimo borgo”: al di là del quale ci sono luoghi non giurisdizionali per la ragione». Pensa anche lei, come Czesław Miłosz, che nella gara fra poesia e scienza, sullo scorcio di questo millennio, la poesia finirà per vincere?

Hanno detto che io nego la realtà: non è vero. Io nego la possibilità di afferrarla in quanto uomini. E un topo, cosa percepisce? Pare che i cani vedano in bianco

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e nero… Anche la scienza ha dei limiti, e la poesia cerca di superarli superando anche il significato della parola. Ricorda quel verso «spara prima che (la Bestia, ndr) si nasconda dietro la Parola»? Io ho studiato composizione, amo molto la musica. A tutto preferisco il Quartetto in La minore opera 132 di Beethoven: quello è pensiero puro senza la parola, ed è proprio quel che vorrei raggiungere io. Non vedo perché non si dovrebbe pensare in musica. Splendido è il molto adagio del quartetto. È un esempio di «sistema della variazione continua»: su un tema si varia come timbro, ritmo, tempo. Ed io in questo libro ho cercato, come nell’opera musicale, di alternare l’Allegro al Grave, lo Scherzo al Solenne. Si arriva persino alla barzelletta… Ma chi è la Bestia, Caproni? (Prende a leggere il suo foglio)

Vorrei metterlo in chiaro una volta per tutte: essa non è Dio, o soltanto Dio, secondo la fissazione di troppi critici. Dio Bestia. Sono stanco di sentir ripetere tante banalità, per giunta attribuendole a presunte mie dichiarazioni mai fatte, o fraintese. La vera Bestia è il male in tutte le sue mutevoli forme, come ha capito al volo Alberto Moravia che, sul «Corriere della Sera» ha voluto, con mia lieta sorpresa, dedicarmi una giornata del suo «Diario Europeo». Bestia che può anche diventare, nelle sue labirintiche metamorfosi, la mia pantera nebulosa (Felis nebulosa) [in La preda, CK] nella quale qualcuno ha addirittura visto (e perché no?) una prefigurazione dell’incombente nube di Chernobyl. Se non è magari vero – lo è! – la Bestia siamo anche noi stessi: questa nostra umanità che sembra aver la vocazione al suicidio e che ormai uccide (uccidendosi) per puro gioco, si direbbe, correndo spensieratamente verso la propria fine, quasi con un passo di danza (di rock and roll sarebbe più giusto dire). Perché a farmi davvero paura è il nostro non aver paura. Sul serio pensa che nessuno abbia paura?

Se noi fossimo realmente spaventati, nel profondo, dal male in cui siamo immersi e che diciamo di voler combattere (mentre siamo noi stessi, più d’una volta, a crearlo) ci ribelleremmo e correremmo ai ripari: spareremmo alla Bestia non per sport, o per «la bassa mira» dei «cinquanta Zecchini effettivi»1. Ma perché, visto che la Bestia è la protagonista di questi suoi versi, ha intitolato il libro al Conte, che in fondo ha solo firmato l’ordine di darle la caccia?

Perché mi sa di operetta. Un tema così grave, ho cercato di alleggerirlo. C’è perfino una poesia a Papageno – il personaggio del Flauto magico di Mozart. Ricorda? «La lotta non è il mio forte […]».[Riferimento, in CK] La poesia non deve essere per forza noiosa. Beethoven, in quel Quartetto, alterna l’allegro al presto al molto adagio che è la parte suprema. L’importante è evitare la lirica. Quando

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mi chiamano «poeta» a me dà fastidio. Io sono uno scrittore che scrive in versi. La poesia deve essere anche narrativa, avere un ritmo narrativo. Basta pensare ai supremi esempi. Dante?

Certo, ma anche Montale. (Cita, alzandosi in piedi La casa dei doganieri e Plauto la Mostellaria).

Sì, amo molto il latino, l’ho imparato come una lingua moderna, me lo avevano insegnato tradizionalmente e allora io cominciai tutto da capo, mi misi a leggere «Gallia est omnis divisa in partes tres» [De bello gallico, Liber I, 1]. (È ancora in piedi e muove l’indice come solfeggiasse).

E poi c’è il latino medievale, i canti goliardici, il canto della scolta modenese, «o tu qui servis». (Si siede).

Quello che proprio non posso sopportare è l’accezione volgare di poesia. In Italia son tutti poeti, io ricevo tante di quelle «poesie» che non so nemmeno come liberarmene, non le vuole nemmeno il portiere… Divento pazzo quando la gente mi dice: «Anch’io mi diletto in poesia». Una volta andai a Genova con Vespignani, dovevo fare un pezzo sulle acciaierie di Cornigliano per la rivista «Civiltà delle macchine». A tavola mi trovai con un ingegnere. Cominciò: «Cosa ne pensa di García Lorca?». E poi subito: «Anch’io mi diletto di poesia. Ho mandato delle poesie a Montale e gli sono piaciute». «Beh», dissi «allora va bene, no?». Lui parlava di tutto fuorché delle spese. Verso la fine sembrò ricordarsi. Mi chiese: «Lei poi avrà avuto qualche spesuccia per il treno, immagino?». Chiesi di rimando: «Lei viaggia in treno o in aereo?». «In aereo», rispose. E io: «Anch’io. E quanto all’onorario, son modesto: mi contento di quel poco che prende lei per un progetto».

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106 [CONVERSAZIONE A BIELLA]

[Risposte a Silvio Riolfo Marengo] Tu sei stato, nel 1977, il primo vincitore del Premio Biella. Oggi, lo stesso premio – che festeggia il suo decennale – è stato assegnato a Luzi. Puoi dirmi come giudichi la sua poesia?

Se andiamo col metro del Premio Biella la poesia di Luzi vale venti volte più della mia, perché io vinsi un milione e lui ne ha vinti venti. Al di là dello scherzo, non giudico la poesia di Luzi perché le cose che amo io non riesco a giudicarle. Io conobbi Luzi si può dire per primo in Italia – lui lo sa ormai a memoria, perché lo dico sempre e me ne vanto moltissimo – quando, nel 1935, ricevetti un volume intitolato La barca e fui il primo a recensirlo, con aria professionale, ero un ragazzo di poco più di vent’anni, su «Il popolo di Sicilia», mi pare. Lui rispose e così è nata un’amicizia che è durata e durerà finché viviamo, un sodalizio fraterno posso tranquillamente dire. L’apparizione de La barca fu veramente un fatto determinante, una svolta nella poesia che io conoscevo del nostro secolo perché mi indirizzava a un’altra direzione dopo l’ultima grande sorpresa rappresentata da Montale, orientato sul versante della negazione, come tutti i poeti liguri da Ceccardo Roccatagliata a Sbarbaro. Invece la voce di questo giovanissimo e sconosciuto Luzi era la voce della speranza, tanto è vero che ingenuamente intitolai il mio articolo «Poesia d’un uomo di fede». Non so bene cosa scrissi, però l’ho conservato. Luzi fa parte della mia persona, della mia cultura, della mia formazione. Senza di lui la mia persona sarebbe stata probabilmente molto diversa perché Luzi mi avvicinò a Firenze, che allora era veramente la capitale della cultura, e io ebbi modo di conoscere esperienze nuove, diverse dal mio provincialismo genovese. Ma al di là di queste vicende personali e della generosità che ha sempre avuto incoraggiandomi e scrivendo saggi bellissimi su di me, perché come tutti i veri poeti è anche un grande critico, Luzi, non esito a dirlo, è il massimo poeta vivente, proprio per l’influenza che ha avuto sulla poesia novecentesca a lui successiva. È inutile che vengano a parlare di altre scuole o di altre tendenze, per ora nessuno ha avuto la forza che ha avuto lui. A proposito di poeti liguri, anche Barile però, e tu lo hai scritto, andava verso la speranza. Come lo ricordi?

Barile era un uomo veramente angelico, in tutto e per tutto. L’ho amato moltissimo ed è stato, per me, molto importante appunto perché ha segnato un parti-

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colare versante nella cosiddetta invenzione mia della linea ligustica fondata sulla disperazione assoluta – l’acerrima disperazione ha detto Anceschi. Lui, cattolico, portava invece la poesia verso la speranza. Anche Boine era cattolico, però tormentatissimo, e poi non era un lirico, diciamolo francamente. A Barile volevo un bene immenso, come persona e come poeta. Sapevo a memoria una poesia sua, il famoso Lamento per la figlia del pescatore, che è un capolavoro, e di capolavori un poeta ne scrive pochissimi, tre o quattro sono già parecchi. E tu, li hai scritti quattro capolavori?

Non lo so. Forse Barile non avrebbe approvato le mie ultime cose, perché lui guardava proprio alla lirica pura. Amava moltissimo Il seme del piangere, e per certe poesie mi aveva anche proposto delle varianti. E di Sbarbaro, hai un ricordo particolare?

Ne ho tantissimi, ma qui voglio raccontarti un episodio che lo riguarda indirettamente e attiene alla mia attività, non dico carriera che è una parola orrenda, di maestro elementare. Anche di lui sapevo a memoria la poesia del padre, che lessi, oggi non esistono più, in una classe atipica, poco prima di andare in pensione: si andava di classe in classe e si poteva insegnare di tutto, che so, dalla falegnameria alla musica. Assegnandomela, il provveditore mi disse: «Mica vorrai insegnare poesia?». E io, naturalmente, me ne guardai bene; insegnare poesia non si può, ma giravo tra i banchi, e d’accordo con l’insegnante, cominciavo a leggere, mai però cose mie. «Che cosa sono, maestro?», «Mah, son dei versi, delle poesie». «Mica male», dicevano. Sono riuscito a portare in quarta elementare addirittura il Foscolo. E come reagivano i ragazzi a queste letture?

Non solo mi ascoltavano volentieri ma, per induzione, si mettevano qualche volta anche loro a scrivere versi. Belli o brutti che fossero, sentivano il valore della scrittura e, cosa rara, preferivano la scrittura la video. E qui viene in ballo Sbarbaro. Una volta, era San Giuseppe, in quarta elementare la maestra mi chiese di leggere una poesia dedicata al padre. Allora mi vennero in mente i versi Padre, anche se tu non fossi il mio, un’altra poesia famosissima che sapevo a memoria, quella del padre di Sbarbaro che insegue per la casa la sua piccola figlia, Lina, la sorella del poeta, che aveva fatto una marachella. La bambina strillava forte per la paura, ma quando il padre riuscì ad acciuffarla la strinse forte tra la braccia per difenderla dal «cattivo» che era il lui di prima. Lessi questi versi e quando tornai in quella classe, il Pierino della situazione, l’ultimo, il più bistrattato, quello giudicato il più ignorante, uscì dal banco: «Maestro, anch’io ho fatto una poesia». La maestra gli prese il foglio di mano: «Dammi qua. Tuo

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padre che fa?», «Il barista». «E ti mena, ti picchia?», «E sì, poveraccio, ha tanto da fare, è tanto nervoso e a volte mi mena». Pierino aveva scritto, sto andando a memoria: «babbo, so che tu hai tanti pensieri / hai tanto da fare / e per questo mi meni. / Ma una volta / una volta solo / alza la tua mano, alzala / non per picchiarmi / ma per farmi una carezza». Se si sa porgere, la poesia ha un enorme potere formativo, come dicono i pedagoghi, cioè aiuta il giovane a ritrovare se stesso, perché io considero il poeta una specie di minatore il quale si cala dentro il proprio io fino a trovare una zona che è un io di tutti, tanto è vero che chi legge un poeta dice: «Queste cose le avevo pensate anch’io, solamente che in me dormivano e il poeta le ha risvegliate come il principe sveglia la bella addormentata nel bosco». Cambiando completamente discorso, vorrei farti qualche domanda su un aspetto particolare che si ravvisa nella tua poesia, la presenza molto insistita del vino e delle osterie di paese.

Quando ero giovane, le migliori società comunitarie venivano in forma spontanea. Eravamo quattro amici, ci incontravamo per strada, e bastava dirci «Andiamo all’osteria». Ci mettevamo lì, intorno a un tavolo e a un bicchiere, e nasceva una comunione vera, veniva spontaneo affratellarsi assieme. Forse per questo le osterie e il vino hanno tanta importanza nella tua poesia?

Sì, è vero le mie raccolte sono piene di osterie, di bicchieri. Le osterie erano per me un luogo di ritrovo, boa di ancoraggio e anche luogo di verità, dove potevamo osservare la semplicità, la schiettezza, la verità degli uomini. E hai qualche episodio personale da raccontarmi, come bevitore di vino?

E come no! Quando ho preso una sbronza – una volta sola nella vita – ma una sbronza tremenda con Frénaud, che era un bevitore accanito. Un giorno venne a Roma, a casa mia, in via Pio Foà e io avevo preparato in suo onore tutti vini francesi. Per me avevo riservato del Montepulciano. Lo assaggiò, bevve e ne fece bere molto anche a me. Prese una sbornia tale e la fece prendere anche a me; finì che cominciò a tagliare i fili della luce, ne combinò di tutti i colori: insomma, una cosa bellissima. Un’altra volta venne a Frascati, per partecipare al premio omonimo, che consisteva in mille litri di vino. Io ero in giuria, e Frénaud vinse questo premio. Venne naturalmente a ritirarlo e perse la testa visitando le cantine che a Frascati si trovano sottoterra. Poi volle andare a Monte Porzio e, sbronzo com’era lo sorprese un temporale nel bosco. Frénaud girava di corsa tra le piante e vedeva gli dei: «Ah! Les dieux!». Su queste cose scrisse poi un poema, sugli dei che vedeva a Frascati. Lui è veramente un pagano, un ateo davvero. Il vino, dunque, è stato in questo caso un datore di vita, di verità.

346 GIORGIO CAPRONI Anche a te il vino ha dato ispirazione?

Certamente, ho scritto tanto sulle osterie, sul vino, sui bicchieri. In una mia poesia, Delizia (e saggezza) del bevitore, ho fatto l’elogio del vino rosso, trasparente come un fiamma. Il bevitore accarezza la bottiglia, beve il vino profumato come fosse una rosa, ma avverte anche il senso ultimo della vita, il destino che lo conduce a una strada che va verso l’ombra. È, però, «in allegria».

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107 POESIA FATTA IN CASA, COME LE TAGLIATELLE

[Risposte ad Adolfo Chiesa] Caproni, in Italia i libri di poesia escono a centinaia, ma non si vendono. Tutti scrivono poesia, nessuno la compra o la legge.

Certo, noi italiani la poesia ce la facciamo in casa, come le tagliatelle. Perché andare a comprare le tagliatelle degli altri? Lei guarda la televisione?

Pochissimo. Ho un vecchio apparecchio in bianco e nero con lo schermo piccolo piccolo. Ma c’è un programma che segue più degli altri?

Il bollettino meteorologico. Ha un’automobile? La usa?

La macchina ce l’ho ma non la uso perché non ho la patente. Andare in auto non mi piace. Avevo una motocicletta in passato. L’ho portata per tanto tempo. Ha qualche consiglio da dare ai giovani che vogliono diventare poeti?

Quello di leggere, di vivere. Qual è l’ultimo libro che ha letto?

Il sogno della camera rossa, di Piero Citati. Bellissimo.

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108 LA FINE DEL LIBRO-OGGETTO

Abbiamo chiesto ad alcuni autori italiani di esprimere un desiderio per se stessi e per la letteratura in genere.

Mi auguro che finisca la letteratura come mezzo di successo e basta. Mi piacerebbe, in altre parole, che il 1987 riportasse la letteratura alle sue origini puramente culturali. Non se ne può più, assolutamente più di romanzieri che fabbricano i loro libri, mirando solo al successo e al conseguente guadagno. I romanzi non possono essere scritti apposta per diventare oggetti di mercato. Per quel che mi riguarda, sarei soddisfatto, e pienamente, se mi lasciassero in pace, a scrivere un nuovo libro di versi. Alla mia età lo considererei un gran dono fattomi dalla vita.

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109 ARIA DEL TENORE

Sono negato costituzionalmente ai discorsi. Il pubblico mi turba. Per questo da giovane smisi di studiare il violino. Mi limiterò dunque a semplici e brevi osservazioni intorno ai miei versi. Versi inediti, naturalmente. Tanto inediti da non figurare nemmeno sul fascicolo distribuito in sala, forse a causa d’un ritardo o d’un disguido postale. Ho scelto di proposito una poesia, appunto per evitare lunghe e complicate spiegazioni, abbastanza chiara da non abbisognare di troppi commenti. Del resto ho sempre creduto (e vedo che Bigongiari è d’accordo con me) che la poesia in genere, come la musica o qualsiasi altra arte, sia sempre intraducibile in termini logici per la plurivalenza che in essa assume la parola (anche secondo la posizione che essa occupa nel verso) oltre l’usuale codice della normale comunicazione. Aria del tenore (la poesia che leggerò) fa parte del mio prossimo libro, il cui titolo, chiesto in prestito a Weber, è Il franco cacciatore, anche se il riferimento all’opera weberiana è, per la verità, molto di sguincio, pur non mancando, nell’insieme, precisi punti di contatto. Quella che soprattutto m’interessa è la figura del cacciatore (e cacciatori già se ne trovano parecchi nelle mie precedenti opere), vista – come già la figura del viaggiatore – in veste di cercatore. Cercatore di che? Di Dio? Della verità? Di ciò che sta dietro il fenomeno od oltre l’ultimo confine cui può giungere la ragione? Della propria o dell’altrui identità? Una domanda vale l’altra, e forse si tratta soltanto di ricerca per amor di ricerca. Venendo ai versi in causa, potrebbero anche essere interpretati in veste di favola metaforica, di allegoria, di apologo. Tema di fondo, la follia omicida che purtroppo non soltanto da oggi imperversa nel mondo. Una follia omicida che si traduce in follia suicida, dato che chi uccide l’uomo non fa, sostanzialmente, che uccider se stesso. Così l’assassino si confonde con l’assassinato, in quanto l’assassinato, con la sua morte, genera la morte dell’assassino, e i due termini diventano a questo modo reversibili o intercambiabili. Due uomini che si odiano mortalmente (tento di raccontarvi il mio apologo) e che per un anno intero si sono cercati con furia tra la folla, s’incontrano finalmente nella macchia, o per meglio dire durante la macchia o Resistenza, su fronti avversi. Ciascuno dietro un leccio, e ormai ai ferri corti, si spiano quasi con voluttà, ritardando di proposito lo sparo per prolungare quanto più possibile la gioia dell’incontro, strettamente affratellati da un odio così intenso da somigliare a un amore.

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È giunta, dopo tanta attesa, l’ora dell’uccisione. E il giubilo che ne provano è tale – e si direbbe così puro – da farli tornare all’innocenza dell’infanzia, simboleggiata nei versi da un improvviso candore di neve natalizia. Ma ecco un colpo di scena: l’io recitante, e nella fattispecie «il tenore», anch’egli alla macchia e spettatore non visto, interviene con un’improvvisa raffica – spinto evidentemente da gelosia per il loro «godere» – e li fulmina entrambi, privandoli così del piacere tanto a lungo cercato e atteso di ammazzarsi. Poi prova rimorso o vergogna di tale sua «vile vittoria», e fugge, non si sa bene dove. Morale dell’apologo, ad libitum dell’ascoltatore. Non ho altro da dire, e passo alla lettura, limitandomi ad avvertire che il titolo mira solo ad alludere a quel tanto di volutamente melodrammatico che caratterizza il testo.

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110 CIAO, STELLA DEL MARE!

La vedevo alta sul mare. Altissima. Bella. All’infinito bella più d’ogni altra stella. Bianchissima, mi perforava l’occhio e la mente, viva come la punta d’un ago. Ne ignoravo il nome. Il mare mi suggeriva Maria. Era ormai la mia sola stella. Nel vago della notte, io disperso mi sorprendevo a pregare. Era la stella del mare. Era…1

Trovo questo vecchio appunto su un mio vecchissimo taccuino, e subito mi torna in mente il curioso incontro che più tardi me lo suggerì, entrato da poco in fregola di versi. Prima però voglio dir qualcosa dei miei lontani rapporti in genere con la figura di Maria. L’immagine della Madonna appartiene intera ai verdi paradisi dei miei amori infantili. Paradisi ahimè perduti, ma non per questo dimenticati, e non certo perché l’infanzia sia davvero, come vorrebbero i retori, un’età del tutto felice. Tra le luminose fronde dei suoi incanti e delle sue esaltazioni, anche l’infanzia ha le sue spine: i suoi dolori e le sue malinconie, spesso immedicabili. E se poi la si rimpiangerà per tutta la vita, è soltanto perché è l’unica età pura dell’uomo, quando il cuore e il cervello dell’uomo non sono ancora intorbiditi (o intorpiditi) dalle cosiddette cure e preoccupazioni pratiche, permettendo al bambino – in tutto disinteresse – di vivere in uno stato di grazia che poi non si ripeterà più. Da bambino – a Livorno dove sono a nato come a Genova dove son cresciuto – ho sempre avuto a capo del letto la dolce effigie di una Madonna: la Madonna di Pompei o la Madonna degli Ulivi, e più tardi la Madonna del Monte o la Madonna della Guardia, i cui santuari, con la scusa di respirare una

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boccata d’aria buona, vado ancor oggi a visitare quando ogni anno mi reco a Genova in vacanza. Madonne tutte popolari, le mie. Quasi direi popolane e dimesse. Madonne la cui suggestione non è mai sorta in me per virtù d’arte, ma per la loro stessa modestia: per una loro naturale bellezza, semplice e onesta come quella di mia madre Anna Picchi, da me tanto amata. La Madonna. «La mamma più bella del mondo, proprio come la mia», pensavo. Forse (ma questo non osavo pensarlo) più della mia. La salutavo ogni sera prima di addormentarmi, e di nuovo la salutavo al mattino, appena sveglio. «Mia dolce Maria», le dicevo in ginocchio. «Voglimi bene, e proteggimi con tutti i miei acri anche stanotte, anche in questo giorno appena nato». «Proteggimi», già. Come il pulcino chiede protezione alla chioccia. Come il leoncino alla leonessa, che non esita a diventar la più feroce belva se glielo minacciano. Superstizione? Sentimentalismo? Debolezza? Deprecato «mammismo»? Non me ne importa nulla delle definizioni. Le definizioni non definiscono mai nulla. Lasciano sempre il tempo che trovano. Non concludono nulla. Anche se definiscono scemo uno, quello non deve, per forza, essere scemo. Resta – imprendibilmente – quello che davvero è, al di là, o al di fuori, d’ogni definizione. D’ogni gabbia in cui lo si vorrebbe rinchiudere. Erano tempacci, del resto, quelli della mia infanzia, e tutti – non soltanto i bambini – avevano un gran bisogno di protezione. Finita da poco la «grande guerra», le pallottole continuavano a fischiare per la strada scheggiando le persiane di casa, e più di un innocente ho visto stramazzare a terra sotto la mia finestra, colpito dal fuoco incrociato fra carabinieri e arditi del popolo: fra squadracce fasciste, con la morte secca sul fez, e bolscevichi o rinnegati (definiti in mazzo «nemici della Patria») che cercavano alla disperata di «far valere un loro ideale di giustizia e di libertà». «Madonnina mia proteggici», mormoravo io pensando a mia madre che era giù per la spesa, o a mio padre che doveva farsi a piedi tutta la via Palestro per tornare dalla Gallinari2. Oggi, purtroppo, la Madonna è sparita dai luoghi giurisdizionali della mia ragione. Non è mai sparita del tutto del mio cuore, e nel più secreto del mio cuore, volendo o non volendo, me la son portata a lungo con me. Anche al fronte. Anche nel labirinto della macchia. Anche in ospedale, unico sostegno – irragionevole e proprio per questo bellissimo e insostituibile – nei miei triboli e tremori. «Sono un grumo di sogni», scrisse – o mi par che abbia scritto – Ungaretti3. Io posso soltanto dire – se può essere una giustificazione – sono un groviglio di contraddizioni. Sono un uomo, infatti. Almeno, zoologicamente. E l’intimo fondo d’un uomo non è alla fine più progredito – nonostante gli enormi progressi scientifici e sociali – di quello di un australopiteco. Da bambino, volevo tanto bene alla Madonna che, quando me ne regalarono una – tutta bianca, di gesso, forse una statuina della biancoceleste Madonna di Lourdes – mi venne addirittura voglia di costruirle una chiesuola. Presi una

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cassetta cubica di compensato. La foderai di carta velina rossa. Chissà perché rossa. Forse perché non aveva altra sottomano. Vi infilai dentro due piccoli candelieri di stagno alti quanto il mio dito indice, a lato d’un altarino improvvisato (come, d’altronde, tutto era improvvisato in quella mia opera architettonica), sul quale troneggiava un tabernacoletto di latta dorata, tutto raggi baroccheggianti, e proprio al di sopra del tabernacoletto posi lei, la mia madonnina. Come tutti quegli arredi ecclesiastici in miniatura e dozzinalissimi fossero capitati proprio lì in via Palestro, famosa sede di accaniti anarchici e «nemici di Dio» (leggevo questa frase, di color scarlatto, sui loro bandieroni neri, che ogni tanto ostentavano in corteo) e per giunta in casa del gran massone e gran bestemmiatore di professione Pilade Bagni, del quale eravamo coinquilini, davvero non saprei dirlo. So soltanto dire che davanti a quella mia chiesina, con le sue brave candeline accese, passavo ore e ore, tanto da far sospettare in me, certamente più con disgusto che con compiacimento, «una vocazione», anche se leggevo (insieme con «Il Corriere dei Piccoli») «L’Asino»4 o «Il Becco Giallo»5 o il «420»6 non certo tenerissimi coi preti, e anche se nel frattempo Decio, dalla sua terrazza sulla chiostra piena di toponi grossi così, che io e mio fratello cercavamo d’ammazzare con pesanti spranghe di ferro arrugginito, si sfiatava a cantare «Come la Russia noi vogliam fa’», e a predicarci «Il Sol dell’Avvenire». Decio. Che personaggio. Ho detto «si sfiatava», ma è stato un refuso della mente. In realtà Decio, sempre pallido come un morto, cantava sommesso e ispirato come parlava. Un volto e una voce da asceta. Era stato in Russia – diceva – e là – diceva – «avevo visto in faccia la Verità». Con la maiuscola, sì. Mentre chi di continuo si sgolava davvero (ma a bestemmiare, non a cantare) era Pilade, a tutto dispetto della bellissima e contegnosissima moglie Italia, nata Caproni e forse imparentata, oltre che con la mia famiglia, col glabro Zi’ Meo (un Bartolomeo Caproni) del Pascoli7, del quale già sapevo a memoria, imparata da solo su un libro del babbo, Lenta la neve fiocca fiocca fiocca, che mi strappava il cuore. Proprio terribile, quel Pilade. Faceva il barbiere in via Garibaldi, e si fabbricava le «cerette» a casa (la brillantina non era ancora stata inventata, o comunque lui non la conosceva ancora) friggendo grasso di maiale e poi pretendendo che io e mio fratello ci mangiassimo i «ciccioli», cioè i disgustosi pezzi di carne, residuo della frittura. E fu proprio il figlio di Pilade, Beppino, bassotto sdentato e futuro ingegnere, a distrarmi e a farmi dimenticare la mia cassetta sacra. Beppino (allora tutti avevano la mania della «scienza», come il De Pereires8 di Céline), dopo un fallito ma in compenso silenziosissimo tentativo d’arrivare, con un suo arzigogolato trabiccolo, al Moto perpetuo, stava ora inventando il motore a scoppio, insensibile ai lazzi di mio padre che cercava di ficcargli in testa come un tal motore fosse già stato inventato da un bel po’. Empiva la povera casa, coi suoi esperimenti, di terrificanti detonazioni, e calamitava tutta la mia attenzione, curioso come sono sempre stato di motori e meccanismi.

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La mia chiesina rimase con le candeline spente e senza più sacerdote, ma alla sera e al mattino continuai, durante le pause degli scoppi, a salutare la mia cara Madonna. Non una «grande» Madonna, l’ho già detto. La grande pittura mariana la conobbi soltanto quando cominciai ad andare a scuola (in chiesa non c’entravamo quasi mai), così come soltanto a scuola conobbi più tardi – tanto più tardi – la grande poesia mariana. Fino a quando, più che uomo fatto, conobbi, fra i moderni, Rilke e la sua Annunciazione (Parole d’Angelo), splendidamente tradotta da Giaime Pintor9: Tu non sei più vicina a Dio di noi; siamo lontani, tutti. Ma tu ha stupende benedette mani. Nascono chiare a te dal manto, luminoso contorno: Io sono rugiada, il giorno, ma tu, tu sei la pianta… Du aber bist der Baum…

Così, oggi mi sarebbe facile pavoneggiarmi sgranando bravamente il rosario della mia «cultura» artistica mariana, magari col solito ausilio o trucchetto dei manuali. Ma a che pro? La mia Madonna – umile – mi ha insegnato in primo luogo l’umiltà. Il suo splendore (la sa malìa) non proveniva per me, lo ripeto, né dalla perfezione delle forme, né dalla nobiltà ed eleganza delle fattezze e della veste. Quante semplici Marie, ho conosciuto. Ma forse la più bella – perché la più inaspettata – mi apparve a Genova. Ancora coi pantaloni corti stavo studiando violino, e quasi ogni pomeriggio andavo a suonar duetti (forse quelli del Bruni) nello studio dell’amico Adello Ciucci, studente di violino anche lui, che abitava a pianterreno in piazza Martinez, accanto a un noleggio di biciclette. Un giorno il Ciucci, che si dilettava anche di pittura, mi presentò un povero pittore d’origine francese, del quale ricordo soltanto il cognome: Bourillon. Il cognome e l’incredibile sporcizia: il lezzo. Avrà avuto una trentina d’anni. Pallido, una rada barba lunga e un vestito nero tutto unto e forforoso. M’impressionarono le sue grosse unghie a lutto. Ma innamorato anch’io di pittura, pur se a scuola non mi diedero mai più di quattro in disegno, presi a frequentarlo. Dipingeva dalla mattina alla sera, ma senza genio né fortuna, in una stanzuccia buia presso via Giovanni Torti, proprio dove cade la scalinata del Ponte Terralba, ch’io percorrevo tutti i giorni venendo da via San Martino dove abi-

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tavo, non mancando mai di soffermarmi per guardare i treni in manovra nel sottostante parco merci. Allora le manovre venivano fatte a spinta da una buffa locomotiva senza tender che pareva un ferro da stirare. Mi divertiva, quella locomotiva in continua inversione di vapore (avanti e indietro, avanti e indietro, proprio come un ferro da stirare), coi sibili dei suoi spifferi bianchi che salivano, durante le brusche frenature, fin quasi alla Madonna del Monte, alta di fronte al parco merci. Bourillon (ecco! Ora mi viene in mente che si chiamava Jean) andavo a trovarlo dopo una di quelle mie soste, ma devo dire più di malavoglia che con vera curiosità. È che mi faceva pena, e sapevo che la mia compagnia lo confortava. Era molto ignorante, anche in fatto d’arte, e con lui non sapevo mai di che parlare. Ma era anche modesto. Conosceva la sua pochezza, e stava a sentir quel poco che riuscivo a dirgli (ero un bambino, e avevo anch’io i miei limiti) con quasi disperato interesse, il volto assorto e quasi direi sognante. Confesso che uscivo sempre da quelle visite con un sospiro di sollievo. Ma una volta (e fu l’ultima di quelle mie visite perché poco dopo Bourillon scomparve, o forse morì) rimasi letteralmente a bocca aperta, davanti a un quadro che non mi sarei mai aspettato da lui, pittore quasi sempre di nature morte (peperoni o conigli) o di paesaggi campagnoli in tutto degni della peggior «scuola degli spinaci»10. Era un quadro, per me, d’eccezionale fascino, ch’egli stava ritoccando, o rifinendo, con la punta della lingua fuor delle labbra tant’era la sua immedesimazione. Tanta, da non accorgersi nemmeno del mio ingresso. Gli presi il polso della mano con la quale manovrava il pennello, temendo che sciupasse quell’opera, e gli chiesi: «Di chi è?» «Come, di chi è», mi rispose sorpreso. «Ma è mio. Di chi vuoi che sia? Mi hanno ordinato qualcosa per la Festa del Mare alla Foce, e ho dipinto questa Stella del Mare. Non ti va?». Su uno sfondo notturno, quasi di velluto, la figura della Vergine era dipinta in piedi sulle onde buie e lucenti del mare, in una lieve veste turchina che pareva, anche per la trasparenza del colore, composta d’aria, e coronata da un anello di stelle, vive come brillanti. Nella mia stessa ignoranza artistica di allora, mi sorprendeva soprattutto la pulitissima eleganza delle linee: un vero miracolo per l’opaco Bourillon. «Tuo?». «Mio, sì. Ma perché?». Ave, maris stella, Dei mater alma, atque semper virgo, felix caeli porta…

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Non avevo ancora studiato il latino, e non so di dove mi lampeggiarono spontanee queste parole, forse lette in qualche libretto di devozioni (mia madre ne teneva uno sul comodino, rilegato in finto avorio e con taglio dorato), e rimastemi impresse insieme con l’Ave Maria e il Salve Regina. Monstra te esse matrem… Virgo singularis, inter omnes mitis… vitam praesta puram, item para tutum…

«Bella», mi scappò detto. «Ma che faranno, alla Foce?». «E me lo chiedi? Non ci sei mai stato alla Festa del Mare? Tutta la Foce, e tutte le strade che portano alla Foce, vengon festonate di quelle grandi Emme fatte di lampadine accese che si vedono in tutte le feste religiose, e lei la metteranno, tutta illuminata, su una barca che prenderà il largo fino a raggiungere i pescatori con le loro lampàre». Dovevo esser davvero «un bambino molto sensibile», nonostante le feroci sassaiole con i «nemici» di via Donghi, se al solo sentir nominare le lampàre rimasi tanto scombussolato. Le lampàre, sul filo dell’orizzonte notturno, erano il mio spettacolo favorito. Non mi stancavo di starle a guardare, incurante delle esortazioni di mia madre, e anche delle sue sgridate, «perché a star lì a quell’ora potevo prender fresco, e ammalarmi». «Già. E i pesci che stanno sempre nell’acqua, allora?», rispondevo con malizia. «Non far lo spiritoso», mi rimbatteva mia madre. «Ma lo sai cosa sono le lampàre, per star a guardarle come un allocco? Non sono altro che lumi ad acetilene, proprio per attirar quei pesci che credi tanto furbi». La sapevo, sì. E con questo? Forse, mi domando oggi, gli uomini che per la prima volta hanno messo piede sulla Luna, descrivendocela per filo e per segno, le hanno tolto mistero e seduzione? Nessuno riuscirà mai a sottrarsi (non soltanto Magritte) all’incanto delle luci in sé. Al Dominio delle luci11. Eppoi, che meraviglia raggiunger la Luna, se già Bernard le Bovier de Fontanelle12, che campò giusti giusti cent’anni (1657-1757), l’aveva bellamente previsto fin dai suoi remoti tempi? Andai, manco a dirlo, alla Festa del Mare, e proprio accompagnato da mia madre, che ora non temeva più che prendessi fresco, golosa com’era anche lei dello spettacolo. Lampadine d’ogni colore. Mortaretti. Grandi Emme da gioielleria a non finire, accese e palpitanti. Aranciate. Gassose. Canestrelli croccanti. Reste di noccioline. Tutto il popolo sulla riva, a guardar gridando le barche che stavano prendendo il largo, cariche anch’esse di luci. Fra quelle barche, anzi in punta a quella flottiglia di barche, lei, la madonnina di Bourillon, sola su un grande gozzo a quattro vogatori, e con un proiettore che l’accendeva tutta.

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Ave, maris stella…

«Ciao, stella del mare…». È uno spettacolo che conservo vivo negli occhi, mentre ancora mi domando se il cuore di quel bambino che ero stava sulla riva o sulla linea di lampàre: per lui la maris stella, per lui che non conosceva il legame non soltanto fonico fra Maria e mare) s’allontanava o s’avvicinava. Ma chi può porre un confine netto tra l’allontanarsi e l’avvicinarsi? Non sono questi, nell’universale reversibilità di tutte le cose, verbi sinonimi? Non ho forse sperimentato, nel mio continuo correre, e rincorrere chi mi rincorre (nel mio continuo trascorrere, ma in cerchio), che ogni arrivo è una partenza, così come ogni partenza è un arrivo? È difficile entrare nel cuore di un bambino, anche se quel bambino fu, per un momento, la nostra stessa persona. Mi è difficile, anzi impossibile dire che cosa pensasse allora quel bambino ch’ero io. So soltanto che quella luce viva in movimento lo incantava, quel bambino. Quella luce… Nil obscurius luce13, è stato detto. Ma anche, qualcun altro ha detto: «Lasciatemi nel mio buio: ch’io veda». Ave, maris stella… Profer lumen caecis…

Ora che sono vecchio, e come tutti i vecchi sono incapace di mettere in chiaro se nella già lunga navigazione fatta (iter para tutum) mi sono sempre più allontanato dalla mia nascita, o non piuttosto avvicinato alla mia nascita, ogni volta che vedo una stella sul mare torno con struggimento ai verdi paradisi dei miei amori infantili, e ripenso – quasi provando, chissà perché, una fitta – al «povero» Bourillon. A quel suo quadro illuminato e illuminante nel suo nero, e di certo ormai distrutto dagli anni, come ormai distrutta è la persona del suo autore. Ma la sua maris stella la vedo ancora brillare lassù, ogni qualvolta mi reco sulla riva del mare, dovunque io mi trovi. A Genova come in California. A Livorno come sul Baltico. «Ciao, stella del mare», mi sorprendo a dir con voce sommessa. «Ciao, mio povero Bourillon, che grazie al tuo quadro, e per virtù del tuo quadro, mi costringi ancora (e te ne sono grato) a salutare Maria, come la salutavo nella mia cameretta di fantolino fidente – bella e protettrice – a capo del mio lettuccio.

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111 [IL TEMPO DELL’ERMETISMO]

[Risposte a Giorgio Tabanelli] Vorrei proporle di iniziare il nostro colloquio a partire dalla sua amicizia con Carlo Betocchi.

Più che un amico, considero Betocchi un fratello. Un fratello maggiore. Quando abitava a Roma andavo spesso a trovarlo e anche la moglie e la figlia mi consideravano di casa. Lo conoscevo già da parecchi anni, ma soltanto epistolarmente. Credo sia stato fra i primi ad occuparsi dei miei versi, che ha sempre avuto cari, come testimoniano i molti scritti che mi ha dedicato, uno più bello dell’altro. La sua generosità non ha mai conosciuto confini. È un uomo di un’incredibile bontà d’animo, felice quando può rendere felice un altro. Un vero cristiano nel senso più proprio della parola. A me ha dedicato una delle sue più belle poesie, intitolata Per Pasqua: auguri a un poeta, inclusa nella raccolta L’estate di San Martino: «Giorgio, quante croci sui monti, quante, / fatte d’un po’ di tutto, di filagne / che inclinate si spaccano, di scarti / […]». Di persona lo conobbi nel ’50. Era morta quell’anno mia madre, e Ferruccio Ulivi, sicuro di farmi una bella sorpresa, venne a trovarmi accompagnato da lui, da Betocchi. Ne rimasi talmente commosso da scrivere poco dopo alcuni versi, in verità molto modesti, dal titolo A Ferruccio Ulivi, soltanto per rievocare la gioia che quell’incontro mi diede. E la conoscenza con Carlo Bo a quale periodo risale?

Culturalmente ho seguito Bo con viva attenzione, e direi con passione, fin dai suoi primi scritti. Era la guida spirituale della generazione cui appartengo. Negli anni bui della dittatura, ha saputo darci non dico una lezione di libera letteratura, ma di libera vita, da autentico Maestro. Ricordo l’emozione che provai in quel tragico 1943, quando recensì per la prima volta uno dei miei libri: Cronistoria. Fu per me un crisma, tant’era la venerazione che gli portavo. Quanto a precisare la data del primo incontro con lui, mi resta difficile. Forse nel ’41 o ’42, quando capitò a Genova in piena guerra. La prima impressione che ne ricevetti fu quella d’un uomo ricco d’umanità in tutti i sensi. Potei infatti costatare, di primo acchito, come la severità del suo impegno culturale e morale non mortificasse affatto (allora eravamo giovani entrambi) il suo amor vitae. Qual è stata la circostanza precisa del vostro incontro?

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Non lo ricordo con precisione, ricordo soltanto che si andò a cena insieme in una trattoria, entrambi sbigottiti dagli avvenimenti bellici. Io – militare – ero in breve licenza. Lei infatti mi scrisse di aver conosciuto Bo a Genova «in anni remotissimi e tristissimi, sotto l’incombere della guerra».

Già, il periodo non fu uno dei migliori. Quel nostro incontro sotto l’incubo della guerra, anzi nell’incubo della guerra, lo ricorda lo stesso Bo in un suo articolo apparso, mi sembra, sull’«Europeo», in occasione di uno dei due premi «Viareggio» da me vinti (nel ’52 e nel ’59). Lei non è ligure di nascita, anche se ha vissuto a Genova anni importanti per la sua formazione di poeta.

Io sono livornese ma mi trasferii a Genova quando frequentavo ancora le elementari. È a Genova che mi sono formato, e per questo considero Genova la mia vera città. Credo d’aver preso qualcosa del carattere genovese. La parcità delle parole, per esempio, mentre se ne fa tanto spreco nelle altre parti d’Italia. Bo in questo è ligure cento per cento. A volte gli basta un monosillabo per esprimere un intero discorso o dare un preciso giudizio. Nelle cose serie ma anche nelle cose facete. Tornando alla Genova della mia formazione, dirò ch’era una Genova ancora imbevuta culturalmente dei poeti della «Riviera ligure», il cui ultimo numero uscì nel ’19: l’anno stesso della morte di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, che di quella rivista, diretta da Mario Novaro, fu uno dei più assidui collaboratori, almeno in relazione al «gruppo ligure», formato dallo stesso Novaro, da Boine e da Sbarbaro. Naturalmente, per ragioni anagrafiche, di quei poeti ho potuto conoscere soltanto Sbarbaro, nel dopoguerra, però, con lui strinsi un’amicizia che durò fino alla sua morte. (Sbarbaro mi ha voluto molto bene, tanto da lasciare a me molte carte a lui care, comprese le preziose lettere di Elena De Bosis Vivante, alla quale aveva dedicato Trucioli). A Genova poi uscì «Circoli» nel ’31 (la bella rivista di Adriano Grande, con un comitato di redazione formato da Angelo Barile, Guglielmo Bianchi, Giacomo Debenedetti, Eugenio Montale, Camillo Sbarbaro e Sergio Solmi), e se questo valse un poco a sprovincializzarla, certo la Genova di allora non poteva competere culturalmente con Firenze, nella cui area già era in prima fila Carlo Bo. Se si pensa, come lo stesso Bo ha affermato, che Sbarbaro quando era insegnante a Genova, citando un verso del Carducci, gli fece esplodere l’amore verso la letteratura, si può dedurre da questo fatto che la presenza di Sbarbaro nella letteratura italiana ha avuto un’importanza rilevante.

Certo, l’influenza di Sbarbaro sui poeti liguri (Montale compreso) e sui poeti italiani in genere, è stata fortissima, e fu proprio Bo ad accorgersene tra i primissi-

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mi. Ma dire che l’influenza di Sbarbaro su Bo sia stata determinante, mi sembrerebbe esagerato. Bo ha radici che si spingono molto lontano nel tempo e nello spazio, e che di troppo superano l’ambito regionale o nazionale. Il che però non toglie che anche Bo abbia sentito in profondo la personalità di Sbarbaro, anche al di fuori della sua opera. Sbarbaro era uno spirito singolarissimo: «amaro nelle radici, ma dolce nei fiori», come qualcuno (forse lui stesso) ha detto. Vuol sapere (mi perdoni la parentesi) come io lo conobbi? Avevo scritto un articolo su di lui, mi pare su «Il punto». Mi scrisse una letterina di ringraziamento, dicendo tra l’altro che per la prima volta sentiva un discorso «pertinente» sulla sua poesia, e io pieno di confusione lo ringraziai… del ringraziamento, mettendo sulla busta: «All’illustre poeta Camillo Sbarbaro, Spotorno». Mi rispose immediatamente con una cartolina indirizzata all’«illustrissimo Signor Giorgio Caproni», con queste precise parole: «Pari e patta. E mi venga a trovare». Tornando a Carlo Bo, lei (nella lettera) mi scrisse di essere stato particolarmente colpito dalla sua «umanità e vivacità di spirito anche mondano».

Sicuro. Anche se ci vediamo di rado, e quasi sempre in occasioni ufficiali, ho notato quanto gli piaccia conversare con persone simpatiche, cenare con belle signore e cari amici, raccontare spiritosi aneddoti e chiedere notizie di questo o di quello, e così via. Ma sempre – voglio aggiungere – con estrema misura e, direi, signorilità, senza mai alzare il tono della voce o trasformare il sorriso in rumorosa risata. Questo in fondo dimostra la sua semplicità di uomo.

Direi piuttosto la sua ligusticità. I liguri sono degli aristocratici per natura. Quando vi fu l’attentato a Togliatti, a Genova fecero le barricate, ma le cosparsero di fiori, per renderle più gradevoli alla vista. Tornando agli anni liguri?

Non ci sono stati «anni liguri» nella nostra amicizia: io sempre a Genova, lui a Firenze o a Milano o a Urbino o chissà dove. Successivamente quali sono state le occasioni di incontro?

L’ho già detto, occasioni ufficiali. Ci vediamo ogni anno a Bologna per il Premio Gatti, a Viareggio per il Premio Viareggio, ecc. Lei, negli anni in cui a Firenze proliferava vivacemente l’esperienza delle riviste e degli incontri fra i diversi scrittori, a Genova aveva modo di «sentire» gli echi della cultura fiorentina?

Certo. Nel ’35 quando uscì La barca di Mario Luzi, fui il primo a recensirla sul «Popolo di Catania» del 29 novembre di quello stesso anno. Nel ’40, già richia-

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mato alle armi, pubblicai due poesie su «Corrente di Vita giovanile». Poi fui spedito al fronte e fino alla Liberazione non potei più avere contatti regolari con gli amici fiorentini. Credo d’aver collaborato anche a «Letteratura» di Bonsanti, ma non ne sono sicuro. A Genova in quegli anni ebbe modo di leggere «Il Frontespizio»?

Soltanto qualche numero, saltuariamente. Quindi il contatto con l’ambiente fiorentino cominciò nel suo caso soltanto con riviste «Letteratura», «Campo di Marte» e «Corrente».

No, cominciò prima. La data di recensione a Luzi lo dimostra. Eppoi, come ho già detto, fin dal ’31 a Genova usciva «Circoli», cui collaboravano anche «fiorentini» (voglio dire scrittori appartenenti all’ambiente fiorentino) come Bo, appunto, Bilenchi e altri. Tra i collaboratori apparve anche Ruggero Jacobbi, il quale nel numero 1 del 1939 scrisse un articolo dal titolo Prima stagione di Sainte-Beuve. Fu un intervento a difesa di Bo e della generazione ermetica. Recentemente su «Il Sabato» Bo ha scritto un articolo su Jacobbi.

Di Jacobbi, ahimè, ricordo poco o nulla. Lo conobbi nel dopoguerra a Lentini, ma non ci frequentavamo, e per giunta non conosco gli scritti cui lei accenna. Come giudica la posizione di Carlo Bo – peraltro da lui mai smentita successivamente – e del movimento ermetico?

Il cosiddetto Ermetismo è il movimento più importante che abbia avuto il Novecento italiano. La critica letteraria in alcuni casi individua nella sua poesia elementi o caratteristiche appartenenti all’area ermetica.

Non mi piacciono le etichette. I miei esordi si rifanno più indietro del cosiddetto Ermetismo. Qual è il poeta, o i poeti, al quale (o ai quali) si sente più vicino in senso ermetico?

Se toglie alla domanda «in senso ermetico», troppo ambigua e generica, le dirò i poeti miei coetanei. E durante il periodo dell’Ermetismo?

Le ripeto, la parola Ermetismo è per me troppo generica. Include poeti diversissimi l’uno dall’altro, troppo diversi per poter essere accomunati.

362 GIORGIO CAPRONI Qual è secondo lei la grandezza di un poeta come Betocchi?

Qual è la grandezza di Betocchi? Quella di essere davvero un poeta, capace di toccare il cuore e la mente di tutti. C’è una sua poesia che riflette particolarmente il clima di quella stagione poetica ed esistenziale?

Mah, forse i Sonetti dell’Anniversario e qualche altra cosa di Cronistoria, sebbene io sia più portato a pensare a Campana. Carlo Bo pubblicò su «Corrente» del 15 giugno 1939 un articolo dal titolo Nozione nella poesia dove a un certo punto egli afferma: «L’unica realtà è fatta appunto d’una contraddizione superata e analizzata, scontata ora per ora nella coscienza e nell’attesa». Questa parole usate da Bo in quegli anni erano vere anche per la sua personale esperienza poetica?

Certamente. E resteranno sempre vere. Sempre nello stesso articolo che le ho citato, Bo enuclea i valori della poesia e motivi dominanti della poetica ermetica, in questi termini: «La poesia ha inizio dalla realtà comune interrogata, da un rapporto che va oltre le sensazioni e non deve arrestarsi al sentimento: la poesia continua nella strada irreperibile, sconosciuta, aperta dall’interrogativo, da quello stato iniziale e inevitabile di attesa. Non le si può opporre nessun’altra realtà, una realtà immaginaria che si determini in un giudizio, in una cifra terrena, bassamente umana. Una poesia che tiene a dire la sua spiegazione, che scrive la propria risposta, è l’offesa portata dalla nostra materia […]». Ed ancora:«Non è chi sa, il poeta è uno che tende a sapere: nel suo verbo di un inalterabile presente c’è l’intensità, la forza, l’irriducibilità del suo mestiere […]».

Sono parole sacrosante. Per me, sempre attualissime. In occasione dei settant’anni di Carlo Bo, lei ha scritto un articolo dal titolo Una guida spirituale, apparso su «Il Tempo» del 25 gennaio 1981 (il giorno stesso del compleanno di Bo) nel quale ha rievocato la sua personale riconoscenza nei confronti di «un grande maestro della critica». Lei ha scritto che «Bo era già da anni la nostra stella polare: la nostra guida spirituale».

Certo, non ho aspettato il ’43 per conoscerlo. Proseguendo la lettura del suo articolo, lei scrisse: «A quei tempi uno scrittore, nel fervore “diverso” che lo animava, non mirava certo, come il professionista d’oggi, al Premio o al successo mondano. Sua sola ambizione, a parte il far bene, era quella di ricevere un riconoscimento da un grande maestro della critica. (E ce n’erano allora, da Pancrazi a Cecchi a De Robertis). Ma in ispecie, per gli uomini della mia generazione, il riconoscimento più ambito era quello di Carlo Bo, perché travalicava le ragioni puramente letterarie. Bo infatti non era soltanto colui che per primo aveva sprovincializzato le nostre lettere, proponendoci una visione e una dimensione del tutto nuove (europee) della poesia, ma soprattutto colui che ci aveva indicato e insegnato una nuova nozione – perdonatemi la parola logora – dell’anima». Quando lei scrive che Bo vi «aveva indicato e insegnato una nuova nozione dell’anima», la parola anima deve essere intesa in senso cristiano?

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Anima come sinonimo di vita. Di vita, se è necessario aggiungere l’aggettivo, spirituale. «Posso a cuor tranquillo dire anch’io, sul fondamento della mia esperienza, che senza di lui tutto si sarebbe svolto in modo diverso. In nostro debito è quindi incalcolabile. Fra l’altro non avremmo avuto (e non è poco!) l’unica vera grande stagione del nostro Novecento, che resta appunto la stagione di quello che poi fu detto Ermetismo: un “fenomeno” (ma sarebbe più proprio chiamarlo un evento) che però non tocca, secondo la considerazione limitativa dei più, soltanto una nuova poetica da aggiungere alle tante altre, ma un nuovo concetto dell’esistenza». Qual è secondo lei questo «nuovo concetto dell’esistenza»?

È un forte richiamo al valore del «singolo» proprio perché possa nascere una migliore società. Come il minatore, l’uomo deve calarsi in quelle che Machado avrebbe chiamato «las secretas galerías del alma» fino a trovare nel fondo di se stesso un «io» che è uguale in tutti: che è un «noi». Lei oggi considera l’esistenza un «nuovo concetto dell’esistenza», mentre, in genere, la storiografia e la critica letteraria, oltre a non riconoscere la conquista di questi alti valori poetici ed esistenziali, fanno uso di categorie interpretative deteriori, tantoché ancor oggi vengono lanciate accuse di: «oscurità», «chiusura», «formalismo», «torre d’avorio», «aristocrazia letteraria», «repubblica delle lettere». Per quale motivo ancor oggi non viene riconosciuta, o si stenta a riconoscere, la profonda essenza di questo importante «evento», come lei stesso lo ha definito?

Molte delle definizione a cui lei accenna appartengono al più spicciolo giornalismo letterario. Quello che conta non è tanto ciò che affermano i sedicenti critici, ma ciò che fanno i poeti. Quelli veri. Quando uscirono gli Otto studi di Bo fu Pratolini a segnalarmeli. Pratolini non è di certo un «ermetico» nel senso «giornalistico» della parola. Questo significa che l’energia mentale o spirituale di Bo non si è limitata a toccare una «scuola» poetica, ma ha investito in pieno le coscienze, anche dei non «ermetici».

