Il mito e l'altrove. Saggi buzzatiani (1999-2016)
 9788862279277, 9788862279284

Table of contents :
SOMMARIO
PREFAZIONE
RITRATTO DELL’ARTISTA DA GIOVANE :BUZZATI DALLE LETTERE A BRAMBILLA AL BÀRNABO DELLE MONTAGNE
« IL SUO AMORE SI CHIAMA EURA » : BUZZATI E LE FIGURE DEL MITO
TRA FAVOLISMO E ALLEGORISMO. RICERCA E PERDITA DEL MITO IN DUE RACCONTI DEGLI ANNI QUARANTA
« OGNI VOLTA PIÙ IN LÀ ». IL VIAGGIO, IL MITO E L’‘ALTROVE’ NEI PRIMI RACCONTI DI BUZZATI
« L’ULTIMO BRANDELLO DELLA DEVASTATA BANDIERA » : DINAMICHE CONFLITTUALI E IDEOLOGIA DELLA GUERRA IN DINO BUZZATI
INDICE DEI NOMI

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QUA DE R N I D E L CE N T RO S T UD I BUZ Z AT I Collana fondata da Nella Giannetto * 8.

I L MI TO E L’ALTROVE Saggi buzzatiani (1999-2016) BRUNO MELLARINI

P I S A · RO M A FA B RI Z I O SERRA E D I TO R E MMXVI I

A norma del codice civile italiano, è vietata la riproduzione, totale o parziale (compresi estratti, ecc.), di questa pubblicazione in qualsiasi forma e versione (comprese bozze, ecc.), originale o derivata, e con qualsiasi mezzo a stampa o internet (compresi siti web personali e istituzionali, academia.edu, ecc.), elettronico, digitale, meccanico, per mezzo di fotocopie, pdf, microfilm, film, scanner o altro, senza il permesso scritto della casa editrice. Under Italian civil law this publication cannot be reproduced, wholly or in part (included offprints,etc.), in any form (included proofs, etc.), original or derived, or by any means: print, internet (included personal and institutional web sites, academia.edu, etc.), electronic, digital, mechanical, including photocopy, pdf, microfilm, film, scanner or any other medium, without permission in writing from the publisher. * Proprietà riservata · All rights reserved © Copyright 2017 by Fabrizio Serra editore, Pisa · Roma. Fabrizio Serra editore incorporates the Imprints Accademia editoriale, Edizioni dell’Ateneo, Fabrizio Serra editore, Giardini editori e stampatori in Pisa, Gruppo editoriale internazionale and Istituti editoriali e poligrafici internazionali. www.libraweb.net Uffici di Pisa: Via Santa Bibbiana 28, I 56127 Pisa, tel. +39 050 542332, fax +39 050 574888, [email protected] Uffici di Roma: Via Carlo Emanuele I 48, I 00185 Roma, tel. +39 06 70493456, fax +39 06 70476605, [email protected] * Stampato in Italia · Printed in Italy i sb n 978- 88-6227-9 27-7 e - i sb n 978- 88-6227-9 28 -4

a mia madre

SOMMARIO 11

Prefazione Ritratto dell’Artista da giovane : Buzzati dalle Lettere a Brambilla al Bàrnabo delle montagne « Il suo amore si chiama Eura » : Buzzati e le figure del mito Tra favolismo e allegorismo. Ricerca e perdita del mito in due racconti degli anni Quaranta « Ogni volta più in là ». Il viaggio, il mito e l’‘altrove’ nei primi racconti di Buzzati « L’ultimo brandello della devastata bandiera »: dinamiche conflittuali e ideologia della guerra in Dino Buzzati

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Indice dei nomi

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PREFAZIONE

L

a presente silloge è il risultato di circa un quindicennio di studi, nati da occasioni diverse ma accomunati dall’esigenza di continuare a indagare l’opera buzzatiana, che appare oggi tra le più sfaccettate e multiformi, sperimentali e innovative del Novecento (ma anche tra le più sottovalutate, e ciò in ragione di un perdurante, per quanto ingiustificato, pregiudizio accademico nei confronti del Bellunese). Il primo contributo, dedicato al carteggio tra Buzzati e Arturo Brambilla, è frutto di una ricerca finanziata da una Borsa di studio concessami dall’Associazione Internazionale Dino Buzzati nel 1997 ; gli altri sono scaturiti, nel corso degli anni, da una riflessione che si è andata sviluppando a partire da due parole-chiave, il mito e l’altrove, che non a caso ho voluto riprendere nel titolo del volume. Due parole che formano, a ben guardare, una coppia sinonimica, e che costituiscono l’asse fondamentale lungo il quale si raccolgono, in modo unitario e coerente, gli interventi qui proposti. Quanto all’ultimo saggio, inedito, è stato scritto in occasione di un Seminario trentino tenutosi nel dicembre 2016 nell’ambito del Corso di Dottorato Le Forme del Testo sul tema « Versus. Differenze, Opposizioni, Conflitti ». La ricerca si è focalizzata sui testi forse meno studiati (dalle Lettere a Brambilla al Poema a fumetti, dalle cronache di guerra alla Famosa invasione degli orsi in Sicilia), con una costante, privilegiata attenzione al rapporto tra lo scrittore e il mito, rapporto che costituisce, a mio avviso, il centro segreto e il presupposto dell’intera opera buzzatiana, la motivazione profonda soggiacente alle invenzioni di un autore per vocazione impegnato nella sfida alla cosiddetta realtà, in un progetto di sovversione del limite, di superamento degli orizzonti, sempre troppo angusti e soffocanti, della realtà quotidiana : il mito come altrove, per l’appunto (e sarà il mito arcaico che Buzzati recupera e decostruisce nel Poema a fumetti, così come il mito eroico, con tutta la sua problematicità e le sue varianti, che si possono rintracciare dal Deserto dei Tartari fino ai racconti delle prime raccolte e alle cronache di guerra). Punto di partenza sono stati, pertanto, i testi, ma anche le sfumature, le connotazioni meno evidenti di un’opera che tende a realizzarsi in forme ibridate che si sottraggono, in quanto tali, a una immediata riconoscibilità : si pensi al fantastico, che nel caso di Buzzati si presenta, per solito, in costante interazione con altri generi, che vanno dalla fiaba alla fantascienza, dalla leggenda al mito. Ed è proprio sulla presenza del mito che si concentrano, come si è detto, i saggi riuniti nella presente raccolta : il mythos inteso, sulla scorta de 











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il mito e l ’ altrove gli studi di Furio Jesi, come dimensione inattingibile all’uomo moderno, come altrove che rivela l’alienazione dell’uomo nel mondo della tecnologia e del progresso tecnico-scientifico ; ma anche il mito come linguaggio o « grille de lecture du monde » (per riprendere un utile suggerimento di Marie-Hélène Caspar), una sorta di realtà primigenia che, pur continuando a esercitare una profonda suggestione, sfugge di continuo in ragione di un inarrestabile (e ormai secolare) processo di ‘demitizzazione’ (un processo che in Buzzati risulta però sempre associato, in forza di una dialettica insopprimibile, alla spinta, altrettanto forte e cogente, della cosiddetta ‘rimitizzazione’). Ma lo stesso discorso sembra valere anche per le altre forme del racconto tradizionale, come la fiaba, dove la classica armonia tra uomo e natura (elemento specifico e connotativo dell’universo buzzatiano, vissuto dall’autore in termini di nostalgia e rimpianto fin dagli anni della giovinezza, come dimostra il carteggio con l’amico Brambilla) appare incrinata e compromessa, sicché l’adesione al genere e ai suoi stilemi viene a porsi come una scelta di poetica che non è mai facile né scontata, e che lo scrittore, al pari dei suoi personaggi, deve rinnovare e ‘riconquistare’ ogni volta. È il mondo, per intenderci, degli « spiriti » e delle presenze del bosco e della montagna, quel mondo di cui Bàrnabo, il protagonista del primo romanzo buzzatiano, non può che registrare la scomparsa alla luce di una prova e di una maturità dolorosamente sofferte. Sulla base di queste premesse, il libro offre un percorso di analisi e rilettura di alcuni momenti della produzione buzzatiana ; un percorso che, partendo da un ritratto giovanile dell’autore, mira ad approfondire alcuni problemi essenziali per la comprensione dell’opera : dalla dialettica tra demitizzazione e rimitizzazione (indispensabile per leggere in tutte le sue implicazioni un libro per molti versi fondamentale come Poema a fumetti) alle metamorfosi del fiabesco (con l’esito ‘estremo’ affidato a racconti quali L’uccisione del drago e I sette messaggeri, con cui Buzzati gioca, nello stesso tempo, sulla ripresa e sul rovesciamento dei propri modelli), dalla « nostalgia delle origini » nell’accezione di Eliade ai temi della guerra e del conflitto, temi trasversali a tutta l’opera e che riportano Buzzati, al di là di ogni proiezione ideale e di ogni facile mito letterario (l’eroismo, l’ideologia della bella morte, etc.), al confronto ineludibile con la realtà della storia e, quindi, con le sue tragedie. A dimostrare, ogni volta, l’originalità di un autore che ha sempre dialogato con i grandi del passato (da Virgilio a Dante a Leopardi) e che ci appare sempre più centrale nella storia non solo letteraria ma anche lato sensu artistica del nostro Novecento.  

















prefazione

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Ringraziamenti Ringrazio anzitutto Corrado Donati, per la generosità e l’entusiasmo con cui ha seguito e incoraggiato, fin dalla stesura della tesi di laurea, i miei scritti su Buzzati. Ringrazio inoltre la Responsabile della Ricerca del Centro Studi Buzzati di Feltre, Patrizia Dalla Rosa, il cui aiuto, concreto e puntualissimo, è stato essenziale in tutte le fasi del mio studio. Infine, mi è grato ricordare la fondatrice di « Studi buzzatiani », Nella Giannetto : se ho appreso a leggere Buzzati in tutta la sua complessità, rifuggendo da banalizzazioni e facili schematismi, lo devo, prima di tutto, al suo prezioso insegnamento.  





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il mito e l ’ altrove Nota bibliografica

Tutti i contributi sono stati rivisti e, in parte, riscritti, omologando i criteri di citazione, là dove necessario. Le integrazioni di maggiore rilievo, nonché i necessari aggiornamenti bibliografici, riguardano in particolare il primo e il secondo contributo. Per le citazioni dei Sessanta racconti, si è fatto riferimento all’ultima edizione disponibile negli « Oscar » (Milano, Mondadori, 2016). Si riportano di seguito le sedi della prima pubblicazione in rivista :  





- B. Mellarini, Dalle « Lettere a Brambilla » al « Bàrnabo delle montagne » : una proposta di lettura, « Studi buzzatiani », iv, 1999, pp. 34-50. - Id., “Il suo amore si chiama Eura” : Buzzati e le figure del mito, « Studi buzzatiani », xi, 2006, pp. 87-106. - Id., Tra favolismo e allegorismo. Ricerca e perdita del mito in due racconti buzzatiani degli anni Quaranta, « Studi buzzatiani », xiv, 2009, pp. 101-135. - Id., “Ogni volta più in là”. Il viaggio, il mito e l’‘altrove’ nei primi racconti di Buzzati (parte prima), « Studi buzzatiani », xviii, 2013, pp. 11-27. - Id., “Ogni volta più in là”. Il viaggio, il mito e l’‘altrove’ nei primi racconti di Buzzati (parte seconda), « Studi buzzatiani », xix, 2014, pp. 11-30.  































RITRATTO DELL’ARTISTA DA GIOVANE : BUZZATI DALLE LETTERE A BRAMBILLA AL BÀRNABO DELLE MONTAGNE  

1. L’epistolario buzzatiano : analisi delle modalità affettive  

N

ell’introduzione al diario postumo di Arturo Brambilla (19061963), pubblicato da Mondadori nel 1967, Dino Buzzati proponeva, rievocando la figura dell’amico scomparso, alcune significative riflessioni intorno a un rapporto amicale che, fin dagli anni del ginnasio-liceo, aveva accompagnato e scandito i momenti essenziali della sua formazione, offrendosi, attraverso il gioco speculare delle lettere, quale occasione irripetibile di riflessione e di scoperta di sé, di autocoscienza e di approfondimento delle comuni passioni intellettuali e morali. Buzzati faceva notare, soprattutto, come la lunga, privilegiata amicizia con l’ex compagno di scuola fosse nata e cresciuta a partire da una profonda e reciproca identificazione, dal progressivo confondersi dei caratteri individuali in una sorta di unione sovrapersonale :  

Parlare di Arturo Brambilla è un po’ come parlare di me stesso, tanto noi due per parecchi anni siamo stati vicini, identici nei gusti, negli interessi, nelle speranze e nei sogni. […] E di fronte agli studi, all’arte, ai libri, alle montagne, non c’era bisogno che ci si scambiassero parole perché l’intesa automaticamente era perfetta e assoluta. 1  

E ancora :  

negli anni decisivi della vita Arturo Brambilla e io siamo stati una persona sola, […] quindi credo di averlo allora conosciuto sino in fondo meglio di qualsiasi altro […]. 2  

Ora, è chiaro che l’epistolario, inteso come campo entro cui interagiscono, in absentia, mittente e destinatario, 3 si rivela uno strumento prezioso sia  

1

 D. Buzzati, Testimonianza di due amici, in A. Brambilla, Diario, Milano, Mondadori, 2 1967, pp. 11-47 : 11.   Ivi, p. 13. 3   Alla base della comunicazione epistolare troviamo, com’è noto, una complessa relazione bilaterale che coinvolge, nello stesso tempo, mittente e destinatario, implicati in un’interazione che Neuro Bonifazi ha così definito : « La scrittura è opera del destinatore, ma anche del destinatario […]. Si scrive pensando all’effetto che il testo farà sul lettore, in una maniera molto più esasperata che in ogni altra scrittura » : N. Bonifazi, Il genere epistolare e le lettere di Torquato Tasso, in Id., Il genere letterario. Dall’epistolare all’autobiografico dal lirico al narrativo e al teatrale, Ravenna, Longo, 1986, pp. 9-27 : 10.  











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il mito e l ’ altrove perché consente una ricostruzione puntuale di queste dinamiche affettive e relazionali, sia perché permette, nello stesso tempo, di evidenziare quelle incomprensioni, quelle differenze di sensibilità e percezione che Buzzati intendeva annullare (magari inconsciamente) nell’immagine – costruita e offerta a posteriori – della « persona sola ». Al riguardo, una cosa va detta subito : la storia dell’amicizia tra Buzzati e Brambilla appare assai più mossa e variata di quanto le dichiarazioni buzzatiane, da cui siamo partiti, non lascino intendere. Basta leggere, ad esempio, le lettere appartenenti alla prima parte dell’epistolario, 1 per accorgersi dell’esistenza di uno squilibrio che sembra darsi ab origine, e che sembra compromettere, talora, la stabilità e la continuità dello stesso scambio epistolare. Sono infatti frequenti – al punto da costituire, com’è stato osservato, 2 un vero e proprio topos – i rimproveri che Buzzati rivolge all’amico, il quale viene spesso accusato, più o meno velatamente, di scrivere troppo poco o, addirittura, di non scrivere affatto :  











Caro Ar-tuêris, fino adesso non ho ricevuto niente da te, io ti ho scritto […] due cartoline postali con questa e una lettera ; […] Quando torni ? (Spero prima di lunedì) M’hai scritto ? (28 dicembre 1920). ho ricevuto solo una tua lettera mentre 10 con questa te ne ho già mandate (30 dicembre 1920). Carissimo Ar-tuêris, sai ch’è proprio un bel pezzo che non mi scrivi ? (6 luglio 1921). Sai che è un bel pezzo che non ricevo niente da te, benché io ti abbia scritto ogni giorno (2 settembre 1921). 3  









Ma non è difficile imbattersi in toni più esasperati e anche aggressivi, come nelle lettere del 28 giugno e del 20 luglio 1922 :  

Considerazioni generali. Tu sei un bel vigliaccone perché non mi scrivi mai e mi fai saltar su i nervi […]. Senti però, carissimo Artuêris, va bene che avrai la barba ma, Demonio frusto, quando aspetti a scrivermi ? 4  



1

  Per un inquadramento generale dell’epistolario buzzatiano, anche in riferimento alla attendibilità filologica dell’edizione cui faremo riferimento, cfr. M. Depaoli, Il « Fondo Dino Buzzati », « Autografo », n.s., 19, febbraio 1990, pp. 101-108 : 103-105. 2  Cfr. Id., Lingua « familiare » : parola e immagine nelle « Lettere a Brambilla », in S. Pautasso et alii, Dino Buzzati : la lingua, le lingue, Atti del Convegno Internazionale (Feltre e Belluno, 26-29 settembre 1991), a cura di N. Giannetto, con la collaborazione di P. Dalla Rosa e I. Pilo, Milano, Mondadori, 1994, pp. 65-79 : 73. 3  D. Buzzati, Lettere a Brambilla, a cura di L. Simonelli, Novara, De Agostini, 1985, pp. 48, 4 51, 60, 71.   Ivi, pp. 83 e 93.  























ritratto dell ’ artista da giovane

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La lunghezza del testo, elemento marginale in altri generi letterari, acquista, in questo caso, una rilevanza del tutto particolare, 1 dal momento che consente un’immediata valutazione dell’investimento affettivo che la stesura di una lettera privata necessariamente comporta. E infatti Buzzati non esita a sottolineare, con accenti talvolta ironici, la brevità delle lettere dell’amico, nonché la scarsità della loro frequenza :  



Ti dico proprio che scrivi troppo poco e una volta alla settimana è impossibile. […] Se tu non mi dici tutto quello che fai e non mi scrivi più di quello che scrivi male può capitarti (6 luglio 1922). 2  

Il giovane Dino, epistolografo infaticabile quanto esigente, impegnato, come egli stesso dice, in una quotidiana fatica scrittoria, non esita, peraltro, a confessare all’amico la profondità del proprio bisogno affettivo, un bisogno che soltanto le lettere di Arturo potrebbero adeguatamente soddisfare :  

T’avverto. Io adesso scrivo questa lettera, mi pare, e non ne scrivo più finché non ne ho un’altra tua. Perché ? Cosa credi forse che ti scrivi [sic] per sport ? […] Io ti mostro il bisogno che ho delle tue lettere ? E se non scrivi vuol dire che non hai voglia delle mie. […] Che abitudine hai di ricevere da me una lettera al giorno e rispondere al 10% ? (30 giugno 1922). 3  









E si tratta di un bisogno davvero intenso, se Buzzati confessa nella già citata lettera del 28 giugno 1922 di aver addirittura sognato « di ricevere una lettera ». 4 L’esplicita e reiterata richiesta affettiva, rivolta a un destinatario la cui presenza è, al momento della scrittura, puramente fantasmatica, 5 finisce così per incrociarsi con la possibilità, del tutto ipotetica, del suo eventuale soddisfacimento : « l’illusion de toute correspondance […] – osserva Jean-Luis Bonnat – repose sur cette croyance d’attribuer au destinataire le pouvoir  











1   Osserva, a questo proposito, Michèle Ramond : « Un des topiques des correspondances est la taille de la lettre reçue et envoyée : on s’excuse ou se plaint d’une lettre courte, […], on affecte de prendre en pitié l’Autre à qui on en inflige la lecture, on remercie de l’envoi d’une longue lettre où l’on voit le signe d’un faveur particulière. La lettre est un don libidinal » : M. Ramond, La lettre ou le lien delirant, in J. L. Bonnat et alii, Les correspondances. (Problématique et économie d’un “genre littéraire”), Actes du Colloque International, Nantes, 4-7 Octobre 1982, Université de Nantes, 1983, pp. 357-371 : 358. 2  D. Buzzati, Lettere a Brambilla, cit., p. 87. 3 4   Ivi, p. 84.   Ivi, p. 83. 5  « Car le destinataire a ici une particularité essentielle : absent, il ne peut manifester un comportament réel. Réduit à n’être qu’un rôle dans un énoncé, il est défaillant, et il conviendrait de relever la polysémie de ce terme : il manque à être, et il manque à son “devoir”, à sa fonction interlocutive » : S. Lecointre, Contribution a une theorie du texte des correspondances, in J. L. Bonnat et alii, Les correspondances, cit., pp. 195-212 : 201.  























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il mito e l ’ altrove de combler une demande d’amour, d’en effacer même ce qui la rend nécessaire ». 1 La scrittura epistolare si presenta così come un mezzo veicolante molteplici istanze affettive, che si concentrano, nella prospettiva buzzatiana, sulla figura dell’amico-destinatario, 2 il quale viene trasformato, al di là di ogni adolescenziale, desiderata identificazione, in una sorta di guida esistenziale, in un’autorità superiore, sostitutiva di quella figura paterna che Buzzati, com’è noto, aveva prematuramente perduto. Scrive, a questo proposito, Marie-Hélène Caspar : « pendant les années décisives de la formation intellectuelle, Arturo est plus qu’un ami pour Dino. Il assume tous les visages : celui de confident, de conseiller, de confesseur, d’alter ego et même de Père, ce père qui a été ravi trop tôt à l’affection de ses enfants ». 3 A causa di questa situazione il rapporto tra i due corrispondenti risulta quantomeno squilibrato : il futuro scrittore, ad esempio, non esita a elogiare le lettere e le prove letterarie dell’amico, mentre tende, di contro, a sottovalutare le proprie capacità, assumendo non di rado un atteggiamento fortemente autodenigratorio : 4  

















   

Veramente carissimo Artueris […] la tua ballata è meravigliosa, non c’è una rima che non scorra via meravigliosamente. […] La storia è bellissima e la racconti straordinariamente (21 luglio 1922). Carissimo Artueris, quando sono tornato ho trovato la tua bellissima lettera. La tua ballata è degna delle altre due […] ti dico una cosa che in verità scrivi delle cose meravigliose (31 luglio 1922). E adesso cerco di stiracchiare le idee come gomma per riempire tutto il foglio. Se tu chiamavi sceme delle tue lettere bellissime, cosa mai ti sembrerà questa ? Un compito d’esame d’ammissione all’asilo (24 settembre 1924). 5  



Lo stesso complesso d’inferiorità si riflette nei giudizi, piuttosto severi, che Buzzati pronuncia intorno alla propria tecnica di disegno. L’inevitabile confronto, operato in una sorta di competizione a distanza, favorisce, ancora una volta, l’amico-rivale, cui viene riconosciuta la capacità, pro1

  J. L. Bonnat, Un écran et ses négatifs : la Correspondance, in J. L. Bonnat et alii, La correspondance (Edition, fonctions, signification), Actes du Colloque franco-italien, Aix-en-Provence, 5-6 Octobre 1983, Université de Provence, 1984, pp. 11-24 : 13. 2   La funzione conativa, ossia, come insegna Jakobson, l’« orientamento verso il destinatario », è facilmente riconoscibile in ogni testo epistolare : colui che scrive si propone in effetti di influenzare il destinatario, costruendo, più o meno consapevolmente, una precisa immagine di sé, una proiezione soggettiva del proprio io che, in quanto tale, può essere modificata nel corso del tempo (a questo proposito cfr. N. Bonifazi, op. cit., p. 17). 3  M.-H. Caspar, A propos de « Lettere a Brambilla », « Cahiers Dino Buzzati », vii, 1988, pp. 894 106 : 91-92.   Al riguardo cfr. ivi, p. 93. 5  D. Buzzati, Lettere a Brambilla, cit., pp. 94, 96, 165.  



















ritratto dell ’ artista da giovane 19 pria del vero artista, di conseguire uno stile immediatamente riconoscibile :  

Adesso cambiando argomento, vorrei persuaderti che sei fesso quando dici che i tuoi disegni non valgono niente. […] Và [sic], osserva poi i tuoi disegni e subito, anche se non vuoi, scorgerai uno stile cioè una personalità, dote precipua d’un artista, invece nei miei io adatto il mio tratteggio, il modo di disporre i colori, a ogni disegno e non ho stile (5 agosto 1924). 1  

Lo scarto di valutazione si fa ancora più evidente qualora si tratti di scegliere una facoltà universitaria : per Arturo, giovane destinato al successo e a una prevedibile carriera accademica, l’iscrizione a Lettere sembra imporsi quasi da sé, al di fuori di ogni discussione :  



Tu poi fai benissimo a far lettere, perché ti senti di insegnare qualche anno ai licei e perché puoi star sicuro che se tu ti ci metti all’università non starai tanto ad andare : se non ci vanno quelli come te non so proprio chi ci dovrebbe arrivare. E poi tu scriverai e ti farai fama […] (27 agosto 1924). 2  



Generoso nell’incoraggiare l’amico, il giovane Dino sembra invece compiacersi della propria autodenigrazione, al punto da prefigurarsi una riuscita che appare ben misera se raffrontata con quella ipotizzata per Arturo :  

Io invece, dopo aver guadagnato quest’anno 100.000 lire a una mostra dei miei quadri, andrò a fare una tournée di concerti nell’Afganistan (27 agosto 1924). 3  

Vi è, naturalmente, una componente autoironica che, a buon diritto, può ancor albergare nel Buzzati diciottenne, ma che nulla toglie all’impressione di fondo che abbiamo cercato di evidenziare : anche la scelta di iscriversi a Giurisprudenza sembra nascere, per il futuro scrittore e giornalista, da un banale calcolo opportunistico, e non, come si potrebbe pensare, da una vocazione precisa, dalla piena consapevolezza dei propri interessi e delle proprie capacità :  



Poi bisogna considerare che se anche gli studi di legge non sono in sé affatto di mio gusto, anche la storia, la geografia, il francese, gli studi danteschi io non li posso soffrire. E, per ultimo, a legge si studia meno che altrove ; e questo, poche balle, è una gran bella cosa. Tuttavia non credere che io sia deciso definitivamente per legge (27 agosto 1924). 4  



Buzzati e Brambilla, insomma, non erano così uguali e intercambiabili come l’immagine della « persona sola », citata in precedenza, potrebbe indurci a credere : i due amici ricoprono, all’interno dell’epistolario, ruoli chiaramente distinguibili, che corrispondono a personalità ben differen 





1

  Ivi, pp. 153-154.   Ibidem.

3

2

  Ivi, p. 159.   Ibidem.

4

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il mito e l ’ altrove ziate. La relazione epistolare, centrata, come si è detto, sulla dichiarata dipendenza affettiva di colui che scrive, 1 appare in effetti fortemente sbilanciata : è significativo, ad esempio, che Buzzati si rivolga all’amico utilizzando forme di cortesia o di vera e propria captatio benevolentiae, quasi temesse, con le sue lettere, di risultare noioso o addirittura importuno :  





Scusa se ti scrivo delle lettere così sciancate e confusionate (13 agosto 1923). Magari ti ho annoiato con questa lettera ; però nessuno t’obbligava a leggerla (Vigilia di Pasqua 1924). Questa lettera ti parrà molto indegna ma perdona (1 ottobre 1924). Perdonami se sono monotono e triste. Per fortuna verrai tu (17 luglio 1925). Ma io ti ammorbo con queste mie lamentazioni e ti prego di scusarmi (21 settembre 1946). 2  



Queste reiterate forme di cortesia, che possono sembrare persino eccessive nell’ambito di una relazione amicale, rispecchiano, pur rientrando almeno in parte nella convenzionalità e formularità richieste dalla scrittura epistolare, la natura profonda di un rapporto che vede, da un lato, Arturo quale guida e ‘maestro’ di vita, cui ci si rivolge nei momenti di sconforto o di incertezza, e, dall’altro, Dino quale soggetto dipendente, legato a una condizione, vera o presunta, di subalternità. Si torni, ancora una volta, alle lettere che Buzzati scrive dopo aver conseguito la maturità liceale, allorché, indeciso circa la strada da percorrere, chiede consiglio all’amico in merito agli studi da intraprendere, riconoscendogli così una superiore autorità e capacità di giudizio :  

Sono ignobilmente (per me) costretto a domandare a te, che mi conosci abbastanza, cosa ti pare che io farei bene. […] È scemo domandare pareri, lo so, ma tu non sei scemo e io sono indeciso nel modo massimo (12 ottobre 1924). 3  

Questo complesso di inferiorità nei confronti dell’amico determina, come prima conseguenza, la paura della perdita, il timore dell’esclusione dalla cerchia rassicurante dei rapporti affettivi. Significativa, al riguardo, è la lettera dell’11 novembre 1929 :  

negli ultimi tempi, te lo confesso, mi pareva che io fossi troppo ingenuo e poco profondo rispetto a te, e quando mi parlavi dei tuoi amici letterati temevo che oramai tu ti fossi allontanato con loro. 4  

Accade allora che Buzzati cerchi di esorcizzare questi timori ricorrendo a forme esplicite di captatio, da cui traspare, anzitutto, la volontà di man1   Si veda la lettera del 20 luglio 1926 : « Proprio solo al mondo sono io, nessuno ha bisogno di me, io ho bisogno degli altri, ho bisogno dell’amico che legga queste cose » : ivi, p. 179. 2   Ivi, pp. 128, 147, 167, 172, 282. 3 4   Ivi, p. 169.   Ivi, p. 193.  







ritratto dell ’ artista da giovane 21 tenere un rapporto d’amicizia che viene sentito come imprescindibile e insostituibile punto di riferimento :  

Adesso ti faccio ridere, ma la tua amicizia in certi momenti io sento che mi è un vero onore ; non so spiegarmi bene ma tu hai capito. […] non solo un’amicizia come la nostra è una cosa bellissima, ma io non ne potrò mai trovare un’altra di simile, certo, per tutta la vita (11 novembre 1929). 1  



Emerge con chiarezza, a questo punto, il valore strumentale delle frasi buzzatiane, che mirano, attraverso il recupero della funzione conativa, 2 a influenzare il destinatario, 3 ad agire su di lui nel tentativo di indurlo a non abbandonare quel ruolo paterno e di guida che gli è stato assegnato fin dall’inizio della relazione amicale :  





Pensa però che orribile sarebbe se tu stessi troppo tempo lontano e la nostra divenisse un’amicizia come quelle che i nostri genitori dicono d’aver avuto e di avere ancora adesso ; vecchi amici, che quando si rivedono, a stento trovano le antiche parole, […] Illa, cerca di tornare a Milano anche se non ci vediamo per dei mesi, quando so che tu sei qui è un’altra cosa (11 novembre 1929). 4  



Ogni cambiamento d’intensità nella relazione amicale è sentito, di conseguenza, come una sorta di minaccia, come un’alterazione che deve essere in qualche modo corretta e modificata. Si torni alla lettera dell’11 novembre 1929 :  

ti ricordi negli ultimi mesi, quando mi incontravi in via Solferino ? Non eravamo come un po’ lontani l’uno dall’altro ? Non è brutto che si debba andare a finire così ? Parlo un po’ da cretino, ma tu mi hai capito. 5  







La lettera viene insomma utilizzata come strumento di controllo delle dinamiche affettive ; dinamiche che si possono facilmente osservare, come si è detto, considerando la frequenza dello scambio epistolare o la lunghezza delle singole lettere. D’altra parte, Buzzati sembra cercare una corrispondenza affettiva che passi, anzitutto, proprio attraverso l’equivalenza e la parità dello scambio epistolare 6 (uno scambio che si fa più fitto, com’è  



1

  Ibidem.  « L’orientamento verso il destinatario, cioè la funzione conativa, trova la sua espressione grammaticale più pura nel vocativo e nell’imperativo, […] » : R. Jakobson, Saggi di linguistica generale, a cura di L. Heilmann, Milano, Feltrinelli, 1966, p. 187. 3  « essa [la lettera] si dirige ad un destinatario, si indirizza a qualcuno, è un mezzo d’azione ; nella lettera, ci si racconta e ci si esplora, ma davanti ad un altro e per un altro » : J. Rousset, Forma e significato. Le strutture letterarie da Corneille a Claudel, introduzione e traduzione di F. Giacone, Torino, Einaudi, 1976, pp. 81-120 : 87. 4 5  D. Buzzati, Lettere a Brambilla, cit., p. 193.   Ivi, pp. 193-194. 6   Si veda al riguardo la lettera del 21 luglio 1922 : « Ma scrivimi di te. Pare che tu non riceva nessuna lettera mia, io che ti scrivo ogni giorno. Io ti ringrazio moltissimo e scrivi se vuoi che scriva » [corsivo mio] : ivi, p. 94. 2

























22

il mito e l ’ altrove ovvio, durante le vacanze estive, allorché i due amici sono fisicamente lontani, e che si dirada nei mesi invernali, quando la vicinanza dei corrispondenti rende superfluo il ricorso alla scrittura). Le citazioni, anche in questo caso, potrebbero essere numerose, anche per quanto riguarda le lettere degli anni Trenta, dove non mancano, a ben vedere, le lamentele, le ripetute esortazioni, le continue richieste di lettere più lunghe e particolareggiate :  

Non ho ricevuto più niente da te. […] Dovresti scrivermi ancora come avevi fatto prima di Natale e raccontarmi anche quelle cose che tu a torto credi non mi interessino ; quanto più lunghe sono le tue lettere tanto più piacere mi fanno (20 gennaio 1930). 1  



Il rapporto di dipendenza rispetto all’amico/destinatario è così forte e stretto che la lettera può diventare addirittura un oggetto di culto, una sorta di feticcio da proteggere e custodire gelosamente :  

Le tue lettere le tengo in tasca per delle ore prima di aprirle, e tu capisci bene il perché (26 maggio 1930). 2  

Quanto all’adeguatezza del mezzo epistolare, si può dire che la posizione di Buzzati oscilli tra due poli fondamentali : se negli anni giovanili la lettera rappresenta per il timidissimo Dino uno straordinario strumento di espressione e di comunicazione, le cose cambiano un po’ man mano che lo scrittore si avvicina alla maturità, quando la lettera viene sentita come un semplice surrogato, una modalità solo parzialmente sostitutiva dell’incontro reale e dello scambio in praesentia :  



certe cose io le so dire solo per lettera perché non sono capace di tirar fuori l’anima mia a parole – son timido in un modo pietoso (Vigilia di Pasqua 1924). Scrivimi, ma quanto sarebbe meglio se tu potessi venire prima della fine del mese (21 settembre 1932). 3  

2. Sulla psicologia di Buzzati : alcuni aspetti ricavabili dall’epistolario  

La personalità buzzatiana che emerge dall’epistolario sembra presentare alcuni elementi facilmente riconducibili alla condizione psicologica del soggetto ciclotimico. Scrive, a questo proposito, Yves Panafieu :  

La lecture des Lettres à Brambilla m’a convaincu de l’existence, chez l’auteur, d’une profonde et constant cyclothimie qui engendre doutes, angoisses, frustations 1

  Ivi, p. 196.

2

  Ivi, p. 201.

3

  Ivi, pp. 147, 218.

ritratto dell ’ artista da giovane

23

et agressivité […]. Comme l’oeuvre, la vie de Buzzati a été continuellement traversée par un courant alternatif aux polarités contraires […]. 1  

Il futuro scrittore, in effetti, alterna momenti di esaltazione ad altri di profondo sconforto, passando continuamente dalla fase euforica a quella disforica :  

Qualche volta, cretinamente forse, io ho avuto molta fiducia in me e ho pensato : quando avrò fatto l’università e anche prima devo combinare qualcosa di bello. Ma ora comincio a capire che non ho quello che avevo creduto e che per fare qualcosa di grande bisogna potere più di me (12 ottobre 1924). 2  



Ma è da considerare anche la lettera del 29 luglio 1925, la quale termina, a ben vedere, con un rovesciamento tipicamente ciclotimico dell’esaltante prospettiva espressa all’inizio :  

Io sto facendo un disegno che se riesce come mi pare che dovrebbe riuscire, te lo giuro, mette in sacco Rackam, Tiziano, […], Doré, Martini, Segantini eccetera. […] Ieri sera per radio ho sentito le danze ungheresi come vanno suonate e mi sono cascate le braccia. 3  

Così come quella dell’11 novembre 1929 :  

Procedo con giorni di scoraggiamento e altri di stupido orgoglio. Ma quando mi guardo attorno mi sento solo. 4  

Il timore di una precoce sconfitta esistenziale predomina, insomma, nelle lettere di questo periodo, quando Buzzati, non lo si dimentichi, non ha ancora varcato la soglia dei vent’anni. La ciclotimia, con il finale prevalere della fase depressiva, in cui il giovane Buzzati si vede precocemente condannato a una vita impiegatizia, dominata dalla monotonia e, soprattutto, dalla « mediocrità », 5 diviene così un motivo ricorrente che attraversa le pagine più desolate dell’epistolario :  







Il fatto è che io, il quale, ti confesso, mi ero creduto un giorno capace di compiere cose grandi, dico, « cose grandi », ora mi accorgo di una completa mancanza di volontà, in secondo luogo di una assoluta mancanza di genialità. […] Rimane una vita grigia come un topo, una carriera di impiegato che mi farà crepare, crepare sì (20 luglio 1926). 6  





1  Y. Panafieu, Le mystère Buzzati. Dédales et labyrinthes. Masques et contradictions, LiancourtSaint-Pierre, Y. P. Editions, 1995, pp. 137-138. 2  D. Buzzati, Lettere a Brambilla, cit., p. 170. 3 4   Ivi, p. 173.   Ivi, p. 194. 5   Si veda al riguardo la lettera del 5 aprile 1926 : « Passo un periodo in cui non faccio nulla, in cui vedo passare miserevolmente la vita, […], m’accorgo che sono intelligente come tutti gli altri uomini, che davanti a me s’apre l’aurea porta della mediocrità, per sempre » : ivi, p. 177. 6   Ivi, p. 178.  







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il mito e l ’ altrove

E con toni di ancora più cupa malinconia in una lettera di vent’anni dopo, che ha tutta l’aria di un tragico, ancorché prematuro, bilancio esistenziale :  

Non so da che cosa dipenda […] ma da alcuni mesi, tranne le ore in cui la compagnia dei conoscenti o lo stimolo occasionale del lavoro mi rianima, una cupa desolazione mi domina : nessun desiderio, nessuna speranza, nessuna fiducia in me, nessuna strada aperta davanti, come se la mia vita debba ritenersi effettivamente conchiusa (21 settembre 1946). 1  



Non solo : l’alternanza ciclotimica emerge con evidenza, in particolare, in una serie di lettere che risultano costruite sulla contrapposizione fra montagna e città, luoghi essenziali, com’è noto, dell’immaginario buzzatiano. 2 Alla montagna, considerata come spazio euforico, caratterizzato da una complessa stratificazione di significati altamente positivi, corrisponde, soprattutto nella prima giovinezza, 3 il momento dell’esaltazione e della gioia assoluta :  







Ora mi sembra di non poter essere felice che sulle montagne e di non desiderare che quelle (26 settembre 1923). se a scuola, in ora di greco, pensi alle Crode, queste non ti paiono cose sceme ma ancora più belle perché sono lontane. Dal che le montagne sono più belle di tutto, come si voleva dimostrare (30 settembre 1923). 4  

La montagna viene così individuata come l’unico spazio in cui sia possibile raggiungere quella pienezza di vita che la soffocante e alienata realtà cittadina tende continuamente a negare :  

Vivere lassù, tra quella gente che sembra possedere il segreto di una verosimile felicità, trovare sulle montagne una nuova giovinezza eccetera […]. Poi, ridisceso, mi sento di nuovo intossicare (21 settembre 1946). 5  

Il momento complementare, quello della depressione e della malinconia, coincide, come si è detto, con la mediocrità della vita cittadina, con il vuo1

  Ivi, p. 282.   Per un’analisi approfondita della coppia montagna/città, volta a evidenziare la compresenza di significazioni diverse e, soprattutto, di valori positivi e negativi all’interno delle due dimensioni spaziali, cfr. N. Giannetto, Il sudario delle caligini. Significati e fortune dell’opera buzzatiana, Firenze, Olschki, 1996, pp. 9-18 : 11 : « La stessa immagine, lo stesso luogo, la stessa situazione atmosferica possono assumere valenze diverse in funzione del diverso contesto e soprattutto possono assumere, all’interno della stessa sequenza o funzione narrativa, sfaccettature molteplici ». 3   La percezione buzzatiana dello spazio alpino si modifica in parte negli anni della maturità, quando la montagna viene sentita come alterità assoluta e dimensione inattingibile, estranea al soggetto che si illude di poterla possedere. Si veda al riguardo la lettera del 4 settembre 1946, in D. Buzzati, Lettere a Brambilla, cit., pp. 280-281. 4 5   Ivi, pp. 138, 139.   Ivi, p. 282. 2









ritratto dell ’ artista da giovane 25 to incolmabile dell’esistenza quotidiana, destinata a consumarsi, giorno per giorno, nella routine del lavoro redazionale :  

Ora ho ripreso la mia solita vita di redazione, il cui orizzonte, fin dove arriva lo sguardo, si presenta piatto e sconsolato (18 febbraio 1936). 1  

Questa malinconia buzzatiana – una malinconia che sembra nascere dalla perdita delle illusioni, dal progressivo adattamento a una quotidianità che si rivela sempre più costrittiva e deludente –, finisce per ripercuotersi anche sul piano della creatività letteraria, dove prevale, come nota Panafieu, l’« inévitable conviction d’une stérilité désespérante » : 2  



   

ho constatato con amarezza la fine definitiva della mia genialità che in altri tempi forse era vissuta (20 luglio 1928). Comincio a convincermi che è meglio io mi adatti per sempre alla mediocrità, quale spetta del resto alle mie reali capacità. La speranza di poter fare qualcosa di veramente in gamba nel campo letterario […], sfuma di giorno in giorno. Ogni tanto mi si presentano delle belle idee o meglio idee che al primo momento sembrano belle. Poi, quando mi metto a realizzarle, mi accorgo che sono cosettine, di seconda o terza classe. Scriverò per tutta la vita delle cose carine. Perdio sono già arrivato ai trent’anni e ancora non ho fatto niente di buono (18 febbraio 1936). 3  

In questa situazione, in cui le frustrazioni sentimentali e professionali si aggiungono a quelle letterarie, 4 la montagna, luogo per eccellenza di rifugio e di pace, finisce per configurarsi come spazio utopico, come estremo baluardo da contrapporre alla disperazione esistenziale :  



Un unico utopistico spiraglio mi rimane nell’avvenire ; la possibilità materiale, se non la volontà, di andare a vivere in montagna o campagna. Si capisce che non ne farò mai niente ma il pensare che può rimanere sempre quello scampo eviterà la disperazione (18 febbraio 1936). 5  



3. L’invenzione del « Bàrnabo »  



L’invenzione narrativa del Bàrnabo nasceva, in questo contesto, dalla volontà di recuperare integralmente l’esperienza positiva della montagna (ma anche quella della natura se è vero – come scrive Buzzati nella lettera del 15 agosto 1930 – che « la natura, la bella natura, [...], si è allontanata e non sono più capace di immaginarla »). 6  





1

2   Ivi, p. 236.  Y. Panafieu, Le mystère Buzzati, cit., p. 180.  D. Buzzati, Lettere a Brambilla, cit., pp. 188, 236. 4  « Nessuna pupa al mondo sa che io esisto, io l’uomo più degno d’amore che sia sulla faccia del mondo » (ivi, p. 178) ; « Al giornale la mia vita non è brillante ; mi pesa incredibilmente il fatto che finora nessuno s’è accorto, modestia a parte, di quello che io sono. Ho fatto la figura dell’idiota e prevedo una fregatura » (ivi, p. 188). 5 6   Ivi, p. 236.   Ivi, p. 205. 3













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il mito e l ’ altrove Tale recupero, in effetti, non poteva avvenire che attraverso la creazione di un alter ego, di un « io » narrativamente trasposto che consentisse a Buzzati di rivivere quell’esperienza biografica che l’aveva così profondamente segnato. Il giovane giornalista, insomma, diventava scrittore creando un doppio di sé 1 e, insieme, trasformando il paesaggio dolomitico in un luogo poetico fortemente simbolizzato, in un mito personale 2 che sarebbe divenuto, nel corso del tempo, l’elemento fondante e costitutivo della sua vita e della sua opera. Buzzati, autore generalmente poco incline alla riflessione teorica sulla letteratura e sui meccanismi della scrittura (fatta eccezione per le note dichiarazioni relative allo statuto del racconto fantastico), 3 arrivava così, sulla soglia dei ventiquattro anni, a definire l’unico tema « libero e vergine » e, insieme, una precisa, ineludibile modalità di racconto :  















nelle mie ambizioni letterarie pensavo che unico argomento libero e vergine è la montagna, […]. Ecco per far capire cosa sia la montagna bisogna raccontare una storia dove la montagna non sia l’oggetto principale ma si riveli poi da sola semplicemente (31 maggio 1930). 4  

A tale modalità Buzzati si manterrà fedele durante la lunga, laboriosa stesura del Bàrnabo, 5 dove la montagna, lungi dal costituire uno sfondo accessorio per la vicenda narrata, finirà per imporre quasi autonomamente la propria centralità configurandosi, infine, come luogo-simbolo, come spazio altro in cui si condensano valori e significati che trascendono l’immediata evidenza del livello paesaggistico-naturale. 6 Lo scrittore intendeva così contestare la facile retorica della montagna e della celebrazione delle imprese alpinistiche, anche prendendo le distanze dalle descrizioni puramente oleografiche di quanti ne eludono la dimensione più profonda,  



1

  Che cos’era il timore di Bàrnabo di fronte a quella che sarebbe stata la prova capitale della sua vita, se non un riflesso del timore dello stesso Buzzati, allorché immaginava – a seguito dell’assunzione al « Corriere della Sera » – di vedersi « bocciato alla prova da lui stesso desiderata » ? : ivi, p. 197. 2   A questo proposito si veda A. Biondi, Il Tempo e l’Evento (tre momenti della narrativa buzzatiana), « Il contesto », 4-5-6, 1980, pp. 289-328 : 290-291. 3   Cfr. Y. Panafieu, Dino Buzzati : un autoritratto. Dialoghi con Yves Panafieu (Luglio-settembre 1971), Edizione speciale del Convegno di Feltre, Liancourt-Saint-Pierre, Y. P. Editions, 1995, pp. 4 136-143.  D. Buzzati, Lettera a Brambilla, cit., p. 203. 5  « Ho fatto bene a scriverlo tre volte. Perché la terza volta ho capito che cosa vuol dire scrivere. E infatti, in piccolo, in quel libro lì, è realizzato uno stile » : Y. Panafieu, Dino Buzzati : un autoritratto, cit., p. 167. 6  « La montagna viene a rappresentare per Buzzati il simbolo dell’inquietudine, della precarietà, dell’attesa, del mistero. Metafora della sua vita e metafora di quell’idea ossessiva della morte che ne segnerà tutto il corso e tutta l’espressione artistica » : E. Camanni, Introduzione a D. Buzzati, Le montagne di vetro. Articoli e racconti dal 1932 al 1971, a cura di E. Camanni, Torino, Vivalda, 1989, pp. 9-18 : 11.  









   























ritratto dell ’ artista da giovane 27 quella riconducibile a un ordine che possiamo definire senz’altro miticosimbolico :  

mi viene uno sdegno terribile quando vedo quanto gli altri profanano con la penna la montagna e la deturpano con ricche immagini retoriche e non ne capiscono niente ; solo io sono capace di capirle [sic] e anche te ; ma anche gli altri, gli alpinisti che scrivono sul bollettino del Club Alpino bellissime relazioni mi danno ai nervi terribilmente ; […] (15 agosto 1930). 1  







Potremmo, forse, proseguire su questa linea interpretativa e ipotizzare una segreta identità, una graduale, progressiva sovrapposizione tra montagna e infanzia, 2 entrambi luoghi essenziali dell’immaginario buzzatiano, accomunati dalla stessa purezza, dalla stessa estraneità alla dimensione avvilente dell’esistenza quotidiana. La montagna, intesa come spazio chiuso e intemporale, sottratto alle dinamiche profonde del cambiamento, 3 non può che riportare, in effetti, alla condizione privilegiata dell’infanzia, una condizione caratterizzata, com’è stato osservato, 4 dalla sospensione del decorso temporale oggettivo e, insieme, dall’affermazione del presente come tempo della durata e della persistenza, della continua riproposizione dell’identico. Non a caso, scrivendo il Bàrnabo, cercando di dire la montagna, 5 Buzzati si proporrà anzitutto di ritrovare se stesso, di recuperare quella attitudine fantastico-immaginativa che l’aveva accompagnato nel corso dell’infanzia e della prima adolescenza. Si veda il passo seguente, tratto ancora dalla lettera del 15 agosto 1930 :  









E poi se penso di scrivere qualche cosa deve essere qualcosa di definitivo, e invece, per forza, le prime cose che scrivessi sarebbero brutte e poi se mai, dopo molto e molto lavoro, potrei ritrovare me stesso, rifarmi lo stile dei miei vecchi gnomi, ecco mi basterebbe poter riavere quello là [corsivo mio]. 6  

L’infanzia, come spazio-tempo originario, come punto di partenza di ogni esperienza determinante, sembra offrire, in primis, una sorta di modello 1

 D. Buzzati, Lettere a Brambilla, cit., p. 205.   Sulla presenza dell’infanzia nell’opera buzzatiana cfr. M. Formenti, L’infanzia nell’universo buzzatiano, « Studi buzzatiani », I, 1996, pp. 45-66. 3   A questo proposito cfr. D. Buzzati, Bàrnabo delle montagne, a cura di P. Brengola, Milano, Mondadori Scuola, 2001, p. 76 : « Quando Bàrnabo rivide da vicino le montagne non ebbe alcuno stupore. Guardò insistentemente le pareti corrose e verticali, toccò con le mani i tronchi degli abeti, ascoltò con piacere i ben noti rumori. Nulla davvero era mutato ». 4  M. Bonaparte, Eros, Thanatos, Chronos, trad. it. di M. S. Mazzi, Rimini, Guaraldi, 1973, p. 111 : « le giornate del bambino sembrano srotolarsi per così dire fuori del nostro tempo. Quei giorni dell’infanzia […] paiono quasi eterni ; figuriamoci le settimane, i mesi, gli anni proiettati nel futuro. […] Il “tempo” del bambino e il nostro sono in qualche modo incomparabili ». 5  « Pensavo di scrivere un romanzo, una specie di romanzo sulle montagne, […] » : D. Buz6 zati, Lettere a Brambilla, cit., p. 205.   Ibidem. 2

























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il mito e l ’ altrove conoscitivo, uno sguardo (ancora) innocente sulla realtà, un atteggiamento poetico disponibile al sogno e all’invenzione favolistica (particolarmente significativo, a questo proposito, è il riferimento allo « stile dei miei vecchi gnomi »). Si comprendono meglio, allora, le motivazioni che hanno portato alla composizione del romanzo e, soprattutto, all’invenzione di Bàrnabo, personaggio ai limiti della indefinizione, privo di un nome completo e di un passato vero e proprio, e perciò, a ben guardare, facilmente riconducibile all’universo indeterminato della fiaba. La riscoperta dell’infanzia diviene, quindi, un momento necessario e imprescindibile, un atto preliminare all’operazione della scrittura ; i problemi attinenti alla lingua e al registro da adottare emergeranno solamente dopo, quando Buzzati dovrà cercare, per la prima volta, una propria ‘voce’, una propria riconoscibile modalità espressiva. 1 Venendo ora alle lettere successive, si può notare come Buzzati approfondisca la riflessione intorno allo scrivere (e quindi intorno alla propria poetica, sebbene ancora in fieri), individuando sostanzialmente due idoli polemici : descrittivismo e psicologismo, elementi ch’egli ritiene incompatibili con la propria scrittura, programmaticamente votata, stando alle sue stesse parole, alla conquista di una « semplicità essenziale ». 2 Gli eccessi descrittivi, per la verità, erano già stati criticati in una lettera del 24 settembre 1924, da cui emerge, soprattutto, la tipica insofferenza dello studente nei confronti dell’insostenibile ampiezza del celebre esordio manzoniano :  

















Mi vado convincendo che per fare le descrizioni di paesaggi, anche quelle famose, non ci vuole abilità, ma occorre essere dei bei boia, perché tutte annoiano, nessuna riesce allo scopo e son tutte uguali. E “quel ramo del lago di Como” mi fa pietà e tutti quegli idioti che lo chiamano bello. 3  

Altrettanto recisa è la condanna dell’analisi psicologica, responsabile, secondo Buzzati, del fallimento dei romanzi moderni :  

Tanta semplicità, secondo me, deve essere l’abolizione assoluta di tutti i cretini pezzi descrittivi e anche delle impotenti descrizioni psicologiche che impugnano miserabilmente tutti, anche i belli romanzi moderni (10 luglio 1931). 4  

Questi elementi – la ricerca della semplicità e, soprattutto, il rifiuto dell’introspezione psicologica tipica del romanzo analitico – riportano le scelte buzzatiane entro un ambito assolutamente pre-novecentesco ; d’altra parte, lo stesso Buzzati è perfettamente consapevole dell’anacronismo sog 

1   A questo proposito si veda F. Atzori, « Bàrnabo delle montagne » : la magia del ritmo, « Studi buzzatiani », i, 1996, pp. 79-85. 2  D. Buzzati, Lettere a Brambilla, cit., p. 207 (si cita dalla lettera del 10 luglio 1931). 3 4   Ivi, p. 166.   Ivi, p. 207.  









ritratto dell ’ artista da giovane 29 giacente a tale modello narrativo, un modello che appartiene più al passato che al presente, essendo proprio di « rarissimi e non moderni scrittori ». Così nella lettera del 10 luglio 1931 :  





mi sforzo costantemente e credo spesso di riuscire ad avere una semplicità essenziale, quale – c’è davvero da ridere – non mi sembra trovarsi che presso rarissimi e non moderni scrittori. 1  

A questo punto non sorprende, anche alla luce di queste scelte di poetica, che i primi tentativi intorno al Bàrnabo apparissero all’amico Brambilla poco significativi :  

È stato per me un vero dolore (è stupido che lo dica ma come tu sai bene ho bisogno di esprimermi e solo tu esisti che mi possa capire) che il primo pezzo, dove mi pare di aver fatto pezzi bellissimi, ti sia parsa una cosa insignificante (10 luglio 1931). 2  

L’amico milanese, lettore colto e raffinato, educato alla scuola dei classici, non poteva certo apprezzare la ricercata ‘semplicità’ della scrittura buzzatiana, la sua esplicita, voluta adesione agli stilemi e ai moduli narrativi tipici della fiaba. Tale semplicità nasceva, del resto, da una precisa scelta di poetica e non, come si potrebbe erroneamente pensare, dall’ingenua assunzione di una spontanea facilità narrativa. In ogni caso, è chiaro che il giudizio negativo espresso dall’amico deve aver colpito profondamente Buzzati, il quale intuisce, forse per la prima volta, come la relazione amicale, per quanto esaltata e anche idealizzata, non sia di fatto esente da equivoci e incomprensioni. Arturo diventa così, a poco a poco, una figura dell’alterità, una persona diversa che certamente può ancora capire l’amico, ma che non sempre può essere capita ; viene dunque meno – come osserva opportunamente Buzzati – la ‘simmetria’ del rapporto amicale, la possibilità di una piena e reciproca comprensione :  



Molto è cambiato dai leggendari tempi di Rackham, molto sei tu cambiato tanto che a me tu sembri costantemente vivere in una sfera superiore […]. Certo però, questo è una consolazione che è difficile immaginare, io so che esiste un individuo che possa comprendermi interamente. È mutato invece l’elemento simmetrico, perché molto spesso a me non riesce di capirti (25 luglio 1929). 3  

L’effettivo distacco tra Buzzati e Brambilla è ancora, ovviamente, molto lontano, e lo scambio epistolare continuerà, com’è noto, ancora per molti anni. Tuttavia, proprio in queste lettere e, soprattutto, in quella citata del luglio ’29, si possono ravvisare incrinature e incomprensioni che rimandano, inevitabilmente, al momento della separazione : una separazione che Buzzati rivivrà, a posteriori, con un senso di rimorso e di profondo ramma 

1

  Ibidem.

