Il mistero del cinema
 8834606728, 9788834606728

Table of contents :
Copertina
Trama
Bernardo Bertolucci
Collana
Frontespizio
Copyright
Prefazione di Clare Peploe
Il mistero del cinema
La mia magnifica ossessione
Casarola
Pier Paolo
La commare secca
Produttori
Attilio
Crisi
Miura
Luoghi
Camerasutra
Stile
Niente
Finale
L’ultimo Bertolucci Postfazione di Michele Guerra

Citation preview

In questo testo inedito, scrio in occasione della laurea honoris causa ricevuta dall’Università di Parma nel 2014, Bernardo Bertolucci ricostruisce la sua autobiografia artistica, tra cinema e memorie private. Pagine di sfolgorante e semplice grazia, ritrovate dalla moglie Clare Peploe e da Michele Guerra, in cui il regista premio Oscar, autore di capolavori acclamati in tuo il mondo, fa luce su se stesso, sulla propria personalità, sulla propria arte. A partire dall’infanzia in un’Emilia di provincia che non sarà mai dimenticata, educato alla bellezza e alla poesia dal padre poeta Ailio. Poi l’incontro da predestinato con la macchina da presa: i primi esperimenti da ragazzo, la vicinanza con Pasolini e Moravia, la scoperta di Godard e della Nouvelle Vague francese. E ancora i ricordi intimi di famiglia, nelle valli sperdute di Casarola, i luoghi vicini da cui partire per esplorazioni esotiche, la fatica di emergere convincendo i produori, l’orgoglio di essere invitato e premiato dai festival più importanti: al centro, come uno specchio araverso cui guardare il mondo, la seduzione e il mistero del suo cinema.

Bernardo Bertolucci (1941-2018), figlio del poeta Ailio, nasce a Parma e nel 1952 si trasferisce a Roma con la famiglia. Si iscrive alla facoltà di Leere alla Sapienza di Roma, ma non termina l’università per iniziare l’aività cinematografica come aiuto regista di Pasolini in Accaone. Nel 1962 gira il suo primo lungometraggio, La commare secca, su soggeo e sceneggiatura dello stesso Pasolini. Nel 1964 presenta al Festival di Cannes Prima della rivoluzione, che riscuote un grande successo in Francia e lo afferma come il seguace italiano della Nouvelle Vague. Nel 1967 firma il documentario La via del petrolio. Nel 1968 esce Partner, seguito da Strategia del ragno (1970), Il conformista (1970, dall’omonimo romanzo di Moravia) e Ultimo tango a Parigi (1972), che gli varrà un lungo processo per “offesa al comune senso del pudore”. È la consacrazione mondiale di una carriera che proseguirà con grandi successi di critica e pubblico, come Novecento (1976), La luna (1979), La tragedia di un uomo ridicolo (1981), L’ultimo Imperatore (1987, vincitore di 9 premi Oscar e 4 Golden Globe), Il tè nel deserto (1990), Piccolo Buddha (1993), Io ballo da sola (1996), L’assedio (1998), e Dreamers – I sognatori (2003), Io e te (2012). Nel 1997 ha ricevuto il Pardo d’onore al Festival di Locarno, nel 2007 il Leone d’oro speciale alla Mostra del Cinema di Venezia, nel 2011 la Palma d’oro alla carriera al Festival di Cannes e nel 2012 il premio EFA alla carriera.

le Onde.

80

Bernardo Bertolucci Il mistero del cinema A cura di Michele Guerra Prefazione di Clare Peploe La nave di Teseo

L’Editore ringrazia Giovanni Mastrangelo.   Il testo riproduce la lectio doctoralis pronunciata al Teatro Regio di Parma in occasione della laurea honoris causa in Storia e critica delle arti e dello speacolo, conferita a Bernardo Bertolucci dall’Università di Parma il 16 dicembre 2014.   © 2021 La nave di Teseo editore, Milano, su licenza eredi Eco   ISBN 978-88-346-0674-2     Prima edizione digitale La nave di Teseo marzo 2021     est’opera è protea dalla Legge sul dirio d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

Sommario

Prefazione di Clare Peploe Il mistero del cinema La mia magnifica ossessione Casarola Pier Paolo La commare secca Produori Ailio Crisi Miura Luoghi Camerasutra Stile Niente Finale L’ultimo Bertolucci Postfazione di Michele Guerra

Prefazione di Clare Peploe

Come quando lessi questo testo di Bernardo per la prima volta, mi colpisce anche oggi il senso di meraviglia che scaturisce dalle sue parole. Uno stupore profondo per le cose della vita che ha imparato fin da piccolo a Parma, a Baccanelli, a Casarola, guidato da suo padre Ailio lungo le strade di cià, araverso la pianura, su per le mulaiere dell’appennino emiliano – poesia che mangia a colazione, un modo di vedere il mondo, un’abitudine che gli diventa naturale. esto profondo senso di meraviglia, che scopre e fa suo già da bambino, è un seme che cresce nel bisogno di esprimersi, nell’urgenza, nella necessità creativa – filmare. Le inquadrature di Bernardo, naturalmente sensuali, carezzano volti, oggei, paesaggi e racchiudono in sé la stessa meraviglia del bambino e del ragazzo. Un seme che cresce con lui e si muta in virgulto, albero, olmo maestoso, tronco portante di tuo il suo cinema, visione poetica che perde i confini geografici e temporali e diventa un “qui e ora” universale, da Pechino a Parigi, dal Sahara all’America. Per questo motivo abbiamo preso la decisione di affidare alla cià di Parma l’archivio storico di Bernardo per aggiungersi a quelli di Ailio e di Giuseppe, così da fissare nel tempo l’indissolubilità del legame tra questa terra e la famiglia Bertolucci.

Il mistero del cinema

La mia magnifica ossessione

In moltissime occasioni mi è naturalmente capitato di parlare del mio cinema e quindi di me. Alcuni anni fa, il critico cinematografico Piero Spila venne da me e mi disse che avrebbe voluto raccogliere in un libro tui i miei interventi sul cinema apparsi su riviste, libri, giornali. Una raccolta il più possibile completa di quasi cinquant’anni di scrii. Gli dissi di andare pure avanti, ma lo misi in guardia che non avrebbe trovato granché, che il suo libro sarebbe stato un piccolo libriccino. Fui così il primo a sorprendermi quando scoprii che questi miei interventi sul cinema riempivano un volume che arrivava a 300 pagine fie. Venne scelto come titolo La mia magnifica ossessione, che richiamava quello di un famoso film della Hollywood classica direo da Douglas Sirk, ma che rendeva al contempo molto bene l’idea di che cosa è per me il cinema.1 Ne ero – e ne sono – così ossessionato, che non mi ero neanche reso conto di averne parlato così tanto. el libro è come un’opera che corre in un certo senso parallela alla mia filmografia. Dunque quando ho saputo che avrei dovuto preparare questa lectio doctoralis per la laurea honoris causa che mi dà l’Università della cià dove sono nato e cresciuto, ho cominciato a chiedermi di cosa avrei parlato, quale potesse essere il tema giusto per questa cerimonia che ha un sapore particolare, in un Teatro che conosco bene e che è anche in uno dei miei film. Ebbene, per quel senso di “originario” che Parma e le sue terre conservano per me, ho pensato che avrei potuto cercare di ripercorrere le tappe iniziali di questa mia magnifica ossessione. Il cinema è stato qualcosa di cui ho sentito parlare fin da piccolissimo. Era la fine degli anni aranta, abitavamo a Baccanelli, a cinque chilometri da Parma. Ricordo mio padre

