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Italian Pages 432 [441] Year 2016
Table of contents :
Cover
Occhiello
Frontespizio
Dedica
Indice
Capitolo I - INTRODUZIONE
Capitolo II - CENNI DI STORIA DELL'ORDINAMENTO ITALIANO DEL MERCATO MOBILIARE
Capitolo III - L'APPELLO AL PUBBLICO RISPARMIO
Capitolo IV - I SERVIZI E LE IMPRESE DI INVESTIMENTO
Capitolo V - GLI INVESTITORI ISTITUZIONALI
Capitolo VI - LA DISCIPLINA DEI MERCATI
Capitolo VII - LA DISCIPLINA DELLE SOCIETA' CON AZIONI QUOTATE
Capitolo VIII - I CONTROLLI SUL MERCATO MOBILIARE
ULTIMATO DI STAMPA
IL MERCATO MOBILIARE
In copertina:
IGINIA GAZZOTTI, Transamerica’s tower.
RENZO COSTI
IL MERCATO MOBILIARE Undicesima edizione
G. Giappichelli Editore
© Copyright 2018 - G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO VIA PO, 21 - TEL. 011-81.53.111 - FAX 011-81.25.100 http://www.giappichelli.it
ISBN/EAN 978-88-921-1288-9
Stampa: Stamperia Artistica Nazionale S.p.A. - Torino
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Indice
V
a Luca, naturalmente
VI
Indice
Indice
VII
Indice
pag. Capitolo I
Introduzione
1
1. 2. 3. 4. 5.
1 3 4 7 8
La nozione di mercato mobiliare Gli intermediari di mercato mobiliare Le ragioni di una disciplina speciale del mercato mobiliare Dal valore mobiliare allo strumento finanziario Prodotti e strumenti finanziari, valori mobiliari e titoli
Capitolo II
Cenni di storia dell’ordinamento italiano del mercato mobiliare
17
1. 2. 3.
17 18
Mercato mobiliare e intermediari finanziari Mercato mobiliare e Borsa Valori Il modello francese di Borsa Valori e il Codice di Commercio del 1865 4. Il modello anglosassone di Borsa Valori e il Codice di Commercio del 1882 5. La riforma del 1913 6. La pubblicizzazione della Borsa negli anni Venti e Trenta 7. La legge n. 216 del 1974: l’istituzione della Consob e la disciplina delle società quotate 8. L’istituzione del Mercato ristretto 9. La legge n. 77 del 1983 e la disciplina generale del mercato mobiliare 10. Le riforme degli anni Ottanta 11. Il Mercato secondario dei titoli pubblici (MTS). La Monte titoli 12. Le riforme dei primi anni Novanta
19 20 21 22 23 25 26 28 29 31
VIII
Indice
pag. 13. Le direttive Eurosim 14. Il Testo Unico dell’intermediazione finanziaria del 1998 15. Dopo il Testo Unico della finanza
35 36 39
Capitolo III
L’appello al pubblico risparmio
47
1.
47 47 50 51 54 54 55 55 56 58
2.
3.
4.
Note introduttive 1.1. Ragioni e contenuto della disciplina speciale 1.2. I tipi di appello al pubblico risparmio 1.3. La nozione di appello al pubblico risparmio 1.4. I soggetti coinvolti dall’appello al pubblico risparmio 1.5. Appello al pubblico risparmio e forma dei contratti L’offerta al pubblico di prodotti finanziari 2.1. Comunicazione e prospetto informativo 2.2. Il controllo sul prospetto informativo 2.3. La pubblicazione del prospetto 2.4. Le ipotesi di inapplicabilità totale o parziale della disciplina speciale 2.5. Il prospetto di quotazione (rinvio) 2.6. Il mutuo riconoscimento dei prospetti 2.7. Svolgimento dell’offerta e regole di correttezza 2.8. Gli annunci pubblicitari 2.9. Circolazione dei prodotti finanziari «riservati» agli investitori qualificati 2.10. I poteri ispettivi e interdittivi della Consob 2.11. Le sanzioni penali e amministrative Le offerte pubbliche di acquisto o di scambio 3.1. Comunicazione e documento di offerta 3.2. Contenuto e svolgimento dell’offerta. Le offerte concorrenti 3.3. Il comunicato dell’emittente 3.4. Regole di correttezza per i «soggetti interessati» 3.5. La passivity rule 3.6. La regola di neutralizzazione 3.7. La clausola di reciprocità Le offerte pubbliche di acquisto obbligatorie 4.1. L’offerta pubblica di acquisto totalitaria 4.1.1. L’acquisto indiretto 4.1.2. L’acquisto di concerto
59 63 63 64 65 67 69 69 71 72 77 79 81 82 88 91 91 93 98 100
Indice
IX
pag.
5. 6. 7. 8.
4.2. L’acquisto incrementale 4.3. Le esenzioni dall’obbligo di offerta totalitaria 4.4. L’obbligo di acquisto 4.5. Il diritto di acquisto 4.6. Le sanzioni per la violazione dell’obbligo di offerta pubblica La responsabilità da prospetto Le offerte fuori sede Il collocamento a distanza Il controllo della Banca d’Italia sulla emissione di valori mobiliari
101 102 107 107 108 110 112 116 118
Capitolo IV
I servizi e le imprese di investimento
123
1. 2. 3. 4. 5.
123 125 129 131 134 134 137
6.
7.
Dall’intermediazione mobiliare ai servizi di investimento I servizi di investimento I servizi accessori L’esercizio professionale dei servizi di investimento L’accesso all’esercizio dei servizi di investimento 5.1. L’autorizzazione delle Sim 5.2. L’autorizzazione delle banche 5.3. Le imprese di investimento e le banche comunitarie ed extracomunitarie 5.4. L’attività transfrontaliera delle imprese di investimento italiane La prestazione dei servizi 6.1. «Criteri generali» 6.2. Forma e contenuto dei contratti di investimento 6.3. La responsabilità da prestazione di servizi 6.4. La separazione patrimoniale 6.5. La gestione di portafogli 6.6. La negoziazione sui mercati regolamentati 6.7. La consulenza in materia di investimenti 6.8. L’offerta «fuori sede» e «a distanza» 6.9. Sottoscrizione e collocamento di prodotti finanziari emessi da banche e da imprese di assicurazione 6.10. I portali per l’equity crowdfunding La vigilanza sull’esercizio dei servizi di investimento
138 140 141 142 150 153 154 156 160 163 163 165 167 168
X
Indice
pag. 8. 9.
La vigilanza prudenziale sulle Sim La disciplina della crisi delle imprese di investimento
174 179
Capitolo V
Gli investitori istituzionali 1. 2. 3.
4.
5. 6. 7.
Investitori istituzionali e organismi di investimento collettivo del risparmio La società di gestione del risparmio I fondi comuni di investimento 3.1. Premesse 3.2. L’istituzione del fondo comune 3.3. La gestione del fondo 3.4. Il depositario 3.5. Contabilità e pubblicità del fondo 3.6. I diritti dei partecipanti 3.7. La qualificazione giuridica del fondo 3.8. Tipologia dei fondi Le società di investimento a capitale variabile (SICAV) 4.1. Costituzione e statuto 4.2. Capitale, patrimonio e azioni 4.3. L’assemblea dei soci 4.4. La gestione del patrimonio 4.5. Fusione, scissione ed estinzione Le società di investimento a capitale fisso (SICAF) Le strutture master-feeder I fondi pensione. Fondi chiusi e fondi aperti 7.1. I fondi pensione chiusi 7.1.1. La gestione delle risorse 7.1.2. La vigilanza sui fondi e sui gestori 7.2. I fondi aperti
185
185 188 192 192 194 196 197 198 199 201 203 207 208 210 212 213 214 215 216 217 219 219 223 223
Capitolo VI
La disciplina dei mercati
225
1. 2.
225
I mercati «organizzati» L’autorizzazione all’organizzazione e alla gestione di mercati regolamentati
230
Indice
XI
pag. 3.
La società di gestione del mercato 3.1. La struttura della società 3.2. Le attività 4. Il prospetto di quotazione 5. La vigilanza sul mercato e sulla società di gestione 6. Gli organismi di compensazione, liquidazione e garanzia delle operazioni 7. La gestione accentrata degli strumenti finanziari 8. I sistemi di negoziazione diversi dai mercati regolamentati 8.1. Sistemi multilaterali di negoziazione 8.2. Sistemi organizzati di negoziazione 8.3. Gli internalizzatori sistematici 8.4. I sistemi multilaterali di scambio di depositi 9. I mercati regolamentati italiani 9.1. La «trasformazione» dei mercati regolamentati italiani 9.2. Le società di gestione dei mercati regolamentati italiani 9.3. I mercati gestiti da Borsa italiana S.p.A. 9.3.1. Le regole comuni per la Borsa e l’IDEM 9.3.2. Il Mercato ufficiale di Borsa 9.3.3. Il Mercato degli strumenti derivati (IDEM) 9.4. Il Mercato all’ingrosso dei titoli di Stato (MTS) 9.5. Il Mercato Bondvision 9.6. Il Mercato all’ingrosso delle obbligazioni non governative 9.7. Gli organismi di compensazione, liquidazione e garanzia 10. Informazione societaria, insider trading e manipolazione nei mercati regolamentati
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Capitolo VII
La disciplina delle società con azioni quotate
291
1. 2. 3. 4.
291 303 308 312 312 316
5.
Le linee di politica legislativa La trasparenza degli assetti proprietari La disciplina delle partecipazioni reciproche I patti parasociali 4.1. La fattispecie 4.2. La disciplina La struttura finanziaria: azioni, azioni di risparmio, obbligazioni 5.1. Le azioni
321 322
XII
Indice
pag.
6.
7. 8. 9.
5.2. Le azioni di risparmio 5.3. Le obbligazioni Il governo delle società quotate 6.1. Introduzione 6.2. L’assemblea 6.2.1. Il voto per corrispondenza 6.2.2. Le deleghe di voto 6.3. Amministrazione e controllo interno 6.3.1. Il modello tradizionale: l’amministrazione 6.3.1.1. Il collegio sindacale 6.3.2. I modelli alternativi 6.4. Il dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili 6.5. Il controllo giudiziario 6.6. La revisione legale dei conti 6.6.1. Le regole generali 6.6.2. Le disposizioni speciali per le società quotate 6.7. Le «relazioni finanziarie» 6.8. Il controllo della Consob Il delisting Gli emittenti di strumenti finanziari diffusi ma non quotati Le società cooperative emittenti di strumenti finanziari quotati o diffusi
325 331 332 332 335 346 349 357 358 368 376 379 381 383 383 388 395 397 400 403 406
Capitolo VIII
I controlli sul mercato mobiliare
409
1. 2.
409
Organizzazione e scopi dei controlli pubblici La Commissione nazionale per le società e la Borsa. L’organizzazione e il finanziamento 2.1. L’autonomia funzionale 2.2. Le funzioni
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2. Gli intermediari di mercato mobiliare
1
Capitolo I
Introduzione SOMMARIO: 1. La nozione di mercato mobiliare. – 2. Gli intermediari di mercato mobiliare. – 3. Le ragioni di una disciplina speciale del mercato mobiliare. – 4. Dal valore mobiliare allo strumento finanziario. – 5. Prodotti e strumenti finanziari, valori mobiliari e titoli.
1. La nozione di mercato mobiliare A) Se un mercato può, o deve, essere identificato anzitutto sulla base dei beni che nello stesso vengono prodotti e/o scambiati, il mercato mobiliare può essere definito come il segmento del mercato finanziario sul quale vengono prodotti e/o scambiati valori mobiliari e svolte attività relative a valori mobiliari. E per valori mobiliari si intendono, in un’accezione ancora pregiuridica del termine, i prodotti finanziari naturalmente destinati alla circolazione. I prodotti finanziari si distinguono per il loro rendimento, per il rischio, per i diritti che attribuiscono, per la scadenza, per la loro utilizzabilità come mezzi di pagamento: i valori mobiliari si caratterizzano per la loro negoziabilità. Così, dal punto di vista del contenuto del rapporto, può esservi perfetta coincidenza fra un deposito ed un’obbligazione, ma solo la seconda può essere considerata un valore mobiliare. Simmetricamente sono profondamente diverse, o possono esserlo, un’obbligazione ed un’azione, dallo stesso punto di vista contenutistico, eppure entrambe possono considerarsi valori mobiliari per la loro attitudine alla circolazione. Il che rimane vero, in linea di principio, anche se talvolta i legislatori, come quello italiano sulla scia dell’ordinamento comunitario, estendono, per la tutela di particolari interessi, l’applicazione delle norme tipicamente previste per il mercato mobiliare anche a prodotti finanziari non negoziabili.
2
Introduzione
Dalle considerazioni che precedono dovrebbe emergere chiaramente che il criterio sulla base del quale si definiscono i contorni del mercato mobiliare è profondamente diverso da quelli che servono per identificare gli altri due segmenti del mercato finanziario: quello bancario e quello assicurativo. Nel primo i risparmiatori comprano depositi e gli affidati comprano prestiti; nel secondo gli assicurati comprano diritti alla copertura di rischi dalle imprese di assicurazione. Il mercato bancario ed il mercato assicurativo si lasciano definire soprattutto sulla base del contenuto dei relativi «prodotti», piuttosto che sull’attitudine di questi alla circolazione. È bene, per altro, tener presente che la distinzione dei vari segmenti del mercato finanziario sulla base dei prodotti che vi si scambiano soffre ormai eccezioni molto forti: soprattutto perché la complementarietà dei vari strumenti finanziari ha portato alla creazione di prodotti «misti» (bancari, assicurativi e di mercato mobiliare) e alla costituzione di soggetti o di gruppi che operano contemporaneamente su tutti i segmenti del mercato finanziario e che si avvalgono della stessa rete per la distribuzione di prodotti finanziari (conglomerati finanziari). Il che non significa, per altro, che non si possa più distinguere una banca da un’impresa di assicurazione o da un fondo comune di investimento mobiliare. E ciò basta anche per dire che si può ancora distinguere il mercato mobiliare dal mercato bancario o da quello assicurativo. B) L’espressione «mercato mobiliare» merita qualche precisazione ulteriore: con riferimento al concetto di mercato che in essa appare. Il termine mercato viene utilizzato, anche dalla letteratura che si occupa di mercato finanziario, in una molteplicità di accezioni: talvolta viene impiegato per indicare un’istituzione, in senso sociologico, talvolta per individuare un luogo («i locali della borsa»), spesso viene adottato come sinonimo di insieme delle negoziazioni relative ad un prodotto («il mercato del caffè»), talvolta viene usato per indicare un’organizzazione che favorisce le negoziazioni aventi per oggetto un certo insieme di beni («società mercato, mercati organizzati, mercati regolamentati»). Noi abbiamo fin qui adottato il termine mercato come sinonimo di insieme delle attività di produzione e di negoziazione (aventi per oggetto valori mobiliari), ma avremo modo di incontrare altre accezioni: in particolare quella di mercato come organizzazione, quando ci occuperemo dei mercati regolamentati. Di questa polivalenza del termine è necessario essere avvertiti.
2. Gli intermediari di mercato mobiliare
3
C) Nell’ambito del mercato mobiliare sono possibili molteplici distinzioni, per altro non di uguale rilevanza. Tra le più significative, anche sul piano dell’ordinamento, sono le seguenti: c1) È necessario distinguere il mercato (mobiliare) primario dal mercato (mobiliare) secondario. Il primo consiste delle offerte di «nuovi» valori mobiliari che le imprese o la pubblica amministrazione emettono per acquisire «nuovo» risparmio; il secondo coincide con le negoziazioni aventi per oggetto valori mobiliari già emessi. c2) Il mercato dei titoli pubblici, in specie quando si tratti di negoziazioni «all’ingrosso», assume una particolare rilevanza per la politica economica del Governo e per la politica monetaria della Banca centrale; rilevanza che non è dato riscontrare sul mercato dei titoli privati. Di qui la peculiarità della disciplina dettata, anche nel nostro ordinamento, per il mercato all’ingrosso dei titoli pubblici. c3) Importante è poi la distinzione fra mercati regolamentati e mercati non regolamentati. I primi sono sottoposti ad una complessa disciplina speciale, mentre i secondi sono regolati essenzialmente dalle norme generalmente applicabili alle negoziazioni di strumenti finanziari.
2. Gli intermediari di mercato mobiliare A) È certamente possibile che la domanda e l’offerta di una determinata quantità di un certo valore mobiliare si incrocino, spontaneamente ed esaustivamente, senza l’intervento di alcun intermediario. Così, è possibile che una emissione di obbligazioni venga integralmente sottoscritta dagli «acquirenti» finali, direttamente presso la sede della società emittente. Possibile, ma sempre meno probabile. È estremamente difficile, infatti, che i risparmiatori conoscano tutte le alternative accessibili per i loro investimenti e disinvestimenti, così come è difficilissimo che vi sia perfetta coincidenza fra le propensioni dei risparmiatori e le esigenze degli operatori che ricercano risparmio per le loro attività. Condurre approfondite indagini sui possibili impieghi alternativi del risparmio comporta costi di ricerca e di contrattazione per lo più incompatibili con l’ammontare delle risorse delle quali dispone ogni singolo risparmiatore. Un’adeguata diversificazione degli investimenti, con la correlativa riduzione del rischio, non è realizzabile in presenza di quantità di risparmio da investire non sufficientemente grandi. La diversa propensione
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Introduzione
dei risparmiatori e dei prenditori di risparmio per la liquidabilità dell’investimento, la possibilità di ridurre il rischio attraverso la diversificazione degli investimenti e i costi di informazione e di transazione attraverso economie di scala, rendono ragione della nascita e dello sviluppo degli intermediari finanziari, in genere, e di mercato mobiliare, in particolare: ossia di imprese specializzate nella prestazione dei servizi necessari per l’incontro tra la domanda e l’offerta del risparmio e per il suo investimento ottimale. Ed è constatazione ricorrente quella secondo la quale nei sistemi economici con mercati finanziari sviluppati la massima parte del risparmio, compresa quella rappresentata da valori mobiliari, è negoziata e gestita attraverso gli intermediari di mercato mobiliare. Gli intermediari non costituiscono soltanto una struttura essenziale del mercato mobiliare, ma assumono anche un ruolo di notevole rilievo nella gestione delle imprese, delle quali finiscono per acquisire partecipazioni significative; della loro presenza, in altri termini, è necessario tener conto quando si affrontano problemi di corporate governance. B) Nell’ambito degli intermediari di mercato mobiliare è necessario distinguere gli investitori istituzionali, alcuni dei quali costituiscono la categoria degli «organismi di investimento collettivo in valori mobiliari» (OICVM), sottoposta a particolare disciplina dalle direttive comunitarie, e le imprese di investimento o intermediari mobiliari in senso stretto. Con riferimento al nostro ordinamento sono investitori istituzionali (le società di gestione del risparmio che istituiscono e gestiscono) i fondi comuni di investimento mobiliare aperti e chiusi, le SICAV e, sia pure non necessariamente, i fondi pensione e i fondi immobiliari, mentre rientrano nell’ambito delle imprese di investimento le società di intermediazione mobiliare nonché le banche, per i servizi di investimento dalle stesse prestati. Con tutta probabilità potrebbero essere ricondotti nell’ambito delle imprese di investimento anche le organizzazioni che gestiscono i mercati regolamentati, ma per la specificità della loro funzione e della loro disciplina è preferibile una loro collocazione separata nell’ambito della generale categoria degli intermediari mobiliari.
3. Le ragioni di una disciplina speciale del mercato mobiliare Quasi nessun ordinamento moderno abbandona alle norme di diritto comune la disciplina dei soggetti che operano sul mercato mobiliare, delle attività che vi si svolgono e degli atti che vi si compiono.
3. Le ragioni di una disciplina speciale del mercato mobiliare
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L’emissione dei valori mobiliari, la loro negoziazione e gestione, l’attività degli intermediari sono sottoposte quasi sempre, anche se in misura diversa, a norme speciali che talvolta derogano anche profondamente alle norme di diritto comune. Normalmente si prevede poi che una struttura pubblica, più o meno integrata con (o sostituita da) organi di autocontrollo, eserciti funzioni di vigilanza sui soggetti, le attività, i contratti che riguardano l’organizzazione e il funzionamento del mercato mobiliare. Ci si deve, pertanto, chiedere quali siano le ragioni di un ordinamento speciale del mercato mobiliare. Una prima ragione può essere rintracciata nella difficoltà che si incontra quando si voglia compiutamente conoscere il contenuto del valore mobiliare. Come tutti i prodotti finanziari, un valore mobiliare si esaurisce in un contratto, di per sé già meno conoscibile di una qualunque altra res, e, per di più, in un contratto che normalmente prevede il trasferimento attuale di una somma di danaro a fronte di un’aspettativa in gran parte rimessa al comportamento di colui che tale aspettativa dovrebbe soddisfare. Di qui l’esigenza di assicurare al risparmiatore un grado di informazione sui valori mobiliari più intenso di quello consentito dalle norme comuni; esigenza che appare tanto più urgente quando si tenga presente che la massima parte delle negoziazioni che avvengono sul mercato sono contrattazioni di massa ed impersonali per le quali gli strumenti del diritto comune (ad esempio, correttezza e buona fede) non trovano spazio. L’informazione diventa, quindi, un bene pubblico, la trasparenza diventa un obiettivo di interesse pubblico perseguito attraverso l’imposizione di particolari doveri e la predisposizione delle strutture necessarie per la sua concreta attuazione. E, come si è già accennato, l’intervento pubblico diretto a garantire al mercato un grado adeguato di trasparenza trova la propria ragion d’essere nella necessità di assicurare che il mercato mobiliare funzioni efficientemente e consenta così l’allocazione ottima delle risorse che vi affluiscono. È l’interesse pubblico al buon funzionamento della intermediazione finanziaria che impone al legislatore di affrontare e risolvere un classico problema di asimmetria informativa e ad imporre la trasparenza che, da solo, il mercato non garantirebbe. Ma la trasparenza non basta per assicurare un efficiente funzionamento del mercato mobiliare. È necessario imporre a coloro che operano su tale mercato le regole di comportamento ritenute indispensabili sia per il funzionamento del mercato sia per attrarre allo stesso la quan-
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Introduzione
tità di risparmio ritenuta necessaria per un equilibrato finanziamento delle imprese. Così, si imporranno norme che prevengano i conflitti di interesse, o la manipolazione delle contrattazioni che falsano il funzionamento del mercato, e norme che puniscano l’insider trading, dal momento che la possibilità che qualche operatore possa utilizzare informazioni privilegiate pregiudica l’immagine del mercato e, quindi, scoraggia l’afflusso, sullo stesso, del risparmio. Anche per il mercato mobiliare, come per gli altri segmenti del mercato finanziario, esiste il pericolo che funzioni essenziali, come quelle di investitore istituzionale o di impresa di investimento, vengano assunte da imprese non dotate dei necessari requisiti patrimoniali e professionali, così come esiste il pericolo che l’instabilità e l’insolvenza di uno di essi si trasmettano all’intero sistema della intermediazione mobiliare, compromettendo il funzionamento del mercato. Di qui la presenza nella quasi totalità degli ordinamenti di norme dirette ad esercitare un controllo sull’ingresso al mercato da parte degli intermediari e a garantire la stabilità di questi ultimi, anche attraverso la predisposizione di strumenti mutualistici di protezione. Si spiega così abbastanza facilmente che l’ordinamento speciale del mercato mobiliare sia soprattutto costituito da norme destinate a garantirne la trasparenza, la correttezza e la stabilità: a riprova del convincimento che la regolamentazione è uno strumento essenziale per la sua esistenza e per il suo funzionamento. L’aver individuato nella trasparenza, correttezza e stabilità del mercato mobiliare gli scopi normalmente perseguiti dal relativo ordinamento speciale consente anche di riflettere sul modello di vigilanza che sullo stesso può essere esercitata. L’Autorità non eserciterà sul mercato mobiliare una vigilanza strutturale, consentendo e vietando in coerenza con un proprio piano regolatore del mercato, né potrà intervenire sulle scelte degli operatori per piegarle autoritariamente alle decisioni di politica economica di volta in volta assunte, ma potrà e dovrà esercitare un controllo sulle singole imprese diretto a garantire il rispetto delle regole di trasparenza, correttezza e stabilità che le stesse debbano osservare. Il che comporta anche, come naturale conseguenza, che una siffatta vigilanza può essere almeno in parte esercitata da strutture espressione degli operatori, sarà normalmente svolta da agenzie indipendenti e non dovrebbe essere affidata al potere politico.
4. Dal valore mobiliare allo strumento finanziario
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4. Dal valore mobiliare allo strumento finanziario Abbiamo definito, sul piano economico, il mercato mobiliare facendo perno sul concetto di valore mobiliare, rintracciando poi nella negoziabilità il tratto che distingue quest’ultimo nell’ambito delle attività (passività) finanziarie. E nel nostro ordinamento, fino al D.Lgs. n. 415 del 1996, la nozione di mercato mobiliare poteva essere costruita attorno al concetto-nozione di valore mobiliare, anche se lo stesso veniva circoscritto in modo non univoco. In particolare, secondo alcuni autori, nel nostro ordinamento sarebbe stato possibile rintracciare una nozione unica di valore mobiliare, mentre secondo altri le nozioni contenute nelle varie norme non erano riconducibili all’unità. E non mancava neppure chi riteneva impossibile individuare un qualsiasi concetto definito dietro l’espressione valore mobiliare, soprattutto per la vaghezza che di quest’ultima nozione forniva l’ordinamento. Certo era, per altro, che l’intera gamma dei beni presa in considerazione dalle norme abitualmente riconducibili all’ordinamento del mercato mobiliare veniva individuata con l’espressione «valori mobiliari». Così la norma che disciplinava il controllo della Banca d’Italia sulla emissione di passività finanziarie (art. 129 T.U. bancario) faceva riferimento alla emissione di valori mobiliari; analogamente, le norme sull’appello al pubblico risparmio (art. 18, legge n. 216 del 1974) prendevano in considerazione la sollecitazione del pubblico risparmio all’acquisto o alla vendita di valori mobiliari; ancora la disciplina dell’intermediazione mobiliare (legge n. 1 del 1991) assumeva come punto di riferimento comune l’intermediazione in valori mobiliari e altrettanto facevano le norme sui mercati regolamentati (Titolo II, legge n. 1 del 1991) e sull’insider trading (legge n. 157 del 1991). Questa situazione mutò profondamente con il D.Lgs. n. 415 del 1996, il quale, nel disciplinare i servizi d’investimento, introdusse, recuperando la nomenclatura delle direttive comunitarie alle quali dava attuazione, la nozione di «strumento finanziario», ponendola, appunto, a base della disciplina delle attività che nella legge n. 1 del 1991 venivano definite di intermediazione mobiliare. Le altre norme che disciplinavano il mercato mobiliare continuavano, per altro, a far riferimento alla nozione (o alle nozioni) di valore mobiliare adottata in precedenza. Esistevano, dunque, due espressioni per indicare i beni che vengono scambiati sul mercato mobiliare (valore mobiliare e strumento finanziario) e almeno una di
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Introduzione
esse (quella di valore mobiliare) aveva contenuti, almeno ad avviso di alcuni, diversi. Il Testo Unico sull’intermediazione finanziaria, emanato con D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, ha ulteriormente innovato sul punto emarginando, nella sostanza, la nozione di valore mobiliare, estendendo l’ambito di applicazione del concetto di «strumento finanziario» ed introducendo quello di «prodotto finanziario». In sede di attuazione della direttiva comunitaria 2004/39, il D.Lgs. 17 settembre 2007, n. 164 confermato dal D.Lgs. n. 129 del 2017 in attuazione della direttiva 2014/65, ha «ridato dignità» alla nozione di valore mobiliare, considerando, sulla scia comunitaria, la relativa categoria alla stregua di una species nell’ambito degli strumenti finanziari. Sembra opportuno, già in questa sede, nella quale ci si preoccupa soprattutto di determinare l’ambito dell’ordinamento del mercato mobiliare, fornire gli elementi essenziali per individuare le caratteristiche, anche giuridiche, dei beni che su quel mercato vengono prodotti e/o negoziati; beni che vengono definiti ora valori mobiliari, ora strumenti finanziari, ora prodotti finanziari.
5. Prodotti e strumenti finanziari, valori mobiliari e titoli A) A norma dell’art. 1, 1° comma, lett. u), T.U. n. 58 del 1998 sono «prodotti finanziari» «gli strumenti finanziari e ogni altra forma di investimento di natura finanziaria». Il rapporto, dunque, fra le nozioni di prodotto e di strumento finanziario è un rapporto di genere a specie: gli strumenti finanziari costituiscono una categoria nominata nell’ambito del più ampio genere dei prodotti finanziari. Il 2° comma del medesimo art. 1 precisa poi che per strumenti finanziari si intendono quelli indicati nell’allegato I, Sezione c) del T.U.F. così come modificato dal D.Lgs. n. 129 del 2017 ossia: «a) valori mobiliari; b) strumenti del mercato monetario; c) quote di un organismo di investimento collettivo del risparmio; d) contratti di opzione, contratti finanziari a termine standardizzati (“future”), “swap”, accordi per scambi futuri di tassi di interesse e altri contratti derivati connessi a valori mobiliari, valute, tassi di interesse o rendimenti, o ad altri strumenti derivati, indici finanziari o misure finanziarie che possono essere regolati con consegna fisica del sottostante o attraverso il pagamento di differenziali in contanti; e) contratti di opzione, contratti finanziari a termine standardizzati
5. Prodotti e strumenti finanziari, valori mobiliari e titoli
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(“future”), “swap”, accordi per scambi futuri di tassi di interesse e altri contratti derivati connessi a merci il cui regolamento avviene attraverso il pagamento di differenziali in contanti o può avvenire in tal modo a discrezione di una delle parti, con esclusione dei casi in cui tale facoltà consegue a inadempimento o ad altro evento che determina la risoluzione del contratto; f) contratti di opzione, contratti finanziari a termine standardizzati (“future”), “swap” e altri contratti derivati connessi a merci il cui regolamento può avvenire attraverso la consegna del sottostante e che sono negoziati su un mercato regolamentato e/o in un sistema multilaterale di negoziazione; g) contratti di opzione, contratti finanziari a termine standardizzati (“future”), “swap”, contratti a termine (“forward”) e altri contratti derivati connessi a merci il cui regolamento può avvenire attraverso la consegna del sottostante, diversi da quelli indicati alla lett. f), che non hanno scopi commerciali, e aventi le caratteristiche di altri strumenti derivati, considerando, tra altro, se sono compensati ed eseguiti attraverso stanze di compensazione riconosciute o se sono soggetti a regolari richiami di margini; h) strumenti derivati per il trasferimento del rischio di credito; i) contratti finanziari differenziali; j) contratti di opzione, contratti finanziari a termine standardizzati (“future”), “swap”, contratti a termine sui tassi di interesse e altri contratti derivati connessi a variabili climatiche, tariffe di trasporto, quote di emissione, tassi di inflazione o altre statistiche economiche ufficiali, il cui regolamento avviene attraverso il pagamento di differenziali in contanti o può avvenire in tal modo a discrezione di una delle parti, con esclusione dei casi in cui tale facoltà consegue a inadempimento o ad altro evento che determina la risoluzione del contratto, nonché altri contratti derivati connessi a beni, diritti, obblighi, indici e misure, diversi da quelli indicati alle lettere precedenti, aventi le caratteristiche di altri strumenti finanziari derivati, considerando, tra l’altro, se sono negoziati su un mercato regolamentato o in un sistema multilaterale di negoziazione, o un sistema organizzato di negoziazione». Il comma 1°-bis dell’art. 1 del T.U.F., così come dettato dal D.Lgs. n. 164 del 2007 e come ripetuto dal D.Lgs. n. 129 del 2017, individua i valori mobiliari «nelle categorie di valori che possono essere negoziati nel mercato dei capitali, quali ad esempio: a) le azioni di società e altri titoli equivalenti ad azioni di società, di partnership o di altri soggetti e certificati di deposito azionario;
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Introduzione
b) obbligazioni e altri titoli di debito, compresi i certificati di deposito relativi a tali titoli; c) qualsiasi altro valore mobiliare che permetta di acquisire o di vendere i valori mobiliari indicati alle lettere a) e b) o che comporti un regolamento a pronti determinato con riferimento a valori mobiliari, valute, tassi di interesse o rendimenti, merci e altri indici o misure». Mentre per «strumenti del mercato monetario» si intendono categorie di strumenti normalmente negoziati nel mercato monetario, quali, ad esempio, i buoni del tesoro, i certificati di deposito e le carte commerciali (art. 1, comma 1°-ter). Il successivo 4° comma si preoccupa poi di stabilire che «i mezzi di pagamento non sono strumenti finanziari», e, come vedremo, essi non possono essere considerati neppure prodotti finanziari. Come si può notare, il legislatore non dà una definizione generale di strumento finanziario, capace di ricomprendere beni diversi da quelli iscritti nel catalogo formulato esplicitamente dalla norma. Si tratta, quindi, di un catalogo chiuso e tassativo, che può essere arricchito sulla base di un provvedimento dell’autorità di Governo, nelle ipotesi, per altro, esplicitamente previste dal legislatore stesso. Così l’art. 18, 5° comma, T.U.F. consente che il Ministro dell’Economia e delle Finanze individui, con regolamento adottato sentita la Banca d’Italia e la Consob, nuovi strumenti finanziari «al fine di tener conto dell’evoluzione dei mercati finanziari e delle norme di adattamento stabilite dalle autorità comunitarie». Naturalmente il legislatore può prevedere nuovi strumenti finanziari: così la legge 30 aprile 1999, n. 130 ha qualificato come strumenti finanziari, ai sensi del T.U. n. 58 del 1998, i titoli emessi per finanziare le operazioni di cartolarizzazione dei crediti di impresa. B) Come si è visto, nell’ambito della categoria degli strumenti finanziari il legislatore individua la species dei valori mobiliari, ravvisandoli nei valori negoziabili sul mercato dei capitali e fornendone un catalogo aperto («quali ad esempio»). I valori mobiliari appartengono e contribuiscono nello stesso tempo a definire i confini del mercato dei capitali, inteso come mercato sul quale si negoziano strumenti finanziari di media e lunga durata destinati al finanziamento degli emittenti e in particolare delle imprese, contrapposto al mercato monetario, ossia al mercato sul quale si negoziano strumenti finanziari a breve e brevissimo termine che possono essere trasformati in moneta senza grosse perdite sul valore nominale, ma che di per sé stessi non sono mezzi di pagamento. I valori mobiliari si caratterizzano dunque per la loro attitudine alla
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circolazione, attitudine che, per altro, non posseggono gli altri strumenti finanziari elencati nel relativo catalogo. Vedremo che la nozione di valore mobiliare ha qualche rilevanza normativa (si veda ad es. la definizione di emittenti quotati in Italia come stato membro di origine (art. 1, 1° comma, lett. w-quater)), ma non riveste certamente l’importanza che ha la distinzione fra prodotti e strumenti finanziari. C) Il testo unico della finanza, accanto alla nozione di prodotto finanziario, al catalogo degli strumenti finanziari, al catalogo aperto dei valori mobiliari, conosce anche la nozione di «titoli»: la disciplina delle offerte pubbliche di acquisto (art. 101-bis ss.) si applica alle società italiane che abbiano «titoli» quotati in un mercato regolamentato comunitario, intendendosi per «titoli» gli strumenti finanziari che attribuiscono il diritto di voto, anche limitatamente a specifici argomenti, nell’assemblea ordinaria o straordinaria. E i «titoli» costituiscono una species nell’ambito dei valori mobiliari. D) Il legislatore, mentre rinuncia ad individuare una nozione generale di strumento finanziario si cimenta nella definizione di «prodotto finanziario», ricomprendendovi sia gli strumenti finanziari sia «ogni altra forma di investimento di natura finanziaria» e ipotizzando cosi l’esistenza di altri prodotti finanziari, ulteriori e diversi dagli strumenti finanziari. E si tratta di nozione importante dal momento che alla stessa, e non a quella di strumento finanziario, fanno riferimento capitoli significativi dell’ordinamento del mercato mobiliare. Così ad esempio: le norme sull’appello al pubblico risparmio prendono in considerazione tale nozione e rendono applicabili le relative norme ogni qualvolta un’offerta pubblica abbia ad oggetto prodotti finanziari, anche quando gli stessi non rientrino nel catalogo degli strumenti finanziari. E, specularmente, le norme sui servizi di investimento non si applicano se l’attività ha per oggetto prodotti finanziari che non siano strumenti finanziari. La nozione di prodotto finanziario non è, tuttavia, ricostruibile con facilità. Sembra, anzitutto, certo che la nozione di prodotto finanziario sia del tutto indipendente dal «corpo meccanico» al quale si affidi la sua materializzazione o comunque la sua presenza fisica sul mercato. Era questa, del resto, la conclusione alla quale era pervenuta la dottrina dominante con riferimento alla nozione di valore mobiliare contenuta nell’art. 18-bis, legge n. 216 del 1974, che pur sembrava considerare elemento essenziale del concetto di valore mobiliare la presenza di un «documento o certifi-
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Introduzione
cato», al quale fosse in qualsiasi modo connesso il contenuto del rapporto contrattuale. Così si dovrà, senza incertezza, ammettere che possano esistere prodotti finanziari che non costituiscono titoli di credito e, quindi, neppure titoli di massa. Conclusione, quest’ultima, che trova conferma anche nel fatto che il legislatore considera strumenti finanziari anche quelli non negoziabili, mentre tratto essenziale dei titoli di credito è la loro attitudine alla circolazione. Analogamente si deve aggiungere che possono considerarsi prodotti finanziari anche «situazioni giuridiche» non riconducibili né alla categoria dei titoli impropri né a quella dei documenti di legittimazione. D’altra parte, la nozione di prodotto finanziario non contiene alcun riferimento alla necessaria presenza di un documento che «rappresenti» l’investimento e, in ogni caso, non pare plausibile subordinare l’applicazione delle norme che hanno come referente oggettivo i prodotti finanziari alla presenza di un documento. L’applicazione di quelle norme si giustifica con la natura del bene «prodotto finanziario» e quella natura non è minimamente modificata dal fatto che lo stesso sia in qualsiasi modo rappresentato da un documento. E per quanto concerne la «natura» del prodotto finanziario, la norma offre due elementi di giudizio: il prodotto finanziario è a) «una forma di investimento» b) «di natura finanziaria». Nella individuazione di entrambi i profili può rivelarsi di qualche utilità il constatare che, secondo il dettato della norma in esame, anche gli strumenti finanziari costituiscono, secondo il legislatore, necessariamente una forma di investimento di natura finanziaria; il che suggerisce di verificare quali siano i tratti fisionomici degli strumenti finanziari che fanno degli stessi altrettante forme di investimento di natura finanziaria. In altri termini, sembra corretto cercare di rintracciare, ancora prima che nelle caratteristiche economiche, nella disciplina degli strumenti finanziari qualche elemento utile per individuare il significato dell’espressione «investimento di natura finanziaria». A dire il vero, per quanto concerne il concetto di investimento non si ricavano molti elementi di giudizio; un indizio significativo può forse trarsi dal fatto che, mentre sono considerati strumenti finanziari «i titoli normalmente negoziati sul mercato monetario», il legislatore escluda che lo siano «i mezzi di pagamento». Il legislatore, in altri termini, esclude che possa considerarsi una forma di possibile investimento l’acquisto di titoli che hanno una mera funzione di pagamento (assegni), non solo e non tanto perché non sono normalmente negoziati su un mercato, ma anche e soprattutto perché appartengono alla sfera del consumo e non
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dell’impiego del risparmio effettuato in vista di un reddito, di un «ritorno» economico. Dunque, si deve escludere che si sia in presenza di un prodotto finanziario in mancanza di un impiego di risorse diretto ad ottenere un corrispettivo, ossia in mancanza di un investimento. Ma l’investimento deve anche essere di natura finanziaria. E qui sorgono le maggiori difficoltà. Appartiene, per così dire, alla sfera della «precomprensione» la certezza che le norme del mercato mobiliare non riguardano la sollecitazione ad investire in vini di annata, in francobolli, in immobili, in diamanti, così come è certo che le stesse non si occupano dei servizi aventi ad oggetto la negoziazione o la «gestione» relative a tali beni. Ed è altrettanto certo che quelle norme riguardano la sollecitazione o i servizi relativi alle azioni, alle obbligazioni o alle quote dei fondi di investimento. La qualificazione finanziaria dell’investimento è dunque essenziale per individuare la nozione di prodotto finanziario. E in proposito qualche elemento importante si ricava dalla nozione di strumento finanziario. Gli strumenti finanziari esauriscono la loro «esistenza» in un contratto, e quindi pongono problemi particolarmente ardui sul piano della loro conoscibilità. Sono, per lo più, caratterizzati da uno scambio fra un bene presente (normalmente danaro) e un bene futuro, rappresentato ancora da una somma di danaro e non da un valore d’uso. E l’entità del corrispettivo futuro è in larga misura rimessa al comportamento di altri o comunque non influenzabile in misura determinante dall’investitore. Questi parametri sono utili anche per individuare la nozione di «prodotto finanziario». È necessario ammettere che una nozione di prodotto finanziario individuato con tali parametri finisce per coincidere con quella, utilizzata dalle scienze economiche, di attività (e passività) finanziaria e non è in grado di separare, dal punto di vista degli oggetti, i vari segmenti del mercato finanziario. In altri termini è una nozione che ricomprende ad esempio: anche l’insieme dei prodotti-contratti bancari (depositi) utilizzati dalle banche per la raccolta del risparmio; nonché i prodotti assicurativi, ossia le polizze che le imprese di assicurazione collocano presso i risparmiatori nonché i contratti attraverso i quali vengono raccolte le risorse destinate ai fondi pensione. Ma questa conclusione non deve scandalizzare, anche perché lo stesso legislatore l’ha adottata quando ha ritenuto indispensabile dichiarare esplicitamente che non si applicano ai «prodotti finanziari emessi da banche, diversi dalle azioni e dagli strumenti finanziari che permettono di acquistare o sottoscrivere azioni, ovvero prodotti assicurativi emessi da imprese assicurative», le norme det-
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Introduzione
tate per la generalità dei prodotti finanziari (art. 30, 9° comma e art. 100, 1° comma, lett. f), T.U. n. 58 del 1998); disposizioni abrogate dalla legge n. 262 del 2005. Evidentemente anche il legislatore partiva dal convincimento che costituiscano investimenti di natura finanziaria pure i prodotti bancari e quelli assicurativi, anche se poi considerava opportuno sottrarli alla disciplina dettata per l’intera categoria dei prodotti finanziari. La ragione dell’esonero stava nel fatto che questi prodotti sono emessi da soggetti (banche e assicurazioni) sottoposti a penetranti controlli di stabilità e, per di più, non comportano per il risparmiatore-investitore il rischio connesso con l’impiego delle risorse trasferite all’emittente, in quanto il diritto alla restituzione delle somme prestate alla banca o il diritto dell’assicurato non sono in alcun modo legati al «successo» degli investimenti della banca o dell’assicurazione, rilevando soltanto la solvibilità delle stesse, perseguita, appunto, attraverso i controlli di stabilità; ragione in verità opinabile e non condivisa dalla già citata legge n. 262 del 2005, profondamente innovativa, come vedremo, sul punto. Di questa disciplina vorrei qui ricordare soltanto la norma che definisce i prodotti finanziari emessi dalle banche e la cui formulazione sembra ignorare la distinzione fra strumenti e prodotti finanziari. Quella norma (art. 1, 1° comma, lett. u), T.U.F.), stabilisce che «non costituiscono prodotti finanziari i depositi bancari o postali non rappresentati da strumenti finanziari», ritenendo così che i depositi bancari (o postali) sono prodotti finanziari solo quando siano … strumenti finanziari. E) L’evidente emarginazione della nozione di valore mobiliare rende meno plausibile la utilizzazione della nozione di «mercato mobiliare» per designare il settore economico oggetto di queste pagine e il relativo ordinamento. D’altro canto, il T.U. n. 58 del 1998 si autodefinisce «Testo Unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria», suggerendo, forse, di utilizzare questa espressione per indicare riassuntivamente il settore. Ma quell’espressione, tuttavia, sembra, da un lato, troppo riduttiva (perché esclude attività come quella bancaria e quella assicurativa che sono almeno normalmente attività di intermediazione finanziaria) e, dall’altro, troppo generica, in quanto incapace di cogliere le peculiarità di questo segmento del mercato finanziario. Si può forse giustificare così il fatto che qui si continui a parlare di mercato mobiliare e di intermediari del mercato mobiliare anche se le incertezze terminologiche confermano le difficoltà che si incontrano quando si pretenda di separare, nettamente, nell’ambito del mercato finanziario, ciò che nei fatti non è facilmente di-
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stinguibile. Riflessione, quest’ultima, che non elimina, tuttavia, l’utilità di far ricorso a concetti, come quello di mercato mobiliare, purché si attribuisca allo stesso il solo compito di individuare il «cuore» di un segmento del mercato finanziario e non anche di fissarne una sicura e definitiva delimitazione.
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Introduzione
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Capitolo II
Cenni di storia dell’ordinamento italiano del mercato mobiliare SOMMARIO: 1. Mercato mobiliare e intermediari finanziari. – 2. Mercato mobiliare e Borsa Valori. – 3. Il modello francese di Borsa Valori e il Codice di Commercio del 1865. – 4. Il modello anglosassone di Borsa Valori e il Codice di Commercio del 1882. – 5. La riforma del 1913. – 6. La pubblicizzazione della Borsa negli anni Venti e Trenta. – 7. La legge n. 216 del 1974: l’istituzione della Consob e la disciplina delle società quotate. – 8. L’istituzione del Mercato ristretto. – 9. La legge n. 77 del 1983 e la disciplina generale del mercato mobiliare. – 10. Le riforme degli anni Ottanta. – 11. Il Mercato secondario dei titoli pubblici (MTS). La Monte titoli. – 12. Le riforme dei primi anni Novanta. – 13. Le direttive Eurosim. – 14. Il Testo Unico dell’intermediazione finanziaria del 1998. – 15. Dopo il Testo Unico della finanza.
1. Mercato mobiliare e intermediari finanziari Il mercato mobiliare costituisce, come abbiamo ricordato, un segmento del mercato finanziario, che concorre, con gli altri segmenti e soprattutto con l’insieme degli intermediari bancari, al trasferimento (e alla trasformazione) del risparmio dagli operatori che hanno un saldo finanziario positivo (soprattutto le famiglie) agli operatori economici che presentano un saldo finanziario negativo (soprattutto imprese e pubblica amministrazione). Nascono dunque, ed inevitabilmente, rapporti di concorrenza, in particolare fra mercati mobiliari e intermediari bancari; e mentre alcuni sistemi economici vedono la prevalenza degli intermediari bancari (sistemi orientati agli intermediari), altri sistemi affidano soprattutto al mercato mobiliare e ai relativi intermediari il finanziamento delle imprese (modello anglosassone orientato al mercato). Anche se appaiono sempre più evidenti, da un lato, gli svantaggi, per il finanziamento di un’economia nel suo complesso, derivanti da mercati finanziari squilibrati a favore delle
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banche o del mercato e, dall’altro, la complementarietà dei vari segmenti che costituiscono l’intermediazione finanziaria nel suo insieme. Il mercato finanziario italiano è sempre stato, e per certi aspetti continua ad essere, un mercato fortemente orientato agli intermediari bancari, nel quale il mercato mobiliare aveva una importanza molto limitata nel finanziamento delle imprese; innegabile, in particolare, è sempre stata la debolezza del mercato azionario e del suo più importante segmento regolamentato: la Borsa. A questa costante emarginazione del mercato mobiliare ha corrisposto una sostanziale insufficienza della relativa disciplina ed anzi è ragionevole immaginare che una, anche se non la più importante, delle cause che hanno ostacolato uno sviluppo adeguato del primo sia proprio costituita dalle insufficienze del relativo ordinamento; insufficienze che hanno impedito il formarsi delle condizioni di trasparenza, di correttezza e di stabilità, che abbiamo già visto essere necessarie per lo sviluppo di un mercato mobiliare. Naturalmente ci si dovrebbe anche interrogare sulle forze che hanno ostacolato, o comunque non favorito, la formazione di un ordinamento idoneo per tale sviluppo. E nel farlo sembra inevitabile tener presente che il mercato mobiliare avrebbe potuto rivelarsi un pericoloso concorrente per il sistema bancario. Ma, come si accennava, questa sembra storia passata: oggi il convincimento che le banche abbiano bisogno di mercati regolamentati forti e che, specularmente, un sistema bancario efficiente costituisca un elemento essenziale per lo sviluppo del mercato mobiliare sembra radicato. Il che forse concorre a rendere ragione dei notevoli risultati che, anche per effetto delle direttive comunitarie, sono stati e si stanno realizzando sulla via che permetta anche al nostro mercato mobiliare di avere un ordinamento che ne consenta un adeguato sviluppo: tale ordinamento ha trovato, nel 1998, una propria organica sistemazione nel già ricordato Testo Unico delle norme in materia di intermediazione finanziaria. I pochi cenni che seguono dovrebbero, quanto meno, dar conto delle linee dell’ordinamento italiano, delle sue tradizionali insufficienze e dell’opera di adeguamento che lo stesso ha vissuto negli anni più recenti.
2. Mercato mobiliare e Borsa Valori Per sottolineare la mancanza di un’adeguata disciplina del mercato mobiliare, basterebbe ricordare che, fino al 1983, non esisteva nel nostro
3. Il modello francese di Borsa Valori e il Codice di Commercio del 1865
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paese un ordinamento generale dello stesso, un ordinamento che prendesse in esame il mercato mobiliare in quanto tale. L’unico momento di questo mercato che veniva sottratto alle norme di diritto comune, era la Borsa: ossia, come abbiamo già visto, una particolare organizzazione dei servizi di mercato; mancava una qualsiasi disciplina dell’appello al pubblico risparmio, mancava una disciplina degli investitori istituzionali, non esistevano norme particolari per le società che facevano ricorso al risparmio diffuso, non esisteva una regolamentazione delle imprese di investimento (se si escludono gli agenti di cambio). Per un lungo tratto la storia dell’ordinamento del mercato mobiliare si è esaurita, dunque, nella storia dell’ordinamento di Borsa. E proprio perché si identifica con l’ordinamento del mercato mobiliare, l’ordinamento di Borsa, con le sue vicende, merita di essere ricordato in questa sede, pur riguardando un aspetto soltanto del mercato mobiliare.
3. Il modello francese di Borsa Valori e il Codice di Commercio del 1865 Recependo il modello adottato dalla Francia, e già attuato, in coincidenza con il dominio francese, dalla Borsa di Milano, il Codice di Commercio del 1865 prevede che le Borse di commercio debbano essere istituite con decreto reale; che nelle stesse si negozino sia merci sia titoli; che la stipulazione dei relativi contratti, a pena di nullità, sia riservata agli agenti di cambio, pubblici mediatori pure nominati per decreto reale; che sulla base dei contratti così stipulati sia determinato il prezzo ufficiale delle merci e dei titoli; che gli agenti di cambio debbano agire in nome proprio ma non possano operare in proprio; che gli stessi non debbano considerarsi commercianti e non possano «riunirsi in società» per l’esercizio delle proprie funzioni. La determinazione delle tariffe per i compensi degli agenti, così come la vigilanza sugli stessi, sono affidate alle Camere di Commercio, organismi formalmente pubblici ma gestiti da banche e imprese e dai cui organi rimangono esclusi proprio gli agenti di cambio in quanto non commercianti. Le Camere di Commercio forniscono altresì tutte le strutture e i servizi necessari alla Borsa. Il modello si fonda, dunque, su un’organizzazione pubblica della Borsa, imperniata formalmente sul monopolio delle negoziazioni in capo agli agenti di cambio, anche se i servizi sono forniti da una struttura dominata da banche e imprese. E tra banche e agenti si realizza, quasi su-
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bito, un facile compromesso, che inciderà negativamente sul futuro della Borsa Valori. Le negoziazioni sui valori mobiliari, e soprattutto quelle relative alle azioni e alle obbligazioni delle società industriali, avvengono «nelle private case dei commercianti», «nei privati studi dei banchieri», e sono solo formalmente concluse in Borsa, con salvezza del monopolio degli agenti di cambio; in questo modo si provoca una emarginazione sostanziale del mercato borsistico dal finanziamento delle imprese, con una forte accentuazione del ruolo delle banche. Effetto, quest’ultimo, favorito anche dall’obbligo per gli agenti di operare solo come brokers, e cioè con il divieto di operare in proprio e di svolgere una qualunque altra attività di intermediazione. Si impedisce così la nascita di intermediari di mercato mobiliare polifunzionali e di dimensioni sufficienti per contendere alle banche il monopolio della intermediazione, anche sul fronte del credito mobiliare che passa attraverso l’acquisto e il collocamento delle azioni e delle obbligazioni emesse dalle imprese per raccogliere risparmio. Sono queste, attività quasi esclusivamente svolte dalle «case bancarie».
4. Il modello anglosassone di Borsa Valori e il Codice di Commercio del 1882 Riguardano proprio lo statuto degli agenti di cambio, e, quindi, il ruolo degli intermediari di mercato mobiliare, le maggiori novità introdotte dal Codice di Commercio del 1882, o meglio dal Regolamento (R.D. 27 dicembre 1882, n. 1139) che innova, per altro, anche la disciplina della vigilanza sulle Borse. Gli agenti di cambio sono considerati commercianti per l’attività di mediazione che svolgono e non più funzionari pubblici; assumono il relativo ruolo sulla base di un’autorizzazione della Camera di Commercio subordinata all’esistenza di alcuni requisiti di moralità ed onorabilità (e previa prestazione di una cauzione); possono operare anche per proprio conto e non solo per conto terzi e svolgere funzioni di consulenza per la clientela. Il controllo sulla Borsa è conservato alle Camere di Commercio e, più esattamente, alla Deputazione di Borsa, nominata dalla prima e che «sorveglia la Borsa e provvede all’esecuzione dei regolamenti» di Borsa; al controllo della Deputazione si aggiunge quello del «Sindacato di Borsa», organo di autocontrollo degli agenti.
5. La riforma del 1913
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Il Codice del 1882 si allontana, dunque, dal modello pubblicistico francese, soprattutto là dove considera l’attività degli agenti di cambio un’attività di impresa e non come espletamento di una funzione pubblica, e si avvicina al modello anglosassone, delle borse autogestite, nel momento in cui prevede forme di autoregolamentazione da parte degli agenti di cambio. D’altro canto, la disciplina delle Borse è essenzialmente contenuta nei regolamenti delle singole Borse e tali regolamenti, pur dovendo essere approvati dal Governo centrale, sono rimessi alle decisioni della Camera di Commercio nella cui circoscrizione la Borsa ha la propria sede. Ancora, la Camera di Commercio, come si è visto, svolge attività di sorveglianza sulla Borsa e fornisce alla stessa struttura e servizi. Sembra corretto, pertanto, sottolineare, come spesso si è fatto, il localismo che caratterizza il sistema di Borsa disegnato dal Codice di Commercio del 1882. Le scelte normative operate dal Codice di Commercio favoriscono certamente l’avvento della fase di maggior sviluppo che la Borsa italiana abbia mai conosciuto (quella che va dalla metà degli anni Novanta al 1906), ma contribuiscono anche a scatenare la profondissima crisi borsistica del 1907; crisi che segnò l’inizio di un lungo periodo di forte declino del nostro mercato mobiliare. La possibilità concessa agli agenti di cambio di operare anche per proprio conto e, più in generale, il principio della libertà di mediazione consentirono la nascita di banche specializzate e di società finanziarie, le quali, insieme alle grandi banche miste, promossero l’emissione e il collocamento in Borsa delle azioni e delle obbligazioni societarie; una Borsa ormai nazionale ed unitaria grazie anche ai collegamenti che le trasmissioni telegrafiche assicuravano fra le varie Borse locali. Tutto ciò fece sì che negli anni 1903-1906 la massima parte del capitale azionario italiano fosse rappresentata da azioni quotate in Borsa.
5. La riforma del 1913 L’intensità dello sviluppo della Borsa aveva fatto passare in secondo piano i tratti di instabilità che la stessa presentava: l’accesso alle negoziazioni di Borsa era diventato indiscriminato e molti dei negoziatori non possedevano i necessari requisiti professionali e patrimoniali. D’altro canto, i controlli sul mercato e sugli operatori erano affidati esclusivamente ad organi locali (Camera di Commercio, Deputazione di Borsa, Sindacato di Borsa), mentre il mercato era ormai nazionale.
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Il tracollo del 1907, che portò per qualche anno alla totale emarginazione della Borsa, mise in evidenza proprio l’assenza di adeguati controlli: venne perciò avviata un’opera di revisione dell’ordinamento tutta incentrata sulla necessità di assicurare al mercato mobiliare maggiore stabilità. Si giunse così alla prima disciplina organica della Borsa: la legge 20 marzo 1913, n. 272 che avrebbe costituito per decenni l’ordinamento di base del mercato mobiliare. Venne, in generale, riaffermato il carattere pubblico dell’ordinamento di Borsa, sulla scia della riforma che era stata attuata in Germania, e vennero bandite le indulgenze che il Codice del 1882 aveva avuto nei confronti del modello anglosassone (pluralismo e autoregolamentazione). In particolare, al vertice dei controlli venne posto il Governo, che si trovava in una posizione sovraordinata a quella degli organi locali di Borsa, che pure venivano conservati e, soprattutto, venne ristabilito il divieto per gli agenti di cambio, ai quali venivano pur riservati «gli uffici pubblici» connessi alla negoziazione (accertamento del prezzo ufficiale di Borsa e negoziazione alle grida, con una norma transitoria che la consentiva per un decennio anche alle banche già operanti in Borsa), di operare per proprio conto e di «acquisire la qualità di direttore, procuratore o di socio illimitatamente responsabile di banca» (cfr. artt. 24 e 27). Veniva in tal modo eliminata proprio quella categoria di intermediari polifunzionali che erano sorti dall’alleanza fra una parte degli agenti e quella parte del capitale finanziario che non si identificava con la grande banca; alleanza che aveva caratterizzato il precedente periodo di sviluppo della Borsa. Da quel momento non solo diminuì il peso del mercato azionario nell’ambito del finanziamento dell’industria, ma anche gran parte delle emissioni azionarie cessarono di passare attraverso la Borsa per ritornare nelle stanze delle banche miste. La stabilità era assicurata, ma a prezzo dell’efficienza del mercato borsistico.
6. La pubblicizzazione della Borsa negli anni Venti e Trenta Il processo di «ripubblicizzazione» della Borsa e di «centralizzazione» della vigilanza sulla stessa prosegue nel corso degli anni Venti: nel 1925, nell’ambito della politica di stabilizzazione monetaria avviata dal regime fascista, gli agenti di cambio vengono nuovamente e formalmente qualificati pubblici ufficiali, viene previsto un ruolo chiuso al quale si accede per decreto ministeriale, viene ribadito definitivamente il principio che la negoziazione alle grida in Borsa è loro riservata (R.D.L. 7 marzo 1925,
7. La legge n. 216 del 1974
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n. 222), con esclusione delle banche alle quali la stessa era stata transitoriamente conservata dalla riforma del 1913. Si crea un ordine degli agenti, pubblicistico e chiuso, con esclusione di ogni possibile ampliamento della loro attività a funzioni diverse da quelle dello stipulare per conto altrui i contratti nelle negoziazioni alle grida. Nello stesso 1925 viene rafforzato il ruolo di vertice della vigilanza sulla Borsa in capo al Governo centrale, con attribuzione della stessa al Ministero delle Finanze e con l’irreversibile separazione delle Borse Valori dalle Borse merci, rimaste sotto la vigilanza del Ministro dell’Economia (R.D.L. 29 luglio 1925, n. 1261). L’emarginazione della Borsa si protrae, ed anzi, si accentua, nel corso degli anni Trenta, anche per effetto, soprattutto nella seconda metà del decennio, della politica di «finanza di guerra» che ormai il regime va attuando e che impone di governare il flusso del risparmio privato e, in particolare, di spingerlo verso l’acquisto di titoli pubblici. In questa prospettiva debbono collocarsi le norme che subordinarono al controllo pubblico le emissioni di azioni (R.D. 5 settembre 1935, n. 1613), quelle che sottoposero a particolari oneri e poi vietarono l’emissione di azioni al portatore, nonché quelle che imposero oneri fiscali particolarmente accentuati per i dividendi. Si comprime in tal modo il volume delle emissioni azionarie e inevitabilmente ed ulteriormente il significato della Borsa. Sul piano dell’ordinamento merita di essere ricordato il tentativo, rimasto in realtà senza esito, di collocare la disciplina della Borsa nell’ambito del disegno di riordino della finanza privata effettuato dalla legge bancaria del 1936, il cui art. 2 prevedeva che fossero sottoposti al controllo della Banca d’Italia le emissioni di titoli che «si vogliano ammettere al mercato dei valori mobiliari nelle Borse Valori». Ma la norma non entrò mai in vigore.
7. La legge n. 216 del 1974: l’istituzione della Consob e la disciplina delle società quotate Il crollo del regime fascista e l’avvento, con la Costituzione repubblicana, del regime democratico non modificano la struttura di fondo dell’intermediazione del nostro paese e non comportano alcuna modificazione importante nell’ordinamento della Borsa. Fino alla metà degli anni Settanta l’intermediazione finanziaria rimane nella massima parte riserva del sistema bancario, per di più pro-
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tetto nell’ambito di una visione, condivisa sia dalle autorità di vigilanza sia dalla giurisprudenza, che individua nelle banche un’istituzione sociale piuttosto che un’impresa, attenta più alla stabilità del sistema che alla sua efficienza. E il mercato di Borsa conserva, soprattutto per il mercato delle azioni, la propria congenita debolezza. Anche l’ordinamento del mercato mobiliare resta nella condizione nella quale l’aveva costretto il regime fascista: un ordinamento che prende in considerazione soltanto la Borsa e che riserva a quest’ultima, sulla base della legge del 1913 e dei provvedimenti del 1925, uno statuto sostanzialmente pubblicistico imperniato sull’attività di una categoria di professionisti, gli agenti di cambio, ai quali era riservata l’attività di negoziazione, ma anche inibita ogni attività diversa dal negoziare per conto altrui. Per assistere al primo e profondo mutamento è necessario attendere la metà degli anni Settanta, e più esattamente la legge 7 giugno 1974, n. 216. Neppure questa legge, a dire il vero, allarga l’ambito della disciplina speciale del mercato mobiliare al di là della Borsa Valori, ma introduce due corpi di norme, per quest’ultima, di particolare importanza: istituisce la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob) e detta una disciplina speciale per le società con azioni quotate in Borsa. Senza anticipare in questa sede un esame puntuale della disciplina della Consob oggi vigente, basti qui ricordare, per cogliere l’importanza della sua istituzione, che alla stessa venivano attribuiti compiti di vigilanza sia sull’organizzazione della Borsa sia sullo svolgimento delle relative negoziazioni. In particolare, per quanto concerne l’organizzazione della Borsa, il D.P.R. 31 marzo 1975, n. 138, emanato sulla base della delega al Governo contenuta nella legge n. 216 del 1974, trasferiva alla Consob molte delle funzioni delle quali erano precedentemente titolari gli organi locali di Borsa (la Deputazione di Borsa e il Comitato degli agenti di cambio nel quale si era trasformato il Sindacato di Borsa), ma non eliminava i poteri che le leggi precedenti attribuivano al Ministro del Tesoro (come ad es., la istituzione, la soppressione o la chiusura della Borsa). Non solo, ma non modificava in alcun modo il ruolo dell’unica figura di intermediario disciplinato: l’agente di cambio, al quale si conservava il monopolio delle negoziazioni alle grida, ma si vietava ogni attività diversa da quella di broker. Per certi profili si può anzi dire che la pubblicizzazione del mercato di Borsa fu ulteriormente accentuata dalla riforma del 1974, dal momento che la stessa non sopprimeva i poteri politici del Ministro del Tesoro e comprimeva ulteriormente i poteri degli organi locali; ma non v’è dubbio che la creazione della Consob pose le premesse per l’avvento di una struttura, diversa da quelle locali e da quelle politiche, alla quale po-
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teva essere e sarà poi, come negli altri paesi con un ordinamento del mercato mobiliare avanzato, affidato il compito di dettare e far rispettare le regole tecniche del mercato. Di grande rilievo era anche l’introduzione di una disciplina speciale per le società con azioni quotate in Borsa; si prendeva così coscienza del fatto che le società quotate coinvolgono il risparmio pubblico in termini e in misura diversi da quelli nei quali lo stesso viene coinvolto dalle società che si rivolgono ad una cerchia ristretta di risparmiatori-soci. In particolare, si introdussero a carico della società quotate obblighi di trasparenza più accentuati, sia nei confronti della Consob sia, e soprattutto, nei confronti del mercato, ponendo i risparmiatori, normalmente esclusi dalla gestione delle grandi società, in condizione di accrescere la conoscenza delle società delle quali avessero acquisito azioni; prevedendo anche la creazione, per le società quotate, di azioni di risparmio istituzionalmente prive del diritto di voto ma privilegiate sul piano patrimoniale. Nella stessa direzione si imponeva alle società quotate l’obbligo della certificazione del bilancio da parte di un controllore esterno (le società di revisione iscritte in un particolare albo tenuto dalla stessa Consob). Si avviava così il processo di separazione della disciplina delle società con azioni quotate in Borsa dal diritto comune delle società per azioni; processo che ha avuto ulteriori sviluppi negli anni successivi coinvolgendo anche le società, pur non quotate, che fanno comunque appello al pubblico risparmio. Questo indirizzo ha trovato modo di esprimersi in termini più compiuti nel Testo Unico sull’intermediazione finanziaria del 1998, trovando puntuale conferma anche nella legislazione successiva.
8. L’istituzione del Mercato ristretto L’ambito del diritto speciale del mercato mobiliare si ampliò, anche se non di molto, nel 1977 attraverso la istituzione, presso le varie Borse Valori, dei Mercati ristretti. Come è accaduto normalmente in tutti i mercati mobiliari, anche in quello italiano si era sviluppato, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, un mercato parallelo a quello di Borsa, sul quale venivano negoziati i titoli delle società di dimensione minore o che comunque non erano «pronti» per la quotazione al mercato di Borsa. L’organizzazione del mercato, la sua regolamentazione «privatistica», le negoziazioni che nello stesso avvenivano erano essenzialmente effettuate dagli agenti di cambio. All’inizio degli anni Settanta, tuttavia, il mer-
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cato fu caratterizzato da fenomeni speculativi che ne misero in forse la stabilità e la correttezza delle transazioni. Una sentenza della Suprema Corte del 1974 ritenne che la negoziazione pubblica dei valori mobiliari potesse avvenire soltanto nelle Borse Valori, che la rilevazione ufficiale dei prezzi fosse riservata a queste ultime e che la legge del 1913 vietasse agli agenti di cambio di partecipare alle negoziazioni pubbliche di valori mobiliari, anche quando gli stessi non fossero quotati in Borsa. Si rese così necessario un intervento legislativo capace di riportare nella legalità quel mercato. La legge 23 febbraio 1977, n. 49 (con i relativi regolamenti Consob) disciplinò il Mercato ristretto dei titoli non quotati in Borsa, prevedendo che la Consob dovesse autorizzarne l’istituzione ed esercitare la relativa vigilanza. Si stabilì inoltre che le negoziazioni dovessero avvenire «per l’esclusivo tramite degli agenti di cambio» e che le contrattazioni dovessero effettuarsi solo per contanti, e non anche a termine, e ciò allo scopo di contenere i fenomeni speculativi che avevano in precedenza caratterizzato quel mercato. Nasceva così, incardinato sulle strutture delle Borse Valori, il secondo mercato regolamentato italiano, sulla base dello stesso modello pubblicistico che caratterizzava il mercato di Borsa. Le lacune del nostro ordinamento del mercato mobiliare rimanevano ancora clamorose: non si prevedeva alcuna disciplina per le negoziazioni che non «passassero» attraverso i mercati regolamentati, non si dettavano le norme necessarie per la nascita di investitori istituzionali, come i fondi comuni, che l’esperienza di altri paesi aveva dimostrato essere indispensabili per lo sviluppo del mercato mobiliare, mancava una disciplina dei servizi di investimento mobiliare capace di consentire lo sviluppo «regolamentato» degli stessi.
9. La legge n. 77 del 1983 e la disciplina generale del mercato mobiliare La legge 23 marzo 1983, n. 77 colma due di queste lacune: detta una disciplina generale dell’appello al pubblico risparmio e introduce finalmente anche nel nostro paese i fondi comuni di investimento mobiliare aperti. A) Nel corso degli anni Settanta, caratterizzati da fenomeni inflazionistici molto accentuati, il risparmio fuggiva gli impieghi (depositi, obbligazioni) esposti alla svalutazione monetaria e non trovava, d’altro can-
9. La legge n. 77 del 1983 e la disciplina generale del mercato mobiliare
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to, adeguato sfogo nel mercato azionario, in condizione di accentuata emarginazione. Si crearono così le premesse per un tumultuoso ed incontrollato collocamento presso il pubblico dei cc.dd. titoli atipici, ossia titoli diversi dalle azioni e dalle obbligazioni e i cui rendimenti teorici erano collegati ad operazioni immobiliari o imprenditoriali e sottratti al rischio di perdita di valore della moneta. Il fenomeno sfuggiva a qualunque controllo della Consob, la cui vigilanza era limitata alla Borsa e al Mercato ristretto. Furono così possibili sul mercato mobiliare scandalose operazioni di rapina. La necessità di sottoporre a disciplina speciale ogni forma di ricorso al pubblico risparmio apparve in tutta evidenza. La lacuna veniva colmata dall’art. 12 della già citata legge n. 77 del 1983 che sottoponeva al controllo della Consob tutte le ipotesi di sollecitazione del pubblico risparmio dirette a provocarne l’investimento (o il disinvestimento da) in valori mobiliari e che attribuiva, inoltre, a quest’ultima nozione un contenuto così vasto da ricomprendervi ogni investimento o disinvestimento per il quale fosse ravvisabile un «bisogno di protezione» del risparmiatore. B) Ma, come si accennava, la legge n. 77 del 1983 costituisce una tappa fondamentale nella progressiva formazione dell’ordinamento speciale del mercato mobiliare anche perché introduce (artt. 1-10) nel nostro paese il primo tipo di investitore istituzionale, il fondo comune di investimento mobiliare aperto. Il nostro mercato mobiliare poteva così avvalersi, per la prima volta, di un intermediario capace di raccogliere grandi masse di risparmio e di provvedere alla sua gestione in monte secondo criteri di competenza e di diversificazione degli investimenti. E il successo che i fondi comuni hanno registrato da allora conferma l’importanza del ruolo che gli investitori istituzionali svolgono nello sviluppo di un moderno mercato mobiliare. È, tuttavia, necessario ricordare che soltanto all’inizio degli anni Novanta venne completata la gamma degli investitori istituzionali del quale il risparmiatore italiano può avvalersi, attraverso la disciplina dei fondi mobiliari e immobiliari chiusi, dei fondi pensione e delle società di investimento a capitale variabile. La legge del 1983 colma, dunque, solo in parte la lacuna del nostro ordinamento in fatto di investitori istituzionali in valori mobiliari. Per vederla eliminata del tutto sarà necessario attendere ancora un decennio. E non è facile dirne il perché. C) La legge n. 77 del 1983 incide sulla disciplina del mercato mobilia-
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re anche sotto un diverso profilo: il suo art. 11 stabilisce, infatti, che «ai soli fini del controllo dei flussi finanziari, le emissioni di valori mobiliari di qualsiasi natura da collocare, anche indirettamente, mediante offerte al pubblico e le offerte in Italia di valori mobiliari esteri devono essere comunicate alla Banca d’Italia con l’indicazione della quantità e delle caratteristiche dei titoli» e questa può stabilire «l’ammontare massimo dell’emissione o dell’offerta con provvedimento motivato con riferimento alle esigenze di controllo della quantità e della composizione dei flussi finanziari conformemente alle direttive generali del CIPE e del CICR». La norma (che non si applica alle emissioni azionarie ancora assoggettate all’autorizzazione prevista dalla già ricordata legge n. 1613 del 1935) postula il potere, di natura per così dire macroeconomica, dell’apparato politico amministrativo (CIPE e CICR) di emanare direttive sulla dimensione e la conformazione dei flussi finanziari del paese e il potere, della Banca d’Italia, di inibire le emissioni di valori mobiliari ritenute in tutto o in parte non conformi a quelle direttive. Si tratta di una disposizione che riflette i disegni programmatori degli anni Sessanta, di impossibile applicazione in un mercato nazionale che non può essere separato dai mercati degli altri paesi e, in realtà, dettata per consentire un ulteriore controllo microeconomico sulle emissioni «diverse da quelle azionarie». Torneremo sul punto in seguito, ma in ogni caso è bene precisare subito che la norma, abrogata dal Testo Unico delle leggi in materia creditizia del 1993, non ha mai ricevuto una concreta applicazione, se non in chiave di tutela del risparmio nei confronti di emissioni che avrebbero potuto pregiudicarlo in considerazione della natura dei titoli offerti.
10. Le riforme degli anni Ottanta Un ruolo di qualche peso ha poi, nella costruzione dell’ordinamento del mercato mobiliare, la legge 4 giugno 1985, n. 281, soprattutto in quanto consolida il sistema introdotto dalle disposizioni precedenti. A) Vengono attribuite alla Consob la «personalità di diritto pubblico» e la «piena autonomia nei limiti stabiliti dalla legge», sottolineandone così la separatezza dall’organizzazione governo-amministrazione e la natura di autorità indipendente. Ne vengono enfatizzate l’autonomia organizzativa e, soprattutto, la potestà normativa sui rapporti interprivati (artt. 1-4).
11. Il Mercato secondario dei titoli pubblici (MTS). La Monte titoli
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B) Vengono imposti nuovi obblighi di trasparenza, sia nei confronti della Consob sia del mercato, alle società con azioni quotate in Borsa, in particolare con riferimento alla individuazione delle partecipazioni rilevanti nelle stesse detenute (artt. 5 e 6). C) Viene precisato che i controlli sulla costituzione di società per azioni con capitale superiore a dieci miliardi e gli aumenti di capitale di pari importo sono soggetti all’autorizzazione del Ministro del Tesoro, sentita la Banca d’Italia, «al solo fine di assicurare la stabilità del mercato dei valori mobiliari» (art. 21). Norma quest’ultima che esclude ogni pretesa di introdurre un controllo «politico» sulle emissioni azionarie, analogo a quello previsto dalla già ricordata disposizione del R.D. n. 1613 del 1935, e che si affianca a quella, appena esaminata, introdotta dalla legge n. 77 del 1983 per le emissioni diverse da quelle azionarie; norma, infine, abrogata, al pari di quest’ultima, dall’art. 129 T.U. bancario sul quale ritorneremo in seguito.