2

  Ibidem.

3

  Ivi, p. 191.

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il mito e l ’ altrove rico, 1 e il cui ricordo diverrà sempre più insostenibile dopo il 1963, a seguito dell’improvvisa scomparsa dell’amico. E a questo proposito non possiamo concludere se non citando le parole dello stesso Buzzati, tratte, ancora una volta, dall’introduzione al Diario di Arturo Brambilla :  



Poi la vita, il lavoro, gli impegni, la telefonata, l’astuto egoismo che trova i più convincenti pretesti per chiedere tutto per sé. […] Avanti, avanti. Guai se mi fermo e guardo indietro e vedo quel buco senza rimedio dentro di me, là dove era il pezzo più nobile, forte e buono dell’esistenza. Allora la vertigine, la rabbia delle cose belle lasciate perdere bestialmente, la mano che nel buio cerca il sicuro sostegno e affonda nel nulla, e i rimpianti che si accavallano senza fine. E il rimorso. 2  

1   Ma accenti nostalgici emergono già nell’ultima lettera antologizzata da Simonelli, del 19 settembre 1951 : « (io mi sento sempre in colpa verso di te, misuro la mia indifferenza ed egoismo, rimpiango gli antichi tempi di stretta unione quando insieme si riusciva a fabbricare un nostro mondo esclusivo e autentico, assolutamente sicuro) » : ivi, p. 293. 2  D. Buzzati, Testimonianza di due amici, cit., pp. 34-35.  







« IL SUO AMORE SI CHIAMA EURA » : BUZZATI E LE FIGURE DEL MITO  





1. Introduzione

B

uzzati pubblica Poema a fumetti nel settembre del 1969, suscitando l’interesse dei lettori e l’imbarazzo di una parte della critica, che rimane disorientata di fronte alla novità della proposta. 1 Le perplessità manifestate da qualche recensore sono del resto giustificate : quello che Buzzati dà alle stampe è un libro difficilmente classificabile, e lo stesso cortocircuito che deriva dall’accostamento di generi in apparenza inconciliabili come ‘poema’ e ‘fumetti’, contribuisce a rendere ancora più complessi i termini della questione. 2 Venendo a tempi più recenti, si può notare che gli interventi critici concordano nel sottolineare l’importanza dell’opera, in cui si riconosce non solo un catalogo di temi e di motivi ricorrenti in tutta la produzione di Buzzati, ma anche « la summa del suo mondo poetico rintracciabile da Il deserto dei Tartari fino a Un amore, […] del suo percorso artistico, delle sue invenzioni straordinarie, della sua ispirazione ». 3 Si tratta insomma di un testo di capitale importanza, con cui è sempre più necessario fare i conti, sia per quanto attiene alla sua definizione dal punto di vista formale e strutturale (un fumetto d’autore poco rispettoso delle convenzioni del genere al quale appartiene, un racconto illustrato, « un album di disegni accompagnati da una serie di didascalie » : 4 svariate e tutte ugualmente discutibili le interpretazioni proposte), sia per quanto attiene – ed è l’aspetto che ci interessa in questa sede – ai suoi contenuti : la riscrittura di un mito della classicità, quello di Orfeo ed Euridice, che la cultura occidentale ha continuamente rivisitato attraverso forme artistiche e modalità di espressione di volta in volta diverse. 5 Una rivisitazione che nel caso di Buzzati  















   





1   A questo proposito si veda, anzitutto, E. Falqui, I fumetti di Buzzati, « Il Tempo », 14 novembre 1969 ; ora in 1969 e 1970 : prime recensioni a « Poema a fumetti », in N. Giannetto et alii, Buzzati 1969 : il laboratorio di « Poema a fumetti » (catalogo della mostra, Belluno, Palazzo Crepadona, 2002), a cura di M. Ferrari, Milano, Mazzotta, 2002, p. 125. 2   Quel che è certo, com’è stato osservato, è che l’inedito accostamento buzzatiano, lungi dall’avere una funzione riduttiva nei confronti del ‘poema’, risponde all’intento di valorizzare entrambi i generi in quanto forme di espressione artistica diverse ma di pari dignità : si veda a questo proposito N. Messora, Il linguaggio del mito in « Poema a fumetti », « Cahiers Dino Buzzati », ix, 1994, pp. 167-212 : 170-171. 3  M. Ferrari, I segreti svelati, in N. Giannetto et alii, Buzzati 1969, cit., pp. 13-18 : 16. 4  N. Giannetto, Ma cos’è « Poema a fumetti » ?, ivi, pp. 9-12 : 11. 5   Per una panoramica relativa alle diverse riprese del mito di Orfeo cfr. E. M. Moormann 







































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il mito e l ’ altrove si risolve nell’evidente capovolgimento degli stessi presupposti su cui si fonda la favola, in un rovesciamento di prospettive che denuncia l’irrecuperabilità del mito arcaico da parte dell’uomo moderno. È però necessaria una precisazione : il Poema a fumetti non è solo « una fantasticheria […] ispirata dalla morte delle fantasticherie », « un mito sull’inconsistenza dei miti ». 1 A ben vedere, il riconoscimento della irrecuperabilità del mythos non conduce – come vorrebbe Eura, il personaggio cui è affidata l’istanza razionalistica volta a decostruire il racconto originario – a una resa incondizionata nei confronti del razionale, proprio perché Buzzati rivendica, in qualche modo smentendo e rovesciando la visione del suo personaggio, l’esigenza interiore che induce l’uomo a contestare e a sovvertire il reale, 2 sino al punto di trasformarlo, attraverso il recupero della componente fantastica e visionaria, 3 nel luogo deputato alla soddisfazione del proprio desiderio. La sostanza del libro si identifica insomma con una problematica complessa : una problematica su cui la critica buzzatiana si è spesso soffermata negli ultimi anni e che merita pertanto ulteriori approfondimenti, soprattutto in considerazione dell’importanza che il processo di ‘demitizzazione’ e ‘rimitizzazione’ assume come chiave di lettura non solo del Poema a fumetti ma di tutta l’opera del Bellunese. 4  



















2. L’invenzione dell’aldilà Se prendiamo in esame le immagini con cui Buzzati ha rappresentato la dimensione ultraterrena, possiamo notare, nella generalità dei casi, l’asW. Uitterhoeve, Miti e personaggi del mondo classico. Dizionario di storia, letteratura, arte, musica, a cura di E. Tetamo, Milano, Bruno Mondadori, 1997, pp. 551-558. Si veda inoltre M. Di Simone, Amore e morte in uno sguardo. Il mito di Orfeo e Euridice tra passato e presente, Firenze, Libri Liberi, 2003. 1  F. Giannessi, Orfeo ed Euridice oggi, a fumetti, « La Stampa », 16 novembre 1969 ; ora in 1969 e 1970 : prime recensioni a « Poema a fumetti », cit., p. 126. 2   Questo aspetto è stato evidenziato da Alessandro Del Puppo, autore di uno studio in cui la « sovversione del reale » viene identificata come elemento connotativo e insieme come chiave di lettura del testo buzzatiano : « Le immagini tratte dalla storia e dalla cronaca dell’arte sembrano […] rispondere a un’altra esigenza. Esse forniscono all’intreccio di Buzzati una spazialità visionaria […] entro cui la narrazione può dispiegarsi in tutta la sua fantasia. […] La pittura offre al testo del Poema lo spazio di una scenografia fantastica, che ratifica l’atemporalità dell’ambientazione onirica. La sovversione del reale delimita in tal modo la dimensione mitica » : A. Del Puppo, Buzzati 1969 : il « Poema » e la pittura, in N. Giannetto et alii, Buzzati 1969, cit., pp. 19-28 : 28. 3   Si tratta di una componente che emerge, come si vedrà in seguito, soprattutto nell’ultima tavola del Poema, la cui analisi si rivelerà indispensabile per cogliere il senso profondo dell’opera. 4   Sulla dialettica demitizzazione/rimitizzazione cfr. L. Coupe, Il mito. Teorie e storie, trad. it. di B. Lazzaro, Roma, Donzelli, 1999-2005, pp. ix-xviii.  































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senza di qualsiasi delimitazione, la mancanza di confini evidenti e marcati. Lo stesso moltiplicarsi delle entrate dalle quali si può accedere al mondo dei morti finisce per creare un’impressione di indeterminatezza, rafforzando l’idea di un aldilà che sussiste unicamente come proiezione di una realtà interiore :  

orfi : allora è proprio passa- / ta di qui ? questa è la porta ? / l’uomo rispose : una delle / tante, ce ne sono milioni nel / mondo si aprono quando / canta la civetta si aprono / nella notte del morituro / quando la nebbia d’inverno / sale su per la vecchie scale / […] quando dal profondo del- / l’animo tuo sale il buio, la / stanchezza, il nulla ! 1  







   

A differenza dell’inferno dantesco, che presenta una collocazione precisa e un ordinamento rigorosamente definito, l’oltretomba immaginato da Buzzati non sembra riconoscibile a livello topologico, dal momento che appare sprovvisto dei connotati spaziali che potrebbero strutturarlo in quanto luogo vero e proprio. L’inferno buzzatiano si configura pertanto come il riflesso di una condizione esistenziale oppure – ed è la soluzione adottata nel Poema – come la proiezione soggettiva di una realtà preesistente :  

per te, orfi, è milano, milano essendo la tua vita, / per un altro è zagabria, karlsruhe, paranà. / o te lo immaginavi come diceva dante ? 2    

Siamo dunque in presenza di un aldilà completamente personalizzato, che appare in modo diverso a seconda dello sguardo di chi lo contempla. Tutto ciò che vi si trova non fa che riprodurre, di conseguenza, il noto e il già visto, come le sagome del Duomo di Milano e della Torre Velasca che Orfi – il giovane cantautore disceso nell’Ade alla ricerca della propria ragazza – riconosce guardando al di là di una normalissima vetrata :  

sai dove ti trovi ? / perché non guardi, non provi a guardare ? / perché non ti affacci alla finestra ? / ma siamo sempre a milano. non / vedo nessuna differenza. 3  







In questo modo, oltre a sottolineare i caratteri di alienazione e di inabitabilità propri del mondo moderno, che assomiglia sempre più a un inferno non solo metaforico, l’autore stabilisce una relazione di specularità tra la dimensione terrena e quella ultraterrena : dimensioni che rivelano una contiguità che è insieme spaziale ed esistenziale. Come suggerisce il Viaggio agli inferni del secolo, durante il quale il protagonista – lo stesso Buzzati – si ritrova in una Milano tentacolare e caotica quanto quella reale, la  

1

 D. Buzzati, Poema a fumetti, introduzione di C. Toscani, Milano, Mondadori, 1991, p. 67. (D’ora in avanti indicato con la sigla PF). 2 3   Ivi, p. 90.   Ivi, p. 89.

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il mito e l ’ altrove discesa nell’aldilà permette di verificare proprio la continuità, la perfetta corrispondenza tra mondo infero e realtà terrena. 1 I defunti che l’inviato speciale Buzzati incontra nel suo viaggio infernale ricordano da vicino, in effetti, gli abitanti di Milano o di qualsiasi altra città moderna ; in preda alla stessa frenesia che avevano dovuto subire quand’erano in vita, essi non hanno un solo momento di requie, impegnati come sono nel tentativo di raggiungere qualche obiettivo che sfugge loro continuamente :  





Dinanzi a me si stendeva […] il travaglio degli uomini. Li vedevo dibattersi fremere ridere inerpicarsi cadere […] tutto nella speranza di quel minuto che verrà, di quella storia che verrà, di quella storia che si compirà, di quel bene che. 2  

Anche per quanto riguarda il Poema a fumetti, che rielabora alcuni spunti già presenti nelle pagine del Viaggio, la proiezione nell’aldilà e il conseguente passaggio dal tempo all’eterno vengono tematizzati a partire dall’immagine dell’avanzamento dei defunti, i quali sono rappresentati come figure stilizzate che si muovono in massa lungo una strada bianca destinata a non finire : 3    

giù nella strada vide la gente che andava / camminava marciava […] erano / in tanti tantissimi […] / erano poveri e ricchi trascinati via tutti insieme / non è che soffrissero anzi erano solamente hop hop / solamente vuoti perché marciavano camminavano / cosavano ma la strada non finiva mai / non sarebbe finita mai […]. 4  

In questa associazione tra la folla dei morti e l’idea di un movimento interminabile – che il testo ribadisce più volte 5 – non è difficile riconoscere la presenza di una suggestione che possiamo ricondurre al modello dantesco. È infatti probabile che Buzzati si sia ispirato, in modo più o meno consapevole, al terzo canto dell’Inferno e, in particolare, alla descrizione degli ignavi : una descrizione che si sofferma sulla moltitudine innumerevole di  



1

  A questo proposito cfr. N. Giannetto, Orfeo e il viaggio nell’oltretomba : percorsi buzzatiani dalle origini a « Poema a fumetti », in G. Dorfles et alii, « Poema a fumetti » di Dino Buzzati nella cultura degli anni ’60 tra fumetto, fotografia e arti visive (Atti del Convegno Internazionale. Feltre e Belluno, 12-14 settembre 2002), a cura di N. Giannetto con la collaborazione di M. Gallina, Milano, Mondadori, 2005, pp. 135-145 : 140-144. 2  D. Buzzati, Viaggio agli inferni del secolo, in Id., Il colombre e altri cinquanta racconti, introduzione di C. Toscani, Milano, Mondadori, 1966, pp. 429-430. 3   È da notare, al riguardo, l’evidente rovesciamento rispetto alla situazione delineata alla fine del sesto capitolo del Deserto dei Tartari, dove l’immagine della strada era assunta come rappresentazione metaforica della finitezza connaturata alla vita dell’uomo : « Guai se potesse vedere se stesso, come sarà un giorno, là dove la strada finisce, fermo sulla riva del mare di piombo, sotto un cielo grigio e uniforme […] » : D. Buzzati, Il deserto dei Tartari, in Id., Opere 4 scelte, a cura di G. Carnazzi, Milano, Mondadori, 1998, p. 50.   PF, pp. 127-129. 5   « in fondo alla strada non / c’era l’ultima porta intendiamoci non c’era / l’ultima porta […] la strada non / sarebbe finita mai erano morti ! » : ivi, p. 129.  



















   





buzzati e le figure del mito

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queste anime, la cui pena, com’è noto, consiste nel seguire in eterno un vessillo che si sposta continuamente :  

E io, che riguardai, vidi una ’nsegna / che girando correva tanto ratta, / che d’ogne posa mi parea indegna ; / e dietro le venìa sì lunga tratta / di gente, ch’i’ non averei creduto / che morte tanta n’avesse disfatta. 1  



Vi sono, tuttavia, delle differenze : mentre in Dante il movimento inarrestabile degli ignavi è giustificato dal contrappasso, nella situazione immaginata da Buzzati ciò che manca è proprio la motivazione, per cui l’impressione immediata è quella di un aldilà completamente dominato dall’assurdo, in cui si compiono atti gratuiti, apparentemente ingiustificati. È chiaro inoltre che una simile immagine, pur essendo decifrabile nel suo significato più evidente, provoca in chi la osserva una serie di interrogativi che non possono essere elusi. Ne proponiamo due : 1) a cosa allude l’eterno movimento dei morti ? 2) come si concilia con il loro appartenere a una realtà extra-temporale ? Non si deve infatti dimenticare che ci troviamo in una dimensione ultraterrena, per cui tutto ciò che vediamo non può essere che stabilito e fissato per l’eternità : nulla, dunque, può davvero mutare, al pari della luce delle stelle, che splendono ma non pulsano, proprio perché devono testimoniare l’eterno, immutabile permanere dell’identico. 2 L’avanzamento dei defunti è quindi un’illusione, qualcosa che non può esistere realmente e che si giustifica solo in termini metaforici, come traslato di una condizione interiore dominata dall’ansia e dalla perenne inquietudine. È questo il paradosso fondamentale su cui si fonda l’invenzione narrativa del Poema : la presenza di defunti che non hanno – esattamente come gli ignavi del terzo canto dell’Inferno – « speranza di morte », 3 e che pertanto continuano a vivere nella misura in cui non conoscono quell’annullamento totale che determina l’effettivo raggiungimento della pace e della quiete. I morti che compaiono nel Poema continuano così ad aggirarsi nel cerchio di quella che è stata la loro esistenza terrena, alla quale sono ricondotti da una forma di rimpianto che sconfina nell’ossessione e nella malattia :  





















rimpianto è la malattia del / posto / come la malaria in palude. / molto mal vista. / il peggior vizio vietatissimo / è guardare nel mondo dei vivi / attraverso certi finestrini / […] per assaporare i paradisi / perduti / dico : ma qui che cosa / vi manca ? / quasi niente. […] / però manca il più importante : / la libertà di morire. 4  







1

  Inf., iii, 52-57.  « ma le stelle le avete ? / sì certo, però hanno una luce fissa, / non palpitano 3 come lassù » : PF, p. 100.   Inf., iii, 46. 4   PF, p. 96. 2









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il mito e l ’ altrove

In questa situazione prendono rilievo e cambiano di segno gli elementi in apparenza negativi, come il trascorrere del tempo e l’approssimarsi della fine, elementi che inquinano e avvelenano l’esistenza, conferendole però quell’incanto e quella bellezza che essa non avrebbe se potesse svolgersi nella dimensione dell’eterno. (E non sarà un caso, allora, che il titolo inizialmente previsto da Buzzati per la sua opera a fumetti fosse La dolce morte, quasi a ribadire il risvolto positivo di ciò che per Orazio rappresentava l’ultimo orizzonte della vita : mors ultima linea rerum est). Al riguardo, il commento più pertinente è quello offerto dallo stesso Buzzati nei dialoghi con Yves Panafieu : « Nel Poema a fumetti ho cercato di dire che nell’al di là la cosa più bella è la morte. La cosa maggiormente temuta qui è la cosa maggiormente desiderata lì. Di là si capisce che è la morte che dà gusto alle cose della vita ». 1 Emerge soprattutto, rievocato attraverso le parole della canzone di Orfi, il ricordo nostalgico della « cara morte », 2 l’ombra che accompagna e minaccia l’uomo con la sua incombenza, con le sue epifanie che sconvolgono l’ordine abituale della quotidianità, caricandolo d’angoscia ma anche di echi e di richiami struggenti : il turbinio delle foglie che il vento solleva all’improvviso, i rumori indecifrabili che sembrano provenire dalle stanze abbandonate, la notte che « penetra » nelle case portandovi lo sciame delle paure e dei pensieri inquieti. 3 Come si vede, quello che Buzzati propone è un vero e proprio catalogo dei temi e delle ossessioni che ricorrono in tutta la sua produzione artistica, dai romanzi ai dipinti, dai racconti alle poesie (la personificazione della notte, solo per fare un esempio, è un topos ripreso più volte, la cui presenza è rintracciabile anche nel Deserto dei Tartari e proprio in associazione con il verbo penetrare). 4 Ma, come si è detto, si tratta di una ripresa che avviene nel segno del rovesciamento : ciò che in passato rappresentava un motivo d’angoscia ed era vissuto come una minaccia, ricompare adesso, nella prospettiva capovolta del Poema, come oggetto di nostalgia, come realtà che continua ad alimentare l’inutile rimpianto di coloro che vivono l’assenza della morte con un senso di privazione dolorosa. Di qui l’esplicito, ancorché paradossale, elogio della morte, estrema risorsa da cui gli uomini possono ricavare ciò che dà senso al loro esistere :  





























1

 Y. Panafieu, Dino Buzzati : un autoritratto. Dialoghi con Yves Panafieu (Luglio-settembre 1971), Edizione speciale del Convegno di Feltre, Liancourt-Saint-Pierre, Y. P. Editions, 1995, p. 185. 2 3   PF, p. 130.   Ivi, pp. 133, 134, 144. 4   Cfr. D. Buzzati, Il deserto dei Tartari, cit., p. 194 : « Quando calavano le tenebre, lo scarso numero degli uomini di guardia non bastava più a impedire che la notte si impadronisse della Fortezza. Vasti settori di mura erano incustoditi e di là penetravano i pensieri del buio, la tristezza di essere soli » [corsivo mio].  







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o morte o morte / dono sapiente del dio. / da te le grazie del mondo / anche l’amore. / e ora qui, dove tu non ritorni / con occhi vuoti guardiamo / le nubi, il mare, le selve / senza più misteri. 1  

In questo modo, il mondo dell’aldilà non è solo un’immagine speculare della realtà terrena, ma assume anche una connotazione specifica, legata, da una parte, all’immutabilità di una condizione destinata a durare in eterno e, dall’altra, alla scoperta della morte quale dimensione in cui si finisce per sperimentare, in termini assurdi e paradossali, l’impossibilità di morire :  

ricordati che sono immortali, / non se ne andranno mai più. / certo hanno tutto in ordine. / […] le ossa le vene i nervi tutto a posto / si muovono mangiano bevono eccetera / vivono, quasi. 2  

Nell’assenza di una morte che funzioni come evento autenticamente liberatorio, si concentra tutta l’angoscia della condizione immaginata da Buzzati, il quale utilizza la propria invenzione per delineare una parabola in cui emerge l’inaccettabilità della morte in quanto evento traumatico e separante 3 e, nello stesso tempo, la sua improbabile, paradossale desiderabilità : una desiderabilità che appare giustificata non appena si assuma il punto di vista di coloro che in apparenza sono già morti, di quei defunti la cui condizione risulta ancora più negativa di quella dei viventi, proprio perché tende a risolversi, come il testo ribadisce più volte, nella condanna a una fissità agghiacciante, in un puro esistere nel quale prevalgono « uniformità, prevedibilità, noia ». 4 In questo modo, sfruttando le possibilità offerte dal rovesciamento paradossale, viene incrinata la visione abituale del lettore, 5 che viene indotto, di conseguenza, a postulare la necessità della morte in quanto esperienza-limite in grado di conferire valore e significato all’esistenza. A questa operazione di deiectio, di rovesciamento delle convinzioni più radicate, si accompagna, a nostro avviso, la volontà di costruire un’opera che revochi ogni certezza e che dimostri l’impossibilità di sostenere un’interpretazione univoca dei fatti narrati. Ciò avviene anzitutto sul piano dell’intreccio, in particolare per quanto riguarda il viaggio di Orfi nell’Ade : in effetti, la sua discesa agli inferi è dapprima messa in dubbio dalle parole dell’uomo verde – il misterioso personaggio che spiega la visione  













1

2   PF, p. 109.   Ivi, p. 92.   Cfr. E. Borgna, L’arcipelago delle emozioni, Milano, Feltrinelli, 2001, pp. 145-165. 4   PF, p. 104. 5   Il riferimento è al cosiddetto « lettore implicito », quello che l’opera presuppone e che non s’identifica necessariamente con il lettore reale : cfr. C. Segre, Avviamento all’analisi del testo letterario, Torino, Einaudi, 1985-1999, pp. 13-14. 3







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il mito e l ’ altrove dell’oltretomba in termini puramente onirici 1 – e poi apparentemente riconfermata dal ritrovamento dell’anello di Eura, 2 secondo una modalità tipica del racconto fantastico, che mira a creare nel lettore uno stato d’animo di esitazione attraverso il rifiuto programmatico della spiegazione finale. 3 Si determina così una situazione di incertezza, che investe sia il personaggio che il lettore, trovandosi entrambi nella condizione di scegliere tra la spiegazione naturale, che fa del viaggio un semplice sogno, e quella sovrannaturale, che conduce a riconoscere l’esistenza dell’altro mondo e ad ammettere che lo si possa visitare pur essendo ancora in vita. 4 Orfi, a questo punto, proverà a superare l’impasse cercando di ottenere una spiegazione chiarificatrice dall’uomo verde, che però scompare proprio nel momento decisivo, lasciando l’interrogante immerso in un dubbio che non potrà essere risolto 5 e confermando di conseguenza la sua appartenenza alla dimensione del sogno o dell’immaginazione :  











e allora, / questo anello ? / ma lo sconosciuto non c’era più. / la strada era completamente deserta. 6  



Il lettore-interprete potrà a sua volta cercare una risposta applicando la metodologia di Todorov, il quale invita a scindere l’« aspetto verbale », relativo alle « frasi concrete che costituiscono il testo », da quello « semantico », attinente ai significati che il testo è in grado di produrre e alle tematiche che da esso emergono. 7 Ora, se da una parte è chiaro che la storia può es 













1   « non tormentarti ragazzo. / quello che hai visto non c’è. / quello che hai visto è solamente, / solamente un sogno. / i morti che hai visti erano sogno, […] » : PF, p. 231. 2   « orfi si rese conto che la / sua mano sinistra stringeva una cosa. / apre la mano. c’è un anello. un / anello speciale. l’anello di eura » : ivi, pp. 235-236. 3   A questo proposito si veda A. Scarsella, Profilo delle poetiche del fantastico, « La Rassegna della Letteratura Italiana », viii, 1-2, 1986, pp. 201-220 : 210 : « Ma attenzione : è legittimamente fantastico solo quel racconto che abbia scritto ‘fine’ precisamente nel cuore di quel conflitto logico […]. Quando infatti l’esitazione cede più o meno sfumatamente il passo alla spiegazione, si sconfinerebbe subito in altri generi ». 4   Cfr. T. Todorov, La letteratura fantastica, trad. it. di E. Klersy Imberciadori, Milano, Garzanti, 1977-1981, p. 36. 5   Ci troviamo in disaccordo, pertanto, con le conclusioni cui perviene la Crotti, secondo la quale il racconto si chiude su una chiarificazione che annulla qualsiasi possibilità di lettura orientata in senso fantastico : « I presupposti del fantastico che avrebbero potuto entrare in frizione restano […] inutilizzati, il mistero viene svelato dettagliatamente ed esaurientemente : nulla è lasciato in forse. Giungendo ad una chiarificazione totale, cade anche il postulato ideologico di tale narrativa e con esso il delicato meccanismo del fantastico » : I. Crotti, Buzzati, Firenze, La Nuova Italia, 1977, pp. 94-95. Su posizioni antitetiche si colloca invece l’Arslan, per la quale la conclusione non chiarifica alcunché e, quindi, « il mistero rimane » : A. Veronese 6 Arslan, Invito alla lettura di Dino Buzzati, Milano, Mursia, 1974, p. 107.   PF, p. 237. 7   Cfr. T. Todorov, op. cit., p. 23 (ma si vedano anche le pp. 36-37).  









































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sere totalmente destrutturata sul piano verbale, rimanendo aperta la possibilità di leggere gli avvenimenti narrati come fenomeno onirico o come prodotto dell’immaginazione, 1 dall’altra è evidente che tale destrutturazione non può prodursi a livello semantico, dove s’impone il tema della morte con cui il personaggio e il lettore devono comunque fare i conti, indipendentemente dal fatto che il ritrovamento di Eura abbia o meno un riscontro sul piano della effettualità. D’altra parte, questo tema viene declinato secondo punti di vista di volta in volta diversi : si passa infatti dalla disperazione di Orfi – che non può accettare la scomparsa dell’amata – a un vero e proprio elogio della morte, considerata come dono divino da cui discendono « le grazie del mondo ». L’apparente contraddizione è del resto superabile se teniamo conto del fatto che la morte rappresenta sì per Buzzati il « dono sapiente del dio », la prospettiva che salva l’esistenza dalla caduta nell’insensatezza, ma solo qualora la si intenda « come imminenza, indefinitamente annunciata, intorno a noi ed in noi » 2 e non come evento tangibile che si produce di fatto nella realtà della vita quotidiana. Buzzati, in altre parole, accetta e persino elogia la morte allorché la considera, assumendo il punto di vista di coloro che non possono più morire, nella prospettiva della lontananza e della possibilità, come evento che conferisce senso e valore a ogni istante dell’esistenza, proprio nel momento in cui ne evidenzia la precarietà e ne prospetta l’inevitabile fine ; ma al tempo stesso, come dicevamo, la respinge quando essa si manifesta nella sua tragicità, determinando la perdita di un essere conosciuto e amato (e in tal caso è evidente che il punto di vista dell’autore non può che coincidere con quello di Orfi ).  



















3. Il mito tra negazione e nostalgia Rispetto alla questione di fondo, che riguarda la riscrittura di una storia appartenente alla classicità, ci sembra che il Poema a fumetti presenti una soluzione che possiamo definire mediana : mentre da una parte l’autore si ricollega, nella costruzione dell’intreccio e nella disposizione delle sequenze, allo schema compositivo della fiaba, 3 dall’altra, per quanto attiene alla tra 



1   L’eventualità che si tratti di un sogno è suggerita, tra l’altro, dalla modalità allucinatoria con cui viene narrata e rappresentata la scomparsa di Eura, la quale ‘muore’ sottraendosi alla vista di Orfi e scomparendo attraverso una porta. Anche i funerali della ragazza sono calati in questa atmosfera di straniamento onirico, in cui ogni elemento di realtà viene annullato attraverso una forma di ripetizione ossessiva : cfr. PF, pp. 58-59. 2  A. Sala, Orfeo con chitarra, « Corriere d’Informazione », 26-27 novembre 1969 ; ora in 1969 e 1970 : prime recensioni a « Poema a fumetti », cit., pp. 128-129 : 129. 3   La presenza di un sottotesto fiabesco emerge chiaramente applicando all’opera buzzatiana la griglia funzionale messa a punto da Propp (cfr. V. Ja. Propp, Morfologia della fiaba. Con un intervento di Claude Lévi-Strauss e una replica dell’autore, a cura di G. L. Bravo, Torino, Einaudi,  















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il mito e l ’ altrove dizione mitologica da cui derivano la fabula e i nomi dei personaggi, sembra operare in termini di maggiore autonomia, con l’obiettivo di proporre un’interpretazione personale dell’essenza del mito considerato « in quanto simbolo e veicolo di verità ». 1 Una verità che si articola con evidenza intorno ai temi della salvezza e del « conseguimento del sé », inteso come processo attraverso cui l’io perviene alla realizzazione del proprio potenziale. 2 Ora, per quanto riguarda il tema della salvezza, occorre anzitutto riesaminare il testo a partire dalla figura di Eura, il personaggio maggiormente implicato nel processo di rovesciamento dei presupposti su cui si costruisce la vicenda mitica. La riscrittura buzzatiana tende infatti a risolversi – come dicevamo all’inizio – in una vera e propria demitizzazione, proprio perché sottrae alla storia di Orfeo quella componente di ‘assurdità’ (di inaccettabilità sul piano razionale) che è strutturale, secondo Vernant, alla stessa definizione del concetto di mito :  













Per la sua origine e la sua storia, la nozione di mito che abbiamo ereditato dai Greci appartiene a una tradizione di pensiero […] nella quale il mitico si definisce attraverso ciò che mitico non è, in un doppio rapporto d’opposizione al reale da una parte (il mito è finzione), al razionale dall’altra (il mito è assurdo). 3  

E in effetti non vi è nulla di più assennato e ragionevole delle parole di Eura, parole che ristabiliscono il predominio della razionalità allorché 1966, pp. 31-70). In particolare, si può notare la presenza delle seguenti funzioni : la situazione iniziale (con la presentazione del protagonista) ; l’allontanamento (con Eura, la ragazza del protagonista, che sparisce ed entra nel regno delle ombre) ; il divieto (ad Orfi non è concesso di passare nel mondo dei morti) ; l’infrazione, per cui il protagonista accede al luogo interdetto ; il trasferimento nello spazio (il viaggio nell’aldilà) ; il ritorno (il protagonista si ritrova al punto di partenza, in via Saterna) ; la marchiatura (ad Orfi rimane l’anello di Eura). Siamo peraltro consapevoli che la nostra lettura non è esente da forzature : la marchiatura, ad es., segue il ritorno, là dove, secondo lo schema proppiano, dovrebbe precederlo ; essa, d’altra parte, non è veramente tale, dal momento che l’anello non funziona come oggetto di riconoscimento ma, piuttosto, come prova dell’avvenuto passaggio nel mondo dei morti (passaggio che avviene grazie alla chitarra, a sua volta « mezzo magico » che però è posseduto da Orfi sin dall’inizio della vicenda, e non acquisito in seguito, come vorrebbe lo schema di Propp). 1  F. Jesi, Mito, Milano, isedi, 1973, p. 32. 2  « dopo aver perso la moglie ed essere stato fatto a pezzi dalle Menadi, […] Orfeo diviene oggetto di un culto religioso esoterico, e la sua musica e la sua poesia diventano il simbolo dell’armonia cosmica. Tanto Gesù Cristo che Orfeo, dunque, si possono considerare incarnazioni del sé » : L. Coupe, op. cit., p. 108. 3  J.-P. Vernant, Mito e società nell’antica Grecia. Seguito da Religione greca, religioni antiche, trad. it. di P. Pasquino e di L. Berrini Pajetta, Torino, Einaudi, 1981, p. 192. Il carattere irrazionale del mito è inscritto, peraltro, nella stessa storia semantica della parola, che si contrappone, almeno a partire da un certo momento, a lógos, termine impiegato per designare il discorso argomentativo razionalmente costruito : « Entro e attraverso la letteratura scritta s’instaura questo tipo di discorso in cui il lógos […] ha preso valore di razionalità dimostrativa e s’oppone su questo piano, tanto per la forma quanto per la sostanza, alla parola del mythos » : ivi, p. 195.  



































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dichiarano inammissibile la possibilità di fuga in cui Orfi continua a credere :  

- vieni, ti dico, dobbiamo fare / presto. / – presto che cosa ? la porta che tu / dici non esiste. e anche se esistesse, / come puoi farmi passare ? 1  

   

Ciò che Eura sembra aver dimenticato, e che Orfi cerca invano di farle ricordare, è la prospettiva di salvezza che il mito originario sembrava dischiudere, pur subordinandola all’osservanza di una precisa consegna divina (Orfeo, com’è noto, non avrebbe dovuto voltarsi verso Euridice durante il ritorno al mondo dei vivi). È la stessa Eura, pertanto, a operare il rovesciamento del mito e a metterne in discussione la credibilità riducendolo a « povera favola » ; quell’Eura che diviene non già il « calco » 2 ma la controfigura di Euridice e che rifiuta, in sostanza, di farsi salvare :  













te l’ho detto, tesoro. è inutile. non posso accompa- / gnarti lassù. povera favola di orfeo. anche se tu non ti / volterai indietro, non servirebbe lo stesso. 3  

Attraverso le parole della ragazza traspare la parabola discendente del mythos, che tende a desacralizzarsi e a perdere la propria valenza originaria : il racconto mitico, una volta disancorato dalla struttura religiosa che gli dava senso e valore, e quindi estraniato dal contesto culturale a cui apparteneva, viene a ridursi – come ricorda lo stesso Propp – a pura e semplice fiaba, cioè a narrazione che non richiede alcuna adesione di fede e alla quale si è liberi di credere o di non credere. 4 Davvero « povera favola », allora, quella di Orfeo, se è vero che la novella Euridice è colei che dovrebbe e potrebbe essere salvata, ma insieme colei che si nega a questa possibilità, in quanto vittima di un disincanto che le impedisce di cedere alla tentazione della speranza e, quindi, di affidarsi alle promesse irrazionali del mito. 5 Per lei non rimane altro che l’ossequio alla « grande legge », alla norma che stabilisce la definitiva, indiscutibile separazione tra i vivi e i morti :  















1

  PF, p. 222.  Y. Panafieu, Circe, Pentesilea ed Eura, in G. Dorfles et alii, « Poema a fumetti » di Dino Buz3 zati, cit., pp. 119-133 : 126.   PF, p. 223. 4  « scompaiono le culture, muore la religione, e il suo contenuto si trasforma in fiaba » : V. Ja. Propp, op. cit., p. 113. 5   Eura assume così un ruolo che è funzionale alla completa razionalizzazione del racconto mitico ; decostruisce il mito arcaico negandolo non solo nelle sue componenti di irrealtà e di irrazionalità, ma anche nella sua capacità di suggerire un’ipotesi di trasgressione e di superamento dell’ordine dato. La sua è una visione aridamente razionale, che rispetta i limiti della legalità quotidiana e che determina, in ultima analisi, « l’azzeramento del mito, ridotto ormai a semplice sogno o favola » : F. Linari, La narrativa dal dopoguerra agli anni Settanta. Tra Ulisse e Orfeo, in M. Cantelmo et alii, Il mito nella letteratura italiana, iv, L’età contemporanea, a cura di M. Cantelmo, Brescia, Morcelliana, 2007, pp. 459-502 : 496. 2























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il mito e l ’ altrove

- no, le tue canzoni non ba- / stano. qui comanda la / grande legge. non credere / alle vecchie favole. 1  

In tal modo, sottolineando l’insufficienza delle canzoni di Orfi, che non possono farsi strumento di salvezza, nonché l’inutilità di un’eventuale osservanza dell’obbligo di non voltarsi indietro, Eura dimostra di possedere un’autentica consapevolezza metaletteraria, solo che se ne serve – diversamente da Orfi, che utilizza i riferimenti archetipici in modo da rafforzare la propria posizione e la propria identità 2 – al fine di rovesciare uno dei topoi su cui era costruita l’immagine tradizionale del cantore tracio : l’irresistibilità del suo canto e della sua musica. Si deve infatti ricordare che Orfeo – come testimonia il racconto virgiliano che chiude le Georgiche – perde Euridice in conseguenza di un suo proprio errore, ma non per una mancanza o per un difetto che intervengano a ridurre o a limitare la forza prodigiosa della sua poesia. In effetti, se si rilegge il testo di Virgilio, si può notare come tale perdita sia causata da una colpa precisa imputabile a Orfeo, sopraffatto da un eccesso d’amore che lo rende dimentico della consegna ricevuta e lo costringe a voltarsi, provocando di conseguenza, in quello che si presenta come un vero e proprio istante di dementia, la scomparsa definitiva e irreparabile di Euridice :  





Iamque pedem referens casus evaserat omnis, / redditaque Eurydice superas veniebat ad auras / pone sequens […] / cum subita incautum dementia cepit amantem, / […] restitit, Eurydicenque suam iam luce sub ipsa / immemor heu ! victusque animi respexit. 3  



Del tutto diversa è invece l’impostazione seguita da Buzzati, per il quale l’elemento determinante non è rappresentato dalla colpa individuale, ma dall’idea di una debolezza originaria e costitutiva, dalla presenza di un limite insuperabile che riduce il potere del canto e della poesia 4 mettendone  

1

  PF, p. 222.  « io sono orfi, lo dimentichi ? » : ibidem. La frase è una chiara allusione al carattere metaletterario del personaggio, che esiste solo come riflesso di una preesistente immagine mitica. La domanda deve essere letta, pertanto, all’interno di questo gioco di rimandi, sicché l’Orfi che Eura è chiamata a riconoscere e quindi a ricordare non è il protagonista del Poema, ma l’archetipo da cui discendono le diverse figurazioni letterarie del leggendario poeta cantore. Il problema, a questo punto, nasce dal fatto che Eura non attribuisce alcun valore all’archetipo : il nome di Orfi ha per lei una risonanza puramente negativa e riporta alla sua memoria solo il vago ricordo di una favola che non significa più nulla. 3   Georg., iv, 485-491. 4   A questo proposito cfr. G. Cenacchi, I Monti Orfici di Dino Campana. Un saggio, dieci passeggiate, Firenze, Mauro Pagliai Editore, 2011, pp. 42-43 : « Il mito d’Orfeo vale oggi come l’emblema dell’efficacia della poesia, del suo potere di trasformare il mondo. Grazie al suo canto, 2



   









buzzati e le figure del mito

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in evidenza l’inadeguatezza, la sostanziale impotenza di fronte all’assoluta irreparabilità della morte. E ancora una volta sarà Eura a sottolineare l’inevitabilità dello scacco di Orfi, la cui sconfitta si configura come l’esito scontato di un confronto assolutamente impari :  

- orfi caro, tesoro, ci sono potenze che anche gli uomini come te / sono polvere, formiche sperdute. 1  

Il protagonista maschile del Poema, d’altra parte, non è altro che il riflesso di un archetipo irraggiungibile, una figura sbiadita che non può essere assunta nemmeno come generica immagine dell’uomo (come avveniva per Bàrnabo e per Drogo) 2 e che esaurisce la sua funzione narrativa nel momento in cui compie l’azione che la rende riconoscibile. Orfi è colui che scende nel regno dei morti : una volta assolta questa funzione identificativa, di lui rimane ben poco ed è inevitabile che il narratore si disinteressi del suo destino, come appare dalla conclusione dell’opera, in cui manca qualsiasi riferimento relativo al personaggio. In questo modo Orfi rimane sospeso tra una dimensione archetipica, sottolineata, oltre che sul piano onomastico, dall’evidente contiguità con il mondo infero, 3 e una propriamente umana, che tuttavia gli appartiene solo in parte, dal momento che si tratta, più che di un personaggio, di una funzione narrativa, alla quale non è possibile attribuire alcuna determinazione di ordine esistenziale o psicologico. È pertanto evidente che il tema della costruzione del sé, di ascendenza junghiana, non può trovare alcun riscontro nella figura di Orfi, che per certi aspetti si pone in antitesi rispetto al modello mitico da cui deriva. Mentre Orfeo – come ricorda Laurence Coupe – perviene, nonostante lo scacco iniziale determinato dalla perdita di Euridice, al « conseguimento del sé » e quindi alla realizzazione del proprio potenziale, il personaggio di Buzzati sembra incarnare la condizione antitetica dell’incompiutezza e della disarmonia, al punto che la sua identità si riduce a una serie di aspetti divergenti che non riescono a integrarsi  









Orfeo può farsi spalancare le porte dell’Ade, raggiungere l’amata e riscattarla dalle tenebre. Grazie alla poesia, Orfeo può trasformare concretamente la realtà, trasgredire l’ordine divino della vita e della morte piegandolo al suo volere ». 1   PF, p. 223. 2   Cfr. A. Biondi, Il Tempo e l’Evento (tre momenti della narrativa buzzatiana), « Il contesto », 4-5-6, 1980, pp. 289-328 : 296. 3   Il legame con gli inferi è dichiarato fin dall’inizio, ancora prima che cominci la discesa al regno delle ombre : Saterna è infatti il nome della via dove risiede il personaggio (con evidente allusione all’Averno, l’antica denominazione del mondo dei morti) ; la connessione con l’oltretomba è altresì suggerita dal riferimento alle « streghe » che compare nel titolo della canzone di Orfi – Le streghe della città –, anche se in questo caso ci sembra che prevalga il significato figurato del termine, da cui emerge una concezione del femminile come elemento perturbatore e potenzialmente distruttivo.  















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il mito e l ’ altrove in un’immagine unitaria : « ora guardiamolo un po’ da vicino / non è forse / piuttosto scombinato ? ». 1 Se da un lato, a livello dell’archetipo, avevamo insomma la realizzazione del potenziale e l’esaltazione del soggetto quale simbolo dell’armonia universale, dall’altra, nella rilettura operata da Buzzati, emerge chiaramente il motivo della sconfitta di Orfi, la cui parabola sembra escludere qualsiasi possibilità di compimento e di autorealizzazione.  









4. Eura / Euridice, o l’impossibilità dell’amore Com’è noto, Buzzati disegna il volto di Eura con quattro occhi (PF, p. 49), a ribadire, al di là dell’effetto ottico che affascina e fa stravedere, l’intrinseca duplicità del personaggio : Eura è se stessa ma in qualche misura è anche Euridice, è la ragazza di Orfi e, nello stesso tempo, la sposa di Orfeo. Questa duplicità, che non è solo un elemento grafico-visivo, investe dunque il significato che il personaggio viene ad assumere : se da un lato, come propone Panafieu, Eura può essere vista come la « personificazione del mito dell’amore positivizzato », 2 dall’altro, in quanto creatura appartenente a questo Averno completamente apatico e disanimato (una vera e propria « ghiacciata moltitudine di morti », per dirla con Montale), ella si pone in realtà come la necessaria negazione di ogni mito d’amore. Non sono certo casuali, del resto, le allusioni al suo essere « fredda », aggettivo con cui si sottolinea la sua incapacità (o, per meglio dire, impossibilità) di ricambiare l’affetto e lo slancio salvifico di Orfi :  



















- salutiamoci, orfi. anche se / sono così fredda, dammi un / bacio. […] – non ce la faccio più. fermia- / moci un momento, lasciami / respirare. 3  

Tuttavia Eura – osserva Stefano Lazzarin – « ha anche un cognome, Storm », 4 che in inglese significa ‘tempesta’ o ‘bufera’ : ed è un cognome che, seguendo Lazzarin, si può sì riferire alla dantesca « bufera infernal, che mai non resta », 5 ma solo a patto di postulare il rovesciamento del modello di riferimento. In effetti, appartenendo a una realtà svuotata di ogni pathos, in cui sono definitivamente scomparsi « i palpiti i languori la carne dannata / i vizi squisiti e crudeli », 6 è chiaro che Eura non può essere assunta quale emblema della passione ma, casomai, quale figura della sua negazione, quale creatura che può vivere l’amore solo in una prospettiva  



















1

  PF, p. 48. 3  Y. Panafieu, Circe, Pentesilea ed Eura, cit., p. 129.   PF, p. 224. 4  S. Lazzarin, Onomastica connotativa e allusiva, in Id., Il Buzzati ‘secondo’. Saggio sui fattori di letterarietà nell’opera buzzatiana, Manziana (Roma), Vecchiarelli, 2008, pp. 117-150 : 142. 5 6   Inf., v, 31.   PF, p. 104. 2



buzzati e le figure del mito

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rovesciata, facendone cioè un oggetto di rimpianto e nostalgia immedicabile. Così nelle parole che Orfi rivolge alla ragazza :  

canterò la storia più bella, canterò l’amore che / qui non avete. […] qui / l’amore è rimpianto, / rimpianto e basta. sen- / za le speranze di doma- / ni. 1  

5. Rimitizzazione vs demitizzazione A questo punto, dopo aver ripercorso i momenti fondamentali della vicenda raccontata nel Poema, possiamo completare la nostra analisi prendendo in considerazione la penultima tavola, che Mariateresa Ferrari considera « tra le immagini più belle e poetiche del libro ». 2 Una tavola che ritrae sullo sfondo un paesaggio desertico – lo stesso che compare in alcune fotografie scattate in Africa, che Buzzati aveva tenuto presenti quale modello e alle quali si ispirerà per un dipinto di soggetto analogo dal titolo I maghi d’autunno (1970) – e, disegnate in prospettiva, le imponenti, indecifrabili sagome dei « re delle favole » : enigmatiche figure che appaiono destinate a una prossima, inevitabile sparizione, come suggerisce la didascalia (« gli ultimi re delle favole si incamminavano all’esilio »). 3 Ora, ciò che importa sottolineare riguardo a questa tavola, è anzitutto la volontà di trasmettere un messaggio che viene proposto in forma allusiva e che rimane in parte indeterminato, dal momento che non si danno spiegazioni rispetto ai motivi soggiacenti alla scomparsa di questi superstiti re ‘favolosi’. Del resto, la tavola può essere compresa solo se la si intende come conclusione ideale della vicenda di Orfi : una vicenda che finisce per incentrarsi, come abbiamo visto, sulla scoperta della distanza invalicabile che separa il mito arcaico dall’uomo moderno, il quale può rapportarsi all’esperienza mitica solo a partire da un atteggiamento critico-dubitativo, irridendola o mettendone in evidenza l’incongruità rispetto ai dati dell’esperienza comune (ed è questo il senso da attribuire alle sconsolate parole di Eura, su cui ci siamo già soffermati). L’« esilio » al quale sono condannati i « re delle favole » andrà letto, di conseguenza, come allusione al decadere dell’immaginario, come rappresentazione della fine di un mondo – quello del mito – che declina e svanisce nel nulla, trascinando con sé le proprie illusioni e le proprie invenzioni fantastiche. Ma la demitizzazione – lo si è visto – non esaurisce la complessità del discorso buzzatiano : anche per Buzzati – e non potrebbe essere diversamente, dato che si tratta di un autore novecentesco – il mito rappresenta una dimensione assolutamente altra, qualcosa di estraneo e di non più  





























1

  Ivi, p. 222.

2

 M. Ferrari, I segreti svelati, cit., p. 17.

3

  PF, p. 239.

