Il mondo decadente del Gattopardo: Sicilia, sicilianità e storia d'Italia nel romanzo e nel film 8833462250, 9788833462257

Il saggio ha il merito di analizzare con un approccio pluridisciplinare il famoso romanzo di Lampedusa che rappresentò,

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Il mondo decadente del Gattopardo: Sicilia, sicilianità e storia d'Italia nel romanzo e nel film
 8833462250, 9788833462257

Table of contents :
PREFAZIONE
IL QUADRO STORICO
IL ROMANZO
LE LETTURE CRITICHE
DAL ROMANZO AL FILM
IL FILM DI VISCONTI
APPENDICE
BIBLIOGRAFIA

Citation preview

Il Mondo Decadente del Gattopardo: Sicilia, sicilianità e storia d’Italia nel romanzo e nel film di Edvige Gioia Progetto grafico interno e impaginazione: Sara Calmosi Direttore di redazione: Jason R. Forbus ISBN 978-88-33462-26-4 Pubblicato da Ali Ribelli Edizioni, 2018© Saggistica – Cultura www.aliribelli.com – [email protected] È severamente vietato riprodurre, in parte o nella sua interezza, il testo riportato in questo libro senza l’espressa autorizzazione dell’Editore.

Edvige Gioia

IL MONDO DECADENTE DEL GATTOPARDO: Sicilia, sicilianità e storia d’Italia nel romanzo e nel film

AliRibelli

Edizioni

Sommario

Prefazione Il Quadro Storico Il Romanzo Le Letture Critiche Dal Romanzo al Film Il Film di Visconti Appendice

Alla Sicilia che è nel mio cuore

PREFAZIONE

Lo stemma del Gattopardo

A più di cinquant’anni dalla sua travagliata pubblicazione, Il Gattopardo, il celebre romanzo di Tomasi di Lampedusa, richiama ancora fortemente il nostro interesse, anche alla luce del grande successo che in questo mezzo secolo ha suscitato nel pubblico dei lettori di tutto il mondo, nonostante le riserve con cui fu accolto al momento della sua pubblicazione. Di qui il desiderio di una rivisitazione culturale e interpretativa del romanzo alla luce dei grandi cambiamenti e delle novità del terzo millennio. Tutti gli anni trascorsi dalla data di pubblicazione sono stati utili a farci riflettere sulle qualità narrative del romanzo e sul fatto che gli eventi narrati non si riferiscono solo al ristretto ambito siciliano, ma a tutta l’Italia. Infatti, come sostiene Melo Freni, il “paese Sicilia”, o più esattamente la siciliana Palermo, è diventato una metafora del mondo, con i suoi cent’anni non tanto di solitudine quanto di illusioni1. Il romanzo fu presentato alla casa editrice Mondadori perché fosse inserito nella collana “Medusa per gli Italiani”, almeno queste erano le aspettative dell’autore che purtroppo andarono deluse. Anche le case editrici Einaudi e Longanesi mostrarono molte perplessità. La responsabilità di questo rifiuto viene attribuito ad Elio Vittorini, allora consulente narrativo per la Mondadori. In effetti Vittorini, che rappresentava l’Italia letteraria dopo la Resistenza, non poteva condividere un romanzo in cui era rappresentato l’immobilismo della storia e che quindi etichettava come un libro reazionario. Sembra che a Vittorini abbiano dato fastidio anche le pagine sulla morte contenute nel romanzo, con la sua descrizione attraverso la figura della bella donna con la veletta sugli occhi, che il principe vide alla stazione ferroviaria di Catania.

Vittorini giudicò la descrizione della morte come scontata, vecchia e patetica, ma nel suo giudizio c’è il limite culturale e psicologico di una società che rifiutava di soffermarsi sul tema della morte. Fortunatamente il dattiloscritto del romanzo capitò tra le mani di Elena Croce, la figlia del grande filosofo, che lo segnalò a Giorgio Bassani, da poco direttore editoriale della narrativa Feltrinelli. Così il romanzo fu pubblicato nel 1958, un anno dopo la morte dell’autore: aveva appena avuto il tempo di ricopiare a mano tutto il libro, quando si manifestarono i sintomi della malattia che lo portò in breve tempo alla tomba. Il romanzo, come abbiamo detto, apparve nell’autunno del ’58 e la correttezza dell’edizione non fu messa in dubbio fino al 1968, quando Carlo Muscetta annunziò di aver riscontrato centinaia di divergenze, alcune anche cospicue, tra il manoscritto e il testo stampato. Si pose così, come scrive Gioacchino Lanza Tomasi2, nella sua premessa alla nuova edizione del Gattopardo, un problema concernente tanto l’autenticità dell’edizione Bassani, quanto l’autorità delle diverse fonti. In effetti, esistono tre stesure del Gattopardo, una prima stesura a mano raccolta in più quaderni (1955/56), una stesura divisa in sei parti, battuta a macchina da Francesco Orlando e corretta dall’autore (1956), e una ricopiatura autografa in otto parti del 1957, recante sul frontespizio Il Gattopardo (completo). La prima edizione del romanzo, l’edizione Feltrinelli del 1958, è basata sui dattiloscritti, ad eccezione delle vacanze di padre Pirrone che si trovano nel manoscritto che fu comunque dato a Bassani che se ne servì per ritoccare le bozze delle sette parti già composte e come fonte esclusiva per la parte quinta. Lanza Tomasi, alla fine di un lungo excursus, conclude che le divergenze tra il manoscritto del ’57 e l’edizione curata da Bassani sono moltissime, ma, tranne una trentina, veramente irrilevanti. Il romanzo Il Gattopardo rientra nel filone dei romanzi autobiografici, oltre che in quello del romanzo storico, anche se lo scrittore narra la storia di un suo antenato, il bisnonno Principe Giulio Fabrizio Tomasi di Lampedusa, vissuto negli anni cruciali del Risorgimento. C’è nell’autobiografismo il desiderio forte di lasciare un segno, una memoria di sé, una testimonianza di ciò che si è visto e si è vissuto. Oggi c’è dell’autobiografismo anche dietro una vicenda non autobiografica, in cui l’autore si identifica comunque nel personaggio della storia che racconta. Ma il romanzo Il Gattopardo rientra, secondo Ludovico Fulci3, oltre che nel filone autobiografico, anche nella tipologia dei testamenti spirituali, con il suo senso di morte diffuso, continua allusione all’ormai

prossimo destino dello scrittore. È come se in punto di morte Giuseppe Tomasi di Lampedusa abbia voluto indossare un abito da cerimonia, anzi una maschera mortuaria che è quella del suo antenato: in questo modo l’esperienza della morte che si avvicina viene vissuta come un’esperienza in qualche modo già consumata e, per questo motivo, meno traumatica e dolorosa. Vestire dunque i panni di un antenato è come porsi sotto la tutela di un genitore che ci aiuti a compiere il grande passo, secondo un rituale diffuso in tutte le religioni che legano alla morte il culto degli avi. In effetti l’autore si riferisce alla memoria di un passato altrui custodito gelosamente nelle sue abitudini quotidiane, memoria che aveva messo profonde radici nella sua vita e nel suo mondo culturale. Troviamo molti spunti del romanzo nel primo tentativo letterario di Tomasi di Lampedusa, I luoghi della mia prima infanzia, del 1955, che si ispira al mondo delle sue origini, della sua memoria privata, della sua casa, che sono alla base dell’universo narrativo successivo. Il mondo dei Gattopardi, splendidamente descritto nel volume La Sicilia al tempo dei Gattopardi4, scritto da Gérard Gefen e illustrato dalle bellissime fotografie di Jean-Bernard Naudin, ci riporta a quell’epoca, caratterizzata dal fasto e da abitudini di vita ormai codificate. Nonostante la confisca dei beni ecclesiastici di cui godevano i cadetti delle famiglie nobili, e l’ascesa degli avvocati e dei commercianti, la nobiltà, pur rassegnata alla perdita del suo potere spirituale e temporale, non rinunciò al suo fasto e alle sue costose ritualità. Tra la classe dei Gattopardi siciliani e le altre aristocrazie europee, esistevano certamente delle somiglianze, anche se la raffinatezza quasi eccessiva che ne caratterizza gli ultimi bagliori è un fenomeno particolarmente siciliano. Proprio questo crepuscolo che durò fino alla prima guerra mondiale, è stato descritto, con nitida precisione, da Tomasi di Lampedusa che ha saputo dare ai suoi personaggi l’umanità, le debolezze, i contrasti e le contraddizioni che li rendono così veri. Sempre su questo mondo che sta giungendo alla sua fine abbiamo un’altra opera autobiografica, oltre a quella già citata dello scrittore, e cioè le memorie di Fulco di Santostefano della Cerda, duca di Verdura, scritte in inglese, successivamente riscritte dall’autore in lingua madre e poi tradotte e adattate in francese da Edmond Charles-Roux con il titolo Une enfance sicilienne5. I tempi di stesura dicono che Il Gattopardo non venne scritto di getto e non c’è da meravigliarsi in quanto l’ispirazione, quando è profonda, dura a lungo,

può avere una prolungata incubazione e attraversare fasi ricorrenti. Il protagonista è lo stesso autore e questo rappresenta un sovrappiù autobiografico che contraddistingue il romanzo, facendone un caso a parte, un romanzo atipico, quasi inclassificabile. Il Gattopardo si presenta così come un’opera di grande poesia, rivelandosi nel contempo un miracolo di seduzione per l’atmosfera, gli ambienti, i personaggi che sono entrati nell’immaginario collettivo; anche alcuni giudizi storico-politici continuano ad affascinare, contribuendo ad amplificare il suo successo e a spiegare la realtà politica attuale. Se pensiamo alle condizioni dello scrittore nel dopoguerra, ci rendiamo conto che si sentiva veramente l’ultimo di un casato: il palazzo di famiglia distrutto dai bombardamenti, le ristrettezze economiche, la mancanza di un figlio, tutto gli fa percepire in modo netto il proprio destino. Si aggiunga a questo la coscienza ancora incerta del proprio talento, perché a sessant’anni ancora non aveva concluso niente, le liti familiari per la divisione dell’eredità del bisnonno astronomo, la sensazione della fine della sua epoca e della sua famiglia. Proprio in questo consiste l’originalità del romanzo, quella che lo rende un caso eccezionale nel panorama dei romanzi storici, cioè il ripensamento dell’ultimo superstite di un casato destinato a scomparire per sempre.6 C’è poi nel romanzo il tema, molto sentito e rappresentato, del passaggio dalla società feudale a quella capitalistica, cambiamento veramente epocale in Sicilia, dove il possesso e contemporaneamente il senso della sua precarietà sono strettamente legati alla fugacità della vita e alla morte che azzera ogni dislivello sociale. Non si può non pensare a Mastro don Gesualdo di Verga7, che sicuramente è stato uno dei punti di riferimento dell’opera di Tomasi. La “roba”, la proprietà intesa come una forma di privilegio, viene considerata come una dote iniziale, il cui errato investimento può produrre effetti catastrofici sia a livello personale che nelle vicende collettive. Si inserisce in questo contesto una nuova sensibilità che fa ritenere importanti non solo le radici nobiliari, quanto piuttosto il merito personale, gli ideali e i sentimenti eletti che possono valere più di un nome e di una tradizione. Questo ci pare essere il mondo morale in cui si muove il Principe di Salina.8 Un altro siciliano, Luigi Pirandello, aveva narrato i fasti e le sventure del principe Laurentano e della sua famiglia in un grande romanzo, I vecchi e i

giovani9, pubblicato nel 1909, ma la cui versione definitiva è del 1913, e sicuramente Tomasi, uomo di lettere e cugino del poeta Lucio Piccolo, conosceva bene anche quest’opera. Il romanzo, dopo la faticosa fase della pubblicazione, ricevette il premio Strega nel 1959, divenendo il primo best-seller italiano con oltre 100.000 copie vendute. Nel 1963 fu trasformato nel film omonimo di Luchino Visconti. Il titolo del romanzo ha la sua origine nello stemma di famiglia dei Tomasi, ed è così commentato nel romanzo stesso: “Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti, Gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra”10. Avendo scritto il romanzo a quasi un secolo dagli accadimenti narrati, Tomasi Di Lampedusa ha potuto far parlare il principe Fabrizio con una lucida cognizione di causa e imprimere così alla vicenda della sua famiglia il respiro della grande storia. Quello che ci interessa indagare, in questo saggio, è il romanzo con la sua incredibile capacità narrativa, la sua sicilianità e al tempo stesso modernità e con la sua visione disincantata e decadente della vita, ed il percorso che dal romanzo porta allo splendido film realizzato da Luchino Visconti nel 1963; sarà effettuata un’analisi accurata del romanzo e del film, utilizzando soprattutto la chiave psicologica, secondo i canoni della Psicologia dell’Arte e della Letteratura, codificati dai proff. Antonio Fusco e Rosella Tomassoni dell’Università di Cassino.11 È inoltre importante sottolineare che, nonostante siano ormai passati cinquant’anni dall’uscita del film di Visconti, la sua visione è ancora estremamente interessante e fortemente evocativa del clima e del messaggio del romanzo pur essendo nello stesso tempo originale e questo testimonia il fatto che, oltre al romanzo, anche il film ebbe una sua autonomia stilistica e narrativa, attraverso l’uso geniale del mezzo cinematografico.

1 M. Freni, Leggere il Gattopardo, Dario Flaccovio Editore, Palermo 2009, p. 6. 2 G. Lanza Tomasi, Premessa alla nuova edizione de Il Gattopardo, di Giuseppe Tomasi di

Lampedusa, Feltrinelli, Milano 2008. 3 L. Fulci, Rivivere da Gattopardo, Armando Siciliano Editore, Messina 2007. 4 G. Gefen, J. B. Naudin, L. Fasoli, F. Calefati di Canalotti, La Sicilia al tempo dei Gattopardi, Vita quotidiana di un’aristocrazia, Edizioni GBM, Messina 2002.

5 E. Charles-Roux, Fulco di Verdura, Une enfance sicilienne, Le livre de poche, Parigi 1985. 6 A. Vitiello, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Sellerio Editore, Palermo 2008, pp. 337-

339. 7 G. Verga, Mastro don Gesualdo, Einaudi Tascabili Classici, Torino 2005. 8 L. Fulci, Op. cit., pp. 20-21. 9 L. Pirandello, I vecchi e i giovani, BUR Grandi Romanzi Rizzoli, Bologna 2011. 10 G. Tomasi di Lampedusa, IL Gattopardo, Feltrinelli, Milano 2008, p. 185. 11 A. Fusco, R. Tomassoni, Creatività nella psicologia letteraria, drammatica e filmica, Franco Angeli Editori, Milano 2008.

IL QUADRO STORICO

Giovanni Fattori, Garibaldi a Palermo, 1860

Il quadro storico in cui si colloca il romanzo è quello della fine del Regno delle due Sicilie e dell’inizio dello stato italiano unitario. La Sicilia diventa il punto di osservazione di ciò che accade in Italia: dalla spedizione dei Mille nel 1860 al ritorno di Garibaldi in Sicilia nel 1862 nel tentativo, non riuscito, di realizzare, con la presa di Roma, difesa dalle truppe francesi di Napoleone III°, l’unità d’Italia, fino alla costituzione del nuovo stato unitario. La storia, la grande storia, viene raccontata dal punto di vista del principe di Salina, protagonista del romanzo, e nel contempo rappresentante dell’aristocrazia siciliana che è vista come una classe sociale in declino di fronte all’ascesa della nuova classe, la borghesia terriera, costituita dagli ex contadini destinati a diventare i nuovi padroni. Secondo Ludovico Fulci1, Il Gattopardo, più che un romanzo storico, si può definire un romanzo storiografico, cioè un romanzo che denuncia dall’interno le ingenuità del romanzo storico: denuncia cioè un approccio diretto alla vicenda, un porsi di fronte alla storia assunta come “realtà”, in un atteggiamento già reso vacillante da correnti di pensiero come il decadentismo e il surrealismo che ne avevano evidenziato l’eccessiva semplicità e ingenuità. Già all’epoca di Tomasi di Lampedusa, la realtà era una nozione molto più complessa e multiforme rispetto ad uno sfondo sul quale si compie la vicenda del protagonista. Nel Gattopardo infatti la realtà acquista una nuova malleabilità, una nuova precarietà e fuggevolezza; è una realtà che, pur essendo storica, non perde la sua dimensione di fatto narrativo, dove la storia entra a far parte dei fatti narrati e non ne costituisce solo lo sfondo convenzionale. Di qui la natura di romanzo storiografico che presenta l’opera che si interroga sulla storia e le

sue logiche antitetiche con ironia e con intelligenza. Il romanzo racconta quindi la storia di un grande cambiamento, di una trasformazione politica e sociale che, nell’arco di un decennio, vide l’Italia diventare una nazione e riunificare la maggior parte del suo territorio. Cambiava tutto, anche se molti storici, come l’inglese Denis Mark Smith2, scrivevano che i nuovi parlamentari, senza distinzioni di colore politico, si adoperavano, invece che per fare gli interessi di tutta la nazione, per appoggiare, in cambio di voti, quei pochi potenti più intraprendenti che desideravano conquistare il potere, favorendo quindi l’ingresso della mafia negli apparati statali. Rispetto all’epoca precedente che in Sicilia era ancora caratterizzata da rapporti di tipo feudale, e nei grandi latifondi vedeva la presenza dei gabellotti3, dei sovrastanti4 e dei campieri5, apparentemente l’organizzazione sociale era profondamente cambiata, ma in realtà erano cambiati solo i nomi, mentre la sostanza era rimasta immutata. Il romanzo quindi affronta anche il tema dell’impossibilità reale del cambiamento, dell’immobilismo storico, della difficoltà di avviare un processo di democratizzazione del paese e del blocco che le forze conservatrici ponevano rispetto ad ogni tentativo di reale normalizzazione democratica. È un’ottica, quella di Tomasi di Lampedusa, di grande scetticismo, di mancanza di illusioni, non dissimile da quella con cui Federico De Roberto6 racconta, nel romanzo I Vicerè, il declino di un’altra famiglia siciliana, quella degli Uzeda a Catania. Ma la differenza tra i due romanzi è grande: ne I Vicerè c’è sì la mancanza di illusioni, ma c’è anche la capacità di grande adattamento alla nuova realtà della monarchia parlamentare che porta la famiglia degli Uzeda a diventare più potente, utilizzando, in modo cinico e strumentale, i nuovi modelli liberali, mentre Il Gattopardo racconta della fine di un mondo, rappresentato dal casato dei Salina, si sofferma con grande consapevolezza sulla fine di un’epoca storica. Don Fabrizio, pur sapendo che non può arrestare la corrente della trasformazione politica e sociale, non vuole seguirla, ma, nonostante ciò, consentendo il matrimonio tra Tancredi ed Angelica, in qualche modo la favorisce. Secondo lo storico Rosario Romeo7, la minaccia della repubblica e l’attentato al proprio monopolio del potere apparivano, agli occhi dei moderati, troppo gravi perché non ci fosse una loro reazione. Infatti la minaccia democratica

fece subito nascere l’esigenza di un’alleanza con la sola forza che in Italia potesse opporsi a Garibaldi e ai suoi seguaci, cioè Cavour e la monarchia sabauda. Infatti, appena partiti i Mille, il grosso dell’aristocrazia siciliana, per evitare eventuali evoluzioni in senso repubblicano, si schierò per l’annessione. Su questa posizione essa trovò ben disposto a venirle incontro Cavour, il quale, persuaso del grande potere dell’aristocrazia in Sicilia, era deciso a servirsi dei nobili, pur di frapporre ostacoli ai progressi politici del garibaldinismo. Il contrasto tra democratici e moderati quindi agì in senso energicamente unificatore, determinando l’adesione dei siciliani allo schieramento nazionale del moderatismo in funzione antidemocratica. L’unione della Sicilia all’Italia si attuava dunque sulla base dell’alleanza del liberalismo moderato settentrionale con quello isolano e contro quelle forze democratiche che più risolutamente si erano battute per l’annessione. La storia è raccontata in tre momenti: il primo, che parte dallo sbarco dei Mille in Sicilia che avvenne nel maggio del 1860, e arriva fino alla data del plebiscito, nell’ottobre dello stesso anno, con cui la Sicilia si dichiarò favorevole all’unificazione. Il secondo momento va dalla seconda discesa di Garibaldi In Sicilia, nel 1862, fino all’episodio dello scontro sull’Aspromonte tra le forze garibaldine e l’esercito sabaudo, che coincide con la diversa posizione assunta da Cavour che impose al Sud le istituzioni piemontesi, mentre prima aveva promesso l’autogoverno regionale. Il terzo momento è quello che va dalla morte del principe di Salina, nel 1883, fino alla prima decade del nuovo secolo. Lo stesso autore era consapevole di aver scritto tre lunghi racconti collegati tra di loro, ma questo non rappresenta un limite del romanzo, semmai il tentativo di completare nel tempo la parabola di esistenze conosciute nella piena gioventù, accompagnandole fino al loro tramonto. Il Gattopardo è un’opera che si vuol misurare con l’insieme del processo storico in cui è immersa la vicenda narrata. L’approccio dell’autore al Risorgimento è un approccio molto periferico, in una chiave soggettiva e individuale pressoché interamente filtrata attraverso il sentire del protagonista e nell’ottica del ceto aristocratico, presentato più come spettatore che come attore degli avvenimenti. Il tema del Risorgimento è affrontato in una prospettiva di medio e lungo periodo, in cui la vicenda risorgimentale o è trascurata del tutto o è data comunque per scontata anche nei suoi esiti. Ciò che fa arrovellare veramente il protagonista, e quindi l’autore, è quello che sopravvivrà e quello che si perderà nel cambiamento, in termini culturali e sociali prima ancora che

politici; cosa c’era prima e cosa ci sarà dopo, a cose fatte. Infatti il racconto non si limita soltanto alla spedizione dei Mille, ma arriva fino all’Unità, quando la frattura tra democratici e moderati è già consumata e di seguito si estende a tutta l’Italia liberale. Il libro si conclude solo nel 1910, in occasione del cinquantenario dell’Unità: nell’ottavo capitolo si seguono le vicende dei vari personaggi, dopo la morte del principe di Salina, come se l’analisi dell’autore aspirasse ad allargarsi al di là della Sicilia e del Risorgimento in senso stretto, per comprendere un giudizio esteso anche al periodo dell’Italia liberale. Se riflettiamo sugli avvenimenti storici, appare chiaro che il Regno delle Due Sicilie è crollato non solo per la spedizione garibaldina, ma soprattutto per fragilità interna, una lunga erosione che data almeno dal 1848 e che arriva poi nel 1860 all’implosione finale. Di questa crisi della monarchia borbonica si parla in termini impietosi nel romanzo, in particolare in occasione delle udienze reali concesse al Principe di Lampedusa. Certo, dobbiamo constatare che una parte delle classi dirigenti, non solo meridionali, ha sposato la causa unitaria nell’ottica sabauda, vedendo in essa il male minore, sia per realismo che per opportunismo, e che quindi il processo di unificazione fu più subito che condiviso. Inoltre nel romanzo viene sottolineata la totale ignoranza da parte delle classi dirigenti prima piemontesi, poi della Destra storica, delle reali condizioni del Sud d’Italia e della Sicilia in particolare, ignoranza che provocò interventi assolutamente inadeguati, come accadde per il fenomeno del brigantaggio. Il romanzo, scrive Giuseppe Civile,8 grazie al suo successo immediato e destinato a durare nel tempo, fu soggetto ad una ricezione semplificata che ne individuava e stilizzava il messaggio, che si può compendiare in questo: bisogna che tutto cambi perché tutto resti uguale. Il simbolo di questo messaggio era il gattopardo stesso, assunto a emblema dell’opportunismo trasformista. Si è parlato infatti a lungo di gattopardismo, per molti sinonimo di trasformismo, come un modo per riferirsi all’abitudine, tutta italiana, di adattarsi al cambiamento, facendo in modo di eliminarne la portata e l’incisività. In realtà la frase ricorre proprio all’inizio del libro ed è pronunciata da Tancredi Falconeri, il nipote di Don Fabrizio, principe di Salina, rivolta allo zio: ”Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?”.9 Don Fabrizio non solo stenta a capire la strategia del nipote, un Falconeri e non un

Salina, ma non la condivide; quanto al gattopardo diventato simbolo della capacità di sopravvivere a qualsiasi tempesta, simulando e dissimulando, bisogna dire che il felino rappresenta sì il casato di don Fabrizio, ma non rappresenta certo il suo mondo morale. Quindi del povero gattopardo si è abusato a torto o comunque con un riferimento del tutto improprio. Il Gattopardo mostra, con la sua ottica periferica, quello che poi avverrà progressivamente anche al centro, dove assistiamo al passaggio dalla Destra alla Sinistra storica: e cioè l’inizio di un processo di ampliamento della classe dirigente nazionale, di cui un esempio è dato dai Sedàra che entrano in Parlamento. Questo spostamento verso il centro, dalla periferia verso la Capitale, rappresenta da una parte un movimento di promozione sociale, dall’altra una forma di degrado politico e morale. Sostiene Vargas Llosa che ne Il Gattopardo, la cui più esplicita convinzione ideologica è negare l’evoluzione sociale, supporre una sostanza storica che si perpetua, immutabile, sotto gli incidenti di regimi, rivoluzioni e governi, il tempo è stato fermato in otto affreschi di una sontuosità barocca. I fatti importanti non vi accadono, sono già successi come lo sbarco di Garibaldi a Marsala, o stanno per succedere, come il matrimonio di Tancredi con Angelica, figlia di Calogero Sedàra. La frase famosa pronunciata da Tancredi è la cifra della concezione storico-sociale del Principe Fabrizio, ma è anche l’emblema della forma del romanzo, una definizione sottile della sua struttura plastica in cui, sebbene tutto sembri essere dotato di vita, il tempo non fluisce e la storia non si muove.10 Quel che ci mostra il romanzo nei suoi otto quadri folgoranti è l’incarnazione di quella teoria che ci propongono, in completo accordo, lo scrittore e il Principe Fabrizio: la Storia non esiste. Non c’è storia perché non ci sono causalità né tantomeno progresso. Certo accadono cose, ma in fondo nulla si connette né muta. I borghesi scrupolosi e avidi come Calogero Sedàra si impadroniranno delle terre e dei palazzi degli aristocratici apatici e i borbonici cederanno il posto ai romantici garibaldini. Invece del nobile e imponente gattopardo, il simbolo del potere sarà una bandiera tricolore, ma sotto questi cambiamenti di nomi e rituali, la società si ricostituirà, identica a se stessa, nella sua immemore divisione tra ricchi e poveri, forti e deboli, padroni e servi. Varieranno i modi e le mode, ma in peggio: i nuovi capi e padroni sono volgari e incolti, senza le raffinatezze di quelli antichi. Il Principe Fabrizio accetta gli

sconvolgimenti storici con filosofia, perché il suo pessimismo radicale gli dice che l’essenziale non cambierà. Cambieranno le apparenze, per lui e quelli come lui, quell’aristocrazia che ha il monopolio dell’intelligenza e del buon gusto, che d’altronde sono la giustificazione della sua esistenza. Ed è proprio il deterioramento delle forme, che si intuisce nel futuro, ad imprimere alla personalità del principe e all’ambiente del romanzo quella malinconia agrodolce che li pervade.11

1 L. Fulci, Op. cit., p. 34. 2 D. M. Smith, Storia d’Italia dal 1861 al 1977, Laterza, Bari 2008. 3 I gabellotti erano loschi personaggi, spesso collusi con la mafia, che affittavano, per

conto dei latifondisti, le terre ai contadini. 4 I sovrastanti erano dei guardiani che controllavano i grandi latifondi e il lavoro dei contadini. 5 I campieri erano, nella Sicilia dell’Ottocento, le guardie private di una tenuta agricola e rispondevano del loro operato ai gabellotti. 6 F. De Roberto, I Vicerè, Mondadori Oscar Classici, Milano 2001. 7 R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, Laterza, Roma-Bari 1973, pp. 364-368. 8 G: Civile, Ritorno al Gattopardo, in Meridiana, Rivista di storia e scienze sociali, Grafica Editrice Romana, Roma 2011. 9 G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli Editore Milano 2008, p. 50. 10 M. Vargas Llosa, La verità delle menzogne, Libri Schiewiller, 24 Ore Cultura, Milano 2010, pp. 180-181. 11 M. Vargas Llosa, Op. cit., p. 185.

IL ROMANZO

Giuseppe Tomasi di Lampedusa

Il romanzo si apre con le parole latine che concludono la recitazione del rosario: “Nunc et in hora mortis nostrae. Amen”. Ci troviamo nel salone di casa Salina in cui sono riuniti il principe di Salina, le sue tre figlie, i due figli maschi, la principessa Maria Stella e infine Padre Pirrone, confessore del Principe e prelato di casa che è ormai entrato a far parte della famiglia. L’ambiente è splendido, sontuoso, tra le mattonelle istoriate del pavimento e il soffitto affrescato da schiere di divinità, con gli dei maggiori inseriti tra esse per esaltare la gloria del casato dei Salina, sorreggendo lo stemma azzurro col Gattopardo. Subito l’autore presenta, con abbondanza di particolari, il personaggio principale, il Principe di Salina: lo descrive come un uomo immenso e fortissimo, quasi un gigante, dotato di una forza non comune capace di accartocciare in un momento d’ira forchette o cucchiai mentre è a tavola, ma anche capace di una grande delicatezza e dolcezza sia nello sfiorare una donna che nel maneggiare gli strumenti di precisione che affollano il suo osservatorio privato. Il principe, nell’incarnato e nel colore dei capelli, rivela l’origine tedesca della madre, la principessa Carolina, ma nel suo sangue sono presenti altre influenze germaniche che si evidenziano nel carattere autoritario, nella rigidità morale e nella propensione all’astrazione. Egli infatti ha un forte interesse per la matematica e l’astronomia che gli hanno procurato grandi soddisfazioni, con la scoperta di due pianetini, Salina e Svelto, chiamati così come il suo feudo e un bracco a cui è stato

particolarmente affezionato. Il Principe, diviso tra l’intellettualismo materno e la sensualità paterna, contempla la rovina del proprio ceto nobiliare e del suo patrimonio, senza cercare di porvi riparo. Lo sguardo è pieno d’orgoglio per la sua potenza fisica e spirituale, anche se una vena di umorismo e di disincanto smorzano l’atteggiamento arrogante. Curatissimo e sempre elegante, si adombra per una macchiolina di caffè che gli ha sporcato il panciotto candido che non vede l’ora di cambiare. Al suo fianco il cane Bendicò, anche lui a suo modo un personaggio, che scalpita per stare sempre insieme al padrone, anche durante il rosario quando la sua presenza è vietata e che si precipita nel salone, non appena il rito è finito. Esperto giardiniere, Bendicò si diverte a scavare le piante nel giardino che, già di suo, si presenta disordinato e pieno di erbacce; poi, soddisfatto del suo lavoro, va a posare il muso sporco di terra sul ginocchio del padrone, come aspettandosi i complimenti per il lavoro svolto con tanto entusiasmo. Il principe di Salina, fin dall’inizio, è circondato da un alone di morte: lo stesso giardino ha un aspetto cimiteriale a causa dei canaletti di irrigazione che separano monticelli di terra simili a tumuli. La sua stessa chiusura tra la villa e tre muri di recinzione, ne accentua l’aspetto funereo che viene esaltato dai profumi ”untuosi, carnali e lievemente putridi” che provengono dalle rose, dalle magnolie e dai garofani. L’autore lo definisce un “giardino per ciechi”, perché se la vista non è assolutamente appagata, l’odorato può trarre da esso un particolare piacere. Ci chiediamo perché don Fabrizio sia così ossessionato dall’idea della morte, dato che il suo pensiero corre spesso alla fine dell’esistenza, come accade quando ricorda il cadavere del soldato scoperto in giardino da Russo, il soprastante. Il suo pensiero si sofferma sull’odore dolciastro e nauseante che proveniva dal corpo in decomposizione e sulla vista del giovane che era stato trovato bocconi sotto un albero di limoni, con il viso affondato nel suo vomito e con le viscere fuori dal corpo che avevano formato una pozzanghera. L’immagine del corpo sbudellato ritorna spesso nei suoi ricordi, come se volesse chiedergli una giustificazione alla sua morte, ma il Principe, su questo argomento, ha le idee confuse, non sa se ha senso ancora morire per il Re, soprattutto se il Re, nella sua specifica persona, non sembra essere degno del titolo che porta. Forse, a livello inconscio, sente che la sua fine si avvicina, che la parabola della sua vita si sta concludendo, visto che ha svolto tutti i suoi obblighi familiari e sociali: ha avuto dalla moglie ben sette figli, li ha educati ma

