Il mondo che vogliamo. Appello all’ultima generazione 9788811813583

L'appello appassionato e convincente di Carola Rackete, un’attivista con una chiara visione e una fortissima passio

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Italian Pages 108 Year 2019

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Il mondo che vogliamo. Appello all’ultima generazione
 9788811813583

Table of contents :
Indice......Page 108
Frontespizio......Page 3
Le autrici......Page 2
Pagina del Copyright......Page 4
Prefazione, di Hindou Oumarou Ibrahim......Page 6
1. Smettiamola di sperare......Page 10
2. Un obbligo di umanità......Page 29
3. L’ultima generazione?......Page 46
4. Mettere in discussione il sistema......Page 65
5. Iniziamo ad agire......Page 85
Ringraziamenti......Page 100
Bibliografia e sitografia......Page 101
Seguici su ilLibraio......Page 0

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Le autrici

Carola Rackete, nata nel 1988, ha studiato Scienze nautiche a Elsfleth, in Germania, e Scienze ambientali a Ormskirk, in Inghilterra. È stata al timone delle navi da ricerca Meteor e Polarstern come anche della Arctic Sunrise di Greenpeace e di navi del British Antarctic Survey. Dal 2016, nel suo tempo libero, lavora sulle navi e gli aerei del salvataggio civile nel Mediterraneo centrale. Fa parte del movimento Extinction Rebellion, che si batte contro la distruzione degli ecosistemi e del clima. Anne Weiss, nata nel 1974, è autrice e attivista ambientalista. Ha pubblicato Generation Weltuntergang, una storia del cambiamento climatico. Hindou Oumarou Ibrahim è geografa e attivista ambientalista. Coordina l’organizzazione femminile Association des Femmes Peules Autochtones du Tchad ed è stata codirettrice del padiglione della World Indigenous Peoples’ Initiative alle Conferenze sul clima dell’ONU del 2015, 2016 e 2017.

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www.illibraio.it Carola Rackete e Anne Weiss devolvono i proventi di questo libro all’Associazione borderline-europe – Menschenrechte ohne Grenzen e. V. che si batte per i diritti dei profughi e che, con il suo lavoro, si oppone anche alla generale criminalizzazione di coloro che li aiutano. In copertina: fotografia di © Karl Mancini Progetto grafico: Mauro De Toffol / theWorldofDOT Traduzione dal tedesco di Stefano Beretta, Paola Rumi, Chiara Ujka Titolo originale dell’opera: Handeln statt hoffen. Aufruf an die letzte Generation © 2019 Droemer Verlag. An imprint of Verlagsgruppe Droemer Knaur GmbH & Co. KG, Munich, through Giuliana Bernardi Literary Agent ISBN 978-88-11-81358-3 © 2019, Garzanti S.r.l., Milano Gruppo editoriale Mauri Spagnol Prima edizione digitale: novembre 2019 Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. Nessun albero è stato abbattuto per la realizzazione di questo eBook.

A tutte le vittime dell’obbedienza civile

PREFAZIONE di Hindou Oumarou Ibrahim attivista per la difesa dell’ambiente

Dove sono gli uomini? A volte, quando si visita un villaggio nella savana del Sahel, si rimane stupiti nel vedere comunità composte solo da donne, ragazzi giovani e anziani. È una conseguenza dell’emancipazione femminile? Gli uomini restano nelle capanne a cucinare? Sono lontani dal villaggio, intenti a procurarsi l’acqua e a raccogliere la legna? Sono morti in guerra o vittime di un virus che colpisce solo i maschi tra i quindici e i cinquant’anni? No, naturalmente! Gli uomini sono via e basta – molto, ma molto lontano. Per lo più sono nelle città, vivono nelle baraccopoli cercando un impiego temporaneo. Alcuni di loro battono le strade del deserto che portano in Libia, altri sono schiavi dei trafficanti di esseri umani. Altri ancora si trovano su imbarcazioni di soccorso nel Mediterraneo, e solo una minoranza è nei campi profughi ai margini dell’Europa. Cercano lavoro, tentano di trovare il modo per mandare denaro alle loro comunità, così da mantenere le proprie famiglie. Questi uomini cercano solo di riconquistare il loro orgoglio e il loro onore. Perché nella maggior parte di queste comunità, se un uomo non riesce a mantenere la propria famiglia, non è più un uomo. Tutti noi conosciamo l’impatto del cambiamento climatico. È sotto gli occhi di ognuno di noi. Osserviamo la distruzione delle foreste e lo scioglimento dei ghiacci, però non ci rendiamo conto che una delle conseguenze più violente del cambiamento climatico consiste nel fatto che ruba a uomini e donne la loro dignità. Dall’inizio di questo secolo, nel mio paese – il Ciad – la temperatura media è aumentata di oltre 1,5 gradi. Lo stesso vale per la maggior parte dei paesi africani. I nostri alberi bruciano. Le nostre riserve d’acqua si stanno prosciugando. Le nostre terre fertili si trasformano in deserto. Il mio popolo e io eravamo abituati a vivere e lavorare in armonia con la Natura. Le stagioni, il sole, i venti e le nuvole erano i nostri alleati. Adesso sono diventati i nostri nemici.

Le ondate di calore, quando la temperatura supera per parecchi giorni i 50 gradi, uccidono gli uomini, le donne e il bestiame. Le inondazioni distruggono i raccolti. I mutamenti nel ritmo delle stagioni portano nuove malattie, per gli esseri umani e per il bestiame. Il lago Ciad, che in passato era uno dei cinque bacini idrici più grandi dell’Africa, si sta via via riducendo davanti ai nostri occhi. Quando sono nata io, trent’anni fa, si estendeva per 10.000 chilometri quadrati, mentre oggi è ridotto a 1250. Nel corso della mia vita ne è scomparso quasi il 90 per cento. Per il Sahel il cambiamento climatico è come un cancro. È una malattia che prosciuga il lago, ma anche il cuore degli uomini e delle donne che abitano in queste zone. Nel corso dei secoli gli agricoltori, i pescatori e i pastori hanno vissuto in armonia. Oggi, invece, ogni singola goccia di acqua, ogni singolo appezzamento di terra fertile sta diventando il tesoro più ambito. La gente combatte per averli e, talvolta, uccide. Il cambiamento climatico è il virus che ha preparato il terreno per il lato più oscuro dell’umanità. Gruppi come Boko Haram, o altri gruppi terroristici, sfruttano la povertà per fare proseliti tra i giovani, incoraggiando le comunità a combattersi a vicenda. Nel primo semestre del 2019 i media europei hanno scoperto l’orrore dei pastori assassinati in massa dagli agricoltori – o, viceversa, gli agricoltori dai pastori – nel Mali o nel Burkina Faso. Queste persone combattono per le ultime risorse rimaste, aizzati da quei gruppi che fondano la loro ideologia dell’odio sulla povertà estrema. Perché ci sta succedendo questo? Perché la Madre Terra è così dura con noi? Nella mia comunità nessuno sa che il clima cambia perché in altre parti del mondo l’uso dei combustibili fossili sta danneggiando il fragile equilibrio delle condizioni atmosferiche terrestri. Poiché in maggioranza i bambini non hanno la possibilità di andare a scuola, non sanno quello che è evidente per la maggior parte di noi. Il cambiamento climatico è la conseguenza di un modello di sviluppo che porta prosperità a una (piccola) porzione del pianeta, ma che allo stesso tempo distrugge la terra di alcuni di noi. Gli ultimi dieci anni sono stati il trailer di un film dell’orrore per il pianeta e per l’umanità. E il mio popolo è il testimone silenzioso di un problema che non ha creato. Nel mezzo della savana, dappertutto in Africa, è facilissimo trovare una bottiglia di Coca Cola, ma è quasi impossibile trovare l’energia elettrica. Allora la vostra bibita ve la dovete bere calda. Per me questa è la migliore esemplificazione del cinismo del nostro modello di sviluppo. Persino all’inizio del XXI secolo, nell’era dei droni, della realtà virtuale e

dell’intelligenza artificiale, metà della popolazione africana non ha accesso all’energia elettrica. E l’energia elettrica non è l’unica cosa a mancarci. Mancano scuole, ospedali decorosi, cure o vaccini per malattie che nel mondo occidentale sono considerate innocue. Naturalmente il cambiamento climatico non è l’unica causa della povertà, ma è come una malattia degenerativa che annulla il futuro della gioventù africana. Dov’è la speranza se il clima cambia a tal punto che, dopo aver seminato i campi, non sapete se sarà un’inondazione o la siccità ad annientare la vostra unica fonte di reddito? Che cosa possono dire una madre e un padre del Sahel ai loro figli quando gli chiedono perché stasera il piatto è vuoto? È possibile consolarli dicendo loro: «Non preoccupatevi, c’è l’accordo di Parigi e, forse, se tutti faranno la loro parte, il riscaldamento globale rimarrà sotto i 2 gradi entro la fine del secolo»? Ovviamente no. Perciò, se non affrontiamo la crisi climatica e se non scegliamo di costruire un futuro per questa gioventù, non saremo in grado di trasformare la disperazione in speranza. Non saremo in grado di fornire un argomento valido a queste comunità affinché i loro uomini non siano costretti a imboccare la via della migrazione. Nessuno dovrebbe essere obbligato ad abbandonare la propria casa e a rischiare la propria vita solo perché non ha futuro nel paese in cui è nato. Nessuno è felice di abbandonare la propria famiglia, le proprie radici, la propria identità. Non dobbiamo mai dimenticare che nessuno è nato migrante. Quindi dobbiamo dire con fermezza e con chiarezza che questo futuro noi non lo vogliamo. Perciò dobbiamo cambiarlo. Abbiamo un periodo di tempo ridotto. Non c’è spazio né per il pessimismo né per l’ottimismo. È il momento dell’azione e di un profondo mutamento nel modo in cui affrontiamo il problema climatico. Nessuno da solo ha la soluzione, ma ogni contributo è più che benvenuto. Perciò, quando Carola mi ha chiesto una prefazione per questo libro, è stato ovvio per me accettare. Non soltanto perché Carola, come numerosi altri, costruisce soluzioni per il nostro mondo, ma anche perché è unica nel suo genere, crede nell’azione globale e nella condivisione delle responsabilità, e rischia la galera per salvare le vite altrui. È una donna che risolve i problemi ed è una di quelle poche persone che con l’azione concreta difendono la sostenibilità, l’equità e la giustizia per assicurare a tutti un futuro migliore. Per questo motivo vi esorto a leggere il suo libro: sono certa che vi ispirerà.

IL MONDO CHE VOGLIAMO

1. SMETTIAMOLA DI SPERARE

Manca poco a mezzogiorno e siamo ancora bloccati qui. Il corrimano della scaletta che conduce al ponte è bollente come un tubo del riscaldamento. Salgo due gradini alla volta e quando sono in cima mi fermo un momento, sentendo il velo di sudore che mi copre la pelle. Non c’è un refolo di vento, l’aria è immobile e fa semplicemente troppo caldo per muoversi più del minimo indispensabile. Ci aspetta il mese con le temperature più alte mai registrate dall’inizio della storia delle misurazioni meteorologiche. È venerdì 28 giugno 2019, il ventesimo giorno da quando siamo partiti dal porto di Licata, in Sicilia, per salvare vite umane. Sedici giorni fa, a poco meno di cinquanta miglia nautiche dalla costa libica, abbiamo caricato a bordo cinquantatré persone da un gommone inadatto alla navigazione in alto mare – uomini, donne incinte e minori, inclusi due bambini piccoli. Alcune di loro con problemi di salute e particolarmente vulnerabili sono state poi prelevate dalla Guardia costiera italiana. Ora ne abbiamo ancora quaranta a bordo, sfinite e scoraggiate. Speriamo che qualcuno ci dica che cosa ne sarà di loro. Ma il tempo sta per scadere. Ogni minuto che passa rischiamo che qualcuno possa morire. Davanti a noi, come un sottile nastro luccicante, c’è la costa dell’isola di Lampedusa, uno dei punti più a sud d’Europa; per noi, il porto sicuro più vicino. Il calore fa tremolare l’aria sul mare. Se ce lo permettessero, in un’ora potremmo essere in porto. Invece siamo bloccati e aspettiamo che gli stati europei trovino una soluzione. Guardo la coperta della nave, dove le lance di salvataggio sono fissate alle gru, e il ponte principale poco più sotto. Sui ponti inferiori sono state montate alcune tende da campo per riparare dal sole e, sotto di esse, per terra, stanno sdraiate le persone che abbiamo issato a bordo dal gommone. La nostra nave non è attrezzata per ospitare a lungo i naufraghi che abbiamo tratto in salvo. Ci sono solo tre bagni; l’acqua potabile si ottiene

depurando quella del mare, ma ci vuole parecchio tempo e il serbatoio che abbiamo riempito al porto permette a malapena a tutte queste persone di lavare sé stesse e i propri vestiti. E sul ponte ciascuno ha a disposizione solo una coperta. Non è certo comodo: sulla coperta ci si può sdraiare, e la notte si congela, oppure ci si può coprire, e allora si sente subito dolore dove il corpo è a contatto coi tappetini neri di PVC stesi sul pavimento. Il mare scintilla attorno a noi nella sua vastità, e piccole onde si infrangono sulla nostra prua. La Sea-Watch 3 è una vecchia nave da rifornimento offshore degli anni Settanta utilizzata dall’industria petrolifera; prima che la comprassimo con i proventi delle donazioni, fungeva da nave di soccorso per Medici senza Frontiere. È un’imbarcazione ingombrante, che richiede una costante manutenzione. A noi è utile, ma non mi piace granché. A dire il vero, io non dovrei nemmeno essere qui. Non ero in servizio per una missione, come vengono chiamate le operazioni di salvataggio in mare. Sono stata in mare per qualche anno, al timone di grandi navi da ricerca nelle regioni polari, e anche con Greenpeace, poi ho studiato Scienze ambientali e, dopo la laurea, avevo deciso di concentrarmi solo sulla tutela ambientale. Non avevo ancora una grande passione per il mare; dopo alcuni anni trascorsi navigando mi sembrava più importante occuparsi della conservazione della nostra biosfera. Tuttavia, le mie conoscenze di navigazione mi sono tornate utili con SeaWatch e altre ONG impegnate nei soccorsi umanitari in mare per fare ciò che ritengo di primaria importanza: salvare vite. Quando è arrivata la email che mi avvisava che il capitano in servizio non era disponibile, stavo lavorando come praticante in un programma di protezione ambientale in Scozia. Raccoglievamo dati sulle farfalle, rimettevamo in sesto sentieri e, infine, da tre giorni stavamo invasando piantine di pino silvestre in una serra, sotto la pioggia battente. Era tutto molto bello: i ripidi pendii della montagna, le creste ricoperte di cappe di muschio scuro. L’odore dei prati e della pioggia, che si mescola al profumo dei fiori delicati e della resina delle conifere. La sera, i richiami lunghi e dilatati delle strolaghe sopra il lago nebbioso. L’aria era così fresca e profumata che avrei voluto stare tutto il giorno all’aperto. Insomma, non avevo nessuna voglia di andare via da lì. Ma si trattava di una chiamata indirizzata a tutti coloro che si trovavano sulla lista dei possibili contatti per i casi di emergenza. Su questa lista ci sono tutti i volontari che possono rendersi disponibili con pochissimo preavviso se viene a mancare

qualche membro dell’equipaggio. I volontari che svolgono un compito senza una preparazione specifica sono più facili da rintracciare rispetto a quelli specializzati nella navigazione o al personale medico, di cui c’è scarsa disponibilità. Ho capito che sarebbe stato difficile trovare un sostituto così in fretta. E il responsabile della missione mi ha comunicato al telefono che non c’era davvero nessun altro che potesse assumere il comando della nave. Se non lo avessi fatto io, la nave non sarebbe potuta partire, nonostante l’equipaggio fosse già pronto. Ho capito che era mio dovere accettare e ho fatto i bagagli. E così eccomi qui ora su una nave all’ancora nel torrido caldo dell’Europa meridionale. Oltre al fragore delle onde, sento solo frammenti di conversazione; per il resto tutto tace. Ho passato più e più volte in rassegna con l’equipaggio tutte le opzioni di cui disponiamo, anche con la squadra della Sea-Watch a terra, composta da moltissimi volontari e pochi dipendenti, che lavorano soprattutto a Berlino, ma anche ad Amsterdam, a Roma, a Bruxelles e in altre città. Questa squadra si occupa della logistica, dei rapporti con i media e della comunicazione interna, così come della consulenza legale e dell’attività politica. Tiene i contatti con altre organizzazioni e con interlocutori politici, e informa e consiglia in tempo reale sugli sviluppi noi che siamo a bordo. Siamo rimasti bloccati, fermi in acque internazionali, per due settimane. Attraverso la nostra inaffidabile connessione internet ho chiesto via email assistenza alle autorità competenti di Roma e La Valletta, oltre che alla sede centrale della Guardia costiera di Den Helder, in Olanda, perché la nostra nave batte bandiera olandese. Tramite il ministero degli Affari esteri della Repubblica federale tedesca abbiamo chiesto aiuto anche alla Spagna e alla Francia. La Guardia costiera italiana è salita a bordo. È salita anche la Guardia di finanza, che risponde al ministero dell’Economia e delle finanze a Roma. Ci hanno detto di aspettare. Non avevano una soluzione. Non è successo nulla. Stiamo esaurendo le opzioni a nostra disposizione. Ci è sempre più difficile garantire la sicurezza a bordo. I passeggeri hanno un disperato bisogno di cure mediche, a terra. Una delle donne salvate ha detto a una dottoressa che per la disperazione sta pensando di uccidersi e la dottoressa si è raccomandata che qualcuno di noi le stia sempre accanto, ma non siamo in

grado di garantirlo. L’equipaggio è composto da oltre venti persone: personale nautico-tecnico come me e ingegneri, ma anche personale medico specializzato e piloti delle lance di salvataggio. La maggior parte dedica a questo lavoro il proprio tempo libero, come Oscar, che studia Giurisprudenza ed è a un passo dalla laurea. Solo tre persone lavorano stabilmente per SeaWatch, ma altri fanno i volontari da molto tempo, come Lorenz, che si occupa dei nostri passeggeri. Il lavoro è organizzato in turni, poiché dobbiamo essere vigili giorno e notte – cosa che diventa più difficile mano a mano che le persone che abbiamo preso a bordo sentono gravare l’incertezza e peggiorare la loro condizione fisica. Così, due giorni fa, ho deciso di dichiarare lo stato d’emergenza ed entrare nelle acque territoriali italiane senza autorizzazione. La Guardia di finanza ci ha fermato, ha preso le generalità di tutto l’equipaggio e controllato i documenti della nave. Ci hanno detto che sicuramente sarebbe arrivata presto una soluzione politica, che dovevamo solo aspettare. Poi se ne sono andati di nuovo. Ieri, in virtù della situazione critica, ho chiesto nuovamente un attracco al porto. Ancora una volta, le navi delle autorità ci hanno fermato. La soluzione è imminente, ci hanno detto. È arrivata una imbarcazione privata, carica di giornalisti e parlamentari. Un sacco di telecamere. Un sacco di telefonate. Nessuna soluzione. Oggi, infine, è arrivata la notifica della procura della Repubblica, con la quale si comunica che è in corso un’indagine contro di me per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Anche se suona paradossale, è il primo raggio di speranza dopo molti giorni. Durante l’ultima missione, a maggio, l’apertura di un’indagine ha comportato la confisca della nave. Se la procura dovesse ordinarla anche questa volta, diventerà responsabile dei passeggeri a bordo, che quindi potranno scendere a terra. È questo che oggi stiamo aspettando. Mi schermo gli occhi con una mano, poi mi asciugo la fronte. I pescherecci navigano su e giù intorno a noi, gli yacht lasciano il porto. Se non fossimo in questa situazione orribile, probabilmente adesso staremmo facendo il bagno. Invece stiamo qui ad arrostire al sole. E ad aspettare. In queste settimane, ho scoperto più tardi, a Lampedusa sono arrivate diciassette barche, per un totale di trecento persone scese a terra in Italia, la

maggior parte delle quali presumibilmente giunte dalla Tunisia. Questi piccoli natanti sono soprannominati ghost boats, barche fantasma. La Guardia costiera lascia semplicemente sbarcare i passeggeri, perché sono già in acque territoriali; dopodiché vengono avvisati la polizia e i servizi umanitari. La gente in genere non prova a scappare o a nascondersi, perché Lampedusa è così piccola che difficilmente ci riuscirebbe. Di solito, molto prima che approdi sulla spiaggia o sugli scogli, viene avvistata da un pescatore o da un altro residente. Poi arrivano le autorità che portano tutti al centro di accoglienza, dove la prassi è sempre la stessa: identificazione, impronte digitali… Solo noi, con quaranta migranti a bordo e un urgente bisogno di cure mediche, siamo qui, bloccati. Ci sono casi critici: alcuni passeggeri, che erano già ammalati e la cui situazione a bordo è peggiorata o che hanno la febbre alta o forti dolori, non hanno potuto essere curati sulla nave e la Guardia costiera è venuta a prelevarli. La maggior parte delle persone soffre di disturbi post-traumatici; altri avrebbero la necessità di far curare vecchie ferite causate da atti di violenza di cui sono stati vittime nei campi in Libia o fratture subite durante la fuga. La Guardia costiera italiana dice che non sono casi di emergenza. E così, da una questione di diritto marittimo si passa a un’assurda discussione sulle condizioni di salute di coloro che abbiamo salvato che, anche se fossero in perfette condizioni, hanno comunque diritto a un porto sicuro. Alla riunione del mattino Lorenz, un infermiere professionale che si occupa dei passeggeri come coordinatore, descrive per l’ennesima volta la nostra difficile situazione. «Il rischio maggiore è che decidano di prendere in mano loro la situazione», dice. «Ho anche paura che possano buttarsi in mare.» Lorenz è snello e ha i capelli castani rasati su un lato. È qui da quando ha concluso gli studi in Scienze ambientali. Questo ci unisce, così come il motivo per cui ci troviamo su questa nave. Nessuno lo fa per spirito di avventura o per altri motivi futili. Né i membri del mio equipaggio, né io, e men che meno le persone che prendiamo a bordo. Al contrario, tutti loro fuggono dalla violenza. Nell’ultimo tratto del viaggio, in Libia, dove è in corso una guerra civile, la maggior parte di loro affronta le esperienze peggiori. «Quando parliamo delle condizioni in cui vivevano nei campi, qualcuno mi dice: “Guarda qui, questa ferita sulla testa me l’hanno fatta con un tubo di

metallo”», dice Lorenz. «Un altro ha sul corpo una decina di ferite dove gli hanno spento una sigaretta sulla pelle. Oppure uno tira su la maglietta, mostra una cicatrice e spiega: “Questa è per le scosse elettriche”. Non c’è niente di strano, per questa gente, nel mostrare le proprie ferite, è normale. Quasi tutti hanno subito torture.» Lorenz dice che vuole contribuire a rendere il mondo un posto più libero e con meno discriminazioni. È tra quelli che hanno partecipato a un gran numero di missioni, sacrificando molto, soprattutto una vita normale. Riesce sempre a dar voce a un pensiero che attraversa la mente di tutti noi: quanto sono forti gli uomini, le donne, i bambini che sopportano violenze del genere e riescono a rimanere cordiali e amichevoli, a continuare a vivere dopo tutto quello che hanno passato. Secondo i referti medici, le torture subite nei centri di detenzione libici comprendono anche colpi di baionetta e plastica fusa versata addosso. Molti hanno cicatrici sulla testa, che tutti possono vedere, e cicatrici nell’anima, invisibili, inferte con percosse, minacce, schiavitù, la paura di morire e – per tutte le donne – mediante lo stupro e la prostituzione forzata, spesso ottenuta col ricatto minacciando un figlio o un famigliare. A causa del mal di mare, tanti di loro sono inoltre disidratati, e questo ne aggrava le condizioni. Le conseguenze sono disturbi del sonno, nervosismo, incapacità di controllare gli impulsi, ansia. «Le ferite confermano le relazioni che riceviamo sui campi e sulle rotte migratorie», afferma Victoria, il medico che firma i rapporti. Da anni, nella vita di tutti i giorni, lavora come anestesista e specialista in medicina d’urgenza in un reparto di terapia intensiva ad Amburgo; non è mai stata in missione prima e quindi non si era mai separata dai suoi figli per un periodo così lungo. «Sono furiosa per le ingiustizie che ci sono nel mondo. Ho sentito che dovevo fare qualcosa.» Dopo aver portato via dieci passeggeri in pericolo di vita, la Guardia costiera è tornata altre due volte per far fronte a emergenze: un uomo ha perso conoscenza, un altro ha sentito dei forti dolori al basso ventre ed è stato fatto sbarcare con il fratello minorenne. Ogni volta che prelevano uno di loro, tutti gli altri fanno ala per salutarlo, anche se è a malapena cosciente. Una tale solidarietà tra persone che prima non si conoscevano e che si sono trovate a dover convivere in uno spazio così angusto mi ha commosso. Gli uomini della Guardia costiera si limitano a venire a prendere i passeggeri più gravi. Capiscono la nostra situazione, perché un tempo erano

loro a occuparsi dei salvataggi al largo della costa libica. Sono gentili, ma al momento piuttosto inutili, perché non ci aiutano più di quanto siano autorizzati a fare. A ogni emergenza medica, le persone rimaste a bordo si chiedono se devono arrivare al punto di stare così male per poter lasciare la nave. Hanno urgente bisogno di un porto sicuro. Posso solo immaginare lo stato d’animo di chi deve attendere sulla Sea-Watch 3 avendo alle spalle drammi come quelli che hanno conosciuto loro. La partenza verso l’ignoto, il lungo viaggio nel deserto, la fame, le privazioni, le false promesse, le aggressioni. Il terrore di rimanere a tempo indeterminato nel centro di detenzione, le torture, gli stupri, amici e famigliari ammazzati a colpi di armi da fuoco. La paura di morire in alto mare, su un gommone insicuro. Il Mediterraneo è molto più pericoloso di quanto la maggior parte dei turisti creda; le condizioni meteorologiche possono cambiare velocemente e un gommone con quattro camere d’aria non offre molta protezione: basta che una sola si sgonfi perché un’imbarcazione così sovraccarica affondi. «Anch’io ho un enorme rispetto per il mare», dice Oscar, che studia Giurisprudenza e, lavorando per noi come pilota della lancia di salvataggio, se finisce in tribunale, rischia di non essere ammesso all’Ordine degli avvocati. «Il Mediterraneo è davvero immenso, ed è facile perdere la rotta. Sulla Sea-Watch 3 abbiamo molte attrezzature che ci possono salvare in caso di emergenza. Dalla lancia vediamo solo onde e vento, finché improvvisamente avvistiamo un gommone in mezzo al mare con a bordo persone a un metro sopra il pelo dell’acqua. Quasi nessuno sa nuotare, e col mare agitato è altissimo il pericolo che il fondo del gommone ceda o che si laceri una camera d’aria. Allora il salvataggio diventa più difficile, perché le persone sono spaventate. Le taniche di benzina di cui sono dotati a volte non hanno il tappo e quando il gommone si rovescia la benzina si sversa nel mare intorno alle persone. Basta un sorso di questa miscela in cui provano a nuotare per svenire e annegare. La gente è seduta sui bordi, con in mezzo le donne incinte e i bambini piccoli. Ogni volta che vedo questa situazione, mi rendo conto di quanto tutto ciò è pericoloso e di quanto profonda dev’essere la miseria, se rende accettabili rischi del genere. Quando sono sulla spiaggia e il gommone è pronto a partire per l’ultima tappa, non hanno più scelta: alcuni vengono addirittura costretti a salire. E quando sento certi politici dire che un’imbarcazione così è perfettamente idonea alla navigazione, o che i migranti ci sono saliti volontariamente… Sono parole così ciniche che

davvero dovrebbero venire qui e provarlo sulla loro pelle.» Cosa si prova a stare seduti su un gommone sovraccarico, fabbricato al massimo del risparmio, in balia delle forze della natura, mentre le assi di legno precariamente avvitate alla base sfregano contro le camere d’aria, fino a che queste non si rompono? Come vi sentireste su una barca simile, senza un equipaggio, senza giubbotti di salvataggio, senza acqua, senza nemmeno il carburante necessario per il giorno successivo? Come vi sentireste se, su una barca del genere, non sapeste nuotare, e il gommone si riempisse di falle e cominciasse ad affondare? Nessuno di noi europei salirebbe su una barca come questa, con il rischio di morire nella traversata. E questo rischio non è piccolo, perché non ci sono quasi più navi che incrociano in queste acque per portare soccorso. Le missioni europee, la Guardia costiera italiana e la Frontex, l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, sono sparite. Noi dei soccorsi marittimi privati siamo soli. E non possiamo essere ovunque nello stesso istante, soprattutto perché le autorità europee rendono il nostro lavoro sempre più complicato. Nessuno sa quanti disastri navali sono avvenuti negli ultimi anni nel Mediterraneo centrale, di fronte alla Libia. I numeri che leggiamo di solito contano solo i corpi ripescati in acqua, oppure quelli trascinati fino alle coste libiche o tunisine. Il numero dei casi non segnalati, di coloro che affondano per sempre e non vengono recuperati o non finiscono sulle coste, è molto superiore. L’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati ha parlato di oltre 18.000 migranti morti o dispersi nel Mediterraneo dal 2014. Anche il mio equipaggio, in alcune missioni, ha trovato solo cadaveri. La più grande paura di coloro che vengono salvati è quella di essere costretti a tornare in Libia, dov’erano imprigionati fino al momento della partenza. Ci sono notizie di salvataggi operati dalla Guardia costiera libica durante i quali la gente si è buttata dal gommone ed è annegata, terrorizzata all’idea che i libici potessero ricondurli di nuovo nei campi. In un telegramma criptato inviato dall’ambasciata tedesca in Niger e finito nelle mani dei giornalisti – diplomatici bene informati hanno descritto «condizioni da campo di concentramento» e «violazioni sistematiche e gravissime dei diritti umani». Ciò che hanno vissuto nel campo, torna ogni giorno nelle menti di molti e soprattutto ogni notte anche qui a bordo, rendendoli vittime dei ricordi tanto quanto lo sono del clima torrido di questi giorni. Eppure i nostri passeggeri sono costretti a rimanere a bordo con noi, tanto

che la loro condizione non fa altro che peggiorare. I nostri governi non permetterebbero mai che un europeo o un’europea subissero un trattamento del genere. Se questi migranti provenissero dalla Germania, dalla Francia o dall’Italia, sarebbero già a terra da tempo. I nostri passeggeri comparirebbero nei talk-show e il conduttore chiederebbe loro come stanno e a chi attribuiscono la responsabilità dell’accaduto. Sarebbero intervistati dai giornali più importanti, scriverebbero libri. La società s’indignerebbe che si possano sopportare simili condizioni durante la fuga e nei campi. Ma ovviamente i nostri passeggeri non hanno il colore della pelle giusto, non hanno avuto la fortuna di nascere alla nostra latitudine. A queste persone si chiede di resistere stipati su una nave sotto il sole. Perché non sono nati in un paese ricco. Perché non hanno il passaporto giusto. Nessuno ha interesse a occuparsi di loro. Solo quando a bordo di una nave ci sono passeggeri in grave situazione di pericolo, lo stato di necessità prevede il diritto di entrare in un porto. Tale diritto vale anche quando uno stato come l’Italia chiude i suoi porti a queste navi. Al sedicesimo giorno sono di nuovo sul punto di avvalermi di questo diritto, come nei due giorni scorsi, in cui sono stata più volte invitata a desistere con la promessa che gli stati europei avrebbero presto trovato una soluzione. Speriamo ancora che aprano il porto volontariamente. Nel frattempo, la nostra missione ha fatto notizia a livello internazionale. Il mondo guarda alla nave all’ancora davanti a Lampedusa come mai era successo prima con le molte missioni di salvataggio private. Il motivo è la situazione politica attuale. Il ministro dell’Interno, con il suo partito di destra, ha emanato un nuovo decreto, che impedisce alle navi civili di salvataggio di entrare nelle acque territoriali. Questo mette noi che ci occupiamo delle emergenze in mare in una situazione difficile poiché tutti coloro che contravvengono a questa legge si ritrovano inquisiti e rischiano multe molto alte per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Se il mondo improvvisamente torna a occuparsi dei soccorsi in mare dipende anche dal fatto che il ministro in questione scrive spesso e volentieri tweet e che io, una giovane donna, sono il capitano di questa nave. Non dipende dallo scandalo vero e proprio. Cioè che degli esseri umani sono bloccati qui, che vengono trattati come persone di seconda categoria.