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112 QUANDO PENNA VAGABONDAVA PER LA CITTÀ

[Risposte ad Antonio Debenedetti] La mia amicizia con la poesia di Penna fu fulminea. Risale al febbraio del 1933, quando di Sandro Penna, su «Circoli», mi capitò di leggere alcuni versi che mi lasciarono a bocca aperta per la loro levità (quasi fossero composti soltanto d’aria) e, insieme, per il loro caldo sapore (anzi sentore) umano. Quei versi non mi si sono più staccati dalla mente, anche se poi non li ho più ritrovati cosi sottolineati in nessuna raccolta. Poi (molto più tardi, nel primo dopoguerra) nacque l’amicizia con l’uomo, a dir vero, questa, un poco difficile, forse perché tutti e due abbastanza scontrosetti. C’erano piccoli battibecchi su cosucce da nulla, che niente avevano a che fare con la letteratura. Ci siamo infatti voluti sempre molto bene, fino all’ultimo incontro, quando Penna, nel 1973, venne a portarmi una copia di Un po’ di febbre con questa dedica: «Al vecchio amico poeta Giorgio Caproni, il suo fedele Sandro». È una dedica di cui vado orgoglioso.

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113 IL POETA DEL VINO SI CONFESSA

[Risposte a Marcello Vaglio] A Chiavari vengono assegnati ogni anno, il secondo sabato di settembre, i premi letterari messi in palio dal simpatico Club «Pedale e Forchetta»: due al racconto inedito di argomento sportivo o enogastronomico, e un terzo riservato al libro edito che proponga uno dei due temi, o entrambi: il prestigioso Premio Chiavari. Della giuria fanno parte alcune delle più illustri firme della letteratura e del giornalismo, vuoi sportivi, vuoi enogastronomici; il giurato più famoso è il poeta Giorgio Caproni. Il clima in cui lavora la giuria, propiziato dal Club organizzatore, dal nome scherzoso, ma con alle spalle, in sedici anni di vita, un’intensa attività culturale, è amichevole, cordiale, fraterno. In tale clima un presidente «istituzionalizzato» parrebbe una stonatura, ma durante i lavori della giuria Giorgio Caproni funge pro tempore da presidente, per unanime acclamazione dei colleghi. Non mi potevo lasciar sfuggire l’occasione dell’incontro con Caproni per proporgli, nell’atmosfera conviviale dei lavori della giuria, un tema ideale e per lui e per la circostanza: il poeta Caproni e il vino.

È un rapporto che dura ininterrotto, ma offuscato da nubi, da oltre mezzo secolo. Chi legga i miei versi li vedrà muoversi, spesso e volentieri, tra biciclette e osterie. Gli ricordo la poesia Le biciclette, inclusa anche in una recente antologia di letteratura sportiva, giunta alla selezione finale del Premio Chiavari di quest’anno.

Sì, ma nella stessa raccolta, e in ogni mia raccolta poetica, figurano anche poesie i cui protagonisti sono osterie, bottiglie, vino. Anche la latteria, insinua maliziosamente un collega della giuria, riferendosi alle famose Stanze della funicolare.

La latteria rappresenta il momento della guerra, lì non c’è spazio per la gioia, per la conversazione, quando il vino ti scalda il cuore: lì incombe la minaccia della morte. L’osteria, il vino, significano incontri, conversazione, confidenza tra amici. Ma tu, Giorgio, come vedi il vino?

Per me è sempre rosso. Se lo penso, lo immagino, lo canto in versi, lo vedo rosso. È curioso, perché adesso bevo soltanto il bianco: mi hanno detto che mi fa meno male, e io fingo di credere ai medici…

366 GIORGIO CAPRONI Caproni aggiunge che lo ha sempre incuriosito come in talune parti della Toscana il rosso sia chiamato «nero». Gli ricordo, con suo divertimento, un detto ingenuamente poetico che udii, da bambino, nelle colline di Broni e Stradella, nel regno dei grandi rossi dell’Oltrepò: El diseva anca San Peder ch’el pussé bon el l’è quel negher e San Peder el gh’aveva rason perché quel negher el l’è ‘l pussè bon. Ma tu, Giorgio, quale vino bianco bevi, di preferenza?

Guarda, ho frequentato per anni, a Roma, un’osteria antica, tra il Gianicolo e San Pancrazio, dove si beveva un ottimo Frascati. Oggi non ci vado più, perfino il nome è stato degradato, lo chiamano «hostaria», con l’acca, si vergognano della lingua italiana. Io mi faccio un vanto di scrivere in italiano. Il valore di ciò che scrivo lo lascio decidere agli altri; ma la lingua è italiano genuino, come deve essere anche un vino. Ma torniamo al Frascati. Ogni bicchiere era un’occasione per un incontro, per un’esperienza, era esca a una conversazione. Ricordi qualche personaggio in particolare? Tra un sorriso, illuminato dal lampo dell’intelligente ironia ch’è il tratto più peculiare del conversare di Caproni, e uno sguardo che sembra vedere oltre il collocatore, Caproni rievoca personaggi della poesia e della cultura, sfilano, evocati dalla forza della sua parola, Ungaretti e Saba, Montale e Quasimodo, Edoardo Firpo e Cardarelli, e innumerevoli altri, legati al ricordo d’un incontro enoico.

Ma, se penso al Frascati, penso al poeta francese André Frénaud. Al quale, se non erro, sei legato da molteplici ragioni: voi siete i due poeti che, insieme a Dino Campana, avete più compreso, e cantato, la città di Genova. E di Frénaud, hai tradotto Il silenzio di Genova, con molte altre poesie.

Prima e più che un suo traduttore, mi considero un suo amico. L’amicizia nacque in occasione di un Premio Botte di Frascati, uno dei primi. Era uno dei premi letterari più simpatici. Adesso è diventato Premio Frascati, e non danno più il vino, danno soldi: tutto decade. Allora era ben altra cosa: andammo insieme a Frascati, Frénaud ed io. Io ero in giuria, lui era il vincitore, lungo il tragitto fummo colti da un acquazzone violentissimo, un vero nubifragio. Frénaud si era devotamente preparato con opportune libagione di Frascati, per essere più degno del premio. Sotto tuoni e fulmini, lui ateo, continuava a ripetere: «Ce sont les dieux!». Il ricordo più divertente è quello della prima volta che l’ho invitato a casa mia, a Roma, in quella via Pio Foà che dà il titolo a un’altra poesia. Io a casa

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bevevo, allora, Nobile di Montepulciano; me lo portava un piccolo produttore locale, che mi riforniva di persona. Per l’occasione, mi procurai le più preziose bottiglie di vino francese che mi riuscì di trovare: ero molto compreso della mia parte di anfitrione. André Frénaud le guardò ad una ad una, poi mi chiese: «Tu, cosa bevi?». Andò avanti a Nobile di Montepulciano a tutto pasto, le bottiglie francesi non le bevve nessuno. E adesso, che ti proibiscono di coltivare la tua preferenza per il Nobile, che cosa bevi? Non ci crederai, ma bevo Montepulciano bianco. Non so nemmeno se sia un vino «ufficialmente» riconosciuto dai Soloni che pontificano in materia, né me ne importa; esiste, e tanto mi basta. Me lo porta quello stesso antico fornitore, che si è ammodernato, ingrandito, per quanto riguarda la distribuzione. Ma, nella produzione, è rimasto fedele a quel modello di sano artigiano che preferisco. E quali ricordi enoici ti legano al Premio Chiavari?

Impossibile enumerarli. Ne basti uno per tutti. Voglio ricordare quanto piacque a Luigi Volpicelli, compianto presidente della giuria, la mia poesia Delizia (e saggezza) del bevitore. Gli piacque tanto che, quando la pubblicai nel volume Il franco cacciatore, gliela dedicai. Ne fu felice. Credo sia stata una delle ultime gioie della sua vita.

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114 SE LA MUSA È DENTRO DI NOI

[Risposte a Luigi Vaccari] Dice Caproni che per ora è soltanto un’idea: fare un libro che sia il contrario del Conte di Kevenhüller.

Nel Conte c’è la Bestia che è il Male in tutte le sue forme, compresa quella che noi stessi stiamo creando. Questa volta dovrebbe campeggiare il Bene. Sia pure un Bene perduto. Poiché la poesia muove spesso da un fatto quotidiano e perfino banale, questa idea mi è venuta dalla perdita di una lettera di un carissimo amico: l’ho così gelosamente riposta che non riesco più a trovarla. Di qui lo spunto, il tema: Res amissa, la cosa perduta. Tutti nella vita riceviamo un dono, del quale poi ci rimane soltanto il rimpianto di non riuscire a ricordare dove sia finito. Dice che anche il titolo di questo libro potrebbe essere Res amissa. Che, ripete, non si sa nemmeno quale res sia. Né chi l’ha donata. Chiacchieriamo una mattina ai questa strana primavera, che acutizza vecchi acciacchi, e Caproni accende, dal bocchino, un terzo di sigaretta: che può essere una Lido, una Cartier, una Linda. Così, con cinque o sei sigarette al giorno, riesce a fare quindici o diciotto fumate. Senza eccessivo danno per la salute, pensa. Poi, mentre fuma assorto, accenna che questa idea della cosa perduta rimarrà probabilmente un’idea. Perché i suoi libri, gli ultimi specialmente, non li ha mai progettati. Anche se, una volta composti, sembrano seguire, nella loro unità, un programma prestabilito.

Quando li rileggo, cominciando dal Muro della terra, ma perdio!, mi dico, sembra che abbia fatto un progetto. Invece, no: assolutamente. Come si spiega? Come si spiega che se mettessi le poesie in ordine di data il libro non esisterebbe? Il poeta non è dunque del tutto consapevole di quello che scrive? Ricorda alcuni traduttori che gli hanno domandato il senso preciso di un determinato vocabolo o di una certa espressione.

E io non sono riuscito a darlo. Per esempio, per una poesia dedicata alla moglie, che è nel Conte. «Ha fatto tutto da sola. / Ha costruito una casa / e l’ha confortata. / […]». Dalla Francia gli hanno chiesto: «Quel confortata che vuol dire?». E hanno finito poi col tradurre: «Fortifiée».

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Vuol dire anche l’ha fortificata, certo. Ma mica ha messo le sbarre nei muri! È il senso morale di quel «confortata» che non ho saputo spiegare chiaramente al traduttore. Dopo questa esperienza, e anche altre, anche per testi molto più difficili, Caproni si è domandato: come si spiega questa inconsapevolezza?

Ecco, i poeti antichi credevano di scrivere sotto dettatura della Musa. O dell’ispirazione. Ma oggi che tutti gli Dei e le Dee sono morti? E ha pensato al sogno…

Si può programmare, un sogno? Credo proprio di no. La poesia non è sogno, è vero. Ma gli assomiglia molto. Forse oggi il poeta scrive sotto dettatura del subconscio. È l’inconscio a formare il progetto. E il poeta, quando scrive, sia pure inconsapevolmente, gli obbedisce. Caproni accende un altro terzo di sigaretta, nel suo studio le cui biblioteche sono interamente soffocate di libri.

Ho proprio paura che un bel giorno si sfondi il pavimento. È in partenza. Deve andare a tenere una conferenzuola, la chiama così, a Fidenza. E confessa che viaggiare gli piace, in Italia e ancor più all’estero, però comincia a stancarsi: vorrebbe un po’ riposarsi, far riposare le idee, perché deve anche scrivere. E non solo poesie.

Chi chiede una cosa, chi un’altra. C’è sempre da fare. Ah, ecco, quello che posso dire è di non conoscere la noia, perché so farmi compagnia da solo. Io m’annoio soltanto tra la folla. La poesia è la cosa che meno m’affatica, anche se richiede continua applicazione. È un esercizio che mi fortifica, mi dà salute, anche quando mi tormenta. È che i versi non li scrivo quasi mai a tavolino. Me li rigiro nella mente per giorni, per mesi, a volte per anni. E quando mi metto alla macchina da scrivere si può dire che la poesia è già composta. Ecco perché è raro trovarvi delle varianti. Penso ai miei versi in autobus, in treno, in aereo. Prendo appunti dovunque mi capiti. Ma, ripeto, non conservo prime o seconde stesure. Ricordo a Caproni quello che mi accennò in treno, nel novembre scorso, tornando da Montecatini, dove aveva ricevuto il Premio Pasolini: la possibilità, cioè, di raccogliere i racconti che scrisse negli anni Quaranta a che, scherzò lui, «sono quarantadue come i racconti di Hemingway». Caproni risponde che questa voglia non è sua, sono gli editori che stanno premendo. Cominciò Giacomo Debenedetti. Poi Rizzoli, che nel 1984 ne ha stampati tre: Il labirinto, che dà anche il nome alla raccolta, Giorni aperti e Il gelo della mattina.

Poi c’è Garzanti, al quale soltanto spetterebbe il diritto d’un’intera raccolta, anche perché gli sono molto affezionato.

370 GIORGIO CAPRONI E c’è la Francia, dove ne ha già pubblicati due con l’editore Verdier, e dove con Le mur de terre e Le Comte de Kevenhüller, per le edizioni bilingue Maurice Nadeu, ha avuto molto successo, anche di vendita.

Ma finirà per uscire postuma, questa mia raccolta. Sono racconti che richiederebbero una lunga e paziente revisione, che ho rimandato di anno in anno. Li ho scritti quasi tutti per forza, e se mi deciderò proprio così li intitolerò: Racconti scritti per forza. Col che, anche se non tutti sono… eccellenti, non voglio disprezzarli, anzi. Nati in pieno realismo, non risentono di questa moda. Ad accomunarli è uno strano senso di disagio di fronte alla vita, diciamo così, quotidiana, di «inadattabilità», si direbbe oggi, o meglio di estraneità, nonché, qua e là, di crudeltà tormentata. Che vale, del resto, anche per le poesie. E su quasi tutti il peso ancora incombente della guerra e dei suoi orrori: specie nel Labirinto, che con molti anni di anticipo rispetto a Pavese e Fenoglio si può considerare il primo racconto della Resistenza, da un resistente, cioè da un combattente. E se ne ha la prova nel fatto che appare sulla rivista «Aretusa» di Carlo Muscetta nel gennaio del 1946, ad esito di un concorso bandito molto tempo prima. Caproni fa una pausa, poi bisbiglia: «Racconti scritti per forza…». Perché li scriveva, spesso, per guadagnare qualcosa. Senza dare ad essi troppa importanza. Senza preoccuparsi se ripeteva frasi o immagini che aveva già messo in altri.

Ero convinto che i lettori, di fronte al nuovo racconto, non si sarebbero certo ricordati del precedente, o dei precedenti. Ecco perché dovrei rivederli con il massimo scrupolo, a parte lo scioglimento di certi passi sintattici piuttosto confusi. È un lavoro che non posso affidare ad altri, e d’altronde da solo non me la sento di sostenerlo. D’altronde non sono pentito di averli scritti. Perché una certa vena narrativa è sempre esistita nella mia poesia. Tanto che preferisco definirmi scrittore in versi piuttosto che poeta: qualifica, ai miei occhi, abbastanza equivoca, oggi come oggi. Equivoca perché? Caproni ora alza la voce:

Non è che io non creda nella poesia. È che la rispetto troppo. Quello che oggi mi dà fastidio è questa continua campana a morto: «La poesia è morta», «La poesia è marginale»… La poesia è poca ma non è affatto morta. Non è un genere di largo consumo, certo. Ma quando mai lo è stata? Comunque, mai come ora vi è necessità di poesia, in una società massificata e massificante, come mezzo, efficace per salvare il proprio io. Il poeta è sempre stato un contestatore della cultura ufficiale, quella imposta dal Potere. E la poesia non sempre agisce sull’istante, ma, piuttosto, nel tempo: destinata com’è a durare molto più del romanzo di successo. Quanto tempo ha impiegato Leopardi per avere centomila, duecentomila lettori? Il poeta non è un professionista, costretto a sfornare un libro l’anno

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per mantenersi. Quella del poeta, grazie a Dio, non è una professione. Il poeta deve, innanzi tutto, lavorare: l’impiegato, il giornalista letterario, il traduttore, l’insegnante. E non me ne trovo pentito. Caproni si prepara ancora a fumare e conclude:

Bisogna andarci piano anche con il supposto muro delle duemila copie. Se il poeta non scrive soltanto per gli specialisti, e ce la fa a passare alla ribalta, come suggerisce il gergo teatrale, questo muro riesce sempre a sfondarlo.

Il franco cacciatore ha esaurito in breve tempo la prime e la seconda edizione. Di Tutte le poesie si stenta a trovare una copia della terza. E non sono, per ciascuna edizione, tirature di duemila copie. Quindi, ripeto, andiamoci piano, andiamoci piano…

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115 PAROLE CHE DISSOLVONO

[Risposte a Domenico Astengo] Nella mattinata Caproni ha parlato a Genova – «Io son fatto di Genova» – davanti ai professori e agli studenti della Facoltà di Lettere. Ora è sul Parasio di Porto Maurizio e di qui si vedono gli ulivi di Boine, la chiesa dei Cappuccini del Peccato. Ma nella disperazione di Boine Caproni non si riconosce, come non si riconosce nel montaliano «male di vivere». Per Caproni «la vita è un viaggio fascinoso, irripetibile». Aspro e dolce, Caproni va incontro alle luci di una televisione locale, alle domande del pubblico e alle nostre con incantevole naturalezza. Qual è la nota caratterizzante la poesia di Giorgio Caproni?

Qualche giorno fa, frugando tra le mie carte, ho trovato dei miei vecchi articoli del 1947 che affrontavano la questione del linguaggio. Ho provato sempre diffidenza verso la parola. Mentre gli ermetici, che dominavano gli anni Trenta, gli anni della mia formazione, avevano il culto della parola, io ho sempre visto nella parola, forse perché un mio lontanissimo antenato bazzicava la scuola dei nominalisti, la vanificazione della cosa nominata. Gli universalia annullano il reale, cioè gli individui, e questo è un ostacolo per il poeta. Io ho studiato violino, composizione musicale, e credo che la forma suprema dell’espressione sia la musica. Come poeta ho cercato di andare oltre la parola, sfruttando la musica provocata dalla parola. Grandezza e miseria del linguaggio. Sono concetti che molto più tardi ha teorizzato Maurice Blanchot: «il linguaggio nomina, ma uccide la cosa nominata». E Caproni recita Le parole: Le parole. Già. Dissolvono l’oggetto. Come la nebbia gli alberi, il fiume: il traghetto. [Le parole, FC] Chiediamo a Caproni di leggere Preghiera.

Qui ho voluto fare un esperimento cavalcantiano. È la storia di mia madre, mia madre non mamma ma ragazza…

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La voce di Caproni, ferma, senza incrinature, attacca con slancio giovanile l’ariosa partitura: Anima mia leggera, va’ a Livorno, ti prego… [Preghiera, SP]

Sempre per ritornare alla musica, con Preghiera ho voluto vedere se utilizzando il sistema diatonico, tonale, si poteva fare della musica moderna senza ricorrere alla dodecafonia. Sono procedimenti sperimentali, che ho applicato anche ai Sonetti dell’anniversario, diventati un blocco unico incorporante terzine e quartine, e alla canzonetta che, al contrario, ho voluto franta, più silenzi che melodie, più pause che suoni. Nel Muro della terra un grande tema è la crisi della ragione. Come sei arrivato a questa problematica?

Io ho avuto un’educazione razionalistica, però ho sempre posto un limite alla ragione. Che cosa ci sia al di là del muro, la ragione non può dircelo. Sono i «luoghi non giurisdizionali»… Ricordo che fin da bambino tormentavo mia madre: «Mamma, mi dici perché sono nato il 12 gennaio del 1912 e non sono nato il 3 aprile del 1345, appena in tempo per morire di peste nera?». Nessuno mi ha mai risposto. È il tema dell’Ultimo borgo. Alla base di questa poesia, come tutti i miei versi, c’è un dato preciso, storico, reale – una pattuglia di partigiani che cerca un tedesco in fuga – ma nella poesia sparisce tutta la guerra partigiana, rimane solo questa pattuglia che cerca che cerca che cerca ma non trova, finché giunge alla «frontiera», all’«altra terra», ai «luoghi non giurisdizionali» dove non può penetrare. Come la scienza non può andare oltre un certo punto, così la nostra epoca, priva di centralità, non sa più spiegare che cosa sia il bene e che cosa sia il male. Questo è il vero dissesto del mondo contemporaneo. Sembra quasi d’obbligo chiedere: quale ruolo è possibile assegnare alla poesia?

In tempi di massificazione e burocratizzazione assoluta, la poesia può rompere la dura crosta e far emergere l’uomo. Anche se la leggono in pochi, la poesia è un mezzo per ritrovare se stessi perché l’«io» scavato dal poeta è l’«io» di tutti, in cui tutti possono riconoscersi. Caproni non ha «nessun gusto per il tono sempre un po’ nasale delle rievocazioni», ma cede alla nostra curiosità che vuole raccogliere qualche frammento di «vita letteraria». Mi hanno commosso le lettere di Pasolini, appena raccolte da Nico Naldini1, specialmente là dove parla con fervore di chi come te gli è stato vicino nei suoi primi difficili anni a Roma. Ricordi un episodio di quella amicizia?

Povero Pasolini, io fui realmente il primo ad accoglierlo in casa. Facevamo lunghissime passeggiate da Ponte Mamolo a Viale Quattro Venti senza dire una pa-

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rola. La sua miseria era spaventosa ed io avevo intuito la grandissima intelligenza di quest’uomo timidissimo. Gli presentai Attilio Bertolucci che gli fece conoscere Penna e Moravia e di lì prese il via. A me fino all’ultimo ha voluto un bene dell’anima. Quando abitavo in Viale Quattro Venti non voleva mai che imbucassi le lettere nella cassetta rionale: «No, tu devi imbucare in centro», mi diceva, «tu hai la mania della marginalità». C’era già in lui l’idea di diventare un protagonista. Una volta eravamo in Piazza di Spagna, stanchissimi perché si arrivava da Ponte Mamolo e una Mercedes, passandogli accanto, lo urtò: «Giorgio» mi disse, «ti giuro che diverrò un potente». Dopo anni anni anni lo rividi per l’ultima volta quando mi mandò a prendere in Val Trebbia con una macchina senza spiegarmi il motivo. A Roma, dove arrivai furibondo, Pasolini mi fece doppiare il personaggio del vescovo nel suo ultimo film, Salò. Schivo e appartato, Caproni ha sempre parlato poco della propria vita. Dal 1945 al 1973 hai fatto il maestro…

Ero maestro sui generis perché non avendo frequentato le scuole magistrali inventavo continuamente le mie lezioni. Se scoppiava un fulmine mentre spiegavo Garibaldi, ne approfittavo per fare una lezione sui fenomeni meteorologici. Coglievo l’attenzione all’istante, sul vivo. I ragazzi mi adoravano. Avevo scelto una classe di orfanelli, quelli che allora erano i figli di nessuno, ai quali facevo anche da padre. I sistemi che usavo non erano quelli ortodossi. Una mattina arrivai tutto pensieroso. «Ma che ha, maestro, si sente male?», mi chiedevano. «No, lasciatemi in pace, ho i nervi. Sono vecchio, non ne posso più. Devo fare una lezione su Napoleone Bonaparte, ma non so nemmeno chi è. Se avessi degli scolari come si deve, e non come voi, a casa troverebbero dei libri, leggerebbero chi è Napoleone e poi mi racconterebbero la storia. Io imparo, faccio una bella lezione, e il direttore non mi licenzia». L’indomani che conferenza su Napoleone… Mi sono divertito tanto. La conversazione con Caproni è stata «fine e popolare», come la sua poesia. Non si è creato nessun diaframma tra l’uomo e il poeta. Intelligenza e calore, il gioco e la verità.

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116 MA ROMA È RAZZISTA?

[Risposte a Renato Minore] Qualche forma di pregiudizio razzistico sicuramente c’è (involontario) nell’atteggiamento di chi rifiuta gli zingari nelle borgate. Certo, capisco che chi vive in borgata si senta umiliato e si chieda perché debba vivere accanto a lui anche lo zingaro, perché non lo mettono da qualche altra parte, magari ai Parioli. Molto spesso, sperò, ci dimentichiamo quanta dignità e civiltà vi sia nello zingaro che incontriamo per strada. Io ho molto rispetto per questa cultura e questa civiltà. E conosco anche la loro lingua, il manouche, che ha qualche infiltrazione in Genet e Céline, autori che ho tradotto. Non credo molto allo stereotipo delinquenziale: gli zingari sono gente indipendente che non si assoggetta a nessuna legge, non accetta la legge della nostra società. Vogliono essere lasciati in pace. Ma è possibile essere lasciati in pace oggi? Per questo sono visti di malocchio da tutti o quasi (tranne che dai posti). Rubano? Non mi risulta. Può anche darsi, ma saranno furtarelli. Quelli che commettiamo ogni giorno sono molto più gravi, e spesso legalizzati. E poi all’origine non erano ladri, ma mercanti di cavalli che giravano con i loro carrozzoni. A proposito di questa vita errabonda: mi ha sempre colpito un’abitudine, quella per cui il vecchio che si ritiene inutile alla vita collettiva della tribù, si ferma, lascia che i carrozzoni partano senza di lui. È un modo molto dignitoso di accettare la legge ineluttabile della natura. Ma mi chiedo spesso, quando vedo le loro roulottes andando a Fiumicino, se non sono cambiati, se si sono «inciviliti» nel senso peggiore. Non so rispondere alla domanda. Intanto in campagna, dove mi reco qualche volta, gira ancora la diceria che rubano i bambini. È incredibile che si pensino ancora certe cose!

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117 VITA DA POETA

[Risposte a Giorgio Weiss] Io mi ero iscritto a un liceo musicale perché a Genova non c’era ancora un conservatorio; studiavo composizione e poi naturalmente questo comportava lo studio del violino e del pianoforte, almeno. Poi questo sogno paganiniano, chiamiamolo, è crollato. Prima ho suonato un po’ in orchestre, ho suonato in orchestrine da ballo, poi ho abbandonato la musica, però mi è rimasta enorme la nostalgia. Come è arrivato alla poesia?

Studiando appunto la musica. Per comporre dei corali a quattro voci, dove ero arrivato io, al massimo, per lo più il mio maestro voleva che musicassi delle parole: prendevo dei poeti antichi, il Poliziano, il Rinuccini, il Tasso lirico. Poi alla fine mi stancai di fare queste ricerche e cominciai a scriverli da solo, vidi che il maestro non si accorgeva, non mi chiedeva di chi fossero, ed ecco come presi il vizio di scrivere la poesia. Poi la musica è caduta, è rimasto il paroliere.

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118 ALL’ORIGINE DELLA POESIA DI CAPRONI

[Risposte a Luca Azzetta] In che termini è possibile parlare di un rapporto tra Il franco cacciatore di Weber e la Sua opera omonima?

Der Freischütz di Carl Maria von Weber l’ho sempre amato moltissimo e, come si suol dire, l’ho nell’orecchio da quando studiavo musica. (Conservo ancora la partitura dell’Ouverture, che ogni tanto mi piace rileggere mentalmente). Ma, a parte questo, dirò che il rapporto tra il capolavoro weberiano e il mio Franco cacciatore va inteso in termini molto cauti. Vi sono, sì, personaggi e situazioni (oltre il tema della caccia, ovvio) in comune, ma lo spirito e la trama, se di trama si può parlare, non accusano, certo, dipendenza o imitazione. Tantomeno (sarei un bel presuntuoso!) emulazione! Comunque, più che il libretto di Kind è la musica di Weber che mi ha spinto ad appropriarmi del titolo. A parte poi il romanticismo hoffmanniano. È d’accordo che Il franco cacciatore debba essere definito non una raccolta, ma un libro di poesie unificato dal tema dell’assenza, dalla continua presenza dei «luoghi non giurisdizionali»?

Sì, sono d’accordo. Ma il «libro» non è nato programmaticamente. Potrei dire che si è formato da sé. Se avessi messo i testi nell’ordine cronologico di composizione (veda le date), il libro avrebbe perso la sua naturale consecutio. Un libro che direi fondato (anche questo inconsciamente) sul cosiddetto «sistema della variazione continua», il cui polivalente tema di fondo potrebbe contenere anche quelli da lei indicati. Che significato e che importanza hanno i due Inserti nella economia del Franco cacciatore e nella spiegazione del Suo pensiero emergente da tutta l’opera?

Lo stesso «significato» e la stessa «importanza» degli altri testi, pur essendo scritti in prosa. (Non dimentichi che Der Freischütz è in forma di Singspiel). Pensa che si possa parlare di «religiosità negativa» a proposito delle Sue due ultime pubblicazioni, Il franco cacciatore e Il Conte di Kevenhüller?

Più che di «religiosità negativa», si è parlato di «teologia negativa» (Calvino, di «ontologia negativa»). Sono stati i critici a tirare in ballo queste definizioni.

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Fondamentale, al proposito, anche se si ferma al Muro della terra, il saggio di Giorgio Bàrberi Squarotti (Poesia e teologia: l’ultimo Caproni), folto volume che a cura del Comune di Genova, nelle Edizioni di San Marco dei Giustiniani, raccoglie i testi del Convegno tenuto a Palazzo Tursi in occasione dei miei settant’anni. Che significato ha, specialmente nelle sue ultime opere, la collocazione asimmetrica delle parole e il tentativo solo formale di rispettare le leggi metriche tradizionali, ben sapendo che nella Sua poesia il significante non predonima mai a scapito del significato?

Ho sempre pensato che la parola, da sola, in poesia non sia sufficiente all’espressione piena. Anzi, l’«ònoma», da solo, vanifica la cosa. La disposizione asimetrica dei vocaboli, i versi tronchi, la martellante punteggiatura, gli spazi bianchi ecc., hanno, per me, la stessa funzione espressiva che hanno in musica le pause, il sincopato, i lunghi silenzi, le dissonanze ecc. (Già più d’una volta ho ripetuto che la mia costante ambizione è stata sempre quella, forse sull’esempio di Stravinskij, di far musica moderna senza rinnegare del tutto il sistema o linguaggio tonale, e puntando piuttosto su nuove combinazioni timbriche e ritmiche). Quale importanza ed influenza ha avuto la poesia di Montale e Ungaretti nelle Sue opere e nel Suo pensiero?

Nel mio pensiero, posso tranquillamente dire nessuna. Nella scrittura, forse dall’Ungaretti degli Inni ho travato la conferma del valore espressivo dei «bianchi» (già adottati da tanti altri poeti anteriori a Ungaretti), intesi anche come casse di risonanza per il lettore, che in essi ha modo di porre (o «ascoltare») le sue impressioni o emozioni o (perché no?) idee. Come spiega nelle Sue poesie la frequente presenza di citazioni dantesche?

Oltre che «sommo poeta», Dante è un grandissimo compositore. Mi affascina la sua musica: la sua orchestrazione. A parte il fatto che sento Dante attualissimo come «viaggiatore» e, soprattutto, per la sua ininterrotta caccia al Male in tutte le sue forme (la Bestia nel mio Conte di Kevenhüller). «Ne la Comedia tutto si ritroua», fu già detto. E per me è sempre stato una miniera, compreso il linguaggio e il valore ch’egli dà al linguaggio. Che cosa pensa di poter condividere della poesia oggi prodotta in Italia?

Confesso di non saper rispondere. Poco, penso. Molto poco, nonostante l’ammirazione per i miei coetanei e il mio interesse grandissimo per alcuni giovani, fra i quali pongo Giovanni Raboni e Valerio Magrelli. (Ma ce ne sono tanti altri, fino alle ultimissime leve).

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119 INTERVENTO SUL RAPPORTO CON IL DENARO

[Risposte a Doriano Fasoli] Che rapporto hanno gli scrittori col denaro? È possibile scrivere per la pentola, come diceva Francis Scott Fitzgerald, e scrivere bene?

Quella dello scrittore non è una professione da cui si possono ricavare lauti guadagni e chi mira ad essi è meglio che imbocchi altre direzioni. Ho fatto il maestro elementare e la cosa mi ha dato una certa serenità dal punto di vista economico. Non ho mai desiderato grandi ricchezze, né ho mai preteso di andare in Mozambico, in Australia o chissà dove. Posso ancora ricordare che è esistita una Cassa Nazionale Scrittori (di cui fu presidente Corrado Alvaro, poi Libero Biagiaretti) a cui si poteva chiedere prestiti (io stesso l’ho fatto) e che infine fu soppressa come ente inutile. Puntare al denaro significa obbligarsi a sfornare un libro all’anno, condizione che comporta senza dubbio la degenerazione della scrittura.

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120 OLTRE LA PAROLA

[Risposte a Claudio Angelini] Lei Caproni è autore di questa bella frase: «l’importante è risparmiare al massimo il rumore delle parole». Ecco, si può capire da questo che la sua poesia è fatta di parole chiare, di parole facilmente riconoscibili, non di vocaboli complicati, difficili da capire. D’altra parte apro, così a caso, questo suo libro, Il conte di Kevenhüller, e leggo: «L’ho seguito. / L’ho visto. / Non era lui. / Ero io. / L’ho lasciato andare. / Incerto, / ha preso il viottolo erboso. […]» [Rinunzia, CK]. Quindi una poesia che è comprensibile, non dico in tutte le sue sfumature, ma almeno nelle sue parole, a qualunque lettore. Lei come giudica, invece, quei poeti che si servono di vocaboli così sofisticati e incomprensibili?

Ma io… oggi si dice odio per dire non mi piace, o amo per dir mi piace… Non mi piace questa logorrea, quando si scrivono versi lunghi così… Mi piace essere incisivo al massimo. Anzi, in Francia hanno scritto che sono «percutant», e non ho capito bene cosa intendano dire. Cioè, ridurre la parola proprio, possibilmente tutta nominale, no? Il minor numero di verbi e aggettivi. E l’ideale sarebbe proprio arrivare a scrivere con una parola sola… o oltre la parola. Perché io alla parola do un valore, in un certo senso negativo, no? La parola limita; la parola per lo meno, e in questo son d’accordo con Pessoa, è una mistificazione, una simulazione della realtà, se la realtà esiste, in quanto la parola è un oggetto a sé, e voler conoscere, come tanti pretendono, un oggetto attraverso la parola, è come voler conoscere un oggetto attraverso un altro oggetto. Quindi in questi scritti del ’46 cominciavo, così, facetamente, a dire: Dio ha creato l’universo, l’uomo l’ha nominato, vi sono due universi paralleli ma che non collimeranno mai.

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121 IL PERCORSO POETICO-MUSICALE

[Risposte a Silvio Riolfo Marengo] 1792: l’anno di mezzo tra la prima esecuzione, a Vienna, del Flauto Magico di Mozart e, in Francia, l’inizio del terrore. Il 14 luglio viene affisso per le strade di Milano un avviso a firma del governatore austriaco, il Conte di Kevenhüller. «In questo momento – recita il manifesto – giunge alla notizia della Conferenza Governativa, che la Campagna di questo Ducato trovasi infestata da una feroce Bestia di colore cenericcio moscato quasi nero, della grandezza di un grosso Cane e dalla quale furono già sbranati due Fanciulli. Premurosa la medesima Conferenza… ha disposto che debba essere subito combinata una generale Caccia con tutti gli Uomini d’Arme della Comunità… e a tempo stesso rende noto che verrà pagato il premio di cinquanta Zecchini effettivi a chiunque avrà uccisa la predetta feroce Bestia». Anni fa, una copia di questo avviso capita in mano a Giorgio Caproni, uno dei più grandi poeti viventi, che della violenza, della guerra, della follia omicida e suicida dell’uomo aveva già fatto il tema centrale di molte poesie, soprattutto quelle contenute nel suo ultimo libro Il franco cacciatore, apparso nel 1982. L’invito di Kevenhüller aggiunge ulteriori spunti alla sua ispirazione. Nascono, l’una dopo l’altra, poesie brevi, nette, taglienti, tutte pervase dall’orribile tensione che spinge l’uomo ad uccidere. Caproni le raccoglie infine in un volume che si intitola, appunto, Il conte di Kevenhüller ed è uscito da pochi mesi in libreria nelle edizioni Garzanti. Insieme all’indifferenza, alla solitudine, alla massificazione per la spinta ad uccidere, una spinta spesso gratuita, è, per Caproni, uno dei simboli caratterizzanti della nostra epoca sconvolta dal terrorismo, dalla guerriglia, dai continui regolamenti di conti. Il bando di Kevenhüller conserva, per lui, un’attualità evidentissima. Non sembra, infatti, esistere alcun scarto temporale tra l’epoca del Conte e la nostra. La Bestia non aveva nome allora e non ha nome oggi. Ma l’esortazione a sparare è sempre accolta con incredibile prontezza. Pronto effetto si intitola una delle prime poesie del volume. L’AVVISO del Conte fu accolto quasi con frenesia. Il sangue dà sempre allegria. L’assassinio è esultanza. Uccidere, un passo di danza che sfiora la liturgia. [Pronto effetto, CK] La Bestia e la caccia feroce che le viene data sono i veri protagonisti del volume, ma che cosa sia questa Bestia Caproni non lo dice mai. Può essere il nemico, il diavolo, persino Dio. Certo, a un primissimo piano di lettura, è il male, soprattutto il male procurato dall’uomo stesso. Potremmo

382 GIORGIO CAPRONI dire che «la Bestia siamo noi», se alla fine, sulla scorta di teorie vagamente heideggeriane, Caproni non lasciasse trasparire che la Bestia potrebbe essere – e forse davvero è – il linguaggio, la parola stessa: il nome che maschera e vanifica, quindi uccide, le cose. Ma la parola – dico a Caproni – non è stata anche sinonimo di verità, di salvezza, di fiducia in un mondo migliore.

Ah, già, la religione! Io sono stato definito un appartenente alla teologia negativa, quella della morte di Dio: morte nella coscienza dell’uomo, intendiamoci. C’è addirittura chi mi definisce ateo. Cosa falsa. Io prima di tutto, non sopporto nessuna definizione. Le definizioni limitano. Non sono ateo, non sono credente, sono io. Poi «ateo» mi dà fastidio. È una parola ottocentesca che mi fa venire in mente certi livornesi col sigaro in bocca, la bandiera nera, i nemici di Dio. Tutte cose pittoresche che mi danno fastidio. Io pongo solo un limite alla ragione. Dico che la ragione umana compie miracoli, ma è destinata ad imbattersi o in un muro o a trovare un «ultimo borgo» oltre il quale la ragione non ha accesso. L’uomo di fede fa presto: scavalca il muro, supera l’ultimo borgo, e beato lui. Ma il povero razionalista rimane interdetto: non dice però, non c’è Dio, non c’è nulla. Anzi c’è un personaggio mio, l’«antimetafisicante» che dice: «Un’idea mi frulla, / scema come una rosa. / Dopo di noi non c’è il nulla. / Nemmeno il nulla, / che già sarebbe qualcosa» [Pensatina dell’antimetafisicamente, CK]. E un altro personaggio, di rimando: «E allora, sai che ti dico io? / Che proprio dove non c’è nulla / nemmeno il dove – c’è Dio» [Pronta replica o ripetizione (e conferma), CK]. Come mi si può definire ateo, in questo senso? In un’altra poesia, Lamento (o boria) del preticello deriso, Caproni fa parlare un povero prete che ha preso i voti proprio perché non crede in Dio: «Prego (e in ciò consiste / – unica! – la mia conquista) / non, come accomoda dire / al mondo, perché Dio esiste: / ma, come uso soffrire / io, perché Dio esista». Caproni ha perfettamente ragione nel non dichiararsi ateo: un ateo non prega Dio perché esista, ma perché non esista. Certo, il suo non è il Dio delle religioni istituzionalizzate, il Dio di comodo che tiene i registri dei buoni e dei cattivi, che castiga e assolve, diciamo pure il Dio di Dante e quello di Manzoni. Se mai, la sua idea di Dio si avvicina a quella sottointesa dal premio Nobel Monod, quando affermava che «l’uomo è nato per caso, ai margini di un universo insensibile ai suoi crimini e alle sue musiche»1.

Io non sono mica un teologo; mi pongo però il problema dell’esistenza del male: i nazisti, per esempio, che portavano il nome di Dio inciso nella cintura. «Gott mit uns», ad Auschwitz… Dio è il mistero di tutti i misteri, non si sa nulla di lui. È inafferrabile, ci vivifica e ci uccide. Eppure ricerco la sua presenza da anni. Certo, molti critici hanno indicato la città, il viaggio, mia madre come temi della mia poesia, ma il vero tema centrale è la ricerca, di che cosa non lo so nemmeno io. È l’uomo che cerca, cerca per sua natura e poi arriva sempre a un limite, purtroppo.

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Seguiamolo, allora, questo percorso attraverso la sua poesia. Caproni, lo abbiamo già detto, è livornese. Nasce nella città toscana nel 1912 ma a dieci anni si trasferisce a Genova, coi genitori, e nel capoluogo ligure che considera la sua città «vera», rimane, con brevi intervalli, fino alla fine della seconda guerra mondiale, quando si trasferisce a Roma, dove vive tutt’ora. I dati biografici sono scarni, segnati – come per tanti della sua generazione – dall’esperienza cruciale della guerra (nato durante la guerra di Libia, cresciuto con la guerra del ’15-’18 in miseria nera perché suo padre era al fronte, ha fatto la seconda guerra mondiale ed è stato partigiano nell’Alta Val Trebbia) e tutti racchiusi tra l’insegnamento e una intensa attività letteraria: poeta, ma anche eccellente traduttore dal francese, efficacissimo scrittore in prosa e critico militante. Appassionato da sempre di musica, Caproni ha frequentato in gioventù l’Istituto G. Verdi di Genova e, fino a pochi anni fa, suonava il violino con la maestria di un professionista. Abbiamo già ricordato come un suo libro di versi ha lo stesso titolo della più famosa opera di Weber, Il franco cacciatore, ma tutta la poesia di Caproni tende verso la musica, anzi «è musica», ha scritto un noto critico letterario.

In fondo, io sono un musicista mancato: per me la poesia non è altro che un modesto surrogato della musica. Opere come L’arte della fuga di Bach o certi quartetti di Beethoven sono pensiero puro, e dico veramente pensiero, non sentimento. Il mio ideale sarebbe scrivere poesie di una sola parola. Il rumore delle parole, della loro sovrabbondanza mi ha stancato presto. Ho provato con l’orchestra sinfonica, ma poi ho preferito la musica da camera. E anche in questo caso col massimo possibile di dissonanze: ho cercato, insomma, di fare musica moderna usando il sistema tonale. Un po’ quello che ha fatto, da genio, Stravinskij. A far surrogati della musica Caproni cominciò giovanissimo, innamoratosi di alcuni poeti sudamericani che Prampolini aveva tenuto a battesimo sulla propria «Fiera Letteraria». Leggendo i loro versi prese a scrivere poesie vagamente surrealiste: «assurde e difficili», afferma oggi. Ma un giorno si accorse di quanto fosse inutile questo modo di procedere e disse basta: con un atto di volontà vero e proprio si impose di reimmergersi nella tradizione, dopo tante invenzioni lambiccate e incomprensibili. Ricominciò così a risillabare la poesia partendo dal poeta che riteneva più antipatico, il Carducci. Naturalmente si ritagliò il Carducci più congeniale, il Carducci impressionista (ma Caproni, da buon livornese, lo chiama «macchiaiolo»), quello dell’ Estate di San Martino, per intenderci. Nacquero da questa sorta di programmazione ad Parnassum le poesie che Caproni pubblicò nel suo primo libro, uscito a Genova nel 1936 quando egli aveva appena ventiquattro anni. Caproni non le rinnega perché, pur essendo tutte freschezza di senso, contengono già dentro di sé il tormento del tempo che fugge, della labilità, della contraddittorietà della vita. Non va dimenticato che fin dal titolo, Come un’allegoria, questo primo libro di Caproni prefigura l’imprendibilità del reale e che il titolo di un volume successivo, Finzioni, uscito nel 1941 anticipa Borges di alcuni decenni. Con i versi successivi, raccolti nelle Stanze della funicolare (1952) e nel Passaggio di Enea (1956) giungiamo alle poesie «genovesi», che acquistano la struttura del poemetto. I personaggi e le storie che vi si intrecciano tendono sempre più al viaggio, a qualcosa di alto e verticale che la stessa tipografia di Genova sembra suggerire. È la Genova delle funicolari, degli ascensori, dei veicoli che si inerpicano verso il Righi: «la mia città degli amori in salita, / Genova mia di mare tutta scale». Nei caruggi passano le ragazze fresche, vive che lasciano intorno una scia della loro fragranza:

384 GIORGIO CAPRONI ma al culmine del monte che domina la città il poeta trova solo l’ombra della madre: «Staremo alla ringhiera / di ferro – saremo soli e fidanzati». È il preludio del libro successivo Il seme del piangere (1959) dedicato, appunto, alla memoria della madre Anna Picchi, abilissima ricamatrice. Una parentesi in cui Caproni si abbandona – ed è la prima ed unica volta – al sentimento, anche se il linguaggio, al solito, è sorvegliatissimo. Ma è proprio con questo componimento ad portam Inferi che iniziano, se così si può dire, le implicazioni filosofiche, rafforzate poi nel Congedo del viaggiatore cerimonioso (1965), dove compare la poesia già citata del prete che prega perché Dio esista. Nasce, e poi diventa sempre più acuto, il tormento della ricerca di Dio, di una giustificazione al male, «al freddo della storia» che, insieme a quello della violenza, diventerà il tema principale di tutte le opere successive. Certo, la poesia di Caproni non è una poesia consolatoria: bellissima, sì; talvolta imbevuta di una musicalità sorda, spigolosa, fatta di cristalli taglienti, ricavati – si potrebbe dire – dal blocco magnetico di un linguaggio ancora inesistente. Ma abbiamo già indicato quali anni di piombo Caproni si sia portato dietro e abbia depositato nei suoi versi. Lo sfacelo della storia che abbiamo vissuto non ammette riscatti di illusione, né la poesia è un rifugio, o un’isola felice: anzi, è lo strumento forse più acuminato per esprimere un vuoto che non può essere colmato da istituzioni fatiscenti o artificiose. Ma cosa resta, allora? E quale senso ha la vita, e la poesia stessa? Caproni mi risponde con le parole di un grande lirico spagnolo, Antonio Machado, il quale affidava al poeta il compito di scavare nelle segrete galerías del alma:

Io considero il poeta come un minatore, il quale si cala dentro il proprio «io» fino a toccare la zona che è l’«io» di tutti. Tanto è vero che chi legge un poeta dice: «Ah, quelle cose le ho pensate anch’io solamente che in me dormivano e il poeta le ha risvegliate, come il principe che risveglia la Bella addormentata nel bosco». La vita, poi, è azione, è stare sempre sul filo. «Non sono, con me stesso / ancora solo» [Parole (dopo l’esodo) dell’ultimo della Moglia, MT], ho detto in una poesia che amo molto. E poi, ho scritto molte poesie d’amore. In poesie, del resto, dove persino dietro la negazione più radicale, si vede apparire, in positivo, il mondo: cioè la vita. Certo, sia nella storia che nella mia esperienza, non ho mai visto una cultura così asimmetrica, piatta, vuota come quella d’oggi. Molti valori bugiardi sono caduti, hanno fatto giustamente la loro epoca. Ma con che cosa li abbiamo sostituiti? Oggi, come posso andare in una scuola per insegnare i valori? I valori sono in borsa… quali valori insegno, oggi, a un bambino? La patria? Onestamente, farei ridere e sembrerei un fossile. La famiglia? Quale famiglia? Sì, così genericamente, di altruismo si fa presto a dire. I tempi son troppo cambiati… Quand’ero giovane le migliori società comunitarie venivano in forma spontanea. Eravamo quattro amici, ci incontravamo per strada e bastava dirci «andiamo all’osteria». Ci mettevamo lì, intorno a un tavolo e a un bicchiere, e nasceva una comunione vera, veniva spontaneo affratellarsi assieme. Forse per questo le osterie e il vino hanno tanta importanza nella tua poesia?

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Sì, è vero le mie raccolte sono piene di osterie, di bicchieri. Le osterie erano per me un luogo di ritrovo, boa di ancoraggio e anche luogo di verità, dove potevamo osservare la semplicità, la schiettezza, la verità degli uomini. Ma tu hai scritto anche, mi pare, un lungo saggio sul vino!

Certo, quando un grande editore pubblicò un’opera sui vini d’Italia, alla cui stesura avevano partecipato dei tecnici, ovviamente, ma dove c’erano anche scrittori. A me venne assegnata la Liguria, e io esplorando tutta la regione, riscopersi la bellezza di venti vini, tra cui il «vino di latte» (il cui nome mi suggestionava, perché tutti pensavano che fosse fatto proprio col latte) e tutti gli altri, dai più prestigiosi al «nostralino»: il Coronata bellissimo, con quelle bottiglie gotiche, che ora non si trovano più: era il re di tutti i vini liguri. E poi, frequentatore di osterie, ho sempre visto il vino come simbolo di amicizia: non dimentichiamo che Cristo ha rappresentato il suo sangue nel vino e non nella birra. E qualche episodio personale, come bevitore di vino, ce l’hai da raccontarmi?

E come no! Quando ho preso una sbronza – una volta sola nella vita – ma una sbronza tremenda con Frénaud. Frénaud era un bevitore accanito: una volta venne a Roma, a casa mia, in via Pio Foà, e io avevo preparato in suo onore tutti vini francesi. Per me avevo riservato del Montepulciano. Lo assaggiò, bevve e ne fece bere molto anche a me. Prese una sbornia tale e la fece prendere anche a me; finì che cominciò a tagliare i fili della luce, ne combinò di tutti i colori: insomma, una cosa bellissima. L’altra volta venne a Frascati, per partecipare al premio omonimo, che consisteva in 1000 litri di vino. Io ero in giuria, e Frénaud vinse questo premio. Venne naturalmente a ritirarlo e perse la testa visitando le cantine che a Frascati si trovano sottoterra. Poi volle andare a Monte Porzio e, sbronzo com’era lo sorprese un temporale nel bosco. Frénaud girava di corsa tra le piante e vedeva gli dei: «Ah! Les dieux!». Su queste cose scrisse poi un poema, sugli dei che vedeva a Frascati. Lui è veramente un pagano, un ateo davvero. Il vino, dunque, è stato in questo caso un datore di vita, di verità. Anche a me ha dato ispirazione, te l’ho già detto. Ho scritto tanto sulle osterie, sul vino, sui bicchieri. Se vuoi puoi pubblicarne qualcuna, insieme al tuo articolo. Una, «delizia (e saggezza) del bevitore», è l’elogio del vino rosso, trasparente come una fiamma. Il bevitore accarezza la bottiglia, beve il vino profumato come fosse una rosa, ma avverte anche il senso ultimo della vita, il destino che lo conduce a una strada che va verso l’ombra. Però «è in allegria»: grazie al vino, al conforto che gli offre, una delle poche consolazioni che anche Caproni assegna all’esistenza.

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122 COME SU UN PENTAGRAMMA

[Risposte a Michele Gulinucci] La parola poeta mi infastidisce, è inflazionata. Io sono uno scrittore in versi e basta. Il volume Tutte le poesie (Garzanti 1983) avrebbe dovuto intitolarsi così: tutti i versi. Anche nel senso di versacci, quelli che fanno i bambini. Si può risalire, da quel mezzo sorriso che ora gli stiracchia la faccia magra, al bambino targato Livorno 1912, figlio di una sarta e di un ragioniere? Madre e padre sono diventati personaggi dei suoi libri, e prima, tra i Caproni di Barga, c’era stato lo zi’ Meo, consulente «linguistico» di Giovanni Pascoli. La poesia come destino?

Macché, i primi versi l’avrò scritti a quindici anni, ed erano d’avanguardia, perché leggevo i surrealisti ispano-americani sull’«Italia letteraria». Poi avevo nell’orecchio i futuristi, insomma un pasticcio. Finché un giorno ricominciai da capo, dal Carducci macchiaiolo. Intanto leggevo i due Machado, Salinas, Rubén Darío, Azorín. A diciannove anni mandai le prime prove serie a Adriano Grande, allora direttore di «Circoli», il quale mi rispose testualmente: la poesia è fatta per tre quarti di pazienza… Ma stavo già a Genova. Livorno era una città civile e popolare, un misto di ciano, cioè plebeo, volgare, e di raffinato. Un carattere misto che ne faceva la città meno toscana che c’era in Toscana. Mio padre mi portava al Teatro Avvalorati – lui teneva i conti, lì – e a una prova di Cavalleria rusticana vidi Mascagni che dirigeva. Fece una scenata a un tenore: Lei non è un tenore, è una capra! Da allora l’odiai… Comunque Attilio, mio padre, va e viene nei versi, è presente in un modo poco appariscente, sta in profondità. Invece Annina, la madre-fidanzata dei «Versi livornesi» (Il seme del piangere, 1959), riveste in pieno la solarità del ricordo, la leggerezza del canto, del pianto. Del desiderio, ha azzardato qualcuno.