che tornava a casa, era già buio, dentro nebbioni come non se ne vedono più. Andava subito al telefono e chiamava la “Gazzea di Parma”. Cercava di Curti o Bommezzadri, sono nomi che io ricorderò per sempre, gli stenografi, e incominciava a deare la critica del film, o dei film appena visti nel pomeriggio. La deava senza avere scrio una riga, senza aver preso delle note. Io stavo lì seduto sulle scale a guardarlo: improvvisava, andava a braccio. Ma come faceva? A me sembrava che recitasse a memoria quello che invece lui inventava, lì, sul posto. Devo dire che non si interrompeva quasi mai. alche volta si faceva rileggere quello che aveva deato allo stenografo, qualche volta no, andava sicuro. E non aveva preso neanche una nota! A me sembrava l’uomo più intelligente del mondo. E il cinema lo ossessionava. Aveva questa mania di misurare la sua ossessione provandosi la febbre durante le proiezioni: si infilava il termometro soo l’ascella per controllare l’emozione che gli provocavano quelle ombre in movimento sullo schermo. Parma in quei tempi era molto legata al cinema, come forse avete visto o potrete vedere nel bel documentario di Francesco Barilli e Michele Guerra Poltrone rosse. Parma e il cinema, che è stato presentato a Venezia pochi mesi fa. Oltre a mio padre, penso a Pietrino Bianchi, a Cesare Zavaini, a Antonio Marchi, a Giovannino Guareschi, a Luigi Malerba, ma anche a Peppino Calzolari e a Giorgio Fornari. A Parma si parlava tanto di cinema, si scriveva di cinema, si pubblicavano riviste come “La critica cinematografica” e “Sequenze” e collane come la Piccola Biblioteca di Cinema dell’editore Guanda. A Parma addiriura si faceva cinema ed era perfino nata una casa di produzione, la Ciadella Film, che inseguiva il sogno di una Cinecià emiliana nella fortezza, appunto, della Ciadella. Nel 1953 a Parma si tenne il primo convegno sul neorealismo, alla cui organizzazione partecipò mio padre. Un convegno per parlare e rifleere sugli anni eroici appena passati: Roma cià aperta, Paisà, Sciuscià, Germania anno zero, Ladri di biciclee… Un capolavoro dopo l’altro, appena

fai, appena visti, ancora emozionanti, caldissimi come la realtà che raccontavano e che tui avevano vissuto da poco e tui ricordavano. Il cinema italiano aveva strappato le macchine da presa dagli studi fascisti di Cinecià e le aveva portate nelle strade, nelle zone popolari, nei villaggi dei pescatori siciliani, sugli argini del Po con i cadaveri dei partigiani che ti passano davanti con la scria “Bandito” infilata addosso. Insomma, il cinema italiano aveva scoperto la realtà. Beh, a pensarci ora mi sembra del tuo naturale che io abbia voluto fare cinema, in un contesto come questo. Eppure dopo tanti anni, dopo tanti film, tuo mi sembra ancora molto misterioso. La nascita di un film, la prima idea, il linguaggio della tua macchina da presa, lo stile, l’alchimia tra i luoghi, gli aori, le luci. Eppure il film che ho davanti rimane ancora un mistero. Alcune volte giri e non sai ancora cosa farai con quelle inquadrature, dove le meerai, che cosa comunicheranno. Tuo sembra così chiaro, eppure ancora, dopo tanti anni, dopo tanti film, tuo sembra anche così pieno di mistero. È una lezione che ci hanno tramandato anche i vecchi maestri. Nel 1974, con mia moglie Clare, a Los Angeles, abbiamo incontrato Jean Renoir, che tui e due amavamo più di qualsiasi altro regista al mondo. Oantenne, seduto su una sedia a rotelle con un plaid sulle ginocchia, Renoir salutando ci disse: “Rappelle-toi, il faut toujours laisser une porte ouverte sur le plateau. On sait jamais: quelqu’un pourrait entrer, inaendu, c’est la réalité qui vous fait un cadeau!” (“Ricordati, bisogna sempre lasciare una porta aperta sul set. Non si sa mai: qualcuno potrebbe entrare, inaeso, è la realtà che ti sta facendo un regalo!”). ando ci siamo salutati, ricordo che Renoir ci disse: “Est-ce que je peux vous embrasser?” Sia io che Clare ci siamo chinati per abbracciarlo, lui sulla sedia a rotelle. E io, quando gli ho baciato la testa pelata, ho sentito su di lui lo stesso odore che da bambino sentivo sulla testa senza capelli di mio nonno Bernardo.

B. Bertolucci, La mia magnifica ossessione, a cura di P. Spila, Milano, Garzanti, 2010. 1

Casarola

Non potevo non cominciare da qui, da Casarola, dall’origine appenninica, da un paese e una casa che per noi erano da sempre state fuori dal tempo, un luogo in cui vivere protei dal mondo. Fino agli anni Cinquanta a Casarola non c’era la strada. Noi arrivavamo ogni estate con la macchina che ci portava insieme alle valigie e ai bauli, perché mia mamma diceva che bisognava portare tuo, anche i fiammiferi, perché lì non si trovava nulla. Ci venivano a prendere nel paese in cui arrivava la camionabile, un paese che ha un nome quasi parlante, si chiama Grammatica. Venivano i contadini di Casarola con i viò: erano dei cesti di vimini, in cui in genere meevano il fieno, su due sci, con le mucche che li tiravano. E partivamo nei boschi di castagni che poi ci avrebbero portati in fondo alla valle, e su di nuovo verso il paesino di pietra. Io dicevo ai miei compagni di scuola: “Ah, quest’estate sono stato in vacanza in un paese che è ancora prima della scoperta della ruota…” Infai le strade erano piene di sassi, erano le mulaiere. Casarola è un paese che ci ha segnato, che ci ha marcati tui, me e mio fratello Giuseppe. Eravamo molto affezionati a quel luogo, a quella casa. Eravamo nati con il mito di Casarola, il luogo da cui veniva la famiglia Bertolucci e di cui poi mio padre avrebbe parlato nel suo romanzo in versi La camera da leo. Una delle mie prime poesie, tra i 6 e i 7 anni, diceva: Ti sveglia l’eco di un gallo che canta ti frega gli occhi

una farfalla bianca Casarola, che tui credon fòla. Tui non so chi, ma insomma gli amici di un bambino. Che potevano credere che quel paese prima della scoperta della ruota fosse una òla, una favola, una finzione. Il film di Lorenzo Castore che avete visto è fao di schegge ritrovate, girate da me in 16mm a sedici anni e da altri amici. Alcune inquadrature sono state girate da Antonio Marchi verso la fine della seconda guerra mondiale, in paese dove era venuto a trovare mio padre e ad un certo punto avete visto un bambino di tre anni che guarda in macchina e mi assomiglia molto…2 E quindi, capite, è stato fatale che io girassi il mio primo film proprio a Casarola: La teleferica, si chiamava. Dico si chiamava perché è andato perduto. Era la storia di tre bambini alla ricerca di una misteriosa teleferica, dentro un mare di boschi di castagni. I bambini erano mio fratello Giuseppe e le nostre cuginee Marta e Ninì. Era una prova di espressione pura. Voglio dire, io lo ricordo come forse l’unico mio momento di regista in cui ero proprio al di qua di ogni riflessione, di ogni bisogno di consapevolezza, al di qua del pensare al cinema. Andavo solo alla ricerca della pura espressione, senza saperlo. Volevo solo impressionare la pellicola, questo era quello che volevo fare. Scoprire di traenere quel paesaggio, la sua complessità, il suo significato era qualcosa di miracoloso che avveniva tra le mie mani e poi davanti ai miei occhi. Casarola soraa alla sua realtà e trasfigurata su quella pellicola. Mio padre, in una sua poesia che porta lo stesso titolo del mio primo film,3 cercherà di descrivere questa espressione pura, definendola come “smania dello storyteller”, che già in qualche modo mi coinvolgeva e mi trascinava in quegli anni giovanissimi e che coinvolgeva anche mio fratello Giuseppe che mi seguiva nei boschi in quella prima avventura.