non è orgoglioso in particolare di nessuno di loro. Il suo primogenito, Paolo, è riservato e malinconico e non gli somiglia nell’aspetto né tantomeno nel carattere, il secondogenito, Giovanni, il più amato, vive a Londra lontano dalla famiglia, le tre figlie, Caterina, Carolina e Concetta, rientrate a casa dal convento dopo i primi moti insurrezionali, sono modeste e sottomesse, l’altro figlio, Francesco Paolo, è ancora sedicenne. Si rende conto che ormai la sua nobile casata è arrivata alla fine della sua storia, che lui rappresenta l’ultimo vero discendente dei Salina. Nel suo ricordo spesso ritornano le varie udienze che il re, Ferdinando di Borbone, gli ha concesso in diverse sedi, come Caserta e Napoli, e che rivelano la sua posizione critica nei confronti del sovrano di cui non apprezza né la cordialità plebea né l’atteggiamento poliziesco. Vede una monarchia che ha già i segni della morte sul volto e si chiede chi è destinato a succederle, se il piemontese Cavour con la monarchia sabauda o la repubblica di Mazzini. Anche qui, come vediamo, prevalgono pensieri di una fine imminente e inarrestabile. La stessa cena in famiglia, regolata da ritualità codificate, come la presenza di tutti i figli a tavola prima dell’arrivo del Principe, viene servita, scrive Tomasi di Lampedusa, con il ”fasto sbrecciato” che allora era lo stile del Regno delle due Sicilie e che sa di decadenza: la tovaglia di stoffa finissima è rattoppata, l’argenteria è massiccia e splendida così come i bicchieri, ma i piatti sono quelli sopravvissuti alle stragi compiute dagli sguatteri e provengono da diversi servizi. Come d’abitudine, il Principe scodella lui stesso la minestra, come simbolo delle mansioni di capofamiglia. Anche se l’età si fa sentire, il Principe non disdegna ogni tanto i piaceri carnali che sicuramente sua moglie, piccola e bigotta, non è più in grado di offrirgli; si reca dunque periodicamente a Palermo da una certa Mariannina che sa come soddisfare i suoi sensi, provocando nella povera Stella vere e proprie crisi nervose, e confessandosi poi, anche se a malincuore, a padre Pirrone. Preceduto da una serie di accenni relativi alla sua vita sregolata e alle pessime frequentazioni, soprattutto politiche, viene presentato il personaggio di Tancredi, il nipote molto amato dal Principe di Salina: mentre il Principe è intento a radersi il viso, si presenta il ragazzo pieno di brio giovanile, in tenuta da caccia, con atteggiamento scherzosamente insolente, tipico di chi sa che può permettersi tutto. Gli occhi azzurri, molto simili a quelli di sua madre e quindi dello zio, fissano il Principe con simpatia, nonostante il parlare insolente. Tancredi, riacquistando la sua serietà, comunica allo zio che sta

partendo per unirsi ai ribelli, per combattere contro il re: si reca a Corleone dove si stanno preparando grandi cose. Di fronte alla perplessità e alla preoccupazione dello zio, Tancredi pronuncia la famosa frase: ”Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?”. E poi, dopo un abbraccio commosso: ”Arrivederci a presto. Ritornerò col tricolore!”. Si capisce che il ragazzo è nel cuore dello zio, che in qualche modo lo considera il suo vero figlio, anche se non porta il suo nome e che accetta da lui posizioni e scelte che non avrebbe mai accettato da suo figlio Paolo. Tancredi, nonostante la simpatia e la vitalità che lo caratterizzano, non viene presentato comunque come un personaggio del tutto positivo: è pragmatico, privo di ideali, essenzialmente opportunista, disposto a sacrificare il suo amore adolescenziale per la cugina che pure egli ammira e stima, per la bellissima Angelica, che rappresenta, insieme al padre, Calogero Sedàra, i tempi nuovi e soprattutto la possibilità di incamerare una dote considerevole. Per quanto riguarda poi la visione politica, il suo personaggio rappresenta in modo paradigmatico il principio del trasformismo. Eppure i due, zio e nipote, sono fortemente legati da un profondo affetto, anche perché il nipote vede nello zio un modello di classe, di grandiosità e di raffinatezza, e lo zio si rispecchia in qualche modo nel giovane, proiettando su di lui le sue aspirazioni, la sua voglia di vivere e di amare. Il Principe, dopo l’uscita di Tancredi, rimane a riflettere sul tricolore che è ormai sulla bocca di tutti e non riesce a vedere la bellezza di questa bandiera che scimmiotta quella dei Francesi; al suo confronto è molto più bella la bandiera candida dei Borbone con l’oro gigliato dello stemma. I rapporti del Principe con l’attività amministrativa relativa alle sue proprietà sono sicuramente difficili: per anni i Salina hanno sperperato vivendo nel lusso e perdendo così molti feudi. Pensa questo Don Fabrizio mentre entra nel proprio studio dove troneggia una scrivania coperta di carte, che gli fa ricordare quella di Re Ferdinando a Caserta. In realtà egli non ha nessuna voglia di occuparsi dell’amministrazione delle sue terre, lascia fare a don Ciccio Ferrara, il contabile, un piccolo uomo che coltiva idee liberali e che appare contento degli ultimi avvenimenti e si aspetta tempi gloriosi per la Sicilia. Egli sostiene sempre, davanti al Principe, che la contabilità è a posto, anche se in realtà di tutto si occupa all’infuori delle situazioni veramente importanti. D’altronde Don Fabrizio non lo controlla costantemente, perso com’è dietro alle sue stelle e ai suoi pianeti, attività che per lui ha la stessa funzione di un

farmaco appena scoperto negli Stati Uniti, la morfina. Si rende comunque conto che uomini come don Ciccio e come il soprastante Russo avrebbero rappresentato la nuova classe emergente, essendo la perfetta espressione di un ceto in ascesa, anche se ora si mostrano ossequiosi e devoti, compiendo tuttavia alle sue spalle varie ruberie, come se fosse un loro diritto. Comunque il Principe, dopo una chiacchierata con Russo, si rassicura riguardo alle possibili violenze e saccheggi che potrebbero coinvolgere le sue proprietà e la sua famiglia. Le parole del soprastante gli donano sollievo: “Tutto sarà meglio, mi creda, Eccellenza. Gli uomini onesti e abili potranno farsi avanti. Il resto sarà come prima”.1 Ovviamente Don Fabrizio non può fare a meno di riflettere sul cambio di guardia, cioè sul passaggio dai vari Ferdinandi e Franceschi ai monarchi sabaudi, considerando la sua acquiescenza per un momento come un tradimento nei confronti di sovrani che erano stati abbastanza giusti, quasi dei fratelli maggiori, in qualche caso dei veri re. Ma questi pensieri durano poco, superati dal desiderio di dedicarsi alla sua attività preferita, nel suo osservatorio astronomico. Spesso, nel romanzo, più che le vicende politiche, che rimangono sullo sfondo, entrano violentemente le descrizioni del paesaggio siciliano, catturato in vari momenti e in diverse ambientazioni. Ecco che dalla finestra si vede uno scorcio di Palermo con il mare in lontananza, come una macchia di puro colore, Palermo che “si stende acquetata intorno ai conventi come un gregge ai piedi dei pastori”2 e su tutto predomina il sole che si rivela come l’autentico sovrano della Sicilia. Un personaggio solo apparentemente secondario, ma particolarmente interessante, è quello di Padre Pirrone, prelato di casa Salina, confessore di tutta la famiglia e molto devoto al Principe, e che, forse unico personaggio del romanzo, vive con sincero dolore gli avvenimenti che cambieranno il volto della Sicilia e dell’Italia. È molto preoccupato per il patrimonio della Chiesa che presto sarebbe stato diviso tra i caporioni più impudenti della rivolta. È lui l’unica persona per la quale la storia cambierà veramente e non in modo positivo; per il resto il gesuita è una persona amabile, attento a non strafare per non suscitare le ire zeusiane, come direbbe l’autore, di Don Fabrizio. Padre Pirrone, sempre presente in tutte le vicende più o meno importanti della famiglia Salina è, come abbiamo detto, il mite confessore del Principe e dei suoi peccati di lussuria con Mariannina a Palermo, con Cora Danòlo a Napoli,

con quella “sgualdrinella” di Sarah a Parigi o con quelle due o tre dame dell’aristocrazia palermitana che erano state sue amanti; peccati che hanno lasciato in Don Fabrizio il rimorso di aver tradito la fiducia e l’amore della Principessa, della sua Maria Stella, della quale non aveva mai visto l’ombelico nonostante i sette figli avuti da lei.3 Quella di Padre Pirrone è una presenza costante nella vita pubblica e privata del Principe e solo alcune volte emerge dalla situazione di sfondo per diventare protagonista, come accade durante le cosiddette vacanze a S. Cono, il suo paese natale. Le notizie sullo sbarco dei Mille giungono a villa Salina tramite un messaggio inviato dal cognato del Principe, Màlvica, che, terrorizzato, ha intenzione di rifugiarsi sulle navi inglesi che sono alla rada. I giornali poi hanno parlato della vicenda, facendo il nome del generale Garibaldi, che il Principe conosce come un mazziniano puro, ma che sarebbe di certo stato imbrigliato da Cavour e dai Piemontesi, altrimenti non si spiegherebbe la sua venuta in Sicilia con il loro beneplacito. Dopo lo sbarco, tutti i palermitani sembrano felici e si adattano alla nuova situazione, ad eccezione di pochi tra cui Màlvica e il figlio del principe, Paolo, che cerca di complottare contro i nuovi padroni. Tutti i cittadini esibiscono in giro coccarde tricolori, partecipano a sfilate e manifestazioni, ostentando la loro gioia, e soprattutto parlano, declamano, partecipando a delle cerimonie che al Principe paiono sciocche e senza senso. Don Fabrizio li ha conosciuti quelli che lui si ostina a chiamare Piemontesi e che gli altri chiamano garibaldini: preannunziato da Tancredi, si è presentato a villa Salina un giovane generale in giacca rossa, seguito dal suo ufficiale d’ordinanza e ha chiesto con molta cortesia, dando al Principe dell’Eccellenza, nonostante il divieto di Garibaldi, di poter ammirare gli affreschi della villa. Con loro si è presentato Tancredi, promosso sul campo capitano, con una benda nera sull’occhio ferito. La loro compagnia è stata così piacevole da essere invitati a cena: la serata che ne è venuta fuori è stata perfetta, quasi idilliaca, ed è stata seguita da altre ugualmente piacevoli e cordiali. Il sovrastante Russo non si era sbagliato, nessuna offesa è stata recata dai rivoluzionari garibaldini al Principe e alla sua famiglia, che anzi ottiene un’esenzione per Padre Pirrone dall’ordine di espulsione che è stato emesso per i gesuiti, e il lasciapassare per recarsi in villeggiatura a Donnafugata, insieme al nipote Tancredi. In un agosto caldissimo e soffocante, avviene l’epico viaggio che porta

l’intera famiglia, con cane, servi e masserizie al seguito, da Palermo al feudo di Donnafugata, dove i Salina si recano tutte le estati. Tancredi viaggia a cavallo e, nonostante il caldo e la polvere, sembra sempre energico ed elegante. Il viaggio dura tre giorni ed è massacrante anche a causa delle condizioni delle strade siciliane, piene di buche e di polvere. Finalmente arrivano, dopo una sosta in una locanda, stanchi e impolverati e vengono accolti dalle autorità schierate insieme ad una decina di contadini, mentre la banda suona e le campane della chiesa madre squillano a festa. Tra le autorità spicca don Calogero Sedàra, che esibisce una fascia tricolore nuova fiammante ed è presente anche l’organista del Duomo, don Ciccio Tumeo, amico e compagno di caccia del Principe, accompagnato dal bracco Teresina. Lieto della calorosa accoglienza, Don Fabrizio, che temeva cambiamenti, si rassicura, saluta tutte le autorità presenti, mentre i contadini guardano incuriositi sia lui che il giovane Tancredi che, con la benda sull’occhio, ammiccando al sindaco che si è dato tanto da fare durante i giorni della liberazione, prende sotto braccio la cugina Concetta e si allontana verso la chiesa, seguito dagli altri nobili. Come di consuetudine, i Salina, prima di entrare nella loro proprietà di Donnafugata, devono assistere al Te Deum nella chiesa Madre e, per questo motivo, si avviano in corteo tutti impolverati ma imponenti, mentre le autorità li seguono tirate a lucido ma umili. Dopo il rito religioso, le autorità vengono invitate ad un pranzo a villa Salina e in quest’occasione don Calogero sorprende tutti chiedendo se al posto della moglie, lievemente indisposta, può portare la figlia Angelica. In villa vengono accolti dall’amministratore locale, don Onofrio Rotolo, che, insieme alla moglie dà il benvenuto al Principe e alla sua famiglia, consegnandogli la proprietà nelle stesse condizioni in cui era stata lasciata. Il palazzo dei Salina è posto vicino alla chiesa Madre ed è enorme, formato da vari edifici differenti per stile e uniti intorno a tre cortili, il tutto circondato da un grande giardino. Si presenta come un vero e proprio labirinto, tanto che lo stesso Principe non ne conosce tutte le stanze; nonostante l’immensità del palazzo, tutta la parte abitabile viene trovata in perfetto ordine e per questo Don Fabrizio si congratula con l’amministratore, lodandolo per la sua onestà e devozione. Da lui viene a sapere le novità di Donnafugata e in particolare l’ascesa di don Calogero Sedàra che ormai ha accumulato a Donnafugata una proprietà quasi uguale a quella dei Salina e che ha visto crescere non solo il suo

patrimonio, ma anche la sua influenza politica, tanto che è sicuro di essere inviato come deputato a Torino. Prima del pranzo al quale è stata preannunziata la presenza di Angelica, figlia di Sedàra e di una donna bellissima e incolta che il sindaco non presenta mai in pubblico anche a causa della sua patologica gelosia, il Principe cerca di rilassarsi con un bagno caldo; sta quasi per addormentarsi quando il cameriere gli annuncia Padre Pirrone, costringendolo, per rispetto nei confronti del gesuita, a porre termine al bagno. Non fa in tempo a mettersi l’accappatoio, che il padre entra nel locale, vedendolo in veste adamitica, tutto fumante, con l’acqua che gli scende a rivoli dal corpo come fiumi che scendono dai gioghi alpini; Padre Pirrone si turba alla vista del corpo immenso del Principe e fa per uscire, ma viene richiamato con irritazione e costretto a rientrare. Il motivo di tanta furia da parte del Padre è dovuto ad una missione che gli è stata affidata dalla figlia del Principe, Concetta, che è innamorata di Tancredi. In realtà lui non le ha rivolto alcuna proposta concreta, ma lei, dai suoi sguardi, dalle sue attenzioni, ha capito che anche lui l’ama e che presto si dichiarerà. Vorrebbe quindi sapere come comportarsi. Il Principe ama molto la figlia, ma ancora di più ama il nipote, di cui ha imparato ad apprezzare l’intelligenza, la beffarda affettuosità, la grande adattabilità agli eventi e nello stesso tempo, l’altezzosa ironia degna di un principe di Falconeri. Sa che il giovane ha davanti a sé un grande avvenire, per realizzare il quale però ha bisogno di molti, moltissimi soldi; per non parlare poi del carattere di Concetta, timida, riservata, introversa, carattere che sicuramente non l’aiuterebbe a star dietro ad un marito pieno di ambizioni. Dopo queste riflessioni, il Principe lascia il gesuita per prepararsi al pranzo. Tancredi lo incontra mentre ammira la fontana di Anfitrite, un tripudio di giochi d’acqua, di conchiglie, di Tritoni, di Naiadi, con al centro Nettuno che abbranca una vogliosa Anfitrite, e mentre si abbandona a ricordi e rimpianti voluttuosi. L’affettuosa malizia del nipote lo allontana dai suoi pensieri e insieme ammirano il frutto di un nuovo innesto, le pesche forestiere, poche, ma grandi e vellutate, bellissime, troppo poche per essere servite a cena, ma sicuramente da gustare l’indomani. Saranno proprio le pesche forestiere, in qualche modo metafora del nuovo che si innesta sul vecchio, il primo regalo che Tancredi farà ad Angelica, dopo averla conosciuta. Don Calogero si presenta, suscitando così la sorpresa di tutti, al pranzo in frac, un frac che, dal punto di vista sartoriale, è una vera e propria catastrofe; la

notizia del suo arrivo, data dal figlio Francesco Paolo, ha sul Principe un effetto più dirompente dello sbarco dei Mille a Marsala. Dopo di lui, entra Angelica e tutti rimangono con il fiato sospeso: la ragazza è bellissima, alta e ben fatta, con una gran massa di capelli neri, gli occhi verdi, la carnagione cremosa e la bocca infantile e rosea, simile ad una fragola. La descrizione di Angelica è un inno alla bellezza muliebre, un ritratto che colpisce al cuore il vecchio Principe che è fortemente attirato dalla grazia femminile. Angelica si rivolge alla Principessa, facendole un grazioso inchino e meravigliandola sia per l’omaggio, sia perché ella la ricorda come una tredicenne bruttina e poco curata e stenta a ritrovarla nella splendida adolescente che le sta davanti. Tancredi fa finta di niente, ma è sconvolto dalla fulgida bellezza di Angelica, tanto da seguire a stento le parole di un’ospite con cui sta conversando: sarà il loro un incontro fatale che porterà cambiamenti nella vita di tutti, soprattutto in quella di Concetta. A tavola Tancredi si trova seduto tra Concetta ed Angelica e, sentendosi in colpa, cerca di dividere equamente le sue attenzioni tra le due donne, ma la cugina coglie, in modo quasi animalesco e con il cuore attanagliato dalla gelosia, il flusso erotico che emana da Tancredi nei confronti di Angelica e vorrebbe uccidere, eliminare fisicamente la sua rivale e nello stesso tempo morire. Gli altri commensali sono impegnati a gustare il famoso timballo di maccheroni, descritto da Tomasi di Lampedusa con grande ricchezza di particolari e accolto con meraviglia e sollievo dagli ospiti che si aspettavano qualche brodaglia tipica dei pranzi aristocratici. Angelica, esaltata dal vino, dal cibo, dalle luci e dal successo, chiede a Tancredi di narrare le sue eroiche gesta di Palermo e lui, lusingato dall’interessamento della giovane, racconta con molta leggerezza gli avvenimenti, soffermandosi su un episodio avvenuto in un convento dove, entrati con la forza, i garibaldini vedono un gruppo di suore brutte e vecchie, ammucchiate vicino all’altare, spaventatissime e ormai disposte al sacrificio; gli ufficiali, tra cui c’è Tancredi, le lasciano “a bocca asciutta”, ridendo come dei matti e dicendo che avrebbero aspettato le novizie. Tancredi, all’uscita di Angelica che avrebbe voluto trovarsi lì con loro, si trasforma da giovanotto educato e galante in un soldataccio brutale, affermando che, se ci fosse stata lei, non avrebbero certo avuto bisogno di aspettare le novizie, suscitando però la reazione stizzita ed offesa di Concetta. Fa parte sempre della tradizione familiare la visita al Monastero di Santo Spirito, dove si trova la tomba della beata Corbera, un’antenata del Principe

che è stata la fondatrice del convento. Oltre alle donne, sono ammessi ad entrare nel convento solo il Principe di Salina e il Re di Napoli; il Principe è molto fiero del suo privilegio e ama particolarmente questo posto, gli piace farsi raccontare i miracoli compiuti dalla beata e assaggiare i dolcetti che le stesse suore preparano. A Tancredi che chiede di poter entrare anche lui nel convento, risponde incattivita Concetta che lui in un convento c’è già stato e gli deve bastare, riferendosi ovviamente all’episodio raccontato da Tancredi ad Angelica. Il Principe vive con difficoltà tutti questi fastidi che certo non si aspettava di trovare a Donnafugata: l’ascesa di don Calogero, la bellezza straordinaria di Angelica che sta mettendo in crisi sua figlia Concetta, le perplessità che ha rispetto ai risultati del plebiscito, tutto ciò è fonte di ansie e non lo fa riposare, è costretto a pensare e a ricorrere a mille astuzie per risolvere problemi che prima avrebbe allontanato con una zampata gattopardesca. Il personaggio di don Ciccio Tumeo ha un ruolo importante nel romanzo perché, con la sua rabbia e con il suo sdegno, riesce a sintetizzare una pagina di storia in cui la Sicilia rimase vittima degli intrighi dei vincitori: la storia del plebiscito. La discussione tra Don Fabrizio e don Ciccio avviene durante una pausa della battuta di caccia che è stata organizzata dopo l’arrivo tanto atteso della pioggia. Come al solito si sono incontrati alle prime luci dell’alba, e, allontanandosi di poco da Donnafugata, all’improvviso si ritrovano nell’“immemorabile silenzio della Sicilia pastorale”, come se le case, il borgo, il palazzo dei Salina fossero lontanissimi nel tempo e nello spazio. Ancora una volta Tomasi di Lampedusa si abbandona alla descrizione di un altro aspetto della sua Sicilia: quello aspro, selvaggio delle campagne, non quello modificato dal lavoro dell’uomo, ma le terre incolte, identiche a come erano secoli prima, sulle quali soffia, ora come allora, il vento marino, muovendo i mirti e le ginestre e diffondendo l’odore del timo. È l’aspetto vero della Sicilia, quello delle distese aride di terra che si susseguono ondulate, come se fossero appena emerse da una fase delirante della creazione. Secondo Massimo Ganci4, l’aridità pietrificata delle contrade della Sicilia interna rappresenta per l’autore il senso intimo della vita umana. L’irredimibilità del paesaggio assume un preciso significato esistenziale, sottratto ad ogni tentativo di storicizzazione. Non si tratta di un motivo storico e tanto meno di un motivo politico, ma di un motivo poetico. La ”Sicilia irredimibile” infatti, esprime, con evidenza plastica,

l’aridità dell’uomo moderno, dell’uomo sospeso nel vuoto, tra il passato definitivamente morto, anche se evocato in chiave di nostalgia, e il futuro sempre più gravido di alienazione. In questo vuoto, il dolore di Lampedusa si allarga nello scetticismo globale in cui si fa strada la constatazione della decadenza dell’ideale, reazionario o progressivo che sia, e la paura del trionfo del fanatismo irrazionale sull’umorismo tollerante. Il senso della morte proprio di tutte le manifestazioni siciliane, si universalizza ad intima essenza della vita quotidiana. Ed è proprio nella morte che l’individuo trova la sua liberazione, nella propria morte che, in ultima analisi, è la morte di tutto il mondo. La sicilianità del Gattopardo, intesa in questa dimensione cosmica, diviene il simbolo della creatura umana, irrimediabilmente sola al cospetto di se stessa. In questo senso essa è universale e attuale. Don Fabrizio ha molte cose su cui riflettere durante la caccia, non ultima una lettera di Tancredi nella quale il nipote dichiara il suo amore per Angelica e prega l’amato zio di chiedere la mano della giovane Sedàra. Ritorna con il ricordo alla scena avvenuta in camera da letto quando ha comunicato la novità alla Principessa che è esplosa, esprimendo in modo irato e offeso la sua opinione sul nipote, un vero e proprio traditore, che ha illuso la figlia Concetta e si è permesso di dare allo zio l’incarico di chiedere la mano di quella sgualdrina. Il Principe, pazientemente ha spiegato alla moglie la situazione, chiarendole che Tancredi non è un traditore, semmai è al passo con i tempi, e poi non ha fatto alcuna promessa alla figlia. Poi, vedendo che le grida della moglie non si spegnevano, ha finto una falsa furia che, intimidendo la Principessa, l’ha indotta finalmente a calmarsi fino poi a sciogliersi in singhiozzi. Dopo aver ucciso un coniglio selvatico, il Principe e l’organista si fermano a riposarsi all’ombra dei sugheri e bevono il vino tiepido dalle borracce di legno, accompagnando così il pasto a base di pollo arrosto e uva. Mentre stanno per addormentarsi, l’arrivo in massa delle formiche impedisce il riposo e spinge Don Fabrizio a chiedere a don Ciccio come ha votato il giorno del Plebiscito. L’organista risponde con rabbia dissimulata che è inutile chiederlo, visto che a Donnafugata tutti hanno votato per il Sì. Poi la sua indignazione esplode e confessa che lui non ha votato Sì e che quelli del Municipio hanno modificato il suo voto, come probabilmente hanno fatto con molti altri. Il Principe ha così la conferma dei molti dubbi che ha avuto, parlando con diverse persone. In questo modo si rende conto che, come è avvenuto a Donnafugata, in cento

altri luoghi, nel corso di quella nottata ”di vento lercio”, sono stati cambiati i voti della gente. In quella notte, come scrive Melo Freni5, era stata uccisa la buonafede delle persone, era stato commesso un grave delitto strozzando quelle coscienze. Da quel delitto era nata l’Italia, in quella sera ventosa a Donnafugata quando “qualche razzo tricolore si inerpicò dal paese al buio verso il cielo senza stelle, e alle otto tutto era finito, e non rimase che l’oscurità, come ogni altra sera da sempre”.6 Da don Ciccio il principe viene a sapere nuove informazioni su Angelica: in lei, dice l’organista c’è tutta la bellezza della madre, ma anche una buona dose di intelligenza, dato che le sono bastati pochi anni trascorsi in un collegio a Firenze per trasformarsi completamente nei modi, perdere il forte accento plebeo e diventare una vera signora. Quando don Ciccio viene a sapere della richiesta di Tancredi, non usa più alcuna precauzione e sbotta in espressioni fortemente contrarie al matrimonio che di sicuro avrebbe significato la fine dei Falconeri e dei Salina. Il Principe si trattiene a stento dal manifestare la sua ira nei confronti dell’amico di caccia che ha osato esprimersi così nei suoi riguardi, e lo invita, dopo aver riacquistato la calma, a rientrare in villa, dove, per precauzione, lo chiude nella stanza dei fucili. L’incontro tra don Calogero e il Principe viene descritto con cura particolare: Don Fabrizio si prepara con meticolosità e si presenta in modo impeccabile, elegante e profumato, con la sua aria da Gattopardo imponente; di contro il sindaco si presenta tutto vestito di nero, con la barba rasata male e piuttosto trasandato nell’aspetto. Gli occhi dell’ometto però sprizzano intelligenza ed è lui che inizia la grande battaglia verbale, chiedendo se sono arrivate buone notizie da Tancredi. Don Fabrizio risponde, correggendo in itinere la spontanea irritazione nei confronti di Sedàra e rivela così il grande amore di Tancredi per Angelica. Non ci sono però reazioni di sorpresa né da parte del sindaco né da parte di padre Pirrone che presenzia al colloquio. Don Calogero rivela di essere stato sicuro di quell’esito perché Tancredi ha già compromesso sua figlia baciandola nel giardino, vicino alla fontana, il giorno prima della partenza. A queste parole si manifesta nel Principe, in questa come in altre occasioni in cui si parla di Angelica, un sentimento di gelosia carnale che emerge dalle zone oscure del suo inconscio, nonostante il grande affetto che nutre per Tancredi: è qualcosa di istintivo, che non riesce a frenare, è insieme gelosia e rimpianto perché sa che non potrà mai assaporare il gusto di fragola

delle labbra di Angelica, né accarezzare il suo corpo giovane e formoso. Don Fabrizio riprende il discorso, comunicando al sindaco di essere stato incaricato di chiedere, a nome di Tancredi, la mano di Angelica, soffermandosi a tessere le lodi della famiglia Falconeri e del giovane nipote che, tuttavia, pur appartenendo ad una nobile casata, non ha denaro né proprietà. Don Calogero, che apprezza di Tancredi soprattutto l’astuzia e l’opportunismo, si sofferma invece sull’importanza dell’amore che unisce due esseri umani e poi espone la notevole consistenza della dote della figlia, finendo il suo discorso con un cenno ad una presunta nobiltà dei Sedàra che provoca nel Principe un riso immediatamente represso. Particolarmente affettuoso è, alla fine del colloquio, il comportamento del Principe: addirittura solleva don Calogero dalla poltrona e se lo stringe al petto, facendo pencolare nel vuoto le corte gambe del sindaco. L’ingresso di Angelica in casa Salina avviene come una specie di “ciclone amoroso” che porta con sé una ventata di travolgente sensualità che non risparmia nessuno: anche le figlie del Principe, pur non essendo fidanzate, si ritrovano immerse nella corrente di stimoli che emana dagli altri e costruiscono sogni per il loro futuro; la stessa governante francese, mademoiselle Dombreuil, pur essendo sola ed infelice, viene attratta da quel vortice di sensualità e vive di riflesso i sentimenti e le gioie degli altri. La prima visita della ragazza a casa Salina si svolge come se fosse regolata da una regia perfetta, come se Tancredi le avesse suggerito ogni parola e ogni gesto. Si presenta alle sei di sera vestita di bianco e rosa e, appena arrivata, si getta tra le braccia dello ”Zione”, stampandogli due bacioni sulle basette e conquistando definitivamente il suo cuore; poi viene accolta dal resto della famiglia in modo affettuoso e perfino Concetta le esprime una gioia così intensa da farle salire le lacrime agli occhi, non sappiamo se per commozione o se per malcelata gelosia. Solo il cane Bendicò, contrariamente alla sua consueta socievolezza, ringhia anziché scodinzolare, ma viene messo subito a posto dal giovane Francesco Paolo. Angelica è felice, espansiva e affettuosa con tutti, ma non è proprio detto che ami veramente Tancredi: è troppo bella, orgogliosa e ambiziosa per annullare la sua personalità perdendosi nell’amore di un uomo. Probabilmente scorge in Tancredi, oltre che un affascinante “compagno di abbracciamenti”, anche la possibilità di entrare a pieno titolo nella nobiltà siciliana, mondo che essa considera pieno di meraviglie. Certo ne sente la mancanza, ricorda alcuni

momenti di intimità con grande turbamento, lo desidera, desidera di essere piegata dalle sue mani e forse ne è innamorata. Per quanto riguarda i rapporti tra il Principe e don Calogero, con stupore assistiamo al nascere di una sua curiosa ammirazione per i meriti del sindaco Sedàra. Abituatosi alle guance mal rasate, all’accento plebeo, al tanfo di sudore, si avvede della particolare intelligenza dell’uomo, che riesce a risolvere con grande facilità problemi che per il Principe sembrano insolubili: l’uomo è sicuro di sé, si è liberato delle pastoie dettate dall’onestà e dalla decenza e quindi procede “nella foresta della vita con la sicurezza dell’elefante, che, svellendo alberi e calpestando tane, avanza in linea retta non avvertendo neppure i graffi delle spine e i guaiti dei sopraffatti”.7 D’altronde la frequentazione con il Principe ha degli effetti anche su don Calogero: finora egli è stato convinto che gli aristocratici sono solo dei deboli, degli uomini-pecore che esistono per permettere a lui o a tipi come lui, di tosarli adeguatamente; imparando però a conoscere meglio Don Fabrizio, si rende conto che in lui, oltre alla mollezza e all’incapacità di difendersi, tipiche di tutti i nobili, c’è una forza di attrazione molto potente, uguale nell’intensità ma diversa da quella del giovane Falconeri, che lui comunque ammira per l’aridità simile alla sua, la capacità di adattamento e l’opportunismo. Nel Principe riconosce non solo la forza di attrazione, ma anche la propensione all’astrazione, il fascino delle buone maniere, la piacevolezza della conversazione. Sarebbe esagerato, scrive Tomasi di Lampedusa, parlare di un vero e proprio cambiamento di Don Calogero, ma di alcune piccole modifiche al suo stile di vita sì, modifiche che porteranno i suoi discendenti, nel corso di tre generazioni, a trasformarsi da cafoni in gentiluomini. Nel romanzo viene affrontato, anche se brevemente, il tema della diffusione della cultura in Sicilia: l’autore, attraverso la voce di Don Fabrizio, si mostra molto critico perché sostiene che mentre in quegli anni si andavano formando in Europa, attraverso la lettura di grandi romanzi, quei miti letterari che domineranno nel mondo moderno, in Sicilia invece “il livello delle letture era molto basso”, sia per la censura borbonica che per la scarsa conoscenza delle lingue straniere e inoltre per la tradizionale impermeabilità dei siciliani al nuovo. Per questo motivo non si conoscevano ancora in Sicilia i romanzi di Dickens, Flaubert e perfino di Dumas. Certo meraviglia un po’ questo atteggiamento dell’autore nei confronti della

cultura palermitana in particolare e siciliana in generale, se pensiamo a grandi figure di siciliani, come Bellini, Verga, Rapisardi e Capuana che sicuramente hanno assunto un ruolo di primo piano nel panorama culturale europeo dell’Ottocento. Inoltre i grandi viaggiatori che dall’Europa scendevano in Sicilia, hanno sempre ammirato la cultura e l’arte che l’isola esprimeva, anche se spesso non risparmiavano critiche di fronte ai tanti problemi insoluti che l’isola presentava.8 All’improvviso, in una piovosissima sera di novembre, arriva a Donnafugata Tancredi, annunciato dalla voce concitata del cameriere: preceduti da Don Fabrizio, tutti si precipitano verso la scala e vedono farsi loro incontro una figura avvolta dall’enorme mantella appesantita dalla pioggia della cavalleria piemontese. Tancredi non è solo, è arrivato accompagnato dal conte Cavriaghi e dal suo attendente; l’accoglienza è calorosa da parte di tutti e in particolare da parte del cane Bendicò che dimostra la sua estasi canina saltando attorno alla sala e apparentemente non curandosi del giovane. Il conte Cavriaghi non vede l’ora di conoscere Angelica di cui ha tanto sentito parlare, ma è costretto dall’autorità del principe a rimandare la conoscenza della bella promessa sposa. Si ritrovano poi tutti davanti al camino a bere tè e cognac: le ragazze Salina ammirano i due ufficiali in divisa, Tancredi con quella dei lancieri e Cavriaghi con quella dei bersaglieri. Ormai è lontano il tempo delle camicie rosse, ora sono ufficiali dell’esercito regolare di sua Maestà il Re di Sardegna, tra poco Re d’Italia, solo che hanno perso un grado, vista la poca stima che i piemontesi hanno della loro esperienza militare vissuta da garibaldini. Mentre il conte si apparta con Concetta leggendole i versi dell’Aleardi, entra nella stanza Angelica, avvolta da un rustico mantello indossato in fretta per proteggersi dalla pioggia: è bellissima, gli occhi verdi scintillanti che promettono voluttà. Tancredi corre ad abbracciarla e la bacia sulla bocca, poi le offre lo zaffiro che le ha comprato con i soldi dello zione. I due giovani sono emozionati e presi da un trasporto erotico tale da farli tremare, si sentono soli e lontani da tutto, coinvolti e sconvolti dalla passione amorosa. Con l’arrivo degli ospiti, viene rimandata di due settimane la partenza da Donnafugata; il tempo, dopo l’uragano, è incantevole, confermando che l’estate di San Martino in Sicilia è un periodo particolarmente piacevole. L’arrivo dei due giovani innamorati, Tancredi e Cavriaghi (rispettivamente di