Avevo l’ambizione di fare la «storia» di Annina prima che diventasse mia madre, un’ambizione ragionevole perché la poesia è l’unica forma possibile di storia. In più volevo tentare un esperimento: costruire col linguaggio diatonico, come si dice in termini musicali, una musica moderna. Allora ho preso a modello «Perch’i’ no spero di tornar giammai», la ballatetta dell’esilio di Guido Cavalcanti, cioè un canto d’amore, e Annina è diventata la mia donna… Ne è uscito il miglior poemetto neorealistico, secondo alcuni. Io al neorealismo non ci ho mai creduto, né l’ho amato. Quanto alle interpretazioni freudiane: all’ombra di Freud si può dire tutto e il suo contrario. La grande scoperta di Freud è il subconscio,

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che ha preso il posto della musa, dell’ispirazione… per il resto può avere valore anche un aforisma che ho scritto tempo fa: «Ogni congiungimento erotico / per interposto corpo / è un incesto», ma è uno scherzo. Ricominciamo. Nello studio di Caproni i simulacri di stagioni passate punteggiano gli scaffali imponenti della libreria. C’è un violino appoggiato in modo da mostrare il fondo, e c’è il modellino di un treno, completo di rotaia, coi pantografi alzati. Intorno, i libri di una vita.

Mio padre aveva un’antologia dei poeti delle origini, e io, bambino, leggevo quelle canzonette dure, scritte in una lingua inesistente… «Oi lassa, ’namorata… Come l’amor m’ha prisa!». Quel ritmo m’affascinava, è diventato una necessità, la necessità di una struttura dolce e forte a un tempo, molto diversa dalla cosiddetta lingua di comunicazione. La rima è importante, sono importanti tutti questi elementi che avvicinano i versi a un testo musicale e che ne rendono possibile l’esecuzione. Deve esserci quello che in uno spartito si può indicare esplicitamente: il tempo, il movimento… se è Allegro, Adagio e così via. A quel punto la lettura è un’interpretazione, e a maggior ragione la dizione… Gli attori tendono a enfatizzare le parole e ignorare le indicazioni, mentre l’autore è più vicino, fatalmente, alla struttura del testo. Se lo legge, dice anche quello che nei versi non c’è scritto. La poesia di Caproni non è musicale, è musica, hanno detto a proposito delle ultime raccolte, la cui pronuncia rigorosa affonda negli esercizi di armonia del giovane oriundo livornese: semplici corali a quattro voci su testi poetici del Poliziano, del Tasso, del Rinuccini. Vista la distrazione del maestro, prese a inventarle di sana pianta, le parole.

Poi il musicista è caduto, ed è rimasto il paroliere. Nel ’32 vennero fuori le prime due poesie «ufficiali»: Marzo e Prima luce, che è un titolo latino e significa semplicemente «alba». Ma la versione originaria era più descrittiva, più distesa. Il fatto è che nell’ufficio del notaio Colli, dove ho lavorato, rubai da uno scaffale l’Allegria di naufragi di Ungaretti, capii che cos’era l’economia delle parole e cominciai a tagliare. Andiamo avanti. Da Come un’allegoria (1936) a Ballo a Fontanigorda (1938) a Finzioni (1941) a Cronistoria (1943), il primo tempo di Caproni si svolge nella ricerca di una grazia risillabata sul Carducci alla scoperta di un percorso moderno e «provinciale», libero e antinovecentista, che si dà i propri strumenti e procede con un esiguo, tuttora controverso bagaglio di modelli (Gatto, Saba…), e ancor meno contatti o cammini paralleli. A proposito della sua «marginalità», Pier Vincenzo Mengaldo ha affermato in una intervista trasmessa dalla rubrica di Radio Tre «Antologia» che proprio questa gli ha permesso di essere assolutamente moderno, con mezzi formali ma anche culturali diversi da quelli dei celebrati maestri del Novecento, i moderni per eccellenza. «Tanto che – aggiungeva Mengaldo – mentre i pochi buoni poeti di formazione strettamente ermetica hanno dovuto mutare radicalmente le loro premesse, Caproni non ha dovuto mutar nulla, solo scavarsi, ispessirsi, e nello stesso tempo assottigliarsi». Ecco perché pochi, ma grandi, si accorsero di lui per primi, e solo negli anni Cinquanta: Giuseppe De Robertis, Pier Paolo

388 GIORGIO CAPRONI Pasolini, Vittorio Sereni. Caproni impiega i suoi anni aurorali a inseguire la breve corsa delle cose reali nel loro apparire e sparire a un tempo: in quella che molto più tardi chiamerà la loro asparizione. Caproni adesso s’è tagliato mezza sigaretta e la fuma coscienzioso.

È fin d’allora che son convinto della irraggiungibilità del reale, per uno che scrive. Al massimo possiamo contare su un’allegoria della realtà, come dice il titolo della prima raccolta. Chissà, forse discendo dal nominalista Roscellino, il maestro di Abelardo che pensava la realtà come puro flatus vocis. Nel ’46 inventai l’ombrello dicendo che le parole dissolvono l’oggetto, però fu solo nel ’53 che Blanchot lanciò il suo motto «il nome vanifica la cosa». E Finzioni è del ’41, in anticipo su Borges… Insomma avevo quest’ossessione di dover afferrare il reale… sempre che ci sia, il reale. O la verità. Oggi sono dell’avviso che è proprio l’irrealtà l’autentica realtà. Eppure ce n’è di cose, di pietre, bicchieri, locande, prati, mantelli, insomma storia, nei libri di Caproni. Uno scenario minuzioso che talvolta coincide con luoghi fisici, reali davvero, come Livorno o Genova.

Il vento a Genova spesso diventa una musica. Scrissi dei versi dedicati al vento, da ragazzo, e quello è stato l’inizio di un amore materiale, conquistato pezzo per pezzo come un continente nuovo. I miei compagni delle elementari mi chiamavano «il foresto», ma le pietre, quelle pietre, sono diventate i laterizi delle mie metafore: un’affinità elettiva registrata anzitutto nel linguaggio. A Genova ci arrivai nel ’22 e me ne innamorai. Forse l’ho amata più dei genovesi veri – io, il meteco – proprio perché è stato un amore acquisito, come ha detto Giovanni Raboni. Il dialetto non l’ho mai usato, lo conosco ma non so parlarlo, e se nomino luoghi precisi della città li nomino con un carattere speciale: appartengono a un’idea dura della lingua, lo stesso carattere dell’isola dialettale che era Genova fino agli anni Trenta, quando i manifesti scritti in dialetto furono proibiti da Mussolini. Questa mescolanza di realistico e di metafisico è costante, anche se a volte i critici esagerano con le implicazioni. Un verso mio che è diventato quasi un ritornello, «La mia città dagli amori in salita, / Genova mia di mare tutta scale…» (da Sirena in Il passaggio d’Enea, 1956), lungi dall’essere metaforico o «spirituale» è proprio realistico, anzi cronachistico. Ai miei tempi bisognava trovare una crosa deserta per appartarsi con una ragazza. Ma quelle stradicciole erano ripide e perciò, con una certa fatica, si faceva letteralmente «l’amore in salita». Genova e la Val Trebbia sono diventate patria poetica, oltre che biografica, dal momento in cui il ventenne Caproni scoprì su «Circoli» i poeti che avevano animato la stagione di «Riviera ligure», la rivista dei fratelli Novaro nata per pubblicizzare l’olio Sasso. Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Camillo Sbarbaro, Giovanni Boine, lo stesso Mario Novaro. Ma prima, nel ’28, Caproni s’imbatté in Eugenio Montale.

Comprai la seconda edizione degli Ossi di seppia, che lessi con un amico. Non capimmo nulla, perché quel linguaggio così chiaro era totalmente nuovo, di una

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forza che superava la nostra comprensione. Poi lessi Sbarbaro e me ne innamorai, più che di Montale. Di Ceccardo, a farne un’antologia, si scoprirebbe che è all’origine di quella che nel ’56, sulla «Fiera letteraria», chiamai per scherzo la «linea ligustica» della poesia italiana. Caproni e Sbarbaro, due «anime liguri» di leggendaria spigolosità, due poeti che si stimavano, che abitavano a poche decine di chilometri l’uno dall’altro, passarono lunghi anni a scambiarsi lettere prima di incontrarsi. Solo nel dopoguerra l’ex professore di greco – un’altra voce di feconda e potente estraneità al «centralismo» ermetico – incontrò il maestro elementare che usciva allora da una stagione poetica oscurata e resa fertile dal periodo bellico.

In una lettera successiva, che non pubblico perché vi sono nominati, non benevolmente, miei vecchi amici, Sbarbaro dice che ero stato il solo ad averlo capito veramente: tutti gli altri, scrive, non hanno capito un corno, anzi, un belìn. Testuale. In risposta gli mandai una lettera cerimoniosa intestata «All’illustrissimo poeta…», lui replicò con una cartolina illustrata indirizzata all’illustre signor Giorgio Caproni, dove si leggeva: «Pari e patta. Mi venga a trovare». Andai a Spotorno, a casa sua c’era anche Angelo Barile. Sbarbaro ci invitò a colazione e a un certo punto mi parve irritato con me. Barile mi spiegò la sua delusione per non essermi accorto che il ristorante dove eravamo si chiamava «Rina», come mia moglie. Più tardi gli chiesi con cortesia: mi mostra la sua collezione di licheni? No, rispose, quelli li faccio vedere a chi mi rompe le balle. La «corda pazza» che vena il decantato buonsenso ligure incantò il pessimismo razionalista di Caproni con tutte le sfumature, sofisticate o meno, della sua «storia». I poeti «ligustici» di fine secolo attratti da esoterismi d’oriente, Genova che affastella palazzi venerandi e vicoli intestinali, l’audacia condita di follia di Cristoforo Colombo, eroi, violinisti, i trallallero da osteria, persino i nomi delle strade – Vico del Pelo, Porta dei Vacca, Vico Calabraghe… – scoprivano al giovane toscano, che in quelle vie elaborava vita e versi, un cosmo vivido, imprendibile, la mappa materiale della lingua. In più, un simbolo. A piazza Bandiera, durante i bombardamenti, Caproni guarda l’inopinato monumento secentesco a Enea – Anchise in spalla, Ascanio per mano – e vede un’immagine epocale.

Era quello l’uomo vedovo, spogliato del presente, con passato da salvare e un futuro incerto… Altro che Ulisse! Quello gira, gira, ma alla fine torna a casa sua. È Enea l’uomo della mia generazione! Scappa dalla distruzione, non si sa dove… Il passaggio d’Enea diventa il titolo di un libro che raccoglie poesie scritte tra il ’43 e il ’54, «anni di bianca e quasi forsennata disperazione» per Caproni, passati ad alzare «tetti» di parole contro il dissolvimento. Le forme della tradizione – i tetti della scrittura – sono scaraventate tra i bivacchi dei partigiani e nella segreta vitalità degli organismi metallici: il sonetto nei Lamenti (194345), la ballata nelle Biciclette (1946-47) e nelle Stanze della funicolare (1950), vero capolinea di una poetica del dispendio verbale. Nel ’40 Caproni è sul fronte occidentale: a Mentone il suo reggimento viene decimato quasi senza difendersi perché il calibro dei proiettili in dotazione non è lo stesso dei fucili; poi seguirà le

390 GIORGIO CAPRONI Brigate Garibaldi in Val Trebbia. A guerra finita vince una cattedra di maestro elementare a Roma, dove si trasferisce con la moglie e i due figli.

La democrazia attuale è la peggiore delusione per quelli della mia età che avevano sperato in una democrazia vera… Scrive tra l’altro su «Mondo operaio» e sull’«Avanti!», conosce personalmente Pietro Nenni al quale nel ’48 sconsiglia la politica del Fronte popolare. A Roma conosce e frequenta molti scrittori e letterati: alcuni lo stimano, per tutti gli altri Caproni non è certo una voce primaria della sua generazione. È così che paga, e pagherà fino ad anni relativamente recenti, un esordio extraermetico negli anni Trenta e il lavoro forsennato sui metri canonici in tempi di neorealismo. Certo amici personali ne ha, a cominciare da Mario Luzi – che recensì per primo, nel 1935 – il quale lo presentò ai fiorentini delle «Giubbe rosse» e a De Robertis, di cui Caproni prenderà il posto di critico letterario alla «Nazione».

Ma loro puntavano sul valore della parola, e io alla parola non ci credevo più. Poi c’erano differenze di gusto: Mallarmé non l’ho mai amato, anche se ho sfruttato innovazioni sue come i «bianchi». Per gli ermetici questi erano difetti. Un «periferico» anche nella vita di società, e ben contento d’esserlo. Poche le sue uscite dalla cerchia degli intimi romani: Biagiaretti, Bassani, Bertolucci, Pasolini, Betocchi. Del resto la vita professionale impegna assai il maestro Caproni, che aveva cominciato a insegnare nel ’36, guadagnandosi, durante il concorso, i complimenti di Ugo Spirito in veste di presidente della commissione d’esame. Come molti suoi colleghi Caproni dà ripetizioni. Un altro amico, Giacomo Debenedetti, lo chiama a raddrizzare la carriera scolastica del figlio Antonio, il che avviene mentre il grande critico e il poeta si consultano sulla Recherche proustiana, di cui Caproni sta traducendo l’ultimo volume. Capita che il precettore pieghi a fini didascalici la sua prodigiosa ingegneria metrica, inviando al piccolo allievo poesiole come questa: «Cosa mai studi Antonio / ora che aprile trema / ai vetri, e una mosca / – minuta arpa – vibra / delicata sul tema? // Perimetro per apotema / diviso due, dà l’area / dell’esagono: l’area / del prato la dà la mosca / posatasi anche sul problema» [Versi didascalici, RA]. Caproni racconta, ridacchia a denti stretti, ma recupera subito l’espressione scabra da stoico agguerrito e ironico, che non si intenerisce se non per calcolate distrazioni, o stupori risolti in sfide da accettare.

Una volta in classe ho dato un tema di disegno: disegnate Pinocchio. Io per Pinocchio ci andavo matto, da bambino, ma quando mi regalarono la famosa edizione illustrata del Chiostri mi misi a urlare: macché! Non ha capito niente, non è così! Avevo in testa un Pinocchio tutto mio; beh, i miei scolari scimmottarono il Pinocchio di Walt Disney, tutti senza eccezione: la facoltà inventiva atrofizzata». Da una cartella di minute e abbozzi salta fuori un altro frammento d’infanzia, un quadernino a righe con la copertina ocra scuro e l’immagine bianca dell’altare della patria.

«Eccolo! È il mio primo racconto, una storiella diavolesca hoffmanniana. Si chiama Leggenda montanina, l’avrò scritta a dieci anni. Quella di raccontare è stata la mia prima vocazione, la mia vera ambizione…

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Ne ha scritti quarantadue, di racconti, tutti pubblicati su giornali e riviste. Solo tre «storie belliche» sono state raccolte nel volumetto Il labirinto (Rizzoli 1984), che si apre con Giorni aperti (1940), il primo referto letterario dal fronte occidentale, scritto sul campo e perciò depurato, alla sua nascita, di tutti i realismi troppo «sconvenienti». Il labirinto (1944-45) rielabora un episodio di lotta partigiana realmente avvenuto: Caproni fu incaricato dell’esecuzione di una spia, una ragazza, sorella di un suo caro compagno di studi, e se ne avverte, in questa storia d’azione – anch’essa in presa diretta – il tormento del dubbio tra un atto assoluto e il dovere storico di compierlo. Il terzo racconto è Il gelo della mattina (1947), un quadro post-resistenziale di apparente ritorno al privato. Ma l’elegia di un addio patetico – lui che visita lei sul letto di morte – nasconde la disperazione distillata da tutte le altre morti, un concentrato della Grande Cancellazione che finisce per siglare il trittico. La prosa caproniana è emotivamente asciutta, testardamente logica, nervosa con snodi a effetto.

Ho sempre ammirato i latini medioevali, e soprattutto il razionalismo esemplare di Giulio Cesare. Tutti i miei racconti ne hanno risentito, e questo forse ha dato loro una patina non troppo italiana… Comunque la mia ambizione di narratore sta nel comporre i libri di versi, almeno dal Congedo in poi. Io scrivo versi, prendo appunti, senza alcun disegno. Poi, quando mi accorgo che c’è materia bastante per un libro, la successione si svela come se qualcuno la dettasse… Chi? Forse il cervello che ogni poeta possiede: il poeta è «uno e bino», ha una mente creatrice e l’altra critica, ordinatrice. Il nome di questo mistero è subconscio, forse… A ogni modo io concepisco il libro come una sonata, cioè in vari tempi: l’Allegro, l’Adagio, il Grave, il molto Grave, l’Allegretto, e magari lo Scherzo. Negli anni Sessanta la musica e il colore degli esordi, ispessiti dalla ricchezza «orizzontale» di una verbalità nutrita fino all’esplosione (e, nel Seme del piangere, dal valore storiografico della memoria personale), incarnano un esito nuovo, anche più allegorico e nudamente «verticale». Da Congedo di un viaggiatore cerimonioso (1965) a Il muro della terra (1975), la riflessività sui temi estremi della sparizione e dell’immanenza – già avviata negli originari Sonetti dell’anniversario (1938-42) – imbastisce un tendenziale dialogo tra un io sfuggente e un dio enigmatico disperso nei dettagli degli eventi o del pensiero, che suscita aporie e paradossi.

Io sono un razionalista che pone limiti alla ragione, e cerco, cerco. Che cosa non lo so, ma so che il destino di qualsiasi ricerca è imbattersi nel «muro della terra» oltre il quale si stendono i «luoghi non giurisdizionali», dove la ragione non ha più vigore al pari di una legge fuori del territorio in cui vige. Questi confini esistono: sono i confini della scienza; è da lì che comincia la ricerca poetica. Non so se aldilà ci sia qualcosa; sicuramente c’è l’inconoscibile. Così, sul filo di una metodica disperazione che fa balenare e subito abolisce gli articoli del proprio argomentare, si sviluppa il «discorso teologico» dell’ultimo Caproni, condotto con la levità anti-sapienziale (Mengaldo) di chi, se prega, prega «perché Dio esista». La candida astuzia di questa ricerca ha inventato la propria musica, che in Il franco cacciatore (1982) e Il Conte di Kevenhüller (1986) plasma l’ordine stesso delle parole in cui è scritta. La celebre opera di Carl Maria von Weber, per la prima raccolta, e la scansione della seconda in sezioni intitolate

392 GIORGIO CAPRONI «Libretto», «Musica», «Altre cadenze», ecc. non fanno che popolare di personaggi, fondali e luci colorate il proscenio dove si svolge un monologo non rappresentabile.

Da tempo sento un forte desiderio di teatralità. Del resto i segni di una simulazione teatrale ci sono tutti: dall’«io» che parla, che non sono io ma un personaggio, alla forma del libro. Ma al teatro vero non arriverò mai. Nelle mie poesie manca un vero dialogo, perché gli interrogativi che pongo non chiedono una replica. La risposta è lì, nella domanda. È questa l’ultima trincea del verso?

Il mio ideale sarebbe scrivere poesie di una parola sola, andare oltre la parola. Scrivere come su un pentagramma.

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123 QUATTRO DOMANDE AGLI SCRITTORI ITALIANI SULLA TELEVISIONE

[Risposte ad Alberto Moravia] A suo tempo ha avuto molta fortuna la formula di McLuhan: «Il mezzo è il messaggio», a proposito dei mass media. Secondo questa formula, il messaggio della televisione non varierebbe da ogni trasmissione ma sarebbe sempre lo stesso, essendo contenuto non già nelle immagini che corrono sullo schermo, ma nel fatto stesso che queste immagini vengono fornite dall’apparecchio televisivo. Adesso, di fronte allo straripamento della televisione nella vita italiana e in genere nel mondo intero, non pensate che bisognerebbe rivedere la formula di McLuhan? Non pensate piuttosto che il messaggio sta nelle qualità delle trasmissioni e non nell’apparecchio televisivo?

Non ho dubbi al proposito. Anzi, alla formula di McLuhan, a dirla schietta, non ho mai creduto troppo, così come non ho mai creduto troppo, sul piano speculativo, alle «formule» in genere: che appunto per esser «formule» hanno una rigidità impositiva tale da paralizzare la mente. Quindi, più che mai penso con Moravia, e per le stesse ragioni da lui addotte, che il messaggio televisivo stia non già nell’apparecchio in sé ma proprio nella qualità delle trasmissioni: una qualità, ahimè, sempre più scadente quanto più si amplifica il già vastissimo campo di ricezione. La televisione è visiva o audiovisiva? Non pensate che le immagini povere e sommarie sono accompagnate da un flusso di parole altrettanto e più povere e sommarie, cioè di chiacchiere, luoghi comuni e simili? Non vi pare che le immagini della televisione esercitano un’influenza in fondo meno deleteria delle parole dei vari speakers, animatori e altri personaggi simili? Una influenza che da una parte rafforza il conformismo delle masse e dall’altra tende a sostituire la lingua italiana e i dialetti con una specie di pidgin-italian, ossia con una lingua fatta di cento parole?

M’impressiona l’azione sempre più prevaricante della Tv sulla mia vita quotidiana. Dalle immagini (che sono quello che sono: una falsificazione o comunque una deformazione della realtà, specie se a colori, più che la giusta rappresentazione della realtà stessa); dalle immagini, dicevo, riesco a salvarmi stando lontano o separato da un muro. Ma dalle parole? Come salvarsi dal pulviscolo sonoro delle parole che oramai impregna l’aria come lo smog o l’acido carbonico delle auto? Hai un bel tenerti in guardia. L’esasperante bla-bla che a getto continuo inonda le nostre case anche se tieni il tuo apparecchio chiuso, perché le pareti sono trasparenti al rumore degli apparecchi altrui disseminati intorno, non può che instupidire la gente, impedendole di pensare con la propria

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testa: livellando, alla stessa guisa d’un rullo compressore, le opinioni personali e, in definitiva, annullando la personalità (l’individuo singolo) a favore di una massa compatta e uniforme. È che, a mio parere, la Tv non ha ancora trovato (o si ostina a non voler trovare) un suo linguaggio: un linguaggio dove la parola – anche quella della più normale comunicazione o informazione – conservi ed esprima un qualsiasi fondo di cultura: rimanga cultura com’è sempre cultura (lingua o dialetto, non importa) il parlare. La Tv non parla, o molto di rado parla. Il suo pidgin-italian, appunto, mortifica il forzato ascoltatore, tanto più subdolamente in quanto non ammette dialogo o contraddizione. All’imposizione di «una lingua fatta di cento parole», sì, arrivo a preferire l’afasia: il silenzio assoluto. (Che è sempre d’oro). Si dice che la televisione trasforma la vita in spettacolo. Spettacolo il Papa, spettacolo la partita di calcio, spettacolo il crimine di turno. In altri termini tutto sarebbe ridotto a livello di tutto e non ci sarebbero più i cosiddetti valori. Non credete che quest’affermazione pecca di facilità? Non vi pare che un film d’autore non fa spettacolo ma costituisce un’esperienza dalla quale emergono valori estetici? Non vi pare che spettacolo nel senso livellatore c’è soprattutto quando non c’è espressione ma soltanto informazione, la quale a sua volta fa spettacolo cioè non si rivolge a nessuno in particolare ed è per così dire fine a se stessa?

Sono così d’accordo su questo, che per rispondere dovrei fotocopiare l’intera domanda. La televisione diffonde la cultura di massa, almeno così si dice. Se questo è vero, come crediamo che sia vero, le masse possono contare sui seguenti organismi genericamente educativi e culturali: la scuola, la famiglia, la Chiesa, e la televisione. Dei quattro organismi, la televisione è di gran lunga il più importante; più della scuola che nella maggior parte dei casi, specie la scuola media, è un parcheggio; più della Chiesa che ha perduto molta della sua influenza; più della famiglia che è diventata un dormitorio. Si dice che ogni ragazzo guardi la televisione in media cinque ore al giorno. Ora i genitori ci hanno messo molti anni a diventare genitori, il prete ha fatto studi particolari e così pure il professore. Soltanto nella televisione, che è tuttavia, come abbiamo già detto, l’organismo educativo e culturale più importante, chiunque, diciamo chiunque può diventare senza studi né preparazione dirigente culturale, educativo, ricreativo. Non credete che questa relativa impreparazione di coloro che fanno televisione sia all’origine della volgarità e superficialità dei programmi televisivi? E che la spontaneità delle carriere televisive non può essere paragonata, a causa della sua specifica tendenza demagogica, a quella di altre carriere dello spettacolo, cioè del cinema e del teatro? Non credete insomma che nella televisione è la massa che educa, diverte e istruisce la massa, cioè se stessa? Col risultato di abbassare sempre più il livello dei programmi televisivi?

Intanto, anziché di cultura di massa, parlerei piuttosto di istruzione di massa. La massa, come tale, non potrà mai scoprire la legge della relatività, ma al massimo apprenderla e, a diversi livelli, farla sua. Comunque, anche su questo punto, condivido in pieno il parere di Moravia, che ci traccia un quadro così mordace (e convincente) dei nostri «organismi genericamente educativi e culturali:

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la scuola, la famiglia, la Chiesa e la televisione». Che altro potrei aggiungere alle sue per me giustissime considerazioni (e conclusioni)?

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124 INTERVENTI PER IL TRENTENNALE DEL TREBBO POETICO

Comello e Della Monica, all’insegna del Trebbo poetico, hanno inventato il più straordinario anacronismo del secolo. Io non mi stancherò di benedirne l’istituzione.

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125 MA I FIGLI DELLA TV NON LEGGONO VERSI

[Risposte a Luigi Amendola] L’uscita di un importante libro di poesia come La camera da letto di Attilio Bertolucci – che è il punto d’arrivo d’una ricerca condotta sul filo della poesia pura –, pone la ciclica questione della vendita di libri di poesia. Come mai, ci si chiede, libri così significativi non hanno riscontro di lettori adeguato alla loro portata? La difficoltà di mercato è strutturale alla poesia o è un evento legato all’odierna società di comunicazione in cui la parola resta, spesso, catturata tra le immagini? Non sempre, del resto, i best-sellers sono operazioni commerciali condotte a fini di lucro – lo stesso libro di Eco lo conferma –, ma allora qual è il confine che divide la poesia dalla sorella prosa? C’è una possibilità di proposizione divulgativa in cui la poesia recupererà i suoi lettori, oppure tutto questo è vano e utopico? Sicuramente la poesia richiede la conoscenza di codici di lettura che la prosa richiede in misura minore, ma è pur vero che la poesia non cerca il suo referente solo tra i poeti, anzi, come dice lo spagnolo Pedro Salinas «La poesia è affidata a quella forma superiore di interpretazione che è riposta nel fraintendimento. Quando una poesia è scritta, è terminata, certo, ma non finisce; essa cerca un’altra poesia in se stessa, nell’autore, nel lettore, nel silenzio». Il concetto di comprensione ha ceduto al concetto di «ripoetare», un «ripoetare» ad opera del lettore, ma, forse, anche ad opera di quelle anonime forze poetiche di cui neppure l’autore sapeva nulla e che dormono non ancora utilizzate nella sua propria lingua.

La TV uccide i libri, questo è certo. Io non riesco neanche a guardarla la TV perché il colore mi dà fastidio, sembra marzapane; quand’era in bianco e nero, qualcosa vedevo. La poesia, poi, è per l’élite, ci vuole educazione al gusto estetico, non si può improvvisare. Comunque, non è vero che la poesia non si venda. In Francia ho vinto il premio per il libro tradotto più venduto; lo stesso René Char, poco prima di morire, mi chiese come facessi a vendere tanto, dato che lui, al massimo, vendeva ottocento copie. Ma anche il Italia le mie Opere complete sono alla terza edizione e Il franco cacciatore è alla seconda. I miei lettori non sono certo i poeti; ricevo lettere da ogni strato sociale: casalinghe, professionisti, studenti…

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126 UNA STRAZIATA ALLEGRIA

[Risposte a Domenico Astengo] Come un’allegoria esce nel ’36, in pieno clima ermetico, ma si offre con una naturalezza anomala rispetto ai modi cifrati di allora. Verso quali rive guardava Giorgio Caproni a metà degli anni Trenta?

Comincerò col dire che il gusto per la poesia mi nacque da bambino leggendo, insieme con «Il Corriere dei piccoli», in un’antologia di mio padre trovata per caso, i cosiddetti poeti delle origini (i Siciliani, i Toscani) attratto forse, più che dal senso, dalla durezza del loro linguaggio in cerca di se stesso. È una premessa necessaria, credo, per spiegare almeno in parte (sia col segno + sia col segno –) la piega di certe mie successive predilezioni e inclinazioni. Quanto ai contemporanei, prima ancora degli italiani (e dei francesi, che allora andavano per la maggiore) sempre per puro caso conobbi nella loro lingua gli spagnoli, su riviste o libri che mio fratello Pier Francesco mi portava dai suoi frequenti viaggi nella penisola iberica. Fino all’incontro, ancora una volta del tutto fortuito (estremi anni Venti) con l’Allegria di naufragi d’Ungaretti e con gli Ossi di seppia di Montale, che unitamente all’assidua lettura dell’«Italia letteraria» e di «Circoli» (il cui primo numero uscì nel ’31 con il mai dimenticato Versi a Dina di Sbarbaro), mi iniziarono ad orizzonti nuovi, anche se ciò non toglie che nelle mie prime prove creative, dopo una breve orgia, diciamo così, surrealista, e proprio per sfuggire alle seduzioni della moda per la moda, di proposito volli ricominciar tutto da capo, rifacendomi al poeta allora da tutti ritenuto il più sorpassato, cioè il Carducci; del quale, come poi non mancò d’accorgersi in senso positivo De Robertis, «seppi ritagliarmi quanto più mi si confaceva»1. Il che non significa affatto ch’io ignorassi o ripudiassi il cosiddetto secondo Ermetismo fiorentino (fui anzi il primo, nel ’35, a parlare di Luzi) intuendone fin da allora la portata, ma impedito a una totale adesione dal mio diverso atteggiamento di fondo: voglio dire la mia diffidenza verso ogni forma di superstite estetismo, e soprattutto il mio attaccamento al «reale» o, più precisamente, il mio continuo rodimento per l’imprendibilità del «reale» tramite la parola, la quale, come già scrissi nel ’46 e nel ’47, anticipando di parecchi lustri certe teorie oggi di pubblico dominio, vanifica l’oggetto: crea, nominandola, un’altra realtà, parallela alla prima ma destinata a non collimar mai con essa. (Non per nulla intitolai la mia prima plaquette, appunto, Come un’allegoria, e la terza, nel ’41, molti anni prima di Borges, Finzioni).

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Anche Il seme del piangere, che sviluppa un discorso musicale perfettamente aderente alla storia luminosa di Annina, mi sembra un testo eccentrico rispetto alla linea lirica della nostra tradizione novecentesca. Può spiegarci com’è maturata questa svolta e quali ne sono stati i fermenti umani e culturali?

Il seme del piangere è un semplice fiore che ho voluto deporre sulla tomba di mia madre, per strane vicende sepolta a Palermo. Volevo molto bene a mia madre, e nel Seme ho cercato di farla rivivere così com’era da ragazza, abile ricamatrice da tutti ricercata, e vivace figurina da tutti ammirata in una Livorno fine e popolare insieme, coi suoi vecchi Quattro Mori e molto liberty. Mi occorreva, per questo, una forma leggera ma non frivola, e non ho trovato di meglio che rifarmi al Cavalcanti della sua più famosa ballettata. Un altro mio tentativo, dunque, come già i molto più complessi Sonetti monoblocco e le Stanze, di far musica moderna senza tuttavia rinunciare al linguaggio o sistema tonale, un poco sull’esempio – fatte le debite distanze – di Stravinskij, che senza alcun bisogno di ricorrere alla forza dell’atonalismo ha toccato il vertice della novità grazie soprattutto alle sue inimitabili invenzioni ritmiche e timbriche. Altra ragione, credo, anche tale mio testardo lavorio dall’interno della tradizione, per essere considerato (e per questo anche un po’ tenuto a bada) non in linea col novecentismo ufficiale. Senza contare, per tornare al Seme (che quindi non considero affatto una «svolta») quel mio infantile amore per la canzone o canzonetta delle origini, cui ho accennato in principio. Giovanni Testori recensendo Il franco cacciatore (1982) scrisse: «Mai, credo, la negazione di Dio è stata, come in queste poesie di Caproni, sua affermazione»2. È solo un’astuzia dialettica, quella di Testori? Il nodo, comunque, è ineludibile? Lei che ne pensa?

Perché dovrebbe essere «un’astuzia dialettica» quella di Testori? Non capisco bene il senso della domanda. Quindi mi riesce difficile, anzi impossibile, rispondere. E così per il seguito. Posso soltanto confermare che Testori, da me sempre ammirato per l’estrema vigoria morale e stilistica, mi ha dedicato un pezzo di cui vado orgoglioso, anche perché mi ripaga dell’abuso che si è fatto, a proposito d’una delle mie varie ricerche, della formula di «teologia negativa», per altro malissimo intesa dai più, se non addirittura interpretata a rovescio e del tutto orecchiata, magari fino ad attribuirne la paternità (è accaduto, a qualcuno, e di recente) a… Eugenio Montale! Mentre pochissimi si sono ricordati del mio povero preticello deriso, che già nel 1961 (Millenovecentosessantuno!) pregava non perché Dio esiste, ma perché Dio esista. Un Dio, naturalmente, bel lontano da quel Dio di comodo che tutti i profittatori della terra si son confezionato per farsene sgabello. Il mondo di Caproni è stato definito un mondo tragico, ma anche davanti a questi recentissimi versi l’impressione riamane quella della levità, di un reale dissolto in frammenti mobili. Resiste

400 GIORGIO CAPRONI sempre il gusto dell’ironia, il rifiuto a cedere all’emozione, ad esprimere la sofferenza. Dovremmo concludere che la poesia dell’ultimo Caproni è poco autobiografica?

Direi proprio il contrario. Nulla nasce, in poesia, se non da un’esperienza personalmente (e in profondo) vissuta e sofferta. È vero: l’ho già detto altre volte. La figura del poeta quand’egli è sul serio poeta (il che non gli capita sempre: non capita sempre al poeta d’esser poeta) è una figura puramente mentale, che poco ha a che vedere con la sua persona o natura fisica. È tutta e soltanto nella sua scrittura. La quale però non potrebbe in nessun modo aver luogo, se sotto non ci fosse, a determinarla, quell’esperienza che ho detto. Non vedo poi perché la «tragicità» dovrebbe escludere, per principio, la levità. Sulla mia «straziata allegria» in fondo, del resto credo d’esser stato esplicito nel primo Inserto del Franco cacciatore: è l’«allegria» propria dello stoico che, almeno in parte, è riuscito a liberarsi dei tranelli dell’illusione e della speranza. Senza contare, inoltre, la mia vecchia convinzione di musico fallito, che anche le cose più gravi si possono esprimere con brio, o comunque alternando all’Adagio o al Solenne l’Allegro o l’Allegretto, se non addirittura lo Scherzo. E questo a scanzo, quando si toccano certi temi, di quell’enfasi sempre in agguato come l’Indiano di Apollinaire. Allora potrebbe risultare indiscreto chiederle di dare un contenuto a quella «spina della nostalgia» di cui parla nella poesia che si intitola Generalizzando?

Presto detto: il contenuto o oggetto di tale nostalgia è la nostalgia stessa per la ragione chiaramente espressa, mi sembra, dall’intera poesiola. Una poesiola che, appunto generalizzando, vorrebbe essere un po’ la didascalia, o il concentramento, di un libro che vo vagheggiando e al quale vorrei dare il titolo, se ce la farò a comporlo, di Res amissa. L’idea m’è venuta da un fatto molto banale, ma che qui sarebbe lungo esporre. Può capitare a tutti di riporre così gelosamente una cosa preziosa da perdere poi la memoria non soltanto del luogo dov’è stata collocata, ma anche della precisa natura di tale oggetto. È un tema, nella sua apparente elementarità, molto ambizioso, ne convengo, specie per le «variazioni» che può generare. Sarebbe, questa volta, non più la caccia alla Bestia, come nel Conte di Kevenhüller, ma la caccia al Bene perduto. Un Bene del tutto lasciato ad libitum del lettore, magari identificabile, per un credente, con la Grazia, visto che esiste una «Grazia ammissibile». Con la Grazia, o con chissà che altra Cosa del genere. (Non è comunque, quest’ultimo, il caso mio, credo). Dopo la madre Anna Picchi, la moglie Rina. Vuole dirci qualcosa di questa figura femminile, così frequente e viva nei suoi versi, e alla quale è dedicata anche la prima poesia di Allegretto con brio?

Non mi piace entrar nel privato. Rimando, per una risposta giusta, ai miei stessi versi.

INTERVISTE E AUTOCOMMENTI. 1948-1990 401

Desidererei che ci commentasse una poesia. Per esempio, l’ultima della raccolta, Clausola: Tanto per non finire: la morte, già così allegra a viverla, ora la dovrei morire? (Non me la sento, d’ucciderla.) [Clausola, RA]

Non ho mai creduto che la poesia si possa ridurre in termini logici: la si possa spiegare o commentare. E ciò per la medesima ragione che mi ha sempre indotto a credere alla sua assoluta intraducibilità, perfettamente d’accordo, su tale tasto, con Dante, quando testualmente scrive: «E però sappia ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può de la sua loquela in altra transmutare sanza rompere tutta la sua dolcezza e armonia». È una frase che ho imparato a memoria, un po’ come il codice fiscale, tante volte l’ho usata parlando di traduzioni poetiche. (Mentre così di rado, per non dire mai, se ne ricordano i sottilissimi dottori in poesia nelle loro discettazioni). Mi tolga allora una curiosità. Perché nonostante questa sua decisa mozione di sfiducia nella traducibilità della poesia, lei ha tradotto tanto?

Già. Quant’ho tradotto! Di rado, però, poesia, e mai per vana filantropia culturale: per far conoscere una data opera a chi, poverello, è sprovvisto di mezzi linguistici propri per affrontarla direttamente. Ho sempre tradotto per me, trovando in tale esercizio un validissimo mezzo d’allargamento della mia coscienza ed esperienza, in quanto sempre l’autore tradotto (e per questo me li sono sempre scelti tra i meno congeniali) mi ha costretto ad esplorare zone del mio «io» (del mio sottosuolo, soprattutto) da me completamente ignorate, per farmici scoprire cose che possedevo già, sì, ma sonnecchianti come la Bella addormentata nel bosco, e che tali forse sarebbero rimaste per sempre. Veniamo a cose meno impegnative. Genova e Livorno son le due città che han svelato la loro anima nei versi di Caproni. E Roma?

Roma mi abbagliò (letteralmente mi abbagliò) negli ultimi anni Trenta, quando vi calai per la prima volta. Dico la Roma classica più che quella barocca. Ve n’è una traccia visibilissima in Cronistoria, uscita nel ’43. Il dopoguerra me ne allontanò decisamente. Divenne per me una città, come dire?, troppo spampanata: una scarpa troppo grossa per il mio piede. Eppoi (come già dissi in lontanissimi anni in Tv, con Geno Pampaloni) a Roma mi sento più in Medio Oriente che in Europa.

402 GIORGIO CAPRONI Traduttore, critico, narratore: in che misura questo lavoro letterario ha influito sulla sua ricerca poetica?

Non saprei dire. Comunque, muover la penna giova sempre, al poeta, specie quando la muove per motivi lontani dalla poesia. La prosa, in ogni suo registro, è sempre non dico utile ma necessaria per allontanare il bacillo del troppo lirismo. Guardiamo la situazione della poesia italiana contemporanea. Giunti al limite del processo di riduzione, alla vertigine del nulla, il desolato cammino inaugurato da Sbarbaro sembra concluso. Dopo il fallimento delle neoavanguardie, qualche giovane poeta vagheggia una nuova stagione e torna a parlare di Mito e Bellezza. Qual è il suo giudizio?

Gli esiti della poesia sono sempre imprevedibili, perché sempre imprevedibile è la natura dell’uomo. Ritorno al Mito? Alla Bellezza? Perché no. Purché sorga, beninteso, una società capace di giustificare tal ritorno. Ma nel «paese guasto» (The waste land?), nel «paese guasto», per dirla con Dante, che si identifica oggi con l’intero globo, e in particolare con la nostra Italia, non so fino a che punto una tale ipotesi possa trovar fondamenta che la giustifichino.

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127 ASPETTANDO I CAMMELLI TRA LE PALME

[Risposte a Doriano Fasoli] Venni a Roma, per la prima volta, nel ’39, ma poi fui immediatamente richiamato alle armi. Combattei sul Fronte Occidentale. Dopo l’8 settembre sono sempre rimasto nell’Alta Val Trebbia, in zona partigiana (senza fare l’eroe). Caproni, lei divide a tutt’oggi la sua vita tra Roma e Genova: quale delle due ritiene più vivibile?

Genova, dove si può dire io sono nato, quindi per me è un altro vivere. Poi a Genova lavoro, mentre a Roma è impossibile perché uno viene disperso da tanti traffici, commerci… Inoltre a Genova non c’è questa vita, chiamiamola culturale (come oggi si dice). Cos’è a suo parere che sta rovinando Roma ogni giorno di più?

Per l’esperienza che ne ho, una volta arrivata la motorizzazione di massa è venuto quello che i romani dicono «un macello». Un tempo era ancora abitabilissima, in seguito non l’ho più riconosciuta. Un mio amico francese, quando anni fa venne a trovarmi, la definì una piccola città con un’enorme periferia. E dei romani che opinione ha?

Nel modo in cui l’ho conosciuto, il romano era attraentissimo, simpaticissimo. Un po’ come il parigino, arguto, pieno di spirito, soprattutto di civiltà. Poi è arrivato questo miscuglio… Tutte le città si sono però inquinate. In verità, la mia generazione si riconosce poco in tutte le città, ma in Roma in particolare. Fino a poco tempo fa esistevano ancora le boutiques, i negozi di lusso, oggi è tutto orientalizzato. Come spiega il titolo dato a una sua poesia (composta nei primi anni Sessanta): Roma, enfasi e orina?

Beh, con l’enfasi intendevo il fatto di ammirare le chiese, i palazzi, le strade, l’impossibilità, davanti a tanta bellezza, di pensare ai fatti miei, era il barocco; in quanto all’orina, allora a Roma si beveva molto all’osteria, e al Colosseo, ad esempio, il puzzo era tremendo, perché il travertino s’impregna. Mi colpì quello. Mi sentivo davvero poco in Europa, francamente. Poi, abitando al Gianicolo,

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con le palme, con quei bellissimi tramonti, come una volta ebbi occasione di dire a Geno Pampaloni: «Aspetto i cammelli…». Lei dice di adorare Parigi (un’altra città che, almeno letterariamente, conosce palmo a palmo): perché?

Perché a Parigi sì che c’è molto divertimento, ma non c’è confusione come a Roma. Poi anche quelli che noi consideriamo – da razzisti quali siamo (perché l’italiano è razzista maledettissimamente) – come popoli inferiori, a Parigi sono ben amalgamati con la popolazione. Almeno questa è la mia impressione. Già quel nostro razzismo regionale è fin troppo ridicolo… Roma (così com’è adesso, fondamentalmente volgare) non può essere paragonata né a Parigi (dove riesco a vivere con naturalezza) né a Vienna (un’altra città altrettanto stupenda), da nessun punto di vista. Cosa vorrebbe fosse immediatamente fatto per Roma? Ha qualche suggerimento da dare?

Già se le togliessimo il privilegio di essere la capitale, guadagnerebbe moltissimo. La vogliono i milanesi, la capitale? Gliela diano. Tutto sommato, le fanno un piacere. Poi magari Milano diverrà come Roma. Roma sarebbe una città dove si vive bene se non ci fossero tutti questi ministeri, poi è lontana sia dal sud che dal nord, quindi crea problemi. Con tutto ciò non lascerei Roma, e infatti non l’ho mai lasciata. Che cos’è allora che la trattiene?

Non so bene. È così maliarda, e poi sa, a Genova culturalmente c’è assai poco.

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128 PURI DISTILLATI DI VERSI

[Risposte a Claudio Marabini] Che cosa scrivi in questo periodo? Quali progetti hai?

Non so. Non ho programmi. Non sono un professionista. Quando mi viene qualche verso… se no compongo qualcosa sull’armonium. Il poeta è un uomo come tutti gli altri, che qualche volta è visitato da quella cosa che si chiama poesia. Rifiuto la qualifica di poeta. Sono uno scrittore in versi. Libri in cantiere?

Usciranno tutte le mie poesie, aggiornate, negli «Elefanti» dell’editore Garzanti. Ci sarà la traduzione tedesca. Poi anche quella francese. In Francia sono già usciti tre miei libri. Ho avuto anche il premio per lo straniero maggiormente venduto! Poi verranno pubblicati tutti i miei interventi critici dal ’46/’47 in avanti. Anticipai le teorie della semiotica senza saperlo, parlavo di codici… La maggior parte delle recensioni uscì per una decina di anni su «La Nazione», circa dalla morte di De Robertis al 1970. Recensii Bassani, Landolfi, Gadda, la Morante: i nomi più in vista. Il primo recensore di Pizzuto fui io, non Contini… Dovrebbero uscire anche i racconti. Tre sono già usciti da Rizzoli. Scrivo, vagheggio… il nuovo libro di poesia si chiamerà Res amissa. Alcune briciole sono uscite a Lugano. Che cosa pensi della poesia contemporanea?

Non la seguo più. Tutti sono poeti. Non la capisco. Per colpa mia, naturalmente. Non leggi nessuno? Perché?

Vedo che manca nel poeta giovane quella capacità inventiva, ritmica e timbrica, che solo può nutrire la poesia. Oramai tutti hanno raggiunto questa lingua media. Un poeta che mi piace è Magrelli; ma non voglio fare torto agli altri. Fatto sta che un nuovo Montale non è apparso. È solo questione di lingua media?

Ogni poeta ha una sua lingua. Tutti credono di poter scrivere con la lingua del normale commercio. Ma c’è una differenza: il codice è lo stesso, ma la musica…

406 GIORGIO CAPRONI Pensi si sia perduto il senso della poesia?

La poesia è sempre stata per pochi, a meno di pensare a Omero. Ma anche lui scriveva per i principi. Non può esistere una cultura di massa, può esistere solo una istruzione. La massa non può trovare la gravità, il senso della poesia. È distrutta dunque?

No. Ma non si può legare all’effimero, agli oggetti. I romanzieri per esempio durano una stagione. Quella loro è una professione. Portano un prodotto sul mercato. Vincono un premio, poi scompaiono. Non ti pare di essere troppo severo con i narratori?

Coi nuovi, no. Certo, se penso a Bilenchi e a qualche altro… i narratori, essendo professionisti della penna, non vivono. Ci raccontano le loro allergie, che cosa ce ne importa? Che cosa fa vivere il poeta?

La poesia. Non che serva a nulla, come la musica. Al romanziere manca l’esperienza della vita. Quale vita è entrata nella tua poesia?

Ho fatto tutti i mestieri, la guerra. Non sono mai stato un accademico, non ho mai fatto il lettore. Leggo certi romanzi, ci trovo la psicoanalisi, il femminismo. Tutti problemi intellettuali. Non uno che prenda di petto l’esistenza. Sono piccoli borghesi. Conosci dei giovani?

Mi vengono a cercare. Conosci il loro modo di vivere?

Hanno un gran senso della solitudine. Gli manca l’affetto, sono isolati. Noi andavamo all’osteria. Oggi i giovani sono degli emarginati. Un po’ anche per orgoglio loro. Poi ci sono le colpe della scuola. Così arrivano alla droga, li capisco. Non conoscono l’amore. Conoscono solo il sesso, ma lo bruciano. Si può fare un discorso per generazioni?

Tutto sommato no.

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Che cosa è cambiato?

Fondamentalmente nulla, la spinta è sempre la stessa. Ma i risultati, magari, sono opposti. La poesia non si cerca, viene. Res amissa, dice il mio titolo. Tutti abbiamo ricevuto un dono, e non ricordiamo più da chi e che cosa fosse. Resta la nostalgia. Che cosa pensi di religione e poesia insieme?

Non mi pongo questi problemi. C’è un senso religioso nella tua poesia?

Sono contro le religioni istituzionali. La ragione trova il «muro della terra». Sono un razionalista. Nel nulla c’è Dio. Non finirà la poesia?

Finirà la società di oggi, non la poesia. La società utilitaristica deve finire. Speriamo che non si occupi di poesia, se no la distrugge.

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129 SU E GIÙ COME UN MINATORE

[Risposte a Eugenio Manca] I poeti? Mah, non so, non ne conosco manco uno. Se lo incontro, un poeta, io non lo so riconoscere. Non è come un avvocato, che so?, o un dottore, che li vedi sempre con la borsa e le carte. Quello di questa macchina, per esempio, è un dottore. Si vede anche dalla croce rossa sul vetro. I dottori hanno sempre fretta, corrono sempre, e magari vanno a tamponare. Come questo qui. I poeti non lo so se hanno fretta. Non credo. Mica devono andare a curare la gente, loro. Come sono fatti? Come tutti gli altri, no? Oddio, è curioso immaginare un grande poeta come uno qualunque, che ha la famiglia, guida la macchina, va a fare la spesa… Io penso al poeta come uno che ha sempre la testa tra le nuvole, tutto spettinato, uno che corre appresso alle fantasie, mica alle cose vere che capitano ogni giorno. Sta per aria. Ha sempre in testa quella cosa, e va su e giù con le parole finché trova quelle giuste. Magari se le inventa. Però non sempre li capisci. Ci sono parole che non ti basta il vocabolario. Però, quando leggi certe poesie, per esempio certe poesie d’amore, ti sembra… ti sembra… Poi magari stai peggio di prima. Ah, non lo so a che serve la poesia. Questo io non lo so proprio. Però a me piace. Più o meno. Anche a scuola mi piaceva: Leopardi, Carducci, Trilussa. Soprattutto Leopardi. Pure adesso. Quando si lavora di martello no, ma quando si passa lo stucco e stai per ore a scartavetrare, a lisciare, passa e ripassa, su e giù, allora mi viene in mente qualche verso: la donzelletta vien dalla campagna…, e lo ripeto, ma sottovoce, se no gli altri operai chissà che cosa pensano. Leopardi mi piace, ma, ammazza!, sono tutti così tristi i poeti? Non lo so com’è che uno sceglie di fare il poeta. Non è un mestiere come gli altri. Penso che uno se lo sente da quando è piccolo, no? Però non c’è nessuno dei miei amici che mi ha detto: sai, voglio fare il poeta. Il carrozziere, il calciatore, il cantante sì. Il poeta no. Sarà perché la poesia non si mangia, mentre invece di automobili ce n’è tante e i carrozzieri servono di più. Anche se di carrozzieri ce ne stanno ’na cifra… (Davide, 17 anni, apprendista carrozziere, Roma) Deve essere un ragazzo sveglio, questo Davide… Sorride, Giorgio Caproni, nella penombra del suo studio, ripassando le risposte del giovane apprendista carrozziere. Fuori, sul quartiere romano di Monteverde, incombe un cielo cinerigno e

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borbottante, ormai irrimediabilmente autunnale. La poca luce che viene dal balcone sul giardino, rischiara un volto legnoso, una figura esile dentro una camicia a quadri, due mani ossute che cercano in uno scatolino di latta un frammento di sigaretta.

Vede? Ne consumo quattro al giorno, ciascuna spezzata tre volte. Poi c’è il mozzicone. Dodici mozziconi finisce che fumo meno della metà. Il medico vorrebbe vietarmelo del tutto, ma gli rispondo: non vorrà mica dirmi che se continuo a fumare morirò giovane? Quello che da molti è considerato il maggior poeta italiano vivente ha settantasette anni. Schivo, appartato, nemico dei clamori, continua a guardare dentro di sé e dentro il mondo da un piccolo, silenzioso osservatorio traboccante di libri, di idee, di ricordi. Il luogo ha un’aria non grave né stantia: anzi, si respira il «fresco odore della vita». Fanciullesco, perfino, a guardare il trenino di latta che, immobile, corre lungo la mensola. Lavora, legge, scrive, quando la salute non lo tradisce. Come quest’anno, che ha dovuto cancellare appuntamenti e vacanze. Ma l’idea di parlare del suo «mestiere» la accoglie di buon grado. E che a interrogarlo – sebbene indirettamente – sia un ragazzo, va ancora meglio. Dunque Davide dice: se lo incontro, un poeta, io non lo riconosco. C’è modo di riconoscere un poeta?

No davvero. E Davide se ne è accorto. Ha capito al volo che la persona fisica del poeta non è riconoscibile come quella dell’avvocato o del medico. A meno che non si tratti di un istrione, di un tizio che si compiace di «apparire» un poeta, e si scaruffa apposta i capelli, straluna gli occhi o li tiene in gondola, fa l’invasato o l’estatico. No, il poeta vero ha poco a che vedere con la sua persona fisica: è una figura puramente mentale. È tutto e soltanto nella sua scrittura. Anzi, è tutto e soltanto la sua scrittura. E per giunta, non sempre, ma a tratti, perché nemmeno al poeta più grande del mondo capita spesso d’esser poeta. Che cosa intende dire, che si è poeti solo in alcuni momenti? A fasi alterne?