Questo è razzismo, nient’altro. Nel dibattito pubblico, si parla spesso di salvataggi in mare come se fosse una questione di opinioni. Ma questo è radicalmente sbagliato. L’articolo 98 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 stabilisce che ogni comandante è tenuto a fornire assistenza ai naufraghi, se si trova nella ragionevole condizione di poterlo fare. Si parla di emergenza marittima quando sussiste il pericolo che l’equipaggio o i passeggeri di un natante perdano la vita. Non ha nessuna importanza il motivo per cui la nave in questione si trovi in tale situazione. Il soccorso in mare è un obbligo ai sensi del diritto internazionale, come si legge in numerosi regolamenti di diritto nautico: per esempio, la stessa Convenzione del 1982 sul diritto del mare ha stabilito che gli stati sono tenuti a istituire servizi di salvataggio. E la nostra è un’operazione di salvataggio avvenuta in acque internazionali, nella zona libica di search-and-rescue, che si estende per settanta miglia nautiche al largo della costa. Dal momento che in Libia non c’è alcun porto sicuro, abbiamo fatto rotta verso Lampedusa, anche perché lo stato sotto la cui bandiera la Sea-Watch 3 naviga non ci ha fornito alcuna indicazione. L’isola italiana costituisce il porto sicuro più vicino e, di conseguenza, ha effettivamente il dovere di accogliere le persone che abbiamo soccorso. Dal momento che le acque territoriali italiane confinano con la zona di search-and-rescue maltese, abbiamo chiesto l’attracco anche a Malta, che ha immediatamente rifiutato. Ovviamente prima di prendere le persone a bordo verifichiamo che la situazione sia davvero di emergenza. Ma di solito, nel caso di barche di migranti, basta un colpo d’occhio per capirlo: già l’inadeguatezza delle imbarcazioni costituisce un grave rischio in caso di navigazione in mare aperto; inoltre mancano quasi sempre giubbotti di salvataggio, razioni d’acqua e attrezzature nautiche. Le persone a bordo di un simile natante sono in grave pericolo, e per questo noi le soccorriamo. Si ripete continuamente che noi, in quanto membri di un’imbarcazione di salvataggio, siamo responsabili del fatto che le persone si assumono il rischio di attraversare il mare – il cosiddetto pull effect. Sono le stesse accuse che sono state rivolte alla Guardia costiera italiana quando si occupava direttamente del soccorso marittimo. Le operazioni di salvataggio da parte delle ONG sono iniziate solo dopo che diverse decine di migliaia di persone sono annegate nel Mediterraneo. Nel frattempo, uno studio sul rapporto tra il

numero delle partenze e quello delle navi di soccorso in mare smentisce l’ipotesi che partano più barche quando ci sono navi di soccorso. Quello che è certo, invece, è che meno navi di soccorso ci sono, più persone muoiono. Anche quando non c’è alcuna nave al largo, o se ce n’è soltanto una, le barche partono comunque. Molta gente è furiosa per il fatto che trasportiamo queste persone in porti europei, e non libici o tunisini. Ma se un porto è sicuro o meno non dipende dal passaporto o dal paese d’origine di chi fugge. Riportare le persone in Libia è addirittura vietato: è una violazione del diritto internazionale ricondurre qualcuno in uno stato in crisi in cui rischia di subire torture e morte. In Tunisia, gli esseri umani non sono tutelati. Non esiste un diritto di asilo che garantisca sicurezza a coloro che affrontano persecuzioni nel loro paese d’origine a causa delle loro convinzioni politiche o del loro orientamento sessuale. Anche le navi delle autorità europee non riportano mai i passeggeri in Libia o in Tunisia. E, se questo non bastasse, i tunisini non consentono facilmente che entriamo nelle loro acque territoriali, nemmeno per il rifornimento di carburante. Non vogliono che gli europei li trasformino in porto di sbarco dei migranti. Noi della Sea-Watch 3 chiediamo di poter consegnare immediatamente i naufraghi a una nave delle autorità europee, che li faccia sbarcare in un porto sicuro: in questo modo potremmo tornare a salvare vite più velocemente, dopo ogni missione. La chiusura dei porti sicuri e i tempi di attesa che ne conseguono costano certamente molte vite. I parlamenti e i talk-show sono impegnati in grandi discussioni su chi dovrebbe occuparsi dei salvataggi e perché. Nel frattempo, sempre più esseri umani muoiono. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM), il confine dell’Europa meridionale nel Mediterraneo è il più pericoloso al mondo per migranti e rifugiati. Ma invece di fornire aiuto, sul lato sicuro del confine sembra sia meglio discutere su quali siano i motivi da considerarsi sufficientemente validi per costringere qualcuno a lasciare la propria patria. Come se noi, nazioni industrializzate, non avessimo alcuna responsabilità. Ci stiamo ponendo le domande sbagliate. Il salvataggio in mare non si occupa dell’identità di chi ha bisogno di aiuto. Si occupa di soccorrere persone che rischiano di annegare. Lo scrittore Heinrich Böll sostenne la nave Cap Anamur, il cui equipaggio all’inizio degli anni Ottanta aveva salvato in mare alcuni boat people vietnamiti. Böll indicò senza ombra di dubbio quali fossero le

responsabilità morali: «Sono dell’opinione che le vite umane vanno salvate ovunque si possa farlo. E nessuna istituzione che abbia la possibilità di salvare vite può operare una selezione in alto mare, perché questo significherebbe condannare a morte degli esseri umani», dichiarò il premio Nobel per la letteratura al settimanale tedesco «Der Spiegel» nel 1981. Anche per quanto mi riguarda, che migranti e rifugiati debbano essere portati in salvo è indiscutibile. La domanda cui va data una risposta è un’altra: perché hanno deciso di salire su quelle barche per raggiungere l’Europa? E dal momento che qui non li si vuole, i governanti sono così generosi da affermare che bisogna «combattere le cause della migrazione». Ma ciò significa cambiare un sistema da cui essi stessi traggono profitto. Un sistema le cui strutture di potere si perpetuano dall’epoca coloniale. Un sistema profondamente incompatibile con i nostri valori. L’avidità di benessere e crescita economica costante ha da tempo spinto le nazioni industrializzate a sfruttare i paesi e le persone delle regioni più povere del mondo. Durante l’epoca coloniale, questi furono spogliati della loro indipendenza politica, economica e culturale, e i segni più evidenti sono le demarcazioni arbitrarie dei confini che ancora oggi continuano a causare conflitti. L’egemonia economica prosegue: l’impianto di monoculture impoverisce il terreno, richiede l’impiego di pesticidi e fertilizzanti, causa una crescente desertificazione, peggiora le condizioni dell’intero suolo e minaccia la biodiversità. La distruzione delle foreste provoca la fuga dei popoli indigeni. In molti casi le monocolture occupano terre necessarie alla coltivazione di generi alimentari di prima necessità per le popolazioni locali. I paesi che si concentrano troppo su pochi prodotti agricoli sono più vulnerabili alle oscillazioni del mercato internazionale. Nel caso del caffè e del cacao, il prezzo viene spesso determinato dagli speculatori: si tratta di prodotti di esportazione soggetti alle crisi. Molti paesi del Sud del mondo sono ancora oggi caratterizzati da strutture di potere coloniali. Dal momento che la loro economia è focalizzata sull’esportazione di materie prime, mentre i loro mercati sono inondati di manufatti a basso costo e prodotti agricoli provenienti dalle nazioni industrializzate, questi paesi sono ancora alla loro mercé. Sono costretti a firmare accordi di libero scambio che vietano i dazi sull’importazione. Diventano discariche per la nostra spazzatura. Infine, a causa dei loro debiti, devono vendere i diritti di sfruttamento delle zone di pesca, distruggendo così le loro attività ittiche.

Per quanto riguarda i migranti che fuggono sulle barche, dobbiamo prima di tutto parlare di ingiustizia globale: l’agiatezza di pochi paesi, delle persone ricche e delle multinazionali si fonda sul lavoro e sulle risorse di paesi poveri privi di ogni prospettiva. L’Europa e gli altri paesi industrializzati sono in grande misura responsabili delle guerre civili e delle difficoltà economiche, dello sfruttamento e dei maltrattamenti – e, ciò che è più grave, ci guadagnano sopra. Viviamo in un mondo globalizzato e noi cittadini d’Europa siamo tra i pochi a beneficiarne. I nostri rifiuti elettronici vengono esportati in Ghana via nave; le nostre Tshirt sono cucite in paesi come il Bangladesh, dove il salario degli operai è bassissimo; le materie prime per i nostri telefoni cellulari provengono dal Congo, dove il cobalto e il coltan vengono estratti in condizioni assolutamente disumane anche da bambini. Il nostro stile di vita ha un impatto diretto sulla vita quotidiana delle persone che abitano nel Sud del mondo, portando malattie, inquinamento e lavoro privo di qualunque previdenza sociale. La nostra fame di energia e le emissioni che ne conseguono stanno distruggendo il clima, e a pagare sono per primi i paesi che meno hanno contribuito al riscaldamento del pianeta. Così peggioriamo la povertà globale e creiamo nuove ragioni per migrare. Fino a quando questo sistema economico continuerà a produrre una disuguaglianza sociale così profonda, e la natura sarà sfruttata pressoché in ogni angolo del pianeta, le persone affideranno le loro vite a barche sulle quali nessuno sceglierebbe mai liberamente di viaggiare. Ed è questa la ragione per cui non ci troviamo di fronte a una crisi migratoria. Ci troviamo di fronte a una crisi della giustizia globale. E a essere in crisi sono i nostri valori europei. I valori su cui si fonda la comunità degli stati europei sono stati definiti così bene in varie dichiarazioni – dai trattati internazionali sui diritti umani alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, alla Costituzione tedesca – che potrei sottoscriverne ogni singolo punto. Sfortunatamente, questi documenti non valgono la carta su cui sono stampati, e la nostra missione di salvataggio con la Sea-Watch 3 lo dimostra. Siamo in mare da due settimane e il modo in cui veniamo trattati contraddice tutti i valori di cui l’Unione Europea si dichiara portatrice. I motivi di questa durezza sono economici e dimostrano chiaramente che si tratta di una comunità economica tesa ad affermare i propri valori. Lo scrittore Ilija Trojanow ha descritto l’Unione Europea come dottor

Jekyll e Mr Hyde. I politici europei ricoprono sempre più il ruolo del dottor Jekyll nei discorsi appassionati sui diritti umani o contro la distruzione della natura. «Ma quando si tratta di soldi, della “nostra” prosperità», scrive Trojanow, «Mr Hyde alza la sua brutta testa e sabota la lotta per la dignità umana e per le buone condizioni di vita di tutti.» La solidarietà fra gli stati europei fallisce – e fallisce proprio sul denaro. Il terzo trattato di Dublino (Dublino III), che obbliga le persone in stato di necessità a chiedere asilo al primo paese in cui arrivano, fa ricadere tutto il peso delle migrazioni sull’Europa meridionale. Nazioni come l’Italia, Malta o la Grecia sono lasciate sole dall’Unione Europea a gestire i migranti. Malta e l’Italia hanno vissuto situazioni nelle quali gli stati che accettavano di prendersi carico dei richiedenti asilo impiegavano poi settimane o mesi prima di organizzarne il trasferimento. L’Italia ha avviato la propria missione di salvataggio, Mare Nostrum, poco dopo lo scoppio di un incendio su un peschereccio arrugginito il 3 ottobre 2013 – non lontano dal nostro punto di ancoraggio – sul quale si trovavano 545 persone, per lo più migranti dall’Eritrea e dalla Somalia. 366 di loro morirono. I sommozzatori militari che hanno dovuto recuperare i corpi hanno subito gravi traumi. La vista dei cadaveri coperti dai sacchi allineati sul molo di Lampedusa ha causato un violento shock negli isolani e in tutta Italia. Mare Nostrum costava circa 9 milioni di euro al mese, ma gli altri stati europei lasciarono sola l’Italia a sobbarcarsene i costi e, in nome di Dublino III, senza alcun aiuto nella gestione degli esseri umani salvati. Di conseguenza, nel 2014 il servizio di salvataggio fu ridotto e infine sospeso. Dal momento che non c’erano più navi governative di salvataggio, nel 2015 l’organizzazione non governativa Sea-Watch inviò dalla Germania la prima nave da salvataggio privata. L’idea di base era quella di monitorare la situazione e rendere l’Europa più consapevole, in modo che l’UE si assumesse nuovamente l’onere pubblico dei salvataggi in mare. Sea-Watch ha chiesto che venissero predisposte rotte migratorie sicure, un safe passage affinché il Mediterraneo non diventasse una fossa comune. Purtroppo questa richiesta non è stata accolta. Di fatto, senza le ONG come Sea-Watch, non ci sarebbe un reale soccorso marittimo nel Mediterraneo. Facciamo ciò che gli stati hanno rinunciato a fare perché pesa sui loro sistemi economici. La ragione per cui la Libia non è un porto sicuro sta anche nel fatto che

l’Europa ha un ruolo tutt’altro che insignificante nella guerra civile – sempre per ragioni economiche: la Libia dispone dei più grossi giacimenti petroliferi in Africa, oltre ad ampie riserve di gas naturale, e questo muove grandi interessi, per i quali la perdita di vite umane è solo un prezzo da pagare. La popolazione libica, così come i rifugiati di altri paesi africani, è in mezzo al fuoco incrociato di anni di combattimenti. La Libia è un paese in stato di guerra civile e la sua situazione è al momento molto confusa a causa dei continui cambi di alleanze e degli obiettivi oscuri degli attori in gioco. Tuttavia, è evidente che Francia, Italia e altri paesi dell’Europa occidentale stanno interferendo nello scontro dando il loro sostegno ai ribelli, perché imprese europee come il colosso petrolifero italiano ENI, la multinazionale francese Total e la tedesca Wintershall (BASF) estraggono materie prime in Libia. La situazione è complicata anche perché il generale libico dissidente Khalifa Haftar controlla le riserve petrolifere di gran parte del paese, mentre il governo di Fayez al-Sarraj, riconosciuto dalla comunità internazionale, tiene sotto pressione l’Europa offrendo un accordo sul contenimento delle migrazioni. Un accordo a condizioni disumane. Nel frattempo, gli stati dell’Unione Europea hanno smesso di inviare soccorsi militari nel Mar Mediterraneo e si limitano a tenere sotto osservazione i migranti per mezzo di droni. Con il denaro dei contribuenti l’Unione Europea addestra una Guardia costiera libica che è composta da membri delle milizie e che riporta indietro i migranti, in un paese in piena guerra civile dove si verificano sistematiche violazioni dei diritti umani: rapimento, tortura, violenza sessuale. In concomitanza con il ritiro delle navi di EUNAVFOR Med Operazione Sophia, la polizia di frontiera europea Frontex ha messo a punto un programma di monitoraggio del Mediterraneo. Oltre 100 milioni di euro vengono investiti in satelliti e droni. In questo modo il Mediterraneo è probabilmente l’area marittima più controllata al mondo. Il «fossato» della «fortezza» Europa diventa così un’area in cui testare nuove tecnologie per la difesa contro l’immigrazione a spese dei rifugiati, senza che si levi alcuna protesta pubblica. Tutto questo serve a trincerarsi, non a salvare vite. Il tasso di mortalità tra i migranti che hanno il coraggio di attraversare il Mediterraneo è aumentato in modo significativo nell’ultimo periodo. L’impegno del mio equipaggio e mio personale qui nel Mediterraneo vuole essere un segnale affinché si smetta di discutere se degli esseri umani in situazione di emergenza in mare devono essere salvati o no.

Come qualunque capitano, ho il dovere di prestare soccorso. Non importa se a essere in pericolo è un marinaio o un rifugiato, non importa da dove viene o dove vuole andare. Nessuno che viaggi in mare metterebbe mai in dubbio questo principio. Il dovere di aiutare le barche e le navi in difficoltà è, per chiunque vada per mare, non solo un dovere primario: è un’espressione della propria umanità. Se per la mia decisione dovessi finire in carcere, ci andrei con la coscienza pulita. Perché non ho fatto nulla di sbagliato; anzi, ho fatto la sola cosa giusta in un sistema che non tiene in alcun conto le vite umane. Con le mie azioni difendo valori universali, valori che vengono sempre più trascurati in nome di una rigida preclusione. Quella che dobbiamo affrontare è una domanda piuttosto semplice: vogliamo lasciar morire gli esseri umani che cercano il nostro aiuto, o vogliamo salvarli? La mia generazione, che resterà su questo pianeta ancora per un bel po’, si sta ponendo anche una domanda molto più cruciale: come vogliamo trattare in futuro gli esseri umani in fuga – e come vogliamo essere trattati noi? In questi tempi di crisi mi sembra importante collaborare a costruire la nostra società del futuro. Nazioni che storicamente sono state luoghi di immigrazione o i cui fondatori erano emigranti, oggi si schierano con mezzi disumani contro i migranti. Non pensiamo solo agli Stati Uniti, che stanno contrastando l’immigrazione clandestina lungo il confine con il Messico. Anche l’Australia, nel quadro della cosiddetta «soluzione del Pacifico», rinchiude gli immigrati in campi sulle isole di Manus e Nauru, in modo che non possano fare domanda di asilo sulla terraferma. Questa forma di privazione della libertà è accompagnata da cure mediche inadeguate, condizioni igieniche catastrofiche, stupri e aggressioni da parte della popolazione locale. La gente su queste isole vive senza alcuna privacy e in condizioni indegne, che hanno come conseguenza omicidi, gesti di autolesionismo e tentativi di suicidio. Non dobbiamo tornare indietro di molto per ricordare l’epoca in cui la fuga e la migrazione erano il destino di innumerevoli persone in molti paesi europei. Tra i nostri nonni e bisnonni ci sono molti rifugiati dalle ex zone tedesche dell’Est europeo. E solo pochi decenni prima, si verificò l’ondata migratoria verso l’America, innescata in Irlanda nel XIX secolo da una grande carestia, che uccise un milione di persone e fece sì che un altro milione

lasciasse il paese in cerca di fortuna oltreoceano. Fuggivano dalle guerre e dalle persecuzioni, perché erano ebrei, dissidenti politici o vittime di «pulizie etniche». Oggi i migranti si dirigono verso l’Europa, verso quest’isola di benessere, che li rifiuta come fossero nemici. Eppure stiamo assistendo solo all’inizio di migrazioni che saranno molto più estese e avranno cause completamente diverse. Secondo tutte le analisi scientifiche e alla luce del fatto che le emissioni inquinanti continuano ad aumentare senza sosta in tutto il mondo, il clima terrestre si riscalderà sempre di più e questo causerà la distruzione dei raccolti e la carenza di acqua potabile, che a loro volta aumenteranno i contrasti sociali. La mancanza di cibo e i conflitti costringeranno molte persone alla fuga, perlopiù all’interno del proprio paese d’origine, perché molti, per motivi economici, non sono in grado di affrontare lunghi spostamenti. Solo una piccola parte di coloro che non possono più rimanere nella loro terra riesce ad attraversare i confini internazionali. Con l’acutizzarsi della crisi climatica, sempre più gente cercherà una nuova casa. Nel Mediterraneo ho visto solo un’anteprima di ciò che incombe su milioni di persone. Siamo l’ultima generazione che forse è ancora in grado di impedire la catastrofe. Dobbiamo porre fine al consumo eccessivo delle risorse, contrastare l’ingiustizia globale e il mancato rispetto dei diritti umani. Non possiamo più aspettare che gli stati decidano da soli di impegnarsi, né la prossima Conferenza sul clima, dove si parla e basta e non si decide nulla. In un certo senso, la situazione che viviamo a bordo della Sea-Watch 3 è analoga. È venuto il momento di agire: i miei passeggeri devono essere messi al sicuro. Sedici giorni dopo il salvataggio non credo più che i politici e le autorità siano consapevoli delle proprie responsabilità. I governi non giungono ad alcuna soluzione comune. Varie città tedesche si sono offerte di ospitare i nostri rifugiati. Horst Seehofer, il ministro dell’Interno tedesco, sulla base di Dublino III ha chiesto che i rifugiati vengano registrati in Italia, ma l’Italia si è opposta. I parlamentari italiani che sono saliti a bordo ieri hanno detto che presto la situazione si sbloccherà. Abbiamo creduto loro, abbiamo navigato lentamente su e giù e ora siamo di nuovo all’ancora. Ci troviamo bloccati perché ci siamo fidati di loro. Ci siamo fidati della Guardia di finanza e della Guardia costiera, delle leggi e dei decreti europei, della Convenzione delle Nazioni Unite sui

rifugiati, dei governi e dei ministri. Non è successo nulla. Persino la Corte europea dei diritti umani, alla quale abbiamo chiesto aiuto durante il nostro viaggio, ha deciso che l’Italia non è responsabile della nostra sorte perché in quel momento eravamo ancora fuori dalle sue acque territoriali e non si vedeva alcun pericolo estremo per gli uomini a bordo. Noi qui stiamo sudando perché altri, che stanno in uffici climatizzati, prendono la decisione di non fare nulla. Potrei aver bisogno di un altro trasporto di emergenza in qualsiasi istante, come per esempio per il paziente che è stato prelevato ieri con suo fratello. Il mio equipaggio e io temiamo che l’umore a bordo possa crollare. La gente è disperata, l’ultima notte è stata terribile a causa del nuovo trasporto di emergenza. Sopraffatti ed esausti, abbiamo raddoppiato la sorveglianza, coinvolgendo addirittura i parlamentari a bordo, per intervenire in tempo se qualcuno fosse stato così disperato da compiere un gesto avventato. Uccidersi. Saltare in acqua e provare a nuotare fino alla costa. Nello stato di esaurimento in cui si trovano adesso i rifugiati, per loro sarebbe morte certa. Il team medico e Lorenz, il nostro coordinatore dei passeggeri a bordo, sono molto preoccupati. È decisamente troppo tardi per navigare verso un altro porto. Devo aspettare la prossima emergenza? Rischiare che qualcuno muoia? La giornata si trascina come una vecchia gomma da masticare che s’indurisce al sole. L’umore è teso. Nel pomeriggio, la Guardia di finanza e la Guardia costiera salgono finalmente a bordo e acquisiscono per ore le prove a favore del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Copiano le foto e i video del salvataggio e tutto il nostro traffico email. Quando se ne vanno, dopo cinque ore, dicono di nuovo che devo aspettare. Ho ancora speranza, ma in tarda serata riceviamo la notizia che la procura della Repubblica non confischerà la nave, anche se l’indagine è iniziata, e che perciò la responsabilità dei rifugiati spetta ancora a me. È perfettamente chiaro: la speranza non è servita, né a me né ai rifugiati. Se non fosse per il fatto che i passeggeri stanno peggio, direi che è come essere tornati indietro a dieci giorni fa. Devo valutare quali possibilità mi restano. Devo trasgredire il divieto ed entrare in porto per mettere in salvo i miei passeggeri?

Ancora una volta, penso a ciò che Lorenz e Victoria hanno riferito sulle condizioni dei nostri migranti. Senza alcun dubbio, il benessere delle persone che abbiamo a bordo ora è più importante della prospettiva di future missioni di salvataggio. E le conseguenze per me vengono solo al terzo posto. Non mi interessa se mi arrestano, la situazione è troppo critica. Non è una decisione che prendo avventatamente, come può aver pensato qualcuno apprendendo la notizia. Ho ponderato lungamente le opzioni, ma abbiamo esaurito ogni opportunità politica e legale. Non c’è alcuna possibilità che qualcuno ci aiuti a breve termine. Il ministero degli Esteri tedesco ha da poco informato la nostra sede che l’Italia al momento sta bloccando qualunque soluzione politica. Siamo con le spalle al muro. Convoco una riunione dell’equipaggio per annunciare la mia decisione, che è, a mio parere, inevitabile. Quando ci incontriamo sul ponte sono le 23: «Non voglio rischiare un’altra notte», dico. «Siamo arrivati al punto in cui non possiamo più essere sicuri di come i passeggeri reagiranno, o se si getteranno in mare di notte. Nonostante tutte le promesse, non abbiamo assicurazioni da parte delle autorità che ci sarà presto consentito di sbarcare, al contrario: i colloqui tra l’Italia e gli altri stati dell’UE sono di nuovo a un punto morto.» Tutti sanno che con questo sono state superate due delle linee rosse che abbiamo fissato all’inizio del viaggio. Una è il pericolo di suicidio, l’altra è la perdita di controllo su ciò che accade sul ponte. «Dunque, ho deciso di entrare in porto.» Farò ciò che deve essere fatto, perché altri non vogliono fare nulla. Smetto di sperare. È tempo di agire.