Angelica e di Concetta) ridestano istinti sopiti, desideri sensuali, che pervadono tutti e in particolar modo le ragazze: a parte Concetta che si mostra sorda ai timidi tentativi del giovane ufficiale, Carolina e Caterina si sentono eccitate dal clima di grande passionalità che si respira nell’aria. Ovviamente il motore di questa esaltazione dei sensi è la coppia TancrediAngelica che, favorita dalla differenza dei ceti anziché esserne ostacolata, vive giorni intensissimi. Negli anfratti, nelle stanze abbandonate, nei solai e nei corridoi del palazzo di Donnafugata, i fidanzati sfuggono alla governante incaricata di tenerli d’occhio, mademoiselle Dombreuil. La scorribanda dei due giovani in quell’atmosfera che il fuoco dell’estate di San Martino e del loro sangue innamorato carica di lussuria, acquisisce d’improvviso un ritmo intrepido, vertiginoso, quasi di dissoluzione materiale, in cui la realtà è sottoposta ad un mutamento qualitativo, a un’alterazione di sostanza. Da oggettiva, concreta, possibile, razionale, la realtà diviene per qualche pagina mondo magico, prodigio animato, sogno erotico, allucinazione surreale.9 Nei loro vagabondaggi, i due giovani partono alla scoperta di parti inesplorate del palazzo, come verso una terra incognita, inizialmente sorvegliati dalla governante o dall’amico, ma basta una scaletta, un ballatoio su cui svoltare, per evitare il controllo e ritrovarsi così soli come su un’isola deserta. Ogni tanto si sente da lontano qualche richiamo in francese, poi su tutto torna il silenzio, interrotto solo dal movimento rapido dei topi o dal fruscio di qualche foglio millenario che si muove al vento. Nel loro gioco a rimpiattino è sempre presente l’Eros così che, nel momento in cui si raggiungono, sono sconvolti e ansanti perché i loro sensi prendono il sopravvento e li turbano nella profondità del loro essere. Come navigatori alla scoperta del Nuovo Mondo, man mano che incontrano nuovi ambienti, danno loro un nome legato ad un fatto, ad un’emozione, ad una sensazione e spesso, a furia di girare, perdono l’orientamento e sono costretti a sporgersi da una finestra per capire in quale parte del palazzo si trovino. Tra i tanti luoghi dell’immenso palazzo, scoprono l’appartamento dei sadici dove, in un armadio, trovano attrezzi particolari, piccole fruste, scudisci in nervo di bue, rotoli di stoffa sudicia, con macchie scure. Tancredi comprende di aver, come scrive Tomasi di Lampedusa, “raggiunto il nucleo segreto, centro di irradiazione delle irrequietudini carnali del palazzo” ed ha paura del suo desiderio; per questo motivo invita Angelica ad allontanarsi da

quel luogo. Altra scoperta degna di rilievo è quella dell’appartamento del Duca-Santo, dove nel Seicento un Salina si era rinchiuso come in un convento e, facendo penitenza, aveva preparato la sua vita futura in paradiso. Su una parete giganteggia un enorme crocifisso a fianco del quale è appesa una frusta con la quale il Duca si fustigava per espiare i suoi peccati. Angelica e Tancredi passano così giornate trasognate, persi nei loro vagabondaggi e spesso sono sul punto di cedere all’irruenza della passione, ma si fermano nel momento cruciale e riescono a controllarsi, anche se con sforzi immani. Probabilmente questi sono i giorni più belli della loro storia d’amore e in fondo anche di tutta la loro vita, ma non ne sono consapevoli e ovviamente pensano con ansia e grandi aspettative all’avvenire. Soffermiamoci ad approfondire il personaggio di Angelica Sedàra: è una giovane, come sappiamo, dalla bellezza particolarmente suggestiva, un po’ animalesca, quasi felina. Sembra essere il frutto non dell’unione tra Calogero Sedàra e la bellissima moglie incolta, ma della stessa terra siciliana, colma, come si sa, di frutti dolcissimi e allettanti. Tutto in lei, dai capelli nerissimi, agli occhi verdi e profondi, al sorriso infantile, all’incarnato perfetto, fa pensare ad un animale pieno di vitalità e salute, che si muove nel mondo con movenze morbide e sinuose, pienamente consapevole della sua fisicità e della sua bellezza che la eleva al di sopra di tutte la altre donne. Psicologicamente Angelica si presenta come una persona piena di sé, intelligente e scaltra, ma al contempo aperta e solare, dotata di una sicurezza che non è normale per una ragazza della sua età. Potremmo definirla un’arrivista che, utilizzando le sue doti sia fisiche che intellettuali, desidera fortemente effettuare la scalata sociale per entrare a pieno titolo nel mondo dell’aristocrazia siciliana, dal quale è profondamente affascinata. Forse sarebbe esagerato definirla una persona egocentrica e priva di veri sentimenti, ma sicuramente è una donna che tenta di piegare il destino al suo volere e che pian piano costruisce la sua futura identità. È innamorata dell’amore che assume, nella fattispecie, le fattezze di Tancredi che ha il merito di riunire in sé l’aspetto fisico attraente e l’appartenenza alla nobiltà siciliana. Ci chiediamo se il suo sia vero amore e, nonostante un’analisi più approfondita, non siamo in grado di dare una risposta certa, poiché, prima dell’amore per un’altra persona, viene soprattutto l’amore per se stessa, l’autocompiacimento al limite del narcisismo. Concetta invece non riesce a dimenticare Tancredi e rimane sorda al corteggiamento del piemontese Cavriaghi che tende ad ignorare con il suo

atteggiamento gelido e venato di disprezzo. Eppure il giovane ufficiale è un bel ragazzo, rappresenta un “ottimo partito”, è buono e disponibile, ma la giovane donna non lo prende in considerazione, perché nella sua anima c’è solo posto per Tancredi che, prima di conoscere Angelica, l’aveva amata, o almeno lei così credeva, spezzandole poi il cuore con la sua scelta fatta sia per amore che per opportunismo. Concetta rappresenta la tipica ragazza siciliana di famiglia aristocratica in età da marito: è ben educata, sottomessa, obbediente, ma in lei ribolle comunque il sangue dei Salina che spesso le provoca degli accessi d’ira che riesce con difficoltà a nascondere. È presa da una gelosia terribile, profonda, nei confronti di Angelica, che lascia trasparire solo parzialmente, come la punta di un iceberg che sotto cela ben altra consistenza; sarà proprio questo sentimento, unito ad una forte acredine nei confronti del padre che in qualche modo la sacrifica, preferendole il cugino, a determinare la sua successiva chiusura nei confronti della vita. Una lettera del prefetto annunzia l’arrivo a Donnafugata del cavaliere Aimone Chevalley di Monterzuolo, segretario della prefettura che viene a parlare con il Principe di un argomento importante per il Governo. Questi si trova da un mese in Sicilia ed è terrorizzato dai racconti briganteschi con cui i Siciliani mettono alla prova i nervi dei nuovi arrivati: vede sicari da ogni parte e il carattere timido e guardingo non l’aiuta a riacquistare la serenità. Va a prelevarlo alla fermata della corriera il giovane Francesco Paolo e lo riconosce immediatamente per l’aria smarrita ed il sorriso diffidente. Viene invitato ad alloggiare a Palazzo Salina dove, all’ingresso, viene nuovamente turbato dai volti barbuti e, a suo parere, minacciosi, dei campieri. La sera, a cena, finalmente riesce a mangiare bene, dopo aver ingurgitato nei giorni precedenti cibi pesanti tutti a base di abbondante olio che hanno comportato un forte sconvolgimento delle sue viscere. Le maniere squisite del Principe e la presenza di belle ragazze lo fanno rilassare, ma soprattutto viene confortato dalla presenza di Cavriaghi che dimostra di essere un grande amico del giovane Falconeri. Desidera parlare subito con il Principe, ma viene distolto e costretto simpaticamente ad accettare l’ospitalità dei Salina, rimandando il colloquio al pomeriggio del giorno dopo. Tancredi, con il suo amico Cavriaghi, si diverte un mondo la mattina successiva quando fa fare all’ospite un giro del palazzo e del paese, raccontandogli storie terribili che si sono effettivamente verificate e che sembrano invece inventate apposta per spaventarlo. Chevalley, per salvarsi dal

terrore, si rifugia nella convinzione di essere preso in giro, fino a quando Tancredi ne ha compassione e si esime dal raccontargli altre storie truculente. Don Fabrizio e Chevalley si incontrano nello studio, una piccola stanza sulle cui pareti sono appesi i ritratti degli antenati e dello stesso Principe giovanissimo insieme alla moglie, lui biondo e lei bruna con la testa abbandonata sulla sua spalla. Chevalley espone subito il motivo per cui si è recato presso la residenza del Principe: ha avuto l’incarico di contattarlo da parte delle autorità di Girgenti per proporre il suo nome, illustre sia per il casato che per meriti personali, come senatore del Regno, dato che è intenzione del governo di Torino, dopo l’unificazione dell’Italia, di nominare senatori alcuni siciliani illustri. Il principe rimane a lungo in silenzio, nonostante le lusinghe di Chevalley, intento a rimuginare sull’offerta e sul significato del termine senatore che lui immancabilmente riconduce al Senato romano, ma su cui comunque ha idee molto confuse. Chevalley, interpellato dal Principe, sottolinea l’importanza del Senato che rappresenta la Camera Alta del Regno e che raccoglie i migliori uomini politici del paese; quando il principe avrà accettato l’incarico, rappresenterà la Sicilia e farà udire la voce della sua terra, rappresentandone i problemi e le piaghe da sanare. Don Fabrizio risponde che sicuramente avrebbe accettato se si fosse trattato di un semplice titolo onorifico, ma non desidera impegnarsi né partecipare alla vita del nuovo governo. Alle obiezioni di Chevalley, il Principe risponde con un discorso che rappresenta una delle pagine più belle e significative di tutto il romanzo e che tratteggia un aspetto particolarmente decadente della sicilianità: i Siciliani sono vecchi, anzi vecchissimi, da venticinque secoli sopportano il peso di civiltà magnifiche ma venute da fuori; nessuna è nata nell’isola e si è poi sviluppata autonomamente. Di fatto la Sicilia è da secoli una colonia e spesso per colpa dei Siciliani, perché sono vecchi, stanchi e non amano la dinamicità, l’azione, l’impegno costruttivo. Ciò che i Siciliani vogliono è il sonno, l’oblio: tutte le manifestazioni dei Siciliani rappresentano, anche le più violente, il desiderio di oblio e di morte, anche i dolci più voluttuosi, il cibo squisito rappresentano l’immobilità e la morte. Per questo motivo le persone che si distinguono dal clima generale di pigrizia affermano facilmente il loro strapotere, anche se non hanno meriti particolari e anzi sono solo portatori di soprusi e di violenza. Il passato attrae perché è morto e non è più in grado di produrre correnti vitali che possano

mettere in discussione lo stato delle cose. Certo, sostiene il Principe, ci sono delle eccezioni, come Crispi che viene citato da Chevalley a modello di siciliano impegnato nella politica, ma prima o poi anche lui evidenzierà la sua “sicilianità”. Un altro elemento importantissimo che plasma il carattere dei Siciliani è l’ambiente, aspro, estremamente vario e caratterizzato da forti contrasti: da una parte la bellezza delle coste come la baia di Taormina, dall’altra la durezza delle terre interne, aride e selvagge. Il clima inoltre è terribile: per ben sei mesi arroventa le persone e i paesi con temperature spesso superiori a quaranta gradi, senza la consolazione dell’acqua che scarseggia, e impedisce ai Siciliani di lavorare intensamente; poi le piogge torrenziali che travolgono animali e uomini e che imperversano là dove poco tempo prima c’era solo aridità e sete. Tutto ciò, la crudeltà del clima e la violenza del paesaggio, modella il carattere della gente, mentre i monumenti del passato, grandiosi e immutabili, stanno a guardarli da sempre, come se fossero fantasmi. Per questo il carattere dei Siciliani è fortemente condizionato dal caso, dalla fatalità e dalla particolare condizione di insularità. L’insularità sottolineata da Lampedusa, più che un particolare geografico, rappresenta la rescissione da ogni legame: il mondo dello scrittore, infatti, appare impermeabile a qualsiasi forma di ottimismo e avvolto solo da un’aurea sensuale che preannuncia il disfacimento e la fine. Don Fabrizio, rappresentante della vecchia classe compromessa con il regima borbonico, non se la sente di affrontare i tempi nuovi da protagonista: è ormai un uomo privo di illusioni, che non crede nel progresso e nella possibilità di un reale cambiamento. Suggerisce invece, al suo posto, il nome di Calogero Sedàra che ha accumulato meriti con l’arrivo dei garibaldini in Sicilia, che non ha un casato antico ma presto se lo procurerà, che non possiede il prestigio, ma ha il potere: è lui l’uomo adatto per il governo della nuova Italia. Di fronte alle perplessità morali e politiche espresse da Chevalley, e al suo accorato invito a non lasciare la Sicilia nella condizioni di povertà materiale e di miseria morale in cui si trova, il Principe risponde che i Siciliani non vogliono migliorare perché pensano di essere già perfetti così come sono, pensano di essere degli dei, perché la loro vanità è più forte della loro miseria, perché si sentono fieri del loro passato ma sono ciechi di fronte alla possibilità di migliorare il futuro. Proudhon e Marx sostengono che la colpa del pessimo stato delle cose in Sicilia è del feudalismo che da tempo caratterizza i rapporti sociali ed economici dell’isola, ma, in realtà, sostiene il Principe, il feudalismo c’è stato

dappertutto, così come le invasioni straniere. Di fatto, in Sicilia, per ora e per molto tempo ancora non c’è niente che si possa fare per cambiare lo stato delle cose. L’indomani Chevalley parte e lascia Donnafugata nella luce livida dell’alba, convinto in cuor suo che l’amministrazione del nuovo Stato Italiano, moderna ed efficiente, avrebbe cambiato tutto in Sicilia. Il Principe, che si prepara ad una giornata di caccia con Don Ciccio Tumeo, è fortemente depresso dopo il colloquio con l’ospite: sa che invece tutto rimarrà com’è e, se cambierà, sarà in peggio: ”Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti, Gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra” .10 Tutta la parte quinta del romanzo è dedicata alle cosiddette “vacanze” di Padre Pirrone che si reca al suo paesino natale, S. Cono, in occasione del quindicesimo anniversario della morte del padre. È felice di rivedere la famiglia, in particolar modo la madre e i paesani, con i quali ha modo di parlare dei tempi nuovi e dell’atteggiamento dei ”signori” rispetto al cambiamento. In un colloquio con don Pietrino, l’erbuario, Padre Pirrone sostiene che i nobili non sono facili da capirsi, perché vivono in un mondo particolare creato da loro stessi durante i secoli, differente da quello della gente comune: essi trattano con noncuranza i beni terreni perché vi sono assuefatti e considerano importanti cose come un colletto stirato male o un posto sbagliato ad un pranzo importante in cui non è stata applicata correttamente l’etichetta. Ma non tutti i nobili sono cattivi; il principe di Salina, per esempio, è leale, vive secondo le regole, senza barare e quindi dovrebbe cavarsela anche davanti a Dio. A loro modo i nobili sono anche generosi e hanno un gran senso del pudore, cioè mantengono un certo ritegno anche nelle situazioni più drammatiche e disperate. Il Padre conclude poi i suoi pensieri, mentre don Pietrino intanto si è addormentato, sentenziando che, anche se in futuro la classe nobiliare scomparisse, sicuramente un’altra classe prenderebbe il suo posto, fondando il suo potere e la sua superiorità non certo sul sangue, ma probabilmente sul censo. Dopo la parentesi di Padre Pirrone, ci avviciniamo ad un momento molto importante del romanzo, il grande ballo a palazzo Ponteleone. Normalmente il Principe e la Principessa di Salina sono soliti arrivare ai balli mondani con un certo ritardo, essendo ospiti importanti; questa volta però devono essere

puntuali in quanto verrà presentata in società Angelica, la bellissima fidanzata del nipote. Forte è la curiosità della famiglia Salina sul frac che indosserà don Calogero, dopo l’episodio avvenuto a Donnafugata, anche se Tancredi si è occupato della cosa e ha rassicurato la famiglia sulla decenza del suo aspetto. Le ragazze di casa Salina vivono l’attesa del ballo con grande emozione e aspettativa, mentre per gli adulti il ballo rappresenta solo un obbligo sociale, un noioso dovere mondano. Quando arrivano a palazzo Ponteleone, i Salina vengono accolti da Don Diego e donna Margherita con grande cortesia e rassicurati sul fatto che i “loro ospiti”, cioè i Sedàra, non sono ancora arrivati. Tancredi, invece, è già arrivato e intrattiene alcuni giovanotti con la sua solita verve, anche se è sempre attento alla porta di ingresso, in attesa della sua Angelica. Le danze sono cominciate e si sente la musica arrivare attraversando i numerosi saloni. Tra gli ospiti illustri, viene presentato al Principe il colonnello Pallavicino, diventato famoso per i fatti di Aspromonte. Finalmente arrivano i Sedàra: entra Angelica, seguita dal padre, con le bianche spalle scoperte, elegantissima nell’abito rosa, con il collo ornato di perle e con al dito lo zaffiro regalatole da Tancredi. Ben istruita dal fidanzato, la fanciulla saluta la padrona di casa con un misto di modestia verginale e di alterigia aristocratica, affascinando tutti con la sua grazia giovanile. L’effetto che fa l’ingresso di Angelica è sconvolgente: molti giovanotti, attirati dalla sua bellezza, le si affollano intorno per chiederle un ballo, ma lei a tutti fa vedere il suo carnet dove figura solo il nome di Tancredi. Anche le giovani aristocratiche si avvicinano ad Angelica e chiacchierano con lei come se fosse una di loro, senza immaginare il livello sociale dei suoi genitori. Per tutta la durata della festa, Angelica non ha cedimenti, continua a comportarsi più che correttamente, lodando i mobili e gli arredi, ma al contempo facendo mostra di possedere approfondite conoscenze in campo artistico, confrontando le cose ammirate con altre più belle e famose, come le ha opportunamente suggerito Tancredi. Il Principe è di cattivo umore, non gli piace la festa, non gli piacciono le donne presenti al ballo, ad eccezione di pochissime, e tra queste emerge nel suo splendore giovanile Angelica. D’altronde i frequenti matrimoni tra cugini, un’alimentazione piena di amidacei e la mancanza totale di movimento, hanno prodotto tante ragazze basse, olivastre e bruttine. Le vede radunarsi in uno dei saloni e le paragona ad una colonia di scimmie: quasi quasi si aspetta di vederle arrampicarsi sui lampadari,

sospese per le code. In un salone vicino ci sono gli uomini, molti dei quali suoi amici; si ferma a parlare con loro, ma dopo un poco si annoia per l’abuso di luoghi comuni e per la piattezza della conversazione. Progressivamente il cattivo umore si trasforma in malinconia e la malinconia in vero e proprio umore nero: avrebbe fatto bene a restare a casa e a rifugiarsi nella sua biblioteca, ma la festa continua. Il grande salone dove si svolge il ballo è tutto un trionfo di oro, dai cornicioni alle porte, ai pannelli decorati di fiori rococò; Sedàra, seduto vicino al Principe, ammira l’ambiente circostante, insensibile alla bellezza, ma molto attento al valore pecuniario di tutto ciò che lo circonda. Interpellato da don Calogero sul valore degli oggetti e degli ambienti fastosi, Don Fabrizio frena il suo desiderio di rispondergli male e sottolinea invece la bellezza della giovane coppia formata da Angelica e Tancredi, persi nel loro innamoramento e nella convinzione che tutta la loro vita sarà bella come quella serata e scorrerà liscia come il pavimento del salone. Ad una certa ora, preso dalla stanchezza, il Principe si rifugia nella biblioteca dove si ferma ad osservare un quadro, una copia della “Morte del giusto” di Greuze11: il quadro rappresenta un vecchio che sta spirando nel suo letto, in mezzo a lenzuola candide, circondato dai nipoti afflitti. Non può fare a meno di pensare alla propria morte, anche se ritiene che non sarà così perfetta come quella illustrata nel ritratto, perché la malattia insudicia, l’agonia stropiccia e lorda le lenzuola e sconvolge i tratti delle persone. Ritorna in modo ossessivo nel romanzo il pensiero della morte che permea di sé quasi tutte le pagine, anche quelle in cui sembra prevalere l’amore per la vita. Stranamente, in quest’occasione, l’idea della propria morte non è per il Principe fonte di angoscia, ma di rasserenamento, forse perché è consapevole che con lui morirà tutto il suo mondo e il nuovo che si prospetta non gli suscita rimpianti. Il Principe e quindi l’autore, si sente solo, e la solitudine non gli deriva soltanto dalla considerazione, più o meno condivisa dagli altri, della instabilità delle cose, ma anche da un aristocratico distacco dai suoi simili e dalla certezza della sua superiore posizione intellettuale e sociale rispetto al resto dell’umanità. E, da questa sua torre d’avorio, egli può considerare il presente effimero, come istante minacciato costantemente dal futuro; tutto ciò lo porta ad avere una sensibilità disperata del passare del tempo e a concentrare la sua attenzione sulla morte, vista in una prospettiva di disfacimento e di distruzione.12

Dalle idee di morte si passa ad un’esplosione di vitalità: la richiesta di Angelica di fare un ballo con lo “zione”, lo riempie di commossa felicità e lo induce ad accettare, ma al posto della mazurka, sceglie un valzer. I due formano una coppia splendida, regale, tanto che le altre coppie ad un certo punto smettono di ballare e rimangono in circolo ad ammirarli. Ad ogni giro di valzer, Don Fabrizio ringiovanisce e viene rianimato dal profumo di donna che proviene da Angelica e che lo sconvolge, facendo rinascere il sangue e gli istinti sopiti. Alla fine del ballo non scroscia un applauso solo perché il principe intimidisce con il suo aspetto gattopardesco. Poi si succedono altri balli, viene aperto un ricchissimo buffet e continuano le conversazioni tra le quali emerge il generale Pallavicino che continua a vantarsi della sua impresa in Aspromonte; nonostante la prima negativa impressione, ad una conoscenza più approfondita, il generale si mostra una persona decisamente più interessante, un “signore” anche lui, che esprime molta amarezza per la situazione attuale dell’Italia dove predomina la divisione nonostante la recente unificazione e dove manca una forza che garantisca veramente l’unità del paese. A poco a poco, la festa sta giungendo al termine: sono ormai le sei di mattina e tutti sono stanchi e assonnati, con i volti lividi, gli abiti sgualciti, gli aliti pesanti. I saloni si svuotano lentamente e rimangono piatti e bicchieri mezzi vuoti, disordine e sporcizia laddove c’erano soltanto lusso e abbondanza. Don Fabrizio fa ritorno a villa Salina a piedi, mentre la sua famiglia rientra in carrozza: ancora una volta le stelle, ormai poche perché sta irrompendo la luce dell’alba, riescono a consolarlo. Lentamente ci avviciniamo alla morte di Don Fabrizio, da tempo preannunciata da una continua perdita di energia, come se il fluido vitale uscisse da lui simile ai granelli di una clessidra. Questa consapevolezza non è stata tuttavia portatrice di ansie e di angosce: abituato com’è agli spazi infiniti dell’universo o all’introspezione più profonda, il Principe pensa che questo sgretolarsi della sua persona, della sua essenza vitale, porti poi al formarsi altrove di una nuova identità, magari meno consapevole, ma più estesa. La cosa strana è che nessun altro intorno a lui sembra avvertire la stessa sensazione e questa constatazione lo porta ad acuire il disprezzo per i suoi simili. Nemmeno i figli e la moglie Stella hanno mai intuito questo suo stato d’animo, né lui ne ha mai parlato per pudore dei propri sentimenti; forse solo suo nipote Tancredi l’ha compreso quando gli ha detto, con la sua solita ironia, che lui

ama corteggiare la morte. Dopo una visita specialistica a Napoli, si ritrova seduto su una poltrona, sul balcone dell’albergo Trinacria, a Palermo: di fronte a lui il mare inerte, immobile, sotto il sole perpendicolare di fine luglio. Ormai, dopo il viaggio lungo e faticoso, soprattutto quello di ritorno che si è ostinato a fare via terra, è privo di energie, capisce di essere vicino alla morte. Guardandosi nello specchio dell’armadio, quasi non si è riconosciuto: si è visto altissimo, molto smagrito, con le guance infossate, la barba lunga di tre giorni. La stessa accoglienza dei parenti e del nipote Fabrizietto, accoglienza calorosa ma soprattutto rassicurante, gli ha fatto capire che non solo lui, ma anche gli altri sono consapevoli della sua fine imminente. Alla sua sinistra scorge il monte Pellegrino e, più lontano, immagina di vedere la casa di Palermo, che gli sembra ormai lontanissima, irraggiungibile: il pensiero va alle sue cose più care, al suo osservatorio, ai cannocchiali che piomberanno tra poco nell’abbandono e nell’oblio. La casa di Donnafugata gli sembra addirittura appartenere al suo mondo onirico, come se l’avesse solo sognata; non la sente più sua, di suo non ha che il suo povero corpo senza forze, da cui continua ad uscire a fiotti l’energia vitale. Nel momento estremo si sente terribilmente solo, anche se ci sono i figli e i nipoti, ma si rende conto che non gli somigliano, ad eccezione forse di Giovanni che vive lontano dalla famiglia; il giovane Fabrizio ha il sangue dei Màlvica e, per quanto gli sia affezionato, non è un Salina. È inutile continuare a sforzarsi, l’ultimo Salina è lui, il vecchio gattopardo che agonizza sul balcone di un albergo. Ad un certo punto capisce che hanno chiamato un prete, infatti viene trasportato in camera e qui, nonostante la tentazione di rifiutare l’estrema unzione, accetta di morire secondo i canoni, come deve fare un principe di Salina. Gli sono vicino i nipoti Tancredi e Fabrizietto che gli tengono ciascuno una mano; mentre Tancredi chiacchiera a ruota libera, in modo allegro, per alleviare la tragicità del momento, Don Fabrizio non l’ascolta perché è impegnato a fare un bilancio della sua vita: ricorda con affetto i numerosi cani che l’hanno accompagnato durante la sua esistenza, tra i quali Bendicò con la sua “deliziosa balordaggine”, il primo periodo del suo matrimonio con la povera Stella, le battute di caccia con don Ciccio Tumeo, la soddisfazione per aver ricevuto la medaglia alla Sorbona per i suoi studi astronomici, l’aspetto voluttuoso di alcune donne, tra cui l’ultima incontrata alla stazione di Catania.

Dei suoi settantatré anni, quelli veramente vissuti sono stati due o tre al massimo, il resto è stato solo noia e dolore. Viene trasportato sul letto, perché le sue condizioni sono peggiorate, si rende conto che sono tutti attorno a lui, in lacrime: Tancredi, Concetta, Angelica, Francesco Paolo, Carolina, Fabrizietto. Tra di loro si fa largo una giovane signora, con un vestito marrone da viaggio, la figuretta snella e con un cappellino di paglia ornato da una veletta: è lei la donna che ha tanto atteso nella sua vita, e che, vicinissima al suo viso, solleva il velo mostrando la sua infinita bellezza, è lei che è venuta a prenderlo e che è pronta ad essere posseduta. Poi non sente più niente, lo stesso fragore del mare si è ormai placato. Lampedusa, nel suo pessimismo nichilista, non suggerisce rimedi al difficile mestiere di vivere, non dà valide certezze, né è in grado di indicare un senso, una finalità nella vita individuale e collettiva. Egli modernamente rinunzia all’onniscienza ordinatrice e limita i suoi orizzonti entro i confini di ciò che egli stesso, o un personaggio per lui, è in grado di scorgere, intuire, pensare. Una sola regola di vita può scaturire da una tale posizione: ed è che ogni azione è guidata dal piacere che procura e dal godimento che, per quanto brevi ed effimeri, almeno offrono un attimo di felicità. Tutto il romanzo si nutre di questa filosofia; ogni cosa infatti vi parla di morte e alla morte conduce ogni immagine. In un mondo in cui tutti si affannano a correre dietro ad inutili bandiere, ad inseguire illusioni, ad affermare la propria personalità e le proprie qualità, nessuno sembra tener conto veramente che per tutti l’unico approdo è la morte.13 Siamo nel maggio 1910. La casa delle signorine Salina è frequentata da molti rappresentanti del mondo ecclesiastico, tra confessori, cappellani e vari monaci e preti che vengono a riscuotere elargizioni. Un pomeriggio di maggio in casa Salina si riuniscono vari religiosi, tra i quali spicca il Vicario Generale dell’Arcidiocesi, per discutere dell’autenticità delle numerose reliquie esposte e venerate nella cappella di casa Salina. Le sorelle sono intorno alla settantina e, dopo una lunga lotta per l’egemonia, il rango di padrona di casa appartiene ormai in modo chiaro e definitivo a Concetta, grassa e imponente nei suoi abiti neri, con la fronte ancora indenne da rughe e con lo sguardo altezzoso che le conferisce un aspetto regale. La conversazione avviene in salotto e serve a preparare la visita del Cardinale che avverrà l’indomani, nonostante le

resistenze di Carolina che si sente quasi messa sotto accusa e non accetta l’indirizzo del Santo Padre che ha ordinato la revisione di tutte le reliquie. La cappella, che non esisteva ai tempi del Principe di Salina, è stata ricavata da un salotto fuori mano che presentava delle colonne di finto marmo incastrate nelle pareti; qui le sorelle hanno adattato l’ambiente, trasformandolo un una cappella, facendo raschiare una pittura mitologica dal soffitto e facendo costruire un altare. Quando gli ospiti e le padrone di casa vi entrano, la luce del tramonto evidenzia la pittura posta sopra l’altare: si tratta del dipinto di una giovanetta esile e assai piacente, con gli occhi rivolti al cielo e i capelli sciolti sulle spalle seminude, nella mano destra una lettera spiegazzata. Caterina spiega che si tratta della “Madonna della lettera” che sta per consegnare al Figlio la Santa Missiva invocando la protezione divina sul popolo messinese. Poi vengono osservate le settantaquattro reliquie che si trovano appese sulle pareti di fianco all’altare, incorniciate in cornici diverse tra loro e tutte molto preziose. L’origine della maggior parte delle reliquie è dovuta all’interessamento di una mezza monaca, una certa donna Rosa, che se le procurava rovistando tra conventi e parrocchie, ma, alla sua morte, tutto il traffico era cessato. Il Monsignore osserva tutto con attenzione, ma si genuflette solo davanti ad un piccolo quadro raffigurante la Madonna di Pompei, e, sulla via del ritorno, se la prende con il cappellano che ha accettato per anni di celebrare la messa davanti al quadro di una bella ragazza innamorata. A sua discolpa c’è la grande difficoltà di affrontare direttamente le tre sorelle Salina. Dopo la visita, le sorelle si ritirano nelle loro stanze; Concetta, a cui non importa nulla delle reliquie, è solo dispiaciuta per la figura che i Salina faranno davanti alla città, perché il rapporto privilegiato con la Chiesa è l’unica cosa importante che è rimasta ai Salina, dato che il loro patrimonio si è notevolmente ridimensionato. Una cameriera le annuncia la visita di Angelica: anche lei vicina ai settant’anni, affetta da vene varicose, mostra ancora sul volto le tracce dell’antica bellezza, in particolare i suoi occhi verdi hanno conservato quasi intatto il loro splendore, e su di lei non compaiono ancora i segni di una malattia che tre anni dopo l’avrebbe ridotta una larva. È venuta per invitare Concetta alla sfilata che si terrà in omaggio alla memoria di Tancredi e alla quale parteciperà Fabrizietto, essendo stata chiamata a far parte del comitato organizzativo. Angelica, dopo quarant’anni di convivenza difficile e interrotta con Tancredi, ha imparato ad esprimersi molto bene, è diventata un’assidua

lettrice ed è conosciuta come una donna di grande cultura. Angelica è anche venuta per preannunciarle la visita del generale Tassoni, un ex compagno d’armi di Tancredi, protagonista, insieme a lui, della storia che aveva raccontato lo stesso Tancredi la sera che conobbe Angelica. Concetta ricorda benissimo l’episodio che l’ha profondamente sconvolta, segnando l’inizio della sua chiusura rispetto alla vita e all’amore. Giunge il senatore Tassoni, un vecchietto elegante, molto ricco e ancora energico; si rivolge particolarmente a Concetta, ricordando che durante le gelide notti di bivacco Tancredi gli ha parlato a lungo di lei, definendola come “l’immagine dell’adolescenza soave” e ottenendo così l’effetto di commuovere la donna. Concetta non vede più in lui il violatore di conventi, ma l’amico sincero di Tancredi che parla di lui con affetto e che le reca il messaggio di un uomo ormai morto. Un’altra cosa dice Tassoni che sconvolge Concetta: l’episodio del convento raccontato da Tancredi non è realmente accaduto, ma è stato inventato, suscitando all’epoca la reazione incollerita di Concetta che al cugino era sembrata deliziosa tanto da desiderare di abbracciarla in mezzo a tutti. Quando i visitatori si congedano, Concetta, rimasta sola, incomincia a riflettere su quanto ha appreso: soffre e gli spettri del passato tornano a tormentarla, pur essendo stati esorcizzati da anni. Certo la donna non ama ancora Tancredi, ma il suo cuore porta le tracce di quell’antico amore, di quella delusione che le ha rovinato la vita. Capisce a questo punto, dopo le parole di Tassoni, che nella sua vita non ha avuto altri nemici all’infuori di se stessa: ha sacrificato l’avvenire per la sua testardaggine e per il carattere rabbioso ereditato dai Salina. Ora però non ha più la consolazione di attribuire ad altri, a suo padre ad esempio, o a Tancredi, la propria infelicità, il fallimento della sua esistenza. Non è stata in grado di cogliere le occasioni che comunque la vita le ha offerto, chiusa dentro la sua roccaforte fatta di rancore e di odio e nel frattempo la vita le è passata davanti, mentre lei restava ad osservare il suo corredo prezioso ingiallire nelle casse ordinatamente sistemate nella stanza da letto e conservava il cane Bendicò, morto da quarantacinque anni e imbalsamato, ormai ridotto ad un mucchietto di pelliccia con gli occhi di vetro. Le sue aspirazioni, le sue pulsioni più profonde, sono state sublimate nel suo ruolo di padrona di casa, severa e ineccepibile nel comportamento, costretta a convivere con le sorelle che avevano comunque anche loro sublimato, investendola nella religione e nel culto delle reliquie, la loro carica vitale.