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il mito e l ’ altrove accessibile, 1 ma proprio per questo, per il suo porsi come oggetto remoto e perduto, il mito è anche una realtà alla quale si deve necessariamente ritornare : una realtà primigenia che continua a risvegliare il nostro interesse e a suscitare la nostra nostalgia. 2 Ed è ciò che accade nell’ultima tavola del Poema, dove la negazione del mito si rovescia nella sua inevitabile riproposizione, quasi che Buzzati non si sentisse di aderire del tutto alle proprie conclusioni circa l’impossibilità di recuperare l’esperienza mitica, che per lui rimane viva e presente, se non altro in quanto oggetto di nostalgia. Al riguardo, possiamo dunque far nostre le parole di Laurence Coupe : « Mito e mitopoiesi sono sopravvissuti al tentativo individuale di demitizzazione ». 3 E in effetti, le « turrite nubi » che compaiono nel testo e nel disegno di quest’ultima tavola, sembrano richiamarsi, piuttosto che all’idea della fine del mito, a un estremo ritorno alle sorgenti del sogno e dell’immaginazione :  



















e sul deserto di kalahari le turrite / nubi dell’eternità passavano lentamente. 4  

Ora, per quanto riguarda questa didascalia, si può anzitutto notare come l’aggettivo turrite – termine che peraltro ritroveremo nel postumo Il reggimento parte all’alba 5 – non possa che ricondurre al campo semantico della verticalità e, quindi, alla montagna, a quel paesaggio dolomitico che Buzzati ha rappresentato e trasposto fantasticamente, « ricorrendo spesso a metafore trasfiguranti che disegnano gotiche cattedrali dalle altissime cuspidi, geometrie di cristallo purissimo, torri di pietra dalle incredibili sfumature ». 6  





1



 « Vietato, in virtù di quella trasformazione antropologica che ci separa dagli antichi, resta per noi il luogo ove la mitologia poteva essere colta in flagranti » : F. Jesi, op. cit., p. 11. 2   L’elemento che determina il recupero del mito è identificabile con la cosiddetta nostalgie des origines, una sorta di rimpianto per tutto ciò che appare intatto e originario, in qualche modo sottratto allo scorrere del tempo e alla corruzione che ne consegue. Tale recupero, tuttavia, non può essere che mediato dalla consapevolezza, per cui il mito stesso, anziché porsi come esperienza esistenziale cui si possa accedere in modo diretto e irriflesso, finisce per strutturarsi sotto forma di codice, come linguaggio attraverso il quale è possibile leggere e interpretare il reale. Cfr. M.-H. Caspar, Fantastique et mythe personnel dans l’oeuvre de Dino Buzzati, La Garenne-Colombes, Éditions Européennes Erasme, 1990, pp. 221-232 : 231 : « dans nos sociétés modernes, le mythe, quelles que soient ses épiphanies, continue à nous parler car il est, en lui-même, un langage […]. Un langage voilé, certes, indirect, symbolique, qui en même temps cache et dévoile, une grille de lecture du monde ».  3 4  L. Coupe, op. cit., p. xviii.   PF, p. 240. 5   Cfr. D. Buzzati, Il reggimento parte all’alba, prefazione di I. Montanelli, Milano, Frassinelli, 1985, pp. 67 e 79, dove leggiamo espressioni come « profilo delle turrite montagne » e « profili turriti delle montagne ». 6  N. Giannetto, Il sudario delle caligini. Significati e fortune dell’opera buzzatiana, Firenze, Olschki, 1996, p. 13.  





















buzzati e le figure del mito

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L’implicito richiamarsi all’immagine della torre (che ritorna ad esempio nelle pagine del Bàrnabo come equivalente analogico – e metaforico – dei picchi che si levano verso il cielo), 1 non può essere dunque casuale, così come non è senza significato il fatto che Buzzati tratteggi le nuvole in modo del tutto antinaturalistico, non solo sviluppandole in verticale, ma anche partendo da una vera e propria piattaforma, come se esse fossero state private della parte sottostante. 2 È insomma evidente che gli elementi verbali e quelli propriamente visivi convogliano significati che finiscono per muoversi nella stessa direzione, suggerendo l’idea di un paesaggio che non ha nulla di reale, che diviene inafferrabile e che si metamorfosa in forme e sembianze assolutamente imprevedibili, proprio come accade nei sogni, in cui i diversi aspetti della realtà sembrano perdere la loro consistenza sino al punto di risultare irriconoscibili o di trasfigurarsi. 3 L’immagine della nuvola, con le sue metamorfosi incessanti, in cui si può leggere il segno inquietante e misterioso che oscuramente allude al compiersi di un destino 4 oppure – come avviene nel racconto Le tentazioni di Sant’Antonio – la rivelazione improvvisa e irrefutabile dei propri desideri e delle proprie ossessioni, 5 appartiene al côté fantastico e visionario di Buzzati, 6 la cui opera può essere considerata un tentativo inesausto di interro 











1

  Cfr. D. Buzzati, Bàrnabo delle montagne, a cura di P. Brengola, Milano, Mondadori Scuola, 2001, p. 31 : « Intanto, […], in cima a una grande croda che sembra una torre franata, […], si solleva lentamente un leggero fumo […]. C’è qualcuno sulle crode, dove nessuno aveva mai avuto coraggio di andare. […] Fin lassù sono arrivati, loro soli in cima alla torre di roccia » [corsivi miei]. 2   Un interessante confronto intertestuale può essere condotto, a questo proposito, rileggendo un brano del racconto Il re a Horm el-Hagar, dove compaiono delle nuvole del tutto simili a quelle raffigurate nell’ultima tavola del Poema : « Lo straniero avvistò allora nel cielo delle nuvole strane che salivano lentamente dal cuore dell’Africa. Erano tronche di sopra e di sotto, come se un coltello le avesse tagliate, e solo ai fianchi ridondavano di molli gorghi spumosi » : Id., Il re a Horm el-Hagar, in Id., Sessanta racconti, Milano, Mondadori, 1958-2016, p. 154. 3   Al riguardo si veda N. Giannetto, Il sogno, il gioco, la fantasticheria : lettura de « Il borghese stregato » di Buzzati, « Lingua e letteratura », V, 8, 1987, pp. 142-152 ; ora in Ead., Il sudario delle caligini, cit., pp. 55-73 : 59-60 e 66-69. 4  « Qui […] avanzava la notte grande delle montagne, con le nubi in fuga sulla Fortezza, miracolosi presagi. E dal nord, dal settentrione invisibile dietro le mura, Drogo sentiva premere il proprio destino » : D. Buzzati, Il deserto dei Tartari, cit., p. 69. 5   Id., Le tentazioni di Sant’Antonio, in Id., Sessanta racconti, cit., pp. 261-266. 6  Cfr. Id., Il deserto dei Tartari, cit., p. 69 : « Poi, per quanto fosse inverosimile, le mura, già assediate dalla notte, si alzarono lentamente verso lo zenit, e dal loro limite supremo, incorniciato da strisce di neve, cominciarono a staccarsi nuvole bianche a forma di airone naviganti per gli spazi siderali » (citazione che abbiamo reperito mediante l’esame delle Concordanze del Deserto dei Tartari messe a punto grazie a un progetto promosso dal Centro Studi Buzzati e diretto da Nella Giannetto).  







































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il mito e l ’ altrove gare il mistero, 1 di investigare il lato nascosto delle cose, quel Nachtseite der Natur che si rivela – come ha scritto Mario Mignone – laddove « il mondo sembra lievitare […], dilatarsi in contorni assurdi, tingersi di allucinanti fantasmagorie ». 2 Siamo insomma di fronte all’ennesima manifestazione del ben noto « “stra-vedere” buzzatiano », nel quale – scrive Patrizia Dalla Rosa – « tutto è contemporaneamente realistico e immaginifico ». 3 Queste nubi, che Buzzati disegna lasciando intuire il profilo di una montagna (o di una fortezza : la suggestione, trattandosi dell’autore del Deserto dei Tartari, è davvero inevitabile), 4 saranno allora da interpretare quale indicazione del perenne risorgere della fantasia, che per Buzzati si configura come riaffermazione della volontà di sognare, come apertura nei confronti dell’ignoto, di tutto ciò che esula dalla prevedibilità e dall’ordinarietà della vita quotidiana. Il Poema a fumetti finisce quindi per testimoniare – al di là del difficile, problematico recupero del mito – la rinnovata adesione alla facoltà immaginativa, la vitale riscoperta delle suggestioni e della forza eversiva dell’immaginazione : immaginazione che si ritrova, a ben vedere, alle radici del concetto stesso di mito, non appena lo si consideri nel suo contrapporsi a ciò che appartiene alla sfera del ‘sensato’ e del ‘razionale’. 5 In questo modo, con la tavola conclusiva del Poema Buzzati riprende a dialogare col lettore, prospettandogli una soluzione diversa rispetto a quella suggerita da Eura, il personaggio che cerca di decostruire il mito in nome di un’assoluta e indiscutibile razionalità. È infatti questa stessa razionalità, che Eura vorrebbe restaurare di contro all’azione sovvertitrice di Orfi, a subire lo scacco maggiore, a rivelarsi inadeguata nel confronto con l’irriducibile ambiguità del testo. Un’ambiguità che non può essere sciolta in alcun modo e che si pone, di conseguenza, come il segno distintivo dell’opera : alla fine, come si diceva, il lettore non è in grado di stabilire con certezza se il viaggio di Orfi sia un’esperienza reale o puramente onirica, così come non è possibile appurare, accettando l’alternativa suggerita  



























1

  Cfr. P. Biaggi, Buzzati. I luoghi del mistero, Padova, Messaggero, 2001, p. 18.   M. B. Mignone, Anormalità e angoscia nella narrativa di Dino Buzzati, Ravenna, Longo, 1981, p. 19. 3  P. Dalla Rosa, Lassù… laggiù… : il paesaggio veneto nella pagina di Dino Buzzati, Venezia, Marsilio, 2013, p. 15. 4   Sull’equivalenza montagna/fortezza cfr. C. Donati, Le montagne del Buzzati narratore, in I. Pilo et alii, Montagne di Vetro, di Pietra, di Carta. Le montagne di Buzzati fra vissuto e rappresentazione, Torino, Vivalda, 1994, pp. 54-60 : 57 : « La fortezza, […] completa l’opera della natura ; fa parte della montagna, simbolicamente è montagna essa stessa, […] ». 5   A questo proposito si veda J.-P. Vernant, op. cit., p. 212 : « Ora lo si assimila [il mito], nel suo aspetto fantastico, alla creazione poetica, alla finzione letteraria e lo si ricollega a quella potenza dell’immaginazione che ci affascina certo, ma come una ‘maestra d’errore e di falsità’ ». 2



















buzzati e le figure del mito

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dall’uomo verde, se il sonno dei defunti appartenga a un’« eternità nera » o « di luce », 1 se coincida con l’annullamento definitivo del proprio essere o con l’accesso a una insperata dimensione di salvezza. Definiti così i limiti del discorso razionalistico – che ha buon gioco fintantoché si tratta di decostruire il mito classico al fine di evidenziarne l’inattendibilità, ma che deve arrendersi di fronte al mistero della morte, riguardo al quale non è possibile asserire alcunché di certo e di ultimativo 2 –, non rimane altra via d’uscita che non sia quella del sogno e della fantasia, cioè dell’evasione fantastica, che Buzzati utilizza, a ben vedere, in senso freudiano, ovvero come modalità di appagamento dei propri desideri. Non sarà un caso, allora, che l’autore disegni nell’ultima tavola delle nubi del tutto particolari, quelle « nubi dell’eternità » la cui forma richiama, come si è visto, i profili e le sagome delle montagne, le quali sono evocate, oltre che sul piano figurativo, anche a livello verbale, come dimostra il sostantivo specificante – dell’eternità – in cui vi è forse un’allusione allo spazio alpino considerato in quanto luogo simbolico dell’immutabilità e della sospensione temporale. 3 È a questo punto che la riflessione sulla perdita del mito lascia il posto al confronto diretto con le immagini affioranti dall’inconscio personale : in particolare le immagini della montagna, che si accampa, nel vissuto e nell’opera di Buzzati, come una sorta di insostituibile mito originario, come un oggetto del desiderio che continua a suscitare sentimenti non dissimili da quelli che si possono provare per un essere umano, 4 anche se a volte viene percepito nella sua irrimediabile, dolorosa estraneità nei confronti di un soggetto che tenta vanamente di prenderne possesso. Si legga, a questo proposito, il seguente passo, tratto da una lettera che Buzzati scrisse all’amico Brambilla il 4 settembre 1946 :  























1

  PF, p. 232.   A questo proposito si possono utilmente recuperare le riflessioni proposte da Virgilio Melchiorre intorno al tema della morte. Lo studioso, dopo aver preso le distanze dalla soluzione epicurea – che in sostanza elude il problema affermando l’assoluta alterità della morte, cioè considerandola come evento del tutto estraneo all’orizzonte dell’esperienza umana (nulla è per noi la morte) – perviene a delle conclusioni che collimano perfettamente con il nostro assunto, come risulta in modo evidente dal seguente passaggio : « proprio perché la morte non può essere compresa nell’esperienza dossica dell’esistente, d’essa non può predicarsi il niente, ma l’indeterminato […] » : V. Melchiorre, Al di là dell’ultimo. Filosofie della morte e filosofie della vita, Milano, Vita e Pensiero, 1998, p. 158, nota 1. 3  « Le montagne sono simbolo, in molti luoghi della scrittura buzzatiana, di ciò che è certo, di ciò che non muta, mentre tutt’intorno uomini e cose devono fare i conti con la corruttibilità e la provvisorietà che sono loro connaturate » : N. Giannetto, Montagne di pietra, di vetro, di carta, in Ead., Il sudario delle caligini, cit., pp. 139-166 : 155-156. 4   Così Buzzati, nella lettera del 24 agosto 1922 ad Arturo Brambilla : « Io mi affeziono alle montagne e a qualunque cosa di esse sia pure l’abbia vista per un giorno solo » : D. Buzzati, Lettere a Brambilla, a cura di L. Simonelli, Novara, De Agostini, 1985, p. 102. 2

























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il mito e l ’ altrove

Caro Illa, come in quei lontani tempi così ora, prima di partire per la montagna, io ti scrivo. Come le hai trovate le crode, dopo tanto tempo ? Sono servite a qualche cosa ? Io ho l’impressione che qualche cosa sia veramente finito. […] Che senso hanno in fin dei conti le montagne ? Sono sempre rimaste fuori di noi, non sono state mai nostre, non rispondono al bene che vogliamo loro. Ho paura che siano anch’esse una illusione. Oppure mi sbaglio e ci troverò di nuovo l’incanto degli anni andati ? 1  









Come si può notare, si tratta di un brano estremamente significativo, in quanto mostra come la montagna rappresenti, per il Buzzati prossimo a varcare la soglia dei quarant’anni, non solo un oggetto del desiderio, ma anche un oggetto (almeno in parte) perduto, cioè una dimensione che non è immediatamente disponibile e che può essere recuperata solo a patto di superare il timore della lontananza e della irrimediabile alterità (ed è un aspetto, questo, che risulta tutt’altro che estraneo alle pagine del Poema, visto che si tratta di un’opera interamente costruita sui temi della perdita e della privazione dolorosa : la perdita di Eura / Euridice, ma anche, come si è visto, la perdita del mito). L’immagine finale si configura pertanto, alla luce di queste considerazioni, come un’esortazione a riconquistare il proprio immaginario, ad affidarsi alla propria interiore, soggettiva capacità di deformare il reale e di reinventarlo fantasticamente, in modo da ritrovare, se non l’esperienza diretta di un mythos divenuto ormai inattingibile, almeno le tracce dei sogni e delle illusioni con cui si cerca di compensare l’esperienza necessariamente limitata e delusiva della realtà quotidiana. 2 E la montagna s’identifica proprio con una di queste illusioni irrinunciabili, se è vero – come ha scritto Nella Giannetto – che essa rappresenta il « simbolo di tutto ciò che nella vita è desiderabile e che difficilmente o mai si potrà ottenere ». 3  









1

  Ivi, pp. 280-281.   Sulla funzione compensatrice del mito, che rappresenta una sorta di ‘tempo forte’ in opposizione al ‘tempo debole’ proprio della vita quotidiana, cfr. M.-H. Caspar, op. cit., pp. 231-232 : « La plupart du temps, pendant les “temps faibles” du quotidien, nous avons la sensation d’être prisonniers d’un espace et d’un temps contraignants. Pendant les “temps forts”, au contraire, nous renaissons, nous nous regénérons. […] Ainsi, les incursions buzzatiennes sur le territoire du Mythe semblent être un remède efficace, bien qu’éphémère, contre l’angoisse existentielle si forte chez cet écrivain, l’angoisse de Kronos, le Temps dévorateur et destructeur ». 3  N. Giannetto, Montagne di pietra, di vetro, di carta, cit., p. 153. 2







TRA FAVOLISMO E ALLEGORISMO. RICERCA E PERDITA DEL MITO IN DUE RACCONTI DEGLI ANNI QUARANTA 1. Introduzione

I

racconti buzzatiani degli anni Quaranta vengono di solito inquadrati attraverso due riferimenti ineludibili, che riguardano, rispettivamente, l’appartenenza al genere fantastico e il ricorso all’allegoria quale modalità costruttiva del testo. Si sono così individuate due categorie fondamentali, che se da una parte aiutano a fare chiarezza, dall’altra non chiudono la discussione, lasciando di fatto aperti i problemi relativi alla lettura e alla interpretazione di quei testi. In realtà, come ricordava Ilaria Crotti nell’ormai lontano 1977, tutta la questione del fantastico buzzatiano andrebbe riconsiderata tenendo presenti anche altre categorie : un riferimento critico pertinente, ad esempio, è quello relativo alla componente favolistica che caratterizza la narrativa dell’autore bellunese fin dai suoi esordi. 1 È inoltre chiaro che lo stesso riconoscimento, su cui gli studiosi si sono concordemente ritrovati, di forme e modalità proprie del discorso allegorico 2 ha finito per cristallizzarsi, nel corso degli anni, in un luogo comune della critica, ma non ha conosciuto, nemmeno in tempi più recenti, 3 quell’approfondimento e quella disamina che ci sembrano, a questo punto, quanto mai urgenti e necessari. Ed è proprio dal discorso allegorico che prenderemo le mosse, recuperando, anzitutto, alcune indicazioni della critica più accreditata. Si pensi, ad esempio, alla « doppia significazione » individuata dalla Crotti quale co 











1  « Il “fantastico” in Buzzati si congiunge e reagisce almeno con la favola, col paradosso, col grottesco, col realismo, con l’esistenzialismo, col simbolismo, col romanticismo, con la letteratura erotica, e con la fantascienza. Cercare di caratterizzare ogni aspetto della produzione di Buzzati significa cogliere questi diversi momenti aggregativi, avendo sempre coscienza della fonte sostanzialmente unitaria di tale spinta » : I. Crotti, Dino Buzzati, Firenze, La Nuova Italia, 1977, p. 5. 2   La formula generalmente usata è quella dell’allegorismo morale, identificato come « uno dei dati più originali dell’esperienza artistica di Buzzati » : A. Veronese Arslan, Invito alla lettura di Dino Buzzati, Milano, Mursia, 1974, p. 137. 3   Si veda quanto scrive Giulio Carnazzi nell’introduzione a una raccolta mondadoriana di opere buzzatiane, là dove sottolinea la commistione tra ‘fantastico’ e allegoria : « il fantastico in Buzzati non è quasi mai irrelato ma è arricchito da sottili rifrazioni, così da declinare verso le modalità del fantastico-allegorico » : G. Carnazzi, Introduzione a D. Buzzati, Opere scelte, Milano, Mondadori, 1998, pp. ix-l : xxx.  





















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il mito e l ’ altrove stante delle strutture narrative buzzatiane, 1 oppure alle osservazioni, stimolanti ma non esaustive, formulate da Giorgio Pullini a proposito del Bàrnabo, romanzo in cui il critico riconosce un’alternativa « fra un allegorismo concreto, partecipe, suggestivo, e un allegorismo astratto, involuto, volto all’artificioso ». 2 Ora, pur riconoscendo la validità degli apporti e dei contributi che abbiamo ricordato, ci sembra che il problema dell’allegorismo buzzatiano si debba porre in termini affatto diversi, considerando cioè l’allegoria nella sua accezione più tecnica, quale strumento di una rappresentazione il cui significato non si dà con immediata evidenza ma deve essere individuato e ricostruito razionalmente, mediante un processo di interpretazione che porti al riconoscimento dei principî su cui è impostata l’allegoria stessa. 3 Nello stesso tempo, a causa dei legami profondi che s’intrecciano tra favola e allegoria, risulta parimenti necessario procedere a un’attenta riconsiderazione della già ricordata componente favolistica, che rappresenta per Buzzati, assai più di quanto possa sembrare a una prima lettura, non solo un dato acquisito ma anche un elemento problematico, una dimensione rispetto alla quale ci si deve continuamente interrogare, verificando la validità delle soluzioni di volta in volta adottate. La fiaba, in effetti, implica il recupero di una modalità di racconto che deve essere ogni volta riconquistata ; essa può sembrare facilmente accessibile e invece si rivela – al pari del mito e della leggenda – nella sua sostanziale inattingibilità, in quanto forma narrativa che subisce l’azione decostruttiva dei procedimenti connessi alla cosiddetta demitizzazione. 4 Così nel Bàrnabo, romanzo in cui, nonostante la presenza di stilemi e moduli espressivi propri della favola, la voce narrante non può fare a meno di registrare l’inevitabile scomparsa del mondo fiabesco :  















Ecco Bàrnabo che ritorna. Si è rotto una specie di incanto, poco prima, tra le crode. Sono rimaste tutte sole, non ci son più briganti né spiriti, queste cose sono finite. Egli avanza con il solito passo, attraversa adagio la radura. 5  

1

 I. Crotti, Dino Buzzati, cit., pp. 9-10.  G. Pullini, Il romanzo italiano del dopoguerra, Padova, Marsilio, 1965, pp. 339-352 : 341. 3  « Mentre il simbolo richiede un’identificazione e un’adesione immediata, l’allegoria è il risultato di una costruzione razionale, che impone a sua volta un’interpretazione di tipo razionale » : G. Ferroni, Storia della letteratura italiana, I, Dalle origini al Quattrocento, Torino, Einaudi, 1991, p. xxxix. 4   A questo proposito cfr. S. Lazzarin, Fantasmi antichi e moderni. Tecnologia e perturbante in Buzzati e nella letteratura fantastica otto-novecentesca, « Quaderni del Centro Studi Buzzati », n. 5, Pisa-Roma, Fabrizio Serra Editore, 2008, pp. 33-47 : 37 : « Il lettore non occasionale di Buzzati sa quante e quali pagine di questo scrittore siano percorse da un’indefinibile nostalgia di un luogo e di un tempo perduti, che assumono via via forme diverse : sono i regni fortunati dell’infanzia, le vastità incontaminate del mito, le regioni misteriose dell’avventura, il paese di tutte le felicità, ecc. ». 5  D. Buzzati, Bàrnabo delle montagne, a cura di P. Brengola, Milano, Mondadori Scuola, 2001, p. 89. 2























ricerca e perdita del mito in due racconti degli anni ’ 40 53 È dunque a partire da queste considerazioni che proporremo una rilettura di due noti racconti buzzatiani, L’uccisione del drago e Il borghese stregato : testi che verranno interpretati, rispettivamente, come un’elegia sulla fine del mondo favolistico-leggendario e come una parabola sulla impossibilità di recuperare il mito eroico nel contesto desublimato della modernità.  

2. « L’uccisione del drago »  



Le forme e i contrassegni del fiabesco caratterizzano, già a partire dal titolo, L’uccisione del drago, racconto appartenente alla prima raccolta buzzatiana – I sette messaggeri –, che vede la luce nel 1942. Strutturato in base a uno schema compositivo in cui si evidenziano i momenti della partenza, del viaggio, dell’incontro atteso e delle sue conseguenze, il dettato narrativo sembra dispiegarsi sulla falsariga di un racconto d’avventura o comunque di un racconto di genere in cui la componente avventurosa è di per sé importante e significativa. Questa suggestione avventuroso-fiabesca è presente fin dall’inizio e costituisce, come si vedrà in seguito, il presupposto fondamentale per un testo che punta al sovvertimento dei propri modelli : per il momento la possiamo identificare nel tema della quête, nella ricerca che conduce un gruppo di personaggi, attraverso « vallette » misteriose e gole dirupate, sulle orme di una creatura fantastica, un drago che qualcuno ha avvistato o creduto di vedere, dal momento che l’identificazione, secondo una modalità tipica del racconto ‘leggendario’, appare tutt’altro che sicura : « Nel maggio 1902 un contadino del conte Gerol, tale Giosuè Longo, che andava spesso a caccia per le montagne, raccontò di aver visto in valle Secca una grossa bestiaccia che sembrava un drago ». 1 Lasciata dunque in sospeso la questione relativa all’identità dell’animale, di quest’ultimo viene subito sottolineata la pericolosità, come risulta dalle parole ammonitrici rivolte dal medico del paese al governatore Quinto Andronico, uno dei partecipanti alla spedizione che dovrebbe chiarire il mistero :  















« Personalmente […] credo che il drago ci sia, benché non l’abbia mai visto. Ma non mi ci metterei in questo pasticcio. È una cosa di malaugurio ». […] « Io non ci andrei davvero. Una volta poi ho sentito dire, ma è inutile, voi vi metterete a ridere… ». […] « Bene, certi dicono che il drago manda fuori del fumo, che questo fumo è velenoso, basta poco per far morire ». 2  













È a questo punto che ha inizio la quête vera e propria, scandita attraverso una serie di tappe che accrescono la curiosità e l’aspettativa del lettore di 1  D. Buzzati, L’uccisione del drago, in Id., Sessanta racconti, Milano, Mondadori, 1958-2016, 2 pp. 67-81 : 67. (D’ora in avanti indicato con la sigla UD).   Ivi, p. 68.  

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il mito e l ’ altrove pari passo con la tensione narrativa ; 1 si creano in tal modo le condizioni per una perfetta identificazione tra lettore e personaggi, di cui si condividono ansie, dubbi, paure, l’idea stessa che il drago – alla cui esistenza il protagonista del racconto non crede – possa davvero esserci. Gli elementi costitutivi del racconto avventuroso sono insomma tutti presenti e li possiamo facilmente riassumere : la ricerca come motivo strutturante l’intreccio, gli avvertimenti (inascoltati), la trasgressione e la scelta conseguente di intraprendere il viaggio, l’arrivo al « Burel », l’offerta propiziatoria (la capra abbandonata davanti alla caverna) e l’incontro col drago (che però, come vedremo, non viene immediatamente riconosciuto, rendendo problematica, sia per i personaggi che per il lettore, l’identificazione del monstrum e quindi dell’eroe che lo dovrebbe affrontare). Una cosa è però da notare : gli eventi che costituiscono l’intreccio, per quanto riconducibili a uno schema tradizionale, vengono a collocarsi su uno sfondo ambientale e paesistico che non ha nulla di astratto o di generico. Si tratta infatti, come ha dimostrato Patrizia Dalla Rosa, di uno spazio in cui si può riconoscere, per caratteristiche geografiche e morfologiche, « la Val Belluna e i suoi stretti dintorni ». 2 Se nel testo pare dunque essersi sedimentata la memoria di un paesaggio reale – un paesaggio frequentato da Buzzati in maniera per lo più saltuaria, 3 ma che aveva lasciato più di una traccia nell’esperienza vissuta dell’autore e quindi nel suo immaginario poetico, che da quella almeno in parte deriva –, è altrettanto vero che vi si può individuare anche la presenza di ben riconoscibili modelli culturali, in conformità a una tendenza in cui si bilanciano elementi realistici e invenzione fantastica, riproduzione mimetica del reale e volontà di trasfigurazione. Al riguardo si può indicare, quale modello di riferimento, quello rappresentato dal cosiddetto locus amoenus : modello che viene ripreso in un’ottica di totale rovesciamento. È infatti evidente che gli elementi caratteristici di questo paesaggio ideale – che la tradizione presenta come « un prato verde attraversato da ruscelli limpidi, circondato da alberi fioriti o pieni di frutta, su cui cantano uccelli » 4 – sono puntualmente ripresi all’interno di una descrizione di segno negativo, dove essi sono menzionati, in una    























1



 « Al di qua del simbolo, c’è nel racconto, […], un’eccezionale tensione narrativa » : A. Veronese Arslan, op. cit., p. 74. 2  P. Dalla Rosa, Val Belluna e dintorni : la « geografia intima » di Buzzati, in Ead., Dove qualcosa sfugge : lingue e luoghi di Buzzati, « Quaderni del Centro Studi Buzzati », n. 3, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 2004, pp. 113-131 : 114. 3  « Tuttavia, […], poco importa il quanto Buzzati avesse frequentato questi luoghi. Conta, piuttosto, il fatto che entrano nella pagina scritta. E conta il modo in cui vi entrano » : ibidem. 4  C. Segre, Fuori del mondo. I modelli nella follia e nelle immagini dell’aldilà, Torino, Einaudi, 1990, p. 14.  

























ricerca e perdita del mito in due racconti degli anni ’ 40 55 sorta di recupero a rovescio del topos, solo al fine di metterne in evidenza l’assoluta mancanza :  

Anche la valletta che menava al Burel era stretta e tortuosa, non c’era torrente sul fondo, non c’erano piante né erba ai lati, solamente sassi e sfasciumi. Non canto di uccelli o di acque, ma isolati sussurri di ghiaia [corsivi miei]. 1  

La fonte immediata potrebbe essere un brano famoso dell’Inferno dantesco, come suggerisce, tra l’altro, la costruzione del testo attraverso le figure retoriche dell’antitesi (non c’erano… solamente ; non… ma) e dell’anafora, che nel periodo finale appare variata mediante l’ellissi della forma verbale. Si rileggano, a riprova, i versi iniziali del tredicesimo canto, in cui, com’è noto, viene descritta per oppositum la selva dei suicidi :  



Non fronda verde, ma di color fosco ; non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti ; non pomi v’eran, ma stecchi con tosco. 2  





Ma è probabile che Buzzati avesse in mente anche la descrizione dantesca del Paradiso terrestre, cui implicitamente rinvia attraverso la sottolineatura dell’assenza del canto degli uccelli (elemento primario per la definizione del locus amoenus, ripreso da Dante nell’ambito di una figurazione intesa a restituire l’immagine di una « foresta » al tempo stesso divina e terrena, naturale e soprannaturale). 3 Anche gli altri elementi, che Buzzati dissemina sapientemente nel testo – e pensiamo alla calura e all’implacabile picchiare di un sole i cui raggi si fanno sempre più intensi, e pensiamo al « Burel », che non è solo il luogo in cui si dovrebbe trovare la grotta del drago, ma anche, come ci ricorda Patrizia Dalla Rosa, una reale e temibile parete di roccia, appartenente all’orografia della Val de Piero 4 –, non possono che riportare a un ambiente e a un’atmosfera lato sensu infernale, se è vero che la luce abbacinante e l’« intenso calore », su cui il narratore si sofferma più volte, 5 sono aspetti riconducibili, oltre che al paesaggio dei deserti, a un precedente dantesco facilmente riconoscibile (e che Buzzati poteva avere assimilato anche inconsciamente), 6 così come, a nostro parere, lo è il « Burel », non solo oro 























1

2   UD, p. 70.   Inf., xiii, 4-6.  Cfr. Purg., xxviii, 13-21. 4   Cfr. P. Dalla Rosa, Val Belluna e dintorni, cit., pp. 129-130. 5  Cfr. UD, pp. 70, 72, 76 (a p. 76 compare tra l’altro il sintagma « caldo d’inferno »). 6   Scrive a questo proposito Nella Giannetto : « Non si può parlare di vere e proprie citazioni, ma di suggestioni, di un affiorare di memorie che non sono necessariamente percepite come tali dallo scrittore, perché entrate a far parte, come elementi vivi e perfettamente “integrati” del sistema della sua “langue” » : N. Giannetto, Sessanta racconti e una lingua da scoprire, in S. Pautasso et alii, Dino Buzzati : la lingua, le lingue, Atti del Convegno Internazionale (Feltre e Belluno, 26-29 settembre 1991), a cura di N. Giannetto, con la collaborazione di P. 3















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il mito e l ’ altrove nimo ma anche nome comune che etimologicamente ci riporta all’idea di caverna, di grotta, di ‘corridoio sotterraneo’ 1 e quindi, ancora una volta, all’Inferno dantesco, dove la « natural burella » 2 è il passaggio che permette a Dante e Virgilio di guadagnare l’uscita dalla voragine infernale per tornare alfine « a riveder le stelle ». A questo punto, se consideriamo unitamente gli elementi individuati – elementi che appartengono alla dimensione infera e che connotano il paesaggio nel senso di un’evidente stranezza e diversità – possiamo notare come le strutture spaziali del testo si organizzino secondo un modello di tipo oppositivo, in cui la realtà quotidiana e familiare (la città da cui provengono i personaggi, il paese di Palissano, etc.) appare contrapposta a quello spazio di assoluta alterità che è la montagna, luogo dell’unheimlich 3 nel quale ci si sente imprigionati e in cui si determina un incantamento che induce all’accettazione del soprannaturale : « Strano. Adesso che erano lontani dalla città, chiusi dentro alle montagne, l’idea del drago cominciava a sembrare meno assurda » [corsivo mio]. 4 Si può infine notare, nella strutturazione degli spazi che costituiscono la montagna, una sorta di « predilezione per un paesaggio che sia “nascosto” e segreto », 5 come dimostra, ad esempio, il riferimento alle « vallette che si inoltravano ai lati nascondendo alla vista i loro meandri » : 6 di qui un definirsi di spazi che risultano funzionali alla componente fiabesca del racconto, e la cui parziale, imperfetta conoscenza da parte dei personaggi genera quella incertezza e quella tensione che sono proprie di ogni quête, di ogni avventuroso itinerario di ricerca. Non solo : le prime sequenze del racconto evidenziano l’utilizzo di una modalità rappresentativa di tipo simbolico, modalità che si fonda sulla perfetta corrispondenza, verificabile soprattutto rispetto al personaggio fem 































   



Dalla Rosa e I. Pilo, Milano, Mondadori, 1994, pp. 7-54 : 40. Non è possibile, pertanto, indicare dei riscontri precisi con il testo dantesco, ma può essere legittimo pensare a una reminiscenza della descrizione della landa infuocata, che si legge in apertura al canto xiv dell’Inferno. Si tratta, peraltro, di un luogo estremamente arido, « che dal suo letto ogne pianta rimove », ed è questo un particolare che ben si accorda con il paesaggio roccioso, privo di acqua e di piante, in cui si svolge la vicenda raccontata da Buzzati. 1  G. Devoto, Avviamento alla etimologia italiana. Dizionario etimologico, Firenze, Le Monnier, 1967, p. 57. 2  « Non era camminata di palagio / là ’v’eravam, ma natural burella / ch’avea mal suolo e di lume disagio » : Inf. xxxiv, 97-99. 3  « la malattia, la morte e il “perturbante” si collocano proprio nell’ambito della categoria dell’“alto”, della montagna » : I. Crotti, Le montagne geografiche e metafisiche di Dino Buzzati, in Ead., Tre voci sospette. Buzzati, Piovene, Parise, Milano, Mursia, 1994, pp. 34-43 : 35. 4   UD, p. 70. 5 6  P. Dalla Rosa, Val Belluna e dintorni, cit., p. 119.   UD, p. 70.  



















ricerca e perdita del mito in due racconti degli anni ’ 40 57 minile, tra elemento paesaggistico e stato d’animo individuale. 1 Il senso di minaccia che pervade il paesaggio, la sottile inquietudine provocata dal continuo, inesorabile franare di creste e ghiaioni, non fanno che amplificare, in effetti, il disagio di Maria, dando risalto a uno stato di tensione in cui prevalgono, per quanto solo allusi, sentimenti di ansia e di crescente preoccupazione :  



La bella Maria taceva. Ogni intraprendenza era in lei svanita. Con quanta gioia sarebbe tornata subito indietro. Ma non osava dirlo a nessuno. I suoi sguardi percorrevano le pareti attorno, le antiche e le nuove frane, i pilastri di terra rossa che sembrava dovessero ad ogni momento cadere. 2  

Si stabilisce così una sorta di scambio tra interno ed esterno, con l’ansia individuale del personaggio che si riverbera su quella realtà circostante dalla quale è continuamente prodotta, in un gioco di rimandi e proiezioni reciproche. D’altra parte, appare evidente che il discorso buzzatiano non si limita alla costruzione di una corrispondenza simbolica : troppo frequenti sono i richiami a questo mondo di cime e creste frananti perché si possa pensare che esso esaurisca la sua funzione in un semplice gioco di rispecchiamento, come eco esterna di un’inquietudine che appartiene alla dimensione interiore dei personaggi (e che risulta giustificata, in ogni caso, dalla componente avventurosa dell’intreccio, dato che si tratta pur sempre di un racconto di viaggio, costruito, come si è detto, sul progressivo avanzamento attraverso una realtà spaziale almeno in parte sconosciuta). E in effetti – come osserva Giorgio Pullini parlando del Deserto dei Tartari – Buzzati utilizza il paesaggio non solo come elemento funzionale all’amplificazione di uno stato d’animo, ma anche come presenza oggettiva, come dimensione che riesce a imporre la propria predominanza nei confronti del personaggio stesso :  



È questo un canone quasi d’obbligo nel mondo narrativo di Buzzati, di affidare cioè al paesaggio una funzione quasi di protagonista, con la sua dimensione di una impervia e stilizzata goticità che simbolizza dinanzi all’uomo la summa di tutte le difficoltà terrene e lo sgomento del mistero nella sua inattingibilità. Qui il paesaggio diventa addirittura predominante come presenza che non solo simbolizza qualcosa di fronte al personaggio, ma lo assorbe e annulla a poco a poco in sé, […]. 3  

1   Per un’analisi degli elementi che concorrono alla definizione del paesaggio simbolico, cfr. R. Ceserani, Guida allo studio della letteratura, Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 247-251. In particolare, come aspetto caratterizzante la descrizione simbolica, lo studioso identifica « una stretta analogia tra le emozioni del personaggio (che osserva o è osservato dal narratore) e la 2 scena » : ivi, p. 249.   UD, p. 72. 3  G. Pullini, op. cit., p. 342.  





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il mito e l ’ altrove

Se allora è vero, come scrive Pullini, che nel mondo narrativo di Buzzati il paesaggio viene ad assumere una funzione « quasi di protagonista », si può dire che ciò valga in modo particolare per L’uccisione del drago, dove la montagna, lungi dal costituire uno sfondo intercambiabile per la vicenda narrata, 1 è posta continuamente in primo piano, come dimensione spaziale che ha importanza e valore in se stessa, al di là delle corrispondenze simboliche che si possono di volta in volta individuare. Si vedano, a questo proposito, i passaggi seguenti, da cui emerge un’attenzione precisa e oggettiva nei confronti della realtà spaziale in cui si svolge la vicenda :  







In fondo alla valle si intravvedeva una successione caotica di cime, per lo più di forma conica, nude di boschi o prato, dal colore giallastro, di una desolazione senza pari. La valle si apriva improvvisamente in un ampio circo selvaggio, il Burel, una specie di anfiteatro circondato da muraglie di terra e rocce crollanti, di colore giallorossiccio. 2  

È chiaro, a questo punto, che la narrazione offre alcune immagini ricorrenti – quelle delle ghiaie e delle pareti frananti – che costituiscono un vero e proprio leitmotiv e che possono essere esaminate in un’ottica intertestuale, dal momento che non si tratta di elementi isolati ma di figure facilmente riconoscibili entro il sistema complessivo della imagery buzzatiana. In particolare, per quanto riguarda l’immagine della frana, non si può che partire dalle osservazioni della Caspar, la quale ha individuato i seguenti significati essenziali :  

Le narrateur buzzatien décrit/peint ses paysages mais en même temps il les anime par le mouvement et par le bruit. L’éboulement – qui concilie les deux effets – est de ce fait porteur de multiples significations. Quand il est de dimension réduite, il indique l’écoulement insidieux mais incessant du temps. […] Lorsque l’éboulement est important – la notion de fracas intervient alors –, il provoque la peur. […] L’éboulement est donc le signe visible d’une « présence ennemie » […]. On peut ainsi dire que l’éboulement n’est jamais gratuit ou insignifiant dans l’univers romanesque de Buzzati. Il montre l’hostilité de la montagne envers l’homme qui viole son mystère, la sauvagerie et la force de la nature. 3  





Se confrontiamo i suggerimenti offerti dalla Caspar con il testo buzzatiano, possiamo subito notare come le chiavi interpretative della studiosa si 1

  Cfr. P. Dalla Rosa, La montagna nella traduzione francese del Bàrnabo, in Ead., Dove qualcosa sfugge, cit., pp. 37-46 : 37 : « Ricordiamo, […], che la Montagna non è, in Bàrnabo, come non lo è in tutta l’opera buzzatiana, ambiente di sfondo nel quale collocare una storia, ma autentico e potentissimo spazio reale e surreale insieme, […] ». 2   UD, pp. 69-70 e p. 71. 3  M.-H. Caspar, L’espace imaginaire dans les romans de Buzzati : tentative de topo-analyse, « Cahiers Dino Buzzati », vi, 1985, pp. 191-216 : 197-199.  















ricerca e perdita del mito in due racconti degli anni ’ 40 59 adattino solo in parte alla specificità del racconto. In effetti, anche se non mancano frane « di dimensione ridotta » (ed è in tal senso che si dovranno leggere i numerosi riferimenti alle « ghiaie », ai « rivoli di sassolini » che continuamente si staccano dalle pareti), 1 è chiaro che a questi franamenti è possibile attribuire un significato ancora più ampio, soprattutto se si tiene conto del fatto che essi vengono a coincidere, per la loro diffusione e la loro frequenza, con la realtà paesistica considerata nel suo complesso :  















la strada è difficile a trovare, sono tutte montagne marce piene di frane, basta un soffio di vento per far nascere un finimondo […]. Viste da presso, [le montagne] apparivano fatte di rocce fradice e crollanti, quasi di terra, tutta una frana dalla cima in fondo. Non si udiva che lo smisurato silenzio delle montagne, toccato da qualche sussurro di ghiaia. […] Ciò dava al paesaggio un aspetto di perenne rovina ; montagne abbandonate da Dio, parevano, che si disfacessero a poco a poco [corsivi miei]. 2  



Come si vede, la frana non è solo un fenomeno isolato e ricorrente, ma un elemento che si identifica con la natura stessa del paesaggio, al punto che l’Arslan ha potuto parlare in proposito di una « cornice di desolazione franosa ». 3 La prima attribuzione di significato, quella che riconosce nella frana un equivalente del fluire del tempo, è senza dubbio interessante e suggestiva, 4 ma dovrà essere rapportata, a nostro parere, ai nuclei tematici effettivamente presenti nel testo : appare infatti evidente come in questo racconto Buzzati non intenda approfondire – diversamente da quanto avviene in altri luoghi della sua opera – il tema della fuga temporum come scoperta e rivelazione esistenziale che si offre alla percezione del singolo individuo. La polisemia dell’immagine esclude, d’altra parte, qualsiasi interpretazione univocamente determinata : il senso delle frane andrà quindi verificato in rapporto all’interpretazione complessiva del testo, senza pretendere di definirlo in base a una formula prestabilita. La stessa identificazione della frana con una « presenza nemica » – identificazione che potrebbe sembrare del tutto legittima, anche alla luce della conclusione della vicenda – appare discutibile se si rilegge con attenzione il racconto, in cui sono altri gli elementi che sembrano svolgere un’azione di contrasto rispetto alla spedizione organizzata dal conte Gerol, in primo luogo il sole rovente e il caldo soffocante :  

















1

2  Cfr. UD, p. 72.   Ivi, pp. 68, 70, 72.  A. Veronese Arslan, op. cit., p. 74. 4   L’immagine della frana, con i suoi correlati visivi (il movimento) e sonori (il rumore), si presta con perfetta aderenza a rappresentare lo scorrere del tempo, quasi voce di quel « murmure della natura » di cui aveva parlato lo stesso Buzzati nel Ricordo di un poeta (cfr., a tal proposito, P. Dalla Rosa, Val Belluna e dintorni, cit., p. 122). 3





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il mito e l ’ altrove

Le 10 erano passate da un pezzo e il sole aveva invaso completamente il Burel, portandolo a un intenso calore. Ondate ardenti si riverberavano dall’una all’altra parete. Il sole adesso incendiava la conca, a stento si riusciva a tenere gli occhi aperti tanto abbacinava il riflesso delle ghiaie gialle, delle rocce, delle ghiaie ancora e dei sassi ; niente, assolutamente, che potesse riposare gli sguardi. Maria aveva sempre più sete, e bere non serviva a niente. 1  



I continui, inarrestabili franamenti rappresentano senza dubbio qualcosa di misterioso e di inquietante, ma non si può dire che costituiscano una minaccia incombente, poiché si tratta di un fenomeno tutto sommato lontano ed estraneo, che non impedisce al conte Gerol e ai suoi amici di proseguire il viaggio e di condurre a termine l’impresa che si concluderà con l’uccisione del drago. Un’ipotesi più accettabile è quella che porta a riconoscere nelle innumerevoli frane un segno di partecipazione della natura al dramma che si sta compiendo : una partecipazione che si fa evidente allorché l’animale, ormai ferito a morte, lancia il suo « urlo indicibile » 2 verso il cielo, mentre tutt’intorno si arrestano i movimenti franosi e la natura sembra fermarsi in una perfetta sospensione, in una immobilità colma di attesa e trepidazione :  









Nessuno aveva risposto al suo grido, in tutto il mondo non si era mosso nessuno. Le montagne se ne stavano immobili, anche le piccole frane si erano come riassorbite, il cielo era limpido, neppure una minuscola nuvoletta e il sole andava calando. 3  

Ed è ipotesi da considerare con attenzione, in quanto conforme a quella visione solidale della natura – intesa come unità che accoglie creature viventi ed elementi del paesaggio – su cui si è soffermata, seppure in modo incidentale, Antonia Arslan : « ciò che testimonia dell’originalità del racconto è la sua percezione dei legami misteriosi e tenaci che corrono fra la natura e le sue creature, che troppo facilmente l’uomo definisce ‘mostri’ o ‘nocivi’, e che fanno parte invece di un sapientissimo equilibrio ». 4 L’arrestarsi del movimento franoso determina, come si diceva, una sorta di pausa, una sospensione improvvisa che amplifica l’inquietudine dei personaggi, restituendo, anche sul piano della realtà esterna, il senso dell’attesa di un evento risolutivo, che potrebbe essere – come suggerisce il narratore – la ‘risposta’ della natura all’invocazione di aiuto levatasi dal drago morente :  







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  UD, pp. 72 e 77.   Ivi, p. 81.

  Ivi, p. 79.  A. Veronese Arslan, op. cit., p. 74.



ricerca e perdita del mito in due racconti degli anni ’ 40 61 Invocava un aiuto il drago, e chiedeva vendetta per i suoi figli. […] L’urlo trapanava le muraglie di roccia e la cupola del cielo, riempiva l’intero mondo. Sembrava impossibile (anche se non c’era alcun ragionevole motivo) sembrava impossibile che nessuno gli rispondesse. 1  

La risposta, in realtà, sarà da leggersi proprio nel silenzio e nella immobilità della natura (il che, ovviamente, comporta il rovesciamento dell’immagine della frana e del suo significato) : segni inequivocabili di un dolore universale, di un compianto degli elementi naturali di fronte a un’azione che costituisce un vero e proprio misfatto e per la quale ci si attende, magari senza comprendere bene il perché, una giusta, inevitabile punizione :  



Allora gli uomini sconosciuti, senza dare la minima voce, si allontanarono correndo giù per i canali di ghiaia. Si sarebbe detto che fuggissero una improvvisa minaccia. Essi non provocarono rumore, non smossero frane, non volsero il capo neppure per un istante alla caverna del drago, scomparvero così come erano apparsi, misteriosamente. 2  

Ma la funzione del paesaggio, ancora una volta, non si esaurisce in questo gioco di riecheggiamento dei sentimenti umani ; e lo dimostra, in particolare, il riferimento testuale alle « pareti crollanti », 3 che ritorna, in chiusura di racconto, a sottolineare la sostanziale immutabilità dello sfondo ambientale, dove la frana s’inserisce non solo come elemento costitutivo, ma anche e soprattutto come presenza emblematica, portatrice di un significato che travalica le eventuali correspondances con lo stato d’animo dei singoli personaggi : per l’ennesima volta, l’accento è posto sulla natura franosa del luogo e delle montagne, con rimandi precisi a un’idea di fine imminente, di ineluttabile e progressivo disfacimento (anche se, per il momento, non è ancora chiaro di che cosa). Ed è una presenza, quella della montagna, che possiamo leggere, soprattutto nel finale del racconto, nel segno della distanza e della irrecuperabile alterità ; l’uccisione del drago determina infatti un distacco e una lacerazione non ricomponibili, un definitivo, irrimediabile estraniarsi dell’uomo rispetto all’ambiente naturale, secondo un movimento che si può leggere come negazione dell’« armonia fiabesca dell’interiore e dell’esteriore, della coscienza dell’uomo e della natura circostante, […] ». 4  

















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2 3   UD, p. 80.   Ivi, p. 79.   Ivi, p. 81.  S. Calabrese, Fiaba, Firenze, La Nuova Italia, 1997, p. 103. La distruzione dell’« armonia fiabesca » tra io e mondo, tra individuale e universale, è motivo presente, peraltro, già nelle pagine de Il segreto del Bosco Vecchio. Ciò emerge, in particolare, dalle parole ammonitrici con cui il vento Matteo avverte Benvenuto che il passaggio alla maturità lo priverà di un linguaggio essenziale, quello che gli consente di cogliere e decifrare i messaggi provenienti dalla natura : « questa forse è la notte famosa in cui tu finirai di essere bambino. Non so se 4









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il mito e l ’ altrove Non sarà un caso, allora, che la realtà esterna finisca per chiudersi in se stessa, cristallizzata in un silenzio e in una immobilità che sono come i segni di un lutto cosmico con cui la natura manifesta la sua pietas di fronte alla morte del drago, ma anche la sua condanna di un atto in cui si compendia l’empietà dell’uomo. La probabile morte del conte Gerol assume davvero, a questo punto, una forte, indubitabile valenza emblematica, e non tanto sul piano della fabula, rispetto al quale rappresenta l’inevitabile punizione conseguente alla colpa, quanto sul piano del discorso allegorico, dove il Gerol è figura dell’uomo che si autoesclude dal mondo naturale – già di per sé governato, come abbiamo visto, da leggi di armonia e partecipazione solidale – allorché si arroga il diritto di imporre altre leggi e altre norme, modificando l’equilibrio esistente con una volontà razionalizzatrice che si risolve, di fatto, in un totale sovvertimento :  

Era stato l’uomo a cancellare quella residua macchia del mondo, l’uomo astuto e potente che dovunque stabilisce sapienti leggi per l’ordine, l’uomo incensurabile che si affatica per il progresso e non può ammettere in alcun modo la sopravvivenza dei draghi, sia pure nelle sperdute montagne. 1  

L’intervento del narratore non potrebbe essere più esplicito, e conferma l’impressione che Buzzati abbia utilizzato in questo racconto modalità rappresentative non solo simboliche ma anche allegoriche, se è vero – come suggerisce Luperini – che l’allegoria si configura come strumento di una rappresentazione in cui emerge, di contro alla visione romantica fondata sull’illusione del rispecchiamento e della consonanza tra soggetto e natura, il senso di una definitiva e ineluttabile frattura, la consapevolezza dell’esclusione dell’uomo dall’unità indistinta del mondo naturale, rispetto al quale non è più possibile stabilire alcuna forma di comunicazione e di armoniosa correspondance. 2  

qualcuno te l’ha detto. Di questa notte i più non si accorgono, non sospettano nemmeno che esista, eppure è una netta barriera che si chiude d’improvviso. […] Tu domani sarai molto più forte, domani comincerà per te una nuova vita, ma non capirai più molte cose : non li capirai più, quando parlano, gli alberi, né gli uccelli, né i fiumi, né i venti » : D. Buzzati, Il segreto del Bosco Vecchio, Milano, Mondadori, 1993, p. 149. È chiaro, tuttavia, che ne L’uccisione del drago il motivo è complicato dalla presenza di una colpa specifica imputabile alla figura del personaggio-uomo. 1   UD, p. 81. 2   Cfr. R. Luperini, L’allegoria del moderno. Saggi sull’allegorismo come forma artistica del moderno e come metodo di conoscenza, Roma, Editori Riuniti, 1990, p. 214 : « Mentre il simbolo conduce il soggetto nel cuore del creato e ritesse, per via analogica, i nessi che lo riconnettono all’universale, il segno dell’allegoria è l’estraneità, la dissonanza, l’isolamento della parte rispetto al tutto ».  











ricerca e perdita del mito in due racconti degli anni ’ 40 63 3. Per un confronto intertestuale : l’immagine della frana ne « Il borghese stregato »  





Arrivati a questo punto può essere utile rintracciare le forme e le modalità con cui l’immagine della frana torna a presentarsi in altri testi di Buzzati. A questo proposito, il confronto più pertinente e, a nostro parere, decisivo, non può essere che quello con Il borghese stregato, 1 racconto appartenente alla raccolta Paura alla Scala, del 1949. È sufficiente leggere le prime pagine del racconto per imbattersi in una serie di immagini in cui si descrivono smottamenti, piccole frane, « valloncelli » delimitati da « fianchi di terra rossa, ripidi e crollanti ». 2 Ancora una volta, dunque, Buzzati rappresenta uno scenario naturale che appare caratterizzato da segni di instabilità e fragilità, e che sembra riproporre, come dimostrano alcune significative tessere testuali, 3 la stessa realtà paesistica che abbiamo incontrato analizzando L’uccisione del drago. È da notare, inoltre, come queste immagini – che inevitabilmente rimandano alla dimensione temporale, a qualcosa che dilegua e trascorre – siano costitutive di un paesaggio connotato nei termini di un’assoluta positività ; un paesaggio che il protagonista del racconto identifica immediatamente riconoscendovi caratteri e forme delle proprie proiezioni immaginarie, 4  

















1

  Tale confronto appare legittimato, anzitutto, sul piano dell’intreccio : si tratta infatti di un testo che presenta uno schema compositivo per molti versi analogo a quello che sorregge L’uccisione del drago. Si possono riconoscere, in particolare, le seguenti funzioni narrative, il cui modello di riferimento è dato dall’opposizione spaziale vicino/lontano : 1) l’allontanamento del protagonista, il quale, dopo aver lasciato l’albergo dove trascorre le vacanze insieme alla famiglia, si inoltra in una « valle di prealpi » ; 2) il momento della trasgressione, segnalato dall’incontro con i ragazzini e dalla decisione di prendere parte ai loro giochi ; 3) la punizione del protagonista, come evento conseguente alla trasgressione compiuta, in qualche modo necessitato dall’iniziale superamento del limite. 2  D. Buzzati, Il borghese stregato, in Id., Sessanta racconti, cit., pp. 135-141 : 136. (D’ora in avanti indicato con la sigla BS). 3   Si tratta, per lo più, di inserti di limitata estensione, ma che risultano estremamente importanti per stabilire una relazione tra i due racconti, almeno per quanto attiene alla definizione della cornice ambientale in cui si svolgono le vicende narrate. In particolare, oltre all’immagine dei « coni di terra rossa » (ivi, p. 138), che senza dubbio deriva da quella, perfettamente equivalente, dei « pilastri di terra rossa » che si trova ne L’uccisione del drago, si possono citare diversi sintagmi che si ripresentano, a volte con minime variazioni, da un racconto all’altro : « pareti crollanti » (UD) e « ripe crollanti » (BS), « innumerevoli piccole frane » (UD) e « piccole frane bisbiglianti » (BS), « franandogli la terra sotto le zampe » (UD) e « affondando i piedi nelle ghiaie sotto di lui frananti » (BS) ecc.   4   L’accostamento alla montagna – come avviene nel Deserto dei Tartari – implica un’esperienza di riconoscimento, un’azione di ‘recupero’ che riconduce la realtà esterna, attraverso l’adozione di una « prospettiva sbilanciata », alle sue origini in una dimensione essenzialmente interiore : « la montagna partecipa di un’ibrida natura semantica proprio perché si compone di più livelli di significato ; se corrisponde, per un verso, a proiezioni interiori accostandosi  

























































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il mito e l ’ altrove assetti e configurazioni che lo immettono in uno spazio assolutamente ideale, quello sognato e fantasticato al tempo dell’infanzia :  

A quella vista egli ebbe una gioia ; […]. Il valloncello non presentava speciale bellezza. Tuttavia gli aveva ridestato una quantità di sentimenti fortissimi, quali da molti anni non provava ; come se quelle ripe crollanti, quella abbandonata fossa che si perdeva chissà verso quali segreti, le piccole frane bisbiglianti giù dalle arse prode, egli le riconoscesse. Tanti anni fa le aveva intraviste, e quante volte, e che ore stupende erano state ; propriamente così erano le magiche terre dei sogni e delle avventure, vagheggiate nel tempo in cui tutto si poteva sperare [corsivi miei]. 1  







L’immagine della frana, oltre a costituire il correlativo di un senso di perdita e di minaccia, contiene dunque in sé, come elemento immediatamente significativo, un essenziale richiamo all’infanzia, un riferimento a quel mondo del possibile, del sogno e dell’immaginazione che si identifica, in questo caso, con l’evocazione delle « magiche terre » ; quel mondo fantastico e avventuroso che emerge con evidenza anche nelle pagine de L’uccisione del drago, là dove si accenna al cosiddetto « Burel », l’anfratto misterioso indicato come probabile tana del temibile animale. Ma è una dimensione, quella del sogno e della fantasia, che continuamente sfugge al protagonista del racconto, affondando e scomparendo come le ghiaie che franano sotto i suoi piedi : al pari dell’infanzia, la fantasia e l’immaginazione svaniscono dall’orizzonte della vita adulta, che può soltanto rimpiangerle o riviverne l’esperienza in una sorta di straniamento illusorio.  