Giuseppe aveva dieci anni. Era il protagonista e anche il mio aiuto regista. Anche lui contagiato per la prima volta dal cinema che avrebbe fao tanto e con risultati veramente bellissimi. Mi seguiva curioso, mite, con lo sguardo intelligente e bellissimo. Giuseppe è sempre stato bellissimo. Non sono mai più tornato a girare a Casarola, non ho voluto vedere al cinema Casarola, ma so che là si è mosso qualcosa che continua a durare, si è avviata la necessità del cinema. Non solo girare, non solo assistere a quel miracolo, ma anche montare, usare strumenti impropri come le forbici e giuntare le inquadrature. Nell’unica copia di quel primo film perduto ne avreste potute trovare anche di montate alla rovescia. Bertolucci ha scelto di mostrare, durante la cerimonia, il cortometraggio di Lorenzo Castore Casarola (2014), un film fao di materiali di repertorio che contengono anche immagini rare e inedite girate da Bernardo adolescente. Il film è oggi disponibile online: 2

A. Bertolucci, La teleferica, in Viaggio d’inverno (1971), ora in Opere, Milano, Mondadori, 1997, p. 197. 3

Pier Paolo

Il cinema possedeva in quegli anni una forza che rasentava la fascinazione. Veder nascere l’immagine cinematografica equivaleva quasi ad assistere alla nascita di un mondo, o per lo meno alla nascita di un determinato sguardo su quel mondo. Era come se qualcosa venisse insieme ordinato e scompaginato, rimesso in gioco, illuminato e finalmente compreso o non compreso nel suo mistero. Posso dire che è un sentimento che ha caraerizzato quelli che gli storici chiamerebbero “gli anni della formazione” ed è un sentimento che si è rinnovato quando mi sono trovato a fare l’assistente sul set di Accaone. Pier Paolo faceva il suo primo film, si meeva alla prova con un linguaggio per lui nuovo e a me pareva che se lo inventasse ogni giorno, ad ogni inquadratura. Pier Paolo adorava la Giovanna d’Arco di Carl eodor Dreyer: era il suo modello, il suo vero e unico modello. Primi piani, primi piani, primi piani, qualche raro totale. E finalmente un giorno un vecchio binario viene preso dai macchinisti, tirato giù dal camion e buato lì, tra le baracche della Borgata Gordiani. Era la prima carrellata di Pier Paolo. E ai giornalieri a me sembrò la prima carrellata della storia del cinema. Fare Accaone non significava soltanto imparare il cinema, quello vero, e farlo di fianco ad un poeta che stava a sua volta cercando di imparare un’altra lingua, fare Accaone voleva anche dire abbracciare una certa visione del mondo. Erano gli anni della mia “università”. Sono stato un privilegiato, lo so. Pensate che potevo permeermi una specie di furia mimetica nei confronti di Pier Paolo, una fase che è durata dai quindici fino ai diciannove, vent’anni. Per esempio scrivere poesie, pure imitazioni delle sue. La mia università è

stata soprauo ascoltare, la sera, cosa si dicevano al ristorante Pasolini, Alberto Moravia, Elsa Morante e Adriana Asti. “Ma non vai all’Università?” mi chiedeva mio padre. “Sì, ci vado tue le sere, ma mi laureerò da vecchio!” Ecco, lo sapevo già, che sarebbe arrivato questo giorno… Gli ardori di questa furia mimetica – che hanno coinciso con le mie prime vere prove di poeta e poi con il cinema – si sarebbero spostati su un’altra figura paterna e poi amica, quella di Jean-Luc Godard e del cinema della Nouvelle Vague, un cinema libero, gioioso, alimentato da quella forma di esaltata ed esaltante malaia che era la cinéphilie. Vidi À bout de souffle a Parigi e restai senza fiato. Il motivo era sempre lo stesso: vedevo nascere qualcosa di nuovo proprio davanti ai miei occhi. In una delle sue ultime interviste, mio padre ha deo che ciò che ricorda degli anni in cui cominciava ad andare al cinema, ciò che gli faceva ritenere quella forma di espressione pari alla poesia, alla leeratura, alla piura, era l’emozione di vedere un’arte che si inventava il proprio linguaggio, proprio nel momento creativo del linguaggio.4 A me succedeva la stessa cosa. Tornato a Roma dissi a Pier Paolo di correre a vedere quel film straordinario che era À bout de souffle. Pier Paolo ci va di domenica, con alcuni suoi amici e poi mi dice: “Sono stato a vedere il TUO À bout de souffle” e mi dice che i suoi amici hanno sghignazzato tuo il tempo. Pier Paolo che va a vedere À bout de souffle e ne ride con i suoi amici è qualcosa che non posso capire o acceare, ma credo che in quel momento lui vedesse che stava perdendo una sicurezza che ero io, come se si accorgesse che avrebbe dovuto condividermi con Godard. Non si piacevano troppo in quegli anni, se lo sono anche dei e scrii. Ricordo che Godard definì Pasolini e Christian Metz due “flics”, due polizioi, che sanzionavano i film, imprigionavano il cinema tra le sbarre della semiologia. Poi c’è stata come una catarsi, sia quando Pier Paolo ha scrio di Godard, avvicinandolo proprio a me, nel suo famoso saggio su cinema di prosa e cinema di poesia, sia quando in

Una disperata vitalità sceglie il refrain “come in un film di Godard”. 4 L’intervista ad Ailio Bertolucci cui si fa riferimento è contenuta in V. Zagarrio, Cinema e fascismo, Venezia, Marsilio, 2004.

La commare secca

ando girai La commare secca, il mio primo lungometraggio, avevo ventuno anni e il film fu presentato a Venezia nel 1962, pochi giorni dopo che il mio libreo di poesie In cerca del mistero aveva vinto a Viareggio il Premio Opera Prima. Un libro a Viareggio, un film a Venezia, tuo insieme sembrava un po’ troppo. Il pensiero che quel ragazzo ventenne fosse spinto dal “clan” Pasolini-Moravia diede più valore a quella critica ovvia che, essendo il soggeo del film un soggeo di Pier Paolo ed essendo riconducibili alla sua poetica anche le location del film, allora La commare secca era da considerarsi un film di Pasolini, o per lo meno estremamente pasoliniano. Il “Corriere della sera” scrisse che probabilmente avrei dovuto cambiare mestiere. Io invece scoprivo quello che era il mio stile naturale. Ne La commare secca, di Pier Paolo c’era la storia, l’ambiente, i ragazzi di vita. Ma il mio cinema era assolutamente diverso dal suo e in fondo anche da lui. Pier Paolo girava piani fissi, mentre la mia macchina da presa era sempre in movimento, in continua carrellata, non si fermava mai. Avevo fao una fatica incredibile per girare in modo assolutamente diverso da Pasolini, per ricercare ad ogni ripresa il mio modo di vedere e di raccontare quella storia. Credo che Pier Paolo si accorgesse molto bene e molto lucidamente di questo, tant’è che in un’intervista rilasciata a Oswald Stack disse: “Credo che Bernardo, più che venire influenzato da me, si ribellasse a me. Ero una sorta di padre per lui e per questa ragione ha reagito contro di me. Infai quando girava una scena, penso si chiedesse ‘Come la girerebbe Pier Paolo?’ e decidesse dunque di girarla in un modo diverso.”5

Mi ricordo oggi La commare secca come un film girato in uno stato di trance, dovuto sia al primo contao con il mestiere del regista e con tue le forme di responsabilità e fermezza che presuppone, sia al fao che tuo questo succedesse in un periodo particolare della mia vita. Abitavo ancora in casa con i miei, a Roma, in via Carini. Dormivo in camera con mio fratello Giuseppe. Ci svegliavamo insieme verso le see e mentre lui si preparava per andare a scuola, io mi preparavo per andare sul set, dove mi sarei dovuto trasformare nel dominus di una vera troupe. Non mi sembrava per niente strano poter fare la vita di un normale studente, mangiare a casa con i miei, dormire con mio fratello e poi durante il giorno essere sul set davanti a una sessantina di persone che volevano sapere da me cosa fare. Mi sembrava più che naturale. Certo, essere il più giovane nella troupe voleva dire loare su tuo, non abbassare la guardia nemmeno un momento, non cedere mai, non dare mai segni di debolezza. Dovevo dimostrare ancora di più di essere all’altezza della situazione, di avere il dirio di dare ordini a tui. In quel periodo, ma ancora di più forse oggi, poter fare un lungometraggio a vent’anni era qualcosa di impossibile. Fu un’esperienza talmente formativa per il mio caraere, che quando girai Prima della rivoluzione e avevo solo ventidue anni, mi comportavo come se fossi un regista consumato, a metà carriera. Mi ricordo che c’erano due miei amici brasiliani, che facevano allora il Centro Sperimentale di Cinematografia e che sarebbero poi diventati registi, Paulo César Saraceni e Gustavo Dahl, che non volevano credere che io stessi davvero girando un film. Li incontrai il giorno prima dell’inizio delle riprese in un bar a Roma e dissi che il giorno dopo avrei cominciato il mio film. Vollero l’indirizzo del posto in cui giravo e vennero a controllare che fosse vero. ando La commare secca fu presentato a Venezia, pensai semplicemente di aver fao il mio primo film, di essere a

Venezia e di ritrovarmi ora pronto per il film che davvero volevo, Prima della rivoluzione. 5

138.