Il Cardinale di Palermo, che viene a visitare la cappella con le reliquie, è un uomo buono ma disilluso che ormai da tempo ha assunto nei confronti dei propri diocesani un atteggiamento di sprezzante misericordia che lo porta ad adottare modi piuttosto bruschi. Mentre le sorelle Salina se lo aspettano in pompa magna e sono contente all’idea che un Principe della Chiesa onori casa Salina con la sua presenza, il Cardinale si presenta invece con una severa tonaca nera dove solo i bottoni color porpora ricordano il suo rango elevatissimo. Dopo essere entrato, non si sofferma ad ammirare lo sfarzoso arredamento di casa Salina né accetta di assaggiare qualcosa del sontuoso rinfresco che è stato preparato. Si dirige nella cappella e anche lui si inginocchia davanti alla Madonna di Pompei, poi dà un’occhiata di sfuggita alle reliquie. Rivolto a Concetta dice che la cappella deve essere riconsacrata e che il ritratto della giovane deve essere tolto dall’altare e sostituito con quello della Madonna di Pompei. Per quanto riguarda le reliquie, saranno accuratamente esaminate da don Pacchiotti, il suo segretario, che è molto competente in materia. Alla fine di un lungo esame, il segretario del cardinale dichiara di aver trovato solo cinque reliquie perfettamente autentiche e degne di essere oggetto di devozione. La altre le ha messe in un cestino, salvando ovviamente le preziose cornici. Prima di andare via, chiede di potersi ripulire dalla polvere e di lavarsi le mani. Concetta si ritira nella sua stanza indifferente a tutta la faccenda delle reliquie; le sembra di vivere in un mondo stranamente noto ma estraneo, in cui predomina il suo vuoto interiore. Ha subito l’ennesima delusione, ma è infelice per motivi diversi da quelli che agitano l’animo delle sorelle: si sente sola, sopravvissuta al padre e a Tancredi che ha sempre considerato i responsabili della sua infelicità. Nonostante siano passati molti anni, i ricordi fanno ancora male, ma ormai la rabbia e il dolore di una volta si sono attenuati fino a lasciare solo il vuoto, l’assenza di sentimenti. Il biglietto di Angelica che vuole essere consolatorio, non la tocca minimamente. Il passato ritorna ad assillarla e perfino il cane Bendicò le procura angoscia, insinuando nel suo cuore amari ricordi, tanto che dà ordine di buttarlo via. Nel volo dalla finestra, il cane sembra ricomporsi tanto che “si sarebbe potuto vedere danzare nell’aria un quadrupede dai lunghi baffi e l’anteriore destro alzato sembrava imprecare. Poi tutto trovò pace in un mucchietto di polvere livida”.14

1 G. Tomasi di Lampedusa, Op. cit., p. 55. 2 G. Tomasi di Lampedusa, Op. cit., p. 58. 3 M. Freni, Op. cit., p. 57. 4 M. Ganci, La Sicilia del Gattopardo, cit. in A. Vitiello, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Sellerio

Editore, Palermo 1987, pp. 360-361. 5 M. Freni, Op. cit., pp. 49-50. 6 G. Tomasi di Lampedusa, Op. cit., p. 121. 7 G. Tomasi di Lampedusa, Op. cit., p. 143. 8 M. Freni, Op. cit., pp. 68-69. 9 M. Vargas Llosa, Op. cit., p. 182. 10 G. Tomasi di Lampedusa, Op. cit., p. 185. 11 Jean-Baptiste Greuze, pittore e disegnatore francese (1725-1805). 12 M. Pagliara-Giacovazzo, Il “Gattopardo” o la metafora decadente dell’esistenza, Edizioni Milella, Lecce 1983, p. 52. 13 M. Pagliara-Giacovazzo, Op. cit., p. 166. 14 G. Tomasi di Lampedusa, Op. cit., p. 268.

LE LETTURE CRITICHE

Una delle prime edizioni del romanzo

Il Gattopardo è una di quelle opere letterarie che compaiono di tanto in tanto e che contemporaneamente ci abbagliano e ci confondono, perché ci mettono davanti al mistero del genio artistico. Una volta esaurite tutte le spiegazioni alla nostra portata e una volta soddisfatta la nostra legittima curiosità sulle circostanze in cui si è svolta la sua gestazione, continuiamo a chiederci come sia stato possibile il verificarsi di questa occasionale esplosione che sconvolge la produzione letteraria di un’epoca, fissando nuove vette estetiche e buttando all’aria la vecchia scala di valori. Il Gattopardo è infatti una di quelle eccezioni che sporadicamente impoveriscono il loro contorno letterario, rivelandoci, per contrasto, la mediocrità che lo caratterizza. Apparve nel 1958 e, dopo di allora, non si è pubblicato in Italia, sostiene Vargas Llosa, e forse in Europa, un romanzo che possa rivaleggiare in delicatezza di tessitura, forza descrittiva e potere creativo. Sconcertanti quasi quanto la sua bellezza, sono gli anacronismi estetici e ideologici con cui il Principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa ha elaborato il suo romanzo. Siamo portati a capire i motivi che spinsero il mandarino letterario del momento in Italia, Elio Vittorini, a chiudergli le porte della casa editrice Einaudi. Erano infatti gli anni della letteratura impegnata e gli intellettuali, educati da Sartre e

Gramsci, credevano che il genio fosse una pura scelta ideologica, una presa di posizione politicamente e ideologicamente “corretta” a favore della giustizia e del progresso. Il capolavoro di Tomasi di Lampedusa sopraggiunse a ricordare che il genio è qualcosa di più complicato e arbitrario e che, nel suo caso, assumere in modo deciso una visione retrograda e, tutto sommato, anche cinica della storia, non era un ostacolo per scrivere una grande opera letteraria. Per capire bene un romanzo come Il Gattopardo, bisogna ammettere che, rispetto alla realtà in cui siamo immersi, lo scrittore è riuscito a creare una realtà parallela, a forza di fantasia e di parole, un mondo, che seppure edificato con materiali che provengono tutti dal mondo storico, lo respinge radicalmente, mettendogli di fronte un miraggio, un mondo illusorio, in cui il romanziere ha riversato la sua nostalgia, il suo desiderio di una vita diversa, libera dalle forche caudine della morte e del tempo. 1 Come spesso avviene per i libri di grande successo, un alone di favola fu attribuito alla nascita del romanzo: da parte di molti si è detto che Il Gattopardo venne scritto quasi di getto. Le esagerazioni sono però distanti dalla realtà; l’idea originaria datava da anni e non si trattava di un romanzo ma di un racconto lungo, avente come spunto una giornata del bisnonno al momento dello sbarco di Garibaldi. Doveva infatti intitolarsi La giornata di un siciliano. Il primo disegno narrativo si affidava ad uno schema di tipo joyciano; quando però venne il tempo di realizzarlo, l’aspirante narratore si accorse di non essere in grado di riproporre l’Ulysses2, anche perché aveva sottovalutato il rapporto tra tempo narrato e tempo narrativo. Lo schema delle ventiquattr’ore rimase attuato solamente nel primo capitolo, il più elaborato, il più armonioso, il più completo. Per il materiale successivo l’autore ripiegò su una seconda struttura, uno schema di cinquant’anni con tre tappe intervallate da un venticinquennio: 1860, sbarco di Garibaldi, 1883, morte del Principe, 1910, fine di tutto.3 Secondo Paolo Massimi4, tra i nodi cruciali del dibattito critico che si è aperto intorno al Gattopardo fin dal suo primo apparire, vi è quello del genere letterario di appartenenza. Nel calore delle prime polemiche, tra il ’58 e il ’60, furono formulati sul romanzo giudizi diametralmente opposti. Da una parte vi è quello pienamente positivo di Giorgio Bassani5, consapevole della propria responsabilità di scopritore dell’opera, alla quale attribuisce “ampiezza di visione storica unita ad un’acutissima percezione della realtà sociale e politica

dell’Italia di adesso” e cioè dell’Italia della fine degli anni ’50; dall’altra vi è la valutazione fortemente riduttiva di Mario Alicata6, autorevole intellettuale comunista, che dichiarava Il Gattopardo fallito come romanzo storico a causa della posizione reazionaria dell’autore e per le sue insufficienze ideologiche. Fortemente negativo era anche il giudizio di Elio Vittorini7, che riconosceva al Gattopardo una certa piacevolezza dello stile letterario, ma ne sviliva completamente la dimensione storica, riducendo il romanzo ad una specie di esercizio stilistico. Anche Geno Pampaloni8 coglie il valore lirico, più che narrativo, del Gattopardo proprio nello sconsolato pessimismo esistenziale dell’autore, che rifiuta ogni forma di consolazione, non solo religiosa nel senso tradizionale, ma anche laica, intesa come fiducia nella storia e nel progresso. Egli pertanto considera una vera e propria finzione lo schema storico del romanzo utilizzato da Lampedusa come strumento per conferire maggiore autorevolezza alle sue pessimistiche certezze. Scrivono Alberto Anile e Maria Gabriella Giannice9 che lo stesso Sciascia, nella prolusione che tenne alla conferenza sul Gattopardo al Circolo culturale di Palermo, mise a fuoco senza ipocrisie il malumore che il romanzo di Lampedusa stava suscitando fra gli intellettuali di sinistra, e che stava aumentando in sintonia con il moltiplicarsi delle vendite. Da appassionato marxista, Sciascia non era disponibile a farsi fare la morale da una aristocratico nostalgico, e non esitò a consegnare le ambiguità del romanzo al giudizio politico. Sciascia non afferma mai che il libro sia scritto male, anzi il romanzo di Lampedusa gli ha regalato fascino e divertimento e lo stesso personaggio di Don Fabrizio presenta le caratteristiche di un uomo classico, di un intellettuale, ma sono questi pregi di poco rilievo rispetto ad un ritratto dell’isola di carattere geografico-climatico, al raffinato qualunquismo che spesso viene espresso nel romanzo e soprattutto all’atteggiamento sia del protagonista che dell’autore, di congenita e sublime indifferenza nei confronti della povera gente. Anche nel periodo successivo alla pubblicazione, il problema della dimensione storica del Gattopardo continua ad apparire centrale e controverso. Nel 1969 infatti, Furio Felcini10 esprime giudizi molto positivi sull’opera narrativa di Lampedusa, ma riconosce al romanzo solo l’apparenza di romanzo storico, perché in realtà non è altro che la trasposizione di esperienze autobiografiche dello scrittore che si immedesima nella persona del bisnonno paterno. Sulla stessa posizione troviamo più tardi Giancarlo Buzzi11,

autore di una delle rare monografie dedicate allo scrittore, che si dichiara convinto del valore poetico dell’opera nel suo complesso, ma che respinge il tenebroso pessimismo storico dell’autore tanto da dichiarare che il suo non può essere considerato un romanzo storico. Paolo Massimi, tuttavia, nonostante la critica abbia espresso posizioni così contrastanti, sostiene che Il Gattopardo è un romanzo storico, non solo per l’ovvio rapporto tra tempo del racconto e tempo della scrittura, ma anche perché il tema conduttore della vicenda storica, cioè il declino dell’aristocrazia terriera siciliana messo in moto dal processo risorgimentale, non è solo collaterale alla vicenda privata del protagonista, ma lo coinvolge in pieno, con tutta la sua famiglia, ed è una delle cause della sua sofferenza, della sua posizione di uomo sconfitto dai tempi, dai mutamenti storici. Infatti è solo a partire dal 1860 che le strutture sociali siciliane, per secoli quelle dell’ancien regime, vengono messe in crisi e realmente modificate. Scrive Natale Tedesco12, docente dell’università di Palermo, che l’europeismo, come d’altronde la sicilianità e l’italianità della formazione intellettuale del Tomasi, è una delle griglie generali di cui ci si vuole servire per riconsiderare la fortuna, la popolarità del Gattopardo a distanza di tanti anni dalla sua pubblicazione. Trattando dell’europeismo, ad esempio, ci si potrebbe riferire alla conoscenza che Giuseppe Tomasi di Lampedusa aveva della società e della cultura di alcune nazioni europee, in particolare dell’Inghilterra, per la cui letteratura nutriva un grande amore e di cui privilegiava anche il sistema di valori etico-politici. Ma potremmo anche riferirci al suo studio del romanzo europeo, tema questo che si dovrebbe subito suddividere in passione per il romanzo ottocentesco (ad esempio per Tolstoj, Dickens e Stendhal) e attenzione intelligente per quello novecentesco (ad esempio per Conrad e Joyce). Quanto all’aspetto italiano della formazione di Tomasi, esso non può far dimenticare la fondamentalità della sua esperienza esistenziale isolana, nonché l’interesse appunto per la storia della sua terra e di alcune specifiche tradizioni di essa. La scrittura del romanzo infatti, prende forza dalla sua esperienza di vita siciliana che vogliamo ritenere fondamentale per la nascita dello scrittore. È perfino ovvio aggiungere che con il romanzo si è ben oltre il valore di un sia pur singolare memoriale, perché è il risarcimento della scrittura che rimedia al fallimento esistenziale, consegnando il racconto della fine di una vita e di un’epoca al giudizio ormai non contenutistico ma formale, letterario

dei lettori. In effetti l’autobiografismo del Gattopardo non può farsi rientrare nella categoria di libri che raccontano fatti spiccioli reali, più o meno trasformati. In realtà, nell’opera di Tomasi, esso è presente con quella qualità che ne fa il tema della letteratura del Novecento: una notizia del mondo, un disvelamento del vivere, in cui un’esperienza e un giudizio personali devono rendersi come misure di durevole significato generale, senza però perdere il connotato, il valore, la pregnanza di un’appassionata avventura individuale. Secondo Franco Musarra13, si è molto, forse troppo discusso della dimensione ideologica del romanzo. Tomasi è stato definito un nostalgico aristocratico, un sognatore, un esteta raffinato e decadente, un pessimista, un residuo dell’Ottocento ecc. e dalle constatazioni ideologiche sono derivati giudizi positivi o negativi sul romanzo. In effetti il pessimismo di Lampedusa non nasce dalla convinzione dell’impossibilità di cambiare la cose, quanto dalla constatazione che queste non sono cambiate nonostante le grandi occasioni che si sono presentate nel corso dei decenni. L’immobilismo ideologico e il pessimismo storico sono dovuti essenzialmente al fatto che, nonostante i rivolgimenti portati dal Risorgimento, in Sicilia e in Italia si è persa un’occasione importante per un radicale rinnovamento culturale e sociale. Nel romanzo infatti vengono via via trattati, dietro il velo discreto dell’ironia, i problemi di fondo della società siciliana: tali problemi, come la sfiducia nello stato, la bigotteria religiosa, la criminalità diffusa, l’indolenza e la pigrizia, il senso dell’onore, vengono tutti presentati ironicamente come delle fatalità. Sono note le simpatie di Lampedusa per il mondo anglosassone; nell’ambiente siciliano, che pure ama profondamente, si sente un po’ estraneo, quasi straniero: è proprio da questa divisione dell’io che nasce spontaneamente l’ironia. Essa infatti implica una distanza tra colui che parla e una determinata realtà, implica un certo scetticismo, una certa sfiducia, implica soprattutto un giudizio ideologico con posizioni antitetiche, con diverse prospettive. Secondo Giorgio Masi, si potrebbe dire che Il Gattopardo è un romanzo troppo introspettivo-psicologico per essere solo un romanzo storico, e troppo documentato sull’epoca dei fatti per essere solo un romanzo psicologico. Lo stesso autore, in più occasioni, ha asserito quasi flaubertianamente che il protagonista era lui e che il suo non è un romanzo storico, in quanto non si vedono né Garibaldi né altri personaggi della grande storia: solo l’ambiente di riferimento è quello del 1860. L’aspetto storico appare dunque subordinato

rispetto a quello ideologico, rispetto alla visione del mondo nel suo insieme. Vi è sicuramente simpatia, affinità, tra l’autore e il protagonista, rispondenza profonda di idee, ma non c’è totale identificazione: la distanza è in qualche modo implicita nel giudizio complessivo di condanna che accomuna Don Fabrizio, Tancredi, liberali e borbonici e la Sicilia di allora; tutti con un corrispettivo nel presente dell’autore, ma con un’identità non sovrapponibile a quella della realtà contemporanea allo scrittore. In realtà, da recenti e accurati studi biografici, si evince che tutti i personaggi hanno dei corrispettivi storici, tuttavia essi scaturiscono da una serie così intricata di contaminazioni tra ricordi personali e sovrapposizioni letterarie, che il loro rapporto con le persone autentiche si limita il più delle volte al puro pretesto iniziale.14 Maria Pagliara-Giacovazzo15 sottolinea il clima decadente del romanzo. La psicanalisi, il principio di indeterminazione16, della relatività17, della termodinamica18, da cui derivano la dissoluzione nella fiducia nel destino progressivo dell’uomo e il conseguente pessimismo, sono i grandi temi di cui si sostanziano le opere della Decadenza europea. Certamente la scoperta dell’inconscio costituisce un punto di riferimento per l’affermarsi del Decadentismo, poiché provoca la messa in crisi del realismo e del sentimentalismo ottocenteschi. Si verifica così una progressiva conoscenza e una presa di coscienza della complessità, della ricchezza e nello stesso tempo della miseria della condizione umana. È quindi inevitabile la negazione dei valori “positivi”, quelli che sono stati assunti come tali dalla borghesia ottocentesca: è il naufragio di un mondo che si ancorava fiduciosamente alla ragione, elemento fondamentale di qualsiasi conoscenza della realtà. La stessa realtà si riduce, nella visione decadente, entro schemi prettamente soggettivi; è il relativismo che impera: lo scrittore, l’artista, l’uomo, non possono più dominare il mondo in quanto essi stessi sono atomi travolti nel vorticoso movimento delle cose. Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche furono filosofi letti e studiati da Lampedusa, alcuni direttamente in lingua originale; quasi sicuramente essi condizionarono la sua visione della vita, come del resto ebbero un peso determinante nella formazione di gran parte degli scrittori del Novecento. Molti sono i punti in comune tra Lampedusa e scrittori come Musil, Mann, Joyce, Camus: l’isolamento sociale, l’isolamento morale, la dissoluzione dell’Io, il pessimismo, il nichilismo, la voluttà morbosa, il sensualismo, l’individualistica volontà dell’io sulla realtà naturale. Il rapporto

dello scrittore con D’Annunzio, ad esempio, non può essere visto come un semplice problema di derivazione dei temi che motivano letterariamente l’opera di Lampedusa, in quanto il nostro si muove in un orizzonte ben più ampio dal punto di vista culturale. Lo stesso sensualismo che permea l’opera dello scrittore non si manifesta mai come semplice espressione vitale, come gioia di vivere, come accade ad esempio in Primo Vere19 di D’Annunzio, né come ricerca di nuove emozioni, di sensazioni sottili e raffinate, come accade nell’Innocente20 o nel Poema Paradisiaco21. Troviamo invece in Lampedusa elementi di psicologismo, nel senso che i personaggi non sono altro che le possibilità, i molteplici profili della sua stessa psiche. La sensualità, in Lampedusa come in altri rappresentanti del Decadentismo, è strettamente connessa all’idea dell’amore e della donna; nel Gattopardo infatti l’unica figura femminile di un certo rilievo è quella di Angelica, la donna sensuale per eccellenza, fonte di desiderio, ma che non si identifica con certi schemi ottocenteschi nei quali l’amore è sinonimo di fedeltà, abnegazione e rinuncia. La donna personifica invece la bellezza aspra, selvaggia e attraente che si innesta su una natura scaltra e priva di scrupoli che corrisponde ai canoni tipici della concezione della donna nella letteratura decadente. Giulia Di Pasquale22 evidenzia la particolare vicinanza di Tomasi di Lampedusa al mondo di Vitaliano Brancati: c’è infatti una singolare corrispondenza tra il sensualismo decadente del Gattopardo e quello estenuato, oseremmo dire tragico di Paolo il caldo23, il romanzo postumo di Vitaliano Brancati. In particolare le famosissime pagine del colloquio del Principe di Salina con l’inviato piemontese Chevalley sono una testimonianza di una lettura attenta da parte di Lampedusa dell’opera di Brancati dalla quale ha tratto suggerimenti e suggestioni. Il sottile ed inquietante fascino di queste pagine gattopardiane è innegabile: l’atmosfera generale del passo, declamato più che pronunciato, grandiosamente barocco, con cadenze oratorie che a volte scivolano su registri biblico-messianici, allude ad una singolare atemporalità che sembra non lasciare spazio ad alcuna verifica. Nel monologo del principe Fabrizio, alter-ego di Tomasi, possono essere rintracciati richiami al primo Brancati, e soprattutto al Brancati de Gli anni perduti24. Infatti anche nel primo romanzo di Brancati prevale un’atmosfera di cupa oppressione, di monotonia, di immobilismo, espressione di una vita-non vita di cui è metafora emblematica il sonno che avvince i tre protagonisti che vivono a Natàca, città

siciliana facilmente identificabile con Catania, e che cercano di far passare il tempo. Gli spunti tratti da Brancati, tutti impostati, sul filo di una sottile ironia, sull’individuazione dei contrari e delle dissonanze, filtrano nell’opera di Lampedusa, il quale ne privilegia i nessi funerei, l’alone tenebroso, relativo a quel senso di morte che, insinuatosi nelle pagine del romanzo, ne diviene lentamente il nucleo narrativo più profondo. Maria Pagliaro-Giacovazzo25 mette invece a confronto due romanzi: I Buddenbrook di Thomas Mann26 e Il Gattopardo di Lampedusa, evidenziando alcuni parallelismi e affinità dovute probabilmente ad un comune clima spirituale, ad inclinazioni di gusto e a situazioni familiari che hanno condizionato l’ispirazione dei due autori. Entrambi hanno attinto alla letteratura francese e tedesca, aderendo allo spirito decadente del secolo. Essi dimostrano di avere fonti comuni di riferimento e di essersi sintonizzati poi su temi analoghi, con una comune visione del mondo, sostanziata dalla filosofia della crisi e da una particolare concezione estetica. Nelle due opere sono visibili l’inclinazione al pessimismo, intrecciato a volte ad una vitalità effimera, uno spirito di morte che incombe su tutte le cose e lo sfaldarsi di qualsiasi materia sotto la superficie apparentemente compatta. Nei due romanzi inoltre acquistano rilievo alcune figure, l’ambizione delle quali è la forza trainante della loro vitalità, così come la volgarità è l’elemento che ne sottolinea la caratteristica di parvenus, incapaci di fare propri i modi raffinati dei rappresentanti delle classi che stanno scomparendo, ma sicuri del possesso del mondo futuro; ma anche loro però destinati ad un effimero possesso delle cose e rappresentanti di una sicurezza che non può che rivelarsi temporanea. L’alternarsi quindi del prestigio delle persone e delle famiglie e la conseguente ineluttabile fine offrono la stessa idea di un pessimismo che a tratti sfocia nel nichilismo. Da entrambi gli scrittori lo spirito viene visto come elemento disgregatore, come decadenza e malattia, ma con una differenza: per Mann è soltanto esso ad essere contagiato e la vita è sempre sana, anche nella sua banalità; per Lampedusa, invece, è tutta l’esistenza a rivelarsi minata fin dalle sue profonde radici. Nel romanzo Il Gattopardo, l’interpretazione pessimistica della storia tende ad essere riassorbita in una percezione disillusa dell’esistenza, come sostiene Vittorio Spinazzola.27 Il senso della morte, e in particolare, il senso della morte di un’epoca, rompe la spirale di illusoria immortalità che per decenni ha

suggerito in Italia l’idea di un inarrestabile progresso affidato ad una élite di uomini di cultura, sotto la cui tutela si sarebbe dovuta compiere la trasformazione dello stato italiano. Non è un caso, sostiene Ludovico Fulci28, che Il Gattopardo, opera di uno scettico, sia stato oggetto di grande interesse da parte del lettore medio italiano, di solito cattolico, o perlomeno che si riconosce come tale, se non per fede, per cultura. Di fatto, il lettore medio, privo della fede intellettualistica in un mondo platonicamente perfettibile, non ha esitato a ricondurre il dramma di Don Fabrizio e l’alone di morte che lo circonda, al terreno concreto della fattualità storica, proponendo il suo mondo come il mondo di tutti noi. Per questo motivo, l’idea della morte che tutto avvolge e travolge, lo stesso testamento spirituale dello scrittore che si sente giunto al termine della sua vita, affascina profondamente il lettore. Nel romanzo la morte viene vista come perdita, rinuncia, distacco da un mondo che sta morendo con il protagonista; in realtà lo scrittore si riferisce alla memoria di un passato altrui custodito però negli stessi spazi della sua vita quotidiana, e che in essa ha posto radici profonde. Così certamente il fatto che l’epoca di Don Fabrizio sia finita, ci aiuta ad accettare l’idea che il personaggio principale debba morire, che la sua vita passi come è passata quell’epoca storica che, per capriccio dello scrittore, è tornata a rivivere e a rimorire sotto i nostri occhi. Una possibile morale che si può trarne è che tutti, sia ricchi che poveri, siamo affittuari e precari possessori di ciò che ci offre il secolo nel quale ci è dato di vivere. D’altronde sappiamo che la morte livella e supera ogni ingiustizia sociale, perché nessun ricco e potente vi si può sottrarre. La casa e la famiglia, intese secondo una tradizione feudale, devono cedere il passo ad una sensibilità nuova, che prevede che il merito personale valga comunque di più di un nome e di una tradizione, anche se vissuti orgogliosamente. Questo sicuramente ci pare il mondo morale del principe di Salina. Di sicilianità si è parlato e si continua a parlare a proposito del romanzo di Tomasi di Lampedusa: in realtà, all’epoca del romanziere, la sicilianità letteraria respira già in una dimensione che ne fa un ponte con la letteratura europea. Quando l’autore de Il Gattopardo concepisce la sua opera, Luigi Capuana, Giovanni Verga, Luigi Pirandello, ma anche Federico De Roberto e Vitaliano Brancati sono autori conosciuti a livello internazionale. Gli esponenti del

verismo siciliano, sostiene Ludovico Fulci, avevano interloquito fin dall’inizio con gli esponenti del naturalismo francese e i loro lettori non erano solo quelli italiani, educati sul modello manzoniano e deamicisiano. La verità è che in Sicilia spazi internazionali sono aperti da sempre e Palermo, Taormina, Bronte, nonché le isole Eolie e la vicina Malta sono luoghi in cui italianità e sicilianità si intrecciano e si aprono alla cultura europea. Se poi ci riferiamo alla “sicilianità” intesa come unione di attualità e primitività, vediamo che Tomasi di Lampedusa si rifà, come già sottolineato, al decadentismo dannunziano, sfrondandolo dell’eccessiva letterarietà. L’autore ha ormai colto in se stesso, dietro il manierismo dannunziano, l’anima del barocco, che scopre quasi dolorosamente e con fastidio, come quando si rende conto di indulgere suo malgrado nell’aggettivazione ridondante. Spesso nel romanzo, la sicilianità si colora di antisicilianismo, perché la terra che si ama, che si ama profondamente col cuore, si disprezza con l’intelletto che rifiuta le atmosfere barocche, i complessi cerimoniali, i riti sociali. Pensiamo al ballo a palazzo Pantaleone, quando Don Fabrizio stanco si aggira per i salotti e osserva con superiore disprezzo sia il gruppo delle fanciulle che paragona ad una colonia di scimmie, sia la tribù dei maschi, quasi tutti amici suoi che l’annoiano con i loro discorsi vuoti e banali.29 Maria Pagliara-Giacovazzo30, nel suo saggio “Il Gattopardo o la metafora decadente dell’esistenza”, compie un’analisi accurata del linguaggio usato dall’autore e in particolare si sofferma sull’uso delle metafore; sostiene infatti che l’interpretazione dell’esistenza da parte di Tomasi di Lampedusa si accentra a volte intorno a metafore specifiche ed altre volte affida i suoi esiti a moduli formali diversi, ma altrettanto incisivi e determinanti. L’ironia è uno dei procedimenti formali con i quali molto spesso l’autore prevarica la vera essenza delle cose e di cui si serve per rendere inconsistente e precaria la realtà. Nel mondo dell’autore, tutto si muove indipendentemente da una qualsiasi volontà e ogni cosa soggiace alle regole di un fatalismo più o meno palese nel quale ama rifugiarsi, forse perché incapace di assumere un atteggiamento diverso dalla malinconica indifferenza o dallo sguardo ironico con cui guarda il mondo. È proprio l’indifferenza a sostanziare la sua filosofia a cui manca, però, la speranza ed esclude la possibilità di un sia pur minimo, effettivo cambiamento che possa avviare una nuova realtà socio-politica. In questa ottica viene ad assumere un posto particolare la Sicilia, la quale

sembra destinata ad essere eternamente inchiodata ad una dimensione di onirica staticità. E quando la realtà siciliana non viene decritta in termini di immobilità tout-court, ad essa si fa riferimento con immagini che solo apparentemente fanno pensare ad un avvenuto o possibile mutamento. Tutto il romanzo si dipana su questa linea: di indifferenza e scetticismo nei confronti delle sorti della Sicilia e dell’Italia e di ironia sarcastica e corrosiva che permette allo scrittore di creare una specie di distanza tra lui e i rivolgimenti storici che così perdono la loro portata drammatica e vengono resi fantasticamente con ambivalenza di immagini. La descrizione realistica diventa uno dei piani della narrazione, poiché su di essa l’autore inserisce tutta una serie di situazioni e di avvenimenti che ci danno la misura di una tecnica narrativa molto particolare. Pensiamo ad esempio alla descrizione della gelatina al rhum che viene servita alla fine del pranzo: in effetti il dolce costituisce un pretesto di cui si serve Don Fabrizio per poter insinuare il suo pensiero in modo indiretto e nello stesso tempo presentare gli avvenimenti così come appaiono ai suoi occhi. L’immagine della gelatina al rhum, che inizialmente colpisce il lettore, perde la sua connotazione reale man mano che i termini appartenenti ad un campo lessicale diverso prendono piede e delineano un’altra immagine che, grazie all’uso della metafora, si allontana da quella originaria del dolce. La metamorfosi dal dolce al torrione-fortezza, avviene gradualmente grazie all’impiego di termini specifici tratti dal lessico bellicomilitaresco, ben lontani dalla primitiva significazione: torrione, bastioni, guarnigione, spalti, cannoneggiati, rocca, assalto. La frase pronunciata da Don Fabrizio è emblematica: “Se la godette davvero assistendo al rapido smantellamento della fosca rocca sotto l’assalto degli appetiti”. Il riferimento alla rivoluzione garibaldina e alla Repubblica, il cui vessillo tricolore è presente nelle note cromatiche del dolce, e che in un altro momento l’autore aveva definito con sarcastica ironia “segnacolo geometrico, scimmiottatura dei Francesi”, è trasparente. La sensazione di godimento del Principe scaturisce non tanto dal fatto che il dolce venga consumato, quanto dall’altra realtà, quella metaforica, che ci riporta al disfacimento della “fosca rocca”, con tutte le implicazioni politiche che l’immagine suggerisce. Un altro esempio dell’uso che fa l’autore dell’ironia e della metafora è dato dall’episodio di Calogero Sedàra che si presenta a casa Salina in frac, e quale frac, essendo stato invitato, insieme alla figlia Angelica, ad una cena. Quando viene annunciato l’arrivo di Sedàra in frac, la notizia ha sul Principe un effetto

maggiore che non il bollettino dello sbarco a Marsala. Potrebbe sembrare strano al lettore il fatto che il protagonista venga colpito più dall’abbigliamento del sindaco, del parvenu, piuttosto che dallo sbarco di Garibaldi; in effetti è proprio su Calogero Sedàra, il più insigne rappresentante del nuovo ceto, che si concentra l’ironia dissolvitrice dell’autore: è meglio ridere della situazione, di Sedàra, che da questa situazione trae il maggior vantaggio, ridere dei garibaldini, che, come “gamberi”, presumono di essere gli artefici della rivoluzione e i paladini di una nuova società, che però agli occhi di Don Fabrizio non si rivela molto diversa da quella che si cerca di distruggere. Ecco quindi che nella metafora i livelli di priorità acquistano rilevanza secondo l’intenzionalità del Principe: lo sbarco a Marsala è un avvenimento che fa parte della storia, di quella storia narrata, con cui Lampedusa deve comunque fare i conti; ed egli ne parla velocemente, ma sposta subito l’attenzione del lettore su qualcosa di meno impegnativo e problematico. Don Calogero in frac, simbolo del capovolgimento dei ruoli, è il nodo su cui far convergere gli sguardi dei lettori che vengono attratti dalle falde del frac di Sedàra che si ergono verso il cielo in muta supplica e dalla manifestazione di dolore del Principe per “i piedi del sindaco calzati da stivaletti abbottonati”. È facile essere trascinati dalla carica ironica del protagonista e quindi dell’autore, che qui raggiunge toni particolarmente intensi. Melo Freni31 indaga il rango dei Sedàra, dei parvenus che rappresentano la nuova classe sociale che verrà a sostituirsi ai gattopardi, sia nel romanzo di Lampedusa che in altri romanzi siciliani come Mastro don Gesualdo di Verga32 e I Vicerè di De Roberto33. In Sicilia, dopo la ventata garibaldina e liberale, avviene il passaggio da una nobiltà di sangue, principesca, aristocratica, a una nuova nobiltà basata sul censo, ossia sulle nuove possibilità economiche della classe emergente. Non si può affrontare bene questo argomento senza far riferimento al grande affresco storico che è il romanzo I Vicerè, dove il funerale della principessa, donna Teresa Uzeda, segna sin dall’inizio la consunzione e la morte dell’aristocrazia principesca che aveva perduto interi patrimoni, sia per le spese sconsiderate, sia per l’espandersi del moto liberale. Un segno concreto dei tempi cambiati sono i nuovi protagonisti, don Calogero Sedàra del Gattopardo, il mastro don Gesualdo di Verga, o i Giuliente de I Vicerè. Gli emergenti hanno le terre al sole, hanno le sostanze, la “roba”; i nobili hanno il