4. Il senso (nascosto) di un’immagine Se ora torniamo a L’uccisione del drago, racconto in cui l’elemento-frana costituisce, come si è visto, un vero e proprio motivo conduttore, potremmo leggere l’immagine in questione, al di là di ogni facile quanto inadeguata identificazione simbolica, in senso propriamente allegorico, in quanto portatrice di un significato nascosto, che non si palesa direttamente nel testo ma che può essere individuato e riconosciuto attraverso un’operazione di tipo ermeneutico. 2 Anzitutto, appare evidente che il racconto non sviluppa la tematica esistenziale del cotidie morimur : non si tratta, insomma, di una riflessione sul  



a significazioni prossime alla sfera del simbolico, d’altro canto conserva tracce di realismo […] » : I. Crotti, Le montagne geografiche e metafisiche di Dino Buzzati, cit., p. 40. 1   BS, p. 136. 2  « I procedimenti allegorici si qualificano per il fatto che l’allegorema non è espresso direttamente dall’allegoresi. Per proprio stesso statuto, l’allegoria non viene mai dichiarata nel discorso. Il testo allegorico rinvia a un significato secondo che gli resta esterno. Dice una cosa per significare altro » : R. Luperini, Il dialogo e il conflitto. Per un’ermeneutica materialistica, Roma-Bari, Laterza, 1999, p. 90.  









ricerca e perdita del mito in due racconti degli anni ’ 40 65 tempo che consuma l’esistenza riducendone la durata in vista di una scadenza che appare sempre più prossima. Ciò è confermato, peraltro, dalla mancanza nel racconto di un personaggio che colga la dimensione temporale, che registri a livello di coscienza individuale lo scorrere del tempo e percepisca il senso di vertigine che si prova di fronte a questa continua, inarrestabile erosione. L’impressione, in altre parole, è che Buzzati si riferisca non tanto al « tempo che passa », 1 quanto al tempo che è già passato, concentrando la propria attenzione su quello che potremmo definire il tempo archetipico – e per ciò stesso insondabile 2 – del mito e della fiaba, ma anche del sogno e dell’immaginazione, al quale appartengono, per una tradizione che si può ricostruire fino alle sue origini nel mondo classico, le figurazioni dei draghi e di consimili creature. Se nel racconto buzzatiano vi è un riferimento a chrónos, questo non può che riguardare un evento che si è già compiuto in modo irreversibile e che ha determinato, in sostanza, la distruzione della tradizione millenaria dei miti e delle favole antiche : quelle favole che già Leopardi, al principio dell’Ottocento, doveva rimpiangere con accenti di accorata e dolente nostalgia e che costituivano – come scrive il Monti nel « sermone » Sulla mitologia – « l’alma […] del mondo ». 3 È chiaro, insomma, che l’immagine della frana viene qui utilizzata in un’accezione del tutto peculiare e che a essere tematizzata non è più la fuga del tempo soggettivamente vissuta – come avveniva nel Bàrnabo e nel Deserto dei Tartari – ma, piuttosto, la perdita dell’immaginario, la scomparsa di una dimensione, contigua ai territori del fantastico e del meraviglioso, 4 che si pone nel racconto come qualcosa di assolutamente altro, di alieno rispetto alla coscienza individuale dei personaggi, i quali si rapportano ad essa al solo scopo di negarla o di esorcizzarla. In effetti, Gerol e i suoi compagni di viaggio intraprendono la spedizione proprio con l’obiettivo di dimostrare la non esistenza del drago e,  





















1  F. Kermode, Il senso della fine. Studi sulla teoria del romanzo, trad. it. di G. Montefoschi e R. Zuppet, Milano, Sansoni, 2004, p. 43. Sul concetto di tempo nel mondo greco antico si veda anche U. Curi, L’apparire del bello. Nascita di un’idea, Torino, Bollati Boringhieri, 2013, pp. 26-27.   2   Sulla impossibilità di definire l’oggetto della parola mythos, restano valide, e in larga misura insuperate, le osservazioni di Furio Jesi : « L’oggetto in sé delle presunte “scienza” e “storia” del “mito”, dunque il mito, sfugge a qualsiasi conoscenza scientifica poiché è una sorta di oggetto fantasma che, non appena accenna a concretarsi in una data ipostasi, rinvia implicitamente la conoscibilità della sua essenza ad un’ipostasi precedente e inaccessibile oggi, perduta » : F. Jesi, Mito, Milano, isedi, 1973, p. 40. 3  V. Monti, Sulla mitologia, 52. 4   Afferma Henry Corbin – in un passo riportato da Hillman – che l’immaginario è costituito « dal fantastico, dall’orrido, dal mostruoso, dal macabro, dal sofferente e dall’assurdo », cioè da una serie di categorie che senza difficoltà possiamo ritrovare nelle pagine del racconto buzzatiano : cfr. J. Hillman, La vana fuga dagli dei, trad. it. di A. Bottini, Milano, Adelphi, 1991, p. 164.  













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il mito e l ’ altrove quindi, l’infondatezza delle relative leggende, ammettendo tutt’al più, sulla base di una banale quanto rassicurante ipotesi naturalistica, la possibilità di scovare un serpente di notevoli dimensioni :  

A Palissano, […], era da secoli leggenda che fra certe aride gole vivesse ancora uno di quei mostri. Ma nessuno l’aveva mai preso sul serio. Questa volta invece l’assennatezza del Longo, la precisione del suo racconto, i particolari dell’avventura […], persuasero che ci dovesse essere qualche cosa di vero e il conte Martino Gerol decise di andare a vedere. Certo egli non pensava a un drago ; poteva darsi tuttavia che qualche grosso serpente di specie rara vivesse fra quelle gole disabitate. 1  



Ma anche in seguito, di fronte all’effettiva presenza del drago, prevarrà l’incredulità, il dubbio circa la possibilità della sua reale esistenza. Si legga, a riprova, il brano seguente, dove è significativo l’utilizzo della forma ipotetica, che risulta fortemente dubitativa rispetto al riconoscimento dello status identitario dell’animale :  

L’essere emerse alla luce con dondolio tremulo come di biscia. Eccolo, il mostro delle leggende la cui sola voce faceva tremare un intero paese ! […] Se era un drago, era un drago decrepito, quasi al termine della vita [corsivo mio]. 2  



È da notare, infine, che nei brani in cui prevale la focalizzazione interna, cioè il punto di vista dei personaggi, si accorda generalmente la preferenza, in luogo del termine « drago », a espressioni come « bestiaccia » o « rettile », con evidente intenzione riduttiva 3 rispetto alla natura dell’animale :  















« Prendi » gridò sbeffeggiando uno dei cacciatori […]. E lanciò una pietra in direzione della bestiaccia. […] Rimasto qualche istante immobile, come intontito, il rettile cominciò ad agitare il collo e la testa lateralmente, in atto di dolore. […] « Guarda come balla ! » esclamò la bella Maria, presa anche lei dal crudele spettacolo. Allo spasimo della ferita la bestiaccia si era messa infatti a girare su se stessa, sussultando, con miserevole affanno [corsivi miei]. 4  





   



L’incredulità è la forma mentis che contraddistingue il protagonista del racconto, il cui atteggiamento permane sostanzialmente invariato sino alla fine, senza conoscere sviluppi o modifiche significative. 5 La stessa uccisio 

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2   UD, p. 67.   Ivi, p. 73.   Intenzione che raggiunge il culmine nella seguente riflessione di Andronico : « “Sembra uno scarafaggio in un catino” disse a bassa voce il governatore Andronico, parlando a se 4 stesso » : ivi, p. 75.   Ivi, pp. 73-74. 5   In direzione diversa, rispetto al personaggio di Buzzati, sembra muoversi l’Ulisse del Pascoli ne L’ultimo viaggio (1904) : in questo caso l’itinerario mentale dell’eroe procede dalla credulità – che è anche fedeltà a se stesso e rispecchiamento nella memoria del proprio vissuto – a una finale disillusione, allorché i luoghi e le figure del passato avventuroso gli si rivelano in una dimensione di assoluta banalità quotidiana, che rovescia il meraviglioso e lo straordinario (si pensi all’incontro con i Ciclopi) nella scoperta di una realtà ordinaria e del tutto 3











ricerca e perdita del mito in due racconti degli anni ’ 40 67 ne del drago, cioè l’atto che dovrebbe ristabilire, agli occhi del conte, un ordine inalterabile, non ingenera dubbi e non determina una sospensione di questa incredulità, ma si rivela anzi funzionale a un disegno che in qualche modo la rafforza e la conferma : « Ciò che l’uomo aveva fatto era giusto, esattamente conforme alle leggi ». 1 Viene così evidenziata l’estraneità rispetto alla dimensione del fiabesco che caratterizza alcuni personaggi del racconto (in particolare il conte e i due studiosi di scienze naturali), perfetti rappresentanti di un mondo moderno che si è progressivamente appiattito sulla realtà più evidente, rinunciando al sogno e alla facoltà di immaginare :  









Al giorno d’oggi, […], il fantastico non è più ammissibile : gli esseri soprannaturali sono diventati non soltanto improbabili, ma metafisicamente impossibili, in un mondo moderno sempre più frenetico e produttivo, sempre più rumoroso e veloce, che non li contempla in alcun modo. Le vecchie storie, del resto, sono ormai démodées, l’uomo civile non ha tempo da perdere con simili baie ; e le facoltà che lo predisponevano alla percezione del merveilleux – la poesia, il sogno, la fantasia, la speranza, l’illusione, […] – sono da tempo atrofizzate. 2  





Oggetto del discorso buzzattiano è quindi, ancora una volta, il tema della fantasia, che non è mai – come ha dimostrato Nella Giannetto – abbandono spensierato a una rêverie intesa come evasione dalla realtà e gioco fine a se stesso, ma, al contrario, assunzione di responsabilità, accettazione di un rischio che implica le possibilità estreme della morte e della sconfitta. 3 Ma è proprio questa la sfida che i personaggi del racconto sostanzialmente rifiutano : essi non sanno cogliere il significato profondo dell’avventura e finiscono quindi per ridurre l’evento eccezionale dell’incontro col drago a una sadica battuta di caccia, nel corso della quale non dimostreranno né generosità né audacia (e tantomeno disponibilità al sacrificio, visto che sarà proprio l’animale a immolarsi per i suoi piccoli, dimostrando di possedere quelle qualità eroiche che gli uomini sembrano avere definitivamente perduto). Ciò che Buzzati delinea, in definitiva, è una parabola sulla cancellazione di ogni forma di diversità e di varietas dall’immagine del mondo, in nome  



conforme a natura. Il processo di banalizzazione cui sono sottoposte le immagini mitiche rappresenta dunque, per l’autore bellunese, il punto di partenza, e non, come avviene nel poemetto pascoliano, l’esito finale. 1 2   UD, p. 81.  S. Lazzarin, op. cit., p. 37. 3   Al centro di questa tematica – che risulta decisiva per la comprensione dell’universo poetico buzzatiano – vi è « l’idea della dimensione fantastica vista non come evasione, fuga, ma come una conquista, che richiede forza, generosità, audacia, sacrificio » : N. Giannetto, Il coraggio della fantasia, in Ead., Il sudario delle caligini. Significati e fortune dell’opera buzzatiana, Firenze, Olschki, 1996, pp. 29-53 : 46.  







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il mito e l ’ altrove di un ordine razionale che ammette l’esistenza del conosciuto e del già noto, respingendo nello stesso tempo qualsiasi ipotesi che non rientri nelle categorie e nelle classificazioni abituali. Accade così che il pensiero di Buzzati si incroci con la riflessione che era stata di Leopardi, una riflessione avente per oggetto il progressivo, inarrestabile impoverirsi del mondo a causa di un’azione esplorativa e conoscitiva che inesorabilmente conduce a scoprirne i limiti e la finitezza, in un rapporto oppositivo per cui all’aumento della consapevolezza e delle cognizioni oggettive corrisponde, in ultima analisi, la presa di coscienza non solo della nullità del reale, ma anche della sua sostanziale omogeneità, la quale appare sommamente impoetica in quanto deriva dalla negazione delle antiche « fole ». Si ricordino al riguardo i versi della canzone Ad Angelo Mai (1820) :  





Nostri sogni leggiadri ove son giti Dell’ignoto ricetto D’ignoti abitatori, o del diurno Degli astri albergo, e del rimoto letto Della giovane Aurora, e del notturno Occulto sonno del maggior pianeta ? Ecco svaniro a un punto, E figurato è il mondo in breve carta ; Ecco tutto è simile, e discoprendo, Solo il nulla s’accresce. […]. 1  





5. La negazione del fiabesco Chi frequenta la narrativa di Buzzati sa bene come il Bellunese amasse guidare il proprio lettore facendogli seguire da vicino le orme e i percorsi dei suoi personaggi : percorsi in primo luogo interiori, legati a un itinerario di crescita e di scoperta di sé, ma quasi sempre articolati attraverso una realtà spaziale precisamente definita, a volte persino illustrata – come accade nel Bàrnabo – mediante l’inserimento nel testo di piantine e carte esplicative. Questa precisione nei riferimenti spaziali, quasi che Buzzati volesse fornire tutte le coordinate possibili per inquadrare gli spostamenti dei suoi personaggi, nasconde, come si sa, un’intenzione e una finalità assolutamente illusive, poiché è proprio in questi spazi, all’apparenza circoscritti e precisamente definiti, che può fare la sua comparsa l’elemento imprevisto, la presenza perturbante, il richiamo misterioso e irresistibile verso terre inesplorate e ignote. 2 Si direbbe anzi che la narrativa buzzatiana si con 



1

 G. Leopardi, Ad Angelo Mai, 91-100.   Sull’importanza del « senso del mistero » e della « interrogazione sul mistero » nella psicologia e nella scrittura di Buzzati, anche in riferimento ai paesaggi bellunesi che lo avevano affascinato – e il termine in questo caso è davvero pertinente ! – nell’infanzia e nell’adolescenza, si veda, ancora una volta, P. Dalla Rosa, Val Belluna e dintorni, cit., pp. 115-119 e p. 121. 2











ricerca e perdita del mito in due racconti degli anni ’ 40 69 centri in maniera ossessiva proprio su questo genere di ‘segnali’, creando le condizioni perché l’imprevisto si verifichi, la presenza si manifesti e il richiamo dell’altrove eserciti il suo potere di attrazione. 1 Ciò accade, a ben vedere, anche all’inizio de L’uccisione del drago, pur trattandosi, in questo caso, di una quête puramente negativa, dal momento che la spedizione viene intrapresa con l’obiettivo di dimostrare l’inesistenza dell’animale. Il problema, come si è visto, è che nel momento in cui avviene l’incontro, e il drago appare davanti a Gerol e ai suoi compagni, dimostrando la sopravvivenza di una scheggia di passato mitico nel cuore della montagna, prevarrà, in linea con le intenzioni dichiarate all’inizio, la volontà di eliminare ciò che viene percepito, letteralmente, come una « macchia del mondo », quella presenza di diversità e di alterità assoluta della quale non si vuole ammettere l’esistenza, in quanto retaggio di uno spazio e di un tempo che la razionalità non può riconoscere. Se si considera la fisionomia del drago, non si può fare a meno di notare, anzitutto, come Buzzati si discosti dalla tradizione mitografica e iconografica occidentale. 2 Contrapponendosi a una modalità di rappresentazione in cui il drago, come ricorda Borges, « è sempre stato considerato malvagio », 3 l’autore propone l’invenzione straordinaria di una creatura femminile, dal comportamento antropomorfo, premurosa e sollecita nei confronti dei propri figli, per la salvezza dei quali alla fine non esiterà a sacrificarsi. È insomma chiaro che Buzzati mira al rovesciamento del topos, delineando un ritratto dell’animale in cui vengono a mancare i tradizionali attributi di minacciosità e terribilità, un’immagine che non corrisponde alle aspettative e che suscita una reazione di attonita meraviglia, in cui lo stupore si mescola a una sensazione di improvviso sollievo :  















Tutti ebbero un tremito e trattennero il fiato scorgendo dalla bocca della caverna uscire cosa viva. Il drago ! Il drago ! gridarono due o tre cacciatori, non si capiva se con letizia o sgomento. […] « Oh, che brutto ! », esclamò Maria con evidente sollievo perché si era aspettata ben di peggio. « Forza, forza ! » gridò un cacciatore scherzando. E tutti ripresero sicurezza in se stessi. 4  





   



   



1

 « l’alta montagna è un paesaggio-momento-luogo sconosciuto. […], il confine tra solita vita e montagna in Buzzati è netto, il confine è una “porta”, è una “finestra”, oltre le quali ci sono gli “altrove” e i “lassù” » : Ead., « Al di sopra dei lucernari e delle guglie » : gli « altrove » intravisti da Dino Buzzati, in Ead., Dove qualcosa sfugge, cit., pp. 63-77 : 64. 2   Il fatto che l’autore si allontani dagli stilemi tradizionali, rendendo meno riconoscibile l’immagine del drago, non costituisce tuttavia un elemento problematico e si rivela, anzi, conforme a quella disposizione ‘fluida’ degli elementi testuali che è propria del racconto leggendario. Cfr. a questo proposito G. P. Caprettini, Semiologia del racconto, Roma-Bari, Laterza, 1992, p. 6. 3   J. L. Borges, Il libro degli esseri immaginari, a cura di T. Scarano, Milano, Adelphi, 2006, pp. 4 82-84 : 83.   UD, p. 73.  



















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il mito e l ’ altrove

Ma è soprattutto la « vecchiezza immensa » a connotare la figura del drago, alla quale manca, nell’azzeramento di ogni aspetto riconducibile al tremendum, la tradizionale componente di aggressività, di vitalità ostile e malefica :  





Non appariva infatti tremendo, il mostro, lungo poco più di due metri, […]. Più che la modestia delle dimensioni erano però i suoi movimenti stentati, […] l’apparenza complessivamente floscia del corpo a spegnere le paure. L’insieme esprimeva una vecchiezza immensa. 1  

La caratterizzazione in positivo dell’animale, evidenziata dall’attribuzione di sentimenti e comportamenti antropomorfi improntati a cura e sollecitudine materne, problematizza il riconoscimento del monstrum e trasferisce ogni valutazione negativa sulla figura del conte Gerol. Quest’ultimo, in effetti, appare responsabile di un’azione che non ha nulla di salvifico o di liberatorio, come poteva essere, ad esempio, l’uccisione del drago ad opera di san Giorgio, finalizzata, stando al racconto che ne fa Iacopo da Varazze, alla salvezza della figlia del re e all’affrancamento della città di Silena da una gravosa e terribile servitù. 2 I due racconti – quello buzzatiano e quello incluso nella Legenda aurea – si collocano così su piani del tutto antitetici, al punto che la morte del drago assume significati fra loro inconciliabili : segno di liberazione e rinascita per l’intera comunità nel caso del racconto di Iacopo da Varazze, atto gratuito e manifestazione dell’ottusità dell’uomo per quanto riguarda il racconto di Buzzati. In questo modo, sottraendo al drago la componente della malvagità e facendone un emblema di sollecitudine materna, la sua uccisione non può che configurarsi come un atto di intollerabile e gratuita crudeltà, il che esclude a priori qualsiasi ipotesi di identificazione eroica riferita al protagonista del racconto, il quale ricalca le orme dei personaggi classici o cristiani solo in apparenza, dal momento che gli esiti della sua azione sono antitetici rispetto a quelli conseguiti dalle suddette figure, il cui intervento è di norma volto al ripristino di un ordine minacciato o perduto. 3 E in effetti l’uccisione del drago dà luogo a una conclusione in cui l’ordine precedente appare non solo alterato ma addirittura sconvolto, determinando una situazione finale in cui la consapevolezza del misfatto compiuto si accompagna a un’attesa di punizione, al senso di colpa che consegue all’evidente sovvertimento dell’ordine naturale, con l’inevitabile dispersione del gruppo umano convenuto al Burel al seguito della spedizione.  





1

  Ibidem.     Cfr. I. Da Varazze, San Giorgio, in Id., Legenda aurea, a cura di A. e L. Vitale Brovarone, 3 Torino, Einaudi, 1995, pp. 325-331.   Cfr. G. P. Caprettini, op. cit., p. 11. 2

ricerca e perdita del mito in due racconti degli anni ’ 40 71 L’uccisione del drago evidenzia dunque il proprio modello di riferimento (la dimensione del fiabesco) al solo scopo di negarlo, dimostrando l’impossibilità di un suo recupero integrale attraverso la strutturazione di un vero e proprio antimodello. Il racconto, come dicevamo all’inizio, si inserisce in una tradizione ben riconoscibile, cui sembra aderire sul piano dello schema narrativo, nella scelta e nella disposizione delle sequenze, ma finisce poi per allontanarsene, contestandola attraverso il rovesciamento dei topoi e la mancata soddisfazione delle attese del lettore, il quale è invitato a cogliere gli elementi di distacco e di differenziazione rispetto ai modelli di riferimento. Buzzati propone insomma un’‘antifiaba’, attraverso la quale dimostra come le forme e le strutture narrative tradizionali possano essere sì riutilizzate, ma solo a patto di svuotarle dall’interno, prendendone le distanze e facendone elementi di un discorso metanarrativo che metta in evidenza la non conciliabilità di quelle strutture e di quelle forme con una visione raziocinante e livellatrice, la quale si oppone all’esistenza del fiabesco negandolo nella sua specificità di « universo meraviglioso che si affianca al mondo reale senza sconvolgerlo e senza distruggerne la coerenza ». 1 Ma è proprio questo il punto : l’ingresso di Gerol e dei suoi amici in un mondo assolutamente ‘altro’, ossia nella dimensione parallela della leggenda e della fiaba, conduce a una percezione di quel mondo che ne evidenzia la sostanziale inaccettabilità, come se esso rappresentasse una minaccia alla sopravvivenza di ciò che Caillois definisce il « mondo reale ». Si potrebbe allora dire, adottando il modello semiologico lotmaniano, che la spedizione del conte Gerol altro non è che un tentativo di eliminare l’« ‘anticampo’ semantico » 2 attraverso la sua assimilazione e reintegrazione all’interno dello spazio primario, quello che delimita il cosiddetto « mondo reale ». Mentre da una parte il racconto buzzatiano pone l’esigenza di recuperare un rapporto con le forme tradizionali della narrazione e, in particolare, con le strutture e i codici del fiabesco, dall’altra sembra suggerire come l’unica strada percorribile per il recupero di queste forme sia quella della decostruzione, della revisione e della ‘presa di distanza’ : venuta meno la possibilità di un’adesione ingenua e immediata alle forme del fiabesco, l’autore moderno si trova a fare i conti con un elemento critico e razionalizzante, che in qualche misura decostruisce il meccanismo stesso del racconto allorché evidenzia la mancanza di alcuni presupposti fondamentali, di ordine mentale e psicologico, che  























1  R. Caillois, Dalla fiaba alla fantascienza, a cura di P. Repetti, Roma-Napoli, Theoria, 19851991, p. 19. 2   Ju. M. Lotman, La struttura del testo poetico, a cura di E. Bazzarelli, Milano, Mursia, 19721985, p. 284.

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il mito e l ’ altrove sono funzionali non solo alla sua creazione, ma anche alla sua fruizione da parte del lettore. Alla piena accettazione dell’inverosimile – che è tratto costitutivo dell’universo fiabesco e condizione preliminare per chi voglia avvicinarvisi 1 – si sostituisce, in questo modo, una evidente ‘sospensione della credulità’, un’istanza dubitativa che coinvolge non solo il protagonista ma anche il lettore, dando luogo, piuttosto che a una hésitation di tipo fantastico, a una serie di interpretazioni fra loro alternative in cui la presenza e la necessità del soprannaturale risultano fortemente ridimensionate. Non è dunque un caso – come è stato osservato – che Buzzati autorizzi prospettive di lettura fra loro diversificate, attraverso la proposta di un finale aperto che può essere interpretato, in modo del tutto accettabile, al di fuori di qualsiasi prospettiva riconducibile all’universo del meraviglioso e/o del soprannaturale. 2 È, questa, un’ambiguità voluta e ricercata, funzionale alla definizione di un testo che contiene in sé, come si è detto, il proprio antimodello, le ragioni critiche che presiedono alla decostruzione dei suoi stessi elementi strutturali e contenutistici. Gli antichi, ancestrali miti in cui gli uomini potevano ancora apparire come eroi e gli animali come creature soprannaturali rimangono dunque sullo sfondo del racconto, che può essere letto, di conseguenza, come una parabola sulla fine del mondo fiabesco ; la favola – che Buzzati sottopone alla critica implacabile dei fattori razionali della demitizzazione – finisce così per negare se stessa, dicendo dell’impossibilità, per l’autore moderno, di recuperare le favole antiche, di ritrovare nella sua intatta, originaria purezza il mondo dell’infanzia e, con esso, l’esperienza eversiva e liberatoria del sogno e della fantasia.  





6. « Il borghese stregato »  



Il modello di analisi topologica del Lotman costituisce un valido strumento d’indagine anche nel caso de Il borghese stregato, racconto in cui il pae1   Stefano Calabrese osserva giustamente che i lettori di fiabe « danno per scontate l’inverosimiglianza e l’inadempienza referenziale di un testo raramente preoccupato di accreditare la plausibilità del racconto attraverso interventi da parte del narratore o la finzione del testimone oculare […] » : S. Calabrese, op. cit., p. 2. 2   L’interpretazione soprannaturale – che porta a riconoscere nel drago un vero e proprio « mostro magico » – costituisce solo una delle possibili chiavi di lettura del racconto, e non esclude le altre interpretazioni, come quelle orientate in una direzione puramente razionalistica e, per ciò stesso, antifiabesca : « Il racconto si chiude sulle note secche e lugubri degli indomabili colpi di tosse dell’uccisore del drago, mentre due fili di fumo si levano dalla carcassa del mostruoso animale. Un personaggio secondario, all’inizio, ha ricordato una diceria che vuole velenosi quei fumi : il temerario cacciatore sta dunque per morire o la sua non è che una tosse nervosa, frutto dell’emozione e delle fatiche affrontate ? Lo scrittore non dice nulla di decisivo in un senso o nell’altro […] » : N. Giannetto, Sessanta racconti e una lingua da scoprire, cit., p. 50, nota 117.  





















ricerca e perdita del mito in due racconti degli anni ’ 40 73 saggio svolge un’importante funzione, come peraltro quasi sempre avviene nella narrativa di Buzzati. Ma al di là del paesaggio geografico, e delle diverse varianti con le quali si presenta nel testo, 1 conta soprattutto l’organizzazione delle strutture spaziali e, quindi, il dislocarsi dei limiti, delle frontiere che individuano quelli che Lotman definisce i « sottospazi » del testo. 2 Ed è proprio l’idea di una frontiera a essere marcata a livello testuale, con una sottolineatura che evidenzia per ben due volte la presenza di un limite, al di là del quale si apre un mondo ‘altro’, una dimensione dello spazio, e quindi della realtà, che non risulta subito visibile e che pertanto si rivela gradualmente al protagonista del racconto :  









Giuseppe Gaspari, […], arrivò un giorno d’estate al paese di montagna dove sua moglie e le bambine erano in villeggiatura. Appena giunto, […], egli uscì da solo a fare una passeggiata. […] Per curiosità lasciò […] la mulattiera e, facendosi strada tra i cespugli, raggiunse la schiena della ripa. Là dietro, sottratto agli sguardi di chi seguiva la via normale, si apriva un selvatico valloncello, dai fianchi di terra rossa, ripidi e crollanti. proprio sotto, dietro a un’ingenua siepe di paletti e di rovi, cinque ragazzetti stavano confabulando [corsivi miei]. 3  

Ora, è evidente che i due demarcatori, il « selvatico valloncello » e la « siepe di paletti e di rovi », possono essere assunti come perfetta esemplificazione del concetto lotmaniano di confine : 4 sono infatti elementi che svolgono una funzione strutturale di separazione, pur senza impedire il passaggio del protagonista, che può transitare da uno spazio all’altro, fino a raggiungere quello che possiamo definire, ricorrendo ancora una volta alla terminologia lotmaniana, l’‘anticampo’ semantico. Il momento di questo passaggio è precisamente definito a livello testuale, e coincide con l’istante in cui il Gaspari ritrova nella realtà esterna le proprie proiezioni interiori, riconoscendo in essa « le magiche terre dei sogni e delle avventure, vagheggiate nel tempo in cui tutto si poteva sperare ». 5 Ed è qui, con l’introduzione del tema della regressione all’infanzia, che si definisce la dialettica fondamentale del personaggio : una dialettica tesa tra il rifiuto del proprio status esistenziale – che il Gaspari vive con un  







   









1

  A questo proposito si rimanda all’analisi della Giannetto, la quale ha osservato come il paesaggio alpino che incontriamo in questo racconto sia declinato « in tre “versioni” diverse che si succedono l’una dopo l’altra e poi finiscono col sovrapporsi » : N. Giannetto, Il sogno, il gioco, la fantasticheria : lettura de « Il borghese stregato », in Ead., Il sudario delle caligini, cit., pp. 55-73 : 62. Si veda inoltre P. Dalla Rosa, Lassù… laggiù… : il paesaggio veneto nella pagina di Dino Buzzati, Venezia, Marsilio, 2013, pp. 92-93. 2 3   Ju. M. Lotman, op. cit., p. 272.   BS, pp. 135-136. 4  Cfr. Ju. M. Lotman, op. cit., p. 272. 5   A questo proposito si rimanda alla nota 1 di p. 64  















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il mito e l ’ altrove senso di disagio riconoscendovi la causa della propria insoddisfazione – e l’aspirazione a una dimensione dell’essere radicalmente diversa, a un’alterità che lo liberi dalle costrizioni e dai limiti connessi all’accettazione del ruolo sociale :  

Aveva sperato che il posto fosse in una romantica valle con boschi di pini e di larici, recinta da grandi pareti. Era invece una valle di prealpi, chiusa da cime tozze, a panettone, che parevano desolate e torve. […] E con amarezza considerava come tutta la sua vita fosse stata così : niente in fondo gli era mancato ma ogni cosa sempre inferiore al desiderio, una via di mezzo che spegneva il bisogno, mai gli aveva dato piena gioia. 1  



Si tratta, d’altra parte, di una dialettica intimamente contraddittoria, da cui non può scaturire alcuna soluzione di segno positivo : identificare il cronotopo dell’infanzia con il « tempo in cui tutto si poteva sperare » equivale a riconoscere – come suggerisce l’utilizzo dell’imperfetto – l’invalicabile distanza che separa da quel periodo e da quella dimensione dell’esistenza. La stessa apertura nei confronti del possibile, che è propria ed esclusiva dell’infanzia, 2 non è altro che una condizione temporanea destinata a svanire con il sopraggiungere dell’età adulta, la quale impone, come ha scritto Magris, lo sviluppo unilaterale delle proprie potenzialità, e quindi la chiusura dell’individuo negli schemi e nei ruoli previsti dall’organizzazione sociale. 3 La colpa del Gaspari – che in seguito verrà circostanziata quale ‘sconfinamento’ nel mondo delle favole – è quindi adombrata fin dall’inizio, e s’identifica con lo straniamento del personaggio, il quale smarrisce le abituali coordinate spazio-temporali nel momento in cui si lascia andare al sogno di recuperare la dimensione mitica dell’infanzia, all’illusione di poter tornare a quel mondo della libertà e della disponibilità assoluta che gli è di fatto, per le ragioni menzionate più sopra, del tutto precluso. In questo modo la morte del protagonista – su cui si chiude il racconto – costituisce  









1

  BS, p. 135.  « dentro e davanti all’infanzia scorrono lo scenario del possibile, l’immaginario fantastico, ardimentose costruzioni, germi di vita, frammenti di verità. All’infanzia è concessa la facoltà di “vedere” e di “sentire” l’“oltre”, ma anche quella di poter semplicemente sognare, nutrire quelle “potentissime speranze” che gli consentono di pensare alle cose più belle della vita considerandole dei sogni realizzabili » : M. Formenti, L’infanzia nell’universo buzzatiano, « Studi buzzatiani », i, 1996, pp. 45-66 : 49. 3  « Il soggetto si sente in armoniosa e innocente unità con se stesso e con la vita, che gli appare tutta piena di senso. […] Questa condizione originariamente poetica finisce, secondo Hegel, con la moderna età del lavoro, uno stadio adulto che prescrive dei fini oggettivi a cui l’individuo deve tendere anche contro la sua individualità, adeguandosi al progresso sociale che esige la sua specializzazione ossia la riduzione del suo sviluppo personale, la rinuncia alla formazione completa della sua personalità, a favore di un potenziamento unilaterale della sua specializzazione professionale » : C. Magris, Grande stile e totalità, in Id., L’anello di Clarisse. Grande stile e nichilismo nella letteratura moderna, Torino, Einaudi, 1984, pp. 3-31 : 14. 2





















ricerca e perdita del mito in due racconti degli anni ’ 40 75 non solo la prova del suo riscatto personale attraverso il superamento della banalità quotidiana, ma anche il segno di un’esclusione, un richiamo inequivocabile alla irrecuperabilità del mondo infantile dei sogni e dell’evasione fantastica : quel mondo dei « felici errori » e delle « belle fole » che appartiene, nella prospettiva leopardiana, a un’età non ancora toccata dalla consapevolezza del « duolo » quale sostanza e fondamento primo dell’esistere :  















[…] Di vanità, di belle Fole e strani pensieri Si componea l’umana vita : in bando Li cacciammo : or che resta ? or poi che il verde È spogliato alle cose ? Il certo e solo Veder che tutto è vano altro che il duolo. 1  









È da notare, peraltro, che il discorso leopardiano abbraccia una prospettiva storica estremamente ampia, articolandosi su un arco che va dall’epoca antica all’età moderna, mentre Buzzati si concentra esclusivamente sulla parabola della vita individuale : una parabola in cui è però verificabile la stessa cesura individuata da Leopardi fra un ‘prima’ e un ‘dopo’, fra un’età dominata dallo slancio eroico e dalla forza immaginativa – esemplificati attraverso le figure di Colombo e dell’Ariosto – e una fase, successiva, di totale disillusione, in cui la conoscenza oggettiva e razionale del mondo finisce per annullare ogni « caro immaginar ». Fantasia e immaginazione appartengono dunque all’infanzia del mondo e al passato individuale, 2 mentre l’epoca moderna e l’età adulta non possono che configurarsi come il luogo dell’accettazione del vero, in cui prevale una realtà razionalmente determinata, che non lascia, almeno in apparenza, alcuna via di fuga. Le soluzioni alternative, come quelle che si aprono « in una prospettiva di favoloso eroismo », 3 non possono che porsi sotto il segno della trasgressione ed esigono, secondo lo « schema compositivo » individuato dalla Crotti, 4 una conseguente, inevitabile punizione : « Egli [il Gaspari], naturalmente, non può non morire, perché ha voluto tornare alle magiche terre, evocare le ‘rupi’ e le ‘frane’ che rappresentano l’immagine tangibile del proibito, della tentazione dell’affermazione individuale-eroica, […] ». 5  



























1

 G. Leopardi, Ad Angelo Mai, 115-120.  « ma conosciuto il mondo / Non cresce, anzi si scema, e assai più vasto / L’etra sonante e l’alma terra e il mare / Al fanciullin, che non al saggio, appare » : ivi, 87-90. 3  A. Veronese Arslan, op. cit., p. 138. 4  « Lo schema significante è, […], questo : felicità iniziale, trasgressione-colpa, cacciata, punizione, purificazione, riammissione degradata. Ci si sofferma su questo schema compositivo poiché è di primaria importanza per buona parte dell’opera di Buzzati ; […] » : I. Crotti, Dino 5 Buzzati, cit., p. 11.  A. Veronese Arslan, op. cit., p. 87. 2

















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il mito e l ’ altrove Non è difficile, rileggendo il racconto, ritrovare i momenti essenziali di questa dialettica tra mondo infantile ed età adulta, soprattutto se consideriamo che il Gaspari riesce a penetrare nella dimensione della fantasia solo attraverso uno sforzo supremo della volontà, facendo di tutto per credere alla verità del gioco, attingendo alle risorse – come scrive Buzzati – di una « fede pesante e rabbiosa » : 1 ma è proprio questa tensione volontaristica, questa forma estrema di auto-persuasione e auto-convincimento (laddove i ragazzi mantengono invece un certo distacco, come notava Giuliano Gramigna), 2 a mettere in evidenza l’alterità assoluta di quel mondo in cui egli vorrebbe tornare a credere e quindi l’irrecuperabilità della dimensione del gioco e dell’evasione, la quale gli sfugge proprio perché non è più possibile aderirvi spontaneamente, con « angelica leggerezza », 3 ma solo in virtù di uno sforzo predeterminato, di una scelta consapevole della volontà. Ci sembra, a questo punto, che l’analisi del testo rafforzi la nostra interpretazione, in qualche modo alternativa a quella che riconosce nella parabola del Gaspari un itinerario di sublimazione e supremo riscatto. Se è vero, in altre parole, che il protagonista è animato da un’indubbia tensione eroica, e che il racconto delle sue avventure acquista « una vera e propria cadenza epica », 4 ciò non implica – come cercheremo di dimostrare – che la dimensione dell’eroismo venga poi effettivamente raggiunta ; la conclusione del racconto appare infatti orientata in una direzione esattamente opposta, e sembra suggerire, attraverso l’immagine del protagonista che abbandona il « valloncello » delle eroiche illusioni per rientrare nel mondo detestabile della mediocrità borghese, il senso ineludibile di una tensione insoddisfatta, di un tentativo frustrato :  



   























Ritornò all’albergo che già scendeva la sera. Era sfinito. E si lasciò andare su una panchina, di fianco alla porta di ingresso. Gente entrava ed usciva, qualcuno lo salutò, altri non lo riconobbero perché era già scuro. 5  

Il brano, con cui si apre la seconda parte del racconto, risulta, per più motivi, estremamente significativo : non solo per l’improvvisa interruzione della « cadenza epica » che contraddistingue le sequenze precedenti, ma anche perché segnala la presenza di un evidente taglio ellittico nella narrazione (si tenga presente che il passo citato risulta separato da una spaziatura ri 





1

  BS, p. 141.   Cfr. G. Gramigna, Prefazione a D. Buzzati, Romanzi e racconti, a cura di G. Gramigna, Milano, Mondadori, 1975, pp. xi-xlv : xix. Del tutto diversa è invece la lettura di Mara Formenti, la quale scrive che « il gioco ai selvaggi è solo un gioco. Ma per i bambini la finzione non esiste, […] » : M. Formenti, L’infanzia nell’universo buzzatiano, cit., p. 52. 3  « Sì, lui, quarantenne, si era messo a giocare coi bambini, credendoci come loro ; solo che nei bambini c’è una specie di angelica leggerezza ; […] » : BS, pp. 140-141. 4 5  N. Giannetto, Il coraggio della fantasia, cit., p. 47.   BS, p. 140. 2



















ricerca e perdita del mito in due racconti degli anni ’ 40 77 spetto a quanto precede, e che segue una brevissima frase, quella in cui si riferisce della caduta tra i rovi del protagonista, colpito al petto da « un uncino di legno, innocuo dardo »). 1 Non è un caso, d’altra parte, che un’intera sequenza venga saltata e che non si racconti il percorso che riporta il Gaspari al punto di partenza, all’albergo dove lo attendono la moglie e le figlie : mentre il recupero della dimensione perduta dell’infanzia esige un itinerario progressivo di scoperta e di conoscenza – ben restituito attraverso le prime sequenze del racconto –, la fase successiva, quella dell’allontanamento e del ritorno, non può che compiersi in modo istantaneo, frapponendo fra il personaggio e lo spazio ‘eroico’ un limite invisibile che non potrà in alcun modo essere valicato una seconda volta. È come se un muro si ergesse d’improvviso a separare il personaggio dalla dimensione del sogno e dell’avventura, che egli si illude di avere riconquistato : qualcosa di simile alla « netta barriera » che, nel Segreto del Bosco Vecchio, segnava il trapasso dall’infanzia alla maturità, da una disposizione di comunicazione col mondo naturale alla chiusura nella razionalità tipica dell’età adulta. Se da una parte, come ha osservato la Veronese Arslan, a entrare in crisi è il rapporto con il mondo fiabesco, che viene vissuto con un senso di perdita e di distanza incolmabile, dall’altra è evidente come non possa darsi una pura e semplice riproposizione del modello eroico, almeno nei termini in cui questo è stato tradizionalmente formulato. E in effetti, rileggendo con attenzione il racconto, si può notare che il profilo del protagonista si presenta assai più problematico di quanto non appaia a una prima lettura. Risultano significativi, a questo proposito, alcuni inserti di pensiero indiretto libero che restituiscono le riflessioni del personaggio, il quale si appresta a morire provando un esaltante senso di rivincita nei confronti della intollerabile banalità della vita borghese :  















Oh, lo aspettassero per pranzo moglie, figlie, compagni d’albergo, lo aspettassero per il bridge della sera ! La pastina in brodo, il manzo lesso, il giornale radio : c’era da ridere. Lui, uscito dai tenebrosi recessi del mondo ! […] Lui vero uomo, finalmente, non meschino. Eroe, non già verme, non confuso con gli altri, più in alto adesso. E solo. 2  







La percezione di sé in termini eroici sembra appartenere, quindi, al solo protagonista, come risulta dal passaggio finale del racconto, dove l’inserimento di un pensiero diretto libero indica l’emergere di una prospettiva interamente soggettiva :  

La testa pendeva sul petto, come si conveniva alla morte, e le raggelate labbra continuavano a sorridere un poco, significando disprezzo, ti ho vinto miserabile mondo, non mi hai saputo tenere. 3  

1

  Ivi, p. 139.

2

  Ivi, p. 141.

3

  Ibidem.

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il mito e l ’ altrove

Ma non mancano inserti testuali, che possiamo riferire all’iniziativa della voce narrante, in cui pare di cogliere una diversa consapevolezza, e in cui ritornano i motivi dell’esclusione e della perdita definitiva, il senso di non appartenenza e di totale estraneità :  

Egli era entrato nel mondo non più suo delle favole, oltre il confine che a una certa stagione della vita non si può impunemente tentare. […] Pagava dunque l’arduo incantesimo, il riscatto ; era andato troppo lontano per poter ritornare ; […]. 1  





In questo caso il discorso presenta peraltro una sfumatura di maggiore ambiguità, 2 come risulta in particolare dall’affermazione conclusiva, che suona vera e falsa a un tempo. Risulta falsa, anzitutto, se la leggiamo secondo la logica dei rapporti spaziali : è infatti evidente che il personaggio, dopo l’espulsione dallo spazio eroico in cui è riuscito a introdursi, è di fatto impossibilitato a farvi ritorno, e si trova costretto, di conseguenza, a rientrare nella dimensione della banalità quotidiana dalla quale si era illuso di poter evadere (a suggerire, anche in questo caso, che la permanenza nel « paese delle maledizioni e dei miti » 3 non può essere altro che temporanea e provvisoria). Nello stesso tempo, se consideriamo i movimenti del personaggio secondo un’ottica essenzialmente interiore, si può dire che il Gaspari sia andato davvero « troppo lontano », tanto da estraniarsi in una sorta di lontananza mentale e psicologica che gli preclude il ritorno al punto di partenza. Si tratta, com’è evidente, di due prospettive diametralmente opposte : prospettive che sottendono, l’una, l’idea di una parabola negativa e discendente, con la quale si ribadisce l’impossibilità di evadere dalla propria realtà esistenziale, e, l’altra, la possibilità salvifica di affermare la propria estraneità al mondo circostante, cui è possibile sottrarsi per mezzo della propria capacità di illusione e di auto-convincimento. Resta da chiarire, a questo punto, quale sia il significato da attribuire all’evento conclusivo del racconto, cioè alla morte del protagonista causata dalla freccia-giocattolo. È chiaro, da una parte, che la morte del Gaspari può essere letta in termini puramente metaforici : il personaggio ‘muore’ nella misura in cui si sottrae al condizionamento di uno stato sociale che lo annulla nella sua umanità, impedendogli di essere e divenire ‘altro’, di realizzare le proprie potenzialità al di là di ciò che è previsto dal ruolo socialmente riconosciuto. Risulta invece problematica – e sarà quindi da verificare – l’ipotesi di identificazione con un modello eroico pienamente riconoscibile : la mor 



















1

  Ibidem.   A questo proposito cfr. N. Giannetto, Il sogno, il gioco, la fantasticheria, cit., p. 61. 3   BS, p. 139. 2

ricerca e perdita del mito in due racconti degli anni ’ 40 79 te del Gaspari, anziché configurarsi come una vera e propria apoteosi, sembra collocarsi nella linea di un eroismo ‘negativo’, che nasce da una convinzione esclusivamente personale, e non da un riconoscimento pubblicamente condiviso. La proiezione eroica, in effetti, è un fatto del tutto individuale, che si riduce a un dirsi interiore del protagonista, cui non corrisponde alcun riconoscimento, alcuna ‘presa d’atto’ da parte degli altri personaggi. Non sarà quindi un caso che la morte ‘eroica’ del protagonista avvenga davanti all’ingresso dell’albergo, in uno spazio assolutamente non eroico, saturo dei segni che riportano all’universo immutabile della banalità quotidiana e abitato da una presenza umana – quella della moglie – che non sembra rendersi conto di nulla :  

« Beppino » chiamò la moglie da una terrazza sovrastante dove erano preparate le tavole all’aperto. « Beppino, che cosa fai là seduto ? E cosa hai fatto fino adesso ? […] Lo sai che sono passate le otto ? Noi abbiamo una fame… ». 1  















Altrettanto significativo è il fatto che i clienti dell’albergo passino davanti al Gaspari senza prestare la minima attenzione alla freccia conficcata nel suo petto, cioè al segno che dovrebbe rivelare la distinzione e l’eccezionalità eroica :  

Gente entrava ed usciva, qualcuno lo salutò, altri non lo riconobbero perché era già scuro. Ma lui non badava alla gente, chiuso intensamente in se stesso. E nessuno di quanti passavano si accorgeva che nel mezzo del petto egli portava confitta una freccia. 2  

Un fatto che si può spiegare in termini puramente razionali, individuandone la causa nel buio che invade la scena o, addirittura, nella inesistenza della suddetta freccia, 3 ma che può essere meglio valorizzato, secondo la logica di un racconto che utilizza con precisione la lingua dei rapporti spaziali, recuperando le indicazioni del Lotman sulla suddivisione dello spazio del testo in due ambiti complementari ma non sovrapponibili, separati da un « confine » che può essere superato solo dal protagonista. 4 Considerata in questa prospettiva, la morte del Gaspari non è altro che la conseguenza degli avvenimenti che si sono svolti nel « valloncello », ov 











1

2   Ivi, p. 141.   Ivi, p. 140.   Cfr. N. Giannetto, Il sogno, il gioco, la fantasticheria, cit., p. 61, nota 8. 4   Siamo quindi in presenza di un testo « a intreccio » in cui agisce un personaggio « mobile », cioè una figura alla quale è consentito di superare il « limite proibito sostenuto dalla struttura senza intreccio » : Ju. M. Lotman, op. cit., p. 281. Aggiunge inoltre Lotman : « In relazione al limite del campo semantico dell’intreccio, il protagonista si comporta in modo da superarlo, mentre il limite agisce come ostacolo. Per questo, nel testo, tutti i tipi di ostacolo saranno di regola concentrati sul limite e strutturalmente si presenteranno come una sua parte. […] in senso strutturale essi hanno tutti la medesima funzione : realizzano il passaggio da un campo semantico a un altro (più complicato), e inoltre inaccessibile a tutti tranne che al protagonista […] » : ivi, p. 284. 3

























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il mito e l ’ altrove vero in quel sottospazio che nel testo appare topologicamente demarcato e che si identifica, come abbiamo visto, con la dimensione del possibile e del meraviglioso. A questo punto, ammettendo col Lotman l’esistenza di « due spazi che non si intersecano l’un l’altro », 1 risulta evidente che l’evento-morte può anche non essere in alcun modo percepito da coloro che incontrano il Gaspari al ritorno dalla sua passeggiata, proprio perché si tratta di un evento che continua ad appartenere a un ordine spaziale assolutamente altro, a una dimensione – che è insieme geografica ed esistenziale – che riguarda in modo esclusivo il protagonista del racconto e che non può essere, di conseguenza, partecipata ad altri soggetti :  







Oh, lui adesso non tornava certo dal valloncello domestico a pochi minuti dall’albergo Corona. Bensì tornava da remotissima terra, sottratta alle irriverenze umane, regno di sortilegi, pura ; […]. 2  



La scelta di Buzzati è chiara, e non ha nulla di casuale : chi poteva riconoscere il supremo valore dimostrato dal Gaspari, chi poteva attribuire al suo comportamento un significato di autentico eroismo, rimane all’oscuro degli estremi sviluppi della vicenda e non potrà in alcun modo rendersi conto delle fatali conseguenze di quanto è avvenuto nel corso della ‘battaglia’. I ragazzi continueranno a pensare al Gaspari come a un adulto che ha giocato con loro dimostrando un trasporto inusuale e un notevole grado di identificazione, ma non potranno in alcun modo considerarlo un eroe, proprio perché necessitati a ignorare una morte che avviene al di fuori dell’ambito spaziale di loro pertinenza e che appare sottratta, di conseguenza, a quell’‘anticampo’ semantico all’interno del quale avrebbe potuto acquistare senso e valore, ponendosi come segno inequivocabile di compimento e autorealizzazione. È chiaro, a questo punto, che quella del Gaspari non è soltanto una morte che avviene in solitudine, ma soprattutto una morte in-visibile, una morte che appare sottratta alla vista degli altri e che si nega, per ciò stesso, a qualsiasi forma di considerazione sociale, a quel generale e condiviso apprezzamento che in età classica inaugura e costituisce il mito eroico all’interno di una tradizione in cui si trasmettono gesta e valori fondativi. 3  



1

2   Ivi, p. 272.   BS, p. 140.  « esistere – da vivi e da morti – significa essere riconosciuti, stimati, onorati, ma soprattutto venire glorificati : diventare cioè l’oggetto di una parola di lode, di un racconto che narra, […], un destino ammirato da tutti. […] Attraverso la pubblica fama delle imprese cui si è dedicato totalmente, l’eroe continua […], a essere presente a modo suo nella comunità dei vivi. La sua figura, diventata leggendaria, forma, […], la trama permanente di una tradizione che ogni generazione deve apprendere e far sua, per avere pieno accesso, mediante la cultura, alla vita sociale » : J.-P. Vernant, L’individuo, la morte, l’amore, trad. it. di A. Ghilardotti, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2000, p. 47. 3









ricerca e perdita del mito in due racconti degli anni ’ 40 81 In tal modo, mentre da una parte la tensione eroica si pone nei termini di un’aspirazione destinata a rimanere insoddisfatta, come dimensione che si può di continuo ricercare, ma alla quale non è possibile pervenire, dall’altra si accampa in primo piano l’esperienza di una morte che, negandosi al riconoscimento ‘esterno’, non corrisponde al modello classico della bella morte, e tuttavia assume un significato essenziale rispetto all’interpretazione complessiva della vicenda : una morte che non innalza il personaggio a un livello di superiore realizzazione, ma che si pone in quanto esperienza comunque decisiva, momento supremo in cui il destino individuale può compiersi mediante il riscatto di quella che Mengaldo ha chiamato – riferendosi a un celebre racconto di Joyce – « la mediocrità delle vite mediocri ». 1 S’inverte così il rapporto tra personaggio ed esperienza della morte : mentre nel mondo classico è il personaggio che ‘crea’ la propria morte, e quindi le condizioni per cui essa può diventare oggetto di racconto e modello esemplare, nella novella buzzatiana è la morte che ‘crea’ il personaggio, conferendo significato e spessore a una figura che resterebbe altrimenti opaca (e che si apparenta, anche in ragione della classe sociale di appartenenza, agli incolori ed evanescenti personaggi che ritroviamo nei Dubliners, i quali appaiono segnati da quella marginalità rispetto alla vita che ci riporta, inevitabilmente, al senso di incompiutezza e di mancata realizzazione proprio del personaggio buzzatiano). Se dunque è vero – come ha scritto Patrizia Dalla Rosa richiamandosi al Bàrnabo – che Buzzati offre l’« indicazione dell’inaccessibilità, all’uomo moderno, di un destino eroico », 2 è altresì vero, secondo una linea interpretativa che rimanda al Deserto dei Tartari, che l’affermazione di sé è possibile anche in condizioni antitetiche rispetto a quelle proposte dal modello dell’eroe classico, in condizioni cioè di isolamento e di assoluta separatezza, in cui la dignità umana è messa direttamente alla prova di fronte al mistero e al dolore, e in cui la morte diventa davvero un’esperienza absoluta, un momento rivelativo che appartiene esclusivamente alla coscienza individuale, al di là di ogni eventuale riconoscimento esterno e di ogni auspicata condivisione sociale. In questo senso, il racconto può essere letto come una parabola sull’impossibilità di pervenire alla dimensione eroica nel contesto della modernità : una dimensione che può essere vissuta soltanto sul piano individuale,  

















1

  P. V. Mengaldo, Antologia personale, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, p. 183.  P. Dalla Rosa, « Al di sopra dei lucernari e delle guglie », cit., p. 66. A questo proposito si veda anche P. De Marchi, L’ultima carta. Il ‘racconto’ di Bàrnabo e la ‘preghiera’ di Drogo, in A. Biondi et alii, Il pianeta Buzzati, Atti del Convegno Internazionale (Feltre e Belluno, 12-15 ottobre 1989), a cura di N. Giannetto, Milano, Mondadori, 1992, pp. 457-474 : 466. 2







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il mito e l ’ altrove entro l’ambito limitato e circoscritto della percezione soggettiva, mancando completamente quel riconoscimento comunitario e collettivo che è strutturale, nel mondo classico, alla nascita del culto individuale e alla fondazione della tradizione culturale.