2. UN OBBLIGO DI UMANITÀ

Mentre mi chino nuovamente sulla mappa del porto, sento le voci dell’equipaggio che sta preparando sul ponte tutto ciò che serve per attraccare. Ci vuole parecchio tempo perché finalmente mi giunga il rumore del verricello dell’ancora in azione. Siamo pronti. Chiamo il porto via radio, ma non ottengo risposta, perché di notte non c’è nessuno. Quindi do l’ordine di alzare l’ancora e partire: è già passata la mezzanotte. Scorrono i minuti, finché il nostro ufficiale di coperta, Dan, mi informa via radio che l’ancora si è impigliata in una vecchia rete da pesca. Servirà quasi mezz’ora per liberarci. Mentre sto per andarmene, sul ponte sale il capomacchinista Sören: indossa una tuta e un berretto nero con bottoni colorati sui capelli biondo scuro tagliati alla moicana e con larghe basette. «L’elica di manovra sta dando i numeri», dice. «Ma non ci vorrà molto per ripararla.» E sparisce di nuovo giù. Anche questo. È la legge di Murphy, oggi va tutto storto. L’elica di manovra è un propulsore trasversale che facilita gli spostamenti in porto. Ripararla ci farà perdere tempo, e nessuno sa cosa può succedere ancora. Invece dieci minuti dopo il telefono squilla. Possiamo finalmente partire. Prima della riunione dell’equipaggio, per tenermi in piedi ho bevuto un caffè. Sono giorni che dormo troppo poco, perché vengo svegliata in continuazione per domande e problemi. Sono calma e concentrata. Ho cercato di dare all’equipaggio l’impressione che questo ingresso in porto sia una manovra di routine. Posso solo immaginare cosa stia succedendo sul ponte, dove si trovano i nostri passeggeri, e cosa gli stia passando per la testa. Hanno dovuto spostarsi, perché il ponte principale ci serve per la manovra di ormeggio. A mezzanotte Lorenz e gli altri li hanno convocati e hanno annunciato: «È arrivato il momento che aspettavamo. Ora salpiamo per il porto. Raccogliete le vostre cose».

Più tardi mi ha raccontato dell’atmosfera stranamente depressa cha ha fatto seguito a questa comunicazione. «Mi aspettavo grida di giubilo, un momento in cui rallegrarci insieme. Solo un paio di loro si sono dimostrati felici per la notizia, ma poi ha prevalso un umore triste e cupo. Non abbiamo avuto il tempo di parlarne, ma credo che dipenda dall’incertezza di abbandonare un posto sicuro senza sapere niente di “cosa ci aspetta in Europa”.» Le luci di Lampedusa sono sempre più vicine e il bagliore dei lampioni si riflette sulle scure acque notturne del bacino del porto. L’aria è fresca grazie al condizionatore: il ponte di comando è una delle poche sale a bordo dove ce n’è uno. Qui dentro è buio come fuori, se non per qualche luce verde e rossa dei display. Ho ancora indosso la canottiera nera, visto che durante il giorno faceva molto caldo, e i dread annodati. La motovedetta della Guardia di finanza ci incrocia per chiuderci il passaggio; la radio crepita ogni volta che annunciano che non ho il permesso di entrare. Navighiamo molto lentamente, ma manteniamo la rotta. C’è un solo ormeggio nel porto dove la Sea-Watch 3 può prendere posto. E lì dobbiamo attraccare. L’isola è così piccola che il porto si trova in corrispondenza del corridoio d’ingresso dell’aeroporto. Quando i traghetti o le navi di grandi dimensioni, come la nostra, devono attraccare, l’aeroporto viene chiuso. Per questo avevo già annunciato da giorni che, se necessario, saremmo entrati nel porto di notte, quando non c’è traffico aereo. Mentre giro la nave per attraccare, la motovedetta si muove tra il molo e la Sea-Watch 3. Il ministero dell’Interno ha dato ordine di bloccarci, come scoprirò più avanti. Manovro la nave per aggirarla, ma anche la motovedetta si sposta indietro e ci blocca nuovamente. Esco sull’ala del ponte per non perderla di vista. La nostra nave è quasi immobile accanto al molo, con l’imbarcazione italiana in mezzo. Per un istante, il tempo sembra fermarsi. Dopodiché, la motovedetta ritira finalmente le sue cime. Vedo la scia dell’elica, si allontanano. Tiro un sospiro di sollievo e mi rimetto ai comandi per attraccare. Sento voci alla radio, dicono che abbiamo urtato l’imbarcazione della Guardia di finanza. Torno subito fuori: la motovedetta è incastrata tra la Sea-Watch 3, il molo e un grande parabordo nero; poi però ci supera e si ferma immediatamente

dietro di noi, di fianco al molo. Mi arrabbio per lo scontro fra le due navi, ma ora devo pensare ad attraccare. Esco sul ponte e manovro la nave verso il molo. I membri del nostro equipaggio lanciano cime a persone a terra: alcuni li conosco, fanno parte della squadra aerea della ONG con cui ho collaborato lo scorso anno; altri sono nostri sostenitori di Lampedusa. Riconosco persino il prete locale. Siamo qui. Finalmente. Ma so anche che ora comincia il nuovo atto. Mentre mi avvicino al parapetto, sento alzarsi voci dal porto. Vedo un assembramento sul molo. C’è gente con cartelli, che applaude; tra la folla noto alcuni amici. Ci sono cameramen e commentatori televisivi, giornalisti e fotografi con i flash e le lampade. C’è un gruppetto di cittadini, tra cui alcuni che urlano. «Vergognatevi!» grida un uomo con i capelli corti. Una donna alza il pugno e lo scuote inveendo con una smorfia: «Trafficante di esseri umani, dovrebbero arrestarti!». E ci sono diversi agenti di polizia, con le braccia incrociate sul petto. L’intero dramma della politica migratoria europea su un palcoscenico di cinquanta metri quadrati. Per un po’ non succede nulla, perché la polizia non ci consente di appoggiare a terra una passerella. Circa un’ora dopo, all’improvviso, salgono a bordo alcuni finanzieri. «Lei è in arresto», dice uno di loro. Poco più tardi mi scortano giù da una rampa, là dove ci sono i flash. Mi faccio strada tra le telecamere e i microfoni che i giornalisti mi mettono sotto il naso. Poi vengo fatta salire su un’auto, la cui portiera si chiude con uno scatto dietro di me. Oscar mi ha poi detto che quell’ingresso nel porto lo ha distrutto. Questa volta è stato diverso dal punto di vista emotivo rispetto alle missioni a cui aveva partecipato in precedenza. Io sono tranquilla mentre mi fanno sedere in auto e mi portano via, ma sono arrabbiata per essere dovuta scendere dalla nave prima dei rifugiati, senza neppure vedere cosa accadrà loro, e se finalmente potranno toccare terra. Non ho nemmeno avuto il tempo di dirgli addio: solo il nostro ufficiale di coperta è riuscito ad abbracciarmi per un breve istante prima che scendessi dalla nave. È successo tutto molto in fretta.

Non percepisco né le luci, né le grida. Tutto ciò che le autorità hanno o non hanno fatto ha avuto il solo effetto di ridurre sempre più il mio spazio di manovra. Alla fine non ho avuto scelta. Ho dovuto prendere questa decisione per garantire la sicurezza delle persone a bordo. Entrando nel porto, ho semplicemente adempiuto al mio dovere di salvare quelle vite. Non è stato né un reato né un atto di eroismo. Credo che la maggior parte dei capitani avrebbe preso la mia stessa decisione, se si fosse trovata nella situazione in cui la vita di alcune persone era in pericolo. Probabilmente, l’avrebbe presa anche chi non ha mai navigato. Forse molti avrebbero paura delle conseguenze. Anch’io preferisco di gran lunga evitare i conflitti, ma a volte non è possibile. Tuttavia, non mi è difficile assumere le mie responsabilità, se sono convinta della mia decisione. Nella mia infanzia e adolescenza non c’è mai stato nulla che mi abbia preparata a questo momento. Il mio background familiare è borghese, e si potrebbe dire perfino noioso. Sono cresciuta in un paesino della Bassa Sassonia, vicino a Celle, costituito da diversi complessi residenziali di case monofamiliari. Durante la seconda guerra mondiale, nella zona del villaggio c’era una fabbrica di munizioni dove venivano impiegati uomini costretti al lavoro forzato. Abbiamo un monumento eretto in onore degli sfollati dalla Prussia, dalla Pomerania, dai Sudeti e dalla Slesia, che dopo la seconda guerra mondiale hanno trovato qui una nuova casa e ricostruito il paese. Si potrebbe trovare un’interessante connessione tra il mio impegno nei confronti delle persone che oggi perdono la propria patria e gli sfollati nella mia terra natale. Ma è lo stesso passato di molti luoghi in Germania, e non ci ho mai riflettuto. Fin da bambina, amavo stare in mezzo alla natura. La casa dei miei genitori si trova alla fine di una strada e il grande giardino confina con una foresta. Da piccola scalavo gli alberi: più erano alti, più mi divertivo. «I bambini giocano», diceva mia madre quando gli amici le chiedevano come potesse lasciarmi salire così in alto. «Non posso limitarla più di tanto. La vita è fatta così, è piena di rischi.» Mia madre è molto pragmatica. Se si fosse messa continuamente sotto l’albero a guardar su e agitarsi, forse non avrei imparato a fidarmi del mio giudizio. E avrei cominciato a dubitare di me stessa. Potermi arrampicare senza essere sorvegliata forse ha rafforzato la mia autostima. Di sicuro ha

rafforzato la mia sensibilità rispetto alla natura che mi circondava. Mi piaceva sedermi sulle cime degli alberi ondeggianti, solitamente su un larice, ogni tanto su un castagno. Ma il mio legame con la natura allora si limitava a questo. Non provengo da una famiglia particolarmente ecologista. Mio padre è un ingegnere elettrico; è stato a lungo nell’esercito e più tardi ha lavorato nell’industria bellica; mia madre lavora come contabile. Nessuno di noi mangia cereali macinati in casa, i miei genitori non ci portavano alle manifestazioni per la pace e, per quanto ne so, da giovani non si sono mai incatenati ai binari per impedire il passaggio dei treni carichi di scorie nucleari. D’accordo, non usavamo sacchetti di plastica, spesso mangiavamo vegetariano, ma la cosa finiva lì. Il consumismo non ha mai avuto un ruolo importante per noi, anche perché i miei genitori dovevano affrontare sovente problemi di denaro, visto che mio padre, fin dai tempi in cui frequentavo la scuola elementare, rimaneva periodicamente disoccupato. C’erano momenti in cui i miei genitori non potevano ripagare i prestiti ed erano sul punto di dover vendere casa. Ricevevo di rado vestiti nuovi, e i miei regali di Natale erano spesso più modesti di quelli dei miei amici. Fare qualcosa per gli altri, mettermi in gioco, non era una cosa a cui pensavo in quel periodo. Ero troppo occupata con me stessa. Alcuni nella mia classe avevano aperto una sezione di Greenpeace, ma non mi interessava parteciparvi. Mi ero chiusa in me stessa, e ho trascorso gran parte della mia giovinezza davanti allo schermo del computer. Nei tre anni prima della laurea, la mia giornata consisteva nell’andare a scuola, giocare a World of Warcraft e dormire. Sono stata online per un anno intero con lo stesso avatar: ma non mi limitavo a giocare, spesso navigavo semplicemente, o chattavo. I miei genitori, all’epoca, temevano che sarei andata alla deriva, che non avrei mai concluso nulla. Forse non sarà stata la più intelligente delle attività, ma non mi pento di quel periodo. Una partita multiplayer con quaranta persone è quasi come un club sportivo, in cui tutti sono in competizione per ottenere riconoscimenti e posti nella squadra. Oggi i videogiochi sono più accettati, ma le mie vere responsabilità, ora, sono nella vita reale. Quando arrivai alla maturità non avevo la minima idea di quale percorso professionale volessi intraprendere. Mio padre voleva che studiassi Ingegneria.

«Perché non studi Scienze politiche?» mi chiese una compagna di classe. «Mi sembra adatto a te.» «Ma come ti è venuto in mente?» le risposi. «È un’idea completamente assurda.» Quando oggi i giornalisti mi chiedono se ora intenda buttarmi in politica, a volte ripenso al suggerimento di quella mia compagna di scuola. Forse ha visto qualcosa in me di cui all’epoca non avevo preso coscienza. In quel periodo sapevo solo che volevo impegnarmi in attività di cui potessi vedere il risultato e che volevo un lavoro pratico, non stare seduta in un ufficio. Per molto tempo non ho avuto idea di che cosa potesse essere questa attività. Da qualche parte scoprii che tra le figure professionali richieste c’era l’ufficiale nautico, che è uno degli sbocchi lavorativi per un ingegnere; mi piaceva l’idea di andare lontano, di lavorare spesso da sola e di avere molti incarichi diversi. Il corso di studi iniziò con un semestre di pratica su una nave mercantile, con una capienza di ottomila container. Ogni due settimane, la nostra nave passava dall’Europa attraverso il Canale di Suez dirigendosi verso l’India e ritorno; un viaggio di andata e ritorno durava cinque settimane. Trovavo incredibilmente noiosi soprattutto gli infiniti turni sul ponte quando eravamo in mare aperto; tutto il sistema era estremamente strutturato e consentiva poca libertà. Molti di coloro che lavoravano a bordo delle navi lasciavano intendere chiaramente che avrebbero preferito essere a casa. Soprattutto a Natale l’umore era pessimo, perché tanti avevano nostalgia della famiglia. Ho vissuto la tristezza del nostro cuoco quando non poté assistere alla nascita di suo figlio. Altri iniziavano a bere per la frustrazione di vedere sempre rimandata la scadenza del contratto, e dunque il permesso di lasciare la nave. Volevo davvero continuare questo percorso di studi, se la mia vita professionale prometteva di essere così? Dopo il primo semestre di studi teorici al Politecnico decisi di andare all’estero per pensare bene ai miei piani per il futuro. Una compagnia cilena mi assunse come guida turistica su un traghetto che attraversava i fiordi e i canali della Patagonia, un percorso mozzafiato, quando non pioveva. Il traghetto passava sempre per Puerto Edén, un minuscolo insediamento nella baia costituito da poche case rannicchiate le une sulle altre con lo sfondo di montagne innevate. Un tempo ci vivevano ottocento persone, pescatori; ma la marea rossa, un accumulo di alghe velenose che colorano l’acqua, si era diffusa in quella

zona e aveva reso i molluschi immangiabili, causando agli abitanti la perdita del lavoro e costringendo molti ad andarsene. Fioriture di alghe rosse si verificano in diverse parti della terra e si sviluppano in relazione alla temperatura e alle direzioni dei venti, oltre che alla salinità dell’acqua. Spesso sono causate dalle acque calde di riflusso delle centrali elettriche, altrove da El Niño, o dalle correnti. Quando andai a Puerto Edén, ci vivevano solo sette kawesqar, un popolo di nomadi del mare, abitanti nativi dei canali della Patagonia; la popolazione totale dell’isola si era ridotta a circa cento abitanti. Successivamente, viaggiai per l’Argentina e il Perù grazie al mio visto di lavoro annuale per il Cile, pagato dalla compagnia di navigazione, e imparai lo spagnolo. Quando fui di ritorno in Europa, avevo in mente di cambiare corso di studi, ma un amico mi convinse a laurearmi in Scienze nautiche. Per conseguire la laurea il più rapidamente possibile, inserii nel piano di studi tutto ciò che mancava e completai il doppio dei corsi e degli esami previsti per quel periodo recuperando il tempo perduto. Il secondo semestre di pratica lo trascorsi su una nave appartenente al ministero federale tedesco dell’Istruzione e della Ricerca. Sulla Meteor lavoravano scienziati e ricercatori dei più svariati campi di studi: dall’oceanografia alla biologia marina, fino alla sedimentologia. Il lavoro a bordo era molto più interessante che sulla nave portacontainer: l’ambiente sociale era più variegato e tutti erano appassionati alla ricerca. Fui assegnata a un ex ufficiale di marina, un uomo abituato a formare persone. Ci capimmo subito: nonostante si attirasse le prese in giro degli altri, durante i nostri turni fumava sempre all’esterno, per non disturbare me che sono una nonfumatrice. «Adesso, per una settimana, ti mostrerò cosa facciamo qui», disse. «Dopo piloterai tu e io starò a guardare.» In questo modo imparai moltissimo. La cosa più importante era indubbiamente assumersi delle responsabilità e affrontare compiti impegnativi. Da quel momento capii che volevo viaggiare per mare, anche se non necessariamente come capitano. Un capitano ha un sacco di pratiche burocratiche da sbrigare, e questo non mi piaceva. E ho fatto così tante altre cose che sembra davvero assurdo che qualcuno riduca la mia vita al solo fatto di aver svolto il ruolo di capitano sulla Sea-Watch 3 per esattamente ventun giorni. Sì, capitano. Non capitana: non mi piace. Capitano è il termine corretto

per questo lavoro. E sì, so benissimo di essere una donna. Mi sento un po’ fuori posto tra i capitani delle navi mercantili, soprattutto perché non lavoro in mare da più di due anni. Ma non è necessaria la patente di capitano, perché la Sea-Watch 3 è uno yacht, quindi si applicano normative diverse. È più importante, nella pratica, che tu abbia esperienza sufficiente. Dopo la Meteor, completai la seconda parte del mio tirocinio in inverno, su un traghetto nel Mar Baltico: la MS Transrussia, uno dei due traghetti che viaggiano due volte alla settimana tra Lubecca e San Pietroburgo. Si tratta di una tipica nave mercantile, che non è progettata come un traghetto per passeggeri, ma trasporta principalmente camion carichi di merci. Il capitano, una persona seria e gentile, era in procinto di andare in pensione e aveva molta esperienza di navigazione sul ghiaccio. Navigare in mezzo al ghiaccio è un’arte davvero particolare, specialmente durante una nevicata o di notte, quando non si vede nulla. Ed è davvero una sensazione magica: quando si rompe, il ghiaccio scricchiola, produce un suono molto piacevole; dormo sempre bene quando viaggio sul ghiaccio. A volte la nave trema leggermente mentre frantuma i banchi. I momenti più belli a bordo erano quando vedevo l’alba, poco prima di San Pietroburgo. La maggior parte delle volte stavo sul ponte tutta la notte e, quando il sole sorgeva a est, vedevo tutte le navi di fronte a me che sfilavano pigramente come una carovana attraverso lo spesso strato di ghiaccio. Il ghiaccio era così spesso che ci capitava frequentemente di superare altre imbarcazioni rimaste bloccate, perché il nostro traghetto aveva un’alta classe ghiaccio: grazie alla distanza tra le fiancate e allo spessore dell’acciaio, era molto stabile e riusciva a passare attraverso ghiaccio molto spesso. Navigare sul ghiaccio mi affascinava, e ho imparato quali manovre si possono eseguire con il timone o col motore per liberarsi quando si rimane bloccati. La Transrussia e la Meteor sono gestite dalla stessa compagnia di navigazione, che mi aveva già assicurato che dopo la laurea mi avrebbe assunta. Per non finire di nuovo su un mercantile, chiesi al responsabile del personale un impiego su una delle navi da ricerca. Un giorno, poco prima dell’esame di laurea, ricevetti da lui una email: «Il 4 agosto, si libera un posto sulla Polarstern e lo offriamo a lei». Vale sempre la pena di chiedere. Perché quello che suona come un posto qualunque, era per me come se avessi fatto tombola. Cominciai a saltellare per la stanza dalla gioia: la Polarstern, il simbolo della ricerca polare tedesca!

Il sogno di ogni navigatore. Tanto più dopo aver scoperto il mio amore per il ghiaccio. Ovviamente, tutto ciò all’inizio significava sentirmi addosso parecchia pressione, perché se non avessi superato l’esame, l’offerta sarebbe stata ritirata. Lo superai. All’epoca non avrei potuto immaginare che questa spedizione nell’Artico sarebbe stata una delle esperienze più importanti della mia vita, e non solo dal punto di vista professionale. Mi bastava la felicità di essere sui ghiacci. La Polarstern è una rompighiaccio di ricerca molto speciale, che viaggia solitamente nell’Artico nei mesi estivi dell’emisfero nord e in Antartide nei mesi estivi dell’emisfero sud, quando il ghiaccio non è troppo spesso. Nel 2019 sarebbe iniziata anche una spedizione che avrebbe portato la nave con il suo equipaggio nell’Artico per un anno intero, durante il quale si sarebbe fatta strada grazie alla deriva dei ghiacciai. In tutte le altre spedizioni, la nave si era aperta la via attraverso il ghiaccio. E in quest’ambito avevo già accumulato una certa esperienza sul traghetto. Solo che non ero preparata a quello che avrei visto nel Mare Artico. Il caso volle raggiungessimo il Polo Nord proprio durante il mio turno di mattina. Ero di guardia sul ponte e il capitano, che aveva già partecipato ai due precedenti viaggi della Polarstern al Polo Nord, mi aveva lasciato la responsabilità. Ovviamente, il punto esatto in cui si trova il Polo Nord non è diverso dal paesaggio che si estende tutto attorno per chilometri. L’indicazione del luogo è data esclusivamente dalle coordinate. Il ghiaccio, tuttavia, era bianco anziché bluastro, aveva molte sacche d’aria, non era affatto spesso. Ovunque gli scienziati provassero a installare le loro apparecchiature per effettuare le misurazioni, lo spessore si rivelava insufficiente. Avevano bisogno di ghiaccio più antico. «Questo ghiaccio ha meno di un anno», mi disse il capitano. «Non ne ho mai visto così in questo punto. Vent’anni fa eravamo arrivati con una rompighiaccio svedese, ed era stata davvero dura. Adesso non c’è quasi più ghiaccio.» Passammo mezz’ora a cercare con l’elicottero il ghiaccio più antico. «Già solo nell’arco della mia vita ho potuto rendermi conto che il ghiaccio è in costante diminuzione», disse Sergej, uno degli oceanografi russi. E anche la scienziata che dirigeva la spedizione era visibilmente preoccupata per il rapido cambiamento. Fu uno schock, ma mi tranquillizzava il pensiero che tutti quegli scienziati stavano studiando il problema e

cercando una soluzione. Facevamo parte di un sistema in cui venivano raccolti dati scientifici attendibili e che doveva avere qualche utilità, giusto? Con la Polarstern partecipai a cinque missioni. Acquisii velocemente una buona esperienza e devo anche dire che mi divertii. In questo lavoro, si è molto autonomi e si sta quasi sempre da soli sul ponte di comando. Quando, per vedere più in là e trovare la rotta migliore, dovevo arrampicarmi per dieci metri sulla coffa – la piattaforma di osservazione sul ponte – fermavo la nave. A volte solo dall’alto si può individuare il bordo di una lastra di ghiaccio che bisogna aggirare. Quando si attraversa una grossa lastra la nave rallenta molto, o addirittura si blocca e spesso si risparmia tempo scegliendo un percorso più lungo e costeggiando queste distese di ghiaccio. Quando il vento è forte, spinge tutte le lastre nella stessa direzione e le compatta, e non c’è spazio per passare tra una e l’altra. La nave viene quindi ancorata e bisogna semplicemente aspettare, come ai vecchi tempi, fino a quando il vento non cambia direzione. Sulla nave comunque non ci si annoia, perché ci sono diversi gruppi di lavoro, che in genere amano parlare delle loro attività e dell’utilità dei dati che raccolgono in vari contesti. Con il loro meticoloso sforzo di ricerca compongono le piccole tessere di un grande puzzle dal quale emergono nuove intuizioni. Il tempo passava rapidamente. Tutti erano contenti di me. Solo che ero io a non essere contenta. Perché il tempo ci sfuggiva di mano. I risultati della ricerca non sembravano contribuire in alcun modo a cambiare le cose. Tutti discutevano, soppesavano, scrivevano studi scientifici e relazioni per i politici. Ma i responsabili non facevano nulla di quei risultati, non c’era alcun cambiamento nella politica relativa al clima per impedire lo scioglimento dell’Artico. La ricerca mi sembrava sempre più insensata, non mi bastava più lavorare come autista di un autobus per scienziati. Sentivo che non stavo investendo le mie energie nella direzione giusta. Inoltre avrei preferito lavorare in modo indipendente, piuttosto che per altri, e volevo di nuovo stare a contatto con la natura, all’aria aperta. Tra una missione sul rompighiaccio e l’altra ho viaggiato anche in Sud America e in Pakistan, dove ho fatto molto campeggio. Adoro stare nella natura, godermi l’orizzonte. Quando tornavo sulla nave, il ponte di comando sembrava un ufficio, con finestre che solo per caso si affacciavano sullo splendido panorama degli iceberg. Per dirla in breve, preferivo fare qualcosa di pratico

per fermare la distruzione della natura, fosse anche su scala più piccola. Lasciai il mio posto sulla Polarstern. Avevo capito che le cose lì non stavano andando come volevo e dovevo semplicemente provare qualcosa di diverso. Così feci richiesta per un servizio volontario europeo e lavorai per otto mesi nel parco naturale di Bystrinskij, nell’estremo Est della Russia. C’erano molte betulle, ma anche boschi di conifere, e in estate eravamo tormentati dalle zanzare. Percorrevamo lunghe distanze a piedi, non c’erano quasi strade asfaltate. In luglio la vegetazione cresceva in altezza e, quando cavalcavo i pony, le erbacce e le piante perenni arrivavano fino al dorso degli animali. Il parco aveva pochi dipendenti: solo sette impiegati sono assunti a tempo pieno, mentre come volontari, oltre a me, c’erano un cartografo dalla Germania, un’antropologa lettone e una geo-ecologa russa, Ksenia, insieme alla quale lavoravo spesso. Ksenia voleva tornare a occuparsi di biologia, dopo diversi anni nel settore petrolifero. Purtroppo imparavo meno di quanto sperassi sulla tutela dell’ambiente: eravamo troppo occupati a riparare le capanne, tagliare gli alberi e spaccare la legna per l’inverno, compiti che sottraevano molto tempo al vero intervento di tutela. Per di più, il nostro lavoro era reso ancora più difficile dalla vastità dell’area e dalla difficoltà di attraversarla; a volte ci mettevamo più di tre giorni per arrivare in posti che distavano meno di settanta chilometri. I veicoli si rompevano frequentemente e i ranger spesso dovevano fare più i meccanici che gli ambientalisti. Una volta visitammo una famiglia che viveva nella regione in una capanna isolata, perché volevamo mappare le piante nelle vicinanze. La famiglia era di etnia evena, un popolo di cacciatori e pastori di renne. Ma fu la foresta a colpirmi più di tutto: era vergine come non ne avevo e non ne avrei più viste in Europa. Dopo gli otto mesi nel parco, volevo fare qualcosa di più politicamente impegnato e mi imbarcai su una nave di Greenpeace. Come ufficiale nautico non mi divertivo granché, non volevo più fare quel lavoro e mi annoiavo sul ponte di comando. Quello che facevano gli attivisti di Greenpeace mi sembrava molto più interessante. Avevano più libertà, indagavano sulle attività illegali delle flotte di pescherecci, conoscevano la legislazione in materia di pesca, pianificavano azioni e mettevano in contatto persone e organizzazioni. Uno dei volontari tedeschi mi parlò di una ONG di recente fondazione chiamata Sea-Watch, che si occupava di salvare dal naufragio i migranti nel Mediterraneo. Ci lavoravano alcuni suoi amici, e sembravano avere un

disperato bisogno di aiuto. Così scrissi una email offrendo il mio sostegno. Ma, nonostante le ripetute richieste, non ricevetti alcuna risposta: solo successivamente venni a sapere che Sea-Watch all’epoca era oberata dalle richieste, non aveva ancora un’adeguata struttura organizzativa e i pochi volontari non riuscivano a rispondere a tutte le email, molte delle quali non venivano mai lette. Nell’autunno del 2015 intrapresi un corso di studi in Scienze ambientali a Omskirk, un’anonima città di commerci a nord di Liverpool. In quel periodo, la situazione dei rifugiati in Grecia si stava aggravando. D’inverno, Lesbo diventava la meta per molti migranti dal Medio Oriente, in particolare dalla Siria; circa il 18 per cento di loro proveniva dall’Afghanistan, il 3 per cento dal Pakistan. Notte e giorno, barche cariche di migranti raggiungevano l’isola greca; c’erano periodi in cui sbarcavano tremila persone al giorno: secondo le informazioni dell’Alto commissariato per i rifugiati dell’ONU, in quell’anno ne erano arrivate circa trecentonovantamila. Sulla Grecia grava una grande parte dell’onere europeo: nel famigerato campo profughi di Moria vivono adesso ottomila persone, anche se è stato costruito per ospitarne solo duemilacinquecento. Medici senza frontiere ha definito Moria «il peggior campo profughi al mondo»: condizioni sanitarie insostenibili, un alto recinto di filo spinato, conflitti con la gente del posto, assenza di riscaldamento e scarsità di acqua corrente. I tentativi di suicidio e la violenza sono all’ordine del giorno. Non ero a conoscenza di tutto ciò. I miei studi in tutela ambientale mi lasciavano poco tempo e avevo ancora addosso il cosiddetto «virus polare»: ero ancora colpita dal fascino del ghiaccio eterno. Che, come avevo capito chiaramente, non è affatto eterno. Così, mentre continuavo a studiare, feci domanda presso l’istituto di ricerca polare britannico, il British Antarctic Survey, per continuare a lavorare in quell’ecosistema. Tuttavia, il lavoro a bordo riprese ad annoiarmi. Capivo sempre meglio che non volevo più lavorare come ufficiale nautico. Durante l’ultima settimana di una delle spedizioni, mentre stavamo tornando alle Isole Falkland, da dove eravamo partiti, ricevetti una email da Sea-Watch. Non mi aspettavo più di avere notizie da loro. Un capitano si era improvvisamente ammalato, e stavano cercando qualcuno che potesse subentrargli all’istante. Un’emergenza: accettai. Era la seconda missione della Sea-Watch 2.