11. Il Mercato secondario dei titoli pubblici (MTS). La Monte titoli La seconda metà degli anni Ottanta non è caratterizzata da modificazioni significative dell’ordinamento generale del mercato mobiliare consolidatosi con le riforme del 1985; vede, per altro, la nascita di due istituzioni «particolari» destinate ad incidere profondamente sulla concreta morfologia del nostro mercato. A) Il finanziamento dello Stato avviene, in larga parte, attraverso la emissione, ad opera del Tesoro, di titoli del debito pubblico. La Banca centrale persegue i propri obiettivi di politica monetaria, anche, se non soprattutto, attraverso operazioni di acquisto e di vendita di titoli pubblici sul mercato. La stabilità, la trasparenza, e l’efficienza del mercato secondario dei titoli pubblici sono, dunque, indispensabili per consentire al Tesoro e alla Banca centrale di perseguire i propri obiettivi di politica finanziaria e monetaria. In realtà, il mercato secondario dei titoli di stato era all’epoca tutt’altro che trasparente, essendo nella sostanza monopolizzato dal sistema bancario, senza alcuna regolamentazione delle negoziazioni e della rilevazione dei prezzi. Al potere politico-amministrativo sembrava, tuttavia, preclusa la possibilità di porre rimedio a tale situazione creando un mercato secondario all’ingrosso dei titoli pubblici sulla base di un me-
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ro provvedimento amministrativo. Le norme della legge 1913, infatti, parevano riservare alla Borsa Valori il monopolio delle negoziazioni pubbliche sui valori mobiliari e la rilevazione dei relativi prezzi. Nonostante i dubbi di legittimità sollevati da più parti, il D.P.R. 29 dicembre 1987, n. 556 dichiarava inapplicabili quelle disposizioni (e in specie l’art. 1, R.D. 4 agosto 1913, n. 1068) «alle negoziazioni dei titoli emessi o garantiti dallo stato, effettuate in forme organizzate e con rilevazione e pubblicazione dei relativi prezzi, nei casi e secondo modalità che saranno stabilite con decreto del Ministro del Tesoro». In tal modo si attribuiva al Ministro del Tesoro il potere esclusivo di disciplinare ed istituire mercati regolamentati ed ufficiali dei titoli di Stato. Con esclusione, pertanto, di un analogo potere in capo ad altri soggetti pubblici o privati. Con decreto 8 febbraio 1988 il Ministro del Tesoro disciplinava il Mercato secondario dei titoli pubblici, costituendolo come un mercato all’ingrosso (lotto minimo 5 miliardi), non aperto al pubblico ma riservato ad operatori finanziari particolarmente qualificati che avrebbero dovuto dar vita all’organizzazione del mercato sulla base di una convenzione che disciplinasse il funzionamento dello stesso. Nel maggio del 1988 venne così istituito il Mercato secondario dei titoli di stato (MTS). Abbiamo indugiato un attimo nel precisare le ragioni di politica monetaria e finanziaria che hanno giustificato la nascita del MTS e l’iter della sua istituzione per sottolineare che questo mercato regolamentato si colloca in una prospettiva diversa da quelle propria degli altri mercati regolamentati (Borsa e Mercato ristretto), soprattutto perché vede una limitazione all’accesso e un potere di intervento del Tesoro e della Banca d’Italia sconosciuti agli altri mercati regolamentati. B) Le negoziazioni che avvengono sul mercato mobiliare sono, molto spesso, negoziazioni di massa, di titoli fungibili, destinati a continua circolazione. Qualora a ciascuna delle innumerevoli ed anonime negoziazioni che avvengono sul mercato dovesse seguire una effettiva consegna dei titoli si renderebbe necessaria una complessa attività, spesso inutile, certo dispendiosa e fonte di gravi incertezze. Di qui la necessità di predisporre un sistema di gestione accentrata dei titoli che consenta di evitare il materiale trasferimento degli stessi e lo sostituisca con una registrazione contabile che segnali il trasferimento dei diritti sui medesimi da un soggetto ad un altro. La legge 19 giugno 1986, n. 289 disegnò l’organizzazione del servizio di gestione accentrata dei titoli nel nostro paese, riservando tale attività
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alla «Monte titoli S.p.A.», costituita da intermediari e sottoposta alla vigilanza della Banca d’Italia e della Consob.
12. Le riforme dei primi anni Novanta Ma è soltanto nei primi anni Novanta che l’ordinamento italiano del mercato mobiliare raggiunge un grado di compiutezza sostanzialmente analogo a quello degli ordinamenti finanziari degli altri paesi ad economia avanzata. Il che avviene spesso per impulso delle direttive comunitarie e, comunque, per consentire alla securities industry italiana di avvalersi di un ordinamento non penalizzante nei confronti di quello che disciplina emittenti, risparmiatori ed operatori degli altri paesi della Comunità economica europea, con i quali si trova a competere, anche per la sistematica attuazione del principio delle libera circolazione dei servizi finanziari. Vengono così emanate a ritmo serrato e, per alcuni profili, senza una adeguata visione complessiva, una serie di leggi che: a) integrano la disciplina dell’appello al pubblico risparmio; b) dettano una regolamentazione organica degli intermediari mobiliari; c) introducono nuovi tipi di investitori istituzionali; d) accentuano la specialità dello statuto delle società con azioni quotate; e) dettano un principio di disciplina generale dei mercati regolamentati; f) riformano profondamente la disciplina della immissione dei valori mobiliari sul mercato. A) Come abbiamo ricordato, gli artt. 18 ss. della legge n. 216 del 1974, così come modificata e integrata dalla legge n. 77 del 1983, dettavano una disciplina generale per tutte le ipotesi di appello al pubblico risparmio per l’acquisto o la vendita di valori mobiliari. Quella disciplina, per altro, imponeva soltanto obblighi di trasparenza a carico degli emittenti e dei proponenti l’acquisto o la vendita; obblighi diretti a consentire scelte consapevoli da parte del pubblico dei risparmiatori. Non imponeva, invece, alcun vincolo per quanto concerne i contenuti dell’operazione e non prevedeva alcun limite alla libertà operativa degli emittenti i valori mobilia-
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ri oggetto dell’offerta pubblica o a carico dei proponenti quest’ultima o di coloro che avessero accettato l’offerta medesima. La legge 18 febbraio 1992, n. 149 introduce una disciplina speciale per le offerte di vendita e di sottoscrizione aventi per oggetto i valori mobiliari (azioni, obbligazioni convertibili) che consentano di acquisire diritti di voto nelle società per azioni e per le offerte di acquisto e di scambio degli stessi titoli se quotati in Borsa o negoziati al mercato ristretto (OPA e OPS). La stessa legge prevede poi che il lancio di un’offerta pubblica di acquisto di valori mobiliari che consentano di acquisire diritti di voto nell’assemblea ordinaria, quotati o negoziati al ristretto, sia obbligatoria quando l’acquisto riguardi partecipazioni di controllo o comunque «rilevanti». Ed è facile intuire che quest’ultima norma ha inciso profondamente sul diritto delle società con azioni quotate, soprattutto sotto il profilo della circolazione delle partecipazioni e, quindi, sulle regole per l’acquisizione del controllo su questa categoria di società. B) L’ordinamento dell’intermediazione mobiliare era largamente lacunoso e, per certi profili, schizofrenico. Non esisteva alcuna disciplina generale dell’intermediazione mobiliare, lasciata, pertanto, al diritto comune; l’unico tipo di intermediario disciplinato era rappresentato dagli agenti di cambio, ai quali, come già detto, era preclusa ogni attività diversa dalla negoziazione per conto altrui. Non si prevedeva, quindi, alcun controllo su attività di intermediazione naturalmente pericolose e, nello stesso tempo, si impediva all’unica figura di intermediario regolamentata l’esercizio di attività come quella di negoziazione per proprio conto, di consulenza o di gestione dei patrimoni mobiliari, mentre l’esperienza di altri ordinamenti aveva dimostrato che solo l’esercizio congiunto di una pluralità di attività di intermediazione mobiliare consente lo sviluppo di intermediari mobiliari efficienti. A questa situazione, ad un tempo di assurdo lassismo e ingiustificato rigore, che caratterizzava il nostro ordinamento dell’intermediazione mobiliare, pose rimedio la legge 2 gennaio 1991, n. 1. Questa stabilì: 1. che le attività di intermediazione mobiliare potessero essere esercitate solo da soggetti a tal fine autorizzati (Sim, banche e società fiduciarie); 2. che uno stesso intermediario avrebbe potuto esercitare congiuntamente tutte le attività di intermediazione mobiliare, nel rispetto, per altro, di regole dirette ad eliminare o contenere i conflitti di interesse che
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potessero sorgere dal fatto che un soggetto svolgesse ad un tempo più attività; 3. che le attività di intermediazione fossero sottoposte alla stessa disciplina indipendentemente dal soggetto (banche o Sim) che le esercitasse; 4. che sugli intermediari insistesse una vigilanza diretta ad assicurarne sia la correttezza dei comportamenti sia la stabilità. C) Il nostro ordinamento conosceva un solo tipo di investitore istituzionale: il fondo comune di investimento mobiliare aperto, disciplinato dalla legge n. 77 del 1983. Nei primi anni Novanta vengono introdotte le altre categorie di investitori, già noti alla massima parte degli altri paesi. 1. La legge 14 agosto 1993, n. 344 disciplina i fondi comuni di investimento mobiliare chiusi, organizzati sulla base di un modello giuridico sostanzialmente analogo a quello adottato per i fondi aperti (società di gestione, fondo, banca depositaria), ma con una funzione economica diversa: il risparmiatore, infatti, non può chiedere la liquidazione dell’investimento prima che sia decorso un termine normalmente protratto (per lo più di 5 anni). Il che consente alla società di gestione di un fondo chiuso di operare investimenti meno attenti alla loro liquidabilità di quanto debbano esserlo gli investimenti di un fondo aperto. 2. Il D.Lgs. 25 gennaio 1992, n. 84 disciplina le società di investimento a capitale variabile (SICAV), ossia un tipo di investitore istituzionale nel quale, a differenza di quanto si verifica per i fondi comuni, il risparmiatore è socio della società di gestione, anche se, come avremo modo di constatare, il modello societario risulta, sotto il profilo della gestione, notevolmente modificato. Dal punto di vista economico le SICAV si collocano in una situazione analoga a quella dei fondi aperti: il socio può chiedere in ogni momento la liquidazione della sua quota; il che impone alla SICAV la stessa attenzione per la liquidità che caratterizza il fondo comune aperto. 3. Il D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124 (poi profondamente modificato dalla legge 9 agosto 1995, n. 335 di riordino del sistema pensionistico) introduce finalmente una disciplina della previdenza integrativa per la cui concreta realizzazione ha previsto un particolare modulo organizzativo: quello del fondo pensione. I fondi pensione possono essere annoverati fra gli investitori istituzionali di mercato mobiliare soprattutto se si tiene presente l’esperienza dei mercati anglosassoni. Qui essi hanno rapidamente assunto il ruolo di grandi investitori in titoli emessi dalle società quotate, nelle quali hanno
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acquisito un ruolo di grande rilievo anche per quanto concerne la gestione. Secondo la disciplina italiana essi possono investire il risparmio previdenziale anche in valori mobiliari affidando la relativa gestione ad un intermediario professionale (banca, Sim, Società di gestione di un fondo comune). 4. Infine la legge 25 gennaio 1994, n. 86 disciplina i fondi comuni di investimento immobiliare, costruiti sul modello organizzativo degli altri fondi comuni, ma destinati ad operare nel settore degli investimenti immobiliari: il che rende del tutto eventuale la loro natura di intermediario mobiliare, essendo la stessa configurabile solo quando l’investimento abbia per oggetti i titoli emessi da società operanti in quel settore e non anche quando l’investimento avvenga tramite acquisto diretto di immobili. D) Il nostro ordinamento conosceva tre tipi di mercati mobiliari regolamentati, le Borse Valori, i Mercati ristretti e il Mercato secondario all’ingrosso dei titoli di stato, ma non possedeva una disciplina generale di tale categoria di mercati. La legge n. 1 del 1991, nel suo Titolo II, detta una serie di norme «sull’organizzazione dei mercati mobiliari» che possono rappresentare quanto meno un inizio di una siffatta disciplina generale. Essa infatti prevede: a) che la Consob possa istituire altri mercati regolamentati aventi per oggetto la negoziazione dei titoli non quotati in Borsa e non negoziati al Mercato ristretto; b) che il Ministro del Tesoro possa istituire e disciplinare mercati aventi ad oggetto titoli di Stato; c) che la Consob possa istituire mercati di prodotti derivati collegati ai titoli azionari e che il Ministro del Tesoro possa istituire mercati degli stessi prodotti derivati ma collegati a titoli di Stato. E di questi poteri sia la Consob sia il Ministro del Tesoro hanno fatto uso per istituire quest’ultimo tipo di mercati, come avremo modo di verificare in seguito. E) A ben vedere appartengono alla disciplina dei mercati regolamentati anche le norme sull’insider trading introdotte nel nostro ordinamento con la legge 17 maggio 1991, n. 157. Questa infatti punisce l’uso di informazioni riservate per l’acquisto o la vendita di valori mobiliari solo quando questi ultimi siano negoziati su mercati regolamentati. F) Un’incidenza piuttosto limitata ha invece avuto sulla disciplina del mercato mobiliare il Testo Unico delle norme in materia creditizia ema-
13. Le direttive Eurosim
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nato con il D.Lgs. 1° settembre 1993, n. 385, che pure ha profondamente modificato la disciplina del segmento bancario del mercato finanziario. La norma più significativa è quella contenuta nell’art. 129 che ridisciplina in modo sistematico l’accesso al mercato mobiliare primario.Sono immaginabili, per altro, i riflessi sul mercato mobiliare delle nuove libertà concesse alle banche e, in particolare, della possibilità, per le stesse, di assumere partecipazioni, sia pure di minoranza, nelle imprese: questa norma fa delle banche un potenziale investitore istituzionale, sottolineandone così un nuovo ruolo, che le stesse possono svolgere sul mercato mobiliare, e che si aggiunge a quello tradizionale di intermediario per la collocazione dei valori mobiliari presso il pubblico dei risparmiatori.
13. Le direttive Eurosim Con D.Lgs. 23 luglio 1996, n. 415 è stata data attuazione alle direttive comunitarie (del 10 maggio 1993, n. 93/22 e del 15 marzo 1993, n. 93/6: note anche come direttive Eurosim) che imponevano l’armonizzazione minima delle discipline nazionali dei servizi d’investimento (o di intermediazione mobiliare, nella terminologia della legge n. 1 del 1991) a sua volta necessaria per dare concreta applicazione al principio del mutuo riconoscimento delle autorizzazioni nazionali all’esercizio di tali servizi. Ed in effetti il decreto, in conformità con i principi fissati dalla legge delega contenuta nella legge comunitaria 1994 (art. 21, legge 6 febbraio 1996, n. 52), ridisciplinava le attività di intermediazione mobiliare già regolate dalla legge n. 1 del 1991 e sanciva il principio secondo il quale le imprese di investimento autorizzate in un paese della Comunità possono operare anche negli altri paesi, rimanendo, per altro, sottoposte alla vigilanza del paese d’origine. Ma l’apporto di questo decreto alla costruzione dell’ordinamento del mercato mobiliare non consiste tanto nella ridefinizione della disciplina degli intermediari mobiliari, quanto nella introduzione di una disciplina dei mercati regolamentati. Si abbandona il modello, da sempre adottato dal nostro ordinamento, del mercato regolamentato come pubblico servizio per abbracciare, compiutamente, il modello anglosassone che considera il mercato regolamentato come un’organizzazione che nasce non da una decisione dell’autorità ma da scelte imprenditoriali degli intermediari per poter esercitare in modo più efficiente l’attività di negoziazione. Un modello che vede nei mercati regolamentati altrettante impre-
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se, la cui organizzazione e la cui attività sono essenzialmente rimesse agli intermediari, sia pure sotto il controllo delle autorità di vigilanza del mercato mobiliare.
14. Il Testo Unico dell’intermediazione finanziaria del 1998 A) Come si è già ricordato, la tumultuosa produzione legislativa degli ultimi anni aveva consentito all’Italia di avere un ordinamento del mercato mobiliare sostanzialmente all’altezza di quello degli altri paesi, ma aveva anche determinato disarmonie fra le varie parti delle quali lo stesso si era venuto arricchendo. La legge comunitaria del 1994 (legge 6 febbraio 1996, n. 52) delegò il Governo ad emanare entro il febbraio 1998 un Testo Unico delle norme in tema di intermediari e mercati finanziari e mobiliari; Testo Unico che aveva appunto il compito di risolvere i problemi di coordinamento e di armonizzazione che ponevano le molteplici discipline che componevano l’ordinamento del mercato mobiliare. Ma il governo veniva altresì delegato a modificare la disciplina relativa alle società con azioni quotate sui mercati regolamentati e ad introdurre norme che «rafforzassero la tutela del risparmio e degli azionisti di minoranza» (cfr. art. 21, 4° comma) in materia di collegio sindacale, poteri delle minoranze, sindacati di voto e rapporti di gruppo. Diventava così possibile ridisegnare almeno in parte lo statuto speciale delle società quotate, rendendolo coerente con la natura di società aperte al pubblico risparmio che le stesse necessariamente presentano. E risultava sottolineata, ancora una volta, la profonda connessione che esiste fra disciplina del mercato mobiliare, in specie di quelli regolamentati, e disciplina delle società che su quel mercato raccolgono il risparmio necessario per la loro attività. Sulla base dei lavori preparatori svolti dalla Commissione Draghi (dal nome del prof. Mario Draghi che la presiedeva) il Governo ha emanato, con D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, il Testo Unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria. Rinviando al seguito di questo lavoro l’esame analitico delle disposizioni del Testo Unico, è comunque opportuno segnalare qui alcune delle principali innovazioni dallo stesso Testo Unico introdotte nel nostro ordinamento. B) A ben vedere la novità più significativa riguarda proprio la disciplina delle società emittenti titoli sui mercati regolamentati («società
14. Il Testo Unico dell’intermediazione finanziaria del 1998
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con azioni quotate»). Il Testo Unico ha, infatti, introdotto norme che attribuiscono ai soci che raggruppano una frazione «consistente» del capitale sociale notevoli poteri di controllo sui gestori e di reazione nei confronti di comportamenti non corretti della maggioranza; norme che cercano di favorire la vitalità delle assemblee attraverso strumenti (le deleghe di voto) che facilitano la raccolta della volontà dei soci; che tendono ad assicurare maggior indipendenza al collegio sindacale (prevedendo il necessario concorso delle minoranze alla nomina dei sindaci) e a renderne più penetranti i poteri di controllo. E il rafforzamento dei poteri di controllo sono stati strutturati in modo da consentirne l’utilizzazione soprattutto da parte degli investitori istituzionali che, in considerazione delle loro dimensioni e delle loro competenze, possono effettivamente valorizzare strumenti di «democrazia societaria» non accessibili ai piccoli azionisti dispersi. Le norme dirette ad assicurare correttezza di comportamento ed efficienza agli intermediari mobiliari in genere, e agli investitori istituzionali in specie, mostrano così la loro capacità di contribuire anche alle corretta gestione delle società quotate. C) Ma il Testo Unico contiene anche altre significative novità. Anzitutto sotto il profilo della «delegificazione» della disciplina. Molte delle norme precedenti (ed in particolare la legge n. 1 del 1991) prevedevano discipline di dettaglio (quasi regolamentari) per le imprese di investimento e per gli investitori istituzionali. Il Testo Unico si limita a fissare le linee generali di quella disciplina e rimette le norme di dettaglio alle autorità di vigilanza (Consob e Banca d’Italia), introducendo così, sia pure nell’ambito di norme che garantiscano la riserva di legge posta a tutela dell’iniziativa privata, una disciplina dotata della necessaria elasticità. Il che, come vedremo, si è verificato soprattutto per i fondi comuni di investimento. È stata poi particolarmente valorizzata l’autonomia statutaria e gestionale sia degli intermediari sia delle società emittenti i titoli quotati sui mercati regolamentati e con riferimento ai primi, è stato riconosciuto un ruolo importante alla loro capacità di self-regulation, sia pure sottoposta all’alta vigilanza delle autorità di controllo. D) Tra le innovazioni «di merito» più significative pare opportuno segnalare, fin d’ora, le seguenti. La legge n. 216 del 1974 nel dettare le norme generali in tema di appello al pubblico risparmio, non distingueva le offerte dirette a provocare l’investimento (vendita e sottoscrizione) in valori mobiliari da quelle
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che sollecitano il pubblico al disinvestimento (acquisto o scambio): il Testo Unico detta discipline separate per «la sollecitazione all’investimento» (artt. 94-101) e per «le offerte pubbliche di acquisto e scambio» (artt. 102-122), prevedendo per le prime un regime di maggior protezione del risparmiatore. Profondamente modificate sono state anche le norme sulle offerte pubbliche di acquisto obbligatorie (artt. 105-112); norme che risultano, nei confronti di quelle previgenti, notevolmente «delegificate», più attente agli interessi della società target (attraverso un contenimento della passivity rule) e, probabilmente, meno penalizzanti per i mutamenti proprietari che, pur incidenti sul controllo, non superino la soglia (trenta per cento del capitale) che determina l’obbligo di offerta. Ancora, è opportuno ricordare già qui le modificazioni intervenute nella gestione del risparmio. È stata introdotta una nuova figura di investitore istituzionale: la società di gestione del risparmio (art. 33 ss.) alla quale è consentita sia la gestione in monte (fondi comuni) sia la gestione di portafogli di investimento (gestioni personalizzate), superando così il divieto, preesistente nel nostro ordinamento, per le società di gestione dei fondi di prestare anche il servizio delle gestioni personalizzate. Ma su tutti questi punti torneremo più innanzi in termini analitici. Qui è forse opportuno ricordare ancora due interventi del legislatore, solo richiamati dal Testo Unico, ma che hanno poi ricevuto specifiche ed autonome discipline e che tendono a favorire, anche sul piano ordinamentale, lo sviluppo del mercato mobiliare. Il D.Lgs. 24 giugno 1998, n. 213, accanto ad una serie di regole destinate ad accompagnare l’introduzione dell’Euro nell’ordinamento italiano, detta importanti norme (artt. 28-46) in tema di «dematerializzazione» degli strumenti finanziari negoziati sui mercati regolamentati; norme che non solo determinano la morte delle azioni come documento cartaceo, ma incidono notevolmente anche sulle regole della gestione accentrata dei titoli. Non meno importante è infine la disciplina della cartolarizzazione dei crediti, introdotta nel nostro ordinamento dalla legge 30 aprile 1999, n. 130 che, nel momento in cui favorisce la «trasformazione» dei crediti d’impresa in titoli, crea un nuovo oggetto per l’investimento del risparmio e quindi contribuisce allo sviluppo del mercato mobiliare. Infine, con il D.Lgs. 17 agosto 1999, n. 299 è stata consentita la conversione di una parte del trattamento di fine rapporto dei lavoratori dipendenti delle società quotate in titoli destinati ai fondi pensione e, come è evidente, si tratta di un altro intervento normativo diretto a favorire il decollo di questa importante categoria di investitori istituzionali.
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15. Dopo il Testo Unico della finanza Gli interventi normativi verificatisi dopo il Testo Unico della Finanza, possono essere suddistinti in: a) interventi di riforma del diritto societario italiano; b) interventi di attuazione di direttive comunitarie e c) interventi considerati necessari per contrastare il ripetersi degli «scandali» finanziari che hanno caratterizzato i primi anni 2000 e che hanno gravemente pregiudicato il risparmio diffuso; interventi che sono sfociati, sul piano normativo, nella legge 28 dicembre 2005, n. 262. A) Le riforme del diritto societario hanno riguardato sia le norme penali sia quelle civili. Già il D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 61, aveva profondamente modificato il diritto penale societario muovendosi lungo tre direttrici: a) aveva decisamente ridotto l’ambito degli illeciti penali (ad es. in materia di falso in bilancio o in prospetto); b) aveva individuato il bene protetto dalla norma penale non nell’interesse pubblico al buon funzionamento del mercato ma nell’interesse ad evitare, da parte di singoli investitori, puntuali danni patrimoniali; c) aveva dettato discipline notevolmente differenziate per le società quotate e per quelle che, pur facendo ricorso al mercato dei capitali, non hanno le proprie azioni negoziate in mercati regolamentati. La norma limitava così, e in termini piuttosto decisi, l’ambito di applicazione della sanzione penale. Sull’onda degli scandali appena ricordati, da molte parti si era insistito sulla necessità di ripristinare la tutela penale assicurata prima di quella riforma. Sul punto la battaglia anche politica fu aspra. Ma alla fine, ossia con la legge n. 262 del 2005, nonostante qualche incremento delle sanzioni, le linee di politica criminale accolte dal D.Lgs. n. 61 del 2002 sono state conservate ed è stato, quindi, riconfermato il ridimensionamento della tutela penale, nel momento in cui altri ordinamenti, come quello americano, ne accentuavano il ruolo. Il D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, ha varato una «riforma organica della disciplina delle società di capitali e società cooperative» e il D.Lgs. 6 febbraio 2004, n. 37, ha introdotto una serie di modifiche alle disposizioni del Testo Unico per adeguare quest’ultimo al nuovo diritto societario. Naturalmente queste modificazioni hanno interessato soprattutto il governo degli emittenti, anche se le linee di fondo del Testo Unico non sembrano essere state poste in discussione. Su due possibili effetti che la riforma societaria potrà avere sul mercato mobiliare merita già qui attirare l’attenzione: a) è stata introdotta una nuova e più rigida disciplina del-
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le società che, pur non essendo quotate, hanno azioni diffuse fra il pubblico in misura rilevante (ma questo allineamento è stato attenuato dalla legge n. 262 del 2005 che ha dettato per le quotate norme che non si applicano alle società «aperte» ma non quotate); b) è stata consentita all’autonomia statutaria una grande libertà nel delineare i contenuti patrimoniali e amministrativi delle azioni e delle obbligazioni e nella eventuale creazione di strumenti ibridi diretti ad acquisire sia capitale di rischio sia capitale di debito, con possibile arricchimento della gamma di strumenti e prodotti finanziari negoziabili, purché adeguatamente tipizzati, sul mercato mobiliare. Infine il D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, aveva disegnato una nuova disciplina del processo per le vertenze relative ai rapporti societari e a quelli in materia di intermediazione mobiliare, senza, per altro, prevedere che le stesse fossero riservate a giudici specializzati, come pur si auspicava da molte parti; nuova disciplina del processo che, dopo aver dato una negativa prova di sé, è stata abrogata dalla legge 18 giugno 2009, n. 69. B) In attuazione della direttiva comunitaria 28 gennaio 2003, n. 2003/6, la legge 18 aprile 2005, n. 62 ha introdotto una nuova disciplina (artt. 180 ss.) dell’abuso di informazioni privilegiate (insider trading) e della manipolazione del mercato ed ha anche potenziato i poteri che Consob può esercitare per prevenire e reprimere le relative condotte criminose. Il Regolamento (CE) n. 809/2004 del 29 aprile 2004, emanato in esecuzione della direttiva 2003/71 e che ha dettato norme in materia di prospetti informativi dirette ad assicurare a questi ultimi una maggiore capacità informativa, aveva trovato una prima concreta attuazione nel nostro ordinamento attraverso l’adeguamento allo stesso del Regolamento Emittenti da parte di Consob. L’incidenza del diritto comunitario sull’ordinamento del nostro mercato mobiliare è andata crescendo negli ultimi anni. Nel corso del 2007 hanno trovato attuazione nel nostro ordinamento ben quattro direttive, tutte di grande importanza. Così il D.Lgs. 28 marzo 2007, n. 51 ha dato più compiuta attuazione alla direttiva 4 novembre 2003, 2003/71, già in parte anticipata dal regolamento Consob, in materia di prospetti da pubblicare per le offerte pubbliche e per l’ammissione ai mercati regolamentati; il D.Lgs. 17 settembre 2007, n. 164 ha dato attuazione alla direttiva 21 aprile 2004, 2004/39 in materia di servizi di investimento (Markets in Financial Instruments Directive, MIFID) modificando profondamente la previgente disciplina di tali servizi; il D.Lgs. 6 novembre 2007, n. 195 ha dato attuazione alla direttiva 15 dicembre 2004, 2004/109 riguardante le informazioni che gli
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emittenti quotati in un mercato regolamentato debbono rendere pubbliche (transparency); il D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 229 ha recepito la direttiva 21 aprile 2004, 2004/25, concernente le offerte pubbliche di acquisto, modificando la relativa disciplina dettata dal T.U. Questa tendenza ha trovato conferma anche negli anni più recenti. Così il D.Lgs. 27 gennaio 2010, n. 27 ha dato attuazione alla direttiva 2007/36 dell’11 luglio 2007 che ha rafforzato i diritti degli azionisti di società quotate e il D.Lgs. 27 gennaio 2010, n. 39 ha dato attuazione alla direttiva 2006/43 del 17 maggio 2006 in materia di controllo legale dei conti. La crescente importanza delle direttive di armonizzazione, ha acceso la discussione sul loro ruolo nella costruzione di un unico mercato finanziario europeo. Sul punto val la spesa fermare l’attenzione. Lo scopo delle direttive di armonizzazione è quello di favorire la creazione di un mercato finanziario unico, ma non un mercato qualsiasi, bensì un mercato stabile ed efficiente. Le ragioni non vanno, dunque, cercate soltanto nella volontà di favorire la libertà di circolazione dei capitali, ma anche in quella di porre rimedio, per quanto possibile, ai fallimenti del mercato. Non facile è la individuazione del rapporto ottimale fra regolamentazione comunitaria e regolamentazione nazionale. Il criterio fondamentale per stabilire quanto di regolamentazione comunitaria sia necessario introdurre e quanto debba essere lasciato alle discipline nazionali degli stati membri dovrebbe essere quello della sussidiarietà (art. 5 del Trattato), ossia è necessario affidare alla disciplina comunitaria soltanto ciò che può assicurare al mercato comunitario un grado di efficienza e di stabilità superiore a quello che si realizzerebbe lasciando una certa materia alle discipline nazionali. E non si può stabilire a priori quale sia, nelle singole ipotesi, la distribuzione ottimale delle competenze. Non v’è dubbio che l’armonizzazione nei limiti in cui viene imposta, riduca la concorrenza fra ordinamenti ma tale concorrenza non è un fine ma un mezzo. Naturalmente è necessario che l’armonizzazione comunitaria non si traduca in una modificazione non giustificata delle peculiarità degli ordinamenti nazionali, ma è un pericolo che una corretta applicazione del principio di sussidiarietà dovrebbe evitare. Così come si dovrà evitare che l’ordinamento comunitario rimanga preda degli interessi dell’industria finanziaria di alcuni paesi soltanto. Le differenze regolamentari in Europa sono ancora fortissime e le stesse hanno sicuramente ostacolato la formazione di quel mercato. E le differenze rimarranno accentuate in materie che incidono fortemente sul-
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l’ordinamento del mercato finanziario (dal diritto societario, al diritto dei contratti, ai sistemi giudiziari). Ma, soprattutto, manca, nonostante la creazione dell’European Securities and Markets Authority-ESMA, sulla quale tornerò fra un attimo, un’autorità di controllo comunitaria e questa mancanza finisce per vanificare direttive di armonizzazione costruite solo su clausole generali, come tali destinate a essere applicate in modo difforme dalle autorità di vigilanza e dalle autorità giudiziarie dei vari paesi. La mancanza di un sistema comune di enforcement impone un grado di analiticità delle direttive di armonizzazione che potrebbe essere minore se quel sistema esistesse. Nel recepire questo complesso di direttive, il legislatore nazionale ha visto notevolmente compresso il proprio ruolo (se si esclude la disciplina delle offerte pubbliche), spesso limitato alla traduzione quasi letterale delle disposizioni comunitarie, mentre è ulteriormente cresciuta l’importanza normativa della Consob e della Banca d’Italia. Negli ultimi anni hanno così subito forti modificazioni e notevoli accrescimenti i Regolamenti Consob in materia di Emittenti (delibera n. 11971 del 14 maggio 1999 e successive modificazioni: Regolamento Emittenti); di Mercati (delibera n. 11768 del 23 dicembre 1998 e successive modificazioni e delibera 29 ottobre 2007 n. 16191 che ha abrogato parte della delibera 11768: Regolamenti Mercati) e di Intermediari (delibera 16190 del 29 ottobre 2007; Regolamento Intermediari). In quest’ultima data Consob e Banca d’Italia hanno emanato il regolamento congiunto, previsto dall’art. 6, comma 2°-bis del T.U.F. e di grande rilevanza per l’organizzazione degli intermediari («Regolamento congiunto»). Tutto ciò consente di individuare nelle direttive comunitarie e nei regolamenti di vigilanza, il nucleo forte della disciplina del mercato mobiliare. C) Come si accennava, nel 2002-2003, si è verificato il crollo di un paio di grandi gruppi italiani (Cirio, Parmalat) con grande pregiudizio del risparmio diffuso, già colpito anche in altri sistemi economici (es. il caso Enron negli Stati Uniti). Quei crolli hanno messo in luce a) le carenze nell’ordinamento del governo societario e, in particolare, l’incapacità degli organi di controllo societario di svolgere la propria funzione; b) i clamorosi conflitti di interesse che si concretizzano nell’ambito della polifunzionalità degli intermediari (le banche collocano titoli spazzatura per diminuire la propria esposizione nei confronti degli emittenti di quei titoli); c) un sistema di vigilanza sul mercato (Consob, Banca d’Italia, Società di gestione dei mercati) che mostra consistenti inadeguatezze.
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Su tutti questi punti furono presentati molti progetti di riforma (dal dicembre 2003 al febbraio 2004) che si proponevano di far fronte alle «crepe» che l’ordinamento aveva mostrato e alle quali si addebitavano quei crolli. Ma quei progetti prevedevano anche interventi che probabilmente non erano giustificati da quei propositi, ma che cercavano di modificare decisamente l’assetto delle Autorità di vigilanza e, in particolare, tendevano a ridimensionare il ruolo della Banca d’Italia. Si è accesa così una battaglia politica che ha paralizzato per lungo tempo l’iter della riforma. Nel corso del 2005 alcune vicende relative a scalate bancarie hanno portato alle dimissioni del Governatore della Banca d’Italia (Antonio Fazio) e si è così attenuata la resistenza a riforme che riguardano anche la Banca d’Italia. Nel dicembre del 2005, in limine mortis della legislatura, è stata approvata, in un testo blindato (che ha imposto per la sua cattiva fattura la riscrittura di molte sue norme da parte del D.Lgs. 29 dicembre 2006, n. 303: «decreto correttivo») dalla maggioranza parlamentare, la legge «per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari» (n. 262 del 2005). È una legge che contiene una quantità disparata di disposizioni; disposizioni che riguardano sia l’ordinamento bancario sia quello del mercato mobiliare, sia il diritto degli emittenti sia la disciplina degli intermediari. Noi esamineremo analiticamente solo le norme che appartengono all’ordinamento del mercato mobiliare. Una valutazione d’insieme può, tuttavia, essere giustificata anche in questa sede. È una legge che rafforza il potere delle minoranze, che cerca di contenere i conflitti di interesse, senza inutili nostalgie per le banche e gli intermediari non polifunzionali, ma che introduce anche meccanismi che possono incidere sull’indipendenza delle Autorità di vigilanza e che lascia penalmente impunite condotte che possono minare la trasparenza degli emittenti e, quindi, l’efficienza dei mercati, con pregiudizio proprio di quel risparmio che si propone di tutelare. D) A partire dell’estate del 2007, la «finanza globalizzata» ha conosciuto una profondissima crisi che ha coinvolto i sistemi finanziari di tutti i paesi più industrializzati, provocando un forte abbassamento dei corsi dei titoli e fra questi delle azioni quotate. I legislatori nazionali si sono preoccupati di fronteggiare possibili acquisizioni del controllo di società favorite dalla depressione delle quotazioni, in un’ottica sostanzialmente protezionista del proprio apparato industriale. Anche il nostro ordinamento ha introdotto alcune misure che possono
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rivelarsi utili, per gli attuali detentori del controllo societario, per difendersi dagli attacchi diretti a modificare gli assetti proprietari esistenti. 1. In questa prospettiva l’art. 13 del D.L. 29 novembre 2008, n. 185, convertito con legge 28 gennaio 2009, n. 2 ha subordinato ad una previsione statutaria l’applicazione sia della passivity rule, consentendo in assenza di tale previsione agli amministratori di adottare quelle difese, nei confronti di offerte pubbliche di acquisto «ostili», che prima dovevano necessariamente essere disposte dall’assemblea dei soci, sia della regola di neutralizzazione, che, in coincidenza con un’offerta pubblica, consente di abbassare alcuni strumenti di difesa, come i patti parasociali e i limiti al diritto di voto e alla partecipazione sociale. Pochi mesi dopo, tuttavia, il D.Lgs. 25 settembre 2009, n. 146 ha abrogato, sia pure a partire dal 1° luglio 2010, la norma che subordinava alla previsione statutaria l’applicazione della passivity rule, mentre ha conservato la regola secondo la quale il principio di neutralizzazione si applica soltanto quando lo stesso sia previsto dallo statuto della società. 2. A sua volta l’art. 7 della legge 9 aprile 2009, n. 33, che ha convertito il D.L. 10 febbraio 2009, n. 5, ha attribuito alla Consob il potere di imporre, per «esigenze di tutela degli investitori nonché di efficienza e trasparenza del mercato del controllo societario e del mercato dei capitali, sia pure soltanto per un periodo limitato», soglie di trasparenza per le partecipazioni in società quotate inferiori al limite del 3% del capitale, come prevede la regola generale dettata dall’art. 120, 2° comma del T.U.F. In tal modo si rende più difficile, per un eventuale scalatore, acquisire, senza darne comunicazione al mercato, posizioni importanti dalle quali poi sferrare l’attacco al controllo. 3. L’art. 46 del Regolamento Emittenti della Consob, dando attuazione all’art. 106 del T.U.F., stabiliva che fosse tenuto a lanciare un’offerta pubblica di acquisto totalitaria chi, possedendo più del 30% del capitale sociale, ma non la maggioranza dei diritti di voto nell’assemblea ordinaria, avesse acquistato nel corso di un anno più del 3% di tali azioni. L’art. 7 della legge 9 aprile 2009, n. 33 ha elevato quest’ultima soglia al 5%, rafforzando così gli attuali assetti di controllo nei confronti di potenziali contendenti. 4. La stessa legge n. 33 del 2009 ha modificato l’art. 2357, 3° comma, c.c., elevando, per le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, l’ammontare delle azioni proprie acquisibili dal 10 al 20% del capitale sociale, favorendo così eventuali manovre difensive, realizzate attraverso la riduzione del flottante.
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Sono tutti interventi che limitano la contendibilità del controllo societario e che si muovono in una prospettiva opposta a quella adottata dal Testo Unico del 1998. 5. La crisi finanziaria di questi ultimi anni non ha determinato modifiche significative del nostro ordinamento del mercato mobiliare; in particolare non ha portato alla riforma dell’architettura della vigilanza. Sulla stessa potrà avere notevole rilevanza l’attività dell’ESMA (European Securities and Markets Authority, in italiano AESFEM, Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati), istituita con il regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio n. 1095/2010 del 24 novembre 2010 che, pur centralizzando a livello europeo, al momento soltanto la vigilanza diretta sulle agenzie di rating (Regolamento UE n. 513 del 2011) e sui repertori dei dati di negoziazione in derivati (Regolamento UE n. 648 del 2012), ha affidato a questa nuova autorità il compito di predisporre la regolamentazione di “secondo livello” da adottarsi dalla Commissione Europea per l’esecuzione delle direttive e dei regolamenti di “primo livello” adottati dal parlamento Europeo e dal Consiglio in questa materia e di assicurare un’interpretazione e un’applicazione uniformi nei vari paesi membri delle regole europee dettate per il mercato mobiliare (c.d. “Single Rulebook”). 6. Negli ultimi anni ha visto forti modificazioni e un’importanza crescente l’ordinamento comunitario. a) È stata approvata la direttiva 2014/65 del 15 maggio 2014 (MIFID 2), che ha modificato la precedente direttiva MIFID e che è stata attuata nel nostro ordinamento dal D.Lgs. 3 agosto 2017, n. 129, destinata a trovare applicazione dal 3 gennaio 2018, e che ha come oggetto lo statuto delle imprese di investimento. E sul punto è stato approvato anche il Regolamento 15 maggio 2014, n. 600 (MIFIR), applicato a partire dal 3 gennaio 2017. b) Sono stati approvati il Regolamento comunitario 16 aprile 2014, n. 596 (MAR) e la direttiva 16 aprile 2014, n. 57 (MAD) attuata nel nostro ordinamento dal D.Lgs. 14 novembre 2016, n. 224 in materia di abusi di mercato (insider e manipolazione). Nel 2015 sono stati poi pubblicati dalla Commissione Europea, dapprima, nel febbraio 2015 un importante “libro verde” sull’instaurazione dopo la Unione Bancaria, anche di una Unione dei Mercati dei Capitali (Capital Markets Union c.d. CMU) e quindi nel settembre 2015, un dettagliato “Piano di azione” per la CMU (da completarsi entro il 2019). Tale piano elenca in dettaglio una molteplicità di azioni anche di carattere legislativo, che sono o saranno intraprese dalle istituzioni europee
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al fine di assicurare il superamento dell’attuale frammentazione del mercato dei capitali in Europa. Una prima iniziativa è sfociata nel Regolamento Prospetti del 2017 (Regolamento 14 giugno 2017, n. 1129) destinato ad entrare in vigore nel luglio del 2019. Una seconda importante iniziativa consiste nella proposta di Regolamento, presentata dalla Commissione a settembre 2015, che stabilisce norme comuni sulle cartolarizzazioni e istituisce un quadro europeo per cartolarizzazioni semplici trasparenti e standardizzate. 7. Con D.Lgs. 4 marzo 2014, n. 44 è stata data attuazione nel nostro ordinamento alla direttiva 2011/61 dell’8 giugno 2011 che detta la disciplina dei gestori dei fondi di investimento alternativi. 8. Con decreto 24 giugno 2014, n. 91 convertito con modificazioni dalla legge 11 agosto 2014, n. 116 sono state apportate alcune modificazioni all’ordinamento del mercato mobiliare: la più importante di queste è quella relativa alla determinazione della soglia il cui superamento comporta l’obbligo di offerta pubblica totalitaria. Ce ne occuperemo nelle pagine dedicate a quest’ultima.
1. Note introduttive
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Capitolo III
L’appello al pubblico risparmio SOMMARIO: 1. Note introduttive. – 1.1. Ragioni e contenuto della disciplina speciale. – 1.2. I tipi di appello al pubblico risparmio. – 1.3. La nozione di appello al pubblico risparmio. – 1.4. I soggetti coinvolti dall’appello al pubblico risparmio. – 1.5. Appello al pubblico risparmio e forma dei contratti. – 2. L’offerta al pubblico di prodotti finanziari. – 2.1. Comunicazione e prospetto informativo. – 2.2. Il controllo sul prospetto informativo. – 2.3. La pubblicazione del prospetto. – 2.4. Le ipotesi di inapplicabilità totale o parziale della disciplina speciale. – 2.5. Il prospetto di quotazione (rinvio). – 2.6. Il mutuo riconoscimento dei prospetti. – 2.7. Svolgimento dell’offerta e regole di correttezza. – 2.8. Gli annunci pubblicitari. – 2.9. Circolazione dei prodotti finanziari «riservati» agli investitori qualificati. – 2.10. I poteri ispettivi e interdittivi della Consob. – 2.11. Le sanzioni penali e amministrative. – 3. Le offerte pubbliche di acquisto o di scambio. – 3.1. Comunicazione e documento di offerta. – 3.2. Contenuto e svolgimento dell’offerta. Le offerte concorrenti. – 3.3. Il comunicato dell’emittente. – 3.4. Regole di correttezza per i «soggetti interessati». – 3.5. La passivity rule. – 3.6. La regola di neutralizzazione. – 3.7. La clausola di reciprocità. – 4. Le offerte pubbliche di acquisto obbligatorie. – 4.1. L’offerta pubblica di acquisto totalitaria. – 4.1.1. L’acquisto indiretto. – 4.1.2. L’acquisto di concerto. – 4.2. L’acquisto incrementale. – 4.3. Le esenzioni dall’obbligo di offerta totalitaria. – 4.4. L’obbligo di acquisto. – 4.5. Il diritto di acquisto. – 4.6. Le sanzioni per la violazione dell’obbligo di offerta pubblica. – 5. La responsabilità da prospetto. – 6. Le offerte fuori sede. – 7. Il collocamento a distanza. – 8. Il controllo della Banca d’Italia sulla emissione di valori mobiliari.
1. Note introduttive 1.1. Ragioni e contenuto della disciplina speciale La conclusione dei contratti aventi per oggetto prodotti finanziari e che prendano avvio da una proposta (di acquisto, di vendita, di scambio, di sottoscrizione) rivolta al pubblico non viene «abbandonata» alle norme di diritto comune. Il carattere standardizzato della proposta, e della relativa accettazione, impedisce che l’accordo contrattuale scaturisca da un confronto personalizzato tra le parti; il rispetto del principio di buona fede nella con-
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L’appello al pubblico risparmio
clusione del contratto non può essere affidato al riscontro e al contraddittorio dei contraenti, come presuppongono le norme codicistiche. D’altro canto, i prodotti finanziari sono beni dei quali la generalità dei risparmiatori non ha una conoscenza adeguata. Le relative negoziazioni, pertanto, avvengono o possono avvenire, spesso, in condizioni di asimmetria informativa. La correttezza di tali negoziazioni, per altro, è condizione necessaria perché il risparmio trovi, attraverso il mercato mobiliare, la propria allocazione ottima. Solo il concorso di tali circostanze (carattere necessariamente standardizzato delle dichiarazioni contrattuali, naturale opacità dei prodotti finanziari ed essenzialità delle loro negoziazioni) giustifica la disciplina speciale dettata per la conclusione di tali contratti. Essa non troverà, dunque, applicazione quando, pur essendovi una sollecitazione del pubblico risparmio, la stessa tenda alla stipulazione di contratti aventi ad oggetto beni diversi dai prodotti finanziari e neppure quando i contratti, pur avendo ad oggetto tali prodotti, non si radichino in una sollecitazione pubblica. L’individuazione degli interessi coinvolti dalle negoziazioni di massa dei prodotti finanziari consente non solo di definire i presumibili contorni delle fattispecie prese in considerazione dal T.U. n. 58 del 1998 (sollecitazione pubblica e prodotti finanziari), ma anche il contenuto della relativa disciplina: questa dovrà garantire, attraverso norme imperative, un grado di trasparenza che assicuri, comunque, il rispetto del principio di buona fede nella conclusione delle suddette negoziazioni, prevedendo altresì un adeguato sistema di controlli e di sanzioni. È bene precisare subito che la disciplina in questione non si limita ad imporre un particolare grado di trasparenza: essa impone anche particolari regole di comportamento dirette ad assicurare un ordinato andamento delle negoziazioni e, quindi, il corretto funzionamento del mercato. Così, a norma dell’art. 91, 1° comma del T.U., «la Consob esercita i poteri previsti dalla presente parte» [ossia la parte IV dedicata alla disciplina degli emittenti] «avendo riguardo alla tutela degli investitori nonché all’efficienza e alla trasparenza del mercato del controllo societario e del mercato dei capitali» e la parte IV del T.U. disciplina sia l’appello al pubblico risparmio sia le società per azioni quotate. Le regole dettate dalle relative norme impongono doveri di comportamento con riferimento sia all’appello al pubblico risparmio sia alla disciplina delle società quotate ed entrambi i complessi di norme tendono ad assicurare la tutela degli investitori, a sua volta strumentale al buon funzionamento del mercato dei capitali, così come strumentali rispetto a
1. Note introduttive
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quest’ultimo obiettivo sono la trasparenza e l’efficienza del mercato del controllo societario. Tra le regole di condotta, assunte al rango di principio generale, trova una collocazione almeno formalmente privilegiata quella che sancisce il principio di parità di trattamento. Più esattamente l’art. 92 impone questo principio agli emittenti quotati (ossia ai soggetti italiani o esteri che emettono strumenti finanziari quotati nei mercati regolamentanti italiani: cfr. art. 1, 1° comma, lett. w), T.U.F.) e agli emittenti quotati aventi l’Italia come stato membro d’origine [ossia 1) gli emittenti azioni ammesse alle negoziazioni in mercati regolamentati italiani o di altro Stato membro della Comunità europea, aventi sede in Italia; 2) gli emittenti titoli di debito di valore nominale unitario inferiore ad euro mille, o valore corrispondente in valuta diversa, ammessi alle negoziazioni in mercati regolamenti italiani o di altro Stato membro della Comunità europea, aventi sede in Italia; 3) gli emittenti valori mobiliari di cui ai numeri 1) e 2), aventi sede in uno Stato non appartenente alla Comunità europea, per i quali la prima domanda di ammissione alle negoziazioni in un mercato regolamentato della Comunità europea è stata presentata in Italia o che hanno successivamente scelto l’Italia come Stato membro d’origine quando tale prima domanda di ammissione non è stata effettuata in base a una propria scelta; 4) gli emittenti valori mobiliari diversi da quelli di cui ai numeri 1) e 2), aventi sede in Italia o i cui valori mobiliari sono ammessi alle negoziazioni in un mercato regolamentato italiano, che hanno scelto l’Italia come Stato membro d’origine. L’emittente può scegliere un solo Stato membro come Stato membro d’origine. La scelta resta valida per almeno tre anni, salvo il caso in cui i valori mobiliari dell’emittente non sono più ammessi alla negoziazione in alcun mercato regolamentato della Comunità europea: cfr. art. 1, 1° comma, lett. w-quater), T.U.F.] nel momento in cui stabilisce che gli stessi devono assicurare «il medesimo trattamento a tutti i portatori degli strumenti finanziari quotati che si trovano in identiche condizioni»; ma lo stesso principio è riaffermato, in generale, per tutte le ipotesi di sollecitazione alla vendita o alla sottoscrizione (art. 95, 1° comma, lett. d) e per le offerte di acquisto e scambio (art. 103, 1° comma), indipendentemente dalla circostanza che le stesse abbiano ad oggetto strumenti finanziari quotati. La connessione fra il principio di parità di trattamento e l’efficienza del mercato mobiliare può non apparire di immediata evidenza, ma ad uno sguardo appena più attento la stessa può cogliersi nella necessità di eliminare comportamenti che possono, da un lato, minare la credibilità del mercato e, dall’altro, portare a segmentazioni dello stesso che ne com-
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promettono, con la concorrenzialità, l’efficienza. Interesse quest’ultimo che giustifica la compressione dell’autonomia privata e anche la possibilità di adottare scelte che in particolari situazioni potrebbero risultare più efficaci. Ma, ovviamente, la regola che impone di rispettare il principio di parità di trattamento non è l’unica regola di comportamento prevista dal legislatore in materia di appello al pubblico risparmio. Rientrano fra le stesse le norme (sulle quali torneremo più innanzi) che impongono ai soggetti coinvolti regole di correttezza (si vedano gli artt. 95 e 103) e quelle che stabiliscono regole organizzative per lo svolgimento delle offerte al pubblico di sottoscrizione e di vendita e per le offerte di acquisto (ad es.: il lancio di offerte concorrenti o le offerte in aumento: art. 103, 4° comma, lett. d)).
1.2. I tipi di appello al pubblico risparmio Il T.U. n. 58 del 1998 conosce due tipi di «appello al pubblico risparmio» e per ciascuno di essi detta una distinta disciplina: «l’offerta al pubblico di prodotti finanziari», definita nel dettato originario del Testo Unico come «sollecitazione all’investimento», e «l’offerta pubblica di acquisto o di scambio». Definisce la prima come «ogni comunicazione rivolta a persone, in qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo, che presenti sufficienti informazioni sulle condizioni dell’offerta e dei prodotti finanziari offerti così da mettere un investitore in grado di decidere di acquistare o di sottoscrivere tali prodotti finanziari, incluso il collocamento tramite soggetti abilitati» (cfr. art. 1, 1° comma, lett. t), T.U.F. e art. 34-ter Regolamento Emittenti). Definisce la seconda come «ogni offerta, invito a offrire o messaggio promozionale, in qualsiasi forma effettuati, finalizzati all’acquisto o allo scambio di prodotti finanziari e rivolti a un numero di soggetti e di ammontare complessivo superiori a quelli indicati nel Regolamento previsto dall’art. 100, 1° comma, lettere b) e c)», ossia ad un numero di soggetti almeno pari a 150 e per un ammontare pari o superiore a 5.000.000 di euro (cfr. art. 1, 1° comma, lett. v), T.U.F. e art. 34-ter del Regolamento Emittenti). Le due specie di appello al pubblico risparmio hanno un contenuto economico profondamente diverso. Nell’offerta al pubblico di prodotti finanziari agli oblati viene proposto di trasferire all’offerente una somma di danaro in cambio di prodotti finanziari già sul mercato (offerta pubblica di vendita) o da immettere sul mercato (offerta pubblica di sottoscrizione), nell’offerta pubblica di acquisto o scambio viene proposto
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agli oblati di ricevere danaro in cambio dei prodotti finanziari dagli stessi posseduti (offerta pubblica d’acquisto) o di ricevere altri prodotti finanziari in cambio di quelli che l’offerente si impegna ad acquistare (offerta pubblica di scambio). Delle due categorie d’offerta la prima presenta un grado di «pericolosità» per il pubblico dei risparmiatori maggiore della seconda, perché il risparmiatore trasferisce un valore certo (la somma di danaro) in cambio di un prodotto finanziario di valore non altrettanto certo; nel secondo caso il risparmiatore riceve una prestazione certa (la somma di danaro) in cambio di un prodotto finanziario di più incerto valore (offerta di acquisto) o quanto meno opera uno scambio fra beni di valore non certo (offerta di scambio). E di questa diversa pericolosità per il risparmiatore il Testo Unico tiene conto prevedendo per le offerte di vendita e di sottoscrizione, controlli più stringenti per l’offerente. Infatti la pubblicazione del prospetto informativo relativo ad un’offerta di vendita o di sottoscrizione deve essere preventivamente ed esplicitamente autorizzata («approvata») dalla Consob, mentre tale specifica autorizzazione non è richiesta per la pubblicazione di un documento d’offerta di acquisto o scambio. In questo secondo caso il documento deve essere soltanto comunicato alla Consob, che può, per altro, pretendere che vengano fornite al pubblico informazioni ulteriori a quelle indicate dall’offerente e, trascorso il termine entro il quale la Consob deve approvarlo, «il documento d’offerta si considera approvato» (art. 102, 4° comma, T.U.F.). Solo in questo secondo caso vale il principio del silenzioassenso.
1.3. La nozione di appello al pubblico risparmio A) Abbiamo ricordato che la disciplina dell’appello al pubblico risparmio trova applicazione soltanto quando oggetto dell’appello siano prodotti finanziari, l’appello abbia un particolare contenuto e sia rivolto al pubblico. Abbiamo anche chiarito cosa il Testo Unico intenda per prodotto finanziario, dobbiamo ora fornire qualche precisazione sulla nozione di appello al pubblico risparmio. E si tratta di precisazioni che valgono sia per le offerte al pubblico di prodotti finanziari sia per le offerte pubbliche di acquisto o di scambio. Come emerge dalla lettera delle relative definizioni, sopra riprodotte, l’appello può avere come contenuto: la proposta contrattuale di acquisto, di vendita, di sottoscrizione o di scambio (permuta), ossia proposte contrattuali destinate a determinare la con-
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clusione dei relativi contratti mediante l’accettazione da parte di coloro ai quali la proposta è indirizzata («gli oblati»), e quindi riconducibili allo schema dell’offerta al pubblico prevista dall’art. 1336 c.c. (anche se irrevocabile); l’invito a offrire, ossia l’invito ad avanzare proposte di acquisto, di sottoscrizione, di vendita o di scambio da parte degli oblati e che porteranno alla conclusione dei relativi contratti con l’accettazione da parte dell’offerente o, meglio, con la conoscenza da parte dell’oblato della accettazione di quest’ultimo. Ma vengono considerate forme di appello al pubblico risparmio anche comunicazioni che tendano alla successiva conclusione di un contratto. Queste forme di comunicazione sono diversamente definite per l’offerta di vendita o di sottoscrizione e per l’offerta di acquisto e scambio. Si considera infatti come offerta di prodotti finanziari «ogni comunicazione … che presenti sufficienti informazioni sulle condizioni dell’offerta e dei prodotti finanziari offerti così da mettere un investitore in grado di decidere di acquistare o sottoscrivere tali prodotti» e, a mio avviso, può considerarsi tale anche un messaggio promozionale diretto alla vendita e alla sottoscrizione. Il messaggio promozionale è esplicitamente preso in considerazione dalla disciplina dell’offerta di acquisto o di scambio che considera tale il messaggio promozionale finalizzato all’acquisto o allo scambio di prodotti finanziari. Il legislatore fa così del messaggio promozionale una forma d’offerta al pubblico e impone per la stessa le relative regole (mentre diverso è, come vedremo, la disciplina di tali annunci effettuati dopo l’avvenuta pubblicazione di un’offerta di vendita, di sottoscrizione, di acquisto o di scambio). Il che non significa, per altro, che ogni annuncio pubblicitario debba essere considerato un messaggio promozionale cui applicare le norme sull’appello al pubblico risparmio. Così non costituisce messaggio promozionale integrante un’ipotesi di offerta pubblica l’annuncio che si risolva nella mera presentazione delle qualità di un soggetto (pubblicità istituzionale), non essendo lo stesso diretto, in quanto tale, alla conclusione di uno specifico contratto. B) Un appello avente i contenuti appena ricordati è sottoposto alle norme speciali dettate dal Testo Unico soltanto quando lo stesso sia rivolto al «pubblico risparmio»; e non è semplice stabilire quando una sollecitazione del risparmio cessi di essere privata per diventare pubblica. A tal fine sembra necessario accertare se il bisogno di protezione del suo destinatario possa trovare adeguata soddisfazione nelle norme civilistiche sulla formazione del contratto ovvero se queste norme si rivelino ina-
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deguate rendendo, quindi, necessaria l’applicazione della disciplina speciale dettata per le sollecitazioni pubbliche. In questa prospettiva assumono rilievo soprattutto due elementi di giudizio. Il primo, che potremmo definire quantitativo, fa riferimento al numero dei destinatari della sollecitazione; il secondo, qualitativo, ha riguardo alla professionalità degli stessi. Quando il numero degli oblati è potenzialmente così alto da rendere inevitabilmente standardizzata ed impersonale la formazione dell’accordo contrattuale, gli strumenti di tutela della autenticità della volontà negoziale previsti dal codice non possono essere utilizzati: la sollecitazione dovrà considerarsi pubblica e dovrà essere sottoposta agli obblighi di trasparenza previsti dalle norme speciali. Ma, come si accennava, il numero dei destinatari offre solo un criterio per stabilire se si sia in presenza di una sollecitazione pubblica. Si tratta, per altro, di un criterio non assoluto, dal momento che possono verificarsi situazioni in cui, pur non potendo trovare puntuale applicazione le norme codicistiche, in considerazione della natura standardizzata della sollecitazione, la particolare condizione o la spiccata professionalità dei destinatari consentono agli stessi una consapevole valutazione dell’offerta, rendendo superflua per loro, e inutilmente onerosa per l’offerente, l’applicazione della disciplina speciale. E, ancora, tale disciplina può ritenersi non necessaria quando la dimensione dell’operazione sia particolarmente contenuta e la platea dei destinatari sufficientemente limitata. E, facendo applicazione di questi principi, la Consob, nell’esercizio del potere alla stessa attribuito dal legislatore, ha stabilito (art. 34-ter del Regolamento Emittenti) che non si applicano le norme dettate per le offerte al pubblico a quelle a) rivolte ad un numero di soggetti inferiori a centocinquanta; b) di ammontare complessivo inferiore a 5.000.000 di euro, da calcolarsi su un periodo di 12 mesi; c) aventi ad oggetto prodotti finanziari per un corrispettivo totale di almeno 100.000 euro per investitore e per ogni offerta separata; d) aventi ad oggetto prodotti finanziari di valore nominale unitario minimo di almeno 100.000 euro. In ogni caso non costituiscono offerte al pubblico di prodotti finanziari quelle riservate agli «investitori qualificati», fra i quali rientrano le banche, le imprese di assicurazione, le società di gestione collettiva del risparmio, le società di intermediazione mobiliare, le SICAV, i governi nazionali, le amministrazioni regionali e le fondazioni bancarie (art. 34ter del Regolamento Emittenti). Sul punto è, tuttavia, intervenuta la legge n. 262 del 2005, con una norma che tende ad impedire il collocamento presso il pubblico di pro-
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dotti finanziari inizialmente riservati agli investitori qualificati. Ma sull’argomento torneremo fra un attimo. Qui merita ancora ricordare che, pur presentando, in astratto, le caratteristiche dell’appello al pubblico risparmio, non vengono considerate tali e vengono così sottratte alle discipline previste per le offerte al pubblico di prodotti finanziari e per le offerte di acquisto o di scambio «le offerte di acquisto e di vendita di prodotti finanziari effettuate in mercati regolamentati e, se ricorrono le condizioni indicate dalla Consob con regolamento, quelle effettuate nei sistemi multilaterali di negoziazione o da internalizzatori sistematici» (art. 205, T.U. n. 58 del 1998).
1.4. I soggetti coinvolti dall’appello al pubblico risparmio In un’operazione di appello al pubblico risparmio si possono distinguere, e la disciplina distingue, tre diversi ruoli: quello dell’emittente i prodotti finanziari oggetto dell’offerta, quello del proponente l’operazione, che può coincidere ma anche non coincidere con il soggetto emittente (es., offerta pubblica di vendita di azioni di una società di cui il proponente è socio), e quello degli intermediari-collocatori, normalmente assunto anche da soggetti diversi sia dall’emittente sia dal proponente e che svolgono il compito di concludere i contratti di acquisto o di vendita dei prodotti finanziari oggetto dell’offerta del proponente; tra questi ultimi assume particolare rilievo il «responsabile del collocamento», almeno nella disciplina dell’offerta al pubblico di vendita e di sottoscrizione. Constateremo che alcune norme trovano applicazione per gli emittenti dei prodotti finanziari oggetto dell’offerta indipendentemente dal fatto che gli stessi siano anche proponenti dell’operazione e che altre si applicano solo ai proponenti e ai collocatori.
1.5. Appello al pubblico risparmio e forma dei contratti La legge non prescrive espressamente alcuna forma solenne per la conclusione dei contratti «sollecitati» attraverso un appello al pubblico risparmio e, tanto meno, pretende che gli stessi abbiano forma scritta. Questa affermazione di principio deve, per altro, essere fortemente ridimensionata tenendo presenti gli adempimenti formali imposti allo svolgimento della sollecitazione all’investimento e alle offerte di vendita e scambio. Così, a norma del Regolamento Consob (art. 34-quinquies, 2° comma, Regolamento Emittenti) «l’adesione all’offerta è effettuata me-
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diante la sottoscrizione anche telematica dell’apposito modulo o con altre modalità equivalenti indicate nel prospetto». Almeno nella prospettiva dell’organo di controllo, il contratto deve, perciò, assumere necessariamente forma scritta (pur essendo consentita l’adesione per via telematica). Ed anzi la volontà contrattuale può essere materialmente raccolta solo nel documento integrativo del prospetto o del documento d’offerta. Dal che, per altro, non pare possibile ricavare il convincimento che l’inosservanza di tale formalità comporti la nullità o l’inefficacia del contratto altrimenti (e magari in forma scritta) concluso. Trovano invece applicazione le norme che disciplinano i contratti con i consumatori, nei limiti i cui tali norme valgono per i contratti aventi per oggetto strumenti finanziari (cfr. D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206 recante il Codice del consumo).
2. L’offerta al pubblico di prodotti finanziari 2.1. Comunicazione e prospetto informativo «Coloro che intendono effettuare una offerta al pubblico … ne danno preventiva comunicazione alla Consob, allegando il prospetto destinato alla pubblicazione. Il prospetto non può essere pubblicato finché non è approvato dalla Consob» (art. 94, 1° comma, T.U.F.). La legge prevede, dunque, due distinti documenti (la «comunicazione» e il «prospetto informativo») dei quali solo il secondo («il prospetto informativo») è destinato alla pubblicazione e, quindi, alla conoscenza del pubblico dei risparmiatori. La comunicazione deve indicare i soggetti che intendono procedere all’offerta con la specificazione del ruolo svolto da ciascuno di essi; le caratteristiche essenziali e la quantità dei titoli oggetto dell’offerta (di vendita, di sottoscrizione) e le modalità e i termini previsti per lo svolgimento dell’operazione. Essa concerne essenzialmente le caratteristiche dell’offerta. Deve essere sottoscritta, come è ovvio, dall’offerente. A norma dell’art. 94, 2° comma, T.U., il prospetto informativo deve contenere «in una forma facilmente analizzabile e comprensibile, tutte le informazioni che, a seconda delle caratteristiche dell’emittente e dei prodotti finanziari offerti, sono necessarie affinché gli investitori possano pervenire ad un fondato giudizio sulla situazione patrimoniale e finanziaria, sui risultati economici e sulle prospettive dell’emittente e degli eventuali garanti, nonché sui prodotti finanziari e sui relativi diritti.
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Il prospetto contiene altresì una nota di sintesi la quale, concisamente e con linguaggio non tecnico, fornisce le informazioni chiave nella lingua in cui il prospetto è stato in origine redatto». Il formato e il contenuto della nota di sintesi forniscono, unitamente al prospetto, informazioni adeguate circa le caratteristiche fondamentali dei prodotti finanziari che aiutino gli investitori al momento di valutare se investire in tali prodotti. Il prospetto, dunque, non solo descrive il contenuto del prodotto finanziario, ma deve anche, e soprattutto, fornire un quadro puntuale della situazione economica, patrimoniale e finanziaria dell’emittente e delle prospettive dello stesso; non può dunque limitarsi ad illustrare la condizione presente, ma deve anche tratteggiare le prospettive future dell’emittente. E la Consob, in conformità con il Regolamento CE n. 809 del 2004, ha individuato una serie di contenuti tipici del prospetto (schemi di prospetto), determinati con riferimento alla natura sia degli strumenti finanziari sia dell’emittente. In ogni caso è necessario tener presente, nel valutare l’adeguatezza dell’informazione fornita dal prospetto, che dello stesso sono destinatari i «comuni investitori», sia pure mediamente avveduti, e non i soli «esperti» del mercato mobiliare, come si evince anche dal fatto che la necessità di tale documento venga esclusa nell’ipotesi in cui la sollecitazione sia riservata agli investitori qualificati. Dovrà, dunque, escludersi l’adeguatezza dell’informazione, non solo quando la stessa sia carente, ma anche quando la medesima, anche perché eccessiva, possa essere compresa soltanto da soggetti forniti di una particolare competenza finanziaria. E proprio per evitare questo pericolo il Testo Unico presta particolare attenzione alla nota di sintesi, imponendo che la stessa sia concisa e redatta con linguaggio non tecnico. Anche se «nessuno può essere ritenuto civilmente responsabile esclusivamente in base alla nota di sintesi, … salvo che la nota di sintesi risulti fuorviante, imprecisa o incoerente se letta insieme ad altre parti del prospetto» (art. 94, 10° comma, T.U. n. 58 del 1998).
2.2. Il controllo sul prospetto informativo La natura e il contenuto del potere di controllo attribuito alla Consob e, quindi, i limiti che la stessa incontra nel non approvare la pubblicazione del prospetto hanno sollevato dubbi e perplessità. È certo che la Consob non può negare l’approvazione sulla base di un giudizio di convenienza, per i risparmiatori, dell’operazione loro propo-
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sta. È altrettanto certo che la Consob può negarla quando il prospetto informativo non sia conforme alle regole generali (in specie agli schemi di prospetto) dalla stessa dettate e non contenga le ulteriori notizie delle quali abbia chiesto la pubblicazione (controllo di completezza). I dubbi sorgono con riferimento al potere della Consob di negare l’autorizzazione quando si convinca che l’operazione presenta un qualsiasi profilo di illegittimità. La Consob si è spesso arrogata il potere di esercitare il controllo di legittimità delle operazioni proposte, incontrando, per altro, forti critiche da parte della dottrina, ad avviso della quale un simile controllo è riservato all’autorità giudiziaria. Non v’è dubbio che in linea di principio la posizione della dottrina sia da condividere: se la Consob si convince della illegittimità dell’appello non potrà negare l’autorizzazione alla pubblicazione, ma dovrà pretendere che il prospetto segnali adeguatamente tale convincimento, potendo vietarne la pubblicazione quando tale avvertimento venga omesso. Ci si è poi chiesti se la Consob debba verificare la conformità al vero (controllo di veridicità) delle notizie inserite nel prospetto informativo. Certamente la Consob non «garantisce» la verità e l’esattezza di tutte le informazioni contenute nel prospetto: una simile garanzia postulerebbe un controllo di estensione e profondità tali da costituire un intralcio burocratico insopportabile per il sistema delle offerte pubbliche. Il che non consente, per altro, di sostenere che la Consob debba omettere un qualsiasi controllo di veridicità e disinteressarsi del fatto che i dati e le informazioni contenuti nel prospetto siano palesemente non veri o comunque parziali. Un simile atteggiamento finirebbe per frustrare gli scopi del prospetto e costituirebbe una palese violazione del principio di corretto funzionamento della stessa Consob. E, proprio tenendo conto delle finalità del prospetto, sembra necessario ritenere che la Consob debba effettuare anche un controllo di veridicità sulle notizie che lo stesso contiene. Naturalmente questo controllo può considerarsi dovuto solo nei limiti in cui i tempi del procedimento ed i poteri concretamente esercitabili dalla Consob lo rendano possibile e negli stessi limiti può prospettarsi una responsabilità di quest’ultima nei confronti del risparmiatore. Alla soluzione di questi problemi il dettato originario del Testo Unico non apportava alcun elemento letterale utile. Dando attuazione alla direttiva comunitaria 2003/71 in tema di prospetti il D.Lgs. 28 marzo 2007, n. 51, ha introdotto nel T.U. una norma del seguente tenore: «Ai fini dell’approvazione, la Consob verifica la completezza del prospetto ivi incluse la coerenza e la comprensibilità delle informazioni fornite» (art. 94-bis, 1° comma). Il legislatore sembra dunque esonerare la Consob da
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ogni controllo di legittimità e di veridicità, ma è probabile che i principi generali ai quali abbiamo fatto cenno estendano i doveri di controllo della Consob anche a questi profili, sia pure nei limiti accennati. L’art. 42 del Regolamento dell’Unione europea n. 600/2014 del 15 maggio 2014 ha attribuito alla Consob un ulteriore ed importante potere: quello di intervenire, preventivamente, sulla commercializzazione o la vendita di uno strumento finanziario e di vietarla o restringerla quando sussista il «timore giustificato» per la tutela degli investitori o una minaccia «all’ordinato funzionamento» e all’integrità dei mercati finanziari.
2.3. La pubblicazione del prospetto Il procedimento di controllo, se positivamente concluso, trova il proprio coronamento nel provvedimento di approvazione del prospetto. Nel dettato originario il Testo Unico prevedeva un provvedimento di «autorizzazione» alla pubblicazione, il D.Lgs. n. 51 del 2007, appena ricordato, definisce il provvedimento della Consob un provvedimento di «approvazione» del prospetto. Senza ripercorrere qui i difficili confini fra autorizzazione e approvazione, è certo che il provvedimento Consob non ha natura concessoria, non essendo l’operazione di offerta e neppure la pubblicazione del prospetto attività riservate allo Stato; lo stesso rimuove un ostacolo all’esercizio del diritto di iniziativa economica. In altri termini, «l’approvazione» della Consob alla pubblicazione del prospetto informativo è uno strumento di «polizia» e non di «governo» del mercato mobiliare. Il prospetto informativo viene reso conoscibile dal pubblico attraverso la sua pubblicazione. Più esattamente il prospetto è reso pubblico mediante deposito dell’originale presso la Consob (tenuta a rilasciare copia a chiunque vi abbia interesse) nonché messa a disposizione del pubblico alternativamente a) mediante inserimento in uno o più giornali a diffusione nazionale o a larga diffusione; b) in forma stampata e gratuitamente, nella sede legale dell’emittente e presso gli uffici degli intermediari incaricati del collocamento e dei soggetti che operano per conto di questi ultimi; c) in forma elettronica nel sito internet dell’emittente e, ove esistente, nel sito degli intermediari incaricati del collocamento (art. 9, 1° comma, Regolamento Emittenti). È bene ricordare che normalmente il prospetto non indica il prezzo e la quantità dei prodotti finanziari offerti: questi possono, infatti, essere pubblicati in un avviso integrativo in coincidenza con l’inizio dell’offerta (art. 7 Regolamento Emittenti).