Proprio così. Scrivere in versi è una cosa, raggiungere la vera poesia è un’altra. Vale anche per i più grandi. Pensi a Leopardi. Pensi al Parini, che ne ha scritte a migliaia di poesie. Anche a loro è capitato di rado di essere davvero poeti, ma quando lo sono stati… Consideri un po’ se può mai esistere, dunque, la qualifica professionale di poeta. Lei sicché non scriverebbe «Poeta» sul suo biglietto da visita…

L’unica qualifica certa che potrei scrivere sarebbe questa: «Giorgio Caproni, resecato gastrico». Ride? Pensi che se lo abbreviassi, alla maniera degli inglesi, suonerebbe: «Re.Gas.». Enigmatico, vero? Sì, ricevo persino della posta indirizzata «Al poeta eccetera eccetera», ma è una cosa che mi dà fastidio. Preferisco definirmi scrittore in versi. Comunque, esser poeti non significa affatto esercitare la professione di poeta, come si esercita, a fini di guadagno, quella di medi-

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co. O di avvocato, o di idraulico. Il romanziere, sì, è una professione, perché il romanzo somiglia a una merce che va prodotta e venduta con certi tempi, dentro certi meccanismi di mercato. Anche se leggere un buon romanzo sta diventando sempre più difficile… Dunque, non si può «scegliere» il mestiere di poeta.

Proprio no. Nessuno si pone il problema di sceglierlo, così come non si sceglie l’essere biondo o bruno. Io, francamente, non saprei proprio dire come e perché mi sia messo a scriver versi. È come se mi chiedessero perché a volte mi sono innamorato o mi son divertito a disegnar pupazzi. Se mi capitava di scrivere in versi, li lasciavo là, non pensavo davvero a una carriera. Essendo un uomo come tutti gli altri, anche il poeta, se non è un riccone, per procacciarsi da vivere ha bisogno di esercitare una professione o un mestiere. Saba, per restare ai nostri giorni, fece l’impiegato e il mozzo, prima di aprire una libreria. Betocchi e Quasimodo furono geometri. Montale fece il direttore del Gabinetto Vieusseux e poi il giornalista. Da parte mia, sono stato violinista per brevissimo tempo, commesso in uno studio legale, insegnate privato di latino e di solfeggio, correttore di bozze, maestro elementare, pubblicista, traduttore, critico militante. Tutti lavori che ho sempre fatto volentieri e che certo hanno contribuito a dar sostanza ai miei versi, perché non so proprio di che potrebbe alimentarsi la poesia senza una sofferta esperienza di vita, a sua volta suscitatrice di sentimenti e di idee. Guerra compresa, ahimè, nonché miseria, malattie e via dicendo. Ma Davide dice: il poeta insegue fantasie, sogni, cose irreali, non bada a ciò che accade davanti ai suoi occhi…

È qui che sbaglia. È stata una generazione molto tartassata dalla storia, la mia. Io sono nato con la guerra di Libia; cresciuto con la «grande guerra», o meglio la «grossa» guerra; poi c’è stata la dittatura con la guerra di Spagna e la guerra d’Africa incombenti; infine sono stato richiamato nel ’39 e sino alla Liberazione ci sono rimasto, scegliendo poi i partigiani della Val Trebbia… Ma non me ne lagno, e penso che se tanti attuali scrittori partoriscono opere sciape o troppo intellettualistiche – più preoccupati d’apparire che d’essere intelligenti – è appunto perché non hanno una forte esperienza di vita: non hanno, insomma, nulla di concreto da raccontare, nemmeno i «fatti del cuore», dato che a questi non credono o fingono di non credere più. E dunque il giovane carrozziere ha torto quando ritiene anche lui che il poeta abbia «la testa tra le nuvole», seguendo un luogo comune già diffusissimo tra il popolo e, ora che il popolo è scomparso, tra le cosiddette «masse». Ad aver davvero la testa tra le nuvole sono, al contrario, proprio coloro che si vantano d’averla ben salda al collo, come certi nostri politici, manager, sindacalisti, accademici. Avvolti nelle nuvole dei loro «problemi» vedono tutto per categorie

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ma non per singoli individui: vedono, per esempio, la categoria dei tranvieri, ma non sanno nulla del singolo tranviere Mario Proietti, dei suoi bisogni non utilitari, delle sue particolari aspirazioni e necessità, dei sentimenti e pensamenti che formano la sua propria persona. Mentre all’occhio del poeta, ahimè, non sfugge nulla di quanto gli sta attorno o gli accade attorno, e magari anche oltre: dai massacri a una rosa, dai soprusi d’ogni genere alle… farfalle e alle piccole formiche, appunto. I critici restano colpiti dal suo modo specialissimo di osservare la realtà, e parlano di una poesia cromatica, olfattiva, «sensuosa»…

Le cose bisogna sforzarsi di conoscerle. Avete mai provato a chiedere a un «intellettuale» quante gambe ha una formica, o che cosa distingue una scimmia da una proscimmia? Di rado avrete una risposta. Manca loro lo spirito d’osservazione. Manca soprattutto, sotto il manto di una «grande» ma astratta «cultura», l’istruzione elementare. Non è un’ignoranza da poco, a ben riflettere, perché le elementari non insegnano (o insegnavano) soltanto a «leggere, scrivere e far di conto», ma in primis i rudimenti d’ogni altra scienza, comprese le più semplici «strutture» della natura, e quindi l’amore per gli animali, le piante, i minerali. Fin dalla classe seconda o terza io allevavo a casa lucertole, salamandre, tritoni, mentre oggi un giovane, perduta ogni confidenza con la natura, se vede una cavalletta si spaventa come davanti a un mostro, o ne prova ribrezzo. Soffermiamoci brevemente sulle forme concrete del suo «mestiere». Come ogni mestiere, per essere svolto avrà bisogno di tempi, di materiale, di attrezzi. Quali sono i «ferri» del poeta?

Pur se non configura una qualifica professionale in senso economico, anche l’esercizio della poesia, come quello di ogni altra arte, esige una tecnica, un «mestiere» appunto, una precisa materia. E la materia è la parola, croce e delizia del poeta perché unico laterizio per le sue costruzioni. Su e giù per le parole, dice infatti Davide, cercando «quelle giuste», anche se talvolta incomprensibili. Come procede il poeta nella scelta di questi «laterizi»?

Qui il discorso si complica, dovendo necessariamente partire da una precisa definizione del termine «poesia», cosa che nessuno, a quanto sappia, è mai riuscito a fare, tantomeno i troppo saputi Dottori in poesia, con le loro sottilissime elucubrazioni. Lascio al pascolo il cavallo della presunzione, e percorro a piedi il sentiero delle mie personali esperienze, per limitarmi a precisare in che cosa consista, secondo me, la profonda differenza tra linguaggio di normale comunicazione e linguaggio poetico. Ne scrissi già sulla «Fiera Letteraria» nell’immediato dopoguerra. In realtà non erano ancora di pubblico dominio né la semiotica né la linguistica, ed io, del tutto a lume di naso, inventavo per mio privato uso e consumo… l’ombrello.

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Dunque cerco di riassumere: linguaggio pratico e linguaggio poetico usano, è vero, lo stesso codice di contenuti sociali, ma mentre nel linguaggio pratico il segnale acustico o grafico della parola resta stretto alla lettera e alla pura e semplice informazione, nel linguaggio poetico la parola stessa conserva, sì, il proprio senso letterale, ma si carica anche di una serie di significati «armonici» – e dico «armonici» usando il termine com’è usato in acustica e nella musica – che ne forma la sua peculiare forma espressiva. Vorrebbe fare un esempio elementare?

Mi trovo in una caserma, dove i segnali vengono ancora trasmessi da una cornetta. La cornetta squilla il segnale del rancio, e il marmittone che conosce il codice prende la gavetta (ai miei tempi il soldato usava la gavetta) e si allinea nel cortile per ricevere la «sbobba». Ma supponiamo che un estroso ufficiale di picchetto, invece che dalla solita cornetta, faccia suonare quello stesso segnale da un virtuoso di flauto. Il soldato, sì, capirà che quello è il segnale del rancio, ma anche sentirà qualcosa d’altro – il valore musicale di quel segnale, e ciò che tale valore esprime – e resterà interdetto o incantato ad ascoltarlo, anziché precipitarsi alla chiamata. Un altro esempio, forse meno pedestre pur se sempre approssimativo. Prendiamo gli stupendi versi foscoliani: «Felice te che il regno ampio dei venti, / Ippolito, a’ tuoi verdi anni correvi». Bene, sul piano della normale comunicazione, ben poco dicono: «Beato te, Ippolito, che da giovane navigavi tanto». Ma sul piano della poesia, quale profonda e ineguagliabile musica, e quale forza espressiva! Sente? È come una pietra che rimbalzi sull’acqua: fun fun fun… Due endecasillabi che diventano uno solo. Arrivo addirittura a dire che la lingua condiziona in un certo senso il poeta. Se Racine fosse stato italiano, o comunque se avesse scritto in italiano, chissà che avrebbe detto in luogo di «La fille de Minos et de Pasiphaé» [Phèdre], verso giustamente celebratissimo per la ricchezza espressiva della sua musica, quanto del tutto insignificante nel senso letterale. Un dato anagrafico, e nulla più. Vuol dire che non può esserci che quella parola, e un ordine immutabile per ogni parola…

«La notte è dolce e chiara. Non c’è vento»: che cos’altro è se non una frase del bollettino meteorologico? E invece ascolti: «Dolce è la notte e senza vento […]» [La sera del dì di festa, Giacomo Leopardi]. E qual è la funzione della rima?

Non certo una funzione esornativa, tanto per carezzar l’orecchio, ma una funzione portante, pari a quella delle consonanze e dissonanze in polifonia, o, in architettura, a quella delle colonne che reggono l’arco. Idea chiama idea, maga-

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ri per generare una terza idea taciuta. Si leggano soltanto le rime dell’incipit della Commedia: la vita (la via) smarrita; la selva (la paura), dura, oscura. Si ha già la chiave del I Canto dell’Inferno. Ed è proprio per questa natura del linguaggio poetico che anch’io sto dalla parte di chi ritiene intraducibile la poesia, di chi crede pressoché impossibile la sua riduzione in termini logici. Basta spostare un vocabolo, un accento, e l’incanto è rotto. Viene a mancare, appunto, l’energia espressiva della musica. Della musica, dico, non della musicalità. E quindi resta polverizzata la poesia stessa: il valore espressivo che la poesia assume, con la musica, oltre il senso letterale, caricandosi o arricchendosi di quella pluralità di significati (di risonanze mentali) che poco fa ho chiamato gli «armonici». Dunque una connessione intima tra musica e poesia?

Attenzione, io non voglio davvero affermare, con questo, che il poeta non debba avere un suo pensiero e una sua «visione del mondo», e che gli basti la musica per far poesia. Voglio soltanto ribadire che è soprattutto grazie alla musica della parola ch’egli riesce a suscitare nel lettore – più che a comunicare per via diretta – le proprie emozioni e riflessioni, le proprie idee, e insomma quel suo piccolo o grande patrimonio intellettuale, destinato a restare altrimenti mera prosa. Lo stesso Dante, del resto, e sempre a proposito dell’assoluta intraducibilità della poesia, è esplicito quando testualmente scrive nel Convivio: «E però sappia ciascun che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può della sua loquela in altra trasmutare senza romper tutta sua dolcezza e armonia». È vero che il poeta riesce a guardare più lontano, come dalla sommità di un’altura?

Dirò che mia prima ambizione, quale compositore di cose «per legame musaico armonizzate», è sempre stata quella, forse, di riuscire, mediante la pratica del verso, a trovare, cercando la mia, la verità di tutti. O, per esser più modesto e preciso, una verità – una delle tante verità ipotizzabili – che possa valere non soltanto per me ma anche per tutti gli altri mézigues (o «me stessi»: di proposito uso l’argot) che formano il prossimo (l’Altro, diciamo pure), del quale io non sono che una delle tante cellule viventi. E quindi direi che la poesia, oltre che a «guardar più lontano», aiuta a guardar più in profondo. L’ho ripetuto tante volte: il poeta è un minatore. È poeta colui che riesce a calarsi più a fondo in quelle che il grande spagnolo Antonio Machado definiva las secretas galerías del alma, e lì attingere quei nodi di luce che, sotto gli stati superficiali diversissimi da individuo a individuo, son comuni a tutti anche se non tutti ne hanno coscienza. L’esercizio della poesia rimane infatti puro narcisismo finché il poeta si ferma ai singoli accadimenti esterni della propria esistenza. Ma ogni narcisismo cessa non appena il poeta, muovendo dalle proprie personali esperienze, sa inabissarsi talmente in se stesso da scoprirvi, ripeto, quei sensi o sentimenti che sono non soltanto del suo «io», ma di tutta intera la tri-

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bù. Quei nodi di luce che tutti i membri della tribù possiedono in quanto, nel profondo, tutti gli uomini sono eguali, ma che non tutti i membri della tribù sanno di possedere, o riescono ad individuare. Uno scandaglio. Che può anche metter paura…

Forse. Ma quando il nostro giovane carrozziere si sorprende, lavorando, a ripetersi mentalmente certi versi imparati a scuola, è perché inconsciamente in essi sente vibrare una parte del proprio animo, e questo lo aiuta a vivere, gli procura piacere. Credo sia stato Proust a dirlo: quando uno legge un poeta, in fondo non fa che legger se stesso. Quel poeta ha raggiunto nel profondo di se stesso una verità che vale per tutti, e che già, come la Bella addormentata nel bosco, sonnecchiava in tutti, in attesa del Principe capace di svegliarla. Ha toccato, insomma, una zona dove l’«io» si pluralizza e diventa un «noi». Ecco, se proprio si volesse attribuire un’utilità alla poesia, è forse soltanto questa: aiutare a conoscersi meglio, a scoprir meglio la propria persona di fronte ad ogni forma di sopraffazione o di annullamento, e a salvarla dal rullo compressore, dall’imperante massificazione. Lei dice «soltanto»: ma è un compito immane!

Lo so. La società in cui viviamo schiaccia con sempre maggior pesantezza i più elementari diritti del singolo: minaccia la distruzione totale del privato per ridurre gli individui ad una somma di «consumatori», ai quali – nella mortificante mercificazione anche di quelle che una volta venivano chiamate le aspirazioni «spirituali» (brr, che parola!) – si vorrebbero imporre bisogni artificialmente prodotti per alimentare una macchina economica che trae a sé tutto il profitto, a pieno scapito d’ogni libera scelta interiore. Ecco, il poeta è il più deciso oppositore, per sua propria natura, di tale sistema. È il più strenuo difensore della singolarità, rifiutando d’istinto ogni parola d’ordine. E per questo il sistema lo avversa, sia ignorandolo o fingendo d’ignorarlo, sia minimizzandone la figura con l’arma della sufficienza o dell’ironia. Ho fisse in mente queste parole di Kierkegaard: «Si è abolito il cristianesimo, perché dappertutto si è ricacciata indietro la personalità. Pare che si tema che l’“io” debba essere una specie di tirannia e che per questo ogni “io” debba essere livellato e nascosto…». A distanza di ben oltre un secolo, sono parole di una terrificante attualità, cui è impossibile non aggiungere con un brivido – quasi contemporanee – le altre del Leopardi, profetizzanti una inquietante e disumanizzante «età delle macchine». La poesia – ha detto – non si può tradurre. Tuttavia lei ha tradotto molto dal francese, dallo spagnolo…

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Sì, e ho sempre scelto autori «non congeniali», i più lontani da me. Ho tradotto Céline, Genet, Frénaud, Char, Apollinaire, ma senza mai pretendere di farne una fotocopia in italiano. Un figlio, piuttosto, e come tale diverso dal padre e dalla madre. Questi autori mi hanno spinto ad esplorare zone sconosciute di me, e questo mi ha arricchito non solo lessicalmente, il che sarebbe ovvio, ma spiritualmente. Lei è stato maestro. Ha insegnato anche la poesia?

Negli anni Sessanta, dopo il lungo periodo nelle elementari, andai in giro per le scuole di Roma con in mano libri di versi. Cercavo di sollecitare l’interesse ma senza forzare, e senza mai chiedere: che cosa ha voluto dire il poeta? Ho già detto che la poesia non si può spiegare come la geometria. Quando cominciò a leggere versi?

A Livorno, quando ancora facevo la seconda elementare, scoprii fra i libri di mio padre un’antologia dei cosiddetti «poeti delle origini» (i Siciliani, i Toscani). Chissà perché mi misi a leggerli con gusto, insieme con il «Corriere dei Piccoli». Mi piaceva quella loro lingua dolce e aspra a un tempo: una lingua ancora in cerca di se stessa, e questo è tutto. A Genova, poi, dove mi trasferii a dieci anni, mio fratello mi portava dalla Spagna, dove andava spesso, la rivista «Blanco y Negro», nonché libri di Machado, di Lorca e altri che io leggevo direttamente in spagnolo, profondamente attratto, però senza mai chiedermi il perché di tale attrazione, anche perché il gioco dei perché mi è sempre piaciuto poco. E quando, da bambino, mi chiedevano che cosa avrei voluto fare da grande (stupida domanda di rito, almeno allora), senza batter ciglio rispondevo: il macchinista. La locomotiva a vapore (vattelappesca perché) mi affascinava e ha continuato ad affascinarmi anche quando mi misi a studiar seriamente musica, come continua ad affascinarmi oggi – non mi vergogno a dirlo – nonostante il bel malloppetto di anni che ho sulla groppa. Del resto la vede ancora là, su quella mensola. Più tardi incontrai Rebora, Montale, Sereni, poi Saba. Ricordo l’impressione enorme che mi fece Ossi di seppia, comprato su una bancarella. Non ci capivo niente ma fui colpito, travolto da quell’onda di musica… Posso chiederle quali sono i libri che ha sul tavolo, in questi giorni?

Il solito Dante, naturalmente. Anna e Bruno di Bilenchi: sa che non ci vediamo da prima della guerra? Ci scriviamo, qualche volta. Poi i saggi sulla metrica di Mengaldo. Poi Citati, Macchia, altro ancora. C’è qualcosa che vorrebbe dire, in conclusione, al giovane Davide?

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Vorrei che non mi detestasse per l’essermi messo (o aver l’aria d’essermi messo) in cattedra. E gli farei una confidenza: anch’io ho osservato il suo lavoro. Sì, anch’io. A Genova, anni Venti, in via San Martino, sotto la finestra laterale di casa nostra, era attivissima, nemmeno a farlo apposta, una «carrozzeria»: la Carrozzeria Beccaria e Canè. A quei tempi si comperava lo chassis in fabbrica e poi, in «carrozzeria», lo si allestiva. Proprio là ha visto «montare» decine e decine di automobili (allora non si diceva ancora «macchina», come oggi si dice, ma soltanto in Italia), in una serie di «marche» quale ormai non ci sogniamo nemmeno: Scat, Ansaldo, Fiat, Lancia, Isotta Fraschini, Mercedes Benz, Diatto, le primissime utilitarie dette «Temperino», e chi più ne ha più ne metta. Amen.

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130 AMORE AMORE

[Risposte a Francesca Pansa] Lei, oltre che poeta (o scrittore in versi, come preferisce definirsi) è anche critico e traduttore. Ma al di fuori d’ogni fredda valutazione, cioè come semplice lettore, qual è il suo poeta preferito, che legge da sempre, che rilegge continuamente?

Non ce l’ho. Varia secondo il momento. A volte mi piace, per fare un esempio qualsiasi, la grazia d’un Vittorelli, altre volte il Foscolo, altre ancora uno stilnovista, e così via. Chi ama la musica non ascolta soltanto il Palestrina o Bach. Vi sono momenti in cui si sorprende a canticchiare, con gusto, una canzonetta. Da bambino, per fare un altro esempio, insieme con il «Corriere dei piccoli» mi piaceva leggere i poeti delle origini (Siciliani e Toscani), in un’antologia di mio padre. Cominciai a leggerli a Livorno. Mi seduceva la loro lingua inesistente, che cercavano di creare attraverso i dialetti, il provenzale ecc… Poi ho molto amato gli spagnoli, ma per una ragione personale, mio fratello andava in Spagna di frequente per motivi di lavoro e mi portava di lì la famosa rivista «Blanco y negro», dove potevo leggere i racconti di Azorín. Poi mi mandava libri di poesia. Ho scoperto i Machado, Manuel ma, soprattutto, Antonio. A quel tempo studiavo composizione. «Musicavo» il Tasso (di cui sono innamorato) e Rinuccini, il Poliziano. Ma in questo particolare momento della sua vita qual è il livre de chevet di poesia?

Sto leggendo il Purgatorio, i primi tre canti. Sono stato a Ravenna invitato dal Maestro Azzuga, durante il recente festival musicale, e lì ho letto, sulla tomba di Dante, il terzo canto di questa seconda cantica. Leggo il Purgatorio per riposarmi, e mi riposa davvero quel senso continuo di alba, gli straordinari incontri con Casella, Manfredi. Si può leggere Dante a diversi livelli, certo ha tante chiavi di lettura… Bisogna conoscere le cognizioni scientifiche dell’epoca, la teologia, il sistema tolemaico. Ma puoi anche leggerlo soltanto come musica. E l’incontro con Dante come e quando è avvenuto?

Mio padre comprava la Divina Commedia in dispense, in edicola, nella edizione Nerbini di Firenze con le splendide illustrazioni di Doré. Dopo la rilessi a scuola, dove però me la rendevano odiosa perché volevano l’interpretazione, la versione in prosa. Ma come si fa a spiegare un verso come «L’alba vinceva l’ora

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mattutina»? Ognuno lo legge come può, io lo leggo come una musica, l’ho già detto. Nella mia poesia Dante è molto presente. Fin dai titoli: Il muro della terra, Il seme del piangere. Ci sono anche dei «plagi» che ho fatto a lui, ma pochi critici se ne sono accorti. Secondo lei, c’è poesia d’amore nel Purgatorio e dove?

In fondo, tutta la Divina Commedia non è che un lungo canto d’odio e d’amore. Dante ha raccontato l’amore e la passione nell’Inferno con il famoso episodio di Paolo e Francesca che poi è stato variamente utilizzato nella letteratura italiana dal Pellico al D’Annunzio. Dante è anche un riferimento indispensabile per la cultura del Novecento…

Certo, basti pensare a Eliot che lo conosceva molto bene e ha scritto The waste land, che poi tutti hanno tradotto La terra desolata. Io l’avrei tradotta La terra guasta perché a mio avviso Eliot si rifà a Dante quando scrive «In mezzo mar siede un paese guasto». È una ipotesi, si capisce. Per Dante il paese guasto è Creta, per Eliot, forse, questa nostra epoca di decadimento e corruzione: guasta, appunto. Ma come si fa a tradurre la poesia? Lo stesso Dante, nel Convivio, afferma con risolutezza la sua non traducibilità.

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131 UN UOMO LIBERO NELLA LETTERATURA

[Risposte a Paolo Mattei] Come vive, oggi, Giorgio Caproni. Quali sono le sue abitudini? Scrive e lavora ancora molto?

Vivo appartato per ragioni di salute, ma non davvero distaccato. Quanto al lavoro, non ho mai considerato lo scrivere un lavoro. Fumo (e non dovrei), leggo i miei classici, suono (mi sono comprato un piccolo armonium, non avendo più l’energia occorrente per il violino), mi diverto a comporre esercizi di contrappunto e fuga, a far piccoli lavori manuali, e posso dire di non conoscere la noia. Una grande spossatezza, dovuta ai miei anni e malanni, questo sì, che mi impedisce di veder gente e perfino di scriver lettere. Ma, del resto, ho sempre tenuto buona compagnia a me stesso, a differenza di tanti altri che invece hanno in orrore la solitudine. Sono insomma sempre stato più un uccel di bosco che di voliera. E che male c’è? Italo Calvino una volta ha scritto che lei è fondamentalmente «un poeta della città». Come le ricorda, in una veloce carrellata di sensazioni, le città più importanti (Livorno, Genova, Roma) della sua vita?

Non le ricordo: le vivo. Sono (o sono diventate, per me) luoghi mentali, e quindi niente «ricordi». Io non sono mai vissuto di ricordi, nemmeno ora che sono in là con gli anni. (Dire che un vecchio vive di ricordi è un luogo comune privo di fondamento). Anche nel «passato» continuo ad esserci dentro, come tempo ancora presente. Quel presente di continuo fuggitivo che è la vita. Quanto a Calvino, ha perfettamente ragione. Nato in città portuale e mercantile (Livorno), e formatomi in altra città portuale e mercantile (Genova), soltanto la città è il mio naturale habitat. Con Roma, però, ho sempre legato poco. L’ho sempre sentita città più medio-orientale che europea. Una città troppo bella artisticamente, pur se invivibile, perché uno possa pensare tranquillo ai fatti suoi, senza star sempre col naso in aria. Quasi tutti i critici si sono trovati concordi nel definire le sue liriche «popolari», «altamente comunicative», «semplici»: insomma «trasparenti» e al tempo stesso «composte e complesse». La poesia è dunque un patrimonio di tutti oppure un terreno sublime per pochi?

I critici sono sempre stati piuttosto generosi con me, a parte certi sommi, troppo legati al Novecento e quindi non preparati a «recepirmi». Ma non sta a me par-

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lare dei miei critici. Che poi la poesia sia un patrimonio di tutti (anche se questi tutti non sono mai stati moltissimi) non lo metto minimamente in dubbio, naturalmente purché si tratti di poesia capace di passer la rampe, e non destinata a restar chiusa nella provetta del laboratorio. La memoria è forse il patrimonio più caro al poeta. Col passare degli anni come è cambiato il suo rapporto col ricordo, privato e politico?

Son domande che capisco poco, comunque «col passar del tempo» vi sono stati certi mutamenti nelle mie idee e nel mio sentire, ma proprio non saprei dir quali. La nostra personalità muta di continuo nel corso della vita pur restando sempre la stessa. Lei è passato attraverso gli anni d’oro dell’Ermetismo rimanendo permeabile alle sue mode. Come ricorda quegli anni, quale sentimento nutriva per quei poeti così distanti dalla sua natura colloquiale e prosastica?

Dirò soltanto una cosa: Sbarbaro, Rebora, Betocchi, Ungaretti, Montale, Bertolucci, Luzi, Sereni e in parte anche Penna e Saba, sono sempre stati poeti per me carissimi, Ermetismo a parte, anche se i miei ascendenti vanno cercati più in Spagna che in Francia. Leggevo infatti in spagnolo i poeti spagnoli fin da ragazzo, quando me li portava dalla Spagna mio fratello, insieme con la rivista «Blanco y negro», sulla quale conobbi per la prima volta Azorín. Una delle immagini più ricorrenti nei suoi versi è quella del cacciatore a cui è strettamente legata l’altra della preda (fino al punto estremo della coincidenza). Ci vuole spiegare cosa «caccia» e di cosa è «preda» l’uomo-poeta Caproni?

Forse è vero. Nei miei versi «cacciatore» e «preda» giocano in ruoli di continuo reversibili, non essendo, in fondo, che un’unica figura. Quale sia l’oggetto della «caccia» e in che consista di preciso la «preda», non ha importanza saperlo. C’è una frontiera (i celebri «luoghi non giurisdizionali») alla quale la sua poesia accenna e allude da sempre: come lo vede, oggi, questo luogo del nulla, inesistente ma sempre conosciuto e visitato?

Ho già detto cento volte che sono un razionalista che pone limiti alla ragione. Nella sua continua ricerca (non importa di che) la ragione è sempre destinata a incontrare un muro («il muro della terra», appunto) o un «ultimo borgo», oltre il quale non può avere accesso: quelli che ho chiamato «i luoghi – per lei – non giurisdizionali». Questo, forse, perché l’uomo ragiona soltanto in quanto uomo: anzi, in forma di uomo. Ma com’è l’universo fuori dalla visione che lui ne ha? Valga un solo esempio elementare: l’uomo vede a colori. Ma è risaputo che «i colori» altro non sono che l’impressione, nei suoi occhi, di certe radiazioni esterne, diversamente tradotte o non recepite da altri animali. E allora, com’è

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realmente l’universo fuori della visione che ne abbiamo? Spingiamoci più in là di questa considerazione puramente fisica. E tutto il resto? Noi chiamiamo «nulla» ciò che non conosciamo: ciò che non possiamo conoscere. Ecco… «tutto»! S’è parlato di «teologia negativa» (Beccaria), di «religiosità laica» (Raboni) e di «ontologia negativa» (Calvino), ma anche di assenza di disperazione e rifiuto del nichilismo. A cosa crede dunque, lei che ha scritto d’un Dio «suicidato» che «non c’è ma non si vede»?

Non è stato Beccaria il primo a parlare di «teologia negativa». Chi sia stato, non lo ricordo. So soltanto che di tale formula si è abusato, e per giunta malissimo intesa dai più, se non addirittura interpretata a rovescio e del tutto orecchiata, magari fino ad attribuirne l’origine (è accaduto, a qualcuno, e di recente) a… Eugenio Montale! Mentre pochissimi si sono ricordati del mio «preticello deriso», che già nel 1961 pregava non perché Dio esiste, ma perché Dio esista. Un Dio, naturalmente, ben lontano da quel Dio di comodo che tutti i profittatori della terra si son confezionati per farsene sgabello. Comunque, e forse uscendo dai termini della domanda, mi lasci ribadire che quando mi si chiede «se credo in Dio o no», l’interlocutore mi spieghi prima chi o che cosa intende con la parola Dio, e che la mia «ateologia», meglio che «a-teo-logia» potrebbe significare (e qui rimando ancora al «preticello») «a-teologia». Ciò che è certo è che non credo a nessuna religione istituzionalizzata e a nessun Dio che se fino a un certo punto può essere valido in un sistema tolemaico, già non lo è più in quello copernicano. E non si continui a chiedermi se sono un ateo o un credente, definizioni che mi ripugnano anche perché l’una vale l’altra, in quanto i due atteggiamenti si identificano nell’eguale mancanza di prove che hanno entrambi, giacché se l’ateo «crede» alla non esistenza di Dio, è, in questo suo stesso piano, identico a chi ci crede. Lasciamo in pace entrambi. La faccenda dell’«assenza» è ben altra cosa, e non son io da tanto per illustrarla, tantomeno qui, in questa sede. Anche negli anni bui delle neoavanguardie lei ha continuato a parlare di sé – e a narrare il mondo – alludendo ai dolori dell’Uomo. Cosa le dava tanta fiducia nella poesia?

Non ho mai considerato «anni bui» quelli delle neoavanguardie. Penso anzi che siano stati utili e necessari, non fosse che come incitamento a non compiacersi troppo della propria trincea, e ad osar di oltrepassarla. Ciascuno, si capisce, sulla sua propria strada e con le proprie armi. Pasolini l’ha definita come «uno degli uomini più liberi del nostro tempo letterario». Le è costato molto questo primato?

Non so se sia un «primato». Comunque, non mi è costato nulla, perché non ho fatto altro che seguire la mia natura.

422 GIORGIO CAPRONI Nelle sue ultime poesie l’andamento si è fatto più secco, aforistico, epigrammatico. È il segno d’un pessimismo crescente? Un elogio dell’imperfezione e frammentarietà del reale nei cui confronti la distesa musicalità del passato finisce per apparire fittizia?

Niente – proprio niente – di tutto questo. La maggior asciuttezza metrica la attribuisco soltanto alla maggior asciuttezza delle mie idee, tutte ormai in termini di consuntivo. E quanto al «pessimismo», o «nichilismo», son parole che proprio non mi calzano. Tutto è destinato a perire. Il nostro pianeta, grazie alla nostra insensatezza, è già sulla via. Constatar questo non è né pessimismo né nichilismo, ma semplicemente realismo: stoicismo.

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132 SEMPRE SOLO

[Risposte a Paolo Alberto Valenti] Il destino dei poeti è sempre quello di una certa emarginazione?

Beh, l’indifferenza, se non l’avversione della società verso il poeta ha ormai antiche radici. Non possiamo certamente dire che Leopardi abbia avuto grandi soddisfazioni dai suoi contemporanei; però non vorrei generalizzare troppo. Lasciando pur andare il Monti, cui arrisero tutte le fortune, o il Carducci, o il Pascoli, o massimamente il D’Annunzio, riconoscimenti sia pur tardivi non sono mancati nel nostro secolo a Saba, a Ungaretti, a Montale. Riconoscimenti e, per Ungaretti e Montale, anche onori (l’Accademia d’Italia al primo, il Nobel al secondo). Ma oggi il poeta chi è?

Penso che il poeta oggi sia più o meno quello che è sempre stato. Né certo c’è da sperare che, in una società sempre più massicciamente massificata, egli possa occupare un posto centrale. Ma questo al poeta vero non interessa. Il tempo del poeta non è l’immediato presente. È semplicemente il tempo. Il poeta non è come il romanziere, un professionista che ha bisogno – anche per ragioni di mercato – dell’istantaneo successo. Tra le belle arti il primo posto spetta alla poesia; così scriveva Kant. Oggi secondo lei la parola poetica che funzione ha rispetto all’orgia di messaggi con la quale la tecnologia spesso squalifica molti aspetti e usi del linguaggio?

Non pongo gerarchie tra le «belle arti». Quanto alla funzione della parola poetica oggi penso che resti identica a quella di ieri e di sempre. Cambiano certamente le condizioni, e magari anche i mezzi, ma la funzione resta la stessa. Quando nacquero la fotografia e il cinema si disse che queste avrebbero ammazzato la pittura e il teatro. Sono invece e semplicemente apparse due nuove arti, di più immediato effetto, sì, ma anche di più facile usura, conviventi con le altre che hanno continuato a esistere, e dalle quali hanno tratto feconde esperienze. Formula, del resto, perfettamente reversibile, per quella sorta di mutualismo non davvero nuovo tra le varie arti. I linguisti sono concordi nell’affermare che la poesia è intraducibile così come sono intraducibili i sogni e i motti di spirito. Quanto c’è di vero in tutto questo?

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C’è una netta differenza fra il linguaggio di normale comunicazione e il linguaggio poetico anche se entrambi usano lo stesso codice e trasmettono gli stessi segnali. E questo perché, mentre nel linguaggio pratico il segnale grafico o acustico della parola resta stretto alla lettera e alla pura e semplice informazione, nel linguaggio poetico la parola stessa conserva sì il proprio senso letterale ma si carica anche di una serie pressoché infinita di significati «armonici» (e dico «armonici» usando il termine così come è usato nella fisica e nella musica) che ne formano la sua peculiare forza espressiva. Ricorro a un esempio molto grossolano. Ai miei tempi in caserma i segnali venivano trasmessi da una cornetta. La cornetta squillava il segnale del rancio e il marmittone, che conosceva il codice, prendeva la gavetta e andava alla distribuzione. Ma supponiamo che un estroso ufficiale di picchetto avesse fatto suonare quello stesso segnale, invece che dalla solita tromba, da un famoso flautista; il soldato sì avrebbe egualmente capito che quello era il segnale del rancio, ma avrebbe anche sentito qualcosa d’altro (il valore musicale di quel segnale), e sarebbe rimasto interdetto (incantato ad ascoltarlo), anziché precipitarsi subito a prendere la gamella. Un altro esempio più attinente. Prendiamo gli stupendi versi dei Sepolcri di Foscolo: «Felice te che il regno ampio dei venti, Ippolito, ai tuoi verdi anni correvi». Sul piano della normale comunicazione o informazione la frase dice poco: «Beato te che da giovane viaggiavi tanto», ma sul piano della poesia quale profonda e ineguagliabile musica! E quale forza espressiva1. Anche la presenza della rima con la sua funzione portante è fortemente espressiva (anche se la rima non è davvero obbligatoria) come per esempio nel I Canto dell’Inferno dove la sola rima basta a dar la chiave di quel canto: la «vita-smarrita» (insieme con la diritta via), la «paura-dura-scura» (insieme con la selva). Sì penso anch’io che la poesia sia almeno in assoluto, intraducibile. Non mi è ancora chiaro però chi sia realmente per lei il poeta…

Il poeta è un minatore che scava nel proprio io (in quelle che Antonio Machado chiama «las secretas galerías del alma») sino a raggiungere una tale profondità dove quel suo io è l’io di tutti e si trasforma in un noi. Fino a mettere a giorno in sé, voglio dire, quei nodi di luce che tutti gli uomini possiedono ma che non tutti sanno di possedere o riescono a individuare. Mi pare che sia stato Proust a dirlo: quando uno legge un poeta non fa che leggere se stesso. Allora la poesia è come una Bella addormentata che ha bisogno di un principe per essere svegliata?

Proprio così. Veniamo alla sua amata Genova: lei ha tradotto forse una delle più belle liriche che siano mai state scritte per una città, mi riferisco al Silenzio di Genova di André Frénaud. Cosa ha rappresentato per lei questa città e la scelta di questa traduzione?

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I maggiori laterizi per la costruzione delle mie metafore – a parte la parentesi del Seme del piangere dove di proposito torno alla Livorno della mia infanzia – me le ha fornite, se così si può dire, Genova: città dove mi sono formato (anzi, che mi ha formato), e che ancor oggi continua a essere la mia vera unica città, dal mare mercantile e portuale su, su fino ai monti e alle foreste dell’Alta Val Trebbia. Quanto al carissimo amico Frénaud la ragione prima che mi spinse a tradurre il suo bellissimo Silenzio di Genova (1961-62) fu la strana consonanza tra il finale di quel poème («Salivano, bontà chiassosa, fino in paradiso / fra gli ortaggi del convento, tra i fichi, / o ti portava la funicolare / verso la morte, di stagione in stagione?») con il mio Ascensore e, soprattutto, con le mie Stanze della funicolare, entrambi da me scritti più di dieci anni prima. Questo è stato il mio sogno o silenzio di Genova2.

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133 CON LE PAROLE SINO AL CUORE DELLA REALTÀ

[Risposte a Costantino Forti] Come poeta lei è stato coinvolto solo marginalmente dall’Ermetismo. Gli ermetici, ispirandosi a Mallarmè e Rimbaud, erano educati alla bellezza della parola. Lei sembra usare la parola in modo sintetico, per dei significati più profondi, e usa scrivere i versi a rime baciate e alternate. Perché questo collegamento con la nostra poesia tradizionale?

Non ho mai creduto al cosiddetto Ermetismo come scuola o tendenza. Sotto tale etichetta alcuni critici troppo frettolosi hanno posto poeti molto dissimili fra loro, come, per esempio, Sereni e Luzi. Due poeti che ho sempre amato e ammirato fin dal loro primo apparire. Quanto all’uso della rima, non è una mia prerogativa. Anche Saba e Montale, Gatto e tanti altri l’hanno usata. La rima per me ha una funzione portante, come in architettura le due colonne che sostengono l’arco, o, in musica, le consonanze e le dissonanze. Veda Dante, I Canto dell’Inferno: la rima le dà già la chiave di tale intero canto: la via (la vita) smarrita; la selva (la paura) dura, oscura. Perché poi ogni poeta non debba collegarsi con la tradizione, pur modernissimo nei suoi risultati, non lo capisco. I suoi modelli; nella poesia giovanile, sono stati inizialmente i poeti siciliani e toscani del Duecento. Successivamente si è ispirato al Carducci, ma già nel 1946 perveniva al concetto della «ricerca» della parola, asserendo che il linguaggio abbellisce, ma annienta la realtà. Lei, che non è un antirealista, avverte il tormento nei limiti della parola, per raggiungere la pienezza del vero?

Fin da ragazzo mi piacevano molto i cosiddetti «poeti delle origini» (i Siciliani e i Toscani), che leggevo in un’antologia di mio padre. Poi, di proposito, e come antidoto a una mia infatuazione per certi surrealisti, scelsi il Carducci macchiaiolo dell’Estate di San Martino. Presto conobbi anche i maggiori poeti spagnoli (a cominciare dai due Machado), che mio fratello Pier Francesco mi portava dai suoi frequenti viaggi nella penisola iberica. Quanto all’uso della parola, è sempre stato un mio rovello l’imprendibilità del reale, tramite, appunto, la parola. Il nome vanifica la cosa – ho sempre pensato fin dagli esordi – e ho cercato di spiegarlo poi («Fiera letteraria», 1946 e 1947), in tre brevi articoletti, anticipando a lume di naso, e di vari decenni, certe teorie oggi di pubblico dominio. Non dimentichi i titoli delle mie prime plaquettes: Come un’allegoria e, tanti anni prima di Borges, Finzioni: quasi a significare che del reale (se davvero esiste) si può cogliere al massimo una sua proiezione, da non interpretarsi come «conoscenza assoluta».

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In proposito, lei ha precisato che «vorrebbe giungere, nella poesia, al pensiero puro, senza la contaminazione della parola». L’espressione è da considerarsi meramente metafisica, quasi un moto dell’anima, o corrisponde ad un’aspirazione e ad una comparazione, come nei riguardi della musica?

Ho semplicemente detto che, con la poesia, vorrei giungere al pensiero puro, senza la contaminazione della parola, riferendomi al Molto Adagio del famoso Quartetto in La minore di Beethoven, opera 132. Ma il poeta, ahimé, non può rinunziare alla parola, della quale è schiavo. Lo stesso Ungaretti non ha forse scritto: «Ho fatto a pezzi cuore e mente per cadere in servitù di parola» [La pietà, Il sentimento del tempo]? Lei, in poesia, è stato accostato a filosofi come Schopenhauer e Kierkegaard, per il suo razionalismo e la sua visione estremamente amara e disincantata della vita. La sua è sfiducia nell’esistenza, nella creazione o semplicemente nel comportamento dell’uomo?

Sono stato il primo a fare i nomi di Kierkegaard e Schopenhauer, a proposito delle mie prime letture. Perché li leggiucchiavo fin da ragazzo nella piccola biblioteca paterna, accanto a Darwin, Dante e… Giulio Verne! I critici, poi, si sono impossessati di tale mia confidenza, e ne hanno tratto le loro conclusioni. Non voglio con questo negare che qualche traccia di tali letture sia rimasta in me: di Kierkegaard soprattutto. Comunque, non trovo affatto «estremamente amara e disincantata» la mia visione della vita, e tantomeno credo a una mia «sfiducia nell’esistenza». «Nel comportamento dell’uomo» può darsi. Anzi, io sono uno dei pochissimi che, di fronte alla solita sciocca domanda: «Ricominceresti da capo al tua vita?», risponderebbe risolutamente «Sì, perché la cosiddetta vita è un’avventura unica, e val sempre la pena di viverla, anche quando, come nel suo caso, sono state più le sofferenze che le gioie». E se mi si obiettasse ancora: «Ma correggendo gli errori?», sarei pronto a rispondere: «Eh, no: proprio no; perché allora diventerebbe un’altra vita: un gioco troppo facile». Lei tratta il tema dell’incomunicabilità e della solitudine umana. Ma tenta anche di esorcizzare il senso di morte. Quindi esiste in lei la speranza. L’uomo potrà superare i suoi travagli e, attraverso una cultura interiore, giungere ad un comportamento migliore con i suoi simili?

Ho già detto e ripetuto che sono, fondamentalmente, uno stoico, e che, come tale, la mia «disperazione è calma, senza sgomento», per usare le parole del mio Viaggiatore cerimonioso. Ma, a proposito di disperazione, legga l’Inserto 1 che si trova nel mio Franco cacciatore. Quanto alla morte, mi permetta di risponderle con una battuta, nemmeno troppo spiritosa: «Non la temo perché non soffro d’insonnia, e quindi potrò, grazie a Dio, dormire tranquillamente il mio sonno eterno». In lei hanno valore i sentimenti migliori, quelli che la vita ha mortificato. In una sua poesia, Laudetta, tratta dal Conte di Kevenhüller, lei quasi inneggia alla pace domestica, alla sere-

428 GIORGIO CAPRONI nità della dedizione e all’impegno quotidiano di una donna, alla sua certezza di convinzioni e di giustizia, dichiarando che «Ha costruito una casa / e l’ha confortata. / Giorno / per giorno. / Stanza / per stanza. / Ha detto / la sola giusta parola, / e nessun’altra». Come poeta s’interroga: «Per lei, / e solo grazie a lei, esiste / dunque uno spiraglio ancora / di qua d’ogni inerte speranza?». Quindi lei sembra essere uno scettico, un disamorato, che vorrebbe vivere in un mondo diverso. È esatta questa impressione?

Ho sempre avuto fortissimo il senso della famiglia. Oggi, purtroppo, questo senso s’è perso. Dopo la mia generazione, gli uomini (gli individui singoli) sono stati risucchiati dalla massificazione e, avendo perso un proprio io «singolo» (ecco Kierkegaard!), non riescono a restar soli un attimo con se stessi. Vuoti come sono, hanno sempre bisogno di stare in compagnia di altri: di farsi, come dire, una platea pronta a dar loro le soddisfazioni che da soli non riescono a trovare. Aggiungerò, per concludere, che in tutti i miei versi i sentimenti predominano sulla ragione e, se una cosa oggi m’impressiona più nei giovani, è il non averli mai visti piangere, se non in circostanze estremamente gravi (e sempre per breve tempo). Il che – non lo nego – potrebbe anche essere il segno di una maggiore fortezza d’animo.

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134 SONO UN MUSICISTA MANCATO CHE ADESSO FA IL PAROLIERE

I miei studi cominciarono nel campo della musica, voglio dire i miei studi regolari, perché per tutto il resto sono un irregolare, e quando mi accorsi che verso la musica avevo una vera vocazione allora l’abbandonai e continuai a fare il «paroliere». Penso però che la vera forma d’arte, di vero pensiero, sia la musica soltanto, la musica per me è la suprema espressione di pensiero, il pensiero senza la contaminazione della parola, pensiero puro. Io vorrei potermi esprimere così e invidio Petrassi non solo per il suo genio, ma anche per la forma del suo genio, che è quella assunta nel campo della musica. La musica va oltre la parola. Questo lo diceva pure Salvatore Pugliatti. Sono quindi un musicista mancato che fa il «paroliere». Conobbi Pugliatti per intervento di Giacomo Debenedetti, mio carissimo amico, che m’invitò al premio «Vann’Antò», di cui Pugliatti era il presidente. E si stabilì subito fra noi una reciproca simpatia proprio in base alle comuni aspirazioni musicali perché anche Pugliatti, in un certo senso, era un musicista mancato, aveva studiato violino anche lui, come me. Parlavamo molto di musica insieme, in termini tecnici, per darci un po’ delle arie di fronte ai letterati i quali, come in genere accade in Italia, sono semianalfabeti in fatto di musica. Difficilmente un letterato riesce a leggere o a sillabare una partitura. Era un vero umanista Pugliatti perché la sua cultura spaziava dallo specifico campo del diritto fino alla musica, alla pittura, all’arte in genere, il che non è poco. Lui amava, naturalmente, molto la poesia di Quasimodo (questo, si capisce, anche per ragioni territoriali; erano amici dall’infanzia, di Vann’Antò, che è un grande poeta in dialetto siciliano), meno Montale e gli altri e, di qui, fra noi, grandi discussioni. Facevamo lunghissime discussioni musicali, le solite discussioni inutili, fra Puccini, supponiamo, e Mascagni e fra Beethoven e Mozart, che è di rito tra i letterati, i quali, naturalmente, preferiscono tutti parlare di Mozart e meno di Beethoven.

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135 IL MIO «CARISSIMO PINOCCHIO»

[Risposte a Emilia Folcarelli] Penso a Collodi come a uno dei più grandi scrittori della mia generazione: il suo Pinocchio fu la mia primissima lettura, una grande invenzione letteraria… come L’isola del tesoro di Stevenson, un libro scritto quasi per scherzo e diventato invece un capolavoro. Ho ancora vivissima in mente un’esperienza avuta nel ’73 con i bambini della scuola elementare: chiesi loro di disegnare il Pinocchio e tutti riportarono con la matita il disegno di Walt Disney. I mass media avevano infranto un sogno reale, l’immagine televisiva aveva paralizzato l’immaginazione dei ragazzi e la grandezza stessa del romanzo, delle vicende, della particolare chiave linguistica. Da bambino non ero ricco e leggevo un libricino a cui tenevo moltissimo, un «Pinocchietto» povero e senza illustrazioni ma io avevo l’immaginazione, vera, forte, che la lettura mi aveva suscitato e stimolato. È stato questo uno dei grandi talenti di Carlo Lorenzini, la capacità di far volare la fantasia, di far presa immediata sull’immaginazione dei bambini. Un grande libro certo, il capolavoro di un poeta; è mia opinione che il più grande poeta di questo mondo sia principalmente un romanziere. La poesia non può essere una professione, non capita spesso che un grande poeta crei qualcosa di mirabile. Io mi definisco uno scrittore in versi a cui, qualche volta, «scappa la poesia», e così è successo anche a Collodi. Non è un caso che anche all’interno di mondi e di culture assolutamente diverse dalle nostre, come in Cina o in Giappone, Pinocchio abbia avuto un grande successo non legandosi mai, freddamente, al panorama culturale e sociale italiano pur essendo Collodi toscano fino al midollo.

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136 QUEL VOLTO DI POETA TAGLIENTE E AFFABILE

[Risposte ad Aldo Santini] A Caproni sono debitore di un premio che fortunatamente non era in denaro e perciò non aveva scatenato l’appetito degli autori da corsa: il Premio Chiavari di cui era presidente. Mi fu assegnato per un libretto contro i «delitti» della cucina toscana, un’invettiva toscanissima, anzi livornese. «Volevo conoscerti» mi disse. «Livorno è la mia città ma l’ho lasciata presto e mi è rimasta nel cuore». Il suo sguardo, di regola diffidente, scontroso, si velò di malinconia. «Dammi del tu» ripeteva. Non ci riuscii. Ero troppo intimidito. Riuscii invece a fargli raccontare del suo amore per Livorno.

Abbandonai presto la tua città che è la mia, anche se io mi sento più genovese. Avevo dieci anni. Mio padre, Attilio, che lavorava nell’amministrazione del Teatro Avvalorati, e suonava il violino, e conosceva bene Mascagni, accettò un’offerta trasferendosi a Genova. Si impiegò nell’industria del pesce di Cardini. Era il 1922. Livorno ha segnato la mia infanzia per la morte precoce di mia madre, Anna Picchi. Alla madre scomparsa giovanissima, Caproni ha dedicato i suoi versi più limpidi. E quei versi, che fanno parte della raccolta Il Seme del piangere ci danno l’immagine di una Livorno ariosa e popolare, ventilata, che odora di barche, di porto, di cocomeri, di acetilene, di salsedine. Di questo Seme del piangere, Caproni mi raccontò tutte le perizie, a morsi e bocconi, nei due giorni che restammo a Chiavari, a tavola e sulla passeggiata a mare.

Pubblicai due poesiole marginali sul «Raccoglitore» di Parma. Giuseppe De Robertis mi scrisse di mandargli «tutto il libro». Il libro non c’era e glielo dissi. Poi ne feci altre tre o quattro. In seguito la Mondadori bandì un premio per autori anonimi, in palio c’era la pubblicazione. Io mandai quelle poche cose ma Alfonso Gatto, che era in giuria, saltò su a strillare «Questo è Caproni, è chiaro che non si può premiare!». In realtà voleva far vincere il suo amico Gaetano Arcangeli. E invece vinse, sembra per uno sbaglio, Siro Angeli. Comunque Mondadori mi chiese ugualmente il libro, e io dissi che non ce lo avevo ancora. Presi un po’ di tempo. Poi venne da me Bertolucci a insistere perché dessi il libro a Garzanti, che aveva una nuova collana inaugurata da Penna e Pasolini. Mi convinse. Così fu Garzanti a chiedermi il libro, e finalmente lo scrissi tutto… Il Seme del piangere fu pubblicato nel 1959. E ricevette il premio Viareggio che Caproni aveva già vinto nel 1952 con la raccolta Stanze della funicolare edita a Roma. Qui entra in scena Giacomo Debenedetti, il critico letterario più acuto di quell’epoca, suo caro amico ed estimatore, che faceva parte della giuria.

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Ed ecco che Giacomo, mentr’io ero ancora ignaro del fatto, mi telefona per annunciarmi la vittoria, ma anche per esortarmi a ritirarmi. «E perché, se non ho nemmeno concorso? Il mio libro non è mai apparso in nessunissima rosa. Non datemelo, il premio, e tutto è fatto». «È impossibile non dartelo, perché hai l’unanimità. Perciò rifiutalo. Appunto perché non hai concorso, il tuo rifiuto dev’essere accettato». Non mi capacitavo. Proprio a proposito del Seme, su tanto di carta intestata Facoltà di Lettere e Filosofia dell’università romana, Giacomo mi aveva scritto una lettera che conservo nel mio più geloso scrigno e che ti riassumo a braccia. «Carissimo Giorgio, grazie del libro. Dopo quello di Penna, cronologicamente parlando, in questi anni è il più grande avvenimento della poesia italiana. Vorrei tanto vederti, eccetera eccetera, dirti l’ammirazione affettuosissima… Anche l’uomo Caproni mi sembra eccezionale per il pudore della tenerezza, negli affetti, nel dolore… Ti abbraccio e auguro al tuo libro la fortuna che merita. E anche se ne avesse un po’ meno del giusto sarebbe già grande…». È tutto chiaro? No, non mi capacitavo. Soltanto a Viareggio seppi che Giacomo si era impuntato sul nome di Villaroel. Forse, pensai, per ragioni puramente umane, a me ignote, non potendo credere che stimasse proprio Villaroel come poeta. Comunque non gliene volli per questo, e nemmeno per il “Premio speciale per la Poesia” che era riuscito a far istituire in favore di Villaroel. Premio che veniva a porre, appunto perché speciale, Villaroel al di sopra di me». Giacomo, nonostante la trovata o scappatoia che venne a salvare… caproni e cavoli, mi tenne un po’ il broncio durante la cerimonia, ma presto tornò ad essere, verso di me, l’amico «ammirato» che si diceva. Ammirato, anche se io direi piuttosto generosissimo, e non soltanto di lodi immeritate, ma di concreti aiuti, sapendomi in bisogno, come l’incarico che mi diede di tradurgli l’intero teatro di Genet, un’impresa da far accapponare la pelle, e che rifiutai recisamente dopo la terribile esperienza con Céline, mentre lui non volle intender ragioni e mi costrinse, pena la perdita dell’amicizia, ad accettare. Questo mi consente di presentarvi un Caproni poco noto. Il Caproni traduttore che affronta Céline e Cendrars, Genet e Apollinaire, Proust, Maupassant.