Non sapevo cosa mi aspettava. Ci fu solo un breve passaggio di consegne tecnico. Non avevo idea di come funzionasse Sea-Watch. Ancora meno della situazione nel Mediterraneo. E con così tanti volontari a bordo, a volte era tutto un po’ caotico. Fungevo da sola sia da capitano sia da ufficiale di coperta, perché dovevo anche occuparmi della manutenzione e dell’organizzazione sul ponte. In ogni caso, il lavoro mi piaceva, perché eravamo una squadra: tutti erano motivati, tutti volevano aiutare, tutti volevano imparare qualcosa. A parte me, solo altri due membri dell’equipaggio avevano esperienza di navigazione. Facemmo conoscenza a bordo: un equipaggio piccolo, tredici persone, che stavano affrontando il loro primo viaggio. La Sea-Watch 2 è stata impiegata nel salvataggio di oltre venticinquemila migranti. È una vecchia nave che si muove bene in acqua, più piccola della maggior parte delle imbarcazioni su cui avevo navigato prima. Poiché mi piaceva stare lì ed era un lavoro che mi stimolava, rimasi per le due missioni consecutive che avevamo stabilito. All’epoca salvavamo le persone in difficoltà e le consegnavamo alle navi della Guardia costiera italiana, alle navi militari dell’UE o alla Frontex. Aspettavamo accanto alle barche, distribuendo giubbotti di salvataggio. Prendevamo gente a bordo solo se non c’erano altre possibilità: una volta facemmo salire centotrenta persone da un gommone, in modo da poter andare nel luogo di un secondo incidente nelle vicinanze, dove si era rovesciata una barca di legno. Avevamo molto da fare. Capitava che in una sola settimana si rovesciassero più barche. La maggior parte delle persone che attraversano il mare su imbarcazioni del genere sono esauste e non sanno nuotare. L’equipaggio di una delle navi militari italiane ci chiamò in aiuto in un caso in cui c’erano da recuperare quasi soltanto morti, e chiesero ai soccorritori sulle lance di contrassegnare i cadaveri con i giubbotti di salvataggio. Qui fu scattata la celebre foto in cui uno dei volontari, Martin Kolek, tiene in braccio un neonato morto. «Che la gente anneghi lo si mette in conto», disse Martin in seguito. «Ma quando lo vedi con i tuoi occhi è comunque diverso. Avevo previsto molte cose, ma non che la mia visione del mondo sarebbe cambiata così profondamente.» È sconvolgente essere presenti quando i morti vengono estratti dall’acqua, perché si è in ritardo di solo poche ore, a volte di minuti.

Dovevo licenziarmi dal British Arctic Survey? Da un lato, ciò che facevo nel Mediterraneo mi sembrava molto importante, dall’altro quelle piccole navi possono essere pilotate anche senza la patente per le navi mercantili, quindi di solito c’erano abbastanza capitani tra cui scegliere. La tutela dell’ambiente mi sembrava più importante, anche perché riceve meno attenzione rispetto ai soccorsi in caso di disastri, tra cui i salvataggi nel Mediterraneo. E così solo nel 2017 trovai nuovamente il tempo per prestare servizio nel Mediterraneo. Questa volta con Sea-Eye, l’organizzazione che oggi gestisce la Alan Kurdi, la nave che prende nome dal piccolo rifugiato siriano il cui corpo fu trovato, annegato, sulla costa mediterranea della Turchia. Ho navigato per Sea-Eye sulla Seefuchs pilotando uno dei gommoni, perché non volevo stare ferma sul ponte. Nella stessa estate del 2017, SeaWatch mi chiese se potevo aiutare ad allestire Sea-Watch 3, che era stata appena acquistata. Trascorsi due mesi sulla Sea-Watch 3, e furono lunghe giornate di lavoro, occupate anche dalle formalità necessarie al cambio di bandiera e dalle ispezioni tecniche. Con nostra grande frustrazione, ci volle più tempo del previsto per ottenere tutti i documenti, nonostante la nave fosse pronta già da tempo per salvare naufraghi. In agosto, mentre ero ancora lì, la Iuventa, una nave gestita dall’associazione Jugend Rettet, fu requisita dalle autorità italiane a Lampedusa. Non rimasi particolarmente sorpresa, perché avevo già parlato in primavera con un collega della possibilità di subire una repressione politica. Tuttavia, segnò una cesura: appena apprendemmo la notizia, capimmo chiaramente che il salvataggio in mare sarebbe stato criminalizzato. L’opinione pubblica aveva cambiato orientamento e aumentavano le accuse secondo cui i soccorritori in mare erano d’accordo con le organizzazioni dei trafficanti. Trascorsi l’inverno facendo ricerche sul campo per la mia tesi di laurea nella Georgia del Sud, nella regione subantartica. Tra gli argomenti vi era il ripristino naturale degli ecosistemi e come le foche stanno ripopolando la zona dopo essere state quasi completamente sterminate dagli umani. Nel corso dei miei studi ero diventata sempre più consapevole del fatto che il pericolo principale per la biodiversità non è tanto il cambiamento climatico, quanto il nostro utilizzo del territorio e lo sfruttamento delle risorse. O meglio: il consumo eccessivo da parte delle nazioni industrializzate. Quando l’estate successiva ebbi di nuovo del tempo libero,

tornai nel Mediterraneo. Ma visto che non sentivo il minimo desiderio di stare in mare, ho prestato servizio esclusivamente nella squadra aeromobili. Avevo già collaborato con Sea-Watch in quel settore alla fine del 2017 perché durante il mio ingaggio sulla Polarstern avevo volato con i miei colleghi in elicottero e me la cavavo discretamente. Oggi i salvataggi in mare nel Mediterraneo centrale si basano su informazioni ottenute dalla ricognizione aerea. L’aviazione militare dell’UE, spesso partendo da Lampedusa o da Malta, sorvola regolarmente queste zone; anche Frontex utilizza droni e aeroplani – uno di questi si chiama Seagull ed è costantemente in viaggio. Nel migliore dei casi voliamo con due piccoli aerei civili, uno dei quali si chiama Moonbird, l’altro Colibrì. Sea-Watch si occupa del coordinamento tattico, mentre l’aeromobile e i piloti appartengono a un’altra ONG. Per le navi di soccorso non è affatto facile individuare le barche dei migranti, perché sono davvero piccole e si possono riconoscere solo quando si trovano a una distanza minima. La zona costiera, da cui salpa la maggior parte di loro, è molto estesa. Di norma, nessuno nella barca ha una bussola: navigano un po’ orientandosi con la posizione delle costellazioni, un po’ usando il GPS nel telefono, se ne hanno uno che funziona. Inoltre le correnti marine e il vento li portano fuori rotta. Trovare in mare le persone avvistate da Moonbird ore prima è difficile. Nessuno sa a che velocità le barche stiano andando, e neppure se siano veramente sulla rotta del porto europeo più vicino. Poiché spesso perdono l’orientamento o il motore si spegne, vanno alla deriva. È come cercare un ago in un pagliaio, ed è una corsa contro il tempo, perché una barca del genere può affondare in qualsiasi momento. Mentre gli aerei esplorano l’intera costa forse anche altre persone stanno rischiando il pericoloso viaggio in mare. Peraltro, non hanno carburante illimitato e potrebbero sostare nell’area di ricerca solo un paio di ore. Quest’anno, la situazione dei salvataggi è diventata sempre più drammatica e la repressione politica, dal mio punto vista, sempre più evidente: la Lifeline è stata confiscata, la Sea-Watch 3 è stata fermata nel porto della Valletta, perché a quanto pare non era stata registrata correttamente; e anche la Seefuchs ha avuto problemi di registrazione. SOS, Medici senza frontiere e Save the Children hanno deciso di interrompere le loro missioni perché hanno ricevuto meno donazioni e i soccorritori sono stati interrogati dalla polizia dopo quasi ogni sbarco. È stato redatto un codice di

condotta che regolamenta il comportamento in mare in maniera più severa di prima, e che ci impone adempimenti che prima non rientravano nelle nostre attività. I Paesi Bassi hanno improvvisamente introdotto norme completamente nuove per le navi di soccorso marittimo, con l’obbligo di sottoporle a revisioni. L’Italia ha decretato che le sue acque territoriali non possono essere attraversate dalle navi di soccorso civile. Il Moonbird ha dovuto fare rifornimento in Tunisia, con deviazioni di rotta dai costi esorbitanti. Le nuove linee guida ci hanno reso la vita difficile. E hanno causato sempre più morti in mare. Quando sono partita sulla Sea-Watch 3 nel giugno del 2019, sapevo benissimo che a questo viaggio, a causa della tensione politica in Italia, sarebbe seguita un’indagine della magistratura. L’anno prima, in Italia erano saliti al potere partiti xenofobi, anche per la mancanza di solidarietà dell’UE in materia di migrazione. Erano già stati aperti e poi archiviati procedimenti giudiziari contro altri capitani. Ciò non mi ha scoraggiato, perché ero e sono ancora convinta che come società civile non possiamo lasciare che la nostra frontiera europea e la definizione dei diritti umani siano in mano a nazionalisti di destra come quelli che occupavano il ministero dell’Interno italiano in quel momento. Non potevamo lasciarci intimidire. Ed è per questo che ho sentito la responsabilità morale di partecipare alla spedizione. Perché sono in grado di farlo, anche se la navigazione in sé non ha più nulla da darmi. Salvare vite umane è un imperativo dell’umanità. E lo sarà sempre. Abbiamo il dovere di aiutare, di sostenerci a vicenda. Il più possibile. Per primi i più deboli. Il teologo Martin Niemöller, che inizialmente sostenne Hitler ma poi entrò nella resistenza e fu attivo nel movimento pacifista dopo la guerra, ha scritto una poesia che esprime il motivo per cui, secondo me, la maggioranza deve proteggere i diritti delle minoranze, come per esempio i rifugiati. Quando i nazisti vennero a prendere i comunisti, rimasi in silenzio; non ero un comunista. Quando imprigionarono i socialdemocratici, rimasi in silenzio; non ero un socialdemocratico. Quando vennero a prendere i sindacalisti, ho taciuto; non ero un sindacalista.

Quando vennero a prendere me, non era rimasto nessuno a protestare. Se per noi le persone bisognose sono «gli altri» e distogliamo lo sguardo invece di aiutare, la nostra civiltà perde le sue fondamenta. La libertà di espressione e il diritto alla vita sono diritti umani. Non possiamo guardare dall’altra parte solo perché a essere colpita è una categoria alla quale non sentiamo di appartenere. Questo indebolisce i diritti umani che appartengono a noi tutti – i più deboli sono solo i primi a essere colpiti. A mio avviso, tutti coloro che ne hanno la possibilità dovrebbero utilizzare i loro privilegi per aiutare gli altri. Coloro che godono dei diritti si trovano in una condizione fortunata. Ma hanno anche il dovere di aiutare coloro che nel nostro sistema vengono ignorati affinché possano vedere rispettati i loro diritti.

3. L’ULTIMA GENERAZIONE?

«Andiamo al posto di guardia.» Il comandante della motovedetta della Guardia di finanza sembra arrabbiato. Forse per la sua lancia rigata, forse per la situazione in sé. Il suo collega seduto al posto di guida mette in moto e partiamo, lasciandoci alle spalle le luci del porto. Mi ero immaginata che sarebbe stata una notte lunga, ma non pensavo certo che avrei dovuto trascorrerla interamente nell’ufficio della Guardia della finanza. Evidentemente quello che ho dovuto fare per motivi di emergenza, visto che per settimane la politica e i funzionari europei non si sono assunti le loro responsabilità, sta portando esattamente alle complicazioni giuridiche che avevo temuto. Poco dopo l’auto si ferma davanti a un semplice edificio a due piani; i giornalisti sono già lì che aspettano. Uno dei militari mi conduce all’interno e mi invita a sedermi. L’ufficio è spoglio: non ci sono quadri alle pareti né piante, solo due tavoli con computer e stampante, alcune sedie, uno scaffale con i volumi dei codici. Aspettiamo il mio avvocato, che arriva trafelato venti minuti dopo. Ha l’aria preoccupata. Passa un bel po’ di tempo mentre i funzionari scrivono al computer il loro rapporto e si consultano su quali paragrafi del codice io possa aver violato. Nel frattempo il mio avvocato discute con loro sullo stato delle cose. Io provo a seguire il loro dialogo in italiano, ma non ci riesco. Il capo della Guardia di finanza offre a tutti un caffè. Cerco di trattenere gli sbadigli e guardo di continuo l’orologio: le lancette avanzano al rallentatore. Sono stanca e vorrei dormire, ma un senso interiore di inquietudine mi tiene sveglia. Già mentre percorrevo la passerella per scendere dalla nave, con la gente che da una parte urlava con rabbia e dall’altra applaudiva, e mentre il finanziere mi spingeva sul sedile posteriore dell’auto, il mio unico pensiero era: “Merda, adesso non saprò più cosa succede a bordo”. Più volte ho chiesto ai finanzieri se le persone salvate fossero scese.

Finora niente di nuovo. Però a poco a poco sta diventando chiaro che non posso tornare sulla nave. La procura della Repubblica l’ha messa sotto sequestro e i finanzieri stanno discutendo su chi debba condurla fuori dal porto. È improbabile che mi lascino risalire per riportare la Sea-Watch 3 al punto di ancoraggio. Se mi vedessero di nuovo al porto, i media si getterebbero a pesce sulla notizia e i finanzieri temono di rendersi ridicoli. Ci sono molte carte da compilare, i rapporti vengono stampati più e più volte perché si trovano continuamente errori. Anche gli impiegati sono stanchi. «Li fanno scendere», dice finalmente il capo della Guardia di finanza verso le cinque del mattino. Era ora. La nave deve tassativamente lasciare il porto prima delle sei in modo che lo scalo possa aprire. L’equipaggio se la cava anche senza di me, ma avrei voluto salutarli. Ora che i profughi scendono, di sicuro i miei compagni prima di tutto si riposeranno. Poi presumo dovranno dirigersi verso Licata, dove il nostro viaggio è iniziato diciassette giorni fa. Tutti questi pensieri mi passano per la mente mentre mi agito sulla sedia cambiando di continuo posizione. Il capo dei finanzieri esamina ancora una volta il rapporto, lo sfoglia avanti e indietro, si strofina gli occhi. Si porta la tazzina di caffè alle labbra, poi la rimette giù perché è già vuota. Scuote la testa accompagnando il gesto con un gemito Probabilmente è irritato perché sperava in un lavoro tranquillo e invece gli tocca occuparsi di una questione che è diventata lamento. Per me non è un problema se mi arrestano, perché io ho rispettato il diritto del mare. Ma questa procedura è seccante e spero solo che alla fine tutte queste grane saranno valse la pena. Quando il nuovo decreto arriverà davanti al giudice si potrà stabilire che viola il diritto vigente, e forse sarà dichiarato nullo. Dato che a Lampedusa non ci sono celle, si stabilisce che io rimanga agli arresti domiciliari fino all’interrogatorio. Questo però si potrà svolgere solo lunedì: oggi è sabato, e naturalmente il tribunale nel fine settimana è chiuso. Il fatto che nel 2019 in Europa si arresti qualcuno che ha salvato vite umane è inquietante. La comunità internazionale è messa proprio male se la retorica di destra trova sempre più spazio anche nelle leggi e nelle azioni. Non dovrebbero esserci dubbi sull’opportunità di salvare persone in pericolo. E non solo sul fatto di aiutarle a raggiungere un porto sicuro, ma anche sul fatto

di trattarle con rispetto, senza offendere la loro dignità, una volta che sono arrivate. Dovrebbe essere una cosa naturale, e del resto è uno dei principi scritti nell’ordinamento costituzionale di molti stati europei. L’atteggiamento che si ha nei confronti dei migranti in paesi che si considerano civili non è tollerabile: campi profughi sempre più grandi, condizioni sempre più disumane. Gli esseri umani vengono dimenticati, come a Moria. O maltrattati, come a Calais, dove la polizia spruzza spray al peperoncino sul loro cibo e di notte squarcia le loro tende. O uccisi con armi da fuoco, come alla frontiera della Bulgaria. Il modo in cui le persone vengono trattate o maltrattate, i procedimenti legali sbrigativi con cui vengono giudicate, gli abusi perpetrati nei campi e nei centri di detenzione finché qualcuno non vede altra via d’uscita e si toglie la vita: tutto questo dimostra che nell’Unione Europea i diritti umani non valgono per tutti. Le condizioni con cui questi uomini e donne in fuga si devono confrontare stanno diventando sempre più pericolose per molti di loro. Semplicemente perché in futuro sempre più persone si vedranno costrette a fuggire a causa di catastrofi ecologiche o necessità economiche. Questo è un fatto, come attestano tutti gli studi sul tema. Spesso si dice che si dovrebbero prendere provvedimenti che impediscano alla gente di fuggire dal proprio paese, oppure che si dovrebbero controllare in modo più efficace le rotte migratorie. Ma questo significa che il problema non è stato compreso. Non lo si risolve solo nei paesi d’origine o lungo le rotte migratorie, perché non è lì che è nato. Le cause delle migrazioni sono complesse; perlopiù le persone sono spinte a fuggire da diversi fattori tra loro collegati. Quello che dobbiamo comprendere è che uomini e donne lasciano la loro patria solo quando non hanno altre possibilità. Uno dei motivi che spingono a partire è il cambiamento delle condizioni climatiche e ambientali. Secondo un rapporto del Centro di monitoraggio degli sfollati interni (Internal Displacement Monitoring Centre, IDMC), in tutto il mondo, solo nella prima metà del 2019, circa sette milioni di persone sono fuggite in altre regioni all’interno del proprio paese a causa di alluvioni (per esempio nelle Filippine, in Etiopia e Bolivia) o cicloni (Fani nel Golfo del Bengala, sulla costa orientale indiana, oppure Idai, che ha colpito l’Africa orientale).

Scappano di fronte alle catastrofi naturali perché sul posto la vita è diventata impossibile. Nella maggior parte dei casi devono abbandonare una zona estremamente a rischio nel più breve tempo possibile, dunque non vanno troppo lontano e appena sono in grado – se riescono a procurarsi soldi e materiale sufficienti – tornano indietro per ricostruire le loro case. Sebbene tifoni e uragani devastanti siano sempre esistiti, è scientificamente provato che gli eventi estremi sono sempre più violenti e sempre più frequenti a causa degli stravolgimenti climatici. Ci saranno sempre più persone costrette a fuggire per questo, persone che di fatto subiscono uno sradicamento. Negli anni a venire sempre più uomini e donne dovranno lasciare il proprio paese a causa della progressiva distruzione dell’ambiente. L’industria inquina e avvelena la loro acqua, i loro campi vengono impoveriti ed erosi dall’agricoltura industrializzata. A ciò si aggiungono gli effetti dei cambiamenti climatici come la salinizzazione dei terreni agricoli, l’innalzamento del livello del mare, l’assenza di precipitazioni e il conseguente incremento della siccità o, al contrario, le alluvioni nelle regioni costiere causate dall’innalzamento del livello del mare, a sua volta generato dallo scioglimento dei ghiacciai e dall’estendersi delle masse di acque più calde. Quando gli abitanti di queste regioni devono fuggire, si parla di emigrazione forzata. Queste persone spesso vivono di un’economia di sussistenza, pertanto l’inquinamento o la desertificazione delle terre diventano un problema immediato che spesso si trasforma in una catastrofe. Quello che riescono a procurarsi non è più sufficiente per vivere, e spesso, a quel punto, migrare è l’unica strategia che rimane. È una reazione alla penuria di prodotti alimentari, alla povertà e alla mancanza di lavoro, ai conflitti, che sovente in condizioni di vita molto difficili si inaspriscono (una delle cause della guerra civile in Siria è stata proprio la siccità, che ha distrutto i raccolti causando un aumento del 90 per cento del prezzo del pane). Molte persone cercano lavoro in altre regioni del loro paese, la maggior parte si trasferisce negli slum delle grandi città: sono i cosiddetti sfollati interni (internally displaced people, IDP). Solo una minoranza si sposta nei paesi limitrofi e ancora meno attraversano ulteriori frontiere. Quando prendono la strada dell’Europa, in quanto «migranti economici» hanno poche possibilità di essere accolti. Secondo la Convenzione di Ginevra vengono riconosciuti solo richiedenti asilo che in patria sono perseguitati per motivi etnici o religiosi, per l’appartenenza a determinati gruppi sociali o per le loro

convinzioni politiche. I «rifugiati climatici» non esistono ufficialmente, sebbene in parecchi documenti e risoluzioni delle Nazioni Unite si faccia riferimento a migrazioni forzate dovute al clima. Diverse agenzie ONU stanno studiando possibili approcci per difendere i diritti di coloro che sono costretti a emigrare per motivi climatici. «Il cambiamento climatico avrà conseguenze devastanti per tutte le persone che vivono in povertà», recita per esempio il rapporto del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite Climate Change and Poverty del 2019. «Persino nell’ipotesi più ottimistica centinaia di milioni di persone saranno minacciate da insicurezza alimentare, migrazioni forzate, malattie e morte. Il cambiamento climatico minaccia il futuro dei diritti umani e mette a rischio gli ultimi cinquant’anni di progressi compiuti nello sviluppo, nella salute globale e nella riduzione della povertà.» Già il patto sui migranti (Global Compact for Migration) approvato dall’Assemblea generale dell’ONU nel 2018 cita chiaramente la connessione tra mutamenti climatici e fuga dalla propria terra. Questo patto però non è vincolante giuridicamente. Al di là della volontà politica di fare qualcosa per i diritti di coloro che sono vittime di questa situazione, manca un radicamento istituzionale di questa tematica. Una possibile soluzione sarebbe quella di inserire le migrazioni climatiche nella convenzione quadro dell’ONU sui cambiamenti climatici; questa, a differenza del Global Compact, è giuridicamente vincolante e tratta il tema in riferimento alla Task Force on Displacement. Ma siamo ancora terribilmente lontani da passi concreti, come potrebbe essere l’istituzione del «passaporto climatico», ossia un documento rilasciato ai rifugiati climatici affinché possano godere dei diritti civili in paesi sicuri, oppure il riconoscimento dei cambiamenti climatici come motivo per richiedere asilo. Non è accettabile che il diritto internazionale ancora non riconosca il riscaldamento globale come motivo alla base delle migrazioni e non ponga coloro che ne sono colpiti sotto la protezione della Convenzione di Ginevra. I paesi industrializzati sono evidentemente poco interessati a un mondo giusto. I governi degli stati che non accolgono i migranti, i manager delle compagnie petrolifere o delle multinazionali dell’energia e coloro che guidano il settore finanziario vanno tutti considerati corresponsabili di questa situazione, dovuta alle emissioni inquinanti generate dal consumo di energia degli stessi paesi industrializzati. Invece di assumersi le loro responsabilità, le nazioni più ricche reagiscono perlopiù isolandosi. La fuga dai paesi d’origine viene ostacolata o

perlomeno resa più complicata recludendo i migranti e respingendoli alle frontiere. Coloro i quali attuano queste politiche sono a loro volta responsabili del fatto che i viaggi di chi fugge talvolta finiscono con la morte. Perché chi si trova a fronteggiare problemi che minacciano la sua esistenza non si lascia fermare da nulla. Non sono i rifugiati a generare una crisi, bensì quelli che li vogliono ostacolare. Non abbiamo a che fare con una crisi dei rifugiati, ma con una crisi della giustizia. Se ci fossero vie di fuga sicure o anche la possibilità, già nei paesi d’origine, di richiedere un permesso di soggiorno o fare domanda di asilo, non ci sarebbero morti nel Mediterraneo o nel Sahara, e neppure trafficanti che fanno affari approfittando delle difficoltà dei migranti. C’è un solo modo per affrontare la crisi della giustizia: dobbiamo definire la migrazione in modo nuovo, considerarla cioè come una componente della vita umana, un nuovo impulso per le società, un diritto umano e un dato di fatto in un mondo che sta cambiando radicalmente. In realtà le società traggono vantaggio dalle migrazioni, innanzitutto dallo scambio di idee, oltre che dal denaro che i migranti inviano nei paesi d’origine: cifre superiori a quelle investite negli aiuti allo sviluppo, che per di più raggiungono direttamente coloro che ne hanno davvero bisogno. Il diritto alla migrazione non solo va riconosciuto, ma deve anche essere applicato correttamente. Invece di criminalizzare i rifugiati, dovremmo aiutarli a mettere radici tra noi. E dobbiamo riconoscere la nostra responsabilità per le condizioni che li spingono alla fuga. È ridicolo che si parli di «combattere», «rimuovere» o «limitare» le cause delle migrazioni. Perché in realtà non affrontiamo le vere cause: la crisi climatica e il collasso del nostro ecosistema. I più grandi inquinatori – dunque noi, paesi industrializzati – abbiamo sconvolto l’equilibrio del clima terrestre. Se si osserva la situazione dal punto di vista scientifico, tutto appare molto chiaro. Il 99 per cento dei climatologi concorda sul fatto che l’attuale riscaldamento globale è da ascrivere all’uomo. La temperatura, rispetto all’epoca preindustriale, si è alzata di 1,1 gradi. Già questo sarebbe grave, ma tutti gli scenari presi in considerazione dal Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Intergovernmental Panel on Climate Change, IPCC) si basano sulla premessa che il riscaldamento avvenga in modo lineare, e questa premessa si è ormai dimostrata insostenibile. Solo ora comincia a farsi strada anche nell’opinione pubblica la

convinzione che non abbiamo il controllo di un cambiamento che procede a velocità travolgente, come viene indicato anche da studi attuali e come è dimostrato dallo scioglimento della calotta polare artica, che si riscalda da due a tre volte più velocemente del resto del mondo: il riscaldamento avanza in modo esponenziale, non lineare, e oltre un certo limite diventa irreversibile. Ciò dipende dal fatto che sul nostro pianeta gli elementi sono interconnessi e si influenzano vicendevolmente. Nel sistema climatico terrestre vi sono alcuni elementi critici che modificandosi mettono in moto processi che si autoalimentano (la cosiddetta «retroazione positiva» o «feedback positivo») e che una volta innescati possono generare a cascata il superamento di soglie critiche creando situazioni inarrestabili con un conseguente cambiamento climatico irreversibile. Il ghiaccio marino estivo dell’Artico è uno degli elementi più instabili e pericolosi del pianeta, e il suo punto critico, secondo stime scientifiche, potrebbe essere raggiunto già con un riscaldamento globale di 2 gradi. Da decenni il ghiaccio si ritira velocemente; non solo ora ricopre una superficie minore di prima, ma è diminuito anche il suo spessore. I ricercatori calcolano che alla fine di questo secolo sarà scomparso dal Mare Glaciale Artico. Già ora lo scioglimento dei ghiacci viene accelerato da un processo che si rafforza, la retroazione ghiaccio-albedo, ossia il fenomeno per cui se i ghiacci si sciolgono ci saranno più acque libere. Le superfici ghiacciate ridotte riflettono la luce del sole in misura minore, mentre l’acqua viene riscaldata dall’irradiazione solare e cede poi il calore ai ghiacci circostanti. Questi quindi si sciolgono ulteriormente e liberano acqua, dunque superfici più scure, che a loro volta cedono calore ai ghiacci. Poiché l’acqua del mare è più calda, le superfici di ghiaccio si sciolgono anche nella loro parte inferiore. Inoltre il ghiaccio è contaminato in molti punti da polveri sottili e particelle di fuliggine e vi si trovano anche microalghe pigmentate e batteri. Il ghiaccio così diventa più scuro e assorbe più calore attraverso l’irradiazione, sciogliendosi ancora più in fretta. Attraverso questi effetti che si rinforzano reciprocamente, l’Artico si riscalda più o meno a velocità doppia rispetto a quanto accade in media sulla Terra. Processi analoghi interessano diverse zone critiche del nostro pianeta. Tra queste vi sono altre masse ghiacciate: parti dell’Antartide orientale, la calotta glaciale antartica occidentale, i ghiacciai dell’Himalaya e il ghiaccio della Groenlandia sono ugualmente vulnerabili.