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2.4. Le ipotesi di inapplicabilità totale o parziale della disciplina speciale Abbiamo già constatato che non costituiscono offerte al pubblico di prodotti finanziari quelle di ammontare complessivo inferiore a 5.000.000 di euro e quelle rivolte ad un numero di soggetti inferiore a 150, così come quelle indirizzate ad investitori qualificati. Ma il Testo Unico contempla altre ipotesi di inapplicabilità della relativa disciplina e riconosce alla Consob il potere di individuare «con regolamento altri tipi di offerte al pubblico di prodotti finanziari» ai quali quella disciplina non si applica «in tutto o in parte» (art. 100, 2° comma). A) Il Testo Unico, in considerazione della natura dell’emittente, esonera dall’applicazione delle predette norme le sollecitazioni all’investimento aventi ad oggetto a) strumenti finanziari diversi dai titoli di capitale (essenzialmente azioni) emessi o garantiti da uno Stato membro dell’Unione Europea o emessi da organismi internazionali a carattere pubblico di cui facciano parte uno o più Stati membri dell’Unione Europea; b) strumenti finanziari emessi dalla Banca Centrale Europea o dalle banche centrali nazionali degli Stati membri dell’Unione Europea. La ragione di tali esoneri è abbastanza evidente: la natura dell’ente, per gli Stati e gli organismi internazionali, ed anche le esigenze di politica monetaria, per quanto concerne le banche centrali, escludono per lo più un rischio per l’investitore e comunque costringono a considerare prevalenti, sulla marginale esigenza di protezione, interessi generali come quelli connessi con la politica fiscale degli Stati o con la politica monetaria. B) Il Testo Unico, nel dettato del 1998, prevedeva poi che le norme sulla sollecitazione all’investimento non si applicassero per quelle «aventi ad oggetto prodotti finanziari emessi da banche, diversi dalle azioni o dagli strumenti finanziari che permettono di acquisire o sottoscrivere azioni, ovvero prodotti assicurativi emessi da imprese di assicurazione» (art. 100, 1° comma, lett. f)). Un siffatto esonero aveva sollevato molte perplessità già sul piano interpretativo ma anche sul piano delle scelte di politica legislativa che finiva per recepire. Quella norma andava coordinata con quella contenuta nella stessa definizione di sollecitazione all’investimento e, secondo la quale «non costitui[va] sollecitazione all’investimento la raccolta di depositi bancari o postali realizzata senza l’emissione di strumenti finanziari» (art. 1, 2° com-
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ma, lett. t)). Sembravano dunque non costituire sollecitazione all’investimento, per quanto concerne le banche, la raccolta dei depositi non accompagnata dalla «emissione» di titoli e, quindi, non avrebbe dovuto rientrare nella esenzione la raccolta effettuata attraverso la emissione di certificati di deposito e di obbligazioni, ma l’esonero consentito dalla norma (art. 100, 1° comma, lett. f)) sopra riprodotta escludeva che la emissione di tali titoli, che pur costituiva una forma di raccolta di capitale di debito con emissione di strumenti finanziari, costituisse una sollecitazione all’investimento: conclusione in verità non facilmente giustificabile. La norma definitoria sembrava, dunque, avere un rilievo solo per quanto concerne le Poste, le quali avrebbero dovuto invece attenersi alle norme sulla sollecitazione all’investimento quando la loro raccolta di depositi fosse avvenuta con la emissione di strumenti finanziari. L’art. 11 della legge n. 262 del 2005 ha esplicitamente abrogato «la lettera f) del comma 1 dell’art. 100». Dunque, per quanto concerne i prodotti finanziari emessi dalle banche l’unico esonero dalla disciplina della sollecitazione all’investimento diventava quello previsto dalla nozione stessa di sollecitazione che, appunto, escludeva che fosse tale la «raccolta di depositi bancari realizzata senza emissione di strumenti finanziari», con la conseguenza ad es.: che rimaneva sottoposto a quella disciplina il collocamento delle obbligazioni e, con tutta probabilità, degli altri strumenti di debito incorporati in strumenti o prodotti finanziari, soprattutto se destinati alla circolazione. La posizione delle banche era stata così resa identica a quella che già prima della riforma veniva riservata alle Poste. C) La materia è stata ridisciplinata dal decreto correttivo n. 303 del 2006 nonché dalle norme di attuazione delle direttive sui prospetti e sui servizi di investimenti. Oggi la definizione di prodotti finanziari, dettata dall’art. 1, 1° comma, lett. u), T.U.F. chiarisce che «non costituiscono prodotti finanziari i depositi bancari o postali non rappresentati da strumenti finanziari» e prevede (art. 100, 1° comma, lett. f) una particolare ipotesi di inapplicabilità delle norme sulle offerte al pubblico di prodotti finanziari (ossia strumenti finanziari) diversi dai titoli di capitale, «emessi in modo continuo e ripetuto da banche a condizione che tali strumenti a) non siano subordinati, convertibili o scambiali; b) non conferiscano il diritto di sottoscrivere o acquisire altri tipi di strumenti finanziari e non siano collegati ad uno strumento derivato; c) diano veste materiale al ricevimento di depositi rimborsabili e d) siano coperti da un sistema di garanzia dei depositi». Secondo lo stesso Testo Unico sono titoli di capitale «le azioni
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e altri strumenti negoziabili equivalenti ad azioni nonché qualsiasi tipo di strumento finanziario comunitario che attribuisce il diritto di acquisire i suddetti strumenti di capitale». La nuova norma sembra, dunque, ampliare, per le banche, l’ambito di esonero dall’applicazione delle norme sull’offerta al pubblico di prodotti finanziari introdotte con la legge n. 262 del 2005. Si sottraggono a tale disciplina, i certificati di deposito e i buoni fruttiferi purché questi strumenti di debito soddisfino le condizioni sopra indicate e siano sostanzialmente rappresentativi di depositi. La norma dell’art. 100 del T.U.F. sopra ricordata, ed ora abrogata, esonerava anche le imprese di assicurazione dalle norme sulla sollecitazione all’investimento, ma solo quando la sollecitazione avesse avuto ad oggetto «prodotti assicurativi», con la conseguenza che quelle stesse norme si dovevano applicare quando le imprese di assicurazione avessero collocato prodotti finanziari diversi dai «contratti di assicurazione». Così ad esempio rimaneva sottoposta alle norme sulla sollecitazione la raccolta delle adesioni ai fondi pensione aperti, non costituendo la partecipazione agli stessi un prodotto assicurativo (così artt. 22-31 del Regolamento Consob n. 11971). La legge n. 262 del 2005 ha eliminato, come abbiamo già ricordato, la norma che esonerava dall’obbligo di prospetto e, più in generale, dalle norme sulla sollecitazione del pubblico risparmio i prodotti assicurativi emessi da imprese di assicurazione ed ha sottoposto alle norme sulla sollecitazione all’investimento i «prodotti finanziari emessi da imprese di assicurazione» senza, per altro, definirli. Alla relativa individuazione ha provveduto il D.Lgs. n. 303 del 2006, stabilendo che per prodotti finanziari emessi da imprese di assicurazione debbono intendersi «le polizze e le operazioni di cui ai rami III [ossia le assicurazioni sulla durata della vita umana e quelle di nuzialità e natalità le cui prestazioni principali sono direttamente collegate al valore di quote di organismi di investimento collettivo del risparmio o di fondi interni o a indici o ad altri valori di riferimento] e V [ossia le operazioni di capitalizzazione] di cui all’art. 2, 1° comma [del Codice delle assicurazioni] con esclusione delle forme pensionistiche individuali di cui all’art. 13, comma 1, lett. b) del decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252», ossia delle operazioni di adesioni individuali a fondi collettivi. Restano naturalmente escluse dalla disciplina sulle offerte al pubblico di prodotti finanziari le adesioni ai fondi collettivi (Ramo VI), mentre resta sottoposta a tale disciplina l’offerta di adesione ai fondi aperti. Questo obbligo va, tuttavia, coordinato con quello già previsto dal codice delle assicurazioni (artt. 185 e 186 del D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209) che impone alle imprese di assicurazione di consegnare al contra-
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ente «prima della conclusione del contratto … una nota informativa», nonché con il divieto, che discende dalle direttive comunitarie in materia di accesso al mercato assicurativo (direttiva 73/239), per gli Stati membri, di sottoporre al controllo pubblico il prospetto di collocazione dei prodotti assicurativi. D) La Consob, in conformità con quanto stabilito dal Regolamento CE n. 809 del 2004, ha introdotto nuove ipotesi di «esonero» dall’applicazione della disciplina della sollecitazione, subordinando per altro tale esonero all’esistenza di strumenti informativi che, tenuto conto della qualità degli oblati, possano considerarsi comunque sufficienti per assicurare l’informazione ritenuta necessaria. L’art. 34-ter, 1° comma, lett. h-n), Regolamento Emittenti esonera dalla applicazione della disciplina prevista per le offerte al pubblico di prodotti finanziari, tra le altre, quelle: a) aventi ad oggetto prodotti finanziari emessi, al fine di procurarsi i mezzi necessari al raggiungimento dei propri scopi non lucrativi, da associazioni aventi personalità giuridica o da enti non aventi scopo di lucro, riconosciuti da uno Stato membro; b) aventi ad oggetto azioni emesse in sostituzione di azioni della stessa classe già emesse, se l’emissione di queste nuove azioni non comporta un aumento del capitale emesso; c) aventi ad oggetto prodotti finanziari offerti in occasione di un’acquisizione mediante offerta pubblica di scambio, a condizione che sia disponibile un documento contenente informazioni considerate dall’autorità competente equivalenti a quelle del prospetto, tenendo conto dei requisiti della normativa comunitaria; d) aventi ad oggetto prodotti finanziari offerti, assegnati o da assegnare in occasione di una fusione o scissione, a condizione che sia disponibile un documento contenente informazioni considerate dall’autorità competente equivalenti a quelle del prospetto, tenendo conto dei requisiti della normativa comunitaria; e) aventi ad oggetto dividendi versati ad azionisti esistenti sotto forma di azioni della stessa categoria di quelle per le quali vengono pagati tali dividendi, a condizione che sia reso disponibile un documento contenente informazioni sul numero e sulla natura delle azioni, sui motivi e sui dettagli dell’offerta; f) aventi ad oggetto strumenti finanziari offerti, assegnati o da assegnare ad amministratori o ex amministratori o dipendenti o ex dipendenti o promotori finanziari da parte del loro datore di lavoro o dell’impresa controllante, di un’impresa controllata, collegata o sottoposta a comune con-
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trollo, a condizione che la società abbia la propria sede principale o legale in uno Stato appartenente all’Unione europea e a condizione che sia reso disponibile un documento contenente informazioni sul numero e sulla natura degli strumenti finanziari, sui motivi e sui dettagli dell’offerta. In tutte queste ipotesi, nelle quali l’esigenza di protezione risulta ridotta in considerazione o della posizione dei destinatari della sollecitazione o delle caratteristiche dell’offerta, l’applicazione totale o anche parziale della disciplina dettata per la sollecitazione comporterebbe costi non ritenuti giustificabili.
2.5. Il prospetto di quotazione (rinvio) Le norme fin qui illustrate riguardano le offerte al pubblico di prodotti finanziari in generale; le stesse subiscono importanti modificazioni quando l’offerta sia prodromica alla quotazione su di un mercato regolamentato. Ce ne occuperemo appunto nel capitolo dedicato ai mercati regolamentati.
2.6. Il mutuo riconoscimento dei prospetti Le direttive comunitarie 17 aprile 1989, n. 298 e 29 aprile 2004, n. 71, attuate in Italia con il D.Lgs. 28 marzo 2007, n. 51, hanno dettato le norme di armonizzazione dei prospetti con particolare riferimento alle informazioni che gli stessi debbono fornire. I loro modelli, articolati secondo gli strumenti finanziari offerti, nonché le regole dettate per la loro pubblicazione, hanno reso possibile il mutuo riconoscimento degli stessi nell’ambito dell’Unione europea. A norma, infatti, dell’art. 98, 1° comma, T.U., «il prospetto nonché gli eventuali supplementi approvati dalla Consob sono validi ai fini dell’offerta degli strumenti finanziari comunitari negli altri Stati membri» dell’Unione europea, intendendosi per strumenti comunitari i valori mobiliari e le quote dei fondi chiusi (art. 93-bis, 1° comma, lett. a)). Condizione necessaria per l’efficacia del prospetto in un altro stato dell’Unione è semplicemente che la Consob, su richiesta dell’emittente o dell’offerente, trasmetta, entro tre giorni dalle richieste, all’autorità del paese nel quale si svolgerà l’offerta una attestazione della conformità alla direttiva 2003/71 del prospetto, nonché copia dello stesso eventualmente tradotta (art. 11 Regolamento Emittenti).
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Specularmente «ove l’offerta di strumenti finanziari comunitari sia prevista in Italia, quale Stato membro ospitante, il prospetto e gli eventuali supplementi approvati dall’autorità dello Stato membro d’origine sono validi, purché siano rispettate le procedure di notifica previste dalle disposizioni comunitarie». Anche in questa ipotesi la pubblicazione del prospetto in Italia è condizionata dalla comunicazione alla Consob, da parte dell’Autorità competente del paese d’origine, che il prospetto è conforme alla direttiva 2003/71 (art. 11 del Regolamento Emittenti). Ma il prospetto dovrà essere redatto o in lingua italiana «o in una lingua comunemente utilizzata nel modo della finanza internazionale» … in tale ultimo caso, tuttavia, «la nota di sintesi è tradotta in lingua italiana» (art. 12 del Regolamento Emittenti). Nell’ipotesi invece in cui l’emittente abbia sede legale in un paese extracomunitario e l’offerta debba svolgersi in Italia, «la Consob può approvare il prospetto redatto secondo la legislazione del Paese extracomunitario se il prospetto è stato redatto conformemente a standard internazionali definiti dagli organismi internazionali delle Commissioni di vigilanza dei mercati» e «le informazioni richieste, incluse le informazioni di natura finanziaria, siano equivalenti alle prescrizioni previste dalle disposizioni comunitarie» (cfr. art. 98-bis del T.U.F.).
2.7. Svolgimento dell’offerta e regole di correttezza Il controllo della Consob relativo alle operazioni di offerta al pubblico di prodotti finanziari non si limita all’esame e alla valutazione della comunicazione e del prospetto informativo, ma si estende anche ai soggetti (emittente, proponente, collocatore) coinvolti nell’offerta; soggetti ai quali vengono imposti obblighi di trasparenza e di correttezza. Più esattamente. a) Dalla data della comunicazione alla Consob dell’offerta, gli emittenti, gli offerenti e gli intermediari incaricati del collocamento hanno nei confronti del mercato gli obblighi informativi previsti dall’art. 114, commi 5 e 6 del T.U.F. per le società quotate, ossia la Consob può imporre loro di diffondere al mercato le notizie, relative all’offerta, che la Consob ritenga «necessarie per l’informazione del pubblico». Essi hanno, altresì, dalla stessa data gli obblighi di informazione verso la Consob previsti per le società quotate dall’art. 115 del T.U.F., nel senso che quest’ultima può richiedere loro informazioni ed assoggettarli ad ispezioni al fine di vigilare sulla correttezza delle informazioni fornite al pubblico
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(art. 97, 1° comma) e può farlo fino a un anno dalla conclusione dell’offerta qualora sussista fondato sospetto di violazione delle disposizioni che regolano l’offerta. Gli emittenti, inoltre, sottopongono a revisione legale il bilancio d’esercizio e quello consolidato eventualmente approvati o redatti nel periodo dell’offerta (art. 97, 3° comma, T.U.F.). b) Il Testo Unico ha poi affidato alla Consob il compito di stabilire «le modalità di svolgimento dell’offerta anche al fine di assicurare la parità di trattamento tra i destinatari» (art. 95, 1° comma, lett. d)) nonché di individuare «le norme di correttezza che sono tenuti a osservare l’emittente, l’offerente e chi colloca i prodotti finanziari nonché coloro che si trovano in rapporto di controllo o di collegamento con tali soggetti». Così, per quanto concerne le modalità di svolgimento dell’offerta, il Regolamento Emittenti (art. 34-quinquies) ha stabilito: a) che l’offerta è revocabile solo nei casi previsti nel prospetto informativo; b) che i criteri di riparto devono assicurare la parità di trattamento tra gli aderenti. Lo stesso Regolamento ha fissato le norme di correttezza che le varie categorie di soggetti coinvolti nell’offerta debbono osservare. Tutti debbono attenersi «a principi di correttezza, trasparenza e parità di trattamento dei destinatari dell’offerta al pubblico che si trovino in identiche condizioni» e debbono astenersi «dal diffondere notizie non coerenti con il prospetto informativo o idonee ad influenzare l’andamento delle adesioni» (art. 34-sexies, 1° comma); l’offerente e i soggetti incaricati del collocamento «compiono, con la massima tempestività, le attività necessarie per il perfezionamento dell’investimento e quelle comunque connesse all’esercizio di diritti degli investitori» (art. 34-sexies, 2° comma, lett. b)); l’offerente, l’emittente ed il responsabile del collocamento debbono «assicurare la coerenza tra le informazioni contenute nel prospetto e quelle comunque fornite nel corso dell’offerta e dell’eventuale collocamento presso investitori istituzionali» (e quindi al di fuori dell’offerta pubblica).
2.8. Gli annunci pubblicitari A) Abbiamo già potuto constatare che un messaggio promozionale forgiato in termini tali da apparire chiaramente finalizzato alla conclusione di un’operazione di offerta al pubblico di prodotti finanziari deve essere reso pubblico nel rispetto delle norme previste per quest’ultima. Il legislatore prende in considerazione anche gli annunci pubblicitari che non presentino tale caratteristica, dettando discipline diverse a seconda che
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l’offerta abbia ad oggetto strumenti finanziari comunitari, ossia, come già sappiamo, valori mobiliari e quote di fondi chiusi, o prodotti finanziari diversi da quella categoria di strumenti finanziari. Più esattamente, vieta la diffusione di qualsiasi annuncio pubblicitario riguardante offerte al pubblico di prodotti finanziari diversi dai prodotti finanziari comunitari «prima della pubblicazione del prospetto», mentre la consente per questi ultimi. Anche per i primi restano, tuttavia, consentiti prima della pubblicazione del prospetto, la diffusione di notizie, lo svolgimento di indagini di mercato e la raccolta di intenzioni di acquisto attinenti a sollecitazioni all’investimento purché: «a) le informazioni diffuse siano coerenti con quelle contenute nel prospetto; b) la relativa documentazione venga trasmessa alla Consob contestualmente alla sua diffusione; c) venga fatto espresso riferimento alla circostanza che sarà pubblicato il prospetto informativo e al luogo in cui il pubblico potrà procurarselo; d) venga precisato che le intenzioni d’acquisto raccolte non costituiscono proposte di acquisto» (art. 34-decies del Regolamento Emittenti). B) Naturalmente l’attività pubblicitaria potrà essere svolta dopo la pubblicazione del prospetto e il Testo Unico detta regole procedurali e sostanziali alle quali deve uniformarsi l’attività pubblicitaria. Così «la documentazione relativa a qualsiasi tipo di pubblicità concernente un’offerta [deve essere] trasmessa alla Consob contestualmente alla sua diffusione» ed alla Consob è rimessa la determinazione dei criteri ai quali l’attività pubblicitaria deve svolgersi; criteri che dovranno essere determinati «avendo riguardo alla correttezza dell’informazione e alla sua coerenza con quella contenuta nel prospetto, se è già stato pubblicato, o con quella che deve figurare nel prospetto da pubblicare» (art. 101, 4° comma). I criteri fissati dalla Consob (art. 34-octies Regolamento Emittenti) si preoccupano di assicurare che l’annuncio pubblicitario sia chiaramente riconoscibile come tale e distinguibile da altre forme di comunicazione al pubblico, e in particolare dal prospetto informativo, e che le informazioni diffuse dall’annuncio non siano «imprecise o tali da indurre in errore circa le caratteristiche, la natura e i rischi dei prodotti finanziari offerti», siano coerenti con quelle riportate nel prospetto informativo e non promettano esiti dell’investimento non giustificati dalle caratteristiche dello stesso. La Consob può sospendere in via cautelare, per un periodo non superiore a dieci giorni per le offerte aventi ad oggetto gli strumenti finanziari comunitari e a novanta per le offerte aventi ad oggetto altri prodotti finanziari, l’ulteriore diffusione dell’annuncio pubblicitario in
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caso di fondato sospetto di violazione delle suddette norme; vietandola definitivamente nell’ipotesi in cui tale violazione sia accertata e vietando, infine, la stessa esecuzione dell’offerta nell’ipotesi di «mancata ottemperanza» ai predetti provvedimenti (cfr. art. 101, 4° comma, T.U. n. 58 del 1998). Naturalmente anche alla pubblicità dei valori mobiliari si applicano le norme che regolano, in generale, questo tipo di attività e, in particolare, quelle sulla concorrenza sleale, dettate dal codice civile, e quelle sulla pubblicità ingannevole previste dal D.Lgs. 25 gennaio 1992, n. 74 che attribuisce, tra l’altro, il relativo controllo all’Autorità garante della concorrenza, nonché quelle di autodisciplina relative alla pubblicità delle operazioni finanziarie: norme che, per altro, sono attente, soprattutto la prima, all’interesse degli imprenditori concorrenti e solo indirettamente a quello dei consumatori di prodotti finanziari.
2.9. Circolazione dei prodotti finanziari «riservati» agli investitori qualificati Come abbiamo ricordato, a norma dell’art. 100, 1° comma, lett. a), le offerte rivolte ai soli investitori qualificati non sono soggette alla disciplina prevista per le offerte al pubblico di prodotti finanziari e in particolare all’obbligo della previa pubblicazione di un prospetto informativo. Nell’ambito delle operazioni finanziarie che hanno accompagnato i crolli di alcuni gruppi industriali italiani (Cirio, Parmalat) nei primi anni 2000, questi hanno emesso grandi quantità di titoli, poi rivelatisi privi del loro presunto valore, riservandoli alla sottoscrizione di investitori qualificati. Questi ultimi, per altro, talvolta per rimborsarsi dei finanziamenti effettuati a favore dell’emittente, hanno collocato presso il pubblico i titoli sottoscritti, evitando la pubblicazione del prospetto nell’assunto che essi non offrivano al pubblico il relativo acquisto e che la vendita avveniva su richiesta dei clienti, escludendo pertanto che ricorresse una sollecitazione all’investimento. Probabilmente la lacuna che in questo modo gli investitori qualificati assumevano esistere nella disciplina dell’appello al pubblico risparmio in realtà non esisteva, ma per evitare il ripetersi di vicende di questo tipo, la legge n. 262 del 2005 aveva stabilito (art. 100-bis del T.U.F.) che, nell’ipotesi di sollecitazioni originariamente riservate agli investitori professionali e quindi effettuate senza la pubblicazione del prospetto informativo, nel caso di «successiva circolazione in Italia di prodotti finanziari, anche emessi all’estero, gli investitori professionali che li trasferisco-
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no, rispondono della solvenza dell’emittente nei confronti degli acquirenti che non siano investitori professionali, per la durata di un anno dall’emissione. Resta fermo quanto stabilito dall’articolo 2412, secondo comma del codice civile». Tale responsabilità pareva riguardare solo i titoli di debito ed essere limitata al valore nominale del titolo e si cumulava, per le obbligazioni non quotate, ma non per gli altri titoli di debito, con quella prevista dall’art. 2412, 2° comma, c.c. Gli investitori professionali avrebbero potuto evitare tale responsabilità «se l’intermediario [avesse consegnato] un documento informativo contenente le informazioni stabilite dalla Consob agli acquirenti che non [fossero] investitori professionali, anche qualora la vendita [fosse avvenuta] su richiesta di questi ultimi». Spettava, peraltro, all’intermediario l’onere di provare di aver consegnato agli acquirenti il predetto documento informativo; norma in verità dal significato ambiguo e dalle conseguenze non facilmente prevedibili, dal momento che affidava l’esonero dalla responsabilità dell’investitore professionale al comportamento di un «intermediario» che avrebbe potuto essere soggetto diverso dal primo. La disciplina dettata dalla legge n. 262 del 2005 ha subito successivamente profonde modificazioni (a partire dal decreto correttivo n. 303 del 2006) e notevoli miglioramenti. Oggi l’art. 100-bis del T.U. dopo aver affermato, con una norma sostanzialmente tautologica, che «la successiva rivendita di prodotti finanziari che hanno costituito oggetto di un’offerta al pubblico esente dall’obbligo di pubblicare un prospetto costituisce ad ogni effetto una distinta e autonoma offerta al pubblico nel caso in cui ricorrano le condizioni indicate nella definizione prevista all’articolo 1, comma 1, lettera t), e non ricorra alcuno dei casi di inapplicabilità previsti dall’articolo 100», stabilisce che «si realizza una offerta al pubblico anche qualora i prodotti finanziari che abbiano costituito oggetto in Italia o all’estero di un collocamento riservato a investitori qualificati [espressione sostitutiva di quella di “investitori professionali”] siano, nei dodici mesi successivi, sistematicamente rivenduti a soggetti diversi da investitori qualificati e tale rivendita non ricada in alcuno dei casi di inapplicabilità previsti dall’articolo 100». Come si può notare, il legislatore qualifica come offerta al pubblico una «rivendita sistematica» anche quando la stessa non presenti i caratteri tipici dell’offerta al pubblico di prodotti finanziari e impone, pertanto, anche in questo caso, la pubblicazione di un prospetto. Nell’ipotesi in cui, entro i 12 mesi successivi all’acquisto, si proceda ad una «rivendita sistematica» senza la pubblicazione del prospetto, «l’ac-
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quirente, che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale, può far valere la nullità del contratto e i soggetti abilitati presso i quali è avvenuta la rivendita dei prodotti finanziari rispondono del danno arrecato. Resta ferma l’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 191 e quanto stabilito dagli articoli 2414, secondo comma, 2483, secondo comma e 2526, quarto comma, del codice civile».
2.10. I poteri ispettivi e interdittivi della Consob Alla Consob sono attribuiti importanti poteri «conoscitivi» e «interdittivi» per assicurare l’osservanza delle norme dettate per l’offerta al pubblico di prodotti finanziari. Dal momento della comunicazione la Consob ha il potere di acquisire dall’emittente tutte le informazioni previste (per le società quotate) dall’art. 115 del T.U. e analoghi poteri ha anche nei confronti degli altri soggetti coinvolti nella sollecitazione. Non solo, ma qualora sussista fondato sospetto di violazione delle disposizioni legislative e regolamentari relative alla sollecitazione, essa «può richiedere, entro un anno dall’acquisto o dalla sottoscrizione, la comunicazione di dati e notizie e la trasmissione di atti e documenti agli acquirenti o sottoscrittori dei prodotti finanziari» e tale potere sussiste «anche nei confronti di coloro per i quali vi è fondato sospetto che svolgano un’offerta al pubblico in violazione» delle predette norme (cfr. art. 97, 4° comma, T.U. n. 58 del 1998). Il Testo Unico riconosce poi alla Consob il potere, già ricordato, di «sospendere in via cautelare», l’offerta quando sussista «fondato sospetto» di violazione delle relative norme, legislative o regolamentari e di «vietarla» nell’ipotesi in cui tale violazione sia «accertata». Si tratta di poteri interdittivi di carattere generale che si aggiungono a quelli esplicitamente previsti per alcune specifiche violazioni (ad es.: dall’art. 101 per gli annunci pubblicitari).
2.11. Le sanzioni penali e amministrative Il Testo Unico ha ritenuto indispensabile potenziare la tutela degli interessi coinvolti dalle offerte al pubblico di prodotti finanziari anche attraverso la previsione di sanzioni amministrative e sanzioni penali. Così l’art. 191 del T.U. prevede che chiunque effettua offerte al pubblico di prodotti finanziari senza averne data previa comunicazione alla Consob o pubblica un prospetto non approvato dalla Consob «è punito
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con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro venticinquemila fino a euro cinque milioni». E l’applicazione della predetta sanzione amministrativa pecuniaria importa la perdita temporanea dei requisiti di onorabilità previsti per i consulenti finanziari abilitati all’offerta fuori sede e per gli esponenti aziendali dei soggetti abilitati, nonché l’incapacità temporanea ad assumere incarichi di amministrazione, direzione e controllo nell’ambito di società aventi titoli quotati nei mercati regolamentati o diffusi tra il pubblico in maniera rilevante e di società appartenenti al medesimo gruppo. La sanzione amministrativa accessoria ha durata non inferiore a due mesi e non superiore a tre anni. La Consob inoltre pubblica «le misure e le sanzioni applicate», «salvo il caso in cui la pubblicazione possa turbare gravemente i mercati o possa arrecare un danno sproporzionato alle parti coinvolte». Oggetto di contrastanti indirizzi di politica legislativa è stata la disciplina penale del falso in prospetto. Il D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 61 aveva previsto infatti (art. 2623 c.c.) che «chiunque, allo scopo di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei prospetti richiesti ai fini della sollecitazione all’investimento o dell’ammissione alla quotazione nei mercati regolamentati, ovvero nei documenti da pubblicare in occasione delle offerte pubbliche di acquisto o di scambio, con la consapevolezza della falsità e l’intenzione di ingannare i destinatari del prospetto, espone false informazioni od occulta dati o notizie in modo idoneo ad indurre in errore i suddetti destinatari è punito, se la condotta non ha loro cagionato un danno patrimoniale, con l’arresto fino ad un anno. Se la condotta di cui al 1° comma ha cagionato un danno patrimoniale ai destinatari del prospetto, la pena è della reclusione da uno a tre anni». La linea di politica legislativa così adottata lasciava estremamente perplessi: quella norma considerava delitto il falso in prospetto soltanto nell’ipotesi in cui la condotta avesse cagionato un danno, mentre la stessa costituiva una mera contravvenzione in mancanza del danno. La norma insomma non qualificava come delitto un comportamento lesivo dell’interesse pubblico alla trasparenza e al buon funzionamento del mercato, considerandolo tale solo quando avesse pregiudicato l’integrità patrimoniale dei singoli risparmiatori. E, d’altro canto, sarebbe stato estremamente difficile provare il nesso di causalità fra il falso ed il danno. Il che contribuiva a rendere molto improbabile la concreta applicazione della norma. A questa situazione, di fortissimo depotenziamento della sanzione penale, ha posto almeno in parte rimedio la legge n. 262 del 2005 che ha abrogato l’art. 2623 c.c. e ha introdotto nel T.U.F. un nuovo articolo (173-
3. Le offerte pubbliche di acquisto o di scambio
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bis) a norma del quale «chiunque, allo scopo di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei prospetti richiesti per l’offerta al pubblico di prodotti finanziari o l’ammissione alla quotazione nei mercati regolamentati, ovvero nei documenti da pubblicare in occasione delle offerte pubbliche di acquisto o di scambio, con l’intenzione di ingannare i destinatari del prospetto, espone false informazioni od occulta dati o notizie in modo idoneo a indurre in errore i suddetti destinatari, è punito con la reclusione da uno a cinque anni». Il comportamento decettivo è qualificato come delitto (e non più come contravvenzione) anche quando non abbia cagionato un danno. Non sarà, tuttavia, facile provare «l’intenzione di ingannare i destinatari del prospetto», il che continuerà a rendere problematica la concreta applicazione della sanzione.
3. Le offerte pubbliche di acquisto o di scambio Abbiamo già ricordato che per offerta pubblica di acquisto o di scambio si intende «ogni offerta, invito a offrire o messaggio promozionale ... finalizzati all’acquisto o allo scambio di prodotti finanziari». Nell’ambito di questa più ampia fattispecie è necessario distinguere le offerte pubbliche di acquisto o di scambio volontarie e quelle obbligatorie. Le prime possono avere ad oggetto qualunque tipo di prodotto finanziario, le secondo sono configurabili e previste soltanto con riferimento ai «titoli» di società italiane ammessi alla quotazione in mercati regolamentati italiani (art. 105, 1° comma, T.U.); e per «titoli» si intendono «gli strumenti finanziari che attribuiscono il diritto di voto, anche limitatamente a specifici argomenti nell’assemblea ordinaria o straordinaria» (art. 101-bis, 2° comma, T.U.F.). Questa distinzione riguarda essenzialmente la presenza o l’assenza di un obbligo a lanciare l’offerta e non anche le modalità di svolgimento della stessa. Le «disposizioni generali», dettate dagli artt. 101-bis fino a 104-ter del T.U., si applicano, dunque, sia alle offerte di acquisto e scambio volontarie sia alle offerte di acquisto obbligatorie. Le disposizioni generali stabilite dal Testo Unico per lo svolgimento delle offerte sono poche e per di più di principio e demandano alla Consob la concreta attuazione delle stesse: di qui l’importanza del Regolamento Emittenti con il quale la Consob ha analiticamente disciplinato le modalità di svolgimento delle offerte di acquisto e di scambio.
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3.1. Comunicazione e documento di offerta A) A norma dell’art. 102, 1° comma, T.U.F. «la decisione ovvero il sorgere dell’obbligo di promuovere un’offerta pubblica di acquisto o di scambio sono senza indugio comunicati alla Consob e contestualmente resi pubblici» e, a norma del 3° comma dello stesso art. 102, «l’offerente promuove l’offerta tempestivamente e comunque non oltre venti giorni dalla comunicazione di cui al comma 1, presentando alla Consob il documento d’offerta destinato alla pubblicazione». La norma è stata così scritta dal D.Lgs. n. 229 del 2007, di attuazione della direttiva comunitaria sull’OPA. Il dettato dell’omologa disciplina prevista dal Testo originario del T.U.F. era diverso e aveva sollevato parecchi problemi interpretativi dei quali è forse opportuno dar conto. Questo il dettato della norma previgente: «Coloro che effettuano una offerta pubblica di acquisto o di scambio ne danno preventiva comunicazione alla Consob, allegando un documento, destinato alla pubblicazione, contenente le informazioni necessarie per consentire ai destinatari di pervenire a un fondato giudizio sull’offerta» (art. 102, 1° comma, T.U.) e la Consob [entro un termine predeterminato], «può indicare agli offerenti informazioni integrative da fornire e specifiche modalità di pubblicazione del documento d’offerta, nonché particolari garanzie da prestare. Decorso tale termine, il documento può essere pubblicato» (art. 102, 2° comma). B) Come si può notare anche per le offerte di acquisto e scambio la legge prevedeva due documenti distinti: la «comunicazione», destinata alla Consob, dell’intenzione di lanciare l’offerta, e il «documento d’offerta» (che tiene luogo del prospetto informativo previsto per le offerte al pubblico di prodotti finanziari), destinato alla pubblicazione. Da un ragionevole coordinamento fra i due atti («comunicazione» e «pubblicazione del documento d’offerta») sembrava possibile trarre la conclusione che la comunicazione era un atto riservato, avente come destinatario la sola Consob e non anche l’emittente ed il mercato, e che tutte le regole di comportamento (compresa la passivity rule disciplinata dall’art. 104, 1° comma, T.U.) dei soggetti interessati all’offerta avrebbero dovuto trovare applicazione dalla pubblicazione del documento e non dalla comunicazione alla Consob. La disciplina regolamentare (art. 37 del Regolamento Emittenti) dettata dalla Consob, era andata, in un primo tempo, di contrario avviso, prevedendo:
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– che la «comunicazione» [dovesse] essere trasmessa «senza indugio, fuori dell’orario di negoziazione, contestualmente al mercato, all’emittente e alla Consob, e che [dovesse] contenere gli elementi essenziali e le finalità dell’operazione» e, almeno secondo l’interpretazione desumibile dalla prassi Consob, il periodo nel quale si ipotizzava di lanciare l’offerta; – la comunicazione doveva considerarsi completa e «prendere data», al fine della decorrenza del termine entro il quale la Consob poteva chiedere di inserire nel documento d’offerta ulteriori informazioni, dalla ricezione del documento d’offerta e della scheda di adesione nonché della documentazione concernente la garanzia e l’avvenuto rilascio delle necessarie autorizzazioni; – il momento dal quale dovevano trovare applicazione le regole di comportamento dei soggetti interessati all’offerta, compresa la passivity rule per la società emittente i titoli oggetto del lancio, avrebbe dovuto ravvisarsi non nella pubblicazione del documento d’offerta, e neppure nel momento del deposito in Consob dello stesso, ma dal momento della «prima» comunicazione dell’intenzione dell’offerente di lanciare l’offerta. La «comunicazione» da atto riservato era divenuta atto pubblico; il lasso di tempo fra la prima comunicazione e il momento in cui la stessa doveva considerarsi completa e «prendere data», nonché il momento della pubblicazione dell’offerta, anziché essere contenuto nel termine breve (di quindici o di trenta giorni) previsto dalla legge, era rimesso alla discrezionalità della Consob, se non alla volontà dell’offerente e il periodo durante il quale la società target restava sottoposta all’«ingessatura» imposta dalla passivity rule risultava protratto sicuramente al di là dei limiti temporali considerati ragionevoli dal legislatore, come emergeva abbastanza chiaramente non solo dal limitato spatium deliberandi concesso alla Consob, ma anche dal limite posto alla «durata dell’offerta», ossia del periodo in cui è possibile aderire alla stessa. In particolare, quell’impostazione risultava pregiudizievole per la società target perché la comunicazione poteva limitarsi a manifestare l’intenzione di lanciare l’offerta senza fissare il termine entro il quale tale intenzione avrebbe dovuto concretizzarsi. E, al di là della sua dubbia conformità, secondo anche quanto deciso dal Consiglio di Stato, al dettato legislativo, il Regolamento Consob comportava costi, soprattutto per la società target, non giustificati dalla pur apprezzabile ratio che ne sorreggeva le scelte: imporre l’immediata pubblicazione dell’intenzione di offerta per impedire operazioni di insider trading e comunque comportamenti scorretti da parte dei «soggetti interessati».
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La Consob aveva successivamente modificato il proprio Regolamento e, pur continuando ad imporre la «pubblicità» della comunicazione, aveva stabilito che a quest’ultima doveva essere allegata una bozza del documento d’offerta destinato alla pubblicazione nonché la scheda di adesione, redatti secondo gli schemi fissati dalla stessa Consob. La nuova disciplina si muove su linee parzialmente diverse. Come abbiamo notato, il legislatore continua a prevedere, per l’avvio dell’offerta, due documenti: la comunicazione e il documento d’offerta, ma impone che la decisione di promuovere l’offerta sia comunicata senza indugio alla Consob e contestualmente sia resa pubblica e che l’offerente promuova l’offerta, entro il termine massimo di venti giorni dalla comunicazione «presentando alla Consob il documento d’offerta destinato alla pubblicazione». Dunque il legislatore impone la pubblicità della comunicazione ma non pretende che alla stessa sia allegato il documento d’offerta; quest’ultimo deve essere reso pubblico e comunicato alla Consob «tempestivamente e comunque entro un periodo massimo di venti giorni dalla comunicazione» e, in caso di mancato rispetto del termine, «il documento d’offerta è dichiarato irricevibile e l’offerente non può promuovere un’ulteriore offerta avente a oggetto prodotti finanziari del medesimo emittente nei successivi dodici mesi» (art. 102, 3° comma, T.U.F.). È, tuttavia, dalla comunicazione e non dalla presentazione del documento d’offerta che trova, ad es. applicazione la c.d. passivity rule (art. 104, 1° comma). La nuova disciplina sembra conseguire un giusto punto di equilibrio fra la necessità di impedire operazioni di insider trading e di limitare il periodo in cui la società target vede limitata la propria autonomia imprenditoriale. Dell’intervenuta comunicazione l’offerente deve dare senza indugio notizia, mediante un comunicato, al mercato e contestualmente all’emittente e il comunicato deve indicare gli elementi essenziali dell’offerta (ossia i soggetti offerenti, i prodotti finanziari oggetto dell’offerta con la indicazione del quantitativo che si intende acquistare o scambiare, il corrispettivo offerto, le eventuali condizioni apposte all’offerta e il momento in cui l’offerta sarà lanciata), le finalità dell’operazione, le garanzie offerte, le partecipazioni già detenute dall’offerente e da soggetti che agiscono in concerto con lui. La comunicazione deve anche attestare che sono state contestualmente presentate alle autorità competenti le richieste di autorizzazione necessarie per l’acquisto delle partecipazioni. Il procedimento d’offerta può dunque prendere avvio anche in assenza delle necessarie autorizza-
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zioni, ma le stesse dovranno comunque intervenire prima che inizi il periodo di adesione da parte degli oblati. C) Il Testo Unico non stabilisce quale debba essere il contenuto del documento di offerta ma, facendo applicazione del principio, generalmente adottato, di delegificazione delle discipline, prevede che la Consob determini con Regolamento «il contenuto del documento d’offerta, nonché le modalità per la pubblicazione del documento e per lo svolgimento dell’offerta» (art. 103, 4° comma, lett. a)). E il Regolamento Consob prevede «schemi» di documenti d’offerta diversi non solo per le offerte pubbliche di acquisto e di scambio e per quelle miste di acquisto e scambio, ma anche specifici contenuti del predetto documento a seconda che oggetto dell’offerta e/o dello scambio siano strumenti finanziari quotati (in quanto tali già noti al mercato) o non quotati e a seconda che l’offerente sia un soggetto che ha già emesso titoli quotati (e come tale già sottoposto a vincoli di trasparenza) o un soggetto che non abbia titoli quotati (e, quindi, bisognoso di un’«illuminazione più intensa»). Non è, evidentemente, possibile descrivere qui in dettaglio i contenuti dei vari schemi (previsti e tipizzati solo con riferimento agli strumenti finanziari, riservandosi la Consob di stabilire il contenuto del documento quando l’offerta abbia per oggetto prodotti finanziari diversi); basti indicarne per sommi capi i punti fondamentali così come elencati dal Regolamento Emittenti. Gli schemi prevedono l’indicazione a) delle «avvertenze» (es.: condizione di efficacia dell’offerta); b) degli elementi essenziali dell’offerta (quantitativo degli strumenti finanziari oggetto dell’offerta, corrispettivo e durata della stessa); c) dei soggetti partecipanti all’operazione (offerente, società emittente, intermediari); d) categorie e quantitativi degli strumenti finanziari oggetto dell’offerta e modalità di adesione (con la precisazione della frazione del capitale sociale in caso di azioni o dell’ammontare complessivo del prestito obbligazionario in caso di obbligazioni); e) quantitativo minimo degli strumenti finanziari che deve essere portato in offerta affinché quest’ultima diventi irrevocabile; f) quantitativi di strumenti finanziari già posseduti dall’offerente; g) corrispettivo unitario previsto per gli strumenti finanziari e sua giustificazione (con indicazione dei criteri seguiti per la determinazione); h) date, modalità di pagamento del corrispettivo e garanzie per l’esatto adempimento; i) motivazione dell’offerta e programmi futuri dell’acquirente per la società emittente; l) informazioni sulle operazioni poste in essere dagli offerenti sugli strumenti finanziari oggetto dell’offerta negli ultimi
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due anni; m) eventuali accordi fra offerenti ed azionisti o amministratori della società emittente gli strumenti finanziari (in particolare relativi all’esercizio del diritto di voto o al trasferimento delle azioni); n) i compensi ai quali hanno diritto gli intermediari; o) la precisazione che in allegato viene riprodotto il comunicato della società emittente, o se lo stesso ancora non è disponibile, la precisazione che l’emittente provvederà alla sua pubblicazione; p) la durata dell’offerta; q) le regole da applicare nel caso in cui si renda necessario un riparto fra gli aderenti che abbiano accettato l’offerta per un quantitativo superiore a quello che l’offerente ha dichiarato di voler acquistare. Sono questi i momenti dell’informazione tipizzata che il documento d’offerta deve contenere; la Consob potrà, tuttavia, imporre di fornire anche le ulteriori informazioni che ritenga necessarie «per consentire ai destinatari di pervenire ad un fondato giudizio sull’offerta». Essa conserva, dunque, una forte discrezionalità tecnica sul punto; discrezionalità ancora più accentuata quando l’offerta abbia ad oggetto prodotti finanziari diversi dagli strumenti finanziari e per i quali, come abbiamo ricordato, non esiste la autolimitazione costituita dalla previsione di schemi tipici di informazione. D) «Entro quindici giorni dalla presentazione del documento d’offerta, la Consob lo approva se esso è idoneo a consentire ai destinatari di pervenire ad un fondato giudizio sull’offerta» (art. 102, 4° comma) e il termine suddetto è di trenta giorni per le offerte che abbiano ad oggetto prodotti finanziari non quotati o diffusi tra il pubblico ai sensi dell’art. 116 del T.U.F. Decorsi tali termini, «il documento» si considera approvato e può quindi essere pubblicato. E) Il documento d’offerta deve essere trasmesso «senza indugio» all’emittente dei prodotti finanziari oggetto dell’offerta. Lo stesso «è diffuso tramite pubblicazione integrale su organi di stampa di adeguata diffusione o tramite consegna presso intermediari e contestuale pubblicazione su organi di stampa di adeguata diffusione dell’avviso di avvenuta consegna, ovvero con altri mezzi concordati con la Consob, secondo modalità che in ogni caso assicurino la conoscibilità degli elementi essenziali dell’offerta e del documento da parte di tutti gli interessati». F) Il D.Lgs. n. 229 del 2007, dando attuazione ad un principio dettato dalla direttiva comunitaria, ha previsto un diritto di informazione dei lavoratori in merito all’offerta stabilendo che il Consiglio di amministra-
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zione o di gestione dell’emittente e dell’offerente debbono dare notizia della comunicazione e trasmettere il documento d’offerta reso pubblico ai «rispettivi rappresentanti dei lavoratori o, in mancanza di rappresentanti, ai lavoratori stessi» (art. 102, 2° comma, T.U.).
3.2. Contenuto e svolgimento dell’offerta. Le offerte concorrenti A) Il legislatore detta poche norme in ordine al contenuto della proposta contrattuale di acquisto o di scambio rivolta dall’offerente agli oblati. Stabilisce che «l’offerta è irrevocabile» e che «ogni clausola contraria è nulla»: eventuali dichiarazioni di revoca sono prive di effetto. L’offerta deve essere «rivolta a parità di condizioni a tutti i titolari dei prodotti finanziari che ne formano oggetto»: il principio di parità di trattamento degli oblati esclude, dunque, la possibilità che vengano stabilite condizioni di offerta diverse ad es.: in relazione all’entità dei quantitativi di prodotti finanziari detenuti dagli oblati. L’offerta non deve riguardare un quantitativo minimo di prodotti finanziari, essendo sufficiente che lo stesso sia superiore alla soglia considerata indispensabile per rendere applicabile la relativa disciplina; deve, per altro, indicare il quantitativo degli strumenti finanziari che si intendono acquistare e, in assenza di precisazioni contrarie, il quantitativo indicato deve considerarsi come quantitativo massimo che l’offerente è disposto ad acquistare, rimanendo egli obbligato anche nell’ipotesi in cui le adesioni siano in numero inferiore. Ma, come si è accennato, l’offerente può ben precisare che non rimarrà obbligato all’acquisto se le adesioni non raggiungeranno una predeterminata soglia; soglia che dovrà essere tale da consentire all’offerente la realizzazione dei progetti che lo stesso dichiara di voler attuare con riferimento alla società target; l’offerta deve dunque considerarsi scindibile, se non è resa inscindibile dall’offerente. L’offerente potrà anche riservarsi la facoltà di accettare quantitativi inferiori alla predetta soglia, purché coerenti con la predetta realizzazione, ed è compito di Consob rilevare tale coerenza e pretendere che l’offerente indichi, comunque, la soglia al di sotto della quale non si avvarrà della predetta facoltà. E, naturalmente, l’offerente potrà riservarsi la facoltà di accettare anche la totalità degli strumenti offerti, anche oltre il quantitativo massimo per il quale la proposta era stata avanzata. Le offerte volontarie (a differenza di quelle obbligatorie), possono essere sottoposte a condizioni (ad es.: che la società target non adotti misure
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difensive o che modifichi il proprio tipo sociale, da cooperativa a società per azioni), purché non meramente potestative, risolvendosi le stesse nella revocabilità dell’offerta; l’offerente può rinunciare alla condizione di efficacia originariamente prevista. L’offerente può, invece, modificare l’offerta e in particolare può aumentare il corrispettivo, ma non può ridurre il quantitativo richiesto (equivalendo la riduzione ad una revoca parziale); inoltre l’offerta in aumento può intervenire fino al giorno precedente la data prevista per la chiusura del periodo di adesione (art. 43 Regolamento Emittenti). B) La durata del periodo di adesione, ossia il periodo in cui è possibile aderire all’offerta, è concordata con la società di gestione del mercato, se oggetto della stessa sono titoli quotati, o con la Consob, se sono prodotti finanziari non quotati; tale periodo va da un minimo di quindici ad un massimo di venticinque giorni per le offerte obbligatorie, mentre va da un minimo di quindici ad un massimo di quaranta giorni per le altre offerte; per le offerte aventi ad oggetto obbligazioni e altri titoli di debito, la durata minima è ridotta a cinque giorni. L’offerente può riservarsi la facoltà di protrarre, naturalmente nel limite di legge, il periodo concordato, ma non può anche riservarsi la facoltà di ridurlo. Il legislatore ha voluto porre un limite temporale alla condizione traumatica nella quale la società emittente i titoli oggetto dell’offerta si trova, soprattutto nelle ipotesi in cui l’offerente tenda ad acquistarne il controllo. Il termine massimo può, tuttavia, essere prorogato fino a cinquantacinque giorni dalla Consob, sentiti l’offerente e la società di gestione del mercato, quando la proroga sia giustificata da «esigenze di corretto svolgimento dell’offerta e di tutela degli investitori». Ma esiste anche un termine a quo per la durata del periodo di adesione: lo stesso può iniziare soltanto quando siano trascorsi cinque giorni dalla pubblicazione del documento di offerta, salvo che tale documento contenga già il comunicato dell’emittente e non può avere inizio se non è stata rilasciata l’autorizzazione prevista dall’ordinamento di settore per l’acquisizione di partecipazioni (es.: come nelle banche). C) La durata del periodo di adesione viene automaticamente prorogata di dieci giorni se negli ultimi dieci giorni originariamente previsti per l’adesione viene convocata l’assemblea dei soci della società target per l’assunzione di misure difensive ai sensi dell’art. 104. D) Sulla durata del periodo di adesione può incidere infine il lancio di offerte concorrenti. L’offerta concorrente, non più subordinata, come
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in passato, al fatto che il corrispettivo globale per ciascuna categoria di prodotti finanziari sia superiore a quello dell’ultima offerta o se venga «rinunciata» una condizione di efficacia apposta alla prima offerta, può essere lanciata «fino a cinque giorni prima della data prevista per la chiusura del periodo di adesione, anche prorogato, dell’offerta precedente». Il lancio di un’offerta concorrente ha come effetto anche quello di rendere revocabile l’adesione dell’oblato ad un’offerta precedente (cfr. art. 44 del Regolamento Emittenti). Al lancio di un’offerta concorrente può far seguito anche il rilancio dell’offerente originario: nel qual caso sarà possibile revocare l’adesione all’offerta concorrente. E la possibilità di rilancio è oggi consentita anche all’offerta concorrente, mentre tale possibilità, sulla base dell’ordinamento precedente, era stata negata dalla Consob. E) L’adesione all’offerta avviene presso l’offerente, gli intermediari incaricati e i depositari abilitati alla prestazione di servizi di investimento, tramite sottoscrizione della scheda di adesione, il cui contenuto minimo necessario è determinato dal Regolamento Consob. Resta così confermato che i contratti che vengono stipulati a seguito di un’offerta pubblica sono necessariamente documentati in forma scritta. Con l’adesione si perfeziona il contratto di compravendita fra l’offerente e il destinatario che ha aderito; contratto la cui efficacia può, tuttavia, essere subordinata a particolari condizioni, poste dall’offerente, come il raggiungimento della soglia minima delle adesioni. Ipotesi quest’ultima che non contraddice il convincimento che l’offerta si traduca in una pluralità di contratti (con gli oblati) e non in un solo contratto avente come parte la totalità degli aderenti. Come abbiamo notato, nell’ipotesi di offerte concorrenti o di rilanci, gli oblati che avessero già accettato l’offerta possono revocare la propria adesione per accettare la nuova proposta. La Consob ha altresì stabilito che gli oblati che avessero aderito ad offerte risultate sconfitte possono apportare i loro titoli all’offerta vincente entro cinque giorni dalla pubblicazione dei risultati dell’offerta (art. 44, 7° comma del Regolamento Emittenti).
3.3. Il comunicato dell’emittente Momento importante nello svolgimento dell’offerta è il comunicato dell’emittente. A norma infatti dell’art. 103, 3° comma, T.U. «Il consiglio di amministrazione dell’emittente diffonde un comunicato contenente ogni
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dato utile per l’apprezzamento dell’offerta e la propria valutazione sulla medesima. Per le società organizzate secondo il modello dualistico il comunicato, eventualmente congiunto, è approvato dal consiglio di gestione e dal consiglio di sorveglianza». Il comunicato, che per la sua delicatezza deve indicare «i nominativi dei componenti dell’organo di amministrazione e di controllo presenti alla seduta», esprime la valutazione del consiglio di amministrazione sull’offerta e si conclude con un giudizio sulla convenienza per gli azionisti della accettazione della stessa, rendendo così quest’ultima «amichevole», nell’ipotesi in cui il consiglio suggerisca agli azionisti di accettarla, od «ostile», nell’ipotesi in cui l’offerta stessa venga considerata non conveniente per gli azionisti medesimi. Il comunicato inoltre a) indica se vi siano componenti degli organi di amministrazione e del consiglio di sorveglianza che abbiano dato notizia di essere portatori di un interesse proprio o di terzi relativo all’offerta precisandone la natura, i termini, l’origine e la portata; b) indica se l’emittente, nel giudizio sull’offerta, si sia avvalso di pareri di esperti indipendenti o di appositi documenti di valutazione; in tali ultime ipotesi sono indicate le metodologie utilizzate e le risultanze di ogni criterio impiegato; c) fornisce informazioni sui fatti di rilievo non indicati nell’ultimo bilancio o nell’ultima situazione contabile infrannuale periodica pubblicata; d) fornisce informazioni sull’andamento recente e sulle prospettive dell’emittente, ove non riportate nel documento d’offerta (cfr. art. 39 Regolamento Emittenti). La società emittente deve trasmettere il comunicato alla Consob almeno due giorni prima della data prevista per la sua diffusione e la Consob può chiedere che vengano fornite informazioni integrative. Il legislatore, partendo dal presupposto che il consiglio di amministrazione della società target abbia una conoscenza privilegiata della medesima, gli addossa il compito di fornire agli azionisti un giudizio sull’offerta; giudizio della cui ragionevolezza gli amministratori risponderanno nei confronti degli azionisti medesimi. Si è sempre ritenuto, in passato, che l’unico interesse che l’emittente deve valutare fosse quello degli azionisti. L’assunto non è più così certo. L’art. 2 del D.Lgs. 19 novembre 2007, dando attuazione ad un’analoga disposizione della direttiva comunitaria 2004/25, ha infatti introdotto nell’art. 103 del Testo Unico della finanza un comma 3°-bis del seguente tenore: «Il comunicato contiene altresì una valutazione degli effetti che l’e-
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ventuale successo dell’offerta avrà sugli interessi dell’impresa, nonché sull’occupazione e la localizzazione dei siti produttivi. Contestualmente alla sua diffusione, il comunicato è trasmesso ai rappresentanti dei lavoratori della società o, in loro mancanza, ai lavoratori direttamente. Se ricevuto in tempo utile, al comunicato è allegato il parere dei rappresentanti dei lavoratori quanto alle ripercussioni sull’occupazione». La norma dà rilevanza agli «interessi dell’impresa», agli «interessi dei lavoratori» e alla incidenza dell’offerta sulla «localizzazione dei siti produttivi». E di questi interessi gli organi della società emittente debbono tener conto nella valutazione complessiva dell’offerta. Sembrano trovare accoglienza le tesi che affermano la responsabilità sociale dell’impresa. Mi sembra, tuttavia, difficile immaginare che un’offerta possa essere considerata amichevole perché attenta a questi ulteriori interessi quando non sia ritenuta conveniente per gli azionisti. Il comunicato dell’emittente se non allegato, come è ben possibile, al documento d’offerta, deve essere pubblicato entro il primo giorno di durata dell’offerta e quest’ultima non può cominciare a decorrere se non cinque giorni dopo la pubblicazione del documento d’offerta, nell’ipotesi in cui il comunicato dell’emittente non sia allegato a tale documento. Il che dimostra, ancora una volta, la rilevanza che il legislatore attribuisce al giudizio dell’emittente.
3.4. Regole di correttezza per i «soggetti interessati» Al «lancio» di un’offerta pubblica di acquisto o di scambio l’ordinamento ricollega doveri di trasparenza e correttezza a carico dei «soggetti interessati», intendendosi per tali l’offerente, l’emittente, i soggetti ad essi legati da rapporti di controllo, le società sottoposte a comune controllo o collegate, i loro amministratori, sindaci e direttori generali, i soci dell’offerente o dell’emittente aderenti ad un patto parasociale nonché coloro che operano di concerto con l’offerente o l’emittente (cfr. art. 35 Regolamento Emittenti). Più esattamente essi «si attengono a principi di correttezza e di parità di trattamento dei destinatari dell’offerta e che si trovino in identiche condizioni, compiono tempestivamente le attività e gli adempimenti connessi allo svolgimento dell’offerta, non eseguono operazioni sul mercato volte a influenzare le adesioni all’offerta e si astengono da comportamenti e da accordi diretti ad alterare situazioni rilevanti per i presupposti dell’offerta pubblica di acquisto o di scambio obbligatoria»; diffondono dichiarazioni riguardanti l’offerta e l’emittente soltanto tramite comunica-
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ti al mercato, contestualmente trasmessi alla Consob; comunicano entro la giornata alla Consob e al mercato le operazioni di acquisto e vendita di strumenti finanziari oggetto d’offerta o che diano diritto ad acquistarli o venderli da essi compiute anche per interposta persona, indicando i corrispettivi pattuiti; e, in particolare, l’offerente e gli altri soggetti interessati, che «acquistano gli strumenti finanziari oggetto dell’offerta ovvero il diritto ad acquistarli anche a data successiva a prezzi superiori a quelli di offerta» (artt. 41 e 42 Regolamento Emittenti), devono adeguare questi ultimi al prezzo più alto pagato, dando così concreta attuazione al principio di parità di trattamento. E questi doveri incombono loro per l’intero «periodo d’offerta», ossia per il periodo intercorrente tra la data della comunicazione al mercato e la data prevista per il pagamento del corrispettivo e, quindi, sia prima sia dopo il «periodo di adesione», che abbiamo visto essere il più limitato periodo nel quale è possibile, per gli oblati, aderire all’offerta. I «soggetti interessati» non incontrano invece limiti alla loro attività nel periodo precedente la comunicazione, così potranno ad es.: essere effettuati acquisti prodromici al lancio dell’offerta. Dalla data della comunicazione, e fino ad un anno dalla chiusura dell’offerta, la Consob può richiedere notizie e documenti agli emittenti, agli offerenti, ai loro controllanti, agli incaricati della raccolta delle adesioni, ai loro amministratori, sindaci, revisori e dirigenti; eseguire ispezioni presso gli offerenti, i controllanti, anche congiuntamente, degli offerenti e degli emittenti e i soggetti incaricati della raccolta delle adesioni; essa, inoltre, può sospendere lo svolgimento dell’offerta nell’ipotesi in cui vi sia fondato sospetto che siano state violate le disposizioni di legge e regolamentari che disciplinano le offerte pubbliche e può «dichiararla decaduta» nell’ipotesi in cui tale violazione sia stata accertata (art. 102, 6° comma, T.U. n. 58 del 1998). Le falsità nel documento d’offerta sono punite a norma dell’art. 2623, già preso in considerazione a proposito della sollecitazione all’investimento.
3.5. La passivity rule A) Di particolare rilievo nell’ambito dei doveri di comportamento che il legislatore impone in connessione con il lancio di un’offerta pubblica, è quello nel quale si sostanzia la c.d. passivity rule, ossia l’insieme delle regole alle quali l’emittente deve attenersi quando le sue azioni siano oggetto di un’offerta pubblica di acquisto o di scambio.
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Nel nostro ordinamento, per altro, queste regole riguardano soltanto l’ipotesi in cui oggetto dell’offerta siano i «titoli», ossia «gli strumenti finanziari che attribuiscono il diritto di voto, anche limitatamente a specifici argomenti, nell’assemblea ordinaria o straordinaria» di società italiane quotate, ossia di società con sede legale nel territorio italiano e con «titoli» ammessi alla negoziazione «in un mercato regolamentato di uno stato comunitario»; se oggetto dell’offerta sono titoli di società italiane che non hanno titoli quotati in tali mercati, la società emittente continuerà ad essere assoggettata alle norme di diritto comune. Nell’analizzare il contenuto della passivity rule, è necessario distinguere la disciplina dettata dal testo originario del T.U.F. e quella introdotta dall’art. 13 del D.L. 29 novembre 2008, n. 185 convertito con legge 28 gennaio 2009, n. 2; che ha avuto, peraltro, vita breve, essendo stata abrogata dal D.Lgs. 25 settembre 2009, n. 146. L’art. 104, 1° comma, T.U. del 1998 stabiliva che «salvo autorizzazione dell’assemblea ordinaria o di quella straordinaria per le delibere di competenza, le società italiane quotate i cui titoli sono oggetto dell’offerta si astengono dal compiere atti od operazioni che possono contrastare il conseguimento degli obiettivi dell’offerta»; e aggiungeva: «le assemblee deliberano, in ogni convocazione, con il voto favorevole di tanti soci che rappresentano almeno il trenta per cento del capitale. Resta ferma la responsabilità degli amministratori e dei direttori generali per gli atti e le operazioni compiuti». Il legislatore del 1998 non precludeva, dunque, alla società target il compimento di «atti od operazioni che possano contrastare il conseguimento degli obiettivi dell’offerta» (manovre difensive), ma pretendeva che le stesse fossero autorizzate dall’assemblea dei soci anche quando fossero rientrate nella competenza del consiglio di amministrazione, essendo, come ovvio, sospettabili, i componenti del consiglio, di un interesse personale e potenzialmente in conflitto con quello dei soci, a contrastare il successo dell’offerta; successo che potrebbe portare, in caso di OPA ostile, alla loro sostituzione. Non solo, ma il legislatore del 1998 richiedeva che tali manovre fossero approvate, indipendentemente dal fatto che rientrassero nella competenza istituzionale dell’assemblea straordinaria o dovessero essere sottoposte all’assemblea ordinaria, in quanto istituzionalmente riconducibili alla competenza del consiglio di amministrazione, con un quorum deliberativo calcolato sul capitale (avente diritto di voto) e individuato in almeno il trenta per cento dello stesso in ogni convocazione. Si era così concesso ai soci il potere di assumere le iniziative che avessero ritenuto più opportune per resistere alle scalate ostili, ma si era preteso che tali iniziative fossero assunte con il consenso di una frazione
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molto rilevante del capitale sociale; il che nelle società con azionariato molto diffuso, rendeva particolarmente difficile l’autorizzazione a manovre che consentivano ai soci di difendersi dalle scalate ostili. E sotto questo profilo l’ordinamento italiano si differenziava da altri ordinamenti comunitari, come quello tedesco, che consentono al consiglio di amministrazione di adottare le difese ritenute più opportune per resistere ad offerte ostili. Questo modello era stato radicalmente modificato dal già ricordato art. 13 del D.L. n. 185 del 2008. Nella preoccupazione di scoraggiare eventuali attacchi all’assetto di controllo esistente nelle società quotate, il legislatore del 2008 aveva decisamente facilitato l’adozione di misure difensive. E lo aveva fatto sotto due profili: aveva stabilito a) che la regola, secondo la quale le difese debbono sempre essere autorizzate dall’assemblea, si applicasse soltanto se lo prevedeva lo statuto e b) che l’assemblea eventualmente chiamata ad autorizzare una manovra difensiva deliberasse non più con il quorum rafforzato del 30% del capitale sociale, ma secondo le regole di diritto comune previste dal codice o dallo statuto. Le norme introdotte dal D.Lgs. n. 185 del 2008, appena ricordate, sono state almeno in parte modificate dal D.Lgs. 25 settembre 2009, n. 146. Questo provvedimento ha ripristinato, con effetto dal 1° luglio 2010, la regola fissata dal T.U. n. 58 del 1998 nel suo testo originario, ossia ha ribadito che le manovre difensive debbono essere approvate dall’assemblea anche in assenza di una eventuale previsione statutaria in tal senso; assemblea i cui quorum costitutivo e deliberativo restano, per altro, disciplinati dalle norme di diritto comune. A norma, tuttavia, dell’art. 104, comma 1°-ter, gli statuti possono escludere, in tutto o in parte, l’applicazione di tale regola dando comunicazione di tale esclusione alla Consob e al mercato. B) È necessario impedire che il periodo di «ingessatura» nel quale si trova la società target si protragga eccessivamente. La Consob aveva ritenuto che questo periodo cominciasse a decorrere dal momento della comunicazione e si protraesse fino alla chiusura della durata dell’offerta, soluzione che era apparsa eccessivamente penalizzante per la società target quando, alla stregua della primitiva versione del Regolamento Emittenti, la comunicazione non era accompagnata dalla bozza del documento d’offerta e che pareva meno punitiva dopo che la stessa Consob aveva stabilito, che la bozza di tale documento doveva indicare il momento in cui l’offerta doveva essere lanciata. Oggi questa soluzione è esplicitamente accolta dall’art. 104, T.U.F., così come modificato dal D.Lgs. n. 229 del 2007, a mente del quale «l’ob-
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bligo di astensione si applica dalla comunicazione di cui all’art. 102, comma 1 e fino alla chiusura dell’offerta ovvero fino a quando l’offerta stessa non decada». C) La disciplina della passivity rule solleva alcuni dubbi interpretativi sui quali è opportuno soffermarsi. Anzitutto con riferimento alla individuazione degli «atti od operazioni che possano contrastare il conseguimento degli obiettivi dell’offerta». La Consob ha avuto modo di precisare che gli atti e le operazioni in questione possono essere ricondotti a tre distinte categorie: una prima categoria ricomprende gli atti che «puntano ad incrementare il costo necessario per raggiungere il quantitativo di adesioni che l’offerente intende» conseguire, come gli aumenti di capitale, la conversione delle azioni prive del diritto di voto in azioni dotate di tale diritto e oggetto dell’offerta; una seconda categoria sarebbe rappresentata dalle operazioni volte «a mutare», anche con effetto differito, le caratteristiche patrimoniali della società bersaglio, come le cessioni di beni, le operazioni di fusione e scissione; in una terza categoria rientrerebbero i «comportamenti di disturbo», volti a rendere difficile la possibilità che l’offerente raggiunga realmente l’obiettivo perseguito, come la promozione di un’offerta contraria sulle azioni dell’offerente, o l’acquisizione di imprese che rendano il successo dell’offerta incompatibile con la normativa antitrust o la predisposizione di «paracadute d’oro» per gli attuali amministratori. In particolare, la Consob ha escluso che rientri nell’ambito delle operazioni che possono contrastare gli obiettivi dell’offerta, la stipulazione di un accordo con altra società che offra agli azionisti della società target un’alternativa all’offerta della quale sono destinatari, attraverso il lancio di offerta concorrente o anche attraverso accordi di «combinazione aziendale», come la creazione di una società holding chiamata a lanciare un’offerta di scambio sulle stesse azioni oggetto dell’offerta nonché su quelle della società con la quale è destinata a realizzarsi «l’aggregazione aziendale». Il che rimarrebbe vero anche se tale accordo potrebbe dissuadere i destinatari dall’aderire all’offerta dal momento che, di per sé, la stessa non altererebbe la situazione societaria dell’emittente. Il D.Lgs. n. 229 del 2007 ha accolto tale soluzione stabilendo (art. 104, 1° comma) che «la mera ricerca d’altre offerte non costituisce atto od operazione in contrasto con gli obiettivi dell’offerta». Dubbio era, sulla base del dettato originario del T.U. se l’autorizzazione dell’assemblea fosse necessaria anche quando l’operazione fosse già stata deliberata in sede assembleare e la sua concreta attuazione fosse stata delegata all’organo amministrativo, come ad es. l’aumento di capi-
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tale delegato ex art. 2443 c.c. al consiglio di amministrazione. In realtà l’autorizzazione pareva necessaria anche in questo caso, non essendo sufficienti ad escluderla né il fatto che l’operazione rientrasse nelle competenze del consiglio, dal momento che la stessa è necessaria anche per atti che istituzionalmente rientrano in tale competenza, né la precedente deliberazione assembleare, per la quale non era richiesta la maggioranza rafforzata prevista dall’art. 104 T.U. E questa soluzione è stata accolta dal D.Lgs. n. 229 del 2007 che ha introdotto nell’art. 104 un comma 1°bis, poi divenuto comma 1°-ter, e destinato a ridiventare comma 1°-bis in forza del D.Lgs. n. 146 del 2009, del seguente tenore: «L’autorizzazione assembleare prevista dal comma 1 è richiesta anche per l’attuazione di ogni decisione presa prima dell’inizio del periodo indicato [nel 1° comma], che non sia ancora stata attuata in tutto o in parte, che non rientri nel corso normale delle attività della società e la cui attuazione possa contrastare il conseguimento degli obiettivi dell’offerta». È, invece da escludere la necessità dell’autorizzazione assembleare per le operazioni che la società deve compiere in forza di accordi già stipulati con terzi. Qualche perplessità aveva sollevato la disposizione (art. 104, 1° comma, T.U.) che tiene «ferma» la «responsabilità» degli amministratori, dei direttori generali per gli atti e le operazioni compiuti e non tanto per quanto concerne la responsabilità verso i creditori sociali e i terzi, non potendo la stessa essere eliminata da un’autorizzazione assembleare, quanto per l’eventuale responsabilità verso la società, essendo allora consolidato l’orientamento secondo il quale gli amministratori non sarebbero incorsi in siffatta responsabilità per il compimento di atti autorizzati dall’assemblea. Questo orientamento secondo alcuni avrebbe dovuto trovare applicazione anche nel caso in esame, rimanendo anche esclusa la possibilità che, per le società quotate, venga esercitata nei loro confronti l’azione di responsabilità da parte di una minoranza, prevista dall’art. 129 T.U. La riforma societaria del 2003 offre ora un argomento importante per ritenere che la norma dell’art. 104 T.U. non escluda neppure la responsabilità degli amministratori verso la società, dal momento che afferma la responsabilità degli amministratori anche per gli atti autorizzati dall’assemblea (art. 2364, n. 5). E nei loro confronti potrà, dunque, essere esercitata anche l’azione di responsabilità prevista dall’art. 2393-bis del codice civile. D) La mancanza dell’autorizzazione espone gli amministratori, oltre che alla sanzione pecuniaria prevista dall’art. 192 T.U., anche all’eventuale responsabilità, almeno nei confronti dei creditori sociali e dei singoli soci
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o terzi danneggiati, ma non dovrebbe comportare né l’inefficacia né la nullità dell’atto non autorizzato. La mancanza di una qualsiasi previsione in tal senso e la difficile conciliabilità della inefficacia o della nullità dell’atto con le esigenze proprie del mercato suggeriscono di limitare al piano obbligatorio e alla sanzione amministrativa la tutela del precetto. E) L’assemblea chiamata ad autorizzare la misura difensiva ha regole di convocazione particolari. Più esattamente il T.U. (art. 104, 2° comma) prevedeva che «i termini e le modalità di convocazione delle assemblee da tenersi in pendenza dell’offerta sono disciplinati, anche in deroga alle vigenti disposizioni di legge, con Regolamento emanato dal Ministro di Grazia e Giustizia, sentita la Consob» e l’art. 2 del Regolamento ministeriale 5 novembre 1998, n. 437 aveva stabilito che «le assemblee da tenersi in pendenza di un’offerta pubblica di acquisto o di scambio, a norma dell’art. 104 del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, sono convocate mediante avviso, contenente le indicazioni prescritte dall’art. 2366, 1° comma, c.c., pubblicato su un quotidiano a diffusione nazionale e trasmesso a due agenzie di stampa almeno quindici giorni prima di quello fissato per l’adunanza». Il D.Lgs. 27 gennaio 2010, n. 27, che ha rivisitato la disciplina delle assemblee delle società quotate, ha abrogato tali norme, limitandosi a precisare che l’assemblea chiamata a deliberare sulle misure difensive deve essere convocata secondo le regole generali fissate dall’art. 125 del T.U.F., ma il termine per la pubblicazione dell’avviso è ridotto a quindici giorni (art. 104, 2° comma, T.U.F.). La norma trova la propria giustificazione nella necessità di adottare per la convocazione strumenti più rapidi di quelli di diritto comune, abbreviando anche i termini della stessa e tutto ciò in relazione alla celerità che caratterizza lo svolgimento di un’offerta pubblica. Queste esigenze dovrebbero far ritenere che la disciplina speciale in questione trovi applicazioni non solo per le assemblee della società target, chiamate ad autorizzare misure difensive, ma anche per le assemblee dell’offerente (o del concorrente) che possono presentare le stesse esigenze. Anche se la collocazione della norma, nell’ambito dello stesso articolo che disciplina le manovre difensive, potrebbe far propendere per la tesi che preferisce limitarne l’applicazione all’assemblea della società emittente chiamata a deliberare su tali manovre. F) Nei limiti fissati dall’art. 104-bis, e che fra un attimo esamineremo, nell’assemblea chiamata ad approvare misure «difensive», trova applicazione la «Regola di neutralizzazione», secondo la quale «nel periodo di adesione all’offerta non hanno effetto … nelle assemblee chiamate a de-
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cidere sugli atti e le operazioni previste dall’art. 104, le limitazioni al diritto di voto previste nello statuto o dai patti parasociali». G) Il D.Lgs. 6 febbraio 2004, n. 37 aveva stabilito (art. 104, comma 1°bis, T.U.F.) che «le società italiane con azioni quotate in mercati regolamentati italiani o di altri paesi dell’Unione Europea possono emettere azioni con diritto di voto subordinato all’effettuazione di un’offerta solo se, per il verificarsi della condizione sia necessaria un’autorizzazione assembleare ai sensi del comma precedente», ossia secondo le norme che disciplinano l’adozione di misure difensive. La norma pretendeva, in altri termini, d’incidere sull’autonomia statutaria ma, in realtà, si trattava di un effetto ottico conseguente ad un cattivo dettato letterale. La norma, infatti, tendeva semplicemente a stabilire che, per poter esercitare i diritti di voto relativi alle azioni in questione, era necessario che intervenisse una deliberazione assembleare che autorizzasse l’esercizio dei medesimi diritti. In altri termini lo statuto poteva limitarsi a prevedere azioni cui veniva attribuito il diritto di voto per la sola ipotesi in cui la società fosse oggetto di un’offerta pubblica di acquisto; il concreto esercizio di tali diritti poteva avvenire soltanto nel rispetto delle regole proprie della passivity rule. Questa norma è stata abrogata dall’art. 13 della legge n. 2 del 2009 e, pertanto, si deve ritenere che l’esercizio del diritto di voto nell’ipotesi sopra indicata non debba essere autorizzato dall’assemblea.