O. Stack, Pasolini on Pasolini, Bloomington, Indiana University Press, 1970, p.

Produori

esta volta non c’era più il nome di Pier Paolo a rassicurare un eventuale produore, stavolta c’ero io in prima linea. In più l’idea del film mi preoccupava, la sentivo molto forte, necessaria addiriura, ma nello stesso tempo la avvertivo anche come troppo autobiografica, mi chiedevo se non stessi esagerando, se sarei stato capace di sorarmi al gioco delle parti tra me e il personaggio di Fabrizio. Oltre a questi problemi, che definirei di ordine poetico e personale, c’era da trovare un produore. Il cinema è solo in parte forza di volontà rispeo al tema che hai scelto e al modo in cui lo vuoi raccontare, è prima di tuo una baaglia per permeere al film di esistere e quindi per trovare persone che acceino di finanziarlo. i è entrata in gioco una persona che sarebbe stata destinata ad essere molto cara per me, Gianni Amico. Gianni aveva amato La commare secca e chiacchierando avevamo scoperto di essere entrambi “Godard-dipendenti”. Gianni disse che voleva aiutarmi a fare Prima della rivoluzione e insieme incontrammo a Milano un giovane industriale dei tessuti milanese che si chiama Mario Bernocchi, il quale si appassionò alla sceneggiatura e decise di finanziare il film. Ci serviva a quel punto un distributore. La commare secca era un film Cineriz. Ricordo che andai a Milano ad incontrare il vecchio Angelo Rizzoli in persona ed ero così determinato che riuscii a tirarlo dentro, ma non so più in quale linguaggio gli parlai. Esisteva una società che doveva approvare tui i progei, la Federiz, che Rizzoli aveva messo in piedi con Federico Fellini. Il giudizio di Fellini sulla sceneggiatura fu negativo. Io adoravo i film di Fellini e la cosa mi ferì enormemente. Capii che Fellini, che doveva individuare nuovi autori e favorirne il lavoro, sembrava si

dedicasse soprauo a far fuori chi stava iniziando a fare cinema. Del resto ci aveva già provato anche con Pier Paolo. Accaone era stato girato in due momenti e la prima parte, in primavera, aveva come produore Fellini. Un sabato ricordo che aspeavamo, in un ufficio anonimo sul Lungotevere, Pier Paolo che era andato a vedere i giornalieri insieme a Federico. Pier Paolo tornò quasi piangendo e ci disse che a Fellini non era piaciuto, che gli aveva deo che era un bravo scriore, ma non un regista, che poteva lasciar perdere il cinema. Accaone è rimasto fermo un mese o forse più ed è stato grazie ad Alfredo Bini che il film è risuscitato e che abbiamo avuto un regista come Pasolini. Tuavia, dopo il mio incontro con Rizzoli, sembrava proprio che Prima della rivoluzione potesse partire. alche seimana prima dell’inizio delle riprese, io e Gianni Amico chiamiamo Bernocchi a Milano. Ci risponde un cameriere, che ci dice che il signor Mario è partito militare a Palermo. “Come partito soldato?” “Sì, è al CAR (Centro Addestramento Reclute) di Palermo dove farà il servizio militare.” Erano due anni e mezzo, allora. Il film era praticamente saltato. Gianni, con più sangue freddo di me, mi mee immediatamente su un aereo per Palermo e io arrivo in Sicilia. Vado al CAR e trovo Bernocchi in guardina per aver dato un cazzoo in faccia a un sergente. Parlargli è difficile, ma ci riesco. Mi racconta che a Palermo c’è un grossista della sua azienda che forse potrebbe aiutare lui a tornare a Milano e me a fare il film. Portai a cena questo signore, che evidentemente era in odore di mafia, e riuscii – parlando, a 22 anni, si è estremamente convincenti se si deve fare un film – a convincere anche lui, quasi lo feci diventare un nuovo cinéphile. Insomma: dopo tre giorni, grazie a questa cena, Bernocchi era di nuovo a Milano e non avrebbe mai più fao il servizio militare. Si fece il film grazie a quella che forse è stata una forma di corruzione e che piano piano ci sarebbe diventata così familiare. Mi sembrava così strano, allora. Oggi invece tuo questo suona purtroppo assolutamente normale.

Prima della rivoluzione era da una parte il modo per allontanarmi terapeuticamente da Pier Paolo e dall’altra l’occasione di tornare a Parma. Sentivo di doverlo fare, lo avvertivo come qualcosa di inevitabile, lo dovevo a mio padre. alche seimana fa, ai festeggiamenti a Roma per i cinquant’anni del film, ne ho rivisto l’inizio. Prima che cominci il film, sullo schermo buio, c’è la voce di Fabrizio, il protagonista, che dice: “esistevo perché voi esistevate”. Chi sono – mi chiedo – questi “voi”? Fabrizio è qualcuno che ha partecipato senza saperlo a un ballo di fantasmi e mentre ballava non se n’è neanche reso conto. Ora ha come bisogno di affermare la sua esistenza fuori da quel ballo, indipendentemente da quei fantasmi, anzi a partire proprio dalla scoperta che quei “voi” non esistono. Prima della rivoluzione è uno di quei film che ti danno la prova che tu esisti, al punto tale che si crea una sorta di identificazione tra l’autore e l’oggeo-film: se aaccavano Prima della rivoluzione, aaccavano me, lo sentivo fisicamente. Come fisicamente sentivo che invece ero stato acceato dalla critica francese: ero stato amato dai “Cahiers du cinéma” e, per me che ne ero un leore e adoravo la Nouvelle Vague francese, questo era il massimo. In quei primi anni Sessanta ero arrivato a pensare di essere in grado di dire qualcosa solo araverso il cinema, di esistere solo dentro i film. Non ho forse più provato un tale senso di stupefazione nel fare film, possedevo un’autorevolezza che mi veniva dalla passione accecante per il cinema. Il cinema è accecante.