E poi il permafrost. Il rilascio di metano in mare. La foresta pluviale amazzonica e le foreste di conifere boreali. Correnti d’aria come il jetstream («corrente a getto», flusso d’aria con venti a 150 chilometri orari che si forma nell’atmosfera terrestre intorno ai 10.000 metri di altitudine alle latitudini subpolari, n.d.r.) e marine come la Corrente del Golfo. Le perturbazioni legate a El Niño. Il monsone indiano e dell’Africa occidentale, la siccità del Sud-ovest del continente nordamericano. Anche la perdita di molti ecosistemi, per esempio con la morte della barriera corallina e la minore capacità di assorbimento dell’anidride carbonica nei mari, può portare una retroazione positiva. Quando questi elementi critici si influenzano a vicenda, il loro effetto si rafforza ulteriormente. Tutto ciò potrebbe avere come conseguenza un aumento della temperatura della Terra a fine secolo di 4-6 gradi. Anche se cambiamenti così gravi sono da temere per ora solo in linea teorica, non possiamo aspettare che tutti sappiano quel che c’è da sapere. Al contrario, dobbiamo agire secondo il principio di precauzione che vale nella politica ambientale e sanitaria allo scopo di prevenire danni irreversibili e consiste in prevenzione dei rischi e precauzione nell’uso delle risorse. Prevenzione dei rischi significa che dobbiamo agire in anticipo per scongiurare il verificarsi dei problemi, e lo dobbiamo fare da subito, anche quando abbiamo conoscenze incomplete o non sappiamo con certezza di che tipo saranno i danni ambientali, di quali dimensioni, come si manifesteranno e quale sia la relazione che lega tra loro i fattori. Precauzione nell’uso delle risorse significa che dobbiamo utilizzare risorse come l’acqua, il terreno e l’aria secondo modalità che assicurino la loro disponibilità per le generazioni future. Tutto ciò si è dimostrato utile, per esempio nelle aree protette o nel Protocollo di Montréal, che ha stabilito i termini per la protezione dell’ozono stratosferico. Il principio di precauzione è recepito dalla Carta della Terra e dalle normative ambientali di singoli stati come la Svizzera e la Germania; è presente nella Dichiarazione di Rio sull’ambiente e lo sviluppo e nel trattato che istituisce la Comunità Economica Europea, dunque fa parte del diritto europeo. L’insufficiente politica ambientale di diverse nazioni dimostra tuttavia che non viene applicato. Nella storia della Terra ci sono sempre stati bruschi mutamenti climatici, per esempio trentaquattro milioni di anni fa, con il passaggio da una fase di riscaldamento tropicale a un’era glaciale, che ha avuto pesanti conseguenze

sulla vita sul pianeta. Questa volta siamo noi uomini a essere responsabili, e in modo determinante, dei processi biologici, geologici e atmosferici, motivo per cui alcuni ricercatori chiamano la nostra epoca «Antropocene» anche se non comprendiamo appieno quanti fenomeni influenziamo e in quale maniera. E tuttavia attualmente l’Antropocene non sembrerebbe essere un’epoca vera e propria di lunga durata, ma solo una breve fase della sesta estinzione di massa delle specie. Non lasciamoci ingannare dall’illusione che ci viene venduta di continuo: l’adeguamento all’aumento di temperatura è possibile solo fino a una certa soglia, sia che avvenga tramite le migrazioni oppure attraverso soluzioni tecnologiche disponibili solo per la parte più benestante dell’umanità. Perché il fisico umano ha un limite di tolleranza per quanto riguarda il caldo e a temperature estreme cade nell’ipertermia: il corpo non riesce più a dissipare calore, quindi non può rinfrescarsi. Se questo stato si prolunga eccessivamente, può essere letale. Questo pericolo non risulta ancora chiaro a molte persone che vivono in zone temperate. Di contro ci sono già parecchie regioni nelle quali si muore per le conseguenze del riscaldamento. Dobbiamo finalmente riconoscere che coloro che hanno contribuito in misura minore a questo disastro lo avvertono per primi e più intensamente: è dunque una questione di giustizia climatica. Due gradi in più significa un incremento degli eventi atmosferici estremi, in misura maggiore nelle zone del mondo in cui le persone sono meno protette rispetto a quelle che vivono nei paesi industrializzati, dove il clima è comunque più mite. Queste persone non hanno polizze assicurative sulle loro case, non godono di un servizio sanitario pubblico, non hanno buone infrastrutture per i servizi di soccorso. Il rapporto Climate Vulnerability Monitor del 2012 ha stabilito che il cambiamento climatico non solo ha costi economici altissimi (per esempio per i danni che causa alle infrastrutture) ma insieme ai carburanti fossili è già ora responsabile di cinque milioni di morti all’anno. Le vittime abitano principalmente in regioni del Sud del mondo, ma tutti i paesi, senza eccezioni, sono colpiti dai suoi effetti. Si stima che nel 2030 il numero dei morti raggiungerà i sei milioni all’anno. Dai rapporti degli istituti di ricerca sul clima emerge che abbiamo a disposizione una finestra temporale molto limitata e che mantenere il riscaldamento al di sotto dei 2 gradi sarà difficile. Se non modifichiamo

radicalmente le nostre economie e il nostro stile di vita, la quota di emissioni residua che possiamo ancora immettere nel pianeta per non superare il limite di 1,5 gradi potrebbe esaurirsi nel giro di otto anni. In teoria, dunque, il traguardo sarebbe ancora raggiungibile, ma pare davvero un’illusione se si considerano l’inerzia che dura da decenni e l’attuale politica. Tutto ciò dovrebbe indurci ad agire subito. Eppure finora non si è vista nessuna ragionevole strategia internazionale per evitare il collasso. Assistiamo, al contrario, a un fallimento politico. Già dal 1995 i delegati internazionali del mondo della scienza e della politica si incontrano annualmente e discutono di quanto il clima sia importante. La Conferenza di Parigi del 2015, che ha stabilito il limite del riscaldamento a 1,5 gradi, massimo 2, è stata l’ultima a essere celebrata come punto di svolta politico. Il processo di negoziazione della convenzione quadro sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite, che ha incluso anche i risultati della Conferenza di Parigi, sarà condannato al fallimento se non riuscirà a porre le domande giuste e a trarre le necessarie conseguenze da risposte oneste. Finché gli stati che stanno trattando porranno le domande restando all’interno del sistema economico attuale, quelle domande saranno sbagliate. Perché è proprio quel sistema il primo responsabile degli immensi problemi di fronte ai quali ci troviamo. Le proposte di Parigi si basano sugli scenari dell’IPCC, caratterizzati da un approccio conservativo. E se anche gli obiettivi di Parigi venissero raggiunti, noi non saremmo sufficientemente protetti dagli effetti della crisi climatica. A prescindere da ciò, già ora ci sono persone che muoiono per l’aumento delle temperature. Attualmente nessun paese dimostra di aver davvero tratto conseguenze dalle decisioni di Parigi. Al contrario: il capo del governo di uno degli stati che sono tra i maggiori responsabili dell’inquinamento del pianeta – con la produzione di energia oltre che col consumo di prodotti realizzati in paesi come la Cina – è uscito dall’accordo. E più o meno ogni governo ha piani per far crescere il proprio prodotto intero lordo, sfruttare la natura, sostenere imprese ad alto tasso di inquinamento. Per la maggior parte dei politici la crescita dell’economia è più importante della difesa di questo pianeta, anche se la crescita alla fine distrugge il pianeta. Le soluzioni di Parigi si basano anche sull’ipotesi che attraverso la geoingegneria si possa rimuovere anidride carbonica dall’atmosfera, riducendo l’irradiazione solare o sottraendo biossido di carbonio

all’atmosfera. Un metodo a suo tempo molto discusso per ridurre la CO2 è la bioenergia con cattura e stoccaggio del carbonio (Bioenergy with Carbon Capture and Storage, BECCS), che prevede di assorbire anidride carbonica attraverso piante a rapida crescita per poi produrre energia bruciando le piante stesse e stoccare in modo permanente il biossido di carbonio generato. Ma anche la BECCS non è una vera soluzione perché le monocolture che si renderebbero così necessarie distruggerebbero la biodiversità occupando superfici immense. Ogni intervento sulla natura comporta rischi. Nessuna di queste tecnologie è esistita finora in versione scalabile. E metterle in atto costituirebbe un pericoloso esperimento globale. È spaventoso, ma non sorprendente, che imprese che puntano su fonti di energia fossile contribuiscano con parecchio denaro alla ricerca legata alla geoingegneria, poiché vogliono fare in modo che l’abbandono dell’energia fossile sia il più possibile differito. Le voci critiche chiamano la geoingegneria, così come altri presunti strumenti per la protezione del clima che hanno in sé un alto potenziale di distruzione dell’ambiente o di violazione dei diritti umani, una «falsa soluzione». Qui diventa chiaro come la politica e l’economia costituiscano una rete potente e insieme vanifichino le iniziative adeguate. Da decenni consumatori e persone con potere decisionale vengono abilmente truffati e ingannati dalle aziende. Gli storici della scienza Naomi Oreskes e Erik M. Conway hanno spiegato dettagliatamente che soprattutto l’industria petrolifera, ma anche quella automobilistica, in passato hanno incaricato ricercatori ed esperti in pubbliche relazioni di effettuare studi e di organizzare campagne che sollevassero dubbi sulla responsabilità dell’uomo nella crisi climatica e sugli effetti del biossido di carbonio immesso nell’atmosfera dalle attività umane; talvolta con l’aiuto degli stessi consulenti in relazioni pubbliche che avevano condotto campagne contro il fumo, sulla pericolosità del buco nell’ozono o del DDT. Nel frattempo, tra occultamenti e misure politiche insufficienti, siamo arrivati a un punto in cui possiamo avere come obiettivo solo quello di limitare i danni attraverso le cosiddette holding actions, che puntano a evitare il peggio. Quasi nessuno lo dice. Non gli studiosi del clima (o perlomeno molti di loro) perché non vogliono essere accusati di creare il panico. E certo non i politici nei parlamenti, i quali o traggono profitto dal sistema esistente, perché magari sono coinvolti nei consigli di vigilanza delle aziende, oppure,

nel migliore dei casi, credono davvero di poter giungere a un miglioramento a piccoli passi. Difendono l’economia, e alcuni forse pensano sinceramente di agire in favore della collettività. E così, dalla conclusione di Parigi 2015, si è verificato l’esatto contrario delle promesse con cui i politici si erano riempiti la bocca: le emissioni di gas serra sono drammaticamente aumentate dall’inizio dei negoziati passando da 360 ppm nel 1995 a 415 ppm nel 2019. Il nostro sistema climatico sta cambiando in modo preoccupante: il permafrost si scioglie, come pure i ghiacciai che di conseguenza spariscono, mentre ondate di calore, inondazioni e tempeste sempre più violente uccidono esseri umani. Sempre più specie sono scomparse, più foreste sono state sradicate, più fiumi sono stati inquinati. Sempre più persone sono in fuga. I cambiamenti nella biosfera sono evidenti quasi ovunque nel mondo. La crisi climatica ha distrutto diversi ecosistemi, e gli ecosistemi compromessi non sono in grado di affrontare adeguatamente le anomalie del clima. Molte specie sono state ormai decimate dallo sfruttamento della natura, per esempio a causa della perdita del loro habitat o per la frammentazione del territorio (come quando si rade al suolo una foresta per far posto alle coltivazioni di soia o di palma da olio), a causa dei pesticidi usati in agricoltura o delle acque reflue industriali, o ancora per overfishing o per la caccia finalizzata alla conquista di trofei. Secondo il WWF Living Planet Report il numero dei vertebrati – gli unici per i quali siano disponibili dati sufficienti – si è ridotto del 60 per cento tra il 1970 e il 2014. Un’inversione della tendenza non è in vista: tuttora calano ogni anno del 2 per cento. Il 96 per cento di tutti i vertebrati oggi è costituito da noi esseri umani e dagli animali che alleviamo per il nostro consumo. Il tasso di estinzione delle specie attualmente è mille volte più alto rispetto a quello naturale, ossia al tempo medio in cui una specie scompare dalla Terra e che normalmente corrisponde a circa dieci milioni di anni. Fin dai tempi del colonialismo le popolazioni indigene, sebbene non ne siano responsabili, sono le prime a essere colpite, e seriamente, dagli effetti della distruzione della natura e quindi delle fonti di sussistenza. Vivono prevalentemente dei frutti della natura e i loro territori custodiscono l’80 per cento della biodiversità mondiale. Invece di imparare da loro a conoscere la rete che collega le forme di vita naturali, vengono uccise o trasferite a forza per aprire parchi nazionali e costruire oleodotti. Soffrono soprattutto per l’inquinamento industriale, come in Russia, dove circa il 10 per cento del

petrolio trasportato dagli oleodotti viene disperso, o come in Nigeria, dove la multinazionale Shell inquina l’acqua potabile. Oppure come in Brasile e Bolivia, dove la foresta vergine viene abbattuta per creare spazi da destinare a monocolture o all’allevamento e dove poi i pesticidi contaminano acqua, cibo e aria. O là dove gruppi come Nestlé privatizzano l’acqua e il livello della falda freatica sprofonda. Molti membri di comunità indigene patiscono anche le conseguenze psicologiche della devastazione della loro terra natia, una condizione denominata «dolore ecologico» (ecological grief). Anche parecchi scienziati, che sono consapevoli degli effetti dell’ecostrage in tutta la sua ampiezza, provano a loro volta dolore per la perdita. Esiste uno studio che illustra l’impatto di questo problema sugli inuit, ma anche sugli agricoltori australiani che coltivano frumento. Molte di queste persone sentono gli effetti psicologici ed emotivi della distruzione della natura: depressione, pensieri suicidi, stress post-traumatico, rabbia, sconforto, disperazione. Un essere umano soffre nel profondo dell’animo quando gli appare chiaro quello che stiamo perdendo. È la tristezza dovuta alla perdita di specie animali e vegetali, di territori ed ecosistemi che sono essenziali per il proprio stile di vita, la propria cultura e la propria tradizione. A cui si somma il dolore per la scomparsa di paesaggi che non potremo più ammirare, come quando un ghiacciaio sparisce. Tra coloro che hanno contribuito alla catastrofe c’è spesso chi, riconoscendo questi problemi, viene assalito dai sensi di colpa e si sente spinto a impegnarsi contro la distruzione della natura. Che esistano simili effetti psicologici è del tutto normale: siamo tutti parte della natura e da essa dipendiamo. Da quando hanno iniziato a farlo filosofi greci come Platone quattrocento anni prima di Cristo, scomponiamo la natura, la dividiamo in elementi, osserviamo noi stessi come ne fossimo separati. Troppe persone negli ambiti culturali della società industriale hanno disimparato a considerare la loro esistenza all’interno di questo rapporto. Solo quando saremo in grado di percepire il sentimento del dolore ecologico potremo riconnetterci con la natura e attivarci contro la sua distruzione. Troppo a lungo abbiamo considerato la natura come qualcosa di ovvio, scontato. Nei modelli sorpassati dei cicli economici non è nemmeno considerata come fattore. Intanto parliamo di natura principalmente come risorsa, la concepiamo solo come qualcosa da usare e da mettere in commercio. Finora, con il nostro

modo di pensare incentrato sull’economia, abbiamo misurato ogni millimetro secondo il suo valore monetario, anche nell’ambito della protezione dell’ambiente. Ciò emerge chiaramente in programmi come il REDD+ (Reducing Emissions from Deforestation and Forest Degradation and the role of conservation, sustainable management of forests and enhancement of forest carbon stocks in developing countries – Riduzione delle emissioni dovute alla deforestazione e al degrado delle foreste e il ruolo della conservazione, della gestione sostenibile delle foreste e del potenziamento degli stock di carbonio nei paesi in via di sviluppo), una sorta di moderno traffico delle indulgenze: si attribuisce alla foresta un valore economico e, quando una superficie viene disboscata, il denaro corrispondente deve essere versato come contributo a progetti finalizzati a preservare altre foreste in quanto riserve di carbonio. In questo modo si intende compensare distruzione dell’ambiente ed emissioni. Questo sistema è stato molto criticato sia perché le emissioni non vengono ridotte sia perché le diverse parti delle foreste non sono ecologicamente intercambiabili. La foresta inoltre ha un valore ben più alto di quello economico, soprattutto per gli esseri umani che vivono al suo interno e che sanno proteggerla al meglio anche senza gli incentivi dell’economia finanziaria. Invece di veder riconosciuto questo dato di fatto, le comunità indigene vengono cacciate dalla foresta e perdono le loro fonti di sussistenza: in nome del REDD+ i loro diritti vengono violati. Finché continueremo a considerare la natura come una merce e a parlare di fenomeni naturali in una lingua tecnocratica, non riusciremo a liberarci da questo meccanismo distruttivo. Ricorrere a concetti astratti ci allontana dal circolo naturale e rende più facile sezionare la natura e ridurla a mero oggetto di indagine. La lingua forma il nostro pensiero e noi trattiamo la natura allo stesso modo in cui ne parliamo. Dovremmo utilizzare concetti che facciano apparire la natura come qualcosa di vivo, invece di indicare solo la sua funzione o il suo valore d’uso. Non sentiamo la mancanza di risorse ittiche, ma di banchi di aringhe. Non di risorse idriche, ma di acqua che zampilla da una roccia. Non di un biotopo umido ma di una palude con piante erbacee e trampolieri. La natura provvede alla sopravvivenza delle specie. La biodiversità assicura l’impollinazione dei fiori attraverso gli insetti e la purezza dell’acqua attraverso vari microorganismi. Fa sì che le paludi assorbano biossido di carbonio, che i boschi siano ben attrezzati contro la siccità e sopportino con

meno fatica le specie invasive. La natura non procura solo cibo, acqua potabile e aria pulita: è anche un grande armadietto dei medicinali, ed è importante per la salute psicologica e per il riposo. Più salgono le temperature, più gli ecosistemi diventano instabili, così che perdiamo un numero sempre maggiore di specie animali e vegetali. Una specie spesso non ha abbastanza tempo a disposizione per adattarsi alle nuove condizioni attraverso la selezione naturale e non tutte riescono a migrare abbastanza rapidamente. E meno diversità c’è su questo pianeta, meno è possibile pensare di sostituire una specie perduta con un’altra dotata della stessa funzione ecologica. Le specie invasive – ragni vespa, zecche Hyalomma, scoiattoli grigi nordamericani, gamberi rossi della Louisiana – conquistano nuovi spazi portando uno squilibrio negli ecosistemi esistenti. Di recente sono state trovate le prime zanzare sulle cime dei monti. Tutto ciò è un peso supplementare per gli ecosistemi e anche per noi esseri umani, perché con le specie invasive possono arrivare anche nuove malattie. È il caso, per esempio, della zanzara tigre, che è stata individuata anche in alcune zone del Nord Europa e che può trasmettere due malattie febbrili come la dengue e la chikungunya. Gli ecosistemi possono sopportare molti cambiamenti per un lungo periodo senza soccombere. Una casa non crolla solo perché manca un mattone nel muro, ma noi non siamo in grado di comprendere gli ecosistemi fino al punto di sapere a quanti mattoni possiamo rinunciare prima che il sistema vada in tilt. Nel suo report sulla protezione delle specie del 2019 l’IPBES (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services – Piattaforma intergovernativa sulla biodiversità e sui servizi degli ecosistemi) afferma che attualmente la biodiversità si riduce più velocemente che in altre epoche della storia dell’umanità e stima che un milione di specie siano a rischio di estinzione. Nella storia del pianeta si sono verificate altre cinque estinzioni di massa analoghe, ma questa volta, se la sesta giungerà a compimento, l’uomo ne sarà responsabile. Invece di cercare di porre un freno alla perdita di specie e rigenerare paesaggi naturali (per esempio riumidificando le paludi), invece di smantellare dighe o reintrodurre specie autoctone, preferiamo darci la zappa sui piedi. Il sistema Terra, la natura, ha limiti che noi oltrepassiamo di continuo:

viviamo a credito, sfruttiamo più di quello che viene rigenerato. Johan Rockström, che dirige il Potsdam-Institut für Klimafolgenforschung (Istituto per la ricerca sull’impatto climatico di Potsdam), si occupa appunto dei limiti ecologici della Terra, il cui superamento mette a rischio l’esistenza degli esseri umani su questo pianeta. Queste soglie riguardano, oltre al cambiamento climatico, anche l’acidificazione degli oceani, il consumo dell’acqua dolce e la biodiversità. Rockström osserva criticamente che i pericoli a cui va incontro la nostra civiltà non sono ancora emersi in tutta la loro catastrofica rilevanza. «Il peso dell’uomo sul sistema Terra ha raggiunto una dimensione tale che non è possibile escludere improvvisi mutamenti globali dell’ambiente», ha dichiarato. Il problema è il massiccio sfruttamento delle risorse, e non perché ci sono troppe persone sulla Terra, ma perché una minima parte di loro ne utilizza troppe: il 5 per cento dei 7 miliardi di esseri umani usa il 25 per cento delle risorse disponibili e il 20 per cento della popolazione terrestre utilizza l’80 per cento dell’energia. In quale misura tali limiti vengano superati lo illustra il think tank Global Footprint Network indicando ogni anno il giorno del sovrasfruttamento della Terra [ovvero il giorno in cui vengono esaurite le risorse naturali disponibili per quell’anno e si consuma più di quanto l’ecosistema sia in grado di rigenerare, n.d.r.]. In tutti i paesi questa data viene raggiunta ogni anno sempre prima. Nel 2019 in Qatar è stata già l’11 febbraio, in Germania il 3 maggio, in Italia il 15 maggio, mentre in Indonesia sarà solo il 18 dicembre. Avremmo la possibilità di attenuare la crisi proteggendo le aree ancora intatte e rinaturalizzando gli ecosistemi distrutti. Potremmo persino nutrire tutti gli abitanti della Terra: su questo pianeta c’è abbastanza cibo, andrebbe solo suddiviso diversamente. Gli abitanti dei paesi industrializzati, che consumano molto, sottraggono qualcosa non solo alle persone che vivono nelle regioni più povere, ma anche alle generazioni future. Secondo l’opinione degli esperti, alla fine del secolo la crisi climatica e la distruzione degli ecosistemi potrebbero avere conseguenze drammatiche per la popolazione mondiale: nel peggiore dei casi, quella di un collasso globale per cui tutti gli esseri umani morirebbero. Secondo altri scenari potrebbero perdere la vita 6 miliardi di persone e solo un miliardo potrebbe sopravvivere ai Poli. Uno studio sulla sicurezza alimentare ha calcolato che, se non modificheremo comportamenti e politica, la carenza di prodotti alimentari

potrebbe portare al collasso della nostra civiltà già negli anni Quaranta di questo secolo. Lo scrittore Jonathan Franzen ha scritto recentemente sul «New Yorker» che, tenendo conto della psicologia umana, della realtà politica e del consumo di energia sempre crescente, è irrealistico pensare di poter raggiungere gli obiettivi della Conferenza sul clima di Parigi. Resta comunque doveroso fare ogni sforzo per ridurre le emissioni, ma dovremmo anche guardare in faccia la realtà e riconoscere che si renderanno necessarie ulteriori misure quando le nostre società si destabilizzeranno globalmente a causa della carenza di prodotti alimentari e dei conflitti. Alla luce della crisi climatica, sostiene Franzen, tutto quello che intraprendiamo collettivamente assumerà una nuova importanza: dal combattere l’ingiustizia globale all’impegnarsi per elezioni regolari. Così come eliminare l’odio dalla Rete una volta per tutte, promuovere politiche dell’immigrazione umane, uguaglianza per le minoranze e di genere, rispetto della legge, una stampa libera e il disarmo. Si tratta di creare un sistema sociale il più possibile forte e resistente, in modo da essere preparati per quello che sarà un periodo difficile. Jonathan Franzen è stato molto criticato per queste riflessioni: si è detto che ha gettato la spugna e che sta sabotando la possibilità di conseguire gli obiettivi climatici. Ma fondamentalmente ha ragione. È giunto il momento di riflettere su come vogliamo reagire a questa crisi esistenziale. In teoria saremmo ancora in tempo per riuscire a limitare il riscaldamento a 1,5 o 2 gradi, ma per farlo senza trasferire i danni in altri ambiti servirebbe una trasformazione dei sistemi energetici in tutti i paesi e a tutti i livelli, oltre alla volontà di tutti gli uomini, inclusi coloro che esercitano il potere. Perciò è necessario prepararsi all’ipotesi più verosimile: che non ce la faremo. E ciò significa che dobbiamo preparare i nostri sistemi sociali a questo cambiamento e puntare a una maggiore democratizzazione, per evitare che fascisti o militari prendano il timone. Il professor Jem Bendell, docente all’Università della Cumbria che si occupa di sviluppo sostenibile, ha pubblicato nel 2018 lo studio Deep Adaptation: A Map for Navigating Climate Tragedy (Adattamento profondo: una mappa per tenere la rotta nella tragedia climatica), che mette in discussione l’obiettivo generale della sua disciplina scientifica. Bendell descrive nel dettaglio come è arrivato alla conclusione che il collasso sociale è inevitabile, una catastrofe è probabile e l’estinzione dell’umanità è possibile. E spiega in che modo le sue conoscenze l’hanno portato a porsi

nuove domande. Se si prende atto della realtà e si abbandona la speranza in una soluzione improbabile – per la quale le cose dovrebbero andare per il verso giusto nonostante tutte le avversità –, si comincia ad andare oltre e a riflettere su cosa significhi questa visione per la nostra società e su quali questioni dobbiamo porci: la questione della resilienza, ossia come preserviamo quello che intendiamo assolutamente preservare; la questione della rinuncia, ossia cosa dobbiamo lasciar andare per far sì che la situazione non peggiori ulteriormente; la questione di cosa possiamo recuperare, affinché ci aiuti ad affrontare quello che ci attende. Lo studio di Bendell, disponibile online, è stato consultato 450.000 volte. Per me, analogamente a quanto è successo con l’11 settembre, esiste un «prima» e un «dopo» la lettura di Deep Adaptation. La fine della civiltà è diventata una possibilità. Ogni giorno in cui non agiamo mettiamo in pericolo la nostra sopravvivenza come specie. Mettiamo in gioco il nostro approvvigionamento alimentare, l’accesso all’acqua potabile. La nostra infrastruttura, la nostra convivenza. Il futuro dei nostri figli. La distruzione dell’ambiente peggiora e minaccia le condizioni di vita, ma non per tutti allo stesso modo. Ed è qui che sta la grande ingiustizia. Mentre alcuni dispongono di risorse finanziarie per far fronte all’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari o per costruire megadighe per difendersi dal livello dei mari in crescita, in molti altri casi un costo più alto dei cereali minaccerà la sopravvivenza di intere famiglie oppure un’alluvione porterà via a qualcuno tutto ciò che ha. E comunque in questo momento la distruzione della biosfera avanza senza freni. Anche gli stati ricchi, che pensano ancora, attraverso politiche di isolamento, di poter tenere fuori dai propri confini le conseguenze delle loro scelte economiche e dei loro stili di vita ecologicamente disastrosi, devono comprendere quanto profondamente è minacciata ogni vita sulla Terra: a causa di catastrofi naturali che potrebbero portare a guerre e al collasso sociale. Tuttavia i la politica e i media danno un’immagine di ciò che ci attende che appare meno grave rispetto alla realtà. È giunto il momento di dire la verità sulla crisi climatica. È solo un sintomo della nostra errata comprensione di quale posto noi esseri umani occupiamo nella natura. Se continueremo a non impegnarci per rigenerare ecosistemi e stabilire una giustizia sociale, per noi non ci sarà futuro su questo pianeta.

Nel sistema attuale, politica ed economia non sono in grado di trovare una soluzione efficace. Mobilità elettrica, carbon tax, commercio delle emissioni: tutto questo non è sufficiente né efficiente. È solo uno sterile tentativo di mettere una pezza utilizzando gli stessi strumenti che hanno prodotto questa crisi: gli strumenti di una politica economica neoliberista. Già Albert Einstein era dell’opinione che non è possibile risolvere dei problemi con lo stesso modo di pensare che quei problemi li ha fatti nascere. Cambiare davvero qualcosa richiede un grande dispendio di energie, ma non abbiamo scelta. Ci troviamo nel bel mezzo di una crisi esistenziale e per la prima volta uomini e donne dei paesi industrializzati percepiscono quanto sia minacciosa la situazione, allo stesso modo di coloro che nei secoli scorsi hanno visto la loro esistenza messa in pericolo da colonialismo e sfruttamento industriale. Per sfuggire a questa trappola, per avere davvero un futuro, non ci resta altro da fare che cambiare noi stessi radicalmente. Il compito più impegnativo che la nostra generazione si trova di fronte è: cambiare il sistema che ha dato origine a questa crisi. «Non dobbiamo solo pensare al di fuori degli schemi», ha detto l’attivista sudafricano per l’ambiente e i diritti umani Kumi Naidoo, segretario generale di Amnesty International. «Dobbiamo prendere gli schemi e gettarli molto, molto lontano.»