3.6. La regola di neutralizzazione La regola di neutralizzazione è stata, insieme alla disciplina della passivity rule e alla clausola di reciprocità, uno dei punti che, nei lavori preparatori della direttiva 2004/25, hanno provocato le più vivaci discussioni. La direttiva ha previsto l’applicabilità di tale regola, ma ha consentito agli stati di non pretenderla dalle società che abbiano sede nel loro territorio. Il legislatore italiano nel dare attuazione alla direttiva aveva ritenuto preferibile applicare tale regola nei limiti, per altro, della clausola di reciprocità, della quale ci occuperemo nel prossimo paragrafo. Il decreto legge 29 novembre 2008, n. 185 (convertito con legge 28 gennaio 2009, n. 2) ha imboccato una strada diversa ed ha subordinato l’applicazione della regola ad un recepimento statutario della stessa. Con questo avvertimento vediamo più da vicino l’ambito di applicazione della regola di neutralizzazione e il suo contenuto. La regola si applica «quando è promossa un’offerta pubblica di acqui-
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sto o di scambio avente ad oggetto i titoli emessi dalle società italiane i cui titoli sono ammessi alla negoziazione in un mercato regolamentato italiano o comunitario», ad esclusione delle società cooperative. La regola di neutralizzazione prevede la sospensione dei vincoli al trasferimento delle azioni o al diritto di voto in coincidenza con un’offerta pubblica di acquisto o di scambio e questa «sospensione» può intervenire sia durante lo svolgimento dell’offerta sia dopo la conclusione della stessa in connessione con un esito particolarmente favorevole della medesima per l’offerente. In ogni caso si tratta di norme che intendono favorire la contendibilità del controllo delle società quotate, eliminando alcuni ostacoli che renderebbero più difficile se non impossibile il cambio del controllo. A norma dell’art. 104-bis, 2° comma «nel periodo di adesione all’offerta non hanno effetto nei confronti dell’offerente le limitazioni al trasferimento di titoli previste dallo statuto né hanno effetto, nelle assemblee chiamate a decidere sugli atti e sulle operazioni previsti dall’art. 104, le limitazioni al diritto di voto previste dallo statuto o da patti parasociali». Nelle medesime assemblee le azioni a voto plurimo conferiscono soltanto un voto e non si computano i diritti di voto assegnati ai sensi dell’art. 127-quinquies (voti maggiorati ai soci «fedeli»). Dunque, nel periodo di adesione gli azionisti potranno «aderire» all’offerta senza osservare i diritti di prelazione o di gradimento fissato dallo statuto. La norma non sembra rendere inefficaci le limitazioni al trasferimento previste da patti parasociali, ma come vedremo il socio può recedere da un sindacato di blocco in presenza di un’offerta pubblica, almeno nei limiti fissati dall’art. 123, 3° comma. E durante lo stesso periodo non varranno, nelle assemblee di cui all’art. 104, le eventuali limitazioni previste dallo statuto (tetto massimo al voto) o da patti parasociali (quando la decisione sulla direzione del diritto di voto sia rimessa alla decisione collettiva degli aderenti al sindacato di voto) né le maggioranze derivanti dal voto plurimo o dal voto maggiorato. La regola di neutralizzazione trova applicazione anche dopo la conclusione dell’offerta e tende a consentire l’effettivo cambio del controllo attraverso la eliminazione di vincoli al diritto di voto o la maggiorazione dello stesso la cui persistenza vanificherebbe l’esito dell’offerta. A norma, infatti, del 3° comma dell’art. 104-bis «Quando a seguito di offerta [pubblica di acquisto o di scambio], l’offerente venga a detenere almeno il settantacinque per cento del capitale con diritto di voto nelle deliberazioni riguardanti la nomina o la revoca degli amministratori o dei componenti del consiglio di gestione o di sorveglianza, nella prima assemblea che segue la chiu-
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sura dell’offerta, convocata per modificare lo statuto o per revocare o nominare gli amministratori o i componenti del consiglio di gestione o di sorveglianza le azioni a voto plurimo conferiscono soltanto un voto e non hanno effetto: a) le limitazioni al diritto di voto previste nello statuto o da patti parasociali; b) qualsiasi diritto speciale in materia di nomina o revoca degli amministratori o dei componenti del consiglio di gestione o di sorveglianza previsto nello statuto; b-bis) le maggiorazioni di voto spettanti ai sensi dell’art. 127-quinquies». Si consente all’offerente vincitore di nominare nuovi amministratori nella società conquistata eliminando, nella prima assemblea successiva alla chiusura dell’offerta, le limitazioni al diritto di voto, o i diritti speciali previsti dallo statuto a favore di particolari azionisti (mentre resistono i poteri speciali riconosciuti al Ministero dell’Economia nelle società privatizzate (ENI, ENEL) dall’art. 2 della legge n. 474 del 1994 e i limiti al possesso azionario e al diritto di voto previsti dalla stessa legge: cfr. art. 104-bis, 7° comma). Le limitazioni all’esercizio del diritto di voto attribuite dallo statuto a titoli dotati di privilegi di natura patrimoniale conservano la propria efficacia anche nelle assemblee che approvano le «difese» o che provvedono alla nomina dei nuovi amministratori dopo la conclusione di un’offerta che ha visto l’offerente acquisire il 75% del capitale sociale con diritto di voto della società target. La compressione degli interessi dei quali erano titolari i soci che godevano di eventuali diritti di prelazione nel trasferimento delle azioni o che vedevano il proprio potere rafforzato dai limiti al diritto di voto non resta senza riconoscimento da parte del legislatore, anche se cede all’interesse generale alla contendibilità del controllo delle imprese. Se il patto parasociale o la clausola statutaria che tutela tali interessi furono stipulati prima della comunicazione della decisione di lanciare un’offerta pubblica d’acquisto o di scambio, e purché l’offerta abbia avuto esito positivo, l’offerente deve a tali soggetti un «equo indennizzo per eventuale pregiudizio patrimoniale subito (art. 104-bis, 5° comma)». L’entità dell’indennizzo, se non determinata convenzionalmente dalle parti, «è fissata dal giudice in via equitativa avendo riguardo, tra l’altro, al raffronto tra la media dei prezzi di mercato del titolo nei dodici mesi antecedenti la prima diffusione della notizia dell’offerta e l’andamento dei prezzi successivamente all’esito positivo dell’offerta (art. 104-bis, 5° comma)».
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3.7. La clausola di reciprocità Abbiamo, nei paragrafi precedenti, constatato che il legislatore prevede che le misure difensive contro un’OPA ostile siano riservate all’assemblea dei soci; in altri paesi le misure difensive possono essere messe in campo dagli amministratori. D’altro canto, anche le regole di neutralizzazione (art. 104-bis) non sono accolte in tutti gli ordinamenti comunitari o comunque non lo sono con pari ampiezza. Il legislatore italiano si preoccupa che le società italiane quotate, alle quali si applichino la passivity rule e le regole di neutralizzazione, si trovino in una posizione di inferiorità istituzionale nei confronti di società il cui ordinamento non applica o applica in misura meno severa quelle due regole e consente l’adozione del principio di reciprocità. L’art. 104-ter, inserito nel T.U.F. dal D.Lgs. n. 229 del 2007 e modificato dal D.Lgs. n. 146 del 2009 stabilisce, infatti, che le disposizioni di cui agli artt. 104, 1° comma e 1°-bis [difese] e, qualora previste negli statuti, le disposizioni di cui all’art. 104-bis, 2° e 3° comma [neutralizzazione], «non si applicano in caso di offerta pubblica promossa da chi non sia soggetto a tali disposizioni ovvero a disposizioni equivalenti, ovvero da una società o ente da questi controllata». L’utilizzazione del principio di reciprocità non ha, tuttavia, una fonte legislativa diretta, nel senso che lo stesso opera soltanto se la società è stata autorizzata a profittarne da una deliberazione dell’assemblea assunta nei diciotto mesi precedenti la comunicazione della decisione di promuovere un’offerta pubblica di acquisto o di scambio. La norma porrà notevoli problemi applicativi per quanto concerne l’equivalenza fra gli ordinamenti; il relativo giudizio è rimesso alla Consob che, su istanza dell’offerente o dell’emittente, deve determinare «se le disposizioni applicabili [all’offerente] siano equivalenti a quelle cui è soggetta la società emittente».
4. Le offerte pubbliche di acquisto obbligatorie Il legislatore (art. 105, 1° comma, T.U.F.) prevede ipotesi di offerte pubbliche obbligatorie soltanto con riferimento «alle società italiane con titoli [ossia strumenti finanziari che attribuiscono il diritto di voto, anche limitatamente a specifici argomenti nell’assemblea ordinaria o straordinaria] ammessi alla negoziazione in mercati regolamentati italiani» e, quindi, il relativo obbligo non sussiste né per le società italiane quota-
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te soltanto in un mercato regolamentato non italiano né per le società straniere, anche se quotate in un mercato regolamentato italiano. E da quest’ultima constatazione si può trarre argomento per dubitare che le norme sull’offerta pubblica obbligatoria siano norme che disciplinano esclusivamente il mercato (piuttosto che la struttura societaria), dal momento che le norme di mercato dovrebbero applicarsi indipendentemente dalla «cittadinanza» dell’operatore. L’obbligo concerne esclusivamente le «partecipazioni» che superino determinate soglie. Importante ovviamente, in questo ambito, la definizione di partecipazione. Tale nozione faceva riferimento alle azioni ordinarie (e noi utilizzeremo ancora anche questa nozione nel prosieguo), ma la definizione è stata rimodellata una prima volta dal D.Lgs. n. 37 del 2004 per adattarla al nuovo diritto societario e, in particolare, per tener conto della possibilità che le società abbiano adottato un modello dualistico per la propria gestione (nell’ambito del quale gli amministratori sono nominati dal consiglio di sorveglianza) e del fatto che l’autonomia statutaria può modellare il diritto di voto in modo da attribuire a certi soggetti rilevanti poteri anche nell’ipotesi in cui non concorrano alla nomina degli amministratori. Così il 2° comma dell’art. 105, modificato, stabilisce che ai fini delle norme sulle offerte pubbliche di acquisto obbligatorie «per partecipazione si intende una quota, detenuta anche indirettamente per il tramite di fiduciari o per interposta persona, dei titoli emessi da una società di cui al comma 1 che attribuiscono diritto di voto nelle deliberazioni assembleari riguardanti nomina o revoca degli amministratori o del consiglio di sorveglianza». Stabilisce altresì che «la Consob può con Regolamento includere nella partecipazione categorie di titoli che attribuiscono diritti di voto su uno o più argomenti diversi tenuto conto della natura e del tipo di influenza sulla gestione della società che può avere il loro esercizio anche congiunto». La stessa Consob «stabilisce con regolamento i casi e le modalità con cui gli strumenti finanziari derivati detenuti sono computati nella partecipazione». Non rientrano, dunque, fra i titoli il cui acquisto può determinare l’obbligo di OPA né le azioni di risparmio né quelle privilegiate prive del diritto di voto sulle materie sopra ricordate né le obbligazioni convertibili, sia pure in azioni di quel tipo, né le obbligazioni cum warrant, mentre vi rientrano le azioni che, pur godendo di un privilegio patrimoniale, attribuiscono il diritto di voto nelle predette materie, nonché le azioni a voto plurimo e quelle che godono di un diritto di voto maggiorato ai sensi dell’art. 127-quinquies del TUB.
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Nel computo della partecipazione si tien conto anche dei titoli detenuti per il tramite di fiduciari e per interposta persona, ma non anche di quelli detenuti da società controllate (ma v. art. 109). Il Testo Unico prevedeva due fattispecie di offerte pubbliche di acquisto obbligatorie: a) l’offerta pubblica di acquisto totalitaria (art. 106) e b) l’offerta pubblica di acquisto residuale (art. 108), non potendosi considerare tali né l’offerta pubblica di acquisto preventiva (art. 107), che configura un’ipotesi di offerta pubblica volontaria capace di esonerare dall’offerta totalitaria, né, tanto meno, il diritto di acquisto disciplinato dall’art. 111 T.U. che prevede, anzi, un diritto del soggetto ad acquistare titoli e non un obbligo a farlo. Il D.Lgs. n. 229 del 2007 ha sostanzialmente eliminato l’offerta pubblica residuale, pur continuando a prevedere l’obbligo di acquisto del titolare di partecipazioni «quasi totalitarie».
4.1. L’offerta pubblica di acquisto totalitaria A) A norma dell’art. 106, 1° comma, T.U. come modificato dal D.Lgs. n. 91 del 2014 «chiunque, a seguito di acquisti, ovvero di maggiorazione dei diritti di voto venga a detenere una partecipazione» [come sopra definita] «superiore alla soglia del trenta per cento [dei titoli che attribuiscono diritti di voto nelle deliberazioni assembleari riguardanti la nomina o revoca degli amministratori o del consiglio di sorveglianza, inclusi i titoli propri] ovvero a disporre dei diritti di voto in misura superiore al trenta per cento dei medesimi promuove un’offerta pubblica di acquisto rivolta a tutti i possessori di titoli [ossia degli strumenti finanziari che attribuiscono il diritto di voto anche limitatamente a specifici argomenti nell’assemblea ordinaria o straordinaria] sulla totalità dei titoli ammessi alla negoziazione in un mercato regolamentato in loro possesso», a meno che non vi siano altri soci che detengano il controllo. Il D.Lgs. n. 91 del 2014 ha introdotto una nuova soglia per tutte le società italiane quotate diverse dalle piccole e medie imprese (PMI) stabilendo che ha l’obbligo di lanciare un’offerta pubblica totalitaria su tutti i titoli anche colui che «a seguito di acquisti venga a detenere una partecipazione superiore al venticinque per cento in assenza di altro socio che detenga una partecipazione più elevata» (art. 106, comma 1°-bis), anche se lo stesso non detiene il controllo della società. Lo stesso decreto n. 91 del 2014 ha stabilito un diverso criterio di individuazione della soglia il cui superamento determina l’obbligo di offerta pubblica totalitaria per le piccole e medie imprese (PMI) quotate (ossia per le società «che abbiano, in base al bilancio approvato relativo all’ul-
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timo esercizio … un fatturato fino a 300 milioni di euro, ovvero una capitalizzazione media di mercato nell’ultimo anno inferiore a 500 milioni di euro») per le quali si consente agli statuti di prevedere una soglia diversa comunque non inferiore al venticinque per cento né superiore al quaranta per cento (art. 106, comma 1°-ter, T.U.). In tutte queste ipotesi l’offerta pubblica totalitaria deve essere promossa entro venti giorni dal superamento della soglia (art. 106, 2° comma, T.U.). Il legislatore ha così imposto l’obbligo di offerta non a chi acquisisce il controllo della società, ma a chi supera una predeterminata soglia, nel probabile convincimento che la soglia prevista sia anche quella che coincide con la partecipazione di controllo (tant’è che il superamento della soglia non comporta l’obbligo di offerta totalitaria se esista un altro soggetto che detiene il controllo (art. 106, 5° comma) o una partecipazione più elevata) e, quanto meno, per rendere certo il limite il cui superamento impone il predetto obbligo, accettando, per altro, il rischio che le partecipazioni di controllo si collochino al di sotto di quella soglia e che il controllo, pertanto, cambi senza alcun obbligo d’offerta pubblica. Non facile è l’individuazione delle ragioni che hanno spinto il legislatore italiano, come la massima parte dei legislatori dei paesi ad economia di mercato e come impone la direttiva comunitaria 2004/25 del 21 aprile 2004, ad introdurre l’obbligo di lanciare un’offerta pubblica al raggiungimento di una certa soglia o, comunque, della partecipazione di controllo. Si può pensare che tale obbligo dovrebbe consentire ai soci che non gradiscono il cambio del controllo di vendere le proprie azioni (ma nel nostro ordinamento questo diritto di uscita non viene riconosciuto quando il controllo sia conseguibile con una partecipazione inferiore alla soglia prevista ); si può aggiungere che l’esistenza dell’obbligo di offerta rappresenta un incentivo all’investimento sui mercati regolamentati, dal momento che tale obbligo consente alla massa degli azionisti di vendere, e normalmente a prezzi più alti di quelli praticati nel mercato, i propri titoli. Non si può invece dire che l’obbligo di offerta faciliti il ricambio del controllo, dal momento che la presenza di quell’obbligo rende più onerosa la scalata della società, soprattutto quando l’offerta obbligatoria debba avere per oggetto la totalità delle azioni (OPA totalitaria) come prevede il Testo Unico, in ossequio alla direttiva comunitaria. Quest’ultimo, infatti, non limita l’obbligo dell’offerta ad una parte delle azioni (ad es.: una frazione coincidente con quella acquistata dal precedente titolare della partecipazione), ma lo estende alla totalità delle stesse. E l’OPA totalitaria, se impedisce che nei portafogli degli oblati rimangano frazioni del capitale non significative (come accadrebbe nel-
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l’ipotesi di obbligo di offerta successiva parziale) e, sotto questo profilo, rappresenta una tutela più forte per gli azionisti che vogliano «uscire» dalla società e non gradiscano il nuovo «padrone», comporta, per altro un onere così forte per lo scalatore da rendere meno probabile la scalata e, quindi, può assicurare ai gruppi di comando quella stabilità che si traduce in un evidente pericolo di pregiudizio per le minoranze. B) Per rendere meno gravoso l’onere della scalata il Testo Unico ha previsto, come vedremo, un’ipotesi di OPA preventiva che presenti particolari caratteristiche, ma anche con riferimento all’offerta totalitaria obbligatoria aveva, nella sua stesura del 1998, stabilito che il prezzo d’offerta non dovesse essere quello corrisposto per superare la soglia del trenta per cento ma un prezzo medio, che tenesse conto anche della quotazione degli ultimi dodici mesi, calcolati, almeno secondo il pensiero della Consob, a ritroso dalla «prima comunicazione» della intenzione di lanciare l’offerta totalitaria. Scelta che trovava la propria giustificazione, da un lato, nella consapevolezza che il prezzo pagato per il raggiungimento della soglia è normalmente più alto di quello medio precedente e, dall’altro, nella opportunità di non consentire al socio «uscente» di profittare degli aumenti di prezzo determinati dagli acquisti effettuati dal nuovo «padrone» che egli non gradisce. Il D.Lgs. n. 229 del 2007, dando attuazione ad una regola fissata dalla direttiva comunitaria 2004/25, ha profondamente modificato i criteri di determinazione del prezzo al quale deve essere lanciata l’offerta pubblica totalitaria stabilendo (art. 106, 2° comma) che «per ciascuna categoria di titoli l’offerta è promossa … a un prezzo non inferiore a quello più elevato pagato dall’offerente e da persone che agiscono di concerto con il medesimo, nei dodici mesi anteriori alla comunicazione [dell’obbligo di offerta] per acquisti di titoli della medesima categoria» e «qualora non siano stati effettuati acquisti a titolo oneroso di titoli della medesima categoria nel periodo indicato, l’offerta è promossa per tale categoria di titoli ad un prezzo non inferiore a quello medio ponderato di mercato degli ultimi dodici mesi o del minor periodo disponibile» e lo stesso prezzo si applica, in mancanza di acquisti a un prezzo più elevato, in caso di superamento della soglia relativa ai diritti di voto per effetto della maggiorazione ai sensi dell’art. 127-quinquies del T.U. È stato così vanificato l’intento del T.U. di rendere meno oneroso il ricambio del controllo anche attraverso la mitigazione del prezzo al quale deve essere lanciata l’OPA totalitaria. Il legislatore consente, tuttavia, che in alcune ipotesi il prezzo al quale deve essere lanciata l’OPA totalitaria possa essere sia inferiore sia su-
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periore a quello più elevato pagato dall’offerente rimettendo la relativa determinazione ad un «provvedimento motivato della Consob». Più esattamente, la Consob può stabilire che l’offerta avvenga ad un prezzo inferiore a quello più alto pagato quando «i prezzi di mercato siano stati influenzati da eventi eccezionali o vi sia fondato sospetto che siano stati oggetto di manipolazione» oppure quando il prezzo più elevato sia stato quello di mercato negli ultimi dodici mesi. La Consob può, invece, imporre un prezzo superiore a quello più alto pagato «purché ciò sia necessario per la tutela degli investitori e ricorra una delle seguenti circostanze: 1) l’offerente o le persone che agiscono di concerto con il medesimo abbiano pattuito l’acquisto di titoli ad un prezzo più elevato di quello pagato per l’acquisto di titoli della medesima categoria; 2) vi sia stata collusione tra l’offerente o le persone che agiscono di concerto con il medesimo e uno o più venditori; 3) ...; 4) vi sia il fondato sospetto che i prezzi di mercato siano stati oggetto di manipolazione» (art. 106, 3°comma, T.U.F.). Abbiamo fin qui discorso, del resto sulla scia della lettera della norma, di offerta pubblica di acquisto obbligatoria, nell’ovvio presupposto che non sia consentito assolvere l’obbligo di offerta promettendo, come corrispettivo, strumenti finanziari (OPS) anziché danaro. Il Testo Unico, ha in realtà consentito, già nella stesura originaria, tale possibilità, rimettendone la concreta disciplina alla Consob e questa aveva stabilito (art. 47 del Regolamento Emittenti) che nelle offerte pubbliche totalitarie previste dall’art. 106, 1° comma «il corrispettivo può essere costituito da strumenti finanziari quotati in un mercato regolamentato in un paese dell’Unione Europea, se le operazioni compiute nei dodici mesi precedenti il superamento della soglia hanno avuto come corrispettivo, nella stessa proporzione, i medesimi strumenti finanziari». Il D.Lgs. n. 229 del 2007, recependo l’indicazione della direttiva 2004/25, ha ampliato la possibilità di prevedere che il corrispettivo possa essere rappresentato in tutto o in parte da titoli. Più esattamente ha stabilito che «il corrispettivo dell’offerta può essere costituito in tutto o in parte da titoli. Nel caso in cui i titoli offerti quale corrispettivo dell’offerta non siano ammessi alla negoziazione su di un mercato regolamentato in uno Stato comunitario ovvero l’offerente o le persone che agiscono di concerto con questi, abbia acquistato verso un corrispettivo in denaro, nel periodo di cui al comma 2 [ossia nei dodici mesi anteriori alla comunicazione di cui all’art. 102, comma 1] e fino alla chiusura dell’of-
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ferta, titoli che conferiscono almeno il cinque per cento dei diritti di voto esercitati nell’assemblea della società i cui titoli sono oggetto di offerta, l’offerente deve proporre ai destinatari dell’offerta, almeno in alternativa al corrispettivo in titoli, un corrispettivo in contanti» (art. 106, comma 2°-bis, T.U.). Il legislatore ammette, dunque, che il corrispettivo sia in tutto o in parte rappresentato da titoli; il che consente una maggiore libertà di manovra a colui che è obbligato a lanciare un’OPA totalitaria, ma pone alcuni limiti a tale possibilità: deve essere assicurata una sostanziale parità di trattamento tra coloro che hanno venduto i titoli al di fuori dell’OPA e coloro ai quali viene offerta la possibilità di aderire all’OPA e quando si tratta di titoli non facilmente liquidabili deve essere offerto, in alternativa allo scambio di titoli, un corrispettivo in contanti. C) Il superamento della soglia deve avvenire per effetto di «acquisti a titolo oneroso»: non rilevano, quindi, gli acquisti a titolo gratuito (si veda art. 106, 5° comma, T.U.F.). Incertezze potevano sorgere sulla rilevanza dall’«acquisizione» di azioni a titolo di pegno o di usufrutto; soprattutto nell’ambito di un ordinamento, come quello originariamente accolto dal Testo Unico, che non faceva riferimento esplicito alle azioni con diritto di voto ma alle azioni ordinarie. La recente modificazione della norma e l’esplicita rilevanza attribuita al diritto di voto, coerentemente con l’esenzione dall’obbligo di offerta per le azioni prive di tale diritto, impongono di ritenere che, al fine di stabilire se la soglia sia stata superata, sia decisiva proprio la titolarità del diritto di voto (nelle assemblee che nominano o revocano gli amministratori) e, quindi, che si dovrà tener conto della nuda proprietà o del diritto reale limitato a seconda della attribuzione del diritto di voto. Non sembra invece che allo stesso fine possa considerarsi rilevante il diritto ad acquistare (call) le azioni, essendo invece decisivo l’effettivo esercizio di tale diritto; soltanto l’effettivo esercizio integra, infatti, l’acquisto oneroso che il legislatore richiede come presupposto dell’obbligo di lanciare l’offerta pubblica. Non comporta invece l’obbligo di OPA il mero apporto ad un sindacato di voto o di blocco di azioni già detenute, anche quando il loro ammontare superi la soglia del trenta per cento del capitale con diritto di voto nelle assemblee che nominano o revocano gli amministratori, non sussistendo in tal caso alcun acquisto di azioni (come invece sussiste nell’ipotesi di acquisto di concerto v. infra, 4.1.2). Abbiamo constatato che l’obbligo di OPA totalitaria nasce solo quando la partecipazione in una società italiana quotata superi la soglia prevista dei titoli che hanno diritto di voto nelle assemblee riguardanti la
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nomina e la revoca degli amministratori o del consiglio di sorveglianza e che gli stessi titoli soltanto concorrono a determinare l’entità della partecipazione. Il legislatore prevede che la società emittente abbia emesso strumenti finanziari che, pur non rientrando nella nozione di «titoli» e quindi nella individuazione della partecipazione, attribuiscano tuttavia un certo potere sulla nomina e la revoca degli amministratori. In tale ipotesi infatti «la Consob tenuto conto delle caratteristiche degli strumenti finanziari emessi, può stabilire con regolamento le ipotesi in cui l’obbligo di offerta consegue ad acquisti che determinino la detenzione congiunta di titoli e di altri strumenti finanziari con diritto di voto [sulla nomina e la revoca degli amministratori] in misura tale da attribuire un potere complessivo di voto equivalente a quello di chi detenga una partecipazione superiore alla soglia prevista (art. 106, comma 3°-bis). 4.1.1. L’acquisto indiretto L’obbligo di lanciare l’offerta pubblica sorge non solo nell’ipotesi in cui la soglia sia superata attraverso l’acquisizione diretta della partecipazione, per tale intendendosi ai sensi dell’art. 105, 2° comma, T.U. anche quella detenuta «per il tramite di fiduciari o per interposta persona», ma anche quando il superamento avvenga attraverso «l’acquisizione indiretta», ossia «mediante l’acquisto di partecipazioni o la maggiorazione dei diritti di voto in società in cui il patrimonio è prevalentemente costituito da titoli emessi da altra società italiana con titoli ammessi alla negoziazione in mercati regolamentati italiani», secondo il dettato dell’art. 106, 3° comma, lett. a), la cui concreta determinazione è stata rimessa dallo stesso legislatore al Regolamento Consob. E quest’ultima (art. 45, del Regolamento Emittenti) ha, anzitutto, stabilito che «l’acquisto, anche di concerto, di una partecipazione che consente di detenere più del trenta per cento [o del venticinque per cento] dei titoli con diritto di voto sugli argomenti indicati nell’articolo 105 [ossia la nomina o la revoca degli amministratori] del Testo unico, di una società quotata o il controllo di una società non quotata determina l’obbligo dell’offerta pubblica, a norma dell’articolo 106, comma 3, lettera a) del Testo unico, quando l’acquirente venga così a detenere, indirettamente o per effetto della somma di partecipazioni dirette o indirette, più del trenta o del venticinque per cento delle azioni con diritto di voto sugli argomenti indicati nell’articolo 105 del Testo unico di una società quotata»; precisando che: a) si è in presenza di una partecipazione indiretta nella società quotata partecipata «quando il patrimonio della socie-
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tà di cui si detengono le azioni è costituito in prevalenza da partecipazioni in società quotate o in società che detengono in misura prevalente partecipazioni in società quotate» e che b) tale prevalenza sussiste quando ricorra almeno una delle seguenti condizioni: 1) il valore contabile delle partecipazioni rappresenta più di un terzo dell’attivo patrimoniale ed è superiore ad ogni altra immobilizzazione iscritta nel bilancio della società partecipante; 2) il valore attribuito alle partecipazioni rappresenta più di un terzo del predetto attivo e costituisce la componente principale del prezzo di acquisto delle azioni della società partecipante. Nell’ipotesi, dunque, in cui un soggetto acquisisca il controllo di una società non quotata il cui patrimonio sia in prevalenza costituito dalla partecipazione in una società quotata, si dovrà ritenere che lo stesso ha acquisito in tale società quotata una «partecipazione indiretta» che concorre con quelle acquisite direttamente, per interposta persona o tramite fiduciari, a determinare la partecipazione complessivamente detenuta nella società quotata e a far sorgere l’obbligo di offerta pubblica quando la stessa superi il trenta o il venticinque per cento dei titoli con diritto di voto nelle deliberazioni della medesima società quotata aventi per oggetto la nomina e la revoca degli amministratori. L’obbligo di lanciare l’offerta pubblica a seguito di acquisto indiretto sussiste anche quando tale acquisizione indiretta avvenga tramite una società quotata. Più esattamente, se un soggetto acquista una partecipazione superiore al trenta o al venticinque per cento di una società quotata e il patrimonio di quest’ultima sia «prevalentemente» investito in una altra società quotata, l’obbligo di OPA non concerne soltanto la prima società ma anche quest’ultima, se con l’acquisizione di quella partecipazione indiretta l’acquirente ha superato una partecipazione superiore al trenta o al venticinque per cento dei titoli con diritto di voto nell’assemblea che può nominare o revocare gli amministratori. In questo caso, dunque, l’obbligo di offerta concerne entrambe le società (OPA a cascata). Ma può anche verificarsi l’ipotesi in cui l’acquisto concerna una partecipazione superiore al 30% o al 25% in una società quotata che ha il proprio patrimonio investito in altre società quotate, ma nessuna delle relative partecipazioni superi il limite del terzo dell’attivo patrimoniale della prima: pertanto non si potrebbe dire che tale patrimonio sia investito prevalentemente in una società quotata. Per tale ipotesi il Regolamento Emittenti (art. 45, 4° comma), stabilisce che l’obbligo di offerta «riguarda i titoli delle sole società il cui valore rappresenta almeno il trenta [o il venticinque] per cento del totale di dette partecipazioni», sempreché ovviamente nelle medesime e per effetto di questo acquisto indiretto, la holding quotata detenga una partecipazione superiore al trenta [o al ven-
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ticinque] per cento dei titoli con diritto di voto nelle assemblee che possono nominare o revocare gli amministratori. Discorso identico va fatto per le PMI per le quale assumerà rilevanza la soglia prevista dallo statuto. 4.1.2. L’acquisto di concerto L’obbligo di lanciare l’offerta incombe ovviamente su colui che, «a seguito di acquisti a titolo oneroso» abbia superato la soglia legislativamente prevista; ma può ben succedere che vi sia una pluralità di soggetti che operano «di concerto», ossia «che cooperano tra di loro sulla base di un accordo, espresso o tacito, verbale o scritto, ancorché invalido o inefficace, volto ad acquisire, mantenere o rafforzare il controllo della società emittente o a contrastare il conseguimento degli obiettivi di un’offerta pubblica di acquisto o di scambio». Il legislatore (art. 109, T.U. n. 58 del 1998) prende in considerazione questa ipotesi, stabilendo una presunzione assoluta di concerto e impone un obbligo solidale di offerta quando nell’insieme, ed anche «a seguito di acquisti a titolo oneroso effettuati anche da uno solo di essi», superino la predetta soglia: a) gli aderenti ad un patto parasociale, ancorché nullo ad es. perché non reso pubblico in conformità con quanto previsto dall’art. 122 T.U.; b) un soggetto, il suo controllante e le società da esso controllate; c) le società sottoposte a comune controllo; d) una società e i suoi amministratori, componenti del consiglio di gestione o di sorveglianza o direttori generali (cfr. art. 101bis, 4°-bis comma, T.U.). I medesimi obblighi sussistono in capo a coloro che agiscono di concerto a seguito di maggiorazione, anche a favore di uno solo di essi, dei diritti di voto, qualora essi vengano a disporre di diritti di voto in misura superiore alle percentuali indicate nell’art. 106 (art. 109, 1° comma). Difficile sarà provare la presenza di un concerto quando lo stesso assuma forme particolarmente sofisticate ed informali. Qui basti solo aggiungere qualche riflessione sull’ipotesi di concerto fra aderenti ad un patto parasociale. Si è ritenuto che gli acquisti effettuati da uno degli aderenti senza il consenso degli altri non concorrano a determinare il superamento della soglia complessivamente imputata al sindacato; la tesi sembra ragionevole anche se apre la porta a facili elusioni. Non sembra invece che le azioni così acquistate debbano essere apportate al sindacato per poter rilevare ai predetti fini, dal momento che il legislatore sembra dar rilievo al rapporto fra i soggetti, indipendentemente dalla validità del patto che li lega e dalla entità della partecipazione. Si è anche ritenuto che non rilevino, al fine di stabilire l’eventuale
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obbligo di offerta, né i trasferimenti intervenuti fra gli aderenti al patto né l’eventuale sostituzione di un soggetto ad un altro nell’ambito del sindacato; nel primo caso, come nel secondo, non muterebbe l’ammontare complessivo delle partecipazioni «detenute» dal sindacato. Questa soggettivazione del patto parasociale, capace di nascondere e rendere irrilevanti i trasferimenti azionari fra soggetti vincolati da un accordo, anche nullo, lascia alquanto perplessi. Si tratta di trasferimenti e di acquisti che possono modificare radicalmente l’assetto di potere e possono portare nuovi soggetti a detenere complessivamente partecipazioni superiori alla soglia che rende obbligatoria l’adozione di misure a tutela delle minoranze e ciò indipendentemente dall’ipotesi in cui per effetto di quei trasferimenti un solo soggetto finisca per acquisire una partecipazione solitaria superiore alla soglia, nel qual caso sullo stesso incombe l’obbligo di offerta totalitaria. Così, ad esempio non si può esonerare dall’obbligo di offerta il trasferimento integrale della partecipazione complessivamente detenuta dagli aderenti a nuovi soci, succeduti ai precedenti, non potendosi escludere la presenza di un acquisto di concerto per il solo fatto che il numero dei titoli sindacati non viene modificato. In altri termini, la presenza di un sindacato non può diventare il mezzo attraverso il quale eludere la norma sul concerto. E in questa prospettiva almeno su un punto il legislatore ha cercato di contrastare possibili manovre elusive: quando ha stabilito che l’obbligo di offerta sussiste «anche quando gli acquisti siano stati effettuati nei dodici mesi precedenti la stipulazione del patto ovvero contestualmente alla stessa».
4.2. L’acquisto incrementale Abbiamo fino ad ora constatato che l’obbligo di offerta pubblica totalitaria sorge nell’ipotesi di superamento della soglia del trenta o del venticinque per cento dei titoli con diritto di voto nelle assemblee ordinarie aventi per oggetto la nomina o la revoca degli amministratori. In realtà tale obbligo può sorgere anche a carico di colui che già detenga una partecipazione superiore al trenta o al venticinque per cento ma non detenga «la maggioranza dei diritti di voto nell’assemblea ordinaria» ed effettui acquisti che incrementano la sua partecipazione. Il Regolamento Consob (all’art. 46), dando attuazione al relativo precetto del Testo Unico (cfr. art. 106, 3° comma, lett. b)), stabilisce infatti che il predetto obbligo «consegue all’acquisizione di più del cinque per cento del capitale rappresentato da [titoli] che attribuiscono il diritto di voto sulle materie
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sopra indicate per acquisti a titolo oneroso effettuati nei dodici mesi, ovvero per sottoscrizioni o conversioni nell’esercizio di diritti negoziati nel medesimo periodo». Il Testo Unico del ’98 prevedeva che la soglia capace di far nascere l’obbligo di offerta totalitaria fosse del 3%; la legge 9 aprile 2009, n. 33, ha elevato tale soglia al cinque per cento rafforzando così il potere dei detentori di una partecipazione superiore al 30% o al 25% di accrescerla senza gli oneri di un’offerta pubblica totalitaria. Il legislatore impone, pertanto, l’obbligo di offerta solo nell’ipotesi in cui gli incrementi della partecipazione siano concentrati in un periodo di tempo piuttosto limitato e si tratta di un obbligo che incombe su coloro che già detengano la partecipazione superiore al trenta per cento per effetto di acquisizioni che a loro volta non comportavano l’obbligo di offerta totalitaria. Questa disciplina dell’OPA incrementale non si applica alle PMI «a condizione che ciò sia previsto nello statuto, sino all’assemblea convocata per approvare il bilancio relativo al quinto esercizio successivo alla quotazione» (art. 106, comma 3°-quater). Tale obbligo non sussiste per gli acquisti che incrementino una partecipazione che già attribuisca la maggioranza assoluta dei diritti di voto sulle materie più volte ricordate.
4.3. Le esenzioni dall’obbligo di offerta totalitaria Il legislatore prevede una serie di ipotesi nelle quali all’acquisto a titolo oneroso di una «partecipazione superiore al trenta o al venticinque per cento dei titoli che attribuiscono i diritti di voto» sulle materie ricordate non consegue l’obbligo di offerta pubblica. A) Questo obbligo non sussiste se la partecipazione è stata acquistata «a seguito di un’offerta pubblica di acquisto (volontaria) diretta a conseguire la totalità» di tali azioni; offerta che può assumere anche il contenuto dell’offerta pubblica di scambio purché gli strumenti finanziari offerti siano quotati in un mercato regolamentato di uno Stato comunitario o sia offerto, come alternativa, un corrispettivo in contanti se vengono offerti titoli diversi dai primi (art. 106, 4° comma, T.U.F.). In tal caso, infatti, è stata già data a tutti i soci la possibilità di «uscire» dalla società aderendo all’offerta preventiva e, quindi, non si giustifica la necessità di assicurare loro una seconda possibilità di farlo. Il legislatore richiede, tuttavia, per l’ipotesi di offerta di scambio, che i titoli offerti siano quotati in un mercato regolamentato europeo, individuando in tale quota-
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zione i necessari elementi di certezza del valore e di liquidabilità dell’investimento che fanno dei titoli un «surrogato» accettabile del danaro. B) Ancora quell’obbligo non sussiste se la partecipazione superiore alla soglia è stata acquisita attraverso un’offerta pubblica di acquisto o di scambio (che può prevedere come corrispettivi anche strumenti finanziari non quotati) preventiva non totalitaria, purché tale offerta preventiva parziale presenti alcune caratteristiche che consentano di considerarla estesa ad un numero sufficientemente alto di azioni e sia accettata dalla maggioranza degli azionisti, che ritengono, pertanto, conveniente conservare una parte delle loro azioni nella società anche dopo il cambiamento del controllo o comunque dopo l’ingresso dell’offerente (cfr. art. 107 del T.U.F.). Si tratta, dunque, di un’offerta preventiva parziale volontaria che può mitigare l’onere, per lo «scalatore», rappresentato dall’obbligo di offerta pubblica successiva totalitaria. Più esattamente, l’obbligo dell’offerta totalitaria successiva a carico di chi acquista una partecipazione superiore al trenta o al venticinque per cento o alla soglia prevista dallo statuto di una PMI non sussiste se tale acquisto è avvenuto a seguito di un’offerta pubblica (di acquisto e/o di scambio) avente ad oggetto almeno il sessanta per cento dei titoli di ciascuna categoria purché concorrano congiuntamente le seguenti condizioni: 1. l’offerente e i soggetti a esso legati da uno dei rapporti che fanno presumere il concerto non abbiano acquisito partecipazioni in misura superiore all’uno per cento, anche mediante contratti a termine con scadenza successiva, nei dodici mesi precedenti la comunicazione alla Consob dell’offerta o durante l’offerta; 2. l’efficacia dell’offerta sia stata condizionata all’approvazione di tanti possessori di titoli che possiedano la maggioranza dei titoli stessi, escluse dal computo le partecipazioni detenute dall’offerente, dal socio di maggioranza, anche relativa, se la sua partecipazione sia superiore al 10%, e dai soggetti a essi legati da uno dei rapporti di concerto; 3. la Consob abbia accordato l’esenzione previa verifica dell’esistenza delle predette condizioni; verifica nell’effettuare la quale la Consob non gode di alcun potere discrezionale. La prima di queste condizioni tende ad evitare che il «gradimento» verso il nuovo socio venga inquinato dallo stesso offerente attraverso l’acquisizione di partecipazioni che potrebbero facilitare il consenso della maggioranza «dei titoli»; costituisce dunque una condizione strumentale al corretto realizzarsi della seconda, che, nel momento in cui pretende il consenso all’offerta preventiva parziale da parte della maggioranza dei
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titoli, esclude, dall’insieme degli azionisti sul quale calcolare la maggioranza, i soggetti che potrebbero avere un interesse in conflitto con quello della generalità dei soci e in particolare con l’interesse dei soci che, per l’esonero dell’offerente dall’obbligo di offerta successiva totalitaria, si troverebbero nei portafogli una parte dei titoli della società target anche dopo l’ingresso dello scalatore: di qui l’esclusione dal diritto di concorrere all’approvazione sia dell’offerente sia del socio di maggioranza quando la sua partecipazione sia particolarmente consistente (superiore al dieci per cento dei titoli) e lo stesso possa quindi aver raggiunto accordi con il primo tali da favorire un proprio interesse (in uno con quello dell’offerente) in conflitto con quello della generalità. L’approvazione ha natura di risposta-referendum e, quindi, non si traduce in alcuna deliberazione assembleare; coinvolge sia coloro che non aderiscono all’offerta, ma che potrebbero concorrere ad approvarla, sia coloro che aderiscono all’offerta e che possono anche non approvarla, facendo, per altro, l’adesione all’offerta presumere iuris tantum anche l’approvazione; è irrevocabile, ma può essere data anche per più offerte concorrenti. L’esistenza di queste condizioni non è necessaria nell’ipotesi in cui la partecipazione superiore alla soglia sia stata acquistata a seguito di un’offerta totalitaria di acquisto o di scambio, purché i titoli previsti come corrispettivo siano quotati in un mercato regolamentato europeo, mentre le stesse debbono ricorrere, per consentire l’esonero dall’obbligo di offerta di acquisto totalitaria se il corrispettivo è rappresentato in tutto o in parte da titoli non quotati in uno di tali mercati. L’offerente può, tuttavia, perdere l’esonero dall’obbligo di offerta pubblica di acquisto successiva sulla totalità dei titoli se, dopo aver lanciato un’offerta preventiva parziale nel rispetto delle condizioni sopra indicate e aver così acquisito una partecipazione superiore alla soglia, lo stesso offerente o uno dei soggetti a lui legati da un rapporto di concerto abbia effettuato, entro dodici mesi dalla chiusura dell’OPA preventiva, «acquisti di partecipazioni in misura superiore all’uno per cento dei titoli», oppure, nello stesso arco di tempo, «la società emittente abbia deliberato operazioni di fusione o scissione» (art. 107, 3° comma, T.U.). La prima norma tende ad evitare che l’offerente cerchi di aggirare la regola generale che impone l’obbligo di offerta totalitaria successiva spezzando il proprio acquisto e artificiosamente limitando la quantità di titoli richiesti con l’offerta preventiva, violando così il principio di parità di trattamento, al quale deve attenersi, e favorendo i portatori dei pacchetti azionari successivamente acquisiti: pertanto, la decadenza dall’esonero non può verificarsi quando gli acquisti non siano volontari ma conse-
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guenze di comportamenti altrui (come nell’ipotesi di acquisto di azioni dei soci che recedono) e non comportino alcuna lesione del predetto principio di parità di trattamento: come nell’ipotesi di conversione di obbligazioni in possesso dell’offerente. Anche la seconda norma tende a proteggere le minoranze della società target: vuole impedire che attraverso l’offerta pubblica preventiva parziale l’offerente acquisti nella società target il potere di imporre alla stessa operazioni di finanza straordinaria che potrebbero danneggiare i soci che hanno consegnato una parte delle azioni e che non avrebbero approvato l’offerta se ne fossero stati al corrente. C) La Consob, esercitando il potere regolamentare alla stessa attribuito dall’art. 106, 5° comma, T.U., ha stabilito (art. 49 Regolamento Emittenti) poi l’esenzione dall’obbligo di offerta successiva totalitaria per chi acquisisca una partecipazione superiore alla soglia prevista dalla legge o dallo statuto di una PMI, tra l’altro, se: a) un altro socio, o altri soci congiuntamente, dispongono della maggioranza dei diritti di voto esercitabili in assemblea ordinaria; dovendo, per altro, l’acquirente attestare alla Consob che egli non ha stipulato alcun accordo con il socio di controllo; b) il superamento della soglia è finalizzato al «salvataggio» della società partecipata; in particolare, il T.U.F. prevede tre diverse fattispecie: (a) «ricapitalizzazione» o «altro intervento di rafforzamento patrimoniale» di una società in condizione di crisi «oggettiva» (procedura concorsuale, accordo di ristrutturazione dei debiti omologato, richieste dell’autorità di vigilanza al fine di prevenire l’amministrazione straordinaria o la liquidazione coatta amministrativa di società soggetta a vigilanza prudenziale); (b) sottoscrizione di aumento di capitale da parte di un terzo con esclusione del diritto d’opzione, se la crisi è certificata da un piano di risanamento attestato da un professionista; (c) salvataggio in altre situazioni di crisi, purché l’operazione sia approvata dall’assemblea, oppure dai soci attraverso una sorta di «referendum» se la decisione è di competenza degli amministratori, col voto favorevole della «maggioranza della minoranza» (c.d. whitewash); c) la partecipazione è acquisita a seguito di trasferimento fra società in cui lo stesso o gli stessi soggetti dispongono, anche congiuntamente e indirettamente tramite società controllata ai sensi dell’art. 2359, 1° comma, n. 1, c.c., della maggioranza dei diritti di voto esercitabili nell’assemblea ordinaria o è acquisita a seguito di trasferimento tra una società e tali soggetti, dal momento che le operazioni intragruppo fra soggetti le-
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gati da un rapporto di controllo, per di più di diritto, non alterano la condizione dei soci di minoranza; d) il superamento della soglia è determinato dall’esercizio di diritti di opzione, di sottoscrizione o di conversione, purché gli stessi non siano stati acquistati ma derivino dallo status di socio; e) la soglia è superata per non più del tre per cento, oppure la soglia di cui all’art. 106, 3° comma, lett. b), T.U.F., è superata per non più dell’uno per cento e l’acquirente si impegna a cedere a parti non correlate i titoli in eccedenza entro dodici mesi e a non esercitare i relativi diritti di voto; fanno eccezione gli acquisti compiuti da soggetti abilitati al servizio di sottoscrizione e/o collocamento con assunzione a fermo o con garanzia (art. 1, 5° comma, lett. c), T.U.F.), cui non si applicano tali limiti e che hanno 18 mesi per cedere i titoli che superano le soglie di cui all’art. 106 T.U.F. Nell’ipotesi in cui non proceda alla vendita l’acquirente è tenuto a lanciare l’offerta totalitaria al prezzo più alto risultante dall’applicazione dell’art. 106, 2° comma del T.U. ai dodici mesi precedenti e successivi all’acquisto; f) l’acquisizione è conseguenza di operazioni di fusione o scissione, approvate con delibera assembleare della società i cui titoli dovrebbero altrimenti essere oggetto di offerta senza il voto contrario della maggioranza dei soci presenti in assemblea, diversi dal socio che acquista la partecipazione superiore alla soglia rilevante e dal socio o dai soci che detengono, anche di concerto tra loro, la partecipazione di maggioranza anche relativa, purché superiore al dieci per cento. L’esonero in caso di fusione o scissione trova la propria giustificazione nel fatto che, in quanto tali, le predette operazioni non sollevano problemi di tutela delle minoranze, essendo queste ultime protette dalla congruità del rapporto di cambio. Una previgente stesura del Regolamento ipotizzava che la fusione o la scissione avvenissero non per realizzare i loro scopi tipici di «razionalizzazione» industriale, ma fossero poste in essere allo scopo di aggirare le norme sulle offerte pubbliche obbligatorie. La Consob si riservava, pertanto, il singolare potere di verificare se l’acquisizione di una partecipazione superiore alla soglia realizzata per effetto di una fusione non fosse «conseguente ad esigenze di razionalizzazione o di sinergie industriali» e non avrebbe consentito l’esonero nell’ipotesi in cui avesse ritenuto che tali esigenze non sussistessero. Quella disposizione è stata tuttavia abrogata e sostituita dal criterio formale sopra ricordato.
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4.4. L’obbligo di acquisto Nell’ipotesi in cui un soggetto abbia acquisito una frazione talmente alta dei titoli (ossia degli strumenti finanziari che diano diritto di voto nella nomina e nella revoca degli amministratori o dei componenti il consiglio di sorveglianza) di società italiane quotate in mercati regolamentati italiani da pregiudicare il flottante dei titoli quotati, lo stesso ha il dovere di acquistare i titoli residui. Questo dovere si atteggia diversamente a seconda della percentuale raggiunta. Più esattamente l’art. 108, 1° comma, stabilisce che se «l’offerente … a seguito di un’offerta pubblica totalitaria … [viene] a detenere una partecipazione almeno pari al novantacinque per cento del capitale rappresentato da titoli in una società italiana quotata» (ossia di strumenti finanziari che attribuiscono il diritto di voto, anche limitatamente a specifiche materie, nell’assemblea ordinaria o straordinaria) lo stesso «ha l’obbligo di acquistare i restanti titoli da chi ne faccia richiesta, mentre il 2° comma dello stesso art. 108 prevede che «chiunque venga a detenere una partecipazione superiore al novanta per cento del capitale rappresentato da titoli ammessi alla negoziazione in un mercato regolamentato [anche se acquistato al di fuori di un’offerta pubblica totalitaria], ha l’obbligo di acquistare i restanti titoli ammessi alla negoziazione in un mercato regolamentato da chi ne faccia richiesta se non ripristina entro novanta giorni un flottante sufficiente ad assicurare il regolare andamento delle negoziazioni». Come si può notare, nella prima ipotesi non esiste alternativa all’obbligo di acquisto, mentre nella seconda ipotesi il detentore della partecipazione ricompresa fra il novanta ed il novantacinque per cento può liberarsi da tale obbligo se ricrea un flottante sufficiente. Il prezzo è quello dell’offerta pubblica totalitaria precedente e in mancanza è determinato dalla Consob «tenendo conto anche del prezzo di mercato del semestre anteriore all’annuncio dell’offerta effettuato ai sensi dell’art. 102, 1° comma, o dell’art. 114, ovvero antecedente l’acquisto che ha determinato il sorgere dell’obbligo».
4.5. Il diritto di acquisto Il Testo Unico ha introdotto anche un obbligo di vendere per coloro che si trovino a detenere una partecipazione «infima» in una società italiana quotata, offrendo così, a chi detiene la quasi totalità del capitale, la
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possibilità di «ritirare» le azioni dalla negoziazione, cessando di sopportare i costi connessi con la quotazione. La norma tende ad evitare che vengano conservate partecipazioni al solo scopo di promuovere azioni di disturbo non giustificate da ragioni connesse alla correttezza della gestione e, quindi, in conflitto con l’interesse della società e, ancor prima, che continuino ad essere quotate società le cui azioni sono oggetto di negoziazioni anomale e come tali pregiudizievoli del corretto funzionamento del mercato stesso. Tale possibilità è, tuttavia, circondata da particolari cautele relative ai presupposti in presenza dei quali l’obbligo di vendere sorge. A norma infatti dell’art. 111, 1° comma, T.U.F., «l’offerente che venga a detenere a seguito di offerta pubblica totalitaria una partecipazione almeno pari al novantacinque per cento del capitale rappresentato da titoli in una società italiana quotata ha diritto di acquistare i titoli residui entro tre mesi dalla scadenza del termine per l’accettazione dell’offerta, se ha dichiarato nel documento d’offerta l’intenzione di avvalersi di tale diritto». L’offerta totalitaria può essere sia volontaria sia obbligatoria e può determinare la nascita del diritto di acquisto solo se il relativo documento d’offerta conteneva il relativo «avvertimento». Il prezzo, quasi fosse una forma di indennizzo, secondo il dettato originario del T.U.F., doveva essere fissato da un esperto nominato dal Presidente del Tribunale del luogo ove ha sede la società, tenuto conto anche del prezzo dell’offerta e del prezzo di mercato dell’ultimo semestre (art. 111, T.U. n. 58 del 1998). Questo criterio è stato cancellato dal D.Lgs. n. 229 del 2007 che ha reso applicabili al diritto di acquisto le stesse norme fissate per determinare il corrispettivo nelle ipotesi di obbligo di acquisto (art. 111, 2° comma). «Il trasferimento delle azioni ha efficacia», chiarisce l’art. 111, 3° comma, T.U., «dal momento della comunicazione dell’avvenuto deposito del prezzo di acquisto presso una banca alla società emittente, che provvede alle conseguenti annotazioni sul libro dei soci». L’efficacia della compravendita è, dunque, sospensivamente condizionata al deposito del prezzo, pur perfezionandosi nel momento, che potrà essere anche quello del deposito del prezzo, ma che potrebbe essere anche anteriore, in cui si esercita il diritto di acquisto, preannunciato nel documento d’offerta.
4.6. Le sanzioni per la violazione dell’obbligo di offerta pubblica La violazione sia dell’obbligo di lanciare un’offerta pubblica totalitaria successiva sia dell’obbligo di acquisto delle partecipazioni «infime», comporta l’applicazione di sanzioni civili, amministrative e penali.
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A) A norma infatti dell’art. 110, T.U. n. 58 del 1998, in caso di violazione di tali obblighi «il diritto di voto inerente all’intera partecipazione detenuta non può essere esercitato». La sospensione del diritto di voto non colpisce dunque la sola partecipazione eccedente la soglia alla quale si ricollegano l’obbligo di offerta o l’obbligo di acquisto ma l’intera partecipazione detenuta dall’inadempiente, indipendentemente dal titolo sulla base del quale tale partecipazione o parte della stessa è stata acquisita. Non solo, ma, nell’ipotesi in cui il diritto di voto venga esercitato e lo stesso si riveli marginale, anche la deliberazione assunta potrà essere impugnata secondo le regole previste per le deliberazioni annullabili, riconoscendosi, per altro, la legittimazione ad esercitare la relativa azione anche alla Consob, che potrà farlo entro sei mesi dalla data della deliberazione o dalla sua iscrizione nel registro delle imprese, per le deliberazioni soggette a tale iscrizione. B) Ma la sospensione del diritto di voto non è l’unica «sanzione civile» prevista. Il Testo Unico ha stabilito che i «titoli eccedenti le percentuali indicate negli artt. 106 e 108 devono essere alienati entro dodici mesi» e, quindi, l’obbligo di alienazione concerne la partecipazione che supera il trenta o il venticinque per cento dei titoli o i titoli eccedenti l’incremento della predetta partecipazione superiore al limite del 5% annuo per la violazione dell’obbligo di offerta totalitaria o i titoli eccedenti il limite del novanta o del novantacinque per cento in caso di violazione delle norme sull’obbligo d’acquisto. E la tempestiva alienazione della partecipazione eccedente fa venir meno la sospensione del diritto di voto per la partecipazione conservata. C) Il mancato adempimento dell’obbligo di lanciare un’offerta pubblica di acquisto attribuisce, a mio avviso, ai soggetti che avrebbero potuto aderire all’offerta, anche il diritto al risarcimento dei danni che dal mancato lancio gli stessi hanno subito; danni che dovranno individuarsi nella differenza positiva fra il prezzo al quale l’offerta avrebbe dovuto essere lanciata e la quotazione del momento in cui si è verificato l’illecito (ossia il 21° giorno successivo al momento in cui l’obbligo di offerta era sorto); tesi questa condivisa in linea di principio, dalla Cassazione, che mostra incertezza in ordine alla quantificazione del danno. Gli oblati non potranno invece imporre al mancato offerente l’acquisto coattivo delle loro azioni, ai sensi dell’art. 2932 c.c. D) Sulla base del dettato originario del T.U., si riteneva pacificamente che, scaduto il termine di venti giorni per il lancio dell’offerta totalitaria,
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non fosse possibile la promozione di un’offerta pubblica totalitaria «tardiva». Il D.Lgs. n. 229 del 2007 ha contemplato tale ipotesi rimettendola alla decisione della Consob limitatamente all’obbligo di alienazione della partecipazione eccedente. A norma, infatti, dell’art. 110, comma 1°-bis del Testo Unico «la Consob, in alternativa all’alienazione di cui al 1° comma, con provvedimento motivato, avuto riguardo tra l’altro alle ragioni del mancato adempimento, agli effetti che conseguirebbero all’alienazione e alle modifiche intervenute nella compagine azionaria, può imporre la promozione dell’offerta totalitaria al prezzo da essa stabilito, anche tenendo conto del prezzo di mercato dei titoli». E) La violazione dell’obbligo di lanciare un’offerta pubblica di acquisto comporta altresì l’applicazione di sanzioni amministrative (art. 192, 1° comma, T.U. n. 58 del 1998) e la mancata alienazione entro 12 mesi determina anche l’applicazione di una sanzione penale (art. 173, T.U. n. 58 del 1998).
5. La responsabilità da prospetto Dati e notizie falsi, incompleti e comunque fuorvianti contenuti nel prospetto informativo o nel documento d’offerta possono indurre il risparmiatore ad effettuare scelte di investimento o di disinvestimento che poi si rivelano dannose. È necessario, dunque, accertare se e a quale titolo rispondano nei confronti del risparmiatore danneggiato dalla decettività del prospetto i soggetti coinvolti nell’appello al pubblico risparmio, ossia emittente, proponente e intermediari collocatori. Sulla natura di tale responsabilità la dottrina si è profondamente divisa: secondo alcuni dovrebbe considerarsi contrattuale, secondo altri aquiliana e nell’opinione di altri ancora dovrebbe definirsi precontrattuale, rimanendo per altro incerto, sul piano della teoria generale, se la responsabilità precontrattuale debba ricondursi nell’ambito della responsabilità contrattuale o di quella extracontrattuale. Naturalmente su queste classificazioni, non sempre così gravide di conseguenze pratiche come, a prima vista, potrebbe sembrare, incidono le scelte dogmatiche in tema di teoria generale della responsabilità. È innegabile, tuttavia, che la tesi della responsabilità precontrattuale, nella sua opzione contrattualistica, sia più coerente delle altre con la funzione tipica del prospetto: questo tende a sostituirsi agli strumenti codicistici che tutelano il risparmiatore nel proces-
5. La responsabilità da prospetto
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so di formazione della sua volontà contrattuale. La stessa sembra poi trovare conforto nella norma, là dove si afferma con riferimento all’offerta al pubblico di prodotti finanziari che «il prospetto … contiene tutte le informazioni necessarie affinché gli investitori possano pervenire a un fondato giudizio» sull’emittente e sui titoli oggetto dell’offerta (art. 94, 2° comma) e, con riferimento alle offerte pubbliche di acquisto e di scambio, si precisa che il documento d’offerta deve fornire le informazioni necessarie per «consentire ai destinatari di pervenire a un fondato giudizio sull’offerta» (art. 102, 4° comma). È ovvio che i destinatari di questo precetto sono, anzitutto, coloro che, sottoscrivendo il prospetto, assumono la paternità dei dati e delle notizie nello stesso contenute. Sembra, dunque, naturale concludere che i sottoscrittori del prospetto assumono nei confronti dei risparmiatori l’obbligo di fornire i dati e le notizie necessari per una esatta e completa informazione sull’operazione. Il che, da un lato, sembra contrastare con la tesi secondo la quale la responsabilità da prospetto sarebbe riconducibile al generico precetto del neminem laedere dell’art. 2043 c.c. e, dall’altro, impone di affrontare i problemi posti dall’azione risarcitoria secondo i principi della responsabilità (pre)contrattuale. Esistendo un’obbligazione di esatta e completa informazione a carico dei sottoscrittori del prospetto, è ragionevole ritenere che il risparmiatore danneggiato, nell’esercitare l’azione risarcitoria, possa limitarsi, come prevede la disciplina della responsabilità precontrattuale, a provare la falsità o comunque la inesattezza del dato o dell’informazione, incombendo ai sottoscrittori dimostrare che la stessa non è imputabile ad un loro comportamento colposo o doloso. Nell’affrontare questa prova liberatoria assumono rilevanza la norma regolamentare e la corrispondente dichiarazione contenuta nei prospetti: sarà necessario distinguere tra i dati e le notizie di «pertinenza» del dichiarante, per i quali la prova liberatoria risulterà particolarmente ardua, e quelli non di pertinenza del dichiarante, per i quali la responsabilità del sottoscrittore (normalmente l’intermediario) potrà escludersi soltanto nei limiti in cui lo stesso provi che i dati e le notizie non rientravano nell’ambito dei suoi poteri-doveri di verifica. Incomberà poi al risparmiatore provare che egli non avrebbe effettuato l’investimento o il disinvestimento dannosi se non fosse stato tratto in inganno dal prospetto (nesso di causalità) e dimostrare l’entità del danno subito e risarcibile. Ma per questi aspetti soccorrono, sia pure con le loro incertezze, i principi generali. Così come sulla base dei principi generali potrà essere affermata una
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responsabilità (aquiliana) degli amministratori delle società coinvolte nel prospetto (art. 2395 c.c.) o della società di revisione che abbia «certificato» il bilancio della società emittente o proponente o anche di queste ultime, per danni connessi all’accettazione o mancata accettazione dell’offerta.
6. Le offerte fuori sede A) Per «offerta fuori sede» (nota nel linguaggio dei pratici come offerta «porta a porta») si intendono la promozione e il collocamento di strumenti finanziari «in luogo diverso dalla sede legale o dalle dipendenze dell’emittente, del proponente l’investimento o del soggetto incaricato della promozione o del collocamento» (art. 30, 1° comma, T.U. n. 58 del 1998) e, naturalmente, può riguardare sia le offerte di vendita e di sottoscrizione sia le offerte pubbliche di acquisto o di scambio, ma potrà avere ad oggetto, come vedremo, anche i servizi di investimento. La nozione di «offerta» adottata nella definizione di «offerta fuori sede» merita qualche chiarimento. La stessa può consistere nella «promozione» di strumenti finanziari, ossia in un messaggio promozionale specificamente diretto alla conclusione di un contratto di compravendita, nel qual caso si identifica con il messaggio promozionale che integra gli estremi dell’appello al pubblico risparmio, e può essere posta in essere solo previa pubblicazione del prospetto informativo (nel caso di offerta di vendita e di sottoscrizione) o del documento d’offerta (nell’ipotesi di offerta pubblica di acquisto o di scambio); mentre non rientra in tale nozione di offerta quella consistente nella consegna di annunci pubblicitari che non assumano le caratteristiche del messaggio promozionale. Costituisce offerta fuori sede anche il «collocamento» degli strumenti finanziari, ossia la stipulazione dei contratti di compravendita o di permuta previsti nell’ambito dell’appello al pubblico risparmio. La definizione di offerta fuori sede prende in esplicita considerazione solo la «promozione» e il «collocamento» di strumenti finanziari (oltreché di servizi di investimento) e non anche di altri prodotti finanziari che, per altro, ben possono essere oggetto di un’offerta di vendita e di sottoscrizione o di un’offerta di acquisto e di scambio; il Testo Unico, tuttavia, si preoccupa di stabilire che la relativa disciplina si applica anche «ai prodotti finanziari diversi dagli strumenti finanziari» (art. 30, 9° comma, T.U.). A norma dell’art. 30, 2° comma, non costituisce offerta fuori sede «l’offerta di propri strumenti finanziari rivolta ai componenti del consiglio di
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amministrazione ovvero del consiglio di gestione, ai dipendenti, nonché ai collaboratori non subordinati dell’emittente, della controllante ovvero delle sue controllate, effettuata presso le rispettive sedi o dipendenze». Ancora due precisazioni utili per delimitare l’ambito di applicazione della disciplina delle offerte fuori sede con riferimento agli oggetti e ai destinatari dell’offerta. Secondo il testo originario dell’art. 30, 9° comma, la disciplina delle offerte fuori sede non avrebbe dovuto applicarsi alla promozione e al collocamento fuori sede dei «prodotti finanziari emessi dalle banche, diversi dalle azioni o dagli strumenti finanziari che permettono di acquisire o sottoscrivere azioni, ovvero prodotti assicurativi emessi da imprese di assicurazione» (comb. disp. degli artt. 30, 9° comma e 100, lett. f)). Erano gli stessi prodotti bancari e assicurativi per i quali si escludeva l’applicazione delle norme sulla sollecitazione all’investimento (ma non anche per quelle dettate per le offerte di acquisto e scambio), e che potevano quindi essere collocati anche «fuori sede», senza ricorrere, tra l’altro, all’attività dei promotori finanziari. Come abbiamo già constatato con riferimento alla disciplina dell’offerta pubblica di vendita e di sottoscrizione, la legge n. 262 del 2005 ha modificato quelle regole stabilendo a) che le norme sull’offerta al pubblico di prodotti finanziari si applicano anche ai prodotti finanziari emessi dalle banche, diversi dai depositi bancari e non a questi ultimi, purché la loro raccolta avvenga senza emissione di strumenti finanziari; e analogamente si dovrà ritenere che anche la promozione e il collocamento di tali prodotti siano soggetti alla disciplina qui in esame; b) che quest’ultima si applica ai «prodotti finanziari emessi dalle imprese di assicurazione». Il decreto n. 303 del 2006, «correttivo» della 262 del 2005 ha ribadito che non costituiscono prodotti finanziari i depositi bancari non rappresentati da strumenti finanziari, confermando pertanto l’applicazione delle norme sulla promozione e il collocamento fuori sede a tutti gli altri prodotti finanziari emessi dalle banche, e ha precisato che per prodotti finanziari emessi dalle assicurazioni, cui si applicano quelle norme, sono «le polizze e le operazioni di cui ai rami vita III e V di cui all’art. 2 del Codice delle assicurazioni», come abbiamo già avuto modo di ricordare. Il collocamento dei prodotti finanziari e dei prodotti assicurativi è altresì sottoposto ad una particolare disciplina (art. 25-bis, T.U.), introdotta dalla legge n. 262 del 2005 e della quale ci occuperemo quando illustreremo le regole cui debbono attenersi gli intermediari nello svolgimento dei servizi di investimento. Con riferimento ai destinatari dell’offerta il legislatore (art. 30, 2° comma, T.U.F.) precisa che «non costituiscono offerta fuori sede quelle effettuate nei confronti dei clienti professionali, come individuati ai sen-
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si dell’art. 6, commi 2-quinquies e 2-sexies». Come avremo modo di verificare anche occupandoci dei servizi di investimento, queste ultime norme stabiliscono che «i clienti professionali privati» sono individuati dalla Consob, sentita la Banca d’Italia, mentre i clienti professionali pubblici sono individuati dal Ministro dell’Economia e delle Finanze, sentite la Banca d’Italia e la Consob e le stesse autorità debbono anche fissare i criteri in base ai quali i soggetti privati o pubblici possono essere trattati come clienti professionali. Il Regolamento Intermediari, nella revisione del 29 ottobre 2007, considera clienti professionali di diritto a) i soggetti che sono tenuti ad essere autorizzati o regolamentati per operare nei mercati finanziari, siano essi italiani o esteri; b) le imprese di grandi dimensioni che presentano a livello di singola società almeno due dei requisiti dimensionali indicati nello stesso Regolamento (fatturato, fondi propri, totali di bilancio); c) gli investitori istituzionali la cui attività principale è investire in strumenti finanziari. B) L’offerta, come sopra definita, costituisce un’offerta fuori sede solo quando viene effettuata «in un luogo diverso dalla sede legale o dalle dipendenze dell’emittente, del proponente l’investimento o del soggetto incaricato della promozione o del collocamento». E, mentre è semplice la individuazione della «sede legale» dei soggetti sopra indicati, non è di immediata chiarezza la nozione di «dipendenza»: la stessa non si identifica con quella di sede secondaria né con quella, propria della esperienza bancaria, di succursale o di agenzia, e dovrebbe ricomprendere tutte le articolazioni dell’organizzazione di un soggetto riconducibili al controllo del medesimo. La Consob individua la dipendenza in una sede «costituita da una stabile organizzazione di mezzi e di persone, aperta al pubblico dotata di autonomia tecnica e decisionale» (art. 2, lett. g), Regolamento Intermediari); definizione che pare anche troppo restrittiva, dal momento che i requisiti organizzativi richiesti non sono indispensabili per ricondurre un’articolazione aziendale all’emittente o al proponente e perciò stesso escludere la «sorpresa» che rende pericolosa l’attività porta a porta. E proprio l’assenza di questo pericolo dovrebbe consentire anche di escludere che possa considerarsi fuori sede l’offerta effettuata presso le dipendenze del soggetto emittente o di quello proponente. L’offerta fuori sede di strumenti finanziari può essere effettuata soltanto dalle imprese di investimento, ossia dalle Sim e dalle imprese di investimento comunitarie ed extracomunitarie, e dalle banche autorizzate allo svolgimento del servizio di «collocamento» di strumenti finan-
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ziari; può essere anche svolta dagli organismi di investimento collettivo, dalle società di gestione collettiva del risparmio dalle SICAV, e dalle SICAF, ma solo per le quote di partecipazione e le azioni dagli stessi emesse. Se si esclude quest’ultima particolare ipotesi, si deve, dunque, constatare che la sollecitazione porta a porta è oggi riservata alle banche e alle imprese di investimento e sempreché le stesse abbiano ricevuto l’autorizzazione ad esercitare un particolare servizio d’investimento, quello consistente nel collocamento di strumenti finanziari. Non solo, ma le imprese di investimento, a differenza delle banche, possono procedere all’offerta fuori sede di prodotti finanziari, diversi dagli strumenti finanziari, solo se le loro caratteristiche siano state individuate con Regolamento della Consob, sentita la Banca d’Italia, ossia di prodotti finanziari, diversi dagli strumenti, che abbiano almeno una tipicità regolamentare. C) Nell’offerta di strumenti e di prodotti finanziari fuori sede «i soggetti abilitati», ossia le imprese di investimento, le società di gestione del risparmio, le Sicav e le Sicaf devono «avvalersi di consulenti finanziari abilitati all’offerta fuori sede». Questi, sono iscritti in un albo unico nazionale tenuto, secondo quanto prevedeva il T.U. del 1998, dalla Consob e, secondo quanto stabilisce la riforma introdotta dalla legge n. 262 del 2005, da «un organismo costituito dalle associazioni professionali rappresentative dei promotori e dei soggetti abilitati», previo accertamento dei requisiti di professionalità, determinati dal Ministro dell’Economia e delle Finanze (cfr. il D.M. 11 novembre 1998, n. 472 e D.M. 8 luglio 2010, n. 140), effettuato «sulla base di rigorosi criteri valutativi che tengano conto della pregressa esperienza professionale, validamente documentata ovvero sulla base di prove valutative» indette, in precedenza, dalla Consob ed ora dall’organizzazione di autogoverno dei consulenti finanziari medesimi; operano in qualità «di dipendente, agente o mandatario di soggetti abilitati» e possono svolgere la loro attività esclusivamente nell’interesse di uno di essi (agenti monomandatari); debbono osservare, nei rapporti con la clientela, le regole di presentazione e comportamento stabilite dalla Consob. Allo scopo di attribuire maggiore efficacia alla tutela dei danneggiati da comportamenti non corretti dei consulenti finanziari abilitati all’offerta fuori sede, l’art. 31, 3° comma, T.U. n. 58 del 1998 stabilisce inoltre che «il soggetto abilitato che conferisce l’incarico è responsabile in solido dei danni arrecati a terzi dal consulente finanziario, anche se tali danni siano conseguenti a responsabilità accertata in sede penale»; precisazione quest’ultima che esclude le perplessità sorte nell’interpretazione dell’art. 2049 c.c.
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D) Ma la tutela del risparmiatore nei confronti di una tecnica sollecitatoria intrinsecamente pericolosa, come quella del collocamento e della promozione fuori sede, è perseguita anche sul piano della disciplina del contratto. Più esattamente la tutela del risparmiatore è offerta, nei confronti della «sorpresa» alla quale lo espongono il collocamento e la promozione, non richiesti e subiti a domicilio, dal diritto di ripensamento che allo stesso riconosce il 6° comma dell’art. 30 del T.U., a norma del quale «l’efficacia dei contratti di collocamento di strumenti finanziari o di gestione di portafogli individuali [e di contratti di negoziazione per conto proprio] conclusi fuori sede è sospesa per la durata di sette giorni decorrenti dalla data di sottoscrizione dell’investitore, termine entro il quale l’investitore può comunicare il proprio recesso senza spese e corrispettivo». Tale facoltà dell’investitore deve essere indicata nei moduli o formulari consegnati all’investitore e l’omessa indicazione della stessa determina la nullità del relativo contratto; nullità che, per altro, può essere fatta valere solo dall’investitore (art. 30, 7° comma, T.U. n. 58 del 1998). All’investitore viene negata tale facoltà, quando l’offerta fuori sede abbia ad oggetto azioni con diritto di voto, o altri strumenti finanziari che ne permettono l’acquisto, «purché le azioni o gli strumenti siano negoziati in mercati regolamentati italiani o di paesi dell’Unione Europea» (art. 30, 8° comma). La negazione della facoltà di recesso può trovare qualche spiegazione nella più contenuta pericolosità dei titoli quotati, e nella necessità di impedire che l’esercizio del recesso possa mettere in pericolo, con la definitività del rapporto, il buon funzionamento del mercato e anche i rapporti di potere nell’ambito delle società quotate (come si evince dal fatto che la facoltà di recesso permane per le azioni prive del diritto di voto).
7. Il collocamento a distanza La diffusione sempre più capillare di strumenti di telecomunicazione consente, a chi sollecita il pubblico risparmio, di «raggiungere» i risparmiatori senza doversi recare nei luoghi nei quali gli stessi materialmente si trovano. Si tratta, come è ovvio, di una tecnica di sollecitazione che presenta gradi di pericolosità analoghi, se non maggiori, di quelli propri della sollecitazione «fuori sede», alla quale si accomuna per l’assenza di una iniziativa del risparmiatore diretta all’investimento o al disinvestimento del risparmio.
7. Il collocamento a distanza
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Il T.U. n. 58 del 1998, dopo aver precisato (art. 32) che «per tecniche di comunicazione a distanza si intendono le tecniche di contatto con la clientela, diverse dalla pubblicità, che non comportano la presenza fisica e simultanea del cliente e del soggetto offerente o di un suo incaricato», stabilisce che la Consob, sentita la Banca d’Italia, può disciplinare la promozione e il collocamento di strumenti finanziari effettuati con tali tecniche «in conformità con i principi fissati» dal D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del consumo) e delle norme per la sollecitazione del risparmio «fuori sede». E da quest’ultima disciplina si recepisce, per il collocamento a distanza, la nozione di offerta intesa come collocamento e promozione, con la necessità, a proposito di quest’ultima, di distinguere l’annuncio pubblicitario (che non costituisce offerta) e il messaggio promozionale finalizzato alla conclusione del contratto, che invece costituisce offerta, al di là delle difficoltà che in pratica possono presentarsi nel cogliere la distinzione. Così come si recepiscono i limiti all’applicabilità della disciplina con riferimento sia agli oggetti sia ai destinatari (non si applica nei confronti degli «clienti professionali»). Anche la promozione e il collocamento a distanza sono riservati, come le offerte fuori sede, alle imprese di investimento e alle banche autorizzate a prestare il servizio di collocamento (ai sensi dell’art. 1, 1° comma, lett. c), T.U.), ma possono essere effettuate per i propri titoli, anche dalle SICAV, dalle SICAF e dalle società di gestione del risparmio. Essi debbono servirsi, nell’esercizio dell’attività di promozione e collocamento, dei consulenti finanziari. «La promozione e il collocamento mediante tecniche di comunicazione a distanza non possono effettuarsi e, qualora intrapresi, devono essere immediatamente interrotti, nei confronti dei clienti che si dichiarino esplicitamente contrari al loro svolgimento o alla loro prosecuzione. A tale fine è fornita espressa indicazione della possibilità per i clienti di opporsi al ricevimento in futuro di tali comunicazioni» (art. 80 del Regolamento Intermediari). Il contatto a distanza con l’investitore può tradursi anche nella conclusione del contratto, nei limiti in cui documento informatico e firma digitale (legge 15 marzo 1997, n. 59 e D.Lgs. 10 novembre 1997, n. 513) possono integrare gli elementi della scrittura privata. Anche dai contratti così conclusi, e la cui efficacia rimane sospesa per sette giorni, l’investitore entro lo stesso termine potrà recedere «senza spese né corrispettivo». La disciplina delle offerte a distanza dettata dal Testo Unico e dal Regolamento Consob deve considerarsi integrata dalle regole generali sul
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L’appello al pubblico risparmio
commercio elettronico dettate nel nostro ordinamento, in attuazione della direttiva 2000/31 dell’Unione Europea, dal D.Lgs. 9 aprile 2003, n. 70.