prestigio di un nome, ma non hanno più le sostanze. Tra le due parti si stabilisce un intreccio di interessi con fini compensatori. Mastro don Gesualdo è infatti interessato al matrimonio con Bianca Trao per ottenere il prestigio del nome, mentre donna Bianca, la baronessina che lo sposa, potrebbe fare anche a meno del matrimonio al quale viene spinta dai parenti. I Sedàra hanno accumulato un patrimonio imponente, ma, senza il matrimonio di Angelica con Tancredi, sarebbe il loro un rango incompleto. Angelica per la famiglia Sedàra è stata un vero e proprio investimento e per questo motivo viene fatta studiare a Firenze, per crescere con i modi e la cultura della figlia di un barone. È dunque attraverso Angelica che avviene una sorta di autoinvestimento nobiliare da parte di don Calogero, presupposto indispensabile per la sua carriera politica che, iniziata in provincia, lo porterà al Senato della Repubblica. In effetti, se riflettiamo, mastro don Gesualdo e Calogero Sedàra rappresentano due momenti dello stesso processo: il primo ne costituisce il momento iniziale, quello dello sganciamento dall’antica condizione di subalternità, il secondo è il punto più alto della parabola che ha visto la nobiltà di censo prendere il posto della nobiltà di sangue. Con Calogero Sedàra il sorpasso sociale è avvenuto. Ludovico Fulci34 tratta invece in modo particolareggiato l’equivoco di un presunto disimpegno del romanzo. In effetti Tomasi di Lampedusa mostra una forte nostalgia per un’epoca a-fascista, con le sue magie, le sue illusioni, i suoi incanti e le sue immobilità, l’inclinazione naturale all’attesa, la possibilità tanto agognata di chiudersi nel privato, che tra l’altro ci pare un tratto distintivo dell’aristocratico siciliano. “Mi siddiu” è la frase tipica del giovane aristocratico siciliano che rinvia sdegnosamente a domani quello che potrebbe fare oggi, e che, nell’economia di una vita prossima a finire, scopre tutta la vanità di quel domani a cui si è sistematicamente rinviato ogni impegno concreto. Non si tratta solo di ozio, di passiva inerzia, ma è piuttosto lo sdegnoso rifiuto del “negozio” in cui si recuperava una sorta di continuità tra il mondo di Cicerone e di Orazio e quello cavalleresco della tradizione medioevale. Affettazione o reale indifferenza che fosse, questo stile di vita, che appartenne anche all’autore de Il Gattopardo, vuole rappresentare che l’aristocrazia meridionale e siciliana in particolare, mirò, da un certo momento storico in poi, ad un’intesa con una borghesia disposta ad assumersi l’onere di

un’amministrazione che di fatto gestiva da secoli, lasciando alle vecchie famiglie aristocratiche il privilegio di pensare, di avere idee. In quest’accordo tra aristocrazia e borghesia sancito all’ombra della spedizione dei Mille, ci sembra di cogliere un nucleo importantissimo anche per definire il difficile rapporto tra il romanzo e i suoi lettori di Sinistra. In effetti, più che di antifascismo, nel romanzo si può parlare di a-fascismo, nel senso di un muro di indifferenza che si contrappone al fascismo, come se storicamente non fosse mai esistito, interessato com’era Tomasi di Lampedusa, più che alla storia, come abbiamo già detto, alla vita dell’uomo, alla sua angoscia della morte, al dispiacere di dover lasciare affetti, proprietà, tradizioni familiari. Certo tutto ciò contrasta vivamente con la tesi “classica” del fascismo sorto ad opera della borghesia come controrivoluzione preventiva e che ripropone posizioni piuttosto datate in cui la storia segue meccanismi preordinati da una logica esclusivamente economica. Il romanzo, che ha una forte vocazione anti-ideologica, si può quindi definire a-fascista e questa posizione si rivela soprattutto nei modi della narrazione: un esempio tipico di afascista è il personaggio di Don Ciccio Tumeo, che sebbene reazionario, non rinuncia a pensare con la sua testa, non ha un’anima da gregario. Certo che all’epoca in cui uscì il romanzo, in Italia non si parlava di afascismo, ma o di antifascismo oppure di filofascismo. L’a-fascismo, inteso come indifferenza al fascismo, veniva considerato con sospettosa diffidenza e non se ne valutavano le radici lontane nella tradizione liberal-risorgimentale. Ancora Pagliaro-Giacovazzo35 sostiene che il Principe di Salina accomuna nello stesso giudizio negativo sia la monarchia borbonica che i Piemontesi. Tuttavia questo disprezzo, questo voler allontanare da sé e relegare ai gradini più bassi della scala dei valori sociali una parte dell’umanità, non deriva allo scrittore dal privilegio della sua condizione, bensì da un’innata propensione a vedere in termini riduttivi la nobiltà e la dignità dell’uomo. Le due realtà, quella borbonica e quella piemontese, sono così coinvolte e livellate nello stesso atteggiamento: Fabrizio Salina è impossibilitato in modo congenito a simpatizzare per l’una o per l’altra realtà; la massima partecipazione a cui può arrivare è quella di sentirsi legato alla dinastia borbonica “da vincoli di decenza in mancanza di quelli d’affetto”. L’equivalenza tra i due mondi è perfetta e l’incapacità di incidere sulla realtà siciliana è identica, nel senso che né l’uno né l’altro spostano sostanzialmente alcunché nella realtà dell’isola. Tutto perciò si

riduce ad un cambiamento geografico, ad uno spostamento dell’epicentro del potere: ciò che rimane chiaro nella mente del lettore è che l’isola è destinata ad un’eterna impasse, dato che ogni tentativo dell’impegno umano è destinato al fallimento. Il filtro dell’ironia è solo la testimonianza intellettuale di questa impotenza e serve a svuotare la realtà dei suoi connotati più problematici di carattere politico, sociale e morale. Quando l’attenzione narrativa di Lampedusa si appunta su Chevalley di Monterzuolo, inviato dei Piemontesi con il compito di convincere il Principe di Salina ad accettare la carica di Senatore, il suo ruolo di messaggero viene ridimensionato dalla dizione missus dominicus, come se già i Piemontesi si ergessero a padroni della realtà siciliana, pur ignorando la particolare natura dell’isola. In questo senso Chevalley diventa un emissario della nuova classe padrona e onnipotente a cui vengono ironicamente affidate le sorti dell’Italia e della Sicilia. Lo stesso lapsus che viene attribuito al personaggio che parla non certo di un’unione paritetica tra l’isola e il continente, ma di un’annessione, sta ad indicare il genere di rapporto che avevano in animo di instaurare i Piemontesi. In effetti Don Fabrizio-Lampedusa resiste a priori ad ogni valutazione e ad ogni accomodamento rispetto alla nuova evoluzione storica. Lo scrittore pensa che il Risorgimento e la conseguente annessione della Sicilia, terra di particolari e difficili problemi, hanno portato all’esasperazione del disagio già preesistente, anche per l’incapacità dei nuovi padroni di capire la particolare problematica e di trovare gli strumenti necessari per risolverla. L’insularità sottolineata dall’autore, più che un particolare geografico, sta ad indicare la rescissione di ogni legame: il mondo visto con gli occhi di Don Fabrizio appare impermeabile ad ogni forma di ottimismo; è avvolto da un’aurea sensuale che annuncia il disfacimento, la fine. Questa atmosfera che pervade tutto il romanzo, emerge in tutta la sua chiarezza dalle parole che il protagonista rivolge a Chevalley: “Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portare loro i più bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorzonera36 o di cannella; il nostro aspetto

meditativo è quello del nulla che voglia scrutare gli enigmi del nirvana”.37 Come vediamo, il sonno, l’oblio, la voluttà identificati con la morte e con il nulla, vengono quasi elevati a dignità di elementi positivi; la visione pessimistica di Lampedusa, che trova in questo discorso una sua più compiuta articolazione, come se fosse un vero e proprio testamento spirituale, è pervasa da un’insistente idea distruttrice che tutto livella ed annulla. In tutto il romanzo l’uomo in generale e in particolare quello siciliano, ci appare perennemente legato alla sua impotenza, alla sua impossibilità di imprimere un senso alla connessione degli eventi e quindi alla vita stessa. Lampedusa si riferisce in particolare all’uomo siciliano, oppresso da una società stratificata dall’apatia di secoli, che gli ha tolto la possibilità di aspirare a qualcosa di nuovo, costringendolo ad accettare quel modo di vivere e di pensare. Va sottolineato che lo scetticismo dissacratore e beffardo di Don Fabrizio-Lampedusa, si appunta anche sulla sfera del sacro: prelati, uomini di fede, personaggi di casa Salina, sono nell’occhio del ciclone. Il Principe si serve infatti di qualsiasi mezzo, dalla critica serrata all’ironia sarcastica, per mettere sotto accusa l’apparato esterno della religione cattolica. Uno dei personaggi che il Principe prende di mira con la sua ironia è padre Pirrone, in particolare nell’episodio dell’arrivo sconvolgente di Angelica a casa Salina: l’atmosfera è così satura della bellezza e della capacità seduttiva della ragazza che addirittura il padre accosta la fanciulla a tre donne delle sacre scritture, Giuditta, Ester e Dalila e non certo per affinità morali; tale è la sua emozione di fronte al fascino muliebre al quale non è insensibile, che, con la fronte imperlata di sudore si rivolge ad Angelica chiamandola “Sponsa del Libano”38. Ovviamente nell’atteggiamento dell’autore c’è il godimento amaro di chi non vede più nulla di valido a cui affidarsi, tanto meno la spiritualità formale che spesso sostituisce la vera fede. E comunque la fede è assente nel romanzo così come è assente Dio in un mondo che, pur rispettando le liturgie e i riti, non si aspetta consolazioni trascendenti. Don Fabrizio morirà solo, anche se circondato da figli e nipoti, avvertendo che la sua energia vitale lo sta definitivamente abbandonando. Melo Freni39 invece si sofferma, nel suo saggio Leggere il Gattopardo, a descrivere i momenti di serenità del Principe che, stanco e privo di illusioni, trova conforto solo nella contemplazione delle stelle. Esse, con il loro ordine e la loro luce, vengono contrapposte alla confusione della storia, perché si muovono nel cielo secondo traiettorie esatte, sempre fedeli agli appuntamenti,

si presentano puntuali al millesimo di secondo a chi sta ad osservarle. All’ordine delle stelle corrisponde la precisione degli strumenti che il Principe usa per osservarle: i due telescopi e i tre cannocchiali situati nell’osservatorio, nella torretta in cima al palazzo. Come sappiamo, Don Fabrizio possedeva una forte inclinazione per le scienze matematiche che aveva applicato all’astronomia, traendone anche importanti riconoscimenti pubblici. Il Principe infatti aveva scoperto due pianetini (Salina e Svelto), ricevuto pubbliche congratulazioni per l’esattezza dei suoi calcoli relativi alla cometa di Huxley e una medaglia alla Sorbona. Le sue mani che nei momenti di ira erano capaci di accartocciare le posate o le monete da un ducato, nell’osservatorio invece avevano un tocco delicatissimo nell’usare gli strumenti per osservare le stelle; il loro studio produceva nel suo animo l’effetto del nuovo farmaco, la morfina, che veniva a sostituire l’antico stoicismo e la rassegnazione cristiana. Le stelle attraevano il Principe perché lontane, irraggiungibili, immuni dai peccati degli uomini, dagli interessi materiali che spesso agitavano gli animi umani; le stelle con la loro suprema armonia attiravano il Principe e lo portavano in un ambito di sublimazione, molto simile alla fine. Si coglie in questo l’aspirazione definitiva del protagonista verso la morte, per potersi finalmente trovare “in quelle gelide distese”. Finito all’alba il grande ballo tenutosi a casa Ponteleone, il Principe preferisce ritornare a piedi sia per respirare l’aria fresca del mattino che per avere conforto guardando le ultime stelle ancora visibili, e tra queste in particolare Venere. Lampedusa, nel suo pessimismo profondo, fa del firmamento il suo interlocutore privilegiato, l’unico che possa ascoltarlo e capirlo, l’unico che permette al Principe di dare un senso alla propria esistenza. Sempre Melo Freni, nello stesso saggio, individua nel romanzo due forme di femminilità contrapposte: da una parte Angelica, bellissima, sensuale, un vero e proprio ciclone amoroso, reduce dagli studi fiorentini che le hanno fatto perdere lo strascico plebeo della parlata girgentana, dall’altra Concetta, una delle figlie del Principe, figura solo apparentemente secondaria, ma che invece emerge e colpisce il lettore per la sua coerenza, la fedeltà ai suoi principi, l’incorruttibilità del suo essere, come una vestale che difende gli antichi sentimenti e valori della famiglia Salina. Concetta non ha la bellezza invadente di Angelica, non suscita fantasie erotiche, ma è il simbolo di un fiore che si lascia appassire, che si reclina su se

stesso, in mezzo alle passioni politiche e amorose che le vorticano intorno. Innamorata del cugino Tancredi e forse inizialmente corrisposta, sarà purtroppo costretta a rinunciare al suo amore. Il Principe, pur amando la figlia e apprezzando le sue ”virtù passive”, non la reputa in grado di aiutare un marito ambizioso e brillante come Tancredi e, sacrificandola, esprime il suo giudizio nei confronti delle esigenze della nuova società che si sta costituendo. In effetti, nel romanzo, parafrasando l’Ariosto, Tancredi insegue Angelica che in questo caso non fugge, ma perde Concetta che si ritrae nella sua modestia, anche se dentro di sé ribolle il sangue violento dei Salina. Quella di Concetta è una femminilità tutta siciliana e tutta ottocentesca, sostiene Ludovico Fulci40, che vive delle piccole, innocenti esplorazioni consentite all’interno delle mura di una casa aristocratica, adatte ad alimentare quelle semplici fantasie delle ragazze formatesi negli educandati. C’è comunque, nel sottrarsi di Concetta a Tancredi, una componente di gioco sottilmente erotico che affascina il piemontese Cavriaghi nella sua vana conquista di un cuore troppo passionale per lui. Per Enrico Carini41, il Principe di Salina è per molti tratti lo stesso autore, ne condivide la posizione sociale, la particolare sicilianità, il senso aristocratico della vita e del proprio essere, la visione disincantata delle cose e degli uomini e persino certi tratti fisici; al tempo stesso però, è altro dall’autore, non solo perché rivela nei rapporti con gli altri una sicurezza che Tomasi non sempre aveva, ma perché soprattutto appare proiettato indietro nel tempo, in un’epoca storicamente definita e conclusa. Lo stesso aristocraticismo dello scrittore, che è stato visto come uno dei tratti di maggiore somiglianza tra autore e protagonista, ha motivazioni ben più complesse e necessarie di un semplice rimando biografico: perché infatti il dramma dell’uomo acquisti tutto il suo rilievo, è necessario che egli abbia coscienza di un prima e che ipotizzi un poi, che ricordi un passato, che avverte ormai in crisi, e cerchi di intravedere uno sviluppo futuro. Se però il passato è solo quello della sua memoria individuale, ci si trova di fronte ad uno degli infiniti, quotidiani drammi della vita, ma la storia vi rimane fuori. Perché la storia entri a far parte del dramma esistenziale del singolo individuo, è necessario andare al di là della propria memoria individuale, arrivare ad una memoria collettiva, storica, che viene messa in crisi dagli eventi, dai cambiamenti epocali. Allora l’individuo è consapevole che la sua vita, sospesa

tra passato e futuro, è una parte infinitesimale del perenne scorrere della storia e a questo punto ha la precisa sensazione della propria precarietà e dell’assurdità del vivere. Don Fabrizio, come persona, acquista la sua consistenza in rapporto ad un contesto che è la Sicilia del 1860, e in questo contesto, la memoria storica poteva averla solo un nobile. La nuova classe emergente infatti, quella dei Sedàra, ne era priva perché nasceva allora. Don Calogero è privo di un passato che non sia quello personale e quindi è libero da ogni vincolo, anche morale, mentre a Don Fabrizio è proprio la memoria storica che gli conferisce la moralità dello stile e della decenza. Secondo Massimo Ganci42, nella sua opera La Sicilia del Gattopardo, l’aridità pietrificata delle contrade della Sicilia interna, rispecchia per Lampedusa il senso intimo della vita umana. L’irredimibilità del paesaggio assume un preciso significato esistenziale, sottratto ad ogni tentativo di storicizzazione. Non si tratta di un motivo storico e tanto meno di un motivo politico, ma di un motivo poetico. La Sicilia irredimibile esprime, infatti, con la sua evidenza plastica, l’aridità dell’uomo moderno, dell’uomo sospeso nel vuoto, tra il passato definitivamente morto, anche se continuamente evocato con nostalgia, e il futuro sempre più portatore di alienazione. In questa situazione di vuoto, il dolore, il pessimismo di Tomasi di Lampedusa si amplifica nella constatazione dello scetticismo globale, della decadenza di ogni ideale, sia esso reazionario o progressista. Il senso della morte, proprio di tutte le manifestazioni siciliane, si universalizza e diventa intima essenza della vita quotidiana. Ed è proprio nella morte che l’individuo trova la liberazione, nella propria morte che rappresenta anche la morte di tutto un mondo. La sicilianità del Gattopardo, intesa in questa dimensione cosmica, diviene il simbolo della creatura umana, irrimediabilmente sola di fronte a se stessa. In questo senso la sicilianità di Lampedusa è universale e attualissima. Enrico Carini43, sempre nello stesso saggio, descrive i tratti salienti del capitolo del ballo, dove sono rappresentati i rapporti di Don Fabrizio con i rappresentanti della sua classe sociale, rapporti prima solo riferiti e non rappresentati. Pur essendo il ballo l’occasione per la presentazione di Angelica in società, il Principe vive la festa con grande disagio. Vaga senza meta, si sofferma, per ingannare il tempo ad osservare i ballerini che si muovono e volteggiano in una sala tutta d’oro, preziosa come uno scrigno, poi finalmente trova approdo in biblioteca dove si sente presto a suo agio. Qui si mette a

guardare una buona copia del quadro La morte del Giusto di Greuze. Don Fabrizio guarda il quadro criticamente, con una lettura demistificante, tuttavia non se ne allontana: il principe si guarda in quel quadro come in uno specchio, contemplando la propria morte nella morte comune, dato che nel quadro egli ha universalizzato il tema della morte. Viene interrotto da Tancredi seguito da Angelica; il nipote, che gli chiede se sta corteggiando la morte, è vissuto dal Principe con consapevole distanza: mai infatti i due personaggi sono stati così lontani tra loro, anche se l’allontanamento è avvenuto gradualmente, man mano che gli eventi cominciavano a deludere il Principe e Tancredi rivelava le sue capacità di farsi strada nella nuova situazione politica e sociale. Il ballo del Principe con Angelica appare come una sorta di addio alla vita, una momentanea illusione di giovinezza, nella quale egli, unico tra i presenti, si sostituisce a Tancredi. Finito il valzer, il protagonista si terrà lontano dai due giovani, ascolterà le parole prive di illusioni del generale Pallavicino sentirà aumentare la sua tristezza e il suo malumore. Alla fine del ballo, il Principe, solo, per sua scelta, volge lo sguardo verso il cielo, contempla Venere e si chiede quando la morte si deciderà a dargli un appuntamento meno vago. L’idea della propria morte lo rasserena perché segna la fine di un mondo oltre che la sua fine e per questo motivo arriva ad invocarla. E la morte arriverà, al ritorno da Napoli, in un’anonima e squallida stanza d’albergo palermitana, dove verrà vissuta come una liberazione. Sempre sul tema della morte del principe, Andrea Vitiello44 servendosi di riferimenti di tipo psicanalitico, interpreta il corteggiamento della morte come camuffamento del timore che essa suscita. Il corteggiamento del principe infatti, costituisce una vera e propria “formazione reattiva”, cioè l’esagerazione di un atteggiamento opposto all’impulso inconscio per esorcizzare la primitiva tendenza alla paura. Il corteggiamento è vistoso, eccessivo e quindi simulato, anche se il principe di Salina ha integrato talmente lo stereotipo del corteggiamento nella sua personalità da essere universalmente conosciuto come il grande corteggiatore della morte. Addirittura il rapporto tra l’uomo e la morte viene paradossalmente capovolto: non è più la morte aggressiva a ghermire l’uomo pieno di paure, ma è la morte vista come una creatura leggiadra e corteggiata che cede all’invocazione. C’è quasi in Lampedusa una libido moriendi che consente una erotizzazione del dolore della morte. La stessa consolazione e lo

stato di beatitudine che il principe prova sono semplicemente dei meccanismi di razionalizzazione, cioè sentimenti fittiziamente elaborati per ammortizzare la paura che deriva dal concetto della morte, dalla sua attesa, più che dalla morte stessa. Lampedusa conosceva Freud e sapeva che i meccanismi di difesa hanno alla loro radice la paura e che essi tendono a falsare la realtà per alleviarne l’impatto. Alla base della strategia difensiva interviene quasi un meccanismo di tipo pragmatistico, una certa volontà di credere: Salina infatti si inventa una finzione per muoversi nella dimensione del come se, con un certo distacco scettico dai fatti. Egli dissimula la propria interiorità dietro un paravento letterario, così come il gattopardo, con il pelo maculato, si mimetizza tra i colori della savana. In definitiva ci troviamo di fronte alla paura ancestrale della morte, rivestita di menzogne. Lo stesso corteggiamento è un omaggio che l’inconscio rende alla paura della morte; ma quella di Don Fabrizio-Lampedusa non è una resa inerte, al contrario è una scelta forte e coraggiosa perché richiede una grande energia morale. Secondo Fulci45, Lampedusa sapeva che il suo romanzo era destinato a restare, sia per le qualità specificatamente letterarie, sia per la tecnica narrativa che porta lo scrittore ad identificarsi con il protagonista, dilatando così sia i tempi della contemporaneità, dell’ora, che dell’allora, cioè il tempo passato che è quello in cui Don Fabrizio parla dei Salina, della Sicilia e di un mondo in sostanza ormai passato. Lo stesso scrittore ci confida di essere nato Gattopardo e di voler morire come tale. Da questa esigenza che da personale diventa esistenziale, nasce una ricerca della propria identità, smarrita nella storia e che l’appartenenza alla classe aristocratica non è sufficiente a ricostruire. Di qui il ricorso all’antenato dell’autore, fondamentale per attuare il processo di ricostruzione della memoria pubblica e privata, recuperando un mito sepolto nella coscienza dei popoli mediterranei, quello del nume familiare. Scrive Giovanni Capecchi nel saggio”Mezzo secolo dal Gattopardo. Studi e interpretazioni”46che nel solco delle opere di denuncia degli esiti del Risorgimento nel meridione, in cui troviamo autori come Verga, De Roberto e Pirandello e, in anni più recenti, anche Andrea Camilleri con il romanzo”Un filo di fumo” del 1980, si collocano anche gli esordi narrativi di Leonardo Sciascia e un romanzo come Il Gattopardo di Lampedusa. Sciascia infatti narra

nel racconto Il Quarantotto47, pubblicato nel 1957, la storia del barone Garziano, passato indenne attraverso la rivoluzione del 1848 e quella garibaldina, che ricorda molto da vicino le vicende raccontate da Tomasi di Lampedusa. Possiamo sicuramente considerare Il Gattopardo come un romanzo sul Risorgimento che esprime una posizione polemica nei confronti degli esiti del processo di unificazione nazionale, così come esprimono una posizione polemica molti scrittori meridionali e in particolare siciliani che denunciano la delusione collettiva di fronte al nuovo stato incapace di risolvere i problemi del mezzogiorno e che descrivono un processo politico di trasformazione solo apparente. Lo stesso Sciascia, dopo una prima lettura pregiudiziale del romanzo di Lampedusa, si è gradualmente avvicinato al pessimismo dello scrittore, fino a rendergli in qualche modo omaggio nel suo libro Porte aperte48 del 1987, dove parla di una Palermo “irredimibile”, usando la stessa espressione di Lampedusa. Proprio sul tema dell’antirisorgimento e della disillusione politica Sciascia trova un terreno comune con Tomasi. Nel Gattopardo infatti, tutte le parti in causa che hanno avuto un ruolo nel processo di unificazione, vengono presentate sotto una luce negativa, sia i mazziniani che i garibaldini, e gli stessi liberali visti come rapaci e disonesti, pronti ad utilizzare metodi anche mafiosi pur di raggiungere i loro obiettivi. Ma Lampedusa non risparmia critiche e note polemiche neppure a coloro che si opponevano all’unificazione nazionale, come ad esempio la monarchia borbonica e la stessa Chiesa cattolica. La classe aristocratica, alla quale il Principe apparteneva, viene rappresentata con un evidente disprezzo che accomuna sia coloro che, pavidi, scapparono dalla Sicilia, sia quelli che si inchinarono e resero omaggio al nuovo vincitore. Se poi prendiamo in considerazione le pagine legate al Plebiscito, non possiamo non considerare Il Gattopardo un romanzo politico. L’Italia infatti, scrive Lampedusa, è nata nel peggiore dei modi, in mezzo alla corruzione a ai brogli elettorali, lasciando solo una parvenza di democraticità al processo di unificazione. Il giudizio dell’autore è molto severo nei confronti del Risorgimento in Sicilia, anche perché l’arroganza del potere, l’annullamento della volontà popolare che aveva dichiarato, anche se in modo minoritario, la sua contrarietà all’unificazione, avrà conseguenze negative nei tempi a venire e costituirà la base del giudizio negativo relativo agli uomini del Mezzogiorno, accusati spesso di essere

neghittosi e acquiescenti. Il Gattopardo, oltre ad essere un romanzo sul Risorgimento, riflette tuttavia sulla Storia in generale. Scegliendo di ambientare il suo romanzo negli anni dell’unificazione nazionale, Tomasi di Lampedusa ha deciso di mettere al centro dell’attenzione un evento che ha rappresentato, nella secolare storia della Sicilia, l’ultimo sbarco di stranieri accompagnato da vane promesse di un miglioramento della situazione socio-economica dell’isola. In effetti, però, come autore, Tomasi ha assistito, con la sua personale esperienza, allo sbarco delle forze alleate nel’43, durante il quale la casa palermitana di famiglia fu distrutta da un bombardamento. Anche in quest’ultima occasione non ci sono stati i cambiamenti tanto agognati, anzi abbiamo assistito al trasformismo di molti ex fascisti che si sono convertiti in fretta alla democrazia per occupare i nuovi posti di potere. A ben vedere, nel suo rapporto con la Storia, Il Gattopardo risulta un testo molto più complesso di quanto possa sembrare ad una prima superficiale lettura, sia per le diverse ottiche dei personaggi, sia per la trasformazione avvenuta in itinere di Don Fabrizio che, più di ogni altro, rappresenta la visione di Lampedusa e che passa dalla iniziale convinzione che tutto rimarrà come prima dopo l’ondata della rivoluzione garibaldina, alla constatazione che in effetti le cose sono cambiate, ma in peggio, e prova ne è l’ascesa economica, politica e sociale di don Calogero Sedàra. Il Gattopardo infine è un romanzo che riflette sull’essenza umana, sull’uomo in generale e su quello siciliano in particolare, spesso in modo pessimistico e dolente, constatando come resti immutabile attraverso guerre e sopraffazioni, sbarchi e avvicendamenti di eserciti stranieri. In questa posizione di umana riflessione, il Principe ha una visione privilegiata, in quanto si trova “con i piedi per terra”e con “la testa nell’eternità”, lettore finissimo degli eventi del suo tempo e capace insieme di staccarsene per contemplare le stelle e la morte. A questa “lettura” di Capecchi sento di dare la mia personale adesione sia per quanto riguarda la posizione politica e l’interpretazione storica, sia per la sua valutazione del romanzo come romanzo umano, oserei dire “esistenziale”, perché riflette sull’uomo in generale con le sue problematiche eterne, con toni spesso pessimistici e sconsolati, perché nel mondo di Lampedusa Dio è assente e quindi manca qualsiasi consolazione al vivere umano, sia essa religiosa che laica. Manca anche totalmente la fiducia nella ragione e nel progresso umano che invece caratterizzarono il periodo post-fascista e quello

successivo della ripresa economica italiana. Non condivido la lunga querelle sull’attribuzione di genere al romanzo, se considerarlo cioè un romanzo storico oppure autobiografico. Mi è sembrata infatti una disputa sterile, visto che Il Gattopardo è sia romanzo storico che autobiografico, ma di una forma di autobiografismo particolare, in cui l’autore riporta in vita le memorie del suo bisnonno, con la consapevolezza però di ciò che poi è accaduto nella storia italiana. Un’opera straordinaria dunque, quella di Lampedusa, difficilmente classificabile, quindi unica, come tutti i grandi capolavori, opera che pur presentando un respiro culturale mitteleuropeo, affonda le sue radici nella Sicilia più profonda, nella Sicilia “irredimibile”.

1 M. Vargas Llosa, Op. cit., pp. 177-180. 2 J. Joyce, Ulisse, Casa editrice Einaudi, Torino 2013. 3 A. Vitiello, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Sellerio Editore Palermo 2008, pp. 317-322. 4 P. Massimi, Tempo storico e tempo esistenziale nel Gattopardo, in Il Gattopardo, Atti del Convegno

internazionale dell’Università di Lovano, a cura di F. Musarra e S. Vanvolsem, Bulzoni Editore, Roma 1991, pp. 21-25. 5 G. Bassani, Prefazione alla prima edizione de Il Gattopardo, Feltrinelli, Milano 1958. 6 M. Alicata, Il Principe di Lampedusa e il Risorgimento siciliano, in “Il Contemporaneo”, aprile 1959. 7 E. Vittorini, Impariamo a conoscere gli scrittori italiani, in “Il Giorno”, 24 Febbraio 1959. 8 G. Pampaloni, Il Gattopardo o anche: les lendemains qui ne chantant pas, In “Comunità”, febbraio 1959. 9 A. Anile, M. G. Giannice, Operazione Gattopardo. Come Visconti trasformò un romanzo di “destra” in un successo di “sinistra”, Casa Editrice Le Mani, Genova 2013, pp. 39-40. 10 F. Felcini, G. Tomasi di Lampedusa, in I Contemporanei, Marzorati, Milano, 1969, p. 255. 11 G. Buzzi, Invito alla lettura di Tomasi di Lampedusa, Mursia, Milano 1972, p. 125. 12 N. Tedesco, Il sangue della nascita. Popolarità del Gattopardo, europeismo, sicilianità e italianità della formazione intellettuale di Giuseppe Tomasi di Lampedusa in Il Gattopardo, Atti del Convegno Internazionale dell’Università di Lovanio, a cura di F. Musarra e S. Vanvolsem, Bulzoni Editore, Roma 1991, pp. 11-12. 13 F. Musarra, Su alcune marche ironiche nel Gattopardo, in Il Gattopardo, Atti del Convegno Internazionale dell’Università di Lovano, Op. cit., pp. 64-67. 14 G. Masi, Come leggere IL Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Mursia, Milano 1996.

15 M. Pagliara-Giacovazzo, Op. cit., pp. 168-178. 16 Il principio di indeterminazione di Heisemberg fu enunciato nel 1927; esprime

l’impossibilità di determinare contemporaneamente la posizione e la quantità di moto di una particella elementare mediante l’osservazione, in quanto l’una esclude l’altra. 17 Il principio o teoria della relatività di Einstein, elaborato tra il 1905 e il 1913, afferma che la realtà in cui viviamo è uno spazio a quattro dimensioni, dove la quarta dimensione è costituita dal tempo. Lo spazio e il tempo sono relativi perché dipendono dal movimento del sistema di coordinate utilizzato. 18 Il secondo principio della termodinamica, un principio della termodinamica classica, asserisce che l’entropia del cosmo tende ad un valore massimo, il che equivale ad affermare che l’energia dell’universo, sebbene costante ne resti la quantità, è soggetta ad una sempre crescente dissipazione e degradazione. 19 G. D’Annunzio, Primo vere, Editore Carabba, Lanciano 2013. 20 G. D’Annunzio, L’innocente, Mondadori, Roma 2002. 21 G. D’annunzio, Il Poema paradisiaco, Mondadori, Roma 1994. 22 G. Di Pasquale, Il Sonno, La Sicilia ei Siciliani tra Brancati e Lampedusa: ipotesi per un raffronto, in Il Gattopardo, Atti del Convegno Internazionale dell’Università di Lovano, Op. cit., pp. 102-104. 23 V. Brancati, Paolo il caldo, Mondadori, Roma 2001. 24 V. Brancati, Gli anni perduti, Bompiani Editore, Milano 1944. 25 M. Pagliara-Giacovazzo, Thomas Mann-Lampedusa: affinità elettive?, in Il Gattopardo, Atti del Convegno Internazionale dell’Università di Lovanio, Op. cit., pp. 80-81. 26 T. Mann, I Buddenbrook, Garzanti Editore, Milano 2008. 27 V. Spinazzola, Il romanzo antistorico, Editori Riuniti, Roma 1990, p. 110. 28 L. Fulci, Op cit., p. 25. 29 L. Fulci, Op. cit., pp. 56-64. 30 M. Pagliara-Giacovazzo, Il “Gattopardo “o la metafora decadente dell’esistenza, Edizioni Milella, Lecce 1983, pp. 61-63. 31 M. Freni, Il rango dei Sedàra: da mastro don Gesualdo a don Luigi Ceravolo, In Il Gattopardo, Atti del Convegno internazionale dell’Università di Lovano, Op. cit., pp. 113-117. 32 G. Verga, Mastro don Gesualdo, Einaudi, Torino 2005. 33 F. De Roberto, Op. cit. 34 L. Fulci, Op. cit., pp. 65-73. 35 M. Pagliaro-Giacovazzo, Op. cit., Pp. 79-85. 36 Scorzonera: pianta erbacea perenne (scorzonera ispanica), di cui so utilizza la radice.