« OGNI VOLTA PIÙ IN LÀ ». IL VIAGGIO, IL MITO E L’‘ALTROVE’ NEI PRIMI RACCONTI DI BUZZATI  



1. Introduzione

R

ileggendo i racconti de I sette messaggeri, la prima impressione è di trovarsi di fronte a una raccolta piuttosto eterogenea, sia per quanto riguarda i modelli narrativi sia per quanto riguarda i nuclei tematici : si passa infatti dai racconti di ambientazione africana, come Ombra del sud e L’uomo che si dava arie, ad altri non privi di risvolti di critica sociale e di accenti antiborghesi (Eppure battono alla porta, Il memoriale), fino a prove che oscillano tra racconto fantastico e « divagazione liricheggiante », 1 sostenute da una prosa d’arte 2 dalla tessitura piuttosto esile (Il dolore notturno, Di notte in notte). Ma a colpire, soprattutto, è l’accostamento in apertura di due racconti (I sette messaggeri e L’assalto al grande convoglio) che risultano fortemente differenziati e che sembrano scaturire da ispirazioni quanto meno diverse : da un lato, un racconto sottilmente inquietante, una storia fantastica di evidente ascendenza kaf kiana ; dall’altro, un testo in apparenza molto più tradizionale, materiato di forme e stilemi che si possono ricondurre alla dimensione del fiabesco (un personaggio appena abbozzato, una vicenda esile, una dinamica psicologica piuttosto elementare). Di qui l’effetto di sconcerto per chi rilegga i due racconti in sequenza, proprio perché sembra di trascorrere da un esemplare di assoluta modernità (I sette messaggeri, come vedremo, è in realtà un’‘antifiaba’, visto che la storia del principe che parte alla ricerca dei confini del regno paterno testimonia dell’impossibilità di raggiungere qualsivoglia obiettivo e qualsivoglia meta) a un testo che recupera, anche in modo originale, la vitalità di una tradizione – quella fiabesca – che, come si è detto, è centrale in tutta la produzione di Buzzati (e si ricordi che si è parlato, a proposito dell’Assalto al grande convoglio, di una « sorridente leggenda delle montagne »). 3  



















1  A. Arslan, Le novelle rifiutate di Dino Buzzati, in F. Gianfranceschi et alii, Dino Buzzati, Atti del Convegno (Venezia, 3-4 novembre 1980), a cura di A. Fontanella, Firenze, Olschki, 1982, pp. 219-231 : 222. 2   A questo proposito si veda N. Giannetto, Sessanta racconti e una lingua da scoprire, in S. Pautasso et alii, Dino Buzzati : la lingua, le lingue, Atti del Convegno Internazionale (Feltre e Belluno, 26-29 settembre 1991), a cura di N. Giannetto con la collaborazione di P. Dalla Rosa e I. Pilo, Milano, Mondadori, 1994, pp. 7-54 : 23-24. 3  A. Veronese Arslan, Invito alla lettura di Dino Buzzati, Milano, Mursia, 1974, p. 73.  





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il mito e l ’ altrove La prima parte del presente studio sarà dedicata a una rilettura di questi due racconti, con cui Buzzati si trova a percorrere due strade che appaiono inconciliabili nella misura in cui sembrano condurre a esiti del tutto antitetici, a soluzioni divergenti e non facilmente componibili. Contestualmente, si terranno presenti altri testi meno noti (come Demolizione dell’albergo), ma che sono da recuperare per un inquadramento il più possibile completo della tematica del viaggio e dell’esplorazione nel primo Buzzati. Nella seconda parte si prenderanno invece in esame due racconti di ambientazione esotica e coloniale (Il re a Horm el-Hagar e Uomo in Africa) che, pur non appartenendo alla prima raccolta buzzatiana, vi si riallacciano per evidenti affinità di atmosfera e di contenuto (si tratta infatti di testi che riprendono il tema del viaggio attraverso forme e declinazioni del tutto originali). In particolare, nel racconto Il re a Horm el-Hagar (appartenente alla raccolta Paura alla Scala), Buzzati sfrutta le possibilità offerte dalla dislocazione nello spazio-tempo dell’antico Egitto, per far emergere la riscoperta del passato e del mito arcaico come ‘altrove’ non più raggiungibile, come dimensione inevitabilmente preclusa all’esperienza dei moderni. Infine, con Uomo in Africa (un testo del 1940, pubblicato nella rivista « Primato. Lettere e arti d’Italia »), apparirà evidente come l’autore bellunese si sia avvicinato al racconto esotico rifiutando le soluzioni più facili, 1 e cercando, piuttosto, di restituire il significato profondo che l’esperienza africana può assumere per chi sia immerso nella cultura e nei valori dell’Occidente.  





2. Nei territori dell’antifiaba : « I sette messaggeri »  





« Partito ad esplorare il regno di mio padre » : 2 l’incipit dei Sette messaggeri, scandito dalla voce autodiegetica del protagonista, offre immediatamente una prima indicazione di lettura, inducendo a ricondurre la vicenda narrata nell’ambito del fiabesco. E in effetti, come ricorda Marie Louise von Franz, « molte fiabe presentano come protagonisti i membri di una famiglia reale », 3 ed è proprio il caso del racconto di Buzzati, anche se, come vedremo, si tratta di un testo che si colloca ben al di là dei confini che tradizionalmente delimitano il genere della fiaba.  



   







1   A questo proposito cfr. D. Comberiati, Altro da sé / Altro sé : il racconto Uomo in Africa di Dino Buzzati, « Studi buzzatiani », xv, 2010, pp. 77-90 : 81 : « Buzzati evitò di cadere nelle trappole dell’esotismo e della banalizzazione dell’Africa : più che la colonizzazione vera e propria, fu la forza dirompente della natura africana a colpire la sua fantasia di scrittore ». 2  D. Buzzati, I sette messaggeri, in Id., Sessanta racconti, Milano, Mondadori, 1958-2016, p. 3. (D’ora in avanti indicato con la sigla SM). 3  M.-L. Von Franz, Le fiabe interpretate, trad. it. di N. Neri, Torino, Boringhieri, 1980, p. 106.  















il viaggio, il mito e l ’‘ altrove ’ nel primo buzzati 85 Ma l’incertezza non riguarda solo l’attribuzione di genere : i segni dell’ambiguità sembrano avvolgere anche il paesaggio, i luoghi che il giovane principe attraversa nel suo itinerario di conoscenza e di esplorazione. Se si considera attentamente l’organizzazione degli spazi, si può infatti notare come gli elementi descrittivi rimandino a un paesaggio che presenta alcuni tratti di indefinibilità e, soprattutto, di mutevolezza, quasi correlativo oggettivo del dubbio, del disorientamento, dell’impossibilità di definire uno spazio in termini di facile e immediata riconoscibilità. Significativo, al riguardo, è il riferimento alla presenza/assenza delle montagne : si passa infatti dal riconoscimento retrospettivo della loro presenza (« già avevamo varcato i monti Fasani ») 1 alla costatazione della loro assenza (« Non ci sono muraglie di separazione, né valli divisorie, né montagne che chiudano il passo »), 2 fino alla sequenza finale in cui, imprevedibilmente, si ripresentano di nuovo le montagne intraviste da lontano, « quelle montagne inesplorate che le ombre della notte stanno occultando ». 3 Non solo : ciò che connota il viaggio è, anzitutto, la ‘stranezza’ derivante dalla compresenza di aspetti in apparenza inconciliabili : permanenza e mutamento, ripetizione dell’identico e diversità, conferma del già visto e graduale, sconcertante scoperta della varietas del mondo. Ne deriva un’impressione di unheimlich, una sensazione, che è tipica del fantastico buzzatiano, di « inquiétante étrangeté ». 4 Di fatto, il principe-esploratore attraversa un paesaggio che appare privo di riconoscibili marche spaziali e che ostenta, perlomeno all’inizio, la propria inalterabile omogeneità (non vi sono, in particolare, limiti concreti, segni visibili che demarchino il passaggio tra ambiti spaziali diversi : « Non esiste, io sospetto, frontiera, almeno nel senso che noi siamo abituati a pensare »). 5 E tuttavia, mentre da un lato si afferma un’idea di permanenza e di continuità, 6 dall’altro non mancano elementi che sembrano rovesciare questa impressione, e che rimandano a una dimensione ‘altra’, alternativa e concorrente rispetto a quella conosciuta, a uno ‘straordinario’ che rappresenta, come ha scritto Stefano Jacomuzzi, non la negazione (o lo stravolgimento) della realtà ma il suo completo e inatteso svelamento. 7 Si delinea così un quadro pervaso di elementi profondamente allusivi,  











































1

2 3   SM, p. 5.   Ivi, p. 6.   Ivi, p. 7.  N. Bonifazi, I mantelli di Buzzati e il « fantastico », in F. Gianfranceschi et alii, Dino Buz5 zati, cit., pp. 233-245 : 234.   SM, p. 6. 6  « Credevo, alla partenza, che in poche settimane avrei facilmente raggiunto i confini del regno, invece ho continuato ad incontrare sempre nuove genti e paesi ; e dovunque uomini che parlavano la mia stessa lingua, che dicevano di essere sudditi miei » : ivi, p. 3. 7  « Basta graffiare con l’unghia un po’ in profondità e lo straordinario diventa la cifra comune della realtà, la sua nascosta ed eloquente epifania » : S. Jacomuzzi, I primi racconti di Buzzati : il tempo dei messaggi, in F. Gianfranceschi et alii, Dino Buzzati, cit., pp. 99-119 : 102. 4

























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il mito e l ’ altrove dal momento che rimandano a una diversa ‘essenzialità’, al graduale definirsi di un’inedita immagine del mondo (« è un mondo di essenze quello a cui ci si dirige », osserva ancora Jacomuzzi). 1 Ma ascoltiamo al riguardo il resoconto della voce narrante :  







Vado notando […] come di giorno in giorno, man mano che avanzo verso l’improbabile mèta, nel cielo irraggi una luce insolita quale mai mi è apparsa, neppure nei sogni ; e come le piante, i monti, i fiumi che attraversiamo, sembrino fatti di una essenza diversa da quella nostrana e l’aria rechi presagi che non so dire. 2  



Abbiamo dunque qualcosa di più di una semplice notazione d’atmosfera, anche perché il tema della trasfigurazione della natura e della conseguente irriconoscibilità del mondo si costituisce come un vero e proprio leitmotiv :  

Invano cercavo di persuadermi che le nuvole trascorrenti sopra di me fossero uguali a quelle della mia fanciullezza, che il cielo della città lontana non fosse diverso dalla cupola che mi sovrastava, che l’aria fosse la stessa, uguale il soffio del vento, identiche le voci degli uccelli. Le nuvole, il cielo, l’aria, i venti, gli uccelli, mi apparivano in verità cose nuove e diverse ; e io mi sentivo straniero. 3  



Va detto, peraltro, che la situazione è analoga a quella descritta da Kaf ka alla fine del terzo capitolo del Castello, in un brano che Buzzati poteva aver avuto presente al momento della composizione del suo racconto e che risulta, in ogni caso, singolarmente consonante con l’atmosfera del testo buzzatiano, dal momento che vi compaiono gli stessi riferimenti alla stranezza dell’aria e al progressivo, inesorabile estraniarsi del soggetto (anche se in Kaf ka si tratta di riferimenti che sono giocati su un piano più scopertamente metaforico) :  

K. ebbe l’impressione costante di smarrirsi, o di essersi tanto addentrato in un paese straniero come nessun uomo prima di lui aveva mai osato, in una terra ignota dove l’aria stessa non aveva nessuno degli elementi dell’aria nativa, dove pareva di soffocare tanto ci si sentiva estranei, e tuttavia non si poteva far altro in mezzo a quegli insani allettamenti che inoltrarsi ancora, continuare a smarrirsi. 4  

È dunque chiaro, tornando al racconto di Buzzati, che viene ben presto sconfessata la sensazione iniziale, quella sensazione per cui il principe ha l’impressione di muoversi in uno spazio in qualche modo noto e riconoscibile, rassicurante perché abitato da presenze familiari e consuete, da segni (come la lingua parlata dai sudditi) che rimandano a qualcosa di conosciuto ; accade anzi che si rovesci del tutto questa illusione di permanenza e  

1

  Ivi, p. 109. 3   SM, p. 7. In questa e nelle citazioni seguenti i corsivi sono miei.   Ivi, p. 5. 4  F. Kafka, Il Castello, trad. it. di A. Rho, in ID., Romanzi, a cura di E. Pocar, Milano, Mondadori, 1969, p. 608. 2

il viaggio, il mito e l ’‘ altrove ’ nel primo buzzati 87 che si riveli, al suo posto, una dimensione di realtà che sfugge alle maglie della previsione e del calcolo con cui il principe vorrebbe controllare (e quindi razionalizzare) il proprio viaggio di esplorazione. Come ha scritto Neuro Bonifazi, è una specie di scacchiera numerata, un calcolo irreale o tentativo disperato di assoggettamento delle distanze e degli eventi, il viaggio, la comunicazione, i sette messaggeri […], la loro spedizione successiva, le previsioni, le attese, i calcoli proporzionali, i ritorni, tutto un sistema per rendere familiare il ‘regno del padre’, che invece si mostra sempre più straniero e inconoscibile. 1  

È da notare, inoltre, come la stessa costruzione del racconto contribuisca a determinare questa atmosfera di inquietudine e di stranezza diffusa. Al riguardo, sono due gli elementi che si possono evidenziare : a) un finale aperto che non dice nulla sulla possibile conclusione della vicenda (cosa accadrà ? Il principe-esploratore passerà davvero la frontiera senza accorgersene ? Prevarrà la desolante uniformità o si giungerà a una qualche scoperta o rivelazione ?) ; b) una perfetta coincidenza (e quindi sovrapponibilità) tra la sequenza di apertura e quella di chiusura, per cui si può anche parlare di una ‘costruzione ad anello’ che sottolinea il riproporsi della medesima situazione di partenza, appena variata dal cambio della prospettiva temporale (si passa infatti dal presente al futuro). Si confrontino, a questo proposito, le due sequenze, in cui appare con evidenza questa sottolineatura di una condizione bloccata, caratterizzata dalla perfetta identità di passato presente e futuro :  











Partito ad esplorare il regno di mio padre, di giorno in giorno vado allontanandomi dalla città e le notizie che mi giungono si fanno sempre più rare. 2 Una speranza nuova mi trarrà domattina ancora più avanti, verso quelle montagne inesplorate che le ombre della notte stanno occultando. 3  



Sono queste, se si analizza il testo in termini di confronto tra fabula e intreccio, le sequenze fondamentali, quelle che inquadrano la narrazione entro un arco precisamente definito, insistendo sulla sostanziale immutabilità della situazione di partenza, sulla identità tra passato e presente. Tutto il resto, di conseguenza, non può che risultare accessorio ai fini della interpretazione del testo (si pensi, in particolare, alle due anacronie : il flash-back iniziale in cui si rievoca il momento della partenza e la prolessi in cui il principe-viaggiatore immagina la scena della propria morte). La realtà essenziale, in altre parole, non può essere che quella suggerita in apertura e chiusura di racconto, con ossessiva e perfetta circolarità : e  



1

 N. Bonifazi, Teoria del fantastico e il racconto fantastico in Italia : Tarchetti – Pirandello – Buzzati, Ravenna, Longo, 1982, pp. 141-170 : 145. 2 3   SM, p. 3.   Ivi, p. 7.  



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il mito e l ’ altrove sarà la realtà del movimento, dell’esplorazione, della ricerca di un confine (forse) inesistente, dell’attesa e dell’ansia di vedere, di conoscere ciò che si cela nelle « terre ignote », nel misterioso territorio che si estende al di là delle « montagne inesplorate ». Di qui, a ben vedere, l’impressione di trovarsi di fronte a una situazione che non è solo aperta (come suggerisce il finale, su cui si stende, come si è visto, l’ombra di un esito incerto), ma anche, si direbbe, sospesa in una sorta di limbo, in una dimensione di immutabilità e di iterazione dell’identico che mette in crisi la validità delle consuete categorie spazio-temporali. Accade così che il racconto, caratterizzato da una trama piuttosto esile in cui è difficile riconoscere una linea evolutiva (se è vero, come abbiamo visto, che la situazione finale non fa che replicare quella iniziale), tematizzi il viaggio come procedere ad infinitum, come falso movimento o come movimento potenzialmente in-terminabile. Si conferma dunque, ancora una volta, la sensazione di « inquietante stranezza » da cui abbiamo preso le mosse : mentre da un lato, attraverso le previsioni del principe, si determina una temporalità misurabile, in forza della quale sembra che tutto debba rientrare in un ordine preciso e inalterabile, 1 dall’altro è evidente che questa cronologia così rigorosa, specchio di una temporalità misurata e misurabile, finisce per annullarsi e perdere ogni significato di fronte alla realtà dell’infinitum del viaggio, di fronte a questo avanzare che sembra porsi come l’unica condizione esistenzialmente possibile per il personaggio (come peraltro suggerisce lo stesso io narrante nella prolessi finale : « Ancora una volta io leverò il campo, mentre Domenico scomparirà all’orizzonte dalla parte opposta, per recare alla città lontanissima l’inutile mio messaggio »). 2 Inevitabile, a questo punto, fare i conti con l’ipoteca del kaf kismo che da sempre, com’è noto, pesa su Buzzati e sulla valutazione critica della sua opera come riferimento ‘obbligatorio’ anche se, a dire il vero, non sempre giustificato. 3 In particolare, vi è un’evidente correlazione tra il racconto buzzatiano e Il messaggio dell’imperatore, una delle più note parabole kafkiane, centrata proprio sul tema del messaggio e sulla sua impossibilità di pervenire (ed è, questo, un aspetto che Buzzati riprende puntualmente nel finale del suo testo : l’ultimo messaggio, di cui si farà latore Domenico, il  



























1  « Sebbene spensierato […] mi preoccupai di poter comunicare, durante il viaggio, con i miei cari, e fra i cavalieri della scorta scelsi i sette migliori, che mi servissero da messaggeri. […] Bartolomeo, partito per la città alla terza sera di viaggio, ci raggiunse alla quindicesima ; Caio, partito alla quarta, alla ventesima solo fu di ritorno. Ben presto constatai che bastava moltiplicare per cinque i giorni fin lì impiegati per sapere quando il messaggero ci avrebbe 2 ripresi » : ivi, pp. 3-4.   Ivi, p. 7. 3   A questo proposito cfr. S. Jacomuzzi, I primi racconti di Buzzati : il tempo dei messaggi, cit., pp. 106-107.  









il viaggio, il mito e l ’‘ altrove ’ nel primo buzzati 89 quarto dei sette messaggeri, molto probabilmente non arriverà mai a destinazione, non raggiungerà la « città lontanissima » alla quale è rivolto). La situazione di fondo è dunque simile, ma non mancano elementi che differenziano i due testi : nell’apologo di Kaf ka vi è – come ha osservato Giulio Schiavoni 1 – il senso di un compimento possibile, una (paradossale ?) apertura di speranza, una tensione religiosa che giustifica l’atteggiamento di attesa del destinatario del messaggio, il suo stare « affacciato alla finestra » mentre sopraggiunge la sera, nella speranza che il miracolo si compia. Ben diversa, invece, la situazione che si delinea nel racconto buzzatiano, da cui non promana alcuna luce di speranza, 2 e dove la possibilità stessa della speranza, così come la possibilità di un qualsiasi compimento, sembra aprioristicamente negata da questo continuo aprirsi di orizzonti sconfinati, 3 di spazi leopardianamente in-terminati che finiscono per inghiottire il principe-esploratore, proprio perché lo condannano a un vagare perenne, a un procedere che sembra destinato a non avere mai fine : siamo dunque agli antipodi rispetto ai modelli fiabeschi che sviluppano il motivo della autorealizzazione dell’eroe. 4 D’altra parte, è proprio il sospetto che non esista « frontiera » a indurre il personaggio a perseverare nel suo viaggio, ad accettare e accogliere fino in fondo la sfida insostenibile dell’infinità :  



























Dopo di te il silenzio, o Domenico, a meno che finalmente io non trovi i sospirati confini. Ma quanto più procedo, più vado convincendomi che non esiste frontiera. 5 Probabilmente varcherò il limite senza accorgermene neppure, e continuerò ad andare avanti, ignaro. 6  



Buzzati avrebbe allora creato un personaggio più kaf kiano di quelli di Kaf ka ? Diremmo di no, ma è chiaro che, almeno in questo caso, il primato della negatività spetterebbe a Buzzati piuttosto che a Kaf ka. Difficile, in effetti, scorgere un’apertura di speranza in questo testo la cui dinamica narrativa è insieme così implacabilmente razionale (i calcoli, le previsioni)  

1   Cfr. G. Schiavoni, Introduzione a F. Kafka, I racconti, trad. it. di G. Schiavoni, Milano, Rizzoli, 1985, pp. 13-23 : 14. 2   Anche la « luce insolita » che il protagonista intravede (o crede di intravedere) a un certo punto del viaggio potrebbe essere nient’altro che un inganno, il prodotto di una semplice allucinazione (non diversa da quella che, nel finale, fa apparire in lontananza l’immagine delle « montagne inesplorate »). 3  « Avanti, avanti ! Vagabondi incontrati per le pianure mi dicevano che i confini non erano lontani. Io incitavo i miei uomini a non posare, […] » : SM, p. 5. 4   Si veda al riguardo M.-L. Von Franz, op. cit., p. 121 : « Tutto il processo è un processo di continua crescita, di compimento graduale, ordinato come un mandala, che è un modello tipico della fiaba ». 5 6   SM, p. 6.   Ibidem.  























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il mito e l ’ altrove e così ineluttabilmente assurda (l’impossibilità di raggiungere un limite, di toccare una qualsiasi frontiera, di muoversi entro uno spazio che sia precisamente definibile). Non solo : alla luce della lettura proposta si dovrebbero cercare anche altri riferimenti, altri punti di tangenza con lo scrittore boemo, al di là del Messaggio dell’imperatore, la cui importanza per la genesi del racconto buzzatiano è stata dimostrata, come si è detto, da Stefano Jacomuzzi. 1 Basta pensare ad alcuni racconti kaf kiani come La partenza e Il cacciatore Gracco, ove ad essere tematizzati sono proprio i motivi dello smarrimento e della « migrazione infinita ». 2 In particolare nella Partenza, che è un testo fortemente concentrato dove la narrazione si risolve in poche righe, il tema di fondo è quello del viaggio « prodigioso » che il protagonista si accinge a compiere : un viaggio straordinario per il suo potenziale dilatarsi ad infinitum e per il quale non vi sono provviste che possano considerarsi bastevoli :  

















« il viaggio è talmente lungo che dovrò morir di fame se non mi daranno niente durante il tragitto. Non mi potrà salvare nessuna provvista. Per fortuna è un viaggio veramente prodigioso ». 3  





E non è prodigioso, a ben vedere, anche il viaggio del principe di Buzzati ? Non solo per la « luce insolita » che sembra diffondersi nel cielo man mano che egli avanza, non solo per l’« essenza diversa » di cui sembrano permeati i monti e i fiumi attraversati, ma anche, e soprattutto, per la sua determinazione incrollabile a non desistere, a perseverare nell’impresa nonostante essa risulti, fin dall’inizio, del tutto insensata : « mi tormenta il dubbio che questo confine non esista, che il regno si estenda senza limite alcuno e che, per quanto io avanzi, mai potrò arrivare alla fine ». 4 Vi è dunque, da parte del principe, perfetta coscienza e consapevolezza di quello che sarà il suo viaggio, dell’assurdità con cui dovrà confrontarsi. E, tuttavia, egli non si tira indietro, decide anzi di proseguire e accetta la sfida rappresentata dal viaggio senza fine, così da trasformarsi – non diversamente dal cacciatore Gracco di Kaf ka, anch’egli eterno prigioniero del « mondo del viaggio, il mondo dell’esplorazione interminabile e infinita » 5 – in un personaggio del tutto fantastico, per il quale non hanno più validità le leggi consuete dello spazio e del tempo.  























1  « L’analogia da stabilire è proprio di natura genetica, cioè di contatto originario per sviluppi autonomi, che tuttavia conservano traccia di quell’iniziale e decisivo incontro » : S. Jacomuzzi, I primi racconti di Buzzati : il tempo dei messaggi, cit., p. 108. 2   Cfr. F. Masini, La decifrazione gnostica (F. Kaf ka), in Id., La via eccentrica. Figure e miti dell’anima tedesca da Kleist a Kaf ka, Casale Monferrato, Marietti, 1986, pp. 109-133 : 118. 3 4  F. Kafka, La partenza, in ID., I racconti, cit., p. 429.   SM, p. 3. 5  F. Rella, Miti e figure del moderno. Letteratura, arte e filosofia, Milano, Feltrinelli, 1993, pp. 54-59 : 58.  











il viaggio, il mito e l ’‘ altrove ’ nel primo buzzati 91 Quella che Buzzati delinea è una parabola di totale negatività, una parabola già anticipata, per alcuni versi, nel racconto Demolizione dell’albergo (1932), dove si narra di una colonia di topi che, costretti a lasciare l’albergo di montagna in cui si erano rifugiati a causa della sua imminente demolizione, finiscono per abbandonarsi a una erranza 1 sempre più angosciosa e priva di prospettive :  



I giorni passavano lenti. Erano cominciate le piogge d’autunno. La marcia, senza più una meta, proseguiva a fatica tra i tronchi neri. […] Certe sere si udivano lontanissimi canti. Gli uccelli tornavano rapidi ai loro nidi. Sulla terra si trascinava sfinita la schiera degli esiliati. Alberi, alberi che parevano infiniti. 2  

In questo caso c’è però una conclusione, che sarà, ancora una volta, di segno negativo. La sequenza finale, costruita su una tramatura lessicale e semantica di assoluta desolazione (« tetra mattina », « schiocco triste », « scheletriti », etc.), definisce con evidenza una realtà agghiacciata in una totale mancanza di speranza : 3  











   

Una pioggia fitta e gelata scendeva nella tetra mattina ; sulla massicciata della strada in costruzione faceva uno schiocco triste. Tra poco sarebbe giunta la neve. I topi si fermarono immobili sul bordo della nuova via, irriconoscibili scheletriti, con i baffi che pendevano flosci nel fango. Gli sguardi seguivano con angoscia un gruppo di corvi che giravano sopra il torrente, battendo lenti le ali. « Corvi, corvi » disse un topo « chissà dove andate a morire ». 4  











Ma altre tangenze si possono evidenziare con I sette messaggeri : basti pensare al richiamo, comune ai due racconti, 5 al girare a vuoto, al perdersi in una inarrestabile deriva spazio-temporale, mentre la ‘speranza’, da intendersi anche in senso materiale, viene inesorabilmente consumata :  





Si apriva in quel punto una radura. I topi si guardarono attorno là in fondo, con quell’orribile rumore, la roccia che scendeva a picco. Dei sassi, delle macerie. Delle corna di cervo spezzate, tra frammenti di legname. Un pezzo di tela dipinta, 1   Il termine è usato da Delphine Bahuet-Gachet : « L’erranza di questi topi, buttati fuori dalla loro cantina paradisiaca – ma però senza che ne abbiano colpa – è un’immagine dell’erranza dell’umanità che ricerca di ritrovare il paradiso iniziale. Questa cerca è la ricerca di una felicità perduta, di un’età ormai passata, di un territorio per sempre inaccessibile » : D. Bahuet-Gachet, Quando il mondo diventa un’isola, « Narrativa », 6, 1994, pp. 85-100 : 96. 2  D. Buzzati, Demolizione dell’albergo, in Id., Bestiario, prefazione di C. Marabini, Milano, Mondadori, 1991, pp. 19-24 : 23. 3   Un’assenza di speranza simbolicamente evidenziata, tra l’altro, nell’episodio del topo che, rimasto da solo in soffitta, inizia a rosicchiare la tela di un quadro nella cui base compare proprio la parola spes : « Durante quell’esilio il topo finì per divorare interamente l’ultima 4 lettera e per questo ebbe il nome di “S” » : ivi, p. 20.   Ivi, p. 24. 5  « Penso talora che la bussola del mio geografo sia impazzita e che, credendo di procedere sempre verso il meridione, noi in realtà siamo forse andati girando su noi stessi, senza mai aumentare la distanza che ci separa dalla capitale » : SM, p. 3.  





























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tutta umida e sporca di terra : sul fondo scuro le tre lettere “spe”, e l’angolo rosicchiato. Così avevano fatto ritorno alla loro casa distrutta. 1  



Difficile non pensare, anche in questo caso, al personaggio kaf kiano del cacciatore Gracco, altra figura fantastica impegnata in un viaggio particolare e sicuramente prodigioso, un viaggio che si svolge – come scrive Kaf ka – « nelle infime regioni della morte » 2 (le quali sono, forse, le stesse regioni che Buzzati ha inteso rappresentare nei suoi primi racconti, declinando così uno dei temi fondamentali della sua opera). Ma sarà forse da ricordare anche l’ultimo capitolo del Deserto dei Tartari, dove la morte del protagonista era associata all’approdo a una nuova e diversa spazialità, a quel « paese estraneo e ignoto » nel quale Drogo trascorre gli ultimi attimi della sua vita e che ci riporta, inevitabilmente, alle « terre ignote » verso cui si dirige il principe dei Sette messaggeri :  















Perché può essere bello morire all’aria libera, nel furore della mischia, col proprio corpo ancora giovane e sano, fra trionfali echi di tromba ; più triste è certo morire di ferita, dopo lunghe pene, in un camerone d’ospedale ; più melanconico ancora finire nel letto domestico, in mezzo ad affettuosi lamenti, luci fioche e bottiglie di medicine. Ma nulla è più difficile che morire in un paese estraneo e ignoto, sul generico letto di una locanda, vecchi e imbruttiti, senza lasciare nessuno al mondo. 3  





3. L’ultima fiaba : « L’assalto al grande convoglio »  





Il protagonista del racconto Gaspare Planetta, un ex capo brigante che ritorna nel « suo regno » sul Monte Fumo dopo essere stato in prigione per tre anni, sembra appartenere, fin dall’inizio, alla dimensione dell’illusorio e dell’evanescente ; logorato dagli anni e dalla malattia, è ormai una figura sbiadita e dai contorni incerti, un « vecchietto » che rischia persino di passare inosservato :  











Arrestato in una via del paese e condannato soltanto per contrabbando – poiché non lo avevano riconosciuto – Gaspare Planetta, il capo brigante, rimase tre anni in prigione. Ne venne fuori cambiato. La malattia lo aveva consunto, gli era cresciuta la barba, sembrava piuttosto un vecchietto che il famoso capo brigante, […]. 4  

Piuttosto debole è il suo radicamento nella vita e nel presente : con un passato disonorevole alle spalle (gli anni trascorsi in prigione), il vecchio  

1

 D. Buzzati, Demolizione dell’albergo, cit., p. 23.  F. Kafka, Il cacciatore Gracco, in Id., Il messaggio dell’imperatore. Racconti, versione di A. Rho, Milano, Adelphi, 1981, p. 308. 3  D. Buzzati, Il deserto dei Tartari, in Id., Opere scelte, a cura di G. Carnazzi, Milano, Mondadori, 1998, p. 218. 4  D. Buzzati, L’assalto al grande convoglio, in Id., Sessanta racconti, cit., p. 8. (D’ora in avanti indicato con la sigla AGC). 2

il viaggio, il mito e l ’‘ altrove ’ nel primo buzzati 93 brigante non sembra nutrire grandi speranze per quanto riguarda il futuro ; d’altro canto la forza fisica l’ha abbandonato, il prestigio di un tempo è svanito, i compagni hanno trovato un nuovo capo e per lui non sembra esserci più molto spazio. Non sarà un caso, allora, che il motivo ricorrente nelle prime pagine del racconto sia proprio quello della irriconoscibilità. All’inizio, quando si reca a visitare i compagni di un tempo, egli non viene identificato (« Voleva fare una sorpresa, ma invece quando gli aprirono e gli si fecero incontro, Gaspare Planetta si accorse subito che non l’avevano riconosciuto ») ; 1 soltanto dopo, quando Gaspare si avvicinerà alla finestra e si metterà in controluce per rendersi meglio visibile, ci sarà il riconoscimento, ma questo verrà subito negato allorché i briganti preferiranno tacere fingendo di non conoscere l’ospite inatteso :  





   



E sorrideva intanto sottilmente e si avvicinava alla finestra perché tutti lo potessero veder bene. E tutti infatti lo videro bene, riconobbero in quel magro vecchietto ciò che rimaneva del loro capo, […]. Eppure nessuno fiatò. Anche Cosimo non osò dir nulla. Tutti finsero di non averlo riconosciuto, perché era presente Andrea, il nuovo capo, di cui avevano paura. Ed Andrea aveva fatto finta di niente. 2  

Poste tali premesse, il racconto si sviluppa con grande linearità (e semplicità di fondo) attraverso una serie di momenti topici che scandiscono la storia : l’incontro con il ragazzo Pietro, la promessa (in qualche modo strappata dal ragazzo, desideroso di avventure e grandi imprese) di tornare in azione, l’attesa e l’assalto al Grande Convoglio, che si concluderà con una sparatoria e con la conseguente morte del protagonista. Interessanti risultano soprattutto le sequenze finali, in cui si evidenziano – a volte in maniera fin troppo insistita – alcuni riferimenti allo sdoppiamento del personaggio, al suo costituirsi come ‘spirito’ separato dal corpo (un corpo che viene vissuto con un senso di estraneità e di inappartenenza, come realtà definitivamente ‘altra’, del tutto estranea alla nuova dimensione del soggetto). Si veda, in particolare, il momento in cui Planetta, colpito a morte dai cavalleggeri che scortano il Convoglio, si volge a guardare per ben due volte il « suo corpo » (ma anche, come si legge nel testo, il « corpo di Planetta », secondo un’espressione che, riprendendo nella specificazione il nome proprio, contribuisce a sottolineare lo sdoppiamento di cui si è detto). Siamo dunque lontani, a ben vedere, dalla « sorridente leggenda delle montagne » di cui ha parlato la Veronese Arslan :  















Planetta, così come il ragazzo, si levò ritto da terra, non più in carne ed ossa come prima, ma diafano al pari degli altri e pure identico a se stesso. Gettato uno sguar1

  Ibidem.

2

  Ivi, p. 10.

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do al suo povero corpo, che giaceva raggomitolato al suolo, Gaspare Planetta fece un’alzata di spalle come per dire a se stesso che se ne fregava e uscì nella radura, ormai indifferente alle possibili schioppettate. 1 Planetta, rimasto solo, diede un’occhiata circolare alla valle. Sogguardò, ma appena con la coda dell’occhio, l’ormai inutile corpo di Planetta che giaceva ai piedi dell’albero. 2  



Richiami e sottolineature che rimandano, in modo più o meno esplicito, al tema dello sdoppiamento sono del resto così frequenti da costituire un vero e proprio leitmotiv. Si veda, ad esempio, la veloce descrizione di Pietro, il ragazzo che raggiunge Planetta sul Monte Fumo per realizzare il suo desiderio di vivere con i briganti : « Il giovane aveva un’aria ardita, assomigliava a lui, Planetta, una trentina d’anni prima ». 3 L’idea del doppio, per quanto risolta in un accenno piuttosto sintetico, è dunque abbastanza chiara ; ma lo sdoppiamento decisivo è giocato sul piano della interiorità : quando l’ex capo brigante decide di tornare in azione attaccando il Gran Convoglio con il suo carico d’oro destinato alla Capitale (quel « favoloso » Convoglio di cui sognano i briganti « nelle notti buone »), lo farà, anzitutto, per « sentirsi quello di prima », per risolvere « una questione personale » e, in definitiva, per pareggiare i conti « con l’antico potente Planetta », pur nel timore che si tratti di « un’impresa disperata » 4 il cui esito appare già segnato in anticipo. Il racconto di Buzzati è contiguo, è chiaro, al côté più nero della fiaba, e nello stesso tempo è prossimo, come osservava Renato Bertacchini, ai « modi della ballata romantica », 5 una ballata in cui prendono rilievo i segni della morte, della perdita e del decadimento fisico, 6 anche se poi la prospettiva dominante è quella della rinascita, dell’andare ‘oltre’, del passaggio, che la morte sembra rendere possibile, da una condizione di ‘assenza’ (contrassegnata, come abbiamo visto, dalla non riconoscibilità, dalla impossibilità di riavere un ruolo nel presente) a uno status di ‘presenza’ e di piena realizzazione. Ed è quanto accade nel momento culminante del racconto, quando improvvisamente appaiono gli antichi briganti, tutti convenuti per rendere omaggio a Planetta ed accoglierlo nella loro eletta schiera :  















































1

2   Ivi, pp. 20-21.   Ivi, p. 22. 4   Ivi, p. 12.   Ivi, p. 17. 5  R. Bertacchini, Dino Buzzati, in L. Piccioni et alii, Letteratura Italiana. I Contemporanei, ii, Milano, Marzorati, 1963, pp. 1395-1411 : 1402. 6   Sarà Pietro, il ragazzo che Planetta ospita nella sua baracca, a evidenziare la stanchezza e la debolezza del vecchio brigante : « “Capo” diceva dopo alcuni giorni il ragazzo “di’ la verità, tu hai qualcosa. Non hai più voglia di muoverti. Nemmeno più a caccia vuoi venire. I compagni non li vuoi vedere. Tu devi essere malato, anche ieri dovevi avere la febbre, stai sempre attaccato al fuoco” » : AGC, p. 14. 3











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E si sbagliava Planetta oppure l’ultimo a sinistra, che se ne stava diritto e superbo, si sbagliava Planetta o non era Marco Grande in persona, il più famoso degli antichi capi ? Marco Grande impiccato nella Capitale, alla presenza dell’imperatore e di quattro reggimenti in armi ? […] Precisamente lui era, anch’egli presente per onorare Planetta, l’ultimo capo sfortunato e prode. 1  





Lo schema narrativo finisce così per rimandare, in filigrana, a un modello mitico facilmente identificabile ; un modello che permette di leggere la vicenda di Planetta come « un rito di passaggio dal profano al sacro, dall’effimero e dall’illusorio alla realtà e all’eternità, dalla morte alla vita, dall’uomo alla divinità ». 2 Il movimento, quindi, lungi dall’essere un perenne andare alla deriva (com’era per il principe dei Sette messaggeri, di cui abbiamo evidenziato la condanna all’erranza), si configura come un percorso verso il ‘centro’ e, soprattutto, verso la riconquista del senso della propria esistenza. È infatti chiaro che Planetta ‘passa’, una volta divenuto una sagoma diafana e leggera, dalla condizione di ‘morte-in-vita’, certificata dal mancato riconoscimento da parte degli antichi compagni, a un’esistenza completamente rinnovata, che coincide, come si è visto, con l’entrata nel « regno dei briganti morti », quel regno « ch’egli non conosceva ma ch’era lecito supporre migliore di questo ». 3 Si definisce così una sorta di percorso a doppio binario, attraverso il quale si transita, senza soluzione di continuità, dalla vita alla morte e poi, viceversa, dalla morte alla vita. Si può dire, pertanto, che non abbia senso parlare di una prima parte ‘realistica’ e di una seconda parte ‘fantastica’, perché – come ha scritto Neuro Bonifazi – « una volta che il racconto non si è concluso con la morte, l’una parte si fonde con l’altra, e insieme realizzano la funzione di verosimiglianza dell’assurdo e dell’impossibile ». 4 Succede così che il racconto-favola 5 si costruisca sul modello mitico della ripetizione e dell’eterno ritorno : attraverso la morte, l’ex brigante Planetta abbandona lo spazio ‘profano’ di un’esistenza deprivata e priva di prospettive (uno spazio che coincide essenzialmente con la morte) per raggiungere il suo spazio ‘sacro’, quel « regno dei briganti morti », in cui egli finisce per trascendere in una dimensione di pura felicità e di ritrovata giovinezza :  

































1

  Ivi, p. 20.  M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno. Archetipi e ripetizione, trad. it. di G. Cantoni, Roma, Borla, 1999, p. 27. Cfr. anche, per la citazione di Eliade, M.-H. Caspar, Fantastique et mythe personnel dans l’oeuvre de Dino Buzzati, La Garenne-Colombes, Éditions Européennes Erasme, 3 1990, pp. 221-237 : 224.   AGC, p. 23. 4  N. Bonifazi, Teoria del fantastico e il racconto fantastico in Italia, cit., p. 53. 5   A questo proposito si veda ancora R. Bertacchini, Dino Buzzati, cit., p. 1402. 2



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I cavalleggeri lo videro farsi sempre più piccolo e diafano ; aveva un passo leggero e veloce che contrastava con la sua sagoma ormai di vecchietto, un’andatura da festa quale hanno solo gli uomini sui vent’anni quando sono felici. 1  



La condizione di partenza, segnata dalla prigionia e dall’offesa del mancato riconoscimento (non solo da parte dei compagni, ma anche da parte di coloro che lo hanno catturato), si rovescia completamente in una prospettiva che accoglie e innalza Planetta in un’autentica dimensione eroica ; libero di avanzare « nella direzione in cui erano spariti i compagni », di inoltrarsi nella pianura « che si perdeva nell’infinito » (trasparente emblema di libertà, a sottolineare il ritrovato possesso di sé dopo il periodo di reclusione), Planetta vive soprattutto, e con un senso di vera esaltazione, la gioia di essere riconosciuto per quello che in effetti egli è, il proprio riscatto e la propria vittoria evidenziata dall’assunzione nella schiera dei favolosi eroi-briganti :  











Planetta […] li riconobbe. Erano proprio gli antichi compagni, erano i briganti morti, che venivano a prenderlo. Facce spaccate dal sole, lunghe cicatrici di traverso, orribili baffoni da generale, barbe strappate dal vento, occhi duri e chiarissimi, le mani sui fianchi, inverosimili speroni, grandi bottoni dorati, facce oneste e simpatiche, impolverate dalle battaglie. 2  

A questo punto, possiamo evidenziare alcune sostanziali differenze tra questo racconto e quello, già analizzato, dei Sette messaggeri : a) Planetta, a differenza di quanto accade al principe-esploratore, per il quale non esistono confini da poter superare, raggiunge la ‘frontiera’ che gli è destinata (il limite che separa la vita dalla morte) e la oltrepassa ; b) nell’Assalto al grande convoglio, il protagonista raggiunge attraverso la morte il proprio compimento e la propria autorealizzazione, laddove il principe dei Sette messaggeri pare condannato a una perenne erranza, che gli impedisce non solo di realizzarsi, ma anche di giungere, come scrive Bárberi Squarotti, « a un limite qualsiasi delle possibilità umane, alla trasgressione dei confini raggiunti ». 3 La diversità dei due testi è dunque chiara : da una parte (L’assalto al grande convoglio) avremo una « soluzione fiabesca », 4 un racconto ‘a intreccio’ (per usare la terminologia lotmaniana) in cui si compie l’‘avvenimento’, cioè « il superamento del limite proibito sostenuto dalla struttura senza intreccio » ; 5 dall’altra (I sette messaggeri) un apologo che gioca sulla sospensio 





















   

1

2   AGC, p. 23.   Ivi, p. 20.  G. Bárberi Squarotti, La forma e la vita : il romanzo del Novecento, Milano, Mursia, 1987, p. 233. 4  S. Jacomuzzi, I primi racconti di Buzzati : il tempo dei messaggi, cit., p. 114. 5   Ju. M. Lotman, La struttura del testo poetico, a cura di E. Bazzarelli, Milano, Mursia, 19721985, p. 281. 3





il viaggio, il mito e l ’‘ altrove ’ nel primo buzzati 97 ne degli esiti, sull’apertura della conclusione e, in definitiva, sulla proposta di una soluzione fantastica che immerge il lettore in un clima inquietante senza lasciargli alcuna certezza (ed è per questo che al riguardo abbiamo parlato di ‘antifiaba’). Ma è possibile indicare anche altri rapporti intertestuali : L’assalto al grande convoglio, ad esempio, ha un interessante termine di confronto in Ombra del sud, soprattutto se si considerano gli indicatori topologici e, in generale, l’organizzazione delle strutture spaziali. Difatti, anche in Ombra del sud abbiamo una vicenda che si sviluppa a partire da una polarità topologica disposta lungo un asse di evidente contrapposizione : da un lato, lo spazio chiuso e soffocante di Porto Said, la « ville labyrinthique » 1 dove il protagonista si ritrova a girovagare senza una meta (e che funziona, con le sue strade tutte simili eppure diverse, come emblema di reclusione e disorientamento), 2 dall’altro, lo spazio-miraggio della libertà, della felicità possibile e della piena realizzazione, quello spazio che coincide con i ‘favolosi regni’ da cui potrebbe provenire la « figura inesplicabile » dell’arabo che di continuo si materializza (per poi scomparire) dinanzi allo sguardo del protagonista :  

















Considerato a distanza, quell’essere mi risultava adesso come una personificazione, racchiudente il segreto stesso dell’Africa. Tra me e questa terra c’era dunque, prima che lo sospettassi, un legame. Era venuto a me un messaggero, dai regni favolosi del sud, a indicarmi la via ? 3  



Ed è un racconto che gioca, a ben vedere, proprio su una condizione di incertezza e sospensione, sulla continua oscillazione tra questi due mondi, sulla difficoltà di scegliere tra il caos e il disordine della città (anch’essa, per la verità, carica di promesse e di suggestioni) e la possibilità di attingere una dimensione del tutto diversa, la quale potrebbe condurre alla scoperta di un luogo di armonia e di felicità perfetta (sempre che, s’intende, l’anima non sia pavida, non rinunci all’impresa per la sua deprecabile timidezza). E tuttavia Ombra del sud ci interessa in questa sede non tanto per le soluzioni che prospetta (soluzioni facilmente riconducibili al versante più tradizionale e fiabesco della produzione buzzatiana, peraltro evocato esplicitamente nell’immagine dei « cortiletti da fiaba, chiusi come in minuscoli fortilizi tra  

1  D. Bahuet-Gachet, Les espaces inquiets de Dino Buzzati et Marcel Brion, « Cahiers Dino Buzzati », ix, 1994, pp. 227-242 : 239. 2  « Non è forse un caso […] se la tragedia moderna, da Kaf ka in poi, si esprime soprattutto in termini di spazio […]. Il labirinto è diventato la banale – perché la migliore – traduzione della derisoria posizione di un individuo che il mondo inghiotte e disorienta » : L. Janvier, Une parole exigeante, Paris, Editions de Minuit, 1964, pp. 27-28, citato in R. Bourneuf, R. Ouellet, L’universo del romanzo, trad. it. di O. Galdenzi, Torino, Einaudi, 2000, p. 120. 3  D. Buzzati, Ombra del sud, in Id., Sessanta racconti, cit., p. 44.  











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il mito e l ’ altrove muri rossi di sassi e di fango »), 1 quanto per la tematizzazione di fondo : quell’andare oltre, quel procedere « ogni volta più in là » in direzione di una ipotetica frontiera che inevitabilmente ci ricorda l’invenzione – invero assai più inquietante e ricca di implicazioni – del racconto I sette messaggeri :  











Non sono, ho paura, colui che tu cerchi. La faccenda non è molto chiara ma mi pare di avere capito che tu vorresti condurmi più in là, ogni volta più in là, sempre più nel centro, fino alle frontiere del tuo incognito regno. 2  

Ma è, questa, una tematica ricorrente anche in altri testi buzzatiani. Si pensi, solo per fare un esempio, a Mania dei viaggi, racconto-apologo appartenente alla raccolta In quel preciso momento. In questo caso, al superficiale desiderio di viaggi e di avventure manifestato dall’anonimo protagonista (il quale sogna viaggi straordinari da compiersi per mezzo di aerei, « treni intercontinentali », piroscafi e aeroplani) si contrappone, nel tipico « ribaltamento successivo » 3 finale, la sua insuperabile esitazione, il suo timore di abbandonarsi a un viaggio che lo potrebbe condurre « al di là di ogni confine » e che diviene, pertanto, la perfetta trascrizione del viaggio della morte, misterioso e inquietante :  















Viaggiatore, bel viaggiatore, non vuoi ? Viaggi tu sognavi, eccoti il viaggio, immenso, misterioso, al di là di ogni confine. Qua la mano, signore, prego, un passo, attento al predellino ! Ma lui singhiozza, inginocchiato, supplica per misericordia di poter restare. […] No, non vuole, è stato un orrendo equivoco, uno scherzo, qualsiasi cosa pur di non partire. 4  





4. Alla ricerca del mito perduto : « Il re a Horm el-Hagar »  





L’appassionato interesse per il mondo e la storia dell’antico Egitto – interesse che Buzzati condivise con l’amico Arturo Brambilla e di cui sono testimonianza i numerosi riferimenti nelle lettere e nelle cartoline che i due amici si scambiarono fin dagli anni liceali – si era da subito accompagnato all’invenzione di un alfabeto convenzionale elaborato a partire dal modello dei geroglifici egizi. Così ricorda Buzzati nell’Introduzione al diario postumo di Brambilla :  

Altra passione terribile fu per entrambi l’antico Egitto. I palpiti che ci costò l’attesa della Storia dell’arte egiziana di Maspero, […], difficilmente si possono concepire. A base di geroglifici si stabilì un nostro alfabeto convenzionale con cui ci si scriveva lunghe lettere. 5  

1

2   Ivi, p. 45.   Ivi, p. 46.  A. Biondi, Metafora e sogno : la narrativa di Buzzati fra « Italia magica » e « surrealismo italiano », in A. Biondi et alii, Il pianeta Buzzati, Atti del Convegno Internazionale (Feltre e Belluno, 12-15 ottobre 1989), a cura di N. Giannetto, Milano, Mondadori, 1992, pp. 15-59 : 22. 4  D. Buzzati, Mania dei viaggi, in Id., In quel preciso momento, Milano, Mondadori, 1991, pp. 92-96 : 96. 5  D. Buzzati, Testimonianza di due amici, in A. Brambilla, Diario, Milano, Mondadori, 1967, pp. 11-47 : 24. 3

















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Un alfabeto che assumeva la funzione di privilegiata chiave d’accesso, di medium essenziale per avvicinarsi alle antichità egizie, per calarsi ancora di più in quel mondo remoto che, ammantato di mistero e di esotiche lontananze, non poteva che esercitare una profonda e irresistibile fascinazione nei confronti dei due adolescenti (lo stesso Buzzati, in età matura, rievocherà questa esperienza e questa passione definendola come una vera e propria « follia »). 1 Ed è un mondo, si badi, cui Buzzati tornerà sempre con nostalgia e grato ricordo, soprattutto quando si sentiva maggiormente oppresso dalla grigia e plumbea Milano, 2 ma anche dalla fatica e dalla mediocrità di un lavoro di cui andava scoprendo il carattere alienante. Si veda al riguardo il brano seguente, tratto da una lettera (resa disponibile da Massimo Depaoli) del 12 settembre 1930 :  









Se ancora tu dovessi andare via, eccomi allora aggrappato con affanno al lavoro giornaliero, a prendere passione per quelle cose, il cui amore spinge senza ritorno nella spaventosa mediocrità. Il cielo di Milano, le sue case, le sue vie, i suoi tram mi appaiono di piombo. Ma il mondo di Nembrotte, di Ezdubar, di Horus, di Anubis, ci visse dentro e ancora, se pur diverso, dovrà rivivere, per la nostra serenità. Preferisco le bambolaggini da studente, che le cure della nostra professione. 3  

Tra queste « bambolaggini » rientra, appunto, la creazione di un codice cifrato che, se da un lato non rispetta a pieno i caratteri della scrittura ideografica, dall’altro è stato assemblato con « scrupolo quasi filologico », 4 il che ha reso possibile il riconoscimento della chiave di lettura e, quindi, la trascrizione dei testi in cui era stato utilizzato. Ma attenzione, tutto questo non si risolve in un gioco, non è un passatempo o un hobby intercambiabile come qualsiasi altro. Certo, Buzzati e l’amico Brambilla si interessano delle antichità egizie con quel tanto di superficialità e di improvvisazione che si può facilmente comprendere – e perdonare – in due studenti ginnasiali, ma anche con l’intuizione profonda di chi riesce a cogliere, pur senza rendersene pienamente conto, il fascino di un mondo in cui si condensano alcuni temi essenziali, dal forte, irresi 









1  Y. Panafieu, Dino Buzzati : un autoritratto. Dialoghi con Yves Panafieu (Luglio-settembre 1971), Edizione speciale del Convegno di Feltre, Liancourt-Saint-Pierre, Y. P. Editions, 1995, p. 34. 2   A questo proposito cfr. la lettera a Brambilla del 21 settembre 1946 : « Lassù naturalmente la consueta vita in città, incatenata al quotidiano lavoro, si è rivelata come una tale turpitudine che progetti di utopistiche evasioni hanno cominciato ad agitarmi » : D. Buzzati, Lettere a Brambilla, a cura di L. Simonelli, Novara, De Agostini, 1985, p. 282. 3  D. Buzzati, Il figlio della notte. Lettere inedite di Dino Buzzati ad Arturo Brambilla, a cura di M. Depaoli, « Autografo », n.s, 23, giugno 1991, pp. 50-67 : 56. 4  M. Depaoli, Lingua « familiare » : parola e immagine nelle « Lettere a Brambilla », in S. Pautasso et alii, Dino Buzzati : la lingua, le lingue, cit., pp. 65-79 : 67.  





