8. Il controllo della Banca d’Italia sulla emissione di valori mobiliari A) Abbiamo già avuto modo di constatare che dalla metà degli anni Ottanta l’emissione di valori mobiliari fu sottoposta a controlli attribuiti ad autorità diverse e per finalità diverse a seconda della loro natura: le emissioni di azioni e di obbligazioni dovevano essere autorizzate, ai sensi dell’art. 21, legge n. 281 del 1985, dal Ministro del Tesoro, ma con il «solo fine di assicurare la stabilità del mercato dei valori mobiliari», mentre la emissione degli altri tipi di valori mobiliari era sottoposta, ai sensi dell’art. 11, legge n. 77 del 1983, al controllo della Banca d’Italia «ai soli fini del controllo dei flussi finanziari». Il Testo Unico delle norme in materia bancaria e creditizia (D.Lgs. n. 385 del 1993) abrogò le disposizioni appena ricordate cercando, nell’art. 129, modificato dall’art. 64, 21° comma, D.Lgs. n. 415 del 1996, di dare coerenza, sotto il profilo sia organizzativo sia teleologico, alla disciplina dell’accesso al mercato mobiliare, concentrando i poteri di controllo in capo alla Banca d’Italia (in quanto custode della stabilità del mercato finanziario), ed individuando, in modo identico per tutti i valori mobiliari, le finalità del controllo nella necessità di «assicurare la stabilità e l’efficienza del mercato dei valori mobiliari» (e il riferimento all’efficienza è stato introdotto dall’art. 64, 21° comma, D.Lgs. n. 415 del 1996). La nuova disciplina escludeva, dunque, che la Banca d’Italia potesse differire o vietare l’emissione dei valori mobiliari per indirizzare i flussi del risparmio privato verso particolari settori o per assicurare il finanziamento dello Stato o per favorire una politica protezionistica del risparmio (ad es.: differendo o vietando le emissioni straniere) o per intervenire sui tassi di mercato (ad es.: differendo o vietando operazioni che prevedano tassi particolarmente elevati). Il controllo della Banca d’Italia tendeva soltanto a verificare la congruità fra la quantità di risparmio domandata, attraverso l’emissione, e quella disponibile sul mercato, allo scopo di evitare, in un’ottica di breve periodo, squilibri fra domanda ed offerta tali da compromettere la stabilità e l’efficienza del mercato stesso. La stabilità e l’efficienza, per altro, avrebbero potuto essere compromesse non solo da uno squilibrio eccessivo tra quantità domandata
8. Il controllo della Banca d’Italia sulla emissione di valori mobiliari
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e quantità offerta, ma anche dalla immissione sul mercato di titoli aventi caratteristiche tali da ostacolare il buon funzionamento del mercato mobiliare, soprattutto sotto il profilo della sua efficienza. La stabilità e l’efficienza del mercato costituivano obiettivi di interesse generale e il loro perseguimento giustificava, anche al fine della conformità con i principi costituzionali, la compressione della libertà economica dell’emittente, il cui interesse trovava, peraltro, una tutela indiretta nell’ordinato andamento del mercato; compressione fissata in linea di principio dalla legge e concretamente realizzata attraverso i provvedimenti del CICR e della Banca d’Italia. B) La disciplina introdotta dal Testo Unico bancario del 1993, dalle deliberazioni del CICR e dalle Istruzioni della Banca d’Italia alle quali il legislatore rinviava la regolamentazione di alcuni profili di particolare rilievo, prevedeva che le emissioni non riservate ai mercati esteri di valori mobiliari da parte di emittenti nazionali e le offerte in Italia di valori mobiliari da parte di emittenti esteri fossero liberamente effettuabili se d’importo complessivo non superiore a 51.645.689 euro (o al maggior importo determinato dalla Banca d’Italia), purché «i valori mobiliari rientrassero in tipologie previste dall’ordinamento e presentassero le caratteristiche individuate dalla Banca d’Italia in conformità delle deliberazioni del CICR». Le emissioni e le offerte di importo superiore o aventi per oggetto titoli «atipici» dovevano essere preventivamente comunicate alla Banca d’Italia. Erano, dunque, esonerate dal controllo le emissioni che, per la loro ridotta dimensione e per le caratteristiche dei valori mobiliari, non potevano incidere sulla stabilità e l’efficienza complessive del mercato. La consapevolezza degli scopi perseguiti aiutava poi a delimitare l’ambito di applicazione della disciplina, con riferimento sia alle modalità dell’emissione sia ai prodotti finanziari oggetto della stessa. Come abbiamo avuto modo di verificare in questo stesso capitolo, le norme dettate per l’appello al pubblico risparmio (art. 94 ss., T.U. n. 58 del 1998), avendo come scopo la tutela del risparmio diffuso di fronte ad una sollecitazione standardizzata a vendere o comprare valori mobiliari, non si applicano alle emissioni «private», ossia non rivolte al pubblico, e a quelle indirizzate a clienti professionali, che non sono bisognosi della protezione apprestata da quelle norme. Il controllo di Banca d’Italia previsto dalla norma in esame trovava, invece, applicazione anche per queste emissioni, potendo anch’esse compromettere la stabilità e l’efficienza del mercato. Di converso, le norme sull’appello al pubblico risparmio si applicano anche alle emissioni di impor-
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to inferiore alla soglia considerata rilevante per la stabilità e l’efficienza del mercato dei valori mobiliari. Gli obiettivi perseguiti rendevano anche ragione del fatto che le Istruzioni della Banca d’Italia considerassero valori mobiliari, ai fini della norma in esame, soltanto gli strumenti di raccolta di fondi «negoziati o negoziabili in un mercato», escludendo quindi che fossero soggetti al controllo della Banca d’Italia le emissioni di titoli non negoziabili. Occupandoci dell’appello al pubblico risparmio abbiamo constatato, invece, che la relativa disciplina si applica anche alle offerte di acquisto o di vendita di valori mobiliari non negoziabili. Il diverso ambito di applicazione delle due discipline si spiega facilmente quando si tengano presenti le rispettive finalità: solo titoli negoziabili o negoziati sul mercato potevano compromettere la stabilità e l’efficienza di quest’ultimo, mentre il bisogno di protezione del risparmiatore sussiste anche con riferimento a titoli non negoziabili, per i quali anzi il pericolo di rimanere prigionieri del titolo rende il bisogno di protezione più intenso di quello riscontrabile per i titoli negoziabili. C) La comunicazione dell’emittente o dell’offerente valori mobiliari, anche esteri, alla Banca d’Italia doveva indicare «le quantità e le caratteristiche dei valori mobiliari, nonché le modalità e i tempi di svolgimento dell’operazione» e quest’ultima poteva essere effettuata decorsi venti giorni dal ricevimento della comunicazione, da parte della stessa Banca d’Italia. Entro tale termine, tuttavia, la Banca d’Italia «al fine di assicurare la stabilità e l’efficienza del mercato dei valori mobiliari», poteva differire o vietare l’operazione secondo i criteri determinati dal CICR. Dai criteri appena indicati sembrava emergere anche la preoccupazione dell’autorità di apprestare strumenti di tutela del risparmio e di controllo sulla legittimità delle operazioni; fini che, pur non rientrando nell’ambito degli scopi tipici della norma, erano in qualche misura strumentali e connessi con quello di assicurare stabilità ed efficienza al mercato. D) Il legislatore esonerava poi dal controllo appena descritto le emissioni che avessero avuto per oggetto i titoli di Stato o garantiti dallo Stato, i titoli azionari (con esclusione delle azioni emesse dalle SICAV), gli strumenti partecipativi emessi in conformità con il codice civile, l’emissione delle quote di organismi di investimento collettivo nazionali e la commercializzazione in Italia di quote di organismi di investimento collettivo in valori mobiliari comunitari. Le ragioni dell’esonero erano rinvenibili, per quanto concerne i titoli pubblici, nella presunzione che lo Stato non avrebbe effettuato emissioni che potessero compromettere la stabilità e l’efficienza del mercato e,
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per quanto concerne le quote degli organismi di investimento collettivo, nel fatto che le stesse non determinano la emissione di nuove passività da parte dei prenditori finali di risparmio ma, più semplicemente, una modificazione dei flussi finanziari sul mercato secondario. Più difficile era giustificare l’esonero previsto per i titoli azionari; la loro emissione «in quantità eccessiva» può ben compromettere la stabilità del mercato, né può giustificarsi l’esonero assumendo che si tratta di titoli tipici, per i quali non si pongono problemi di tutela del risparmiatore, sia perché una siffatta affermazione era contraddetta dal fatto che anche le emissioni di titoli azionari sono assoggettate alle norme dettate per l’appello al pubblico risparmio sia perché la norma in esame non si preoccupava tanto di soddisfare il bisogno di protezione dei risparmiatori quanto di assicurare la stabilità del mercato mobiliare. Probabilmente si trattava di un privilegio, come tale non giustificabile sulla base di criteri generali, riservato al valore mobiliare tipicamente utilizzato per la raccolta del capitale di rischio, raccolta che, nella prospettiva del Testo Unico bancario, rimaneva ai margini dei problemi di stabilità che lo stesso affrontava. E questo discorso valeva, ma con credibilità anche più limitata, per la emissione di strumenti finanziari partecipativi consentita dal codice civile. Il che trovava una possibile conferma nel fatto che la emissione di obbligazioni, accomunata a quella di titoli azionari nella disciplina previgente (art. 21, legge n. 281 del 1985), rimaneva sottoposta al controllo di stabilità previsto dall’art. 129 del Testo Unico bancario. E) Il controllo della Banca d’Italia sull’emissione di strumenti finanziaria fin qui descritta, è stato eliminato dal D.Lgs. 28 dicembre 2006, n. 303 che ha riscritto nei seguenti termini l’art. 129 del T.U.B. sul quale abbiamo fin qui indugiato: «La Banca d’Italia può richiedere a chi emette od offre strumenti finanziari segnalazioni periodiche, dati e informazioni a carattere consuntivo riguardanti gli strumenti finanziari emessi od offerti in Italia, ovvero all’estero da soggetti italiani, al fine di acquisire elementi conoscitivi sull’evoluzione dei prodotti e dei mercati finanziari». Come si può notare, il potere della Banca d’Italia sulle emissioni di strumenti finanziari è stato ridotto ad una «curiosità statistica»; la descrizione delle varie tappe della disciplina previgente rimane utile per mettere a fuoco i rapporti, mutati nel tempo, fra esigenze della politica economica, disciplina del mercato in quanto tale ed emissione di strumenti finanziari e quindi, in definitiva, fra politica e mercato.
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L’appello al pubblico risparmio
2. I servizi di investimento
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Capitolo IV
I servizi e le imprese di investimento SOMMARIO: 1. Dall’intermediazione mobiliare ai servizi di investimento. – 2. I servizi di investimento. – 3. I servizi accessori. – 4. L’esercizio professionale dei servizi di investimento. – 5. L’accesso all’esercizio dei servizi di investimento. – 5.1. L’autorizzazione delle Sim. – 5.2. L’autorizzazione delle banche. – 5.3. Le imprese di investimento e le banche comunitarie ed extracomunitarie. – 5.4. L’attività transfrontaliera delle imprese di investimento italiane. – 6. La prestazione dei servizi. – 6.1. «Criteri generali». – 6.2. Forma e contenuto dei contratti di investimento. – 6.3. La responsabilità da prestazione di servizi. – 6.4. La separazione patrimoniale. – 6.5. La gestione di portafogli. – 6.6. La negoziazione sui mercati regolamentati. – 6.7. La consulenza in materia di investimenti. – 6.8. L’offerta «fuori sede» e «a distanza». – 6.9. Sottoscrizione e collocamento di prodotti finanziari emessi da banche e da imprese di assicurazione. – 6.10. I portali per l’equity crowdfunding. – 7. La vigilanza sull’esercizio dei servizi di investimento. – 8. La vigilanza prudenziale sulle Sim. – 9. La disciplina della crisi delle imprese di investimento.
1. Dall’intermediazione mobiliare ai servizi di investimento
Abbiamo a suo tempo ricordato il ruolo essenziale svolto dagli intermediari per il funzionamento e la crescita di un mercato mobiliare ed, in particolare, abbiamo sottolineato la loro importanza nel favorire l’incontro fra la domanda e l’offerta dei prodotti finanziari. Abbiamo anche constatato che sulla nozione di «attività di intermediazione mobiliare» era costruita la prima disciplina organica del settore, quella dettata dalla legge n. 1 del 1991, che riservava, appunto, alle «Società di intermediazione mobiliare» (Sim), oltre che alle banche, l’esercizio dell’attività di intermediazione avente per oggetto i «valori mobiliari». Quella nomenclatura fu abbandonata, sulla scia delle direttive comunitarie, dal D.Lgs. n. 415 del 1996, che dettava, in sostituzione di quella contenuta nella legge n. 1 del 1991, la nuova disciplina di questa attività di mercato mobiliare e dal T.U. n. 58 del 1998, che ha recepito la massima parte delle scelte effettuate da quel decreto, a cominciare dal glossario.
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Così non si parla più di «attività di intermediazione mobiliare», ma di «servizi di investimento»; e questi sono le attività che hanno per oggetto non più valori mobiliari ma «strumenti finanziari»; infine i soggetti cui viene riservato, oltre che alle banche, l’accesso all’esercizio di tali servizi sono definiti imprese di investimento, anche se per quelle, di queste ultime, che hanno sede in Italia viene curiosamente mantenuta la qualificazione di «Società di intermediazione mobiliare», pur essendo stata abbandonata la nozione di intermediazione mobiliare ed emarginata quella di valore mobiliare. Le linee portanti dell’ordinamento dei servizi di investimento sono, come lo erano per la disciplina dell’intermediazione mobiliare, a) la riserva dell’attività a particolari categorie di «imprese»; b) l’imposizione, alle stesse, di regole di stabilità e di correttezza e trasparenza nei confronti dei clienti; c) la previsione di una vigilanza ispettiva, informativa e regolamentare sui soggetti autorizzati, affidata alla Banca d’Italia e alla Consob, secondo il criterio della competenza per funzioni, e non per soggetti, ossia riservando alla prima il rispetto delle regole di stabilità e alla seconda quello delle regole di correttezza e trasparenza; anche se talvolta l’applicazione di tale criterio risulta piuttosto incerta. Queste linee non sono state abbandonate dall’attuazione nel nostro ordinamento (D.Lgs. 17 settembre 2007, n. 164) della direttiva MIFID (direttiva 21 aprile 2004, 2004/39 Market in Financial Instruments Directive); attuazione che, per altro, ha comportato numerose modificazioni alla disciplina dei servizi di investimento. Qui basti ricordare, in proposito, che l’attuazione della direttiva MIFID a) ha imposto l’introduzione di due nuovi servizi di investimento: la consulenza in materia di investimenti e la gestione di sistemi multilaterali di negoziazione; b) ha introdotto la figura dell’internalizzatore sistematico, che vede la fusione di due altri servizi di investimento (la negoziazione per proprio conto e l’esecuzione di ordini per conto dei clienti); c) ha previsto un nuovo servizio accessorio: la ricerca in materia di investimenti e d), attraverso l’ampliamento della nozione di strumento finanziario ai derivati su beni non finanziari, ha ricompreso fra i servizi che godono del mutuo riconoscimento anche quelli aventi per oggetto tali derivati. Queste novità, introdotte dalla MIFID, sono state confermate dall’attuazione della MIDIF 2 (direttiva 65/2014); attuata nel nostro ordinamento da D.Lgs. n. 129 del 2017, e dal Regolamento UE n. 600 del 2014 (MIFIR), provvedimenti questi, che hanno introdotto nuove norme dirette a proteggere gli investitori e a favorire l’efficienza del mercato mobiliare.
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Ma, prima di affrontare l’analisi della disciplina dettata per le imprese di investimento e per la prestazione dei «servizi di investimento» aventi per oggetto «strumenti finanziari», dobbiamo, ovviamente, capire con maggior precisione cosa intenda il legislatore per «servizi di investimento» aventi per oggetto «strumenti finanziari» e, avendo già definito quest’ultima nozione, dobbiamo concentrare l’attenzione su quella di «servizi di investimento». Con una precisazione, tuttavia, per quanto concerne gli oggetti con riferimento ai quali si svolge l’attività. Il T.U. ha limitato la disciplina dei servizi di investimento alle attività che hanno come oggetto gli strumenti finanziari; un’attività che avesse per oggetto un prodotto finanziario non ricompreso fra gli strumenti finanziari non costituirebbe un servizio di investimento e, quindi, sarebbe sottratta alla relativa disciplina. A questa regola la legge n. 262 del 2005 ha introdotto, come vedremo, un’eccezione per quanto concerne la sottoscrizione e il collocamento dei prodotti finanziari, diversi dagli strumenti, emessi dalle banche e dalle assicurazioni.
2. I servizi di investimento Anche per quanto concerne i servizi di investimento, come già per gli strumenti finanziari, il legislatore ha rinunciato, in ciò seguendo, del resto, l’esempio comunitario, ad una definizione generale, limitandosi ad indicare un catalogo di attività che debbono considerarsi servizi di investimento quando abbiano ad oggetto strumenti finanziari; catalogo tassativo, ma che può essere arricchito dal Ministro dell’Economia e delle Finanze per le medesime ragioni per le quali lo stesso Ministro può, come abbiamo già visto, individuare nuovi strumenti finanziari (art. 18, 5° comma, T.U. n. 58 del 1998). I servizi di investimento sono dunque necessariamente servizi tipici, anche se la tipicità degli stessi può discendere da un provvedimento amministrativo; la mancanza di una definizione generale impedisce, infatti, all’interprete di individuare servizi riconducibili a quest’ultima e non indicati nel catalogo legislativo; il che, per altro, non significa che non sia rintracciabile un minimo comune denominatore che giustifichi la ricomprensione dei servizi di investimento tipizzati in quel catalogo e questo comune denominatore va rintracciato nella rilevanza che tali servizi, se esercitati professionalmente, hanno per il buon funzionamento del mercato finanziario. Nella individuazione delle attività che debbono considerarsi ricomprese nell’ambito dei servizi inclusi nel catalogo dovranno, dunque, es-
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I servizi e le imprese di investimento
sere tenuti presenti, da un lato, tale rilevanza e, dall’altro, il fatto che la relativa disciplina pone un limite al diritto di iniziativa economica costituzionalmente protetto. Nel dare attuazione alla direttiva MIFID, il D.Lgs. n. 164 del 2007 ha introdotto la nozione di «attività di investimento», affiancandola a quella di «servizio di investimento» e questa innovazione è stata conservata dalle norme di attuazione della MIFID 2; il T.U. non discorre più di «servizi di investimento», ma di «servizi ed attività di investimento». In realtà non è dato individuare una realtà fenomenica delle «attività di investimento» diversa da quella di servizio di investimento. Nella direttiva l’espressione «attività di investimento» individuava l’insieme delle operazioni svolte per proprio conto e nel proprio interesse, mentre i servizi erano rappresentati da operazioni svolte nell’interesse altrui, anche se in nome proprio. La direttiva, per altro, sottraeva alla disciplina dei servizi le attività (art. 2, 1° comma, lett. d)). Nel nostro ordinamento non è prevista una disciplina diversa per le attività e per i servizi e non esiste neppure una norma di esonero delle prime dalla disciplina prevista per i secondi. L’introduzione di tale nuova nozione si rivela, pertanto, un’inutile innovazione terminologica. Noi continueremo ad usare esclusivamente l’espressione «servizi di investimento», come comprensiva anche della nozione di attività di investimento. A) Questi i servizi di investimento individuati dal legislatore (art. 1, 5° comma, T.U. n. 58 del 1998): a) «negoziazione per conto proprio», ossia l’attività di acquisto (per la rivendita) e di vendita per proprio conto (dealing) di strumenti finanziari svolta, sia nei mercati regolamentati sia al di fuori di essi, con lo scopo di realizzare una differenza (spread) fra i prezzi di acquisto e quelli di vendita; attività che va tenuta distinta dalla mera attività di trading, ossia dalla mera movimentazione del proprio portafoglio che qualunque soggetto può porre in essere, anche attraverso un broker, per cercare di ottimizzarne la struttura e il rendimento. Il comma 5°-bis dell’art. 1 T.U. precisa che «per negoziazione per conto proprio si intende l’attività di acquisto e vendita di strumenti finanziari, in contropartita diretta». b) «esecuzione di ordini per conto dei clienti» o negoziazione per conto terzi, ossia l’attività di acquisto o di vendita di titoli, anche in nome proprio ma per conto altrui (attraverso contratti di commissione e di mandato a sottoscrivere) che trova il proprio corrispettivo non nella diffe-
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renza fra prezzo di acquisto e prezzo di vendita, ma nella provvigione che il cliente interessato corrisponde al broker per il servizio ricevuto. Più esattamente, l’art. 1, comma 5°-septies.1 del TUF precisa che «per “esecuzione di ordini per conto dei clienti” si intende la conclusione di accordi di acquisto o di vendita di uno o più strumenti finanziari per conto dei clienti, compresa la conclusione di accordi per la sottoscrizione o la compravendita di strumenti finanziari emessi da un’impresa di investimento o da una banca al momento della loro emissione»; c) l’attività di assunzione a fermo e/o collocamento sulla base di un impegno irrevocabile nei confronti dell’emittente; ossia l’attività diretta a far acquisire dai risparmiatori nuovi titoli (offerti in sottoscrizione) per conto di un emittente attraverso la loro distribuzione; il collocamento può essere preceduto dalla sottoscrizione o dall’acquisto da parte del collocatore (e in tal caso la sua attività sarà nella sostanza quella del dealer); ma può anche non esserlo, nel quale caso, per altro, il collocatore (broker) assume la garanzia, nei confronti dell’emittente, di acquistare la parte di titoli che non potesse essere collocata; c-bis) l’attività di collocamento senza impegno irrevocabile nei confronti dell’emittente; d) la «gestione di portafogli», ossia l’attività consistente nell’investimento in strumenti finanziari delle somme affidate dal singolo cliente all’intermediario e sotto questo profilo contrapposta alle gestioni in monte. Il comma 5°-quinquies dell’art. 1 del T.U.F. chiarisce che per «gestione di portafogli» si intende la gestione, su base discrezionale e individualizzata, di portafogli di investimento che includono uno o più strumenti finanziari e nell’ambito di un mandato conferito dai clienti. Ma sul punto torneremo, trattandosi di un servizio di investimento sottoposto ad una specifica disciplina della quale dovremo dar conto; e) «la ricezione e la trasmissione di ordini», ossia l’attività di chi si limita a ricevere e trasmettere (al negoziatore) gli ordini di acquisto o di vendita o di sottoscrizione provenienti dalla clientela, nell’ambito della quale rientra anche la mera «mediazione» (o brokeraggio puro), ossia l’attività consistente nel mettere in contatto, come nel rapporto di mediazione codicistico (art. 1754), gli interessati alla conclusione di un contratto senza vincolo di collaborazione o mandato con alcuno di essi; f) la «consulenza in materia di investimenti», intendendosi per tale la «prestazione di raccomandazioni personalizzate a un cliente, dietro sua richiesta o per iniziativa del prestatore del servizio, riguardo a una o più operazioni relative a strumenti finanziari. La raccomandazione è perso-
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I servizi e le imprese di investimento
nalizzata quando è presentata come adatta per il cliente o è basata sulla considerazione delle caratteristiche del cliente. Una raccomandazione non è personalizzata se viene diffusa al pubblico mediante canali di distribuzione». È questa una delle innovazioni significative introdotte nel nostro ordinamento dalla direttiva MIFID. La consulenza in materia di investimenti era ricompresa fra i servizi di investimento dalla legge n. 1 del 1991, ma era stata esclusa da questa categoria di attività dal T.U. del 1998, che l’aveva collocata fra i servizi accessori. Come appare chiaro dalla stessa lettera della norma, la consulenza si caratterizza per la sua personalizzazione (nei confronti di un singolo cliente) e sotto questo profilo si distingue dalla «ricerca in materia di investimento e analisi finanziaria» collocata dal T.U. fra i servizi accessori; g) la gestione di sistemi multilaterali di negoziazione, ossia «un sistema multilaterale gestito da un’impresa di investimento o da un gestore del mercato che consente l’incontro, al suo interno e in base a regole non discrezionali, di interessi multipli di acquisto e di vendita di terzi relativi a strumenti finanziari, in modo da dare luogo a contratti conformemente alle disposizioni della parte II e della parte III del T.U. 58/98» (comma 5°-octies, art. 1, T.U.F.). Nei sistemi multilaterali di negoziazione, l’intermediario non è parte del contratto con il cliente, ma si limita a favorire l’incontro fra la domanda e l’offerta da parte dei clienti sulla base di piattaforme e regole non discrezionali. La direttiva 22/93 non prevedeva tale attività fra i servizi di investimento e il T.U.F. non la considerava un servizio riservato; l’esercizio di tale attività era libera, ma riconducibile, ai sensi dell’art. 78, ai mercati non regolamentati. Sulla base di questa norma la Consob aveva ricompreso nell’ambito di applicazione della stessa anche i sistemi bilaterali nei quali l’intermediario era controparte: attività, quest’ultima che, alla stregua della direttiva MIFID, costituisce l’attività di internalizzazione sistematica. La gestione dei sistemi multilaterali si differenzia, infatti, dall’internalizzazione perché si limita ad incrociare gli ordini senza entrare nel contratto; essa svolge la stessa funzione del mercato regolamentato, è un mercato ma è anche un servizio di investimento (cfr. considerando n. 6 della direttiva). h) la gestione di un «sistema organizzato di negoziazione»: ossia di un sistema multilaterale diverso da un mercato regolamentato o da un sistema multilaterale di negoziazione che consente l’interazione tra interessi multipli di acquisto e di vendita di terzi relativi a obbligazioni, stru-
3. I servizi accessori
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menti finanziari strutturati, quote di emissioni e strumenti derivati, in modo da dare luogo a contratti conformemente alle disposizioni della Parte II e della Parte III del T.U. n. 58 del 1998. B) Come si è già accennato, la direttiva 2004/39, e oggi anche il T.U., prevede e disciplina l’organizzazione e l’attività dell’internalizzatore sistematico, intendendosi per tale (art. 1, comma 5°-ter, T.U.F.) «l’impresa di investimento che in modo organizzato, frequente, sistematico e sostanziale negozia per conto proprio eseguendo gli ordini dei clienti al di fuori di un mercato regolamentato, di un sistema multilaterale di negoziazione o di un sistema organizzato di negoziazione senza gestire un sistema multilaterale. Il modo frequente e sistematico si misura per numero di negoziazioni fuori listino (OTC) su strumenti finanziari effettuate per conto proprio eseguendo gli ordini dei clienti. Il modo sostanziale si misura per dimensione delle negoziazioni OTC effettuate dal soggetto su uno specifico strumento finanziario in relazione al totale delle negoziazioni effettuate sullo strumento finanziario dal soggetto medesimo o all’interno dell’Unione europea». L’internalizzazione sistematica degli ordini non costituisce un nuovo servizio ma unifica due servizi già previsti dalla direttiva 22/93. I due servizi sono a) la negoziazione per proprio conto e b) l’esecuzione di ordini per conto dei clienti. La direttiva, consentendo l’internalizzazione sistematica degli ordini, tende a facilitare il commercio degli strumenti finanziari, consentendo canali alternativi ai mercati regolamentati e ai sistemi multilaterali, ma imponendo regole che assicurino la «correttezza» degli scambi; regole sulle quali torneremo più innanzi.
3. I servizi accessori Il Testo Unico (art. 1, 6° comma) prende in considerazione un’altra categoria di servizi: quella dei servizi accessori; categoria che viene utilizzata, per altro, in una prospettiva del tutto diversa da quella per la quale ha fatto ricorso alla nozione di servizi di investimento. Quest’ultima serve, come sappiamo, per individuare le attività riservate a predeterminate categorie di soggetti (e in particolare a banche e Sim); quella dei servizi accessori serve, invece, per stabilire quali sono le attività, ulteriori e diverse dai servizi di investimento, che tali soggetti (e in particolare le Sim) possono esercitare, essendo loro precluso, in applicazione del principio della esclusività dell’oggetto sociale (e salve le
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I servizi e le imprese di investimento
eccezioni che vedremo), lo svolgimento di ogni attività il cui esercizio non sia consentito dalla legge; e l’esercizio dei servizi accessori non abbisogna, a differenza di quanto previsto per i servizi di investimento, di alcuna specifica autorizzazione. Nonostante l’affermata accessorietà, non sembra neppure necessario che esista un preciso collegamento fra i servizi di investimento che l’intermediario è autorizzato ad esercitare e i servizi accessori che lo stesso può svolgere. La qualificabilità di una attività come servizio accessorio non serve soltanto per individuare le attività, diverse dai servizi di investimento, che l’intermediario può svolgere, ma comporta anche, in linea di principio, l’applicazione, al relativo esercizio, delle regole di comportamento dettate per lo svolgimento dei servizi di investimento. Principio che non vale per lo svolgimento delle altre «attività finanziarie» e delle attività strumentali e connesse che, come vedremo, gli intermediari possono svolgere, ancora in deroga al principio della esclusività dell’oggetto sociale. Tra i servizi accessori, elencati nell’allegato 1, Sezione B, al T.U.F., meritano di essere ricordati: a) la custodia e l’amministrazione di strumenti finanziari, ossia la materiale detenzione dei titoli e l’esercizio dei diritti incorporati negli stessi, senza, ovviamente, i poteri che caratterizzano le gestioni patrimoniali; b) la concessione di finanziamenti (prestito di danaro o di titoli) ai clienti per consentire loro di effettuare operazioni in strumenti finanziari (ad esempio, il loro acquisto e la loro vendita) nelle quali, per altro, intervenga (ad esempio, come negoziatore per conto del cliente) la Sim finanziatrice, e ciò allo scopo di non violare la riserva stabilita a favore di altra categoria di soggetti (come le banche o i soggetti finanziari previsti dall’art. 106 Testo Unico bancario); c) la «consulenza alle imprese in materia di struttura finanziaria, di strategia industriale e di questioni connesse, nonché la consulenza e i servizi concernenti le concentrazioni e l’acquisto di imprese», ossia la «corporate finance»; consulenza che va ovviamente tenuta distinta dalla «consulenza in materia di investimenti» che viene considerata, come abbiamo già ricordato, fra i servizi finanziari riservati; d) i servizi connessi all’emissione e al collocamento di strumenti finanziari, compresa l’organizzazione e la costituzione di consorzi di garanzia e collocamento; e) «la ricerca in materia di investimenti, l’analisi finanziaria o altre forme di raccomandazione generale riguardanti operazioni relative a strumenti finanziari», che si distingue dalla consulenza in materia di investi-
4. L’esercizio professionale dei servizi di investimento
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menti per la mancanza della personalizzazione che caratterizza quest’ultima, che costituisce una specifica raccomandazione all’operazione di acquisto o di vendita indirizzata al singolo cliente. La ricerca in questione è soggetta alle norme della direttiva 125/2003 che detta regole di correttezza per la loro formulazione e pubblicazione; f) l’intermediazione in cambi, quando collegata alla prestazione di servizi di investimento; Non rientra nell’ambito dei servizi accessori, e, ovviamente, neppure nel catalogo dei servizi di investimento, l’attività di rating del merito creditizio di un operatore; attività di grande importanza anche sul mercato mobiliare, soprattutto con riferimento agli strumenti finanziari di debito. L’attività di rating è stata contrassegnata nella recente crisi finanziaria da errori e conflitti di interesse, che hanno imposto una loro più rigorosa disciplina; per l’Unione europea dettata dal Regolamento n. 1060/2009 del 16 settembre 2009 e resa più stringente dal Regolamento n. 462/2013 del 21 maggio 2013.
4. L’esercizio professionale dei servizi di investimento a) A norma dell’art. 18, 1° comma, T.U. «l’esercizio professionale nei confronti del pubblico dei servizi e delle attività di investimento è riservato alle Sim, alle imprese di investimento UE, alle banche italiane, alle banche UE e alle imprese di paesi terzi». Dunque, non il compimento di singoli atti di investimento in strumenti finanziari è sottoposto a riserva, ma solo «l’esercizio professionale nei confronti del pubblico» dei servizi di investimento; la formula, in realtà ridondante, postula non solo l’abitualità, il protrarsi nel tempo delle operazioni di investimento («professionalità»), ma anche che tale attività sia rivolta «nei confronti del pubblico», ossia del mercato. Ma quest’ultima qualificazione può assumere una qualche rilevanza normativa solo se intende, come probabilmente intende, escludere dalla riserva le attività dirette a soggetti facenti parte dello stesso gruppo o comunque ad un numero limitato di soggetti. b) Come abbiamo notato, l’esercizio professionale nei confronti del pubblico dei servizi di investimento è riservato alle Sim, alle banche e alle imprese di investimento, comunitarie e extracomunitarie. Il legislatore prevede, tuttavia, che anche gli intermediari finanziari iscritti nell’elenco previsto dall’art. 106 T.U. bancario possano essere autorizzati dal-
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la Banca d’Italia ad espletare alcuni dei servizi di investimento e, più esattamente, la negoziazione per conto proprio e l’esecuzione di ordini per conto dei clienti, limitatamente agli strumenti finanziari derivati e la sottoscrizione e il collocamento di strumenti finanziari previsti dall’art. 1, 5° comma, lett. c) e c-bis) del medesimo Testo Unico. Ipotesi quest’ultima abbastanza marginale nel quadro disegnato dalla disciplina in esame, ma significativa della tendenza a consentire un ampliamento delle attività degli intermediari finanziari in generale e della difficoltà di tracciare confini molto netti fra il mercato mobiliare e gli altri segmenti del mercato finanziario. Inoltre, come vedremo, le società di gestione del risparmio possono esercitare anche l’attività di gestione di portafogli di investimento e di consulenza in materia di investimenti: il che dà a quelle società la possibilità di esercitare sia gestioni in monte sia gestioni individualizzate. c) È poi necessario ricordare che due categorie di soggetti possono esercitare «in via transitoria» alcuni servizi di investimento. Più esattamente, a norma dell’art. 199 T.U. «fino alla riforma organica della disciplina delle società fiduciarie e di revisione», le società fiduciarie che avevano ottenuto la iscrizione nell’elenco speciale dell’Albo delle Sim possono continuare ad esercitare l’attività di gestione dei portafogli di investimento, purché limitino a tale attività il loro oggetto sociale, con l’intestazione a sé medesime degli strumenti finanziari di pertinenza dei clienti. E ancora, a norma dell’art. 201 T.U., gli agenti di cambio ancora iscritti nel ruolo unico nazionale del Ministero dell’Economia e delle Finanze (ruolo ad esaurimento) possono, fino alla cessazione dal ruolo (necessaria al compimento del 70° anno di età), svolgere i servizi di negoziazione per conto terzi, di collocamento senza assunzione di garanzia, di gestione individuale di portafogli, di consulenza in materia di investimenti e di ricezione e trasmissione di ordini (e mediazione). Naturalmente nel rispetto delle regole alle quali tutti gli intermediari debbono attenersi nei rapporti con i terzi. d) Come abbiamo già ricordato, il Ministro dell’Economia e delle Finanze, con Regolamento adottato sentite la Banca d’Italia e la Consob, può individuare non solo nuove categorie di strumenti finanziari ma anche «nuovi servizi e attività di investimento e nuovi servizi accessori, indicando quali soggetti sottoposti a forme di vigilanza prudenziale possono esercitare i nuovi servizi e attività» (art. 18, 5° comma, lett. a)). La lettera della norma pare condizionare l’ampliamento della platea dei sog-
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getti che possono esercitare servizi finanziari all’ampliamento del catalogo dei servizi. Una siffatta limitazione non sembra adeguatamente giustificata. Quando «l’evoluzione dei mercati finanziari e delle norme di adattamento stabilite dalle autorità comunitarie» rendano opportuno ampliare la categoria dei soggetti che possono esercitare servizi di investimento, il Ministro potrà farlo anche se non indica servizi di investimento ulteriori rispetto a quelli previsti dal Testo Unico. e) La riserva, a favore delle imprese di investimento e delle banche, dell’esercizio professionale dei servizi di investimento, ha subito un’importante deroga, da parte del D.Lgs. n. 164 del 2007 di attuazione della direttiva MIFID, per quanto concerne la consulenza in materia di investimenti. Quel provvedimento ha introdotto, infatti, nel Testo Unico, un art. 18-bis dedicato, secondo la sua rubrica, ai «consulenti finanziari autonomi» e secondo il quale «la riserva di attività di cui all’articolo 18 non pregiudica la possibilità per le persone fisiche, in possesso dei requisiti di professionalità, onorabilità, indipendenza e patrimoniali stabiliti con Regolamento adottato del Ministro dell’Economia e delle Finanze [cfr. D.M. 24 dicembre 2008, n. 206], sentita la Consob …, di prestare la consulenza in materia di investimenti, relativamente a valori mobiliari e a quote di organismi di investimento collettivo, senza detenere fondi o titoli appartenenti ai clienti». E l’art. 18-ter del T.U. consente che tale attività sia svolta anche da società per azioni o società a responsabilità limitata in possesso dei requisiti fissati dal predetto Regolamento ministeriale. Il D.Lgs. n. 129 del 2017 di attuazione della MIFID 2, ha dettato un’articolata disciplina dell’Albo dei consulenti finanziari (art. 31, 4° comma, del T.U.F.) «nel quale sono iscritti in tre distinte sezioni i consulenti finanziari abilitati all’offerta fuori sede, i consulenti finanziari autonomi e le società di consulenza finanziaria». Alla tenuta dell’Albo provvede l’Organismo di vigilanza dei consulenti finanziari costituito dalle associazioni professionali di questi ultimi. L’Organismo ha personalità giuridica ed ha «forma di associazione, con autonomia organizzativa e statutaria, nel rispetto del principio di articolazione territoriale». Lo statuto e il regolamento interno dell’Organismo vengono approvati, sentita la Consob, dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, che nomina anche il presidente del collegio sindacale. L’Organismo esercita nei confronti dei consulenti sia i poteri di sospensione dall’esercizio dell’attività (previsti dall’art. 7-septies del T.U.F. e i poteri sanzionatori (richiamo, sanzione pecuniaria, radiazione dall’albo) dettati dall’art. 196
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dello stesso Testo Unico (nei confronti dei provvedimenti sanzionatori è prevista l’impugnativa avanti la Corte d’Appello del luogo ove ha residenza il consulente o sede la società di consulenza finanziaria). f) Anche la disciplina dei servizi di investimento e delle imprese di investimento è stata ampiamente delegificata. Particolare importanza assumono in questa prospettiva il Regolamento 24 ottobre 2007 della Banca d’Italia (d’ora innanzi Regolamento Banca d’Italia), che ha dettato una serie di disposizioni attente soprattutto alla sana e prudente gestione delle imprese di investimento, e il Regolamento Consob 29 ottobre 2007, n. 16190, che ha dettato norme in materia di trasparenza e di modalità di esercizio dei servizi di investimento (Regolamento Intermediari). g) Passiamo ora ad esaminare le norme che regolano l’accesso al mercato dei servizi di investimento delle imprese di investimento con sede in Italia (Sim) e delle banche, preannunciando che esiste una profonda differenza dei procedimenti previsti allo scopo dal legislatore; esamineremo poi la disciplina prevista per l’accesso delle imprese di investimento comunitarie e di quelle extracomunitarie.
5. L’accesso all’esercizio dei servizi di investimento 5.1. L’autorizzazione delle Sim A) Il potere di autorizzare lo svolgimento, da parte di una Sim, di uno o più servizi di investimento è attribuito alla Consob; che lo esercita, per altro, sentita la Banca d’Italia. L’autorizzazione concerne ogni singolo servizio e non rappresenta una condizione per la costituzione della società, ai sensi dell’art. 2329, n. 3, c.c., ma rimane soltanto un’autorizzazione all’esercizio dell’attività. È un’autorizzazione vincolata, nel senso che la stessa è dovuta quando siano presenti i requisiti previsti dalle norme legislative e da quelle regolamentari dettate dalle autorità di vigilanza (Consob e Banca d’Italia); il carattere vincolato dell’autorizzazione è mitigato dal divieto per la Consob di emettere il provvedimento di autorizzazione quando «non risulta garantita la sana e prudente gestione» della società e «assicurata la capacità dell’impresa di esercitare correttamente i servizi o le attività di investimento». La Consob, per altro, non potrebbe fondare questo convincimento in circostanze diverse da quelle riconducibili alle condizioni fissate dal le-
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gislatore (art. 19, 1° comma) per il rilascio dell’autorizzazione, così come rimane esclusa la possibilità di negare quest’ultima per ragioni connesse con le «esigenze economiche del mercato». Le condizioni alla cui presenza è subordinata l’autorizzazione sono: a) l’adozione della forma di società per azioni; b) la indicazione, nella denominazione, delle parole «società di intermediazione mobiliare»; c) la collocazione in Italia della sede legale e della direzione generale della società (allo scopo di evitare che venga scelto l’ordinamento italiano perché ritenuto meno vincolante da un’impresa nella sostanza non italiana); d) la presenza di un capitale sociale non inferiore a quello stabilito in via generale dalla Banca d’Italia, tenendo conto delle caratteristiche dei servizi per i quali si chiede l’autorizzazione; e) la presentazione, unitamente all’atto costitutivo e allo statuto, di un programma concernente l’attività iniziale e di una relazione sulla struttura organizzativa, che deve essere adeguata alla prima; e il programma deve contenere anche «l’illustrazione dei tipi delle operazioni previste, delle procedure adottate per l’esercizio dell’attività e dei tipi di servizi accessori che si intende esercitare, nonché una relazione sulla struttura organizzativa, ivi compresa l’illustrazione dell’eventuale affidamento a terzi di funzioni operative essenziali» (art. 19, 1° comma, lett. e)); f) il possesso, da parte di coloro che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo, oltre che dei requisiti di indipendenza eventualmente previsti dal codice civile o dallo statuto, dei requisiti di onorabilità e professionalità stabiliti con Regolamento del Ministro dell’Economia e delle Finanze, adottato sentite la Banca d’Italia e la Consob (gli amministratori e i sindaci debbono aver maturato un’esperienza di almeno un triennio attraverso l’esercizio di attività di amministrazione o di controllo ovvero compiti direttivi presso imprese, di attività professionali in materia attinente al settore creditizio, finanziario, mobiliare, assicurativo o comunque funzionali all’attività della Sim, della SGR o della SICAV, di attività di insegnamento universitario in materie giuridiche o economiche, funzioni amministrative o dirigenziali presso enti pubblici o pubbliche amministrazioni aventi attinenza con il settore creditizio, finanziario, mobiliare o assicurativo; una professionalità specifica viene richiesta per l’amministratore delegato e il direttore generale, che devono essere in possesso di una competenza in materia creditizia, finanziaria, mobiliare o assicurativa maturata attraverso esperienze di lavoro in posizione di adeguata responsabilità per un periodo non inferiore a un quinquennio) (cfr. D.M. 11 novembre 1998, n. 468); gli stessi debbono
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essere «idonei» a ricoprire le cariche alle quali sono chiamati; idoneità accertata dall’organo di appartenenza e valutata dalla Banca d’Italia e da Consob, che possono anche dichiararne la decadenza; g) il possesso, da parte dei soci che detengono una partecipazione «qualificata» del capitale almeno pari al dieci per cento, dei requisiti di onorabilità stabiliti da un decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze (almeno pari al 10 per cento del capitale) e la mancanza di tali requisiti comporta la sospensione del diritto di voto e l’impugnabilità, anche da parte della Consob e della Banca d’Italia, delle deliberazioni assunte con il voto determinante dei soci che avrebbero dovuto astenersi; h) la struttura del gruppo di cui fa parte la società non sia tale da pregiudicare l’effettivo esercizio della vigilanza sulla società stessa. Le norme appena richiamate mettono in luce la delicatezza dei poteri attribuiti alla Consob in sede di autorizzazione all’esercizio dei servizi di investimento e l’obiettivo (la sana e prudente gestione) al cui conseguimento deve essere diretto il loro esercizio. B) Come si è accennato in precedenza, l’autorizzazione viene rilasciata per ogni servizio di investimento e può ben succedere, quindi, che una Sim chieda ed ottenga l’autorizzazione per uno od alcuni soltanto dei servizi previsti dalla legge. Le Sim possono poi esercitare uno o più dei «servizi accessori» più sopra illustrati, senza necessità di alcuna specifica autorizzazione e, con tutta probabilità, anche senza che esista un rapporto di accessorietà fra gli stessi e quelli per i quali sia stata ottenuta l’autorizzazione. La Sim, inoltre, può, senza necessità di autorizzazione, esercitare «altre attività finanziarie» (espressione dal colore alquanto incerto), «nonché attività connesse e strumentali»; appare così abbastanza annacquata la esclusività dell’oggetto delle Sim e viene, ancora una volta, sottolineata la tendenza degli intermediari ad estendere la propria attività al di là del loro oggetto tipico. C) Le Sim sono iscritte in un albo, tenuto a cura della Consob; albo nel quale vengono registrate, in apposite sezioni, anche le imprese di investimento extracomunitarie e che porta in allegato l’elenco delle imprese comunitarie; ma nel quale manca ogni riferimento alle banche autorizzate ad esercitare servizi di investimento. E, come si è già ricordato, in una sezione speciale sono registrate anche le fiduciarie di gestione.
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5.2. L’autorizzazione delle banche La centralità del sistema bancario nell’ambito dell’intermediazione finanziaria ha contribuito in passato a rendere più difficile il decollo del mercato mobiliare e degli intermediari di mercato mobiliare. D’altro canto, la separazione fra banche di deposito e securities houses ha caratterizzato fino ad oggi sistemi importanti come quello americano. Un segno di questa diffidenza nei confronti del sistema bancario, come potenziale ostacolo allo sviluppo dei mercati regolamentati, era contenuto ancora nella legge n. 1 del 1991 che impediva alle banche di negoziare direttamente titoli, quotati in borsa o al mercato ristretto, diversi dai titoli di stato o garantiti dallo stato (art. 16, 1° comma). Sulla scia dell’ordinamento comunitario, prima il D.Lgs. n. 415 del 1996 ed oggi il Testo Unico (art. 19, 4° comma) hanno consentito invece alle banche di svolgere tutti i servizi di investimento, compresa la negoziazione per conto proprio e per conto terzi di strumenti finanziari negoziati sui mercati regolamentati. Si assiste, dunque, ad una sostanziale equiparazione, sotto questo profilo, tra banche e Sim e l’equiparazione concerne anche le regole alle quali entrambe le categorie di intermediari debbono attenersi nell’esercizio delle relative attività. Una notevole differenza esiste invece fra le stesse con riferimento alle regole per l’accesso al mercato; differenza in larga misura ricollegabile al fatto che sulle banche, in quanto tali, insiste già la vigilanza, regolamentare, informativa e ispettiva, della Banca d’Italia; una vigilanza che si preoccupa della sana e prudente gestione del soggetto e, in particolare, della sua stabilità e la cui presenza rende almeno in parte superflua l’applicazione delle norme dettate per l’accesso al mercato delle società di intermediazione mobiliare. Si sarebbe andati incontro ad ingiustificati incrementi degli oneri connessi con la regolamentazione se si fosse previsto un controllo della Consob sulle stesse materie già sottoposte al controllo della Banca d’Italia. E, se si tengono presenti queste considerazioni, appare ragionevole la scelta compiuta dal legislatore in tema di accesso delle banche all’esercizio dei servizi di investimento: lo stesso si è, infatti, limitato a stabilire (art. 19, 4° comma, T.U. n. 58 del 1998) che «la Banca d’Italia, sentita la Consob, autorizza l’esercizio dei servizi di investimento e delle attività d’investimento da parte delle banche italiane», nel presupposto che i requisiti necessari per accedere al mercato bancario siano equivalenti a quelli richiesti per accedere al mercato dei servizi di investimento. E, nel concedere l’autorizzazione, la Banca d’Italia «valuta l’idoneità degli assetti organizzativi e del sistema dei controlli interni ad assicurare
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che lo svolgimento dei servizi di investimento avvenga nel rispetto dei criteri di sana e prudente gestione e della normativa che ne disciplina l’esercizio» (cfr. Istruzioni di Vigilanza, Titolo V, cap. 2). Compete alla Banca d’Italia anche il potere di autorizzare i soggetti iscritti nell’elenco previsto dall’art. 106 del TUB ad esercitare i servizi loro consentiti dall’art. 18, 3° comma del T.U.F.
5.3. Le imprese di investimento e le banche comunitarie ed extracomunitarie A) Il principio del mutuo riconoscimento, accolto dal T.U. n. 58 del 1998 (cfr. art. 27), consente alle «imprese di investimento comunitarie», ossia alle imprese di investimento, diverse dalle banche ed aventi sede legale e direzione centrale in uno Stato dell’Unione Europea, di prestare anche in Italia i servizi per i quali abbiano ottenuto la relativa autorizzazione nel paese d’origine. Questo principio vale, per altro, solo per i «servizi ammessi al mutuo riconoscimento», ossia quelli considerati tali dalla direttiva 2004/39, elencati in allegato al Testo Unico e coincidenti con quelli ricompresi nella nozione di servizi di investimento sopra illustrata. Non godono, invece, del mutuo riconoscimento, ma possono tuttavia avvalersi dei principi generali sulla circolazione dei servizi nell’ambito comunitario, i servizi finanziari che non rientrano in quell’elenco e se, per ipotesi, il catalogo italiano dei servizi sottoposti a riserva ricomprendesse un servizio non rientrante fra quelli ammessi al mutuo riconoscimento, l’impresa comunitaria potrebbe svolgerlo in Italia solo dopo aver ottenuto la necessaria autorizzazione. E la Consob concederà tale autorizzazione in presenza delle seguenti condizioni: che l’impresa eserciti effettivamente nello Stato di origine quel servizio secondo l’ordinamento dal medesimo e presenti un programma delle attività che intende svolgere con l’indicazione delle relative operazioni (art. 24, Regolamento Intermediari). Le imprese di investimento comunitario possono esercitare le attività ammesse al mutuo riconoscimento nel nostro paese sia nella forma della libera prestazione di servizi, ossia direttamente dal paese di origine e senza stabilire succursali nel territorio della Repubblica, sia nella forma della libertà di stabilimento, ossia costituendo una succursale «italiana». Nella prima ipotesi, è sufficiente che l’autorità competente del paese d’origine informi di tale intenzione la Consob (cfr. art. 27, 2° comma, T.U. n. 58 del 1998); nella seconda è necessario che questa comunicazione intervenga almeno due mesi prima della istituzione della «prima» succur-
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sale per consentire alle autorità di vigilanza italiane di svolgere le necessarie istruttorie (ma senza che le stesse conservino, per altro, un qualsiasi potere autorizzatorio), essendo invece soggetta a mera comunicazione la successiva articolazione territoriale della stessa. B) Anche le banche comunitarie, autorizzate nel paese d’origine a svolgere servizi di investimento, possono, in forza del mutuo riconoscimento delle autorizzazioni, prestare tali servizi nel nostro paese, avvalendosi sia della libertà di prestazione dei servizi sia della libertà di stabilimento; ma sul punto l’art. 29 T.U. rinvia esplicitamente alle norme dettate, per l’attuazione del mutuo riconoscimento dal Testo Unico bancario; norme, in verità, del tutto simili a quelle previste per le imprese di investimento. C) Le imprese di investimento extracomunitarie possono esercitare nel nostro paese servizi di investimento, sia direttamente dal paese di origine sia tramite l’apertura di succursali, soltanto dietro autorizzazione della Consob. L’apertura della prima succursale viene autorizzata dalla Consob quando: 1. la succursale presenti un «capitale» (da intendersi come patrimonio destinato alla succursale) corrispondente a quello richiesto dalla Banca d’Italia per le imprese di investimento italiano, venga presentato il programma di attività e gli esponenti aziendali siano dotati dei requisiti di onorabilità e professionalità richiesti per le Sim; 2. l’impresa sia stata autorizzata ed effettivamente eserciti nel paese d’origine le attività per le quali viene chiesta l’autorizzazione; 3. nel paese di origine esistano sistemi di vigilanza «equivalenti» a quelli vigenti in Italia per le Sim; 4. vi siano apposite intese fra la Banca d’Italia e la Consob e le competenti autorità del paese di origine; 5. lo Stato d’origine conceda la clausola di reciprocità alle nostre imprese di investimento. La prestazione dei servizi senza stabilimento è subordinata alle medesime condizioni, ad eccezione di quella relativa al «patrimonio» richiesto alla succursale. In entrambe le ipotesi, tuttavia, la Consob, sentita la Banca d’Italia può indicare in generale i servizi che le imprese extracomunitarie non possono esercitare senza l’apertura di succursali (art. 28, 3° comma) ed il Regolamento Intermediari in un primo tempo aveva stabilito che dovessero essere esercitati con stabilimento di una succursale tutti i servizi di investimento e alcuni servizi accessori; una succes-
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siva modificazione di tale Regolamento consente alle imprese extracomunitarie di esercitare i servizi di investimento anche senza la costituzione di una succursale italiana.
5.4. L’attività transfrontaliera delle imprese di investimento italiane Le Sim possono operare anche al di fuori del territorio della Repubblica, ma la disciplina del loro accesso all’attività transfrontaliera muta a seconda che sia destinata a svolgersi in un paese comunitario o in un paese extracomunitario, debba attuarsi attraverso l’apertura di una succursale o senza stabilimento, abbia ad oggetto servizi ammessi al mutuo riconoscimento o servizi non ammessi (distinzione ovviamente rilevante solo per l’attività da effettuarsi nei paesi comunitari). Più esattamente la Sim, che intende aprire una succursale in un paese comunitario per lo svolgimento di servizi ammessi al mutuo riconoscimento, deve comunicare tale intenzione alla Consob; questa provvede ad effettuare la relativa notifica all’autorità competente del paese ospitante; notifica che consente alla Sim di avviare la propria attività in tale paese senza che l’Autorità di quest’ultimo possa pretendere di subordinare l’apertura della succursale ad un ulteriore provvedimento autorizzatorio. Il punto cruciale del procedimento è, dunque, la «notifica» da parte della Consob all’Autorità del paese ospitante e la Consob può rifiutarla per «motivi attinenti all’adeguatezza della struttura organizzativa e della situazione finanziaria, economica e patrimoniale della Sim». Nessun potere di impedire la prestazione all’estero dei servizi ammessi al mutuo riconoscimento sembra essere riconosciuto alla Consob, sentita la Banca d’Italia se tale prestazione avviene senza l’apertura di uno stabilimento: in questo caso la notifica all’Autorità competente del paese ospitante sembra un atto dovuto. Le Sim possono esercitare negli altri paesi dell’Unione Europea servizi diversi da quelli ammessi al mutuo riconoscimento solo su autorizzazione della Consob, sentita la Banca d’Italia, e tale autorizzazione è subordinata alla «esistenza di apposite intese di collaborazione tra la Banca d’Italia e la Consob e le competenti autorità dello stato estero» e alla «possibilità di agevole accesso», da parte della casa madre, alle informazioni presso la succursale. L’apertura di una succursale in un paese extracomunitario è condizionata non solo alla mancanza delle ragioni che giustificano il rifiuto di notifica per l’apertura di quelle comunitarie, ma è altresì subordinata all’esistenza, nel paese di insediamento, di una legislazione e di un sistema
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di vigilanza adeguati, all’esistenza di apposite intese di collaborazione tra la Banca d’Italia e la Consob e le competenti Autorità dello Stato e alla possibilità di agevole accesso, da parte della casa madre, alle informazioni della succursale. Anche la prestazione di servizi senza stabilimento in un paese extracomunitario è subordinata all’autorizzazione della Consob; autorizzazione che non può essere concessa se l’ordinamento del paese ospitante è inadeguata e se non esistono intese fra le autorità dello stesso, da un lato, e la Banca d’Italia e la Consob, dall’altro.
6. La prestazione dei servizi Il Testo Unico, nel dettare (artt. 21-25-ter) le regole alle quali le imprese di investimento e le banche debbono attenersi nello svolgimento della propria attività, fissa alcuni principi che trovano applicazione per tutti i servizi e regole particolari che valgono per la prestazione di alcuni soltanto di essi. Più esattamente stabilisce: a) «criteri generali» di comportamento (art. 21) per le imprese di investimento e per le banche; b) regole relative alla disciplina dei contratti di investimento (art. 23); c) norme dirette a garantire la «separazione» dei patrimoni dei clienti oggetto del contratto di investimento (art. 22); d) norme in materia di sottoscrizione e collocamento dei prodotti finanziari bancari e assicurativi (artt. 25-bis e 25-ter). Prevede, poi, norme «speciali» per alcuni tipi di servizi: per la gestione di portafogli (art. 24) e per la negoziazione, quando questa avvenga nei mercati regolamentati (art. 25) per la consulenza in materia di investimento, nonché per la gestione dei servizi multilaterali di negoziazione (art. 77-bis del T.U.F.) e per l’internalizzazione sistematica (art. 78 del T.U.F.): di queste ultime ci occuperemo, del resto seguendo la logistica del T.U.F., nel capitolo dedicato ai mercati. Infine prevede norme che trovano applicazione quando il servizio di investimento sia effettuato secondo particolari modalità, ossia con offerta dei servizi «fuori sede» (artt. 30 e 31) o mediante «promozione e collocamento a distanza» (art. 32).
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6.1. «Criteri generali» 1. Il legislatore (art. 21 del T.U.F.) stabilisce che nella prestazione dei servizi «i soggetti abilitati, ossia le imprese di investimento e le banche», devono attenersi ad alcuni «criteri generali»; si tratta in verità di criteri, in qualche misura, ripetitivi di norme di diritto comune, la cui esplicita previsione, tuttavia, dovrebbe favorire sia l’attività di vigilanza sia il successo di eventuali azioni risarcitorie da parte dei clienti. Ed in effetti sono criteri che, al di là di qualche sbavatura, hanno tutti come punto di riferimento la tutela dell’interesse del cliente; il che consente anche di comprendere perché ne siano destinatarie non solo le Sim e le banche italiane, ma anche le imprese e le banche extracomunitarie e comunitarie. Per queste ultime, in particolare, il principio del mutuo riconoscimento comporta che l’organo di vigilanza del paese ospite non abbia il controllo sull’osservanza delle regole di stabilità, essendo lo stesso rimesso alle autorità del paese d’origine, mentre al paese ospitante rimane il potere di stabilire le regole che disciplinano il rapporto con il cliente e di garantirne il rispetto. Alcuni dei criteri generali previsti dalla disciplina in oggetto potrebbero essere considerati, come avremo subito modo di verificare, alla stregua di regole prudenziali che appartengono allo statuto del soggetto e, come tali, rimesse all’ordinamento e alla vigilanza del paese d’origine. L’immediata incidenza sull’interesse del cliente dei comportamenti previsti da tali regole consente, tuttavia, di ritenere che le stesse trovino applicazione anche per le imprese di investimento comunitarie. Il legislatore ha previsto che i predetti «criteri generali» debbano essere seguiti nella prestazione sia dei servizi di investimento sia dei «servizi accessori», mentre non vincolano le imprese di investimento nel momento in cui svolgono le altre attività finanziarie, connesse o strumentali, loro consentite, né le banche nell’esercizio dell’attività bancaria, per la quale troveranno applicazione le regole proprie della relativa disciplina. Nella prestazione di servizi, imprese e banche devono a) «comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza, per servire al meglio l’interesse dei clienti e per l’integrità dei mercati», ossia secondo criteri in massima parte già applicabili sulla base del diritto comune, e con quel singolare «dovere» di operare «per l’integrità dei mercati» che sembrerebbe rintracciare nell’interesse generale al buon funzionamento del mercato un ulteriore criterio alla luce del quale valutare la condotta dell’operatore;
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b) «acquisire le informazioni necessarie dai clienti e operare in modo che essi siano sempre adeguatamente informati»; regola che impone all’operatore un dovere, di informarsi, sul «tipo» di cliente e sulle sue disponibilità finanziarie, e di informare, decisamente più accentuato di quanto lo stesso lo sarebbe alla stregua delle regole di correttezza, precontrattuale e contrattuale, previste dal codice civile e che conferisce così un concreto contenuto all’obbligo di trasparenza, pure previsto a carico dell’intermediario; c) «utilizzare comunicazioni pubblicitarie e promozionali corrette, chiare e non fuorvianti»; d) «disporre di risorse e di procedure, anche di controllo interno, idonee ad assicurare l’efficiente svolgimento dei servizi e delle attività»; principio che sottolinea l’importanza dell’organizzazione interna del soggetto per uno svolgimento efficiente dei servizi, sia nell’interesse dei singoli sia per il buon funzionamento del mercato, e che espone al controllo di vigilanza anche le modalità organizzative della struttura operativa delle imprese di investimento, secondo una tendenza, del resto, che trova già compiuta attuazione nel sistema bancario. 2. Il legislatore si è da sempre preoccupato di arginare gli effetti negativi del conflitto di interessi nel quale possa operare l’intermediario. Il dettato originario del T.U. prevedeva, fra i criteri generali ai quali dovevano attenersi gli intermediari, quello di «organizzarsi in modo tale da ridurre al minimo il rischio di conflitti di interesse e, in situazioni di conflitto, agire in modo da assicurare comunque ai clienti trasparenza ed equo trattamento». Quel testo imponeva, dunque, regole organizzative e regole di trasparenza, ma, soprattutto, imponeva in caso di conflitto di interesse di assicurare un «equo trattamento» all’interesse del cliente. Questo controllo di merito imposto all’intermediario sembra non essere presente nella nuova disciplina sul conflitto di interesse dettato, in attuazione della direttiva MIFID, dal D.Lgs. n. 164 del 2007. A norma infatti del comma 1°-bis dell’art. 21 del T.U. n. 58 del 1998 «nella prestazione dei servizi e delle attività di investimento e dei servizi accessori, le SIM, le imprese di paesi terzi autorizzate in Italia, le SGR, i GEFIA non UE autorizzati in Italia, gli intermediari finanziari iscritti nell’elenco previsto dall’articolo 106 del testo unico bancario e le banche italiane: a) adottano ogni misura idonea ad identificare e prevenire o gestire i conflitti di interesse che potrebbero insorgere tra tali soggetti, inclusi i dirigenti, i dipendenti e gli agenti collegati o le persone direttamente o in-
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direttamente connesse e i loro clienti o tra due clienti al momento della prestazione di qualunque servizio di investimento o servizio accessorio o di una combinazione di tali servizi; b) mantengono e applicano disposizioni organizzative e amministrative efficaci al fine di adottare tutte le misure ragionevoli volte ad evitare che i conflitti di interessi incidano negativamente sugli interessi dei loro clienti; c) quando le disposizioni organizzative e amministrative adottate a norma della lett. b) non sono sufficienti ad assicurare, con ragionevole certezza, che il rischio di nuocere agli interessi dei clienti sia evitato, informano chiaramente i clienti, prima di agire per loro conto, della natura generale e/o delle fonti dei conflitti di interesse nonché delle misure adottate per mitigare i rischi connessi; d) svolgono una gestione indipendente, sana e prudente e adottano misure idonee a salvaguardare i diritti dei clienti sui beni affidati. Come si può notare, la nuova norma impone agli intermediari di organizzarsi in modo tale che sia loro consentito di individuare e di «gestire» i conflitti d’interesse, imponendo un obbligo di informazione soltanto quando le misure organizzative adottate non siano sufficienti ad assicurare, «con ragionevole certezza», la tutela dell’interesse del cliente. Il dovere di informazione è diventato solo eventuale e l’obbligo dell’«equo trattamento» dell’interesse del cliente è stato, almeno formalmente, cancellato. Avrebbe dovuto essere ricompreso fra gli strumenti diretti a prevenire i conflitti di interesse la norma, introdotta dalla legge n. 262 del 2005, secondo la quale «la Banca d’Italia, d’intesa con la Consob [avrebbe dovuto disciplinare] i casi in cui, al fine di prevenire conflitti di interesse nella prestazione dei servizi di investimento, anche rispetto alle altre attività svolte dal soggetto abilitato, determinate attività [sarebbero dovute] essere prestate da strutture distinte e autonome». La norma, avendo evidentemente presenti i conflitti di interesse che inevitabilmente si determinano nell’ambito delle banche e delle Sim che svolgono una pluralità di attività finanziarie, tendeva a contenere tali conflitti, attribuendo all’autorità di vigilanza il potere di imporre che determinate attività fossero svolte da «strutture distinte e autonome». Quest’ultima endiadi sembrava consentire all’autorità di vigilanza non solo di prevedere «muraglie cinesi» all’interno di un solo soggetto, ma anche di imporre che determinate attività venissero svolte da distinti soggetti. La norma era probabilmente una risposta alla tentazione, riemersa dopo gli scandali finanziari dei primi anni 2000, di abbandonare il mo-
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dello della banca universale; modello adottato negli anni Novanta perché ritenuto più efficiente, ma che vede minata la propria maggiore efficienza dai conflitti di interesse nei quali incorre nel contemporaneo e congiunto esercizio di diverse attività finanziarie nonché di consulenza nei confronti dei propri clienti. Questa norma è stata, tuttavia, abrogata dalla legge comunitaria 2006 (art. 10, 6° comma, legge 6 febbraio 2007, n. 13) e il D.Lgs. n. 129 del 2017 ha rimesso al Regolamento di Banca d’Italia, adottato di intesa con la Consob, sulla base di una norma (art. 6, comma 2°-bis) più generale, la predisposizione di regole aventi per oggetto «la gestione dei conflitti di interesse, potenzialmente pregiudizievoli per i clienti». 3. Il processo di delegificazione delle norme generali relative all’organizzazione dei soggetti «abilitati», ossia di tutti i soggetti che sono autorizzati a svolgere servizi di investimento, e ai loro doveri di trasparenza e di correttezza dei comportamenti ha trovato una forte accelerazione, ma anche una più puntuale definizione, con le norme di attuazione della MIFID, soprattutto attraverso le previsioni dettate dall’art. 6, commi 2 e 2-bis del T.U. Per rendersi conto del potere normativo di Consob e Banca d’Italia, secondo le competenze che ciascuna delle due autorità ha sulle imprese di investimento e che avremo modo di chiarire più innanzi, vale la spesa riprodurre almeno in parte quelle disposizioni. Così, a norma dell’art. 6, 2° comma «la Consob, sentita la Banca d’Italia, tenuto conto delle differenti esigenze di tutela degli investitori connesse con la qualità e l’esperienza professionale dei medesimi, disciplina con regolamento gli obblighi dei soggetti abilitati in materia di: a) trasparenza, ivi inclusi: 1. gli obblighi informativi nella prestazione dei servizi e delle attività di investimento, nonché della gestione collettiva del risparmio, con particolare riferimento al grado di rischiosità di ciascun tipo specifico di prodotto finanziario e delle gestioni di portafogli offerti, all’impresa e ai servizi prestati, alla salvaguardia degli strumenti finanziari o delle disponibilità liquide detenuti dall’impresa, ai costi, agli incentivi e alle strategie di esecuzione degli ordini; 2. le modalità e i criteri da adottare nella diffusione di comunicazioni pubblicitarie e promozionali e di ricerche in materia di investimenti; 3. gli obblighi di comunicazione ai clienti relativi all’esecuzione degli ordini, alla gestione di portafogli, alle operazioni con passività potenziali e ai rendiconti di strumenti finanziari o delle disponibilità liquide dei clienti detenuti dall’impresa;
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b) correttezza dei comportamenti, ivi inclusi: 1. gli obblighi di acquisizione di informazioni dai clienti o dai potenziali clienti ai fini della valutazione di adeguatezza o di appropriatezza delle operazioni o dei servizi forniti; 2. le misure per eseguire gli ordini alle condizioni più favorevoli per i clienti; 3. gli obblighi in materia di gestione degli ordini; 4. l’obbligo di assicurare che la gestione di portafogli si svolga con modalità aderenti alle specifiche esigenze dei singoli investitori e che quella su base collettiva avvenga nel rispetto degli obiettivi di investimento dell’OICR; 5. le condizioni alle quali possono essere corrisposti o percepiti incentivi». Le norme delegificate sono contenute nel Regolamento Consob (cfr. Regolamento Intermediari, deliberazione n. 16190 del 29 ottobre 2007) e nel Regolamento congiunto della Banca d’Italia e della Consob adottato nello stesso giorno dalle due autorità («Regolamento della Banca d’Italia e della Consob ai sensi dell’art. 6, 2°-bis comma, Testo Unico della Finanza»). Non è ovviamente possibile in questa sede esaminare analiticamente i loro contenuti: basti sul punto qualche richiamo di alcuni principi guida ai quali i due Regolamenti si attengono. Una importante linea guida del Regolamento Intermediari è la distinzione fra «cliente professionale» e «cliente al dettaglio»; distinzione che scrimina il grado di protezione assicurata dall’ordinamento, essendo, ovviamente, maggiore nei confronti di quest’ultimo. Il Regolamento Intermediari (allegato 3) definisce «cliente professionale» «un cliente che possiede l’esperienza, le conoscenze e la competenza necessarie per prendere consapevolmente le proprie decisioni in materia di investimenti e per valutare correttamente i rischi che assume». Nell’ambito dei clienti professionali il Regolamento distingue fra i «clienti professionali di diritto» (banche, imprese di investimento, imprese di assicurazione, società di gestione del risparmio, società di gestione dei fondi comuni, imprese industriali di grandi dimensioni, ecc.) e «clienti professionali su richiesta», ossia soggetti diversi da quelli appena indicati che ne facciano esplicita richiesta scritta, rinunciando così alla protezione prevista per i clienti al dettaglio. Sono «clienti al dettaglio» (e potenziali clienti al dettaglio) coloro che non siano o «cliente professionale o controparte qualificata» (ossia le imprese di investimento, le banche, le imprese di assicurazione, gli OICR, le SGR, le società di gestione armonizzate, i fondi pensione, gli intermediari finanziari iscritti nell’elenco previ-
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sto dall’art. 106 del testo unico bancario, le società di cui all’art. 18 del Testo Unico bancario, gli istituti di moneta elettronica, le fondazioni bancarie). Così, se a norma dell’art. 27 del Regolamento Intermediari, nei confronti di tutti i clienti, professionali o al dettaglio, «tutte le informazioni, comprese le comunicazioni pubblicitarie e promozionali, indirizzate dagli intermediari a clienti o potenziali clienti devono essere corrette, chiare e non fuorvianti», è solo nei confronti dei clienti al dettaglio che le stesse debbono essere particolarmente analitiche sia sull’intermediario che fornisce il servizio sia sugli strumenti finanziari oggetto del servizio sia sulle modalità di salvaguardia degli strumenti finanziari e delle somme di danaro di pertinenza del cliente, sulle regole dalle quali è disciplinato il rapporto con l’intermediario, con una puntuale indicazione dei costi e degli oneri connessi con la prestazione del servizio. Nei confronti di tutti i clienti gli intermediari forniscono «una descrizione generale della natura e dei rischi degli strumenti finanziari trattati» e la «descrizione illustra le caratteristiche del tipo specifico di strumento interessato, nonché i rischi propri di tale tipo di strumento, in modo sufficientemente dettagliato da consentire al cliente di adottare decisioni di investimento informate», ma nella descrizione dei rischi dovranno tener conto della classificazione del cliente «come cliente al dettaglio o cliente professionale» (art. 31 del Regolamento Intermediari). 4. Il Regolamento Intermediari disciplina alcuni doveri di comportamento dell’intermediario specificamente per i vari servizi. Di due di essi ci occupiamo già in questa sede e si sostanziano nelle regole dell’«adeguatezza» e della «appropriatezza» del servizio fornito. La valutazione dell’adeguatezza dell’operazione è richiesta per la prestazione della consulenza e della gestione di portafogli. A norma dell’art. 39 del Regolamento, gli intermediari «al fine di raccomandare i servizi di investimento e gli strumenti finanziari adatti al cliente o potenziale cliente, nella prestazione dei servizi di consulenza in materia di investimenti o di gestione di portafoglio, ottengono dal cliente o potenziale cliente le informazioni necessarie in merito: a) alla conoscenza ed esperienza nel settore di investimento rilevante per il tipo di strumento o di servizio; b) alla situazione finanziaria; c) agli obiettivi di investimento». E «sulla base delle informazioni ricevute dal cliente, e tenuto conto della natura e delle caratteristiche del servizio fornito, gli intermediari valutano che la specifica operazione consigliata o realizzata nel quadro della prestazione del servizio di gestione di portafogli soddisfi i seguenti criteri: a) corrisponda agli obiettivi di investimento del cliente; b) sia di
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natura tale che il cliente sia finanziariamente in grado di sopportare qualsiasi rischio connesso all’investimento compatibilmente con i suoi obiettivi di investimento; c) sia di natura tale per cui il cliente possieda la necessaria esperienza e conoscenza per comprendere i rischi inerenti all’operazione o alla gestione del suo portafoglio». Mentre la regola dell’adeguatezza deve essere seguita nella prestazione dei servizi di consulenza e di gestione di portafogli, alla prestazione degli altri servizi si applica la regola dell’appropriatezza così disciplinata dal Regolamento Intermediari (artt. 41 e 42). «a) Gli intermediari, quando prestano servizi di investimento diversi dalla consulenza in materia di investimenti e dalla gestione di portafogli, richiedono al cliente o potenziale cliente di fornire informazioni in merito alla sua conoscenza e esperienza nel settore d’investimento rilevante per il tipo di strumento o di servizio proposto o chiesto» «e sulla base delle informazioni ricevute verificano che il cliente abbia il livello di esperienza e conoscenza necessario per comprendere i rischi che lo strumento o il servizio di investimento offerto o richiesto comporta». b) «Gli intermediari possono presumere che un cliente professionale abbia il livello di esperienza e conoscenza necessario per comprendere i rischi connessi ai servizi di investimento o alle operazioni o ai tipi di operazioni o strumenti per i quali il cliente è classificato come professionale». c) Qualora gli intermediari ritengano che lo strumento o il servizio non sia appropriato per il cliente o potenziale cliente, lo avvertono di tale situazione. 5. Sulla scia della direttiva comunitaria ha fatto ingresso nel nostro ordinamento la regola della execution only (mera esecuzione o ricezione di ordini). A norma dell’art. 43 del Regolamento Intermediari «gli intermediari possono prestare i servizi di esecuzione di ordini per conto dei clienti o di ricezione e trasmissioni ordini, senza che sia necessario ottenere le informazioni o procedere alla valutazione di appropriatezza quando sono soddisfatte tutte le seguenti condizioni: a) i suddetti servizi sono connessi ad azioni ammesse alla negoziazione in un mercato regolamentato, o in un mercato equivalente di un paese terzo, a strumenti del mercato monetario, obbligazioni o altri titoli di debito (escluse le obbligazioni o i titoli di debito che incorporano uno strumento derivato), OICR armonizzati ed altri strumenti finanziari non complessi; b) il servizio è prestato a iniziativa del cliente o potenziale cliente; c) il cliente o potenziale cliente è stato chiaramente informato che, nel prestare tale servizio, l’intermediario non è tenuto a valutare l’appropriatezza e che pertanto l’in-
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vestitore non beneficia della protezione offerta dalle relative disposizioni. L’avvertenza può essere fornita utilizzando un formato standardizzato; d) l’intermediario rispetta gli obblighi in materia di conflitti di interesse». 6. Ad un’ultima regola di carattere generale dobbiamo qui far cenno; quella della best execution, dettata dagli artt. 45 ss. del Regolamento Intermediari. Stabilisce infatti l’art. 45 del Regolamento che «gli intermediari adottano tutte le misure ragionevoli e, a tal fine, mettono in atto meccanismi efficaci per ottenere, allorché eseguono ordini, il miglior risultato possibile per i loro clienti, avendo riguardo al prezzo, ai costi, alla rapidità e alla probabilità di esecuzione e di regolamento, alla dimensione, alla natura dell’ordine o a qualsiasi altra considerazione ai fini della sua esecuzione». E nel rispetto della best execution gli intermediari «adottano una strategia di esecuzione degli ordini finalizzata a a) individuare, per ciascuna categoria di strumenti, almeno le sedi di esecuzione che permettono di ottenere in modo duraturo il miglior risultato possibile per l’esecuzione degli ordini del cliente; b) orientare la scelta della sede di esecuzione fra quelle individuate ai sensi della lettera a). In ogni caso, qualora il cliente impartisca istruzioni specifiche, l’intermediario esegue l’ordine attenendosi, limitatamente agli elementi oggetto delle indicazioni ricevute, a tali istruzioni». 7. Nell’ambito dei «criteri generali» il legislatore ricomprende anche una norma il cui significato può essere facilmente inteso se si tien conto di una singolare disparità di trattamento che la legge n. 1 del 1991 aveva sanzionato fra Sim e società fiduciarie, in materia di gestioni individuali. L’art. 17 di quella legge consentiva alle società fiduciarie di gestire patrimoni mobiliari con operazioni compiute in nome proprio e per conto del cliente, rimanendo anche intestatarie, fiduciarie, dei valori inseriti nel patrimonio gestito. Le Sim di gestione potevano invece operare soltanto in nome del cliente, con un evidente appesantimento dell’attività, essendo ad esempio precluse operazioni cumulative su titoli destinati a rifluire nei singoli patrimoni gestiti. La disparità fu in verità ridimensionata attraverso alcuni accorgimenti operativi (un «codice virtuale operativo» sostituì la spendita del nome del cliente); ma il D.Lgs. n. 415 del 1996, prima, e il Testo Unico, poi, hanno voluto eliminare o contenere tale situazione, consentendo a tutte le imprese di investimento e alle banche di agire, nello svolgimento di tutti i servizi, «in nome proprio e per conto
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del cliente», sempreché sia intervenuto il «previo consenso scritto» di quest’ultimo (cfr. art. 21, 2° comma, T.U.F.). La norma sembra, dunque, consentire oggi a tutte le imprese di investimento di operare «in nome proprio e per conto del cliente», così come era ed è consentito alle società fiduciarie. In realtà, non pare che si sia realizzata una piena equiparazione fra imprese di investimento e società fiduciarie, perché queste ultime possono conservare la intestazione fiduciaria dei valori acquistati in nome proprio, ma per conto del fiduciante, per l’intera durata del rapporto di investimento, mentre le prime possono compiere in nome proprio l’operazione di acquisto, ma dovranno, subito dopo l’acquisto, intestare gli strumenti finanziari al cliente.