Ailio

In Prima della rivoluzione, in fondo, stavo affrontando mio padre sul suo stesso terreno, ma a quel tempo intendevo il film più come versus Pier Paolo che versus Ailio. In quel momento per me cinema significava Jean-Luc Godard. Mio padre aveva amato il film, non penso che ci vedesse il tentativo di meerlo in discussione. Se dev’esserci una presa di distanza, un tentativo di affrancamento dal padre, allora devo dire che era Pier Paolo quello da cui volevo prendere le distanze; e quella Parma, raccontata in quel modo, vista da quella prospeiva e messa in immagine secondo quelle scelte stilistiche, mi sembrava senza ombra di dubbio il punto più lontano possibile rispeo al cinema di Pasolini. Mio padre ha sempre guardato con interesse alle mie prove poetiche e cinematografiche e io mi sono accorto solo molto tempo dopo che ad ogni mio film reagiva come se l’avesse fao lui. Non credo volesse sorarmi i miei film, né che volesse reclamare meriti su ciò che facevo, semplicemente vi entrava in un modo molto particolare e continuava a viverli come se fossero opera sua, li amava incondizionatamente come se fossero non di suo figlio, ma suoi figli! Si arrabbiava per le critiche negative, si infuriava, mentre andava in estasi per quelle positive, come se appunto fosse l’autore del film. E perché no? In qualche modo, geneticamente, lo era. Mio padre è stato il custode di quell’orizzonte proteo dal mondo che ci aveva costruito a Casarola, è stato Parma, colta e cinematografica come io la ricordavo con nostalgia quando tra gli undici e i dodici anni me ne andai a Roma. In questo senso Prima della rivoluzione è stato anche un po’ tornare a controllare se Parma era veramente come la vagheggiavo, era veramente quel mondo mitico che emanava la figura di mio

padre. Il rapporto con lui è stato intenso, di grande condivisione e nello stesso tempo di confronto, per me come per mio fratello. Ho spesso parlato della mia infanzia come di un paradiso e ho deo che si è protraa in modo quasi innaturale, così che potrei quasi dire che è finita solo quando mio padre è morto: mi sono ritrovato all’improvviso a sessant’anni come se non fossi mai stato adolescente e adulto. Ho parlato molto di lui. Ora lasciatemi dedicare questi versi a mia madre. Coglierò per te l’ultima rosa del giardino, la rosa bianca che fiorisce nelle prime nebbie. Le avide api l’hanno visitata sino a ieri, ma è ancora così dolce che fa tremare. È un ritrao di te a trent’anni, un po’ smemorata, come tu sarai allora.6 esta era Ninea, mia mamma. Ed ecco, subito, un’altra poesia: Emilia, ormai scurisce il tuo frumento e il papavero esce a fare il bullo e le viti meono teneri ricci e la sera i biancospini illuminano le stradee dove non passano che tante biciclee. Emilia, ormai le tue donne fioriscono le contrade di nuove toilees, e le rose rosse nei giardini ascoltano quei pazzi usignoli querelarsi

senza ragione, come i soprani nelle opere. La primavera era di una malinconia sino a pochi giorni fa… Ma venne il sole e si à come una ragazza a passeggio con un giovanoo: ride di tuo negli occhi chiari. Emilia, la tua calma ci ha stregati.7 Parma la ricordavo con nostalgia quando la mia famiglia si trasferì a Roma. Lo vivevo un po’ come un esilio, perché trovavo che i visi dei miei nuovi compagni di scuola, e i visi dei genitori dei miei compagni che erano in genere impiegati nei ministeri, fossero meno epici di quei contadini che avevo lasciato a Baccanelli. L’imprinting di Ailio, il DNA culturale di questa cià, sono stati così forti che io ho ritrovato la mia campagna, la campagna verso il Po o verso le colline, in luoghi lontanissimi. Per esempio ho scoperto, questo forse non l’ha deo nessuno, che il giallo imperiale dell’Imperatore di Pechino è identico al “giallo Parma”. Sapete, per me era importante, mentre ero a Pechino e giravo quel film: molto spesso, e anche in quell’occasione, mi ha aiutato cercare di vedere in quello che è intorno a me, in qualche modo forse molto misterioso e soerraneo, un legame con i miei ricordi, i ricordi della mia infanzia. 6

A. Bertolucci, La rosa bianca, in Fuochi in novembre (1934), ora in Opere, cit., p.

7

A. Bertolucci, Emilia, in Fuochi in novembre (1934), ora in Opere, cit., p. 74.

39.

Crisi

Nel 1965 incontro Godard a Roma, da Rosati, andiamo a cena insieme e gli dico che non riesco più a fare niente. Avevo dei progei di film, uno si sarebbe dovuto intitolare Natura contro natura e avevo già pensato ai tre aori protagonisti: Jean-Pierre Léaud, Lou Castel, Allen Midgee. Avevo un progeo insieme al poeta argentino Mario Trejo che si intitolava Infinito futuro. Ma niente. Dissi a Godard che avrei acceato di girare un documentario per l’ENI, che poi sarebbe diventato La via del petrolio e che avrei viaggiato verso Oriente, me ne sarei andato per un po’. In realtà glielo dissi un po’ sconsolato, la vedevo come una fuga dall’impossibilità di girare un altro film, una fuga da una sorta di blocco che mi ha sempre spaventato. Mi colpì il fao che Jean-Luc ribaé che era una cosa bellissima, che se avesse potuto sarebbe partito lui, l’avrebbe girato lui. Non avevo mai pensato di girare un documentario e in effei quella fu la mia unica prova in quel senso, ma la reazione di Godard mi fece capire che lui vedeva comunque in quel viaggio l’occasione di fare cinema, di farlo liberamente, al di là delle commienze, dei generi e dei formati, fare il cinema in piena naturalità, andarselo a cercare anche così lontano – e lontano non solo geograficamente, ma anche lontano da quella che mi ero convinto essere, dopo due film, la mia strada di cineasta, la mia vena poetica. Oggi penso che La via del petrolio sia stato un film importante e sono felice che sia stato restaurato. Penso a questo documentario come ad un esempio delle strade misteriose che può prendere il cinema quando magari ti aspeeresti o vorresti tu’altro e penso alla saggia idea di libertà che stava in quelle parole di Jean-Luc, che mi consigliava di partire.

Miura

Il toro Miura è il tipo di toro più mastodontico che esista, massiccio come una parete di roccia, di una solidità che lo rende blindato, impossibile da scalfire, da penetrare. Sono i tori più difficili. Fino a Partner, quando facevo un film non pensavo di voler comunicare qualcosa a qualcuno, non pensavo al pubblico cui quel film sarebbe stato indirizzato. I miei film erano come grida di dolore, o di piacere, ma non avevano mai dentro la voglia di dialogare con qualcuno. Con il mio amico Glauber Rocha chiamavamo questi film “film Miura”. Dire “ho fao un film Miura” significava aver fao uno di questi film duri come rocce, chiusi in se stessi, che nessuno avrebbe potuto interpretare, segnare, dentro i quali era impossibile addentrarsi. Erano film che riguardavano un orizzonte molto personale per il loro autore, o che al massimo cercavano di dialogare con idee di cinema molto sofisticate e non del tuo accessibili, discernibili solo dai pochi adepti che, condividendole, le comprendevano. I film Miura non pretendevano dialeica. Partner è probabilmente il mio miglior film Miura, quello che più di ogni altro radicalizza questo tipo di aeggiamento. In genere chi studia il mio cinema lo legge come un film poco compiuto, un film che deve troppo agli anni in cui è stato girato e che quindi esaurisce in quel tempo la sua carica comunicativa. In verità questa carica comunicativa era piuosto ermetica e impenetrabile anche in quegli anni, quasi assente, ed era il risultato di questa mancanza di disponibilità al dialogo, di questa direzione che avevo preso e che riguardava soltanto me.

Sentivo in quel momento il bisogno di sperimentare, di tornare a pensare a come esprimermi, di interrogare le potenzialità e i limiti del cinema. In più il perimetro comunicativo entro cui si andavano muovendo le giovani generazioni si deformava, prendeva pieghe provocatorie, aveva bisogno di darsi in opposizione alle forme classiche e in molti casi di risultare volontariamente ermetico, insensato, esagerato nelle sue pretese utopistiche. Dopo Partner mi sono accorto di essermi spinto molto in là su questa strada e ho sentito il bisogno di reimpostare il mio discorso, di passare da queste forme di monologo a forme di dialogo. Così, tra il 1969 e il 1970 ho girato, in tempi velocissimi, uno in fila all’altro, due film più classici nell’andamento narrativo e anche nello stile: Strategia del ragno e Il conformista. Anche Ultimo tango a Parigi, che è venuto subito dopo, pur nella sua provocazione era comunque un film che cercava di meersi in dialogo con lo speatore. esti film hanno segnato senza dubbio una fase di passaggio nella mia carriera, hanno segnato, oltre che un processo di maturazione di alcune idee sul cinema, un tipo di rapporto diverso con il pubblico. Di film Miura, poi, non ne ho più fai.