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il mito e l ’ altrove stibile richiamo esistenziale per due adolescenti particolarmente sensibili. Ha dunque ragione Depaoli, allorché rivendica la significatività delle scelte e degli interessi culturali del giovane Buzzati, scelte e interessi che si pongono subito al di là della pura e semplice infatuazione, proprio perché adombrano, a ben vedere, le fasi iniziali del costituirsi di un vero e proprio immaginario :  

Per un narratore come Buzzati, costantemente fedele ad alcuni temi quali la morte, l’attesa, l’incubo, la deformazione magica del reale, il periodo della giovinezza è quello nel quale va plasmandosi un immaginario, qui calato nelle forme egiziane antiche, poi in altre, cosiddette “nordiche”, ma nella sostanza identico. 1  

Ci siamo soffermati su questi aspetti tutt’altro che marginali della formazione di Buzzati (ma anche dei suoi orientamenti culturali e della sua precoce creatività), perché vi è un racconto, Il re a Horm el-Hagar, nel quale gli elementi che abbiamo individuato si ripresentano in una singolare combinazione. Il testo, in effetti, risulta interessante per due ragioni concomitanti, che ci riportano alle passioni del Buzzati adolescente e, in particolare, all’interesse per le antichità egizie, di cui si è detto : a) l’ambientazione egiziana, in una località prossima « al cantiere per gli scavi del palazzo di Meneftah II » 2 (siamo dunque in un sito di interesse archeologico) ; b) l’insistenza sul tema della decifrazione/traduzione, ripreso e declinato in forme di volta in volta diverse. Ed è un tema, quest’ultimo, che s’impone fin dalle prime battute del racconto, allorché si rievoca, nella modalità del resoconto analettico, il recente ritrovamento di una stele « uscita dalla sabbia, dopo molti secoli di buio » ; una stele che appare subito a Jean Leclerc, il direttore degli scavi di Horm el-Hagar, come « di grande interesse per ciò che rifletteva il regno, finora rimasto oscuro, di Meneftah II ». 3 Il testo dell’iscrizione, che pare riferirsi alla « sottomissione di vari signorotti del Basso Nilo », viene quindi tradotto, ma solo fino a un certo punto, dall’esperto (anche se un po’ disilluso) Leclerc :  



























“I re due volte dai nomi del nord e dalle paludi sono venuti a prosternarsi dinanzi al faraone, sua maestà, vita, salute, forza” […] “e sconfitti lo hanno aspettato alla porta del tempio […], in mano tenevano corone di fiori ma gli occhi non sono stati pari alla sua luce, le membra ai suoi comandi, le orecchie alla sua voce, le parole allo splendore di Meneftah, figlio di Ammone, vita, salute, forza…”. La notte precedente, al lume di un petromax, la decifrazione non era andata oltre. 4  

1

 M. Depaoli, Il « Fondo Dino Buzzati », « Autografo », n.s., 19, febbraio 1990, pp. 101-108 : 105-106. 2  D. Buzzati, Il re a Horm el-Hagar, in Id., Sessanta racconti, cit., pp. 150-160 : 150. (D’ora in 3 avanti indicato con la sigla RHH).   Ivi, pp. 150-151. 4   Ivi, p. 151.  











il viaggio, il mito e l ’‘ altrove ’ nel primo buzzati

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Ma il problema della decifrazione si pone anche per l’altro personaggio che si incontra nelle prime pagine del racconto : quel conte Mandranico, « vecchio re » in esilio, nonché intenditore e appassionato di archeologia, il quale si esprime in una particolare e incomprensibile loquela, un linguaggio bizzarro che non corrisponde a nessuna lingua straniera conosciuta e che necessita, pertanto, di immediata traduzione da parte del barone Fantin, uno degli accompagnatori arrivati al seguito dell’illustre personaggio. Ascoltiamo dunque le prime parole pronunciate dal conte Mandranico, una sequenza di monosillabi e di termini in apparenza privi di significato :  







« Ta scianti cencio tan ninciatii levoo… ? » domandò con voce chioccia il conte Mandranico, aprendo e chiudendo la bocca in modo curioso. Leclerc non capì una parola. Fulmineo, guardò il serio barone chiedendo aiuto. E il barone doveva essere allenatissimo a difficoltà del genere perché, impassibile, si affrettò a spiegare : « Monsieur le comte desidera sapere da quanto tempo si sono iniziati gli scavi ». 1  













In questo clima in cui non mancano segnali di tensione e di crescente inquietudine, come l’improvvisa comparsa di « nuvole strane che salivano dal cuore dell’Africa », si svolge la visita agli scavi, durante la quale Leclerc ricorda i dialoghi che in un tempo immemorabile si svolgevano tra i faraoni e le antiche statue parlanti degli dei :  





« dicevo che i re, prima di partire per la guerre, chiedevano consigli a questa statua, una specie di oracolo… se la statua restava immobile la risposta era no… se muoveva la testa era approvazione… Alle volte queste statue parlavano… chissà che voce… i re soltanto riuscivano a resistere… i re perché anche loro erano dei… ». 2  





È questo il momento di svolta, il passaggio che sposta l’attenzione dal piano della ordinarietà a quello dell’irrazionale che gradualmente si insinua, dalla banalità quotidiana alla dimensione alternativa del possibile e dell’inverosimile, una dimensione che coincide, in questo caso, con l’evocazione del mito, la cui sostanza appare vera e falsa nello stesso tempo. E in effetti, come ha scritto Luigi Alfieri, « il mito ci si presenta subito con un volto duplice, ambiguo, sfuggente : la sua definizione “giusta” è “non-verità”, ma questa stessa definizione è possibile solo in quanto, nell’ambito di realtà a cui di volta in volta ci si riferisce dicendo che qualcosa è un mito, questo qualcosa si presenta come verità, è creduto vero. Il mito non è vero per noi (che abbiamo ragione) ; è invece vero per altri (che sbagliano). È una non-verità che si ostina a dire di essere vera, senza che noi le crediamo ». 3  









1

2   Ivi, p. 153.   Ivi, p. 156.  L. Alfieri, La ‘scienza di ciò che non c’è’, in F. Masini et alii, Risalire il Nilo. Mito fiaba allegoria, a cura di F. Masini e G. Schiavoni, Palermo, Sellerio, 1983, pp. 188-200 : 189. 3



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il mito e l ’ altrove E non vi è dubbio che il racconto buzzatiano giochi proprio sul continuo affiorare di questa « non-verità che si ostina a dire di essere vera » ; l’intera vicenda si sviluppa infatti attraverso un filo che corre sul discrimine sottilissimo tra vero e non vero, credibile e non credibile. Si tratta, d’altra parte, di una modalità tipica del fantastico, genere che si caratterizza, come è noto, per la tendenza ad accreditare l’inverosimile, a rendere credibile ciò che appare del tutto al di fuori della normalità e della « inalterabile legalità quotidiana ». 1 Questo gioco di alternative investe anche gli atteggiamenti e le reazioni dello stesso Leclerc, il quale, dopo aver rievocato i mitici colloqui con le statue degli dei, si guarda alle spalle con un senso di smarrimento, quasi temendo che l’impossibile si realizzi e che l’inverosimile si manifesti all’improvviso nella sua realtà effettiva (« Così dicendo si voltò, nel vago dubbio di aver commesso una gaffe »). 2 Ma, come si è detto, è chiaro che il confronto tra vero e falso, credibile e incredibile percorre tutte le pagine del racconto : si pensi, ad esempio, al sorriso pieno di degnazione (ma anche di ironico scetticismo) con cui Leclerc accoglie le parole di un assistente che gli confessa la propria preoccupazione a causa dell’evidente ‘inquietudine’ degli dei :  





















Un uomo anziano col tarbusc e una lunga tunica bianca avanzò dall’interno del tempio, avvicinandosi a Leclerc e gli parlò in lingua araba, concitato. Leclerc gli rispondeva scuotendo il capo con un sorriso. « Scusi, che cosa dice ? » chiese il tenente Christani incuriosito. […] « Le loro solite storie » fece Leclerc « dice che oggi gli dèi sono inquieti… dice sempre così quando le cose non vanno per il loro verso… ». 3  















È da notare, peraltro, come in questo caso Leclerc rifiuti ogni riferimento mitico-irrazionale (l’inquietudine degli dèi di cui parla l’assistente) e come ad esso sostituisca una spiegazione che rientra nell’ordine della logica, scegliendo, di fatto, una lettura del mito come immaginazione e non-verità : « “c’è un masso che non riescono a spostare, è slittato fuori dalle guide, adesso dovranno rifare l’argano” ». 4 E lo stesso scetticismo viene riaffermato dal conte Mandranico, anche se in termini di maggiore ambiguità : « “Sono inquieti… eh… eh…” esclamò, non si capiva in che senso, il conte Mandranico, rianimatosi all’improvviso ». 5 Ciononostante, una volta entrato nella cappella funeraria di Thot, il conte proverà ugualmente a interpellare le statue, nella speranza di avviare un dialogo alla maniera degli antichi faraoni, forse anche solo per gioco  













1



  R. Caillois, Nel cuore del fantastico, trad. it. di L. Guarino, Milano, Feltrinelli, 1984, p. 92. 3   RHH, p. 156.   Ivi, pp. 154-155. 4 5   Ivi, p. 155.   Ibidem. 2

il viaggio, il mito e l ’‘ altrove ’ nel primo buzzati 103 o per una specie di sfida insensata. Ma è un dialogo che appare subito difficile se non addirittura improbabile, e ciò a causa dell’evidente inadeguatezza dell’interrogante :  

Stava in piedi dinanzi alla statua di Thot e parlava. La voce non giungeva fino a lui ma l’archeologo scorgeva distintamente la bocca che si apriva e chiudeva in quel curioso modo da tartaruga. Monologava il signor conte ? o veramente interpellava il dio come i remoti faraoni ? Ma che cosa poteva domandargli ? Non guerre da poter combattere c’erano più per lui, non leggi da promulgare, né progetti, né sogni. […] Buono e cattivo della vita era stato speso fino in fondo. Non gli restavano che dei poveri giorni superflui, proprio l’ultimo pezzettino di strada. Quale ostinazione lo teneva dunque perché osasse tentare gli dei ? 1  









E inadeguato il conte lo è per davvero, anche perché si presenta come un re senza regno, 2 come un sovrano spodestato, ormai privo di ambizioni e di sogni da realizzare. E tuttavia accade l’imprevisto : nonostante sia stata provocata da un impostore, da un re che non è più tale (o forse proprio per questo), la statua si anima e comincia a parlare, in modo incomprensibile ma senza dubbio minaccioso :  





Un suono di legni cavi rotolanti, o di lugubri tamburi, così pressappoco dalla cappella di Thot. E poi si ampliò in un mugolo cavernoso, confusamente articolato, simile, ma ancora peggio, al lamento delle cammelle nel parto. C’era dentro una specie di inferno. 3  

A questo punto, è chiaro, la statua di Thot non parla certo in onore del rearcheologo ; 4 dal becco mozzo, che si apre e chiude in modo bestiale « formando alla base un ghigno », non possono che uscire « roche maledizioni » dalle « tetre risonanze ». 5 La colpa di Mandranico, che immagina – anche se solo per gioco – di potersi sostituire ai « remoti faraoni » e di riprendere così un dialogo interrotto, non consiste solo, come scrive Buzzati, nel « tentare gli dei », ma anche nella volontà di guadagnare proditoriamente l’ingresso nel mondo del mito, quasi forzandone gli accessi attraverso l’uso di un linguaggio (non a caso incerto e balbettante) che risulta del tutto incongruo rispetto alla dimensione a cui si vorrebbe pervenire. 6    

























1

  Ivi, pp. 157-158.  « Il suo regno era rimasto di là dei mari, per sempre perduto » : ivi, p. 157. 3   Ivi, p. 158. 4   Cfr. N. Giannetto, Sessanta racconti e una lingua da scoprire, cit., p. 46. 5   RHH, p. 158. 6   Che il linguaggio costituisca un medium essenziale per avvicinarsi alla realtà del mito è dimostrato, tra l’altro, da uno dei racconti più noti della prima raccolta buzzatiana (Cèvere), solo che in quel caso l’ostacolo linguistico, rappresentato dalla differenza e dalla novità della 2







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il mito e l ’ altrove A questo proposito il testo non offre molti appigli, ma vi è un passaggio che non lascia dubbi sul tipo di linguaggio utilizzato dal conte e, insieme, sulla sua interiore sordità di fronte alle manifestazioni del soprannaturale : « Ingegnoso : proprio ingegnoso… peccato che force la molla si è rotta… biciognava ciassi tabli cicata… ». 1 È questa la frase con cui il conte commenta la performance del dio, e che Buzzati, ben consapevole della sua importanza, riporta in una forma parzialmente comprensibile, a sottolineare, come si diceva, la sordità del personaggio, ma anche il suo essere chiuso nella sfera della razionalità e della tecnica (come suggeriscono, a ben vedere, termini quali « molla » e « ingegnoso »). Nessun dubbio, allora, che sia proprio l’inadeguatezza di questo linguaggio, 2 la sua incompatibilità con la dimensione mitica, a suscitare l’ira sdegnata degli dei, i quali sono, non diversamente dal drago protagonista di un altro celebre racconto, i custodi e i depositari di quel tempo mitico che può essere dissepolto e riportato alla luce nelle sue vestigia materiali, ma la cui essenza è destinata a rimanere inavvicinabile e inconoscibile, a restare chiusa nella sua alterità assoluta. Anche in questo caso, come alla fine degli anni Sessanta avverrà nelle tavole del Poema a fumetti, il discorso di Buzzati è dunque volto a sottolineare l’inaccessibilità del mythos, la sua irrecuperabilità da parte dell’uomo moderno, ormai incapace di credere nell’irrazionale, di affidarsi a qualcosa che non rientri nelle maglie dell’evidenza e della ‘legalità’ quotidiana. È questo il problema del conte Mandranico, che, inconsapevole della distanza insuperabile che lo separa dalla dimensione mitica, si illude, come si è detto, di poterla colmare imitando gli antichi faraoni, ai quali soltanto era concesso il privilegio di dialogare direttamente con gli dèi. Di conseguenza, quando il miracolo sembra nuovamente ripetersi grazie  



















lingua utilizzata del dio traghettatore dei morti (una sorta di versione africana del Caronte virgiliano), era in qualche modo superato dalla ‘fede’ del protagonista, dalla sua disponibilità a credere nell’inverosimile : « Otto remi toccarono il filo dell’acqua, la piroga lentissimamente si mosse e tra le due muraglie arboree io udii alzarsi la voce di Cèvere ; era straordinariamente profonda, senza allegria né mestizia, staccantesi a poco a poco dalle miserie della terra. “Il mio nome è Cèvere” diceva (oh, io non conoscevo certo la sua lingua barbarica, eppure capivo) » : D. Buzzati, Cèvere, in Id., I sette messaggeri, Milano, Mondadori, 1984, pp. 134-135. Cfr. anche N. Bonifazi, Teoria del fantastico e il racconto fantastico in Italia, cit., pp. 150-151. 1   RHH, p. 158. 2   Al riguardo si veda N. Giannetto, Lettura de « Il re a Horm-el-Hagar » di Dino Buzzati, in F. Bruni et alii, « Leggiadre donne… ». Novella e racconto breve in Italia, a cura di F. Bruni, Venezia, Marsilio, 2000, pp. 249-260 : 254 : « le oscurità di linguaggio del protagonista hanno prima di tutto la funzione di stabilire distanza e connotare superiorità, ma anche quella di simboleggiare, materializzandole, le difficoltà di comunicazione e la mancanza di sintonia che dividono fra loro i personaggi e in particolare contrappongono la sensibilità dell’archeologo all’aridità del re ».  

























il viaggio, il mito e l ’‘ altrove ’ nel primo buzzati 105 alla statua di Thot che comincia improvvisamente a parlare (ma in modo del tutto diverso rispetto al passato : non per comunicare, ma per scagliare anatemi e maledizioni), Mandranico, chiuso nella propria meschinità e aridità spirituale, non potrà fare altro che allontanarsi deluso, « sordo ai misteri della vita, così misero da non capire neanche che gli aveva parlato un dio ». 1 Ma vi sono anche altri elementi da sottolineare. Particolare importanza hanno, ad esempio, i continui riferimenti alla presenza della sabbia del deserto : sabbia che inizia a ricoprire la zona degli scavi staccandosi poco per volta dalle « alte ripe precipitose, calcinate e cadenti » e che si pone come figura del tempo, come emblema della sua azione che, orazianamente, ha il potere di nascondere ma anche di disvelare (come dimostra il ritrovamento della stele di cui si parla all’inizio del racconto) le opere dell’uomo : 2  













   

Leclerc si accorse che tutt’attorno, dalle bruciate ripe, il deserto si muoveva. Piccole frane smottavano qua e là, silenziosamente, simili a bestie guardinghe. In moto concentrico colavano giù per i valloncelli, canali, fessure, di terrazzo in terrazzo, ora fermandosi, poi riprendendo, strisciavano verso il monumento dissepolto. E non c’era un filo di vento. 3  

Ma questo inarrestabile precipitare della sabbia è anche l’ennesimo richiamo alla impossibilità di recuperare il mito arcaico : le frane che sempre più numerose incombono sulla zona degli scavi, il reiterato movimento franoso, non sono altro, come si è visto analizzando L’uccisione del drago, che la rappresentazione allegorica del venir meno di una dimensione – quella del mito e, in generale, della fantasia, del sogno, della proiezione fantastica – che per Buzzati rivestiva un’importanza eguale, se non superiore, a quella della realtà effettuale (una realtà, quest’ultima, di cui il Bellunese avvertiva tutta l’insufficienza, l’intollerabile e soffocante limitatezza). 4 Il messaggio (quel messaggio che nel Poema a fumetti verrà ribadito da una sfiduciata e disillusa Eura, anche lei figura antimitica, personaggio emblematico della moderna sordità ai richiami e alle suggestioni del mito arcaico) non potrebbe essere più chiaro : l’uomo di oggi si trova davvero in esilio rispetto alla realtà del mito, la quale gli si offre nel segno di una lontananza e di una estraneità non più superabili, come dimensione che in qualche modo  





1

  RHH, p. 159.  « Il fruscio di prima rodeva intorno, misterioso, come se i secoli assediassero lentamente 3 il santuario cercando di riseppellirlo » : ivi, p. 156.   Ivi, p. 159. 4   Cfr., a questo proposito, C. Toscani, Guida alla lettura di Buzzati, Milano, Mondadori, 1987, p. 119 : « Buzzati appartiene alla schiera degli intellettuali che considerano l’uomo un animale fantastico, poco propenso alla piatta e avvilente quotidianità in cui si svolge gran parte della sua vita. Non perché egli debba aspirare a uno straordinario destino, […], ma perché ciò che veramente gli spetta, ciò che veramente la sua natura si merita, abita oltre il consueto aspetto del tempo e delle cose ». 2













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il mito e l ’ altrove è ancora presente ma che continuamente si sottrae, di fatto, all’orizzonte della nostra esperienza : « il mito, – ha scritto Furio Jesi citando Hegel – ammesso per ipotesi che esista, è un qualcosa che l’uomo di oggi non può presupporre “come immediatamente dato dalla rappresentazione” ». 1 Data quindi per scontata l’irrecuperabilità della cosiddetta mitologia « in flagranti », 2 all’uomo moderno non resta altro che misurare la distanza invalicabile che lo allontana definitivamente dalla sfera del mito, riconoscendo l’inaccessibilità di una dimensione ‘altra’ che gli è definitivamente preclusa : come ha scritto Marisa Bulgheroni, « la soglia del mito non si varca due volte ». 3 L’abisso che separa il personaggio buzzatiano dagli antichi faraoni non poteva essere indicato più chiaramente, e la sua condizione di re in esilio, di sovrano estromesso dal proprio regno, cui si accenna nelle prime pagine del racconto, 4 non è un dettaglio trascurabile in quanto rimanda, come si è detto, alla condizione dell’uomo moderno, allontanato ed esiliato da quel mondo del mito che egli stesso ha contribuito a distruggere, ma per il quale continua a provare una profonda e struggente nostalgia. È chiaro, peraltro, che Buzzati coglie questi elementi in forza della sua straordinaria capacità intuitiva, senza passare cioè attraverso le maglie di una riflessione di stampo puramente intellettualistico : verificata (o, per meglio dire : intuita) l’assoluta indisponibilità dell’esperienza mitica, lo scrittore non potrà che misurarsi con la nostalgia di un tempo irrecuperabile e definitivamente perduto, una nostalgia che lo porterà fatalmente alla creazione di nuovi miti, nel tentativo, per forza di cose parziale e irrisolto, di ancorarsi a qualcosa che superi i confini sempre troppo angusti e soffocanti della quotidianità. Come ha scritto Alvaro Biondi, proponendo un confronto col pur diversissimo Bontempelli, Buzzati « è certo un inventore di miti moderni, anzi il suo Deserto dei Tartari è veramente il mito dell’uomo novecentesco, della sua condizione spirituale e storica ; […] ». 5  



































5. La ‘persuasione’ possibile : « Uomo in africa »  





Nell’intervista rilasciata a Yves Panafieu nel 1971, Buzzati ricollega esplicitamente il suo soggiorno in Africa all’esperienza, per lui abbastanza inusuale, della felicità assoluta, da intendersi come momento unico e forse irripetibile di pienezza esistenziale :  

1

2  F. Jesi, Mito, Milano, isedi, 1973, p. 13.   Ivi, p. 11.  M. Bulgheroni, Postfazione a E. M. Forster, Maurice, Milano, Garzanti, 1999, p. 324. 4  « A questo punto il Leclerc d’un subito riconobbe l’ospite : troppo spesso i giornali egiziani avevano pubblicato la fotografia del re straniero che viveva in esilio al Cairo » : RHH, p. 152. 5  A. Biondi, Metafora e sogno : la narrativa di Buzzati fra « Italia magica » e « surrealismo italiano », cit., p. 22. 3



















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C’è stato un momento solo, nella mia vita, in cui mi sono detto : « Ma adesso, tu non sei felice ?... Sì, sono felice »… Così ho dovuto rispondere allora : era in Africa, durante un giro che ho fatto con quel gruppo di cavalleria indigena di cui ti parlavo. Ed era un pomeriggio. Si cavalcava alle falde di una specie di vulcano, in un paesaggio meraviglioso, meraviglioso nel senso africano, cioè di mistero e di solitudine. C’era inoltre un sentimento di benessere fisico, e il gusto, anche un po’, dell’avventura, e il piacere di trovarsi con amici. […] E io per il momento mi son detto : « Puoi desiderare qualcosa di più ? ». No. Perché in quel momento ero completamente felice. Quello è l’unico momento in cui io consapevolmente sia stato felice [corsivo dell’Autore]. 1  



















Di questo momento abbiamo, peraltro, una testimonianza buzzatiana ancora più diretta, in quanto restituita a caldo, a breve distanza dall’accaduto. Si tratta di una lettera del 25 agosto 1939, scritta ad Addis Abeba e indirizzata all’amico Arturo Brambilla. Ecco il passo che ci interessa in modo particolare, nel quale emerge, ancora una volta, l’unicità dell’esperienza vissuta :  

Proprio quel giorno, […], io ho vissuto una delle più belle ore della vita, pari a certi momenti di croda. Mi trovavo infatti in una valletta selvaggia, cavalcante con gli ascari del iv Gruppo squadroni, mentre gli sciftà sparavano dall’alto con i fucili […] Nel giro col iv Gruppo mi sono molto divertito, mentre andavo a cavallo in mezzo a certi boschi e boscaglie, sotto al sole, due tre volte mi sono accorto con una certa meraviglia che mi sentivo assolutamente felice. 2  

Ma vi è un altro elemento – al di là del gusto dell’avventura – che concorre a creare questa felicità così piena (e di cui Buzzati si dichiara, come si è visto, perfettamente consapevole) : l’imporsi, nei giorni passati in Etiopia, di una diversa percezione del tempo, decurtata di quella componente di ansia che è inscindibile, per l’uomo occidentale, dall’esperienza della temporalità. Citiamo, anche in questo caso, dall’intervista rilasciata a Panafieu :  



Si vede che c’era anche – e questa è una cosa tipica, pure, dell’Africa – la mancanza di fretta, la mancanza di ansie. Nella vita normale io sono sempre assillato da preoccupazioni molteplici. « Adesso, cosa facciamo ?... E fra un’ora ?... Questo pomeriggio deve venire quello lì, e poi questa sera devo incontrare quell’altro, e poi domani mattina devo partire per Torino, eccetera… ». Ora tutto ciò è una cosa che mi angoscia. 3  









A colpire, in questo brano, è la lucidità con cui Buzzati coglie la tendenza, propria del mondo occidentale, per cui gli uomini pre-occupano continua1

 Y. Panafieu, Dino Buzzati : un autoritratto, cit., p. 51.  D. Buzzati, Il figlio della notte, cit., pp. 56 e 58. 3  Y. Panafieu, Dino Buzzati : un autoritratto, cit., p. 51.  

2



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il mito e l ’ altrove mente il futuro (con il verbo da intendersi in senso etimologico, cioè come ‘occupano prima, in anticipo’), fissando una serie di impegni e di appuntamenti che li proiettano costantemente in avanti, nell’illusione di garantirsi ciò che, in realtà, appartiene loro solo in virtù di una previsione, di un calcolo e di una determinazione del tutto ipotetici e impossibili da verificare. Non si possono non ricordare, a questo proposito, le riflessioni proposte da Carlo Michelstaedter ne La persuasione e la rettorica, il capolavoro in cui il giovane filosofo stigmatizzava l’atteggiamento degli uomini i quali perdono il presente – e quindi la vita vera – nel momento in cui puntano tutto sul futuro, sulla indiscutibile necessità della loro ‘continuazione’, che essi subiscono come un compito e un dovere inderogabile (non diversamente dall’animale che, ingannato dal « dio benevolo », si lascia attrarre dai richiami che lo riportano di continuo a ciò che non è ancora, così da « continuare e non esser persuaso mai »). 1 Per quanto trasposti nel linguaggio rigoroso – e apparentemente arduo – della meditazione filosofica, i termini della questione sono esattamente gli stessi :  











Né alcuna vita è mai sazia di vivere in alcun presente, ché tanto è vita, quanto si continua, e si continua nel futuro, quanto manca del vivere. Che se si possedesse ora qui tutta e di niente mancasse, se niente l’aspettasse nel futuro, non si continuerebbe : cesserebbe d’esser vita. Tante cose ci attirano nel futuro, ma nel presente invano vogliamo possederle. […] Ma l’uomo vuole dalle altre cose nel tempo futuro quello che in sé gli manca : il possesso di sé stesso : ma quanto vuole e tanto occupato dal futuro sfugge a sé stesso in ogni presente [corsivo dell’Autore]. 2  







È anche a partire da queste riflessioni che possiamo riconsiderare il noto tema della fuga del tempo, un tema tipicamente buzzatiano, ma per il quale si possono indicare, com’è stato osservato, 3 riferimenti e ascendenze che ci riportano a quei testi classici che Buzzati aveva appassionatamente studiato sui banchi del liceo. E in effetti, quando nel Deserto il narratore interviene per ricordare a Drogo l’azione distruttiva prodotta dal fluire del tempo, 4 è assai probabile che Buzzati avesse in mente il modello virgiliano delle Georgiche, dal terzo libro delle quali deriva l’aggettivo inreparabile, 5 anche se è chiaro che il modello finisce per essere mascherato, dato che l’autore ri-codifica e ri-contestualizza la citazione.  





1

 C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, a cura di S. Campailla, Milano, Adelphi, 2 1982, p. 50.   Ivi, pp. 40-41. 3   Cfr. V. Caratozzolo, Miti, letterature e filosofie nel Deserto dei Tartari, « Testo. Studi di teoria e storia della letteratura e della critica », n.s., xxiii, 43, gennaio-giugno 2002, pp. 137-166 : 147. 4  « proprio quella notte cominciava per lui l’irreparabile fuga del tempo » : D. Buzzati, Il deserto dei Tartari, cit., p. 48. 5  « Sed fugit interea, fugit inreparabile tempus, / singula dum capti circumvectamur amore » : Georg., iii, 284-285.  

















il viaggio, il mito e l ’‘ altrove ’ nel primo buzzati 109 Non solo : se si considera il significato letterale di irreparabile (‘a cui non si può porre riparo’), è quasi inevitabile tornare alle pagine di Michelstaedter e, in modo particolare, alla sua meditazione sul terrore provocato dal pensiero della morte :  



Di fronte al tempo che viene lento inesorabile, egli si sente impotente come un morto a curar la sua vita, e soffre ogni attimo il dolore della morte. Questo dolore accomuna tutte le cose che vivono e non hanno in sé la vita, che vivono senza persuasione, che come vivono temono la morte. 1  

E non è forse vero che Drogo, posto anch’egli « di fronte al tempo che viene lento inesorabile », è il perfetto emblema dell’uomo che non può « curar[e] » la propria vita, e che diviene, proprio per questo, la vittima predestinata del divenire, di quella temporalità che è illusoriamente ciclica 2 ma che si dispiega, in realtà, nelle misure inesorabili della progressione lineare. Si rilegga, al riguardo, l’incipit del cap. xxiv del romanzo :  











Il tempo intanto correva, il suo battito silenzioso scandisce sempre più precipitoso la vita […]. “Ferma, ferma !” si vorrebbe gridare, ma si capisce ch’è inutile. Tutto quanto fugge via, gli uomini, le stagioni, le nubi ; e non serve aggrapparsi alle pietre, resistere in cima a qualche scoglio, le dita stanche si aprono, le braccia si afflosciano inerti, si è trascinati ancora nel fiume, che pare lento ma non si ferma mai. Di giorno in giorno Drogo sentiva aumentare questa misteriosa rovina, e invano cercava di trattenerla. 3  





Ci fermiamo qui, avvertendo che questo discorso, lungi dal costituire una digressione, rappresenta al contrario la premessa indispensabile per leggere in tutte le sue sfumature un racconto come Uomo in Africa, pubblicato da Buzzati nel 1940 sul secondo numero della rivista « Primato ». 4 Ora, ciò che colpisce nel testo è anzitutto la duplicità di soluzioni con cui si definisce il rapporto personaggio-tempo : da una parte, come risulta dalla sequenza di apertura, il protagonista sembra vivere in una dimensione sospesa, connotata da una sostanziale indifferenza nei confronti della temporalità, da cui riesce a non farsi schiacciare (« Sdraiato su una poltrona, consumava le ore, spesso solo, senza alcuna possibile conclusione »), 5 dall’altra, invece, si ripropone anche per lui il tema dell’inesorabile incal 











1



 C. Michelstaedter, op. cit., p. 59.   Sulla presenza nel Deserto del tempo circolare della natura in opposizione a quello lineare dell’uomo, si veda I. Gallinaro, Morire in locanda. Drogo e i suoi padri, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2007, pp. 27-29 : 27 : « il Deserto si potrebbe definire un romanzo autunnale, in cui l’alternarsi delle stagioni è sottolineato soprattutto attraverso le nevi, che azzerano il tempo e lo spazio facendo perdere ogni punto di riferimento ». 3  D. Buzzati, Il deserto dei Tartari, cit., p. 184. 4   Id., Uomo in Africa, « Primato. Lettere e arti d’Italia », i, 2, 1940, pp. 18-20. (D’ora in avanti 5 indicato con la sigla UA).   Ivi, p. 18. 2













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il mito e l ’ altrove zare del tempo, un tema che viene declinato attraverso la personificazione dei giorni e degli anni pronti a ‘scavalcare’ un soggetto che appare privo di ogni difesa di fronte al loro attacco :  

Gli anni lo avrebbero scavalcato, lui non sarebbe stato più buono di tenere il loro passo infernale e sarebbe rimasto indietro, tra la polvere della strada, fermo, guardando i suoi vecchi compagni sparire nel fondo. 1  

Una situazione, come si può osservare, del tutto analoga a quella descritta in un passo del cap. xxi del Deserto dei Tartari :  

intanto gli altri sopraggiungono, avidamente si contendono il passo per essere i primi, sopravanzano di corsa Drogo, senza neppure curarsene, lo lasciano indietro. Lui li guarda scomparire nel fondo, perplesso, preso da insoliti dubbi : e se avesse veramente sbagliato ? Se lui fosse un uomo comune, a cui per diritto non tocca che un mediocre destino ? 2  







Oltre a ciò, si evidenzia nel racconto una tessitura molto attenta anche per quanto riguarda i tempi verbali. A grandi linee, si può osservare una netta dominanza nella prima parte del testo dell’imperfetto, il tempo che concorre a definire, come è noto, lo sfondo della narrazione, il quadro di riferimento all’interno del quale si svolge la vicenda. 3 Ed è un quadro, questo, che insiste da un lato sulla immutabilità di una situazione in apparenza priva di sviluppi (quella del protagonista, che si dichiara a più riprese desideroso di andarsene dall’Africa, ma che è in realtà trattenuto e bloccato dalla propria inerzia, dalla velleità dei propri propositi), 4 e, dall’altro, sul profilarsi di un destino che pare già segnato, almeno nella prospettiva del narratore collettivo, quel « noi » che osserva e giudica la vicenda dell’enigmatico Bondini :  









Lo vedevamo già ripiombato nell’apatia di prima, ciondolante nei vestiboli degli alberghi, in attesa che l’Africa si accorgesse ancora una volta di lui, sia pure per poco, e gli aprisse la porta. Intanto gli anni passavano (quaggiù più veloci che mai), tra qualche tempo la sua giovinezza sarebbe finita. Bondini, o Bondrini che fosse, si sarebbe trovato solo, senza uno scopo di vita, nel mezzo dell’Africa, col suo generico desiderio di tornare in Italia e nient’altro. 5  

Ma le assonanze con il Deserto finiscono qui, dato che la tematica della fuga del tempo assume nel racconto una coloritura del tutto particolare, 1

  Ibidem.  D. Buzzati, Il deserto dei Tartari, cit., p. 159. 3   Cfr. H. Weinrich, Tempus. Le funzioni dei tempi nel testo, trad. it. di M. P. La Valva e P. Rubini, Bologna, il Mulino, 2004, pp. 129-133 e pp. 162-166.   4  « Non parlava quasi mai di sé, o lo faceva in tono di pessimismo scherzoso. Si accomunava tuttavia con molti altri nel desiderio, ripetutamente espresso, di poter ritornare in Italia. […] E quanto più intenso si manifestava il desiderio di partire, tanto più riusciva enigmatica 5 l’incapacità sua a staccarsi dalle poltrone dell’atrio » : UA, p. 18.   Ibidem. 2







il viaggio, il mito e l ’‘ altrove ’ nel primo buzzati 111 e se Drogo, ignaro e inconsapevole di fronte al passare dei giorni, 1 poteva risultare come una vittima predestinata, 2 ben diversa è la condizione di Bondini, un uomo che, dopo aver tagliato « gli imbelli fili della nostalgia [che] lo tenevano legato alle spalle », 3 finisce per apparire agli italiani della colonia in una luce di superiorità, quale esempio di piena e invidiabile autorealizzazione :  











Nei precedenti incontri ci era parso (senza pensare male di lui) che ogni volta avesse sceso un gradino, sempre più in basso, verso la miseria dell’animo. Adesso non più, adesso risultava un uomo armonizzato col mondo, per guardarlo stavolta noi dovevamo alzare gli sguardi. 4  

Si modifica inoltre, rispetto al Deserto, la percezione del tempo, la modalità soggettiva che ne registra l’inesorabile fluire : e se da una parte rimane la presenza minacciosa di chrónos, il tempo che travolge e dissolve le cose nella sua corsa inarrestabile, dall’altra sembra delinearsi la possibilità di una temporalità distesa e armonica, una temporalità che non precipita il soggetto nell’angoscia, ma che determina, al contrario, sentimenti di serena e tranquilla accettazione :  



Sì, anche nelle solitudini dell’Africa, sulle foreste, sui monti corrosi, sopra le steppe e paludi, il tempo continua a passare, come in ogni parte del mondo, ma è un pensiero che non fa male. Andare lontano o no, il conto tornerà lo stesso, si sarà pur sempre arrivati il giorno che qualcuno ci toccherà lievemente una spalla avvertendoci che il gioco sta per finire. 5  

Va detto, peraltro, come questa visione pacificata non sia solo un’invenzione letteraria ma abbia un riscontro preciso nella biografia buzzatiana, almeno per quanto riguarda il periodo del soggiorno africano. Vi è infatti, nella lettera che Buzzati scrive a Brambilla nell’agosto del ’39, una frase estremamente significativa in cui emerge una riflessione (ma anche una testimonianza) che si può leggere in parallelo a quella che abbiamo appena citato : si tratta di una consonanza davvero sorprendente, e tale da evidenziare un vero e proprio cortocircuito tra dato biografico e trasposizione letteraria del vissuto : « La fuga del tempo invece di procurare pena qui è motivo di gioia, ogni giorno ammazzato è un progresso, perché negarlo ? ». 6 E anche se la formulazione che si legge nel racconto risulta, in virtù della litote (« un pensiero che non fa male »), alquanto attenuata rispetto  









1







 « Drogo […] non lo sapeva, non sospettava che la partenza gli sarebbe costata fatica né che la vita della Fortezza inghiottisse i giorni uno dopo l’altro, tutti simili, con velocità vertiginosa. Ieri e l’altro ieri erano uguali, egli non avrebbe più saputo distinguerli […]. Così si svolgeva alla sua insaputa la fuga del tempo » : D. Buzzati, Il deserto dei Tartari, cit., p. 72. 2 3   Cfr. I. Crotti, Dino Buzzati, Firenze, La Nuova Italia, 1977, p. 26.   UA, p. 19. 4 5   Ibidem.   Ibidem. 6  D. Buzzati, Il figlio della notte, cit., p. 58.  





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il mito e l ’ altrove a quella che possiamo leggere nella lettera, è chiaro che la sostanza non cambia : durante la permanenza in Africa Buzzati ebbe modo di esperire una temporalità del tutto diversa, indubbiamente ‘altra’ rispetto ai canoni della cultura e della tradizione occidentale (quella tradizione che, come è noto, ha identificato l’uomo con la dimensione stessa della temporalità, al punto da farne due entità inscindibili). 1 Non sarà sbagliato, allora, pensare che Buzzati abbia trasposto nella vicenda di Bondini non solo la propria esperienza africana, ma anche, e soprattutto, questa scoperta di un tempo nuovo e diverso, sottratto al predominio dell’ansia, al bisogno ossessivo della continua pre-occupazione del futuro. In questo modo, è l’idea stessa del tempo, inteso come proiezione e progettualità ossessiva, scandita in base a obiettivi e mete da raggiungere, a entrare in crisi : Bondini, che trascorre gran parte delle sue giornate ciondolando indifferente « nei vestiboli degli alberghi », 2 è colui che riesce, in qualche modo, a sottrarsi all’inganno della temporalità, a disinnescare quella smania, quella tensione compulsiva che ci proietta continuamente in avanti, 3 in una dimensione che di fatto non ci appartiene e su cui, come si è detto, non è possibile accampare diritti. Gli uomini, che s’illudono in tal modo di poter controllare la vita, di fatto la perdono, visto che è il presente – come scriveva Michelstaedter – l’unico vero possesso dell’uomo, la sola dimensione, certa e intangibile, che non rientra nella disponibilità della morte :  















Chi vuol aver un attimo solo sua la sua vita, esser un attimo solo persuaso di ciò che fa – deve impossessarsi del presente ; vedere ogni presente come l’ultimo, come se fosse certa dopo la morte : e nell’oscurità crearsi da sé la vita. A chi ha la sua vita nel presente, la morte nulla toglie […]. 4  





Non sarà un caso, allora, che a questa riscoperta del presente corrisponda una progressiva riduzione dei desideri, un ridimensionarsi dei progetti, una generale riconsiderazione delle mete da raggiungere ; è come se Bondini, avendo la propria vita nel presente, avesse rinunciato del tutto a realizzarsi nel futuro, fino al punto di respingere l’atteggiamento degli altri uomini, impegnati a dare un senso alla vita mediante la fissazione di scadenze e di obiettivi da conseguire.  

1   A questo proposito cfr. M. Eliade, Il mito dell’alchimia, a cura di F. Garlato, Roma, Avanzini e Torraca, 1968, p. 192 : « l’uomo delle società moderne ha finito per assumere il Tempo non solamente nei suoi rapporti con la Natura, ma anche nei suoi propri confronti. Su un piano filosofico, egli si è riconosciuto essenzialmente, e addirittura in maniera unica, un es2 sere temporale, costituito dalla temporalità, votato alla storicità ».   UA, p. 18. 3  « Il senso delle cose, il sapore del mondo è solo pel continuare, esser nati non è che voler continuare : gli uomini vivono per vivere : per non morire » : C. Michelstaedter, op. cit., p. 69. 4   Ivi, pp. 69-70.  















il viaggio, il mito e l ’‘ altrove ’ nel primo buzzati 113 La reazione degli altri, restituita nel racconto attraverso la voce del narratore collettivo, non potrà essere che di sconcerto ; non è facile, in effetti, comprendere le ragioni che determinano il comportamento di Bondini, dapprima ossessionato dal desiderio di fare ritorno in Italia, in seguito appagato da una permanenza le cui prospettive sono tutt’altro che definite :  



Mano mano che l’Africa si andava impadronendo di lui e della sua vita, i desideri di Bondini parevano ridurre progressivamente il loro respiro. Una volta era il ritorno in Italia ad apparirgli l’unica speranza. Poi fu l’Asmara che risplendeva alla mente sua […]. Oggi niente più di Diredaua bastava ad appagare i suoi sogni mondani. Ch’egli si fosse veramente dimenticato l’esistenza dell’Europa, dell’umanità diversa ed immensa, accalcata tra meravigliosi palazzi […] lungo strade fiammeggianti tutta notte di candide luci ? [...] Oppure si era compiuta una sempre maggiore rinuncia, un fondo mutamento d’animo, lui stesso inconsapevole ? 1  





È da notare, inoltre, che anche in questo caso si ha un preciso riscontro nella lettera a Brambilla dell’agosto ’39, precisamente in un passo dove Buzzati confessa il suo progressivo estraniarsi non solo rispetto all’Italia, ma anche rispetto al mondo e alle passioni di sempre, sentite ormai come qualcosa di remoto e di non più essenziale alla sua esistenza :  

Gli è certo che qui ad Addis Abeba io mi vado allenando alla soppressione degli antichi desideri. Al golf, alle montagne, a Callot, a Illa, a San Pellegrino, al mio libro (a cui voglio bene), finisco a pensarci con sempre minore dispiacere. Cose di un mondo antico e irraggiungibile. 2  

Non ci sorprende, a partire da queste premesse, che l’Africa si ponga come luogo del desiderio, come dimensione alternativa in cui « si potrebbe organizzare una vita, degna veramente dei sogni che si facevano da ragazzi ». 3 Va detto, d’altra parte, che l’Africa offre non solo un’esperienza di esotismo, di lontananza e disorientamento spazio-temporale, ma anche, e soprattutto, un’esperienza di armonia ritrovata, di perfetta corrispondenza tra l’anima individuale e l’anima del mondo, sicché, mentre in Italia (o in qualsiasi altro paese dell’Occidente) la fuga del tempo non può essere altro che motivo di angoscia, in quanto misurata sullo sfondo degli obiettivi e delle mete da raggiungere, essa diviene una realtà del tutto naturale per l’uomo che riconosca, al di là della sua finitezza, il proprio appartenere a una dimensione più vasta, nella quale le cose confluiscono e convivono armonicamente. Non sarà un caso, allora, che di Bondini si metta in evidenza, quale tratto caratterizzante (e che ritroveremo anche in chiusura di racconto), « il bonario sorriso degli uomini vicini alla natura ». 4  







1



  UA, p. 19.   Ibidem.

3

2



 D. Buzzati, Il figlio della notte, cit., p. 58.   UA, p. 20.

4

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il mito e l ’ altrove La dimensione vera di Bondini, a questo punto, non potrà che essere quella dell’‘altrove’ ; così, mentre si farà sempre più remoto il mondo degli uomini « che portano cravatte e si fermano al bar », 1 il mondo della civilizzazione insomma, ma anche della piattezza e della mediocrità borghese, per lui si andrà sempre più affermando la prospettiva di una vita integralmente africana, da condurre in « una specie di capanna fatta di canne e di fango », 2 immagine emblematica non solo della rinuncia all’Italia (e quindi all’Occidente), ma anche di uno stato in cui il tempo appare sospeso, cristallizzato in un eterno presente che ne blocca lo scorrimento :  















Essa sorgerà ai limiti del deserto, là dove finiscono i piccoli cespugli spinosi, né farà ombra, pendendo sopra di lei a perpendicolo, ignara di pietà, la massa incandescente del sole. E l’uomo che l’abita sarà lui ancora, Bondini o Bondrini, come voi preferite. 3  

La fuga del tempo (che anche in questo caso viene definita « irreparabile », esattamente come nel Deserto dei Tartari) 4 avrà corso solo per gli altri, per il narratore collettivo e per il gruppo dei coloni. Diversa, invece, è la situazione di Bondini, personaggio che sembra essersi affrancato dalle lusinghe e dagli inganni della temporalità occidentale, quella temporalità che acquista senso, come si è detto, nella misura in cui si riempie di progetti e desideri da realizzare : per l’uomo ‘persuaso’ che identifica la vita con il possesso di sé nel presente sembrano annullate le ansie, le attese, le aspettative dubitose di chi affida la propria realizzazione all’incertezza (e quindi al non essere) del futuro. Venuto meno ogni « desiderio di fuga », superata (e anzi del tutto annullata) ogni tentazione di preoccupare il futuro, non rimane altro che la vita vera, l’accoglimento del presente nella sua inesauribile e intangibile ricchezza, nel suo « vuoto » soltanto apparente. Al riguardo si veda il brano seguente, tutto costruito sulla polarizzazione tra imperfetto (che troviamo nella prima frase) e passato prossimo/presente, i tempi commentativi che restituiscono la condizione alla quale il personaggio è alla fine pervenuto :  

















Qualche cosa di provvisorio ed ansioso era in lui, una volta, e adesso è scomparso. Non più ragione di tormentarsi. […] L’attesa è finita, la porta famosa si è aperta da un pezzo e lui ha potuto entrare. Ha oltrepassato la soglia e gli è parso per un momento di essere stato tradito, di avere sprecato la vita, che al di là non ci fosse nulla, nessuno ad attenderlo, soltanto una specie di vuoto immobile e caldo. 1

2 3   Ivi, p. 19.   Ibidem.   Ibidem.  « Per la terza volta lo dimenticammo, per la terza volta la sua immagine fu travolta dalle mille altre sopraggiungenti, e noi ce n’andammo per diversa strada (senza tener testa neppure noi all’irreparabile fuga del tempo) » : ibidem. 4







il viaggio, il mito e l ’‘ altrove ’ nel primo buzzati

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Eppure spento è il desiderio di fuga, stanchi i futili sogni, abbandonata la via che avrebbe dovuto condurre alla grande occasione. 1  

Ed è qui che si può cogliere la vera dimensione del viaggio, il significato che esso assume per il protagonista del racconto : un significato che non rimanda all’esistenza avventurosa che l’Africa potrebbe offrire, almeno secondo la vulgata dell’esotismo più facile e superficiale, ma che si ricollega, piuttosto, alla negazione di ogni possibile avventura, al rifiuto di ogni movimento che conduca alla dispersione della soggettività. La « sempre maggiore rinuncia » 2 di Bondini si dispiega, alla fine, in tutta la sua ricchezza di significato : isolato sugli altopiani, bloccato a causa delle piogge e impossibilitato a ricevere rifornimenti, il personaggio rappresenta perfettamente, per così dire, il concretizzarsi di un sogno africano alla rovescia ; un sogno in cui all’avventura si sostituisce la quiete, la tranquilla, imperturbabile accettazione dell’esistente, e, soprattutto, la possibilità di un vita diversa, non più tormentata dall’attesa del domani e dal desiderio del futuro, dai « futili sogni » che, come si è detto, proiettano l’uomo di continuo in avanti, alienandolo da sé e obbligandolo a perdere il presente, l’unica dimensione in cui la vita può effettivamente realizzarsi. Verrebbe da chiedersi, a questo punto, se la « ricerca della propria alterità » 3 costituisca davvero il centro del racconto, il punto focale in cui convergono le tensioni e il non detto di una storia solo in apparenza semplice e lineare. In effetti, tutta la dinamica psicologica di Bondini (una dinamica volutamente ridotta ai minimi termini, più adeguata a un personaggioidea che a un personaggio-uomo, e tutta giocata sul motivo ricorrente della irresolutezza) non appare tale da giustificare una lettura di questo tipo, conducendo, tutt’al più, alla verifica di una incertezza di fondo, al rivelarsi di un’impasse esistenziale, di una incapacità di autodeterminazione che possiamo ritrovare anche in altri personaggi buzzatiani. Ciò che Bondini scopre, allora, non sarà un ‘altro sé’ ma, piuttosto, un’altra realtà, un mondo altro che si sostituisce a quello abituale non perché rappresenti una fuga nell’esotico, ma perché sembra offrire, come abbiamo visto, nuove e diverse coordinate spazio-temporali. E se alla fine, interrogato sulle prospettive della sua futura esistenza, Bondini non saprà dare che una risposta piuttosto vaga (ma comunque una risposta che pare escludere l’eventualità di un rientro in Italia), 4 ciò è dovuto, se non a un  























1

2   Ibidem.   Ibidem.  D. Comberiati, Altro da sé / Altro sé, cit., p. 88. 4  « Gli chiedemmo : – E in Italia ? Quando pensi di tornare in Italia ? – In Italia ? – fece lui con un certo stupore. […] Sì, in Italia. Tornerai bene in Italia una volta o l’altra ! – Chi lo sa ? – disse, sereno. – Non so proprio. Che cosa ci andrei a fare oramai ? » : UA, p. 20. 3













   





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il mito e l ’ altrove vero e proprio superamento della « soglia », 1 perlomeno al compiersi del viaggio, o al chiudersi di una sua fase essenziale, nel senso che il personaggio, dopo aver a lungo vagheggiato la possibilità del ritorno, finisce per riconoscere nella permanenza in Africa una concreta prospettiva di vita, nel segno, come suggerisce l’immagine della capanna « fatta di canne e di fango », di una ritrovata purezza ed essenzialità (il che, se vogliamo, offre una soluzione ancora una volta incerta, ma senz’altro preferibile a quella del ritorno in patria).  









Da canneti non lontani salivano, con l’approssimarsi della notte, velami di nebbia, non densa, lieve ; ma bastavano ad offuscare i profili di certe montagne gibbose, color leone, che emergevano parecchi chilometri al nord. Voci isolate di bestie cominciarono a udirsi, rauche e nuove per noi. La cupola nera della notte si chiudeva sul mondo. 2  



Sotto la « cupola nera » della notte africana, nel silenzio spezzato solo dalle voci degli animali, l’uomo appare una creatura come le altre, effettivamente armonizzata col mondo ; ed è questa, a ben vedere, la vera conclusione della vicenda di Bondini, segnata dalla rinuncia al desiderio di tornare in Italia, ma, soprattutto, da una sorta di ritorno al presente, quel presente eterno e immutabile che non necessita del futuro e in cui il personaggio sembra alla fine scomparire.  





1   Osserva a questo proposito Comberiati : « a ben guardare, neanche tale “uomo in Africa” del titolo riesce davvero a varcare la soglia. Ci si avvicina, questo sì, si può anche affermare che la tocchi con mano ; ma ogni volta, ripetutamente, viene sospinto all’indietro da una forza dirompente : la paura dell’ignoto, o forse la mancanza del coraggio necessario per fare il grande e definitivo salto » : D. Comberiati, Altro da sé / Altro sé, cit., p. 86. 2   UA, p. 20.  











« L’ULTIMO BRANDELLO DELLA DEVASTATA BANDIERA » : DINAMICHE CONFLITTUALI E IDEOLOGIA DELLA GUERRA IN DINO BUZZATI  





1. Introduzione

L

a formula critica che definisce Buzzati con maggiore pertinenza rimane ancora oggi quella proposta da Giacomo Debenedetti in un saggio del 1958 : Buzzati « borghese stregato ». 1 Formula davvero pregnante, ove si consideri che il sostantivo borghese rinvia non solo a una qualifica sociale ma anche, e soprattutto, a un habitus mentale, a una « educazione così perfetta da diventare anche stile », 2 mentre l’aggettivo stregato sottolinea la nota propensione dell’autore per il fantastico ossia l’esigenza di cogliere, al di là dei limiti della quotidianità, « un di più », « un oltre », « un margine di insicurezza ». 3 (E si ricordi, en passant, che di « educazione » come cifra esistenziale del Bellunese ha parlato anche Giovanna Ioli nella sua monografia buzzatiana : « È morto attento a non venir meno a questa fedeltà di principi, di valori e di educazione »). 4 A questa prima formula – comunque essenziale e irrinunciabile – se ne può forse affiancare un’altra, che dovrebbe introdurci al tema oggetto di discussione : Buzzati scrittore del Novecento e uomo dell’Ottocento 5 (ma, attenzione, non senza qualche correttivo e spostamento interno : le preferenze di Buzzati scrittore del Novecento andavano, come egli stesso ricorda, 6 soprattutto agli scrittori dell’Ottocento, Edgar Poe in testa). Una  















































1  G. Debenedetti, Buzzati e gli sguardi del « Di qua », in Id., Saggi, progetto editoriale e saggio introduttivo di A. Berardinelli, Milano, Mondadori, 1999, pp. 1187-1194 : 1194. 2 3   Ibidem.   Ibidem. 4  G. Ioli, Dino Buzzati, Milano, Mursia, 1988, p. 17. 5   A sostegno della nostra proposta possiamo citare un intervento di Cesare Garboli, il quale si interrogava su Buzzati in questi termini : « Appartiene al Novecento, questo De Vigny redivivo ? Uscito, si direbbe, da un circolo o da una mensa ufficiali ? […] E la cui parola d’ordine, il cui punto d’onore sembra essere solo il desiderio di sfidare e sdegnare la vita ? Non saprei dirlo » : C. Garboli, Dino delle montagne, « Il Mondo », 21 gennaio 1972, citato in G. Davico Bonino, Dino Buzzati tra narrativa e teatro, in F. Gianfranceschi et alii, Dino Buzzati, Atti del Convegno (Venezia, 3-4 novembre 1980), a cura di A. Fontanella, Firenze, Olschki, 1982, pp. 247-265 : 254. 6   Cfr. Y. Panafieu, Dino Buzzati : un autoritratto. Dialoghi con Yves Panafieu (Luglio-settembre 1971), Edizione speciale del Convegno di Feltre, Liancourt-Saint-Pierre, Y. P. Editions, 1995, p. 183 : « […] quelli che hanno avuto influsso su di me, più o meno sotterraneo, sono gli scrittori dell’Ottocento, non certo quelli del Novecento… ».  

