6.2. Forma e contenuto dei contratti di investimento A) A norma del 1° comma dell’art. 23 del T.U.F. «i contratti relativi alla prestazione di servizi di investimento e, se previsto, i contratti relativi alla prestazione dei servizi accessori sono redatti per iscritto…. e un esemplare è consegnato ai clienti». È questo il c.d. contratto quadro, a fronte del quale vengono poi posti in essere i contratti attraverso i quali l’intermediario fornisce al cliente i servizi convenuti e che, a loro volta, avranno forma scritta. Anche la legge n. 1 del 1991 stabiliva che i contratti di intermediazione mobiliare dovevano essere redatti in forma scritta, ma non prevedeva le conseguenze che sarebbero derivate dal mancato rispetto di tale forma. La dottrina prevalente e la giurisprudenza ritenevano che tale sanzione dovesse rintracciarsi nella nullità assoluta del contratto, essendo la previsione della forma diretta a tutelare un interesse generale alla trasparenza delle negoziazioni, ma non mancava chi escludeva la sanzione della nullità, anche relativa, ricollegando, alla mancata osservanza della forma scritta, soltanto le sanzioni connesse con un comportamento irregolare dell’operatore. La norma vigente respinge entrambe le soluzioni stabilendo che la mancanza della forma scritta, ma non anche la mancata consegna, comporta la nullità del contratto e precisando che la nullità «può essere fatta valere solo dal cliente» (art. 23, 3° comma). Il legislatore chiarisce così che la norma è posta nell’esclusivo interesse del cliente; in perfetta analogia del resto con quanto previsto per i contratti bancari (cfr. artt. 117 e 127 T.U. bancario). La forma scritta, per altro, può rivelarsi un adempimento inutile o addirittura incompatibile con le esigenze tecniche proprie di alcuni tipi
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di operazioni; così il legislatore ha previsto che «la Consob, sentita la Banca d’Italia, può prevedere con regolamento che, per motivate ragioni tecniche e in relazione alla natura professionale dei contraenti, particolari tipi di contratto possano o debbano essere stipulati in altra forma» (art. 23, 1° comma, T.U. n. 58 del 1998); e una norma analoga era già stata dettata per i contratti bancari (cfr. art. 117, 2° comma, T.U. bancario). B) Alla prestazione dei servizi di investimento non si applicano, secondo l’esplicito dettato legislativo, le norme del Testo Unico bancario (Titolo VI, Capo I) in materia di trasparenza. La ragion d’essere dell’esonero trova la propria giustificazione nel fatto che le norme dettate per la prestazione dei servizi di investimento consentono un grado di trasparenza, sia nel momento precedente la stipulazione del contratto sia in costanza del relativo rapporto, tale da rendere superflue le forme di pubblicità, più rudimentali, previste per i contratti bancari. C) Nell’esclusivo interesse del cliente è posta la norma che dichiara la nullità di qualsiasi pattuizione del contratto di investimento che rinvii agli usi «per la determinazione del corrispettivo dovuto dal cliente e di ogni altro onere a suo carico» (art. 23, 2° comma). La disposizione, che esprime l’evidente sospetto che il contenuto dell’uso sia determinato dall’impresa di investimento o dalla banca, considerati come soggetti forti nel mercato, sancisce la nullità di una siffatta clausola di rinvio, precisando anche a questo proposito, che la nullità può essere fatta valere solo dal cliente. E, per l’ipotesi in cui la nullità venga dichiarata, stabilisce che «nulla è dovuto» alla banca o all’impresa di investimento. È questa, per altro, l’unica disposizione del Testo Unico che limita l’autonomia delle parti nel determinare il contenuto del contratto. Il Regolamento Intermediari (art. 37) precisa che il contratto stipulato con i clienti al dettaglio a) specifica i servizi forniti e le loro caratteristiche, indicando il contenuto delle prestazioni dovute e delle tipologie di strumenti finanziari e di operazioni interessate; b) stabilisce il periodo di efficacia e le modalità di rinnovo del contratto, nonché le modalità da adottare per le modificazioni del contratto stesso; c) indica le modalità attraverso cui il cliente può impartire ordini e istruzioni; d) prevede la frequenza, il tipo e i contenuti della documentazione da fornire al cliente a rendiconto dell’attività svolta; e) indica e disciplina, nei rapporti di esecuzione degli ordini dei clienti, di ricezione e trasmissione di ordini, nonché di gestione di portafogli, la soglia delle perdite, nel caso di posi-
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zioni aperte scoperte su operazioni che possano determinare passività effettive o potenziali superiori al costo di acquisto degli strumenti finanziari, oltre la quale è prevista la comunicazione al cliente; f) indica le remunerazioni spettanti all’intermediario o i criteri oggettivi per la loro determinazione, specificando le relative modalità di percezione; g) indica se e con quali modalità e contenuti in connessione con il servizio di investimento può essere prestata la consulenza in materia di investimenti; h) indica le altre condizioni contrattuali convenute con l’investitore per la prestazione del servizio; i) indica le eventuali procedure di conciliazione e arbitrato per la risoluzione stragiudiziale di controversie, definite ai sensi dell’art. 32-ter del Testo Unico. La mancanza di qualcuna di queste indicazioni non è sanzionata da alcuna norma speciale e, pertanto, ferme le conseguenze che possono derivare all’intermediario in termini di violazione delle regole di comportamento alle quali lo stesso deve attenersi, troveranno applicazione le norme generali dettate in tema di invalidità del contratto. È necessario, poi, ricordare che ai contratti di prestazione dei servizi di investimento si applicano anche le norme in materia di clausole abusive (art. 1469-bis c.c.). D) Come abbiamo a suo tempo ricordato, fra gli strumenti finanziari che possono essere oggetto di contratti di investimento, esistono anche i cc.dd. strumenti derivati e si è constatato che questi ultimi possono prevedere che la esecuzione del relativo contratto avvenga anche soltanto attraverso il pagamento di «differenziali in contanti», ossia escludendo a priori che l’esecuzione comporti la consegna di titoli. Nel nostro ordinamento, a differenza di quanto è previsto in altri ordinamenti, non esisteva fino al 1991 alcuna norma che consentisse di sottrarre quelle pattuizioni al dubbio che le stesse si riducessero ad un gioco, ad una scommessa e che, pertanto, rimanessero esposte alla «mancanza di azione» prevista dall’art. 1933, c.c. La legge n. 1 del 1991 aveva rimosso questi dubbi per alcune categorie di derivati negoziati sui mercati regolamentati, lasciandoli, per altro, sopravvivere per i contratti non negoziati su tali mercati e senza funzione di copertura del rischio. Di fronte a queste incertezze il Testo Unico ha sentito il bisogno di stabilire (art. 23, 5° comma, T.U.) che, «nell’ambito della prestazione di un servizio di investimento, agli strumenti derivati» non si applica l’art. 1933 c.c. E la norma, se non risolve il problema generale dei rapporti fra strumenti derivati ed eccezione di gioco, certamente esclude oggi che questa eccezione possa essere opposta nell’ambito di rapporti che nascono da contratti di investimento in strumenti finanziari.
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6.3. La responsabilità da prestazione di servizi A) Abbiamo individuato nei paragrafi precedenti le regole alle quali gli intermediari debbono attenersi nella prestazione dei servizi di investimento e altre ne incontreremo in seguito. È necessario chiedersi quali siano le conseguenze, sul piano civilistico, della violazione di quelle regole. Sul punto v’è stata una notevole varietà di orientamenti. Così una parte della giurisprudenza e della dottrina, assumendo che le stesse tendono a realizzare gli interessi generali connessi con l’esercizio dei servizi di investimento, piuttosto che l’interesse del singolo investitore, ha ritenuto che la loro violazione determini la nullità del contratto che ne sia stato «contagiato». Altri ha ritenuto che, come succede in altri momenti dell’ordinamento del settore, quel contratto fosse affetto da nullità relativa, ossia da una nullità che solo il cliente potrebbe far valere. Entrambe le tesi sono state respinte dalla Suprema Corte, a Sezioni Unite, soprattutto rilevando che nessuna norma prevede la nullità per violazione di quelle norme e tanto meno prevede una nullità relativa. Pare, dunque, riscuotere un ragionevole e prevalente consenso la tesi che ricollega alla violazione delle regole di comportamento, cui debbono attenersi gli intermediari nella prestazione dei servizi di investimento, soltanto una responsabilità per il risarcimento dei danni che quella violazione abbia causato all’investitore. E questa responsabilità dovrà considerarsi precontrattuale se la violazione riguarda la condotta che ha preceduto la stipulazione del contratto-quadro e contrattuale quando si sia in presenza di violazioni commesse nel corso dello svolgimento di quel rapporto o dei rapporti nati dai contratti esecutivi del contratto-quadro. Nella misura in cui non sono derogate dalle norme speciali, troveranno poi applicazione, nei giudizi per il risarcimento dei danni promossi dal cliente, i relativi principi generali. Il T.U. ha ritenuto, tuttavia, necessario precisare (art. 23, 6° comma) che «nei giudizi di risarcimento dei danni cagionati al cliente nello svolgimento dei servizi di investimento e di quelli accessori spetta ai soggetti abilitati l’onere della prova di aver agito con la specifica diligenza richiesta». In altri termini, se l’azione del cliente è fondata sulla violazione di una specifica regola di condotta, la norma in esame non trova applicazione; nell’ipotesi in cui il cliente lamenti la violazione della «specifica diligenza richiesta» questa norma impone all’intermediario di provare di aver agito nel rispetto di quella specifica diligenza. Questa impostazione non può, tuttavia, portare a ritenere che il cliente possa limitarsi a provare il danno subito e il nesso di causalità fra un comportamento dell’interme-
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diario e tale danno, esonerandosi anche dal provare che l’intermediario ha violato una qualche norma di carattere specifico o generale che avrebbe dovuto osservare; una simile conclusione risulterebbe sconvolgente consentendo al cliente di agire in risarcimento ogni qualvolta il suo investimento non si fosse rivelato vantaggioso, con l’onere a carico dell’intermediario di provare che il mancato guadagno o la perdita non sono imputabili a suoi comportamenti non coerenti con la «specifica diligenza richiesta» per quella operazione. In realtà il cliente dovrà provare che l’intermediario ha violato qualche regola generale di comportamento e quest’ultimo si libererà dall’obbligo risarcitorio provando di aver agito con la specifica diligenza richiesta. B) Il legislatore, nel dare attuazione alla direttiva MIFID, ha introdotto anche due norme di carattere processuale dirette a rendere più facile la tutela degli interessi degli investitori. Ha preso così in considerazione l’ipotesi in cui vengano lesi, dal comportamento dell’intermediario, gli interessi collettivi degli investitori e ha stabilito che «le associazioni dei consumatori, inserite nell’elenco di cui all’art. 137 del D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206 [Codice del consumo] sono legittimate ad agire per la tutela degli interessi collettivi degli investitori, connessi con la prestazione di servizi e attività di investimento, di servizi accessori e di gestione collettiva del risparmio, nelle forme previste dagli artt. 139 e 140 [dello stesso Codice del consumo]» (art. 32-bis). Il D.Lgs. n. 164 del 2007 ha inoltre reso applicabili alle controversie fra intermediari e investitori le procedure di conciliazione e di arbitrato previste dall’art. 27 della legge n. 262 del 2005 e disciplinate dal D.Lgs. 8 ottobre 2007, n. 179.
6.4. La separazione patrimoniale La prestazione dei servizi di investimento, normalmente svolta non solo per conto ma anche in nome del cliente, non comporta l’acquisizione, da parte dell’intermediario, della proprietà degli strumenti finanziari dei clienti nel cui interesse il servizio viene svolto. Sembrerebbe, pertanto, superflua una norma che si preoccupi di precisare che «gli strumenti finanziari e la somma di denaro dei singoli clienti» costituiscono un patrimonio separato da quello dell’intermediario (art. 22, 1° comma). D’altro canto, tutti i servizi di investimento ed accessori vengono prestati sulla base di un rapporto individuale che lega ciascun cliente all’intermediario, senza alcuna interferenza sullo stesso rapporto dei moltis-
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simi altri rapporti che vengono posti in essere con gli altri clienti. E, quindi, non sembrerebbe necessario precisare, come precisa il Testo Unico (art. 22, 1° comma), che gli «strumenti finanziari e le somme di denaro dei singoli clienti» costituiscono patrimonio distinto da quello degli altri clienti. In realtà, la natura necessariamente di bene fungibile del denaro e il fatto che fungibili siano nella massima parte gli strumenti finanziari oggetto dei servizi di investimento, nonché la constatazione che l’intermediario, anche quando non può disporre degli stessi, può, pur sempre, conseguire una detenzione di fatto degli strumenti finanziari e del denaro del cliente, rendono utile una norma che sancisca la separazione del patrimonio del singolo cliente da quello dell’intermediario e da quelli degli altri clienti. Tale norma costituisce la giustificazione delle regole organizzative che le imprese di investimento e le banche debbono osservare per consentire la individuazione degli strumenti finanziari di proprietà di ciascun cliente: individuazione in assenza della quale la separatezza dei patrimoni rischia di non trovare alcuna attuazione pratica, non consentendo l’esercizio dell’azione di rivendica. D’altro canto, il principio di separazione patrimoniale acquista importanza soprattutto in presenza di frodi dell’intermediario; frodi che spesso preludono all’insolvenza e normalmente si accompagnano alla violazione delle norme organizzative destinate a consentire l’individuazione dei beni dei clienti. Del che il legislatore si mostra consapevole nel momento in cui sanziona penalmente la confusione fraudolenta dei patrimoni (art. 168) e, per il caso di insolvenza, prevede norme processuali dirette a facilitare la individuazione dei patrimoni dei singoli clienti (art. 91 T.U. bancario). Ma ecco le regole sostanziali sulla separazione patrimoniale. Il legislatore stabilisce, anzitutto, che «nella prestazione dei servizi di investimento ed accessori gli strumenti finanziari e le somme di denaro dei singoli clienti, a qualunque titolo detenuti dalla Sim ..., dalla SGR, dalla società di gestione UE, dai GEFIA UE o dagli intermediari finanziari iscritti nell’elenco previsto dall’art. 106 del T.U. bancario nonché gli strumenti finanziari dei singoli clienti a qualsiasi titolo detenuti dalla banca, costituiscono patrimonio distinto a tutti gli effetti da quello dell’intermediario e da quello degli altri clienti» (art. 22, 1° comma), traendone la naturale conseguenza che su tale patrimonio non sono ammesse azioni dei creditori dell’intermediario e che le azioni dei singoli clienti sono ammesse nei limiti del patrimonio di proprietà di ciascuno di essi. L’affermata separazione del patrimonio di ciascun cliente nei confronti del patrimonio dell’intermediario opera anche nell’ipotesi in cui gli stru-
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menti finanziari e il denaro siano depositati presso terzi, nel senso che viene esplicitamente esclusa la compensazione, sia legale sia giudiziale, fra i crediti del depositario nei confronti dell’intermediario e quelli del cliente nei confronti del depositario. Per evitare ogni commistione fra il patrimonio dell’intermediario e quello del cliente, il legislatore ha poi stabilito che il primo non possa «utilizzare nell’interesse proprio o di terzi» gli strumenti finanziari di pertinenza dei clienti. Così egli non potrà dare in pegno ad una banca tali strumenti per operazioni effettuate per proprio conto anche se ai relativi proventi fosse convenzionalmente associato il cliente, a meno che non intervenga un espresso consenso scritto del cliente stesso. Queste regole non valgono, come emerge dalla norma sopra riprodotta, per quanto concerne il danaro, per le banche, sul presupposto che il danaro sia passato in proprietà alla banca; il che, per altro, accade anche quando il danaro è «detenuto» dagli intermediari ai quali è negata la facoltà concessa alle banche. Come si accennava, la separatezza assume concreta rilevanza soprattutto in caso di insolvenza della banca o dell’impresa di investimento e l’art. 91 del T.U. bancario cerca di assicurare pratica attuazione a quel principio imponendo la restituzione degli strumenti finanziari ai singoli clienti quando ne sia possibile la individuazione, nei confronti sia del patrimonio dell’intermediario sia di quelli degli altri clienti; e prevedendo, nell’ipotesi in cui sia possibile la prima e non anche la seconda, la ripartizione degli strumenti finanziari, per i quali non sia stata possibile l’attribuzione individuale, in proporzione al credito per il quale ciascuno dei clienti è stato ammesso al passivo.
6.5. La gestione di portafogli Abbiamo già ricordato che la gestione di portafogli (del danaro e degli strumenti finanziari) si differenzia dall’amministrazione di strumenti finanziari per la presenza nella prima e l’assenza nella seconda di un potere discrezionale di disposizione in capo all’intermediario. Le gestioni individuali si distinguono da quelle in monte per il fatto che nelle prime l’intermediario presta un servizio personalizzato e, quindi, gestisce separatamente, anche se spesso su base standardizzata, i patrimoni dei singoli clienti, mentre nelle seconde l’apporto di ogni singolo cliente confluisce in un patrimonio gestito a rischio e nell’interesse dell’insieme dei partecipanti che hanno concorso alla sua costituzione. E, come avremo modo di appurare nell’esame della disciplina dei fondi comuni, delle SICAV e delle SICAF, nelle gestioni in monte il rispar-
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miatore partecipante è in una posizione assolutamente passiva, non avendo alcun potere di intervenire sulle scelte del gestore, mentre altrettanto non può dirsi per le gestioni personalizzate, nell’ambito delle quali il cliente ha il potere di impartire all’intermediario istruzioni per la gestione; il che, per altro, non deve escludere la discrezionalità che caratterizza la condizione dell’intermediario anche nelle gestioni personalizzate (tant’è che si esclude che possa considerarsi tale la «gestione» per la quale si preveda che ogni atto debba essere autorizzato dal cliente). Nel nostro ordinamento la gestione di portafogli di investimento in strumenti finanziari è un contratto tipico, del quale è, pertanto, superfluo ed anzi non corretto tentare la qualificazione in termini di contratto d’opera o di mandato. Ed è un contratto tipico riservato alle imprese di investimento e alle banche (nonché, come vedremo, alle società di gestione del risparmio e, come abbiamo già ricordato, agli agenti di cambio e le fiduciarie-Sim), nel senso che le sue norme non troverebbero applicazione quando un analogo contratto fosse stipulato al di fuori della riserva prevista per l’esercizio dei servizi di investimento. Queste le norme, inderogabili, che si applicano al contratto di gestione di portafogli di investimento in strumenti finanziari: a) il contratto deve essere necessariamente redatto in forma scritta, rimanendo, quindi, esclusa la possibilità, prevista dall’art. 23, 1° comma per la generalità dei servizi, che la Consob possa prevedere una forma diversa in considerazione di ragioni tecniche o della qualità del cliente; b) «il cliente può impartire istruzioni vincolanti in ordine alle operazioni da compiere», non potendosi, per altro, escludere che l’impresa o la banca possano recedere dal contratto in caso di istruzioni irragionevoli; c) il cliente ha il diritto di recedere «in ogni momento, dal contratto senza che allo stesso venga addebitata alcuna penalità, mentre l’impresa di investimento, la società di gestione o la banca possono farlo nei limiti previsti dall’art. 1727 c.c., o dall’art. 1469-bis, 4° comma, c.c.; d) la rappresentanza per l’esercizio del diritto di voto inerente agli strumenti finanziari in gestione può essere attribuita all’impresa di investimento, alla banca, e alla società di gestione ma la procura deve essere conferita in forma scritta e per ogni singola assemblea; inoltre devono essere rispettati i limiti e le modalità che per il conferimento della stessa possono essere stabiliti dal Ministro dell’Economia e delle Finanze, sentite la Banca d’Italia e la Consob. E il D.M. 11 novembre 1998, n. 470 ha precisato che la rappresentanza può essere conferita solo per assemblee già convocate, ed è sempre revocabile purché la revoca pervenga al rap-
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presentante almeno il giorno precedente quello previsto per l’assemblea; inoltre la procura deve precisare la direzione del voto che il rappresentante intende esprimere per l’ipotesi in cui il cliente non dia indicazioni in proposito; indicazioni dalle quali il rappresentante può, per altro, discostarsi, salva una diversa disposizione della delega, «qualora siano sopravvenuti fatti di particolare rilievo», non noti al momento del conferimento della rappresentanza, e tali da far ragionevolmente ritenere che il socio, avendoli conosciuti, avrebbe votato in modo differente; e) l’impresa di investimento e la banca non possono delegare a terzi l’esecuzione dell’incarico di gestione loro conferito, salva l’autorizzazione scritta del cliente, e la delega potrà essere conferita anche alla società di gestione di un fondo, concentrandosi in tal modo, in capo a quest’ultima, l’esercizio di attività di gestione sia in monte sia personalizzata; in ogni caso il delegante risponde per le operazioni compiute dal delegato. Come si accennava, tutte le norme dettate per il contratto di gestione di portafogli sono sicuramente inderogabili, dal momento che il legislatore dichiara nulli i «patti contrari»; nullità che, per altro, può essere fatta valere soltanto dal cliente (cfr. art. 24, 2° comma, T.U. n. 58 del 1998). Del pari inderogabile è la regola, fissata dall’art. 30, 6° comma, T.U., e sulla quale ritorneremo, che sospende per un periodo di sette giorni l’efficacia dei contratti di gestione stipulati fuori sede o a distanza. Queste sono, le uniche norme che il legislatore detta in materia di forma e di contenuto del contratto di gestione, lasciando, in particolare, all’autonomia contrattuale la concreta determinazione del contenuto del contratto medesimo. Il Regolamento Intermediari, ha dettato una serie di regole (delle quali abbiamo già esaminato quella relativa all’adeguatezza dell’operazione) che si aggiungono a quelle previste per la generalità dei contratti di investimento; norme la cui violazione, per altro, non comporterà la nullità del contratto, ma renderà applicabili le disposizioni generali in materia di contratti e di responsabilità. Il Regolamento Intermediari, nel testo redatto successivamente all’attuazione della direttiva MIFID (art. 38), stabilisce che il contratto con i clienti al dettaglio «a) indica i tipi di strumenti finanziari che possono essere inclusi nel portafoglio del cliente e i tipi di operazioni che possono essere realizzate su tali strumenti, inclusi eventuali limiti; b) indica gli obiettivi di gestione, il livello del rischio entro il quale il gestore può esercitare la sua discrezionalità ed eventuali specifiche restrizioni a tale discrezionalità; c) indica se il portafoglio del cliente può essere caratterizzato da effetto leva;
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d) fornisce la descrizione del parametro di riferimento, ove significativo, al quale verrà raffrontato il rendimento del portafoglio del cliente; e) indica se l’intermediario delega a terzi l’esecuzione dell’incarico ricevuto, specificando i dettagli della delega; f) indica il metodo e la frequenza di valutazione degli strumenti finanziari contenuti nel portafoglio del cliente». Inoltre, il contratto specifica «la possibilità per l’intermediario di investire in strumenti finanziari non ammessi alla negoziazione in un mercato regolamentato, in derivati o in strumenti illiquidi o altamente volatili; o di procedere a vendite allo scoperto, acquisti tramite somme di denaro prese a prestito, operazioni di finanziamento tramite titoli o qualsiasi operazione che implichi pagamenti di margini, deposito di garanzie o rischio di cambio». Come si può notare, il Regolamento impone oggi al gestore soprattutto doveri di informazione. Non su questa linea si muoveva il Regolamento Intermediari vigente prima della direttiva MIFID che introduceva anche vincoli di merito al potere del gestore. Così quel testo prevedeva che l’intermediario non potesse inserire nei portafogli dei clienti strumenti non negoziati sui mercati regolamentati in misura superiore al venticinque per cento del controvalore del patrimonio senza un’esplicita autorizzazione preventiva del cliente e, in ogni caso, un singolo strumento finanziario non quotato non poteva superare il dieci per cento di tale controvalore. Oggetto di particolare attenzione, da parte del Regolamento sono gli obblighi di rendicontazione, soprattutto quando il cliente sia un cliente al dettaglio. Il rendiconto nelle gestioni con clienti al dettaglio deve avere una cadenza semestrale e deve contenere il resoconto del contenuto e della valutazione del portafoglio, compresi i dettagli relativi a ciascuno strumento finanziario detenuto, il suo valore di mercato o il suo valore equo (fair value) se il valore di mercato è indisponibile, il saldo contante all’inizio e alla fine del periodo oggetto del rendiconto e il rendimento del portafoglio durante il periodo oggetto del rendiconto; l’importo totale delle competenze e degli oneri applicati durante il periodo oggetto del rendiconto, con indicazione delle singole voci quanto meno per ciò che riguarda le competenze di gestione totali e i costi totali connessi all’esecuzione, compresa, ove pertinente, la dichiarazione che su richiesta verrà fornita una scomposizione in voci più dettagliata; un raffronto del rendimento durante il periodo oggetto del rendiconto con il parametro di riferimento eventualmente convenuto tra l’intermediario e il cliente; l’importo totale dei dividendi, degli interessi e degli altri pagamenti ricevuti durante il periodo del rendiconto in relazione al portafoglio del cliente;
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informazioni circa altri eventi societari che conferiscano diritti in relazione a strumenti finanziari detenuti nel portafoglio (cfr. art. 54 del Regolamento Intermediari). Inoltre, «gli intermediari che svolgono il servizio di gestione di portafogli per clienti al dettaglio o amministrano conti di clienti al dettaglio che includono una posizione aperta scoperta su operazioni con passività potenziali, comunicano al cliente eventuali perdite, che superino una soglia predeterminata convenuta tra l’intermediario e il cliente, non più tardi della fine del giorno lavorativo nel quale la soglia è superata» (art. 55 Regolamento Intermediari).
6.6. La negoziazione sui mercati regolamentati A) La legge n. 1 del 1991 aveva riservato la negoziazione sul mercato di Borsa e sul mercato ristretto alle Sim, con esclusione sia delle imprese di investimento comunitarie ed extracomunitarie sia delle banche, alle quali era consentita la negoziazione su quegli stessi mercati dei soli titoli di stato o garantiti dallo stato. La esclusione delle imprese comunitarie, eventualmente autorizzate nel paese d’origine, trovava il proprio contestato fondamento nel fatto che non aveva ancora avuto attuazione, per l’accesso ai mercati regolamentati, il principio del mutuo riconoscimento, mentre la esclusione delle banche era coerente con il «sospetto» che le stesse non avessero alcun interesse allo sviluppo della Borsa. Tale esclusione, per altro, si risolse nella necessità, per le banche, di dar vita a società di intermediazione mobiliare alle quali era affidata la negoziazione sul mercato di Borsa. Sulla base poi della constatazione che la maggior parte delle negoziazioni sui titoli quotati in borsa avveniva al di fuori della stessa, rendendo così non significative le quotazioni ufficiali, la legge n. 1 del 1991, per rendere più spessi tali mercati, aveva imposto (cfr. art. 11, 1° e 2° comma) agli intermediari autorizzati all’esercizio dell’attività di negoziazione di effettuare gli acquisti e le vendite di valori mobiliari quotati sui mercati regolamentati, «esclusivamente su detti mercati e con le modalità di negoziazione per essi previste» (principio di concentrazione delle negoziazioni). Al di fuori dei mercati potevano essere effettuate soltanto le negoziazioni espressamente autorizzate dal cliente e sempre che tale modalità di negoziazione consentisse «di realizzare un miglior prezzo per il cliente stesso» (principio della best execution). Su entrambi i punti il D.Lgs. n. 415 del 1996, in attuazione di analoghe norme contenute nella direttiva 93/22, aveva introdotto profonde inno-
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vazioni; innovazioni conservate dal T.U. n. 58 del 1998. Il D.Lgs. n. 164 del 2007, dando attuazione alla direttiva MIFID, ha profondamente e ulteriormente modificato la disciplina dei servizi di negoziazione sui mercati regolamentati. B) Il Testo Unico prevede (art. 25, 1° comma) che sui mercati regolamentati italiani possano operare sia le Sim e le banche italiane, che siano state autorizzate dalla Consob e dalla Banca d’Italia a svolgere i servizi di negoziazione, sia le imprese di investimento e le banche comunitarie, che siano state autorizzate a prestare tali servizi dalle autorità competenti del paese d’origine. L’armonizzazione delle norme sui mercati regolamentati e l’attuazione del principio del mutuo riconoscimento hanno reso necessario consentire l’accesso non solo alle imprese di investimento dei paesi della Comunità, ma anche alle banche che in quegli stessi paesi fossero state autorizzate a negoziare sui mercati regolamentati. Il che ha impedito che un diverso trattamento fosse adottato per le banche italiane: queste hanno così visto cadere la preclusione presente nella legge n. 1 del 1991. E, come avremo modo di verificare meglio in seguito, le imprese e le banche comunitarie opereranno sui mercati regolamentati italiani secondo le regole, armonizzate, che reggono tali mercati. Le Sim e le banche italiane autorizzate alla negoziazione possono naturalmente operare anche sui mercati regolamentati degli altri paesi della comunità ed altresì in quelli extracomunitari riconosciuti dalla Consob ai sensi dell’art. 67 T.U. C) Ma anche la regola della concentrazione delle negoziazioni dei titoli quotati è stata oggetto di una revisione profonda da parte del T.U., prima di essere eliminata dal D.Lgs. n. 164 del 2007; la stessa, già prima di quest’ultimo provvedimento, non discendeva più da un rigido principio fissato dalla legge, ma degradava ad oggetto di una possibile regolamentazione della Consob, la quale, per altro, nel disciplinarla doveva rispettare i limiti che la direttiva imponeva agli Stati che intendono adottare il principio della concentrazione. La Consob, esercitando il potere regolamentare (delibere 10 dicembre 1996, n. 10358 e 22 dicembre 1997, n. 11134) così attribuitole, aveva conservato in vita la regola della concentrazione delle negoziazioni, prevedendo, tuttavia, che tale regola potesse essere derogata quando il cliente avesse preventivamente autorizzato la negoziazione al di fuori dei mercati regolamentati e quest’ultima consentisse di realizzare un miglior prezzo per il cliente. In ossequio ai limiti imposti dalla direttiva, la Consob aveva poi chiarito che la regola della concentrazione non si applicava né alle negozia-
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zioni disposte da investitori non residenti in Italia né alle negoziazioni di «blocchi» di strumenti finanziari, ossia ordini aventi per oggetto un quantitativo di strumenti finanziari il cui controvalore avesse superato la soglia fissata dalla stessa Consob, né alle negoziazioni aventi ad oggetto «spezzature», ossia un quantitativo di strumenti finanziari inferiore al lotto minimo negoziabile. Le norme sulla concentrazione così dettate dalla Consob costituivano, per espressa disposizione della stessa, una disciplina temporanea, riservandosi la Consob di valutare gli effetti dell’obbligo di concentrazione alla luce dell’attuazione del principio del mutuo riconoscimento dei mercati regolamentati e della profonda riforma di quelli italiani; soprattutto allo scopo di verificare se lo stesso fosse ancora necessario per assicurare il buon funzionamento dei mercati e la significatività dei prezzi che sugli stessi si formano. Tale obbligo, per altro, nei termini appena indicati è rimasto in vita (si vedano artt. 7 e 8 ss. del Regolamento Consob 23 dicembre 1998, n. 11768, così come modificato da ultimo con delibera 29 novembre 2005) fino all’attuazione della direttiva MIFID. D) Il D.Lgs. n. 164 del 2007, dando attuazione a questa direttiva, ha eliminato il potere Consob di disporre la concentrazione nel mercato regolamentato delle negoziazioni aventi per oggetto titoli negoziati sullo stesso ed ha, anzi, previsto e disciplinato altri due modelli di negoziazione: quello che si realizza nei sistemi multilaterali di negoziazione e quello effettuato dagli internalizzatori sistematici. È stato così definitivamente cancellato l’obbligo di concentrazione. Non solo, ma anche sotto il profilo dei soggetti che possono accedere ai mercati regolamentati, il D.Lgs. n. 164 del 2007 ha ampliato la platea di coloro che possono effettuare negoziazione per conto proprio ed esecuzione di ordini sugli stessi stabilendo che «possono accedere ai mercati regolamentati, tenuto conto delle regole adottate dalla società di gestione ai sensi dell’art. 62, 2° comma, soggetti diversi [dalle imprese di investimenti e dalle banche] se a) soddisfano i requisiti di onorabilità e professionalità; b) dispongono di un livello sufficiente di competenza e capacità di negoziazione: c) dispongono di adeguati dispositivi organizzativi; d) dispongono di risorse sufficienti per il ruolo che devono svolgere». Per questi ultimi si ha cura di precisare che debbono comportarsi «con diligenza, correttezza e trasparenza al fine di assicurare l’integrità dei mercati»; regole in realtà applicabili a tutti coloro che sono ammessi a negoziare su un mercato regolamentato.
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6.7. La consulenza in materia di investimenti Anche per la prestazione del servizio di consulenza in materia di investimenti il Testo Unico detta alcune norme speciali, che troveranno applicazione oltre a quelle generali appena illustrate, norme speciali che concernono soprattutto il comportamento dell’intermediario. Così, a norma dell’art. 24-bis del T.U. n. 58 del 1998, 1° comma, «in caso di esercizio della consulenza in materia di investimenti, il cliente è informato, in tempo utile prima della prestazione del servizio, anche di quanto segue: a) se la consulenza è fornita su base indipendente o meno; b) se la consulenza è basata su un’analisi del mercato ampia o più ristretta delle varie tipologie di strumenti finanziari, e in particolare se la gamma è limitata agli strumenti finanziari emessi o forniti da entità che hanno con il prestatore del servizio stretti legami o altro stretto rapporto legale o economico, come un rapporto contrattuale talmente stretto da comportare il rischio di compromettere l’indipendenza della consulenza prestata; c) se verrà fornita ai clienti la valutazione periodica dell’adeguatezza degli strumenti finanziari raccomandati». E, a norma del 2° comma dello stesso art. 24-bis del T.U.F., «nella prestazione del servizio di consulenza in materia di investimenti su base indipendente, si applicano le seguenti regole: a) è valutata una congrua gamma di strumenti finanziari disponibili sul mercato che siano sufficientemente diversificati in termini di tipologia ed emittenti o fornitori di prodotti in modo da garantire che gli obiettivi di investimento del cliente siano opportunamente soddisfatti e non siano limitati agli strumenti finanziari emessi o forniti: i) dal prestatore del servizio o da entità che hanno con esso stretto legami, o ii) da altre entità che hanno con il prestatore del servizio stretti legami o rapporti legali o economici, come un rapporto contrattuale talmente stretto da comportare il rischio di compromettere l’indipendenza della consulenza prestata».
6.8. L’offerta «fuori sede» e «a distanza» A) Abbiamo già ricordato che le regole dettate per l’offerta fuori sede di strumenti finanziari trovano, in linea di principio, applicazione anche
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per l’offerta fuori sede di servizi di investimento e in particolare che la stessa deve avvenire tramite l’opera di consulenti finanziari abilitati all’offerta fuori sede. Qui basterà illustrare le pochissime norme specificamente dettate per l’ipotesi in cui l’offerta fuori sede abbia, appunto, per oggetto servizi di investimento; intendendosi per tale quella effettuata «in luogo diverso dalla sede legale o dalle dipendenze di chi presta, promuova o colloca il servizio». Le imprese di investimento e le banche possono effettuare l’offerta fuori sede di tutti i propri servizi di investimento per i quali siano state autorizzate, mentre se intendono offrire fuori sede servizi prodotti da altri intermediari, possono farlo soltanto se sono state autorizzate a svolgere l’attività di collocamento prevista dall’art. 1, 5° comma, lett. c) e cbis), T.U. n. 58 del 1998. Diverso è stato per lungo tempo l’ambito di applicazione del «diritto di recesso» rispettivamente previsto per l’offerta di prodotti finanziari e per l’offerta di servizi di investimento, nel senso che, mentre con riferimento alla prima si riconosceva sempre un diritto di recesso del risparmiatore «sollecitato»; per la seconda tale diritto era previsto solo «per l’offerta di servizi di gestione di portafogli» (cfr. art. 30, 6° comma) e non anche quando oggetto della offerta fosse stato uno degli altri servizi di investimento. Discriminazione che, a dire il vero, non trovava una giustificazione evidente. Tale discriminazione, su sollecitazione anche della giurisprudenza della Suprema Corte, è stata notevolmente ridimensionata dal D.L. 21 giugno 2013, n. 69, convertito con legge 9 agosto 2013, n. 98 che ha esteso il diritto di recesso anche ai servizi di negoziazione per proprio conto e ai servizi di sottoscrizione e collocamento con o senza sottoscrizione degli strumenti finanziari, rimanendo ancora esclusi sia l’esecuzione di ordini sia la consulenza in materia di investimenti. B) Le norme sull’offerta fuori sede dei servizi di investimento si applicano anche nell’ipotesi in cui la loro promozione e il loro collocamento siano effettuati mediante tecniche di comunicazione «a distanza» (cfr. art. 32, 2° comma, T.U. n. 58 del 1998).
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6.9. Sottoscrizione e collocamento di prodotti finanziari emessi da banche e da imprese di assicurazione Come abbiamo già ricordato, i servizi di investimento hanno necessariamente per «oggetto» strumenti finanziari e, quindi, non rientrano in tale nozione e non sono soggette alle relative discipline le attività che collochino, negozino o gestiscano prodotti finanziari che non siano anche strumenti finanziari. A questa regola ha apportato un’eccezione l’art. 25-bis del T.U. n. 58 del 1998 introdotto dall’art. 11 della legge n. 262 del 2005. Questa norma stabilisce che «gli artt. 21 [che detta i criteri generali per l’esercizio dei servizi di investimento] e 23 [che disciplina i relativi contratti] e 24-bis [che disciplina la consulenza in materia di investimenti] si applicano all’offerta e alla consulenza avente per oggetto depositi strutturati e prodotti finanziari, diversi dagli strumenti finanziari emessi dalle banche, e una norma assolutamente analoga viene dettata dall’art. 25-ter per i prodotti finanziari emessi da imprese di assicurazione». Abbiamo già precisato cosa intenda il legislatore per prodotti finanziari emessi dalle banche e dalle imprese di assicurazione; l’art. 25-bis e l’art. 25-ter stabiliscono che la loro sottoscrizione e il loro collocamento sono sottoposti alle stesse regole cui sono sottoposti tali servizi quando abbiano ad oggetto strumenti finanziari. La norma non dovrebbe riguardare la sottoscrizione e il collocamento di altri strumenti finanziari emessi dalle banche e dalle assicurazioni, ai quali, per definizione, si applicano le norme sulla prestazione dei servizi di investimento. Il Regolamento Intermediari ha dato attuazione a tale norma ribadendo che alle banche si applicano le norme dettate per la prestazione dei servizi di investimento quando distribuiscano propri prodotti finanziari «anche quando procedono alla vendita degli stessi in fase di emissione» (art. 84). Lo stesso Regolamento ha disciplinato la distribuzione di prodotti finanziari assicurativi da parte di «soggetti abilitati all’intermediazione assicurativa (considerando tali le imprese di investimento, le banche e gli intermediari iscritti nell’elenco previsto dall’art. 106 del Testo Unico Bancario oltre alla società Poste Italiane), rendendo applicabili le norme dettate dallo stesso Regolamento per lo svolgimento dei servizi di investimento e precisando che l’intermediario deve fornire al contraente «prima della sottoscrizione della proposta o del documento contrattuale informazioni relative ai propri vincoli proprietari che possono pregiudicarne l’indipendenza e alle caratteristiche del prodotto offerto». Più esattamente, l’intermediario deve fornire al contraente prima del-
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la sottoscrizione della proposta o del documento contrattuale le seguenti informazioni: «a) la loro denominazione, la loro sede legale e i loro recapiti; b) il riferimento al registro degli intermediari assicurativi di cui all’articolo 109 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209 in cui sono iscritti e l’indicazione circa i mezzi esperibili per verificare che siano effettivamente registrati; c) le procedure che consentono al contraente di presentare reclamo al soggetto abilitato all’intermediazione assicurativa o all’impresa di assicurazione, ovvero ricorsi ad organi di risoluzione stragiudiziale delle controversie; d) ogni eventuale partecipazione, diretta o indiretta, superiore al 10 per cento del capitale sociale o dei diritti di voto in imprese di assicurazione; e) ogni eventuale partecipazione, diretta o indiretta, superiore al 10 per cento del capitale sociale o dei diritti di voto del soggetto abilitato all’intermediazione assicurativa detenuta da imprese di assicurazione; f) con riguardo al prodotto finanziario assicurativo proposto: 1. se forniscono consulenze basate su un’analisi imparziale. In tale circostanza i soggetti abilitati all’intermediazione assicurativa sono tenuti a fondare le proprie valutazioni su un numero sufficientemente ampio di contratti disponibili sul mercato al fine di consigliare un prodotto idoneo a soddisfare le richieste del contraente; 2. se, in virtù di un obbligo contrattuale, siano tenuti a proporre esclusivamente i contratti di una o più imprese di assicurazione, dovendo in tal caso specificare la denominazione di tali imprese; 3. se non siano vincolati a proporre esclusivamente i contratti di una o più imprese di assicurazione e non forniscano consulenze fondate sull’obbligo, di cui al precedente punto 1), di fornire un’analisi imparziale. In tal caso comunicano, su richiesta del contraente, la denominazione delle imprese di assicurazione con le quali hanno o potrebbero avere rapporti d’affari, fermo restando l’obbligo di avvisare il contraente del diritto di richiedere tali informazioni». Alla distribuzione, anche mediante tecniche di comunicazione a distanza, possono provvedere, ovviamente, anche le imprese di assicurazione e in tal caso troveranno applicazione nei loro confronti, le norme dettate per la prestazione dei servizi di investimento. La legge attribuisce poi a Consob un potere di vigilanza sulle banche e sulle assicurazioni esclusivamente allo scopo di controllare che tali «intermediari» si attengano, nell’esercizio della loro attività, alle regole sta-
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bilite dai predetti artt. 21 e 23, per lo svolgimento dei servizi di investimento.
6.10. I portali per l’equity crowdfunding Allo scopo di favorirne l’accesso a fonti di finanziamento alternative a quelle bancarie e, in particolare, al capitale di rischio, il D.Lgs. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito con legge 17 dicembre 2012, n. 221, successivamente modificato dall’art. 4 del D.L. 24 gennaio 2015 n. 3 convertito con legge 24 marzo 2015, n. 33, ha previsto l’istituzione di portali, ossia di piattaforme on line che abbiano come finalità esclusiva la facilitazione della raccolta di capitale di rischio da parte delle start-up innovative e PMI innovative e delle imprese sociali. Si intendono per start-up innovative le società di capitale non quotate su un mercato regolamentato o su un sistema multilaterale di negoziazione che a) siano costituite da non più di 5 anni; b) con sede in Italia; c) che abbiano una produzione annua non superiore a 5 milioni di euro; d) abbiano come oggetto sociale la produzione e la commercializzazione di prodotti innovativi ad alto valore tecnologico e che presentino almeno uno dei seguenti requisiti: 1) le spese di ricerca siano superiori al 15 per cento del costo; 2) impieghino come dipendenti in prevalenza persone dotate di particolari titoli di studio; 3) siano titolari o licenziatari di almeno una privativa industriale (art. 25 del D.Lgs. n. 179 del 2012 come modificato dal D.L. n. 3 del 2015). Sempre in base al D.L. n. 3 del 2015, i benefici spettanti alle start up innovative possono essere estesi a tutte le Piccole e Medie Imprese che operano nel campo dell’innovazione tecnologica, a prescindere dalla data di costituzione e dalla formulazione dell’oggetto sociale. Possono assumere lo status di PMI – innovative le società di capitali, costituite anche in forma cooperativa, le cui azioni non siano quotate su un mercato regolamentato. Per rientrare nella categoria delle PMI innovative una società deve realizzare un fatturato annuo inferiore a 50 milioni (o possedere un attivo dello stato patrimoniale che non superi i 43 milioni), impiegare meno di 250 dipendenti e possedere almeno due di questi tre requisiti: il 3 per cento dei costi totali essere attribuibile a attività di ricerca, sviluppo e innovazione; un terzo del personale deve essere composto da collaboratori in possesso di una laurea magistrale o un quinto deve essere formato da dottorandi, dottori di ricerca o ricercatori; oppure deve essere titolare o licenziataria almeno di una privativa industriale.
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Per imprese sociali si intendono le imprese di cui all’art. 1, 2° comma, lett. c) della legge 6 giugno 2016, n. 106, costituite in forma di società di capitali o di società cooperative. La gestione dei portali, sui quali vengono registrate le richieste e l’offerta di capitali di rischio, è riservata alle imprese di investimento, alle banche autorizzate alla prestazione di tali servizi nonché a soggetti iscritti in apposito registro tenuto dalla Consob «a condizione che gli stessi trasmettano gli ordini riguardanti la sottoscrizione e la compravendita di strumenti finanziari rappresentativi di capitali di rischio esclusivamente a banche e imprese di investimento» (art. 50-quinquies del T.U. introdotto dall’art. 2 del predetto D.Lgs. n. 179 del 2012). La Consob ha dettato le regole che disciplinano le offerte del capitale di rischio da parte delle start-up innovative (delibera 26 giugno 2013 modificata con delibera del 24 febbraio 2016, n. 19520); offerte che devono avere un corrispettivo complessivo inferiore a quello determinato dalla stessa Consob ai sensi dell’art. 100, 1° comma, lett. c) del TUB; corrispettivo oggi fissato in 5 milioni di euro.
7. La vigilanza sull’esercizio dei servizi di investimento A) La prestazione dei servizi di investimento e i soggetti autorizzati ad effettuarla sono sottoposti a vigilanza pubblica. Il Testo Unico, nella stesura del 1998, così definiva gli scopi della vigilanza sugli intermediari: «la vigilanza ha per scopo la trasparenza e la correttezza dei comportamenti e la sana e prudente gestione dei soggetti abilitati, avendo riguardo alla tutela degli investitori e alla stabilità, alla competitività e al buon funzionamento del sistema finanziario». Si poteva, sulla base di quella norma, ritenere che la stabilità, la competitività e il buon funzionamento del mercato finanziario nel suo complesso non fossero dunque obiettivi diretti dell’attività di vigilanza ma parametri di giudizio per l’esercizio della vigilanza sulle imprese di investimento e sulle banche e obiettivi indirettamente perseguiti attraverso l’esercizio di tale vigilanza. In altri termini, la vigilanza non era di tipo strutturale, ossia chiamata ad assicurare la struttura ottimale del mercato, ma aveva come scopo la sana e prudente gestione degli operatori (vigilanza prudenziale) e la correttezza e trasparenza dei comportamenti di questi ultimi. Il D.Lgs. n. 164 del 2007, attuativo della direttiva MIFID, ha radicalmente modificato quella norma ed oggi gli scopi della vigilanza sono de-
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finiti dall’art. 5, 1° comma nei seguenti termini: «la vigilanza sulle attività disciplinate dalla presente parte ha per obiettivi: a) la salvaguardia della fiducia nel sistema finanziario; b) la tutela degli investitori; c) la stabilità e il buon funzionamento del sistema finanziario; d) la competitività del sistema finanziario; e) l’osservanza delle disposizioni in materia finanziaria». È sparito ogni riferimento alla correttezza dei comportamenti e alla sana e prudente gestione (che, come vedremo fra un attimo, riappaiono come criteri per definire le competenze della Banca d’Italia e della Consob) e gli scopi vengono individuati nel perseguimento di interessi di carattere generale (che potremmo definire macroeconomici). Sembra abbastanza ragionevole escludere che il D.Lgs. n. 164 del 2007 abbia voluto reintrodurre una forma di vigilanza strutturale sul mercato mobiliare, ma è certo che gli obiettivi di carattere generale assumano nell’ottica del legislatore una importanza che prima non avevano, almeno sul piano formale. Gli obiettivi così fissati per la vigilanza sono poi specificati con riferimento alla vigilanza regolamentare nell’art. 6 del T.U.F., parimenti introdotto dal D.Lgs. n. 164 del 2007, e secondo il quale «nell’esercizio dei poteri regolamentari, la Banca d’Italia e la Consob osservano i seguenti principi: a) valorizzazione dell’autonomia decisionale dei soggetti abilitati; b) proporzionalità, intesa come criterio di esercizio del potere adeguato al raggiungimento del fine, con il minore sacrificio degli interessi dei destinatari; c) riconoscimento del carattere internazionale del mercato finanziario e salvaguardia della posizione competitiva dell’industria italiana; d) agevolazione dell’innovazione e della concorrenza». Anche questa norma, accanto a principi procedimentali, individua obiettivi di carattere generale per le autorità di vigilanza, talvolta di vera e propria politica economica («la salvaguardia della posizione competitiva dell’industria italiana»). Il meno che si possa dire è che il legislatore del 2007 ha introdotto elementi di evidente incertezza nella individuazione degli scopi perseguiti dalla Banca d’Italia e da Consob e quindi ha reso più difficile la legificazione dei fini e, con ciò stesso, la better regulation del mercato mobiliare. B) La competenza, per la formulazione delle regole di vigilanza, viene «ripartita», tra la Banca d’Italia e la Consob, per funzioni, almeno in linea di principio e nei limiti in cui tali funzioni possono effettivamente essere individuate e separate. Nel senso che alla Banca d’Italia viene attribuita la competenza per le regole di vigilanza prudenziale e in particolare «per quanto riguarda il contenimento del rischio, la stabilità patri-
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moniale e la sana e prudente gestione degli intermediari», mentre alla Consob viene riservata la competenza per le regole di trasparenza e di correttezza dei comportamenti (art. 5, 2° e 3° comma, T.U.F.). In verità il legislatore è consapevole della difficoltà di tracciare un confine puntuale tra regole prudenziali e regole di trasparenza e correttezza, e pretende che le prime, pur essendo emanati dalla Banca d’Italia, vengano adottate «sentita la Consob» e che le seconde, formalmente riservate a provvedimenti della Consob, siano emanate «sentita la Banca d’Italia». Non solo ma prevede che su certe materie le regole vengono dettate congiuntamente da Banca d’Italia e da Consob (art. 6, comma 2°-bis, T.U.F.). Così spetta alla Banca d’Italia, ma sentita la Consob, disciplinare con regolamento: a) l’adeguatezza patrimoniale, il contenimento del rischio nelle sue diverse configurazioni e le partecipazioni detenibili; b) gli obblighi dei soggetti abilitati in materia di modalità di deposito e di subdeposito degli strumenti finanziari e del denaro di pertinenza della clientela. Mentre compete alla Consob, sentita la Banca d’Italia, disciplinare, sempre con regolamento, gli obblighi in materia di trasparenza e di correttezza dei comportamenti. E nel dettare tali norme la Consob dovrà tener conto «delle differenti esigenze di tutela degli investitori», in considerazione della qualità e dell’esperienza professionale dei medesimi. È rimessa invece ad un Regolamento adottato dalla Banca d’Italia d’intesa con la Consob la disciplina di una serie importante di materie quali i requisiti generali di organizzazione, la continuità dell’attività, l’organizzazione amministrativa e contabile, le procedure, anche di controllo interno, per la corretta e trasparente prestazione dei servizi di investimento e delle attività di investimento nonché della gestione collettiva del risparmio, la gestione del rischio dell’impresa, l’audit interno, la responsabilità dell’alta dirigenza, la gestione dei conflitti di interesse, potenzialmente pregiudizievoli per i clienti e le procedure anche di controllo interno, per la percezione o corresponsione di incentivi. Le norme così dettate dalla Banca d’Italia e dalla Consob, e che costituiscono quella che la legge definisce «vigilanza regolamentare», si applicano a tutti i soggetti che svolgono servizi di investimento e, in particolare, si applicano indifferentemente a Sim e a banche, sulla base del principio dell’indifferenza della disciplina nei confronti del soggetto che svolge una particolare attività, anche se per le banche la vigilanza prudenziale
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sarà, in qualche misura, assorbita dalle norme che già si preoccupano di garantirne la stabilità e la sana e prudente gestione in considerazione dell’attività bancaria dalle stesse esercitata. C) Anche la ripartizione, tra la Banca d’Italia e la Consob, della concreta attività di controllo diretta a garantire l’osservanza delle regole di vigilanza avviene sulla base dello stesso criterio adottato per la ripartizione del loro potere regolamentare: ciascuna di esse «vigila sull’osservanza delle disposizioni regolanti le materie di competenza» (art. 5, 4° comma, T.U. n. 58 del 1998), ossia sull’osservanza delle norme contenute nei Regolamenti che ciascuna emana. In altre parole, la ripartizione non avviene per soggetti, ossia con l’attribuzione alla Banca d’Italia del compito di garantire l’osservanza sia delle norme prudenziali sia di quelle di trasparenza e correttezza, da parte delle banche, e con riserva alla Consob della competenza a garantire l’osservanza dell’intero insieme delle norme di vigilanza regolamentare da parte delle Sim, come pure si era prospettato già con riferimento alla legge n. 1 del 1991. Il fatto che sullo stesso operatore (banca o Sim) insista il controllo di due diverse autorità può determinare una inutile duplicazione dei controlli e un ingiustificato incremento dei costi della regolamentazione, quando non una lacuna nell’esercizio degli stessi. E proprio allo scopo di evitare questi inconvenienti, il legislatore ha stabilito che, nell’esercizio delle proprie funzioni di controllo, la Banca d’Italia e la Consob, «operano in modo coordinato anche al fine di ridurre al minimo gli oneri gravanti sui soggetti abilitati», e «si danno reciproca comunicazione dei provvedimenti assunti e delle irregolarità rilevate nell’esercizio dell’attività di vigilanza» Anzi, la Banca d’Italia e la Consob, al fine di coordinare l’esercizio delle proprie funzioni di vigilanza e di ridurre al minimo gli oneri gravanti sui soggetti abilitati, stipulano un protocollo d’intesa, avente ad oggetto: a) i compiti di ciascuna e le modalità del loro svolgimento, secondo il criterio della prevalenza delle funzioni delle rispettive competenze; b) lo scambio di informazioni, anche con riferimento alle irregolarità rilevate e ai provvedimenti assunti nell’esercizio dell’attività di vigilanza (art. 5, comma 5°-bis, T.U.F.). D) Per il concreto svolgimento delle proprie funzioni di controllo, sia la Banca d’Italia sia la Consob – ciascuna per le materie di propria competenza – hanno poteri di vigilanza informativa ed ispettiva nei confronti sia delle Sim sia delle banche. Esse possono, infatti, chiedere la comunicazione di dati e notizie e la trasmissione di atti e documenti e posso-
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no esercitare tali poteri non solo presso le banche e le Sim, ma anche nei confronti della società incaricata della revisione legale dei loro conti e della «certificazione» dei loro bilanci. Inoltre, e con una norma ormai consueta nell’ambito del mercato finanziario, il collegio sindacale, sia della Sim sia della banca, deve trasmettere ad entrambe le autorità di vigilanza i verbali che documentino l’accertata esistenza di irregolarità nella gestione societaria o nell’esercizio dell’attività di prestazione dei servizi di investimento (art. 8, 3° comma, T.U. n. 58 del 1998); il che attribuisce al collegio sindacale compiti che trovano la propria giustificazione in interessi che non si esauriscono in quello degli azionisti della società. Analoghi doveri vengono imposti agli organi cui è demandato il controllo nell’ambito dei modelli alternativi (monistico e dualistico) di amministrazione e controllo (D.Lgs. 6 febbraio 2004, n. 37). Nell’esercizio, infine, dei loro poteri di vigilanza ispettiva, la Banca d’Italia e la Consob possono effettuare ispezioni presso imprese di investimento e banche e richiedere l’esibizione di documenti. E) La disciplina della vigilanza sulle imprese di investimento tiene conto della rilevanza che l’inserimento delle stesse nell’ambito di un gruppo può determinare sulla sana e prudente gestione delle medesime e sulla loro stabilità. Del che abbiamo già preso atto quando abbiamo rilevato che l’autorizzazione all’esercizio dei servizi di investimento deve essere negata quando le relazioni di gruppo siano tali da pregiudicare la vigilanza sull’impresa di investimento. E il Testo Unico si preoccupa di stabilire quali siano le relazioni di gruppo che assumono rilevanza nella disciplina della vigilanza prudenziale sulla Sim, nonché i contenuti della vigilanza sull’intero gruppo di appartenenza di quest’ultima. Vengono considerati facenti parte dello stesso gruppo cui appartiene la Sim, i soggetti che la controllano, i soggetti che ne sono controllati nonché quelli che sono controllati dallo stesso soggetto che controlla la Sim (art. 11, 1° comma, lett. b), T.U. n. 58 del 1998) (e la nozione di controllo è quella fissata dall’art. 23 T.U. bancario). Nell’ambito del gruppo, così definito, vengono sottoposti a vigilanza, regolamentare, informativa e ispettiva, i soggetti che svolgono servizi di investimento, di gestione collettiva del risparmio o che esercitano attività alle stesse connesse o strumentali, intendendosi per tali, ai sensi dell’art. 59 T.U. bancario, quelle che hanno come oggetto l’assunzione di partecipazioni nonché quelle che svolgono una delle attività ammesse al mutuo riconoscimento in materia bancaria (prestiti, leasing, servizi di pagamento, emissione e gestione di carte di credito, consulenza finanziaria). Restano, dunque, esclusi da tale vigi-
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lanza i soggetti che svolgono attività industriale, comprese le imprese di assicurazione. Anche a questi soggetti, per altro, Banca d’Italia e Consob possono chiedere «le informazioni utili all’esercizio della vigilanza» sulle imprese di investimento e presso gli stessi soggetti possono effettuare ispezioni, ma al solo scopo di verificare l’esattezza dei dati e delle informazioni forniti dalla società capogruppo (art. 12, 5° comma, T.U. n. 58 del 1998). E il Testo Unico ha esplicitamente disciplinato la vigilanza regolamentare sul gruppo, come appena definito, facendo perno sul ruolo della società capogruppo. Più esattamente possono assumere tale ruolo una Sim, una società di gestione del risparmio o una società finanziaria (come sopra individuata) che assume il ruolo di referente della Banca d’Italia come autorità deputata alla vigilanza prudenziale. E nell’esercizio dei relativi poteri la Banca d’Italia può «impartire» disposizioni ai soggetti finanziari ricompresi nel gruppo aventi ad oggetto le materie che rientrano nell’ambito di tale tipo di vigilanza, ossia quelle relative all’adeguatezza patrimoniale, al contenimento del rischio, alle partecipazioni detenibili, all’organizzazione amministrativa e ai controlli interni (materie sulle quali ci intratterremmo in termini più analitici nel paragrafo successivo). La capogruppo poi «nell’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento» emana disposizioni alle componenti del gruppo di natura «finanziaria» (Sim, società di gestione del risparmio e società finanziarie come sopra definite) per l’esecuzione delle istruzioni impartite dalla Banca d’Italia. La vigilanza di gruppo attribuisce, dunque, alla capogruppo un potere di direzione e di coordinamento nei confronti delle componenti «finanziarie» del gruppo, ma tale potere trova il proprio fondamento e il proprio limite nelle esigenze della vigilanza prudenziale. Lo stesso pertanto potrà essere esercitato al solo scopo di dare attuazione alle direttive della Banca d’Italia e non potrà sacrificare l’interesse delle società che ne sono destinatarie a vantaggio dell’interesse del gruppo nel suo insieme e tanto meno della capogruppo. Almeno in linea di principio: la realtà probabilmente potrebbe essere diversa e portare ad un sacrificio, non legittimo, dell’interesse dei soci di minoranza della controllata o dei suoi creditori. Troveranno applicazione in tal caso le norme di diritto comune e in particolare le norme dettate dall’art. 2497 c.c. in tema di esercizio dell’attività di direzione e coordinamento di società. Quando una Sim fa parte di un gruppo bancario, alla stessa si applicano le norme dettate dal T.U. bancario per la vigilanza sui gruppi bancari. F) Sia i poteri di vigilanza informativa sia quelli di vigilanza regola-
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mentare possono essere esercitati anche nei confronti delle imprese di investimento comunitarie, nel presupposto che le norme di vigilanza abbiano una diretta incidenza sui rapporti con i clienti e, quindi, rientrino nella competenza del paese ospitante; il che, se è sempre e certamente vero per le regole di trasparenza e di correttezza dei comportamenti, può essere dubbio per alcune regole di vigilanza prudenziale, in linea di principio rimesse al paese di origine. E in quest’ultima prospettiva assumono notevole rilievo gli accordi, per lo scambio di informazioni e per il coordinamento delle rispettive attività, fra le autorità del paese ospitante e quelle del paese d’origine; accordi che possono anche prevedere «la delega reciproca di compiti di vigilanza» (art. 4, comma 2°-bis, T.U. n. 58 del 1998).
8. La vigilanza prudenziale sulle Sim Nel paragrafo precedente abbiamo ricordato che sui soggetti autorizzati all’esercizio dei servizi di investimento incombono non solo regole di trasparenza e di correttezza dei comportamenti, ma anche norme dirette ad assicurare il contenimento del rischio e la stabilità patrimoniale. E abbiamo anche precisato che queste norme si applicano sia alle Sim sia alle banche. Il fatto, per altro, che sulle banche insista già una vigilanza prudenziale, che tende a contenere i rischi e ad assicurare la stabilità patrimoniale, ha finito per rendere superflua la previsione di un corpo autonomo di norme dirette a conseguire i medesimi obiettivi: l’esercizio da parte della banca di servizi di investimento incide unicamente sui coefficienti patrimoniali che già alla stessa si applicano e che sono parametrati sui rischi connessi all’esercizio dell’attività bancaria. Non così invece per le Sim: il legislatore ha previsto norme prudenziali specifiche, rimettendone per altro la concreta determinazione al potere regolamentare della Banca d’Italia e della Consob. Su queste regole conviene ora soffermare l’attenzione, anche se alcune di esse sono già state ricordate quando abbiamo illustrato la disciplina dell’autorizzazione all’esercizio dei servizi di investimento (come ad es. la forma di società per azioni e i requisiti di onorabilità richiesta per gli esponenti aziendali e per i soci, che detengano una partecipazione superiore al cinque per cento delle azioni con diritto di voto, nonché di professionalità per i primi). Tra le norme di vigilanza prudenziale dettate per le Sim possono distinguersi le regole più strettamente afferenti l’adeguatezza patrimoniale,
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il contenimento del rischio e le partecipazioni detenibili e quelle dirette ad assicurare l’adeguatezza dell’organizzazione amministrativa e contabile e dei controlli interni. A) Nell’ambito del primo gruppo di norme rientrano anche quelle che prevedono un capitale versato minimo per le Sim. Il Regolamento 29 ottobre 2007, n. 1097 della Banca d’Italia, correlando tale capitale minimo alla rischiosità insita nel servizio di investimento per il quale viene chiesta l’autorizzazione, ha stabilito che lo stesso sia (Titolo II, cap. 1, n. 4): – di 120.000,00 euro per le Sim che intendono prestare esclusivamente il servizio di consulenza purché non assumano rischi in proprio; – di 385.000,00 euro per le Sim che intendono svolgere, anche congiuntamente, i servizi di collocamento senza preventiva sottoscrizione o acquisto a fermo ovvero assunzione di garanzia nei confronti dell’emittente, gestione su base individuale di portafogli di investimento per conto terzi, ricezione trasmissione di ordini nonché mediazione, a condizione che le Sim non detengano, neanche in via temporanea, le disponibilità liquide e gli strumenti finanziari della clientela e l’attività sia svolta senza assunzione di rischi da parte delle Sim; – di 1 milione di euro per le Sim che intendano svolgere, anche congiuntamente i predetti servizi in mancanza delle condizioni appena indicate nonché per le Sim che intendano svolgere i servizi di collocamento con preventiva sottoscrizione o acquisto a fermo ovvero assunzione di garanzia nei confronti dell’emittente e quelli di negoziazione per conto proprio o per conto terzi. Rientrano nell’ambito delle norme prudenziali ancorate al principio della esclusività dell’oggetto delle Sim le regole relative alle partecipazioni detenibili. Sottolineando che l’assunzione di partecipazioni anche di controllo in società finanziarie può costituire un momento importante della strategia imprenditoriale di un’impresa di investimento, il Regolamento 4 agosto 2000 della Banca d’Italia, consente alle Sim (Titolo III, cap. 1) di assumere partecipazioni anche di maggioranza in banche, in società finanziarie (intendendo per tali le Sim e le altre imprese di investimento comunitarie ed extracomunitarie, le società di gestione del risparmio, e società di partecipazione nonché gli intermediari finanziari disciplinati dagli artt. 106 ss. T.U. bancario e le imprese di assicurazione). Il Regolamento vieta invece alle Sim di assumere partecipazioni superiori al quindici per cento del capitale rappresentato da azioni con diritto di voto o che, comunque, assicurino il controllo in società non finanziarie, per evitare che venga aggirato il principio della esclusività dell’og-
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getto sociale ed anche per ribadire il principio di separatezza fra finanza ed industria; principio considerato utile per evitare un coinvolgimento delle Sim nella gestione dell’«industria» e quindi con probabili situazioni di conflitto fra l’interesse della Sim e quello dei clienti ai quali la stessa presta i servizi di investimento. Per quanto concerne l’adeguatezza della organizzazione amministrativa e contabile, e, in attuazione di quanto previsto dall’art. 6, comma 2°bis del T.U.F., la Banca d’Italia e la Consob, con Regolamento congiunto adottato il 29 ottobre del 2007, ed aggiornato con delibera 27 aprile 2017, hanno fissato le regole di organizzazione che debbono essere adottate dalle società di intermediazione mobiliare e dalle banche «limitatamente alla prestazione dei servizi di investimento» (art. 2, 1° comma, lett. d)). Questi i principi generali in materia di organizzazione dettati dall’art. 5 di tale Regolamento. «1. Gli intermediari si dotano di una organizzazione volta ad assicurare la sana e prudente gestione, il contenimento del rischio e la stabilità patrimoniale. 2. A tal fine, gli intermediari, nell’esercizio dei servizi, adottano, applicano e mantengono: a) solidi dispositivi di governo societario, ivi compresi processi decisionali e una struttura organizzativa che specifichino in forma chiara e documentata i rapporti gerarchici e la suddivisione delle funzioni e delle responsabilità; b) un efficace sistema di gestione del rischio dell’impresa; c) misure che assicurino che i soggetti rilevanti conoscano le procedure da seguire per il corretto esercizio delle proprie responsabilità; d) idonei meccanismi di controllo interno volti a garantire il rispetto delle decisioni e delle procedure a tutti i livelli dell’intermediario; e) politiche e procedure volte ad assicurare che il personale sia provvisto delle qualifiche, delle conoscenze e delle competenze necessarie per l’esercizio delle responsabilità loro attribuite; f) a tutti i livelli pertinenti, un sistema efficace di segnalazione interna e di comunicazione delle informazioni; g) sistemi e procedure diretti a conservare registrazioni adeguate e ordinate dei fatti di gestione dell’intermediario e della sua organizzazione interna; h) criteri e procedure volti a garantire che l’affidamento di funzioni multiple ai soggetti rilevanti non impedisca e non sia tale da potere probabilmente impedire loro di svolgere in modo adeguato e professionale una qualsiasi di tali funzioni;
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i) procedure e sistemi idonei a tutelare la sicurezza, l’integrità e la riservatezza delle informazioni, tenendo conto della natura delle informazioni medesime; l) politiche, sistemi, risorse e procedure per la continuità e la regolarità dei servizi volte a: i) assicurare la capacità di operare su base continuativa; ii) limitare le perdite in caso di gravi interruzioni dell’operatività; iii) preservare i dati e le funzioni essenziali; iv) garantire la continuità dei servizi in caso di interruzione dei sistemi e delle procedure. Qualora ciò non sia possibile, permettere di recuperare tempestivamente i dati e le funzioni e di riprendere tempestivamente i servizi; m) politiche e procedure contabili che consentano di fornire tempestivamente alle autorità di vigilanza documenti che presentino un quadro fedele della posizione finanziaria ed economica e che siano conformi a tutti i principi e a tutte le norme anche contabili applicabili. 3. Gli intermediari controllano e valutano con regolarità l’adeguatezza e l’efficacia dei requisiti previsti dal presente articolo e adottano le misure adeguate per rimediare a eventuali carenze». B) Il Regolamento in questione dedica particolare attenzione alle regole organizzative degli intermediari anche, se non soprattutto, a tutela degli interessi degli investitori. In questa prospettiva vanno collocate le norme che impongono regole organizzative per l’identificazione e la gestione dei conflitti di interesse. Così, dopo aver stabilito che «gli intermediari adottano ogni misura ragionevole per identificare i conflitti di interesse» (art. 23, 1° comma), lo stesso Regolamento individua una serie di ipotesi in cui tale conflitto deve considerarsi esistente, ossia quando lo stesso intermediario o un soggetto allo stesso legato da un rapporto di controllo, e un componente degli organi aziendali o dipendenti dello stesso: a) possano realizzare un guadagno finanziario o evitare una perdita a danno del cliente; b) siano portatori di un interesse nel risultato del servizio prestato al cliente, distinto da quello del cliente medesimo; c) abbiano un incentivo a privilegiare gli interessi di clienti diversi da quello a cui il servizio è prestato; d) svolgano la medesima attività del cliente; e) ricevano o possano ricevere da una persona diversa dal cliente, in relazione con il servizio a questi prestato, un incentivo, sotto forma di de-
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naro, beni o servizi, diverso dalle commissioni o dalle competenze normalmente percepite per tale servizio (art. 24). La politica di gestione dei conflitti deve (art. 25) comportare l’adozione di procedure volte a: «a) impedire o controllare lo scambio di informazioni tra i soggetti rilevanti coinvolti in attività che comportano un rischio di conflitto di interesse, quando lo scambio di tali informazioni possa ledere gli interessi di uno o più clienti; b) garantire la vigilanza separata dei soggetti rilevanti le cui principali funzioni coinvolgono interessi potenzialmente in conflitto con quelli del cliente per conto del quale un servizio è prestato; c) eliminare ogni connessione diretta tra le retribuzioni dei soggetti rilevanti che esercitano in modo prevalente attività idonee a generare tra loro situazioni di potenziale conflitto di interesse; d) impedire o limitare l’esercizio di un’influenza indebita sullo svolgimento, da parte di un soggetto rilevante, di servizi o attività di investimento o servizi accessori; e) impedire o controllare la partecipazione simultanea o successiva di un soggetto rilevante a distinti servizi o attività di investimento o servizi accessori, quando tale partecipazione possa nuocere alla gestione corretta dei conflitti di interesse». Come si può notare le regole in esame rimettono, secondo il modello della vigilanza per principi, all’intermediario il compito di scegliere, in concreto, le modalità organizzative ritenute idonee a raggiungere lo scopo desiderato. In questa prospettiva è stata eliminata una specifica previsione contenuta nel Regolamento della Banca d’Italia 4 agosto 2000 che disciplinava l’organizzazione degli intermediari: quella che imponeva di separare l’attività di gestione dei portafogli di investimento dagli altri servizi di investimento («muraglia cinese»). Ma le norme di carattere generale in materia di conflitti di interesse potranno anche imporre la conservazione di quella separazione, come di altre. C) Il Testo Unico cerca anche di dare concreta attuazione al principio di separatezza dei patrimoni e, comunque, di evitare che la Sim «cada in tentazione», imponendo modalità particolari per la custodia degli strumenti finanziari e del danaro dei clienti. La Sim non può detenere, neanche temporaneamente, il danaro e gli strumenti finanziari dei clienti: il primo deve necessariamente essere de-
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positato presso una banca, mentre i secondi possono essere «sub-depositati» o presso un altro intermediario abilitato a detenere strumenti finanziari o presso gli organismi di deposito centralizzato (Regolamento della Banca d’Italia 1° luglio 1998). I provvedimenti sulla dematerializzazione a suo tempo ricordati hanno, per altro, modificato radicalmente quest’ultima previsione nel momento in cui hanno dematerializzato gli strumenti finanziari quotati. D) Sono strumenti indiretti di vigilanza regolamentare le norme che disciplinano l’assunzione di partecipazioni in una Sim. Già abbiamo visto che in sede di autorizzazione la Consob deve verificare l’esistenza dei requisiti di onorabilità dei titolari di partecipazioni «rilevanti» (ossia superiori al dieci per cento del capitale rappresentato da azioni con diritto di voto), e può negare tale autorizzazione se «la qualità» degli stessi appare di impedimento ad una sana e prudente gestione della società. Anche la circolazione delle partecipazioni rilevanti è sottoposta a controllo. Più esattamente chiunque, a qualsiasi titolo, intenda acquisire o cedere, direttamente o indirettamente, una partecipazione rilevante nel capitale di una Sim, deve darne preventiva comunicazione alla Banca d’Italia. La comunicazione preventiva è dovuta anche per gli acquisti e le cessioni da cui derivino variazioni, in aumento o in diminuzione, della partecipazione quando ciò comporti il superamento delle soglie partecipative stabilite ai sensi del 5° comma dell’art. 15 del T.U.F., ovvero l’acquisizione o la perdita del controllo della società. La Banca d’Italia, entro novanta giorni dalla comunicazione, può vietare l’acquisizione delle partecipazioni quando ritenga che il potenziale acquirente non sia idoneo ad assicurare una gestione sana e prudente della società o a consentire l’effettivo esercizio della vigilanza. La mancata comunicazione comporta la sospensione dei diritti di voto e degli altri diritti che consentono di influire sulla società, inerenti alle azioni eccedenti le soglie che comportano l’obbligo di comunicazione.