Luoghi

In molti mi chiedono di parlare dei luoghi in cui ho girato, il mio del resto è un cinema che ha araversato i continenti, è nato – come ho deo – nel microcosmo di un paesino dell’Appennino parmense, è andato a Roma, poi è tornato a Parma, poi ancora a Roma, nella bassa emiliano-lombarda, a Parigi e poi è arrivato fino agli Stati Uniti e addiriura alla Cina, al Nepal, al Marocco. Michele Guerra mi dice che bisognerebbe tracciare una geografia, più ancora che una storia, del mio cinema. Io mi sono sempre sentito ciadino dei luoghi in cui ho girato i miei film. In modo molto naturale. Alcuni erano luoghi che conoscevo molto bene, per averci vissuto o per averli fai miei araverso i racconti di persone a me vicine. Così è stato per la Roma del mio primo film, ma lo era già per i primissimi film che ho girato, ancora ragazzino, a Casarola, oppure per la Parma di Prima della rivoluzione, compreso il Teatro Regio dove ci troviamo in questo momento. Altri erano per me luoghi cui giungevo araverso sentieri inaspeati, com’era stato per La via del petrolio e in fondo come sarà anche per Pechino con L’ultimo Imperatore, uno dei pochi posti in cui non puoi, quando ci arrivi, non sentirti spaesato, ancora di più alla metà degli anni Oanta. C’è un dato di fao: io arrivo in questi luoghi e comincio quasi subito a stabilire con essi un rapporto di familiarità, che si sviluppa grazie a una sensibilità probabilmente istintiva, ma anche grazie alle vicende e agli umori che vengono suggeriti dalla storia. Ad esempio, i luoghi del Tè nel deserto, sono luoghi nei quali mi sono calato utilizzando il plot come strumento di relazione con quei paesaggi, con la loro asperità e la loro bellezza. Sui paesaggi del Tè nel deserto grava il destino di Port, i luoghi vengono sentiti e sofferti insieme a

lui, si crea una risonanza tra la situazione del personaggio e il sentimento del paesaggio, una risonanza che rafforza la nostra familiarità e la nostra intimità con il luogo. È una forma di rapporto che io ho provato in molti altri film, con La luna ad esempio, ma anche con Io e te, dove gli spazi chiusi del film prendono forma a partire dall’interiorità dei due personaggi che li abitano. Se ci penso bene, devo dire che tui questi luoghi sono tenuti insieme dalla lingua del cinema e questo è il motivo per cui io mi sento così naturalmente loro ciadino.

Camerasutra

Leggevo Barthes, Le plaisir du texte, in cui si aspeava la caduta delle convenzioni, l’aimo in cui momenti espressivi, stili, generi diversi si sarebbero uniti, messi insieme. C’era in fondo un’idea forte di desiderio, il desiderio della scriura, ma anche la necessità di sentirsi a nostra volta desiderati dal testo. Barthes dice che il testo deve darmi la prova di desiderarmi e questa prova esiste: è la scriura. La scriura, continua Barthes, è la scienza dei godimenti del linguaggio, il suo kamasutra e di questa scienza l’unico traato è la scriura stessa. esta interpretazione della scriura, la fisicità, la carnalità che Barthes le riconosce, mi ha molto colpito, ma soprauo mi colpisce la reciprocità per cui io posso desiderare di scrivere, ma in quel desiderio si nasconde anche il bisogno di sentirsi desiderati dal testo, un bisogno che solo la scriura può soddisfare. Ho provato a calarmi in questa relazione, ho pensato al mio modo di intendere il cinema e di confrontarmi con quella speciale fisiologia dei sentimenti che le immagini in movimento ci possono restituire. Mi sono trovato preso tra il mio desiderio di scrivere con la macchina da presa – un tema per me decisivo soprauo nei miei anni giovanili, quando ancora mi muovevo tra poesia e cinema – e il desiderio di sentirmi desiderato dal film. Sono perfino arrivato a spingermi all’estremo e a coniare un neologismo ispiratomi dal passo di Barthes: camerasutra. La scoperta della scriura per me è stato un momento molto importante, intorno ai sei anni, anche perché identificavo mio padre con la scriura e infai appena ho cominciato a scrivere ho cominciato immediatamente a imitarlo e scrivevo poesie come lui. La scriura

presupponeva la ricerca di una lingua, che era diversa da quella che parlavo, una lingua che ho continuato a cercare nel cinema, e ci sono stati anni in cui il sacro mistero della langue du cinéma mi ossessionava a tal punto che, identificandola con il cinema della Nouvelle Vague, avrei voluto parlare solo in francese, cioè tentare di trovare una sintonia tra la lingua che cercavo per il mio cinema e la lingua parlata tui i giorni. Il piacere della scriura non mi ha mai abbandonato.

Stile

Non ho mai pensato allo stile del film come a un progeo cui dovevo aenermi, come a un obieivo da raggiungere secondo idee precostituite. Da una parte lo stile del film ha a che fare con lo sguardo della storia che si vuole raccontare, uno sguardo che araversa gli ambienti, si posa sui personaggi e scorre tra le relazioni che si instaurano. Dall’altra parte, lo stile è ciò araverso cui cerchiamo un rapporto specifico e direo con lo speatore, il quale – al di là della trama – entra in contao con un “di più” che, per quanto sia legato ai fai narrati, li oltrepassa, li illumina più precisamente, o magari li rende più ambigui, più misteriosi. Io mi sono fao un’idea del cinema un po’ miracolistica: come dicevo, quando ero con Pier Paolo mi pareva di assistere sul set di Accaone alla creazione del cinema, e lo stesso mi era successo quando avevo provato a fare i miei primissimi film. Anche l’innamoramento per Godard era dovuto a quell’idea di miracolosa libertà del cinema, per cui girare un film significava soprauo entrare in una dimensione magica, che poteva trasfigurare il mondo reale, e che faceva sì che quando poi ti trovavi a Parigi ti sembrava veramente di essere dentro un film della Nouvelle Vague. Il momento stilistico è anche il momento in cui ti sembra di sentire la vita del film. Io ho sempre cercato di muovere molto la macchina da presa nei miei film, non soltanto per dare informazioni diverse o più precise allo speatore, ma anche per dare respiro al sistema di rapporti che andavo raccontando. È qualcosa che ha molto a che fare con la scriura e che contiene forme di desiderio, per riallacciarci a quanto diceva Barthes, diverse. Il carrello, ad esempio, mi ha sempre fao pensare alla poesia, è come se tu scrivessi poesie con un tipo di metrica differente: serve per dare movimento,

come accade in un verso. Il dolly è come una specie di grande respiro, che riesci a far provare anche al pubblico in sala, mentre nel movimento della panoramica è contenuta l’imprevedibilità rispeo a ciò che accadrà, a ciò che ti troverai a vedere una volta finito il movimento. Lo zoom l’ho usato pochissimo, lo sento come un movimento che rivela in sé qualcosa di falso e questo mi porta a soolineare uno degli aspei per me fondamentali quando parlo di stile: lo stile ha a che fare con la morale, del film e del suo autore.