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il mito e l ’ altrove formula, sia chiaro, intenzionalmente provocatoria ma atta, nella sua valenza paradossale, a cogliere qualche elemento di verità. E in effetti, la personalità e il profilo ideologico di Buzzati sembrano rimandare a una dimensione del tutto antimoderna, per alcuni versi più ottocentesca che novecentesca : detto in altri termini, è come se per Buzzati il ’68, la rivolta studentesca, il movimento pacifista non si fossero mai verificati, come se egli fosse rimasto ancorato, per motivi anagrafici ma soprattutto ideologici, a un’età precedente la contestazione e, quindi, a delle concezioni che si possono definire in senso lato pre-novecentesche. 1 Ossessionato dai dati fondamentali dell’esistenza (in primis l’ineludibile confronto con la morte), Buzzati appare estraneo a qualsiasi prospettiva storicistica e progressiva : come ha scritto Claudio Toscani, Buzzati è scrittore « in bilico tra fervore umanistico e sfiducia nella realtà del mondo e della storia, tra miraggio letterario e assurdo esistenziale ». 2 Nessuna meraviglia, allora, che gli sfuggisse la portata della contestazione sessantottesca, di cui colse solo gli aspetti più superficiali ed esteriori, 3 senza rendersi minimamente conto dell’importanza delle istanze di rinnovamento politico, sociale e culturale portate avanti dal movimento. Ma anche prima, per il Buzzati che scrive negli anni che vanno dal dopoguerra al cosiddetto boom economico, i giovani « così diversi e strani » 4 si identificano con il nemico naturale, non sono altro che i « nuovi venuti », una ciurma arrembante di indegni approfittatori che vorrebbero arraffare felicità, vantaggi e benessere materiale senza averne in realtà alcun diritto (e, per di più, senza aver pagato il prezzo del sacrificio personale, della partecipazione alla guerra mondiale) :  

























Vedremo dunque i nostri figli felici […] orgogliosi della loro età, stranamente soddisfatti, come succede nei giovani, di essere la schiera più fresca, gli ultimi e insieme i primi, digiuni ancora e perciò insaziabili, certi che tutto, dal principio dei secoli, sia stato allestito esclusivamente per loro. 5  

Si delinea così, a partire da queste considerazioni, una sorta di ritratto bifronte : da una parte il Buzzati artista, aperto alla ricerca di tecniche espressive sempre nuove 6 e interessato alle forme di comunicazione più moder 



1   Sul profilo antimoderno di Buzzati, con particolare riferimento alla religiosità dell’autore, cfr. F. Gianfranceschi, Introduzione a D. Buzzati, I sette messaggeri, Paura alla Scala, Il crollo della Baliverna, Milano, Mondadori, 1984, pp. 5-22 : 6. 2  C. Toscani, Guida alla lettura di Buzzati, Milano, Mondadori, 1987, p. 126. 3   Cfr. M. Veneziani, Buzzati il conservatore e i Tartari, « Il Giornale », 28 gennaio 2012. 4  D. Buzzati, C’era la guerra, in Id., In quel preciso momento, Milano, Mondadori, 1991, pp. 5 19-23 : 20.   Ivi, p. 21. 6   Come ha scritto Zanzotto, l’esperienza di Buzzati rientra a buon diritto « nello sperimentalismo e nel polistilismo attuale » : A. Zanzotto, Per Dino Buzzati, in F. Gianfranceschi et alii, Dino Buzzati, cit., pp. 77-82 : 82.  















ideologia della guerra in dino buzzati

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ne (basti ricordare la sua passione per il fumetto, le sue anticipazioni del Graphic novel, etc.) ; dall’altra, il Buzzati uomo d’ordine, borghese attempato (più che « stregato »), politicamente conservatore (se non reazionario) e sollecito difensore dei privilegi acquisiti per appartenenza di classe. 1 Una dicotomia forse esagerata, 2 che estremizza i termini della questione ma che, a ben vedere, fa emergere un dato difficilmente contestabile : come osservava (e a ragione) Giuliano Gramigna, l’inquietudine di fondo, l’insicurezza psicologica dello scrittore dovevano trovare una compensazione necessaria e, per così dire, controbilanciante, nell’assunzione consapevole di una forma mentis borghese, intesa come adesione a un’istanza in cui si manifesta l’acquiescenza nei confronti di un « ordine » supremo ritenuto indiscutibile :  

















Borghese innanzi tutto è l’accettazione globale, preliminare a ogni atto di scrittura, dell’ordine, un ordine che non è solo letterario ma psicologico, sociale, un sistema di norme accettate fuori da ogni discussione, insieme elemento di sostegno e di gratificazione. Ne è una spia il posto privilegiato che nella narrativa e nella poesia di Buzzati viene assegnato alle metafore della vita militare, meglio sarebbe dire : a quella complessiva metafora che è la vita militare, […]. 3  



2. L’ideologia della guerra Abbiamo parlato di un Buzzati antimoderno, cercando di ricostruire, almeno per sommi capi, il profilo ideologico dello scrittore. A questo punto, anche a riprova di quanto affermato, può essere utile riprendere le dichiarazioni rilasciate da Buzzati a Yves Panafieu sul tema della guerra ; dichiarazioni che possono sembrare, a rileggerle oggi, nostalgiche o anacronistiche, candidamente ingenue o fastidiosamente irritanti. E in realtà Buzzati ci sorprende non poco quando sostiene, conversando con Panafieu, che la guerra non è il peggiore dei mali (molto peggio, per l’uomo, sarebbero la malattia, il dolore e la morte) e che l’uomo ne ha di fatto bisogno. Così leggiamo nel libro-intervista :  



quando si dice : « Ah la guerra è la cosa più orrenda ! », io rispondo : no, la guerra non è la cosa più orrenda. La guerra è una cosa stupenda. Tant’è vero che tutti gli uomini che io conosco, arrivati a una certa età, le cose che ricordano con maggio 



   



1   A questo proposito si veda G. Bocca, I rischi e i timori di un reazionario, « Il Giorno », 27 ottobre 1971. Cfr. inoltre « Dino Buzzati, un rivoluzionario ». Antonio R. Daniele incontra Lorenzo Viganò, « Mosaico italiano », xiii, 145, 2016, pp. 16-20 e W. Pedullà, La letteratura del benessere, Roma, Bulzoni, 1973, p. 307. 2   Ma si rammenti quanto annotava Gramigna : « In Buzzati, secondo uno schema postromantico convivono lo scrittore e l’Altro » : G. Gramigna, Prefazione a D. Buzzati, Romanzi e racconti, a cura di G. Gramigna, Milano, Mondadori, 1975, pp. xi-xlv : xx. 3   Ivi, pp. xx-xxi.  





















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re trasporto nostalgia e amore, proprio, sono state le loro esperienze di guerra. […] Io non ho fatto la guerra in trincea, non ho fatto la guerra tipo Verdun, che dev’essere stata una cosa orrenda […] Quindi ti ripeto : uno non può dire « Viva la guerra ! »… Ma dall’altra parte, quel disprezzo assoluto è una cosa che trovo un po’ sciocca, ché poi la guerra è anche un bisogno dell’uomo […] Sarà una cosa tristissima, ma è anche un bisogno. Perché l’uomo senza guerra, il giovane senza guerra finisce per star male, lo vediamo in tutto il mondo ! 1  



   

   

Questa associazione tra guerra e gioventù è presente anche nelle pagine diaristiche di In quel preciso momento : in particolare, quando in Aprile 1945 rievoca la fine della guerra, Buzzati lascia trasparire accenti di nostalgia per quel periodo della sua vita che, sebbene obiettivamente difficile e anche rischioso, s’identifica per lui con gli slanci della giovinezza, con l’entusiasmo di una irripetibile disposizione eroica (« ieri, ancora eravamo giovani, bene o male pronti alla sorte »), ed è pertanto oggetto di acuto rimpianto, soprattutto se paragonato alla piattezza e alla mediocrità degli anni che sarebbero sopraggiunti : « E non avremo più gli anni di ieri, non incespicheremo più per le scale col batticuore insorgente, […], ambigue parole di ufficiali in coperta non ci daranno più l’orgasmo, per tutta la restante vita non sirene, né detonazioni, né fughe, né notti insonni di paura. Addio dunque per sempre ». 2 L’espediente retorico a cui Buzzati ricorre è trasparente : le reiterate, anaforiche negazioni 3 finiscono per evidenziare, anziché la gioia per la pace riconquistata, il vuoto e la banalità della « restante vita », così priva di ogni interesse e di ogni attrattiva da rendere impossibile il sogno di felicità che avrebbe dovuto realizzarsi con la fine della guerra. La conclusione non può essere che antifrastica : la felicità attesa, che sembrava a portata di mano dopo che finalmente « si è fatto silenzio sull’Europa », si rovescia nella scoperta della sua tragica impossibilità : « Giovani fino a ieri, da stasera vecchi e prudenti, e lo dovevamo sapere, ce lo potevamo aspettare, idioti che non siamo altro. Che felicità, vero ? Ma perché queste facce ? Perché non ridete dunque ? Fate il vostro dovere ». 4 Il senso è dunque chiaro : la fine della guerra non può essere festeggiata perché essa coincide con la fine della giovinezza. Di qui il rimpianto di Buzzati, la sua nostalgia senza rimedio. Non solo : lo scrittore arriva addirittura a spiazzarci quando afferma che la guerra non ha nulla a che vedere con l’odio ; paradossalmente (ma solo  















































1

 Y. Panafieu, Dino Buzzati : un autoritratto, cit., pp. 97-98.  D. Buzzati, Aprile 1945, in ID., In quel preciso momento, cit., pp. 27-28 : 28. 3  « Non udremo più misteriosi schianti nella notte che gelano il sangue […]. Non più le Moire lanciate sul mondo a prendere uno qua uno là senza preavviso, e sentirle perennemente nell’aria, notte e dì, capricciose tiranne. Non più, non più, ecco tutto, Dio come siamo 4 felici » : ibidem.   Ibidem.  

2









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dal nostro punto di vista) la componente dell’odio – quell’odio che Buzzati riconosceva, ad esempio, negli intellettuali di fede marxista, animati da una profonda, incontenibile avversione nei confronti dei loro avversari ideologici – gli appare estranea alla logica della guerra, di cui Buzzati coglie, evidentemente, altri aspetti e altre dimensioni. Afferma infatti lo scrittore :  

Ci potrà essere nella guerra civile. Ma nella guerra normale l’odio non esiste. La guerra noi la facevamo contro gli inglesi, – e in marina veniva fatta seriamente… Ma c’era quasi amore e affetto per l’inglese, non odio. Non c’è affatto odio nella guerra. Questo non bisogna dimenticarlo. Non c’è. In nessuna guerra (vera guerra)… E nella guerra che si è combattuta qui, fra italiani e austriaci, non c’era il minimo odio… Domandalo a tutti quelli che l’hanno fatta… Odio ?... Ma neanche per idea ! 1  

   

Ma che cos’è, allora, la guerra per Buzzati ? Come si è detto, se da una parte egli prende le distanze dai fautori più oltranzisti della guerra, quali i futuristi, dall’altra ne ha una considerazione nel complesso positiva, fondata, essenzialmente, su una volontà di sublimazione, in forza della quale passano in secondo piano gli aspetti più inaccettabili quali la violenza, la distruttività indiscriminata, il sacrificio (spesso inutile) di vite umane (aspetti di cui Buzzati sembra comunque consapevole, sia pure in modo apparentemente contraddittorio : « La guerra è distruzione, morte, sofferenze… Nessuno può sognar di dire : “Evviva la guerra !” come disse D’Annunzio »). 2 Buzzati propone dunque una vera e propria estetizzazione della guerra, che diventa, in tal modo, un’azione quasi ritualizzata, regolata da dinamiche rispondenti a un codice particolare, a un’ideologia facilmente riconoscibile : l’ideologia del beau geste, dell’atto esemplare, dell’azione eroica fine a se stessa. Si ritorni, ancora una volta, ai dialoghi con Panafieu, dove troviamo, tra l’altro, un accenno a una carica di cavalleria contro i ribelli dell’Etiopia, a cui lo stesso Buzzati ebbe modo di partecipare :  

















E mi è toccato – non di combattere, perché non ero armato – di partecipare, […], a una carica contro questi ribelli. È stata una cosa bellissima. Sembrava uno dei racconti di cosacchi o qualche episodio delle guerre dell’Ottocento. Romanticamente perfetto !... L’ambiente, gli spari, la galoppata… Una cosa stupenda ! [corsivo dell’Autore].  



E poi la bellezza di certi spettacoli, che esteticamente sono degli spettacoli meravigliosi. Io ho assistito a delle cose terribili durante la guerra… Purtroppo […] Ma ho assistito a delle catastrofi, vere e proprie catastrofi, di una bellezza tale che 1

 Y. Panafieu, Dino Buzzati : un autoritratto, cit., p. 98.  

2

  Ivi, p. 97.

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riempivano l’anima di ammirazione, proprio. Ché la bellezza estetica delle cose che si vedevano e si vedono in guerra è una cosa meravigliosa… . 1  

Siamo, dunque, tra proiezione letteraria (gli eventi bellici paragonati ai « racconti di cosacchi ») e, come si diceva, volontà estetizzante e tensione trasfiguratrice. A colpirci, soprattutto, è l’espressione « romanticamente perfetto », formula in cui si condensa il senso di Buzzati per la guerra, che non è mai, appunto, fatica dolore e sacrificio cruento, ma, piuttosto, esaltazione ed eroismo, affermazione di sé e manifestazione di giovinezza (siamo insomma lontanissimi dalla guerra come scontro e scatenamento della violenza, tragedia collettiva e distruzione). Vi è anche, in tutto questo, una indubbia componente psicologica : ogni volta che rievoca la sua esperienza militare, Buzzati lo fa con parole che lasciano trasparire affetto, nostalgia, rimpianto per un mondo ch’egli ama anche perché lo esonera dal dover compiere delle scelte, concedendogli anzi, in cambio dell’obbedienza ai regolamenti disciplinari, una straordinaria libertà e leggerezza : « Io sono soprattutto un militarista convinto perché la vita militare è quella che dà maggior libertà. Cosa c’è di più bello, di più rassicurante di una vita in cui si sa esattamente che cosa si deve fare in ogni momento e non c’è l’angoscia di prendere delle decisioni ? ». 2 È allora in questo senso – e solo in questo – che si deve leggere la portata del militarismo buzzatiano, su cui tanto – e anche a sproposito – si è parlato (ma ha contribuito a fare chiarezza un grande poeta come Zanzotto, là dove scrive che « Buzzati […] attraversa la paccottiglia del militarismo di maniera, per farci ritrovare codici e messaggi », 3 ossia per additarci le implicazioni più profonde, esistenzialmente impegnative, dell’ideologia militare, rispetto alla quale Buzzati ha sempre espresso una sua posizione originale, che prende le distanze tanto dal « militarismo di maniera » quanto da ogni ‘antimilitarismo’ di maniera). D’altra parte, ciò che conta per Buzzati è la figura del singolo, dell’eroe inimitabile, di colui che « tiene duro e rimane collet monté anche quando viene la tragedia e la rovina di tutto quanto » 4 (a questo proposito, si riveda il già citato ricordo buzzatiano della carica contro i ribelli dell’Etiopia, definiti quasi con sprezzo « questi ribelli », a dimostrare come non vi sia, da parte sua, alcun interesse per la massa, per il gruppo indistinto e indifferenziato). Su questo tema, le parole dello scrittore non lasciano spazio ad alcun dubbio : « In questo sono molto conservatore. In questo sono milita 











































1

  Ivi, pp. 97 e 98.   Intervista a Camilla Cederna, Il personaggio Dino Buzzati, « L’Espresso », 6 febbraio 1972, citato in G. Ioli, Dino Buzzati, cit., p. 64, nota 129. 3  A. Zanzotto, Per Dino Buzzati, cit., p. 79. 4  Y. Panafieu, Dino Buzzati : un autoritratto, cit., p. 95. 2







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rista. L’ufficiale che in alta uniforme rimane impavido anche nella morte anche nella carneficina è una cosa che mi piace molto ». 1 Esempi di questa tipologia eroica compaiono di frequente nelle cronache che Buzzati, giornalista corrispondente di guerra sugli incrociatori dall’agosto del ’40, offriva ai lettori del « Corriere della Sera ». Si consideri, per cominciare, il ritratto del « comandante » pubblicato sul « Corriere della Sera » il 18 giugno 1941, un ritratto forse di maniera, certamente condizionato dal clima d’esaltazione bellica tipico dell’epoca, ma che rispecchia alla perfezione gli ideali buzzatiani dell’eleganza militare e della morte gloriosa :  

















ho il sospetto – un’idea assurda certo – che specialmente per lui si compisse una specie di predestinazione. Quasi un’invidiosa vendetta contro di lui, che sapeva di non temere la morte, per metterlo alla massima prova. Egli fu quindi tratto repentinamente laggiù donde non ci sono strade per ritornare, all’ultimo approdo degli eroi. Non sopraffatto e umiliato ; ma vittorioso di sé e della sorte, sì che ora trascorre su e giù, sereno, come un dì sulla coperta della sua nave, per i dolci prati degli Elisi, eternamente fioriti. 2  



Ma brani di questo genere si possono ritrovare anche nelle cronache dedicate alle battaglie navali nel Mediterraneo :  

E adesso bisognerebbe raccontare le ultime epiche ore del cacciatorpediniere che brucia sette ore sul mare, mentre gli uomini a bordo con tenacia di ferro lottano per salvarlo. Bisognerebbe fare il nome di quanti, e son più d’uno, muoiono col nome della Patria sulle labbra ; […]. 3 « Comandante, venite » ripeté implorando l’ufficiale, mentre la nave in fiamme sprofondava. Neppure questa volta rispose. Egli volle che tutti scendessero ; poi, da solo, fece un giro completo, un’ispezione d’addio, nella sua nave morente. Qua e là incontrava marinai feriti a morte, già disposti serenamente al distacco. « Comandante, benediteci, » gli dicevano « siamo contenti di morire con voi ». La nave si inabissò di poppa. Nell’ultimo istante il comandante fu visto afferrarsi alla bandiera di bompresso, alla estrema prora, e tenersi ben forte per calare con essa nel fondo. Lo videro sparire sotto i flutti. 4  



















Un altro exemplum eloquente è offerto dalla descrizione della seconda battaglia della Sirte, in cui non mancano, malgrado la drammaticità degli 1

  Ibidem. Al riguardo un interessante raffronto può essere fatto col dipinto buzzatiano intitolato Le Termopili, del 1958, in cui compare, in alto a destra, Leonida « solo soletto » : figura eroica mitizzata, che si distingue dalla massa, anonima e indifferenziata, dei nemici : cfr. N. Comar, Dino Buzzati. Catalogo dell’opera pittorica, Mariano del Friuli (Go), Edizioni della Laguna, 2006, p. 133. 2  D. Buzzati, Un comandante, in Id., Il buttafuoco. Cronache di guerra sul mare, Milano, Mondadori, 1992, pp. 7-17 : 8. 3  D. Buzzati, Scontro nel canale di Sicilia, ivi, pp. 264-274 : 270. 4   Ivi, pp. 266-267.  











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il mito e l ’ altrove eventi narrati, i riferimenti alla bellezza delle scene descritte (su cui Buzzati insiste a più riprese, anche ricorrendo a evidenti, studiate accensioni metaforiche, non estranee a uno stile avvicinabile per certi versi alla prosa d’arte) :  

A poco a poco si crea sul mare l’ambiente della battaglia : le vampe dei nostri cannoni, quelle lontane del nemico, i penduli sipari di nebbia, […], le grandiose ondate con le loro bianche criniere, i nembi di fumo acre delle nostre salve, le schiume che ci investono fino all’altezza dei fumaioli, […]. Sulle onde sempre più cattive batte una luce livida e tempestosa. Tutto questo ha una fosca bellezza, che nessuno potrà dimenticare. 1  



Il rischio, per noi evidente, è quello della retorica, dell’enfasi insopportabile, della celebrazione delle « virtù guerriere » mediante parole « cariche di eroismo come un poema antico » ; 2 insomma, la tentazione di riproporre per l’ennesima volta l’oraziano dulce et decorum est pro patria mori, che diventa però inaccettabile non appena lo si riferisca a quell’immane tragedia che fu la seconda guerra mondiale. Ma, lo ripetiamo, è anche un problema di distanziamento, di prospettiva storica : il linguaggio di queste cronache, che suona oggi così antiquato e, per certi versi, improponibile, era il linguaggio dell’epoca, il linguaggio della società e del regime dominante, rispetto al quale il borghese – e forse conformista – Buzzati poteva apportare ben poche innovazioni. 3 Non ci sorprenderà, a questo punto, che il giornalista-scrittore citi addirittura Omero quale modello di riferimento, denunciando, nello stesso tempo, l’inadeguatezza, l’insufficienza del proprio linguaggio di fronte a episodi di coraggio ed eroismo per i quali ritiene di non disporre di parole adeguate : « Oggi vorremmo raccontare qualcosa sul contegno dei nostri marinai. Ma ci vorrebbe il canto di un Omero anziché una macchina per scrivere. Le frasi più belle, gli aggettivi più forti, divengono miserabile cosa di fronte a ciò che è successo ». 4 In realtà, come si è visto, a Buzzati gli aggettivi non mancano : se l’epicizzazione è inarrivabile, l’enfasi retorica è a portata di mano, e può offrire soluzioni di immediata fruibilità per quella piccola e media borghesia che leggeva le cronache di guerra sulle pagine del « Corriere ». Ora, se passiamo a considerare la narrativa di Buzzati, non si possono non ricordare le figure esemplari, i paradigmi del suo eroismo letterario : è d’obbligo richiamare, anzitutto, il tenente Angustina del Deserto dei Tarta 







   





















1

 D. Buzzati, La vittoriosa battaglia del golfo della Sirte, ivi, pp. 215-228 : 224.  D. Buzzati, Scontro nel canale di Sicilia, cit., p. 264. 3   Sul ‘conformismo’ del linguaggio buzzatiano si veda M. Carlino, Come leggere Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati, Milano, Mursia, 1976, p. 57. 4  D. Buzzati, Scontro nel canale di Sicilia, cit., p. 264. 2



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ri, la cui morte (che di per sé non avrebbe nulla di glorioso, dato che non avviene in battaglia, sotto i colpi dei nemici, ma nel corso di una semplice azione esplorativa) viene riscattata proprio attraverso quel procedimento estetizzante di cui si è detto : la figura di Angustina giacente a terra e prossimo a morire viene infatti paragonata al dipinto raffigurante il Principe Sebastiano, anch’egli ferito a morte ma, con ogni evidenza, dopo aver sostenuto un’eroica battaglia. Si tratterebbe, pertanto, di una estetizzazione di secondo grado : è infatti evidente che l’immagine del Principe Sebastiano non implica una rappresentazione realistica della morte ma, piuttosto, una sua proiezione ideale. Siamo quindi di fronte, ancora una volta, alla ricerca di un’immagine sublimata, depurata, come scrive Buzzati, della « sgradevole crudeltà fisica della morte » : 1  







   

Ora Angustina, oh non ch’egli ci pensasse, andava assomigliando al Principe Sebastiano ferito nel cuore della foresta ; Angustina non aveva come lui la lucente corazza, né ai suoi piedi giaceva l’elmo sanguinolento, né la spada spezzata ; […]. Eppure gli assomigliava moltissimo, identica la posizione delle membra, identico il drappeggio della mantella, identica quell’espressione di stanchezza definitiva. 2  





3. Il versus come dinamica conflittuale È importante notare come Buzzati separi il giudizio sulla guerra – che è considerata positivamente solo nei termini di cui si è detto, in quanto realtà proiettata nella sfera d’un eroismo ideale, romanticamente inteso – dalla valutazione dei comportamenti dell’uomo : in effetti, per quanto emerge dalle sue stesse dichiarazioni, Buzzati sembra convinto che il sentimento dell’odio, le tendenze distruttive e le spinte più sadiche siano componenti ineliminabili della natura umana. La sua, dunque, è una visione priva di speranza, perfettamente esemplificata da dichiarazioni che, nell’insistere sulla insuperabilità del peccato originale, finiscono per rimandare a una concezione che appare più protestante che cattolica, e nella quale non ci si fanno illusioni sulla realtà profonda dell’essere umano. Così Buzzati, incalzato dalle domande di Panafieu :  



Allora come interpreti i rapporti fra l’uomo e i suoi simili ? […] In genere son basati su una gran meschinità. Proveniente da che cosa ? Dall’egoismo. Dal peccato originale, ecco. Perché secondo il peccato originale l’uomo è naturalmente portato verso il male e non verso il bene. È portato a godere del male altrui. Questa è la grande schifezza dell’uomo : egli gode del male altrui. 3  





1



  Id., Il deserto dei Tartari, in Id., Opere scelte, a cura di G. Carnazzi, Milano, Mondadori, 2 1998, p. 131.   Ibidem. 3  Y. Panafieu, Dino Buzzati : un autoritratto, cit., pp. 79-80.  

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Com’è noto, Buzzati colloca l’Inferno su questa terra, per cui esso non è altro che la vita alienata, la smania irrefrenabile che divora gli abitanti delle moderne città industriali, la cui vita è dominata dai miti del progresso e della produttività esasperata, ma anche gli uomini del passato e quelli di ogni tempo. L’inferno non è dunque un al di là ma, piuttosto, un al di qua, una dimensione nota e facilmente riconoscibile, nella quale ciascuno – come scrive Buzzati nel Poema a fumetti – « porta con sé il proprio mondo », 1 rinnovando così la propria pena, la propria condanna a subire un’ansia e una sofferenza che non danno tregua e non ammettono vie d’uscita. Esemplare, al riguardo, è il racconto Il maestro del Giudizio universale, scritto come Presentazione con cui Buzzati introduceva magistralmente la raccolta dell’opera completa di Hieronymus Bosch. 2 Si veda in particolare il brano finale, in cui la ‘visione’ che si offre al protagonista/narratore – una sorta di scorcio oltremondano che riprende figure e motivi tipici del maestro fiammingo – è restituita attraverso una sequenza accumulativa in climax ; una sequenza martellante e asindetica, 3 implacabile e terribile nel proporre una serie di azioni che paiono riferirsi a degli animali (o ai demoni dell’Inferno dantesco) ma che in realtà riguardano, come scrive Buzzati, « la vera essenza dell’umanità che ci circonda » :  

















Latravano, vomitavano, addentavano, sbavavano, infilzavano, dilaniavano, succhiavano, sbranavano. Così come noi ci sbraniamo giorno e notte, a vicenda, magari senza saperlo. 4  

Sul medesimo tema, è da vedere anche un racconto piuttosto noto come Dolce notte (appartenente alla raccolta Il colombre). Tipica parabola buzzatiana dell’inquietudine, vi si narra quanto avviene di notte, sotto la splendida luce della luna, in un giardino dove « tutto […], era divina quiete e poesia ». 5 I rimandi, come ha dimostrato Stefano Lazzarin, 6 sono tutti di  







1

 D. Buzzati, Poema a fumetti, introduzione di C. Toscani, Milano, Mondadori, 1991, p. 90.   Cfr. G. Dell’Aquila, Cronaca di una visione : Dino Buzzati e Hieronymus Bosch, « Italianistica. Rivista di letteratura italiana », xxxviii, 3, 2009, pp. 131-142. 3   Un analogo modulo sintattico Buzzati lo ripropone nelle pagine del Viaggio agli inferni del secolo, ribadendo i caratteri fondamentali di una medesima situazione esistenziale, immodificabile e costante nel tempo : « Correvano battevano scrivevano telefonavano discutevano tagliavano mangiavano aprivano guardavano baciavano spingevano pensavano stringevano inventavano bucavano pulivano sporcavano, […] » : D. Buzzati, Viaggio agli inferni del secolo, in ID., Il colombre e altri cinquanta racconti, introduzione di C. Toscani, Milano, Mondadori, 1966, p. 413. Come osserva Giovanna Ioli, « il modello […] è ancora annidato in quei quadri di Bosch, negli esseri orrendi che egli vedeva girare per le strade dell’Olanda quattro secoli fa » : G. Ioli, Dino Buzzati, cit., p. 165. 4  D. Buzzati, Presentazione a L’opera completa di Bosch, Milano, Rizzoli, 1966, pp. 5-8 : 8. 5  D. Buzzati, Dolce notte, in Id., Il colombre, cit., pp. 211-217 : 214. 6  S. Lazzarin, Dalle costanti dell’accumulazione evocativa al leopardismo di Buzzati, in Id., Il 2

























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marca leopardiana : da una parte abbiamo infatti il recupero di un topos idillico leopardiano (testimoniato da espressioni quali « appo la siepe » e « il canto della rana », 1 che sono riprese dalle Ricordanze) ; dall’altra, la riscrittura di un noto passo dello Zibaldone riguardante le sofferenze e i patimenti che si annidano in un giardino in apparenza sereno (« Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori » etc.) :  



















La kermesse della morte era cominciata al calare delle tenebre. Adesso era al colmo della frenesia. E sarebbe continuata fino all’alba. Dovunque era massacro, carneficina, supplizio. […] Dai più minuscoli abitatori dei muschi, i rotiferi, i tardigradi, le amebe, le tecamebe, alle larve, ai ragni, ai carabidi, ai centopiedi, su, su, fino agli orbettini, agli scorpioni, ai rospi alle talpe, ai gufi, lo sterminato esercito degli assassini di strada si scatenava al macello, trucidando, torturando, dilaniando, squartando, divorando [corsivi miei]. 2  

Interessanti per il nostro discorso sono ancora una volta le sequenze accumulative, che ci riportano all’atmosfera infernale descritta da Buzzati nel Maestro del Giudizio Universale, di cui si è già detto. Ci soffermeremo sulle due che abbiamo evidenziato : la successione sinonimica, per cui la guerra notturna degli insetti e degli altri animali viene di volta in volta definita « massacro », « carneficina » e « supplizio », e, nello stesso tempo, l’impressionante serie di gerundi in asindeto in cui, all’interno di una intensificazione abbastanza evidente, Buzzati riprende un verbo, dilaniare, che era già nelle pagine del Maestro (dove, peraltro, compaiono verbi, ad esempio sbavare, infilzare e succhiare, che potrebbero riferirsi senza difficoltà proprio alla vita degli animali, a suggerire, forse, che tra uomini e bestie non c’è, in fondo, una grande differenza). Ora, al di là di questi moduli retorico-stilistici (per i quali non si può che rimandare alla puntualissima analisi di Lazzarin), ci preme sottolineare il significato profondo delle invenzioni buzzatiane : è evidente che Buzzati si serve ancora una volta della favola (e tale, per certi versi, è Dolce notte, sebbene non vi compaiano animali parlanti) in chiave scopertamente allegorica : la « kermesse della morte » che si scatena nel giardino dolcemente illuminato dalla luce lunare viene a essere l’allegoria di una situazione umana, la trascrizione di una realtà umana in cui dominano incontrastate (e continueranno a dominare) le pratiche dello scontro e della violenza, dell’odio e della sopraffazione reciproca (e andrebbero citate, al riguardo, anche le pagine iniziali del racconto, in cui si ha una vera e propria messa in scena dell’homo homini lupus, per cui nella catena degli esseri che  





















Buzzati ‘secondo’. Saggio sui fattori di letterarietà nell’opera buzzatiana, Manziana (Roma), Vecchiarelli, 2008, pp. 199-302 : 220-227. 1 2  D. Buzzati, Dolce notte, cit., p. 216.   Ivi, p. 215.  

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il mito e l ’ altrove si divorano a vicenda si afferma una logica facilmente riconoscibile : vi è sempre un animale più grande o più forte che divora l’animale più piccolo e indifeso). Al riguardo, le riflessioni conclusive proposte da Buzzati non lasciano alcun dubbio :  



Terrore, angoscia, strazio, agonia, morte, per mille e mille altre creature di Dio è il sonno notturno di un giardino di trenta metri per venti. […] E per l’intera superficie del mondo è lo stesso dovunque, appena scende la notte : sterminio, annientamento e carnaio. E quando la notte dilegua e il sole compare, un’altra carneficina comincia, con altri assassini di strada, con uguale ferocia. Così è stato dal tempo dei tempi e così sarà per i secoli dei secoli, fino alla consumazione del mondo [corsivi miei]. 1  



Come risulta dagli esempi proposti, per Buzzati il versus, la dinamica conflittuale è qualcosa di congenito, una realtà intrinseca alla natura umana e, quindi, ineliminabile. Più esattamente, si può dire che la visione buzzatiana dei rapporti umani oscilli tra due estremi fondamentali, che sono l’indifferenza e la crudeltà (con l’avvertenza che quest’ultima si esplica solitamente secondo due modalità : essa può essere infatti, come vedremo tra poco, involontaria – o inconsapevole – o volontaria, ossia prodotta con una precisa, effettiva volontà di nuocere, di causare dolore e sofferenza nel prossimo, anche in modo del tutto gratuito, senza alcuna giustificazione). Per quanto riguarda il primo tema, l’indifferenza, ci soffermeremo su due testi tratti da In quel preciso momento, la raccolta di apologhi, racconti e pagine diaristiche che Buzzati pubblicò la prima volta nel 1950. Nel primo testo, intitolato La solitudine, lo scrittore rappresenta la vita come « una immensa piazza […] con intorno un’infinità di case » : il problema è che l’uomo, impegnato nei propri traffici e assorbito dai propri interessi, « mai riesce a conoscere le altre case », 2 chiuso in una solitudine 3 che non è solo assenza di comunicazione, ma anche egoismo e, appunto, indifferenza nei confronti del prossimo : « la verità si trova soltanto nelle case e non fuori. Cosicché del restante genere umano non si sa mai niente. L’uomo passa distratto in mezzo a questi infiniti misteri e ciò non sembra poi dispiacergli eccessivamente ». 4 Ancora più esplicito il discorso che Buzzati delinea nel secondo testo (Questioni ospedaliere), dove l’umana indifferenza risalta tanto più in quanto  























1

  Ivi, p. 216.  D. Buzzati, La solitudine, in Id., In quel preciso momento, cit., pp. 143-144 : 144. 3   Al riguardo, non si può non ricordare la riflessione di Drogo nel decimo capitolo del Deserto dei Tartari : « […] forse tutto è così, crediamo che attorno ci siano creature simili a noi e invece non c’è che gelo, pietre che parlano una lingua straniera, stiamo per salutare l’amico ma il braccio ricade inerte, il sorriso si spegne, perché ci accorgiamo di essere completamente soli » : D. Buzzati, Il deserto dei Tartari, cit., p. 76. 4  D. Buzzati, La solitudine, cit., p. 144. 2











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attribuita a una serie di personaggi (un infermiere, una suora dalla « voce soave », una coppia di medici) che, sia per professione che per vocazione, si dovrebbero occupare degli altri soccorrendoli in caso di bisogno. Arrivato all’ospedale con una bambina (o una giovane donna : il testo non precisa) « grondante sangue », il protagonista, sempre più esterrefatto, si vedrà rifiutare il soccorso necessario da ciascuno dei personaggi summenzionati ; ognuno, con una motivazione (o una scusa) diversa, gli negherà quell’aiuto che sarebbe invece tenuto a prestare nel modo più sollecito. Nell’impossibilità di uscire dall’incubo 1 e modificare la situazione (persino la suora, per quanto animata da « cristiana pietà », nega il soccorso adducendo come motivo la mancanza del « foglio di accettazione »), 2 al protagonista non restano altro che le maledizioni su cui si chiude il racconto, in una sorta di apoteosi della dinamica conflittuale che, preparata fin dall’inizio, scatta appieno solo nel finale :  

























Correvo, correvo, chissà come, con lei tra le braccia, tutta grondante sangue. « Che il demonio vi sbrani » ruggivo contro i medici, suore e infermieri. « Che la peste vi divori ! » […] « La peste ! » urlavo ancora. « Satana vi spolpi ! ». 3  



   





   



   



Passando ora alla crudeltà involontaria, è da vedere un apologo dal titolo bizzarro : Non parlare ai canarini neanche se si può. La trama, semplicissima, è presto detta : un uomo, in un’anonima stanza d’albergo, ‘dialoga’ con una coppia di canarini imitando per scherzo la loro voce. Qualche tempo dopo, a seguito della morte dei canarini, il protagonista sviluppa un assurdo senso di colpa, un rimorso talmente forte da indurlo a ritenersi responsabile dell’accaduto :  





Che cosa avevo detto alle due innocenti creature ? Era forse una minaccia, la notizia di un lutto, l’annuncio di una condanna crudele ? Una accusa ingiusta e disonorante ? La formula di un funesto esorcisma [sic] ? Invano me lo domando. Mai, almeno su questa terra, lo potrò sapere. 4  









Che cosa è veramente successo ? I canarini sono davvero morti a causa delle parole pronunciate inavvertitamente dall’incauto protagonista, parole che avrebbero scatenato un sortilegio di cui egli non era nemmeno consapevole ? O sono morti fortuitamente, in modo del tutto naturale ? Fino a un certo punto il breve racconto aderisce alla logica del fantastico e, di conseguenza, non offre soluzioni, lasciando il lettore nell’incertezza. Ma le cose cambiano nel finale : a questa « inquiétante étrangeté » – che, come si è visto,  







1





  Si è parlato, a questo proposito, di « incubo asmatico di carattere onirico » : M. B. Mignone, Anormalità e angoscia nella narrativa di Dino Buzzati, Ravenna, Longo, 1981, p. 78. 2  D. Buzzati, Questioni ospedaliere, in Id., In quel preciso momento, cit., pp. 137-140 : 138. 3   Ivi, p. 140. 4  D. Buzzati, Non parlare ai canarini neanche se si può, ivi, pp. 144-147 : 146.  









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il mito e l ’ altrove è tratto tipico dei migliori racconti buzzatiani – fa seguito una conclusione in cui Buzzati abbandona il fantastico per una facile allegorizzazione in virtù della quale viene offerta una lettura univoca degli eventi : ecco allora emergere a chiare lettere la moralità insita nella favola, a dimostrare come l’uomo, in realtà, provochi di continuo, spesso senza avvedersene, dolore e sofferenza nei propri simili :  



Io penso a quante volte, senza volerlo, senza il più lontano sospetto, seminiamo tra gli uomini – amici magari, cari parenti, a cui non si vorrebbe che bene – seminiamo con le nostre parole, credute innocue, lacrime e pene segrete ; e poi si tira avanti per la via, né ci si volta indietro a considerare, né si hanno rimorsi, né mai si conoscerà il male che si è fatto. 1  



Venendo infine all’ultima categoria individuata, quella della crudeltà volontaria, ci sembra che Non aspettavano altro (racconto appartenente alla raccolta Il crollo della Baliverna) sia il testo che la possa illustrare nel modo migliore. Parabola esemplare, che mette in scena un episodio di vero e proprio linciaggio, il racconto evidenzia, almeno nelle prime battute, un tessuto narrativo realistico e perfettamente plausibile, se non addirittura cronachistico : vi si narra la vicenda di Antonio ed Anna che, costretti a pernottare in una grande città, vanno in cerca di un albergo dove riprendersi dal caldo e dalle fatiche del viaggio :  



Era caldo. Dopo il lungo viaggio sempre in piedi nel corridoio, Antonio e Anna giunsero stanchissimi alla grande città dove avrebbero dovuto passare la notte. […] Dalla stazione uscirono sul piazzale rovente. Con un braccio lui portava la valigetta comune, con l’altra sosteneva Anna la quale non ne poteva più, i piedi gonfi per la stanchezza. Era caldo. Adesso, trovare subito un albergo per riposare. 2  

Tutto normale, almeno in apparenza, solo che non tardano a manifestarsi segnali inquietanti, comportamenti ambigui, segni che indicano un clima di chiusura, di diffidenza, di sospetto, di insuperabile incomunicabilità. Per cominciare, il portiere d’albergo al quale Antonio ed Anna si rivolgono per avere una stanza, accoglie i due viaggiatori con evidente malagrazia, li squadra come se fossero dei nemici e infine li congeda in tutta fretta :  

Prima che Antonio parlasse, il portiere scosse la testa ; e fissava la coppia come si guardano i nemici. Indicando con l’indice la pianta dell’albergo sul piano del banco. « Siamo completi » annunciò « mi dispiace non c’è neanche un buco ». Pareva che pronunciasse con fastidio una formula ripetuta senza interruzione per anni e anni. 3  











1

  Ivi, pp. 146-147.  D. Buzzati, Non aspettavano altro, in Id., Sessanta racconti, Milano, Mondadori, 1958-2016, 3 pp. 299-311 : 299.   Ibidem. 2



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La descrizione d’ambiente, su cui Buzzati insiste a più riprese, 1 svolge una funzione realistica ma assume, al tempo stesso, connotazioni simboliche nella misura in cui rimanda a un’oscura, indecifrabile correspondance tra l’atmosfera rovente in cui è immersa la città e i comportamenti, via via sempre più inquietanti, che sono manifestati dai diversi personaggi con cui la coppia entra in contatto. Le azioni, dapprima di disturbo e poi sempre più esplicitamente persecutorie, si susseguono in una escalation « tipicamente onirica », « immotivata e frenetica », 2 una escalation in cui i rapporti di causa-effetto fuoriescono da ogni misura di normalità per produrre risultati sempre più allarmanti, la cui area di pertinenza sembra essere l’àmbito onirico piuttosto che la realtà quotidiana. 3 A un certo punto la situazione precipita, risucchiata in un vortice che non lascia scampo : dopo aver subito una serie di attacchi da parte della folla inferocita (che, tra l’altro, le proibisce di rinfrescarsi in una fontana riservata ai bambini, prima accerchiandola e poi costringendola a una vera e propria fuga), Anna verrà infine appesa all’esterno dell’antico castello, in una gabbia di ferro, esposta agli insulti e agli oltraggi della popolazione :  

















Pochi minuti, ed eco tendersi le funi, e la gabbia risalire con dentro una creatura umana : era vestita d’azzurro, era inginocchiata, era scossa da singulti, le mani strette alle sbarre. E cento braccia erano tese verso di lei mentre incomprensibili oggetti volavano per colpirla. 4  



L’estrema richiesta d’aiuto, la mano che Anna tende attraverso le sbarre della gabbia dov’è stata rinchiusa, non fa che sancire l’assurdità della conclusione, il chiudersi della vicenda su una condanna senza appello, cui nessuno potrà porre rimedio :  

Nel silenzio che seguì, dal muro del fossato a cui la gabbia appoggiava, proprio in corrispondenza, giunse il tremulo richiamo di un grillo. Cri-cri, pareva si avvicinasse. Attraverso le sbarre, Anna tese adagio verso il grillo una piccola mano tremante, come chiedendo aiuto. 5  

Resoconto di un’improvvisa, incontenibile follia collettiva ma anche, e soprattutto, analisi puntuale della psicologia della folla « nelle sue com 

1   Oltre a « era caldo » (che compare due volte), la disamina del testo evidenzia le seguenti espressioni (tra parentesi il numero di pagina) : « strade torride » (300), « aria […] umida e opprimente » (ibidem), « flaccidi vapori ristagnanti sulla città » (302), « il caldo sembrava diventare ancora più pesante » (ibidem), « marci vapori delle risaie » (306), « fa caldo qui, molto caldo » (309). 2   M. B. Mignone, Anormalità e angoscia nella narrativa di Dino Buzzati, cit., p. 74. 3  « Anche la tosse soffocata della ragazza ed il suo non riuscire a liberarsi e prendere fiato sembrano l’ultimo attimo di un sogno dal quale ci si desta di soprassalto con un senso quasi di soffocazione » : ivi, p. 75. 4 5  D. Buzzati, Non aspettavano altro, cit., p. 309.   Ivi, p. 311.  



































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il mito e l ’ altrove ponenti di crudeltà e di sadismo, di violenza sui deboli o sugli esclusi », 1 il racconto può essere letto come una declinazione del versus, una parabola sulla contrapposizione e il conflitto che si accendono non appena si manifesti un elemento di diversità. Al riguardo, si tenga presente che Anna è riconosciuta come « forestiera » 2 dalla gente che la osserva con sospetto e diffidenza : i suoi modi e il suo accento le assegnano subito lo stigma della diversità che la isola e separa nettamente dagli altri, per cui è chiaro che la ragazza viene ad assumere il ruolo dell’estranea, dell’intrusa che, penetrando in un contesto chiuso, ne altera irrimediabilmente gli equilibri, finché non ne viene espulsa. Ma non diversa è la sorte di Antonio : anch’egli verrà attaccato dalla folla animata da un odio tanto più implacabile quanto più incomprensibile e immotivato, e finirà per sentirsi a sua volta « tra stranieri, in una terra lontana e inspiegabile, a lui feroce ». 3 E tutto ciò accade mentre anche il linguaggio della folla pare alterarsi in modo incredibile, fino a trasformarsi in un « tenebroso mugolio » o « gorgoglio inarticolato » : 4 anche la possibilità di comunicare, sembra voler dire Buzzati, si perde del tutto allorché la dinamica conflittuale raggiunge la sua acme.  



























   

4. Uomini vs animali Com’è noto, il conflitto nella narrativa buzzatiana si scatena di frequente nel confronto tra mondo umano e mondo animale, anche se Buzzati rifugge da ogni facile schematismo, per cui, se è vero che spesso la crudeltà viene esercitata dall’uomo nei riguardi dell’animale (si pensi all’Uccisione del drago, uno dei racconti più celebri), è altrettanto vero che le parti si possono invertire, 5 e sarà allora l’animale a incrudelire sull’uomo, che assumerà di conseguenza il ruolo della vittima designata (si veda in proposito un racconto esemplare come I topi). In questa sede, ci soffermeremo anzitutto su un testo poco noto, il racconto Le aquile, pubblicato la prima volta sul « Corriere della Sera » del 22 luglio 1951. Importante è la premessa, in cui Buzzati, oltre a fornire delle informazioni riguardanti un fatto di cronaca, suggerisce la chiave di lettura da adottare, sottolineando la crudeltà dell’uomo nei confronti degli animali (pure se giustificata, ma soltanto in parte, da ragioni di autodifesa) :  







Una coraggiosa impresa è stata compiuta da alcune guide della Val di Fassa che hanno raggiunto e violato un nido di aquile reali su una parete dei dirupi di Larsec… La guida 1

 A. Veronese Arslan, Invito alla lettura di Dino Buzzati, Milano, Mursia, 1974, p. 95.  D. Buzzati, Non aspettavano altro, cit., p. 304. 3 4   Ivi, p. 307.   Ivi, pp. 308 e 310. 5   Cfr. A. Veronese Arslan, op. cit., pp. 92-93. 2

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B è riuscita a catturare un aquilotto che però ha reagito artigliandole una mano ; per liberarsene è stata costretta a ucciderlo sbattendolo contro la roccia [corsivo dell’Autore]. 1  



Due sono gli aspetti centrali per il nostro discorso : il conflitto – già delineato nella premessa – e la diversità, che quel conflitto produce e innesca. Funzionali a tale costellazione tematica sono anche le scelte narratologiche dell’autore : Buzzati affida infatti la narrazione a un animale, una « grande aquila dei Feruc, maschio, vecchissimo e forse ormai immortale ». 2 Una scelta narratologica così originale non può che determinare, ovviamente, degli effetti di straniamento molto forti, come risulta, ad esempio, dal brano seguente :  











« Gli uomini ! Rimasi sbalordito. Non mi aspettavo che fossero così grossi e neppure così orribili a vedersi. Proprio schifosi con quella pelle bianca e i grotteschi cespugli di pelo qua e là, e quelle due gambe davanti lasciate ciondolare ». 3  







Definito il quadro iniziale, Buzzati propone una prospettiva rovesciata rispetto alla premessa, per cui questa volta sono i rapaci ad andare a caccia di esseri umani dopo aver scoperto « un nido di uomini, maschio e femmina con tre quattro figli piccoli ». 4 La situazione è dunque la stessa della premessa, solo che le parti sono ora invertite : il « nido » è occupato dagli uomini, dai genitori e dai loro figli. La caccia avrà però un esito imprevisto : il predatore che fulmineamente cala dall’alto ghermisce uno dei piccoli, ma poi si lascia misteriosamente turbare dal pianto della madre, rinunciando infine al proposito di mangiarlo. Così, mentre sulle « grandi rupi », « sull’estremità delle somme guglie », si appostano « gli anziani », immobili « sagome nere », presenze severe e ammonitrici, si compie la nobile rinuncia dell’aquila, creatura capace di quella pietà e compassione di cui l’uomo si è dimostrato invece completamente privo :  































Adesso la distinguevo meglio [la madre], in tutti i suoi particolari. Sempre con le zampe tese, per minacciarmi o supplicarmi, vibrava tutta, sussultando, la faccia si accartocciava in buffe smorfie e dagli occhi veniva fuori acqua. Però la cosa impressionante era la voce. Mai avevo udito un lamento simile. Chissà come, a quel pianto mi passò la voglia di mangiare. […] Fermai le ali, non sapevo neppure io il perché. Discendevo, discendevo a grandi cerchi, sfiorando le pareti. Non lo lasciai cadere, lo deposi sul prato piano piano, ripartii sollevato. 5  

L’animale rinuncia dunque a nutrirsi dei piccoli dell’uomo, pur sapendo che « dovevano essere molli, appetitosi » : 6 l’istinto cede di fronte alla pietà,  



1

   

 D. Buzzati, Le aquile, in Id., Bestiario, prefazione di C. Marabini, Milano, Mondadori, 1991, pp. 89-94 : 89. 2 3   Ibidem.   Ivi, p. 90. 4 5   Ibidem.   Ivi, p. 93. 6   Ivi, p. 91.  

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il mito e l ’ altrove l’innata crudeltà è vinta dalla compassione. Ma non così per l’uomo : malgrado il nobile, generoso gesto dell’aquila, egli continuerà a imperversare nel mondo e sulle montagne, ad affermare la propria supremazia ai danni della natura e delle altre creature, a farsi portatore di un eterno, insanabile conflitto in nome della propria insaziabile sete di dominio :  



E ora sono passati più di tremila anni, io sono un esemplare da museo, e può anche darsi che non muoia più. Nel frattempo, se ne ho viste ! Gli uomini hanno invaso il mondo, fatto strade, tagliato boschi, massacrato le altre bestie. Tra poco li vedremo spadroneggiare anche quassù, con gli schioppi e le loro smorte facce. Essi hanno tolto ad una ad una le cose che facevano gradito questo mondo, e non si fermano mai, […]. 1  



Una sottile crudeltà nei riguardi degli animali, mascherata dalle ragioni dello studio e della ricerca scientifica, è al centro dell’articolo Per conto di Laika, originariamente pubblicato sul « Corriere d’informazione » nel 1957, e successivamente ripreso nel postumo Bestiario. In questo caso, attraverso l’espediente di una lettera rivolta a « un gran signore della cultura europea » (autore, a sua volta, di un « ingegnoso ed elegante scherzo », un elzeviro in cui dava voce alle presunte riflessioni della cagnetta lanciata nello spazio), Buzzati stigmatizza l’insensibilità degli umani, pronti non solo a sfruttare un animale per la loro sete di sapere, ma anche ad attribuirgli pensieri e interessi che gli sono del tutto estranei. Allevata in un asettico laboratorio, Laika di certo non poteva compiacersi né della « velocità di traslazione » dello Sputnik né, tantomeno, dei progressi scientifici a cui avrebbe forse condotto il suo sacrificio ; estranea a tutto questo, Laika non avrebbe desiderato altro che un po’ di attenzione da parte dell’inserviente al quale era stata affidata :  



















Ve l’immaginate se Laika potesse essere felice in così orrenda solitudine ? Avesse avuto anche soltanto uno pseudo-padrone – come purtroppo quasi tutti i cani degli istituti scientifici –, non un vero padrone cioè ma un inserviente qualsiasi, e questo inserviente – a titolo di ipotesi – fosse stato un uomo rozzo e brutale, che la trattava a calci nel sedere, anche così Laika gli voleva bene di sicuro e, roteando intorno a noi per gli spazi, pensava continuamente a lui, e anelava ad averlo vicino, la sua presenza era per lei l’unica felicità possibile e, col muso imbottigliato nella maschera respiratoria, emetteva teneri lamenti per chiamarlo. 2  



Brano esemplare, ove emerge il contrasto tra l’egoismo dell’uomo (così preso dai propri interessi di conoscenza e di conquista da lanciare un animale negli spazi siderali, condannandolo a una « orrenda solitudine ») e la remissiva fedeltà della cagnetta, colma di affetto e riconoscenza anche verso chi la trattava senza alcun riguardo.  



1

  Ivi, p. 93.  D. Buzzati, Per conto di Laika, in Id., Bestiario, cit., pp. 291-295 : 294.