9. La disciplina della crisi delle imprese di investimento A) L’ordinamento non prevede alcuna disciplina particolare per la crisi di una banca autorizzata a svolgere servizi di investimento: la stessa rimarrà sottoposta alle norme dettate dal Titolo IV del Testo Unico bancario per la generalità degli enti creditizi così come modificato dai D.Lgs. 16 novembre 2015, nn. 180 e 181.
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Il legislatore ha invece dettato una disciplina speciale per le società di intermediazione mobiliare. Sono inoltre previste norme per le situazioni di crisi nelle quali versino le imprese di investimento comunitarie (e per questo limitato profilo anche per le banche comunitarie) e per quelle extracomunitarie. B) Nell’ipotesi in cui «risultino» gravi irregolarità nell’amministrazione ovvero gravi violazioni delle disposizioni legislative, amministrative o statutarie, e «ricorrano situazioni di pericolo per i clienti o per i mercati», il presidente della Consob può disporre, in via d’urgenza, la sospensione degli organi di amministrazione della Sim e procedere alla nomina di un commissario che ne assume la gestione (cfr. art. 7-sexies, T.U. n. 58 del 1998). Nel momento in cui il commissario cessa dalle proprie funzioni, e l’autorità di controllo non abbia assunto provvedimenti (amministrazione straordinaria o liquidazione coatta) che comportino lo scioglimento del rapporto di amministrazione, gli amministratori sospesi riassumono le proprie funzioni, sempreché l’assemblea non abbia provveduto nel frattempo alla loro sostituzione. Il provvedimento cautelare in esame può essere adottato anche nei confronti delle imprese di investimento extracomunitarie, ma non anche nei confronti di quelle comunitarie. A queste ultime, per altro, sia la Banca d’Italia sia la Consob «possono ordinare» di «porre termine» alle irregolarità o alle violazioni di norme nelle quali siano incorse, dandone comunicazione all’autorità di vigilanza del paese d’origine per l’assunzione dei provvedimenti necessari. Nell’ipotesi in cui questi non vengano adottati o vengano giudicati non adeguati, l’autorità di vigilanza italiana che ha avviato il procedimento può vietare all’impresa di investimento di intraprendere nuove operazioni e può anche imporre la chiusura della succursale italiana, quando siano state violate le norme alle quali l’impresa avrebbe dovuto attenersi nei rapporti con i clienti, o quando le irregolarità commesse possano pregiudicare gli interessi degli investitori e il buon funzionamento dei mercati (cfr. art. 52, T.U. n. 58 del 1998). C) La legge n. 1 del 1991 non aveva sottratto le società di intermediazione mobiliare alle procedure concorsuali di diritto comune. E sotto questo profilo le Sim si trovavano in una situazione piuttosto eccentrica nell’ambito degli operatori del mercato finanziario, ai quali normalmente non si applica la disciplina concorsuale comune, essendo sottoposti alle diverse procedure dell’amministrazione straordinaria e della liquidazione coatta.
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Il D.Lgs. n. 415 del 1996 eliminò questa «anomalia», sottoponendo anche le Sim a queste ultime procedure, con esclusione di quelle di diritto comune e il Testo Unico (art. 56) ha fatto propria la stessa soluzione. D) Così la Banca d’Italia, di propria iniziativa o su proposta, della Consob, può sottoporre ad amministrazione straordinaria una Sim, con scioglimento degli organi amministrativi e di controllo, 1. quando risultino gravi irregolarità nell’amministrazione ovvero gravi violazioni delle disposizioni legislative, amministrative o statutarie che ne regolano l’attività; 2. quando siano previste gravi perdite del patrimonio o 3. quando lo scioglimento sia richiesto con istanza motivata dagli organi amministrativi o dall’assemblea straordinaria della Sim o dal commissario provvisorio nominato dal presidente della Consob in via cautelare ai sensi dell’art. 7-sexies del T.U.F. La direzione della procedura, anche quando sia stata aperta su proposta della Consob, è riservata alla Banca d’Italia e trovano applicazione le norme dettate dal Testo Unico bancario per l’amministrazione straordinaria delle banche. A differenza, per altro, di quanto previsto per queste ultime, la sottoponibilità delle Sim all’amministrazione straordinaria non preclude l’applicabilità alle stesse del procedimento previsto dall’art. 2409 c.c. Quando ricorrono i presupposti richiesti per la sottoposizione delle Sim all’amministrazione straordinaria, la Banca d’Italia, sentita la Consob, può anche limitarsi alla rimozione di tutti i componenti degli organi della Sim, convocando l’assemblea per la nomina dei nuovi componenti di tali organi (art. 56-bis del T.U.F.). E) Nell’ipotesi in cui le irregolarità o le violazioni «siano di eccezionale gravità», il Ministero dell’Economia e delle Finanze, sempre su proposta o della Banca d’Italia o della Consob, può disporre la liquidazione coatta amministrativa della Sim; procedura disciplinata dalle stesse norme che si applicano alla liquidazione coatta delle banche e che si svolge sotto l’esclusiva direzione della Banca d’Italia. F) «Il rilascio dell’autorizzazione alla prestazione di servizi di investimento è subordinato all’adesione a un sistema di indennizzo a tutela degli investitori riconosciuto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, sentite la Banca d’Italia e la Consob» (art. 59, T.U. n. 58 del 1998). La tutela delle ragioni degli investitori è assicurata non soltanto dalle
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norme di vigilanza prudenziale, alle quali devono uniformarsi le Sim e le banche che svolgono servizi di investimento, ma anche dalla adesione di queste ad un sistema, mutualistico o assicurativo, che consenta di offrire agli investitori una protezione ulteriore, e più esattamente un indennizzo, nell’ipotesi in cui la Sim o la banca si rivelino incapaci di soddisfare le ragioni di credito o il diritto alla restituzione dei clienti. Di qui la previsione, del resto vigente anche in altri segmenti del mercato finanziario, come quello bancario, dell’obbligo di aderire ad un sistema di indennizzo come condizione necessaria per poter procedere allo svolgimento di servizi di investimento. Tale sistema è finanziato dagli stessi operatori, ma deve uniformarsi, nella sua organizzazione e nel suo funzionamento, alle norme stabilite dal Ministro dell’Economia e delle Finanze, dal quale deve essere anche «riconosciuto», attraverso un provvedimento che ne accerti l’attitudine a perseguire le funzioni di indennizzo che allo stesso vengono affidate. I sistemi di indennizzo costituiscono uno strumento di tutela degli investitori che deve trovare un naturale coordinamento con l’attività di vigilanza e con lo svolgimento delle procedure di liquidazione coatta: coordinamento affidato dal legislatore alla Banca d’Italia, in quanto custode della «stabilità degli operatori». Ai sistemi di indennizzo «italiani», possono aderire (cfr. art. 60, T.U. n. 58 del 1998) anche le succursali delle imprese di investimento e delle banche comunitarie, «al fine di integrare la tutela offerta dal sistema di indennizzo del paese d’origine», limitatamente all’attività svolta in Italia, e ciò allo scopo di evitare che un più alto grado di protezione offerto da un sistema di indennizzo riconosciuto in Italia possa costituire uno strumento capace di falsare la concorrenza fra Sim e banche italiane, da un lato, e imprese di investimento e banche comunitarie, dall’altro. Con decreto 30 giugno 1998, il Ministro dell’Economia e delle Finanze ha approvato lo statuto e il regolamento operativo del «Fondo nazionale di garanzia per la tutela dei crediti vantati dai clienti nei confronti delle società di intermediazione mobiliare e degli altri soggetti autorizzati all’esercizio di attività di intermediazione mobiliare». Il fondo è dotato di «personalità giuridica privata» e allo stesso possono aderire tutti i soggetti autorizzati a svolgere servizi di investimento. Ha struttura associativa e funzione consortile: i suoi organi sono l’assemblea (che nomina il comitato di gestione e due dei tre componenti il collegio sindacale, essendo uno di essi nominato dal Ministro dell’Economia e delle Finanze, determina i contributi che debbono versare gli aderenti e delibera le modificazioni statutarie oltre ad approvare il rendiconto della gestione), il comitato di gestione (al quale spettano tutti i poteri per
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l’amministrazione e il funzionamento del Fondo) e il collegio sindacale, con funzioni di controllo. La copertura finanziaria delle spese di funzionamento e degli interventi a favore dei clienti è assicurata dai contributi degli aderenti calcolati con riferimento alla dimensione della attività; dimensione determinata con criteri diversi per i vari servizi. Il Fondo non interviene per il risanamento di imprese di investimento in crisi, ma soltanto per indennizzare i clienti in costanza di liquidazione coatta.
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1. Investitori istituzionali e organismi di investimento collettivo del risparmio
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Capitolo V
Gli investitori istituzionali SOMMARIO: 1. Investitori istituzionali e organismi di investimento collettivo del risparmio. – 2. La società di gestione del risparmio. – 3. I fondi comuni di investimento. – 3.1. Premesse. – 3.2. L’istituzione del fondo comune. – 3.3. La gestione del fondo. – 3.4. Il depositario. – 3.5. Contabilità e pubblicità del fondo. – 3.6. I diritti dei partecipanti. – 3.7. La qualificazione giuridica del fondo. – 3.8. Tipologia dei fondi. – 4. Le società di investimento a capitale variabile (SICAV). – 4.1. Costituzione e statuto. – 4.2. Capitale, patrimonio e azioni. – 4.3. L’assemblea dei soci. – 4.4. La gestione del patrimonio. – 4.5. Fusione, scissione ed estinzione. – 5. Le società di investimento a capitale fisso (SICAF). – 6. Le strutture master-feeder. – 7. I fondi pensione. Fondi chiusi e fondi aperti. – 7.1. I fondi pensione chiusi. – 7.1.1. La gestione delle risorse. – 7.1.2. La vigilanza sui fondi e sui gestori. – 7.2. I fondi aperti.
1. Investitori istituzionali e organismi di investimento collettivo del risparmio Abbiamo già ricordato che gli investitori istituzionali di mercato mobiliare si caratterizzano per la presenza di una gestione in monte del risparmio raccolto ed investito in strumenti finanziari; gestione in monte che si contrappone alle gestioni, individuali, di portafogli di investimento, considerate, appunto, un «servizio di investimento». E mentre nelle gestioni in monte il singolo risparmiatore è «proprietario» di una frazione di un patrimonio «comune» alla generalità dei risparmiatori coinvolti nella gestione, nelle gestioni personalizzate non vi è alcuna comunicazione fra i portafogli di investimento dei vari risparmiatori «gestiti». Come è facile immaginare, le gestioni in monte possono anche riguardare operazioni di investimento in beni diversi dagli strumenti finanziari; possono concernere investimenti in crediti, in altri beni mobili o anche in beni immobili. Il legislatore ha preso atto di questa possibilità e ha disciplinato le gestioni in monte anche quando le stesse non abbiano come «oggetto» l’investimento in strumenti finanziari.
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Gli investitori istituzionali
Più esattamente il legislatore [art. 1, 1° comma, lett. n), T.U. n. 58 del 1198], come modificato dal D.Lgs. 4 marzo 2014, n. 44, di attuazione della direttiva 2011/61/UE dell’8 giugno 2011 sugli “Alternative Investment Fund Managers” (la “direttiva AIFM”) definisce la nozione di “gestione collettiva del risparmio” identificandola “nel servizio che si realizza attraverso: «la gestione di OICR e dei relativi rischi». Secondo quanto previsto dal Regolamento della Banca d’Italia del 19 gennaio 2015 (cap. II, Sezione II) «Sotto il primo profilo, il servizio di gestione si connota principalmente per la finalità di valorizzare un dato patrimonio, perseguita mediante il compimento di una serie di atti unitariamente volti al conseguimento di un risultato utile all’attività di investimento e disinvestimento dei beni in cui è investito il patrimonio», mentre, con riferimento al secondo aspetto, «Per quanto attiene alla gestione dei rischi, al gestore è richiesto di valutare, prima dell’investimento e nel continuo, la coerenza delle singole operazioni e del portafoglio nel suo complesso con gli obiettivi della gestione e con i limiti prudenziali». A sua volta l’art. 1, 1° comma, lett. k) identifica la nozione di OICR come «l’organismo istituito per la prestazione del servizio di gestione collettiva del risparmio, il cui patrimonio è raccolto tra una pluralità di investitori mediante l’emissione e l’offerta di quote o azioni, gestito in monte nell’interesse degli investitori e in autonomia dai medesimi nonché investito in strumenti finanziari, crediti, inclusi quelli erogati, a favore di soggetti diversi da consumatori, a valere sul patrimonio dell’OICR, partecipazioni o altri beni mobili o immobili, in base a una politica di investimento predeterminata». Il legislatore definisce poi fondo comune di investimento [art. 1, 1° comma, lett. j), T.U. n. 58 del 1998], l’OICR costituito in forma di patrimonio autonomo, suddiviso in quote, istituito e gestito da un gestore indipendentemente dal fatto che l’investimento debba avvenire in strumenti finanziari o in altri beni. Analogamente individua le SICAV, nelle società aventi per oggetto esclusivo l’investimento collettivo del patrimonio raccolto mediante l’offerta al pubblico di proprie azioni [art. 1, 1° comma, lett. i), T.U. n. 58 del 1998], indipendentemente dai beni nei quali viene investito il risparmio così raccolto e le SICAF, società per azioni aventi lo stesso oggetto delle SICAV, ma a capitale fisso e non variabile come queste ultime. In realtà, l’impianto complessivo della normativa ha subito alcune rilevanti modifiche, per effetto del recepimento della citata direttiva AIFM. Con tale provvedimento si è inteso infatti regolare in maniera più stringente l’attività dei fondi di investimento c.d. “alternativi” (FIA), cioè che non rientrano nella previsione della direttiva 2009/65/CE in materia di Or-
1. Investitori istituzionali e organismi di investimento collettivo del risparmio
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ganismi di Investimento Collettivo in Valori Mobiliari (OICVM). In proposito, la tecnica normativa prescelta prevede che la direttiva AIFM si applichi direttamente ai gestori di fondi di investimento (i GEFIA), mentre i FIA da essi gestiti rimangono soggetti alle rispettive normative nazionali, e ciò in quanto la grande eterogeneità dei FIA nei vari Stati membri avrebbe reso molto difficile introdurre una disciplina armonizzata a livello europeo. In proposito, fra le modifiche più importanti apportate con il D.Lgs. 4 marzo 2014, n. 44 deve segnalarsi il venir meno della possibilità per le SGR di prestare anche disgiuntamente le attività di gestione e di promozione dei fondi comuni, con un superamento del modello italiano che prevedeva la possibile separazione fra attività di promozione e gestione; tale schema si presenta infatti ora incompatibile con l’art. 5, par. 1, direttiva AIFM, secondo cui «Gli Stati Membri provvedono affinché ciascun FIA gestito nell’ambito della presente direttiva abbia un GEFIA unico, responsabile del rispetto della presente direttiva». Rimane pertanto possibile, almeno per i FIA, solo la delega di specifiche funzioni, a condizione che ciò non determini uno svuotamento sostanziale dell’attività del delegante (art. 33, 4° comma, T.U. n. 58 del 1998), trasformandolo in una “società fantasma” (art. 57, Regolamento Banca d’Italia-Consob 19 gennaio 2015, e art. 82, Regolamento UE n. 231/2013 del 22 marzo 2013). Il legislatore riserva la prestazione del servizio di gestione collettiva del risparmio, come sopra definita, alle «società di gestione del risparmio», alle SICAV e alle SICAF, e ai gestori di fondi di investimento alternativi (GEFIA) (art. 32-quater, 1° comma, T.U. n. 58 del 1998), con esclusione, quindi, sia delle imprese di investimento sia delle banche. Ci occuperemo nelle pagine che seguono delle SGR e dei fondi di investimento dalle stesse gestiti e successivamente delle SICAV e delle SICAF. Ancora una precisazione: come vedremo le società di gestione del risparmio possono istituire e gestire una pluralità di fondi comuni e, quindi, possono gestire anche una pluralità di organismi collettivi di investimento del risparmio (OICR), dal momento che ogni fondo costituisce un distinto OICR. Avendo constatato che le direttive comunitarie adottano le nozioni di «organismo di investimento collettivo del risparmio» (OICR) potrebbe sembrare inutile e artificioso ricorrere, come qui si fa, alla nozione di investitore istituzionale: in realtà questa scelta sembra giustificata dal fatto che nella nozione di OICR non rientrano i fondi pensione, che dovrebbero diventare anche nel nostro paese uno dei momenti essenziali del mercato mobiliare (e che non rientrano neppure nella nozione di OICVM).
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A dire il vero, nell’ambito degli investitori istituzionali potrebbero, a buon diritto, essere ricomprese anche le imprese di assicurazione, ma delle stesse non possiamo occuparci in questa sede.
2. La società di gestione del risparmio A) La disciplina della società di gestione del risparmio (SGR) rappresenta un’importante innovazione introdotta, nell’ordinamento degli investitori istituzionali, dal T.U. n. 58 del 1998. E il carattere innovativo di questa disciplina si coglie almeno sotto due profili: quello della tecnica legislativa e quello dell’ambito operativo dei «gestori in monte». Sotto il primo profilo è necessario ricordare che il nostro ordinamento aveva introdotto specifici modelli, legislativamente tipizzati, di fondi comuni e, in particolare, aveva disciplinato i fondi comuni di investimento mobiliare aperti (legge n. 77 del 1983) e i fondi comuni di investimento mobiliare chiusi (legge 14 agosto 1993, n. 344), imponendo, legislativamente, regole particolari per le rispettive gestioni. Seguendo principi di despecializzazione legislativa di questa categoria di investitori istituzionali e di appropriate forme di delegificazione, che evitassero le rigidità imposte dalla fonte di rango legislativo per le regole di gestione, il Testo Unico ha previsto un modello organizzativo unitario minimo, demandando la disciplina delle modalità di gestione ad un Regolamento del Ministro dell’Economia e delle Finanze, da emanarsi sentite la Banca d’Italia e la Consob (D.M. 24 maggio 1999, n. 228 poi sostituito dal D.M. 5 marzo 2015, n. 30), e la disciplina della vigilanza ad un Regolamento della Banca d’Italia, adottato sentita la Consob (originariamente contenuta nel Regolamento 1° luglio 1998 successivamente modificata dal Regolamento del Governatore della Banca d’Italia 14 aprile 2005 ed ora organicamente dettata dal provvedimento 19 gennaio 2015 della Banca d’Italia. Il legislatore si limita a ribadire la struttura trilaterale del fondo, imperniata sulla società di gestione, sulla banca depositaria e sui diritti, essenzialmente all’informazione e alla liquidazione delle quote, dei partecipanti; la restante disciplina dei fondi è rimessa alla norma regolamentare e, nell’ambito fissato da questa, all’autonomia privata. Ma, come si accennava, la delegificazione non è l’unica novità introdotta dal Testo Unico in questa materia. Il Testo Unico consente infatti alle società di gestione non solo di gestire fondi comuni ma anche di a) prestare il servizio di gestione di portafogli; b) istituire e gestire fondi pensione; c) svolgere le attività connesse o strumentali; d) prestare i servizi
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accessori di custodia e amministrazione di strumenti finanziari; e) prestare il servizio di consulenza in materia di investimenti; f) commercializzare quote o azioni di OICR gestiti da terzi; g) prestare il servizio di ricezione e trasmissione di ordini, qualora autorizzate a prestare il servizio di gestione di FIA; non solo ma il Testo Unico consente che la società di gestione del risparmio possa esercitare anche il solo «servizio di gestione su base individuale di portafogli di investimento». Più in generale, è stata disegnata la figura del «gestore unico», ossia di un intermediario che può esercitare, ad un tempo, sia gestioni in monte sia gestioni personalizzate, pur rimanendo distinte le discipline previste per l’esercizio delle due diverse attività. Il Testo Unico consente inoltre alle SGR di esercitare l’attività di consulenza in investimenti e la commercializzazione di quote o azioni di OICR propri e di terzi nonché il servizio di ricezione e trasmissione di ordini. Potranno così essere conseguite quelle economie, di scala e di scopo, necessarie per favorire l’efficienza nella gestione del risparmio e lo sviluppo degli investitori istituzionali, a loro volta indispensabili sia per la crescita del mercato mobiliare sia per consentire un più penetrante controllo sulla gestione degli emittenti dei titoli ricompresi nei loro portafogli. B) L’esercizio del servizio di gestione collettiva del risparmio e di quello di gestione di portafogli su base individuale da parte della società di gestione deve essere previamente autorizzato dalla Banca d’Italia, sentita la Consob. L’autorizzazione, cui è subordinato l’esercizio dell’attività ma non la costituzione della società, è dovuta quando: a) sia adottata la forma di società per azioni; b) la sede legale e la direzione generale della società siano situate nel territorio della Repubblica (per evitare la scelta dell’ordinamento italiano ritenuto, per ipotesi, meno rigoroso); c) il capitale sociale versato sia di ammontare non inferiore a quello determinato in via generale dalla Banca d’Italia (individuato in un milione di euro dal Regolamento emanato dalla Banca d’Italia l’8 maggio 2012); d) i soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo abbiano i requisiti di professionalità, indipendenza e onorabilità e i partecipanti al capitale quelli di onorabilità indicati dal Ministro dell’Economia e delle Finanze (requisiti che i decreti 11 novembre 1998, n. 468 e 11 novembre 1998, n. 469 hanno individuato negli stessi termini di quelli richiesti per le Sim e a suo tempo illustrati); e) la struttura del gruppo di cui è parte la società non sia tale da pregiudicare l’effettivo esercizio della vigilanza sulla società stessa;
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f) venga presentato, unitamente all’atto costitutivo e allo statuto, un programma concernente l’attività iniziale, nonché una relazione sulla struttura organizzativa (e dovrà essere individuata la tipologia di fondi che la società intende istituire e le modalità di svolgimento dell’attività gestoria precisando se la stessa verrà svolta direttamente o delegata ad altra società di gestione); g) la denominazione sociale contenga le parole «società di gestione del risparmio». L’autorizzazione è negata quando dalla verifica delle condizioni appena indicate non risulta garantita la sana e prudente gestione. C) Le società di gestione del risparmio sono iscritte in un apposito Albo tenuto dalla Banca d’Italia (art. 35, T.U. n. 58 del 1998), con separate indicazioni delle società di gestione armonizzate. Sulle stesse insiste la vigilanza della Banca d’Italia, per quanto concerne i profili di contenimento del rischio e di stabilità patrimoniale e di sana e prudente gestione, e della Consob, per quanto attiene alla trasparenza e alla correttezza dei comportamenti. Ma è opportuno soffermarci un attimo su entrambi i gruppi di norme. A cominciare da quelle che impongono alla società di gestione trasparenza e correttezza dei comportamenti. Dobbiamo, anzitutto, ricordare che il collocamento presso il pubblico di quote di fondi comuni da parte di una società di gestione del risparmio costituisce una forma di offerta al pubblico di prodotti finanziari e alla stessa, pertanto, si applicano le norme generali dettate per questo tipo di appello al pubblico risparmio e a suo tempo illustrate (v. art. 20 del Regolamento Emittenti). In particolare il prospetto informativo deve essere pubblicato entro il giorno precedente quello dal quale è possibile aderire al fondo e la società di gestione deve procedere a rendere pubbliche tutte le modificazioni intervenute sui fatti illustrati nel prospetto medesimo. Il Regolamento Intermediari impone poi alla società di gestione particolari doveri di comportamento, doveri, in verità, non molto diversi da quelli previsti per la prestazione dei servizi di investimento. Più esattamente la società di gestione, nello svolgimento del servizio di gestione collettiva del risparmio, deve, nell’interesse dei partecipanti agli organismi di investimento collettivo e dell’integrità del mercato mobiliare (cfr. art. 65 Regolamento Intermediari): operare in modo indipendente e coerente con i principi e le regole generali del Testo Unico e nel rispetto degli obiettivi di investimento indicati nel prospetto informativo degli OICR gestiti; astenersi da ogni comportamento che possa avvantaggiare
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un patrimonio gestito, ivi inclusi quelli gestiti nell’ambito della prestazione del servizio di gestione individuale di portafogli per conto terzi, a danno di un altro; acquisire una conoscenza adeguata degli strumenti finanziari, dei beni e degli altri valori in cui è possibile investire il patrimonio gestito; operare al fine di contenere i costi a carico degli OICR gestiti e di ottenere dal servizio svolto il miglior risultato possibile, anche in relazione agli obiettivi di investimento degli stessi OICR. Le società di gestione devono poi vigilare «per l’individuazione dei conflitti di interesse»; esse possono, per altro, effettuare operazioni in cui hanno direttamente o indirettamente un interesse in conflitto, anche derivante da rapporti di gruppo o da rapporti di affari propri o di società del gruppo, a condizione, tuttavia, che sia comunque assicurato un equo trattamento ai vari fondi gestiti. Per quanto concerne le regole prudenziali (contenute nel Regolamento della Banca d’Italia 8 maggio 2012), abbiamo già ricordato che le società di gestione debbono avere un capitale minimo versato di almeno 1 milione di euro; esse debbono poi possedere un patrimonio di vigilanza determinato in funzione del tipo di fondo gestito e della dimensione dello stesso. Le società di gestione possono liberamente assumere partecipazioni nel settore bancario, finanziario e assicurativo, mentre «resta esclusa la possibilità di acquisire interessenze in società che operano in settori non finanziari»; ma le partecipazioni, non detratte dal patrimonio di vigilanza, non possono eccedere il 50 per cento del medesimo patrimonio. Rientra nell’ambito della vigilanza prudenziale anche il potere, attribuito alla Banca d’Italia, che peraltro deve esercitarlo sentita la Consob, di autorizzare le operazioni di fusione e scissione di società di gestione del risparmio. Secondo il criterio già illustrato a proposito della Sim, alla Banca d’Italia compete poi il compito di far osservare le norme che la stessa ha dettato, così come alla Consob compete la vigilanza sul rispetto delle norme dalla medesima emanate. E, a tal fine, entrambe le Autorità hanno poteri di vigilanza ispettiva e informativa di contenuto identico a quello dei poteri loro attribuiti sulle Sim. D) Nei confronti delle società di gestione del risparmio possono essere assunti gli stessi provvedimenti ingiuntivi e cautelari (intimazione a porre termine alle irregolarità, divieto di intraprendere nuove operazioni, sospensione degli organi amministrativi) che possono essere adottati nei confronti delle Sim (v. artt. 51 e 53, T.U. n. 58 del 1998) e che sono stati in precedenza illustrati. E, come le Sim, esse possono essere sottopo-
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ste ad amministrazione straordinaria e a liquidazione coatta amministrativa nelle ipotesi in cui le prime possono esserlo.
3. I fondi comuni di investimento 3.1. Premesse Abbiamo già ricordato che il Testo Unico si limita a fissare le linee fondamentali della disciplina dei fondi comuni di investimento, lasciando ad un Regolamento del Ministro dell’Economia e delle Finanze (Regolamento emanato con decreto 5 marzo 2015, n. 30) la tipizzazione dei fondi. Abbiamo anche sottolineato che lo stesso Testo Unico non limita agli strumenti finanziari i beni nei quali il patrimonio del fondo può essere investito e il Regolamento ministeriale precisa, anzi, che tale patrimonio, oltre che in strumenti finanziari, quotati e non quotati, può essere investito in: «depositi bancari di denaro», «beni immobili, diritti reali immobiliari e partecipazioni in società immobiliari», «crediti e titoli rappresentativi di crediti», e in «altri beni per i quali esiste un mercato e che abbiano un valore determinabile con certezza con una periodicità almeno semestrale» (art. 4, 1° comma). E, naturalmente, la natura dei beni nei quali può essere investito il patrimonio del fondo incide sui criteri e sui vincoli ai quali deve attenersi la società di gestione nella sua attività di investimento del patrimonio raccolto e sulle norme prudenziali di contenimento e di frazionamento del rischio fissate dalla Banca d’Italia, a norma dell’art. 6, 1° comma, lett. c), T.U. n. 58 del 1998. Così, ad es., le regole per la valutazione del patrimonio del fondo e, quindi, delle quote dei partecipanti saranno diverse a seconda che lo stesso sia investito in titoli quotati o in titoli non quotati, in crediti o in beni immobili (FIA chiuso immobiliare). Un secondo elemento che incide sulla disciplina del fondo è rappresentato dalla sua natura di fondo aperto o di fondo chiuso, caratterizzandosi il primo per il diritto dei partecipanti al rimborso immediato e in ogni tempo del valore della quota, ed il secondo per il fatto che il partecipante non ha tale diritto, potendo egli chiedere il rimborso solo dopo un certo tempo (ad es.: 5 anni) dalla sottoscrizione delle quote. È abbastanza evidente, infatti, che il fondo aperto ha esigenze di liquidità sconosciute al fondo chiuso, al quale pertanto sono consentiti investimenti dotati anche di un minor grado di liquidabilità.
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D’altro canto, la natura economica del fondo (aperto o chiuso) non incide solo sulle regole di gestione, ma anche sulla disciplina delle quote di partecipazione, in particolare sull’obbligo di un’eventuale loro quotazione in un mercato regolamentato: quotazione inutile nel caso dei fondi aperti, potendo il risparmiatore liquidare il proprio investimento attraverso il rimborso delle quote; quotazione opportuna invece nel caso dei fondi chiusi, per i quali la liquidità non può essere assicurata dal rimborso, posposto nel tempo, ma deve esserlo attraverso la vendita del certificato rappresentativo della quota (art. 39, 2° comma, lett. c), T.U. n. 58 del 1998. Ma, al di là di queste innegabili differenze, i fondi comuni di investimento presentano alcune caratteristiche economiche e giuridiche comuni che la disciplina esplicita o, quanto meno, presuppone. Come emerge dalla stessa definizione fissata dal legislatore (patrimonio raccolto tra una pluralità di investitori, gestito in monte, nell’interesse degli investitori e in autonomia dai medesimi, in base a una politica di investimento predeterminata), i fondi comuni sono caratterizzati da una gestione in monte, da effettuarsi secondo criteri capaci di ridurre il rischio dell’investimento attraverso la diversificazione degli impieghi e nel rispetto delle esigenze di liquidità proprie del tipo di fondo. Il modello organizzativo adottato dal legislatore prevede che, pur essendo la gestione svolta a rischio dei partecipanti al fondo, questi ultimi siano privi di qualunque potere gestorio, essendo ogni decisione, in ordine agli investimenti e disinvestimenti delle risorse, rimessa esclusivamente alla società di gestione del fondo (ma l’art. 37, 3° comma, T.U. n. 58 del 1998 prevede che il regolamento dei fondi chiusi diversi dai FIA riservati, contempli la possibilità per i partecipanti di riunirsi in assemblea esclusivamente per deliberare sulla sostituzione del gestore). L’esecuzione delle operazioni e la custodia degli strumenti finanziari e del danaro ricompresi nel fondo debbono, per altro, essere necessariamente affidate ad un depositario, normalmente una banca. I partecipanti hanno solo il diritto di essere informati sull’andamento della gestione e trovano la loro principale tutela nel diritto alla liquidazione della loro quota di partecipazione al fondo. Sulla gestione del fondo insiste poi la vigilanza della Banca d’Italia e della Consob: vigilanza diretta a tutelare i partecipanti esclusi dalla gestione e che si aggiunge a quella che insiste sulla società di gestione e che abbiamo già illustrato. Così la Banca d’Italia, sentita la Consob, determina i criteri generali che debbono essere adottati nel redigere il regolamento del fondo; la stessa Banca d’Italia approva il regolamento del fondo e le sue modificazioni, può stabilire le caratteristiche delle quote di parteci-
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pazione, determina le condizioni per l’assunzione dell’incarico di banca depositaria, disciplina con regolamento le procedure di fusione fra fondi e, più in generale, stabilisce i criteri e i divieti relativi all’attività di investimento, avuto riguardo anche ai rapporti di gruppo; fissa le norme prudenziali di contenimento e frazionamento del rischio; determina i metodi di calcolo del valore delle quote e i criteri e le modalità da adottare per la valutazione dei beni e dei valori in cui è investito il patrimonio e la periodicità della valutazione. Il modello (c.d. trilaterale) organizzativo dei fondi comuni fa perno su tre elementi portanti: la società di gestione, il depositario e i partecipanti. La disciplina dei fondi è la disciplina dei rapporti fra questi tre soggetti o categorie di soggetti. Su questi rapporti si innesta poi la vigilanza pubblica. Naturalmente il punto di riferimento di questi rapporti è l’insieme delle risorse apportate dai partecipanti e i beni nei quali quelle risorse sono investite. Un momento rilevante, anche nella ricostruzione del modello organizzativo del fondo, è infatti rappresentato dalla condizione giuridica di quei beni; beni che sotto il profilo patrimoniale «appartengono» ai partecipanti, ma che, sotto il profilo del potere di amministrazione e di disposizione, sono sottratti a questi ultimi; beni che costituiscono, per espresso disposto legislativo, un patrimonio autonomo e distinto ad ogni effetto sia dal patrimonio della società di gestione sia dai patrimoni dei singoli partecipanti. Vediamo un po’ più da vicino la disciplina fissata dal legislatore (artt. 36 ss., T.U. n. 58 del 1998) e comune a tutte le ipotesi di fondo comune; esamineremo poi le norme regolamentari stabilite per i vari tipi di fondo.
3.2. L’istituzione del fondo comune La società di gestione, nel momento in cui decide di istituire un fondo comune, ne delibera il regolamento. Il regolamento, che «definisce le caratteristiche del fondo, ne disciplina il funzionamento, indica il gestore, e il depositario, definisce la ripartizione dei compiti tra tali soggetti, regola i rapporti intercorrenti tra tali soggetti e i partecipanti al fondo» (art. 37, 1° comma, T.U. n. 58 del 1998), deve essere approvato (tranne che per i FIA riservati) dalla Banca d’Italia, come debbono essere approvate le sue eventuali modificazioni. Soltanto dopo l’approvazione del regolamento la società di gestione potrà procedere alla raccolta del risparmio fra il pubblico attraverso il contestuale collocamento dei documenti rappresentativi delle partecipazioni
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al fondo («certificati di partecipazione»). Tale collocamento deve rispettare le norme dettate per l’offerta al pubblico di prodotti finanziari. Il regolamento è atto di diritto privato, anche se la Banca d’Italia, sentita la Consob, determina i criteri generali per la sua redazione e ne definisce il contenuto minimo, e individua il contenuto del rapporto contrattuale di partecipazione che lega, dal momento della accettazione dell’offerta, il partecipante alla società di gestione; contenuto del rapporto contrattuale fissato esclusivamente da una delle parti e accettato, per adesione, dall’altra (il partecipante). Il regolamento stabilisce in particolare: a) la denominazione e la durata del fondo; b) le modalità di partecipazione al fondo, i termini e le modalità dell’emissione ed estinzione dei certificati e della sottoscrizione e del rimborso delle quote nonché le modalità di liquidazione del fondo; c) gli organi competenti per la scelta degli investimenti e i criteri di ripartizione degli investimenti medesimi; norme queste di fondamentale importanza, la prima, in quanto deve stabilire se la scelta dei titoli da acquistare sia di competenza del consiglio di amministrazione o dell’organo delegato o anche, come sembra possibile, del vertice della struttura dirigenziale; la seconda, perché consente di individuare la specializzazione del fondo (fondo azionario, fondo obbligazionario, fondo bilanciato, fondi specializzati in titoli di particolari settori); d) il tipo di beni, di strumenti finanziari e di altri valori in cui è possibile investire il patrimonio del fondo; e) i criteri relativi alla determinazione dei proventi e dei risultati della gestione nonché le eventuali modalità di ripartizione e distribuzione dei medesimi, indicando se i proventi realizzati in un certo periodo debbano essere accumulati (fondi ad accumulazione) o debbano invece, tempo per tempo, essere distribuiti ai partecipanti; f) le spese a carico del fondo e quelle a carico della società di gestione del risparmio; g) la misura o i criteri di determinazione delle provvigioni spettanti alla società di gestione del risparmio e degli oneri a carico dei partecipanti; h) le modalità di pubblicità del valore delle quote di partecipazione; valore che, ovviamente, è dato dal valore del fondo in un determinato momento diviso per il numero delle quote in circolazione in quello stesso momento.
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3.3. La gestione del fondo Il fondo comune è gestito dalla società di gestione che lo ha istituito. Questa investe nei beni indicati dal regolamento le somme versate dai partecipanti e provvede, nell’interesse dei medesimi, agli acquisti, alle vendite e alle attività di amministrazione ritenute più opportune per la valorizzazione del fondo, nonché alla distribuzione ai partecipanti dei proventi della gestione. L’attività della società di gestione ricomprende, dunque, ogni atto, anche di disposizione, che sia utile alla valorizzazione del fondo e che non sia precluso dalle norme legislative e di vigilanza o dalle clausole del regolamento. La società compie le operazioni di gestione in nome proprio ed è quindi «intestataria» dei beni nei quali vengono investite le risorse dei partecipanti; in particolare per quanto concerne le azioni (e in genere i titoli di credito) legittimata ad esercitare i diritti incorporati nei titoli è soltanto la società di gestione, mentre la titolarità del diritto «appartiene» al fondo, restando per altro aperto il significato di questo assunto, sul quale torneremo quando ci occuperemo della condizione giuridica dei beni ricompresi nel fondo. E per le azioni delle quali è intestataria, la società di gestione provvede, «nell’interesse dei partecipanti, all’esercizio dei diritti di voto» (art. 35-decies). Il Testo Unico ha così preso posizione nei confronti delle tesi secondo le quali le società di gestione del fondo dovrebbero esprimere la propria valutazione sulla gestione delle società delle quali detengono azioni semplicemente conservando o vendendo le azioni. Esse possono svolgere anche una importante funzione di monitoraggio interno sulla gestione, per altro da posizioni di minoranza, dal momento che la necessità di diversificare gli investimenti, che rappresenta la ragione economica dei fondi, impedisce loro l’acquisizione di partecipazioni di controllo, come tali contrarie anche al principio di separatezza che caratterizza le relazione fra investitori istituzionali e imprese. Il che non significa che la società di gestione debba necessariamente intervenire all’assemblea delle società partecipate ed esercitarvi il diritto di voto. La società di gestione, in ossequio alle regole di diligenza e correttezza cui deve attenersi, dovrà decidere quale sia il comportamento più conveniente per l’interesse dei partecipanti e così potrà anche ritenere che sia necessario non intervenire all’assemblea.
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3.4. Il depositario Allo scopo di contrastarne eventuali comportamenti fraudolenti, il legislatore impedisce alla società di gestione di avere la detenzione materiale delle somme e degli strumenti finanziari, ma non anche degli altri beni che concorrono a costituire il fondo comune, e impone che la relativa custodia sia affidata ad un depositario. Ci si rende conto, anche più facilmente, della delicatezza del ruolo del depositario quando si tenga presente che, lo stesso, oltre ad avere la custodia di tutte le risorse del fondo, deve svolgere importanti funzioni di controllo sull’attività della società di gestione, anche quando concerne beni dei quali non debba avere la custodia, senza per altro potersi mai sostituire a quest’ultima nelle relative scelte di investimento o disinvestimento. Più esattamente, il depositario: a) accerta la legittimità delle operazioni di vendita, emissione, riacquisto, rimborso e annullamento delle quote del fondo, nonché la destinazione dei redditi dell’OICR; b) accerta la correttezza del calcolo del valore delle parti dell’OICR; c) accerta che nelle operazioni relative all’OICR la controprestazione sia rimessa nei termini d’uso; d) esegue le istruzioni del gestore se non sono contrarie alla legge, al regolamento o alle prescrizioni degli organi di vigilanza; e) monitora i flussi di liquidità dell’OICR, nel caso in cui la liquidità non sia affidata al medesimo. Il depositario può svolgere altre attività nei confronti del gestore, incluso il calcolo del valore delle parti, a condizione che separi l’espletamento delle funzioni di depositario dagli altri suoi compiti, e siano adottate idonee misure per prevenire i possibili conflitti di interesse. Nell’esercizio delle proprie funzioni il depositario deve agire «in modo indipendente e nell’interesse dei partecipanti»; risponde nei confronti della società di gestione del risparmio e dei partecipanti al fondo di ogni pregiudizio da essi subito in conseguenza dell’inadempimento degli obblighi. E tale responsabilità deve probabilmente considerarsi contrattuale non solo nei confronti della società di gestione, ma anche nei confronti dei partecipanti. È ben vero, infatti, che una convenzione esiste solo tra società di gestione e depositario, e non anche fra quest’ultimo e i partecipanti, ma sembra ragionevole immaginare che quella convenzione sia stipulata anche a favore dei partecipanti, con la conseguente natura contrattuale della relativa responsabilità. Si tratta, per altro, di una questione priva di rilevanza pratica, dal momento che i partecipanti dovran-
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no provare l’inadempimento del depositario e non anche il carattere colposo dello stesso, rimanendo esclusa la responsabilità di quest’ultimo solo quando il medesimo provi la non colposità del predetto inadempimento. Profondamente diverso dovrà, invece, essere il contenuto della domanda risarcitoria: la società di gestione chiederà il risarcimento dell’intero danno subito dal fondo, e il risarcimento andrà a favore dello stesso, mentre il singolo partecipante potrà esclusivamente agire per il risarcimento del danno personalmente subito. Il depositario è anche un momento dell’organizzazione di vigilanza pubblica sui fondi e sulla società di gestione. Il T.U. (art. 47, 4° comma) stabilisce, infatti, che «gli amministratori e i sindaci del depositario riferiscono senza ritardo alla Banca d’Italia e alla Consob, ciascuna per le proprie competenze, sulle irregolarità riscontrate nell’amministrazione del gestore». Tutto ciò rende ragione del fatto che la indicazione del depositario sia un elemento essenziale del regolamento del fondo e che pertanto la sua sostituzione costituisca una modificazione dello stesso e, come tale, debba essere approvata dalla Banca d’Italia.
3.5. Contabilità e pubblicità del fondo Per il fondo sono previste (cfr. artt. 2 e 3 del Regolamento del Ministro dell’Economia e delle Finanze 5 marzo 2015, n. 30) forme di contabilità e di pubblicità specifiche, diverse da quelle imposte alla società di gestione dal diritto societario. Più esattamente, la società di gestione deve tenere il libro giornale del fondo comune, nel quale debbono essere annotate, giorno per giorno, le operazioni di emissione e di rimborso delle quote, nonché le operazioni relative alla gestione, e redigere: a) una relazione annuale, da pubblicare entro quattro mesi dalla chiusura dell’esercizio o del minor periodo in relazione al quale si precede alla distribuzione dei proventi; b) una relazione semestrale relativa ai primi sei mesi di ogni esercizio, da pubblicare entro due mesi dalla fine del periodo di riferimento; c) un prospetto recante l’indicazione del valore unitario delle quote di partecipazione e del valore complessivo del fondo con periodicità almeno pari all’emissione o rimborso delle quote. Le relazioni ed il prospetto, che ovviamente non sono sottoposti all’approvazione dell’assemblea della società di gestione né tanto meno dei
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partecipanti, sono tenuti a disposizione del pubblico presso la sede della società di gestione e del depositario ed il prospetto, con l’indicazione del valore unitario della quota di partecipazione, è altresì pubblicato sui giornali indicati nel regolamento del fondo.
3.6. I diritti dei partecipanti A) L’acquisto di una quota di partecipazione attribuisce all’acquirente la condizione di partecipante al fondo, ossia di parte nel rapporto di partecipazione al fondo, che lega ciascun partecipante alla società di gestione. Il contratto così concluso attribuisce al partecipante il diritto a veder investite, secondo le regole stabilite dalla legge, dal regolamento e dalle prescrizioni di vigilanza, le somme versate, nonché il diritto alla restituzione di una somma di danaro pari alla frazione del valore del fondo rappresentata dal numero delle quote che lo stesso abbia acquistato o sottoscritto. La legge, e ancor prima le caratteristiche dell’operazione, escludono ogni organizzazione di gruppo (il che rimane vero anche nell’ipotesi in cui il regolamento dei fondi chiusi preveda un’assemblea dei partecipanti) fra i partecipanti; ognuno di essi ha un rapporto personale e diretto con la società di gestione e non ha alcun rapporto con gli altri partecipanti; fra i partecipanti e la società di gestione corre un fascio di rapporti identici e non un rapporto collettivo, del quale siano contitolari i partecipanti come gruppo. B) Come già ricordato, i partecipanti non hanno alcun diritto c.d. amministrativo, ossia non possono dare istruzioni alla società di gestione, non possono impedire alcuna delle scelte che questa intenda effettuare, non hanno alcun modo per far giungere la propria voce al gestore; l’unico modo per manifestare un dissenso è quello di vendere le quote del fondo, o di chiederne il rimborso, ferma restando la possibilità di esercitare eventuali azioni risarcitorie nei confronti del medesimo ed eventualmente, ai sensi dell’art. 2395 c.c., nei confronti dei suoi amministratori. Anche per quanto concerne l’informazione, la posizione del partecipante non è diversa da quella di qualunque altro risparmiatore, come abbiamo potuto verificare appena sopra, constatando che gli strumenti di trasparenza del fondo sono posti a disposizione del pubblico. Se non per un particolare: i partecipanti hanno diritto di ottenere gratuitamente, copia della relazione annuale della relazione semestrale e del prospetto.
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C) La misura della partecipazione di un soggetto al fondo e, quindi, della «somma» della quale egli è creditore nei confronti della società di gestione, è data dal numero delle quote di partecipazione delle quali lo stesso è titolare e dal valore unitario delle medesime. Le quote non hanno normalmente un valore nominale, ma solo un valore effettivo rappresentato, appunto, dal valore complessivo del fondo suddiviso per il numero delle quote emesse e in circolazione. Le quote, se non dematerializzate, sono «rappresentate da certificati nominativi o al portatore»; certificati che costituiscono sicuramente strumenti finanziari e quasi sicuramente titoli di credito. D) Come già accennato, una parte della dottrina, nel cercare di definire lo status dei partecipanti, ha creduto di poter concludere che questi ultimi, comproprietari del fondo, sono legati alla società di gestione da un rapporto di mandato. Constateremo in seguito che i partecipanti non sono comproprietari del fondo: essi vantano esclusivamente un diritto di credito nei confronti della società di gestione. Qui si deve escludere che il rapporto di partecipazione sia riconducibile allo schema del mandato, dal momento che, per definizione, tale schema postula che dominus del rapporto sia il mandante, al quale viene riconosciuto il potere di ultima decisione sulle scelte del mandatario. Il partecipante al fondo comune, lungi dall’essere il dominus del rapporto che lo lega alla società di gestione, si trova in una posizione di assoluta soggezione nei confronti di quest’ultima. Né si può addurre in contrario il fatto che la legge, secondo un rituale consueto, nel definire gli obblighi della società di gestione si preoccupi di stabilire che la stessa assume verso i partecipanti al fondo «gli obblighi e le responsabilità del mandatario» (art. 36, 3° comma, T.U.F.). Questa disposizione ha lo scopo di richiamare una parte delle norme dettate per il mandato; norme che concorrono a disciplinare un rapporto che, per altro, non può essere qualificato come un rapporto di mandato. Ma si tratta di un problema che, dopo la tipizzazione, già introdotta dalla legge n. 77 del 1983, ha perduto quasi ogni importanza pratica: oggi il rapporto di partecipazione è un rapporto tipico ed è fatica vana il cercare di ricondurlo a qualche altro rapporto tipico.
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3.7. La qualificazione giuridica del fondo Non ci siamo fino ad ora occupati di un problema che ebbe una grande importanza teorica e pratica prima dell’entrata in vigore della legge n. 77 del 1983, ma che ha ora una rilevanza piuttosto limitata: quello della natura giuridica del fondo e più esattamente della condizione giuridica dello stesso. Problema che può anche essere riformulato chiedendosi a chi spetti la proprietà dei beni che compongono il fondo. Così, da parte di alcuni autori, si riteneva che sul fondo insistesse un diritto di comproprietà dei partecipanti (i quali avrebbero poi dovuto conferire un mandato senza rappresentanza alla società di gestione), ma fu facile rilevare che nessuna delle situazioni proprie della comproprietà erano rinvenibili in capo ai partecipanti (che non possono né godere né disporre di quei beni). Si era, all’opposto, ritenuto che proprietaria dei beni fosse la società di gestione, ma fu altrettanto facile rilevare in contrario che, al di là della legittimazione formale ad amministrare e a disporre dei beni, i destinatari ultimi delle relative utilità erano i partecipanti e non la società di gestione, la cui posizione era più facilmente descrivibile in termini di funzione piuttosto che di diritto soggettivo e, per di più, di proprietario del fondo. Sembrò più rispondente alla natura delle cose ammettere che né la situazione dei partecipanti né quella della società fossero compiutamente riconducibili al diritto di proprietà, così come codificato nel nostro ordinamento, e che la separazione fra le posizioni di potere (della società di gestione) e di utilità-rischio (dei partecipanti) era la conseguenza inevitabilmente connessa, da un lato, alle caratteristiche dell’investimento e, dall’altro, alla mancanza nel nostro sistema di situazioni corrispondenti a quelle che convivono nell’ambito del trust anglosassone, del quale ci si sforzava di realizzare una traduzione in termini di civil law. Come si accennava, il problema non aveva solo una rilevanza sistematica: stabilire se i beni fossero della società o dei partecipanti significava soprattutto decidere se sul fondo potessero soddisfarsi i creditori della società di gestione che derivassero le proprie ragioni da vicende estranee alla gestione del fondo. Quest’ultimo problema ha trovato per la prima volta una soluzione soddisfacente, almeno dal punto di vista pratico, nell’art. 3 della legge n. 77 del 1983; ivi si leggeva, infatti, che «ciascun fondo comune costituisce patrimonio autonomo, distinto a tutti gli effetti dal patrimonio della so-
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cietà di gestione e da quello dei partecipanti, nonché da ogni altro fondo gestito dalla medesima società di gestione». Questa affermazione di principio veniva poi, ulteriormente e forse inutilmente, specificata dal legislatore stabilendo che «i creditori dei singoli partecipanti possono far valere i loro diritti esclusivamente sui certificati di partecipazione di questi ultimi». Lo stesso ordine di idee è stato recepito dall’art. 36, 4° comma, T.U. n. 58 del 1998, a mente del quale «ciascun fondo comune di investimento, o ciascun comparto di uno stesso fondo, costituisce patrimonio autonomo, distinto a tutti gli effetti dal patrimonio della società di gestione del risparmio e da quello di ciascun partecipante, nonché da ogni altro patrimonio gestito dalla medesima società; delle obbligazioni contratte per conto del fondo la SGR risponde esclusivamente con il patrimonio del fondo medesimo. Su tale patrimonio non sono ammesse azioni dei creditori della società di gestione del risparmio o nell’interesse della stessa, né quelle dei creditori del depositario o del subdepositario, o nell’interesse degli stessi. Le azioni dei creditori dei singoli investitori sono ammesse soltanto sulle quote di partecipazione dei medesimi. La società di gestione del risparmio non può in alcun caso utilizzare, nell’interesse proprio o di terzi, i beni di pertinenza dei fondi gestiti». In presenza di una siffatta disciplina è forse superfluo continuare a chiedersi di chi sia il fondo, essendo ben concepibile, per altro, che l’ordinamento consenta anche la presenza di beni dei quali nessuno possa dirsi «proprietario». Piuttosto vale la pena sottolineare che la norma oggi vigente sancisce la «separatezza» non solo con riferimento a ciascun fondo, ma anche con riguardo «a ciascun comparto di uno stesso fondo», la cui identificazione dovrà essere effettuata nel regolamento del fondo sulla base delle caratteristiche dei beni nei quali dovranno essere investite le risorse dei partecipanti. La stessa norma chiarisce poi che il fondo è insensibile non solo alle azioni dei creditori della società di gestione, ma anche a quelle dei creditori della banca depositaria nonché del subdepositario. Ancora, il legislatore cerca di dare concretezza all’affermata autonomia del fondo non solo imponendo regole organizzative che consentano di individuare quali siano i beni afferenti a ciascun fondo, ma anche stabilendo, con una norma in verità pleonastica, che «la società di gestione del risparmio non può in alcun caso utilizzare, nell’interesse proprio o di terzi, i beni di pertinenza dei fondi gestiti».
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3.8. Tipologia dei fondi Come si è già ricordato, la tipologia dei fondi, nell’ambito della disciplina generale fin qui illustrata, è interamente rimessa per esplicito dettato legislativo (art. 39, 1° comma, T.U. n. 58 del 1998) al regolamento che il Ministro dell’Economia e delle Finanze deve emanare, sentita la Banca d’Italia e la Consob, e che deve, appunto, delineare «la struttura degli OICR italiani»; come recita la rubrica della relativa disposizione legislativa. Più esattamente quel regolamento deve determinare i criteri generali cui devono uniformarsi i fondi con riguardo: all’oggetto dell’investimento; alle categorie di investitori cui è destinata l’offerta delle quote; alle modalità di partecipazione ai fondi aperti e chiusi, con particolare riferimento alla frequenza di emissione e rimborso delle quote, all’eventuale ammontare minimo delle sottoscrizioni e alle procedure da seguire; all’eventuale durata minima e massima; alle condizioni e alle modalità con le quali devono essere effettuati gli acquisti o i conferimenti dei beni. Tale regolamento stabilisce inoltre: le ipotesi nelle quali deve adottarsi la forma del fondo chiuso; i casi in cui è possibile derogare alle norme prudenziali di contenimento e di frazionamento del rischio stabilite dalla Banca d’Italia, avendo riguardo anche alla qualità e all’esperienza professionale degli investitori; le scritture contabili, il rendiconto e i prospetti periodici che le società di gestione del risparmio redigono, in aggiunta a quanto prescritto per le imprese commerciali, nonché gli obblighi di pubblicità del rendiconto e dei prospetti periodici; le ipotesi nelle quali la società di gestione del risparmio deve chiedere l’ammissione alla negoziazione in un mercato regolamentato dei certificati rappresentativi delle quote dei fondi; le cautele da osservare, con particolare riferimento all’intervento di esperti indipendenti nella valutazione dei beni. A) Il Regolamento ministeriale 5 marzo 2015, n. 30 individua i seguenti tipi di fondo comuni di investimento: A) gli OICR italiani aperti, che comprendono a) gli OICVM (organismi di investimento collettivo in valori mobiliari), b) i FIA (fondi di investimento alternativi aperti, B) gli OICR italiani chiusi, di cui fanno parte c) i FIA chiusi, d) i FIA chiusi immobiliari, C) gli OICR italiani riservati, che comprendono e) i FIA riservati, D) gli OICR garantiti. B) Gli OICR aperti sono caratterizzati dalla possibilità, per i partecipanti, di entrata e di uscita continua dal fondo. I soggetti interessati a partecipare al fondo possono infatti sottoscrivere in ogni momento quote del fondo versando un importo in denaro o, nel caso in cui il regolamen-
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to o lo statuto dell’OICR lo preveda, mediante conferimento di strumenti finanziari negoziati in un mercato regolamentato, per un ammontare corrispondente al valore della quota di partecipazione. Parimenti «i partecipanti al fondo hanno diritto di chiedere il rimborso delle quote»; «secondo le modalità e con la frequenza previste dal regolamento del fondo», e comunque con periodicità almeno quindicinale per gli OICVM e almeno annuale per i FIA italiani aperti. Il rimborso deve avvenire entro quindici giorni dalla ricezione della richiesta e può essere sospeso, per un periodo non superiore ad un mese, “nei casi eccezionali”. La sospensione potrà essere giustificata con l’opportunità di evitare che il fondo, per effettuare i rimborsi, proceda alla “svendita” dei titoli in portafoglio, compromettendo l’interesse della generalità dei partecipanti, che resterebbero penalizzati da vendite operate al solo scopo di recuperare la liquidità necessaria per far fronte alle richieste di rimborso. E, come già accennato, questa libertà di uscita impone alla gestione del fondo regole dirette ad assicurare la liquidità necessaria per far fronte ad improvvise richieste di consistenti rimborsi e, ancor prima, impedisce che le risorse del fondo siano investite in beni diversi dagli strumenti finanziari, quotati o non quotati, e in danaro. In altri termini i fondi comuni aperti sono necessariamente fondi “mobiliari”, investiti in strumenti finanziari, con esclusione quindi non solo dei beni immobili, ma anche di altri beni mobili e di crediti. C) I “FIA chiusi” si caratterizzano, nei confronti dei fondi aperti, sia sotto il profilo dei diritti dei partecipanti sia per quanto concerne i beni nei quali può essere investito il patrimonio e le regole che debbono essere seguite nella gestione. Il fondo si definisce chiuso perché i partecipanti non hanno né la libertà di entrata né la libertà di uscita previste per i fondi aperti. Più esattamente, il regolamento del fondo deve individuare l’ammontare delle risorse che la società di gestione intende destinare al fondo e la relativa raccolta avviene attraverso una o più emissioni di quote, di uguale valore unitario, che debbono essere sottoscritte entro il termine massimo di ventiquattro mesi (eventualmente prorogabili per altri dodici) dalla pubblicazione del prospetto, se le quote sono offerte al pubblico, o dalla data di conclusione positiva della procedura di commercializzazione prevista dagli artt. 43 e 44 del T.U. n. 58 del 1998 negli altri casi. Alla mancanza di una continua libertà di ingresso fa riscontro una forte limitazione della libertà di uscita: nel senso che il partecipante può chiedere il rimborso della quota solo alla scadenza della durata del fondo. L’ordinamento non disciplina in modo rigido la durata dei fondi chiusi, ma
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stabilisce soltanto che la stessa “deve essere coerente con la natura degli investimenti” e che, in ogni caso, la durata del fondo chiuso non può essere superiore a cinquanta anni (art. 6 Regolamento ministeriale). La forma del FIA chiuso deve necessariamente essere adottata quando le risorse del fondo siano investite a) in beni immobili e diritti reali immobiliari; b) in crediti e titoli rappresentativi di crediti e c) in altri beni per i quali comunque esista un mercato e che abbiano un valore determinabile con certezza con una periodicità almeno semestrale (ossia beni nei quali soltanto può essere investito un fondo comune e diversi dagli strumenti finanziari, quotati e non quotati). Nell’ambito dei fondi chiusi hanno ricevuto una specifica disciplina i “FIA immobiliari”, anche a seguito delle leggi sulla privatizzazione del patrimonio immobiliare pubblico (D.L. 25 settembre 2001, n. 351 convertito con legge 23 novembre 2001, n. 410), che hanno individuato nei fondi immobiliari uno strumento per la “cartolarizzazione” del patrimonio immobiliare che si intendeva privatizzare; tali immobili potevano essere conferiti a fondi immobiliari e i certificati di partecipazione ai medesimi potevano essere collocati presso il pubblico. D) I FIA “riservati”, che possono essere sia aperti sia chiusi, sono i fondi la cui partecipazione è riservata a “investitori professionali”. A norma dell’art. 1, 1° comma, lett. p), Regolamento n. 30 del 2015 debbono considerarsi “investitori professionali” i soggetti indicati nell’art. 6, commi 2°-quinquies e 2°-sexies, del T.U. n. 58 del 1998 cioè: a) i clienti professionisti privati individuati da Consob, sentita la Banca d’Italia; e b) i clienti professionali pubblici individuati dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, sentite la Banca d’Italia e la Consob. La particolare professionalità che caratterizza queste categorie di soggetti consente di adottare forme di pubblicità più contenute e criteri di gestione mone cautelativi di quelli previsti per i fondi ai quali possa accedere la generalità dei risparmiatori. Inoltre il regolamento o lo statuto del FIA riservato deve indicare, fra l’altro, la circostanza che il regolamento del fondo non è soggetto all’approvazione della Banca d’Italia e che non trovano applicazione le norme prudenziali di contenimento e frazionamento del rischio stabilite dalla Banca d’Italia per i FIA non riservati, e che il fondo può fare ricorso alla leva finanziaria, specificandone anche il livello massimo. Il patrimonio dei fondi riservati può essere investito in beni appartenenti ad una qualsiasi delle categorie indicate nell’art. 4, 1° comma del predetto Regolamento ministeriale (v. retro, 3.1).
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E) Gli OICR “garantiti” sono i fondi che garantiscono la restituzione del capitale investito ovvero il riconoscimento di un rendimento minimo, mediante la stipula di apposite convenzioni con banche, imprese di investimento che prestano il servizio di negoziazione per conto proprio, imprese di assicurazione o intermediari finanziari iscritti nell’elenco previsto dall’art. 106 T.U. bancario aventi i requisiti indicati dalla Banca d’Italia (art. 15, Regolamento n. 30 del 2015). Essi possono essere sia di tipo aperto che di tipo chiuso. F) Funzioni complementari a quelle dei fondi immobiliari nella mobilizzazione della proprietà immobiliare svolgono le «società di investimento mobiliare» (SIIQ), introdotte nel nostro ordinamento dall’art. 1, 119°-141° comma della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (cfr. anche decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze 7 settembre 2007, n. 174). Il legislatore considera «società di investimento mobiliare» (SIIQ), dettando per le stesse un trattamento fiscale di favore, le società per azioni residenti nel territorio dello Stato svolgenti in via prevalente l’attività di locazione immobiliare, i cui titoli di partecipazione siano negoziati in mercati regolamentati italiani, nelle quali nessun socio possieda direttamente o indirettamente più del 51 per cento dei diritti di voto nell’assemblea ordinaria e più del 51 per cento dei diritti di partecipazione agli utili ed almeno il 35 per cento delle azioni sia detenuto da soci che non possiedano direttamente o indirettamente più dell’1 per cento dei diritti di voto nell’assemblea ordinaria e più dell’1 per cento dei diritti di partecipazione agli utili. L’opzione per il regime speciale comporta l’obbligo, in ciascun esercizio, di distribuire ai soci almeno l’85 per cento dell’utile netto derivante dall’attività di locazione immobiliare e dal possesso di partecipazioni in società immobiliari. Le SIIQ non sono né società di intermediazione mobiliare, né società di gestione del risparmio e alle stesse non si applicano dunque le norme dettate per queste categorie di intermediari di mercato mobiliare, ma svolgono tuttavia un ruolo di collegamento fra il pubblico risparmio e gli investimenti immobiliari operando sul mercato mobiliare. Sulle stesse insiste una vigilanza prudenziale (art. 1, 141° comma, lett. a) della legge n. 296 del 2006); vigilanza «esercitata dalla Banca d’Italia e dalla Consob nell’ambito dei poteri stabiliti dalle norme vigenti» (così, il D.M. 7 settembre 2007, n. 174, art. 3), formula quest’ultima che sembra rinviare alla distribuzione delle funzioni di vigilanza prevista per le Sim e le SGR.
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4. Le società di investimento a capitale variabile (SICAV) Le società di investimento a capitale variabile (SICAV), introdotte nel nostro ordinamento con il D.Lgs. 25 gennaio 1992, n. 84 (e oggi disciplinate dagli artt. 35-bis e ss., T.U. n. 58 del 1998), presentano, dal punto di vista della funzione economica, forti analogie con i fondi comuni di investimento aperti (e sotto questo aspetto forti differenze con quelli chiusi), in quanto i risparmiatori che fanno affluire alle SICAV i propri apporti hanno diritto – in qualsiasi momento – al rimborso del valore delle azioni sottoscritte e, d’altro canto, le SICAV possono procedere alla emissione continua di nuove azioni, ricevendo così nuovi apporti. In altri termini, le SICAV sono organismi di investimento collettivo caratterizzati dalla stessa libertà di «uscita» e di «entrata» presente nei fondi comuni aperti: il che rende molto simili le loro politiche degli investimenti, in quanto si pongono in entrambe le ipotesi stringenti esigenze di liquidità. Si giustifica così la norma (art. 7) del Regolamento 5 marzo 2015, n. 30 del Ministro dell’Economia e delle Finanze, a mente della quale le regole che disciplinano l’investimento dei fondi aperti si applicano anche alle SICAV. Profondamente diverso da quello dei fondi aperti dovrebbe essere, tuttavia, il modello organizzativo. Nel fondo d’investimento vi è una dissociazione assoluta tra la posizione del risparmiatore-partecipante al fondo e quella del gestore, e fra gli stessi corre un rapporto, di gestione, a prestazioni corrispettive. Nella SICAV, invece, la posizione di gestore e di risparmiatore coincidono, in quanto quest’ultimo è socio della società che gestisce, nel proprio interesse e non nell’interesse altrui, il monte delle risorse. Tutto ciò emerge, in linea di principio dallo stesso dettato legislativo, secondo il quale la SICAV è una «società per azioni a capitale variabile con sede legale e direzione generale in Italia avente per oggetto esclusivo l’investimento collettivo del patrimonio raccolto mediante l’offerta al pubblico di proprie azioni» (art. 1, 1° comma, lett. i), T.U. n. 58 del 1998). Ma, a dire il vero, la netta contrapposizione fra fondo aperto e SICAV, che dovrebbe discendere dall’alterità dei modelli, risulta fortemente ridimensionata alla luce delle rispettive discipline. Il che è vero almeno sotto due aspetti, fra di loro fortemente connessi: da un lato, sono state introdotte modificazioni così rilevanti alla disciplina dei profili patrimoniali della società per azioni da rendere difficile la stessa riconducibilità delle SICAV al tipo della società per azioni disciplinato dal codice civile (le cui norme, per altro, se non dichiarate espressamente non applicabili, troveranno ap-
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plicazione in quanto compatibili con la disciplina speciale) e, dall’altro, l’organizzazione della società è stata disegnata tenendo ben presente quella del fondo, finendosi per immaginare o, comunque, per rendere possibili modalità gestorie capaci di sottrarre ai soci ogni effettiva ingerenza sulla gestione del patrimonio, non diversamente da quanto accade nell’ambito dei fondi comuni.
4.1. Costituzione e statuto A) La società può costituirsi soltanto previa autorizzazione rilasciata dalla Banca d’Italia, sentita la Consob (art. 35-bis del T.U.). L’autorizzazione è dovuta quando ricorrano le seguenti condizioni: a) sia adottata la forma della società per azioni; b) la sede legale e la direzione generale siano situate nel territorio della Repubblica; c) il capitale sociale sia di ammontare non inferiore a quello determinato in via generale dalla Banca d’Italia (che, con provvedimento 8 maggio 2012, lo ha fissato in un milione di euro); d) i soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo abbiano i requisiti di professionalità, indipendenza e onorabilità e i partecipanti i requisiti di onorabilità stabiliti dal Ministro dell’Economia e delle Finanze (indicati dai decreti ministeriali 11 novembre 1998, n. 468 e 1° novembre 1998, n. 469 negli stessi termini già visti ed illustrati per le Sim e per le società di gestione del risparmio); e) lo statuto preveda come oggetto esclusivo l’investimento collettivo del patrimonio raccolto mediante offerta al pubblico delle proprie azioni (vedremo fra un attimo quali siano i beni nei quali tale patrimonio può essere investito). Ottenuta l’autorizzazione ministeriale, i fondatori possono procedere alla costituzione della società e al versamento, necessariamente integrale, dei conferimenti dovuti, rimanendo escluso che possano essere effettuati conferimenti di beni in natura «diversi dal conferimento di strumenti finanziari oggetto di investimento delle SICAV» (v. Regolamento Banca d’Italia 8 maggio 2012); esclusione quest’ultima giustificabile, almeno parzialmente, con la necessità di impedire che la SICAV svolga attività diverse da quella di gestione. Una volta intervenuta l’iscrizione dell’atto costitutivo nel registro delle imprese, la Banca d’Italia provvede all’iscrizione della SICAV nell’albo relativo, tenuto a cura della stessa Banca d’Italia; iscrizione che avviene previa verifica della persistenza dei requisiti che hanno consentito l’autorizzazione e della conformità dello statuto alle prescrizioni di legge (sulle quali ci soffermeremo subito). Soltanto dopo l’iscrizione nel predetto
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albo le SICAV possono procedere al collocamento presso il pubblico delle proprie azioni. B) Lo statuto, oltre alle regole organizzative della società in quanto tale, deve contenere particolari indicazioni relative all’attività di gestione del patrimonio e ai rapporti con gli azionisti-risparmiatori; deve, in altri termini, disciplinare le materie che nell’ambito dei fondi sono disciplinate dal regolamento. Così, deve individuare le modalità di determinazione del valore delle azioni e del prezzo di emissione e di rimborso nonché la periodicità con cui le azioni della SICAV possono essere emesse e rimborsate. Lo statuto deve, altresì, indicare l’esistenza di eventuali «comparti», ossia l’esistenza di una pluralità di patrimoni collettivi destinati, ciascuno, ad un particolare tipo di investimento. E per ciascun comparto la SICAV emetterà una particolare categoria di azioni per la raccolta delle risorse da destinare al relativo investimento e ogni comparto costituisce patrimonio autonomo, distinto a tutti gli effetti da quello degli altri comparti. Le modificazioni dello statuto devono essere approvate dalla Banca d’Italia e non possono «essere iscritte» nel registro delle imprese se non è intervenuta tale approvazione (art. 35-septies, 2° comma, T.U. n. 58 del 1998). La deliberazione assembleare di modificazione dello statuto deve essere inviata entro quindici giorni alla Banca d’Italia; se entro 4 mesi non interviene un provvedimento «di diniego» di quest’ultima, la modificazione si intende approvata; «il deposito previsto dall’art. 2436 del codice civile deve essere effettuato entro quindici giorni dalla data di ricezione del provvedimento di approvazione della Banca d’Italia» o dallo spirare del termine di quattro mesi trascorso il quale la modificazione si intende approvata. È certo che l’approvazione della Banca d’Italia costituisce condizione di efficacia della deliberazione assembleare. La lettera della norma non consente di stabilire con esattezza se l’approvazione sia soltanto condizione per l’iscrizione o anche per il deposito dal quale prende avvio il procedimento che porta all’iscrizione. Ragioni di economia della regolamentazione suggeriscono di ritenere che l’approvazione della Banca d’Italia condizioni solo l’iscrizione della deliberazione nel registro delle imprese.
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4.2. Capitale, patrimonio e azioni A) «Il capitale della SICAV è sempre uguale al patrimonio netto detenuto dalla società, così come determinato» secondo i criteri di valutazione stabiliti dalla Banca d’Italia (cfr. art. 35-quater, 1° comma, T.U. n. 58 del 1998). Inoltre «alla SICAV non si applicano gli articoli da 2438 a 2447-decies del Codice Civile», ossia le norme sugli aumenti e le riduzioni di capitale delle società per azioni e quelle sui patrimoni destinati ad uno specifico affare. Le disposizioni appena riprodotte mettono in luce che la variabilità del capitale nelle SICAV non si limita, come nelle società cooperative, ad escludere che una sua variazione costituisca modificazione dello statuto sociale, ma si spinge fino a negare un’autonomia concettuale ed operativa alla nozione stessa di capitale. Nelle società cooperative rimane ferma la distinzione fra capitale sociale (nominale) e patrimonio, nelle SICAV capitale sociale e patrimonio coincidono ed anzi il primo concetto perde ogni significato, come dimostra il fatto che non trova applicazione la disciplina del capitale dettata per le società per azioni. Nella SICAV il capitale (o meglio il patrimonio netto) aumenta per effetto dell’ingresso di nuovi soci e di plusvalenze realizzate nell’esercizio dell’attività e diminuisce a causa del rimborso delle azioni (rimborso che il socio può richiedere in qualsiasi tempo) e a causa di eventuali minusvalenze nelle quali siano incorsi i beni che del patrimonio fanno parte. L’impossibilità di applicare la disciplina prevista dal diritto azionario per il capitale sociale esclude anche la utilizzabilità di concetti come quelli di utile e di perdita, o di riserva legale, straordinaria o disponibile, che postulano la rigidità del capitale sociale ed un suo valore nominale, così come la struttura del bilancio delle SICAV non potrà modellarsi su quello della società per azioni, proprio per la inutilizzabilità di quei concetti. Il termine «capitale», al quale fa spesso ricorso la disciplina delle SICAV, è usato in un’accezione diversa da quella consueta nel diritto delle società e deve essere inteso come sinonimo di patrimonio netto, almeno nel senso che il capitale, nelle SICAV, coincide sempre con il patrimonio netto. Il che vale anche per il capitale minimo che la SICAV deve possedere perché ne venga autorizzata la costituzione e la cui mancanza, come vedremo, rappresenta una possibile causa di scioglimento della società. B) Dalla mancanza di un valore nominale del capitale sociale discende necessariamente che le azioni, decettivamente definite «rappresenta-
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tive del capitale», non hanno un valore nominale né un valore contabile; esse hanno soltanto un prezzo di emissione iniziale e un valore successivo di emissione e di rimborso determinato almeno settimanalmente e stabilito dividendo il valore delle attività nette per il numero delle azioni in circolazione, ossia con un criterio del tutto identico a quelle adottato per la valorizzazione dei certificati di partecipazione al fondo comune, in particolare a quello di tipo aperto. Come si può notare, anche la nozione di azione è qui utilizzata in termini radicalmente diversi da quelli propri del diritto azionario e, coerentemente, il legislatore stabilisce che alle azioni della SICAV non si applica nessuna delle norme che postulano un valore nominale, o quanto meno contabile, delle stesse. C) «Le azioni della SICAV possono essere nominative o al portatore secondo quanto stabilito dallo statuto» (cfr. art. 35-quater, 4° comma, T.U. n. 58 del 1998). La scelta della legge di circolazione del certificato azionario, mentre non ha alcuna rilevanza per quanto concerne i diritti patrimoniali dell’azionista, assume grande importanza per il diritto di voto. Infatti, mentre ogni azione nominativa attribuisce un voto, secondo la regola generale del diritto azionario, le azioni al portatore «attribuiscono un solo voto per ogni socio indipendentemente dal numero delle azioni di tale categoria possedute». La distinzione fra azioni al portatore e azioni nominative rileva anche sotto il profilo dei controlli di vigilanza sul relativo trasferimento. Così i requisiti di onorabilità debbono essere posseduti da coloro che detengono una partecipazione (identificata, ai sensi dell’art. 1, comma 6°-bis, T.U., con le azioni che attribuiscono diritti amministrativi, restando esclusa l’applicabilità alle SICAV dell’art. 2351) superiore al 5 per cento delle azioni nominative qualora lo statuto preveda limiti all’emissione di tali azioni o alla minor soglia tra 20.000 azioni nominative e il 10 per cento delle stesse qualora lo statuto non preveda siffatti limiti (art. 1, Regolamento del Ministro dell’Economia e delle Finanze 11 novembre 1998, n. 469). La differenza, sotto il profilo del voto e del controllo di vigilanza, tra azioni al portatore e azioni nominative, non dà vita, tuttavia, alla creazione di due categorie di azioni, almeno nel senso previsto dagli artt. 2348 e 2376 c.c., dal momento che il legislatore esclude l’applicabilità alla SICAV non solo del 2° comma dell’art. 2348 che consente, appunto, la creazione di diverse categorie di azioni, ma anche e soprattutto dell’art. 2376, che, nel prevedere le assemblee speciali, individua l’unico punto di emersione normativa della nozione di categoria di azioni. È opportuno sottolineare poi che, contrariamente ad un principio generalmente accolto dall’ordinamento societario, i titolari delle azioni al
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portatore, pur vedendo compresso fortemente il loro potere d’incidere sulle deliberazioni assembleari, non trovano compensata tale limitazione di potere da posizioni privilegiate sul piano patrimoniale. E, apparentemente, non trova, perciò, giustificazione la preferenza per le azioni al portatore. In verità, una siffatta impressione può essere rimossa quando si pensi che l’anonimato, a fini fiscali, può essere considerato dal legislatore un beneficio sufficiente per compensare la limitazione del diritto di voto, soprattutto in considerazione della disciplina prevista per l’amministrazione della SICAV. Questa conclusione non è contraddetta dalla possibilità che lo statuto preveda «L’esistenza di più comparti di investimento per ognuno dei quali può essere emessa una particolare categoria di azioni»; qui il concetto di categoria di azioni è adottato in un’accezione diversa da quella nella quale viene utilizzato dal codice civile e del tutto simile a quella di certificato di partecipazione ad un particolare comparto di un fondo comune e non v’è alcuna comunicazione, neppure sul piano patrimoniale, fra gli azionisti delle varie categorie di azioni, così come non c’è fra portatori di certificati relativi a comparti diversi di uno stesso fondo comune. D) Ricordiamo, infine, che la SICAV «non può acquistare azioni proprie» né conservare in portafoglio quelle che (ad esempio, per operazioni di fusione) si trovasse a detenere e che non può emettere né azioni di risparmio né obbligazioni, né azioni «correlate» ai risultati dell’attività sociale in un determinato settore (art. 2350, 2° comma).