4. METTERE IN DISCUSSIONE IL SISTEMA

Strizzo gli occhi al sole. Quando finalmente usciamo dall’ufficio della Guardia di finanza sono quasi le otto. Ora i miei dati devono essere registrati, e verrà fatta una foto per i documenti. L’ufficio della polizia per la schedatura si trova nel campo profughi, guidiamo solo pochi minuti, l’isola è piccola. Spero che dopo la sessione fotografica mi portino direttamente all’abitazione dove dovrò rimanere fino all’udienza. Di fronte all’ingresso del campo alcuni dei nostri ospiti sono seduti sulle scale. Appena mi vedono applaudono: mi fermo accanto a loro per un momento. Quindi, nel frattempo, hanno veramente fatto scendere le persone dalla nave. Vedo quanto sono stanchi e preoccupati, e mi rendo conto dell’incertezza della loro situazione qui. Potrebbe volerci molto tempo prima che capiscano dove verranno portati, quale paese li accoglierà. Il fatto che siano riusciti ad arrivare in Europa non significa che possano restare. Forse il viaggio difficilissimo e la paura di morire in mare sono stati vani. Mi consolo con l’idea che perlomeno sono fuori dalla Libia. Uno dei funzionari con cui sono venuta, un uomo robusto e calvo che mi precede, mi fa un cenno con la testa e tiene aperta la porta di vetro. Salgo i pochi gradini ed entro nell’edificio, dove fa solo leggermente più fresco che fuori; si sente un po’ di odore di muffa e di detergente. Il poliziotto mi conduce lungo un corridoio dove ci sono diverse porte di uffici. Sembra tutto sterilizzato, anche se nell’angolo c’è un bidone della spazzatura che trabocca. L’uomo apre una delle porte verde pallido. Foto di riconoscimento, impronte digitali, la procedura è abbastanza lenta. Quando abbiamo finito, prendiamo dagli uffici della Guardia di finanza il mio zaino, che qualcuno dell’equipaggio ha preparato per me, poi mi portano in auto in una piccola casa dai muri bianchi. Una donna mi riceve e mi assegna una stanza.

Un’ora più tardi, dopo aver fatto la doccia, mi sdraio sul letto fra le lenzuola fresche; dalle tende penetrano i raggi del sole, tracciano una linea netta contro la parete, come in una foto. “Merda”, penso. “La missione ora è finita e non posso tornare sulla nave. Avevo promesso all’equipaggio che avremmo discusso insieme di come è andata la missione, ma adesso dovranno fare a meno di me.” Mi sembra di venire meno a una promessa. Infine i miei occhi si chiudono per lo sfinimento, e subito dopo mi addormento. Mi risveglio nel tardo pomeriggio. Scostando una tenda di perline di vetro colorato entro nel giardino, dove fioriscono orchidee e buganvillee: un sentiero di pietre piatte, decorato da vasi di palme, conduce a un tavolo di ferro battuto con il piano in vetro. Lì siede la donna che mi ha accolto. Una lucertola che sta prendendo il sole su una pietra sfreccia via quando mi avvicino al tavolo. La donna alza lo sguardo dal suo giornale. «Caffè?» mi chiede. Ma al pensiero, il mio stomaco si contrae. Ieri sera ho bevuto abbastanza caffè. «Acqua, per favore.» Parla un buon inglese e sono contenta di non dovermi sforzare per farmi capire da lei. La donna mi dice che qualcuno della Sea-Watch in paese le ha consegnato del cibo mentre facevo la doccia. Non sono autorizzata a lasciare la casa fino all’udienza, non posso ricevere visite da nessuno salvo gli avvocati e non posso né telefonare né usare internet. C’è un contrasto così grande fra la quotidianità borghese della casa in cui mi trovo e il palazzone nel campo di accoglienza. Verranno a prendermi lunedì alle sette del mattino. L’udienza è ad Agrigento, sulla costa sudoccidentale della Sicilia, a quattro ore di distanza. Anche la domenica, ovviamente, non ci sono dichiarazioni su cosa accadrà ai nostri ex passeggeri; mi aspetto che per le informazioni utili dovremo attendere settimane, o addirittura mesi. Sebbene Francia, Germania e Portogallo si siano offerti di ospitarli, la messa in atto di queste promesse potrebbe richiedere più tempo. La redistribuzione non avviene secondo regole precise, si tratta ogni volta di un processo poco trasparente, specialmente per i rifugiati stessi: sono i protagonisti sulle prime pagine dei giornali, ma alla fine quasi nessuno è interessato ai loro destini. I potenti

twittano, i talk-show proseguono ininterrottamente, mentre nel campo le persone sono bloccate indefinitamente e senza informazioni. L’opinione pubblica, la politica, gli utenti di internet e gli spettatori televisivi: non vedono ciò che conta davvero. Anni fa, nel marzo 2011, ci fu il caso di un gommone partito da Tripoli in direzione di Lampedusa. A bordo c’erano settantadue persone, che speravano di arrivare in Europa. Il carburante terminò nel mezzo della traversata, e i migranti andarono alla deriva per due settimane. Senza acqua, senza cibo, abbandonati a sé stessi in mezzo al mare, solo nove di loro sopravvissero al calvario. Ciò che rende questo caso così spaventoso è che secondo i sopravvissuti le loro chiamate d’emergenza sul telefono satellitare erano rimaste senza risposta, anche se la loro barca era stata avvistata da molte navi di diverse nazioni. Riuscirono a descrivere con precisione un velivolo, un elicottero militare che si muoveva in cerchio sopra di loro, facendo cadere acqua e biscotti invece di aiutarli davvero. Come ci si sente a vedere morire tutti attorno a te? Come ci si deve sentire quando nessuno ti aiuta, tutti guardano e basta? Qualcuno avrebbe dovuto intervenire facendo scendere quelle persone dalla barca e portandole in salvo. E non lasciare semplicemente morire la maggior parte di loro. È giunto il momento che tutti capiscano qual è realmente il punto della crisi climatica e del collasso degli ecosistemi: la sopravvivenza. Dobbiamo accettare la necessità di un’azione immediata ed efficace, che comporta inevitabilmente rinunce importanti per coloro che vivono nel Nord del pianeta. Tuttavia, si tratta di rinunce che in realtà non sono tali, che piuttosto contribuiscono a rendere possibile una buona vita per molte persone nel mondo, inclusi noi stessi. Possiamo scegliere se vogliamo porci con più umanità di fronte alla crisi climatica o lasciare che vengano violati i diritti umani; se vogliamo continuare a emettere tutta questa CO2, perché gli interessi a breve termine contano di più per noi, o se vogliamo contrastare l’esaurimento delle risorse del pianeta. È fondamentale, come dice l’attivista climatica e psichiatra clinica Jane Morton, che parliamo della crisi nei giusti termini in modo che tutti capiscano l’urgenza. Nel suo saggio Don’t Mention the Emergency? (Non parli dell’emergenza?) la Morton spiega che usare parole come «cambiamento climatico» è tutt’altro che indifferente perché è dimostrato che induce le

persone a evitare le risposte adeguate. Pertanto, non possiamo più parlare di cambiamento climatico, ma dobbiamo usare parole più appropriate: catastrofe climatica. Solo la paura che gli ecosistemi collassino, solo la preoccupazione per la nostra stessa sopravvivenza ci spingono a riconoscere la gravità della situazione e a cambiare noi stessi. E dopo tutto quello che ho visto nei miei viaggi nell’Artico e come volontaria nei parchi naturali, questa paura è molto giustificata. Nascondere o negare la paura o minimizzare gli effetti del collasso degli ecosistemi non serve a niente. È pericoloso. L’emergenza climatica deve essere sempre all’ordine del giorno, le notizie in merito vanno diffuse senza sosta. Abbiamo bisogno di voci più autorevoli per dire come stanno realmente le cose e tutti dobbiamo parlarne nel privato. La copertura nei grandi media è ampia, ma non è stata fino a oggi adeguata alla criticità della situazione. Come può la gente sapere cosa sta succedendo se ciò non viene comunicato dai media con la giusta urgenza? Tuttavia, Jane Morton afferma che non dovremmo semplicemente preoccuparci del fatto che la Terra si riscaldi di 1 o 2 o 3 gradi. Il messaggio deve essere: fa già troppo caldo. Non vogliamo che la temperatura salga ulteriormente. È un messaggio che capiranno sicuramente anche in India e nel Bangladesh. Né dovremmo discutere di quanti anni ci sono rimasti per negoziare, o di qual è il budget di anidride carbonica che possiamo ancora emettere – perché alla fine questo permette solo di rimandare il problema, così si rischia di far credere che con 1,5 o 2 gradi in più siamo ancora al sicuro e che si possa calcolare un budget a partire da questo dato. È un’idea piuttosto assurda. Il budget è fondamentalmente una grandezza scientifica neutra, dalla quale si può dedurre quanto velocemente deve avvenire il cambiamento sociale. Pensare in termini di budget, tuttavia, ci impedisce di agire in fretta; l’idea che si possa ancora produrre una certa quantità di emissioni significa anche che si sta portando avanti un discorso errato. La politica del Nord del pianeta basata su questi termini quantitativi, inoltre, non tiene conto del fatto che molti uomini sono già colpiti dalla catastrofe climatica. Queste persone sono costrette a fuggire da condizioni meteorologiche estreme e dall’innalzamento del livello del mare causati da altri che li usano come tampone. In questo senso, il come redistribuire il budget residuo di emissioni consentite è una questione di giustizia: se un modello di riduzione delle emissioni deve essere equo, le nazioni ricche

devono ridurre le loro emissioni molto più velocemente della media totale, in modo che le regioni più povere abbiano la libertà di decidere autonomamente come intendono sviluppare le loro infrastrutture. Invece di soffermarci sulla discussione di dati scientifici per smentire le bugie dei negazionisti del cambiamento climatico, dovremmo concentrarci sulla prevenzione del disastro. Quando una casa è in fiamme, non si sta a discutere con chi ci abita per valutare quali misure si debbano prendere: si invia un messaggio chiaro di pericolo, si evacua lo stabile e poi si cerca di eliminare il pericolo stesso. Solo quando avremo veramente capito quanto sono pericolosi gli standard di sviluppo attuali già ora per chi vive nei paesi più poveri, e a breve per noi abitanti delle nazioni industrializzate, coloro che ancora non se ne preoccupano vorranno invece fare tutto il possibile per prevenire il riscaldamento globale di 2 gradi, che ci avvicina pericolosamente al punto di non ritorno del nostro sistema climatico, innescando effetti a cascata e catapultandoci in un’era calda. Sperare che organizzazioni come la NASA possano trovare infine un pianeta abitabile al di fuori del nostro sistema solare è illusorio. Si potrebbe pensare che sia una buona idea stabilirci sulla Luna e lasciare il luogo in cui l’umanità ha avuto origine – un pianeta con un clima relativamente mite, fino a oggi. Ma nessun uomo può vivere sulla Luna nel futuro prossimo. Tali fiabesche soluzioni tecnologiche non sono una via di salvezza per la nostra generazione. Nessuno ci tende la mano. Questo è il motivo per cui dobbiamo mobilitare tutte le forze per difendere i nostri diritti contro la politica dominante del vivere alla giornata e contro un’economia orientata al profitto, alla concorrenza e alla crescita. La psicologa Renee Lertzman ha scoperto che la maggior parte delle persone non vuole prendere atto della crisi climatica e la nega a sé stessa perché si trova presa in un dilemma tra il desiderio di continuare a vivere secondo gli standard che hanno prodotto il problema e l’inclinazione a far parte della soluzione. Dobbiamo accettare che le emozioni complesse sono normali e dobbiamo dare spazio sia a pensieri buoni, sia a pensieri cattivi: che la situazione è grave e peggiorerà ancora; che gli esseri umani appartengono a una specie davvero ingegnosa; che uscirne sarà difficile e che il ruolo di ciascun individuo è fondamentale, anche se il beneficio è collettivo. Dobbiamo trovare il modo di comunicare liberamente e affrontare queste

paure se vogliamo stimolare soluzioni e azioni pratiche creative. Il crollo degli ecosistemi è un fatto colossale, molto più grave della perdita di una persona cara, eppure le fasi di accettazione di questi due fenomeni sono molto simili. Si alternano la rabbia, la minimizzazione, il diniego e l’accettazione. Se qualcuno è riluttante ad agire contro la crisi climatica, può darsi che si senta in colpa, perché le persone con uno stile di vita ad alto consumo di risorse ne sono responsabili. Ma dire che la colpa è delle scelte individuali dei consumatori distrae dal vero problema: il sistema in cui viviamo è sbagliato. Sia pure in ritardo, è giunto il momento di apportare modifiche al sistema. Da quasi mezzo secolo è noto che con il nostro attuale sistema economico e il consumo di risorse stiamo spingendo il mondo in un vicolo cieco. Nel 1972 vide la luce il primo rapporto del Club di Roma, I limiti dello sviluppo. Il team multidisciplinare raccolto attorno alla figura della scienziata Donella Meadows individuò cinque fattori che hanno avuto un impatto globale: industrializzazione, crescita della popolazione, malnutrizione, sfruttamento delle riserve di risorse e distruzione degli habitat naturali. Stabilì che l’industrializzazione, l’inquinamento e la crescita della popolazione sono così dannosi che in cento anni avrebbero rovinato permanentemente il pianeta. Già allora avremmo dovuto fare qualcosa. Avremmo dovuto agire secondo il principio di prevenzione che si applica alla politica sanitaria e ambientale. È passato troppo tempo dal rapporto del Club di Roma. Nel 1992 e nel 2004 il Club di Roma ha pubblicato aggiornamenti, i quali hanno sostanzialmente confermato le previsioni iniziali. Il nostro utilizzo delle risorse è ancora troppo elevato, il consumo di materie prime e i relativi materiali di scarto stanno danneggiando un numero crescente di esseri umani in tutto il pianeta, ma soprattutto nel Sud del mondo. A ogni avvertimento molte persone hanno compreso benissimo la necessità di fare finalmente qualcosa contro l’ingiustizia e la distruzione ambientale. Ma non si sentono ancora minacciate direttamente. Non vogliono mutamenti, hanno paura di perdere il loro benessere. O semplicemente, come individui, non sanno da dove cominciare. La Terra fornisce risorse più che sufficienti per alimentare gli attuali sette miliardi di abitanti, e in futuro anche dieci. Naturalmente solo con un’alimentazione essenzialmente vegetale. È chiaramente una questione etica: si tratta di bilanciare la perdita costituita da un minore consumo di carne con il diritto alla vita di molte persone, minacciato dalla crisi climatica.

Oggi sappiamo anche che il problema non è la crescita della popolazione mondiale, ma il consumo di risorse specialmente da parte dei paesi ricchi; è stato dimostrato e detto più volte che non siamo troppi. C’è solo una minoranza che consuma troppo. E lo sfruttamento eccessivo praticato da questa minoranza va oltre i limiti del pianeta. Inoltre, questa minoranza sta crescendo rapidamente, perché molti paesi vogliono copiare il proficuo sistema di consumo e crescita di quelli industrializzati. Questo meccanismo è guidato anche da interessi di profitto, specialmente delle grandi multinazionali. Tuttavia, dobbiamo accettare che la crisi continuerà a peggiorare. Al momento, a pagarne ingiustamente le conseguenze sono le persone che vivono fuori da questo sistema, ma è probabile che non sarà più così in futuro: il problema ci riguarda anche se possiamo contare sul fatto di avere più risorse di altri per combattere e proteggerci più a lungo dagli effetti della catastrofe. Da qualche tempo assistiamo al crescere di conflitti per la distribuzione delle risorse invece che delle espressioni di solidarietà. Ci si isola anziché pensare a salvare vite umane. Possiamo vedere diversi sistemi politici e sociali che crollano in molte parti del mondo. La strategia dei nostri governi per risolvere queste crisi è la violenza. Siamo ancora all’inizio di questi conflitti, che aumenteranno man mano che i cambiamenti climatici globali si intensificheranno. Non solo paesi come la Siria sono instabili a causa della siccità, ma anche molti paesi del continente africano. Saranno sempre più frequenti guerre come quelle per i terreni agricoli al confine tra Mauritania e Senegal dopo un periodo di siccità dal 1981 al 1991, o conflitti come quello tra Egitto, Sudan ed Etiopia sul fiume Nilo durante la costruzione della Grande diga etiope Renaissance. Il primo tumulto nella primavera araba è stato preceduto da una carenza di cibo: olio, zucchero e farina erano diventati più costosi. Questi sviluppi assillano anche i governi dei paesi ricchi, che agiscono pur sapendo di alimentare così reti terroristiche come Boko Haram o lo Stato islamico. Quando John Brennan era direttore della CIA, in un suo discorso del 2015 si mostrò preoccupato dei rischi per la sicurezza prodotti dalle crisi umanitarie come la scarsità d’acqua e la carenza di cibo. Brennan temeva ovviamente solo il fatto che ciò poteva rappresentare un pericolo per la sicurezza dei paesi industrializzati, non per le persone direttamente colpite. I conflitti alimentano anche la diffusione di un modello di crescita devastante. Finanziando l’una o l’altra parte di un conflitto, i paesi

industrializzati stanno infatti cercando di affermare i loro interessi economici e geopolitici. Non appena un paese diventa instabile dopo il crollo di un regime o un disastro naturale, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale sondano il terreno e creano negli anni a venire una condizione di dipendenza, aprendo la strada agli interessi delle imprese straniere, come la giornalista Naomi Klein spiega nel suo libro Shock Economy. Ad approfittare della situazione sono le élite locali, che vendono terreni e beni pubblici a investitori stranieri contro gli interessi delle loro popolazioni. E un sistema economico che così raggiunge il suo obiettivo: la crescita costante. L’idea di crescita è profondamente radicata nelle nostre società. Già Franklin D. Roosevelt aveva promesso con il suo New Deal, un insieme di misure per lo sviluppo economico finanziate dallo stato, la crescita come soluzione per sconfiggere la crisi economica mondiale degli anni Trenta. Da allora, la crescita economica è stata considerata una misura del successo di ogni governo. Negli anni seguenti, divenne chiaro che l’economia di guerra aveva un impatto positivo su occupazione, produttività e innovazione. Poco dopo, ai tempi del «miracolo economico» degli anni Cinquanta, la crescente prosperità, ovvero l’offerta di beni di consumo, divenne il motore dell’economia. Da allora, invece degli introiti tassabili, l’obiettivo principale sull’agenda dei politici è l’aumento del valore delle prestazioni economiche dello stato, il PIL. Quando tale aumento s’indebolisce, i partiti conservatori giustificano così la regressione sociale, le privatizzazioni, la corsa al risparmio e il ritorno a una definizione tradizionale dei ruoli, nel senso che il lavoro famigliare non retribuito viene perlopiù svolto dalle donne. In tali situazioni aumenta lo sfruttamento dell’ambiente e le popolazioni dei paesi stranieri lavorano, in condizioni di difficoltà estrema, per produrre i beni di consumo del Nord globalizzato. Questi meccanismi di crescita, uniti all’inefficienza della politica, ci hanno portato all’attuale crisi caratterizzata dallo sfruttamento delle persone e dell’ambiente. Essi fanno in modo che vengano ricercate le soluzioni errate. Le aziende lavorano per il profitto e antepongono le aspettative di rendimento agli aspetti sociali ed ecologici invece di fare il contrario. La pressione della concorrenza mette sotto torchio le aziende, perché solo coloro che sono in grado di crescere possono sopravvivere nel mercato globalizzato. La pubblicità e il marketing, necessari per prevalere sulla concorrenza, continuano ad alimentare la spirale della crescita e dei consumi.

La logica della concorrenza domina anche i rapporti tra stati: la «propria» economia deve essere competitiva, le proprie posizioni politiche devono essere garantite. Ciò è particolarmente evidente in Germania, che ha costantemente l’obiettivo di essere il campione mondiale delle esportazioni; non c’è da stupirsi se uno stato vuole battere i suoi concorrenti introducendo sussidi, per esempio ai combustibili fossili, e promuove il consumo attraverso finanziamenti invece di contenere o limitare il consumo di energia e lo sfruttamento delle risorse. La logica della crescita e della competizione è stata addirittura interiorizzata in molti aspetti delle nostre vite: ottimizziamo noi stessi e i nostri figli, ci consideriamo a vicenda troppo spesso come concorrenti, la preoccupazione di andare «il più in alto, il più veloce, il più lontano» possibile inghiotte persino il nostro tempo libero. Molte organizzazioni, tra cui la Climate Action Network hanno calcolato che, nonostante le promesse di contrastare le aziende responsabili di danni all’ambiente entro il 2020, tra il 2014 e il 2016 l’UE ha sovvenzionato con oltre 112 miliardi di euro ogni anno i combustibili fossili. Una larga fetta di queste sovvenzioni è costituita dagli sgravi al diesel, e anche carbone e gas continuano a essere incentivati, sostenendo le imprese ad alta intensità di consumo energetico. Per di più, la ricchezza continua a essere sottoposta a una tassazione insufficiente e le aziende raramente vengono trattate come responsabili quando distruggono l’ambiente. Tutto è orientato alla conservazione del sistema in modo che le persone nei paesi industrializzati continuino a consumare e l’economia continui a crescere. Per qualunque sistema che ragioni in questi termini, ogni crisi è una crisi economica. E non c’è alcuna possibilità di deviare da questo pensiero e di lavorare per un mondo meno incentrato sulla competizione e più sul significato che ogni persona può trovare per sé stessa nella vita. Se la mentalità dominante fosse questa, le persone avrebbero la consapevolezza di essere in grado di affrontare situazioni difficili con le proprie forze e di poter fare di più per modellare la società. Non sorprende quindi che la panacea di questa crisi sia stata battezzata con lo stesso nome del piano economico di Roosevelt: Green New Deal. I nuovi consumi ecologici dovrebbero contribuire a contrastare le crisi del mondo finanziario, del sistema economico e la distruzione dell’ambiente. Dovrebbero essere incentivati e stimolerebbero allo stesso tempo l’economia. Le tecniche e le procedure «verdi» servirebbero dunque a creare posti di

lavoro, gli investimenti verdi dovrebbero confluire nella promozione delle energie rinnovabili, ma anche nello sviluppo del trasporto pubblico o nella ristrutturazione di edifici. Le risorse, si dice, verrebbero utilizzate con parsimonia, mentre le innovazioni rispettose dell’ambiente genererebbero una crescita sostenibile. Alla base di questi ragionamenti c’è la convinzione che abbiamo solo bisogno delle giuste soluzioni tecnologiche, e avremo sotto controllo anche i nostri problemi ambientali. Ma questo approccio è ingenuo. Non tiene conto del fatto che gli incrementi di efficienza vengono annullati o perlomeno notevolmente ridotti dal meccanismo della crescita. Non coglie che abbiamo bisogno di soluzioni sociali e organizzative che ci permettano di convivere con consumi e produzioni ridotti. Le strategie che offre la «crescita verde» (Green Growth) fanno parte dello stesso sistema che ha scatenato la crisi. L’espansione delle energie rinnovabili richiede anche l’estrazione di materie prime limitate, combinate con gravi danni ecologici e non di rado violazioni dei diritti umani. Anche i prodotti sostenibili consumano risorse e non rispondono alla seguente questione: si possono trovare soddisfazioni e significati oltre il consumismo? La presunta soluzione offerta dalla «crescita verde» non mette in questione il modello generale di crescita economica. La crescita comporta sempre lo sfruttamento di risorse e di lavoro, e quindi un danno ambientale e umanitario. Se nel contesto della «crescita verde», le auto elettriche, per esempio, vengono promosse per non mettere in discussione il dogma della mobilità individuale, assisteremo all’espansione di un certo settore dell’industria automobilistica, le vecchie auto verranno demolite, e ne verranno prodotte di nuove. La domanda e i sussidi creano così, almeno nel breve periodo, le condizioni di una forte crescita, alimentata dalla produzione di auto elettriche, che richiede un alto dispendio sia di energia sia di risorse. Si risparmiano emissioni in un certo luogo, producendo nuove emissioni in un altro luogo, il più delle volte in un altro paese. Per estrarre il litio, che è anche una componente delle batterie dei telefoni cellulari, nel deserto salato Salar de Uyuni, in Bolivia o nelle aree adiacenti in Cile e Argentina, si produce una grande quantità di polvere inquinante. Inoltre servono grandi quantità di acqua: per ogni tonnellata di litio si consuma circa un milione di litri d’acqua. Ciò significa che anche le eCar consumano risorse, e non sono sostenibili. Oltre a ciò, il numero di auto di nuova immatricolazione è in costante

aumento, il che già di per sé rappresenta un problema. Da un lato, è ovvio che sia necessario un massiccio investimento nella mobilità indipendente dalle energie fossili, ma perché essa sia veramente sostenibile, i trasporti pubblici devono essere rafforzati e le infrastrutture per le biciclette devono essere fortemente sviluppate, come accade solo in alcuni paesi. D’altro canto, il consumo complessivo deve essere indubbiamente ridotto e le industrie che fanno affidamento sui combustibili fossili devono essere gradualmente eliminate. Il dilemma della «crescita verde» colpisce molte industrie. La crescita verde dovrebbe risparmiare risorse e attraverso le nuove tecnologie evitare l’impatto negativo sull’ambiente. La crescita e il consumo di risorse non dovrebbero quindi essere accoppiati: l’economia dovrebbe continuare a crescere, ma in misura maggiore di quanto impatti negativamente sull’ambiente – questo fenomeno si chiama disaccoppiamento relativo. Un’altra speranza è che lo sfruttamento delle risorse, in presenza di una crescita costante, possa rimanere allo stesso livello oppure diminuire, realizzando il disaccoppiamento assoluto; ma gli studi dimostrano che un tale caso non si verificherà mai. È quindi ingenuo sperare che il disaccoppiamento sia sufficiente per affrontare le crisi gravi. Sebbene la concentrazione di CO2 sia diminuita dello 0,6 per cento annuo tra il 1990 e il 2015 in relazione al prodotto interno lordo, il reddito pro capite è cresciuto dell’1,3 per cento ogni anno, portando in quindici anni a un aumento del 62 per cento. Anche se vengono promosse tecniche che dovrebbero dissociare la crescita economica dal consumo di risorse, l’incremento della crescita continuerà a danneggiare l’ambiente. Al fine di evitare emissioni, vengono consumate anche risorse problematiche: nel caso delle auto elettriche il litio per le batterie; per le pale eoliche minerali rari come il disprosio o il neodimio per i magneti; nel caso di impianti di biogas o biocarburanti, aree utilizzate per la coltivazione di piante, solitamente colza o mais. È un problema strutturale. Fintanto che la quantità di beni che le persone consumano continuerà ad aumentare, aumenterà anche il consumo di risorse. Negli ultimi anni tre importanti studi, uno dei quali diretto dalla ricercatrice tedesca Monika Dittrich, lo hanno dimostrato. La Dittrich ha calcolato che se l’economia continuasse a crescere del 2-3 per cento annuo, anche usando le risorse nel modo più efficiente possibile nel 2050 avremmo consumato quasi il doppio

delle risorse rispetto a quelle sostenibili. Un altro studio afferma che anche se tutti gli stati fossero due volte più efficienti nell’uso delle risorse, e venisse inoltre istituita un’imposta mondiale di 236 dollari per tonnellata di CO2, a parità di crescita non ci sarebbe ancora nessuna riduzione nell’uso delle risorse. E infine, uno studio del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente ha ribadito i termini dell’equazione: viene calcolato che anche con una tassa globale sull’anidride carbonica di 573 dollari per tonnellata e miglioramenti nell’efficienza tecnologica finanziati dal governo, non sarebbe possibile ottenere alcun miglioramento. Per la prima volta, anzi, i ricercatori delle Nazioni Unite hanno anche considerato che un minore utilizzo di risorse potrebbe abbassare il prezzo dei prodotti, aumentando così la domanda. Anche in condizioni ideali, da laboratorio, la «crescita verde» non porta dunque ai risultati sperati dalla politica. È una pericolosa illusione economica che causa, oltretutto, ulteriore povertà. Le industrie ad alta intensità di consumo di risorse stanno distruggendo in modo particolare le vite dei poveri, perché le aziende si appropriano della loro terra. Un ristretto numero di ricchi trae profitto dalla possibilità di determinare i prezzi delle abitazioni o dell’acqua, e i poveri, a causa dell’inflazione, perdono sempre più potere d’acquisto. Questo fenomeno si verifica, per esempio, negli stati africani, molti dei quali sarebbero teoricamente ricchi in virtù delle loro abbondanti risorse minerarie: ma solo una minoranza di élite locali e investitori stranieri ne trae profitto. Per mascherare questa ingiustizia, le statistiche vengono falsate modificando i parametri in base al risultato che si desidera mostrare. Prima che la Banca Mondiale aumentasse il limite della soglia di povertà a 1,90 dollari al giorno come parte dei suoi Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals, SDG), esso era di 1 dollaro al giorno. All’epoca il mandato per la Millennium Campaign delle Nazioni Unite era di dimezzare la povertà globale entro il 2015. L’obiettivo è stato raggiunto in anticipo manipolando le statistiche e facendo calcoli sulla base della percentuale di popolazione, invece che considerando le cifre assolute. Se una persona aveva a disposizione 1 dollaro al giorno, questo dollaro veniva considerato reddito. E così, includendo nel computo la crescita demografica, la povertà, sulla carta, risultava drasticamente ridotta. Anche quando la soglia di povertà è stata elevata a 1,90 dollari al giorno, il costo della vita nei diversi paesi non è stato neanche preso in considerazione. Questa soglia di povertà è arbitraria e decisamente troppo