2



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Analoghe considerazioni anche in Paura sul fiume (1939), dove si racconta di « un brutto grido » che all’improvviso spezza la « grandissima quiete » presso le rive di un fiume africano e che viene subito interpretato quale presagio di sventura (« e adesso quel grido della malora, che non si sa che cosa voglia dire, ma certamente non porta fortuna »). 1 Si diffonde così il panico tra gli animali che vivono sul fiume e nei boschi circostanti. La ragione è presto chiarita : il grido inaudito non è altro che l’allarme lanciato dalla natura per l’arrivo sul fiume dei primi uomini bianchi, mai visti in precedenza. La dimensione conflittuale, non più limitata al rapporto uomo-animale, investe ora la natura nel suo complesso, al punto che un brivido sembra percorrerla a causa di un mutamento sentito come epocale, benché si tratti, per ora, solo di un « presentimento » :  





















Essi sono pur sempre uomini bianchi, come non erano mai apparsi sul fiume, dopo di loro ne arriveranno altri, probabilmente con intenzioni più energiche. E questi altri saranno molto più bravi di tutti i negri finora visti, saranno molto più astuti e sapienti, condurranno con sé macchine che vanno da sole, cambieranno la faccia della terra, taglieranno i grandi sicomori in fette sottili per fabbricarsi le case, accenderanno di notte luci meravigliose. […], da oggi il padrone non è più il sole, né il vento, né l’avvoltoio dal collare bianco, né le scimmie zanzibarine, oramai qui regnerà l’uomo bianco. E, benché tutto ciò sia ignoto per ora agli abitatori del fiume, c’è nell’aria un presentimento infausto […]. 2  

5. Paradigmi dell’eroismo buzzatiano : dalla « Canzone di guerra » alla « Corazzata “Tod” »  









Si è detto che per Buzzati il giudizio morale sull’uomo e la valutazione della guerra sono tutt’altro che coincidenti : se da una parte abbiamo una concezione dell’umanità improntata a un cupo pessimismo – accostabile, per certi versi, ad alcune dichiarazioni del regista Stanley Kubrick al tempo dell’uscita di 2001 : Odissea nello spazio (1968) –, 3 dall’altra emerge un’idea della guerra che rimanda, come si è visto, a una visione romantica, ottocentesca, rivestita delle forme di un eroismo esteticamente impeccabile. Al riguardo, è da vedere anzitutto il racconto La canzone di guerra, costruito in base ai principi compositivi della opposizione e della « progressione  







1

2   Id., Paura sul fiume, ivi, pp. 51-57 : 51.   Ivi, pp. 54-55.  « Inadatto alla vita, atterrito dalla notte – senza denti feroci, senza artigli, senza gambe veloci, dice Kubrick in una vecchia intervista […] –, quel nostro antenato d’improvviso afferra un’arma, un osso utilizzato come clava. […] Sgravato dall’angoscia della propria impotenza, quello scimmione subito s’accanisce contro altri animali, e contro la vita che è in loro. Poi, crescendo il suo trionfo, fa esplodere sullo schermo ossa e teschi disseminati attorno a lui : apoteosi di morte che culmina nella parabola di quell’arma primordiale scagliata verso il cielo. Il cuore assassino uccide non per conquistare, non per dominare, ma proprio per uccidere » : R. Escobar, Il cuore assassino e la macchina da presa, « Il Sole 24 ore », 14 marzo 1999, p. 44.  

3













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il mito e l ’ altrove a rovescio ». 1 Opposizione che emerge, per tutta la durata del racconto, nel contrasto dei due punti di vista, da una parte quello del re e dei suoi ministri, dall’altra quello degli « inconsapevoli soldati » portatori di un tragico destino : mentre arrivano di continuo notizie di vittorie su vittorie, che dovrebbero portare alla conquista del mondo e al conseguimento della gloria, 2 i soldati, inspiegabilmente, si ostinano a cantare canzoni tristi, che suonano di malaugurio in vista dell’esito finale della guerra e che sono, pertanto, invise al re. Così, ad esempio, suona la prima strofa :  













Per campi e paesi, il tamburo ha suonà e gli anni passà la via del ritorno, la via del ritorno nessun sa trovà. 3  

È a questo punto che si innesca la dinamica della progressione rovesciata, di cui si è detto : quanto più i soldati si trovano ad avanzare (ma secondo un movimento che è solo apparente, destinato com’è a rovesciarsi nel suo contrario), tanto più sono condannati a regredire, per cui lo spazio provvisoriamente conquistato nelle « pianure remotissime » è in realtà lo spazio della sconfitta e della morte, lo spazio delle « monotone foreste » punteggiate di croci :  











Finché (di vittoria in vittoria !) venne il giorno che la piazza dell’Incoronazione rimase deserta, le finestre della reggia sprangate, e alle porte della città il rombo di strani carriaggi stranieri che si approssimavano ; e dagli invincibili eserciti erano nate, sulle pianure remotissime, foreste che prima non c’erano, monotone foreste di croci che si perdevano all’orizzonte e nient’altro ». 4  







L’altro testo che intendiamo analizzare è La corazzata “Tod”, racconto che si presenta, fin dall’incipit, con tutti i crismi di una storia di suspense : si allude infatti a una vicenda in parte ancora misteriosa, ma destinata a essere chiarita in « un libro straordinario » di prossima pubblicazione, di cui è autore Hugo Regulus, capitano di corvetta tedesco, impegnato a condurre un’indagine sulla cosiddetta « Eventualità 9000 », un progetto segreto risalente all’ultimo conflitto mondiale. Una vicenda che « a prima vista ha dell’incredibile e si distacca stranamente da qualsiasi altro episodio della  











1

  A questo proposito si veda I. Crotti, Dino Buzzati, Firenze, La Nuova Italia, 1977, pp. 2728 e 44-46. Cfr. inoltre G. Gramigna, Prefazione, cit., p. xxiv e G. Ioli, Dino Buzzati, cit., p. 84. 2  Nell’incipit del racconto la gloria è vista come un facile bottino per i soldati « coronati di cento vittorie » : « Lieve era ad essi la vita perché il nemico era già in fuga e laggiù nelle lontane praterie non c’era più da mietere altro che gloria : di cui incoronarsi per il ritorno » : D. Buzzati, La canzone di guerra, in Id., Sessanta racconti, cit., pp. 145-149 : 145. 3 4   Ivi, p. 147.   Ivi, pp. 148-149.  















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guerra » : 1 e siamo già, con questi primi elementi, nel cuore del fantastico buzzatiano, al centro di quei racconti in bilico tra verosimiglianza e inverosimiglianza, sospesi nel passaggio « che porta da un mondo plausibile ad una estraniazione metafisica ». 2 Ma andiamo con ordine, evidenziando dapprima i segnali, le spie lessicali di quella suspense di cui s’è detto. Anzitutto si può rilevare, a livello di vocaboli e di sintagmi, una vera e propria disseminazione lessicale che ribadisce l’eccezionalità e la segretezza della vicenda (da intendersi anche come aspetti associati e sovrapposti : si veda in particolare l’ultimo esempio citato). Riportiamo dunque alcuni esempi, ricordando che lo spoglio è limitato alle prime pagine del racconto (tra parentesi le indicazioni di pagina) : « inaudito mostro » (450), « segreto […] stupefacente e tenebroso » (ibidem), « congiura del silenzio » (ibidem), « misteriosa storia » (451), « terribile segreto » (ibidem), « cappa di silenzio » (ibidem), « formula segreta » (452), « garanzia di segretezza » (453), « ignota sede » (ibidem), « strani trasferimenti » (ibidem), « porta misteriosa » (ibidem), « muro impenetrabile » (454), « destinazione sconosciuta » (ibidem), « preoccupante enigma » (ibidem), « mistero » (ibidem), « mistero di carattere mostruoso » (456). Ora, ciò che si può osservare, al di là della ridondanza 3 e della ricerca sinonimica con cui l’autore riprende lo stesso elemento variandolo di volta in volta (anche con effetti di amplificazione progressiva), è il gioco di rapporti interni che viene a crearsi, soprattutto nel senso del non-detto o del riferimento indiretto, puramente allusivo : solo per fare un esempio, il sintagma « inaudito mostro », che troviamo ad apertura di racconto, andrebbe letto sia in riferimento al titolo del racconto (essenziale, dunque, la funzione assunta dal paratesto), sia in riferimento alla spiegazione che troviamo qualche pagina dopo, là dove si legge che potrebbe trattarsi (ma la cosa non è certa, essendo per ora solo una supposizione di Regulus) di « una nave da guerra di proporzioni eccezionali, progettata in segreto, costruita in un cantiere segreto, di nascosto varata, armata e messa a punto affinché all’improvviso comparisse sul mare a sterminare con pochi colpi le flotte dei nemici ». 4 (Si ricordi che la vicenda si svolge tra il 1942 e il 1945, ossia nel pieno del secondo conflitto mondiale). Vi è insomma un emergere di significati che, in base alle regole della suspense, non è immediato  

   

























































































1

 D. Buzzati, La corazzata “Tod”, in Id., Sessanta racconti, cit., pp. 450-476 : 450.  G. Manacorda, Storia della letteratura italiana contemporanea (1940-1965), Roma, Editori Riuniti, 1972, p. 334. 3   A questo proposito sono da tenere presenti alcune osservazioni di Giuliano Gramigna, che dalla poesia si estendono ai « migliori racconti di Buzzati » : « La pulsazione retrostante è […] una pulsione a ripetere » : G. Gramigna, Il capitano trova la rima (Su alcuni aspetti della poesia di Buzzati), in F. Gianfranceschi, et alii, Dino Buzzati, cit., pp. 321-330 : 323. 4  D. Buzzati, La corazzata “Tod”, cit., p. 457.  

2















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il mito e l ’ altrove ma affidato a una serie di rimandi interni, che il lettore modello (il lettore « implicito », per intenderci) è chiamato a riconoscere e ricostruire. Accanto a questa, vi è un’altra serie lessicale, che appare focalizzata sul tema del viaggio e sull’itinerario percorso dalla gigantesca nave da guerra. Anche in tal caso limitiamo lo spoglio alle prime pagine del racconto : « pura pazzia » (450), « confini estremi dell’oceano » (451), « aura sovrumana » (452), « avventura […] disperata » (ibidem), « pura follia » (ibidem), « abissi australi » (ibidem), « progetto temerario » (453), « partenza senza prospettive di ritorno » (ibidem), « acque […] solitarie » (458), « leggendaria nave » (ibidem), « orizzonte, […] disabitato » (462), « aperto mare » (467). È sufficiente una rapida scorsa dei sintagmi individuati per riconoscere in queste pagine (accanto all’influsso di Melville, Poe e Hugo, finemente illustrato da Lazzarin), 1 il rimando a un modello che doveva essere ben presente a un autore colto come Buzzati, ossia l’archetipo dantesco del viaggio di Ulisse oltre le colonne d’Ercole. Ciò è dimostrato – ci sembra – da alcune espressioni : l’« aperto mare », per quanto ovvio e scontato in un racconto ambientato sulle distese oceaniche, non può non ricordare il dantesco alto mare aperto, 2 mentre la « pura pazzia » (o « follia ») di cui parla Buzzati può essere letta in riferimento al folle volo ulissiaco, a cui riporta, a sua volta, il sintagma buzzatiano « progetto temerario » (si ricordi, al riguardo, che folle significa per Dante proprio ‘temerario’ : riprese e coincidenze non sembrano certo casuali). Ma a contare è soprattutto l’atmosfera complessiva che connota la vicenda. In questo senso, sembrano rimandare al modello dantesco anche l’« aura sovrumana » e l’« avventura disperata », così come la determinazione geografica relativa agli « abissi australi », che ovviamente rinvia alla parte della sfera terrestre in cui avviene la navigazione – e il naufragio – di Ulisse, 3 nonché l’« orizzonte disabitato », in cui si può riconoscere un’eco del mondo sanza gente. 4 Un altro rimando dantesco è forse riconoscibile anche nella « partenza senza prospettive di ritorno », che richiama una terzina del primo canto del Purgatorio : « Venimmo poi in sul lito diserto, / che mai non vide navicar sue acque / omo che di tornar sia poscia esperto ». 5 Al testo dantesco riporta inoltre l’allocuzione del capitano Rupert George, allocuzione parallela a quella che Ulisse rivolge ai suoi compagni,  













































































































1   Cfr. S. Lazzarin, La letteratura e le ‘immagini del mondo’, in Id., Il Buzzati ‘secondo’, cit., pp. 47-82 : 72-81 (in particolare, a p. 77 Lazzarin osserva che La corazzata “Tod” è « un vero mosaico 2 di riferimenti intertestuali »).   Inf., xxvi, 100. 3   A questo proposito si veda Ju. M. Lotman, Il viaggio di Ulisse nella « Divina Commedia » di Dante, in Id., Testo e contesto. Semiotica dell’arte e della cultura, a cura di S. Salvestroni, RomaBari, Laterza, 1980, pp. 81-102 : 95-97. Tra gli studi più recenti, cfr. almeno G. Ferroni, Il mare di Dante e il viaggio di Ulisse, « Studi (e testi) italiani », xxxiv, 2014, pp. 15-27. 4 5   Inf., xxvi, 117.   Purg., i, 130-132.  















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pure se diversa è la finalità del discorso : mentre Ulisse mira a convincere i propri compagni (e utilizza quindi tutta la strumentazione retorica di cui dispone per conseguire il suo scopo), il personaggio di Buzzati si rivolge ai suoi marinai solo per porli di fronte a una scelta, lasciandoli quindi completamente liberi di decidere, senza fare alcun appello al desiderio di conoscenza (e anzi insistendo sulla estrema difficoltà dell’impresa, nonché sulla dura necessità di rescindere i legami familiari, riferimento in cui si può peraltro riconoscere l’ennesimo rimando al discorso di Ulisse) : 1  

   

« Chi invece sceglie con libera volontà di rimanere a bordo sappia che non andrà incontro a gioie di sorta. Sarà una missione lunghissima, della cui fine non si può prevedere né la data, né il modo. Disagi, solitudine, separazione assoluta dalle vostre famiglie, ignoranza del proprio destino, sono tutto ciò che potete sperare. Vale la libertà tanto sacrificio ? A ciascuno di voi tocca decidere. Ascoltate quindi la vostra coscienza. Io da lungo tempo ho già deciso » [corsivi miei]. 2  







Ed è un tema, quello della separazione necessaria e della dolorosa necessità di staccarsi da ogni vincolo familiare, che già era stato prefigurato nelle prime pagine del racconto, dove si legge :  

A quelli del reparto “Personale”, che ignoravano ciò che c’era sotto, l’“Eventualità 9000” era infatti sinonimo di massimo pericolo, di separazione dal consorzio umano, di partenza senza prospettive di ritorno [corsivo mio]. 3  

Se la natura dei due discorsi è quindi del tutto diversa (così come le funzioni linguistiche che si attivano nelle due allocuzioni : conativa nel caso di Dante, in prevalenza referenziale nel caso di Buzzati), non dissimili saranno gli esiti : alla fine, la maggioranza dei marinai deciderà di rimanere sulla nave assieme al capitano George per affrontare l’impresa sino alla sua tragica conclusione. Il convincimento, seppure con mezzi diversi, viene quindi conseguito in entrambi i casi. La traccia dantesca riaffiora anche in altri punti della narrazione, ad esempio nell’episodio dell’avvistamento di un approdo da parte dei marinai, episodio che sembra ricalcare il momento finale del viaggio di Ulisse. Al riguardo, si veda il brano seguente, vera e propria parafrasi di Inf., xxvi, 133-136, da cui sono riprese le tappe successive dell’avvistamento (segnalato in entrambi i casi dal verbo « apparire »), della gioia improvvisa e del conseguente, conclusivo disinganno :  









Finalmente però apparve terra e a questa vista poco mancò che i marinai impazzissero di gioia. Anche stavolta le illusioni caddero. La costa era la Terra 1  « né dolcezza di figlio, né la pieta / del vecchio padre, né ’l debito amore / lo qual dovea Penelopé far lieta, / vincer potero dentro a me l’ardore / ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore ; […] » : Inf., xxvi, 94-99. 2 3  D. Buzzati, La corazzata “Tod”, cit., p. 467.   Ivi, p. 453.  







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del Fuoco e la gigantesca nave si infilò in una insenatura tortuosa dove gettò l’ancora. 1  

Il rapporto intertestuale si fa a questo punto più stringente, quasi necessitato dal proliferare di coincidenze e somiglianze : sia il viaggio ulissiaco che la navigazione della corazzata tedesca seguono la rotta di una missione impossibile, di una sfida estrema condotta oltre le umane possibilità, una sfida che viene portata sino alle estreme conseguenze ossia alla morte, 2 alla catastrofe e allo sprofondamento finale (si ricordi ancora Dante : « […] ma l’un di voi dica / dove per lui perduto a morir gissi »). 3 Che Buzzati si rifaccia all’esempio dantesco, ci sembra infine confermato anche dall’organizzazione dei rapporti spaziali e, in particolare, dalla contrapposizione tra orizzontalità e verticalità : alla linearità orizzontale propria della rotta della nave (che, puntando a sud, è la stessa di Ulisse : « la nave mise la prora a sud, allontanandosi ancora di più dalla Germania ») 4 si contrappone la dimensione verticale a segnalare, esattamente come avveniva in Dante, 5 il momento del naufragio, dell’inghiottimento nella profondità del mare. Momento culminante è la descrizione del muro d’acqua, cui si accompagna il racconto – estremamente sintetico ma efficacissimo sul piano della rappresentazione – del suo istantaneo formarsi, sciogliersi e perdersi nella finale – e in ogni senso conclusiva – caduta verticale :  

























A un tratto, nel preciso punto dove si trovava la corazzata Tod proruppe un picco d’acqua verticale, dalle pareti lisce e di dimensioni indescrivibili. Simile a un mostro, si drizzò in aria sorpassando l’altezza delle nubi. Qui restò immobile un secondo. Repentinamente tremò, si sciolse in cateratta, schiantandosi sul dorso grigio delle onde. Quindi, di colpo, il nulla. 6  

D’altra parte, a ulteriore sostegno della nostra lettura possiamo ricordare che questo rimando al canto di Ulisse non è certo un caso isolato negli scritti di Buzzati : già nel giugno del ’41, raccontando il naufragio di una  

1

  Ivi, p. 470.   A questo proposito cfr. P. Boitani, Ulisse dal poema al romanzo, in P. Boitani et alii, « Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori ». Poema e romanzo : la narrativa lunga in Italia, a cura di F. Bruni, Venezia, Marsilio, 2001, pp. 3-19 : 12 : « Storia potente e controversa, la versione dantesca di Ulisse […] non è più il poema, o “romanzo”, disteso, complesso, sorprendente, dell’Odissea, ma un racconto di folgorante rapidità, che riassume le vicende di una buona metà della vita in poco più di cinquanta versi, e che si dirige a grandi passi epico-tragici verso un telos già 3 annunciato, lo smarrimento e la morte […] ».   Inf., xxvi, 83-84. 4  D. Buzzati, La corazzata “Tod”, cit., p. 470. 5  « La nave passa […] dalla posizione orizzontale a quella verticale (‘alla quarta levar la poppa in suso / e la prora ire in giù, com’altrui piacque / infin che ’l mar fu sopra noi richiuso’), momento che si accompagna ad una morte che si compie come una impetuosa discesa » : Ju. M. Lotman, Il viaggio di Ulisse nella « Divina Commedia » di Dante, cit., p. 96. 6  D. Buzzati, La corazzata “Tod”, cit., p. 476. 2

























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nave e il sacrificio del suo comandante, Buzzati evocava – in virtù di quella tendenza all’epicizzazione su cui ci siamo già soffermati – proprio la vicenda dell’Ulisse dantesco, con il conclusivo naufragio sottolineato dall’immagine delle « cateratte » precipitanti dall’alto (ed è, con ogni evidenza, la stessa immagine che ritornerà, diversi anni dopo, nella Corazzata “Tod”) :  





Dall’oscurità della plancia egli vide rovinare contro il suo bastimento, di cui era tanto orgoglioso, le cateratte mortali, a somiglianza di Ulisse al termine dell’ultimo viaggio. Ed io, dalla nave dove mi trovavo, assistetti alla conclusione della congiura funesta [corsivo mio]. 1  

Se la presenza del modello, anche in base al suddetto riscontro, è dunque altamente probabile (e in ogni caso, fosse anche solo per ovvie ragioni scolastiche, è chiaro che Dante doveva essere a Buzzati più familiare dei Melville e dei Poe, autori che comunque leggeva in traduzione), altrettanto significative sono le sue ricadute, ben evidenziate da Giovanna Ioli, che così scrive : « Dante […] è appello al lettore, indizio che stimola la lettura oltre la lettera e la storia. Dante è il modo scelto da Buzzati per distogliere la cronaca dalla sua piattezza e impersonalità, per inserirla in un progetto più alto e sublime ». 2 Quanto al senso ultimo dell’impresa, esso è facilmente ricavabile dalle parole che il capitano George rivolge ai suoi marinai : appurato che l’obiettivo è ormai soltanto quello di difendersi 3 e di restare, finché sarà possibile, « libera e indipendente Germania », 4 la sola possibilità che rimane è di combattere per una gloria che non avrà ricompensa al di fuori di se stessa : ancora una volta, è la ricerca del beau geste, la dedizione a un eroismo estremo e quasi sovrumano (così estremo da non prevedere alcun plauso o riconoscimento) a giustificare l’impresa disperata e, insieme, il sacrificio di sé. Così nel discorso del capitano, che nulla nasconde ai suoi marinai della gravità della situazione :  





















« Ho il dovere di farvi sapere che ci aspettano giorni, settimane, mesi, anni forse di duro sacrificio, e può darsi che ci aspetti la morte. Ma a noi, sappiatelo, è stato affidato l’ultimo brandello della devastata bandiera. A noi forse toccherà l’ultimo e più grave combattimento. Il quale ci potrà dare gloria ma non altro perché non ci saranno più speranze ». 5  





In queste condizioni estreme, per cui la meta finale non è la vittoria ma il conseguimento della gloria, anche i nemici dovranno essere all’altezza dello scontro : non più americani o inglesi, essi si identificheranno con le  

1

2   Id., Un capitano, cit., p. 10.  G. Ioli, Dino Buzzati, cit., p. 41.  « Noi non attaccheremo più il nemico, siamo però decisi a difenderci. Noi saremo l’ultimo pezzo intatto della nostra patria » : D. Buzzati, La corazzata “Tod”, cit., p. 466. 4 5   Ibidem.   Ivi, pp. 466-467. 3







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il mito e l ’ altrove oscure potenze infere, con i « vascelli delle tenebre » dalle « sinistre architetture ». Ed è un’apparizione memorabile, in cui Buzzati dispiega tutta la sua fantasia più apocalittica :  









All’estremo orizzonte australe, confusi nella caligine dell’alba, paurose ombre di bastimenti avanzavano in linea di fila. Navi vere o soltanto fantomatiche parvenze ? […] Chi erano ? Dai recessi occulti della Terra venivano gli ammiragli dell’apocalisse con le orbite vuote e nere simili a spelonche, per umiliare l’uomo ? Angeli o demoni popolavano quelle funebri fortezze ? Forse era quello il nemico ultimo a cui alludeva il comandante George ? 1  











Finita la battaglia, condotta all’insegna di questo eroismo estremo e disperato, tutto sembra svanire nel nulla : i colpi, le detonazioni, i muri d’acqua, i vascelli usciti dall’abisso, tutto scompare riassorbito « nell’orribile silenzio ». Ed è proprio questo il momento culminante della vicenda : l’eroismo, sembra dire Buzzati, acquista senso e valore solo se non diventa enfasi, declamazione, vuota e roboante oratoria : il sacrificio dei marinai e degli ufficiali della corazzata “Tod” sarà affidato al silenzio, non avrà eco nel mondo perché tutti coloro che avevano avuto a che fare con l’« Eventualità 9000 » sono tenuti a tacere in virtù di un patto segreto, la cui connotazione è di tipo sacrale. Il racconto, che si presenta come un’anticipazione del libro-memoriale di Hugo Regulus, può essere letto, a questo punto, proprio come un tradimento di questa consegna, una sorta di disvelamento di una storia di eroismo e sacrificio che avrebbe dovuto rimanere nascosta, ignota al mondo. Si definisce così una struttura narrativa in certo modo circolare : la « misteriosa storia », il « terribile segreto » gravato da un’altrettanto misteriosa « cappa di silenzio » viene svelato grazie all’inchiesta e alla ricostruzione minuziosa di Regulus, ma alla fine, se consideriamo lo svolgersi dell’intreccio, si ha l’impressione che la storia ritorni nell’oblio in cui era sepolta, in quell’oscurità da cui l’ha tratta l’indagine intrapresa da Regulus. 2 Come si è detto, nulla rimane sulla superficie del mare, né rottami né tracce della battaglia ; tutto viene riassorbito nel silenzio, mentre restano, come unica, indecifrabile testimonianza dell’accaduto, solo i « brandelli di catramose nubi » 3 che solcano il cielo, quasi a lacerarlo in un’ultima accensione drammatica prima del definitivo silenzio.  





































1

  Ivi, p. 474.   Anche in questo caso, valgono le osservazioni sintetiche ma penetranti di Gramigna : « gli indici più eloquenti vengono fuori dagli scritti in cui il racconto diventa metafora di se stesso, è l’atto medesimo del narrare o la sua impossibilità » : G. Gramigna, Prefazione, cit., pp. xliv3 xlv.  D. Buzzati, La corazzata “Tod”, p. 476. 2









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6. La guerra ripudiata : « La famosa invasione degli orsi in Sicilia »  





Ne La famosa invasione degli orsi in Sicilia, una favola illustrata che Buzzati edita in volume nel 1945, il versus s’instaura ancora una volta come opposizione tra mondo animale e mondo umano, nel contrasto tra la naturale, innata bontà delle « bestie » e la malvagità degli umani. Così nei versi d’apertura :  





Dunque ascoltiamo senza batter ciglia la famosa invasione degli orsi in Sicilia. La quale fu nel tempo dei tempi quando le bestie eran buone e gli uomini empi. 1  

Epperò non ci si lasci ingannare dalla facilità, se non dalla infantilità, dello spunto iniziale : come osserva Giovanna Ioli, La famosa invasione è « un libro tutt’altro che ingenuo », 2 capace anzi di offrire significanti e significati che trascendono la favola per bambini, la quale rappresenta solo il primo livello di lettura, quello più immediatamente accessibile (e non a caso Giulio Carnazzi, introducendo la raccolta delle Opere scelte per Mondadori si domanda retoricamente se l’Invasione non sia « anche una favola per adulti »). 3 E in effetti, mentre ripropone il tema del conflitto tra mondo umano e mondo animale, Buzzati riprende anche il tema della guerra, che però viene declinato (forse inaspettatamente, visto il principale destinatario a cui pensava) con accenti, in qualche caso sporadico ma estremamente significativo, di crudo ed esplicito realismo. Se da una parte l’autore si mantiene fedele ai temi dell’eroismo e dell’eleganza militare (all’idea, insomma, della « bella morte »), 4 dall’altra si insinuano elementi di altro genere, che finiscono per incrinare la superficie rassicurante della favoletta a sfondo morale : soprattutto all’inizio, dove il tono narrativo è quello di una epicità elementare (siamo nel primo capitolo, in cui si narra la guerra intrapresa dagli orsi per sfuggire alla fame e al freddo, ma anche per riprendersi Tonio, il figlioletto di Re Leonzio ch’era stato rapito da due cacciatori),  





















1

 D. Buzzati, La famosa invasione degli orsi in Sicilia, illustrato dall’Autore, Milano, Monda2 dori, 2015, p. 17.  G. Ioli, Dino Buzzati, cit., p. 67. 3  G. Carnazzi, Introduzione a D. Buzzati, Opere scelte, cit., pp. ix-l : xxii. 4   Si vedano, al riguardo, le considerazioni di Re Leonzio a seguito dell’attacco portato agli orsi dai cinghiali volanti del Sire di Molfetta : « ‘Non vedi ?’ disse con una certa amarezza Re Leonzio. ‘Siamo rimasti soli. E adesso ci tocca morire. Cerchiamo almeno di morire decentemente !’ (Tirò fuori dal fodero la spada.) ‘Moriremo da bravi soldati !’ » : D. Buzzati, La famosa invasione, cit., p. 32. Sul tema della « bella morte » si veda U. Curi, L’apparire del bello. Nascita di un’idea, Torino, Bollati Boringhieri, 2013, pp. 23-33.  



















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il mito e l ’ altrove emergono tessere testuali (per quanto di limitata estensione) che lasciano trasparire una concezione della guerra almeno in parte diversa, una concezione che si distacca dal mito dell’eroismo per fare spazio a una rappresentazione più veridica, non priva di esplicite, disturbanti crudezze (benché abilmente mascherate nell’andamento cantilenante creato dal susseguirsi di rime, assonanze e consonanze) :  

Ma che possono gli orsi armati di lance, frecce e fiocine contro fucili, schioppi, cannoni e colubrine ? Il piombo scroscia, la neve si arrossa : chi scaverà a tanti morti la fossa ? […] Basta che il panico si formi non c’è più nessuno che lo fermi ; i morti si trasformano in vermi e la rabbia del Granduca in corni. Gli orsi gridano vittoria il giorno finisce in gloria. 1  









La stessa modalità di rappresentazione è ravvisabile anche nel racconto della guerra ‘preventiva’ con cui il Granduca, avvisato della futura discesa dalle montagne di « un’armata invincibile », cerca di eliminare tutti i possibili nemici perpetrando una strage indiscriminata :  





ordinò ai suoi soldati di salire sulle montagne e di ammazzare tutti gli esseri viventi che avessero trovato. Così, pensava, non sarebbe rimasto sui monti nessuno e nessuno sarebbe potuto discenderne per conquistare il suo regno. I soldati partirono armati fino ai denti e senza misericordia ammazzarono tutti gli esseri viventi incontrati lassù : erano vecchi taglialegna, pastorelli, scoiattoli, ghiri, marmotte, perfino uccelletti innocenti. 2  



Insomma, la guerra come spietata macchina di morte, inarrestabile e assurda : ce n’è abbastanza per rivedere, se non ridimensionare, il famoso (e malinteso) militarismo buzzatiano. In base a queste considerazioni, si dovrà valutare con attenzione anche la conclusione della favola : il finale, con la morte redentrice di Re Leonzio e il ritorno degli orsi all’Eden delle montagne, andrà letto non solo come riproposta di un motivo tipicamente buzzatiano (il rifiuto della « vile pianura » in quanto causa di corruzione morale, l’ascesi interiore e la purificazione connesse alla spazialità liberante della montagna), ma anche in relazione a un esplicito rifiuto della guerra, quella guerra che gli orsi hanno appreso a combattere impiegando le armi più evolute proprie degli uomini 3 (mentre, come si è visto, all’inizio  









1

2  D. Buzzati, La famosa invasione, cit., pp. 22-23.   Ivi, p. 20.   Sul motivo della ‘antropizzazione’ degli orsi si veda V. Polcini, Antropomorfismo ed ecolo-

3

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della loro spedizione disponevano solo di lance e di frecce). Al riguardo, si rilegga il discorso pronunciato da Re Leonzio prima di morire :  

« Tornate alle montagne » disse lentamente Leonzio. « Lasciate questa città dove avete trovato la ricchezza, ma non la pace dell’animo. Toglietevi di dosso quei ridicoli vestiti. Buttate via l’oro. Gettate i cannoni, i fucili e tutte le altre diavolerie che gli uomini vi hanno insegnato. Tornate quelli che eravate prima ». 1  









7. Conclusioni Ci siamo chiesti più volte che cosa sia la guerra per Buzzati. Arrivati a questo punto, si può forse abbozzare una risposta più articolata e completa proponendo un parallelo tra l’esperienza della guerra e quella della montagna. Com’è noto, la montagna si identifica per Buzzati con lo spazio deputato alla sfida, alla conoscenza e alla prova di sé (lo hanno ricordato, tra gli altri, Giorgio Bárberi Squarotti ed Enrico Camanni) : 2 considerazioni analoghe si possono però fare anche in riferimento alla guerra, realtà nella quale l’uomo mette alla prova se stesso e il proprio (eventuale) valore, ma anche, nello stesso tempo, dimensione spazialmente definita e circoscritta. È lo stesso Buzzati – il Buzzati che scrive le cronache di guerra per il « Corriere della Sera » – a suggerire la centralità della metafora spaziale e delle relative significazioni : la guerra, anzitutto, è uno spazio separato e separante, una dimensione distinta e del tutto svincolata dalla consueta esistenza quotidiana. Lo scrittore sostiene le sue affermazioni evidenziando le connotazioni ‘topologiche’ dei vari corpi militari : gli aviatori, ad esempio, sembrano contigui con i loro campi di volo alla dimensione cittadina, ma in realtà appartengono a un ordine completamente diverso, compreso « entro le frontiere gelose della guerra », a quel « mondo a parte » dove « l’aria che si respira è la stessa che ci sarà domattina, in cielo straniero, nell’urlo della battaglia ». 3 Se la guerra è, dunque, uno spazio altro e diverso, determinante sarà, ancora una volta, il concetto di confine (che è, come insegna Lotman, « il più importante segno topologico dello spazio ») ; 4 concetto che Buzzati ri   



























   

gia in Dino Buzzati : un percorso di lettura ecocritico nel fantastico buzzatiano, « Mosaico italiano », xiii, 145, 2016, pp. 21-27 : 25. 1  D. Buzzati, La famosa invasione, cit., p. 124. 2   Cfr. G. Bárberi Squarotti, La forma e la vita : il romanzo del Novecento, Milano, Mursia, 1987, pp. 230-241 : 230 ed E. Camanni, Introduzione a D. Buzzati, Le montagne di vetro. Articoli e racconti dal 1932 al 1971, a cura di E. Camanni, Torino, Vivalda, 1989, pp. 9-18 : 11. 3  D. Buzzati, La guerra è un posto lontano, in Id., Il buttafuoco, cit., pp. 243-247 : 244. 4   Ju. M. Lotman, La struttura del testo poetico, a cura di E. Bazzarelli, Milano, Mursia, 19721985, p. 272.  















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il mito e l ’ altrove prende più volte nel testo che abbiamo citato, La guerra è un posto lontano : abbiamo infatti una serie di metafore (« barriera misteriosa », « limite perimetrale della vita », 1 etc.) che sottolineano proprio l’idea di un confine da varcare, di un oltre da raggiungere :  













La guerra è un posto lontano, ecco una verità, coincidendo con l’ultima barriera della vita. E per arrivarci il viaggio è lungo, anche se qualche volta si fa in poche ore. Lungo è il tragitto che l’animo percorre la sera in cui si fugge di casa […], quando i piedi varcano la soglia e, tratti da forza meravigliosa, si avviano nella vaga direzione del nemico. […] A poco a poco il soldato entra nel nuovo mondo duro, fiero e spensierato della guerra, […]. E la casa, la vita consueta, gli usati divertimenti, le immagini mille della propria esistenza diverranno un miraggio remoto, specie di improbabile sogno. 2  

La dimensione, come avviene per il Buzzati dei racconti fantastici, è sempre quella dell’andare oltre, di un avanzamento progressivo nella direzione dell’oltranza, là dove si troverà la morte ma forse anche la gloria, la vittoria su di sé e la piena realizzazione dell’esistenza : è il caso – su cui ci siamo già soffermati – del « comandante » che affonda con la propria nave mentre è diretto « all’ultimo approdo degli eroi », ma anche, a ben vedere, dell’equipaggio della mitica corazzata “Tod”, la cui rotta verso sud alla volta degli « abissi australi » non è altro che un continuo attraversamento di confini, un superamento di spazi che si aprono al di là di ogni possibilità e immaginazione umana (ed è questo, in ultima analisi, il motivo che dovrebbe dare ragione della nostra lettura della novella, quasi riscrittura o parafrasi del dantesco canto di Ulisse). Ma un ultimo aspetto ci importa sottolineare : è chiaro che una siffatta dimensione eroica non può che intrecciarsi col discorso sulla morte. Un discorso rivestito di forme retoricamente impostate (l’eufemismo è la figura principe) nel caso del « comandante », che è una figura del tutto idealizzata, dai contorni evidentemente letterari : impassibile, impavido di fronte alla catastrofe finale, il comandante si prende il tempo per accendersi un’ultima sigaretta (ma, appunto, « come fosse una sigaretta qualsiasi »), per poi allontanarsi « verso prora » e prendere congedo dalla propria nave :  































Si narra pure da alcuno che, in tal modo fumando, si sia allontanato verso prora, sulle lamiere già oblique, in silenzio, scomparendo tra nembi di fumo. Forse desiderava restare qualche istante ancora da solo, a pensare, per dire addio alla nave morente. E adesso, dove si trova ? Lontano, abbiamo saputo, incredibilmente lontano ». 3  





Fin qui, dunque, il Buzzati che ben conosciamo, quello dell’eleganza militare e della morte gloriosa. Va detto però che non c’è solo questo : allorché  

1

 D. Buzzati, La guerra è un posto lontano, cit., p. 247.  D. Buzzati, Un comandante, cit., p. 17.

3

2

  Ivi, pp. 243-244.

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racconta, nella cronaca intitolata 22 anni dopo, il ritorno alla Maddalena di un centinaio di marinai per commemorare l’affondamento dell’incrociatore Trieste (durante il quale morirono 54 uomini, mentre 35 furono i dispersi), Buzzati ci pare davvero lontano dall’essere un apologeta del militarismo. 1 Si può dire, anzi, che in questa cronaca la gerarchia dei suoi valori sia come rovesciata : allo slancio della giovinezza subentrano il ripiegamento malinconico e il senso della sconfitta, alla sublimità eroica, l’amaro rimpianto e la constatazione dolente della inutilità della guerra : 2  



   

Nell’atrio dell’albergo, là sulla riva, seduti in gruppetti, mentre si avvicina la sera, i cento vecchi marinai pieni di umidità tentano ancora : ti ricordi ? ti ricordi ? Ma non hanno più tanta voglia, li ha presi la tristezza del mare, degli anni, della giovinezza perduta, delle fanfare ammutolite, del sangue buttato via così, in fondo per niente [corsivo mio]. 3  







Alla fine, sembra dirci il Buzzati che redige le cronache di guerra, non esiste eroismo che possa compensare il dolore, la morte, l’inutile sacrificio dei soldati o dei marinai, la pena indicibile dei superstiti. Così in Una visita difficile, dove si racconta, appunto, della visita che il capitano di fregata B. fa alla madre di Battiloro, « un ragazzo molto semplice, quasi rozzo, un pescatore senza istruzione » ma che, ciò nonostante, « era morto in bellezza ». 4 Ancora una volta, si direbbe, l’ideale della « bella morte » e, quindi, l’ennesima mistificazione letteraria ; in realtà, a ben vedere, un ideale che in questo caso appare rovesciato, completamente svuotato di senso : di fronte al chiuso, impenetrabile e incomunicabile dolore della madre, la morte del giovane marinaio si rivela in tutta la sua dolorosa assurdità. È dunque qui, di fronte all’epifania del dolore materno, un dolore che non può essere comunicato né condiviso, che Buzzati sembra distaccarsi, almeno per una volta, dai miti letterari dell’eroismo e della bella morte :  



















Tutto poteva lasciar supporre ch’ella fosse ancora tra di noi ; invece, senza che nessuno sapesse, lei si era incamminata adagio adagio dietro quei due figlioli, e ormai ne aveva fatta di strada. Invano il comandante B. era venuto fin qui a cercarla e ora la chiamava indietro perché gli rispondesse ; lei andava avanti sulle  



1

  A questo proposito cfr. G. Carnazzi, Introduzione, cit., pp. xx-xxi.   Cfr. S. Zangrandi, « La cosa fantastica deve essere resa più vicina che sia possibile, proprio, alla cronaca ». Contaminazione tra cronaca e fantasia in Dino Buzzati al Giro d’Italia e Sessanta racconti, in L. Viganò et alii, Dino Buzzati e la realtà in racconto, a cura di S. Regondi, 2011, pp. 43-64 : 54. Disponibile su : https ://apeiron.iulm.it/retrieve/handle/10808/5636/10708/Zangrandi% 20-%20Dino%20Buzzati%20e%20la%20realt%C3%A0%20in%20racconto.pdf [ultimo accesso : 21.12.2016]. 3  D. Buzzati, 22 anni dopo, in Id., Il buttafuoco, cit., pp. 311-317 : 317. 4  D. Buzzati, Una visita difficile, ivi, pp. 302-308 : 302. 2

















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orme dei figli perduti ; ed era inutile che lui parlasse ancora, proprio come parlare a un fantasma. 1  



Ma vi sono anche altre testimonianze, di cui è necessario tenere conto : nel 1960, con l’atto unico Il mantello, Buzzati dirà nel modo più esplicito possibile che cosa sia la guerra e quale sia il peso di dolore e sofferenza che essa trascina con sé ; e lo dirà attraverso le parole dei « due vecchi », i bisnonni presenti sulla scena sotto forma di ritratti parlanti, la cui voce ammonitrice può essere udita solo dal protagonista, Giovanni, il morto-in-vita che ritorna dalla guerra per un’ultima visita alla propria famiglia :  









i vecchi Giovanni, sei troppo modesto. Diglielo, diglielo questo : montagne, ghiaccio, fame, pianti, pidocchi, bombe, sterco, schianti, sonno, urla, paura, venti ; preghiere, pioggia, terra tra i denti. E poi gli occhi per sempre fermi, pace, buio, eternità, vermi [corsivi dell’Autore]. 2  





È dunque questa, con ogni evidenza, la rappresentazione più realistica che Buzzati abbia dato della guerra, nonché la testimonianza più forte e inequivocabile della sua posizione ideologica ; 3 e non sarà un caso che lo stesso protagonista del dramma – quel Giovanni che ritorna morto dalla guerra per una breve visita alla madre – non sia solo un emblema, una generica e astratta figura di soldato, ma, al contrario, un vero e proprio combattente, uno dei tanti che hanno trovato la morte in montagna durante la prima guerra mondiale (così come non sarà casuale, a ben vedere, il riferimento al Monte Ferro sul quale Giovanni ha combattuto). In conclusione, ci sembra di poter dire questo : nell’opera di Buzzati si evidenziano due modi diversi di rapportarsi con la guerra, due modi che sembrano riconducibili non tanto a uno sviluppo diacronico di posizioni in contrasto, quanto a una compresenza di concezioni e forme rappresentative di volta in volta diverse. Da un lato, come si è detto, s’impone l’idea romantica di una guerra idealizzata, luogo deputato dell’eleganza e della morte eroica (ed è un ideale cui Buzzati resterà sostanzialmente fedele per tutta la vita, come dimostrano le dichiarazioni rilasciate a Panafieu) ; dall’altro, soprattutto dopo la fine della seconda guerra mondiale, si definisce una visione che va oltre il semplice mito letterario, e che focalizza anche gli aspetti più tragici e dolorosi : si ha così una vera e propria demitizzazione, che induce Buzzati    







1

  Ivi, pp. 307-308.  D. Buzzati, Il mantello. Atto unico, in Id., Teatro, a cura di G. Davico Bonino, Milano, Mondadori, 1980, pp. 129-152 : 149. 3   Al riguardo, si ricordi quanto scriveva Antonella Laganà Gion nella sua monografia dedicata a Buzzati : « Il teatro buzzatiano va […] identificato più di ogni altro racconto o romanzo come il testamento ideologico dell’autore […] » : A. Laganà Gion, Dino Buzzati : un autore da rileggere, Venezia, Corbo & Fiore – Nuovi Sentieri, 1983, pp. 111-115 : 114. 2















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a respingere la guerra nel momento in cui la scopre nella sua sostanziale irrazionalità e inutilità (a riprova, oltre alla cronaca 22 anni dopo, anche il messaggio esplicitamente pacifista su cui si chiude La famosa invasione ma, soprattutto, le parole pronunciate dai « vecchi » nel dramma Il mantello). Si tratta, insomma, di una concezione non statica ma a suo modo dinamica, che si complica e arricchisce nel corso del tempo, seppure all’interno di una visione che rimane sostanzialmente coerente e unitaria, e nella quale giocano, ancora una volta, le spinte contrastanti della mitizzazione e della demitizzazione : se da una parte assistiamo alla costante riproposizione del mito dell’eroe, dall’altra, come si è visto, si impongono elementi che rimandano a una visione della guerra che diviene via via sempre più consapevole e realistica, cui non è estranea, con ogni probabilità, la partecipazione diretta dell’autore alle vicende militari del secondo conflitto mondiale. Per chiudere con una formula : Buzzati senza dubbio militarista – e per sua stessa ammissione – ma non apologeta del militarismo né, tantomeno, ottuso sostenitore delle ragioni a favore guerra.  







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INDICE DEI NOMI Alfieri, Luigi 101 e n.

Alighieri, Dante 12, 35, 138, 140, 141 Ariosto, Ludovico 75 Atzori, Fabio 28 n.

Bárberi Squarotti, Giorgio 96 e n., 145

e n. Bahuet-Gachet, Delphine 91 n., 97 n. Bazzarelli, Eridano 71 n., 96 n., 145 n. Berardinelli, Alfonso 117 n. Berrini Pajetta, Letizia 40 n. Bertacchini, Renato 94 e n., 95 n. Biaggi, Pietro 48 n. Biondi, Alvaro 26 n., 43 n., 81 n., 98 n., 106 e n. Bocca, Giorgio 119 n. Boitani, Piero 140 n. Bonaparte, Marie 27 n. Bonifazi, Neuro 15 n., 18 n., 85 n., 87 e n., 95 e n., 104 n. Bonnat, Jean-Luis 17 e n., 18 n. Bontempelli, Massimo 106 Borges, Jorge Luis 69 e n. Borgna, Eugenio 37 n. Bosch, Hieronymus 126 e n. Bottini, Adriana 65 n. Bourneuf, Roland 97 n. Brambilla, Arturo 11, 15 e n., 16, 19, 20, 29, 30, 49 n., 98 e n., 99 e n., 107, 111, 113 Bravo, Gian Luigi 39 n. Brengola, Paola 27 n., 47 n., 52 n. Bruni, Francesco 104 n., 140 n. Bulgheroni, Marisa 106 e n.

Caillois, Roger 71 e n., 102 n.

Calabrese, Stefano 61 n., 72 n. Camanni, Enrico 26 n., 145 e n. Campailla, Sergio 108 n. Cantelmo, Marinella 41 n. Cantoni, Giovanni 95 n.

Caprettini, Gian Paolo 69 n., 70 n. Caratozzolo, Vittorio 108 n. Carlino, Marcello 124 n. Carnazzi, Giulio 34 n., 51 n., 92 n., 125 n., 143 e n., 147 n. Caspar, Marie-Hélène 12, 18 e n., 46 n., 50 n., 58 e n., 95 n. Cederna, Camilla 122 n. Cenacchi, Giovanni 42 n. Ceserani, Remo 57 n. Colombo, Cristoforo 75 Comar, Nicoletta 123 n. Comberiati, Daniele 84 n., 115 n., 116 n. Corbin, Henry 65 n. Crotti, Ilaria 38 n., 51 e n., 52 n., 56 n., 64 n., 75 n., 111 n., 136 n. Coupe, Laurence 32 n., 40 n., 43, 46 e n. Curi, Umberto 65 n., 143 n.

Dalla Rosa, Patrizia 13, 16 n., 48 e n., 54

e n., 55 e n., 56 n., 58 n., 59 n., 68 n., 69 n., 73 n., 81 e n., 83 n. Da Varazze, Iacopo 70 e n. Davico Bonino, Guido 117 n., 148 n. Debenedetti, Giacomo 117 e n. Dell’Aquila, Giulia 126 n. De Marchi, Pietro 81 n. Del Puppo, Alessandro 32 n. Depaoli, Massimo 16 n., 99 e n., 100 e n. Devoto, Giacomo 56 n. Di Simone, Marina 32 n. Donati, Corrado 13, 48 n. Dorfles, Gillo 34 n., 41 n.

Eliade, Mircea 95 n., 112 n. Escobar, Roberto 135 n.

Falqui, Enrico 31 n.

Ferrari, Mariateresa 31 n., 45 e n. Ferroni, Giulio 52 n., 138 n. Fontanella, Alvise 83 n., 117 n.

152

il mito e l ’ altrove

Formenti, Mara 27 n., 74 n., 76 n. Forster, Edward Morgan 106 n. Franz (von), Marie-Louise, 84 e n., 89 n.

Galdenzi, Ornella 97 n.

Gallina, Manuela 34 n. Gallinaro, Ilaria 109 n. Garboli, Cesare 117 n. Garlato, Francesco 112 n. Ghilardotti, Arianna 80 n. Giacone, Franco 21 n. Gianfranceschi, Fausto 83 n., 85 n., 117 n., 118 n., 137 n. Giannessi, Ferdinando 32 n. Giannetto, Nella 13, 16 n., 24 n., 31 n., 34 n., 46 n., 47 n., 49 n., 50 e n., 55 n., 67 e n., 72 n., 73 n., 76 n., 78 n., 79 n., 81 n., 83 n., 98 n., 103 n. 104 n. Gramigna, Giuliano 76 e n., 119 e n., 136 n., 137 n., 142 n. Guarino, Laura 102 n.

Hegel, Georg Wilhelm Friedrich 106 Heilmann, Luigi 21 n. Hillman, James 65 n. Hugo, Victor 138

Lazzaro, Bianca 32 n. Lecointre, Simone 17 n. Leopardi, Giacomo 12, 68 e n., 75 e n. Linari, Franca 41 n. Lotman, Jurij M. 71 n., 72, 73 e n., 79 e n., 80, 96 n., 138 n., 140 n., 145 e n. Luperini, Romano 62 e n., 64 n.

Magris, Claudio 74 e n.

Manacorda, Giuliano 137 n. Marabini, Claudio 91 n., 133 n. Masini, Ferruccio 90 n., 101 n. Mazzi, Maria Serena 27 n. Melchiorre, Virgilio 49 n. Mellarini, Bruno 14 Melville, Herman 138, 141 Mengaldo, Pier Vincenzo 81 e n. Messora, Noemi 31 n. Michaelstaedter, Carlo 108 n., 109 e n., 112 e n. Mignone, Mario B. 48 e n., 129 n., 131 n. Montale, Eugenio 44 Montanelli, Indro 46 n. Montefoschi, Giorgio 65 n. Monti, Vincenzo 65 e n. Moormann, Eric M. 31 n.

Ioli, Giovanna 117 e n., 122 n., 126 n., Neri, Nadia 84 n. 136 n., 141 e n., 143 e n. Jacomuzzi, Stefano 85 e n., 86, 88 n., Omero 124 90 e n., 96 n. Jakobson, Roman 18 n., 21 n. Janvier, Ludovic 97 n. Jesi, Furio 12, 40 n., 46 n., 65 n., 106 e n. Joyce, James 81

Kaf ka, Franz 86 e n., 89 e n., 90 e n., 92 e n., 97 n. Kermode, Frank 65 n. Klersy Imberciadori, Elina 38 n. Kubrick, Stanley 135 e n.

Laganà Gion, Antonella 148 n.

La Valva, Maria Provvidenza 110 n. Lazzarin, Stefano 44 e n., 52 n., 67 n., 126 e n., 127, 138 e n.

Orazio Flacco, Quinto 36 Ouellet, Réal, 97 n.

Panafieu, Yves 22, 23 n., 25 e n., 26 n., 36 e n. 41 n., 44 e n., 99 n., 106, 107 n., 117 n., 119, 120 n., 121 e n., 122 n., 125 e n., 148 Pascoli, Giovanni 66 n. Pasquino, Pasquale 40 n. Pautasso, Sergio 16 n., 55 n., 83 n., 99 n. Pedullà, Walter 119 n. Piccioni, Leone 94 n. Pilo, Isabella 16 n., 48 n., 56 n., 83 n. Pocar, Ervino 86 n. Poe, Edgar Allan 117, 138, 141 Polcini, Valentina 144 n.

indice dei nomi

153

Propp, Vladimir Jakovievič 39 n., 41 e n. Pullini, Giorgio 52 e n., 57 e n., 58

Toscani, Claudio 33 n., 34 n., 105 n., 118 e n., 126 n.

Ramond, Michèle 17 n.

Uitterhoeve, Wilfried 32 n.

Regondi, Stefano 147 n. Rella, Franco 90 n. Repetti, Paolo 71 n. Rho, Anita 86 n., 92 n. Rousset, Jean 21 n. Rubini, Paolo 110 n.

Sala, Alberico 39 n.

Salvestroni, Simonetta 138 n. Scarano, Tommaso 69 n. Scarsella, Alessandro 38 n. Schiavoni, Giulio 89 e n., 101 n. Segre, Cesare 37 n., 54 n. Simonelli, Luciano 16 n., 30 n., 49 n., 99 n.

Tetamo, Elisa 32 n.

Todorov, Tzvetan 38 e n.

Veneziani, Marcello 118 n.

Vernant, Jeanne-Pierre 40 e n., 48 n., 80 n. Veronese Arslan, Antonia 38 n., 51 n., 54 n., 59 e n., 60 e n., 75 n., 77, 83 n., 93, 132 n. Viganò, Lorenzo 147 n. Virgilio Marone, Publio 12, 42 Vitale Brovarone, Alessandro 70 n. Vitale Brovarone, Lucetta 70 n.

Weinrich, Harald 110 n. Zangrandi, Silvia 147

Zanzotto, Andrea 118 n., 122 e n. Zuppet, Roberta 65 n.

comp osto in car atter e s e r r a da n t e da l la fabr izio serr a editore, p i s a · roma . stampato e r ilegato n e l la t ip o g r afia di ag nan o, ag na n o p i s a n o ( p i s a ) . * Febbraio 2017 (cz2/fg13)

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2. Le Alpi di Buzzati, a cura di R. Ricci, 2002. 3. Patrizia Dalla Rosa, Dove qualcosa sfugge: lingue e luoghi di Buzzati, 2004. 4. Maurizio Trevisan, Dino Buzzati, l’alpinista, 2006. 5. Stefano Lazzarin, Fantasmi antichi e moderni. Tecnologia e perturbante in Buzzati e nella letteratura fantastica otto-novecentesca, 2008. 6. Un gigante trascurato? 1988-2008: vent’anni di promozione di studi dell’Associazione Internazionale Dino Buzzati, a cura di Patrizia Dalla Rosa e Bianca Maria Da Rif, 2010. 7. Fabio Atzori, Alias in via Solferino. Studi e ricerche sulla lingua di Buzzati, 2012. 8. Bruno Mellarini, Il mito e l’altrove. Saggi buzzatiani (1996-2016), 2017.