Il più difficile è stato Céline con la Morte a credito. Due anni di lavoro. Céline scrive in argot. Una fatica terribile. Bisognava prima tradurre in francese. Oltretutto è pieno di doppi sensi. Ho scoperto che molto del suo argot è imparentato con le forme dialettali italiane della costa tirrenica. «Nibergue», ad esempio, è il «Nisba» livornese. «Me la presti la bicicletta?», si diceva a Livorno. «Nisba» ti rispondevano. Cioè, no. Piuttosto lo chiedo a te che sei rimasto con un piede a Livorno. Si usano ancora parole ed espressioni come «nisba», «becolino», «ti sei detto steccolo», «togo»? «Niente “togo”», gli risposi. «Niente steccolo. Semmai dicono ancora “ti sei detto una cea”…». Poi, rientrato da Chiavari mi andai a leggere Morte a credito e anche La mano mozza di

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Cendrars tradotti da Caproni per Garzanti. E gustai delle prose stupende, rigorose, mai una frase sciatta come troviamo in tante versione curate da editori illustri. Anche nel suo Céline, il nostro poeta fa sentire la propria origine livornese. Come quando definisce «troiona» la portinaia, la vecchia signora Bèrenge che aveva un cane strabico. La «troiona» riporta Caproni alle scritte vergate sui muri di Livorno.

Ero in viaggio di nozze. Mi fermai a Livorno perché Rina, mia moglie, conoscesse la mia città. E lei rimase colpita dall’affetto che i livornesi esternavano per la madre altrui, sui muri, a lettere cubitali. Si stupiva perché la delicatezza d’animo dei livornesi faceva a pugni con la loro violenza verbale, la loro ostentata ignoranza. Sui muri c’era scritto: Tu mà buona. E io lo feci sogghignare divertito raccontandogli di una recente scritta livornese. «L’hanno tracciata a caratteri da manifesto sull’abside esterno della chiesa del Soccorso, in piazza Magenta: “Se il lavoro è salute / meglio la tubercolosi”». Sappiamo di Caproni violinista.

Da ragazzo volevo diventare compositore. Studiai musica. Ma non avevo i soldi per il conservatorio. Frequentai un istituto musicale di Genova. Il mio maestro m’incoraggiò prestandomi un bellissimo violino. Ormai ero un giovanotto. Studiavo di giorno e la notte suonavo nell’orchestrina di una balera. Le canzoni in voga erano Noi siamo come le lucciole, Adagio Biagio. Suonavo anche nello opere. Violino di prima fila. Tutti dicevano che avevo un brillante avvenire. Ma una sera, chiamato a sostituire il primo violino in un a solo nella Thaïs di Massenet, me la cavai abbastanza bene, però ebbi un’emozione tale che capii di non essere tagliato per quella professione. E l’abbandonai. E dopo? Ecco Caproni impiegato presso un avvocato in via XX Settembre. Dalla sua biblioteca tirò giù un libretto, Allegria di naufragi di Ungaretti, editore Vallecchi 1919. Lo lesse. Lo rilesse. Lo imparò a mente. Quelle poesie gli dettero la scossa. Lo indussero a scrivere i suoi primi versi. Si scoprì poeta. E nel 1932 debuttò con Marzo.

Io ho iniziato scrivendo versi senza alcuna intenzione e lasciandoli là, esattamente come coi disegni di Pinocchio che, da ragazzo, facevo da me. Cominciai durante il fascismo. Mi misi a fare l’avanguardista, il surrealista. Poi tornai a studiare Carducci, il Carducci macchiaiolo. Solo dopo ebbi contatto con Rebora, Montale e poi Saba, e Sereni. Ma per fare poesia bisogna aver vissuto e sofferto. Di poesia non si vive. Ecco allora Caproni maestro elementare.

Detti gli esami da privatista. Presiedeva la commissione Ugo Spirito che mi lodò pubblicamente per il tema sul Pascoli. Agli orali, però, litigai con un professore che interrogandomi su Leopardi voleva che in una parola dicessi cosa aveva di particolare al sua poesia. Non capii bene la domanda e non risposi. «Ma è il pessimismo!» gridò. Non seppi star zitto e replicai che la storia del pessimismo

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di Leopardi era un luogo comune e che nessuno più del Leopardi aveva amato la vita. Per fortuna venni promosso ugualmente. Al maestro Giorgio Caproni danni una scuola in Val Trebbia. Qui matura la sua poesia. Qui trova moglie, la sua Rita. Qui, dopo il lungo servizio militare, combatte la guerra partigiana che gli ispira i primi racconti e le prima poesie italiane sulla Resistenza.

Niente eroismi, per carità. Ma un’azione buona l’ho compiuta. Fui chiamato come esperto al processo di una vecchia signora arrestata perché sulla facciate della sua villa c’era una scritta inneggiante a Mussolini. Questa era l’accusa. Chiesi di voler vedere l’iscrizione. Il tribunale partigiano andò per il sopralluogo, c’ero anche io, è ovvio. E lessi: «Labore duce, fortuna comite». Pazientemente spigai ai partigiani che quella frase, in latino significava «Con il lavoro come guida e la fortuna compagna»… Spero che mi abbiano creduto. Con Caproni parlai dei poeti che aveva conosciuto, soprattutto di quelli della generazione precedente. Di Montale, di Saba, di Ungaretti.

Mi presentarono a Cardarelli, in via veneto. Sedeva al suo tavolo del caffè Strega, con l’eterno postrano che non si toglieva nemmeno d’estate. Io ero un pivello. Venivo da Genova. Cardarelli alzò un dito e disse: «Perfino la Liguria ha dei poeti!». La frecciata non era per me, s’intende: era per Montale. I poeti di quella generazione non si amavano. Non perdevano occasione per dir male uno dell’altro. Allorché Quasimodo vinse il Nobel, Montale e Ungaretti sputarono veleno e misero il lutto. Noi, invece, che un tempo eravamo definiti della seconda generazione, Sereni, Luzi, Bertolucci, Pasolini, Gatto, io, siamo stati e siamo tuttora molto amici. Ci siamo stimati e ci stimiamo. Io, però, ho continuato a fare il maestro elementare, stabilendomi a Roma, nel quartiere di Montevergine, dietro Trastevere. Insegnare gli piaceva molto. Mi disse:

La mia scuola di Montevergine, dove leggevo, commentavo e facevo commentare poesie di antichi e di moderni, era frequentata anche dai trovatelli. Quei poveri ragazzi venivano messi tre o quattro per classe, e indossavano un grembiule nero, mentre tutti gli altri lo avevano blu. Io andai dal direttore e gli chiesi di prenderli tutti io, i trovatelli, in una classe di studi differenziati a seconda dell’età. Era un esperimento. Il direttore non voleva, poi si arrese. E quella classe di grembiuli neri divenne eccezionale. Per i miei trovatelli io ero un padre, un fratello maggiore. Si confidavano con me. Mi adoravano. La mia considerazione li spingeva ad approdare per poter essere qualcuno, nel futuro. Mi seguivano nello studio come mai un insegnante è stato seguito. Capisci, ora, perché ho fatto sempre il maestro elementare?

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Questo era Giorgio Caproni, scomparso a 78 anni. Diceva: «Dio non c’è / ma non si vede. / non è una battuta: è / una professione di fede». Arcigno e imperturbabile come Buster Keaton, era, ed è, un poeta di dura tenerezza.

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137 POESIA OLTRE LA RAGIONE

[Risposte a Mario Stefani] Perché la poesia è solo uno strumento di conoscenza per pochi?

Perché poca è la poesia e pochi sono gli uomini di buona volontà. Lei definisce la poesia uno strumento di conoscenza. Anche il mio accendino. Non consideriamo la poesia come l’unico pennone di sostegno della tenda del circo. D’altra parte, almeno in epoca moderna, quando mai la poesia è stata un genere di largo consumo? I più, poi, se la fanno da sé in casa, come una volta le tagliatelle, perché comprarne? Perché leggere? Nulla di male se tali tagliatelle fossero buone tagliatelle e non scipite filagne, per giunta costosamente impacchettate (non mancano generosi editori che si contentano di quattro o cinque milioncini per due o trecento copie), e gratuitamente, cioè senza alcuna richiesta, spedite a chi, di tali filagne, ha già pieni gli scaffali. La ricerca di una verità universale nel nostro tempo, potrebbe essere meno disperata e forse meno inutile se si amasse di più la poesia?

Prima dovrebbe spiegarmi che cosa intende per «verità universale». In assoluto, non credo possibile una «verità universale» valida una volta per tutte, e per tutti. Ogni epoca ha avuto una sua centralità (non soltanto di pensiero), in contrasto però con quella dell’epoca precedente. Ciò che era Bene nel mondo classico, tanto per fare un solo esempio, spesso poteva diventare Male in quello cristiano. Il mondo d’oggi, è risaputo, manca di una sua centralità. C’è chi dice per fortuna, e chi per sfortuna. Comunque, sì, «la ricerca di una verità universale, nel nostro tempo, potrebbe essere meno disperata e forse meno inutile se si amasse di più la poesia». Ma è anche vero che si amerebbe di più la poesia se tale ricerca, sempre nel nostro tempo, fosse meno disperata e inutile. Una volta forse c’era più equilibrio e rapporto armonico fra poesia e vita, eppure non mancavano nemmeno allora la violenza e la stupidità. Perché ora nel nostro tempo tale rapporto si è andato snaturando? È solo colpa dei mass-media?

La poesia (come del resto l’arte in genere), nemmeno nei momenti di maggior fioritura, ha mai fermato, o soltanto diminuito, la violenza e la stupidità. I massmedia hanno colpe enormi, certo; ma soltanto perché mal manovrati (o troppo ben manovrati) da un Potere a trasformare le persone in semplici consumatori. (Anche questo è risaputo).

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Accusano spesso i poeti di egoismo (di difendere cioè solo le proprie creature letterarie) e di vendersi ai potenti del momento, come i cortigiani colti delle corti cinquecentesche. Secondo lei, esiste una possibilità per il poeta di esser vivo comunque senza prostituirsi alle forze predominanti della società e alle mode?

Sono accuse, penso, piuttosto beffarde. Che ogni poeta covi un Narciso, non v’è dubbio. Ed è anche giusto. Chi non cova un Narciso, qualunque sia l’indirizzo della propria «vocazione». Forse oggi la stortura sta nel mirare più al successo che non – come dicevano gli antichi – alla Gloria. Quanto al vendersi ai potenti, non so proprio che se ne farebbe, il Potente, del poeta. Ben altri ortaggi più richiesti «dalle masse», e quindi per lui più proficui, gli offre oggi il mercato. Alla sua età scrivere è ancora un piacere e ricerca di una verità. Forse la parola ha più peso della stessa realtà, cioè crede ancora nella sua forza, nella sua sacralità, come vi credevano i simbolisti come George, o poeti come Baudelaire?

Non mi crederà, ma verso la parola mi son sempre tenuto in posizione di guardia. Il nome vanifica la cosa: crea un’altra cosa, diversa da quella nominata. (Chissà che un mio remoto avo non abbia bazzicato la scuola di Roscellino & Co.). La parola distrugge l’oggetto per crearne un altro: la parola stessa. In questo la dannazione – e l’esaltazione – del linguaggio poetico. Già lo dicevo (lo scrivevo) quarant’anni fa, senza aspettare il suggerimento di nessuno. A orecchio. Mi domanderà allora perché scrivo. E allora le confesso che me lo domando anch’io. Qualcuno (o qualcosa) di cui ignoro la natura e l’identità, mi spinge irresistibilmente a farlo. Certo, preferirei scrivere sul pentagramma. La musica, per me, è pensiero puro, senza la contaminazione della parola. Ma purtroppo dovetti lasciare in tronco gli studi d’armonia e di composizione. Pare ormai che il passato irrazionale si riproponga come una violenta mareggiata ricorrente. È possibile tentare con la cultura di minimizzare tale impatto negativo e oscurantista?

Io sono un razionalista che però pone dei limiti alla ragione. L’ho detto tante volte, e mi si perdoni se lo ripeto. La ragione è sempre destinata, nella sua ricerca, a trovare un muro, un ultimo borgo oltre il quale sono i luoghi per lei non giurisdizionali: quelli cui non può avere accesso. Nessuno – scienziato o filosofo o teologo o chi altro volete – è mai riuscito, per esempio, a spiegarmi perché sono nato proprio il 7 gennaio del 1912 e non – faccio per dire – il 27 ottobre del 1345, cioè appena in tempo per morire di peste nera, ancora impubere. Io che invece oggi ho già doppiato i settantacinque. Non sono quindi un nemico assoluto dell’irrazionale, anche perché è stato il razionalismo più scientifico a portar l’uomo a Hiroshima (o a Chernobyl, se vogliamo un paesaggio più sorridente) così come è stato l’irrazionalismo a portarci ai campi di sterminio nazisti, anche se non sempre Made in Germany. La cultura deve combattere ogni oscurantismo, come no. Ma andiamoci piano con le drastiche distinzio-

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ni. C’è irrazionalismo e irrazionalismo, come c’è razionalismo e razionalismo. Tutto dipende dall’uso, come si dice di certi prodotti chimici, che possono riuscir veleni o medicamenti. Lei è un poeta amato da molti. Quale consiglio darebbe come chiave di lettura ai suoi nuovi lettori?

Di non usare chiavi. Un poeta va sempre letto con maggior abbandono possibile. E sempre, si capisce, in profondità, senza limitarsi a una sola lettura, come si può invece fare per la narrativa. Qual è la differenza di conoscenza della poesia del nostro secolo con quella dei precedenti?

Non vedo «differenze di conoscenza». Di modi, di forme, sì. Ogni epoca ha il suo stile, il suo «colore», in quanto espressione di se stessa. Ma il fine è sempre il medesimo. E questo anche in campo di lettura. Il Cavalcanti, poniamo, dei suoi contemporanei, non è il Cavalcanti di noi d’oggi. Il medesimo poeta è visto, o per dir meglio sentito, in maniera diversa di secolo in secolo. (Si pensi a Dante nel Seicento). Sta preparando qualche nuova opera?

Non ho mai preparato opere. Mi sono sempre limitato a scrivere, e le opere sono sempre uscite fuori da sé, anche se mai progettate. Progettate, intendo, a mente lucida. Il poeta, del resto, non è sempre consapevole di quello che mette sulla carta. Una volta scriveva sotto la dettatura dell’Ispirazione, o della Musa. Con la morte di tali Dee, forse oggi scrive sotto la dettatura dell’inconscio. La poesia non è sogno, è vero. Ma penso che al pari del sogno non la si possa programmare. Forse, ripeto, a progettare, oggi come oggi, è il subconscio, e ogni volta che il poeta scrive una poesia obbedisce, senza rendersene conto, a tale progetto da lui ignorato. Altrimenti non si spiegherebbe come, alla fine, potrebbe uscire – anziché la solita raccolta di versi – il libro: l’opera, appunto. Quindi non so rispondere alla sua domanda che con un semplice «può darsi».

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138 LA POESIA, L’UNICA PAROLA

[Risposte a Luigi Amendola] Per ricordare Giorgio Caproni, vorrei riportare alcune battute significative raccolte in due brevi incontri avuti con il poeta (estate ’87 e autunno ’88). Proprio in quelle occasioni ho avuto chiara la consapevolezza del suo temperamento schietto e controcorrente, della sua visione attenta sulla letteratura, i media, i giovani, tanto da riceverne anche la netta sensazione di toccare con mano la poesia. Ed è giusto questa sensazione niente affatto convenzionale che vorrei tentare di offrire. Poiché il fascino della figura di Caproni sembra risiedere proprio in una sua particolarissima singolarità caratteriale, perfettamente specchiata nella forma estetica, «fine e popolare» allo stesso tempo come la sua rima, percepibile anche da una conversazione occasionale: signorile, inquieta, riservata, ma soprattutto radicata in una grande coscienza di sé e delle capacità artigianali della parola, fino allo sdegno e all’insofferenza per ogni vacua approssimazione. «De la musique avant toute chose» consigliava Verlaine a chi si cimentava in poesia. È ancora valido questo monito?

Per quello che mi riguarda, mi considero più un musicista che un poeta. È naturale che scrivendo abbia sempre cercato la musicalità, il passaggio dalla melodia all’armonia; non a caso Giovanni Raboni ha scritto che «La poesia di Caproni non è musicale: è, essa stessa, musica»1, volendo sottolineare come l’approccio della poesia da parte di un musicista sia necessariamente diverso da quello di un letterato puro. Non dimentichiamo che alle origini della poesia troviamo il canto, i primi componimenti lirici erano cantabili; per non parlare dei poemi di Omero… Questa caratteristica determina, o può determinare, una preponderanza del ritmo e della struttura nei confronti dei contenuti, dunque una minore leggibilità, un limite intrinseco della poesia nei confronti di un pubblico più vasto?

Non necessariamente. Certo la poesia è per l’élite, non è un prodotto di consumo; al gusto estetico bisogna esser educati, anche se non possiamo escludere che in futuro un numero sempre maggiore di persone lo sia. Ma la poesia non è un bene industriale, né può esser un lenimento per le sofferenze collettive; la demagogia pedagogica non rientra nei fini della poesia. Oggi si assiste ad un gran profluvio di versi, si scrive e si stampa moltissimo, la mia casa è invasa dall’arrivo continuo di plaquettes, di libri, antologie e riviste, ma i veri poeti sono pochi. Bisogna dire ai giovani di lavorare, lavorare e lavorare prima di ambire ad essere riconosciuti come poeti, il tempo farà il resto.

440 GIORGIO CAPRONI Lei crede che la scarsa incidenza di mercato da parte della poesia sia anche dovuta al suo «esclusivismo»?

Non è vero che la poesia non si venda. In Francia ho ricevuto il premio per il libro tradotto più venduto; ho incontrato René Char, poco prima che morisse, il quale mi ha detto di aver venduto al massimo ottocento copie delle sue poesie. Ma le mie opere complete sono arrivate alla terza edizione, quarantaduemila copie, Il franco cacciatore alla seconda edizione. Certo, il paragone con la letteratura di consumo non si può fare, parliamo di altri numeri e altre tirature, ma chi crede che la poesia sia l’unica parola, la vera voce del profondo, continua a comprare versi. Io, del resto, ricevo lettere dalla gente più disparata; i miei lettori sono preti, casalinghe, operai, carcerati, sindacalisti, commercianti, non necessariamente intellettuali e letterati. Questo può essere significativo del fatto che esiste un vero e proprio pubblico della poesia. Vero è che, nella società «dell’immagine», la poesia patisce non poco il confronto…

Diciamo chiaramente che lo spettacolo ha soppresso la lettura. Io sono cresciuto sulle pagine di Guido da Verona e tra le vicende di Demetrio Pianelli; un tempo leggere era un’attività ludica com’è oggi la televisione, ma il video schiaccia l’immaginario, appiattisce la fantasia. La TV uccide i libri. Io non riesco neanche a vederla perché quell’arcobaleno di colori mi sembra marzapane; almeno quand’era in bianco e nero qualcosa vedevo, potevo intuire le sfumature, le tinte, cogliere i chiaroscuri, ma il colore paradossalmente ha peggiorato la TV. Non c’è più niente da immaginare, tutto è svelato e appiattito, senza pensare che le immagini si consumano mangiando o parlando; non c’è neanche l’atmosfera sacrale, di concentrazione che c’è al cinema. Ma la scolarizzazione di massa avrebbe dovuto portare più lettori alla poesia. Come mai non è successo?

Principalmente perché l’istruzione non è la cultura. Non mi sembra che si possa paragonare la mera acquisizione di nozioni alla conoscenza, a quella più vasta ricerca dei perché esistenziali. Finché la scuola non sarà concepita come formazione alla vita, ma continuerà ad essere finalizzata al «titolo», al documento per il lavoro, c’è poco da sperare per la poesia. Comunque credo che un incremento di lettura ci sia stato, almeno per quanto riguarda la prosa. Io stesso ho scritto dei racconti pubblicati da Rizzoli, che hanno avuto scarsa diffusione; ne ho pronti altri degli anni Quaranta – quarantadue in tutto –: ne dovrò fare una scelta per un libro che pubblicherò con Garzanti. Il poeta quando si cimenta nella narrazione è spesso lirico, ma la liricità è un difetto, il prosatore deve essere essenzialmente un affabulatore. Qual è il suo rapporto con la traduzione?

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Generalmente buono, nel senso che i miei libri sono stati tradotti in più lingue. Io stesso mi sono cimentato spesso nella traduzione – Proust, Char, Apollinaire – ma già Dante nel Convivio parla della difficoltà del tradurre. Un problema antico, dunque. Pur essendo la poesia l’unica parola possibile, questa parola è trasferibile con molta difficoltà in un altro universo linguistico; direi che il vecchio monito «tradurre è tradire» è quanto mai vero in poesia. Eppure, nonostante lo stesso Barthes parli di «intraducibilità della parola», siamo sempre lì, intorno al mistero del verso, per tentare ove possibile di renderlo in altra lingua, di diffondere la voce dei poeti a quanti più uomini possiamo.

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139 I MIEI VERSI NEL VENTO

Non provo nessuna vergogna nel ricordare mia madre Anna Picchi, come una donna giovane e bella. Parlo della ragazza che fu prima che io nascessi – una figura che appartiene, in questo senso, più alla leggenda, alle fotografie che ho visto, ai discorsi ascoltati, che alla storia. Era una donna molto vivace; fu una delle prime ad andare in bicicletta per le vie di Livorno, additata da tutti come oggetto di scandalo. Ed era anche una bravissima sarta, ricercata e vezzeggiata dalle signore più eleganti. Di questa figura io mi sono innamorato. Mi è piaciuto rievocare questa immagine proprio per evitare il mammismo: ho voluto raccontarne la storia, la morte, e la sua «oltre-morte» di ragazza fine d’ingegno e di fantasia proprio perché è troppo facile cantare la mamma. Da lei ho preso il gusto dell’arte, perché in quell’essere artigiana bravissima era a suo modo un’artista. Per raccontarla ho voluto provare a fare una musica moderna con un linguaggio diatonico, come fece Stravinskij con la dodecafonia. Ho adottato, quindi, come modello la ballatetta con cui Cavalcanti si rivolgeva dall’esilio alla donna amata. C’è anche questo risvolto, questa volontà di riprendere la tradizione, nel mio amore per Annina. Per una bicicletta azzurra, Livorno come sussurra! Come s’unisce al brusio Dei raggi, il mormorio! Annina sbucata all’angolo ha alimentato lo scandalo. Ma quando mai s’era vista In giro, una ciclista? [Scandalo, SP]

Mio padre appare nella poesia in modo meno appariscente, ma forse più approfondito. Nonostante i versi ad Annina, non ho mai avuto il complesso di Edipo. Mio padre era per me un grande amico. Leggeva di tutto, e io devo la mia educazione al ritmo e alla musica ad una strana antologia che possedeva sui poeti siciliani delle origini. Subivo il fascino di quelle canzonette dure, scritte in una lingua inesistente, inventata da un tedesco, Federico II, e compresi subito l’importanza delle strutture e della tecnica in poesia – anche se molti credono ancora che si possa scrivere in versi usando il linguaggio del «Corriere della Sera».

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[…] Era mio padre: ed ora mi domando nel gelo che m’uccide le dita, come – mio padre morto fin dal ’56 – là potesse, la mano tesa, chiedermi il conto (il torto) d’una vita che ho spesa tutta a scordarmi […] [Il vetrone, MT]

L’origine della mia famiglia è tedesca. Dopo un trasferimento a Garda, un ramo andò a finire a Barga. Si spiega così la presenza di tanti Caproni nella vita di Pascoli, a cominciare dal Bartolomeo che gli fu contadino e consulente linguistico. Da Barga a Livorno il passo fu breve. Ci accolse la meno toscana di tutte le città: un misto di gentilezza e volgarità, anarchica e «ciana», che è sinonimo di una plebe chiassosa ma anche squallida. Eppure a Livorno esisteva una società molto civile ed una borghesia affabile che amava incontrarsi, ballare, andare al cinema e a teatro: erano i tempi di Francesca Bertini e Maria Melato, e io ricordo ancora di aver visto gli spettacoli di Fregoli e dirigere Mascagni. Ogni volta che penso a Livorno la rivedo in bianco e nero, i suoi colori dominanti – e tanto ci ho pensato che tutta la mia immaginazione è diventata in bianco e nero. Perfino se leggo la storia romana non immagino mai Giulio Cesare al sole. Solo i sogni notturni sono coloratissimi, la mia memoria è in bianco e nero. Quanta Livorno, nera d’acqua e – di panchina – bianca! Sperduto sul Voltrone, o nel buio d’un portone, che lacrime nel bambino che, debole come un cerino, tutto l’intero giorno aveva girato Livorno! [Il seme del piangere, SP]

La mia vocazione, la mia vera ambizione, era di fare il narratore. Poi chissà, forse mi spaventò la fatica del lungo e metodico lavoro a tavolino… ma penso che una vena narrativa sia visibile in quasi tutte le mie poesie, che non sono propriamente liriche. Anzi, mi dà fastidio la parola «lirico» – e per la verità mi dà fastidio anche la parola «poeta». Oggi lo sono tutti, è un termine inflazionato: preferisco definirmi uno scrittore in versi. Sarà per la passione musicale che mio pa-

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dre mi ha inculcato, ma il mio ideale è quello di scrivere sul pentagramma. Da ragazzo, studiando armonia musicale, tentavo di comporre dei corali a quattro voci. Normalmente al tenore si affidavano dei versi, che io attingevo dai classici più musicabili e piani, come Poliziano, Tasso o Rinuccini, finché un giorno mi accorsi che il mio maestro – questi versi – non li leggeva nemmeno. Da allora mi feci vincere dalla pigrizia e cominciai a scriverne dei miei. È così che ho iniziato: poi il musicista è caduto ed è rimasto il paroliere, ma non è un caso che tutto questo sia avvenuto a Genova, città di continua musicalità per il suo vento. Andavo sul ponte dell’Alba, dove alla ringhiera ci sono dei dischi che fischiano una musica straordinariamente moderna. I miei versi sono nati in simbiosi con il vento, ma tutta la poesia è un fatto di simbiosi… A quest’ora il sangue del giorno infiamma ancora la gota del prato, e se si sono spente le risse e le sassaiole chiassose, nel vento è vivo un fiato di bocche accaldate di bimbi, dopo sfrenate rincorse. [Vento di prima estate, CA]

A quindici anni leggevo molto i poeti stranieri, soprattutto i libri dei surrealisti sudamericani che mio fratello mi faceva arrivare dalla Spagna. Ero inebriato dal suono delle parole, e meno senso avevano e più mi affascinavano, finché un giorno non ebbi un rifiuto, una ribellione a tanto estro, e ricominciai a sillabare la poesia del Carducci impressionista – o macchiaiolo, come preferisco dire da livornese. Un altro innamoramento avvenne per i classici latini; mi incantava soprattutto il razionalismo della prosa di Cesare. Allora ero convinto che la realtà fosse «prendibile», e avevo l’ossessione di afferrare un reale che restava irraggiungibile. Ma oggi sono arrivato alla conclusione che l’irrealtà è il vero reale: tutto quello che possiamo ottenere, attraverso la letteratura, è un’allegoria. I miei ultimi versi sono caratterizzati dalla sfiducia nella parola e dal tentativo di superarla, anche se ne vivo tutta l’inquietudine. In questo senso non solo i miei versi, ma anche tutta la poesia novecentesca sarebbe stata diversa senza la lezione di Pascoli. Con Carducci la parola era ancora inequivocabile, precisa, marmorea; Pascoli, senza rendersene conto, vi ha gettato il seme del dubbio, e l’ha resa densa di simboli e di significati armonici come la musica. Ha fatto bene Contini a definirlo un rivoluzionario: aveva in mano la dinamite e non se n’era accorto.

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Uscito dalla mia tana, guardavo – nel linciaggio della mente – il paesaggio. Ai miei occhi, una frana. La frana d’un’alluvione. La frana della ragione. [La frana, CK]

Nel 1939, un anno dopo il trasferimento a Roma, fui richiamato alle armi nel 42° Reggimento Fanteria e, neanche a farlo apposta, mandato a Genova. Di lì ci invitarono a fare una «passeggiata» verso il confine francese, per contrastare un esercito che teoricamente avrei dovuto odiare, e che invece rispettavo profondamente per la cultura che rappresentava. Fu un vero macello. Loro erano agguerritissimi, noi praticamente disarmati. Le pallottole erano di un calibro superiore alla canna, e il nostro colonnello, paternamente, ci sconsigliò di usarle, perché ci sarebbe scoppiato il fucile tra le mani. Questa fu la nostra guerra a Mentone: un capolavoro di insensatezza. Ero ossessionato dallo sdegno, più che dall’orrore o della paura. A poco a poco cominciai a cercare nella letteratura una sorta di tetto per potermi difendere dalla dissoluzione dell’esistenza. Io come sono solo sulla terra coi miei errori, i miei figli, l’infinito caos dei nomi ormai vacui e la guerra penetrata nelle ossa! […] [III, PE]

La peggiore delusione che può provare un uomo della mia età è scoprire di non trovarsi nella democrazia in cui aveva sperato, ma in una squallida partitocrazia. Questa speranza, per la verità, non l’ho mai vista realizzata in tanti anni, dalla Liberazione ad oggi. Io non sono stato un eroe, ma ho visto ragazzi fare miracoli di eroismo, senza mangiare, senza un soldo in tasca, o sotto la tortura: tutto quello che hanno avuto in premio è una misera pensione. Ogni civiltà, da quella greco-romana a quella cristiana, aveva nella sua centralità, una sua pietra di riferimento. Oggi siamo arrivati al punto di non saper distinguere il bene dal male. Questa democrazia traballante, asimmetrica, friabile, mi fa paura, perché ho fatto in tempo a vedere quella che c’era prima del fascismo, e so che Mussolini ha approfittato proprio di questa disgregazione. Purtroppo non era il buffone che molti hanno voluto descrivere, ma un uomo di polso – un istrione che non faceva ridere, ma paura veramente. In quei tempi mi addormentavo la sera dicendomi: «qui mi risveglio con un colonnello sul comodino». E poi la mattina arrivavano le scariche delle fucilazioni, e l’unica eco era una «latta» che vibrava…

446 GIORGIO CAPRONI Le carrette del latte ahi mentre il sole sta per pungere i cani. Cosa insacca la morte sopra i selci nel fragore di bottiglie in sobbalzo? Sulla faccia punge già il foglio del primo giornale col suo afrore di piombo – immensa un’acqua passa deserta nel sangue a chi muove a un muro, e già a una scarica di latta ha un sussulto fra i cocci. […] [1944, PE]

Genova è l’unica città al mondo dove esiste un monumento ad Enea. Come ed a chi sia venuto in mente, non lo so. Ma so che questo Enea non lo voleva nessuno, e che ha girato da tutte le parti prima di finire in piazza Bandiera, vicino alla chiesa della Santissima Annunziata. Piazza Bandiera è stata la più bombardata d’Italia. Mi trovavo lì, in quegli anni, e in quel poveretto col vecchio Anchise sulle spalle mi sembrava di vedere il simbolo dell’uomo moderno, con una tradizione che crolla da tutte le parti e che lui cerca di mettere in salvo. L’avvenire, invece di accompagnarci, voleva essere sorretto e tenuto per mano. La figura di Enea mi è sempre piaciuta più di quella di Ulisse, che in fondo, dopo tanto girovagare, aveva sempre una casa alla quale tornare. Enea era invece un esule perenne, che non sa mai dove approdare. Anch’io, quando arrivai a Genova, mi sentivo in un continente nuovo; però avvertii anche una specie di affinità elettiva, quel «filo rosso» che oggi tutti interpretano come qualcosa che lega, che unisce. Ma leggendo Goethe si capisce che non è proprio così: nella Marina britannica ogni sartia, ogni cordame, era segnalata da un filo rosso che testimoniava l’appartenenza alla flotta di Sua Maestà. Non un collegamento, quindi, ma una testimonianza. In ogni parola delle Stanze della funicolare c’è proprio questo filo che non unisce, ma dice: «questa è Genova». È il segnale della mia identità. Una funicolare dove porta, amici, nella notte? Le pareti preme una lampada elettrica, morta nei vapori dei fiati – premon cheti rombi velati di polvere e d’olio lo scorrevole cavo. […] [Versi, PE]

La funicolare è naturalmente simbolo e allegoria del viaggio. Il nostro destino è quello di scontrarci con il muro della terra, o di incontrare l’ultimo borgo, oltre il quale risuonano i luoghi interdetti, non giurisdizionali. È lì, dove finisce la ragione e la scienza, che comincia la poesia; nei luoghi dell’ignoto, del non-conosciuto. Io ammetto il nulla, ma non mi sento di affer-

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mare che non c’è altro che il nulla; forse, tra «tutto» e il «niente», mi sono sempre accontentato del «poco». Del resto certe categorie – ateo, credente – le considero soltanto dei nomi, delle convenzioni verbali che non si posso precisare. Quando mi chiedono se credo in Dio, io rispondo: «spiegami prima cosa è Dio, poi, forse, cercherò di risponderti». Dio di volontà, Dio onnipotente, cerca (sfòrzati!), a furia d’insistere – almeno – d’esistere. [Preghiera d’esortazione o di incoragiamento, MT]

I miei libri obbediscono ad una progettazione inconscia. Quando scrivo dei versi non penso mai al senso che avranno nell’insieme. Forse è vero che oggi, per il poeta, al posto della Musa c’è il subconscio. C’è un filo di vissuto che tiene insieme il testo; una poesia che non contenga né un bicchiere né una stringa mi mette in sospetto. Concepisco un libro come una sinfonia, con i vari tempi: l’Allegro, l’Adagio, il Grave – anche lo Scherzo. Un libro non può peccare di monotonia, così come non può essere monotona una sonata. Certo, poi un libro si compone da sé, anche contro la volontà del poeta. Un poeta non è mai troppo consapevole di quello che scrive: quasi mai sono capace di tradurre un verso in termini logici. Ma hanno importanza anche le pause, i «bianchi» tipografici, i versi troncati, così come nella musica hanno funzione espressiva gli improvvisi silenzi. L’ambizione è quella di andare oltre la parola. Oggi tutti i poeti sono forse degli epigoni. Ma in poesia non conta tanto quello che è stato detto, quanto come viene detto – e questo come, per fortuna, è ancora in continua trasformazione. La quarta d’un violoncello. Quasi in eco una tuba. Fra gli alberi un flauto uccello di fuoco, che un timpano alza in fuga. [Strumenti dell’orchestra, CK]

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140 [UCCEL DI BOSCO ANZICHÉ DI VOLIERA]

[Risposte a Mario Mincu] Come si inserisce Lei nella poesia italiana del Novecento? Si considera un ermetico oppure un post-moderno? Perché?

Ho sempre preferito essere uccel di bosco anziché di voliera. Perciò m’è difficile dirLe in quale delle varie correnti succedutesi nel corso della mia vita possa inserirmi. Quanto al cosiddetto Ermetismo, pur riconoscendone in pieno il valore e la portata (fui io il primo a parlare di Luzi nel ’35), credo che mi abbia impedito una totale adesione il mio diverso atteggiamento di fondo: voglio dire il mio attaccamento al «reale» o, più precisamente, il mio continuo rodimento per l’imprendibilità del «reale» tramite la parole, la quale – come già scrissi nel ’46 nel ’47 anticipando di parecchi lustri certe teorie oggi divenute di pubblico dominio – vanifica l’oggetto: crea, nominandola, un’altra realtà, parallela alla prima ma destinata a non collimare mai con essa. (Non per nulla intitolai la mia prima plaquette, nel ’36, pur così ricca d’apparente fisicità, Come un’allegoria, e la terza, nel ’41, Finzioni, titolo usato qualche anno dopo anche da Borges, per non dire degli inequivocabili accenni già contenuti in alcuni «sonetti» degli Anni tedeschi). Relativamente al postmoderno, è ovvio ch’è apparso troppo tardi perché io abbia potuto sentirne, in qualche modo, la seduzione, e quindi assumerlo come scelta. Tale mia iniziale «marginalità», come per primo ebbe a chiamarla, in senso positivo, Pasolini, mi avrebbe permesso (ricucio un po’ a caso alcune frasi pronunciate da P. V. Mengaldo in un’intervista radiofonica del 24 gennaio) di essere assolutamente moderno con mezzi (formali, naturalmente, ma anche culturali, mentali) diversi da quelli di coloro che si credevano, ed erano generalmente creduti, oltre che i Maestri, i moderni per eccellenza: e precisamente (sono ancora parole di Mengaldo) i cosiddetti novecentisti, gli ermetici e, perché no, un po’ anche Ungaretti e Montale: tanto che mentre i pochi buoni poeti di formazione strettamente ermetica hanno voluto mutare radicalmente le loro premesse per diventare poeti davvero importanti, Caproni non ha dovuto mutar nulla, solo scavarsi, ispessirsi, e nello stesso tempo assottigliarsi… Quali sono le direzioni della poesia italiana attuale? Quali sono i poeti che hanno portanto avanti il discorso? Come guarda Lei al lavoro de I Novissimi? Mi faccia dei nomi e mi dica che cosa è successo con i giovani come Magrelli, Cucchi. Ecc.

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Mi perdoni si mi permetto d’applicare la proprietà commutativa all’ordine delle Sue domande, e di cominciare dall’ultima. In realtà, penso che il tramontato novecentismo diciamo così classico, il solo movimento chiaramente distinguibile pur nell’eterogeneità dei e delle componenti, sia proprio la neoavanguardia: I Novissimi, appunto, di non trascurabile conseguenza sia sul piano storico per l’innegabile forza d’urto (anche polemica, certo) contro la minaccia d’un generale ristagno. Quanto all’oggi, vedo l’attuale poesia italiana più come una mappa d’arcipelaghi separati e non comunicanti (e magari addirittura di singole isolette senza nemmeno il collegamento d’una canoa), più che come un compatto continente ben definito pur nella diversità delle proprie regioni e delle correnti che le percorrono. Ciascuno ha le sue teorie, i suoi canoni, le sue auctoritates (sempre vitalissime), il suo particolare «concetto di poesia» (quasi sempre in opposizione o in ignoranza dell’altrui), e mai si è discettato tanto, di poesia, quanto oggi: mai sono stati tanti, quanto oggi, i dottori in poesia di fronte alla scarsità di poeti veri intesi come padri e non come figli di poetiche, mentre si contano a centinaia coloro che in nome di questa o di quell’altra loro «idea» s’ostinano à remplir la terre de vers. (E se ho usato il francese, è proprio per il doppio senso di vers). Col che non voglio proprio negare che esistano e siano ben operanti, dopo la cosiddetta terza generazione, poeti d’autentica e diversa vocazione, in parte già sufficientemente antologizzati e quindi pienamente riconosciuti, ciascuno di per sé capace – se tale frase può avere un senso in poesia – «di portare avanti il discorso». (La difficoltà non è nel reperirli, ma appunto nel raggrupparli per tendenza o per scuola). Che cosa può fare il poeta oggi, alla fine di questo millennio apocalittico? Serve ancora la poesia per migliorare la condizione umana?

Non so, in verità, se la poesia sia mai servita a migliorare la condizione umana. Non credo che abbia mai avuto effetti, come dire, filantropici. Nemmeno Dante, nemmeno il Petrarca (tanto per restare in casa nostra) hanno smosso d’un etto le iniquità loro contemporanee. Sia quelle della società sia quelle della natura. Per migliorare il mondo, il poeta, a parer mio, può fare una cosa sola. La stessa che può fare anche il mio portinaio: cercar di migliorare, come uomo, se stesso. Se tutti lo facessimo (invece di preoccuparci tanto di migliorare gli altri), automaticamente il mondo diventerebbe migliore, non Le sembra?

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141 [UNA POESIA MACCHIAIOLA]

[Risposte a Dante Maffia] Ho notato che nella sua poesia ogni volta che entra in gioco l’elemento mare il movimento si fa più pieno e la musicalità addensa più forza; perché tutto questo?

Il mare ha avuto molta importanza per me; è uno spettacolo che mi ha sempre affascinato e perciò sono intriso di mare. Non propriamente il mare, però, ma il porto, con tutto il movimento che ne consegue: l’andare e venire delle navi, i marinai, i commerci. Può essere anche un’allegoria della vita. Non ha niente di simile però al mare-vita di altri poeti liguri?

Non credo. Per Montale, ad esempio, è un’altra cosa, è il mare come luce, un mare più contemplativo. I poeti che mi hanno immediatamente preceduto erano filosofi, provenivano tutti dalla «Voce», leggevano molto Mario Novaro, il fondatore di «Riviera Ligure», oltre che filosofo orientaleggiante. Allora si badava alla cultura dell’anima, c’erano i mistici, c’era Boine che addirittura andava nel cattolicesimo più mistico vedendo il mare come un’immagine del nulla. Il mio invece è un mare livornese e commerciale, il porto. La mia passeggiata preferita era andare verso Corso Oddone, verso il Lido D’Albaro. Abbiamo subito parlato dei liguri. Penso alla Liguria, alla sua bellezza. Che funzione ha avuto questa terra, il suo meraviglioso paesaggio nella sua poesia? Soprattutto nella sua prima poesia?

La mia poesia degli anni Trenta era molto legata al paesaggio, ma era più che altro una poesia impressionistica. In che maniera fosse legata al paesaggio è difficile dirlo. Concretizzavo in parole il mio sentimento. Il paesaggio mi aiutava. Ricordo una sua espressione di anni fa rilasciata in una intervista curata da Ferdinando Camon1: «Una poesia dove non si nota nemmeno un bicchiere o una stringa, m’ha sempre messo in sospetto». Non accetta dunque una poesia dove non ci siano degli oggetti, perché?

Certamente. E in che modo dagli oggetti si passa al paesaggio?

Con una funzione; si può dire, di correlativo oggettivo. Non la proiezione, non la concretizzazione, non lo sfondo o il semplice accompagnamento, ma l’im-

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medesimazione negli oggetti. Io mi sentivo gli oggetti, cioè essi erano protagonisti della poesia, comparse. Di più non saprei dire; ragioni filosofiche non ne saprei dare. Si potrebbe andare a scavare, a cercare, freudianamente, nel mare la madre, ma confesso che in quei tempi non ci pensavo. Era questa fisicità, insomma, questa sensualità, questo attaccarmi alle cose che mi difendeva dal senso che ho sempre avuto di fine, di morte, di precarietà della vita. Allora mi attaccavo agli oggetti, dove però vedevo lo stesso la fine, la marcia verso il niente. Come si è scoperto poeta?

Resta estremamente difficile dirlo perché non è che mi sia scoperto poeta. Nessuno è sicuro d’essere poeta; di fronte a questi oggetti avevo delle reazioni, così come le può avere un insetto; vedevo i fiori rossi, le montagne, il mare e mi veniva voglia di tramutarli in parole. Perché mi colpissero certi oggetti più di altri, questo non lo saprei dire. Era una natura giovane, allora, fatta tutta di oggetti, di idee, diciamo, e casomai le idee dovevano nascere per induzione da questi oggetti. Come si concilia il fatto che essendo una poesia fatta di cose, in un certo senso «massiccia», piena di oggetti, si risolve tutta in linee, in tinte, in accenti, in sussurri, in musica?

In principio no, diciamo in un secondo tempo, ma in un primo tempo si sentiva proprio l’acredine degli oggetti, una presenza che non veniva tramutata in simbolo ancora, e così rimaneva grezza, piena di afrori, di odori, di colori; sensazioni aspre, soprattutto, cose accatastate. Un fuoco acceso era l’odore che mi colpiva, che mi portava a scrivere delle poesie. Che idee ne traessi non so. Non è stato come per Montale. Per lui l’oggetto diventava veramente simbolo, qualsiasi oggetto, magari non subito2. Poi è stato portato all’estrema conseguenza dall’avanguardia.

Appunto, mentre la mia era più che altro una poesia pittorica: alcuni l’hanno chiamata impressionistica, io la chiamerei addirittura macchiaiola, da buon livornese. A proposito di pittura. I metafisici hanno contato qualcosa per la sua poesia?

Di pittura m’intendo pochissimo, non quanto di musica, ma più che dai metafisici ero attratto casomai da Carrà, da Rosai, dai pittori legati al paesaggio. La parola metafisica mi fa pensare a De Chirico e per me era su un livello intellettuale che non raggiungo, non so. I metafisici, con il loro acceso senso cromatico, con i loro toni caldi, con le piazze aperte in che maniera hanno potuto suggerire qualcosa, contribuire a darle un’idea?

Ma…, nei primi tempi confesso che li conoscevo poco e male, quindi, penso che proprio non abbiano contribuito.

452 GIORGIO CAPRONI Questo discorso mi permette di introdurne un altro. I metafisici si chiusero, si isolarono per non concordare con il regime fascista. Lo stesso si è detto per l’Ermetismo.

Era una fuga verticale. Secondo lei, l’Ermetismo ha veramente fatto qualcosa di simile? Si è allontanato dalla realtà contingente, dalla realtà storica?

Senza dubbio si è allontanato per il fatto che non ha aderito assolutamente alla retorica ufficiale dei tempi, che era quella dell’esaltazione. Vorrei essere più preciso. È quello che ha detto prima o fu proprio una necessità etica e stilistica dei poeti?

Ci fu anche questo desiderio, credo. Accadeva che non potendo comunicare con un mondo ufficiale – è la mia esperienza – ci si chiudeva nel soggettivismo, perché tutto quello che era al di fuori (a parte il fatto poi che la mia generazione ignorava la democrazia, salvo rare eccezioni che avevano avuto modo di viverla) non si riusciva ad amarlo. Si rifuggiva dalla retorica ufficiale. Io poi non sono stato un ermetico in particolare, quindi non l’ho vissuta direttamente questa esperienza. Era, la mia, un’esperienza ingenua, meno intellettualistica. Eppure qualcuno ci trova degli echi, delle lezioni ermetiche. Lei non rifiutò l’Ermetismo.

No, no, anzi l’Ermetismo io l’ho seguito bene, solamente mi sentivo lontano come natura d’uomo, non condividevo certe aspirazioni eccessivamente metafisiche-cattolicizzanti, diciamo. Io ero una natura più materialistica. Tuttavia non ho ignorato l’esperienza. Sono stato il primo, posso dirlo, e del resto l’ha riconosciuto anche lui, a parlare di Mario Luzi quando uscì La Barca3. Poi naturalmente ne parlò Bo e prese il volo. I fiorentini sono stati tutti miei amici. L’Ermetismo l’ho subito di più dopo il Quaranta. Pasolini parla di simpatia di Caproni per l’Ermetismo.

Ma non appartenni alla scuola ermetica. Mi parli dei critici che si sono occupati della sua opera.

Un autore non è mai contento completamente dei critici. Devo essere sincero: non c’è critico nel quale mi riconosca nei miei difetti e nei miei piccoli meriti. Li vedo troppo discordi tra loro: c’è chi mi mette tra gli ermetici e che tra i sabiani. De Robertis scrive che i suoi versi sono leggeri come un fiato. Quanto ha contribuito la musica a ciò? So che lei ha studiato composizione per molti anni.

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Non so se la musica abbia contribuito in pro o in contro, ma certamente so che io ero portato a cercare il canto nella parola, al limite massimo, in questo contrario agli ermetici che volevano rifiutare assolutamente qualsiasi forma che potesse lontanamente ricordare la melodia (loro dicono che se n’era fatto troppo strazio nell’Ottocento), io invece addirittura sono risalito al Cavalcanti – lo ammisi io stesso, non i critici –. Poi non so se la musica può avermi dato il vizio, della rima, dell’uso della rima. Praticamente la musica oppure Cavalcanti o Saba, i poeti che prediligeva?

Ma, vede, i poeti li usavo in funzione della musica, quindi li vedevo sempre in funzione di possibile resa musicale. In seguito, piano piano, ho capito che la parola è indipendente, che la musica la contiene in sé e non ha bisogno di essere sostenuta dalla musica. Però m’è rimasta questa mania di costruzione, che è propria della musica e perciò molti parlano di tecnicismo. Quanta parte hanno avuto poeti come Ungaretti, Montale, Sbarbaro, Saba?

È difficile dirlo. Ero molto legato ai poeti come Torquato Tasso, ai poeti che si musicavano, a Poliziano, quindi avevo un’educazione diversa. Ungaretti mi colpì moltissimo quando lo lessi la prima volta e credo mi abbia giovato per il valore che assegnava alla parola. Degli altri mi è rimasto il canto. Ungaretti lo rompeva ed io timidamente, assiduo, lo reintroducevo, lo portavo a forme classiche. Tentavo il classico nel moderno. Ho scritto perfino dei sonetti: sono esperimenti formali, s’intende; volevo immettere una forma nuova nella forma antica. Che cosa ne sia uscito fuori non so. Montale ha avuto un’influenza enorme su tutta la mia generazione, come Pascoli l’ha avuta su Montale fino al punto che in certi momenti ci sembra montaliano Pascoli. Ricordo quando comprai gli Ossi di seppia, eravamo nel ’28, ero giovanissimo, dopo Ungaretti avevo scoperto Cardarelli che ha tanto contato per me. Gli Ossi di seppia mi affascinarono. Come spiega l’improvvisa fioritura nel 1932 e anni seguenti di poeti come Luzi, Gatto, Quasimodo, Betocchi, Caproni, ecc.? Che sia nata dalla compressione che c’era nell’aria? Sono tentato di pensare che c’entrasse il regime.

C’entrava, sì. E in che maniera?

In che maniera non so. Facevo l’amore e c’erano di mezzo le baionette, c’era sempre questa cappa di piombo della guerra, questa vita eroica. Io non mi sentivo affatto un eroe, mi sentivo un uomo, mi piaceva suonare il violino, mi piaceva andare con la ragazza, che m’importava delle ideologie, dei fucili? Non avrei sparato a una mosca. Un trafiletto di Gravelli4 su «Ottobre», me lo ricordo anco-

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ra, mi rimproverava: «È incredibile. In piena epoca fascista questo pensa ancora a Verne». Gli è che noi poeti cercavamo piuttosto la nostra libertà e non quella degli altri. Non abbiamo lottato in senso attivo, non abbiamo fatto i Neruda contro il fascio. Forse non se ne sentiva il bisogno. Se c’era antifascismo in noi era e non era ideologia. Oggi tutti… Le imitazioni, la compressione, aiutavano la Poesia?

Sono convinto che il poeta nasce dalla compressione. In una società di benessere come quella d’oggi, salvo rare eccezioni, è più raro che nasca il poeta, perché l’uomo è più o meno soddisfatto nei suoi bisogni materiali, non soffre. Penso naturalmente all’uomo medio di oggi: gli spettacoli di massa, le partite, le idee che riceve dalla televisione, il giornale (vedo i miei vicini di casa) gli tolgono le inquietudini, i problemi. Fortuna che ci sono anche gli uomini con mente politica che ragionano e capiscono tutta la falsità che c’è in questo benessere, ma la maggior parte ci naufraga dentro, diviene un numero della massa. E questi uomini fabbricati in serie non saranno mai lettori di poesia. Abito in questa zona da anni. Sono circondato da gente arricchita, bottegai o che so io. Un ceto che non si sa bene cosa sia: proletariato no, ma borghesia nemmeno, però cosa diavolo sia nessuno lo sa. È gente che ha quattrini. Bene, questi non hanno mai ascoltato alla radio o alla televisione, non dico Stravinskij, ma neppure Chopin. Si sono beati di Canzonissima e basta. Questa è la loro musica. Immagini la poesia… Prima che arrivino a leggere Leopardi, questi, quanti secoli ci vorranno? E come spiega il boom di Montale con Satura?

Ma, vede, lì c’è il lancio commerciale. Oggi ecco quello che mi fa rabbia: se i responsabili di questa massificazione volessero in quattro e quattro otto la poesia la farebbero diventare di moda, come i capelloni, come la minigonna, come Satura. Perché, siamo sinceri, Satura non è un bel libro; Montale fa la parodia dei suoi imitatori, non dei suoi versi, eppure è andato bene. Non è vero allora che la poesia sia patrimonio di pochi eletti?