bassa, anche se persino in base a essa i poveri stanno aumentando: sarebbe più onesto partire da una soglia di 7,40 dollari al giorno, che secondo gli studiosi è la cifra necessaria a una dieta e un sostentamento ragionevoli. La cosa veramente paradossale, però, è che la prosperità non solo promuove la povertà in altri paesi, ma di solito, dopo aver soddisfatto i loro bisogni di base, non rende felici le persone. Ci sono addirittura studi che dimostrano come la ricerca di denaro e successo ostacoli il benessere e l’esercizio di valori interiori. Un’agiatezza come quella che si vive in Europa ha un prezzo elevato, ed è resa sempre più accessibile dai media, dalla mobilità e dal networking; finiamo spesso per considerare il nostro lavoro insignificante, e lavoriamo in strutture fortemente gerarchiche. Un altro problema, persino più grave, è la distribuzione ineguale della ricchezza e del reddito. Anche se il prodotto interno lordo sta crescendo, la prosperità non è uguale per tutti: mentre l’1 per cento dei ricchi possiede il 40 per cento della ricchezza mondiale, la metà più povera del mondo ne possiede solo l’1 per cento. Gli studi dimostrano che una distribuzione equa avvantaggia la società: le persone sono più felici e più sane nelle società in cui la ricchezza è distribuita più equamente; c’è meno violenza, e meno obesità. Il sistema della crescita costante, d’altra parte, ci manipola continuamente, generando disuguaglianza. E in molti casi genera anche malattie mentali, perché le nostre performance vengono sempre spinte a un limite che dobbiamo comunque cercare continuamente di superare: se tutto deve crescere incessantemente e ciascuno deve auto-ottimizzarsi costantemente, non si conquista mai un traguardo, ma solo le tappe di una gara a perdifiato. Quasi tutti, al giorno d’oggi conoscono qualcuno che è affetto da esaurimento, disturbi alimentari o depressione: sono le malattie tipiche del nostro tempo, e tutte vengono dalla cieca fede nella prestazione. È necessario introdurre con urgenza una legislazione che ponga limiti ai consumi delle persone nelle società benestanti. La regolamentazione delle emissioni non è la risposta: anche se ne limita la quantità, lo fa secondo principi di mercato, che sono ingiusti e aggirano una soluzione reale; i problemi ecologici vengono ridotti a problemi finanziari. Ma soprattutto, bisogna mettere un limite al consumo totale di risorse. Bisogna impedire alle aziende di trarre profitto dalla distruzione della natura. Lo sfruttamento di altre nazioni deve cessare. Per fare davvero la differenza, le conferenze internazionali che cercano vie d’uscita dalla crisi climatica non devono essere orientate verso la «crescita verde», ma alla riduzione del nostro uso delle

risorse, all’identificazione di settori dove è necessaria la crescita e, infine, al conseguimento di una buona qualità di vita in un sistema senza crescita. Un’economia migliore deve mirare a offrire una buona vita a tutti. Il suo scopo dovrebbe essere quello di combattere l’ingiustizia sociale e la povertà, nonché di rendere disponibili a tutti i beni comuni (common goods): patrimoni dell’umanità come l’atmosfera, le regioni polari, gli oceani, lo spazio, ma anche internet. Allo stesso modo, è necessario migliorare l’accesso a beni sociali come l’assistenza sanitaria o l’istruzione, una abitazione a prezzi accessibili e il trasporto pubblico. Per l’utilizzo di questi beni ci devono essere regole chiare, e un comitato di controllo che assicuri che le regole siano rispettate e che l’uso sia corretto. Molti ricercatori stanno già studiando come dovrebbe essere strutturato un sistema economico alternativo. L’economista Kate Raworth ha sviluppato un modello che evita di violare i limiti spaziali e fisici del nostro pianeta: l’abuso d’acqua, i cambiamenti climatici, lo sfruttamento della terra, la distruzione dell’ozono, l’acidificazione degli oceani e la perdita di biodiversità non devono privarci del nostro sostentamento. Allo stesso tempo, il suo modello tiene conto delle esigenze sociali che devono essere soddisfatte come cibo e acqua, lavoro, energia, istruzione, reddito e pari opportunità. Questo sistema economico ha la forma di una ciambella, della quale i bisogni sociali interni rappresentano uno dei confini, e i limiti dell’ecosistema l’altro. Le esigenze interne non devono essere soddisfatte a spese dei limiti ecologici esterni. Di un sistema che trascende i confini ecologici solo per crescere, afferma Raworth, non ce ne facciamo nulla: abbiamo bisogno di un sistema che serva l’uomo, non di un sistema che serva sé stesso. La costruzione di un tale sistema richiederebbe una grande ridistribuzione, ma alla fine porterebbe a un mondo più giusto e sicuro, in cui né gli ecosistemi, né il clima della Terra, né la società vengono distrutti. L’antropologa Susan Paulson, l’economista Giorgos Kallis e molti altri ricercatori concordano con tale posizione. L’economia non deve crescere ulteriormente, perché il nostro sistema intensifica la disuguaglianza sociale, che a sua volta danneggia non solo l’economia, ma anche lo stesso fondamento democratico della nostra società. Propongono un sistema, chiamato degrowth (decrescita), che rifiuta fermamente la crescita come obiettivo dell’economia. Nel gruppo di ricerca che si è formato sull’argomento, sono state formulate molte proposte:

Abolizione del prodotto interno lordo come indicatore del progresso economico. Introduzione di limiti ecologici per CO2 e risorse naturali. Una tassa aggiuntiva sulla CO2, il cui importo verrà quindi utilizzato per progetti sociali. Limitazione dell’uso delle risorse e riduzione dei rifiuti. Istituzione di un reddito minimo e, analogamente, un reddito massimo. Limite di venti ore lavorative settimanali. Istituzione di un sistema di tassazione rivolto a ridurre le disuguaglianze sociali. Divieto di pubblicità. Abolizione di sussidi e investimenti in attività dannose per l’ambiente. Sostegno al settore delle cooperative no profit attraverso sussidi, esenzioni fiscali e legislazione. Questa economia della post-crescita è orientata alla sostenibilità ambientale e alla giustizia sociale, e pone al suo centro il benessere delle persone: post-crescita significa decelerazione, prosperità nel lungo periodo e ricerca di un nuovo modo di vivere insieme. Il Nord del pianeta deve ridurre rapidamente il suo consumo di energia per consentire agli abitanti del Sud del mondo di emanciparsi dalla subalternità neocoloniale, che si manifesta per esempio nel fatto che i paesi del Nord del mondo prendono decisioni sulla concessione di prestiti o che è in loro potere concedere o negare la riduzione di un debito. Solo allora potranno svilupparsi una qualità e uno stile di vita ottimali senza che i modelli del Nord vengano riprodotti. Nel complesso, si dovrebbero usare pochissima energia e materie prime. Questa idea di giustizia e di un nuovo modo di definire la qualità della vita viene ripresa in sedi sempre più numerose. Nel 2018 scienziati e politici si sono riuniti a Bruxelles per discutere delle strategie post-crescita per l’Europa. 238 ricercatori che lavorano sulla decrescita hanno elaborato proposte politiche per l’UE e le hanno presentate in una lettera aperta: istituire una commissione per un futuro di post-crescita nel parlamento europeo; misurare le politiche economiche in base alla loro capacità di aumentare il benessere delle persone, favorire il risparmio di risorse, creare pari opportunità e mezzi di sussistenza adeguati. Il patto di stabilità e crescita

dovrebbe diventare un patto di stabilità e benessere e in ciascuno stato membro dovrebbe essere istituito un ministero per la trasformazione economica del paese. Non dobbiamo guardare solo agli effetti negativi della crisi, o alla possibilità che gli eventi siano ineluttabili. Abbiamo tante possibilità di superare questa crisi. E siamo arrivati al punto in cui non possiamo fare a meno di usare buone idee per salvarci. Gli inquinatori devono pagare, il costo della distruzione della natura dev’essere quantificato all’interno del nostro sistema economico. Il fatto che un lago sia un patrimonio biologico intatto deve avere valore nella nostra società e l’aria pulita e gli ecosistemi intatti devono essere riconosciuti come una parte essenziale della rete della nostra vita. Il prodotto interno lordo deve essere sostituito dall’indicatore di progresso reale (Genuine Progress Indicator, GPI) come parametro fondamentale; un indicatore economico che misura se l’aumento della produzione di beni porti realmente a un maggiore benessere. Abbiamo urgentemente bisogno di una società e di una politica in cui il successo e la prosperità non siano determinati esclusivamente dall’equilibrio dei conti, la felicità non si basi sulla promessa millantata dalla pubblicità, ma sulla qualità della vita, sul benessere e sulla soddisfazione generale. In base a che cosa stabiliamo cos’è per noi una buona vita? È il profitto individuale, e per molti l’autosfruttamento, il consumo e la concorrenza, che causano altrove un danno enorme ad altre persone? O sono i rapporti sociali, il sostentamento, la salute, l’istruzione e una natura intatta? Per quanto riguarda l’aspetto legale esistono già – oltre a denunce interne all’ordinamento esistente – molte ottime proposte di nuove leggi che si occupino direttamente della distruzione della terra. L’avvocatessa britannica Polly Higgins ha lanciato l’iniziativa cittadina Make Ecocide Law, che interviene in nome della natura. Lo scopo dichiarato di questa iniziativa è di far riconoscere il reato di ecocidio – cioè la distruzione della natura in nome di fattori economici – come il quinto crimine contro l’umanità e la pace, insieme a genocidio e crimini di guerra, e permettere dunque che possa essere perseguito. In questo modo sarebbe possibile citare in giudizio Shell per la crisi climatica, BP per la fuoriuscita di petrolio nel Golfo del Messico o Tepco per il disastro nucleare di Fukushima. Higgins ha chiesto la reclusione per tutti i responsabili di decisioni che hanno portato a ecocidi. Polly Higgins è deceduta nell’aprile 2019; la sua iniziativa prosegue e

rende chiaro che l’attuale legislazione non è più adeguata ai mutamenti in atto nel sistema terrestre. Richiede, dunque, che le leggi vengano finalmente modificate in modo che i misfatti delle aziende possano essere efficacemente puniti. Potremmo andare oltre: si potrebbero conferire diritti personali ai fiumi, come è stato fatto nel caso del Gange e del Whanganui in Nuova Zelanda, e potremmo farlo anche con gli animali, e sviluppare una strategia per proteggere adeguatamente tali diritti. Abbiamo urgente bisogno di un governo che attui questi punti e consenta una partecipazione molto maggiore a tutti i livelli. Abbiamo bisogno di una vera democrazia economica, politica e sociale, che non si fondi esclusivamente sulle leggi del mercato, bensì sul bene di tutti, concentrandosi sullo sviluppo, sulla protezione e sul supporto dell’ambiente ed eliminando tutto ciò che va contro tali obiettivi. È una sfida senza precedenti per la quale abbiamo bisogno dell’impegno di tutte le persone che pensano in termini democratici. Ci sono solo due strade: o distruggiamo l’equilibrio degli ecosistemi sulla Terra – e questa semplicemente non è una soluzione! – oppure inneschiamo una trasformazione globale, un radicale cambiamento sistemico per cui la società apparirà molto diversa da come è ora. Se ci riusciremo, l’ipotetico possessore di una macchina del tempo potrebbe vedere un futuro molto diverso dal nostro presente. Per una trasformazione che funzioni bene per tutti, sempre più persone devono entrare a far parte del processo democratico: dovremmo tutti insieme costruire una democrazia vivente. Perché il problema non è la democrazia in sé, ma il fatto che attualmente essa non agisce per il benessere collettivo, né per quello delle generazioni future, bensì solo per il benessere dell’economia. E questo deve cambiare radicalmente. A Kurt Tucholsky è attribuita questa citazione: «Se le elezioni cambiassero davvero qualcosa, sarebbero bandite». Troppe persone sono riluttanti a votare perché credono che la loro voce non possa cambiare nulla. Questo è un effetto significativo del fatto che i politici professionisti non sono disposti a rinunciare al loro potere decisionale, e che in ogni legislatura operano apertamente per favorire le lobby contro la volontà di coloro che li hanno eletti. Per questi motivi le elezioni attuali stanno effettivamente cambiando qualcosa, e in un senso pericoloso: stanno destabilizzando la nostra

democrazia. Il World Values Survey ha mostrato che mentre il 92 per cento delle 73.000 persone intervistate in 57 paesi in tutto il mondo considerava la democrazia il sistema di governo più giusto, negli ultimi dieci anni è aumentato il desiderio di un leader forte. La perdita di fiducia nella politica è già visibile nei sistemi che da anni solo a gran fatica riescono a costituire maggioranze di governo: Spagna, Belgio, Austria. E in Germania, l’AfD ottiene così tanti voti nei parlamenti statali che è difficile formare coalizioni che le si oppongano. Secondo l’indagine, meno del 30 per cento degli elettori in Europa ha affermato di avere fiducia nei propri parlamenti nazionali. Il voto da solo non basta. In un mondo in costante cambiamento, una elezione ci impegna per quattro anni. Nel sistema attuale, per quattro anni siamo condannati all’inattività, sebbene non tutte le opportunità che la democrazia potrebbe offrire sono esaurite. In una buona democrazia, il potere viene dal popolo, ma a questo scopo il popolo deve partecipare. La democrazia deve essere vissuta, perché funzioni. E non attraverso referendum in cui possiamo votare Sì o No. La politica è complessa: abbiamo bisogno di partecipazione reale e di un cambiamento sociale. I cittadini dovrebbero essere coinvolti già nel processo decisionale, perché i parlamenti sono sempre paralizzati e i politici sono in ritardo rispetto alla vita reale. Si occupano molto delle aziende, che investono fiumi di denaro per influenzare l’opinione dei leader. Molte delle decisioni politiche prese negli ultimi decenni sono state chiaramente dettate dalle lobby. Secondo l’associazione indipendente LobbyControl, circa 25.000 lobbisti influenzano le politiche dell’Unione Europea a Bruxelles con un budget annuale di 1,5 miliardi di euro. È un sistema marcio, troppo dipendente dalle lobby, inquinato dal fatto che i politici di professione si preoccupano più che altro di farsi rieleggere. Dobbiamo reinventare la democrazia, ma possiamo guardare un po’ più lontano rispetto ai sistemi democratici del passato: le elezioni non sono l’unico modo in cui i cittadini possono partecipare al processo decisionale politico all’interno di un sistema democratico. Per difendere adeguatamente i propri interessi, la democrazia deve essere deliberativa: ciò presuppone incontri di massa e discorsi pubblici a livello municipale. L’associazione Mehr Demokratie (Più Democrazia) ha già avviato questo sistema in Germania e ha lanciato un consiglio dei cittadini modellato sull’assemblea dei cittadini irlandesi, che mira a sviluppare idee politiche. Dopo diverse conferenze regionali, si tiene un incontro con cittadini scelti a

caso che svilupperanno una serie di suggerimenti concreti per migliorare i processi democratici. Vari esperimenti hanno chiaramente dimostrato che incontri di questo tipo producono decisioni sorprendentemente fondate e buone proposte politiche. Più definiamo il modo in cui vogliamo vivere, meno ci appare faticoso lo sforzo che esso richiede. Tutto dipende dalla narrazione, dalla Grande Storia. Dobbiamo iniziare a raccontare una storia migliore sul futuro che vogliamo realizzare. Finora ci è stato raccontato che è difficile creare un futuro senza emissioni, o che combattendo il disastro del clima combattiamo un avversario senza volto, che sarà sempre più forte di noi. Dobbiamo renderci conto che le cose possono migliorare, se le cambiamo. Che il sistema economico in cui viviamo ci nuoce in ogni caso, promuove la disuguaglianza e la povertà. Che, a livello globale, élite numericamente esigue accumulano profitti enormi, mentre miliardi di persone perdono ogni prospettiva e soffrono. Che possiamo farlo insieme. E che trarremo tutti beneficio da una società che include tutti, anche a lungo termine. Che avremo centri cittadini senza auto, aria migliore, cibo prodotto senza crudeltà contro gli animali e senza pesticidi. Cose che non sono più prodotte dalla schiavitù moderna. Una natura intatta a cui ci sentiamo legati, perché sappiamo che non possiamo sopravvivere senza di essa. Una vita con i cui valori siamo in armonia. Dobbiamo immaginare quale società potremmo diventare. Raccontare un futuro così vivibile e così bello che anche altri vorranno raggiungerlo, un futuro che inneschi il desiderio di aiutare a plasmare questo mondo. Solo allora le rinunce sembreranno avere un senso. A differenza della bugia secondo la quale chiunque può sfondare nella nostra società, che basta impegnarsi perché il nostro sistema economico dia prosperità a chiunque, questa storia invece è vera. La crisi climatica è un problema collettivo globale. Possiamo rispondere in modo appropriato a questa emergenza solo se smettiamo di operare l’uno contro l’altro, perché solo se collaboriamo possiamo riuscire in questa impresa. La collaborazione è ciò che ha reso l’uomo così efficiente nella nostra evoluzione, in passato. Abbiamo bisogno di cooperazione per fare pressione sui governi affinché mettano fine alla loro inattività. E perché si sviluppino soluzioni per il futuro. La protesta e la creatività sono i nostri mezzi per contrastare la crisi. Il

cambiamento deve influenzare interamente le nostre esistenze: non solo la nostra forma statale, ma tutto il nostro stile di vita. Soprattutto perché, in questa fase critica, dobbiamo agire davvero rapidamente; abbiamo bisogno anche di una nuova cultura dell’impegno e della protesta. Per dirla senza mezzi termini, sul mio caso personale, non possiamo aspettare fino a quando non ci faranno entrare in un porto, e intanto trattare le persone come pare e piace a loro. Al contrario, dobbiamo spezzare l’ordine stabilito e dare vita all’opportunità di un mondo più giusto. Dobbiamo unire le forze. E dobbiamo essere molti. Non siamo ancora la maggioranza. Ma i punti di svolta non si creano solo nel clima: si creano anche nelle società. Le novità appaiono sempre in forme isolate. Ci sono persone che vanno in avanscoperta e chiedono qualcosa; poi, quando altri si uniscono e la protesta è abbastanza visibile, le idee finiscono per diventare di pubblico dominio. Ci sarà un momento in cui sembrerà anormale pensare e agire come hanno fatto finora. Più movimenti come i gruppi di Extinction Rebellion o Fridays for Future sono numerosi, più diventano visibili e centrali le loro proteste, e sempre più spesso i media si occupano di loro e delle loro istanze; e così, parteciparvi diventerà sempre più normale. Fino a quando sarà anormale non farlo. Molte persone hanno ancora paura delle conseguenze, degli ostacoli che incontrerebbero se venissero coinvolte. Ma il non agire avrà conseguenze fatali. «Viviamo in un’epoca di conseguenze», disse una volta Winston Churchill. Succederà di nuovo.

5. INIZIAMO AD AGIRE

Stazioni mobili delle tv e una folla di giornalisti sono in attesa davanti al tribunale di Agrigento: un edificio dalla facciata sobria con un avancorpo poggiante su colonne sul quale è scritta la parola iustitia. Per sfuggire alla confusione ci infiliamo direttamente con l’auto nel garage sotterraneo. Mi sembra sbagliato che i media attribuiscano a me l’attenzione che negano alle persone che sono i veri protagonisti: i profughi della Sea-Watch 3. Quando entriamo nell’aula rivestita di pannelli di legno le suole delle mie scarpe producono una sorta di cigolio sul pavimento in marmo. Mi intrattengo brevemente con i miei due avvocati, poi prendiamo posto davanti alla giudice, seduta in posizione leggermente elevata dietro un semplice tavolo, la quale dovrà pronunciarsi sulla legittimità del mio arresto. Lei scorre i suoi appunti, poi alza lo sguardo e fa un cenno all’interprete, che è seduta tra noi e l’accusa. L’intera procedura di salvataggio, fino all’ingresso in porto, viene esaminata, protocollata, tradotta, discussa a fondo, trascritta. La giudice si fa spiegare tutto, vuole sapere perché la Libia e la Tunisia non sono porti sicuri e come sono andate le cose con le autorità europee che non hanno reagito alle nostre comunicazioni. Con il mio italiano stentato capisco che l’interprete del tribunale traduce in modo inesatto alcune delle cose che esprimo in inglese. È già successo prima dell’udienza, e proprio per questo abbiamo portato con noi un altro interprete. Ma poiché la giudice evidentemente mi capisce, è lei stessa a correggere di tanto in tanto l’interprete. Alla fine devo tornare nella casa dove mi trovo agli arresti: il tribunale comunicherà la sua decisione la sera seguente. «Abbiamo vinto!» Il mio avvocato è entusiasta quando ci sentiamo al telefono la sera dopo verso le nove. E in un certo senso abbiamo ottenuto anche di più. Era già chiaro da prima che dopo la pronuncia della sentenza molto probabilmente sarei stata liberata, perché lo stesso procuratore si era limitato a chiedere che avessi il divieto di dimora nella provincia di Agrigento.

Inaspettatamente, nella sua sentenza il GIP ha trovato parole molto chiare per la situazione nel suo insieme: anche se era competente solo per stabilire se il mio arresto fosse giustificato, ha spiegato che la Libia e la Tunisia non possono essere considerate porti sicuri e ha stabilito che l’ingresso nel porto di Lampedusa era giustificato da uno stato di necessità. Tuttavia le indagini della procura procedono e, se verranno chiuse entro uno o due anni, potrebbero ancora sfociare in una richiesta di rinvio a giudizio per l’illecito ingresso in porto o per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Ma anche se si arrivasse a un processo o a una condanna, io nella stessa situazione deciderei ancora di comportarmi nello stesso modo. Non importa quale sia la prospettiva di una pena che mi minaccia. In confronto a quello che passano le persone che sono al centro di questa vicenda, non è niente. E non è tollerabile che ancora una volta non si dibatta della crisi dei diritti umani che è in atto. Ho pensato a lungo quale fosse il modo migliore per dare la parola ai profughi in questo libro. Alla fine ho deciso che offrire solo istantanee di persone che hanno invece intere esistenze e storie individuali non avrebbe reso loro giustizia. Sarebbe come affermare che al di fuori di quel breve soggiorno sulla Sea-Watch 3 non c’è altro da dire su di loro. Quindi ho rinunciato. Auspico che si facciano domande direttamente agli uomini e alle donne che sono stati coinvolti in questa vicenda, anzi no, in tutte le missioni di salvataggio. Non hanno bisogno di me come messaggero delle loro storie. E la loro storia non si limita al fatto che per diciassette giorni sono stati ospiti della Sea-Watch 3. Quando avranno finalmente alle spalle la condizione di incertezza e la montagna di carte necessarie per la richiesta di asilo in un paese europeo, forse loro stessi vorranno raccontare come hanno vissuto la loro fuga, cosa li ha spinti a farlo e com’è proseguita la loro vita. Perché avvenga davvero la trasformazione della nostra società, dobbiamo ascoltarci l’un l’altro. Occorre entrare in rapporto con le diverse prospettive culturali perché dovremo comprenderci a vicenda per poter convivere bene su questo pianeta nei tempi a venire. Mentre nella mia udienza era andato tutto bene, coloro che avevamo portato in salvo con la nave rimanevano bloccati in Italia. Venivano registrati lì, sebbene diversi paesi – e sessanta città tedesche – già il giorno del nostro arrivo in porto si fossero dichiarati disposti ad accogliere i profughi della Sea-Watch 3.

Invece non succede niente. Nelle settimane che seguono lo sbarco queste persone che sono fuggite da Eritrea, Nigeria, Somalia, Camerun, Costa d’Avorio e Libia, a causa della repressione o per necessità economiche, di conflitti politici o privazione dei diritti, possono fare una sola cosa: aspettare. Devono affrontare pazientemente i colloqui con l’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo. Devono rendere conto in modo dettagliato ai rappresentanti dei singoli stati che forse li accoglieranno. La Francia ne ha intervistati dodici ma ne ha accettati solo nove. Per quale motivo gli altri tre debbano restare in Italia non è dato sapere, e nessuno conosce i criteri secondo i quali gli stati decidono chi accogliere. È un sistema opaco. Quasi tutte le persone che abbiamo salvato sono state portate all’hotspot di Messina, dove in un primo momento sono state trattenute illegalmente. La polizia sorvegliava l’ingresso e non era loro consentito di lasciare il centro di prima accoglienza. Solo quando sono intervenuti i legali i nostri ex ospiti hanno potuto cominciare a muoversi liberamente al di fuori dell’orario di chiusura, un diritto che viene negato a tutte le altre persone che resistono lì dentro. Inoltre, per tutti, l’assistenza medica non è sufficiente, così come il sostegno psicologico. A poco a poco i profughi vengono dispersi per tutta Europa: alcuni vanno in Portogallo, Finlandia, Lussemburgo, altri per ora rimangono in Italia. Questa procedura dev’essere pesante da sopportare per chi ne ha già passate tante. L’attivista ambientale e per i diritti umani Hindou Oumarou Ibrahim scrive nella Prefazione a questo libro: «Nessuno dovrebbe essere obbligato ad abbandonare la propria casa e a rischiare la propria vita solo perché non ha futuro nel paese in cui è nato. Nessuno è felice di abbandonare la propria famiglia, le proprie radici, la propria identità. Non dobbiamo mai dimenticare che nessuno è nato migrante. Quindi dobbiamo dire con fermezza e con chiarezza che questo futuro noi non lo vogliamo. Perciò dobbiamo cambiarlo». Non possiamo aspettare oltre perché la finestra temporale che ci permette di fare qualcosa contro la crisi ecologica si sta via via chiudendo. Siamo con le spalle al muro. A bordo della Sea-Watch 3 alla fine non c’erano molte alternative, e questo è stato il motivo che mi ha spinto ad agire. Avevo perso la speranza che le autorità competenti – la Guardia costiera, la politica, la procura – si muovessero. I richiami alle norme giuridiche restavano inascoltati, i referti dei medici non avevano alcun effetto. Telefonate con le autorità ed email

erano vane. Il momento in cui mi sono resa conto che nessuno ci avrebbe fornito una soluzione è stato anche quello in cui ho trovato la mia soluzione. È come con la scienza, che ci fornisce prove, in un certo senso referti medici, sullo stato dell’ecosistema Terra. La diagnosi parla di pericolo di vita. Abbiamo aspettato troppo, sperando che qualcun altro risolvesse il problema per noi, e così il tempo è ormai scaduto. Uomini ed ecosistemi soffrono e molti dei processi già innescati nel sistema Terra sono irreversibili, molte specie ed ecosistemi irrimediabilmente perduti. La politica non offre alcuna soluzione. Dobbiamo agire: noi, la società civile. Per questo ora mi rivolgo direttamente a te che stai leggendo. Tu sai che ci troviamo di fronte a una situazione globalmente catastrofica. Ne sai abbastanza di questa crisi. Sai che per noi tutti è l’ora di agire. Naturalmente puoi continuare a fare quello che facevi prima. Business as usual. Stare a guardare come i nostri governi decidono misure per il clima del tutto insufficienti. Proseguire la tua vita, prendere un diploma, trovare un lavoro in banca, iniziare a studiare economia, cambiare i mobili nel tuo appartamento, pianificare un viaggio. Tutto quello che fai ha un effetto sul clima. Anche non fare niente è una decisione: in questo modo decidi di portarci ancora più vicino all’abisso. Oppure diventi parte del cambiamento. E scoprirai come possiamo determinare quello che ci aspetta prima che per noi lo faccia qualcun altro, qualcuno che difende i valori sbagliati. Insieme e democraticamente, possiamo dar forma a una società nella quale i massimi valori non siano il denaro, la crescita e il consumo costante. Nella quale riponiamo le nostre speranze in solidarietà, giustizia e comunità. Una società in cui benessere significhi semplicemente che tutti stanno bene. Il tempo su questa Terra è limitato per ciascuno di noi: perché non utilizzarlo per conseguire uno scopo davvero significativo? Possiamo salvare vite. Oppure possiamo aspettare che il problema si risolva da solo e metterne in pericolo moltissime altre. Tu cosa scegli? Questi sono anni importanti, probabilmente gli ultimi in cui possiamo ancora impedire che vengano oltrepassate le soglie critiche con il conseguente inizio di un’«era calda» sul nostro pianeta. Se sei abbastanza giovane perché il collasso del clima ti colpisca in pieno,