37 G. Tomasi di Lampedusa, Op. cit., pp. 178-179. 38 Parole del Cantico dei Cantici di Salomone. 39 M. Freni, Leggere Il Gattopardo, Dario Flaccovio Editore, Palermo 2009. 40 L. Fulci, Op. cit., p. 60. 41 E. Carini, Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Il Gattopardo, Loescher Editore, Torino 1991,

pp. 28-30. 42 M. Ganci, La Sicilia del Gattopardo, in A. Vitiello, Giuseppe Tomasi Di Lampedusa, Palermo, Sellerio 1987, pp. 360-361. 43 E. Carini, Op. cit., pp. 85-87. 44 A. Vitiello, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Palermo, Sellerio 1987, pp. 394-397. 45 L. Fulci, Op. cit., pp. 103-105. 46 A cura di G. Capecchi; Mezzo secolo dal Gattopardo. Studi e interpretazioni. Le Cariti Editore, Firenze 2010. 47 L. Sciascia, Il Quarantotto, ne Gli Zii di Sicilia, Adelphi Milano 1992. 48 L. Sciascia, Porte Aperte, Adelphi Editore, Milano 1987.

DAL ROMANZO AL FILM

Una locandina del film di Visconti

Alla fine degli anni cinquanta inizia il periodo più importante della produzione cinematografica di Visconti, caratterizzato da Rocco e i suoi fratelli uscito nel 1960, Il Gattopardo del 1963 e Vaghe stelle dell’Orsa del 1965. Soprattutto i primi due ebbero un successo internazionale enorme: Rocco e i suoi fratelli ottenne il premio speciale della giuria a Venezia, mentre Il Gattopardo vinse La Palma d’oro a Cannes. In particolare Il Gattopardo segna un punto di svolta nella filmografia di Visconti. Ancora più di Senso, rappresenta uno spartiacque ideale tra il primo Visconti, quello di Ossessione, La terra trema, Bellissima, vicino alle istanze del realismo cinematografico e il secondo che, ormai fuori dal neorealismo, cercherà, con sempre maggiore convinzione, nuovi equilibri estetici nella messa in scena della decadenza, intesa come spettacolo funebre della fine storica del modello culturale romantico e del mondo dell’aristocrazia. Sostiene Vincenzo Esposito1 che per Visconti, aristocratico anch’egli e insieme comunista, la “morte osservata” costituisce una funzione tematica e simbolica oltre che una prospettiva estetica: un’immagine di morte che si oppone allo sviluppo incontrollato della società di massa e alle sue continue trasformazioni. Luchino Visconti trova nei temi del romanzo di Tomasi di Lampedusa, la decadenza di una famiglia aristocratica, di una classe sociale e insieme di un’intera epoca, lo spunto per una personale costruzione cinematografica imperniata sul disfacimento del reale. Nel ritratto del

protagonista, il principe di Salina, Visconti finisce per identificarsi fino in fondo, scavando dentro se stesso e andando ad individuare i suoi timori e le sue delusioni, ma anche evidenziando la sua coscienza storicistica. Luchino Visconti non poteva infatti restare indifferente ai temi trattati nel romanzo di Tomasi di Lampedusa: l’opera racconta la fine di un’epoca e l’instaurarsi di una nuova società in cui trionfano il disordine e la mediocrità che sostituiscono l’aristocratica armonia del passato. Nonostante le vicissitudini editoriali, il romanzo vinse, come abbiamo evidenziato nella prefazione, il premio Strega nel 1959, anche se tra molte polemiche: veniva contestato il taglio narrativo di tipo ottocentesco, in anni in cui si assisteva al passaggio dal neorealismo allo sperimentalismo e una visione parziale della storia risorgimentale, vista con l’ottica di un aristocratico decadente. In realtà Bassani fece notare che Giuseppe Tomasi di Lampedusa era un autore del Novecento nutritosi di cultura europea che si era invaghito del romanzo di memoria, così come poi lo stesso Bassani pubblicherà nel 1962 un altro romanzo di memoria, Il giardino dei Finzi-Contini2. Visconti, per sua formazione, era pronto a recepire il Risorgimento come rivoluzione mancata o tradita, alla maniera gramsciana, e la fine della nobiltà come l’inizio della mediocrità, dell’omologazione volgare che si riscontrò sia nella vita che nel mondo dell’arte. Il Principe di Salina, infatti, non è soltanto l’uomo colto che ama le scienze matematiche e l’astronomia, ma anche un esteta che disprezza la nascente società di massa e che deplora l’impoverirsi delle singole individualità che si nutrono di educazione e di trasmissione della memoria. Visconti non poteva che essere contemporaneamente un comunista e un aristocratico: come comunista conosceva dell’aristocrazia il suo volto più retrivo, immobile, legato al privilegio e al latifondo, pronta com’era, nel suo disperato tentativo di sopravvivere alla Storia, a farsi rapace, proterva e ignobile. Ma, come aristocratico, Luchino non poteva non sentire la suggestione affettiva, estetica, emotiva che proveniva da un personaggio come quello di Don Fabrizio. Infatti, mentre in Lampedusa il recupero della memoria assume i toni di una rielaborazione del lutto e di una resa dei conti con i suoi antenati, per Visconti diventa una riconciliazione con il proprio passato e con la figura paterna anche se idealizzata.3 Visconti girò gran parte del film in Sicilia, ad esclusione degli interni che

dovevano ricreare il fascino e la suggestione del palazzo di Donnafugata, che furono ambientati nel palazzo Chigi di Ariccia. Tutto il film, d’altronde, fu girato dal vero, in luoghi reali, evitando la soluzione senz’altro più economica ma meno efficace dei teatri di posa. L’unico ambiente che fu ricostruito fu l’osservatorio di villa Salina, creato ex novo nel giardino della villa con una struttura di ponteggi, perché in quel punto c’era una vista straordinaria della città di Palermo. Il film fu molto curato nella scenografia, attraverso lunghe ricerche sull’architettura del barocco siciliano, così come nell’arredamento degli ambienti, spesso andando a reperire mobili d’epoca. Visconti considerava il rigore della ricostruzione e la raffinatezza e autenticità degli arredi come una premessa indispensabile per cercare di aderire il più possibile al romanzo di Lampedusa. Il Gattopardo infatti è la storia di un passaggio di poteri, della fine di una classe sociale dominante, quella aristocratica, che aveva il culto della raffinatezza e dell’eleganza considerati elementi importanti e quasi indispensabili dell’esistenza. Se il regista non fosse riuscito a descrivere quella particolare eleganza così esclusiva, avrebbe mancato una parte importante del compito che si era assunto di far rivivere il romanzo di Lampedusa. Il film già nel piano di produzione si presentava economicamente molto impegnativo, ma i costi lievitarono notevolmente in Sicilia dove Visconti si discostò dalla sceneggiatura, ampliando la scena della battaglia di Palermo. Grazie alla sensibilità del giovane produttore, Goffredo Lombardo, le mille difficoltà di ordine tecnico ed economico furono superate e il risultato fu quello di realizzare uno dei massimi capolavori della cinematografia del Novecento. Le riprese iniziarono a Palermo il 14 maggio 1962 ed ebbero termine ad Ariccia nell’autunno dello stesso anno, ma già i primi sopralluoghi in Sicilia per la scelta dei set erano stati effettuati nell’autunno del 1961. I cantieri scenografici coinvolsero interi quartieri, piazze, edifici storici che furono sottoposti a trasformazioni di rilievo sotto la direzione di Mario Garbuglia, mentre gli interni furono arredati da Giorgio Pes. A Palermo, nel quartiere della Kalsa, furono girate le scene della battaglia tra garibaldini e borbonici che si concluse con la presa di Palermo; per ambientare invece le scene iniziali del film, fu scelta la villa Boscogrande che doveva riprodurre la Villa Lampedusa di San Lorenzo ai Colli del romanzo. La dimora fu completamente ristrutturata e arredata in ventiquattro giorni. Il viale

d’accesso, ripreso nella sequenza iniziale del film, fu arredato con busti in finto marmo. La scena della sosta all’osteria e il successivo pernottamento durante il viaggio dei Salina verso Donnafugata, fu ambientata in una vecchia masseria piuttosto fatiscente che dovette essere consolidata in fretta per consentire le riprese. Anche le carrozze utilizzate dagli attori nel viaggio non erano una finzione, ma autentiche carrozze appartenenti alla nobiltà siciliana che erano state restaurate e decorate con lo stemma dei Corbera. Per la chiesa madre di Donnafugata fu scelta, dopo vari sopralluoghi, la chiesa di Ciminna con il paesaggio circostante; mancava però il grande palazzo vicino alla chiesa e al suo posto c’erano delle modeste casette. Garbuglia progettò una finta facciata che facesse pensare ad un imponente palazzo nobiliare siciliano, le cui finestre erano tuttavia corrispondenti a quelle esistenti per consentire l’areazione e l’affaccio agli inquilini degli appartamenti retrostanti. Per gli interni del palazzo di Donnafugata, fu scelto da Visconti il Palazzo Chigi ad Ariccia, anche se era caratterizzato dal barocco romano che poco aveva a che fare con il barocco siciliano; in realtà la stessa località di Donnafugata citata nel romanzo non aveva nulla a che fare con la cittadina omonima in provincia di Ragusa: era piuttosto un misto di ricordi d’infanzia dei feudi di Palma di Montechiaro e di Santa Margherita Belice. Di positivo il palazzo di Ariccia aveva l’epoca di costruzione e la vastità dei suoi duemila metri quadri per piano; furono tuttavia fatti molti cambiamenti nell’arredo per cercare di ricreare una dimora siciliana. Per girare la scena dell’inseguimento fra Tancredi e Angelica, vennero utilizzate le soffitte del palazzo Odescalchi, a Bassano di Sutri, mentre le celeberrime scene del ballo in casa Pantaleone furono girate a Palazzo Ganci, a Palermo, che fu completamente riarredato dato che fu messo a disposizione quasi completamente vuoto. Il dipinto che raffigura La morte del Giusto, di Greuze, conservato al Louvre, venne realizzato a Roma da un abile copista. Al centro della sala da ballo, Visconti fece collocare il pouf descritto nel romanzo. Peppino Rotunno, direttore della fotografia, espresse la sua grande professionalità per girare nel modo migliore le riprese del ballo, che doveva essere funereo, dato che Visconti aveva eliminato la morte del Principe descritta nel romanzo, sostituendola con il ballo che diventa così una metafora della fine del Principe e di un’intera classe sociale. La bravura con la quale Visconti e i suoi collaboratori, dalle situazioni e dai

fatti del romanzo, hanno estratto e sintetizzato gli elementi essenziali per la presentazione sullo schermo, conferisce al Gattopardo un prestigio tecnico che, per un pezzo, nella storia del nostro cinema, rimarrà esemplare. Di rado, sostiene Emilio Cecchi4, operazione simile fu condotta con tanta finezza e credo si possa sostenere che, in più di un caso, la sostanza poetica e storica proposta dal libro, nel film risulta decisamente vitalizzata e irrobustita. Non sono state inserite nel film la visita di padre Pirrone a San Cono, suo borgo nativo, e le sue conversazioni politiche con i villani, delle quali sopravvivono solo frammenti, ma l’incontro è trasportato in un’osteria sulla strada per Donnafugata. Tutti gli episodi successivi alla morte del Principe sono stati del tutto aboliti. Invece, fin dal principio, vengono introdotti nel film ex novo alcuni quadri che descrivono la battaglia dei garibaldini e della popolazione contro i borbonici, nelle strade di Palermo, il che serve ad immettere direttamente nel film quei motivi rivoluzionari e guerreschi che nel romanzo sono appena accennati, serpeggiano nei dialoghi, ma non prendono corpo in situazioni e figure precise. Ma l’esempio più alto e mirabile della maestria con la quale sono ricomposti ed esaltati gli sparsi motivi del romanzo, cosicché essi acquistano nel film una potenza moltiplicata, è nel ballo palermitano a palazzo Ponteleone, ballo con il quale il film si conclude, e la cui durata costituisce da sola più di un terzo dell’intera opera cinematografica. Non assistiamo nel film alla morte del Principe che nel romanzo ha la sua lenta preparazione, ma sentiamo come essa sia amorosamente accettata e aspettata da Don Fabrizio, quando da solo lascia il ballo per tornarsene a casa e, traversando nel grigiore dell’alba un quartiere degradato e deserto, si inginocchia al Viatico che un prete col suo chierichetto porta in una delle tante stamberghe che vi sorgono, a qualche povero agonizzante. Bisogna però considerare che il percorso del Gattopardo, dalla pagina scritta alla celluloide, fu molto più complesso di quello che appare. Tra soggetti, scalette e sceneggiature, le principali versioni scritte del film sono ben dieci, tutte conservate nel Fondo Visconti presso l’Istituto Gramsci di Roma, come scrivono Alberto Anile e Maria Gabriella Giannice5 nel loro saggio Operazione Gattopardo. Inizialmente infatti a Visconti premeva ben altro che una piena fedeltà al romanzo, e l’evoluzione delle varie sceneggiature lo testimonia: e cioè reinserire Il Gattopardo dentro il cammino della Storia, sanare la presunta deficienza ideologica del romanzo, illustrare del Risorgimento anche quel

versante di lotte popolari che Lampedusa aveva omesso, sfrondare il romanzo della sua componente decadente e psicologica, per trasformarlo in quello che avrebbe potuto essere, un grande romanzo storico in senso lukacsiano. In realtà l’intento di Visconti fu difficile da realizzare perché il romanzo di  Lampedusa è costruito con un meccanismo perfetto, inattaccabile, che rifiuta di sottostare alle intenzioni degli sceneggiatori: la struttura del libro infatti reagisce alla sovrastruttura del copione, gli innesti rischiano ad ogni passo di essere rigettati, come in un trapianto fallito. Rispondendo alle domande di Antonello Trombadori6, nella famosa intervista, Visconti precisa di essere d’accordo col punto di vista di Lampedusa, e quindi con quello del suo protagonista, il Principe di Salina, non solo nell’analisi dei fatti storici, ma anche nella visione pessimistica di quei fatti. Anche il regista vede il Risorgimento come una “rivoluzione mancata”, o meglio “tradita”, come si evince nel romanzo dal colloquio del Principe con don Ciccio Tumeo. Visconti sostiene che il suo film “non è, né potrebbe essere una trascrizione in immagini del romanzo”; anche se ha conservato una grande fedeltà al romanzo che lo ha ispirato, il film ha infatti una sua originalità espressiva. Partendo dal romanzo di Lampedusa e dalla visione della storiografia democratica e marxista, Visconti dichiara di essere stato fortemente sollecitato da pure emozioni poetiche, come il paesaggio siciliano, il carattere dei personaggi, il conflitto tra il vecchio e il nuovo, il legami sottili tra la Chiesa e il mondo feudale, la straordinaria statura morale del Principe, la bellezza di Angelica e l’ambiguità di Tancredi. Ritiene inoltre che nel suo film i motivi storico-politici non prevalgano sugli altri, cioè su quelli psicologici ed esistenziali dei personaggi, ma siano parte essenziale della loro linfa vitale. Dichiara Visconti: “Nel Gattopardo si racconta la storia di un contratto matrimoniale. La bellezza di Angelica data in pasto alla voracità di Tancredi. Ma Angelica non è soltanto bella; ella sa bene di che pasta è fatto un tale contratto di matrimonio, e l’accetta, anche se quello che a prima vista sembra dominare è soltanto un purissimo sentimento d’amore. E anche Tancredi non è soltanto cinico e vorace: riverberano in lui, già all’inizio della deformazione e della corruzione, quei lumi di civiltà, di nobiltà e di virilità che l’immobilità feudale ha cristallizzato e cicatrizzato senza speranza di futuro nella figura del Principe Fabrizio”. Certo, continua Visconti, dietro il contratto matrimoniale si

aprono diverse prospettive: quella dello stato piemontese, degnamente rappresentato dalla persona di Chevalley, quella della nuova borghesia terriera che si incarna nella persona di don Calogero Sedàra, quella dei contadini, oscuri protagonisti subalterni quasi senza identità, quella della sopravvivenza, sebbene anacronistica, delle strutture e del fasto feudali, colti nel momento del passaggio dalla loro fase di decadenza all’accettazione, nel loro tessuto, di elementi estranei finora respinti come don Calogero, Angelica, i piemontesi e gli stessi garibaldini. Rispetto alla scelta di aver interrotto le vicende narrate al momento della fine del ballo dai Ponteleone, Visconti dichiara di aver avvertito che tutto ciò che nel romanzo si sviluppa oltre il periodo storico limitato al 1860/62, poteva essere anticipato e bloccato, grazie al linguaggio cinematografico, esattamente in quell’arco di tempo, ricorrendo ad una dilatazione iperbolica dei tempi del ballo in casa Ponteleone, che così veniva ad assumere un significato riassuntivo, condensativo e simbolico dei diversi valori, conflitti e prospettive della vicenda narrata nel romanzo. Dell’impostazione del Gattopardo Visconti pensa di non aver sottaciuto nulla, in più ha dato corpo ad alcuni motivi che nel romanzo sono solo accennati: prima di tutto la rivoluzione palermitana, le battaglie garibaldine, il linciaggio degli sbirri borbonici, il rapporto tra don Calogero e i contadini e infine le conseguenze della disperata impresa di Aspromonte, come la fucilazione dei disertori dell’esercito regio che nel 1862 obbedirono all’appello di Garibaldi. Secondo Anile e Giannice7 invece, Visconti cerca di sovrapporre all’analisi storica lampedusiana un’interpretazione effettuata nel solco marxista e, per far ciò, tradisce consapevolmente Lampedusa e lo fa con il metodo più subdolo, astuto e perfetto: l’omissione. Ciò che viene tolto modifica il senso di quello che resta. L’eliminazione degli ultimi due capitoli infatti modifica il senso dei restanti e ritroviamo molte discordanze, nelle tre macrosequenze più politiche, quella del Plebiscito, quella del dialogo con don Ciccio Tumeo e infine quella del dialogo con Chevalley, tra il romanzo e il film di Visconti. In effetti, il film non solo è stato concepito come una rilettura critico-ideologica del romanzo di Lampedusa, ma, strada facendo è diventata persino un’altra storia, un’altra verità, che si è sovrapposta usando gli stessi personaggi, le stesse scene, parte degli stessi fatti e porzioni degli stessi dialoghi, a quella del romanzo. Un tradimento, quello di Visconti, che in modo paradossale, trova la sua

perfezione in un’adesione, questa sì profonda, di Visconti, al mondo di Lampedusa; al mondo, ma non all’interpretazione storica di quel mondo. L’arredamento del film fu curato, sotto la costante direzione di Visconti, da Giorgio Pès, già affermato antiquario e arredatore, al suo primo film in costume e di grande impegno e dalla principessa Laudomia Hercolani, famosa esperta di cose antiche. Il lavoro degli arredatori, come racconta Tommaso M. Cima8, incominciò molti mesi prima dell’inizio del film e consistette in una prima fase in un accurato lavoro di ricerca di mobili, quadri e tappezzerie dell’epoca. Tutta l’isola poi venne perlustrata per requisire il maggior numero possibile di carrozze del periodo storico descritto nel romanzo, che poi furono restaurate, imbottite, riverniciate e decorate con gli stemmi di famiglia. Per tutto quello che riguarda l’arredamento, fu prezioso l’aiuto della famiglia Lanza di Mazzarino, uno dei cui esponenti è il figlio adottivo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa ed erede del suo titolo. I costumi del Gattopardo furono realizzati dalla SAFAS, su disegni e sotto la direzione di Piero Tosi, costumista e fedele collaboratore di Visconti. Nel film infatti, la ricerca del modo di tagliare, cucire e sostenere gli abiti, portò all’utilizzo di vari strati di sottogonne copiate dai modelli dell’epoca, utilizzate per sostenere le crinoline delle donne, così come i reggicalze, i busti e gli stringivita furono copiati da modelli autentici dell’epoca. Ne sanno qualcosa le attrici e le comparse che presero parte alla scena del ballo e che, non abituate alle torture alle quali le donne di un tempo erano assuefatte fin dalla più tenera età, accusarono malori e svenimenti a non finire. Il Gattopardo fu girato quasi per intero con tre macchine, in Eastmancolor, stampato in Italia dalla Technicolor italiana; per il direttore della fotografia, Giuseppe Rotunno, la maggiore difficoltà incontrata è stata le scena del ballo: questa scena infatti fu girata dal vero, in un palazzo, senza pareti mobili o soffitti tanto alti da permettere l’installazione di riflettori o altro macchinario tecnico. I saloni, che erano illuminati da migliaia di candele, in realtà erano illuminati anche con dei riflettori, utilizzati in modo tale da dare l’illusione che fossero soltanto le candele a dare luce agli ambienti. La prima volta che furono accese tutte le candele, occorsero ben 55 minuti; si decise allora di illuminare un ambiente alla volta. La danza finale che gli invitati ballano in fila, tenendosi per mano, è stata ripresa con tre macchine appostate in ambienti diversi, quasi

di nascosto, mentre gli attori ballavano spontaneamente senza limitazioni legate ad un ambiente preciso. Un’altra difficoltà incontrata da Rotunno è stata quella di girare gli esterni in Sicilia, cosa non facile dato che la luce della Sicilia è come quella dell’Africa: le ombre infatti cambiano di colore in modo improvviso, da un’ora all’altra e da un giorno all’altro. Ottenere due volte le stesse sfumature è stato quasi impossibile. Per quanto concerne la lavorazione, furono le scene più grandiose del film a richiedere il massimo impegno da parte degli aiuto-registi: e cioè le scene di combattimento per le strade di Palermo e quella del ballo. Per le prime bisognò procedere alla scelta dei garibaldini e dei borbonici, che dovevano differire somaticamente: alti e biondi i primi, più scuri e più bassi i secondi, con occhi, baffi e capelli neri. Per trovare le centinaia di figuranti per la scena del ballo, le cui riprese durarono trentasei giorni, si ricorse, secondo le indicazioni di Visconti, a nobili autentici, discendenti diretti di quelli descritti da Lampedusa. I nobili siciliani, dopo qualche diffidenza iniziale, finirono col prestarsi a questo nuovo gioco e quindi le adesioni furono veramente numerose. Non mancarono alcuni problemi come ad esempio la pretesa delle nobildonne di voler dire la loro sui costumi e sulle acconciature, proprio perché, attorno alla scena del ballo, si era creato un grande clima di attesa. Per difendersi dal caldo, si girò di notte a palazzo Ganci, dalle otto di sera alle quattro del mattino (si era, non dimentichiamolo, a Palermo, nel mese di agosto), ma, considerato il numero elevato dei figuranti, sarti, parrucchieri e truccatori incominciavano a lavorare sin da mezzogiorno. Comunque, nonostante le difficoltà, Visconti ottenne in pieno il risultato che si era prefissato, quello di far rivivere un ballo dell’epoca; gli “invitati” infatti entrarono nello spirito dell’evento e fu come se il ballo a cui partecipavano fosse una vera, grandiosa festa.

1 V. Esposito, Lo spettacolo della decadenza: Il Gattopardo di Visconti, In Meridiana, Rivista di

storia e scienze sociali, Viella, Roma 2010. p. 79. 2 Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini, Einaudi, Torino 2005. 3 A. Anile, M. G. Giannice, Op. cit., p. 271. 4 E. Cecchi, Dal romanzo al film, in Il film “Il Gattopardo” e la regia di Luchino Visconti Dal

soggetto al film, a cura di Suso Cecchi d’Amico, Cappelli Editore, Rocca San Casciano, 1963, pp. 17-18. 5 A. Anile, M. G: Giannice, Operazione Gattopardo. Come Visconti trasformò un romanzo di “destra” in un successo di “sinistra” Casa Editrice Le Mani, Genova, 2013 pp. 121-143. 6 A. Trombadori, Dialogo con Visconti, in Il film “IL Gattopardo” e la regia di Luchino Visconti, a cura di Suso Cecchi d’ Amico, Cappelli Editore, Rocca San Casciano, 1963, pp. 23-30. 7 A. Anile, M. G. Giannice, Op. cit., pp. 270-279. 8 T. M. Cima, La Realizzazione, in Il film Il Gattopardo e la regia di Luchino Visconti, op cit. pp. 153-173.

IL FILM DI VISCONTI

E veniamo al film: la prima inquadratura è un cielo limpido, azzurro, appena attraversato da una piccola nuvola; mentre scorrono i titoli di testa, parte il tema del Principe, scritto da Nino Rota su reminiscenze di Brahms che suggerisce un’atmosfera di fine Ottocento. La macchina da presa avanza e ci introduce oltre i cancelli di un’imponente villa, lungo un viale fiancheggiato da busti di statue rovinate dal tempo; in fondo scorgiamo la facciata del palazzo dei Salina, poi viene mostrato un angolo dell’edificio ornato da finestre ombreggiate da tende mosse dal vento. Pian piano la musica sfuma, mentre si sente il brusio di voci che recitano un rosario in latino; siamo finalmente all’interno del palazzo: tutti i Salina, compreso il confessore, Padre Pirrone, interpretato da uno splendido Romolo Valli, sono in ginocchio e recitano le preghiere, mentre delle voci in dialetto fuori campo interrompono la musicalità dell’orazione. Il Principe chiude con un gesto secco il libro di preghiere e chiede il motivo di tanta confusione; un servitore gli risponde che è stato trovato un soldato borbonico morto in giardino. Nel contempo gli viene recapitato un messaggio del cognato Màlvica che lo mette a conoscenza della novità: i garibaldini sono sbarcati a Marsala e si temono disordini; lui, con la sua famiglia si rifugerà sui legni inglesi che si trovano alla rada nel porto di Palermo. Don Fabrizio scorre i giornali che riportano lo sbarco di Garibaldi in Sicilia; “È la rivoluzione!” esclama padre Pirrone, mentre la Principessa agitatissima scoppia in lacrime e viene consolata dalle figlie. Secondo Anile e Giannice1, nel film tutto comincia dai titoli di testa, nel nontempo dell’extradiegesi2 che per Visconti si fa tempo della memoria, con una sequenza letteralmente di “avvicinamento” al mondo e al tempo del Gattopardo. È la sequenza più proustiana del film, la macchina da presa va in avanti, mentre il flusso narrativo e il tempo vanno à rebours, portando lo spettatore indietro di cento anni. L’ingresso nel mondo del Principe non avviene realisticamente dalla porta, ma oniricamente sulle ali del vento (il vento della Rivoluzione, dei tempi nuovi, della Storia), attraverso le tende di pizzo di una

finestra, le uniche a muoversi in un universo rigido e impietrito. Don Fabrizio, nonostante le proteste della moglie e per niente impaurito dagli eventi, decide di scendere a Palermo subito dopo cena insieme a padre Pirrone; prima di partire, passa per il giardino. Il suo sguardo si posa sul corpo del giovane soldato borbonico steso sotto l’albero di limoni, mentre un contadino, in segno di pietà, copre il volto del povero ragazzo ucciso con un fazzoletto rosso. Il principe di Salina è interpretato nel film da un eccezionale Burt Lancaster, irriconoscibile per chi era abituato a vederlo nei ruoli di pistolero nei film western, di delinquente o di pirata; nonostante i preconcetti del regista sull’attore, che gli fu imposto dalla produzione, i due divennero grandi amici e collaborarono per tutta la durata del film. L’attore infatti è riuscito benissimo a calarsi nei panni di un aristocratico siciliano di grande tempra, l’ultimo dei Gattopardi, con il suo fare elegante ma nello stesso tempo brusco e autorevole, crescendo in bravura e immedesimazione man mano che il film procedeva. Il personaggio di Don Fabrizio, infatti, nel film di Visconti, è rappresentato fin da subito come una specie di superuomo circondato da “conigli” come il cognato Màlvica, la moglie fragile ed isterica, i figli insignificanti e sottomessi, fino al coscienzioso ma timoroso Padre Pirrone, mentre nel romanzo non c’è una parola dalla quale possa emergere il carattere così fortemente volitivo che il regista gli ha imposto. In questa sequenza composta da tre scene, (l’inizio del film, il rosario, il soldato morto), Visconti realizza una sintesi splendida tra la grande storia, quella del Risorgimento italiano e la microstoria, cioè il declino di una famiglia dell’aristocrazia siciliana. Infatti, mentre nel palazzo la corte perpetua i suoi rituali, al di là delle sue mura è in corso un evento storico memorabile, di enorme importanza sia per la Sicilia che per l’Italia: lo sbarco dei garibaldini. Per ora il contesto storico è tenuto fuori campo, mentre le inquadrature insistono sugli interni sontuosi. Fin dalle prime scene Visconti affronta con grande suggestione il tema della morte che avvolge il personaggio principale, Don Fabrizio, un aristocratico solitario, destinato a vivere in un’epoca di transizione, in cui crollano le vecchie istituzioni e cambiano gli antichi costumi, un uomo colto, raffinato, non privo di ironia che si culla nel suo pessimismo profondo e senza consolazioni. La cinematografia di Visconti si intreccia così con i grandi temi della decadenza, della perversione di guardare inattivi la fine e del sentire la morte

che si avvicina, in un’atmosfera di passiva impotenza, come sostiene Maurizio Grande. I grandi eventi della storia superano e oltraggiano i protagonisti, riducendoli a semplici osservatori della storia fatta dagli altri, a semplici o perversi voyeurs.3 Mentre si recano in carrozza a Palermo, Il Principe e padre Pirrone vedono in lontananza i fuochi sulle montagne che indicano gli accampamenti dei ribelli. Il gesuita, sapendo quanto è grande l’affetto dello zio per il nipote Tancredi, con molto tatto accenna alle cattive frequentazioni di Tancredi, suscitando comunque la risposta indignata del Principe. Ad un posto di blocco, all’ingresso della città di Palermo, la carrozza, dopo che è stata riconosciuta, viene fatta passare. Don Fabrizio, dopo aver lasciato il prete, si aggira nei vicoli oscuri della Palermo malfamata e va a trovare la solita prostituta, Mariannina, che lo accoglie a braccia aperte, esclamando: ”Principone mio!”. All’indolenza del Principe si contrappone la dinamicità del nipote Tancredi Falconeri, interpretato da un Alain Delon, bellissimo, ambiguo ed elegante, il quale intuisce subito che la situazione politica dell’isola sta cambiando e, nella sua spregiudicatezza, decide di partecipare all’impresa rivoluzionaria; il suo cinismo morale lo porta a combattere con i garibaldini per evitare che “quelli” possano fare la Repubblica. Visconti lo presenta facendolo apparire riflesso nello specchio davanti al quale si sta radendo il Principe: in questo modo evidenzia l’affinità profonda che esiste tra loro e il desiderio inconscio dello “zione” di potersi riflettere in Tancredi, nella sua giovinezza e voglia di vivere. In realtà i due nobili, pur amandosi molto, appartengono a generazioni diverse e a diversi paradigmi morali. Tancredi, infatti, proprio in questa scena, pronuncia le battute più celebri del romanzo e del film: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”, evidenziando la sua tendenza al trasformismo, senza alcuno scrupolo morale. Nel romanzo il principe di Falconeri è un ragazzo di appena vent’anni, minorenne come i tanti che in quella primavera portentosa per l’Italia risposero alla chiamata di Garibaldi. Affascinato dalla bella Angelica e umiliato dalla cugina, Tancredi cede alla passione per la bella ereditiera; esce così dall’età dell’innocenza e diventa un adulto, abbandona l’avventura garibaldina e rientra nei ranghi dell’età della ragione. Il Tancredi di Visconti è invece più monolitico fin dall’inizio, politicamente molto più a destra di quanto non lo sia nel romanzo: l’elogio della fucilazione, il disprezzo per i garibaldini condannati a

morte, e per lo stesso Garibaldi, l’apologia dell’uso della forza contro le istanze democratiche e popolari, ne fanno in qualche modo un fascista ante-litteram. Tancredi è venuto a salutare lo zio, parte per raggiungere i garibaldini, promettendo: “Ritornerò col tricolore!”; mentre si sta accomiatando dal resto della famiglia, lo zio lo richiama e gli dà del denaro perché l’affetto per il nipote prevale sull’irritazione dovuta alla sua scelta. Prima di allontanarsi Tancredi saluta con particolare affetto sua cugina Concetta (Lucilla Morlacchi) che si commuove perché è innamorata di lui e pensa di essere corrisposta. Alla fine della sequenza tutti i Salina lo guardano partire e lo salutano dalla grande terrazza della villa. Visconti contrappone i due personaggi in tutto il film: i due infatti osservano il mondo con occhi diversi, l’uno, perso nell’osservazione delle stelle, ha uno sguardo lungo che gli fa presagire il futuro e la sua stessa morte, l’altro ha lo sguardo corto, temporaneamente impedito da una ferita all’occhio, che gli permette di restare vivo e fortemente ancorato alla realtà del presente. Secondo Antonio Costa4, sicuramente Visconti è molto fedele al romanzo quando il lavoro di sceneggiatura trasferisce interi passi della narrazione in dialoghi o monologhi del Principe, ma lo è ancora di più quando riesce a trasformare oggetti, paesaggi, gesti, in scenografia, cogliendo in uno sguardo d’insieme il senso della narrazione e trasformando la dimensione polisemica del linguaggio narrativo in scenografia, citazione pittorica e musicale. Segue la scena del Principe nel suo osservatorio astronomico a colloquio con padre Pirrone: il padre gli chiede di confessarsi, ma Don Fabrizio gli risponde con amarezza che non ne sente il bisogno perché tutto sommato è un uomo integro moralmente che, pur avendo avuto ben sette figli dalla moglie (interpretata mirabilmente da Rina Morelli), non ha mai avuto modo di vederle l’ombelico e i loro incontri sessuali sono sempre stati accompagnati da Ave Maria e Pater Noster, nonché da numerosi segni della croce. Padre Pirrone sposta il discorso sul cambiamento in atto in Sicilia: i signori si stanno mettendo d’accordo con i liberali a spese della Chiesa. Don Fabrizio risponde: “Siamo solo esseri umani in un mondo in piena trasformazione” e sottolinea che, mentre la Chiesa è destinata a durare in eterno e può superare una parentesi storica negativa, per gli uomini tutto è più relativo, l’aristocrazia è nella sua fase storica finale e se un accomodamento con la nuova classe sociale può darle ancora qualche respiro, ben venga. Poi, dall’alto dell’osservatorio,