Niente

alche anno dopo aver girato La tragedia di un uomo ridicolo – un film che mi aveva riportato a Parma e nelle zone collinari della provincia e che mi pareva segnasse un altro momento di passaggio, la fine di qualcosa –, feci insieme a mia moglie Clare un viaggio in Giappone. Era il 1983 ed eravamo a Tokyo. Volevo vedere la tomba di Ozu, il grande maestro del cinema giapponese, e chiesi alla guida di accompagnarci al cimitero. Ricordo questo cimitero, un po’ in collina. La guida, in inglese, ci disse che non sarebbe stato semplice trovare la tomba, ma potevamo meerci a cercarla tui insieme, tenendo però a mente che “there’s nothing wrien on the gravestone” – noi lo intendemmo leeralmente: “non c’è scrio niente sulla lapide”. Dopo qualche tempo passato a girovagare tra le tombe, ecco che arrivammo a quella di Ozu, sulla quale c’era scolpito un ideogramma: Io dissi subito alla guida che non era dunque vero che sulla lapide di Ozu non c’era scrio niente, ma lei rispose che era proprio così: “there’s nothing wrien on the gravestone”, dal momento che quell’ideogramma era il Mu, la pronuncia giapponese del simbolo cinese che significa “niente, nulla”. L’ambiguità di quel “niente”, di quel “vuoto” che Ozu aveva voluto rimanesse sulla sua tomba, ha rappresentato per me l’apertura di una nuova fase, quella fase che infai mi avrebbe portato verso L’ultimo Imperatore e poi fino a Piccolo Buddha. Non credo sia però solo questo il motivo per cui spesso mi torna in mente quell’ideogramma, che sprigiona significato proprio a partire dalla sua apparente negazione di senso. Non so perché mi è venuto in mente anche ora, mentre cerco in

fondo di spiegare a parole qualcosa che mi piace pensare che resti inafferrabile: il mistero del cinema.

Finale

Ho scelto di mostrarvi questo montaggio di oltre trenta minuti del mio cinema scegliendo sequenze e immagini che inseguono un filo che mi sembra di ritrovare, di aver ritrovato, di aver sempre avuto per le mani anche se come avete visto l’ordine cronologico dei film non viene rispeato. Insieme a Jacopo adri abbiamo raccontato una storia nuova che è contenuta dentro una storia cinematografica che dura da cinquant’anni e continua a cercarsi. Ho messo come ultima sequenza quella del Teatro Regio in Prima della rivoluzione ed è così bello e così emozionante essere ora qui, proprio dentro il Teatro Regio di Parma nel 2014 mentre proieiamo una prima del Teatro Regio del 1963. Il teatro è rimasto assolutamente identico. Forse le persone sono cambiate, ma insomma credo sia stata una buona idea meerlo come ultima, quasi ultima, sequenza dei miei film. Adesso c’è un’ultima cosa: il mio ultimo film. Dura, non spaventatevi, un minuto e mezzo. È stata un’idea di mia moglie Clare e alla fine ho deciso di darle rea. L’idea era far vedere le strade di Trastevere, dove abitiamo noi: la condizione delle strade di Trastevere. E far vedere come è difficile muoversi per qualcuno con disabilità come la mia, o altri tipi di disabilità, o anche magari per una mamma con un passeggino, o per qualche ragazza che torna all’alba da una festa con i tacchi alti. Immaginate cosa potrebbe succedere in quelle occasioni nelle condizioni delle strade come sono oggi, adesso, a Roma. Il sindaco Marino mi ha promesso che farà qualcosa: speriamo bene. Guardate questo minuto e mezzo: è molto importante. Insomma: io finché non ero seduto su una sedia a rotelle non avevo assolutamente idea di cosa volesse dire essere in questo mondo. È molto difficile dal di fuori capire, ma penso che

questo film aiuti. Ha un titolo che richiama un grande capolavoro della storia del cinema, Scarpee rosse di Michael Powell e Emeric Pressburger, e a questo punto forse girerò il mondo con questo film che dura un minuto e mezzo, dopo aver fao film che durano più di cinque ore.8 E questo sarà il mio ringraziamento. Grazie Reore, grazie Michele, grazie a tui voi che siete venuti qui per me. Grazie Parma! Ora andrei con Scarpee rosse. Scarpee rosse di Bernardo Bertolucci è visibile online su Biennale Channel:

8

L’ultimo Bertolucci Postfazione di Michele Guerra

Ricordo ancora il pomeriggio in cui dissi a Bernardo Bertolucci che avrebbe dovuto scrivere una tesi di laurea. Aveva acceato l’invito dell’Università di Parma a ricevere una laurea honoris causa in Storia e critica delle arti e dello speacolo, ma non aveva inteso che il laureando, quand’anche di chiara fama e pluripremiato, doveva depositare la tesi, che sarebbe rimasta negli archivi dell’Ateneo a completare la forma della cerimonia. el pomeriggio, nella sua casa romana, Bernardo rimase come interdeo e guardandomi con occhi al contempo ironici e fermi disse che sarebbe andato a braccio, che non avrebbe scrio. Arrivammo all’accordo che ci saremmo incontrati per un paio di pomeriggi e io avrei registrato le sue riflessioni, accompagnando il flusso dei pensieri con qualche domanda. Furono ore per me indimenticabili, nelle quali Bernardo tornava all’origine del mistero delle immagini e della loro poesia, trascinato là dalla fascinazione dei luoghi in cui si apprestava a tornare dopo molti anni di assenza. E da lì, da quei luoghi emiliani, tuo si snodava nelle geografie di un mondo ad un tempo reale e immaginario, dove il frammento della memoria e la sua metamorfosi poetica diventavano lampo d’immagine al di qua ed insieme al di là di ogni possibile linearità narrativa. Casarola, Baccanelli, Parma, Roma, Ailio-NineaGiuseppe, Clare, Pasolini-Morante-Moravia e Jean-Luc Godard, Gianni Amico, Paulo César Saraceni e Glauber Rocha, le poesie di bambino e i “film Miura”, Angelo Rizzoli e Federico Fellini, Yasujiro Ozu e Jean Renoir. I pensieri che davano forma a quella che sarebbe diventata la sua lectio doctoralis avevano il respiro di un tempo lungo, radicato nell’origine di visioni e sensazioni che avrebbe portato con sé in ogni angolo del mondo e che sarebbero emerse o fluite carsicamente in ogni inquadratura del suo cinema, in ogni suo movimento di macchina. Non mi colpiva la rete delle relazioni, sapevo di avere davanti il regista italiano che più di ogni altro era stato capace di vivere l’internazionalità della sua arte, misurandosi come nessun altro dei nostri autori con

modalità produive che non erano mai riuscite ad autire o addomesticare le urgenze del suo impegno e del suo desiderio di espressione. Ciò che mi colpiva di più era la naturalezza con cui il cinema affermava la sua centralità di fao di cultura, inaggirabile oggeo politico ed economico, strumento poetico capace di riconfigurare il piacere del testo e di riaffermare la più vitale libertà dall’interno di un sistema fortemente regolato, che Bertolucci aveva contestato senza mai rinunciare ad affrontarlo di peo per poter dire quello che voleva, per dare forma visiva alla sua ossessione. Tornato a casa ordinai ogni cosa, riscrivendola esaamente come Bertolucci l’aveva pronunciata, fedele a un racconto che ha per protagonista Ailio nell’ao di deare al telefono le recensioni dei suoi film e che avevo ascoltato in quei pomeriggi. Rimandai a Bernardo la sua tesi e lui intervenne, la aggiustò, ne cambiò alcune parti prima di consegnarla all’Università e di prepararsi così alla cerimonia. Scelse il titolo perfeo: Il mistero del cinema. Da una parte richiamava la sua prima, unica e fortunatissima raccolta di poesie, In cerca del mistero (1962), dall’altra traeneva la consapevolezza romantica e viscerale di non essere riuscito a comprenderlo quel mistero e di avere rinunciato alla sua soluzione. Bertolucci ha sempre deo che quando girava un film gli sembrava ogni volta di muoversi come nel buio, sentiva di dover filmare situazioni, volti, oggei e paesaggi che ancora non sapeva esaamente che posto avrebbero avuto nel film. In quei momenti di “oscurità”, Bertolucci andava in cerca del mistero, cioè di quell’energia, di quella forza trasfigurante che sembra provenire dal film stesso e che è resa visibile, tangibile, dalla tecnica. Al mistero del cinema bisogna abbandonarsi e dopo averne araversato tui i territori era il momento, per Bernardo, di ribadirlo nella più misteriosa delle situazioni, quella che lo riportava nella sua cià, quasi come un superstite. Era l’ultimo dei Bertolucci, ripeteva. E mi sembrava avvertisse il peso di questo suo essere rimasto il solo di quell’irripetibile ecosistema artistico che, con Ailio e