sei chiamato a difendere il tuo futuro. Se sei più anziano, questo è il momento di fare davvero qualcosa per le generazioni future. Non importa a quale generazione appartieni, questo è prima di tutto il momento di adoperarsi per la giustizia globale, perché mentre fai qualcosa contro la crisi climatica solidarizzi con chi già sta soffrendo per i suoi effetti. È giunto il momento che le persone di tutte le generazioni riconoscano che il sistema politico ha fallito. Il momento di prestare più ascolto alle promesse di felicità pseudoverdi delle aziende e dei grandi gruppi industriali. A chi smette di sperare che possano essere loro a risolvere i nostri problemi risulterà chiaro che è lui stesso a doversi attivare. E, per tutti coloro che possono farlo, questo è un dovere. Soprattutto per chi vive in paesi che godono di un relativo benessere e di un sistema giudiziario equo, e che quindi sono privilegiati. I cittadini dei paesi industrializzati dispongono di un potere maggiore e hanno più possibilità di difendere i diritti umani e di opporsi all’atteggiamento distruttivo delle grandi imprese e della politica, possibilità che sono negate a chi vive nella regione del Sahel o in altre zone di crisi e a cui manca persino il necessario. Dobbiamo agire. «Proprio qui, proprio adesso è dove tracciamo la linea», ha detto furente l’attivista per l’ambiente Greta Thunberg al summit delle Nazioni Unite sul clima del 2019. «Il mondo si sta svegliando. E il cambiamento sta arrivando, che lo vogliate o no.» Sta a noi prendere in parola Greta e tracciare sul serio questa linea. Dipende da noi se l’eco del suo discorso, dopo aver fatto scalpore per breve tempo, si smorzerà, finché tra qualche anno riscopriremo un suo video, come è successo con quello di Severn Cullis-Suzuki, che già al summit di Rio nel 1992 aveva dichiarato che non possiamo andare avanti così. Dipende da noi, con il potere relativo che abbiamo in quanto cittadini e cittadine di stati che godono di benessere, sostenere quello che Severn e molti attivisti politici delle popolazioni indigene ripetono con insistenza da molto tempo e che Greta ha riportato al centro dell’attenzione. Se l’inerzia della politica ti fa infuriare è un bene perché la tua rabbia nei confronti dell’attuale sistema è la nostra più grande occasione. La maggior parte dei movimenti, la maggior parte dei cambiamenti sociali non nascono dalla speranza ma dal fatto che le persone sono arrabbiate e con le spalle al muro. Solo da questa collera e da questo senso di impotenza scaturisce la presa di coscienza che, se fai qualcosa, le conseguenze saranno meno

drammatiche che se tu non facessi nulla. Questo è il momento in cui nasce il coraggio. Che si tratti della marcia del sale di Gandhi nel 1930, della rivolta degli studenti di Soweto repressa nel sangue nel 1976 o della rivoluzione pacifica nella DDR del 1989, le persone che sostenevano questi movimenti erano colpite nei loro diritti fondamentali. E avevano in mente una via d’uscita, qualcosa che volevano assolutamente raggiungere. Questa via che vedo – quello che deve assolutamente succedere – è il motivo per cui io stessa ho deciso di agire, nel soccorso in mare come nella lotta contro la distruzione degli ecosistemi. Sono solo facce diverse dello stesso problema sistemico. Sono delusa da chi, con la sua inerzia, ha favorito l’insorgere di questa crisi; ho paura di quello che succederà se non faccio niente e confido che le cose andranno meglio se mi impegno. Chi perde la speranza cerca le proprie soluzioni. Una delle prime azioni degli attivisti di Greenpeace in Germania, nel 1980, è stata quella di incatenarsi con alcune zattere di salvataggio alla nave cisterna Kronos, così che non potesse salpare per andare a sversare il suo pericoloso carico di acido solforico nel Mare del Nord. Erano stufi marci di vedere l’ambiente riempito di porcherie. Nonostante i rapporti di forza impari, anche alcune delle molte proteste delle popolazioni indigene raggiungono qualche obiettivo quando sono insistenti. I dongria kondh, una comunità che vive a Odisha, nell’India orientale, protestano da anni contro la costruzione di una miniera della Vedanta Resources, che dovrebbe estrarre bauxite proprio dove sorge il villaggio: i fanghi velenosi, la polvere sollevata durante l’estrazione, i gas di scarico e il combustibile fuoriuscito dai mezzi meccanici distruggerebbero la natura. La loro protesta continua, ma intanto i dongria kondh, con blocchi stradali e una catena umana – azioni che non hanno danneggiato nessuno –, oltre che con una campagna sui media, hanno ottenuto un successo parziale: l’apertura ufficiale della miniera per ora è saltata. Proteste di questo tipo – Davide contro Golia – si svolgono in tutto il mondo, anche nei paesi industrializzati. Simile è anche quella portata avanti per anni nella foresta di Hambach, nell’Ovest della Germania: costruendo barricate e casette sugli alberi si è impedito che la foresta venisse bruciata per fare posto a una miniera di carbone a cielo aperto. Gli Hambi-attivisti, insieme a coloro che sarebbero costretti ad andarsene a causa della miniera, hanno ottenuto che l’azienda energetica RWE sia continuamente al centro

dell’attenzione dei media e che ciò che resta di quella che un tempo era una foresta immensa esista ancora. In modo meno drammatico, il movimento dei cittadini per l’energia da anni ha rinunciato ad aspettare che in Europa l’elettricità venga prodotta diversamente; hanno costituito un’associazione di cittadini e costruiscono in proprio centrali eoliche e impianti fotovoltaici. Hanno realizzato da soli la propria svolta energetica. Azioni comuni portano il cambiamento. Ci serve solo un obiettivo, e un buon piano. È il momento di agire. Ogni passo, per quanto piccolo, conta. Non possiamo permetterci di rinunciare solo perché secondo noi quello che otteniamo non è abbastanza. Di fronte a cambiamenti climatici che procedono a gran velocità, anche un minuscolo tentativo di rigenerare gli ecosistemi è importante. Non basta proteggere ciò che esiste, in questo modo abbiamo già perso troppo. Dobbiamo rivitalizzare, rinaturalizzare, fare di tutto per reinsediare specie autoctone e riportare boschi, paludi e prati a una condizione il più possibile simile al loro stato originale. E dobbiamo cercare di farlo pensando al futuro. Quando nell’ambito di un progetto di protezione ambientale in Scozia ho invasato alcuni piantoni di alberi autoctoni mi era chiaro quanto potesse risultare controverso. Cercavamo di fissare qualcosa che non si può fissare quando gli influssi dell’ecosistema cambiano così rapidamente. Se volevamo piantare alberi che resistessero nel tempo, avremmo dovuto poter vedere nel futuro. Perché nessuno può sapere quali piante riusciranno sicuramente a crescere in una determinata regione, quali si dimostreranno longeve e riusciranno a resistere alle nuove condizioni climatiche e alle specie invasive che forse si presenteranno nel giro di un secolo. Solo una cosa è certa: invece di creare piantagioni dovremmo puntare su boschi misti, nei quali alcune specie, si spera, saranno in grado di convivere con le condizioni che si presenteranno in futuro. È il momento di agire. Dobbiamo dire la verità e chiamare col suo nome la crisi esistenziale in cui oggi si trova la civiltà. Ciò significa anche che non si può continuare a discutere i fatti: c’è un numero sufficiente di studi e dati scientifici sulla crisi climatica e la distruzione degli ecosistemi. Tuttavia persone che hanno un interesse economico nel proseguire con l’utilizzo dei combustibili fossili ne fanno una questione di opinione e seminano il dubbio sulla realtà. Invece bisogna accettare le verità scomode e mettere in atto soluzioni realistiche.

Diversi studi spiegano, per esempio, che dovremmo urgentemente modificare la nostra produzione alimentare e quindi anche la nostra alimentazione. Queste ricerche valutano non solo le emissioni visibili prodotte dall’uso del suolo ma anche quali sink biosferici (o carbon sink, ossia depositi di assorbimento del carbonio) vanno perduti quando la terra viene coltivata e quali superfici vengono utilizzate solo per la produzione di mangime. Se fossero liberate da questo utilizzo dispendioso potrebbero essere rinaturalizzate e messe sotto tutela. Questo modo di sottrarre gas serra all’atmosfera è una via più praticabile rispetto a soluzioni tecniche finora non disponibili e dall’esito incerto. La riforestazione può essere condotta con successo, come dimostra per esempio l’iniziativa Green Belt della scienziata keniota Wangari Maathai che ha sostenuto la riforestazione nel suo paese. Progetti analoghi chiedono l’iniziativa Natural Climate Solutions e molte altre campagne mirate a favorire la rigenerazione di ecosistemi che catturino il carbonio come paludi e torbiere, foreste di mangrovie, paludi salmastre e boschi. Uno studio recente mostra che in questo modo potrebbe essere trattenuto il 37 per cento del carbonio che dobbiamo sottrarre all’atmosfera. In questa possibilità bisogna investire più del 2,5 per cento dei fondi totali per il Carbon Capture ora previsti. Ma dobbiamo anche accettare che questo per noi comporta cambiamenti, perché l’allevamento destinato al consumo umano va fortemente limitato. Questa per molti è una verità scomoda: ma in caso contrario la difesa del nostro ecosistema è destinata a fallire. È il momento di agire. I movimenti della società civile sono sempre stati una via efficace per dare il la al cambiamento. Più esteso è un tale movimento, più ha successo. È giusto limitare i propri consumi personali: non acquistare troppi vestiti nuovi, non prendere l’aereo, non mangiare carne. Ma non può finire qui. La crisi ecologica è un problema strutturale, mondiale, sistemico, che non può essere risolto solo tramite scelte individuali relative allo stile di vita. La rinuncia personale al consumo è sì un gesto scontato quando siamo consci della gravità della situazione, ma deve essere affiancata da azioni comuni e impegno politico che spingano verso un cambiamento del sistema. Ogni movimento all’inizio è piccolo, spesso comprende solo una manciata di persone. Secondo la ricercatrice Erica Chenoweth è sufficiente che il 3,5 per cento di una popolazione sostenga attivamente una protesta perché questa abbia successo. E in Nuova Zelanda proprio questa percentuale

di cittadini è scesa in piazza il 27 settembre 2019 in occasione dello sciopero mondiale per il clima. E mentre i partiti europei sono in crisi per il calo degli iscritti, i movimenti politici registrano una crescita. Un numero sempre maggiore di persone capisce che dobbiamo attivarci. Le manifestazioni di Fridays for Future hanno già avuto l’effetto di dar voce in tutto il mondo alla richiesta di proteggere l’ambiente. Se il movimento si rafforzerà, potremo, come «ultima generazione» – cioè coloro che vivono in questi decenni decisivi –, ottenere di più per la preservazione della società umana. È il momento di agire. Per avere successo è necessario capire cosa ha favorito le conquiste dei movimenti sociali e politici del passato. I sociologi possono mostrarci come deve essere strutturato un movimento e quali forme di azione funzionano davvero, dunque come dobbiamo comportarci per essere efficaci. E questo deve accadere ora, perché il tempo utile per poter ancora evitare il superamento delle soglie critiche sta per scadere. È soprattutto una questione di giustizia sociale globale: se agiamo nel modo giusto, possiamo evitare il dolore di moltissimi esseri umani. La studiosa Erica Chenoweth ha studiato più di trecento movimenti sociali soffermandosi sui loro successi, che avessero scelto la strada della nonviolenza oppure no. Con sua stessa sorpresa ha scoperto che le proteste nonviolente hanno avuto una percentuale doppia di successo rispetto alle altre. A un esame più attento si capisce facilmente il motivo: i movimenti nonviolenti sono molto più inclusivi, quindi comprendono persone di età ed estrazione sociale diverse che non possono o non vogliono sostenere l’uso della violenza. L’inclusione è imprescindibile per il successo, perché solo così la massa, che può provocare un cambiamento radicale, diventa abbastanza grande. La rinuncia alla violenza pone i regimi repressivi di fronte a un dilemma morale che può andare solo a loro svantaggio, detto anche «paradosso della repressione» o backfiring: devono reprimere il movimento per mantenere il loro potere, ma appena usano la violenza contro una protesta pacifica scatta l’indignazione delle grandi masse e ancora più persone si uniscono al movimento. In questo modo, proprio perché procedevano senza violenza, i movimenti pacifici sono stati in grado di rovesciare i regimi in Iran nel 1979, nelle Filippine nel 1986 e in Corea del Sud nel 1987. Inoltre ciò che viene dopo il rivolgimento rispecchia in qualche modo la struttura dei movimenti. Se sono costituiti prevalentemente da giovani e maschi, dopo il raggiungimento del risultato si affermeranno politiche basate sulle aspirazioni

di questo gruppo sociale; così come da movimenti che fanno uso di violenza, secondo Chenoweth, nascono prevalentemente regimi autocratici da cui scaturiscono spesso anche guerre civili. Dobbiamo vivere già ora, all’interno dei nostri movimenti, il futuro che vogliamo. Questi pertanto devono risultare inclusivi, democratici e antirazzisti. La nonviolenza deve essere la principale premessa. Tutto ciò richiede disciplina e organizzazione, ma è indispensabile. Se, appena una componente del gruppo diventa violenta, il movimento non ne prende le distanze oppure si divide in due fazioni, le probabilità di ottenere successi crollano, come è accaduto con le proteste dei gilet gialli in Francia. È il momento di agire. La nostra resistenza avrà successo solo se la pianifichiamo con cura. Per anni ho pensato che lo strumento più efficace fosse la tradizionale attività politica, così come la svolgono i governi e le organizzazioni ambientaliste internazionali. Ma non è così: nonostante tutte le buone intenzioni, con questo approccio negli ultimi trent’anni i gas serra sono aumentati del 60 per cento e la fauna selvatica si è ridotta drammaticamente. Come hanno spiegato il giornalista Mark Engler e suo fratello, il giuslavorista Paul Engler, nel loro libro This is an Uprising (Questa è una rivolta), i movimenti pacifici, per ottenere risultati, hanno bisogno di una strategia elaborata. Basandosi sulla dinamica di precedenti esperienze di successo, i due autori hanno indagato sul modo migliore per costruire un movimento e per raggiungere gli obiettivi che si prefigge. E hanno scoperto che quella che nelle università viene insegnata – per esempio da Marshall Ganz all’Università di Harvard – come organizzazione della gestione favorisce anche la possibilità di successo dei movimenti: hanno una narrazione estesa, una strategia e una struttura che sono inserite nella cultura del movimento stesso e si ritrovano in molte sue tattiche e azioni. Più è chiaro l’obiettivo del movimento, più facilmente quest’ultimo raggiunge una massa critica. Tutto deve portare verso una meta, ma non si deve volare troppo bassi: le primavere arabe, ossia le proteste, insurrezioni e rivoluzioni del mondo arabo, sono fallite perché si è ottenuta la caduta dei regimi ma non si è costruito qualcosa di nuovo. È chiaro dunque che movimenti che crescono in fretta e poi perdono spinta sono troppo dinamici per i processi strutturati: questi però sono necessari nel momento in cui il successo ottenuto va consolidato. Un movimento può anche ottenere relativamente in fretta un rivolgimento politico, ma deve pure pianificare strategicamente il «dopo». E per questo necessita di struttura e

organizzazione e della cooperazione con organismi della società civile già esistenti. Una delle esperienze di successo analizzate da Mark e Paul Engler è il movimento di base serbo Otpor! che nel 2000 ha sostenuto attivamente i partiti dell’opposizione per fare fronte comune contro il dittatore Slobodan Milošević e instaurare una democrazia che dura ancora oggi. In seguito Otpor! ha fondato a Belgrado il Centro per l’azione applicata e le strategie nonviolente, per diffondere le esperienze e le conoscenze sulla resistenza nonviolenta del movimento. Secondo Srđja Popović, uno dei fondatori di Otpor!, è importante, tra l’altro, che un movimento persegua una strategia chiara e si presenti in un modo inconfondibile. Ha bisogno, per esempio, di adottare un simbolo che lo renda riconoscibile. Così come un obiettivo chiaro. Entusiasmo. Senso dell’umorismo, che permetta di ridere dei potenti. E presenza. Non serve a niente, afferma Popović, essere attivi solo su internet. Anche le primavere arabe non sono state un fenomeno limitato a Twitter: il social network è stato utile solo per poter comunicare velocemente. Nulla è più efficace delle persone che vanno in strada e che rischiano qualcosa per la loro libertà e i loro diritti. È il momento di agire. Perché si verifichino rapidi cambiamenti le società hanno bisogno di proteste di massa e del maggiore disturbo dell’ordine pubblico possibile, che provochi discussioni e decisioni. Le proteste delle suffragette all’inizio del XX secolo sono un buon esempio di resistenza civile, perché erano ben pianificate: si sono svolte in modo pacifico ma hanno arrecato disturbo. L’attivista per i diritti delle donne e fondatrice della Women’s Social and Political Union (WSPU) Emmeline Pankhurst aveva sviluppato una teoria della resistenza nonviolenta che doveva raggiungere i suoi obiettivi in modo pacifico, incruento e disarmato. In questo modo ebbe successo, perché già tre anni dopo la sua nascita la WSPU contava 260.000 membri. Le suffragette presentarono una petizione al primo ministro, disturbarono i comizi elettorali, tennero discorsi pubblici, organizzarono manifestazioni imponenti, chiesero l’ingresso alla Camera bassa e si lasciarono sempre arrestare. Le loro azioni si moltiplicarono, cominciando con la creazione di un parlamento delle donne, passando per uno sciopero della fame in prigione, fino al boicottaggio del censimento e alla fondazione di un partito delle donne. La polizia fece uso della violenza, e ci vollero quindici anni, ma alla fine in Gran Bretagna fu introdotto il primo –

seppure ancora in parte discriminatorio – diritto al voto delle donne. Quello che Pankhurst spiegava nei suoi discorsi ma non mise per iscritto fu studiato poco più tardi dal politologo Gene Sharp, il cui libro Come abbattere un regime fu recepito anche dai sostenitori delle mobilitazioni di cittadini nella DDR, in Birmania e in Egitto. In internet, un sito elenca 198 metodi di disobbedienza civile individuati da Sharp, che li ha suddivisi in tre categorie: protesta nonviolenta e persuasione (per esempio, conferenze, libri, petizioni); non cooperazione nonviolenta in forma sociale, economica e politica (come scioperi degli studenti, boicottaggi dei consumatori, rifiuto di pagare); interventi nonviolenti (per esempio sit-in, blocchi e denunce). Anche il mio ingresso al porto di Lampedusa ha suscitato scalpore grazie alle cronache dei media e generato un dilemma. Si è visto che da una parte c’era qualcuno che difendeva i diritti umani e dall’altra governi che li violavano. Dunque disturbiamo i governi, la cui più grande preoccupazione consiste nel mantenere alti i livelli di crescita e nel non dover condividere la loro ricchezza. Disturbiamo i colossi dell’energia, che disboscano foreste intatte e distruggono il terreno per ricavare il carbone che, a causa dell’aumento delle temperature, non potremmo più bruciare. Disturbiamo industrie e imprese che da decenni ostacolano l’affrancamento dai combustibili fossili attraverso attività di lobbying e studi falsati e che in altri paesi, per risparmiare, producono i loro profitti sfruttando lavoratori che operano in condizioni disumane in cambio di salari da miseria. Perché se li lasciamo fare, permettiamo che non si faccia niente – o non abbastanza – contro la crisi climatica e la distruzione degli ecosistemi. E permettiamo che le imprese mettano sempre il profitto al di sopra del bene della maggioranza. E molto concretamente permettiamo che le persone affoghino nel Mediterraneo e per le strade siano esposte alla violenza della destra. Disturbiamo, ma per buoni motivi. È il momento di agire. La protesta, per avere successo, deve essere continua. Dall’esperienza del sindacato sappiamo che gli scioperi dei lavoratori non portano a nulla se durano solo un giorno. Devono proseguire finché l’obiettivo è raggiunto. Devono disturbare i processi lavorativi. E devono costare qualcosa all’azienda. Roger Hallam, uno dei fondatori del movimento sociale Extinction Rebellion (XR), l’ha dimostrato in modo impressionante già molto prima delle proteste con cui XR ha paralizzato per giorni alcuni punti nevralgici nel centro

di Londra nell’aprile del 2019. Da dottorando, due anni prima, protestò contro gli investimenti del suo istituto scolastico nei combustibili fossili spruzzando le pareti del grande atrio della scuola con una vernice lavabile a base di gesso. L’aver provocato un danno materiale gli causò l’espulsione dall’università, il divieto d’accesso all’edificio e una denuncia, ma lui non si arrese e per due settimane portò avanti uno sciopero della fame. Dopo cinque settimane ottenne che l’università si impegnasse a ritirare gli investimenti entro il 2021 – un’azione di difesa dell’ambiente portata a termine solo con l’ostinazione e lo spirito di sacrificio personale. È il momento di agire. E in particolare lì dove attiriamo di più l’attenzione, dove quello che vogliamo ottenere ha un effetto maggiore. Le azioni devono concentrarsi nella capitale, perché lì si trova il centro del potere, lì la protesta determina costi economici e in questo modo si assicura l’attenzione della maggior parte dei media: nel caso della Sea-Watch 3 è stata la stampa a porre il tema del salvataggio in mare all’ordine del giorno. È il momento di agire. È importante che un movimento cresca e mobiliti sempre più persone. Più seguaci avevano dietro di sé Martin Luther King e il Mahatma Gandhi e più conquiste facevano i loro movimenti. A volte sembra che questi due personaggi siano stati gli «eroi» che da soli hanno portato al successo i movimenti. Ma i grandi «eroi» avevano il sostegno di migliaia di persone. Per raggiungere lo stesso risultato e non indebolirsi prima di raggiungere il suo obiettivo, un movimento deve mettere molta cura nel comunicare i propri tratti fondamentali, le premesse della propria azione, le tattiche – potremmo dire il suo DNA – in un processo costante. Altrimenti si creano gruppuscoli e frange radicali che possono annullare le possibilità di successo. È il momento di agire. La protesta deve essere divertente e vivace, deve spingere a diventare creativi e offrire un valore innovativo. È quello che si può osservare nel successo dell’artista Banksy, i cui murales compaiono durante la notte in posti sempre diversi. O sui cartelli e nei costumi che la gente porta nelle manifestazioni: i più creativi e spiritosi approdano regolarmente sulle pagine dei giornali, e questo è un bene per la diffusione del messaggio. Da noi in Germania c’è il Zentrum für Politische Schönheit (Centro per la bellezza politica), che ha eretto una versione in dimensioni ridotte del Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa di Berlino vicino all’abitazione di un noto populista di destra, in un punto ben visibile dalla casa. Oppure Peng! che ha creato un sito il cui nome è facilmente

confondibile con quello della pagina della campagna di reclutamento delle forze armate tedesche, dalla quale mette in guardia. O ancora il progetto Frag den Staat (Chiedi allo stato), un portale che, basandosi sulla legge pre la libertà di informazione, permette a chiunque di chiedere informazioni alle autorità su qualunque argomento pubblico, dall’inquinamento dell’acqua potabile al numero di passeggeri delle ferrovie. Le informazioni ottenute possono essere poi utilizzate per corroborare con fatti una richiesta, o magari per sollevare una protesta. Sono sicura che anche in altri paesi ci siano molte iniziative creative. Ne abbiamo bisogno, perché è il momento di agire. Non possiamo più aspettare, siamo l’ultima generazione che può ancora attenuare le conseguenze della catastrofe ecologica. Nei prossimi anni abbiamo la possibilità di ottenere dei risultati. Ma le nostre chance diminuiranno rapidamente. E più il nostro comportamento rimane conforme all’attuale sistema economico, più a lungo restiamo fermi e non facciamo niente, più ci lasciamo servire sul piatto soluzioni politiche tiepide, più difficile sarà fare qualcosa per evitare il superamento delle soglie critiche del sistema climatico. Finché non sarà troppo tardi. Il politologo Howard Zinn è diventato famoso per la sua riscrittura alternativa della storia, nella quale, per esempio, si guarda con gli occhi dei nativi americani alla caravella di Colombo, contrariamente a quello che si fa di solito seguendo lo sguardo del conquistatore. Zinn prese parte al movimento per i diritti del cittadino e nel 1970 fu arrestato per aver protestato contro la guerra in Vietnam. Invece di apparire davanti al giudice per l’udienza, tenne un discorso sulla disobbedienza civile all’università di Baltimora. «Si dice che il problema sia la disobbedienza civile», disse, «ma questo non è il nostro problema. Il nostro problema è l’obbedienza civile. Il nostro problema sono le molte persone che nel mondo seguono i diktat dei loro governi e così entrano in guerre nelle quali milioni di esseri umani vengono uccisi a causa di quella obbedienza civile. Il nostro problema consiste nel fatto che la gente è obbediente e le carceri si riempiono per reati di poco conto, mentre i grandi criminali gestiscono gli affari di stato. Questo è il nostro problema.» Molti pensano che la disobbedienza civile sia un problema perché provoca rivolte e disturba l’ordine. Viviamo in un’epoca nella quale l’ordine è sbagliato e distruttivo. Deve essere distrutto, perché altrimenti le persone muoiono.

Perché altrimenti permettiamo che il sistema, con la sua fede nella crescita costante, ci rubi qualcosa che è incredibilmente prezioso e irrecuperabile. Perché non si fermeranno volontariamente. E perché non possiamo accettare che a causa del sistema la maggioranza delle persone sia derubata, ingannata e oppressa in nome dell’ordine. Dobbiamo farlo, invece di continuare a sperare che conserveremo i nostri diritti e il nostro futuro compiacendo coloro che sono ancora al potere. Il problema è l’obbedienza civile, non la disobbedienza civile. Agiamo, invece di sperare. Se ha gradito la lettura di questo libro la preghiamo di venire a trovarci su: marapcana.today clicchi su questo testo e troverà la biblioteca completamente gratuita più fornita ed aggiornata del web! La aspettiamo!

RINGRAZIAMENTI

Un particolare ringraziamento per aver reso possibile la missione di salvataggio va a tutti i sostenitori del soccorso marittimo civile, a tutti i volontari e dipendenti della ong Sea-Watch e naturalmente, per questo caso in particolare, all’equipaggio della Missione 23. Grazie a Hindou Oumarou Ibrahim per la sua importante Prefazione e a Lorenz Schramm, Oscar Schaible, Victoria Lange-Brock e Haidi Sadik per i loro contributi al testo. Grazie per le indicazioni e la lettura del manoscritto a Nadja Charaby, Eva Mahnke, Nic Zehmke, Andrea Vetter e tutti coloro che hanno corretto le bozze. Grazie, inoltre, a Ilka Heinemann, Margit Ketterle e Doris Janhsen. Grazie a Katharina Ilgen, Sibylle Dietzel, Kerstin Schuster, Ralf Reuther. E a Jan Strümpel per l’accurata redazione. A Tina Damm per l’aiuto con le traduzioni da lingue straniere, così come a Kathrin Henneberger e a Theresa Leisgang. Grazie ad Alfio Furnari per i chiarimenti sui dettagli giuridici riguardanti le donazioni a borderline-europe – Menschenrechte ohne Grenzen e. V., così come a Matthias Landwehr. Grazie ad Anne Weiss, senza la quale nessun libro avrebbe mai visto la luce in così poco tempo.

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA

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Capitolo 3 Carte geografiche del cambiamento ambientale e delle migrazioni: https://environmentalmigration.iom.int/maps Earth Overshoot Day: https://www.overshootday.org La Think Tank di Rupert Read: https://www.greenhousethinktank.org Global Witness sulla morte di attivisti ambientali: https://www.globalwitness.org/en Cultura e rigenerazione urbana: https://medium.com/activate-thefuture/… Ecocidio: www.endecocide.org, www.earth-law.org Bendell, Jem, Deep Adaptation (Tiefenanpassung): Ein Wegweiser, um uns durch die Klimakatastrophe zu führen, IFLAS Occasional Paper 2, 2018. Climate Vulnerable Forum / DARA, 2. Climate Vulnerability Monitor. A guide to the cold calculus of a hot planet, New York 2012 Colbert, Elizabeth, La sesta estinzione. Una storia innaturale, Neri Pozza, Vicenza 2014. Díaz, Sandra - Settele, Josef - Brondízio, Eduardo et al., Report of the Plenary of the Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services on the work of its seventh session, IPBES 2019. GSI - Anglia Ruskin University, Food System Shock. The insurance impacts of acute disruption to global food supply, Lloyds 2015. Internal Displacement Monitoring Centre (IDNC), Global Report on Internal Displacement, Norwegian Refugee Council 2019. Motesharrai, Safa - Rivas, Jorge - Kalnay, Eugenia - Human and nature dynamics (HANDY), Modeling inequality and use of resources in the collapse or sustainability of societies, in «Ecological Economics», 101, 2014. Read, Rupert, This civilisation is finished: So what is to be done?, IFLAS Occasional Paper 3, University of Cumbria 2018. Rockström, Johan, Planetary boundaries: exploring the safe operating space for humanity, in «Ecology and Society», 2009, vol. 14, n. 2. Romberg, Johanna, Nennt es Wiese, nicht Ressource. Warum unsere Natur nicht nur besseren Schutz braucht, sondern auch eine lebendigere Sprache, in «Die Flugbegleiter», 2019, online unter: shorturl.at/dhJMP

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Indice

Frontespizio Le autrici Pagina del Copyright Prefazione, di Hindou Oumarou Ibrahim 1. Smettiamola di sperare 2. Un obbligo di umanità 3. L’ultima generazione? 4. Mettere in discussione il sistema 5. Iniziamo ad agire Ringraziamenti Bibliografia e sitografia

3 2 4 6 10 29 46 65 85 100 101