La poesia è per una élite ma non nel senso culturale, ma di esseri: c’è chi è aperto e disposto e chi assolutamente non lo sarà mai. Quindi è da attribuire proprio ad un fattore fisico?

Credo di sì. Non è possibile invece, riassumo malamente un saggio di Mallarmé, che la poesia possa essere capita e amata se al lettore diamo l’A-B-C, gli strumenti per iniziare a leggerla?

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Può darsi, ma sono più per il no. Penso che non si possa insegnare ad amare la poesia. Sarebbe come costringere un giovanotto ad amare una determinata ragazza anziché un’altra. Si può educare da piccoli al gusto per l’arte e al ragazzo potrà venire, dopo, un certo amore, ma che possa sentirne la necessità è cosa a cui non credo. In un momento in cui tutti i poeti si sentono impegnati, tentano poesie cosmopolitiche, inveiscono contro i governi, trattano argomenti civili, rapporti nuovi dell’individuo con la società, lei non ha avvertito con la sua poesia esile, fatta di piccole cose (non in senso pascoliano), di intimi colloqui, un certo anacronismo? Tutti hanno mutato, si sono aperti quasi precipitosamente; il suo Il seme del piangere e il Viaggiatore cerimonioso conservano un’esigenza fondamentale di musica, un tentativo di sublimazione del banale, come giustifica tutto ciò?

Qualcosa è cambiato anche nella mia poesia. Nel Seme del piangere si sente l’urto della guerra e del dopoguerra, anche della lotta per la liberazione. Torniamo a Il passaggio di Enea: vorrei capire com’è nato poeta, quali furono le occasioni che facevano scaturire la poesia.

Poteva essere la vista di un albero o di un campo pieno di papaveri. Sempre occasioni visive o olfattive, perché avevo molto acuto il senso. Mi attraevano le manifestazioni visibili più che quelle intellettuali. Poi naturalmente queste manifestazioni cercavano di tramutarsi; il titolo del mio primo libretto è Come un’allegoria: sentivo istintivamente che questi oggetti dovevano significare qualcosa di più che se stessi, dovevano avere un significato che io non riuscivo a scoprire. Dopo la guerra invece…

Dopo la guerra c’è stato lo choc: uno viene travolto fra gli uomini, non può nascondersi, deve prendere posizioni precise. E ho veduto certi simboli in Enea, nella funicolare. Ho cominciato con le biciclette, con i tedeschi. Cioè dal fatto privato mi sono schiuso al fatto pubblico. Le succede, prima di comporre una poesia, che una musica le si arrovvelli dentro, martelli ritmicamente, ha bisogno di canto?

Questo, credo, succede a tutti. «Il primo verso me lo dà Dio e tutto il resto lo metto io». Il primo verso è quasi sempre preciso. Il resto è fatica. Io sono lentissimo a scrivere; in tanti anni ho fatto così poco. Ma a volte le parole si attraggono le une con le altre, anche i pensieri. Si scrive anche in maniera discorde, poi il regista… si pensa pure di aver sbagliato strada. Scrive molto lentamente, lei dice, e come spiega la musica concorde delle sue liriche? La loro freschezza?

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Ho anche delle liriche pesanti, forse. Alcuni critici dicono che insisto troppo sulla tecnica, me ne hanno fatto un rimprovero. Lo accetto fino a un certo punto; il non poter fare delle forme tradizionali lo trovo assurdo. Stravinskij ha fatto della musica modernissima con accordi antichi, con accordi di Orfeo. I critici appena vedono la canzone, appena sentono il ritmo cavalcantiano, dicono che è arte, non poesia. Ma per Saba non mi pare abbiano fatto lo stesso discorso.

Già, nella migliore delle ipotesi dicono che la mia poesia è sabiana. A Saba l’hanno perdonato: si vede che io sono troppo bravo. Troppo tecnico?

Certamente non nelle ultime. Tentiamo un riassunto della nostra conversazione. Abbiamo parlato del mare, dell’Ermetismo, di alcuni poeti, della fisicità della sua poesia, del paesaggio, degli oggetti. Aggiunga qualcosa, se vuole.

Sono partito da una fisicità, da questa immersione, aderenza agli oggetti del paesaggio, anche agli oggetti casalinghi. Un bicchiere per me è importantissimo in quanto è parte della vita di un uomo, quindi è naturale che vivendo in un ambiente dove il mare predomina ci sia entrato più mare che verdura. Solo per questo fatto, non perché nel mare possa aver visto dei simboli speciali. Forse inconsciamente; io non sono andato a cercarli. Il mio non è il mare di Leopardi «Il naufragar m’è dolce in questo mare», è sempre un fenomeno fisico con in più il gusto che danno sempre le città commerciali, le città industriali. Mi parli di Genova.

Genova è una città straordinaria (lo posso dire perché non sono genovese), folle, concreta. E dalla concretezza ne nasce una poesia che svanisce nella luce del Mediterraneo. Nietzsche viveva a Genova, lo chiamavano il piccolo santo. Lui ha scritto delle pagine bellissime su Genova. Era suggestionato da questa città, dal suo contrasto spirituale. Genova. Lì è nato il poemetto su Enea. Ricordo la piazza più bombardata di Genova, questo povero Enea, scappato dall’incendio di Troia, con questo padre sulle spalle e il figlioletto per mano. Vado a capitare proprio in Piazza Bandiera, dove venne giù l’ira di Dio, vicino all’Annunziata. Mi nacque l’idea del passaggio di Enea: vedere quest’uomo, il simbolo dell’uomo d’oggi. C’era il passato che crollava da tutte le parti, una tradizione che cercava di sostenere come poteva, e un avvenire che aveva bisogno di essere sostenuto e portato per mano. E io vedevo Enea solo, l’uomo solo nella condizione di oggi. Questa era l’ambizione del poemetto di Enea.

NOTIZIE SUI TESTI

[1] IO GENOVESE DI LIVORNO Io genovese di Livorno, in «Italia socialista», 22 febbraio 1948.

[2] LA POESIA E I RAGAZZI La poesia e i ragazzi, in «Mondo operaio», 14 maggio 1949, p. 6 (poi in G. Caproni, Prose critiche 1934-1989, a cura di Raffaella Scarpa, Torino, Nino Aragno, 2012, I, pp. 363-365).

[3] INCONTRO CON UN POETA Incontro con un poeta, in «Alfabeto», VII, 15-30 novembre, 1951, 21-22, p. 1 (poi in «Il Lavoro nuovo», 1 marzo 1952, p. 3; poi in G. Caproni, Prose critiche 1934-1989 cit., I, pp. 459-461).

[4] IL PIÙ COMMOVENTE FATTO DELL’ANNO Il più commovente fatto dell’anno, in «Il Giorno illustrato», 27 dicembre 1953, p. 13. Inchiesta di «Il Giorno illustrato», con interventi anche di Luigi Zampa,Valentina Cortese, Vittorio Veltroni, Cesare D’Angeloantonio. Nel 1950 il fisico statunitense Julius Rosenberg e sua moglie Ethel vennero arrestati con l’accusa di aver fornito all’URSS notizie sulla fabbricazione della bomba atomica e in seguito condannati alla sedia elettrica. Il processo, celebrato nel clima della guerra fredda, coinvolse e divise l’opinione pubblica internazionale.

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Melissa Rota (a cura di), Giorgio Caproni. Il mondo ha bisogno dei poeti: interviste e autocommenti 1948-1990, ISBN 978-88-6655-676-3 (print), ISBN 978-88-6655-677-0 (online PDF), ISBN 978-88-6655-678-7 (online EPUB), © 2014 Firenze University Press

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[5] [LA GIOVANE POESIA ITALIANA] Intervista a Giorgio Caproni, a cura di Ugo Reale, in «La Soffitta», I, novembre-dicembre 1957, 3-4. 1 Il riferimento è al poeta Mario Gori (Niscemi 1926-Catania 1970). Tra le sue opere si ricorda la raccolta di poesie in dialetto siciliano Ogni jornu ca passa (1955) e il libretto di poesie Un garofano rosso (1957). Insieme a Ugo Reale, dal 1961 diresse «La Soffitta. Rivista di lettere e arti» e partecipò attivamente alla vita culturale tra Catania e Pisa con cenacoli tra amici, recitals poetici e convegni. 2 Antonio Comello e Walter Della Monica furono gli ideatori nel 1956 dei Trebbi poetici, incontri di letture poetiche espressive tenute in piazza, miranti a rinnovare il gusto del pubblico per la poesia antica e moderna. 3 Oltre a Mario Gori, Ugo Reale cita un altro poeta siciliano contemporaneo, Emanuele Mandarà, di cui si ricorda Nella trafitta delle fibre (1987), con introduzione di Mario Luzi.

[6] PREMIO MARZOTTO 1954-1955-1956 Pubblicato ad vocem Giorgio Caproni in Premio Marzotto 1954-1955-1956, Firenze, Vallecchi, 1957, pp. 208-209 (poi ad vocem Giorgio Caproni, in Poesia italiana contemporanea, a cura di Giacinto Spagnoletti, Parma, Guanda, 1959; poi ad vocem Giorgio Caproni, in Antologia popolare di poeti del novecento, a cura di Vittorio Masselli e Gian Antonio Cibotto, Firenze, Vallecchi, 1964, II, pp. 157-160; poi in Dialogo sulla letteratura. Giorgio Caproni: le interviste, a cura di Lorenzo Greco, Livorno, Debatte, 2012, pp. 21-22). Come gli altri vincitori del Premio Marzotto del 1956 (Caproni fu premiato nella categoria «Selezione» con Il passaggio di Enea), il poeta fu invitato a scrivere il breve profilo autobiografico da noi riportato. Nel volume Premio Marzotto del 1957 il brano è seguito dalla riproduzione fotografica del manoscritto, datato 1953, della poesia A mia madre, che in seguito prenderà il titolo di Preghiera. «… i due Mazas, più il Kreutzer e il Fiorillo»: si tratta di studi per violino (del quinto e sesto anno) che fecero parte del percorso di studi musicali di Caproni all’Istituto Verdi di Genova.

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[7] [ESSERE UN POETA FACILE] A colloquio con l’autore del «Seme del piangere». Essere un poeta facile è l’ambizione di Giorgio Caproni, a cura di Adolfo Chiesa, in «Paese Sera», 5-6 ottobre 1959.

NOTIZIE SUI TESTI 459

[8] RITRATTI SU MISURA Giorgio Caproni, in Ritratti su misura di scrittori italiani: notizie biografiche, confessioni, biobibliografie di poeti, narratori e critici, a cura di Elio Filippo Accrocca, Venezia, Sodalizio del libro, 1960, pp. 116-117. Si sono omessi i primi due paragrafi del ritratto-intervista di Caproni, in quanto coincidono con quelli iniziali dell’intervento per il Premio Marzotto (si veda intra l’intervista [6]). Armando Fossa fu insegnante di violino e composizione di Caproni all’Istituto musicale Giuseppe Verdi, in Salita Santa Caterina a Genova. 2 Si tratta del compositore Ernesto Camillo Sivori (Genova 1815-Genova 1894), amico e unico allievo di Niccolò Paganini, con cui studiò nel 1823-1824. 3 La citazione è dalla Fabula di Orfeo di Angelo Poliziano. 1

[9] SETTE DOMANDE SULLA POESIA Sette domande sulla poesia, in «Nuovi Argomenti», VI, marzo-giugno 1962, pp. 55-56.

[10] POLEMICO PREMIO SENZA VINCITORE Polemico Premio senza vincitore, a cura di Pietro Cimatti, in «La Fiera Letteraria», 10 giugno 1962, pp. 1-2. L’intervista venne rilasciata nel 1962 a Pietro Cimatti, in occasione del premio di poesia «Vann’Antò» di Ragusa, che per volontà dei giurati (Caproni, Quasimodo e Debenedetti) non fu assegnato.

[11] DISCUSSIONE SU POLITICA E CULTURA Discussione su politica e cultura, in «Critica d’oggi», I, settembre-novembre 1962, 12-13 (poi in Dialogo sulla letteratura cit., pp. 31-32).

[12] CAPRONI CONSIDERA LA CRITICA UNA CATTIVA AZIONE Caproni considera la critica una cattiva azione, a cura di Gian Antonio Cibotto, in «La Fiera Letteraria», 1 agosto 1965 (poi in Dialogo sulla letteratura cit., pp. 26-30). 1

Presumibilmente il riferimento è alla «Nazione».

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[13] DUE DOMANDE A GIORGIO CAPRONI Due domande a Giorgio Caproni, a cura di Francesco Palmieri, in «Avanti!», 18 novembre 1965 (poi in Dialogo sulla letteratura cit., pp. 23-25).

[14] TRA GENOVA E LIVORNO Tra Genova e Livorno, in «L’Approdo», Programma Nazionale Rai, 6 dicembre 1965, 93.

[15] IL MESTIERE DI POETA Il mestiere di poeta, a cura di Ferdinando Camon, Milano, Lerici, 1965, pp. 101-110 (poi Milano, Garzanti, 1982; riprodotto in «Galleria», XL, maggio-agosto 1990, 2; poi in Dialogo sulla letteratura cit., pp. 91-100). Il riferimento è al disegnatore Franco Gentilini: un suo ritratto di Caproni si trova sull’aletta di sovraccoperta dell’edizione del Congedo del 1965, oltre che sulla copertina di L’ultimo borgo. Poesie (1932-1978), a cura di Giovanni Raboni, Milano, Rizzoli, 1980. 2 Il termine «mézigue» appare già nella Nota al Congedo del viaggiatore cerimonioso: «Forse questo Congedo è ancora incompiuto, se il brusio che sento nella mente è quello non di un solo altro mézigue che, nelle brevi pause in cui m’è concesso di dare ascolto alle “voci” […], sta preparandosi per entrare in iscena» (ora in Giorgio Caproni. Tutte le poesie, Milano, Garzanti, 1999, p. 287. D’ora in avanti la sigla TP farà riferimento a questo volume). Caproni, poi, ne commenta l’uso in diverse occasioni: «in argot […] vuol dire me stesso», dichiara nella trasmissione radiofonica «Antologia» del 1988, oggi raccolta in Era così bello parlare. Conversazioni radiofoniche con Giorgio Caproni, prefazione di Luigi Surdich, Genova, Il Melangolo, 2004. Cfr. anche, nell’intervista Su e giù come un minatore (si veda intra l’intervista [129]): «per tutti gli altri mézigues (o “me stessi”: di proposito uso l’argot)». 3 La scuola elementare romana dove il poeta insegnò per molti anni fu la «Francesco Crispi» di Monteverde. 4 Caproni parla di una «linea ligustica» nel 1954, durante la trasmissione radiofonica «L’Approdo», per tornare sull’argomento nel 1956, in una serie di articoli sulla rivista «Il Caffè» e in seguito sulla «Fiera Letteraria» e sul «Corriere mercantile» di Genova. Riguardo agli autori liguri dichiara: «Riusciranno a fare del paesaggio ligure, diventato tutt’uno con la loro liscosa parola spinta fino al limite dell’autocritica e dell’essenzialità, il più lucido geroglifico della nostra desolata anima contemporanea, con un anticipo d’oltre un decennio sulla eliotiana Waste land» (G. Caproni, Roccatagliata Ceccardi, in «Corriere mercantile», 28 luglio 1959). Per un approfondimento sul tema si veda Michela Baldini, La linea ligustica della poesia, in «L’Approdo». Storia di un’avventura mediatica, a cura di Anna Dolfi e Maria Carla Papini, Roma, Bulzoni, 2006, pp. 225-228. 5 Il primo a parlare e a inserirsi nella cosiddetta «linea ligure» fu Giovanni Boine, che in una cartolina inviata a Mario Novaro il 21 luglio 1915 afferma: «In Pazzi gli uccelli hai aggiunta una strofa che non mi avevi recitata e che richiama qualcosa del mio nei Frantumi. Ma il mondo è libero; e poi c’è ora da onorarsi sul serio d’essere del ‘gruppo ligure’. Caro Novaro queste 1

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tue poesie sono perfette» (G. Boine, Lettere a Mario Novaro, a cura di Giuseppe Cassinelli, Bologna, Boni, 1984, p. 77). Oltre a Boine e a Mario Novaro, avrebbero fatto parte del gruppo, originariamente, i poeti che facevano capo a «Riviera Ligure». Fondata e diretta da Mario e Angelo Silvio Novaro nel 1899, la rivista letteraria di Oneglia nacque come bollettino pubblicitario dell’olio Sasso, ma riuscì col tempo a riunire e ospitare parecchi tra i maggiori poeti e prosatori italiani. L’ultimo numero risale al 1919, ma a partire dal 1979 la testata è stata ripresa con periodicità quadrimestrale dalla Fondazione Mario Novaro di Genova.

La citazione di Luciano Anceschi a proposito di Montale è tratta dall’Introduzione a Luciano Anceschi-Sergio Antonelli, Lirica del Novecento. Antologia di poesia italiana, Firenze, Vallecchi, 1953, p. LXXI.

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[16] [PREMIO VIAREGGIO I] Intervista per il premio Viareggio, Rai, 1965.

[17] INTERVISTA AI POETI E NARRATORI LIGURI DI NASCITA O D’ADOZIONE Intervista ai poeti e narratori liguri di nascita o d’adozione, a cura di Minnie Alzona, in «Gazzettino» di Venezia, 1967. Presumibilmente inedita. Se ne conserva un dattiloscritto all’Archivio Bonsanti (ACGV GC. I.13.1). Si tratta di Adriano Guerrini, poeta e amico di Caproni, che per primo ne recensì l’Adolescente sulla «Fiera letteraria»: «Una brevissima novella ad un estremo spianamento metrico, e soprattutto all’insistente svolgimento dei versi e delle stesse raccolte più mature, in cui un’erronea impressione di facile discorsività, ha più esatta definizione in raggiunta semplicità espressiva, in una classica scelta, conquistata con rigore stilistico e decantata padronanza dei mezzi» (Giovanni Cattanei, La Liguria e la poesia italiana del Novecento, Milano, Silva, 1966, p. 368). 2 Premio Emiliano degli Orfini. 3 «La marmaille a fait signe, ils vont partir, / la journée faite: le malheur entretenu. / La mer, pourquoi voulaient-ils retrouver la mer, / la source inaltérable vue d’en haut, / cette femme puissante aux jambes épaissies / et les enfants qui regardent par le bleu? / Montaient-ils, bonté bruyante, jusqu’au paradis / entre les légumes du couvent, entre les figuiers, / ou te conduisait-il le funicolaire / vers la mort de saison en saison?» (André Frénaud, Le silence de Genova, in «Les Temps Modernes», février 1964). / «La marmaglia ha fatto cenno, sta per andarsene, / finita la giornata: prolungata la sventura. / Il mare, perché mai volevano ritrovare il mare, / la fonte inalterabile vista dall’alto, / il grosso donnone dalle gambe tozze / e i ragazzi trascorrenti con lo sguardo il celeste? / Salivano, bontà chiassosa, fino in paradiso / tra gli ortaggi del convento, tra i fichi, / o ti portava la funicolare / verso la morte, di stagione in stagione?» (Giorgio Caproni, Il silenzio di Genova e altre poesie, introduzione di Guido Neri, Torino, Einaudi, 1967, pp. 24-25). Cfr. anche Giorgio Caproni, Divagazioni sul tradurre, in Premio Città di Monselice per una 1

462 MELISSA ROTA traduzione letteraria, 1974, 3, p. 25 [discorso tenuto in occasione dell’assegnazione a Caproni del premio per Il n’y a pas de paradis di Frénaud]: «[…] certe marginali affinità, o certe sorprendenti concomitanze, per esempio tra le mie Stanze della funicolare (del ’47-’50) e Le silence de Genova (del ’61-’62), la cui chiusa soprattutto – risolvendosi di sorpresa, con una settima diminuita, sulla medesima innocente funicolare del Righi – ricorda il mio poemetto, anche se in Frénaud la morte è direttamente nominata e non, come nelle Stanze, metaforizzata nella nebbia».

[18] [HUMILE ET ORGOGLIOSO] Intervista a Giorgio Caproni, a cura di Antonio Altomonte, in «Il Tempo», 5 novembre 1972. Si tratta di Charles Baudelaire, I fiori del male, Roma, Curcio, 1963. Riguardo al metodo di traduzione caproniano si legge nell’Introduzione: «Come tutti i veri poeti Baudelaire è pressoché intraducibile; per questo, alla presunzione d’un rifacimento in versi italiani (per il che occorrerebbe un nuovo Vincenzo Monti), abbiamo preferito la semplice traduzione in prosa, facendo una sola deroga a proposito del Viaggio, troppo strettamente legato a certe nostre avventure personali perché potessimo resistere alla tentazione della sirena. Della qual licenza chiediamo, fin d’ora, venia al Lettore» (ivi, p. 14).

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[19] DAI CARUGGI AL RIGHI. UN GENOVESE DI LIVORNO Giorgio Caproni dai caruggi al Righi, a cura di Maria Luisa Valenti, in «Il Secolo XIX», 14 novembre 1972. Il titolo originario è Giorgio Caproni, dai caruggi al Righi. Un genovese di Livorno, un limpido poeta. Si veda intra la nota 1 all’intervista [39]. Giorni aperti. Itinerario di un reggimento dal fronte occidentale ai confini orientali, Lettere d’oggi, Roma, 1942 (poi in Il labirinto, Milano, Rizzoli, 1984; Milano, Garzanti, 1992).

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[20] [PREMIO VIAREGGIO II] Intervista ai giudici del Premio Viareggio 1973, in «Un’ora con Leonida Rèpaci», Rai, aprile 1973.

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[21] [LA POESIA NON È MAI NARCISISMO] Questionario per un’antologia per ragazzi Garzanti, a cura di Gina Lagorio, 25 maggio 1974. Presumibilmente inedito. Il questionario era stato pensato per essere inserito in un’antologia per ragazzi della Garzanti. Se ne conserva un dattiloscritto nel Fondo Caproni dell’Archivio Bonsanti (collocazione ACGV, GC I. 410.1b. D’ora in poi, con il rimando ad ACGV, si riporterà solamente la segnatura dei singoli documenti). Stando al carteggio tra il poeta e Gina Lagorio, Caproni rispose alle domande il 25 maggio 1974, ma il volume venne pubblicato solo nel gennaio dell’anno successivo, inviatogli il 18 luglio 1975. Dopo la lettura dell’antologia Caproni avrebbe scritto: «Cara Lagorio, ricevo stamani i voll. 2 e 3 dell’Antologia con un suo bigliettino dov’è scritto: “Eccole l’antologia con le cose sue”. Per quanto abbia cercato, di “cose mie” non ne ho trovata che una, Il gibbone, nel 3° vol., pag. 426. Assolutamente niente nel 2° vol. E allora, le altre? E quell’intervistina, che non volevo fare, e che mi fece tanto ammattire in quel momento, della quale poi Lei mi disse che andava bene e che mi avrebbe mandato la bozza? Sono un curiosone, non un vanitoso; e per questo le invio l’interrogatorio. Ho la “trista” impressione che quella mia piccola ingrata fatica sia finita nel cestino. Mi scriva un rigo, La prego, e buone vacanze dal Suo, Giorgio Caproni» (ACGV, GC I. 410.3b). Nel Fondo Caproni non è conservata la risposta della Lagorio, né è stato possibile rintracciare l’antologia scolastica garzantiana in questione per un confronto.

[22] SORGENTE DI ESPRESSIVITÀ Sorgente di espressività, a cura di Walter Della Monica, in «La Fiera Letteraria», novembre-dicembre 1974, pp. 5-6, poi in I dialetti e l’Italia. Inchiesta fra scrittori, poeti, sociologi, specialisti, a cura di Walter Della Monica, Milano, Pan, 1981. L’articolo apparso sulla «Fiera Letteraria» comprendeva le risposte, oltre che di Giorgio Caproni, anche di Diego Valeri e Goffredo Parise, e si inserisce nel progetto che portò nel 1981 alla pubblicazione di I dialetti e l’Italia, a cura di Walter Della Monica, all’interno della quale, all’intervista fatta a Caproni, vengono aggiunte le risposte della sociologa Gabriella Giacomelli e dello storico Giancarlo Susini. Se ne conserva un dattiloscritto presso l’Archivio Bonsanti datato 1974 (ACGV, GC I.236.1-2), nel quale Caproni conclude la prima domanda con la frase, poi cassata: «La domanda, dunque, dovrebbe esser posta in termini più chiari, a parte il fatto, poi, che io non sono un linguista e non mi sento competente a dar giudizi in questo campo». Nel dattiloscritto si possono leggere, inoltre, tre ulteriori domande, in seguito non inserite nella pubblicazione. Le riportiamo in nota mantenendo il corsivo per l’intervistatore, ed il tondo per le parole di Caproni: «(Particolarmente per poeti dialettali): perché come mezzo espressivo per la Sua poesia ha preferito il dialetto all’italiano? Come è nato il

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suo primo contato letterario col dialetto?»; «Non ho mai scritto in dialetto, e quindi salto la domanda». «(Particolarmente per i linguisti): quale crede possa essere il destino dei dialetti? Per la lingua italiana cosa potrebbe comportare la loro totale scomparsa?»; «Non sono un linguista, ripeto. Vorrei soltanto che la scomparsa dei dialetti coincidesse con la nascita di una lingua finalmente non artificiale e unica in tutta Italia. Ma questo non potrà avvenire finché non vi sarà un’Italia veramente unita». «(Particolarmente per gli studenti): in casa o con gli amici parla mai il Suo dialetto d’origine? In caso positivo o negativo, perché?»; «Nemmeno da studente, in casa o con gli amici, ho parlato il dialetto della mia città. Per me, sul piano dell’uso, l’unico mio dialetto è l’italiano che so, cioè quello che ho appreso come lingua materna».

[23] PERCHÉ GLI ITALIANI DICONO MACCHINA E NON CARROZZA? Quelle domeniche. Parlano gli scrittori. Perché gli italiani dicono macchina e non carrozza?, a cura di Ferdinando Clavarino, in «La Fiera Letteraria», 8 dicembre 1974, p. 10. Si tratta di brevi risposte, rilasciate da alcuni tra i più noti scrittori dell’epoca, in merito all’inchiesta indetta dalla «Fiera Letteraria» sulle domeniche senza macchine in città. Intervennero Caproni, Bertolucci, Bevilacqua, Biagiaretti, Gian Piero Bona, Brignetti e La Capria.

[24] [ESERCIZIO DELLA TRADUZIONE] [Esercizio della traduzione], prima del 1975. Presumibilmente inedita. Se ne conserva un dattiloscritto presso l’Archivio Bonsanti con datazione incerta, ma riconducibile al periodo 1972-1975 (ACGV, GC II. 2.3.3). Il riferimento è a Giuliano Manacorda, La poesia tra privilegio e impegno, in Storia della letteratura italiana contemporanea (1940-1965), Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 166. Il critico a proposito di Caproni afferma: «[…] aveva fin dall’inizio perseguito una sua ricerca tutta personale fondata sulla restaurazione di certi valori poetici e metrici tradizionali che in quegli anni non trovavano troppi sostenitori», e più avanti: «accentuava e perfezionava la sua passione per la forma classica, sia pur sempre modernamente rivissuta, con una preferenza per il sonetto o le sequenze di quartine […]». 2 A fianco del testo dattiloscritto si conserva un appunto manoscritto, a penna: «Legga in chiave freudiana». 3 Cfr. Il mestiere di poeta, a cura di Ferdinando Camon, Milano, Lerici, 1965 (si veda intra l’intervista [15]): «in poesia non basta “dire” patria amanda est per fare, putacaso, poesia... patriottica. Si deve semmai suscitare l’amor di patria parlando d’altro, magari, per fare un paradosso, di... cipolline. Parlarne con tanta forza da suscitare in chi legge uno spontaneo amore per la terra che le produce e per gli uomini che le coltivano! Anche da questo punto 1

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di vista val molto di più la ballatetta del Cavalcanti che non tutta la Bassvilliana di Vincenzo Monti, pur così ricca di fatti importanti, esplicitamente “detti”».

[25] MOLTI DOTTORI NESSUN POETA NUOVO Molti dottori nessun poeta nuovo. A colloquio con Giorgio Caproni, a cura di Jolanda Insana, in «La Fiera Letteraria», 19 gennaio 1975 (poi in Dialogo sulla letteratura cit., pp. 35-41). Il riferimento è alle prime due terzine dell’Inferno dantesco. Giorgio Bàrberi Squarotti, La cultura e la poesia italiana del dopoguerra, Universale Cappelli, 1968, p. 99: «Le stanze della funicolare portano a un ulteriore perfezionamento il difficile equilibrio, raggiunto da Caproni, fra l’apprensione incisa, acre delle cose, e la costruzione dell’evento, o dell’oggetto particolare, quotidiano, in mito, in esempio: il viaggio nella funicolare genovese diviene, con tradizionalissimo trapasso, liberato da ogni memoria simbolica in forza della violenta aggressione delle cose, dei paesaggi, dei personaggi che lo popolano, un viaggio attraverso la vita e attraverso una specie di lucido, meccanico inferno moderno». 3 Il riferimento è alla poesia di Emily Brönte I see around me tombstones grey, oggi in Emily Brönte, Poesia: opera completa, a cura di Anna Luisa Zazo, con una nota biografica di Charlotte Brönte, Milano, Mondadori, 1997, p. 241, vv. 41-42. 4 Pascal nei Pensées 194 definisce infatti gli atei ciechi, in quanto privi della luce della fede: «Coloro che vivono senza conoscerlo [Dio] e senza cercarlo […], bisogna aver tutta le carità della religione che essi disprezzano per non disprezzarli fino ad abbandonarli alla loro follia. Ma dato che questa religione […] ci obbliga a considerarli sempre capaci della grazia che può illuminarli e a credere che in breve tempo possono essere ricolmi di fede più di noi, e che al contrario noi possiamo cadere nella cecità in cui essi si trovano, dobbiamo fare per loro quello che vorremmo si facesse per noi se fossimo al loro posto, e invitarli ad avere pietà di loro stessi e a fare almeno qualche passo per tentare di trovare un po’ di luce» (in Pascal. Verso l’infinito di Dio, a cura di Giuliano Vigini, Milano, Edizioni Paoline, 1997, p. 114). 5 Carlo Martini, Il linguaggio pascoliano e la poesia italiana del Novecento, Cavour, [s.l.], 1972, p. 29. 6 Il riferimento è a Leone Piccioni, Vita di un poeta: Giuseppe Ungaretti, Milano, Rizzoli, 1970, p. 24. 1 2

[26] LEI È PER IL VOTO AI DICIOTTENNI Lei è per il voto ai diciottenni, a cura di Carlo Barrese e Gianni Pennacchi, in «La Fiera Letteraria», 2 febbraio 1975, p. 5. Caproni esprime la sua opinione riguardo all’entrata in vigore del provvedimento che abbassò a 18 anni l’età minima per il voto (legge 14 aprile 1975, n. 115).

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[27] [RITRATTO D’AUTORE] Ritratto d’autore. I poeti: Giorgio Caproni, a cura di Franco Simongini, con Giorgio Albertazzi, Rai, 17 ottobre 1975. Puntata del programma televisivo Rai Gli scrittori raccontano, a cura di Franco Simongini, totalmente dedicata a Giorgio Caproni: il poeta legge e commenta alcune sue poesie in compagnia di Giorgio Albertazzi e di alcuni studenti. Albertazzi si rivolge a uno degli studenti presenti; i ragazzi in seguito interverranno con domande e commenti. 2 La rivista letteraria «Palatina» nacque a Parma nel 1957 da un’idea di Attilio Bertolucci e Pietro Barilla. Nel corso degli anni vi collaborarono alcune delle più importanti firme del secondo Novecento. Il Congedo del viaggiatore cerimonioso apparve qui per la prima volta nel 1960, per poi essere stampato nel 1965 nel volume a cui dà il titolo. 1

[28] SETTIMO GIORNO Settimo Giorno, a cura di Francesca Sanvitale e Enzo Siciliano, regia di Luigi Perelli, registrato a Telescuola, Via Novaro, Roma, il 12 settembre 1975. Trasmesso il 19 ottobre 1975, alle ore 22, sul Secondo Canale Rai. Presso l’Archivio Bonsanti è conservata una copia dattiloscritta (ACGV, GC II. 2.3.7) del testo della trasmissione, redatta dallo stesso Caproni, da cui la versione qui riportata, benché revisionata e corretta in pochi punti grazie al confronto con il video presente alle teche RAI (segnatura A33494). La puntata è strutturata in un dialogo-intervista tra Enzo Siciliano e Giorgio Caproni intervallato da contributi video (una presentazione biografica del poeta, una scheda su Il muro della terra, e interventi di Sergio Pautasso, Alessandro Parronchi e Alfredo Giuliani). Si riporta qui l’intervento di Sergio Pautasso: «L’uscita delle poesie di Caproni raccolte nel volume Il muro della terra ha sollevato come già in altre occasioni stupore e sorpresa. Pare abbastanza clamoroso che per un poeta come Caproni ci si debba sempre stupire ad ogni libro suo che esce per la qualità e soprattutto per l’intensità poetica. Ma questa è sempre stata un po’ la caratteristica della poesia di Caproni. Il suo primo libro risale al ’36, il secondo al ’38, eppure nell’Antologia di Anceschi I lirici nuovi Caproni non compare. Successivamente Caproni scrive alcune fra le più belle poesie che siano mai state scritte sulla Resistenza senza naturalmente essere neorealista, così come non era stato ermetico. Successivamente Caproni continua a lavorare sul suo verso, sulla sua poesia, in una maniera, addirittura, come dire, forsennata, eppure non è mai valso per lui il concetto di sperimentalismo neoavanguardistico. In sostanza che cosa si può dire, di Caproni? Si può dire che in realtà ha sempre perseguito una sua idea di poesia, non ha mai barato, non ha mai cambiato, salvo naturalmente la propria maturazione; ma non ha mai cambiato quella che era la sua vocazione poetica. E questo ha fatto sì che la sua poesia risulti sempre ogni volta nuova e nello stesso tempo 1

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non sia altro che un approfondimento di quella che invece è stata proprio la sua vocazione. Nell’ultimo libro, noi arriviamo a una poesia tale che oggi è difficile trovarne eguale in Italia. E Caproni ci arriva diversamente da come ci sono arrivati altri poeti, cioè ci arriva per via di una essenzializzazione della lingua, una scarnificazione del verso che potrebbe far pensare, non so, a certe figure di Giacometti come equivalenti. E quindi in questo senso la poesia di Caproni ha una sua unicità e direi anche che forse è oggi quella che più di ogni altra ha portato avanti quel filone dantesco che nella poesia italiana è rimasto invece molto, molto ai margini. Si potrebbe quasi ricordare per queste poesie di Caproni le rime petrose di Dante». 2 Il riferimento è all’epigrafe del Muro della Terra: «Siamo in un deserto / e volete lettere da noi?», tratta da una lettera di Annibal Caro a Gaddo de’ Gaddi. 3 Jacques Monod nel celebre Le hasard et la nécessité. Essai sur la philosophie naturelle de la biologie moderne, Paris Seuil, 1970 (trad. Il caso e la necessità, Milano, Edizioni scientifiche e tecniche Mondadori, 1970), partendo dalle nuove scoperte di biologia molecolare e genetica, postulò sotto il profilo ontologico una nuova idea del rapporto tra caso e necessità. 4 Si riportano qui gli interventi video di Alessandro Parrochi e Alfredo Giuliani. Alessandro Parrochi: «Il seme del piangere è senz’altro il libro rivelazione di Caproni. Nella prima parte di quel libro, i Versi livornesi, descrive quello straordinario idillio con la madre fanciulla che nella sua morbosità struggente è forse uno dei risultati più alti della poesia italiana moderna. In questo ultimo libro, Il muro della terra, che in Dante significa le mura della città di Dite, me che forse per Caproni significa proprio il muro di terra, quello che ci crollerà addosso. Montale era partito dalla scoperta del vuoto, il vuoto alle sue spalle, e dopo questa scoperta allora ha seguitato. Caproni trova da ultimo, davanti a sé, il vuoto, e forse anche oltre a sé: e questa è una scoperta sconcertante. È il problema della vecchiaia, il problema dell’invecchiamento, che ritroviamo anche in altri poeti italiani. Va fatto soprattutto in questo caso il nome di Betocchi per una certa concordanza di risultati ultimi a cui arriva, come Caproni. Ma Caproni ha una sua originalità. Comunque questo problema dell’invecchiamento, di come affrontano il terzo tempo dell’esistenza i poeti contemporanei, i poeti della mia generazione, risulta una delle cose più interessanti della poesia moderna italiana». Alfredo Giuliani: «Tra i poeti della sua generazione – che è la generazione che si svolge tra ermetismo e postermetismo, cioè la generazione immediatamente successiva a Ungaretti, Saba, Montale – io penso che Giorgio Caproni sia quello che ha avvertito con più scaltrezza e con più intelligenza un principio essenziale dell’arte moderna: cioè che l’opera agisce in virtù di un contrasto, un contrasto strutturale tra materiale e forma. Infatti la poesia di Caproni è sempre stata caratterizzata da quello che possiamo chiamare il nervosismo della forma. E questo è vero anche a livello ideologico: cioè non è interessante che un poeta sia religioso o ateo, ma può diventare molto interessante che sia religiosamente ateo. Oppure, è abbastanza ovvio che un poeta lirico sia autobiografico, ma non è altrettanto ovvio che sia autobiografico senza essere narcisista. Ora, per esempio, queste due caratterizzazioni convengono a Caproni. In questo ultimo libro direi che Caproni porta al punto massimo possibile, nell’ambito delle sue virtù stilistiche, il contrasto tra materiale e forma. In questo libro domina la forma prediletta di Caproni, che è la canzonetta, la ballata, di settenari e ottonari, che è una forma leggera, di impronta settecentesca. Ora, in questo libro questa forma dal tono secco, delicatamente brusco, disincantato, gioca su immagini remote, silenziose, ovattate, desuete, ecco. Quindi abbiamo questo contrasto molto, direi, molto significativo tra, diciamo, la forma vitale, la forma vitalizzante e le immagini, che sono devitalizzate. Un altro contrasto, che è implicito in questo, è che con grazia – quindi con distacco – Caproni dice un’esperienza terribile. Ora, in questo libro, diciamo, terribilmente vuoto, in cui l’esperienza è essenziale – è l’esperienza del vuoto, del mancare dell’esperienza, è l’esperienza di non aver affatto esperienza – tutto questo viene

468 MELISSA ROTA espresso con immagini assolutamente prive di connotazione moderna. Le distanze sono calcolate in leghe, si va in diligenza, c’è il vetturale, c’è la lanterna, al massimo c’è una radio accesa in un bar fumoso, e il poeta non porta il cappotto ma il gabbano. Ora, stranamente, diciamo, queste immagini vecchie, un po’ ridicole anche, vanno a prendersi una forma, in questa struttura generale di forte contrasto, vanno a prendersi una forma, in questo lavoro artigiano così sottile del poeta, e finiscono per alludere al significato ulteriore, cioè un significato che va oltre il senso delle parole: cioè alludono alla sopravvivenza; e per un libro che, diciamo, pudicamente ma fermamente nega l’esperienza della sopravvivenza e della certezza, questo contrasto è, mi pare, una sottigliezza più stupefacente, ed è quella che dà a noi la possibilità di apprezzare in maniera particolare questo ultimo libro di Caproni».

[29] OGGI SERVE ANCORA SCRIVERE? Oggi serve ancora scrivere?, a cura di Domenico Porzio, dicembre 1975. Presumibilmente inedita. Sul verso del foglio autografo, assieme al dattiloscritto del questionario, è conservata all’Archivio Bonsanti (ACGV, GC II. 2.3.8) una lettera di Giorgio Caproni a Domenico Porzio:

1

Caro Porzio, mi son trovato in tasca il foglio che mi lasciasti a Bologna, e ahimè che avevo dimenticato nel trambusto. Ti rispondo in fretta, certo però che oramai sia troppo tardi. Perdonami. E vedi tu, comunque, se le mie righe hanno o no un senso. Non sono una poesia, e quindi – se «invalide» – ti sarò grato della cestinatura, a scanso di figuracce (e togli, se necessario). A che cosa è destinato, il questionario? Grazie del libro sul Surrealismo, che ho avuto. Buon Natale e buon anno nuovo. Tuo G.C. Robert Musil, Pagine postume pubblicate in vita, trad. di Anita Rho, Torino, Einaudi, 1970, pp. 9-10. 3 La citazione è dal capitolo quinto de Il Parini o vero della gloria delle Operette morali del Leopardi. 2

[30] PERCHÉ ROMA SCOMPARE DAI ROMANZI D’OGGI Perché Roma scompare dai romanzi d’oggi. Rispondono scrittori e poeti, in «Corriere della sera» (Roma), 21 marzo 1976. L’articolo completo include anche le risposte di Carlo Bernari, Giorgio Manganelli, Dario Bellezza, Alberto Moravia ed Enzo Siciliano alla domanda «Perché gli scrittori non scrivono più di Roma?»

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[31] SOLO LA POESIA PUÒ RIDARE VITA ALLA PAROLA Solo la poesia può ridare vita alla parola, in «Corriere del Giorno», 1 maggio 1976. Nel cappello introduttivo dell’articolo si legge: «Serata culturale d’eccezione a Taranto, al salone della Provincia, organizzata dalla “Dante Alighieri” e dal Centro culturale “In Primo Piano”: il poeta Giorgio Caproni ha provocato alla cultura giovani e professionisti, accorsi numerosi, con un discorso-dialogo meditato e sofferto di riflessioni personali, che riflettevano, cioè, la vita dell’uomo e del poeta e delle generazioni in mezzo alle quali ha vissuto la sua angosciosa avventura. / Mezzo secolo di letteratura è sfilato in un’ora di dialogo, animato e pungolato di curiosità conoscitive di letteratura, di arte e di poesia: la lingua e il linguaggio, Dio e l’uomo, la vita e la morte, lo scrittore e il lettore, le avanguardie e la tradizione. Ma, soprattutto, il miracolo della poesia: essa esiste se esiste l’incontro di fruizione tra il poeta e chi si accosta al poeta, leggendo, approfondendo un’esperienza di vita più che mai umana».

[32] LE MIE CITTÀ PIÙ AMATE Le mie città più amate, in «Il Telegrafo», 16 maggio 1976.

[33] [RICORDO DI NICOLA LISI] Intervista, a cura di Melo Freni, 25 novembre 1975. Trasmessa il 6 luglio 1976 dal «Tg1», Programma Nazionale.

[34] UNA SOFFERTA SOLITUDINE Incontro con il poeta livornese Giorgio Caproni. Il tema centrale delle sue poesie è quello di una sofferta solitudine, a cura di Ferdinando Clavarino, in «Il nostro tempo», XXXI, 29 agosto 1976, 31. 1

Si veda intra l’intervista [28].

2

Gianni Pozzi, La poesia italiana del Novecento, Torino, Einaudi, 1965.

[35] [IL FINE ULTIMO DEL POETA È SOLO QUELLO DI FAR POESIA] [Il fine ultimo del poeta è solo quello di far poesia], a cura di Ada Muntoni Comparini, in «Dulcamara», maggio-giugno 1977, 3.

470 MELISSA ROTA Caproni commette un piccolo errore: l’autore del libro in questione è Ildebrando Bencivenni (e non Bencivenga, confuso forse con il coetaneo Roberto Bencivenga): Ildebrando Bencivenni, Le avventure di compare Grillo, Firenze, A. Salani, 1925. 2 Caproni si riferisce presumibilmente alle neoavanguardie degli anni Sessanta, di cui altrove dice: «Sento molto il freddo del laboratorio, in quella poesia. È una poesia come in fiala. Non riesce, per me, a passer la rampe, a superare la ribalta, ad arrivare al pubblico». Si veda anche intra l’intervista [109]. 3 Si veda intra la n. 2 all’intervista [29]. 4 René Char, Le Rempart de brindilles, Paris, Louis Broder, 1953, p. 15: «Le dessein de la poésie étant de nous rendre souverains en nous impersonnalisant, nous touchons, grâce au poème, à la plénitude de ce qui n’était qu’esquissé ou déformé par les vantardises de l’individu. // Les poèmes sont des bouts d’existence incorruptibles que nous lançons à la gueule répugnante de la mort, mais assez haut pour que, ricochant sur elle, ils tombent dans le monde nominateur de l’unité». 1

Caproni utilizza quasi le stesse parole per descrivere il monumento del Baratta nell’intervista televisiva Il passaggio di Enea, oggi in Gli scrittori raccontano. Tutto Caproni 19731983, Rai, 1997. 6 Nessuno torna indietro, Milano, Mondadori, 1938. 7 Si veda intra l’intervista [29]. 8 Desmond Morris, The Naked Ape: A Zoologist’s Study of the Human Animal, London, Jonathan Cape, 1967. 9 Il riferimento è a due famosi calciatori italiani, Roberto Boninsegna (Mantova 1943) e Luigi Valsecchi (Venezia 1921-Venezia 1989). 5

[36] INCHIESTA SUL PREMIO NOBEL Inchiesta sul Premio Nobel, a cura di Pirkko-Liisa Ståhl, 4 ottobre 1977. La Ståhl chiede l’opinione di Caproni in merito al Premio Nobel per una serie di articoli per la stampa svedese e finlandese. Riportiamo qui la trascrizione del dattiloscritto conservato all’Archivio Bonsanti (ACGV GC. 742.1-2).

[37] DOMANDE SU ESENIN E UNGARETTI Domande su Esenin e Ungaretti, a cura di Serena Vitale, 2 marzo 1978. Serena Vitale lavorò ad un articolo dal titolo Esenin in Italia destinato alla pubblicazione su una rivista sovietica non specificata, come risulta dal suo scambio epistolare con il poeta conservato presso l’Archivio Bonsanti. All’intervento di Caproni se ne affiancò uno di Vittorio Sereni. Sergej Aleksandrovič Esenin, Poesie, a cura di Olga Resnevic e Franco Matacotta, Modena, Guanda, 1946.

1

NOTIZIE SUI TESTI 471 2

Poesia russa del Novecento, a cura di Angelo Maria Ripellino, Parma, Guanda, 1954.

[38] POESIA: UN BENE-RIFUGIO Poesia. Un bene-rifugio nell’età del consumismo, a cura di Claudio Marabini, in «Il Resto del Carlino», 24 ottobre 1979. 1

Si veda intra la n. 2 all’intervista [5].

[39] GENOVA Genova, in «Weekend», VII, ottobre 1979, 42 (poi parzialmente in Genova di tutta la vita, a cura di Giorgio Devoto e Adriano Guerrini, S. Marco dei Giustiniani, Genova, 1983, pp. 9-13). Il riferimento è all’opera di Guy de Pourtalès, Nietzsche in Italia (1929), a cura di Giuseppe Monanni, Milano, Bompiani, 1945, pp. 43-49. 2 Charles Dickens, Pictures from Italy, 1846. 3 Il riferimento è alla Guida artistica per la città di Genova di Federigo Alizeri, edito presso Gio. Grondona Q. Giuseppe, Genova, 1846. La citazione di Caproni non è letterale e riprende liberamente la p. 249 della Guida illustrativa del cittadino e del forastiero per la città di Genova e sue adiacenze, sempre dell’Alizeri, ed. Sambolino, 1875: «Era luogo deserto e di mala voce, e la porta medesima non ben sicura di ree opere o di sconci congressi». 4 Si tratta del dialetto genovese. 1

[40] COM’È DIFFICILE TRADURRE UNA MUSICA Com’è difficile tradurre una musica, a cura di Antonio Debenedetti, in «Corriere della sera illustrato», 16 febbraio 1980. In occasione del centenario della nascita di Guillaume Apollinaire, la BUR pubblicò un’ampia antologia di suoi scritti tradotti da Caproni [Guillaume Apollinaire, Poesie, scelta e traduzione di Giorgio Caproni, introduzione e note di Enrico Guaraldo, Milano, Rizzoli “BUR”, 1979]. Per un’analisi approfondita del contenuto e del riscontro di critica del volume cfr. Anna Dolfi, Trascrivere per violino: Caproni e un’antologia di Apollinaire, in Antologie e poesia del Novecento italiano, a cura di Giancarlo Quiriconi, Roma, Bulzoni, 2011, pp. 113-153 (ora in A. Dolfi, Caproni, la cosa perduta e la malinconia, Genova, Fondazione Giorgio e Lilli Devoto, 2014). 1

La citazione, spesso utilizzata da Caproni, è tratta dai foscoliani Sepolcri.

472 MELISSA ROTA

[41] [LA MUSICA DEL VERSO] [Intervista], a cura di Claudio Angelini, Rg2, Rai Radio Due, 25 febbraio 1980. La citazione è tratta da A Silvia del Leopardi. Il riferimento è a Poesie di Apollinaire, con testo a fronte, trad. di Mario Pasi, prefazione di Sergio Solmi, Parma, Guanda, 1960 (poi più lungamente in S. Solmi, La luna di Laforgue e altri scritti di letteratura francese, Milano, Mondadori, 1976).

1 2

[42] [LA TRADUZIONE NON PUÒ ESSERE FREDDA OPERAZIONE DA LABORATORIO] [Intervista], a cura di Paolo Mattei, in «L’informatore librario», 13 marzo 1980. Presumibilmente inedita. Se ne conserva un dattiloscritto presso l’Archivio Bonsanti (ACGV, GC I.866.1). Caproni a fondo pagina annota: «Queste righe sono state scritte molto in fretta. Veda lei, la prego, se vi sono errori».

[43] ASCOLTIAMO I NOSTRI POETI Ascoltiamo i nostri poeti. Giorgio Caproni, a cura di Luciano Luisi, in «Il Gazzettino», 12 aprile 1980 (poi in Giorgio Caproni, a cura di Luciano Luisi, in Lo scrittore e l’uomo. Poeti e narratori allo specchio. Brignetti, Betocchi, Caproni, Luzi, Martin, Montale, Pomilio, Pratolini, Prisco, Soldati, Zanzotto, prefazione di Claudio Marabini, Modena, Mucchi, 2000, pp. 66-72).

[44] [LA RICERCA DELLA PROPRIA REALTÀ] [Intervista], a cura di Guido Garufi, in «Punto d’incontro», 7 ottobre 1980. Presumibilmente inedita. Se ne conserva un dattiloscritto all’Archivio Bonsanti (ACGV, GC I.856.2). In una lettera datata 7 ottobre 1980 indirizzata a Guido Garufi Caproni afferma di avere pronto un primo abbozzo di risposte all’intervista, ma di volerle rivedere con più calma. Giovanni Raboni, Caproni al limite della salita, in «Paragone», dicembre 1977, 334, poi come introduzione dell’antologia caproniana da lui curata, L’ultimo borgo, Milano, Rizzoli (BUR), 1980, infine incluso (anepigrafo e con alcune integrazioni) nella sezione Alcuni scritti sulla poesia di Caproni posta in appendice a TP, pp. 989-994. Il brano di Raboni viene non solo segnalato da Caproni nel testo dell’intervista, ma anche riportato interamente dal poeta in una nota posta in calce al dattiloscritto: 1

NOTIZIE SUI TESTI 473

«Da parecchi anni, ormai (perlomeno dal Seme del piangere, ma con significative anticipazioni nelle raccolte precedenti), la poesia di Caproni ha un assetto ritmico e sintattico veramente specifico e tipico, in forza del quale la pronuncia ci appare come una delle più originali e inconfondibili della poesia italiana di questo secolo. Mi riferisco, è chiaro, a quel ritmo ansioso e turbinoso, apparentemente cantabile ma in realtà irto di sottili inceppamenti, décalages, dissonanze, che dà alla voce di Caproni una sorta di strascicata e trascinante dolcezza nevrotica. Dal punto di vista metrico, Caproni finge o mima spesso, il rispetto di forme tradizionali: ma non ci vuol molto ad accorgersi che i suoi settenari hanno, molte volte, otto o nove sillabe, che le sue rime sono non di rado paradossali o parodistiche, che il suo uso dell’enjambement (la sua tendenza a infrangere la corrispondenza tra frase e verso, tra l’unità di senso e unità di ritmo) è così frequente da diventare una regola. / Storicamente, nello sviluppo della poesia di Caproni, il tipo metrico che qui sopra ho cercato di delineare brevemente ha una sua preistoria, che può essere rintracciata nei versi brevi, ma non ancora così preziosamente lavorati, delle poesie degli anni Trenta; una controstoria, che consiste nell’addizione, in parecchie poesie composte far il 1943 e il 1955, di ipotesi metriche completamente diverse (e proprio per questo oscuramente, paradossalmente uguali) a base endecasillaba e con prevalenza della forma sonetto, sia pure in versioni irte, stipate, angolose». 2 Antonio Girardi, Metri di Giorgio Caproni, in «Nuovi Argomenti», gennaio-marzo 1979, 61, pp. 194-232 (poi in Cinque storie stilistiche: Saba, Penna, Bertolucci, Caproni, Sereni, Genova, Marietti, 1987, pp. 99-132).

[45] IO AMICO DEL DOLORE Io amico del dolore, a cura di Giuseppe Frangi, in «Il Sabato», 24 gennaio 1981. 1

TP, pp. 989-994.