ammira il panorama di Palermo, lasciandosi prendere dalla malia della sua bellezza. Una delle più evidenti integrazioni visive del film rispetto al romanzo è la battaglia di Palermo, per la quale il regista si è affidato, da un punto di vista figurativo, ai quadri delle battaglie risorgimentali dipinti da Giovanni Fattori: la battaglia avviene tra le strade di Palermo dove sono state erette delle barricate, tra le truppe borboniche e i garibaldini in camicia rossa che sventolano il tricolore. Alcuni popolani che si sono ribellati aggregandosi ai garibaldini vengono fucilati e la gente inferocita se la prende con il soldato borbonico che ha sparato sulla folla uccidendo una ragazzina. Tancredi guida un gruppo di picciotti siciliani che, dopo essersi battuti con grande valore e sprezzo del pericolo, si uniscono ai garibaldini e fanno cedere l’altissima barricata, al grido di “Viva l’Italia! Viva Garibaldi!”. Gli abitanti di Palermo, che finora sono rimasti chiusi nelle loro abitazioni, scendono in strada per unirsi ai garibaldini. Una dissolvenza incrociata ci trasporta dalle barricate di Palermo alla polvere e al caldo della Sicilia più profonda e selvaggia. Lungo paesaggi aridi e ondulati si snoda la “carovana” dei Salina, in mezzo al giallo dei campi e all’azzurro del cielo; in carrozza il Principe, rivolgendosi a padre Pirrone sfiancato dal caldo e dalla polvere, chiede, con la sua solita vena ironica, se questi gloriosi nuovi tempi porteranno anche delle strade più percorribili in Sicilia. La carrozze vengono bloccate dai garibaldini, ma Tancredi, con un occhio bendato per una ferita, mostra un lasciapassare e, con grande autorevolezza mista ad arroganza, fa aprire il blocco, presentandosi come capitano che ha conquistato i suoi gradi sul campo di battaglia. Nell’osteria dove si fermano per passare la notte, padre Pirrone si intrattiene con gli altri avventori a parlare dei tempi nuovi e in particolare degli aristocratici e del principe di Salina. L’episodio non c’è nel romanzo durante il viaggio per Donnafugata, ma Visconti utilizza la discussione avuta dal gesuita con don Pietrino l’erbuario durante le sue vacanze nel paese natio, a San Cono. Padre Pirrone sostiene che gli aristocratici sono diversi dalle persone normali e che per loro hanno valore cose come la tradizione, il casato che non hanno nessun senso per la gente comune. Essi vivono “in un universo particolare che è stato creato non direttamente da Dio, ma da loro stessi” e, a proposito dei tempi nuovi, il padre riferisce agli astanti che il Principe di Salina ritiene che non ci sia stata nessuna rivoluzione e che tutto continuerà come prima. Intanto nel casolare tutti i Salina riposano alloggiati nello stesso stanzone, in letti di

ferro battuto. Va sottolineato che, mentre per i paesaggi della prima parte del viaggio a Donnafugata Visconti si ispira ai pittori paesaggistici siciliani dell’Ottocento, nella seconda parte è chiaro l’omaggio del regista al maestro francese Jean Renoir e al suo film Une partie de campagne del 1936, alla cui realizzazione contribuì lo stesso Luchino Visconti, come giovane assistente di Renoir.5 La macchina da presa infatti riprende una colazione all’aperto: Concetta e Tancredi, dopo essersi rinfrescati al fontanile, raggiungono gli altri per la colazione che si svolge sull’erba secca dell’estate sulla quale è stata stesa una tovaglia; mentre mangiano, il Principe ricorda l’arrivo a villa Salina del generale garibaldino che voleva ammirare gli affreschi della villa e che diede al Principe dell’Eccellenza, nonostante il divieto di Garibaldi. Prima dell’arrivo a Donnafugata e della comparsa di Angelica, vediamo i due cugini molto vicini, in particolare Tancredi colma Concetta di premure e di gentilezze e la ragazza sempre più si convince che presto il cugino chiederà la sua mano al padre. Anche sul personaggio di Concetta Visconti ha apportato una notevole trasformazione rispetto al romanzo: nel libro è infatti descritta con i capelli biondi e gli occhi azzurri, capace di perpetuare “nel carattere e nella bellezza” una vera Salina. È certo difficile riconoscerla nella fisionomia dell’attrice scelta da Visconti, Lucilla Morlacchi, sicuramente meno giovane di come la descrive Lampedusa, con gli occhi scuri e con i capelli castano-ramati piuttosto anonimi, inadatti a creare visivamente il contrasto con la formosa, “nigerrima” e incantevole Angelica. Anche il carattere è diverso: orgogliosa e non sempre sottomessa nel romanzo, insipida, virtuosa, quasi bruttina nel film. Finalmente l’arrivo a Donnafugata: il paese è addobbato a festa come per la festività del Santo Patrono, con coperte damascate appese ai vari balconi. I Salina vengono accolti dallo strepito della banda musicale, dal vociare dei ragazzini e dai notabili del paese tra cui spiccano il sindaco Sedàra, con la sua nuova fascia tricolore, don Onofrio, l’amministratore e don Ciccio Tumeo, organista nonché compagno di caccia del Principe, con la sua cagna Teresina. Dopo uno scambio di elogi tra il sindaco Sedàra e Tancredi per l’impegno politico e per i fatti d’arme di Palermo, don Onofrio dà ufficialmente il benvenuto ai Salina, affermando solennemente che riconsegnerà loro il palazzo nelle stesse condizioni in cui è stato lasciato. Poi il Principe dà il braccio alla moglie Maria Stella e dietro di loro si avviano in corteo verso la chiesa Madre,

Concetta al braccio di Tancredi e a seguire tutti gli altri. Il corteo entra in chiesa accompagnato dal suono delle campane, dal rumore dei mortaretti che vengono sparati, nonché dall’organo della chiesa suonato da don Ciccio (l’aria è Amami Alfredo di Verdi). Il Te Deum viene celebrato con grande pompa nella chiesa gremita: nulla sembra essere cambiato rispetto agli anni precedenti. Visconti si sofferma però ad inquadrare con sguardo impietoso i nobili seduti sui loro scranni di legno che li separano dalla gente comune, dal popolino: così impolverati, imbiancati, i Salina sembrano già essere fuori dal tempo e dalla storia; sembrano vecchi dagherrotipi sfocati di avi lontani. Sicuramente sono ancora vivi, ma in quale universo? Non certo quello al quale sono abituati da secoli, perché il loro mondo sta cambiando. La sera dell’arrivo a Donnafugata, i Salina offrono una cena ai maggiorenti della città e alle loro mogli; Sedàra annuncia l’arrivo della figlia Angelica al posto della moglie indisposta. Mentre il Principe si prepara per la serata facendo un bagno, gli viene annunciato padre Pirrone che deve urgentemente parlargli: il gesuita entra mentre il Principe sta uscendo nudo dalla vasca, tutto gocciolante. Di fronte al suo scrupolo, Don Fabrizio gli chiede l’accappatoio commentando che, essendo abituato alla nudità delle anime, non si deve preoccupare della nudità dei corpi che è molto più innocente. La notizia urgente che il padre porta è che Concetta è innamorata di Tancredi e pensa di essere ricambiata, anche se proposte concrete non le sono state ancora fatte. Don Fabrizio si irrita molto per le parole del sacerdote perché non riesce ad immaginare la figlia timida, passivamente virtuosa, vicino al nipote Tancredi che è molto ambizioso e ha bisogno di una donna forte che gli porti una dote considerevole. Poi, con la solita ironia, suggerisce al gesuita di farsi un bagno anche lui ogni tanto. Siamo alla scena della cena in casa Salina, a Donnafugata: viene annunciato, come un evento straordinario, da Francesco Paolo l’arrivo di Don Calogero in frac (interpretato da un indimenticabile Paolo Stoppa), arrivo che sconvolge il Principe più che la notizia dello sbarco a Marsala dei garibaldini: “Don Calogero in cravattino bianco. Il primo segno di questa rivoluzione in atto!”. Dopo di lui fa il suo ingresso Angelica (Claudia Cardinale); la macchina da presa indugia su di lei, bellissima nel suo abito bianco, mentre raccoglie gli sguardi di ammirazione di tutti gli uomini presenti e in particolare di Tancredi e di Don Fabrizio. Concetta sbianca letteralmente nel vedere la nuova arrivata e nel notare che l’attenzione di Tancredi si concentra su di lei. Tutti si siedono

ad una tavola imbandita con grande lusso e sfoggio di argenteria: Tancredi è seduto tra la splendida Angelica e l’irritata cugina e cerca di barcamenarsi tra le due ma non senza difficoltà. Mentre viene servito un ricco timballo di maccheroni, Tancredi racconta con nonchalance le sue eroiche imprese di Palermo, galvanizzato dalla presenza di Angelica, soffermandosi su un episodio accaduto in un convento di clausura dove i garibaldini erano entrati con la forza e avevano scoperto un gruppo di monache terrorizzate che si erano rifugiate vicino all’altare con la paura di essere stuprate. I soldati presenti, tra i quali c’era Tancredi, le avevano rassicurate, dicendo che avrebbero aspettato le novizie. Angelica si diverte molto al racconto e afferma che le sarebbe piaciuto essere presente, al che Tancredi risponde che, se ci fosse stata lei, non avrebbero avuto bisogno di aspettare le novizie. La battuta di Tancredi, nella sua rozzezza militaresca, suscita il dispetto di Concetta e l’ilarità di Angelica che si abbandona ad una risata piena, gutturale, con un residuo di animalesca volgarità nel suo prolungarsi a dismisura. Segue la lunga sequenza relativa al Plebiscito: viene inquadrato un don Calogero molto agitato, anzi eccitatissimo, che organizza gli ambienti e le urne per le votazioni, fa attaccare i manifesti, mentre cerca di tenere buoni i contadini che, per censo, sono esclusi dal voto. I giovani di Donnafugata intonano “La bella Gigugin”, mentre un vento fastidioso e lercio alza polvere e cartacce. Anche il Principe e padre Pirrone si recano alle urne dove vengono accolti con grande deferenza; Don Calogero offre a tutti bicchierini di liquore dei tre colori della bandiera italiana, ma solo il Principe accetta di brindare, scegliendo però il liquore bianco. In questa occasione, come in altre, il personaggio viscontiano risulta diverso da quello del romanzo perché aderisce non con una forzata condiscendenza, ma con una partecipazione totale al Plebiscito, arrivando persino a brindare con Calogero Sedàra. Nel film la scena della proclamazione dei risultati del voto è molto più sottolineata, anche con tratti di comicità; il Principe è presente, assiste dal balcone del suo palazzo allo spettacolo e ride di gusto alla goffaggine del sindaco. Angelica lo saluta e Don Fabrizio risponde al saluto, come a sottolineare la nuova alleanza che sta nascendo tra il vecchio e nuovo potere. Al termine delle votazioni, infatti, don Calogero Sedàra annuncia i risultati del Plebiscito, nonostante la banda del paese lo ostacoli comicamente più volte, facendo sorridere il Principe, nel suo goffo tentativo di comunicazione. È il 22 ottobre 1860: su 515 elettori, hanno votato 512 con 512 Sì. Non risultano No.

Dopo l’acclamazione popolare, la serata si chiude con i fuochi di artificio. È un’alba livida quella che vede il Principe e don Ciccio Tumeo uscire per la caccia allontanandosi da Donnafugata: siamo ad un tratto nella Sicilia aspra e pietrosa dell’interno, apparentemente lontanissima dal paesino. Durante una pausa della caccia, mentre si riposano sotto un albero, il Principe chiede a Don Ciccio che cosa ne pensi dei risultati del plebiscito. Don Ciccio (l’attore Serge Reggiani), che fino ad allora era rimasto in silenzio, sbotta all’improvviso dicendo che lui non ha votato Sì, che lui è un galantuomo che non dimentica i benefici ricevuti dai Borbone: grazie a loro è riuscito a studiare e a diventare organista. Non sopporta il fatto che il suo Sì, come forse quello di molti altri, sia stato annullato, così come è stata negata e soffocata la volontà di molte altre persone. Mentre nel romanzo il dialogo tra i due è il momento più politicamente esplicito della visione politica di Lampedusa, espressa attraverso il monologo dell’organista a cui fanno da contrappunto le riflessioni interiori del Principe, nel film la situazione è ribaltata: le riflessioni e le perplessità del Principe vengono oscurate e il monologo di Tumeo-Reggiani dà la possibilità a Don Fabrizio di fornire la sua visione delle cose ben diversa da quella del romanzo in quanto il Plebiscito viene visto come il solo e urgente rimedio contro l’anarchia dilagante. Il Principe infatti cerca di calmare l’amico, affermando che il Plebiscito era necessario per evitare l’anarchia; chiede poi notizie di don Calogero e della sua famiglia e si sente rispondere che don Calogero è un uomo ricco, avaro, influente, dotato di grande intelligenza e furbizia. Si è dato molto da fare per preparare la situazione in Sicilia prima dello sbarco dei Mille e la sua carriera fulminea è in realtà appena cominciata: è l’uomo nuovo, adatto ai nuovi tempi, che diventerà presto ricchissimo, acquistando per poco i feudi dei nobili in difficoltà economiche. La moglie è una specie di fantasma, non la vede mai nessuno; lui una mattina, alzandosi molto presto, l’ha vista andare a messa e si è reso conto che è una donna bellissima, ma incolta, una specie di animale, e di lei, tra l’altro, Don Calogero è gelosissimo; è figlia di un mezzadro del Principe, chiamato “Peppe merda” per quanto sudicio e selvaggio era e che, guarda caso, dopo il matrimonio, fu ucciso a colpi di lupara. Nel film dunque Don Fabrizio viene rappresentato come un uomo di potere che, per conservare il vecchio sistema feudale, è disposto in modo machiavellico, a sostituire una monarchia con un’altra, cioè i Savoia al posto dei Borbone e che, pur di continuare a dominare su terre e genti, si rassegna ad

imparentarsi con la ricca borghesia liberale, sicuro che, con questi aggiustamenti, il potere vero resterà saldo nelle sue mani e in quelle della sua classe sociale. La scena poi si sposta nella camera da letto dei Principi. In veste da camera, seduto sul grande letto matrimoniale, il Principe legge una lettera di Tancredi alla Principessa nella quale Il nipote manifesta il suo amore per Angelica e prega Don Fabrizio di chiedere, per suo conto, la mano dell’amata a don Calogero Sedàra. La principessa ha una crisi isterica esplodendo in una serie di improperi contro il nipote che ha tradito la fiducia della famiglia e ha osato incaricare lo zio di chiedere la mano di quella sgualdrina di Angelica. Il principe cerca di calmare la moglie e di farla ragionare, ma con scarso successo. Poi, con falsa furia, si impone alla moglie che nel frattempo si è calmata sciogliendosi in singhiozzi, affermando, con voce grossa, di non volere strepiti nella sua camera e che della questione deciderà lui, da vero Gattopardo, anzi ha già deciso. Nuova sequenza di caccia: in una pausa il Principe parla con don Ciccio di Angelica, informandolo che chiederà la sua mano per conto del nipote; don Ciccio grida allo scandalo per questo matrimonio che segnerà la fine dei Salina e dei Falconeri, ma, così facendo, supera i limiti dei suoi rapporti con il Principe che infatti adirato gli risponde che questo matrimonio non sarà la fine di niente, ma semmai l’inizio di tutto. Segue la scena del colloquio tra il Principe e don Calogero Sedàra nel salone di villa Salina: un don Calogero eccitatissimo sostiene di sapere già tutto dell’amore tra Tancredi ed Angelica, mentre don Fabrizio, elegantissimo nella redingote viola, invita l’altro alla calma, ricordandogli di essere stato lui a farlo chiamare per comunicargli il contenuto della lettera del nipote Tancredi e la sua intenzione di chiedere la mano di Angelica. Don Calogero esita a rispondere, poi, parlando in modo molto concitato, dice che l’amore di Tancredi è sinceramente ricambiato da Angelica. A questo punto il principe si alza e solleva don Calogero dalla poltrona, stringendolo in un abbraccio e facendogli penzolare le corte gambe nel vuoto. Padre Pirrone, presente al colloquio, invoca la protezione divina sulle nozze di Tancredi ed Angelica, poi tutti si risiedono e cominciano a discutere della situazione: Don Fabrizio elenca le doti del nipote e sottolinea l’antica nobiltà della famiglia Falconeri, mentre Don Calogero espone con voce perentoria, concreta e massiccia, sprizzando una volgarità ignorante da tutti i pori, le

ricchezze che costituiranno la dote di Angelica. Per un attimo il principe si estranea dal contesto immaginando la scena della bellissima moglie di don Calogero, donna Bastiana, in chiesa, così come gli è stata raccontata da don Ciccio, poi ritorna alla realtà, giusto in tempo per ascoltare l’uscita araldica di Don Calogero che provoca in lui un riso subitamente represso. Serata autunnale di lettura a Donnafugata: fuori piove insistentemente, le finestre di villa Salina sono battute da sferzate rabbiose di pioggia che si mescolano al rumore dei tuoni. Al caldo, in salotto, la famiglia Salina è riunita davanti al camino; solo il principe è in piedi, con un libro aperto in mano, intento a leggere ad alta voce ai suoi familiari. All’improvviso il cameriere si precipita nel salotto annunciando l’arrivo di Tancredi; Concetta, colta di sorpresa, non riesce a frenare la sua emozione, salvo poi ritornare bruscamente alla realtà. Entra Tancredi con fare scanzonato ed allegro, avvertendo lo zio che è tutto bagnato, ma Don Fabrizio, commosso, lo stringe tra le braccia con impeto. Tancredi è sorridente, felice, abbraccia tutti i presenti, suscitando la gioia frenetica del cane Bendicò. Presenta poi i nuovi arrivati: si tratta del conte Cavriaghi (l’attore Mario Girotti) e del suo attendente, anch’essi inzuppati di pioggia. Solo ora il Principe si rende conto che i due giovani indossano delle divise piemontesi: quella dei lancieri Tancredi e Cavriaghi quella dei bersaglieri. Con ironia chiede come mai non portino più la camicia rossa dei garibaldini, al che il nipote risponde che ormai sono ufficiali dell’esercito di sua maestà, re d’Italia. Tancredi poi mostra con orgoglio l’anello di fidanzamento che ha comprato per Angelica con i soldi dello “zione”, mentre il conte Cavriaghi dona a Concetta i Canti dell’Aleardi con la dedica ”Sempre sorda”, ad indicare che lei non ascolta i suoi sospiri d’amore. All’improvviso la macchina da presa riprende Angelica che entra avvolta in un tabarro da contadina per ripararsi dalla pioggia: il corpo snello, gli occhi ansiosi che cercano solo Tancredi e lui è subito vicino a lei, l’abbraccia e la bacia sulla bocca con voluttà, poi le infila l’anello di fidanzamento. Sono entrambi presi dal loro amore e dalla loro passione. La scena si sposta poi negli appartamenti abbandonati del palazzo di Donnafugata: i due innamorati vagano per le stanze impolverate inseguiti dai richiami in francese di mademoiselle Dombreuil, richiami che rimangono inascoltati. Davanti ad un enorme quadro che rappresenta l’Assedio di

Antiochia, Tancredi e Angelica sono avvinghiati in un abbraccio, poi la fanciulla si allontana, quasi fugge, inseguita dall’amato in una specie di erotico gioco a nascondino. Ad un certo punto Angelica si scontra con il conte Cavriaghi ed entrambi vengono raggiunti da Tancredi. I tre ridono divertiti, contenti di essere sfuggiti al controllo dell’istitutrice. Cavriaghi esprime il desiderio di partire perché non si sente amato da Concetta che lui considera troppo bella e pura per lui: di fronte a lei si sente come un verme della terra. Tancredi cerca di consolarlo e gli consiglia di parlarle manifestandole i suoi sentimenti. Poi i due innamorati continuano la loro esplorazione, scoprendo nuove stanze, appartamenti in parte ammobiliati con quadri, salotti, letti, ma abbandonati e coperti di polvere, mentre tra di loro sale la tensione erotica. Angelica dà ragione a Concetta che, dopo aver amato lui, non può accontentarsi del conte, perché sarebbe come bere l’acqua dopo aver gustato il marsala. Arrivano in un ambiente particolare, con il pavimento in marmo bianco posto in leggera pendenza e declinante verso una canaletta; alle domande di Angelica, il giovane risponde che in quelle stanze probabilmente i suoi antenati si rifugiavano per commettere le loro piccole o grandi infrazioni alle regole, perché si annoiavano, costretti com’erano a matrimoni di convenienza, spesso tra consanguinei. Rivolto sempre ad Angelica, Tancredi dice: ”I miei antenati si sarebbero cavata la voglia di andare a letto con le Angeliche dei loro tempi, senza passare davanti al parroco, noncuranti delle loro doti, che del resto non esistevano. Oggi… è diverso… Oggi la mia sembra un’avventura audace e predatoria, ma diventerà una routine, tesoro… Una routine come quella che ha legato i Falconeri ai Salina, i Salina ai Ponteleone…”.6 C’è qualcosa di selvaggio e di rapace che accomuna i due giovani, oltre alla passione amorosa: sono entrambi belli, sani, con una grande voglia di affermarsi nella vita senza porsi troppi scrupoli morali e senza perdersi in inutili riflessioni. La scena si sposta nella piazza di Donnafugata dove Francesco Paolo si è recato ad accogliere l’ospite preannunciato che è arrivato con la corriera: si tratta del cavaliere Aymone Chevalley, piuttosto incerto e a disagio in mezzo ai contadini che hanno viaggiato con lui. Mentre l’ospite arriva a palazzo Salina, Angelica e Tancredi, nel loro

girovagare, entrano in una stanza da letto ammobiliata con due letti gemelli: la giovane viene distesa su uno dei due letti e Tancredi si china su di lei fino ad aderire completamente al suo corpo e la bacia con passione. Mai i due erano arrivati così vicini al baratro della passione che supera ogni freno razionale e morale; eppure, con uno sforzo immane, Tancredi, con voce resa roca dall’eccitazione, riesce a trattenersi, poi è il campanone della chiesa vicina a porre fine a questo magico ed erotico momento. La sera, in uno dei saloni della villa, Il Principe, Chevalley, Tancredi e Cavriaghi giocano a carte, anche se il cavaliere vorrebbe avere subito il colloquio con il Principe; si riconforta comunque sia per la gentilezza del Principe che per la presenza del milanese Cavriaghi. Mentre giocano, Tancredi, spalleggiato da Padre Pirrone si diverte a spaventarlo raccontandogli storie truculente realmente avvenute a Donnafugata, fino a quando il poveretto cerca di salvarsi dal terrore, sforzandosi di credere ad una burla degli altri nei suoi confronti. Arriviamo così ad un momento molto importante del film, cioè al colloquio tra Don Fabrizio e Chevalley, inviato del nuovo governo italiano, colloquio che si svolge nello studio del Principe. Chevalley espone i motivi che l’hanno portato a Donnafugata e cioè la proposta del nome del principe Fabrizio Salina come senatore del nuovo Regno d’Italia. Seduto davanti a lui, il principe di Salina non dà segni di vita, l’enorme mano poggiata sulla cupola di una riproduzione della Chiesa di San Pietro in alabastro. Si ode un raspare furioso alla porta ed un latrato; il cavaliere guarda il Principe che ha accennato ad alzarsi e va ad aprire a Bendicò, che finalmente entra nello studio, annusa i pantaloni dell’ospite e si mette a dormire sotto la finestra. Il principe infine parla e, pur dichiarandosi riconoscente al governo per aver pensato a lui, risponde di non poter accettare la proposta, perché appartiene ad una generazione disillusa a cavallo fra i vecchi tempi e i nuovi, trovandosi però a disagio in tutti e due. Suggerisce invece, al posto del suo nome, quello di Calogero Sedàra che, se manca di meriti accademici, ha sicuramente meriti pratici eccezionali. Chevalley, alla proposta del Principe, si mostra stupito e anche un po’ offeso, dichiarando che, se gli uomini onesti e di valore si ritirano, la strada rimarrà libera per gente senza scrupoli come i Sedàra. Il Principe, in preda ad una forte emozione, stringe la cupola di alabastro fino a spezzare la croce posta sulla sommità. Poi parla con tono commosso, dicendo che i siciliani sono vecchi, da venticinque secoli almeno portano il peso di

magnifiche civiltà tutte venute da fuori, ora sono stanchi di essere solo una colonia, si sentono svuotati. È il sonno quello che i siciliani vogliono ed essi odiano e odieranno quelli che cercano di svegliarli, anche se per portare loro i più bei regali. Chevalley, un po’ scandalizzato dalle parole del Principe, sostiene che non tutti i siciliani sono come lui li descrive e di conoscere dei siciliani emigrati a Torino che si sono dati molto da fare. Al che il Principe replica che ha parlato di siciliani, ma doveva parlare della Sicilia, dell’ambiente, del clima, del paesaggio siciliano che hanno un’influenza grandissima sul carattere della gente; forse alcuni siciliani, emigrati dall’isola, sono riusciti a cambiare, però questo deve avvenire quando sono molto giovani, altrimenti, superati i vent’anni, la crosta si è già formata. D’altronde, sostiene il Principe, i siciliani non vogliono cambiare, migliorare, perché credono di essere già perfetti così come sono, di essere degli dei. È da sottolineare, in questa sequenza, la grande interpretazione di Burt Lancaster che, entrato nel personaggio pian piano, ormai è diventato a tutti gli effetti il Principe di Salina e si esprime come lui si esprimerebbe. Come vediamo, del dialogo lampedusiano il film ha mantenuto le parti più suggestive e capaci di colpire l’immaginazione dello spettatore, ma ha eliminato quelle più politicamente e storicamente connotate. Infatti, mentre nel romanzo il Principe aderisce ma non partecipa al processo di unificazione dell’Italia perché troppe cose sono state fatte senza consultare la Sicilia e i siciliani, essendo stato quel processo una forma di annessione più che di unificazione (come, in un lapsus freudiano, aveva detto lo stesso inviato del governo piemontese), nel film invece il no di Don Fabrizio a Chevalley diventa solo un aristocratico rifiuto dettato da un senso di indifferente superiorità. In effetti Visconti tenta in tutti i modi di rendere credibile l’incredibile e cioè il no di un uomo di potere, messo in crisi dagli eventi, alla possibilità di essere inserito nuovamente nei ranghi di chi detiene il potere e ha quindi capacità decisionale in un momento critico come quello dell’unità d’Italia. L’indomani, all’alba, il Principe e don Ciccio Tumeo accompagnano Chevalley alla fermata della corriera; il cavaliere si guarda intorno e osserva lo spettacolo di grande miseria e degrado che lo circonda, poi si congeda dal Principe esprimendo la certezza che quello stato di cose non durerà e che la nuova amministrazione, agile, moderna ed efficiente cambierà tutto. Don Fabrizio risponde che invece tutto è destinato a durare, forse ancora un secolo

o due e dopo tutto sarà diverso ma peggiore “… noi fummo i Gattopardi, i Leoni; chi ci sostituirà saranno gli sciacalli e le pecore; e tutti quanti, gattopardi, leoni, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra”7. Da questo momento in poi il Don Fabrizio di Visconti e di Lampedusa si avvicinano perché entrambi si rendono conto che il compromesso favorito dal Principe tra la vecchia aristocrazia e la nuova e ricca borghesia liberale è destinato al fallimento: non è vero infatti che tutto resterà uguale, anzi tutto sarà diverso, ma peggiore. Durante l’ultima parte del film, l’azione si sposta di nuovo a Palermo, non più in casa Salina, ma nella lussuosa residenza di un’altra famiglia patrizia, i Ponteleone, dove, in occasione del gran ballo, ritroviamo intrecciati i destini dei personaggi principali della vicenda: giovani e vecchi, nobili e parvenus. Il ballo celebra la nuova coppia Angelica-Tancredi, che incarna insieme bellezza ed Eros, ma nello stesso tempo anche ambizione e calcolo. La famosissima sequenza del ballo occupa circa un terzo del film e si colloca in chiusura dell’opera, ponendo un suggello definitivo su quanto è stato detto e rappresentato sino a quel momento. La durata della sequenza assume un grande valore simbolico: si configura infatti come la rappresentazione di un cambiamento nel quale il potere della morente aristocrazia lascia il posto alla nuova borghesia che, nel frattempo, ha già cambiato idea sull’avventura garibaldina e ora guarda con diffidenza e sospetto ad ogni segnale rivoluzionario. Tancredi il trasformista invoca ordine e legalità per il nuovo regno e pensa che ogni rigurgito di disordine debba essere soffocato sul nascere. Stravolgendo, come abbiamo già detto, l’ordine e la struttura degli ultimi capitoli del romanzo, il regista arriva alla fine del suo percorso spettacolare, osservando, attraverso lo svolgimento del ballo, il tramonto di un’epoca. Tutta la sequenza del ballo, sospesa tra la notte e il nuovo giorno per un tempo apparentemente interminabile, fotografa gli ultimi bagliori di vitalità di uomini e ambienti, mentre un’intera epoca si dissolve.8 Scrive Rondolino9 nel suo saggio Luchino Visconti, che lo sguardo del regista, proprio del migliore Visconti, si posa sugli oggetti, sulle persone, sui costumi, sui gesti dei personaggi maggiori e minori, che sembrano confluire in un quadro di noia esistenziale e di sfacelo etico ed estetico. Davvero il ballo interminabile, nonostante l’apparente dispersione degli elementi drammatici e

narrativi, diventa la metafora di una classe sociale al tramonto. E veniamo alla sequenza del ballo: siamo nell’ingresso del palazzo Ponteleone dove i padroni di casa, il Principe e la Principessa Ponteleone, ricevono gli invitati. Arrivano i principi di Salina con Carolina, Concetta e Paolo e vengono immediatamente rassicurati che i loro ospiti, i Sedàra, non sono ancora arrivati. Il principe, superato un certo disappunto per l’accenno quasi accondiscendente fatto dai padroni di casa, scorge in un angolo del salone Tancredi che, in nero, sottile ed elegantissimo, tiene circolo con un gruppo di giovanotti che ridono alle sue battute. Subito Tancredi saluta gli zii e li rassicura sul frac di don Calogero che è stato confezionato questa volta da un buon sarto. Il padrone di casa presenta al Principe di Salina il colonnello Pallavicini, protagonista dei fatti di Aspromonte che si pavoneggia tra le dame. Improvvisamente il volto di Tancredi si illumina perché si avvede dell’arrivo di Angelica: la ragazza è splendida in un abito bianco che evidenzia il seno pieno, l’incarnato luminoso, gli occhi profondi e i setosi e folti capelli neri raccolti in due bande laterali che circondano il viso e si ricongiungono sulla nuca, ornati da una coroncina di piccoli fiori anch’essi bianchi. Don Calogero la segue in un frac dignitoso; i due giovani, dopo la presentazione di rito, si inoltrano nei saloni e, al loro passaggio, tutti gli occhi degli uomini si appuntano con grande ammirazione su Angelica. Alcuni giovani si avvicinano per prenotarsi per i balli successivi, ma sul suo carnet c’è solo il nome di Tancredi, che, visibilmente compiaciuto, prende la fidanzata per il braccio e la trascina nel salone da ballo. L’ambiente in cui si muovono i vari personaggi è sfarzoso, immenso, costituito da vari saloni tutti arredati con divani, tappeti, tavoli per il buffet, candelabri d’argento, il tutto illuminato dai grandiosi lampadari di cristallo. In un altro salone del palazzo, su un grande pouf centrale, sono riunite molte giovani aristocratiche, tutte basse, olivastre, bruttine e il Principe le osserva paragonandole ad una colonia di scimmie nella gabbia di uno zoo. Un po’ nauseato dal loro continuo, fastidioso ciangottio, si aspetta quasi di vederle appendersi ai lampadari per le code esibendo i loro deretani. Il Principe è sempre più malinconico e depresso, vorrebbe non essere mai venuto alla festa, desidererebbe stare da solo a riflettere in silenzio. Poi si sposta in un altro salone dove chiacchierano tra loro le signore più anziane tra le quali c’è la moglie e alcune delle sue amanti che nel tempo sono diventate vecchie e sciatte. Nel frattempo Angelica e Tancredi ballano sulle note di un valzer: sono

bellissimi e innamorati e offrono a tutti uno spettacolo indimenticabile. Nel salone dei rinfreschi, presso il primo buffet, i ballerini si affollano accaldati per prendere qualcosa da bere: il Principe, scoraggiato dall’assalto, si allontana, ma la sua attenzione viene richiamata da don Calogero che con cupidigia ammira l’oro dei cornicioni e degli stucchi del salone. Il Principe, divertito ma distante dalle valutazioni volgari del sindaco, conviene con lui che la sala è molto bella, ma quello che supera ogni cosa sono Angelica e Tancredi, i loro ragazzi, ammirati e invidiati da tutti. La scena si sposta nella biblioteca del palazzo Ponteleone: l’ambiente è piccolo, silenzioso e vuoto. Il Principe, stanco del ballo, chiude la porta alle sue spalle e si versa da bere; poi va a sedersi su una poltrona e si rilassa. Davanti a lui sulla parete c’è una buona copia della Morte del Giusto di Greuze, nella quale è rappresentata l’agonia di un vecchio nel suo letto di morte, circondato da nipoti e nipotine. Don Fabrizio è attirato dal quadro e lo osserva a lungo con malinconia, fino a quando la porta si apre alle sue spalle ed entrano Tancredi ed Angelica. Dei due solo il nipote si avvicina al Principe e gli chiede se sta corteggiando la morte, riferendosi al quadro che attira la sua attenzione. Il Principe confessa di stare effettivamente pensando alla sua morte e si chiede se sarà simile a quella rappresentata nel quadro, anche se sicuramente le lenzuola non saranno così impeccabili e le figlie spera più decentemente vestite delle giovani nipoti con le vesti discinte rappresentate nel quadro. Angelica, con fare malizioso, cerca di dissipare il clima funereo e chiede allo “zione” di ballare con lei la prossima mazurka. Don Fabrizio è contento di essere in qualche modo corteggiato dalla splendida Angelica che gli si avvicina e lo bacia suscitando la silenziosa gelosia di Tancredi; poi sorridendo accetta di ballare, ma non una mazurka, bensì un valzer. Il regista riesce ad evidenziare in modo geniale, con delle inquadrature ravvicinate, il gioco di sguardi che intercorrono tra Tancredi, Angelica e Don Fabrizio: geloso e sofferto quello di Tancredi, ammaliante e complice quello di Angelica, affascinato e rivitalizzato quello del Principe che all’improvviso si sente più giovane e per un po’ si illude di far parte in qualche modo di questa corrente d’amore e di Eros che si è stabilita tra il nipote e la giovane Angelica. Nel salone da ballo, appena si sentono le note di un valzer, Angelica ricorda al Principe il suo impegno: i due iniziano a ballare al centro della sala sotto lo sguardo sempre più geloso di Tancredi. Angelica guarda il suo cavaliere con un’espressione luminosa, ardita e

maliziosa al contempo, il principe ricambia con uno sguardo affettuoso. Durante il ballo Angelica ringrazia il Principe perché sa bene che se lui non avesse voluto, non si sarebbe realizzato il suo sogno d’amore con Tancredi, ma Don Fabrizio ribatte che è stato solo merito suo e della sua bellezza. Ringiovanito dalla vicinanza di Angelica e dalla sua aperta ammirazione, il Principe balla con grande delicatezza e abilità e, dopo aver ricevuto dalla sua dama i complimenti per essere un ottimo ballerino, si gonfia d’orgoglio e stringe un po’ di più la vita di Angelica che all’orecchio gli sussurra con fare complice e malizioso che tutti li stanno guardando. In effetti sono soli al centro del grande salone, tutte le altre coppie si sono ritirate e li stanno a guardare pieni di ammirazione. Mentre balla con Angelica, il Principe pensa a quello che gli ha detto l’amico di caccia don Ciccio, a proposito delle lenzuola di Angelica che devono avere l’odore del paradiso e, ritornato alla realtà, confessa ad Angelica che nessuno può resistere alla sua bellezza. Su di loro sono puntati anche gli sguardi di Concetta, altera ma sconfitta, e di Maria Stella, ostile e stizzita. Il ballo rappresenta per il Principe l’ultimo grande momento di vitalità e di gioia della sua vita, momento in cui sembrano rinascere i sensi sopiti, i desideri rimossi, la nostalgia per un amore che vive in modo riflesso nel nipote Tancredi. Dopo altri volteggi di una leggerezza e bellezza straordinari, il Principe si ferma davanti a Tancredi e gli riconsegna, con un leggero inchino del capo, la sua dama. Tancredi, sollevato, loda lo zio dicendogli che non gli hanno battuto le mani solo per la soggezione che il suo aspetto incute, altrimenti ci sarebbe stata una vera e propria ovazione. Vincenzo Esposito10 sottolinea come il principe di Salina, in un effimero risveglio dei sensi, sulle note di un valzer (l’inedito Valzer brillante di Giuseppe Verdi, trascritto e orchestrato per l’occasione da Nino Rota), balli con Angelica un’ultima “danza macabra”, come a voler porre un personalissimo suggello alle nozze del nipote con la ragazza borghese e al contempo lanciando una sfida al tempo che fugge. I passi di Don Fabrizio sono eleganti e in sincrono con la musica, ma fuori tempo rispetto alla storia: egli infatti danza proustianamente un valzer del tempo perduto, mentre la giovane donna balla un valzer del tempo ritrovato. I loro sguardi si incontrano nel fascino della danza, ma in realtà il Principe è ormai consapevole della sua solitudine e della prossimità della morte.