Giuseppe, aveva fao della famiglia Bertolucci un unicum nel panorama culturale italiano del Novecento. Il 16 dicembre 2014, mentre il Teatro Regio di Parma andava gremendosi in platea, nei palchi e nel loggione per poter ospitare le oltre mille persone che si erano mosse per riabbracciare il loro più illustre conciadino, Bertolucci nel suo camerino fissava una poltrona rossa che era stata oggeo di scena, proprio al Regio, di una Traviata direa da suo fratello Giuseppe nel 2001 ed ogni cosa sembrava trascinarlo verso il tempo curvo della sua famiglia e di un’origine poetica che aveva riguardato sia lui che Giuseppe e li aveva resi – come in più occasioni disse Bernardo – così figli da non poter essere a loro volta genitori. Credo di poter dire che nonostante l’abitudine ai premi e alle onorificenze, Bernardo Bertolucci fosse emozionato. Non per la laurea, naturalmente, ma per il controcampo che lo aspeava oltre il palcoscenico del teatro, un controcampo buio, che conteneva il senso di quel suo nuovo e purtroppo ultimo ritorno. Insieme a queste pagine, Bertolucci presentò al Teatro Regio tre film, due cortometraggi e un sorprendente ed inedito montaggio di trentacinque minuti del suo cinema, costruito insieme a Jacopo adri. Il primo cortometraggio – fao proieare appena prima del racconto su Casarola, il mitico paese appenninico cui indissolubilmente si è legata nel corso del tempo l’ispirazione dei tre Bertolucci – è di Lorenzo Castore e si intitola proprio Casarola (2014). Castore filma il piccolo paese di pietra e cala nel suo evocativo racconto rare immagini d’epoca che ritraggono Bernardo bambino che gioca con Ailio (nelle riprese di un amico, di famiglia e di cinema, come Antonio Marchi) e addiriura sequenze riprese e montate dallo stesso Bernardo sedicenne, immagini mai viste prima e di cui si dà brevemente conto nella lectio. Il secondo cortometraggio, con cui Bertolucci decise di chiudere il suo intervento e accomiatarsi dal pubblico di Parma, è un suo brevissimo film intitolato Scarpee rosse (2014), che sperimenta un punto di vista rasoterra, ancorato alla sedia a rotelle di Bernardo, le scarpe rosse in vista, Je chante di Charles Trenet e le strade disastrate di Trastevere a rendere

vacillante e complicata la fluidità della visione. Si traa del suo piccolo, ultimo film, e Bertolucci lo presentò in modo poetico e potente dicendo che prima di ritrovarsi costreo su una sedia a rotelle non aveva “assolutamente idea di cosa volesse dire essere in questo mondo” (e di lì a poco avrebbe esaltato l’applauso finale del Regio spingendosi fino alla ribalta ed esibendosi in un perfeo movimento circolare in forma di elegantissimo inchino). Il montaggio di trentacinque minuti di suoi film fu però il vero regalo che Bertolucci fece alla sua cià. In quei minuti, Bernardo è andato a un passo da svelare il suo mistero, rendendolo invece – e coerentemente – ancora più profondo. esto vero e proprio video essay dal sapore autobiografico e mitopoietico cominciava con la nascita del Buddha (da Lile Buddha): la carovana, il parto, il canto, i veli, il corpo della donna che dà la vita nel rigoglioso e sacro paesaggio indiano e il bambino che subito cammina e crescono fiori dove posa i piedi. Poi d’un trao il mare di Sabaudia (La luna): un’altra madre e un altro bambino che giocano e un uomo a piedi nudi che con gesto antico squarta i pesci appena pescati; il bimbo lo guarda e piange. Altra musica, il twist, altra danza, l’uomo e la donna ballano divertiti e lascivi. Non importano già più le date, siamo rapiti e come tui i sequestrati perdiamo il senso del tempo; non importano più i luoghi, quei due film parlano la stessa lingua, quella del cinema, e il bambino di Sabaudia se ne va nudo, come il Buddha, ma più pesante nel passo e in lacrime. Un altro bambino, in un luogo ancora diverso. Un bambino imperatore, portato a spalla dai servi: “Fermi! L’imperatore vuole camminare” (e Last Emperor). Di nuovo a piedi, a misurare e sentire la terra, a correre nella Cià Proibita per consentire alla macchina da presa di sperdere i personaggi e di sancire un’altra temporalità del luogo, rituale, decadente, non più divina come quella di Lile Buddha, non più moderna e sfacciata come quella di La luna. La corsa nelle mura della Cià Proibita è raccordata su un’altra corsa, quella di due donne che entrano in una sala da ballo a vetrate e rifinita di rosso, che sembrerebbe essere quasi ricalcata sulle architeure

cinesi; ma Il conformista viene prima o dopo e Last Emperor? Stacco. Uomini, donne e bambini che ballano soo una enorme bandiera rossa (Novecento), che vista ora, così, sembra perfino parente delle sete e delle porpore indiane e cinesi; sembra che il ritmo di quella gioia abbia qualcosa da dire alla coppia di amanti in quella villa sul mare, o a quelle strane figure che danzavano a Parigi. Anche soo quella bandiera rossa sta nascendo qualcosa: un dio come in India? Un imperatore? Un bambino che non capisce cosa fanno i grandi? Intanto qualcuno condanna, qualcuno decide, qualcuno dispone della vita e dei corpi degli altri e lo fa guardando in macchina. Stacco. Un uomo e una donna in un appartamento vuoto, si direbbe abbandonato (Ultimo tango a Parigi): “Hai deciso?” “Era già deciso, ora non so più”. Ancora decisioni, ancora corpi che danno forma allo spazio deforme e riempiono un tempo insensato, azioni nee eppure impotenti e si capisce che in quel luogo non nascerà nessuno, non ci sono i prati indiani, non c’è il mare, non c’è il sole, né un’aia. Alla fine l’uomo e la donna sembrano morti, uno sopra l’altra, sostituiti nel montaggio da due ragazzi. Siamo in un altro appartamento (Io e te), spoglio, anzi sembra una cantina, e i ragazzi si abbracciano e danzano, lui ha un cappello che arriva drio da Il conformista; David Bowie che canta in italiano ha l’incanto della musica sacra indiana più che del twist di Sabaudia. i all’improvviso si sente Bertolucci, che lo si conosca o meno, che si abbia o meno mai visto un suo film, si sente fisicamente la presenza del regista, sembra che danzi con i suoi personaggi, che li abbracci, che non sia più su una sedia a rotelle, fino a che Macbeth di Giuseppe Verdi non ci porta altrove. Appare scrio che siamo al Teatro Regio di Parma nel 1962 (Prima della rivoluzione). Un altro rito, la première, ripresa dal vero, e poi un uomo e una donna; questa volta i loro corpi sono lontani, si guardano, ma sono divisi, la donna piange. Piange come la nutrice dell’Imperatore bambino, quando li dividono. La macchina da presa corre circolare lungo le file dei palchi e adesso ci sembra così chiaramente lo stesso movimento visto a Sabaudia e nella Cià Proibita, sembra lo stesso angolo rialzato del

Conformista, ma dove siamo finiti, dove ci hanno portati? Che cosa vogliono dire questi trentacinque minuti? Bertolucci non poteva farci lezione altrimenti che così, sfidando ogni regola analitica e storiografica, costringendoci all’emozione e allo scavo semiconscio tra le consonanze formali. Ci ha portati dall’India al Lazio, dalla Cina a Parigi, fino alla Bassa padana, ci ha portati in spazi aperti che si rivelavano chiusi e in spazi di reclusione nei quali era possibile aprirsi. Ci ha chiesto di interrogarci su che cosa lega quei luoghi: i corpi e i gesti degli uomini, delle donne e dei bambini; l’azione, anche quando non è veicolo di risoluzione della storia. “Avete capito che cosa cerco?”, sembra chiedere. E a tui sembra di averlo capito, ma nessuno riesce a pensarlo in un linguaggio che non sia quello delle immagini. Il mistero del cinema, fino alla fine.