[46] IL LIBRO PIÙ IMPORTANTE DEL DOPOGUERRA Caproni: il libro più importante del dopoguerra, a cura di Aurelio Andreoli, in «Paese Sera», 3 marzo 1981. Una copia dell’articolo, conservata presso l’Archivio Bonsanti (ACGV, GC II.2.3.15), presenta un’annotazione manoscritta di Caproni: «Non ho detto questo io! Tutto alterato. “La minuscola, incredibilmente minuscola macchina da scrivere”, per esempio, è sparita». 1

[47] [REALTÀ COME UN’ALLEGORIA] [Intervista], a cura di Geno Pampaloni, 23 marzo 1981. Se ne conserva il dattiloscritto all’Archivio Bonsanti (ACGV, GC I.559.1-8); non è stato possibile, tuttavia, rintracciare la destinazione di pubblicazione.

474 MELISSA ROTA 1 Luciano Anceschi, Le poetiche del Novecento in Italia. Studio di fenomenologia e storia delle poetiche, Torino, Paravia, 1972, p. 202. 2 Poeti italiani del Novecento, a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, Milano, Mondadori, 1978, pp. 699-704. 3 André Frénaud, Non c’è paradiso, traduzione e note di Giorgio Caproni, introduzione di Stefano Agosti, Milano, Rizzoli, 1971. 4 Antonio Girardi, Metri di Giorgio Caproni cit. 5 Il riferimento è alla Nota posta in apertura del «Terzo libro» e altre cose, Torino, Einaudi, 1968: «questa mia scelta vuol essere qualcosa di più d’una pura e semplice ristampa o riproposta, e anche qualcosa di più d’una ben circoscritta parte di quell’autoantologia che di tratto in tratto, e soltanto per me, si capisce, vo vagheggiando. Vuol essere la ricostruzione d’un libro – il mio terzo libro, appunto – che già incorporato nel folto Passaggio d’Enea, mancò tuttavia d’uscire al netto della sua propria e precisa fisionomia, e che isolato e riorganizzato nella sua intima struttura, e infine tutto in sé concluso, mi piace oggi riconsiderare, con sufficiente distacco, come indicativo a me stesso della direzione – credo rimasta determinante – della mia ricerca negli anni che pressappoco corrono, piccole appendici e digressioni a parte, dal ’43 al ’54» (ora in Nota al “Il passaggio d’Enea” in TP, p. 189). 6 In Giuseppe De Robertis, Altro Novecento cit., pp. 484-488 (ora in TP, pp. 981-984). Il pezzo dal titolo Il seme del piangere da cui Caproni estrapola le due citazioni era già apparso su «La Nazione» del 5 settembre 1959, dove erano stati ripubblicati due articoli di De Robertis per il «Tempo» del 4 ottobre 1952 e del 8 novembre 1956. 7 Giovanni Raboni, TP, p. 989: «La poesia di Caproni coagula, fin dall’inizio, intorno a pochi, fondamentali nuclei tematici. Nell’ordine – cioè più o meno nella successione secondo la quale si sono manifestati; ma la loro connessione è così stretta da determinare un intreccio praticamente indissolubile – possiamo distinguere tre grandi temi: il tema della città, il tema della madre, il tema del viaggio. […] È certo, comunque, che i tre temi hanno un comune denominatore, che è quello dell’esilio». 8 Si veda intra la n. 3 all’intervista [28].

[48] VIA FOÀ A MONTEVERDE Caproni / Via Foà a Monteverde, a cura di Antonio Debenedetti, in «Corriere della Sera», 3 aprile 1981. Si tratta di una rubrica intitolata Una strada, curata da Antonio Debenedetti per il «Corriere».

[49] SE MI LAMENTASSI CHE POETA SAREI? Se mi lamentassi che poeta sarei?, a cura di Enzo Fabiani, in «Gente», 3 aprile 1981. Quanto a Calvino, si veda l’articolo Nel cielo dei pipistrelli, in «La Repubblica», 19 dicembre 1980 (poi con il titolo Il taciturno ciarliero, in Genova a Giorgio Caproni, a cura di Giorgio Devoto e Stefano Verdino, San Marco dei Giustiniani, Genova, 1982; ora in TP, pp. 999-

1

NOTIZIE SUI TESTI 475

1002). Per quanto riguarda Carlo Cassola il riferimento è a La rima in cuore e amore, in «La Stampa», 14 dicembre 1980.

[50] CAPRONI IL POETA DELL’ESILIO Caproni il poeta dell’esilio, a cura di Claudio Marabini, in «Il Resto del Carlino», 27 maggio 1981. 1 2

Si veda intra la n. 7 all’intervista [47]. Si veda intra la n. 6 all’intervista [47].

[51] LUOGHI DELLA MIA VITA E NOTIZIE DELLA MIA POESIA Luoghi della mia vita e notizie della mia poesia, a cura di Walter Binni, in «La Rassegna della Letteratura Italiana», LXXXV, settembre-dicembre 1981, serie 7, pp. 421-424 (poi in G. Caproni, Prose critiche 1934-1989 cit., IV, pp. 1961-1966). Il testo si trova nella sezione Notizie e dichiarazioni di scrittori (1911-1917), in Luoghi della mia vita e notizie della mia poesia. Al riguardo il curatore Walter Binni afferma: «Raccoglie notizie autobiografiche e dichiarazioni dirette e indirette di poetica datemi su mia richiesta da parte di scrittori della generazione di anni poco precedenti la “grande guerra” e in essa compresi». Il brano qui riprodotto manca, rispetto all’originale, di una prima parte, che riprende testualmente Le mie città più amate (si veda intra l’intervista [32]). Alcune varianti, tuttavia, si possono rintracciare nella parte conclusiva dei paragrafi omessi: «[…] attività di traduttore, che per me è stata un’esperienza faticosa ma utile, proprio perché ho sempre creduto nell’impossibilità del tradurre. (Aggiungerò, tra parentesi, che con Roma non sono mai riuscito a entrare in dimestichezza: non son mai riuscito a sentirla, neppure in parte, mia. Forse perché è una scarpa troppo grande – o “grandiosa” – per il mio piede. Ma è a Roma che ho fatto i miei incontri più proficui, e ho stretto le amicizie più tenaci, e questo mi ripaga a sufficienza di tutto il resto)». 1

Si veda intra l’intervista [6].

[52] E DOPO IL LIMITE C’È SOLO «NIENTE» E dopo il limite c’è solo “niente”, a cura di Sandra Petrignani, in «Il Messaggero», 20 gennaio 1982. Il riferimento è all’almanacco Poesia tre, Milano, Guanda, 1981, nel quale vennero pubblicate le poesie L’esitante, Rivelazione, Rivalsa e Sulla staffa.

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476 MELISSA ROTA G. Caproni, Quaderno di traduzioni, a cura di Enrico Testa con una prefazione di Pier Vincenzo Mengaldo, Torino, Einaudi, 1998. Il volume fu solo progettato dall’autore, e uscì postumo con una scelta delle traduzioni poetiche da autori francesi e spagnoli (Apollinaire, Char, Frénaud, Prévert, Verlaine, René Guy Cadou, Henri Thomas, Théophile de Viau, Hugo, Baudelaire, García Lorca e Machado).

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[53] LE LETTURE DEI POETI Le letture dei poeti, a cura di Nicoletta Pietravalle, in «Il Tempo», 6 marzo 1982. Dichiarazione del poeta circa le proprie letture.

[54] DISPERATO MA CON CALMA E OSTINAZIONE Disperato ma con calma e ostinazione, a cura di Aurelio Andreoli, in «Paese sera», 14 marzo 1982, poi parzialmente ripubblicato in Viviamo senza centro, a cura di Aurelio Andreoli, in «Il Secolo XIX», 23 gennaio 1990.

[55] IL POETA È «UNO SPATRIATO» Il poeta è «uno spatriato», in «Tuttolibri», CXVI, 22 maggio 1982, 105, p. 2. Lo spatriato, TP, p. 479: «Lo hanno portato via / dal luogo della sua lingua. / Lo hanno scaricato male / in terra straniera. / Ora, non sa più dove sia / la sua tribù. È perduto. / Chiede. Brancola. Urla. // Peggio che se fosse muto». 1

[56] SONO UN GENOVESE IN ESILIO Il poeta: «Sono un genovese in esilio», a cura di P.L., in «La Stampa», 25 maggio 1982. L’incontro descritto avvenne al teatrino di Portofino, in occasione della lettura di versi caproniani da parte di Ferruccio De Ceresa.

[57] POESIA E CONDIZIONE UMANA Poesia e condizione umana, a cura di Diego Zandel per AGI (Agenzia Giornalistica Italia), 26 maggio 1982-24 giugno 1982.

NOTIZIE SUI TESTI 477 1 Il riferimento è al personaggio di don Abbondio così come appare nel primo capitolo dei Promessi Sposi: «[…] la ragione e il torto non si dividono mai con un taglio così netto che ogni parte abbia soltanto dell’uno». 2 Si tratta di Genova a Giorgio Caproni; il volume contiene saggi e interventi di Gaetano Mariani, Antonio Barbuto, Luigi Surdich, Giovanni Raboni, Giuseppe Marcenaro, Mario Boselli, Antonio Girardi, Ciro Vitiello, Giorgio Bàrberi Squarotti, Marco Forti, Mario Picchi, Ugo Dotti, Piero Bigongiari, Vittorio Coletti, Vincenzo Cerami, Vico Faggi, Adriano Guerrini, Roberto Mussapi, Italo Calvino, oltre a testimonianze di Attilio Bertolucci, Franco Fortini, Giovanni Giudici, Mario Luzi, Pier Paolo Pasolini, Vittorio Sereni, Cesare Vivaldi.

[58] LA CONQUISTA DEL «PRETICELLO DERISO» Caproni: la conquista del «preticello deriso», a cura di Gloria Piccioni, in «Il Tempo», 31 dicembre 1982. S. Giovanni della Croce, Tutte le opere. Testo spagnolo a fronte, a cura di Pier Luigi Boracco, Milano, Bompiani, 2010: «Sì sublime è l’eccellenza / di cotesto alto sapere, / che non v’è potenza, o scienza / che lo possa conquistare; / chi se stesso vincer sappia / con un non saper sapendo, / andrà sempre trascendendo».

1

[59] IL CACCIATORE DI VERITÀ Il cacciatore di verità, a cura di Luciano Luisi, in «Primissima», 16 febbraio 1983.

[60] IN VIA PIO FOÀ CON CANDORE E CON SGOMENTO In via Pio Foà con candore e con sgomento, a cura di Renato Minore, in «Il Messaggero», 17 febbraio 1983 (poi ripresa in Giorgio Caproni a colloquio con Cavalleri, a cura di Cesare Cavalleri, in «Cultura e libri», III, settembre-dicembre 1986, pp. 16-17; poi in Giorgio Caproni. Il poeta è un minatore, in La promessa della notte. Conversazioni con i poeti italiani, a cura di Renato Minore, Roma, Donzelli Editore, 2011, pp. 37-48). 1 2

Nell’edizione definitiva diverrà: « […] di fulminato spavento». W. Busch, Max e Moritz ovvero Pippo e Peppo, Milano, Rizzoli, 1974.

[61] NOSTALGIA DEI PANCALDI Giorgio Caproni. Nostalgia dei Pancaldi, a cura di Corrado Pizzinelli, in «Toscana Qui», 5 maggio 1983 (poi in Dialogo sulla letteratura cit., pp. 76-78).

478 MELISSA ROTA

[62] UN POETA IN CERCA DELL’ANIMA Un poeta in cerca dell’anima, a cura di Cesare Cavalleri, in «Studi Cattolici», XXVII, ottobre 1983, 272, pp. 603-606 (poi in «Cultura e libri», III, settembre-dicembre 1986, pp. 16-17). Gaetano Mariani, Primo tempo di Giorgio Caproni, in Genova a Giorgio Caproni, cit. (poi in Poesia e tecnica nella lirica del Novecento, nuova versione aggiornata e accresciuta, Padova, Liviana Editrice, 1983, pp. 417-449). 2 TP. 3 Elena De Bosis Vivante, alla quale Sbarbaro aveva dedicato Trucioli. 4 Antonio Machado, Consejos, in Humorismos, fantasías, apuntes: «Moneda que está en la mano / quizá se deba guardar; / la monedita del alma / se pierde si no se da». 1

[63] CINQUANT’ANNI RICUCITI Cinquant’anni ricuciti, a cura di Renato Minore, in «Il Messaggero», 7 dicembre 1983. Si veda intra la n. 1 all’intervista [62]. L’opera che seguì Tutte le poesie fu invece Il conte di Kevenhüller, Milano, Garzanti, 1986. 3 Per avere una raccolta completa delle prose saggistiche caproniane bisognerà attendere La scatola nera, a cura di Giovanni Raboni, Milano, Garzanti, 1996; e infine Racconti scritti per forza, a cura di Adele Dei, con la collaborazione di Michela Baldini, Milano, Garzanti, 2008. 1 2

[64] [I MAGGIORI RICONOSCIMENTI NON SONO PREMI IN DENARO] Poeti d’oggi in discussione con Luciana Corda, Rai Radio Tre, dicembre 1983. [65] A PROPOSITO DI UN… FURTO! A proposito di un… furto!, in Ungaretti e la cultura romana, Atti del Convegno 13-14 novembre 1980, a cura di Rosita Tordi, Roma, Bulzoni, 1983. [66] CREDO IN UN DIO SERPENTE Credo in un dio serpente, a cura di Stefano Giovanardi, in «La Repubblica», 5 gennaio 1984 (poi in «Galleria» cit.; poi in Dialogo sulla letteratura cit., pp. 42-44).

[67] POETA A OCCHI APERTI Poeta ad occhi aperti, a cura di Alberto Toni, in «Paese Sera», 6 gennaio 1984 (poi in «Galleria» cit.).

NOTIZIE SUI TESTI 479

[68] NON ESISTE, MA NELLA DISPERAZIONE L’HO SEMPRE CERCATO Non esiste, ma nella disperazione l’ho sempre cercato, a cura di Giuseppe Grieco, in «Gente», 13 gennaio 1984. 1 Il riferimento è all’articolo di Pietro Citati pubblicato sul «Corriere della Sera» del 25 luglio 1982; ora in TP, pp. 995-998. 2 «Corriere della Sera», 4 giugno 1982: è lo stesso Citati a citare nel suo discorso l’articolo di Testori. Ora in nota in TP, p. 995. 3 Si noti l’uso della prima persona, al posto della terza, in questa versione della poesia all’epoca ancora inedita.

[69] ASCOLTATE IL VATE DELLA FORESTA Un grande poeta racconta la sua vita. Ascoltate il vate della foresta, a cura di Michele Dzieduszycki, in «L’Europeo», 18 febbraio 1984 (poi in M. Dzieduszycki, Pagine sparse. Fatti e figure di fine secolo, Empoli, Ibiskos Editrice, 2007, pp. 148-152; poi in Dialogo sulla letteratura cit., pp. 86-90). Si veda intra la n. 6 all’intervista [47]. Si veda ivi. 3 Per Giovanni Raboni si veda intra la n. 7 all’intervista [47]. Quanto all’intervento di Geno Pampaloni, si veda la Nota a Tutte le poesie, Milano, Garzanti, 1983, pp. 627-632 (poi in Poesie 1932-1986, Milano, Garzanti, 1989, pp. 815-818; poi in TP, pp. 1009-1012). 4 Si veda intra la n. 2 all’intervista [68]. 1 2

[70] E TU, POETA, SALIRAI ALL’ULTIMA STAZIONE E tu, poeta, salirai all’ultima stazione, a cura di Antonio Socci, in «Il Sabato», 25 febbraio-2 marzo 1984. Si veda intra la n. 7 all’intervista [47]. Entrambe le citazioni sono tratte dalle Lettere familiari di Annibal Caro. Per la prima si veda intra la n. 2 all’intervista [28]; la seconda si trova nel carteggio tra il Caro e Silvestro Da Prato, lettera n. 23: «Piove, e siamo all’osteria, e in una Terra come questa, dove non avremo né che fare, né che vedere». 3 Giovanni Raboni, TP, p. 991. 4 Si veda intra la n. 3 all’intervista [28]. 5 A seguito dell’intervista a Caproni, Piero Bigongiari, Mario Luzi e Maurizio Cucchi scrivono sul tema «La poesia e il senso della vita». Riportiamo qui gli interventi: 1 2

Piero Bigongiari: «La poesia, se serve a qualcosa, serve a dare un significato alla vita piuttosto che cercare di essa il significato, che non esiste astrattamente, ma solo nella realtà del

480 MELISSA ROTA vissuto. / E la poesia è, per eccellenza, il vissuto. / Ed è un significato che non può essere ideologizzato, non può divenire una formula buona per tutti gli usi. È un significato che emerge da un significante che non lo conosce a priori e direi che non lo conosce nemmeno, come estraibile tout court, a posteriori, nel senso che la poesia mette ogni volta in ballo la sua stessa ragion d’essere, cioè la ragion d’essere dell’uomo, non è una cambiale in bianco né un’assicurazione sulla vita, semmai ne è la provocatrice con tutte le mirabili intemperanze che ogni provocazione tanto decisiva comporta. La poesia è ciò che non sappiamo, ma è proprio ciò che non sappiamo che dà sapore alla vita, ne accresce la vitalità, accende l’allegria dell’essere: porta l’essere al suo diapason. / Anche la disperazione può essere quel diapason, ma anche la speranza, la scandalosa speranza. / Eraclito dice: «Se non speri, non troverai l’insperato, introvabile essendo questo e inaccessibile»; e dice anche: «tu non troverai i confini dell’anima per quanto vada innanzi tanto profonda è la sua ragione». / E un mio verso antico – chiedo venia per l’autocitazione –: “Ti perdo per trovarti” [Piero Bigongiari, Eco di un’eco, in Poesie 1942-1992, a cura di Giancarlo Quiriconi, Milano, Editoriale Jaca Book, 1994, p. 10]. La perdita fa parte del sistema di ritrovamento, e l’uomo, legato al filo della memoria, ritrova: ma egli tanto più intimamente possiede quanto quello che più profondamente ha perduto». Mario Luzi: «La poesia si è sempre raccolta intorno a questo interrogativo. È un’inchiesta sul mistero dell’esistenza. Non vedo poesia che non includa questa domanda. Anche nella sua forma più elementare essa è un’interrogazione. Quando fosse tutto chiarito il rapporto di causa effetto come un teorema, allora la poesia non esisterebbe più, oppure esisterebbe solo come dimostrazione, celebrazione del senso. / Di fronte all’incertezza dell’essere, all’incognita totale, al mistero, la poesia ripara nella certezza delle sue parole, ha solo questa certezza contro l’incognita di tutto il resto. / Ci sono poi ricorrentemente movimenti poetici che mettono invece al centro lo stravolgimento della forma, lo stesso operare sulla forma; sono delle evasioni, degli abili che confermano il Problema. / Lo spazio di questo interrogativo sul perché della vita ha una temperatura molto alta perciò dà luogo a movimenti compensativi, astuzie della psiche e dell’inventiva, fuga nel piacere del testo: sono evasioni che denunciano per contrasto qual è il vero centro. / Centro che non sempre è sostenibile perché converge tutto sulla domanda dell’essere, dell’esserci e del perché della vita». Maurizio Cucchi: «L’identità della poesia non è granché mutata nel corso del tempo. Come altre forme d’arte si è mossa e continua a muoversi dalla necessità di esprimersi alla necessità di conoscere. Terzo decisivo elemento è nel fare, nel rapporto particolare, cioè, con la materia, coi materiali linguistici, con la lingua, nei confronti della quale il poeta ha sempre un rapporto di particolare privilegio: di produttivo attrito. / È chiaro che il poeta muove da una necessità d’espressione, prima e più ancora che da un bisogno di conoscenza, verso cui semmai, senza intenzione precisa, si dirige. Ed è quindi probabile che il farsi della poesia sia anche un movimento verso la chiarezza o il chiarimento di ciò che si sente, attraverso il lavoro sui materiali linguistici. Ed è altrettanto probabile che il momento del fare poesia, costituisca anche il momento di massima conoscenza attiva della parola, dei valori virtuali straordinari della lingua, filtrata dall’esperienza (così come, del resto, l’esperienza nel testo è filtrata dalla lingua). Il testo compiuto è dunque una possibilità di emozione (e quindi di una particolare forma viva di conoscenza) dell’interlocutore (e il primo interlocutore, colui che legge il testo scritto per primo, è sempre, necessariamente, il poeta stesso). / C’è stato un periodo in cui credevo molto nella poesia come via alla conoscenza. Oggi la cosa mi interessa molto meno, perché molto meno credo nella necessità di conoscere».

NOTIZIE SUI TESTI 481

[71] TENSIONI E STUPORI DI UN CACCIATORE Tensioni e stupori di un cacciatore, a cura di Isabella Donfrancesco, in «L’Informatore librario», VI, febbraio-marzo 1984, 2-3 (poi in Dialogo sulla letteratura cit., pp. 64-68).

[72] [L’IRONIA SALVA DALL’ENFASI] Intervista a Giorgio Caproni, a cura di Paola Lucarini, in «Firme nostre», marzo 1984. 1 2

M. Luzi, Per ‘Il muro della terra’ di Giorgio Caproni, in «L’Albero», 1975, 53. Si veda poi Il labirinto cit.

[73] IL PARTIGIANO GIORGIO Il partigiano Giorgio. Da lontani cassetti un Caproni narratore, a cura di Claudio Marabini, in «Il Resto del Carlino», 22 maggio 1984 (poi in I racconti di Caproni, in «La Nazione», 22 maggio 1984, poi in «Galleria» cit.). G. Caproni, Nota a Il labirinto cit., p. 8: «Perché il lettore possa inquadrare questi racconti nel periodo giusto della mia opera in versi, credo necessarie – soprattutto per le date di composizione – le seguenti indicazioni bibliografiche: / GIORNI APERTI – Itinerario di un reggimento dal fronte occidentale ai confini orientali. Scritto a Roma nel 1940 durante una breve licenza militare, nel ’42 apparve nella collana di Lettere d’oggi creata da Giovanni Macchia e G.B. Vicari, e da allora non fu più ristampato. / IL LABIRINTO. Scritto tra il ’44 e il ’45 a Loco di Rovegno in Alta Val Trebbia, partecipò ad un concorso bandito dalla rivista «Aretusa» diretta da Carlo Muscetta. Dichiarato vincitore da una giuria formata da Corrado Alvaro, Libero Biagiaretti, Francesco Jovine, Antonio Piccone Stella e Bonaventura Tecchi, uscì su quella medesima rivista nel numero gennaio-febbraio 1946, per poi riapparire, un poco ampliato, in «Tempo presente», Anno V, n. 7, luglio 1960. / IL GELO DELLA MATTINA. Scritto a Roma sul finire del ’47 (come ultimo capitolo di un romanzo, La dimissione, mai portato a compimento e del quale apparvero qua e là, nel ’48, alcuni frammenti), fu in parte pubblicato su «Il Lavoro nuovo» del 12 febbraio 1949 e, per intero, su «Paragone», 34 Letteratura, ottobre 1952. Nel ’54 formò una plaquette a sé nelle Edizioni Salvatore Sciascia di Caltanisetta». 2 Il riferimento è a Giorni aperti. Itinerario di un reggimento dal fronte occidentale ai confini orientali, titolo con cui venne pubblicato il racconto per «Lettere d’oggi» nel 1942. 3 Si veda intra la n. 1 all’intervista [40]. 1

[74] LA MUSICA È LA REGOLA DELLA MIA POESIA Caproni: la musica è la regola della mia poesia, a cura di Nico Orengo in «Tuttolibri»/«La Stampa», 16 giugno 1984 (poi in Dialogo sulla letteratura cit., pp. 55-57)

482 MELISSA ROTA Si veda intra la n. 3 all’intervista [28]. Si veda intra la n. 6 all’intervista [47]. 3 Franco Fortini, La Resistenza e la sua elegia. La continuità. Luciano Erba e Giorgio Caproni, in I Poeti del Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1977: «La sua materia è quella che nobilita situazioni e figure urbane, povere albe, latterie, giovani operai, ragazze, attraverso la costruzione d’una sorta di romanzo familiare […]». 1 2

[75] UN CANZONIERE DELL’ESILIO Poeti d’oggi: Giorgio Caproni, a cura di Franco Simongini, Rai, 20 luglio 1984. Si veda intra la n. 3 all’intervista [62]. Il riferimento è al teologo statunitense Thomas J.J. Altizer (Cambridge, 1927), che per primo negli anni Sessanta avviò il dibattito teologico sulla cosiddetta «morte di Dio». 3 Una voce fuori campo recita: «Un uomo solo, / chiuso nella sua stanza. / Con tutte le sue ragioni. / Tutti i suoi torti. / Solo in una stanza vuota, / a parlare. Ai morti.» (Condizione, MT). 1 2

[76] NON MI SAZIO DI GUARDAR LE STELLE Non mi sazio di guardar le stelle, in «Noidonne», luglio 1984. 1

La citazione è tratta dalle Rime del Tasso.

[77] LA NOSTALGIA DI NARRARE La nostalgia di narrare, a cura di Giuseppe Gigliozzi, in «L’Informatore librario», VI, luglio-agosto 1984, 4-6 (poi in Dialogo sulla letteratura cit., pp. 33-34). Si tratta di un commento-risposta all’articolo Poeta nel labirinto del racconto di Giuseppe Gigliozzi, in «L’informatore librario», VI, luglio-agosto 1984, 4-6. 1 2

Si veda intra la n. 1 all’intervista [73]. Si veda intra la n. 6 all’intervista [47].

[78] LA POESIA AL SERVIZIO DELL’UOMO La poesia al servizio dell’uomo, a cura di Francesco Mannoni, in «L’Unione sarda», 3 agosto 1984.

NOTIZIE SUI TESTI 483

[79] MIO DIO, PERCHÉ NON ESISTI? Mio Dio. Perché non esisti?, a cura di Luca Doninelli, in «Avvenire», 29 novembre 1984. I puntini di sospensione sono dell’autore. Cfr. la Nota a Il seme del piangere, TP, p. 247: «I Versi livornesi vanno dal ’54 (Preghiera, Il seme del piangere) al ’58, e i già composti non furono esclusi nel Passaggio d’Enea (meno due: Com’era acuto l’ago e Quanta Livorno d’acqua, che qui restituisco al loro luogo ideale), avendo già allora in mente di mettere insieme una raccoltina tutta dedicata a mia madre, promessa a Vanni Scheiwiller che l’annunziò sul suo catalogo col titolo presente e che m’ha già perdonato d’avergliela sottratta». 3 Si veda intra la n. 2 all’intervista [68]. 4 I poeti e la tromba (o della traducibilità), in «Il Lavoro nuovo», 24 agosto 1949, poi in «La Voce adriatica», 2 settembre 1949, poi in «Il Cammino», ottobre-dicembre 1952, 10-1112, pp. 57-58. 5 Si veda intra la n. 1 all’intervista [40]. 6 Si veda intra la n. 1 all’intervista [79]. 1 2

[80] COME FARE UN’ENCICLOPEDIA OGGI Come fare un’enciclopedia oggi, in «Il Tempo», 7 dicembre 1984 (poi in G. Caproni, Prose critiche 1934-1989 cit., IV, p. 1983).

[81] L’INFANZIA, ETÀ PURA DELL’UOMO Giorgio Caproni. L’infanzia, età pura dell’uomo, in I ragazzi, i poeti, la poesia, a cura di Giancarlo Innocenti, Edizioni del Comune di Pistoia, 1984, pp. 40-43.

[82] POETI AL MICROFONO Poeti al microfono. Viaggio attraverso la poesia italiana contemporanea: Giorgio Caproni, a cura di Gianni Bisiach, un programma di Matteo Maria Giorgetti e Fabio Doplicher, con letture di Giorgio Albertazzi, Rai Radio Uno, 15 gennaio 1985. Il riferimento è alla leopardiana Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi (nelle Operette morali).

1

[83] RIGORE SIGNIFICA EVITARE IL TRANELLO DELLE MODE Rigore significa evitare il tranello delle mode, a cura di Giuseppe Conte, in «Stampa Sera», CXVII, 28 gennaio 1985, 25.

484 MELISSA ROTA

[84] [LA MIA PIÙ REMOTA AMBIZIONE ERA DI FARE IL NARRATORE] Intervista radiofonica, a cura di Mario Picchi, Radio Rai, gennaio-febbraio 1985 (poi in Giorgio Caproni. Racconti scritti per forza, a cura di Adele Dei, Milano, Garzanti, 2008, pp. 7-8, 13, 397). Caproni lavorò molto a quest’intervista, modificando in parte il testo anche dopo la trasmissione radiofonica del gennaio-febbraio 1985. La versione da noi riportata è l’ultima approvata dall’autore l’8 luglio 1985, conservata in un dattiloscritto nel Fondo Caproni (ACGV, GC II. 2.3.32). Sembrandoci tuttavia rilevanti, riportiamo in nota le risposte alle ultime due domande, successivamente depennate dal poeta: «Sì. Anzi credo che la forma narrativa sia l’ossatura di qualsiasi scrittura artistica, anche della poesia, anche della poesia più lirica. Mi dà fastidio che, per esempio, chiamino i miei versi liriche (io li chiamo versi, nemmeno poesia, ma che poi li chiamino liriche mi dà fastidio), perché mi piace raccontare, penso proprio che all’uomo piaccia stare a sentire un discorso, un racconto, insomma. Credo nella narrativa. Purtroppo vedo che sta facendo dei cali terribili, con gli sperimentalismi, il romanzo che è impossibile, scrivono romanzi sull’impossibilità di scrivere un romanzo. A me piace proprio il romanzo tradizionalissimo: l’orologio della torre suonava lentamente le dodici, quando una carrozza… allora m’interessa»; «Mi hanno fatto un certo effetto, perché per esempio il racconto partigiano Il labirinto, mi ha dato l’impressione di vedere certi risultati di Pavese e di Fenoglio, senonché loro li hanno scritti molto dopo di me, per cui mi sono sentito un pochino un pioniere, in quel genere della narrativa partigiana. E poi sono stati pochi i partigiani che abbiano scritto racconti partigiani durante la partigianeria. Li hanno scritti dopo, con il senno del poi. Io li scrissi, è documentato dalla rivista “Aretusa”, proprio mentre ero dentro. E poi vedo che collimavano con lo stesso periodo delle mie poesie, perché non è che non ne scrivessi più. Nel Labirinto trovi delle immagini che sono proprio nei sonetti degli anni tedeschi. Nel Gelo della mattina c’erano già in germe cose dei libri successivi come Il muro della terra e Il franco cacciatore, proprio gli ultimi. Un critico giovane e molto intelligente, su “Paragone”, ha scoperto perfino in quel piccolo diario di guerra mutilato dalla censura, Giorni aperti, il nocciolo di certo, diciamo così, nichilismo o pessimismo che poi si è sviluppato nei versi degli ultimi libri».

[85] [PER SCRIVERE POESIA BISOGNA PRIMA DI TUTTO VIVERE]

Intervista a Giorgio Caproni, a cura di Silvano Tartarini e Marco Betti, in «Nativa. Poesia e letteratura», I, febbraio 1985, 1. La citazione è tratta dall’Arte poetica di Piero Jahier: «Esprimere esprimere cosa perdi tempo a vivere? Sono morti senza / parlare i poeti che han vissuto… ma è appunto perché non posso / vivere…o se potessi vivere cosa mi importerebbe di parlare?» (Paul Claudel-Piero Jahier, Arte poetica: conoscenza del tempo: trattato della conoscenza al mondo e di se stesso, Milano, Libreria Editrice Milanese, 1913).

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NOTIZIE SUI TESTI 485

[86] PERCHÉ SCRIVETE? Pourquoi scrive-vous?, in «Libération», mars 1985, numéro hors série (poi in «Fine secolo», supplemento di «Reporter», 21-23 aprile 1985; poi in Perché scrivete. Rispondono 109 scrittori italiani, Milano, Garzanti, 1989). L’articolo fu pubblicato originariamente in Francia su «Libération», [22] mars 1985, numéro hors série: il numero speciale del quotidiano, intitolato Pourquoi écrivez-vous?, 400 écrivains répondent, chiamava a rispondere alcuni autori italiani, tra cui Caproni, sulle ragioni della loro scrittura (riprendendo un’inchiesta della rivista «Littérature» del 1919). Il mese seguente il testo venne pubblicato in Italia in «Fine secolo», (supplemento di «Reporter», 23 aprile 1985) e successivamente inserito nel volume Perché scrivete. Rispondono 109 scrittori italiani, Milano, Garzanti, 1989.

[87] EPPUR RESISTE Eppur resiste, a cura di Renato Minore, in «Il Messaggero», 24 aprile 1985.

[88] LIVORNO È NOSTALGIA DI LUCE E FANTASIA Livorno è nostalgia di luce e fantasia, a cura di Aldo Santini, in «Il Tirreno», 2 ottobre 1985. 1 «Anima armoniosa, perché muta, e, perché scura, tersa: / se c’è qualcuno come te, la vita non è persa» (Pier Paolo Pasolini, A Caproni, in Tutte le poesie, a cura di Walter Siti, Milano, Mondadori, «Meridiani», 2003, p. 1073).

[89] [LA POESIA, COME LA MUSICA, NON SI PUÒ SPIEGARE] Intervista, a cura di Sergio Palumbo, risposte dell’8 ottobre 1985. Presumibilmente inedita. Intervista rilasciata da Caproni in occasione del Premio nazionale per composizioni musicali «Musica/Poesia» di Messina del 1985. Oggi conservata all’Archivio Bonsanti (ACGV, GC I.558.2). Il riferimento è all’«Almanacco, cronache di vita ticinese», a cura di Giovanni Bonalumi, dicembre 1987, 4, pp. 72-75, dove furono pubblicate Pasqua di Resurrezione, Passeggiata, Due improvvisi sul tema la mano e il volto e Di un luogo preciso descritto per enumerazione. 2 «Filtravano. / Dalle crepe / del nulla, filtravano / nell’apparenza. / Ombre scure, / sùbito schiarite in forme / e colori. / Figure / familiari. / Fecce / da coltello. / Nel campo / d’una rosa, la vipera / – rattratta – lingueggiava / bifida. / Il cuore / ne sobbalzava. / Inutile / cer1

486 MELISSA ROTA car d’alzare il bicchiere. / Di colpo, lo riabbassava / – imperativo – il calo / della luce. / La brulla / risorgenza. / Il nulla. / Il calendario segnava: / Pasqua di Resurrezione. / La mente – in vino – riapprovava / nel porto della sua interdizione (Pasqua di Resurrezione, CK)».

[90] [INTERVISTA SU UNGARETTI] [Intervista su Ungaretti], 3 dicembre 1985. Se ne conserva il dattiloscritto all’Archivio Bonsanti (ACGV, GC II. 2.3.34). Parte di questo intervento venne scritto per una conferenza pronunciata in occasione del conferimento della laurea honoris causa all’Università di Urbino, poi pubblicato in Giorgio Caproni, Sulla poesia, in Quaderni urbinati di cultura classica, XIX, nuova serie, 1985, 48, p. 7-12 (ora in G. Caproni, Prose critiche 1934-1998 cit., IV, pp. 1987-1993). Il poeta si riferisce chiaramente a Violetta protagonista della Traviata di Giuseppe Verdi, che nella quinta scena del primo atto, canta: «Follie! Follie delirio vano è questo! / Povera donna, sola / abbandonata in questo / popoloso deserto / che appellano Parigi, / che spero or più?». 1

[91] IL POETA Il poeta, a cura di Antonio Debenedetti, in «Corriere della Sera», 29 dicembre 1985. [92] LE CONTRADDIZIONI DELLA POESIA Le contraddizioni della poesia. Scomparso l’editore mecenate, in «Il Tempo», XII, 3 gennaio 1986, 2 (poi in G. Caproni, Prose critiche 1934-1989 cit., IV, pp. 2001-2004). 1

Giorgio Luti, Firenze, corpo \8\otto\: scrittori, riviste, editori, del ’900, Firenze, Vallecchi, 1983.

[93] «O LORENZO DA PONTE O IL DIAVOLO» «O Lorenzo Da Ponte o il diavolo», a cura di Marcella Smocovich, in «Il Messaggero», 30 gennaio 1986.

[94] [INTERVISTA SUL PREMIO NOBEL] [Intervista sul Premio Nobel], a cura di [Stefano] Giovanardi, 18 febbraio 1986. Presumibilmente inedita. Se ne conserva il dattiloscritto presso l’Archivio Bonsanti (ACGV, GC II.2.3.35).

NOTIZIE SUI TESTI 487

[95] [IL POETA È IL PIÙ STRENUO DIFENSORE DELLA SINGOLARITÀ] [Intervista per gruppo ARCI Grosseto], a cura di Pietro Cataldi, dopo il 14 marzo 1986. Intervista rilasciata a Piero Cataldi per un ciclostilato destinato al gruppo poesia ARCI di Grosseto in occasione di un incontro di letture poetiche a cui sarebbe intervenuto lo stesso Caproni. Se ne conserva il dattiloscritto all’Archivio Bonsanti (ACGV, GC II.2.3.36). Cfr. Giorgio Caproni, Sulla poesia, in Quaderni urbinati di cultura classica, XIX, nuova serie, 1985, 48, pp. 7-12 (ora in G. Caproni, Prose critiche 1934-1998 cit., IV, pp. 1987-1993).

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[96] PARERE SULLA CITTÀ DI OSTIA Parere sulla città di Ostia, a cura di Marcella Smocovich, in «Il Messaggero», 1 aprile 1986. Risposte all’inchiesta del «Messaggero» sull’immagine di Ostia dal titolo Ostia per noi. Stravinskij, De Chirico, il pesce, il trenino, Pasolini, il capanno.

[97] [CONVERSAZIONE A SANREMO] I intervista inedita. Sanremo, 15 aprile 1986, a cura di Silvio Riolfo Marengo, in «Resine. Quaderni liguri di cultura», XXXII, 2012-2013, 134-135, pp. 67-69. L’intervista risale al 15 aprile 1986, ma è stata pubblicata solo nel 2012. In apertura alla sezione di «Resine» dedicata a queste Due interviste inedite, Silvio Riolfo Marengo scrive: «Il 15 aprile 1986 Caproni era stato invitato a Sanremo nell’ambito della rassegna “I martedì letterari”, che si svolgevano al teatro del Casinò sotto la regia di Ito Ruscigni. Per l’occasione aveva letto e commentato in anteprima alcune poesie del Conte di Kevenhüller ancora in fase di stampa (aveva portato con sé le bozze). A me era stato assegnato il compito di presentarlo e, in preparazione all’incontro, Caproni acconsentì a farsi intervistare: ripercorremmo così, in estrema sintesi, il suo cammino poetico, che iniziato con la pubblicazione di Come un’allegoria (1936), risaliva esattamente a cinquant’anni prima. Qualche mese dopo, il 20 settembre (si veda intra l’intervista [106]), ebbi con lui una seconda conversazione a Biella dove era stato invitato quale ospite d’onore per aver vinto la prima edizione dell’omonimo premio letterario istituito dieci anni prima e che nel 1986 era stato assegnato a Mario Luzi, suo amico e sodale di tutta una vita. La manifestazione, con letture di poesie affidate a Nando Gazzolo, venne presentata dal giornalista Rai Pier Antonio Zannoni e io colsi l’occasione per continuare con Caproni il discorso sulla sua poesia e, in previsione di un articolo che sarebbe poi uscito sulla rivista “Alte Vitrie” (si veda intra intervista [121]), per rivolgergli alcune domande sulla presenza insistita, in molte sue

488 MELISSA ROTA

raccolte, del vino e delle osterie, di tavolate di amici viste come luogo di saggezza e di autentica comunione di vita». Il riferimento è al volume Gradus ad Parnassum, or The Art of Playing on the Piano Forte, Exemplified in a Series of Exercises in the Strict and in the Free Style, Muzio Clementi, Londra, Clementi, Banger, Collard, Davis & Collardm, 1817, una delle più importanti raccolte di didattica pianistica.

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[98] IL POETA OBBEDISCE A UNA VOCAZIONE Caproni: il poeta obbedisce a una vocazione, a cura di Gianni Federico, in «Idea», XLII, maggio 1986, 5. Si riporta la trascrizione del dattiloscritto conservato presso l’Archivio Bonsanti (ACGV, GC I.850.1).

[99] PARERE SUL FUMO Parere sul fumo, a cura di Marcella Smocovich, in «Il Messaggero», 17 giugno 1986. Per il quotidiano «Il Messaggero», Marcella Smocovich interroga diversi intellettuali su una proposta di legge che vieti il fumo in luoghi pubblici. Oltre a Caproni, furono intervistati Maria Luisa Spaziani, Luigi Malerba, Fruttero e Lucentini, Enzo Siciliano, Cesare Musatti, Giorgio Manganelli, Francesca Sanvitale, Aldo Rosselli, Giuseppe Bonari, Alberto Moravia.

[100] IN VACANZA, IO PORTEREI QUESTI LIBRI In vacanza, io porterei questi libri, in «Paese Sera», 10 luglio 1986.

[101] E DAL GREMBO DELLA BESTIA NACQUE LA NUVOLA NERA DI CHERNOBYL E dal grembo della Bestia nacque la nuvola nera di Chernobyl, a cura di Monica Petacco, in «La Nazione», 19 luglio 1986, p. 3 (poi in Il tormento delle parole, a cura di Monica Petacco, in «Il Resto del Carlino», 19 luglio 1986). È in una lettera di Bonalumi a Caproni del 13 giugno 1986 che il professore svizzero propose nel post scriptum: «Questo Conte di Kevenhüller, che sia stato il babbo della bella Leopoldina (contessina!) moglie di Febo D’Adda, il discepolo e amico del buon Parini? Vedi le note apposte in qualsiasi edizione alle Odi, alla notissima Alla Musa (l’ode è del ’95 e quindi a ridosso della guida che citi 1792)».

1

NOTIZIE SUI TESTI 489

[102] IL POETA DÀ LA CACCIA ALLA BESTIA NASCOSTA Il poeta dà la caccia alla Bestia nascosta, a cura di Luciano Luisi, in «Il Gazzettino», 23 luglio 1986.

[103] ANCHE UN POETA HA LA SUA CHERNOBYL Anche un poeta ha la sua Chernobyl. Colloquio con Giorgio Caproni, a cura di Aurelio Andreoli, in «Fiera», 25 luglio 1986. Si veda intra la n. 1 all’intervista [49]. Si veda intra la n. 1 all’intervista [90]. 3 Alberto Moravia, Uno strano elefante si finge monumento, in «Corriere della sera», 25 giugno 1986. Per una più ampia ed esauriente bibliografia di interventi di Caproni e di altri al riguardo, si rimanda ad Adele Dei, Giorgio Caproni, Milano, Mursia, 1992, pp. 258-259 e alla recente bibliografia caproniana Giorgio Caproni. Bibliografia delle opere e della critica (1933-2012), a cura di Michela Baldini, con una nota di Attilio Mauro Caproni, Pontedera (Pisa), Bibliografia e Informazione, 2012. 1 2

[104] IL POETA, LA TROMBA E IL FLAUTO Il poeta, la tromba e il flauto, a cura di Silvia Lagorio, in «La riforma della scuola», XXXI, luglio-agosto 1986, 7 (poi in «Resine», aprile-giugno 1991, 48). 1

Si veda intra l’intervista [51].

[105] CHI È LA BESTIA Chi è la Bestia, a cura di Laura Lilli, in «La Repubblica», 3-4 agosto 1986 (poi ripresa in Se il poeta ha più fiducia nei silenzi, a cura di Francesco Mannoni, in «L’Unione Sarda», 23 agosto 1986; poi in parte in Giorgio Caproni. L’Opera in versi, edizione critica a cura di Luca Ziliani, introduzione di Pier Vincenzo Mengaldo, cronologia e bibliografia a cura di Adele Dei, Milano, Mondadori, «Meridiani», 1998, pp. 1627-1628. Si riporta in nota la trascrizione del dattiloscritto preparato da Caproni per l’intervista, non utilizzato in seguito da Laura Lilli, ora conservato presso l’Archivio Bonsanti (ACGV, GC II.2.3.37): «Altro punto da chiarire. Non è da oggi che vado affermando che la parola (Il Nome) onnubila (uccide) la cosa. È un mio pallino fin dagli anni Quaranta e dintorni. Basterebbe rileggere alcuni sonetti degli Anni tedeschi, o Le biciclette, o le stesse Stanze della funicolare. È un concetto, dunque, di cui non sono debitore a nessuno. Di conseguenza, non è nemmeno vero che io neghi la realtà. Figuriamoci! Ne affermo soltanto la inafferrabilità da parte di noi uomini. Anche senza l’uomo l’universo, certamente, esiste. Ma com’è fatto? Siamo – tutti – nella ca1

490 MELISSA ROTA verna. / Non ho fatto ricerche in archivi, com’è stato detto, a proposito della figura storica del Conte di Kevenhüller (nome che mi è piaciuto anche per un suo sapore operetteristico). Ma chi non sa (ce ne sono, ce ne sono, che non sanno!) che il Parini, nel 1795, dedicò la sua notissima Ode A la Musa all’amico e discepolo marchese Febo D’Adda, sposatosi qualche mese prima con la bella contessina Leopolda Kewenhüller? Potrebb’essere una preziosa chiave, nonostante quella w in luogo di v. / Altra cosa che mi piace precisare. La mia Operetta non è divisa in partes tres, come la Gallia di Cesare, e come qualcuno ha creduto, magari per “accusarmi” d’essere andato fuori tema in Atre cadenze. Il Conte è diviso soltanto in Libretto e Musica, dove ho cercato di seguire quello che in musica si chiama il sistema della variazione continua. Altre cadenze formano una raccolta a sé, come si dovrebbe capire dai caratteri tipografici dell’occhiello». Si riporta l’unica frase dell’articolo a cura di Francesco Mannoni pubblicato sull’«Unione Sarda» non presente nel testo della Lilli, né in altre interviste rilasciate in quegli stessi mesi: «Basterebbe rendersi seriamente conto dei pericoli che ci sovrastano. Basterebbe (e lo dico in più d’un punto nel libro) averne seriamente paura. Allora sì che si correrebbe, seriamente, ai ripari. Invece, si progettano leggi contro il fumo della sigaretta, ma non contro quello delle automobili e degli altiforni o dei jets, e tanto meno contro l’incombenza atomica».

[106] [CONVERSAZIONE A BIELLA] II intervista inedita. Biella, 20 settembre 1986, a cura di Silvio Riolfo Marengo, in «Resine. Quaderni liguri di cultura», XXXII, 2012-2013, 134-135, pp. 70-72. Si veda intra l’intervista [97]. L’intervista risale al 20 settembre 1986; venne poi parzialmente pubblicata nel 1988 (si veda intra l’intervista [121]) e interamente solo nel 2012.

[107] POESIA FATTA IN CASA, COME LE TAGLIATELLE Poesia fatta in casa, come le tagliatelle, a cura di Adolfo Chiesa, in «Paese Sera», 11 novembre 1986.

[108] LA FINE DEL LIBRO-OGGETTO La fine del libro-oggetto, in «Corriere della Sera», 24 dicembre 1986. Breve intervento di Caproni per un’inchiesta sulle strenne natalizie dal titolo Caro Babbo Natale, gli scrittori vorrebbero..., proposta dal «Corriere della Sera».

NOTIZIE SUI TESTI 491

[109] ARIA DEL TENORE Aria del tenore, in Il poeta e la poesia, Atti del Convegno di Roma dell’8 febbraio 1982, a cura di Nicola Merola, Napoli, Liguori, 1986. Introduzione e autocommento della poesia Aria del tenore letta al convegno romano l’8 febbraio 1982.

[110] CIAO, STELLA DEL MARE! Ciao, stella del mare!, in Maria ieri e oggi. 100 capolavori della miniatura gotica dei secoli XIV-XV, presentati da Luisa Cogliati Arano, Torino, Edizioni Paoline, 1986, pp. 136-143, poi col titolo Ave Maris stella, in «Resine. Quaderni liguri di cultura», XXXII, 2012-2013, 134-135, p. 27. 1 Questi versi, poi, rielaborati e compiuti, diverranno la poesia Alla Foce, la sera (Frammento su un ricordo d’infanzia) pubblicata nel Conte di Kevenhüller. 2 Cantiere navale fondato a Livorno nel 1906. 3 Il riferimento è alla poesia Sono un poeta, in Vita di un uomo di Giuseppe Ungaretti. 4 Si tratta della rivista di satira politica fondata nel 1892 a Roma da Guido Podrecca e Gabriele Gallantara. Inizialmente schierata su posizioni socialiste, assunse poi toni marcatamente anticlericali, fino alla forzata chiusura per dichiarato antifascismo nel 1925. 5 Il riferimento è alla rivista satirica illustrata fondata nel 1924 da Alberto Giannini, apertamente antifascista. 6 Si tratta del settimanale satirico fiorentino nato nel 1914 a cura della casa editrice Nerbini. Traeva il nome da un mortaio usato nella prima guerra mondiale e, come tale, sparava sul Vaticano e sui regnanti. 7 Caproni si riferisce a Zi’ Meo, personaggio del poemetto pascoliano Italy del 1904. Si veda intra l’intervista [122] e [139]. 8 Si tratta di Roger-Marin Courtial De Pereires, uno dei protagonisti del romanzo Mort à crédit di Céline, tradotto nel 1964 da Caproni per la Garzanti. 9 Giaime Pintor (Roma 1919-Volturno 1943) fu collaboratore di importanti riviste letterarie tra le quali «Primato», «Campo di Marte», «Letteratura». Tradusse dal tedesco diversi autori tra cui Rilke. Gran parte del suo lavoro è raccolto nel postumo Sangue d’Europa. 19391943, Torino, Einaudi, 1965. 10 Conosciuta anche come «Scuola speciale di paesaggio» fu attiva a Genova tra il 1874 e il 1900. Era detta «degli spinaci» per il colore verde caratteristico e predominante nei loro quadri. Vi appartennero, tra gli altri, i pittori Angelo Costa, Andrea Figari e Aurelio Graffinara. 11 Dominio delle luci è il titolo di un quadro di René Magritte oggi conservato alla Peggy Guggenheim Foundation di Venezia. 12 Il riferimento è allo scrittore francese Bernard le Bovier de Fontanelle (Rouen 1657-Parigi 1757), il quale nelle sue Conversazioni sulla pluralità dei mondi del 1686 ridiscusse la teoria copernicana e contribuì a mantenere acceso l’interesse per lo sviluppo scientifico. 13 Nella n. 16, p. 34 di «Resine. Quaderni liguri di cultura», XXXII, 2012-2013, 134-135, si legge: «perché la luce acceca: evidentemente il buio della fede che però è vera luce per chi

492 MELISSA ROTA crede, capace di aprire orizzonti nuovi rispetto alla pura ragione («ch’io veda» è riferimento all’episodio evangelico del cieco nato). Anche le successive citazioni tratte dall’Ave maris stella (Profer lumen caecis, iter para tutum), vengono utilizzate, come fa spesso Caproni, per intessere un discorso tutto giocato su aforismi, ossimori, ambivalenze di significati».

[111] [IL TEMPO DELL’ERMETISMO] Carlo Bo. Il tempo dell’Ermetismo, a cura di Giorgio Tabanelli, Venezia, Marsilio, 2011, pp. 225-235 (I edizione 1986). [112] QUANDO PENNA VAGABONDAVA PER LA CITTÀ Quando Penna vagabondava per la città, a cura di Antonio Debenedetti, in «Corriere della Sera» (Roma), 19 gennaio 1987.

[113] IL POETA DEL VINO SI CONFESSA Il poeta del vino si confessa, a cura di Marcello Vaglio, in «Enotria», marzo 1987, 51.

[114] SE LA MUSA È DENTRO DI NOI Se la musa è dentro di noi, a cura di Luigi Vaccari, in «Il Segnalibro»/supplemento del «Messaggero», 23 aprile 1987.

[115] PAROLE CHE DISSOLVONO Parole che dissolvono, a cura di Domenico Astengo, in «Corriere del Ticino», 23 maggio 1987. 1

P. P. Pasolini, Lettere, a cura di Nico Naldini, Torino, Einaudi, 1986.

[116] MA ROMA È RAZZISTA? Ma Roma è razzista? Sette intellettuali romani spiegano come analizzare la rivolta, a cura di Renato Minore, in «Il Messaggero», 19 novembre 1987, p. 3. All’inchiesta del «Messaggero» risposero anche Simona Argentieri, Ugo Attardi, Dario Bellezza, Ennio De Concini, Renzo De Felice, Franco Ferrarotti.

NOTIZIE SUI TESTI 493

[117] VITA DA POETA Vita da poeta, in Le voci della scrittura, a cura di Giorgio Weiss, Rai Tre, 17 dicembre 1987.

[118] ALL’ORIGINE DELLA POESIA DI CAPRONI All’origine della poesia di Caproni (1), a cura di Luca Azzetta, in «Cultura e scuola», gennaio-marzo 1988, 1, e Caproni e la variabile di Dio (2), a cura di Luca Azzetta, «Cultura e scuola», aprile-giugno 1988, 2. Si riporta la versione dell’intervista così come è conservata nel dattiloscritto presente all’Archivio Bonsanti (ACGV, GC I.46.1) non essendo stato possibile rintracciare la copia della rivista «Cultura e scuola».