Il tempo del valzer viscontiano racchiude una profonda scissione e proprio in questa scissione risiede il dramma del Principe, coinvolto nei giri di danza che sembrano da una parte ringiovanirlo e risvegliare i suoi sensi, riportando alla luce il suo passato di grandezza, dall’altra proiettarlo nel suo futuro prossimo dove ad attenderlo ci sarà una ”morte giusta”, come quella ammirata nel quadro di Greuze, nel quale ha visto con sgomento la sua fine. Ritorniamo alla festa: in fondo alla sala c’è una lunghissima tavola illuminata da dodici candelabri sulla quale è in mostra un buffet ricchissimo, come si usava una volta nei grandi balli. Nei saloni e sulla grande terrazza sono stati sistemati i tavoli per la cena, arredati con grande cura ed eleganza. Il Principe, che ha lasciato da soli i due giovani innamorati, è confuso da tanta abbondanza, poi si decide, prende dei dolci e va in cerca di una sedia. Vicino al colonnello Pallavicini c’è un posto vuoto e Don Fabrizio, nonostante lo consideri un gran seccatore, si siede al suo tavolo. Il colonnello, con voce teatrale e roboante, sta ancora parlando dei fatti di Aspromonte e delle critiche che ha dovuto subire da sinistra per aver ordinato di far fuoco sul generale. Poi, quasi rivolgendosi direttamente al Principe, confessa che la sua sparatoria ha giovato soprattutto a Garibaldi, liberandolo di tutta quella marmaglia che gli si era attaccata addosso. Tanto è vero che, quando lui gli si era inginocchiato vicino, il generale gli aveva stretto la mano ringraziandolo. Il Principe ha uno scatto improvviso di insofferenza e, rivolgendosi al colonnello, gli dice che forse sta esagerando nel raccontare con tanta prosopopea l’episodio. Ma, senza farsi smontare, il colonnello continua imperterrito nella sua declamazione trionfalistica. Il Principe si alza in piedi con foga fingendo di voler posare il suo piatto, ma è perseguitato dalla voce del colonnello Pallavicini che, presa una coppa, la offre al Principe per brindare con lui; poi, con una voce più bassa e con un’espressione confidenziale, parla dei guai dell’Italia Unita che in realtà unita non è, anzi gli italiani non sono mai stati tanto disuniti. In Sicilia, in particolare, si stava preparando qualche insurrezione, ma per ora, grazie a lui e ai suoi uomini, non si parla più di camicie rosse, o di altro colore, anche se presto se ne riparlerà.(Qui notiamo la lucida cognizione dell’autore relativa al prosieguo della storia e alla nascita del fascismo dopo i governi liberali). La scena si sposta in un salotto appartato di casa Ponteleone: Angelica e Concetta, sedute una di fronte all’altra, parlano tra loro. Concetta è stanca e si lamenta del fatto che tre balli a settimana sono troppi e che non vede l’ora di tornare nella villa di San Lorenzo per riprendere la solita vita. Angelica invece,

eccitatissima, si aggiusta i capelli in disordine, si inumidisce le labbra naturalmente rosee e si meraviglia per le parole di Concetta; lei infatti è felice e vorrebbe che questo ballo non finisse più. Sente però per Concetta un trasporto affettuoso e vorrebbe vederla felice, per questo le consiglia di essere meno scostante e fredda come ha fatto invece con il povero Cavriaghi. Entra Tancredi che riferisce il discorso del colonnello Pallavicini, affermando di condividerlo, perché il nuovo Regno ha bisogno di ordine, di legalità e di leggi, e che ogni tentativo di insurrezione va soffocato con le armi, come ad esempio quello dei soldati che hanno abbandonato l’esercito per tornare con Garibaldi. Concetta, amareggiata dalle parole del cugino, gli dice che una volta non avrebbe parlato così, provocando una risposta dura da parte di Tancredi che la liquida dicendo che lei non può capire queste cose. Intanto il grande ballo prosegue e i ballerini, tenendosi per mano, invadono l’ambiente appartato in cui si trovano Concetta, Angelica e Tancredi e li assorbono nel lungo e sinuoso serpentone che attraversa i vari saloni. La scena si sposta in un ambiente adibito a toilette per signori: il Principe si sciacqua le mani e si passa dell’acqua sulla fronte; si guarda allo specchio e osserva a lungo la sua immagine che è quella di un uomo fiero ma sconfortato, stanco, che non ha più nessuna illusione. Per la prima volta i suoi occhi sono lucidi di lacrime: è un momento di riflessione e nel contempo di profondo sgomento, perché davanti ai suoi occhi è balenata l’immagine della sua morte imminente e nonostante tutta la sua ironia che spesso lo aiuta interponendo una distanza tra il suo Io e la realtà, deve accettare quello che per tutti gli uomini è inaccettabile, sia razionalmente che a livello inconscio, cioè la consapevolezza della propria fine. In una stanza attigua scopre con disgusto una serie di pitali colmi fino all’orlo che rilasciano un certo fetore. È l’odore del disfacimento, della morte, che invade l’ambiente e impregna le narici del Principe, che osserva disincantato lo sfiorire, lento e graduale, delle persone e delle cose. Questo nuovo Don Fabrizio non è più, come vediamo, il superuomo circondato da mediocri, ma un estraneo tra persone simili a lui che però non sono consapevoli di essere ormai al tramonto. Nel film infatti il senso di morte che assale il principe di Salina è solo suo; intorno a lui gli altri si muovono e danzano pieni di gioiosa vitalità e pronti ad andare incontro al futuro positivo che la scampata rivoluzione garibaldina e l’intervento dell’esercito sabaudo hanno assicurato loro. La festa intanto sta arrivando al suo epilogo: la sala del buffet è trasformata,

tutto è in disordine e sporco, le candele dei lampadari sono ridotte a corti mozziconi che emanano un fumo funereo. I saloni si sono quasi svuotati: solo poche coppie ostinate continuano a ballare, in mezzo a carte che si sollevano dal pavimento non più splendente e lucido come all’inizio della serata. La luce livida dell’alba si insinua attraverso le imposte delle finestre, i servitori assonnati faticano a stare in piedi e gli ospiti incominciano a congedarsi dai padroni di casa. Don Calogero dorme seduto su una poltrona, mentre Tancredi cerca affannosamente lo zio attraverso i saloni. Gli invitati sono affaticati, con gli abiti sgualciti, i capelli in disordine, le voci stanche, ma tuttavia si congratulano con i Principi Ponteleone per la festa meravigliosa, veramente riuscitissima. Anche il colonnello Pallavicini, insieme ai suoi uomini è pronto per il baciamano alla padrona di casa; dichiara, con il solito tono fanfaronesco che loro non andranno a dormire, ma si recheranno direttamente in caserma. Tancredi finalmente vede lo zio che si sta preparando per andar via e gli si avvicina, ringraziandolo per la serata magnifica; il principe però gli chiede di fargli un piacere, di occuparsi lui di chiamare una carrozza per la zia e le cugine, perché ha voglia di ritornare a piedi. Tancredi si preoccupa per la sua salute, osservando l’espressione insolita dello zio, ma viene prontamente rassicurato. Gli confessa poi che, durante la serata, gli è stata fatta la proposta di essere candidato alle prossime elezioni, ma lo zio lo precede nella conclusione della frase, suscitando la sorpresa del nipote: tutto sta andando infatti secondo un copione già scritto. Il Principe saluta appena i suoi familiari ed elegantissimo, con il cilindro e la sciarpa bianca, anche se moralmente estenuato, esce a piedi da palazzo Ponteleone. Appena fuori dal palazzo, le strade di Palermo con la loro realtà di vita quotidiana, seppur infima, accolgono Don Fabrizio: passano carri con cumuli di immondizie e un barroccio scoperto che porta i quarti dei buoi appena macellati che colano sangue sul selciato. All’angolo della strada compare un prete che, accompagnato da due chierichetti, si appresta a portare l’estrema unzione in un povero tugurio. Il prete con il suo corteo annunciato da uno scampanellio, passa davanti al Principe che si inginocchia sul marciapiede; poi, dopo che il prete è entrato nella casa dalla quale si sentono provenire singhiozzi strazianti, si rialza lentamente, mentre suonano le campane a morto. Dopo aver visto tanto dolore e squallore, rivolge finalmente gli occhi al cielo e sorride, consolandosi,

vedendo Venere che brilla avvolta nei vapori autunnali. Le si rivolge accorato chiedendole quando si deciderà a dargli un appuntamento meno effimero. Intanto una scarica di fucileria rompe il silenzio dell’alba: viene udita dal Principe e nella carrozza di Tancredi dove Angelica sussulta ma viene subito tranquillizzata, mentre don Calogero emette solo un grugnito e poi riprende a dormire. Il Principe volge il capo verso la direzione da cui sono provenuti gli spari, rimane per un attimo pensoso, poi riprende a camminare lentamente verso il mare. Scrive Silvia Acocella11 che duplice è la forza di attrazione che agisce sulla tendenza contemplativa del Principe, portando i suoi occhi a fissarsi sia verso il basso che, in eguale misura, verso l’alto: ciò che è guasto e morente ha infatti per lui potere di seduzione pari a ciò che è immortale e incorruttibile. Lo sguardo azzurro del Principe risente, dunque, oltre che di quella comune e terrestre, anche di un’opposta attrazione celeste, rifugiandosi egli spesso nella contemplazione del cosmo e della bellezza intatta e perfetta degli astri. A Venere, che, come tutte le stelle rispetta gli appuntamenti, per la sua fedeltà nell’attendere Don Fabrizio nelle sue uscite mattutine, ultima luce notturna sulla soglia del giorno, spetta la certezza di un appuntamento meno effimero. Gli astri infatti, che rigano l’etere con le loro traiettorie esatte, che rispettano appuntamenti e calcoli matematici, sono per il Principe il contrappunto alla caducità degli uomini e soprattutto a quel periodo della Storia che sembra aver subito un’improvvisa e irritante accelerazione. In tutta la lunga sequenza del ballo e nel suo epilogo, sostiene Maria PagliaraGiacovazzo12, il Principe, spogliato di tutti gli altri attributi, appare nella nudità del suo essere, accomunato a tutti gli altri uomini nel ricorrente e inamovibile destino dell’universale infelicità. Tale infelicità accomuna, sia pure limitatamente all’attimo fuggente, il destino del Gattopardo a quello degli altri esseri inferiori, riproponendo con forza l’idea dell’impossibilità di azione da parte dell’uomo. Questa idea si lega come un cordone ombelicale all’altra considerazione ricorrente dello sfiorire delle cose, dell’appassire della grazia e della bellezza sullo sfondo dell’immagine ossessiva della morte onnipresente, evocata continuamente non solo dall’elemento umano, ma anche dallo sfondo su cui si muovono i personaggi e dalle stesse cose e oggetti rappresentati nella loro ambivalente caratteristica di dorata opulenza e di fasto appariscente,

eppure, alla fine del ballo, deteriorati e logori a tal punto che sembrano essere lì per indicare una fine imminente. Sostiene Enrico Carini13 che il cinema ha un linguaggio suo proprio e dei tempi di fruizione diversi da quelli dell’opera scritta e ciò impone al regista delle scelte. Visconti infatti riprende il lungo discorso di Don Fabrizio con Chevalley e indugia nella descrizione del ballo, che occupa circa un terzo del film, ma, con il ballo, il film si conclude. D’altronde il regista è convinto che un’opera cinematografica, rispetto a quella letteraria, deve avere una sua originalità espressiva non solo per quanto riguarda l’uso delle immagini. Non mancano nel film citazioni di sapore addirittura filologico, come avviene per la cupola di San Pietro in alabastro posta sulla scrivania del Principe, ma ciò che veramente distingue il film dal libro è l’angolatura secondo la quale il regista considera le vicende: il punto di vista storico viene spostato in avanti suggerendo un Tancredi che potrebbe avere una svolta reazionaria e dire di sì alle repressioni del’96 e allo stesso fascismo. Il rapporto tra elemento esistenziale ed elemento storico muta, determinando l’inserzione nel film di episodi quali la rappresentazione diretta degli scontri di Palermo che nel romanzo sono soltanto riferiti; ma soprattutto muta la dinamica che lega reciprocamente i personaggi: la figura di Tancredi, che nel romanzo perde gradualmente di rilievo con l’emergere del disinganno, nell’ultima parte del film invece tende a sostituirsi al Principe, fornendo spiegazioni, ovviamente reazionarie, degli avvenimenti, in conformità dell’assunto del regista, mentre alla fine rassicura con un gesto Angelica quando ode la scarica di fucileria dell’esecuzione di quegli ufficiali dell’esercito regolare che avevano seguito Garibaldi in Aspromonte, particolare anche questo assente nel libro. Scrive Philiep Bossier14 che di solito al cinema di Luchino Visconti vengono attribuite caratteristiche e qualifiche come “barocco” e “decadente”; sarebbe Visconti un regista che crea immagini in cui fissità e lentezza caratterizzano un mondo magnifico ma immobile. Lo spettatore si trova così immerso in un ambiente in cui la bellezza delle immagini finisce per nascondere il vuoto della classe aristocratica al momento del tramonto. Tuttavia uno dei perni dell’estetica cinematografica di Visconti è l’asse individuo/storia rappresentato in un determinato momento di crisi, di cambiamento o di evoluzione. Per il cinema di Visconti, Il Gattopardo rappresenta un momento importante, dato che il film prende come base del suo intervento estetico il romanzo

di  Lampedusa, meditazione quasi fuori dal tempo relativa all’impatto del cambiamento politico-sociale su un ambiente cristallizzato e ancora medioevale e su un aristocratico in crisi profonda e in attesa della morte. È sufficiente leggere le interviste del regista per sapere che, con l’adattamento allo schermo del romanzo di Lampedusa, Visconti si proponeva almeno due cose: l’apertura del romanzo ad una prospettiva più ampia, diciamo pure collettiva e la realizzazione di ciò attraverso un’estetica dell’immagine. Ma, se si considera il modo in cui il film funziona e come si integra nell’estetica del regista, ci rendiamo conto che innanzi tutto il film realizza un sistema visivo in cui la presa di coscienza individuale (quella di Don Fabrizio e poi eventualmente quella di Tancredi), viene confrontata con quella della società in rivolta e in pieno cambiamento. L’aspetto collettivo dunque risulta meno importante, quasi secondario. Vista poi la preferenza di Visconti per gli interni, la scenografia e gli specchi, utilizzati non solo ne Il Gattopardo, ma in molti altri film come Senso e Ludwig, diversi critici hanno voluto avvicinare il cinema di Visconti ad un’estetica del tutto imperniata sul segno teatrale, o addirittura melodrammatico. In effetti il regista si caratterizza per un rispetto estremo per l’ambiente originale e per l’autenticità della realtà, quasi letteralmente ricostruita dai modelli attraverso le inquadrature, e il taglio teatrale si riconosce facilmente dato che gli spazi interni hanno la tendenza a diventare scene, aperte al solo sguardo dello spettatore. Verso la fine del film, scrive ancora Bossier, dopo la scena centrale del ballo, il Principe si dirige verso la biblioteca dove, quasi all’improvviso, ritrova la sua situazione mentale ed emozionale nel quadro La Morte del Giusto di Greuze. A poco a poco il Principe comincia a guardare il quadro come un vero e proprio specchio capace di anticipare il resto della sua vita: il quadro infatti registra letteralmente l’immagine del vecchio Gattopardo in un momento di riflessione e di crisi, come se fosse un filtro della coscienza del Principe e nel contempo acquista un valore speculare, anticipando la morte stessa del protagonista. In effetti è come se il Gattopardo scoprisse la morte dentro se stesso, morte che pian piano prenderà la sua ultima forma. Determinante nel film Il Gattopardo fu la collaborazione di Visconti con Nino Rota che è autore della colonna sonora, tratta dalla sua Sinfonia sopra una canzone d’amore, composta nel 1947. Il musicista milanese, che ha legato il suo nome a tante colonne sonore storiche del cinema italiano, arricchisce, con la sua partitura, i colori di una paesaggio che gli occhi del protagonista guardano con

amore e struggente malinconia. I temi lirici, che, fin dall’inizio del film, immettono in un’atmosfera ottocentesca e romantica, inseriti sulle immagini di un mondo aristocratico in decadenza, appaiono in sintonia con la lettura effettuata dal regista. Nella musica di Rota, scrive Marina Mayrhofer15, si coglie quel tono dolente che Visconti evoca attraverso suggestioni visive che rimandano a Manet16, ai macchiaioli toscani17, ad Hayez18, ma che è lo stesso tono dolente con cui gli occhi del Principe di Salina osservano gli eventi in corso, lo sbarco dei garibaldini, il plebiscito, i fatti di Aspromonte, la Storia che va avanti, segnale inequivocabile di come tutto cambi perché in effetti nulla cambi. La risposta di Tancredi allo zio, forse più di ogni altra battuta del film, traduce in poche parole il disincanto di una classe di fronte ad un fenomeno che è ormai avviato verso la tanto auspicata Unità, in un paese le cui lacerazioni interne appaiono, nonostante tutti i cambiamenti, insanabili. Visconti è consapevole di riprodurre un mondo perfetto, quello del testo letterario di Lampedusa, che è tale perché è capace di evocare emozioni sonore, visive e tattili. Nel film si percepisce un sentimento di italianità tipico di un melodramma, anche se tale sentimento è estraneo sia al protagonista che all’autore del romanzo, ma in effetti la tecnica narrativa, che assegna alla musica un ruolo particolarmente rilevante, induce a pensare ai tratti stilistici tipici del genere melodrammatico. Sono presenti temi principali che riflettono significati esistenziali di valore assoluto nei quali il regista si riconosce; i temi secondari invece contribuiscono a sottolineare particolari di una realtà che si manifesta negli istanti inarrestabili del tempo che passa. Troviamo citazioni da brani d’opera o anche da canzoni popolari (come La bella Gigugin); all’arrivo del Principe a Donnafugata, viene intonato dalla banda il coro “Noi siam le zingarelle” tratto dalla Traviata di Verdi, mentre “Amami Alfredo” viene eseguito all’organo della cattedrale, come se fosse un brano di musica sacra da aggiungere al “Te Deum”. Nel salotto di villa Salina invece, in una cornice raffinata e lussuosa, il generale garibaldino presentato da Tancredi allo zio, canta, accompagnato al pianoforte, “l’aria di Rodolfo” da La Sonnambula di Bellini. Sempre in un ambiente aristocratico, alla grande festa dei Principi Ponteleone, l’orchestra suona mazurke, polke, contraddanze e infine il valzer inedito di Verdi, ormai diventato famoso, che Don Fabrizio, dopo qualche esitazione, accetta di danzare con Angelica. La melodia e il ritmo della musica suonano come metafore del tempo che fugge e travolge tutto, in un

volteggiare pieno di eccitazione, un modo per tentare di sconfiggere o almeno di allontanare i presentimenti di morte che avevano invaso l’anima del Principe. Visconti, nello scegliere, per la scena più importante del film, una musica inedita di Verdi, è consapevole di condurre l’attenzione dello spettatore verso un’epoca determinata, ma nello stesso tempo è consapevole che quelle stesse note hanno il potere di trascendere le immagini che scorrono davanti ai nostri occhi. Il tema del valzer di Verdi diventa così il tema conduttore del Gattopardo, simbolo di un dramma sia individuale che collettivo, dramma del singolo, il Principe di Salina, e dramma di un’intera generazione che partecipò alla formazione dell’unità italiana. E pensare che l’autore del romanzo non amava il melodramma, anzi espresse una severa condanna di quell’arte che fu di Rossini, Bellini, Donizetti e Verdi. Oltre alla Palma d’Oro, nel 1963 Il Gattopardo di Luchino Visconti ottiene tre Nastri d’argento (alla fotografia di Rotunno, alle scenografie di Garbuglia e ai costumi di Tosi), un David di Donatello (al produttore Lombardo), una menzione speciale Fipresci e il premio dei critici messicani al festival di Acapulco. Ma il riconoscimento più grande arriva dal pubblico: il nuovo film di Visconti infatti riesce ad ottenere un grande successo di cassetta, arrivando così alle grandi masse. È come se si riproponesse, anche se in ambito diverso, il trionfo ottenuto dal romanzo. L’edizione restaurata del Gattopardo, quella festeggiata nei più prestigiosi festival internazionali e distribuita in dvd, non è però la stessa che venne proiettata al Cinema Barberini il 27 marzo del 1963. Rispetto alla versione integrale, all’edizione oggi disponibile mancano circa dieci minuti di film. Si tratta di tagli ufficiali, targati Titanus e approvati dallo stesso regista, probabilmente effettuati per alleggerire e rendere più fruibile il film. Malgrado la Palma D’oro però Il Gattopardo entra nella storia del cinema senza clamori: all’estero le recensioni sono in genere positive, ma qualche perplessità ideologica oltre a quelle relative ad un eccesso di formalismo, affiorano nella critica straniera. Tuttavia, nella carriera del regista, Il Gattopardo rimane un film spartiacque, per alcuni massima espressione di una strabiliante maestria, per altri l’inizio di una rovinosa discesa verso il decadentismo, comunque per tutti opera fondamentale, specchio autobiografico del regista, pellicola-cult con cui Visconti sarà per sempre identificato.

1 A. Anile, M. G. Giannice, Op. cit., p. 275. 2 Extradiegesi: tutto ciò che è al di fuori dell’universo narrativo del film. 3 M. Grande, L’ultimo Visconti. Le immagini della storia, In “Bianco e Nero” 9,12. 1976, p. 42. 4 A. Costa, Immagine di un’immagine. Cinema e letteratura, Utet, Torino, 1993, p. 126. 5 V. Esposito, Op. cit. p. 84. 6 Suso Cecchi d’Amico, Il film Il Gattopardo e la regia di Luchino Visconti, Dal soggetto al film,

La sceneggiatura, Op. cit. p. 112. 7 S. Cecchi d’Amico, Il film IL Gattopardo e la regia di Luchino Visconti, La sceneggiatura, Op. cit. p. 124. 8 V. Esposito, Lo spettacolo della decadenza: Il Gattopardo di Visconti, in Meridiana, Rivista di Storia e Scienze sociali, N° 69, Viella, Roma p. 87. 9 G. Rondolino, Luchino Visconti, Utet, Torino 2006, p. 436 10 V. Esposito, Lo spettacolo della decadenza, in Meridiana, Rivista di Storia e Scienze sociali, op. cit. p. 89. 11 S. Acocella, Il falso movimento della storia, In Meridiana, Rivista di storia e Scienze sociali, n° 69, Op. cit., pp. 108-109. 12 M. Pagliara-Giacovazzo, Op. cit., pp. 124-125. 13 E. Carini, Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Il Gattopardo, Loescher Editore, Torino 1991, pp. 104-105. 14 P. Bossier, Un’estetica dell’oggetto e la storia: Il Gattopardo di Luchino Visconti, in Il Gattopardo, Atti del Convegno Internazionale dell’università di Lovanio, Op. cit. pp. 121-129. 15 M. Mayrhofer, Melodramma e tempi musicali in Senso e Il Gattopardo, in “Meridiana”, Rivista di Storia e Scienze sociali, Op. cit. pp. 91-101. 16 Eduard Manet, maestro dell’Impressionismo francese (1832-1883). 17 Movimento dei Macchiaioli, pittori della scuola toscana di fine ‘800 e inizi ‘900, tra i quali emerge Giovanni Fattori. 18 Francesco Hayez (1791-1882), pittore italiano, massimo esponente del romanticismo pittorico.

Burt Lancaster è il principe di Salina

Delon nei panni di Tancredi Falconeri

La splendida Claudia Cardinale nel ruolo di Angelica

Alain Delon e Claudia Cardinale

Il principe osserva il dipinto La morte del giusto

L'indimenticabile scena del ballo a casa Ponteleone

Lancaster in una delle ultime scene del film

APPENDICE

Il Gattopardo rappresentò per l’autore, Tomasi di Lampedusa, un punto fondamentale nella sua vita, Il prodotto di un’intera esistenza, che tra l’altro dopo poco si concluse, convinto com’era che il suo romanzo era destinato a restare, non solo per le sue intrinseche qualità letterarie, quanto per la particolarità della tecnica narrativa condotta sul doppio binario dell’ora e dell’allora. Infatti l’identificazione dello scrittore con il protagonista della vicenda dilata i tempi della contemporaneità e il tempo presente, l’ora, si fa cominciare dall’allora, cioè il tempo passato, quello in cui Don Fabrizio parla dei Salina, dicendo che “fummo Gattopardi”, e lo scrittore, come il protagonista, afferma che da Gattopardo vuole morire. Abbiamo visto, nella prima parte del saggio, come il romanzo abbia avuto accoglienze diverse da parte della critica e decisamente negative da parte di quella di sinistra; dopo l’uscita del romanzo, ci fu un vero e proprio caso “Gattopardo”, in quanto molti intellettuali dell’epoca non si capacitavano dell’enorme successo che il romanzo stava ottenendo presso un pubblico di lettori molto variegato, successo tra l’altro rinnovato dall’uscita del film di Visconti pochi anni dopo. In effetti si verificò un acceso diverbio tra chi considerava il romanzo uno dei capolavori della narrativa italiana contemporanea e chi, specie da sinistra, lo vide come un frutto fuori stagione, come un’opera ottocentesca caratterizzata da una prospettiva reazionaria. I critici, inoltre dibattevano, come abbiamo visto, sulla questione del genere a cui il romanzo di Lampedusa apparteneva, incerti se fosse da considerare un romanzo storico oppure psicologico. Il dibattito si orientò verso una condanna ideologica, che finiva per bollare il romanzo come un libro reazionario, un

“successo di destra”. Molte critiche furono rivolte allo scrittore per alcuni giudizi espressi sull’immobilismo atavico dei siciliani e soprattutto sull’interpretazione dei mutamenti storico-sociali, ben sintetizzata nel motto di Tancredi: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”. Si deve soprattutto alla difesa di Louis Aragon, noto poeta, scrittore e intellettuale francese, che, nel suo articolo “Il Gattopardo e la Certosa”1, definì il romanzo uno dei più grandi del Novecento, un certo cambiamento dell’orientamento della critica. Ma, se si accantona la polemica dell’epoca, sembra veramente difficile oggi un uso politico manipolatorio di un’opera come Il Gattopardo, anzi è sicuramente più facile incontrarvi lucidi giudizi in cui sembrano riflettersi le conclusioni della storiografia più avvertita del Risorgimento che da tempo ha rinunciato alla scelta obbligata tra adesione totale all’ideologia risorgimentale e sabotaggio della stessa. A partire dalla Palma d’oro vinta da Visconti a Cannes, il film e il romanzo di Lampedusa si sono uniti indissolubilmente. Non esiste infatti film tratto da un libro di cui si sia affermato con altrettanta sicurezza che è assolutamente fedele al romanzo. Il merito di ciò è proprio nella cosiddetta “fedeltà” del regista nel trasporre il romanzo di Lampedusa, una fedeltà spesso lontana dai contenuti profondi del libro, ma esercitata nelle battute, sulle situazioni, sugli arredi, sui dettagli in modo quasi maniacale. Ovviamente Il Gattopardo di Visconti non è la passiva illustrazione del romanzo di Lampedusa, ma può sembrarlo perché la fisonomia del Principe, i cannocchiali dell’osservatorio, il pouf del salone di casa Ponteleone, il quadro di Greuze che si vedono nel film sono identici a quelli che si vedono descritti nel romanzo. Il contenuto del film è invece diverso dalle pagine scritte, perché Visconti condanna tutti i protagonisti, forse con la sola eccezione di Don Fabrizio, ad un rigido schema gramsciano in cui viene soprattutto sottolineata la lotta di classe e l’avvicendarsi dei ceti sociali sul palcoscenico della Storia, che invece nel romanzo rimangono solo sullo sfondo di quello che è essenzialmente un bilancio esistenziale. Infedele nella morale, come sostengono Anile e Giannice2, Visconti fu fedele a Lampedusa nei particolari, spinto non solo dalla sua leggendaria meticolosità, ma soprattutto dalla sua intima aderenza al mondo aristocratico. L’amore di Visconti per il Principe di Salina è nato dal profondo, dai ricordi dell’infanzia, da un terreno culturale e di vita comune che gli ha consentito di vedere lo

scrittore non come un antagonista, ma come un fratello a lungo dimenticato. Dopo il 1963, anno di uscita del film, è impossibile rileggere il romanzo di Lampedusa senza che si manifestino sulla carta le immagini di Lancaster o della Cardinale, o di Delon; l’identificazione del libro col film, ma anche di Visconti con Don Fabrizio è totale. Ma, al di là dei raffronti con il romanzo di Lampedusa, Il Gattopardo di Luchino Visconti rimane un film magnifico, non solo dal punto di vista estetico: infatti la combinazione tra realismo delle scene, efficacia narrativa, contenuto ideologico e senso decadente della vita, ha raggiunto uno dei massimi risultati di tutta la storia del cinema. Sicuramente rappresenta l’apice di tutta la carriera cinematografica di Visconti che, dopo, realizzerà nel 1965 Vaghe stelle dell’Orsa, non tra i suoi film migliori, e poi la trilogia tedesca (La caduta degli dei, Morte a Venezia e Ludwig) che mette in evidenza quanto già affiorava nel Gattopardo, cioè l’interesse del regista verso il tramonto di epoche storiche e il dolente intimismo dei protagonisti. Nel 1974 esce Gruppo di famiglia in un interno tra mille polemiche perché finanziato da un imprenditore di destra, Rusconi. In condizioni di salute sempre più precarie, Visconti gira l’ultimo film, L’innocente, tratto dall’omonimo romanzo di D’annunzio. Muore subito dopo, nel 1976, e l’amico Antonello Trombadori, nel pronunciare il discorso funebre, parla di lui come uno di quei Gattopardi, di quei Leoni che lavorarono assiduamente perché il mondo degli sciacalli e delle iene non dovesse venire mai più. Sicuramente non sarebbe dispiaciuto al conte milanese sentirsi definire un Gattopardo; in effetti, mentre il regista credeva di aver sottilmente riscritto il romanzo, tramite omissioni e modifiche di senso, accadde invece che il romanzo aveva riscritto lui, dandogli il proprio titolo e assimilandolo per sempre. Tomasi di Lampedusa, lo scrittore siciliano tanto criticato, accusato di immobilismo e di visione retrograda della storia del Risorgimento, alla fine aveva vinto.

1 L. Aragon, Il Gattopardo e la Certosa, da “Lettres francaises”, Pubblicato su Rinascita del

30 Marzo 1960. 2 A. Anile M. G. Giannice, op. cit. pp. 305-307.

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