[119] INTERVENTO SUL RAPPORTO CON IL DENARO Intervento sul rapporto con il denaro, a cura di Doriano Fasoli, in «Epoca», 17 aprile 1988.

[120] OLTRE LA PAROLA Oltre la parola, a cura di Claudio Angelini, in «L’Aquilone», 17 giugno 1988.

[121] IL PERCORSO POETICO-MUSICALE Il percorso poetico-musicale di Giorgio Caproni, a cura di Silvio Riolfo Marengo, in «Alte Vitrie. L’arte del vetro e dintorni», I, giugno 1988, 1. 1

Si veda intra la n. 3 all’intervista [28].

[122] COME SU UN PENTAGRAMMA Come su un pentagramma, a cura di Michele Gulinucci, in «Leggere», luglio-agosto 1988, 3 (poi in Dialogo sulla letteratura cit., pp. 47-54).

494 MELISSA ROTA

[123] QUATTRO TELEVISIONE

DOMANDE

AGLI

SCRITTORI

ITALIANI

SULLA

Quattro domande agli scrittori italiani sulla televisione, a cura di Alberto Moravia, in «Nuovi Argomenti», luglio-settembre 1988, 27, pp. 37-38.

[124] INTERVENTI PER IL TRENTENNALE DEL TREBBO POETICO Interventi per il Trentennale del Trebbo poetico, a cura di Toni Comello e Walter Della Monica, Ravenna, Edizioni del Girasole, 1988, pp. 5-6.

[125] MA I FIGLI DELLA TV NON LEGGONO VERSI Ma i figli della tv non leggono versi, a cura di Luigi Amendola, in «Il Tempo», 3 febbraio 1989. Inchiesta per «Il Tempo» a cura di Luigi Amendola dal titolo La cultura delle immagini uccide la poesia?, alla quale intervennero, oltre a Caproni, Attilio Bertolucci, Andrea Zanzotto, Maria Luisa Spaziani, Maurizio Cucchi e Valerio Magrelli.

[126] UNA STRAZIATA ALLEGRIA Una straziata allegria, a cura di Domenico Astengo, in «Corriere del Ticino», 11 febbraio 1989. 1 2

Si veda intra la n. 6 all’intervista [47]. Si veda intra la n. 2 all’intervista [68].

[127] ASPETTANDO I CAMMELLI TRA LE PALME Aspettando i cammelli tra le palme, a cura di Doriano Fasoli, in «Paese Sera», 15 aprile 1989.

[128] PURI DISTILLATI DI VERSI Puri distillati di versi, a cura di Claudio Marabini, in «Il Resto del Carlino», 18 novembre 1989.

NOTIZIE SUI TESTI 495

[129] SU E GIÙ COME UN MINATORE Su e giù come un minatore, in I ferri del mestiere, Dieci interviste a cura di Eugenio Manca, supplemento dell’«Unità», 15 dicembre 1989. Cfr. Giorgio Caproni, Sulla poesia, in Quaderni urbinati di cultura classica, XIX, nuova serie, 1985, 48, pp. 7-12 (ora in G. Caproni, Prose critiche 1934-1998 cit., IV, pp. 1987-1993).

[130] AMORE AMORE Dante Alighieri, in Amore amore. I poeti e gli scrittori italiani contemporanei raccontano il loro poeta più amato e ne presentano i versi a loro più cari, a cura di Francesca Pansa, Roma, Newton Compton, 1989, pp. 41-44 (poi in Dialogo sulla letteratura cit., pp. 19-20).

[131] UN UOMO LIBERO NELLA LETTERATURA Un uomo libero nella letteratura, a cura di Paolo Mattei, in «Il Tempo», 4 gennaio 1990 (poi in Sono un poeta non vivo di ricordi, a cura di Paolo Mattei, in «Avanti!», XCIV, 24 gennaio 1990, 20, p. 16; poi in Il muro dello stoicismo, a cura di Paolo Mattei, in «L’informatore librario», aprile 1990, 4, pp. 89-94). L’intervista, pubblicata postuma, venne rilasciata da Caproni in occasione dell’uscita delle Poesie 1932-1986, Milano, Garzanti, 1989. Durante il colloquio Caproni dichiarò: «Mi raccomando cercate di far capire che si tratta di una ristampa della precedente edizione, ampliata in diverse parti. Fate capire che anche la poesia interessa e vende, che si tratta di una collana economica alla portata di tutti». Si riscontrano minime varianti in Sono un poeta non vivo di ricordi e Il muro dello stoicismo.

[132] SEMPRE SOLO Sempre solo, a cura di Paolo Alberto Valenti, in «La Nazione», 23 gennaio 1990 (poi in Dialogo sulla letteratura cit., pp. 58-60). Si riportano le varianti presenti nel dattiloscritto dell’intervista, datato 6 giugno 1984, rimasta inedita nella sua interezza, conservata presso l’Archivio Bonsanti (ACGV, GC II.2.3.30). Presumibilmente l’intervista nella versione del 1984 non soddisfaceva il poeta, che scrisse: «Caro Valenti, sono riluttante e dubbioso riguardo alla pubblicazione».

496 MELISSA ROTA Nella versione del 1984 aggiunge: «Arrivo addirittura a dire che, a questo proposito, la lingua può addirittura condizionare il poeta. Se Racine fosse stato italiano, o avesse scritto in italiano, certo non avremmo: “La fille de Minos et de Pasiphaé” [Phèdre], meraviglioso verso quanto banalissima informazione. Insomma, oggi si direbbe che qui più che mai il significante travalica il significato». 2 In particolare nei paragrafi finali si segnalano notevoli varianti che qui riportiamo trascrivendo domande e risposte:: 1

Perfino nella stessa lingua del poeta. «Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi», infatti, non è la stessa cosa di: «Nei tuoi occhi fuggitivi e ridenti», pur se il senso letterale resta identico, o meglio resta identica l’«informazione». Fra «tradotto» e «traduttore», nel più facile dei casi, può avvenire, come in un matrimonio, la nascita di un testo che di due anime congiunte forma, per così dire, una terza anima, proprio come un figlio che prendendo qualcosa dal padre e qualcosa dalla madre ha vita autonoma senza essere precisamente né l’uno, né l’altra. La poesia può essere in qualche modo curativa o serve semplicemente a sublimare i sentimenti e le sensazioni di chi legge fornendo quindi esclusivamente un effimero diletto intellettuale? Come vede lei il rapporto tra psicoanalisi e poesia? Se la poesia possa riuscire «curativa», proprio non lo so. Ma rispondo con un deciso no a tutto il resto della domanda. Il poeta non mira né a «sublimare» né «ad offrir diletto». Il poeta è un minatore che scava nel proprio io (in quelle che Antonio Machado chiama «las secretas galerías del alma») sino a raggiungere una tale profondità dove quel suo io è l’io di tutti e si trasforma in un noi. Fino a mettere a giorno in sé, voglio dire, quei nodi di luce che tutti i membri della tribù possiedono, ma che non tutti i membri della tribù sanno di possedere, o riescono ad individuare. Mi par che sia stato Proust a dirlo: quando uno legge un poeta, in fondo non fa che legger se stesso. Quel poeta ha raggiunto in se stesso una verità che vale per tutti e che già, come la Bella addormentata nel bosco, sonnecchiava in tutti, in attesa d’essere svegliata (son cose, anche queste, che già scrissi decenni fa). Quanto al «rapporto tra psicoanalisi e poesia», son disposto a identificarlo (ma fino a un certo punto) col rapporto tra psicoanalisi e sogno, per quel tanto di subconscio che muove la poesia stessa. Nella storia della letteratura gli esempi di disagi psichici determinati o risolti dalla poesia sono innumerevoli: poesia significa necessariamente malattia? No, non necessariamente. Ad ogni modo, trovo la domanda contraddittoria. Se la poesia fosse sempre una malattia, come potrebbe risolvere quegli stessi «disagi psichici» che «innumerevoli casi» determina? Per lei che è anche musicista quanta poesia c’è nella musica di oggi? Crede che il tecnicismo avrà sempre maggior peso sia in poesia che in musica? Non sono un musicista. È bene sfatare la favola. Sono semplicemente stato, da giovane, un modesto studente di musica. Ma, a parte questo, l’espressione «musica d’oggi» è troppo generica (o generalizzante) perché io possa rispondere alla prima domanda. Quanto alla seconda, perché dovrei credere che «il tecnicismo avrà sempre maggior peso»? Non sono così pessimista, anche se l’allarme può apparire legittimo. E adesso veniamo a Roma. Lei ha tradotto una delle più belle poesie che sia mai stata dedicata a una città; mi riferisco al Silenzio di Genova di André Frénaud. A un certo punto vi si legge: «Riuscirai a presentire ancora il sogno inscritto, / insistito su queste pietre?». Ebbene, qual è il sogno che lei ha fatto su Roma? Qual è il silenzio di Roma? Roma non ha lasciato molte tracce nei miei versi, e quasi tutte si trovano condensate in Cronistoria (1938-1942): luttuose e violente accensioni d’erbe millenarie, di ponti bianchi d’ossa, di rosse mura, di sangue, di fuoco: una Roma – nella sua «gloria» – piuttosto funerea

NOTIZIE SUI TESTI 497

(e funesta). I maggiori laterizi per la costrizione delle mie metafore – a parte la parentesi del Seme del piangere, dove di proposito torno con la memoria alla Livorno della mia infanzia – me le ha fornite, se così si può dire, Genova: città dove mi son formato (anzi, che mi ha formato), e che ancor oggi continua ad essere la mia vera ed unica città, dal mare mercantile e portuale su fino ai monti e alle foreste dell’Alta Val Trebbia. Al punto che a cura di Giorgio Devoto e Adriano Guerrini, nelle Edizioni S. Marco dei Giustiniani di Genova, è addirittura apparsa una nutrita antologia di mie poesie «genovesi», recante per titolo un mio verso: Genova di tutta la vita. Antologia che mi è cara non per i versi in sé, non stando a me giudicarli, ma per la prosa che li precede, dove cerco di spiegare il legame stretto fra me e quella città (e questo, anche se non ho mai scritto di proposito versi «genovesi», non essendo affatto, la mia, una poesia di luoghi). Quanto al carissimo amico Frénaud, la ragione prima che mi spinse a tradurre il suo Silenzio di Genova (1961-1962) fu la strana consonanza tra il finale di quel poème («Salivano, bontà chiassosa, fino in paradiso / fra gli ortaggi del convento, tra i fichi, / o ti portava la funicolare / verso la morte, di stagione in stagione?») con il mio Ascensore e, soprattutto, con le mie Stanze della funicolare, entrambi da me scritti più di dieci anni prima. Non dunque del mio sogno (o silenzio) di Roma posso parlare, ma semmai anch’io potrei dir qualcosa (e in parte credo d’aver detto) del mio sogno (o silenzio) di Genova.

[133] CON LE PAROLE SINO AL CUORE DELLA REALTÀ Con le parole sino al cuore della realtà, a cura di Costantino Forti, in «Il Popolo», 1 febbraio 1990.

[134] SONO UN MUSICISTA MANCATO CHE ADESSO FA IL PAROLIERE Sono un musicista mancato che adesso fa il paroliere, in «Corriere del Ticino», 20 marzo 1990. Si tratta dell’intervento di Caproni al premio «Musica/Poesia» del 1986, anno in cui ne fu dedicatario. Riportiamo in nota anche la risposta di Goffredo Petrassi, animatore della serata insieme al poeta: «Una breve postilla a quello che ha detto il carissimo Giorgio Caproni. Lui ha detto che è un musicista mancato, del resto come Pugliatti. Io posso confessare che, d’altra parte, sono un letterato mancato. Dai 18 ai 20 anni volevo fare il letterato e scrissi anche qualcosa. Poi rividi queste mie cose ed erano talmente spaventose che stracciai tutto ed abdicai così alla velleità letteraria, adattandomi a fare il compositore di musica, come Caproni si è adattato a fare il poeta. Purtroppo non ho avuto la fortuna di conoscere Salvatore Pugliatti personalmente. Non ho avuto questa fortuna sia per essere arrivato un po’ tardivamente alla professione musicale, diciamo così, pubblica, sia perché i miei interessi erano un po’ diversi; però non mancavo di seguire la firma di Pugliatti nelle sue recensioni letterarie e poi anche nei programmi musicali. Quando Sergio Palumbo venne a doman-

498 MELISSA ROTA

darmi se volevo accettare la presidenza del premio “Musica/Poesia” dissi subito di sì perché mi sembrava una cosa importante per i musicisti contemporanei. Non che i musicisti non conoscessero i poeti contemporanei, ma era un modo per mettere proprio l’accento su una collaborazione musica-poesia. Per la prima edizione si scelse il poeta Salvatore Quasimodo e fu, mi pare, una buona edizione. Due anni dopo abbiamo rinnovato questo premio e il poeta scelto è stato Giorgio Caproni. C’è, quindi, questa collaborazione fra musica e poesia che è molto significativa, proprio per la cultura musicale stessa. Le riflessioni di Caproni sulla musica mi possono trovare anche d’accordo, in parte però, perché lui tende a privilegiare la musica sulla poesia. Io non oserei tanto, anche se sono troppo interessato alla musica, però mi pare che la poesia per i musicisti è proprio l’altra faccia della luna. Che cosa non ha dato una collaborazione musica-poesia di capolavori in tutte le epoche, a partire addirittura dall’antica Grecia. Insomma, la musica e la poesia sono arti parallele, si nutrono proprio l’una dell’altra e, quindi, il premio intitolato a Salvatore Pugliatti credo sia l’emblema di questa unione così felice e necessaria all’uomo». [135] IL MIO «CARISSIMO PINOCCHIO» Il mio «Carissimo Pinocchio», a cura di Emilia Folcarelli, in «L’Informatore librario», 4 aprile 1990. [136] QUEL VOLTO DI POETA TAGLIENTE E AFFABILE Quel volto di poeta tagliente e affabile, a cura di Aldo Santini, in «Il Tirreno», 14 dicembre 1990. L’intervista riprende parzialmente il testo di Livorno è nostalgia di luce e fantasia, a cura di Aldo Santini, in «Il Tirreno», 2 ottobre 1985 (si veda intra [88]). [137] POESIA OLTRE LA RAGIONE Poesia oltre la ragione, a cura di Mario Stefani, in «Il Gazzettino» (Udine), 18 marzo 1992. [138] LA POESIA, L’UNICA PAROLA La poesia, l’unica parola…, a cura di Luigi Amendola, in «Lengua», settembre 1992, 12, pp. 46-48 (poi in Voci di scrittori italiani. Lettere, letture, conversazioni della rivista «Lengua» (1982-1994), a cura di Elina Suolahti e Martti Berger, Helsinki, Artemisia edizioni, 1997). 1

Si veda intra la n. 1 all’intervista [44].

NOTIZIE SUI TESTI 499

[139] I MIEI VERSI NEL VENTO I miei versi nel vento, a cura di Carlo D’Amicis, in «L’Unità», 21 agosto 1995.

[140] [UCCEL DI BOSCO ANZICHÉ DI VOLIERA] Giorgio Caproni, a cura di Mario Mincu, in I poeti davanti all’Apocalisse, Pasian di Prato, Campanotto, 1997, pp. 21-23. L’intervista risale al 1988, ma venne pubblicata solamente nel 1997.

[141] [UNA POESIA MACCHIAIOLA] Intervista a Giorgio Caproni, a cura di Dante Maffia, in «Poesia», XI, gennaio 1998, 113. L’intervista risale al 1972-1973. In una lettera indirizzata a Dante Maffia del 23 aprile 1982, Caproni chiede che l’intervista non venga pubblicata in questa forma, ritenendola incompleta ed imperfetta. Si veda intra l’intervista [15]. Cfr. Montale, poeta-vate, in «Letteratura», gennaio-giugno 1966, pp. 78-81; poi in Omaggio a Montale, a cura di Silvio Ramat, Milano, Mondadori, 1966: «Ma ciò che distingue Montale da ogni altro poeta nostro […] è la straordinaria carica espressiva (costruttiva, musicale) della parola pur così “scabra ed essenziale”, dove ogni oggetto nominato (ogni vocabolo) acquista un’infinita plurivalenza di significati “armonici” (di profonde risonanze e corrispondenze interiori), quasi moneta gettata sulle corde scoperte d’un salterio, sul quale la nota toccata “a vuoto” fa immediatamente vibrare e suonare all’infinito, per “simpatia” la sua catena di “terze” e di “quinte” e di “ottave” […]». 3 «Popolo di Sicilia», 29 novembre 1935. 4 Il riferimento è al gerarca fascista Asvero Gravelli, fondatore nel 1936 del quotidiano «Ottobre». 1 2

INDICE DEI NOMI

In tondo i rimandi ai testi delle interviste, in corsivo quelli all’Introduzione, alla Nota al testo e alle note finali. Abelardo, Pietro 388 Accrocca, Elio Filippo 48, 91, 459 Adorno, Theodor Wiesengrund 132 Agamben, Giorgio 30 Aganòor Pompilj, Vittoria 287 Agosti, Stefano 474 Agostino d’Ippona, santo 125, 173, 182, 186, 236 Albani, Elsa 197 Albertazzi, Giorgio 13n., 25n., 26n., 98, 101, 102, 103, 104, 466, 483 Alighieri, Dante 13, 52, 95, 99, 102, 105, 107, 122, 157, 159, 161, 183, 186, 191, 202, 204, 223, 243, 245, 258, 283, 303, 325, 326, 342, 378, 382, 401, 402, 413, 415, 417, 418, 426, 427, 438, 441, 449, 450, 465, 467, 495, 499 Alizeri, Federigo 150, 153, 471 Altizer, Thomas Jonathan Jackson 173, 263, 482 Altomonte, Antonio 77, 462 Alvaro, Corrado 379, 481 Alzona, Minnie 75, 461 Amendola, Luigi 16n., 397, 439, 494, 498 Anceschi, Luciano 70, 75, 168, 344, 461, 466, 474 Andersen, Hans Christian 80 Andreoli, Aurelio 166, 194, 335, 473, 476, 489 Angeli, Siro 431

Angelini, Claudio 26n., 156, 380, 472, 494 Angioletti, Giovanni Battista 211 Antonelli, Sergio 461 Apollinaire, Guillame de (Wilhelm Apollinaris de Kostrowitzky) 26n., 88, 92, 152, 153, 154, 155, 156, 157, 161, 163, 169, 171, 176, 182, 193, 208, 216, 255, 302, 309, 327, 400, 415, 432, 441, 471, 472, 476 Argentieri, Simona 492 Aragon, Louis 90 Arcangeli, Gaetano 431 Aristotele 23 e n. Artaud, Antonin 11n. Asor Rosa, Alberto 299 Astengo, Domenico 20, 372, 398, 492, 494 Attardi, Ugo 492 Autran, Joseph 151, Azorín (José Martínez Ruiz) 386, 417, 420 Azzetta, Luca 377, 493 Bach, Johann Sebastian 22, 322, 335, 336, 383, 417 Bagni, Italia 68, 117, 124, 353, Bagni, Pilade 124, 234, 235, 353 Baldini, Michela 25n., 26, 460, 478, 489 Barabino, Niccolò 153 Baracconi, Giuseppe 311

Melissa Rota (a cura di), Giorgio Caproni. Il mondo ha bisogno dei poeti: interviste e autocommenti 1948-1990, ISBN 978-88-6655-676-3 (print), ISBN 978-88-6655-677-0 (online PDF), ISBN 978-88-6655-678-7 (online EPUB), © 2014 Firenze University Press

502 INDICE DEI NOMI

Baratta, Francesco 111, 129, 140, 174, 470 Bàrberi Squarotti, Giorgio 95, 272, 378, 465, 477 Barbuto, Antonio, 477 Barile, Angelo 59, 71, 75, 79, 168, 217, 261, 343, 344, 359, 389 Barilla, Pietro 466 Baroni, Eugenio 151 Barrese, Carlo 97, 465 Barthes, Roland 12 e n., 19n., 441 Bassani, Giorgio 92, 166, 390, 405 Baudelaire, Charles 78, 90, 111, 163, 437, 462, 476 Beccaria, Gian Luigi 299, 421 Beethoven, Ludwig van 17n., 22, 322, 334, 336, 341, 383, 427, 429 Bellezza, Dario 468, 492 Belli, Giuseppe Gioacchino 52 Bencivenni, Ildebrando 125, 470 Benelli, Sem 148 Berchet, Giovanni 127 Berger, Martti 498 Bernari, Carlo 468 Bertini, Francesca 210 Bertolucci, Attilio 70, 77, 89, 108, 109, 135, 166, 167, 169, 173, 175, 228, 239, 255, 273, 294, 299, 326, 374, 390, 397, 420, 431, 434, 464, 466, 473, 477, 494 Betocchi, Carlo 135, 161, 169, 221, 254, 255, 294, 327, 358, 362, 390, 410, 420, 453, 467, 472 Betti, Marco 292, 484 Bevilacqua, Alberto 298, 299, 311, 464 Biagiaretti, Libero 379, 390, 464, 481 Bianchi, Guglielmo 59, 359 Bigongiari, Piero 135, 169, 213, 255, 349, 477, 479 Bilenchi, Romano 361, 406, 415 Bisiach, Gianni 26n., 483 Blake, William 136 Blanchot, Maurice 372, 388 Blasco Ibáñez, Vincente 126

Bo, Carlo 93, 169, 201, 223, 358, 359, 360, 361, 362, 363, 452, 492 Boezio, Severino 126 Boine, Giovanni 59, 70, 71, 75, 76, 79, 126, 168, 169, 261, 263, 287, 344, 359, 372, 388, 450, 460, 461 Bolzoni, Francesco 26n. Bona, Gian Piero, 464 Bonalumi, Giovanni 305, 331, 335, 485, 488 Bonaparte, Napoleone 212, 374 Bonari, Giuseppe 488 Boncenne, Pierre 12n. Boninsegna, Roberto 132, 470 Bonnoeffer, Dietrich 173 Bonsanti, Alessandro 361 Boselli, Mario 477 Bontempelli, Massimo 309 Boracco, Pier Luigi 477 Borges, Jorge Luis 135, 170, 179, 185, 298, 322, 383, 388, 398, 426, 448 Borromeo D’Adda, Febo 331, 335, 488, 490 Bourillon, Jean 354, 355, 356, 357 Brecht, Bertolt 132 Brignetti, Raffaello 464, 472 Brönte, Charlotte 465 Brönte, Emily 95, 465 Bruni, Antonio Bartolomeo 354 Buck, Pearl 316 Busch, Wilhelm 141, 208, 477 Calvino, Italo 177, 327, 330, 336, 377, 419, 421, 474, 477 Camon, Ferdinando 66, 450, 460, 464 Campana, Dino 19n., 79, 148, 169, 183, 186, 203, 239, 249, 293, 362, 366 Cancogni, Manlio 211 Capasso, Aldo 29, 59, 76, 92 Caproni, Attilio Mauro 25n., 27, 241, 489 Caproni, Attilio 14, 68, 117, 301, 386, 431 Caproni, Bartolomeo 353

INDICE DEI NOMI 503

Caproni, Pier Francesco 117, 398, 426 Caproni, Silvana 27, 117 Cardarelli, Vincenzo 59, 92, 168, 186, 241, 248, 303, 366, 434, 453 Cardini, Eugenio 301, 431 Carducci, Giosuè 50, 92, 96, 106, 168, 179, 202, 221, 229, 239, 301, 321, 325, 359, 383, 386, 387, 398, 408, 423, 426, 433, 444 Caro, Annibale 107, 245, 284, 467, 479 Carrà, Carlo 451 Cassinelli, Giuseppe 461 Cassola, Carlo 130, 177, 211, 292, 294, 296, 475 Cataldi, Pietro 487 Cattafi, Bartolo 255 Cattanei, Giovanni 461 Cavalcanti, Guido 51, 69, 122, 161, 170, 178, 215, 229, 273, 372, 386, 399, 438, 442, 453, 456, 465 Cavalleri, Cesare 120, 214, 477, 478 Cecchi, Emilio 93, 172, 186, 201, 223, 286, 362 Céline, Louis-Ferdinand (Louis Ferdinand Destouches) 89, 129, 152, 163, 171, 176, 182, 193, 208, 216, 239, 249, 255, 260, 261, 302, 309, 327, 353, 375, 415, 432, 433, 491 Cendrars, Blaise 89, 122, 152, 163, 176, 193, 208, 255, 302, 327, 432, 433 Cerami, Vincenzo 477 Cesare, Gaio Giulio 391, 443 Char, René 89, 129, 135, 163, 193, 208, 216, 255, 260, 316, 397, 415, 440, 441, 462, 465, 470, 476 Chiesa, Adolfo 45, 347, 458, 490 Chopin, Fryderyk Franciszek 454 Cibotto, Gian Antonio 57, 188, 458, 459 Cimatti, Pietro 53, 459 Citati, Pietro 219, 233, 234, 330, 347, 415, 479 Ciucci, Adello 354 Clementi, Muzio 488

Clavarino, Ferdinando 464, 469 Cogliati Arano, Luisa 491 Coletti, Vittorio 477 Colli, Ambrogio 45, 48, 178, 179, 225, 301, 308, 387 Collodi, Carlo (Carlo Lorenzini) 430 Colombo, Cristoforo 144, 389 Colussi, Susanna 166 Comello, Antonio 43, 141, 396, 458, 494 Conte, Giuseppe 288, 294, 483 Conti, Primo 307 Contini, Gianfranco 276, 326, 405, 444 Copernico, Niccolò 491 Coppedè, Gino 148 Corda, Luciana 26n., 221, 478 Cortese, Valentina 457 Costa, Angelo 491 Cucchi, Maurizio 448, 479, 480, 494 D’Angeloantonio, Cesare 457 D’Annunzio, Gabriele 44, 50, 52, 128, 418, 423 Da Ponte, Lorenzo 9, 315, 487 Da Prato, Silvestro 479 Darío, Rubén (Félix Rubén García y Sarmiento) 386 Darwin, Charles Robert 122, 125, 236, 258, 427 De Albertis, Edoardo 151 De Bosis Vivante, Elena 217, 263, 359, 478 De Ceresa, Ferruccio 197, 199, 476 De Céspedes, Alba 131 De Chirico, Giorgio 451, 487 De Concini, Ennio 492 De Felice, Renzo 492 De Libero, Libero 70, 77, 135 De Robertis, Giuseppe 93, 96, 119, 168, 172, 179, 186, 201, 213, 219, 223, 239, 241, 259, 270, 273, 276, 321, 362, 387, 390, 398, 405, 431, 452, 474 De’ Gaddi, Gaddo 245, 467

504 INDICE DEI NOMI

Debenedetti, Antonio 152, 175, 258, 311, 364, 459, 471, 474, 486, 492 Debenedetti, Giacomo 216, 359, 369, 390, 429, 431 Dei, Adele 16n., 478, 484, 489 Della Monica, Walter 43, 85, 144, 396, 458, 463, 494 Derrida, Jacques 22, 23 e n. Descalzo, Giovanni 59 Devoto, Giorgio 12n., 471 Di Giacomo, Salvatore 170 Dickens, Charles John Huffam 147, 471 Diderot, Denis 126 Dolfi, Anna 4, 5, 6, 7, 12, 14, 16, 17n., 18n., 19n., 20, 22, 23, 27, 460, 471 Donfrancesco, Isabella 248, 481 Doninelli, Luca 12, 273, 483 Donne, John 169 Doplicher, Fabio 26n., 294, 483 Doré, Gustave 417 Dostoevkij, Fëdor Michajlovič 186 Dotti, Ugo 477 Dzieduszycki, Michele 239, 479 Eco, Umberto 397 Eliot, Thomas Stearns 88, 122, 130, 194, 418, 460 Eraclito, 480 Esenin, Sergej Aleksandrovič 8, 14n., 136, 137, 138, 470 Fabiani, Enzo 12 e n., 20, 176, 474 Faggi, Vico 477 Falqui, Enrico 70 Fasoli, Doriano 379, 403, 493, 494 Federico, Gianni 352, 488 Fenoglio, Beppe 257, 259, 270, 291, 370, 484 Ferrarotti, Franco 492 Figari, Andrea 491 Fiorillo, Federico 15, 40, 458 Firpo, Edoardo 366 Fitzgerald, Francis Scott 379 Flammarion, Camille 269

Folcarelli, Emilia 430, 498 Fontanelle, Bernard le Bovier de 356, 491 Fort, Paul 309 Forti, Costantino 426, 497 Forti, Marco 477 Fortini, Franco (Franco Lattes)135, 169, 259, 298, 299, 477, 482 Foscolo, Ugo 132, 147, 152, 160, 339, 344, 412, 417, 424, 472 Fossa, Armando 48, 148, 178, 301, 459 Fournier, Alain (Henri-Alban Fournier) 186, 258 Frangi, Giuseppe 164, 473 Franzoni, Olga 14, 18n., 169, 170, 257, 258, 290 Fregoli, Leopoldo 443 Frénaud, André 76, 79, 90, 163, 171, 176, 182, 193, 208, 216, 255, 260, 302, 345, 366, 367, 385, 415, 424, 425, 461, 462, 474, 476, 496 Freni, Carmelo (detto Melo) 25n., 119, 469 Freud, Sigmund 76, 79, 95, 99, 100, 121, 277, 386, 451, 464 Fruttero, Carlo 488 Gadda, Carlo Emilio 166, 405 Gaggini, Domenico 148 Gallantara, Gabriele 491 Galletti, Guido 148 Gambetti, Fidia 92 Garbo, Greta (Greta Lovisa Gustafsson) 329 García Lorca, Federico 92 ,161, 163, 216, 342, 415, 476 Gargiulo, Alfredo 93 Garibaldi, Ferdinando 92 Garufi, Guido 161, 472 Garzanti, Livio 184 Gatto, Alfonso 17n., 59, 70, 161, 169, 170, 175, 225, 273, 387, 426, 431, 434, 453 Gazzo, Emanuele 48, 75 Gazzolo, Nando 305, 487

INDICE DEI NOMI 505

Genet, Jean 90, 141, 155, 176, 182, 193, 208, 216, 239, 249, 255, 260, 261, 302, 327, 375, 415, 432 Gentilini, Franco, 66, 460 George, Stefan 437 Giacomelli, Gabriella 463 Giacometti, Alberto 467 Giacomino Pugliese 215 Giannini, Alberto 491 Giorgetti, Matteo Maria 26, 284, 483 Giovanardi, Stefano 228, 478, 486 Girardi, Antonio 161, 171, 172, 473, 474, 477 Giudici, Giovanni 294, 477 Giuliani, Alfredo 110, 111, 120, 121, 466, 467 Goethe, Johann Wolfgang von 16, 109, 126, 330, 446, Góngora y Argote, Luis de 136 Gorgia di Leontini 297 Gori, Mario 42, 43, 458 Gozzano, Guido 50, 142, 189, 261 Graffinara, Aurelio 491 Grande, Adriano 59, 71, 168, 359, 386 Gravelli, Asvero 453, 499 Greco, Lorenzo 458 Green, Julien 224 Grieco, Giuseppe 232, 479 Guaraldo, Enrico 471 Guccini, Francesco 246 Guerrini, Adriano 12n., 75, 461, 471, 477, 497 Guillén, Jorge 135 Gulinucci, Michele 386, 493 Guttuso, Renato 307 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich 209 Heidegger, Martin 22, 277 Hemingway, Ernest 259, 369 Hoffmann, Ernst Theodor Amadeus 171, 186, 191, 318, 377, 390 Hölderlin, Friedrich 268 Insana, Jolanda 91, 465

Innocenti, Giancarlo 483 Jacobbi, Ruggero 361 Jahier, Piero 169, 294, 484 Jenco, Elpidio 76 Jovine, Francesco 481 Joyce, James 132, 134 Juan de la Cruz, san (San Giovanni della Croce) 201, 477 Kafka, Franz 109, 134, 173, 186, 258 Kant, Immanuel 423 Keaton, Buster (Joseph Francis Keaton) 435 Kewenhüller, Leopolda 331, 335, 488, 490 Kierkegaard, Søren Aabye 110, 173, 193, 236, 238, 243, 247, 258, 286, 310, 318, 414, 427, 428 Kind, Johann Friedrich 377 Kreutzer, Rodolphe 15, 40, 458 Kundera, Milan 298, 299 La Capria, Raffaele 464 Laforgue, Jules 169, 290, 472 Lagorio, Gina 83, 463 Lagorio, Silvia 338, 489 Lancan, Lacques 297 Landolfi, Tommaso 405 Larbaud, Valéry 92 Laura Lilli 25n., 340, 489 Laurano, Renzo (Luigi Asquasciati) 59 Leopardi, Giacomo 13, 17, 19n., 38, 52, 113, 127, 156, 160, 180, 186, 231, 236, 246, 249, 264, 266, 269, 286, 290, 294, 302, 306, 310, 318, 370, 408, 409, 412, 414, 423, 433, 434, 454, 456, 468, 472, 483 Lo Castro, Giuseppe 17n. London, Jack (John Griffith London) 126, 470 Lowell, Robert 216, 217, 236, 323 Lucarini, Paola 252, 481 Luce, Dina 26 n. Lucentini, Franco 488

506 INDICE DEI NOMI

Luisi, Luciano 17n., 20, 25n., 160, 204, 333, 472, 477, 489 Lucrezio, Caro Tito 126 Luti, Giorgio 312, 335, 486 Luzi, Mario 11n., 16, 20, 59, 77, 93, 135, 139, 161, 164, 169, 213, 217, 221, 252, 255, 294, 298, 299, 326, 343, 360, 361, 390, 398, 420, 426, 434, 448, 452, 453, 458, 472, 477, 479, 480, 481, 487 Macchia, Giovanni 257, 330, 415, 481 Machado, Antonio 17, 92, 169, 187, 188, 218, 249, 339, 363, 384, 386, 413, 415, 417, 424, 426, 476, 478, 496 Machado, Manuel 386, 417, 426 Mackenzie, Evan 151 Macrí, Oreste 223 Magnasco, Alessandro 147 Magrelli, Valerio 378, 405, 448, 494 Magritte, René 269, 356, 491 Malerba, Luigi 311, 488 Mallarmé, Stéphane 20, 21, 37, 157, 249, 278, 390, 426, 454 Manacorda, Giuliano 88, 464 Manca, Eugenio 408, 495 Mandarà, Emanuele 43, 458 Manganelli, Giorgio 311, 330, 468, 488 Manghetti, Gloria 27 Mannoni, Francesco 272 ,482, 489, 490 Manzini, Gianna 70 Marabini, Claudio 11n., 20, 21n., 141, 184, 257, 405, 471, 472, 475, 481, 494 Marcoaldi, Angelo 26n Marcucci, Mario 307 Mariani, Gaetano 214, 220, 477, 478 Martini, Carlo 96, 465 Marty, Éric 12n. Marx, Heinrich Karl 125 Mascagni, Pietro 301, 309, 386, 429, 431, 443 Maselli, Vittorio 188, 458

Massenet, Jules Émile Frédéric 15, 58, 301, 433 Matacotta, Franco 137, 470 Mattei, Paolo 158, 419, 472, 495 Maupassant, Henri-René-Albert-Guy de 89, 141, 176, 255, 302, 432 Mazas, Jacques Féréol 15, 40, 458 McLuhan, Marshall Herbert 393 Melato, Maria 443 Mengaldo, Pier Vincenzo 16n., 169, 172, 191, 208, 223, 387, 391, 415, 448, 474, 476, 489 Mercenaro, Giuseppe 477 Merola, Nicola 17n., 491 Metastasio, Pietro 215 Miłosz, Czesław 340 Mincu, Mario 448, 499 Minore, Renato 20, 219, 298, 375, 477, 478, 485, 492 Minucio Felice, Marco 186 Merola, Nicola 17n., 491 Monanni, Giuseppe, 471 Monod, Jaques 110, 174, 246, 259, 382, 467 Montaigne, Michel Eyquem de 11n., 60 Montale, Eugenio 42, 59, 70, 71, 75, 76, 77, 79, 92, 122, 126, 132, 135, 139, 157, 161, 168, 169, 178, 201, 203, 204, 207, 239, 248, 249, 261, 263, 269, 287, 293, 298, 302, 303, 309, 316, 325, 328, 342, 343, 359, 366, 388, 389, 398, 399, 405, 410, 415, 420, 421, 423, 426, 429, 433, 434, 448, 450, 451, 453, 454, 461,467, 472, 499 Montefoschi, Giorgio 311 Monteverde, Giulio 151 Monti, Vincenzo 51, 69, 258, 423, 462, 465 Morante, Elsa 405 Moratti, Enrico 26n. Moravia, Alberto (Alberto Pincherle) 166, 311, 331, 333, 336, 341, 374, 393, 394, 468, 488, 494 Moro, Aldo 162, 206, 340

INDICE DEI NOMI 507

Morris, Desmond John 132, 470 Mozart, Wolfgang Amadeus 276, 315, 333, 341, 381, 429 Muntoni Comparini, Ada 124, 469 Muscetta,Carlo 292, 370, 481 Musil, Robert 113, 128, 468 Musatti, Cesare 488 Mussapi, Roberto 477 Mussolini, Benito 302, 303, 309, 388, 434, 445 Nadeau, Maurice 337 Naldini, Nico 373, 492 Nenni, Pietro 390 Neri, Guido 461 Neruda, Pablo 454 Nerval, Gérard de 111 Nietzsche, Friedrich Wilhelm 79, 104, 126, 146, 456, 472 Noferi, Adelia 23 e n. Nordau, Max Simon (Max Simon Südfeld) 126 Nouveau, Germain 141 Novaro, Angelo Silvio 79, 263, 287, 461 Novaro, Mario 59, 71, 126, 168, 261, 263, 387, 292, 359, 388, 450, 460, 466 Ombres, Rossana 77 Orengo, Nico 259, 481 Paganini, Niccolò 48, 118, 147, 151, 152, 225, 308, 376, 459 Palazzeschi, Aldo (Aldo Giurlani) 227, 290, 294, 303 Palmieri, Francesco 61, 460 Palumbo, Sergio 305, 485, 498 Pampaloni, Geno 26n., 120, 168, 219, 242, 401, 404, 473, 479 Pancrazi, Pietro 93, 362 Pansa, Francesca 417, 495 Papini, Maria Carla 460 Parini, Giuseppe 331, 335, 409, 468, 488, 490 Parise, Goffredo 463

Parronchi, Alessandro 110, 135, 221, 255 Pascal, Blaise 11n., 95, 145, 173, 465 Pascoli, Giovanni 50, 76, 96, 130, 180, 287, 302, 309, 325, 338, 353, 386, 423, 433, 443, 444, 453, 455, 465, 492 Pasolini, Pier Paolo 11n., 15, 37, 38, 50, 77, 166, 169, 170, 195, 206, 219, 241, 302, 325, 369, 373, 374, 388, 390, 421, 431, 434, 448, 452, 477, 485, 487, 492 Paulhan, Jean; 102 Pautasso, Sergio 105, 106, 107, 257, 466 Pavese, Cesare 257, 259, 270, 291, 370, 484 Pellico, Silvio 418 Penna, Sandro 10, 77, 161, 166, 169, 239, 255, 269, 364, 374, 420, 431, 432, 472, 492 Pennacchi, Gianni 97, 465 Perelli, Luigi 466 Peri, Lorenzo 17n., 22n. Perelli, Luigi 25n., 466 Pessoa, Fernando (António Nogueira Pessoa) 380 Petacco, Monica 331, 488 Petrarca, Francesco 122, 449 Petrassi, Goffredo 307, 429, 497 Petrignani, Sandra 191, 475 Pietravalle, Nicoletta 476 Picchi, Anna 14, 45, 46, 47, 62, 64, 66, 67, 68, 70, 84, 94, 117, 122, 124, 177, 211, 235, 240, 250, 267, 278, 281, 301, 325, 352, 384, 386, 399, 400, 431, 442 Picchi, Gaetano 68 Picchi, Mario 26n., 289, 477, 484 Piccioni, Gloria 200,477 Piccioni, Leone 96, 308, 465 Piccone Stella, Antonio 481 Pintor, Giaime 354, 491 Pizzinelli, Corrado 211, 477 Pizzuto, Antonio 405

508 INDICE DEI NOMI

Plauto, Tito Maccio 342 Podrecca, Guido 491 Poe, Edgar Allan 197, 262, 343 Poggioli, Renato 137 Poliziano, Angelo (Angelo Ambrogini, detto il) 125, 170, 215, 260, 263, 287, 376, 387, 417, 444, 453, 459 Pomilio, Mario 472 Porciani, Elena 17n. Porta, Antonio 294, 295 Porzio, Domenico 14, 113, 131, 345, 385, 468 Pound, Ezra 122, 309 Pourtalès, Guy de 146, 471 Pozzi, Gianni 469 Prampolini, Giacomo 106, 383 Pratolini, Vasco 363, 472 Prisco, Michele 473 Proust, Marcel 13 e n., 14, 73, 89, 122, 127, 134, 141, 148, 155, 160, 176, 188, 255, 297, 302, 316, 327, 390, 414, 424, 432, 441, 496 Pugliatti, Salvatore 305, 429, 497 Purificato, Domenico 307 Quasimodo, Salvatore 53, 168, 303, 316, 333, 366, 410, 429, 434, 453, 459, 498 Quiriconi, Giancarlo 471, 480 Raboni, Giovanni 21, 22n., 29, 161, 164, 172, 184, 191, 214, 219, 223, 242, 245, 266, 294, 305, 378, 388, 421, 439, 460, 472, 474, 477, 478, 479 Racine, Jean 275, 285, 339, 412, 496 Ravegnani, Giuseppe 76 Reale, Ugo 42, 70, 458 Rebora, Clemente 169, 183, 186, 194, 239, 249, 415, 420, 433 Renard, Philippe 377 Rèpaci, Leonida 25n., 74, 462 Resnevič Signorelli, Olga 470 Rettagliata, Adele 237

Rettagliata, Rosa (detta Rina) 18n., 67, 180, 181, 217, 240, 248, 249, 250, 261, 302, 303, 389, 400, 433 Rho, Anita 468 Richter, Ernst Friedrich Eduard 328 Rilke, Rainer Maria 36, 132, 321, 354, 491 Rimbaud, Arthur 37, 166, 194, 426 Rinuccini, Ottavio 125, 263, 287, 376, 387, 417, 444 Riolfo Marengo, Silvio 25n., 321, 343, 381, 487, 490, 493 Ripellino, Angelo Maria 471 Robinson-Valéry, Judith 11n. Roccatagliata Ceccardi, Ceccardo 71, 75, 76, 79, 105, 126, 168, 169, 225, 248, 263, 287, 343, 359, 388, 389, 460 Rolli, Paolo 107 Rosai, Ottone 451 Roscellino di Compiègne 388, 437 Rosenberg, Ethel 15, 39, 457 Rosenberg, Julius 15, 39, 457 Rosselli, Aldo 488 Rousseau, Jean-Jacques 126 Ruscigni, Ito 487 Saba, Umberto (Umberto Poli) 122, 161, 169, 186, 207, 218, 239, 292, 346, 248, 249, 292, 303, 325, 366, 387, 410, 415, 420, 423, 426, 433, 434, 452, 453, 456, 467, 473 Saint-John Perse (Alexis Saint-Léger Léger) 136 Salinas, Pedro 386, 397 Sanguineti, Edoardo 77, 135, 295 Santini, Aldo 301, 431, 485, 498 Sanvitale, Francesca 25n., 466, 488 Savard, Marie-Gabriel-Augustin 328 Savinio, Alberto (Andrea De Chirico) 269 Savioli, Valentina 268 Sbarbaro, Camillo 42, 59, 70, 71, 75, 76, 79, 94, 126, 153, 168, 169,

INDICE DEI NOMI 509

186, 203, 217, 239, 248, 249, 255, 261, 263, 287, 292, 325, 343, 344, 359, 360, 388, 389, 398, 402, 420, 453, 478 Sbarbaro, Clelia (Lina) 344 Scarabicchi, Francesco 25n., 26n. Scarpa, Raffaella 16n., 457 Scataglini, Franco 26n. Scheiwiller, Vanni 483 Schopenhauer, Arthur 122, 125, 236, 258, 427 Schubert, Franz Peter 17n., 171, 265, 278 Sciascia, Salvatore 78, 257, 481 Senghor, Léopold-Sédar 299 Sereni, Vittorio 59, 135, 142, 169, 170, 191, 255, 294, 326, 388, 415, 420, 426, 433, 434, 470, 473, 477 Serra, Ettore 16n. Siciliano, Enzo 13n., 16n., 25n., 105, 107, 120, 466, 468, 488 Simeone, Bernard 337 Simongini, Franco 25n., 26n., 262, 466, 482 Sinisgalli, Leonardo 59, 77, 135, 169 Siti, Walter 485 Sivori, Ernesto Camillo 48, 459 Smocovich, Marcella 315, 320, 329, 486, 488 Socci, Antonio 20, 245, 479 Soldati, Mario 472 Solmi, Sergio 135, 156, 359, 472 Spagnoletti, Giacinto 458 Spaziani, Maria Luisa 135, 488, 494 Spirito, Ugo 180, 302, 390, 433 Ståhl, Pirkko-Liisa 134, 470 Stefani, Mario 436, 498 Stevenson, Robert Louis 430 Stravinskij, Igor’ Fëdorovič 228, 260, 322, 325, 454, 456, 487 Suolahti, Elina 498 Surdich, Luigi 27n., 171, 460, 477 Susini, Giancarlo 463 Tabanelli, Giorgio 358, 492

Tartarini, Silvano 292, 484 Tasso, Torquato 64, 172, 186, 215, 249, 258, 260, 263, 269, 287, 376, 387, 444, 453, 482 Tecchi, Bonaventura 481 Teodolinda, regina dei Longobardi 241 Testori, Giovanni 234, 242, 243, 273, 274, 399, 478 Titta Rosa, Giovanni 76 Togliatti, Palmiro 360 Tolstoj, Lev Nikolaevič 134, 317 Toni, Alberto 230, 478 Tordi, Rosita 478 Tumminelli, Calogero 206 Ulivi, Ferruccio 254, 358 Ungaretti, Giuseppe 8, 9, 14 e n., 17n., 26n., 38, 42, 48, 59, 71, 92, 93, 96, 122, 126, 134, 136, 137, 140, 145, 168, 169, 172, 179, 184, 186, 203, 225, 226, 227, 239, 240, 241, 248, 249, 263, 269, 287, 294, 301, 303, 308, 309, 310, 316, 325, 352, 366, 378, 387, 398, 420, 423, 427, 433, 434, 448, 453, 465, 467, 470, 478, 486, 491 Vaccari, Luigi 368, 493 Vaglio, Marcello 365, 492 Valenti, Maria Luisa 79, 462, Valenti, Paolo Alberto 423, 496 Valeri, Diego 59, 463 Valéry, Paul 11 e n., 15n., 20 e n., 21 e n., 79, 88, 92, 161, 157, 183, 316 Vallecchi, Attilio 93, 145, 294, 312 Valsecchi, Luigi 132, 470 Van Buren, Paul 173 Van Gogh, Théo (Theodous Van Gogh) 11 e n. Van Gogh, Vincent 11 e n. Veltroni, Vittorio 457 Verbaro, Caterina 17n. Verdi, Giuseppe 17, 486 Verdino, Stefano 474 Verlaine, Paul 141, 160, 439, 476

510 INDICE DEI NOMI

Verne, Jules 16, 109, 122, 126, 186, 193, 202, 236, 258, 317, 427, 454 Verona, Guido 440 Vespignani, Lorenzo 307, 311, 342 Viani, Lorenzo 98 Vicari, Giambattista 92, 93, 257, 481 Vigini, Giuliano 465 Vigolo, Giorgio 135 Villaroel, Giuseppe 432 Virgilio, Marone Publio 140, 186 Vitale, Serena 136, 137, 138, 470 Vitiello, Ciro 477 Vittorelli, Jacopo 107, 122, 202, 417 Vivaldi, Cesare 477 Volpicelli, Luigi 367 Volponi, Paolo 166

Voltaire (François-Marie Arouet, detto) 77 Wagner, Wilhelm Richard 306 Weber, Carl Maria von 191, 195, 224, 273, 335, 349, 377, 383, 391 Weil, Simone Adolphine 173 Weiss, Giorgio 26n., 376, 493 Wells, Herbert George 126, 281 Winckelmann, Johann Joachim 152 Zampa, Luigi, 457 Zandel, Diego 198, 330, 476 Zannoni, Pier Antonio 487 Zanzotto, Andrea 135, 472 Zazo, Anna Luisa 465 Zuliani, Luca 16n., 489

VOLUMI PUBBLICATI MODERNA/COMPARATA

1. 2. 3. 4.

Giuseppe Dessí tra traduzione e edizioni. Una raccolta di saggi, a cura di Anna Dolfi, 2013. Il racconto e il romanzo filosofico nella modernità, a cura di Anna Dolfi, 2013. Dessí e la Sardegna. I carteggi con «il Ponte» e Il Polifilo, a cura di Giulio Vannucci, 2013. Tre amici tra la Sardegna e Ferrara. Le lettere di Mario Pinna a Giuseppe Dessí e Claudio Varese, a cura di Costanza Chimirri, 2013. 5. Non dimenticarsi di Proust. Declinazioni di un mito nella cultura moderna, a cura di Anna Dolfi, 2014. 6. Nicola Turi, Giuseppe Dessí. Storia e genesi dell'opera. Con una bibliografia completa degli scritti di e sull’autore, 2014. 7. Giorgio Caproni, Il mondo ha bisogno dei poeti. Interviste e autocommenti (1948-1990), a cura di Melissa Rota. Introduzione di Anna Dolfi, 2014. 8. Non finito, opera interrotta e modernità, a cura di Anna Dolfi, 2014. 9. Walter Binni, Lettere a Claudio Varese (1946-1994), a cura di Valentina Testa. Introduzione di Anna Dolfi (in corso di stampa). 10. Ecosistemi letterari. Luoghi e spazi della finzione narrativa, a cura di Nicola Turi (in preparazione). 11. Biblioteche reali, biblioteche immaginarie. Tracce di luoghi e letture, a cura di Anna Dolfi (in preparazione). 12. Narrare le guerre. Un secolo di conflitti tra le pagine dei romanzi, a cura di Nicola Turi (in preparazione). 13. Enza Biagini, Lezioni di teoria della letteratura I (in preparazione). 14. Enza Biagini, Lezioni di teoria della letteratura II (in preparazione). La collana, che si propone lo studio e la pubblicazione di testi di e sulla modernità letteraria (cataloghi, corrispondenze, edizioni, commenti, proposte interpretative, discussioni teoriche) prosegue un’ormai decennale attività avviata dalla sezione Moderna (diretta da Anna Dolfi) della Biblioteca digitale del Dipartimento di Italianistica dell’Università di Firenze di cui riportiamo di seguito i titoli. MODERNA BIBLIOTECA DIGITALE DEL DIPARTIMENTO DI ITALIANISTICA

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

Giuseppe Dessí. Storia e catalogo di un archivio, a cura di Agnese Landini, 2002. Le corrispondenze familiari nell’archivio Dessí, a cura di Chiara Andrei, 2003. Nives Trentini, Lettere dalla Spagna. Sugli epistolari a Oreste Macrí, 2004. Lettere a Ruggero Jacobbi. Regesto di un fondo inedito con un’appendice di lettere, a cura di Francesca Bartolini, 2006. «L’Approdo». Copioni, lettere, indici, a cura di Michela Baldini, Teresa Spignoli e del GRAP, sotto la direzione di Anna Dolfi, 2007 (CD-Rom allegato con gli indici della rivista e la schedatura completa di copioni e lettere). Anna Dolfi, Percorsi di macritica, 2007 (CD-Rom allegato con il Catalogo della Biblioteca di Oreste Macrí). Ruggero Jacobbi alla radio, a cura di Eleonora Pancani, 2007. Ruggero Jacobbi, Prose e racconti. Inediti e rari, a cura di Silvia Fantacci, 2007.

9. Luciano Curreri, La consegna dei testimoni tra letteratura e critica. A partire da Nerval, Valéry, Foscolo, D’Annunzio, 2009. 10. Ruggero Jacobbi, Faulkner ed Hemingway. Due nobel americani, a cura di Nicola Turi, 2009. 11. Sandro Piazzesi, Girolamo Borsieri. Un colto poligrafo del Seicento. Con un inedito «Il Salterio Affetti Spirituali», 2009. 12. A Giuseppe Dessí. Lettere di amici e lettori. Con un’appendice di lettere inedite, a cura di Francesca Nencioni, 2009. 13. Giuseppe Dessí, Diari 1949-1951, a cura di Franca Linari, 2009. 14. Giuseppe Dessí, Diari 1952-1962. Trascrizione di Franca Linari. Introduzione e note di Francesca Nencioni, 2011. 15. Giuseppe Dessí, Diari 1963-1977. Trascrizione di Franca Linari. Introduzione e note di Francesca Nencioni, 2011. 16. A Giuseppe Dessí. Lettere editoriali e altra corrispondenza, a cura di Francesca Nencioni. Con un’appendice di lettere inedite a cura di Monica Graceffa, 2012. 17. Giuseppe Dessí-Raffaello Delogu, Lettere 1936-1963, a cura di Monica Graceffa, 2012.

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