4.3. L’assemblea dei soci La disciplina delle assemblee dei soci della SICAV riguarda essenzialmente le modalità di svolgimento del procedimento assembleare e la legittimazione ad esercitare il diritto di voto da parte dei portatori delle azioni nominative. Sotto il primo profilo il legislatore ha cercato di facilitare, in deroga alle norme del diritto azionario comune, la formazione della deliberazione: tenendo conto del prevedibile assenteismo dei soci, preclude la imposizione di quorum costitutivi per le deliberazioni dell’assemblea ordinaria (per la quale, quindi, non è configurabile una riunione in seconda convocazione) e per la seconda convocazione dell’assemblea straordinaria e impone la pubblicazione (almeno trenta giorni prima) dell’avviso di convocazione anche sui quotidiani che pubblicano il valore del patrimonio della società e quello unitario delle azioni.
4. Le società di investimento a capitale variabile (SICAV)
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Allo stesso scopo il legislatore prevede che il voto «possa essere dato per corrispondenza se ciò è ammesso dallo statuto» (art. 35-sexies, 2° comma, T.U. n. 58 del 1998). E in tal caso l’avviso di convocazione deve contenere per esteso la deliberazione proposta. L’azionista esprime il proprio voto su schede predisposte dalla società e si tiene conto dei voti così espressi, sia ai fini del quorum costitutivo (possibile solo nell’assemblea straordinaria in prima convocazione) sia ai fini del quorum deliberativo, purché le relative schede di votazione pervengano «entro le ore 24 del terzo giorno che precede la riunione assembleare» (decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze 26 marzo 1999, n. 139). Il voto espresso per corrispondenza può essere revocato entro le ore 24 del secondo giorno che precede tale riunione. Non si tiene conto del voto espresso per corrispondenza se la delibera sottoposta a votazione dall’assemblea non è conforme a quella contenuta nell’avviso di convocazione; anche se le relative azioni sono computate ai fini del quorum costitutivo.
4.4. La gestione del patrimonio A) Abbiamo già ricordato che alle SICAV si applicano le disposizioni dettate dal Ministro dell’Economia e delle Finanze per la gestione dei fondi comuni aperti. Pertanto, nell’ipotesi in cui il patrimonio del fondo sia investito in strumenti finanziari in conformità con le direttive comunitarie saremo in presenza di una SICAV armonizzata, nell’ipotesi in cui il patrimonio sia investito non in conformità con le norme comunitarie saremo in presenza di una SICAV non armonizzata. In ogni caso il patrimonio della SICAV non può essere investito in beni immobili e diritti reali immobiliari, in crediti e titoli rappresentativi di crediti: si tratta infatti di investimenti per i quali è necessario adottare la forma del fondo chiuso e che sono preclusi, così come ai fondi aperti, anche alle SICAV. B) La custodia degli strumenti finanziari e delle disponibilità liquide della SICAV deve essere affidata ad un depositario; depositario che svolge altresì le funzioni di controllo già illustrate a proposito dei fondi comuni. C) Anche per quanto concerne la contabilizzazione dell’attività, alla SICAV si applicano le stesse norme previste per i fondi comuni aperti (libro giornale, relazione annuale, relazione semestrale, prospetto almeno settimanale con il valore del fondo e delle azioni); naturalmente il rendi-
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Gli investitori istituzionali
conto annuale, che tiene luogo del bilancio d’esercizio, dovrà essere sottoposto all’approvazione assembleare.
4.5. Fusione, scissione ed estinzione A) Secondo il dettato originario del T.U., «la SICAV non [poteva] trasformarsi in un organismo non soggetto» alla disciplina prevista per le SICAV; il che, in termini più evidenti, significa che una SICAV non [poteva] trasformarsi né in una struttura societaria che non fosse SICAV né in una società di gestione del risparmio. Le operazioni di fusione o scissione erano, dunque, consentite ma solo se «omogenee», ossia tra SICAV, o con l’effetto di creare nuove SICAV. Il D.Lgs. n. 164 del 2007 consentiva, oltre alla trasformazione in un’altra SICAV, anche la trasformazione (e quindi anche la fusione e la scissione) in una Società di gestione collettiva del risparmio. Il D.Lgs. n. 44 del 2014 ha stabilito che le SICAV che hanno forma di OICVM non possono trasformarsi in un organismo diverso da un OICVM italiano. B) Le cause di scioglimento della SICAV sono le stesse previste per la società per azioni, con esclusione di quella rappresentata dalla riduzione del capitale al di sotto del minimo legale (art. 2484, 1° comma, nn. 4 e 5, c.c.). Una SICAV si scioglierà, per altro, anche quando il valore del patrimonio scenda al di sotto del valore minimo richiesto per la sua costituzione e rimanga al di sotto di tale soglia per sessanta giorni; termine quest’ultimo che rimane sospeso qualora sia iniziata una procedura di fusione con un’altra SICAV (art. 35-octies, 1° comma). Il verificarsi di una causa di scioglimento della SICAV può portare ad una corsa al rimborso che pregiudica la possibilità di una conveniente liquidazione del patrimonio sociale o alla imprudente ricerca di nuove risorse. Per evitare tale pericolo il legislatore ha disposto che l’emissione e il rimborso delle azioni sono sospesi dalla deliberazione assembleare nel caso di scioglimento anticipato, dalla delibera di accertamento della causa di scioglimento da parte del consiglio di amministrazione nell’ipotesi di scadenza del termine, di conseguimento dell’oggetto sociale o di impossibilità di conseguirlo e dal deposito del decreto del presidente del tribunale che accerta l’impossibilità di funzionamento dell’assemblea. La liquidazione è rimessa alle norme di diritto comune, anche se i liquidatori nominati dall’assemblea straordinaria dovranno, nella loro attività di «realizzo» delle attività sociali, tener conto delle disposizioni della Banca d’Italia, alla quale vanno preventivamente comunicati il piano di
5. Le società di investimento a capitale fisso (SICAF)
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smobilizzo e quello di riparto. Il depositario procede poi, su istruzioni dei liquidatori, al rimborso delle azioni nella misura prevista dal bilancio finale di liquidazione. C) La «crisi» delle SICAV è sottoposta alle stesse norme previste per la «crisi» delle società di gestione del risparmio; norme che qui si intendono richiamate. Nei loro confronti potranno, perciò, essere assunti i «provvedimenti ingiuntivi» e quelli cautelari già descritti in quella sede e le stesse potranno essere sottoposte ad amministrazione straordinaria e a liquidazione coatta, con esclusione delle procedure concorsuali di diritto comune (artt. 56 e 57 del T.U. n. 58 del 1998).
5. Le società di investimento a capitale fisso (SICAF) Il D.Lgs. 4 marzo 2014, n. 44 ha introdotto nel nostro ordinamento un nuovo organismo di investimento collettivo del risparmio, le società di investimento a capitale fisso (SICAF), ossia le «società per azioni a capitale fisso con sede legale e direzione generale in Italia avente per oggetto esclusivo l’investimento collettivo del patrimonio raccolto mediante l’offerta di proprie azioni e di altri strumenti partecipativi». La disciplina dettata per le SICAF ripercorre molti dei momenti già indicati con riferimento alle SICAV, così per quanto concerne la loro costituzione, la loro iscrizione in una sezione dell’albo nel quale sono iscritte le SICAV, per quanto riguarda le modificazioni statutarie, per quanto concerne la istituzione di diversi comparti. Anche le SICAF possono essere autorizzate a designare un gestore esterno, anch’esse possono essere sottoposte ai provvedimenti ingiuntivi già descritti per le SICAV e in caso di crisi sono sottoposte, al pari di queste ultime, ad amministrazione straordinaria e a liquidazione coatta. Anche per le SICAF le azioni possono essere nominative o al portatore e in quest’ultimo caso attribuiscono un solo voto per ogni socio indipendentemente dal numero di azioni possedute. Le differenze nei confronti delle SICAV sono tutte sostanzialmente riconducibili al fatto che le SICAF hanno un capitale fisso mentre nelle SICAV il capitale, in quanto tale, non esiste. Nelle SICAF il patrimonio è concettualmente ed effettivamente distinto dal capitale e determinato in una cifra fissa, consentendo così l’appli-
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cazione delle norme che riguardano l’aumento e la riduzione dello stesso e dettate dagli artt. 2436-2447.
6. Le strutture master-feeder Dando attuazione agli artt. 58 ss. della direttiva 65/2009 del 13 luglio 2009, il D.Lgs. 16 aprile 2012, n. 47 ha introdotto nel T.U.F. l’art. 50-bis che detta la disciplina delle cc.dd. «strutture di master-feeder», ossia quelle strutture organizzative che vedono uno o più OICR (fondi comuni e SICAV), definiti feeder, che investono la massima parte delle proprie risorse in un altro OICR, definito master, in deroga al principio di diversificazione degli investimenti che caratterizza la gestione degli OICR. Il D.Lgs. n. 44 del 2014 ha confermato tale disciplina (art. 40 del T.U. n. 58 del 1998). I gestori dell’OICR master gestiranno in pooling, e sia pure indirettamente, le risorse degli OICR feeder, con i vantaggi connessi con la maggiore dimensione delle risorse in gestione e, in particolare, con la riduzione dei costi derivanti dalle economie di scala. L’investimento dei fondi feeder nell’OICR master viene autorizzato dalla Banca d’Italia quando «a) sussistono accordi, rispettivamente, tra i gestori, i depositari e i revisori legali o le società di revisione legale degli OICR master e degli OICR feeder, che consentono la disponibilità dei documenti e delle informazioni necessari a svolgere i rispettivi compiti; b) nel caso in cui l’OICR master e l’OICR feeder hanno lo stesso gestore, quest’ultimo adotta norme interne di comportamento che assicurino la medesima disponibilità di documenti e informazioni di cui alla lett. a)»; c) l’OICR master e l’OICR feeder possiedono le caratteristiche previste da un Regolamento delle Banca d’Italia. Come emerge chiaramente dalla norma appena riprodotta, la disciplina delle strutture master-feeder è imperniata sulla necessità di assicurare la trasparenza dei rapporti fra il gestore dei fondi feeder e quello del fondo master. In questa prospettiva il 5° comma dell’art. 40 stabilisce che «il revisore legale o la società di revisione legale incaricati della revisione dell’OICR feeder indicano nella relativa relazione sulla revisione le irregolarità evidenziate nella relazione di revisione dell’OICR master nonché l’impatto delle irregolarità riscontrate nell’OICR feeder».
7. I fondi pensione. Fondi chiusi e fondi aperti
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7. I fondi pensione. Fondi chiusi e fondi aperti I fondi pensione sono organismi che raccolgono il risparmio previdenziale dei lavoratori, autonomi e dipendenti, e «gestiscono» le risorse finanziarie così acquisite in vista del pagamento, a favore dei lavoratori aderenti al fondo, di trattamenti previdenziali, rendite o capitali, al momento della cessazione dell’attività lavorativa. Essi hanno, dunque, una funzione previdenziale, integrativa della previdenza obbligatoria (cfr. art. 38 Cost.), e non di investitore istituzionale del risparmio. La gestione delle risorse, tuttavia, si traduce normalmente anche nell’acquisizione di strumenti finanziari e, in generale, in operazioni di investimento e disinvestimento mobiliare e in alcuni paesi, come quelli anglosassoni, questa attività ha reso i fondi pensione investitori istituzionali di grande importanza; molto spesso essi sono, anzi, diventati i più influenti azionisti delle grandi public companies che operano in quei mercati, anche coinvolti nella loro gestione. Il che appare plausibile quando si tenga conto delle caratteristiche del risparmio che affluisce ai fondi pensione: è un risparmio a fronte del quale stanno obblighi di restituzione (il pagamento dei trattamenti previdenziali) esigibili in un momento lontano da quello in cui lo stesso viene raccolto e, per di più, abbastanza prevedibile. Il che consente di impiegare le risorse del fondo anche in investimenti di lungo e lunghissimo periodo, in misura ancora più significativa di quella consentita a fondi mobiliari chiusi. Della disciplina dei fondi pensione, introdotta con il D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124, ed oggi dettata dal D.Lgs. 5 dicembre 2005, n. 252, analizzeremo qui soltanto le norme che attengono più da vicino alla loro attività di investitori istituzionali in strumenti finanziari. Nell’ambito dei fondi pensione è necessario distinguere, anche con riferimento ai profili che qui interessano, i fondi pensione di origine negoziale, definiti anche fondi contrattuali o fondi chiusi, dai fondi aperti. I fondi pensione chiusi sono riservati a particolari gruppi di lavoratori, individuati secondo predeterminati criteri di appartenenza a categorie omogenee (es.: settori merceologici, singole imprese). In particolare i fondi chiusi sono riservati: a) ai lavoratori dipendenti sia privati sia pubblici, identificati per ciascuna forma secondo il criterio di appartenenza alla medesima categoria, comparto o raggruppamento, anche territorialmente delimitato, e distinti eventualmente anche per categorie contrattuali, oltre che secondo
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il criterio dell’appartenenza alla medesima impresa, ente, gruppo di imprese o diversa organizzazione di lavoro e produttiva; b) a raggruppamenti sia di lavoratori autonomi sia di liberi professionisti, anche organizzati per aree professionali e per territorio; c) a raggruppamenti di soci lavoratori di cooperative di produzione e lavoro, anche unitamente ai lavoratori dipendenti dalle cooperative interessate. Essi nascono sulla base di accordi o contratti che coinvolgono l’intero gruppo dei destinatari delle forme di previdenza integrative. L’art. 3 del D.Lgs. n. 252 del 2005 individua fra le altre fonti istitutive dei fondi chiusi le seguenti: «a) contratti e accordi collettivi, anche aziendali, limitatamente, per questi ultimi, anche ai soli soggetti o lavoratori firmatari degli stessi, ovvero, in mancanza, accordi fra lavoratori, promossi da sindacati firmatari di contratti collettivi nazionali di lavoro; accordi anche interaziendali; per gli appartenenti alla categoria dei quadri, promossi dalle organizzazioni sindacali nazionali rappresentative della categoria, membri del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro; b) accordi fra lavoratori autonomi o fra liberi professionisti, promossi da loro sindacati o associazioni di rilievo almeno regionale; c) regolamenti di enti o aziende, i cui rapporti di lavoro non siano disciplinati da contratti o accordi collettivi, anche aziendali; d) le regioni, le quali disciplinano il funzionamento di tali forme pensionistiche complementari con legge regionale nel rispetto della normativa nazionale in materia; e) accordi fra soci lavoratori di cooperative, promossi da associazioni nazionali di rappresentanza del movimento cooperativo legalmente riconosciute». I fondi pensione aperti, previsti dall’art. 12 del D.Lgs. n. 252 del 2005, nascono per iniziativa di soggetti promotori, a tal fine autorizzati, che offrono a singoli lavoratori o a gruppi di lavoratori prestazioni di previdenza integrativa e potevano, in un primo momento, essere promossi solo per i lavoratori per i quali non sussistessero fondi pensione chiusi per la mancanza dei presupposti ai quali è subordinata la loro costituzione, ma questa limitazione non sussiste più dal 1° gennaio 2008. Su entrambi i tipi di fondi insiste la vigilanza della COVIP, Commissione di Vigilanza sui fondi pensione; autorità dotata di personalità di diritto pubblico che ha come scopo quello di perseguire la corretta e trasparente amministrazione e gestione dei fondi per la funzionalità del siste-
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ma di previdenza complementare (art. 18, D.Lgs. n. 252 del 2005) e a sua volta sottoposta alla vigilanza del Ministro del Lavoro. Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali vigila sulla COVIP ed esercita l’attività di alta vigilanza sul settore della previdenza complementare, mediante l’adozione, di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze, di direttive generali alla COVIP, volte a determinare le linee di indirizzo in materia di previdenza complementare. La Commissione non può dunque essere considerata un’autorità indipendente, dal momento che sulla stessa insiste un potere di indirizzo del Ministro del Lavoro. Ma vediamo più da vicino la disciplina dei due tipi di fondi.
7.1. I fondi pensione chiusi I fondi pensione chiusi sono costituiti, nel nostro ordinamento, nella forma, in verità inidonea, dell’associazione non riconosciuta, ai sensi dell’art. 36 ss. c.c., o della persona giuridica, ai sensi dell’art. 12 c.c., attribuita al fondo da un provvedimento del Ministro del Lavoro. In entrambi i casi la raccolta del risparmio fra i lavoratori e la «gestione» dello stesso da parte del fondo possono essere effettuate solo previa autorizzazione della COVIP. L’autorizzazione è subordinata alla presenza di requisiti di professionalità e onorabilità degli «esponenti aziendali» e, soprattutto, alla indicazione puntuale, nello statuto del fondo, delle caratteristiche del fondo stesso (ad esempio, a contribuzione definita o, nei limiti in cui è consentita, a prestazione definita) e delle modalità di gestione delle risorse. I fondi così autorizzati sono iscritti nell’albo dei fondi pensione tenuto dalla COVIP. 7.1.1. La gestione delle risorse A) Le modalità di gestione delle risorse raccolte dal fondo sono fissate in modo radicalmente diverso a seconda che il fondo sia a prestazione definita, ossia con predeterminazione della somma o della rendita che dovrà essere corrisposta al lavoratore, o a contribuzione definita, rimanendo in questo secondo caso l’entità della prestazione previdenziale determinata dai risultati delle gestione del risparmio raccolto. Nella prima ipotesi, nella quale si è in presenza di un’attività tipicamente assicurativa, in quanto la corresponsione della somma è esposta al rischio reale del momento in cui il lavoratore cesserà la propria attivi-
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tà, il fondo deve necessariamente impiegare il risparmio raccolto nella stipulazione di contratti di assicurazione, con imprese di assicurazione, che assumono l’impegno di corrispondere le prestazioni previdenziali convenute. In questo caso il fondo non svolge alcuna attività di investimento mobiliare; attività che potrà invece essere svolta dall’impresa di assicurazione nella gestione delle somme ricevute, sotto forma di premi, dal fondo. Il fondo si limita a stipulare il contratto di assicurazione, a favore del lavoratore, e a svolgere le attività necessarie per conservare il rapporto assicurativo, compreso, e in primo luogo, il pagamento dei premi. Nell’ipotesi, invece, in cui il regime previsto sia non a prestazione definita ma a contribuzione definita, il ruolo del fondo assume importanza ben maggiore, anche per quanto concerne le attività di mercato mobiliare. Il legislatore, a dire il vero, non consente la gestione diretta del risparmio da parte del fondo, neppure in questo caso, ed impone al fondo di affidare la gestione stessa ad un operatore professionale, sulla base di una convenzione che, per altro, riserva al fondo una posizione di grande rilievo. In particolare il fondo può stipulare una convenzione per la gestione delle risorse: a) con un’impresa di investimento o con una banca autorizzata all’esercizio dell’attività di gestione; b) con una società di gestione del risparmio; c) con un’impresa di assicurazione. Si instaura così fra fondo pensione e «gestore» delle risorse un rapporto contrattuale avente per oggetto, appunto, la gestione delle risorse raccolte presso i lavoratori e sottoposto, per altro, a forte tipizzazione e a penetranti interventi dell’autorità di controllo (legge, provvedimenti del Ministro dell’Economia e delle Finanze sulla scelta degli investimenti, convenzioni base e contratti tipo sottoposti all’approvazione della Commissione di vigilanza). Accanto al rapporto fra fondo e gestore si colloca poi quello che lega quest’ultimo alla banca depositaria, la cui presenza è obbligatoria anche nella gestione del risparmio previdenziale, così come lo è per le gestioni degli altri investitori istituzionali; banca depositaria cui è affidata la custodia delle risorse e che svolge altresì il controllo preventivo di legittimità sulle scelte del gestore. Nessun rapporto convenzionale sorge, invece, fra gestore e lavoratori: questi ultimi possono far valere i loro crediti previdenziali nei confronti del fondo, ma si trovano in una condizione di sostanziale passività nei confronti del gestore del risparmio; condizione, del resto, che caratterizza tutto il risparmio gestito in monte e non solo quello previdenziale. Le convenzioni che legano il fondo al gestore devono, in ogni caso (cfr. art. 6, 8° comma, D.Lgs. n. 252 del 2005):
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a) contenere le linee di indirizzo dell’attività del gestore «e le modalità con le quali possono essere modificate» tali linee; b) prevedere i termini e le modalità attraverso cui i fondi pensione possono recedere dal rapporto di gestione, «contemplando anche la possibilità per il fondo pensione di rientrare in possesso del proprio patrimonio attraverso la restituzione delle attività finanziarie nelle quali risultano investite le risorse del fondo»; c) «prevedere l’attribuzione in ogni caso al fondo pensione della titolarità dei diritti di voto inerenti ai valori mobiliari nei quali risultano investite le disponibilità del fondo medesimo». Come si può notare, mentre il risparmiatore viene escluso da ogni ingerenza nella gestione, non altrettanto può dirsi del fondo, che, pur non potendo disporre del risparmio raccolto attraverso operazioni di investimento e di disinvestimento delle risorse («gestione»), può, tuttavia, indirizzare l’attività del gestore fissando i criteri generali cui quest’ultimo dovrà attenersi (asset allocation). Non sembra, tuttavia, che il fondo possa imporre scelte specifiche al gestore, risultando tale potere incompatibile con il divieto di gestione diretta delle risorse. Al fondo inoltre viene riservata la titolarità del diritto di voto inerente ai valori mobiliari affidati al gestore. La legge precisa che «i fondi sono titolari dei valori e delle disponibilità conferiti in gestione»; norma nella quale il concetto di titolarità va inteso sia nel senso di titolarità formale, intestazione dei valori, sia in senso sostanziale, nel senso di appartenenza effettiva degli stessi. E conseguenza naturale di questa attribuzione al fondo della titolarità dei valori mobiliari affidati al gestore è la norma, in verità non indispensabile, secondo la quale i beni affidati dal fondo al gestore costituiscono «in ogni caso patrimonio separato ed autonomo» da quello del gestore e, come tale, sottratto alle pretese dei suoi creditori. «Accordi in tema di titolarità dei beni», tra fondo e gestore, sono consentiti quando il gestore assuma l’impegno, nei confronti del fondo, di garantire almeno la restituzione del capitale o un rendimento minimo; impegno di natura meramente finanziaria e che non trasforma il rapporto di gestione in rapporto assicurativo. Nell’ipotesi in cui sussista questa garanzia il legislatore consente al gestore di assumere la titolarità formale, l’intestazione dei valori mobiliari gestiti e non anche quella sostanziale, che trasformerebbe il gestore in destinatario finale e residuale dei risultati della gestione, in evidente contrasto con la mera funzione gestoria allo stesso attribuita dalla legge.
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B) Complicata e peculiare è la disciplina prevista dalle convenzioni tipo per l’esercizio dei diritti di voto relativi alle azioni possedute da un fondo pensione ed acquistate dal gestore convenzionato con il primo. Queste prevedono due regimi abbastanza differenziati a seconda che fra il fondo ed il gestore non sia o sia intervenuto un accordo sulla titolarità delle azioni. Nella prima ipotesi, le azioni restano nella titolarità anche formale del fondo e, in ogni caso, al fondo resta la titolarità del diritto di voto (art. 6, 9° comma, D.Lgs. n. 252 del 2005). E da quest’ultima statuizione qualche autore aveva fatto derivare la conclusione che il fondo non potesse delegare l’esercizio del diritto di voto al gestore, temendo l’elusione di quel dettato normativo. Le convenzioni tipo non si muovono in questo senso e consentono che la rappresentanza del fondo per l’esercizio del diritto di voto possa essere conferita al gestore, con procura da rilasciarsi per iscritto e per singola assemblea, precisando che il voto sarà esercitato secondo le istruzioni vincolanti impartite dal fondo, anche con riguardo a più assemblee. Dunque il gestore potrà ricevere direttive generali destinate a valere anche per una pluralità di assemblee, ma la delega avrà effetto per una sola assemblea. Nell’ipotesi in cui il gestore abbia assunto la garanzia della restituzione e a quella garanzia si sia aggiunto un accordo sulla titolarità dei valori mobiliari, le azioni sono intestate non più al fondo pensione bensì al gestore. Ma anche in questo caso, per esplicito disposto della legge, la titolarità del diritto di voto compete al fondo pensione e, quindi, il fondo pensione deve essere posto in condizione di esercitare il diritto di voto per le azioni delle quali non è titolare. L’ipotesi viene esplicitamente disciplinata dalla convenzione tipo nella quale si prevede che il gestore si impegni a rilasciare al fondo delega per l’esercizio del diritto di voto. In questa ipotesi è dunque il gestore, titolare formale dell’azione, che delega il titolare sostanziale del diritto di voto all’esercizio in nome altrui di un diritto proprio. Non si deve, tuttavia, pensare che in questa situazione il diritto di voto del fondo pensione cessi di essere un poteredovere, perché, come è noto, anche il fondo pensione deve agire nell’interesse degli aderenti al fondo medesimo. La norma convenzionale appena illustrata si limita a dare attuazione al precetto legislativo per l’ipotesi in cui le azioni siano nella titolarità formale del gestore. Ma la stessa va oltre, consentendo che l’esercizio del diritto di voto sia riservato al gestore; gestore che, nell’ipotesi, è già titolare delle azioni ma ex lege privato del diritto di voto. E la convenzione prevede che, anche in questo caso, le parti possano concordare che il gestore eserciti direttamente il diritto di voto, per altro attenendosi alle istruzioni rilasciate per iscritto e
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per ogni singola assemblea dal fondo. Quest’ultima previsione, indispensabile per cercare di conservare una qualche rilevanza alla norma che vuole in ogni caso riservata al fondo la titolarità del diritto di voto, finisce per restituire al gestore, quando abbia assunto almeno in parte il rischio della gestione, un forte e notevole potere anche con riferimento alla funzione di monitoraggio sull’impresa. 7.1.2. La vigilanza sui fondi e sui gestori A) Di grande rilievo nel determinare la struttura e il comportamento dei fondi è la vigilanza della COVIP. Questa, infatti, concorre all’approvazione degli statuti dei fondi, alla determinazione del contenuto delle convenzioni e dei contratti tipo e assume i provvedimenti necessari per assicurare la trasparenza dei rapporti fra fondo e partecipanti. B) I fondi pensione possono essere sottoposti, con provvedimenti del Ministro del Lavoro, ad amministrazione straordinaria e a liquidazione coatta amministrativa, con esclusione dalle procedure concorsuali di diritto comune. C) Sull’attività dei gestori delle risorse, continua ad insistere la vigilanza propria di ciascuno di essi (imprese di investimento, banche e società di gestione del risparmio); inoltre essi debbono adeguarsi ai vincoli che per questa particolare attività sono stabiliti dal Ministro dell’Economia e delle Finanze. In ogni caso, vale per i fondi pensione e per i gestori delle loro risorse il principio di separatezza: essi non possono detenere partecipazioni superiori al cinque per cento, se si tratta di società quotate, o al dieci per cento, se concerne società non quotate, del capitale della società partecipata e non possono, comunque, assumere in esse partecipazioni che attribuiscano loro «un’influenza dominante».
7.2. I fondi aperti I fondi aperti possono essere istituiti, secondo quanto dispone l’art. 12, 1° comma, D.Lgs. n. 252 del 2005, dai soggetti con i quali è consentita la stipulazione di convenzioni per la gestione delle risorse dei fondi pensione chiusi, ossia banche, autorizzate all’esercizio del servizio delle gestioni personalizzate, compagnie di assicurazione, società di gestione del risparmio e imprese di investimento (Sim). L’istituzione del fondo deve essere autorizzata dalla COVIP, d’intesa con le autorità di vigilanza sui soggetti promotori. I fondi aperti potranno avere sia le caratteristiche del fondo a prestazione definita (nel qual caso
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la relativa convenzione potrà essere stipulata esclusivamente con un’impresa di assicurazione) o a contribuzione definita. Intervenuta l’autorizzazione, la società promotrice potrà raccogliere il risparmio previdenziale presso i lavoratori, dipendenti o autonomi, e anche presso soggetti non lavoratori, nel rispetto delle norme sull’offerta al pubblico di prodotti finanziari. I risparmiatori acquisiranno così una quota del fondo; quota che deve considerarsi a sua volta un prodotto finanziario ma non uno strumento finanziario, non rientrando nel catalogo previsto dall’art. 1 del T.U. n. 58 del 1998. Le risorse così raccolte costituiscono un patrimonio separato da quello della società promotrice e di «pertinenza» della collettività degli aderenti al fondo. Le risorse verranno gestite, in conformità con le indicazioni del regolamento del fondo, dagli organi della medesima società promotrice, la quale, per altro, deve provvedere normalmente ad individuare un «responsabile del fondo», dotato dei poteri necessari per vigilare sulla gestione del fondo. Le risorse vengono necessariamente custodite presso una banca depositaria. L’esercizio del diritto di voto compete alla società promotrice del fondo.
1. I mercati «organizzati»
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Capitolo VI
La disciplina dei mercati SOMMARIO: 1. I mercati «organizzati». – 2. L’autorizzazione all’organizzazione e alla gestione di mercati regolamentati. – 3. La società di gestione del mercato. – 3.1. La struttura della società. – 3.2. Le attività. – 4. Il prospetto di quotazione. – 5. La vigilanza sul mercato e sulla società di gestione. – 6. Gli organismi di compensazione, liquidazione e garanzia delle operazioni. – 7. La gestione accentrata degli strumenti finanziari. – 8. I sistemi di negoziazione diversi dai mercati regolamentati. – 8.1. Sistemi multilaterali di negoziazione. – 8.2. Sistemi organizzati di negoziazione. – 8.3. Gli internalizzatori sistematici. – 8.4. I sistemi multilaterali di scambio di depositi. – 9. I mercati regolamentati italiani. – 9.1. La «trasformazione» dei mercati regolamentati italiani. – 9.2. Le società di gestione dei mercati regolamentati italiani. – 9.3. I mercati gestiti da Borsa italiana S.p.A. – 9.3.1. Le regole comuni per la Borsa e l’IDEM. – 9.3.2. Il Mercato ufficiale di Borsa. – 9.3.3. Il Mercato degli strumenti derivati (IDEM). – 9.4. Il Mercato all’ingrosso dei titoli di Stato (MTS). – 9.5. Il mercato Bondvision. – 9.6. Il Mercato all’ingrosso delle obbligazioni non governative. – 9.7. Gli organismi di compensazione, liquidazione e garanzia. – 10. Informazione societaria, insider trading e manipolazione nei mercati regolamentati.
1. I mercati «organizzati» Come si è già accennato, il legislatore utilizza l’espressione «mercato» anche per individuare le organizzazioni che prestano una serie di servizi diretti a ridurre i costi di transazione che si incontrano nella negoziazione degli strumenti finanziari. È in questa accezione, infatti, che il legislatore usa il termine «mercato» quando detta (Parte III, Titoli I, artt. 61-78, T.U. n. 58 del 1998) la «disciplina dei mercati». Nel suo dettato originario, il T.U. distingueva, poi, tra «mercati regolamentati» e «mercati non regolamentati»; dando attuazione alla direttiva MIFID, il D.Lgs. n. 164 del 2007 ha cancellato la nozione di mercato non regolamentato e il T.U. oggi distingue i mercati regolamentati (Capo I, del Titolo I, della Parte III) dai «sistemi di negoziazione diversi dai mercati regolamentati» (Capo II, del medesimo Titolo I), ricomprendendo entrambi in un titolo, la cui rubrica è genericamente intitolata «Disciplina dei mercati»;
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nella nozione di mercato rientrano dunque anche i sistemi di negoziazione diversi dai mercati regolamentati, ma si tratta di annotazione di non grande rilievo sotto il profilo delle norme applicabili. L’attuazione della MIFID 2 (D.Lgs. n. 129 del 2017) ha ulteriormente innovato la sistematica della disciplina dei mercati distinguendo fra le “sedi di negoziazione”, che ricomprendono i mercati regolamentati, i sistemi multilaterali di negoziazione e i sistemi organizzati di negoziazione (art. 1, comma 5°-octies, lett. c) del T.U.F.), e gli internalizzatori sistematici (cfr. la rubrica del Titolo I-bis della Parte III del T.U.F. dedicata, appunto alla disciplina delle sedi di negoziazioine e degli internalizzatori sistematici). A) È facile intuire l’importanza del ruolo che siffatte organizzazioni possono svolgere per la creazione e per lo sviluppo del mercato degli strumenti finanziari: rendono più facile l’incontro tra domanda ed offerta, danno certezza alle regole di negoziazione, accrescono la liquidità degli strumenti finanziari negoziati, rendono o possono rendere più sicura l’esecuzione dei contratti; in una parola riducono i costi di transazione che emittenti ed intermediari debbono affrontare nella negoziazione dei titoli. Si può ben immaginare, dunque, che, spontaneamente, gli operatori tendano a dar vita ad organizzazioni che svolgano servizi di questo genere. Nei confronti di tali organizzazioni il legislatore può mantenere una posizione di indifferenza, lasciando la loro disciplina alle norme di diritto comune, ma può anche succedere, e normalmente succede, che almeno per alcune di esse preveda uno statuto speciale, sottoponendole al controllo della pubblica autorità. In quest’ultima ipotesi, saremo in presenza di un mercato regolamentato, nella prima di un mercato non regolamentato, sempreché quest’ultima eventualità non sia esclusa dall’ordinamento e ferma restando la possibilità, recepita dal T.U., n. 58 del 1998, che il legislatore detti una disciplina inderogabile anche per i sistemi di negoziazione diversi dai mercati regolamentati. Il legislatore può, per altro, anche stabilire che l’organizzazione e la prestazione dei servizi di mercato non rientrino nell’ambito dei poteri dell’autonomia privata, sia pure sottoposta a controllo, e riservare all’apparato pubblico l’istituzione e la gestione dei mercati. In tal caso saremo in presenza di un mercato pubblico, che nasce per iniziativa della pubblica autorità. Nell’ipotesi dei mercati privati regolamentati, l’organizzazione e la prestazione dei servizi sono attività d’impresa, sia pure sottoposte a disciplina speciale; nell’ipotesi di mercati pubblici l’organizzazione e la presta-
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zione degli stessi servizi costituiscono l’espletamento di un pubblico servizio. Il primo modello ha trovato puntuale attuazione nell’ambito dei mercati mobiliari anglosassoni; il secondo appartiene alla tradizione francese ed ha trovato realizzazione nei paesi dell’Europa continentale. B) Il modello del mercato pubblico, istituito dalla pubblica autorità, è stato adottato anche nel nostro paese, fino alla riforma introdotta con il D.Lgs. n. 415 del 1996. Quest’ultimo lo ha abbandonato per un modello di mercato-impresa, creato per iniziativa dell’autonomia privata, ma sottoposto ad autorizzazione e controllo pubblici, ossia per un modello di mercato privato regolamentato. Quel provvedimento prevedeva anche la presenza di mercati non regolamentati; oggi, come si è accennato, il T.U., n. 58 del 1998 consente la presenza di sistemi di negoziazione diversi dai mercati regolamentati sottoposti ad una serie di regole indisponibili. Il passaggio dall’uno all’altro modello, ha trovato la propria «occasione», non giuridica ma politica, nell’attuazione della direttiva 93/22 sui servizi di investimento e, più in particolare, nella circostanza che la stessa ha applicato il principio del mutuo riconoscimento anche alle organizzazioni di mercato. Tale principio consente alle imprese di investimento comunitarie di effettuare le negoziazioni loro richieste dai clienti su uno qualunque dei mercati regolamentati della Comunità ed è ovvio che gli intermediari sceglieranno il mercato (privato o pubblico) che offre servizi più efficienti a prezzo minore. In altri termini, l’attuazione del mutuo riconoscimento dei mercati ha messo in concorrenza non solo le imprese di investimento, ossia gli intermediari, ma anche le organizzazioni di mercato, ossia i mercati. Sul presupposto che il mercato-servizio pubblico sia meno efficiente del mercato-impresa, il legislatore del 1996 ha ritenuto opportuno passare dal primo al secondo. E queste scelte sono state tenute ferme dal T.U. n. 58 del 1998. C) Abbiamo fin qui utilizzato l’espressione mercato regolamentato per individuare i mercati-impresa sottoposti a disciplina speciale, contrapposti ai mercati pubblici, creati per iniziativa della pubblica autorità. E, del resto, è questa la terminologia usata dal nostro legislatore per individuare i mercati-impresa. È necessario, tuttavia, precisare che la stessa non coincide con quella comunitaria; l’art. 1, 1° comma, direttiva 93/22 forniva, infatti, ai fini del mutuo riconoscimento, una nozione di mercato regolamentato comprensiva anche dei mercati pubblici e nello stesso senso si muovono sia la direttiva MIFID sia la direttiva MIFID 2.
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Più esattamente le direttive comunitarie attribuiscono il mutuo riconoscimento ai «mercati regolamentati», considerando «regolamentato» un qualunque mercato che sia iscritto nell’elenco dei mercati regolamentati; «che funzioni regolarmente»; «che sia caratterizzato dal fatto che le disposizioni, elaborate o approvate dalle autorità competenti, definiscono le condizioni di funzionamento del mercato e di accesso allo stesso»; che prescriva il rispetto di tutti gli obblighi di trasparenza previsti dalla direttiva stessa. E l’impostazione comunitaria è chiaramente recepita dalla nozione di mercato regolamentare dettata dal T.U.F. (art. 1, 1° comma, lett. w-ter) e secondo la quale il mercato regolamentato è un «sistema multilaterale amministrato e/o gestito da un gestore del mercato, che consente o facilita l’incontro, al suo interno e in base alle sue regole non discrezionali, di interessi multipli di acquisto e di vendita di terzi relativi a strumenti finanziari, in modo da dare luogo a contratti relativi a strumenti finanziari ammessi alla negoziazione conformemente alle sue regole e/o ai suoi sistemi, e che è autorizzato e funziona regolarmente e conformemente alla parte III». Ed è ovvio che, nell’ambito di questa nozione, rientrano anche i mercati pubblici. D) Abbiamo già ricordato che la concreta applicazione delle direttive MIFID, ha finito per comprimere il ruolo dei mercati regolamentati dal momento che prevedono, come canali alternativi per la negoziazione degli strumenti quotati, «i sistemi multilaterali di negoziazione» i «sistemi organizzati di negoziazioni» e le imprese di «internalizzazione sistematica», considerati come servizi di investimento destinati appunto alla negoziazione di tali strumenti al di fuori dei mercati regolamentati. E) Abbiamo anche ricordato che l’attuazione della MIFID 2 ha dettato una disciplina generale per le «sedi di negoziazione»; nozione che ricomprende sia i mercati regolamentati, sia i sistemi multilaterali di negoziazione sia i sistemi organizzati di negoziazione. Abbiamo appena ricordato la nozione di mercato regolamentato, che costituisce una delle tre forme che possono assumere le sedi di negoziazione. Le altre due (i sistemi multilaterali di negoziazione e i sistemi organizzati di negoziazione) vengono definiti dal T.U. nei seguenti termini (art. 1, comma 5°-octies, lett. a) del T.U.F.): per sistema multilaterale di negoziazione si intende «un sistema multilaterale gestito da un’impresa di investimento o da un gestore del mercato che consente l’incontro, al
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suo interno e in base a regole non discrezionali, di interessi multipli di acquisto e di vendita di terzi relativi a strumenti finanziari, in modo da dare luogo a contratti conformemente alla parte II e alla parte III»; e per un sistema organizzato di negoziazione si intende (art. 1, comma 5°octies, lett. b) del T.U.F.) «un sistema multilaterale diverso da un mercato regolamentato o da un sistema multilaterale di negoziazione che consente l’interazione tra interessi multipili di acquisto e di vendita di terzi relativi a obbligazioni, strumenti finanziari strutturati, quote di emissioni e strumenti derivati, in modo da dare luogo a contratti conformemente alla parte II e alla parte III». Queste due ultime nozioni descrivono due ipotesi di sistema multilaterale di negoziazione definite dal T.U.F. (art. 1, comma 5°-bis, 1) come «un sistema che consente l’interazione tra interessi multipli di acquisto e di vendita di terzi relativi a strumenti finanziari»; ipotesi che si distinguono per l’oggetto delle relative negoziazioni. Come accennavamo, le norme di attuazione della MIFID 2 hanno dettato una disciplina comune a tutte le sedi di negoziazione, ossia una disciplina comune ai mercati regolamentati, ai sistemi multilaterali di negoziazione e ai sistemi organizzati di negoziazione. Dedicheremo una specifica attenzione a ciascuna di queste «sedi di negoziazione»; qui basti richiamare alcune norme comuni. Così il legislatore ha previsto che su tutte le sedi di negoziazione insista la Vigilanza della Consob «al fine di assicurare la trasparenza, l’ordinato svolgimento delle negoziazioni e la tutela degli investitori» (art. 62, 1° comma del T.U.F.); e nel perseguimento di tali formalità la Consob e la Banca d’Italia, nell’ambito delle rispettive competenze «possono effettuare ispezioni e richiedere l’esibizione di documenti e il compimento degli atti ritenuti necessari nei confronti dei gestori delle sedi di negoziazione e di coloro ai quali i gestori medesimi abbiano esternalizzato funzioni operative essenziali o importanti e al loro personale» (art. 62-novies del T.U.F.). E sempre per il perseguimento di tali finalità la Consob e la Banca d’Italia possono: «a) chiedere a chiunque la comunicazione, anche periodica, di dati e notizie e la trasmissione di atti e documenti con le modalità e nei termini da esse stabiliti; b) procedere ad audizione personale nei confronti di chiunque possa essere in possesso di informazioni pertinenti; c) richiedere ai revisori legali o alle società di revisione delle sedi di negoziazione di fornire informazioni» (art. 62-octies del T.U.F.).
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Accanto al potere ispettivo le stesse Autorità hano anche «poteri di intervento» (art. 62-decies del T.U.F.). Esse possono, infatti, «a) pubblicare avvertimenti al pubblico nel sito internet della Consob o della Banca d’Italia; b) intimare ai gestori delle sedi di negoziazione di non avvalersi, nell’esercizio della propria attività e per un periodo non superiore a tre anni, dell’attività professionale di un soggetto ove possa essere di pregiudizio per la trasparenza, l’ordinato svolgimento delle negoziazioni, la tutela degli investitori e l’efficienza complessiva del mercato; c) disporre la rimozione di uno o più esponenti aziendali del gestore di un mercato regolamentato ovvero, sentita l’altra autorità, della Sim o della banca italiana che gestisce un sistema multilaterale di negoziazione o un sistema organizzato di negoziazione, qualora la loro permanenza in carica sia di pregiudizio al perseguimento delle finalità previste dagli articoli 62, comma 1; d) nei confronti di chiunque, ivi inclusi gli operatori, diversi dai soggetti abilitati, ammessi alle sedi di negoziazione, anche come partecipanti remoti, ordinare, anche in via cautelare, la cessazione temporanea o permanente di pratiche o condotte contrarie alle disposizioni della presente parte».
2. L’autorizzazione all’organizzazione e alla gestione di mercati regolamentati A) L’art. 46, 1° comma, D.Lgs. n. 415 del 1996, nell’introdurre la nuova disciplina dei mercati regolamentati, aveva sentito il bisogno di enunciare una norma-manifesto, capace di segnare il profondo distacco tra il modello di mercato-impresa che si accingeva a regolare e il modello di mercato pubblico che caratterizzava l’ordinamento precedente. Aveva così affermato che «l’attività di organizzazione e gestione di mercati regolamentati di strumenti finanziari ha carattere di impresa», e questa affermazione di principio era stata ribadita dal Testo Unico (art. 61, 1° comma); e, a dire il vero, si trattava di una disposizione che poteva avere anche riflessi operativi concreti nel momento in cui sanciva che l’attività in questione godeva della tutela che l’art. 41 della Carta Costituzionale assicura all’attività d’impresa. Quella norma è stata eliminata nella revisione del T.U.F. in occasione dell’attuazione della MIFID 2 (D.Lgs. n. 129 del 2017).
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B) L’esercizio dell’attività di organizzazione e gestione di mercati regolamentati di strumenti finanziari («gestore del mercato regolamentato») è riservato a «società per azioni, anche senza scopo di lucro», dotate delle risorse finanziarie indicate dalla Consob e purché i soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo della società posseggano i requisiti di onorabilità e di professionalità fissati dal Ministro dell’Economia e delle Finanze, al quale è rimessa anche la determinazione dei requisiti di onorabilità dei soci che detengono partecipazioni rilevanti. La società di gestione, dunque, deve avere necessariamente forma di società per azioni, ma può anche non perseguire scopi di lucro. Il legislatore ha avuto presente che l’attività di gestione e di organizzazione di un mercato regolamentato può certamente essere esercitata per perseguire un profitto, ma può anche nascere da iniziativa di carattere consortile, soprattutto da parte di intermediari che si ripromettano da tale attività non un utile, ma un più intenso e anche più proficuo svolgimento della loro attività di imprese di investimento. In questa ipotesi il modello della società cooperativa o della società consortile avrebbe potuto trovare una naturale utilizzazione: il legislatore ha preferito tener fermo il modello organizzativo della società per azioni, chiarendo, per altro, che tale modello, in questa come in altre numerose occasioni, può essere adottato per scopi diversi da quello della divisione degli utili fra i soci. C) La società di gestione ha un oggetto esclusivo, in quanto non può esercitare alcuna attività che non sia «connessa» o «strumentale» all’organizzazione e alla gestione di uno o più mercati; e il catalogo delle attività connesse e strumentali compilato dalla Consob merita di essere riprodotto perché offre una immagine fedele delle attività che concorrono a determinare i servizi che un mercato organizzato può offrire ad intermediari, emittenti ed investitori. Anche se spesso tali attività, connesse e strumentali, non sono svolte dalla società di gestione ma da altri soggetti, come avremo modo di constatare anche con riferimento all’attuale assetto italiano dei mercati regolamentati. La Consob (art. 4, Regolamento n. 16191 adottato con delibera 29 ottobre 2007, Regolamento Mercati) ha considerato attività connesse e strumentali, che le società di gestione possono esercitare, quelle di: «a) predisposizione, gestione, manutenzione e commercializzazione di software, hardware e reti telematiche relativi a sistemi di contrattazione, trasmissione di ordini e dati;
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b) elaborazione, distribuzione e commercializzazione di dati concernenti gli strumenti finanziari negoziati nei mercati e di dati relativi ai mercati stessi; c) istituzione e gestione di sistemi di riscontro e rettifica delle operazioni aventi ad oggetto strumenti finanziari; d) promozione dell’immagine del mercato anche attraverso la diffusione di informazioni concernenti il mercato stesso e le società emittenti e ogni altra attività finalizzata allo sviluppo del mercato; e) istituzione e gestione di sistemi di garanzia delle operazioni effettuate nei mercati; f) gestione di sistemi multilaterali di scambio di depositi monetari; g) predisposizione, gestione e manutenzione di circuiti informativi per la visualizzazione e l’inserimento, da parte dei soggetti abilitati autorizzati alla negoziazione per conto proprio, all’esecuzione di ordini per conto dei clienti e alla ricezione e trasmissione di ordini, di condizioni di negoziazione di strumenti finanziari che non consentono la conclusione del contratto per il tramite del circuito stesso». Il D.Lgs. n. 164 del 2007, dando attuazione ad un precetto dettato dalla direttiva MIFID e il D.Lgs. n. 129 del 2017, dando attuazione alla MIFID 2, hanno inciso sulla esclusività dell’oggetto della società di gestione di un mercato regolamentato consentendo che la stessa possa anche gestire un sistema multilaterale di negoziazione o un sistema organizzato di negoziazione, come avremo modo di verificare anche illustrando i sistemi di negoziazione diversi dai mercati regolamentati. D) La società che intenda organizzare e gestire un mercato regolamentato di strumenti finanziari deve, ovviamente, prevedere un programma per la propria attività; programma che costituisce il contenuto del «regolamento del mercato» (cfr. art. 64-quater, T.U. n. 58 del 1998). Il regolamento del mercato, pur potendo essere considerato un atto di amministrazione, deve essere deliberato, a causa della sua importanza per la vita del mercato regolamentato, dall’assemblea ordinaria della società di gestione (o dal consiglio di sorveglianza se la società ha adottato il modello dualistico), a meno che lo statuto non attribuisca la relativa competenza all’organo di amministrazione (consiglio di amministrazione o consiglio di gestione); essendo, per altro, consentito attribuire, con il regolamento, il potere di dettare «norme di attuazione» a tale organo. Quest’ultimo, per altro, è l’organo competente a deliberare il Regolamento quando «le azioni della società di gestione siano quotate in un mer-
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cato regolamentato», forse in considerazione della natura diffusa che in questa ipotesi avrebbe la proprietà della società e, quindi, della imprevedibilità delle deliberazioni assembleari. Ma si tratterebbe di ragioni non del tutto convincenti. Il Regolamento deve essere reso pubblico secondo le modalità fissate dalla Consob e deve (art. 64-quater, 4° comma, T.U. n. 58 del 1998), in ogni caso, determinare: «a) le condizioni e le modalità di ammissione alle negoziazioni e di esclusione e sospensione dalle negoziazioni degli operatori; b) le condizioni e le modalità di ammissione alla quotazione e alle negoziazioni e di esclusione e sospensione dalla quotazione e dalle negoziazioni degli strumenti finanziari; c) le condizioni e le modalità per lo svolgimento delle negoziazioni e gli eventuali obblighi degli operatori e degli emittenti; d) le modalità di accertamento, pubblicazione e diffusione dei prezzi; e) i tipi di contratti ammessi nonché i criteri per la determinazione dei quantitativi minimi negoziabili; f) le condizioni e le modalità per la compensazione e il regolamento delle operazioni concluse sui mercati; g) le modalità di emanazione delle disposizioni di attuazione del regolamento da parte del gestore». Il «regolamento del mercato» è un atto di autonomia privata, anche se oggetto di valutazione da parte della Consob in sede di autorizzazione alla istituzione del mercato, e determina il contenuto dei rapporti che si instaureranno fra la società di gestione, da un lato, e gli emittenti dei titoli negoziati e gli intermediari, dall’altro. Le modificazioni del regolamento del mercato debbono essere approvate dalla Consob. E) Ogni mercato ha, dunque, un suo regolamento e ad ogni regolamento corrisponde un mercato ed uno soltanto. Ciò non impedisce tuttavia che all’interno di uno stesso mercato sia possibile individuare una pluralità di comparti che si caratterizzano per i titoli oggetto di negoziazione, per i contratti che negli stessi si possono concludere e per le particolarità tecniche delle contrattazioni. A tutti i comparti si applicano le norme generali previste per il mercato, ma a ciascuno di essi si applicheranno poi le speciali norme rese opportune dalla peculiarità dei titoli o dalle modalità di contrattazione. Così vedremo che nell’ambito del mercato ufficiale di Borsa italiana sono stati individuati sei diversi comparti e nell’ambito di uno di questi è stato definito un particolare segmento (il segmento Star dell’MTA).
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Le norme che reggono il funzionamento del mercato sono norme di diritto privato e di diritto privato sono i rapporti che si instaurano fra società di gestione, intermediari ed emittenti; e in questo quadro dovranno essere collocate vicende come l’ammissione alla quotazione, che avviene su proposta dell’emittente, e l’ammissione alle negoziazioni di titoli già quotati su altri mercati regolamentati, effettuata senza domanda dell’emittente. Altrettanto dicasi per l’ammissione alle negoziazioni degli intermediari o la revoca della stessa. E anche le controversie che dovessero sorgere fra tali soggetti dovranno essere rimesse, come tutte le questioni che coinvolgono diritti soggettivi privati, alla conoscenza dell’autorità giudiziaria ordinaria. Il che rimane vero anche dopo che la legge n. 262 del 2005 ha imposto (art. 66-ter, T.U. n. 58 del 1998) alla società di gestione di comunicare le proprie decisioni immediatamente alla Consob e ha stabilito che l’esecuzione delle decisioni di ammissione e di esclusione è sospesa, per un termine massimo di cinque giorni, entro il quale termine la Consob «può vietare l’esecuzione delle decisioni di ammissione e di esclusione», se ritiene la decisione contraria «alla trasparenza e all’ordinato svolgimento delle negoziazioni» e in conflitto con la «tutela degli investitori». La nuova disciplina, introdotta sulla base del convincimento che la società di gestione possa assumere, nel proprio interesse, decisioni non sufficientemente oculate, attribuisce a Consob anche il potere di «chiedere alla società di gestione l’esclusione o la sospensione degli strumenti finanziari e degli operatori dalle negoziazioni» (art. 66-quater, T.U. n. 58 del 1998). Poteri tutti che non mi pare modifichino la natura delle decisioni della società di gestione, trasformandole in atti giuridicamente imputabili, oltre che alla società di gestione, anche alla Consob. F) La Consob autorizza «l’esercizio dei mercati regolamentati» quando la società di gestione possiede i requisiti sopra indicati e il regolamento «è conforme alla disciplina dell’Unione Europea e idoneo ad assicurare la trasparenza del mercato, l’ordinato svolgimento delle negoziazioni e la tutela degli investitori» (cfr. art. 64-quater, 3° comma, T.U. n. 58 del 1998). Come si vede, l’autorizzazione della Consob non è un’autorizzazione alla costituzione della società di gestione, ma all’esercizio dell’attività da parte della stessa; è un’autorizzazione che riguarda ogni singolo mercato che la società intenda istituire (potendo una società mercato istituire e gestire una pluralità di mercati regolamentati), che non può essere negata per ragioni attinenti alle «esigenze economiche» del mercato mobiliare in una prospettiva di vigilanza strutturale e che deve essere concessa
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quando il regolamento contenga norme capaci di assicurare il rispetto delle regole del gioco. Il che rimane vero anche se la Consob conserva una necessaria discrezionalità tecnica nella valutazione del regolamento; discrezionalità accentuata del D.Lgs. n. 129 del 2017 secondo il quale (si veda art. 64-quater, 8° comma) «il gestore del mercato fornisce alla Consob tutte le informazioni, fra cui un programma di attività che illustri i tipi di attività previsti e la struttura organizzativa, necessarie per accertare che il mercato regolamentato abbia instaurato tutti i dispositivi necessari per rispettare gli obblighi stabiliti dal pesente titolo». G) La Consob provvede all’iscrizione del mercato così autorizzato nell’elenco dei mercati autorizzati, «curando l’adempimento delle disposizioni dell’Unione Europea in materia», ossia provvedendo alla comunicazione dell’avvenuta iscrizione alle autorità di controllo degli altri paesi della Comunità, allo scopo di consentire alla società di gestione di avvalersi del diritto al mutuo riconoscimento previsto dall’art. 47 della direttiva 2004/39: da quel momento il mercato autorizzato diventerà anche un mercato comunitario «riconosciuto». H) La disciplina dell’autorizzazione alla istituzione di un mercato regolamentato di strumenti finanziari fin qui descritta, può essere «derogata» per quanto concerne «i mercati all’ingrosso dei titoli di stato». Le esigenze di politica monetaria e di politica finanziaria del Tesoro, hanno suggerito al legislatore di consentire che il Ministro dell’Economia e delle Finanze, sentite Banca d’Italia e Consob, possa disciplinare e autorizzare tali mercati anche in deroga alle disposizioni previste per la generalità dei mercati regolamentati (cfr. art. 62-bis, T.U. n. 58 del 1998). Non v’è dubbio che la norma comporti una segmentazione del mercato mobiliare, sia pure giustificabile; ma è altrettanto vero che tale segmentazione risulta fortemente ridimensionata quando si tenga presente che si tratta di mercati «all’ingrosso» (definiti, dall’art. 61, 1° comma, lett. e) del T.U.F. come «le sedi di negoziazione di titoli di Stato o di titoli obbligazionari privati e pubblici, diversi da titoli di Stato, nonché di strumenti del mercato monetario e di strumenti finanziari derivati su titoli pubblici, su tassi di interesse e su valute che, in base alle regole adottate dal gestore della sede, consentono esclusivamente le negoziazioni tra operatori che impegnano posizioni proprie ovvero, nel caso dei soggetti abilitati, quelle nelle quali gli operatori eseguono in contropartita diretta, con posizioni proprie, ordini di clienti professionali»), che, come tali, coinvolgono soltanto i grandi operatori che negoziano blocchi di eccezionale valore.
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I) I provvedimenti di autorizzazione all’esercizio di un mercato regolamentato debbono essere assunti, dalla Consob, dopo aver sentito la Banca d’Italia quando negli stessi vengano negoziati all’ingrosso titoli obbligazionari privati e pubblici diversi dai titoli di Stato o strumenti derivati su titoli pubblici, tassi di interesse o valute o strumenti normalmente negoziati sul mercato monetario (art. 62-quater, 3° comma, T.U. n. 58 del 1998) per la rilevanza che siffatti mercati possono avere per la politica monetaria e per la stabilità sistemica. L) Come abbiamo a suo tempo ricordato, il Testo Unico (art. 1, 2° comma) ricomprende fra gli strumenti finanziari anche i contratti derivati su merci. L’art. 66-sexies del T.U.F. ha disciplinato i mercati di strumenti finanziari derivati sull’energia e sul gas sostanzialmente secondo le regole generali dettate per i mercati regolamentati, prevedendo, accanto al controllo della Consob, anche quello dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas. M) Anche per i mercati regolamentati armonizzati, ossia conformi all’ordinamento comunitario, vale il principio del mutuo riconoscimento che consente l’operatività del mercato in un paese dell’Unione diverso da quello che ne autorizza l’istituzione. Così la società di gestione di un mercato regolamentato italiano armonizzato, che intende estendere l’operatività del mercato in altro stato membro, deve semplicemente darne comunicazione alla Consob, la quale, a sua volta, informa l’autorità competente dello Stato membro in cui la società intende operare. Simmetricamente un mercato armonizzato istituto in un altro paese dell’Unione potrà operare in Italia iscrivendosi in un’apposita sezione dell’elenco delle società di gestione (art. 67, 8° comma del T.U.F.). Nell’ipotesi in cui la società di gestione intenda estendere la propria attività in un paese extracomunitario, dovrà chiedere la relativa autorizzazione alla Consob, la quale potrà concederla dopo aver accertato «che le informazioni sugli strumenti finanziari e sugli emittenti, le modalità di formazione dei prezzi, le modalità di liquidazione dei contratti, le norme di vigilanza sui mercati e sugli intermediari siano equivalenti a quelli della normativa vigente in Italia e comunque in grado di assicurare adeguata tutela degli investitori» (art. 70, 2° comma del T.U.F.).
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3. La società di gestione del mercato 3.1. La struttura della società Abbiamo già individuato alcune delle caratteristiche strutturali della società di gestione del mercato (forma di società per azioni, anche senza scopo di lucro, oggetto sociale e relative attività connesse e strumentali; natura di autorizzazione all’esercizio dell’attività e non di autorizzazione alla costituzione dell’autorizzazione all’organizzazione dei mercati; deliberazione del regolamento del mercato). È forse opportuno, per altro, fornire qualche ulteriore particolare sulla disciplina della stessa. Secondo il dettato originario del T.U., la società di gestione doveva avere un «capitale minimo» la cui determinazione era rimessa alla Consob (art. 61, 2° comma, lett. a)); il D.Lgs. n. 164 del 2007 non richiede più un capitale minimo ma affida alla Consob il compito di individuare «le risorse finanziarie» delle quali la società di gestione deve poter disporre. Ed è ovvio la diversità delle due norme, dal momento che le risorse finanziarie non necessariamente sono «tutelate» dalle norme sul capitale sociale. Sulla base del vecchio dettato normativo, la Consob aveva individuato in cinque milioni di euro il capitale minimo che la società di gestione doveva avere; sulla base del nuovo dettato legislativo la Consob si è limitata a stabilire (art. 3 del Regolamento Mercati del 29 ottobre 2007) che «le società di gestione dispongono al momento dell’autorizzazione e continuativamente di risorse finanziarie sufficienti per rendere possibile il funzionamento ordinato dei mercati regolamentati gestiti, tenendo conto della natura e dell’entità delle operazioni concluse nei mercati nonché della portata e del grado dei rischi ai quali essi sono esposti». Il Ministro dell’Economia e delle Finanze (con decreto 11 novembre 1998, n. 471) ha individuato i requisiti di professionalità dei quali debbono essere in possesso i componenti del consiglio di amministrazione e del collegio sindacale (esperienza almeno triennale acquisita attraverso l’esercizio di attività di amministratore e di controllo presso imprese, attività professionali in settori finanziari, insegnamento universitario, ecc.), il presidente del consiglio di amministrazione (esperienza almeno quinquennale nelle attività appena ricordate), l’amministratore delegato ed il direttore generale («specifica competenza tecnica, in materia creditizia, finanziaria mobiliare e assicurativa maturata attraverso esperienze di lavoro in posizione di adeguata responsabilità per un periodo non inferiore ad un quinquennio»).
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I requisiti di onorabilità debbono essere posseduti non solo dai predetti esponenti aziendali, ma anche dai soci che detengano una partecipazione superiore al 5 per cento del capitale rappresentato da azioni con diritto di voto (art. 5, D.M. 11 novembre 1998, n. 471). Il socio «non onorabile» non può esercitare il diritto di voto e, nell’ipotesi in cui il suo voto sia stato determinante, la relativa deliberazione può essere impugnata anche dalla Consob. Sulla circolazione delle partecipazioni con diritto di voto superiore al 5 per cento del capitale «ordinario» insiste un controllo di trasparenza da parte della società di gestione e della Consob. Il loro acquisto impone all’acquirente (e al venditore) l’obbligo di comunicare l’operazione entro 24 ore e la società di gestione provvede a darne «senza indugio» comunicazione alla Consob (cfr. art. 5 del Regolamento Mercati). Questa non ha un potere di autorizzazione dell’acquisto della partecipazione rilevante, ma entro novanta giorni dalla comunicazione «può opporsi ai cambiamenti negli assetti di controllo quando vi siano ragioni obiettive e dimostrabili per ritenere che tali cambiamenti mettono a repentaglio la gestione sana e prudente del mercato» (art. 64-ter, 5° comma). Non è facile individuare quali siano le conseguenze di tale «opposizione» da parte della Consob, se non l’assunzione di «provvedimenti di rigore» nei confronti della società di gestione (sui quali ci intratterremo più avanti). Come si è già accennato, anche le azioni della società di gestione di un mercato regolamentato possono essere negoziate sul mercato gestito dalla stessa società. È evidente che in questa ipotesi l’ammissione alla negoziazione, la esclusione dalla stessa e gli eventuali provvedimenti di sospensione non possono essere lasciati alla società di gestione, neppure in presenza del potere di «reazione» che la legge n. 262 del 2005 ha attribuito a Consob. E tali provvedimenti, della cui natura privata si può fondatamente dubitare, sono infatti rimessi alla Consob, la quale determina altresì «le modificazioni da apportare al regolamento del mercato per assicurare la trasparenza, l’ordinato svolgimento delle negoziazioni e la tutela degli investitori, nonché per regolare le ipotesi di conflitto d’interessi» (art. 66-quinquies, 2° comma del T.U.F.). Le società di gestione del mercato sono sottoposte alla revisione legale dei conti, come le società quotate in un mercato regolamentato, senza che, per altro, venga limitato il diritto di impugnare il bilancio che abbia ottenuto un giudizio senza rilievi o con rilievi, come avviene in queste ultime ai sensi dell’art. 157, T.U. n. 58 del 1998.
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3.2. Le attività La società di gestione di un mercato regolamentato è libera di esercitare o non esercitare le attività «connesse» e «strumentali» sopra elencate, così come può non esercitare il servizio di gestione di un sistema multilaterale di negoziazione, ma deve necessariamente svolgere un’altra serie di attività, ritenute dalla legge essenziali per l’organizzazione e il retto funzionamento del mercato. Essa deve (cfr. art. 64, 2° comma, T.U. n. 58 del 1998): a) predisporre le strutture, fornire i servizi di mercato e determinare i corrispettivi ad essa dovuti dagli intermediari e dagli emittenti; b) adottare «tutti gli atti necessari per il buon funzionamento del mercato» e verificare il rispetto del regolamento da parte degli intermediari e degli emittenti; c) disporre «l’ammissione, l’esclusione e la sospensione degli strumenti finanziari dalla quotazione e degli operatori dalle negoziazioni»; d) adottare le disposizioni e gli atti necessari per prevenire e identificare abusi di informazioni privilegiate e manipolazioni del mercato. Inoltre, e conformemente alle disposizioni emanate dalla Consob, deve: 1. istituire per ogni singolo mercato «procedure elettroniche per la registrazione» delle operazioni effettuate sul mercato; procedure che consentano la ricostruzione di tutte le operazioni che si svolgono sul mercato regolamentato e indispensabile per l’accertamento della eventuale violazione delle norme alle quali debbono attenersi gli operatori del mercato stesso; 2. provvedere alla gestione e alla diffusione al pubblico delle informazioni e dei documenti che gli intermediari debbono rendere pubblici. Infine la società di gestione, sulla base di apposita convenzione con la Consob, può esercitare «gli altri compiti ad essa eventualmente affidati» dalla stessa Consob. Come si può notare, la società di gestione non deve compiere soltanto le attività materiali necessarie perché possa nascere e perché possa funzionare il mercato regolamentato, ma svolge importanti funzioni di vigilanza, dovendo assicurare il rispetto del regolamento che, a sua volta, e come abbiamo già rilevato, deve garantire la trasparenza del mercato, l’ordinato svolgimento delle negoziazioni e la tutela degli investitori. E, in definitiva, sono questi gli scopi che la società di gestione deve perseguire esercitando un’adeguata vigilanza sui negoziatori, ammessi ad operare sul mercato, sugli emittenti, i cui titoli sono oggetto di negoziazione, e sulle operazioni che vengono effettuate. E sono gli stessi scopi ai quali deve ispirarsi la vigilanza della Consob.
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La società di gestione è, dunque, titolare originaria di una serie di poteri di vigilanza sul funzionamento del mercato; poteri che concorrono a determinare il contenuto dei rapporti di diritto privato che la legano agli intermediari e agli emittenti dal momento in cui un’impresa di investimento viene ammessa a negoziare sul mercato o un’emittente ottiene l’ammissione di un proprio titolo alle negoziazioni. I poteri della società di gestione che trovano la propria fonte nel regolamento sono poteri privati. Il che, ovviamente, non può dirsi per i compiti alla stessa delegati dalla Consob e probabilmente non può dirsi neppure per le funzioni che trovano nella legge il proprio titolo sufficiente, come quelle relative alla registrazione delle operazioni e alla diffusione delle informazioni che debbono essere fornite al mercato. Questa confluenza in capo alla società di gestione di funzioni gestorie e di vigilanza potrebbe far sorgere la tentazione di intravedere nella società di gestione un soggetto incaricato di un pubblico servizio. La tentazione deve essere respinta: la società di gestione è un imprenditore che fornisce ad intermediari ed emittenti servizi di mercato perseguendo fini lucrativi o consortili, meramente privati; tale attività incontra vincoli posti a tutela di interessi generali, ma questi non trasformano la società di gestione in un’impresa-funzione, che persegue un interesse generale. Gli interessi generali costituiscono un vincolo esterno all’attività della società di gestione, che rimane pur sempre espressione del diritto di iniziativa economica. Il che non toglie, come si accennava, che alcune funzioni che la legge le attribuisce o la Consob le delega siano funzioni di natura pubblica.
4. Il prospetto di quotazione L’ammissione alla quotazione di uno strumento finanziario su un mercato regolamentato deve essere preceduta dalla pubblicazione di un «prospetto di quotazione». Normalmente una sollecitazione all’investimento si renderà necessaria per creare il flottante richiesto per l’ammissione alla quotazione, ossia per diffondere fra il pubblico lo strumento finanziario nella misura sufficiente per consentire la necessaria liquidità dello stesso. Ma la pubblicazione di un prospetto di quotazione è richiesta anche nell’ipotesi in cui i titoli siano già sufficientemente diffusi presso il pubblico: in questa seconda ipotesi la pubblicazione del prospetto di quota-
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zione ha lo scopo di fornire al mercato le informazioni delle quali altrimenti lo stesso sarebbe privo. Così il Regolamento Emittenti emanato dalla Consob stabilisce (art. 52) che l’emittente o la persona che chiede l’ammissione alle negoziazioni su un mercato regolamentato trasmette alla Consob il prospetto di offerta destinato alla pubblicazione. Il prospetto ha un contenuto sostanzialmente coincidente con quello generalmente previsto per l’offerta al pubblico di prodotti finanziari. La Consob svolge la propria istruttoria per accertare la completezza e la veridicità delle informazioni contenute nel prospetto e, verifica l’adozione del provvedimento di ammissione a quotazione da parte della società di gestione del mercato, autorizza la pubblicazione del prospetto. Il prospetto deve essere pubblicato «prima dell’inizio delle negoziazioni» mediante: a) messa a disposizione presso la società di gestione del mercato e presso la sede dell’emittente; b) contestuale trasmissione alla Consob e c) mediante inserimento «in uno o più giornali a diffusione nazionale o a larga diffusione»; d) in forma elettronica nel sito internet dell’emittente; e) in forma elettronica nel sito internet del mercato regolamentato. Nell’ipotesi in cui l’emittente intenda sollecitare il pubblico risparmio per creare il flottante richiesto per l’ammissione alla quotazione, il prospetto di quotazione vale anche come prospetto informativo per l’offerta al pubblico. L’emittente che chiede l’ammissione a quotazione può evitare di redigere e pubblicare il prospetto di quotazione in varie ipotesi tra le quali quella in cui, nei diciotto mesi precedenti la domanda, abbia pubblicato o un prospetto informativo diretto all’offerta al pubblico o un prospetto di quotazione in altro mercato regolamentato, avente ad oggetto gli stessi strumenti finanziari dei quali si chiede la quotazione. Inoltre la pubblicazione del prospetto di quotazione non è richiesta quando gli strumenti finanziari siano già ammessi alla negoziazione in un altro mercato regolamentato, sempreché la precedente quotazione sia avvenuta da oltre 18 mesi (cfr. art. 57, 1° comma, lett. h), Regolamento Emittenti). Quest’ultima disposizione postula la distinzione fra ammissione alla quotazione su domanda dell’emittente, con conseguente ammissione alla negoziazione, e ammissione alla negoziazione disposta dalla società di gestione di un mercato regolamentato di titoli già quotati su altro mercato e senza che tale ammissione sia chiesta dall’emittente.
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E per tale ipotesi non prevede, né potrebbe prevedere ragionevolmente, a carico dell’emittente che subisce la quotazione l’onere della pubblicazione del prospetto, resa, d’altra parte, superflua dalla precedente quotazione.
5. La vigilanza sul mercato e sulla società di gestione Abbiamo già constatato che importanti funzioni di vigilanza sui mercati regolamentati competono anche alla società di gestione; ma la funzione «superiore» di vigilanza sugli stessi è riservata alla Consob, che per il più efficace svolgimento di tale funzione, ha poteri di vigilanza anche sulla società di gestione del mercato. A) Più esattamente, a norma dell’art. 62, T.U. n. 58 del 1998, «la Consob vigila sui mercati regolamentati al fine di assicurare la trasparenza, l’ordinato svolgimento delle negoziazioni e la tutela degli investitori», ossia per gli stessi fini ai quali è indirizzata l’attività di vigilanza della società di gestione. Tra la Consob e la società di gestione non si instaura, per altro, un rapporto di sovraordinazione con un potere di direttiva della prima nei confronti della seconda, almeno per quanto concerne i poteri di vigilanza di cui la società di gestione è titolare originaria. La Consob esercita un controllo sul mercato e sulla società di gestione allo scopo di accertare che le regole che disciplinano il mercato siano osservate e che la società di gestione svolga le proprie funzioni, ma senza essere titolare di un potere di conformazione generalizzato. Il che non toglie, ovviamente, che per alcune funzioni questo potere sia espressamente sancito, come per quanto concerne la registrazione delle operazioni e la diffusione al pubblico delle informazioni relative agli operatori. Si è introdotto così un regime di audited self-regulation, nel quale la self-regulation della società di gestione è sottoposta a controllo e verifica da parte della Consob, ma senza fare della prima un’articolazione dell’attività della seconda. La Consob, per altro, «in caso di necessità e urgenza» deve adottare, per la tutela dei fini di vigilanza, «i provvedimenti necessari, anche sostituendosi alla società di gestione» (cfr. art. 62, 3° comma, T.U. n. 58 del 1998). B) La società di gestione è, come si accennava, sottoposta alla vigilanza della Consob.
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Questa può chiedere la comunicazione anche periodica di dati, notizie e documenti e può eseguire ispezioni; la Consob ha dunque poteri di vigilanza informativa ed ispettiva sulla società di gestione. Sulla quale, per altro, non insistono, almeno sul piano formale, regole di vigilanza prudenziale, se non per i profili disciplinati nel regolamento del mercato e che incidano sul corretto funzionamento del mercato o sulla tutela degli investitori, ossia che rientrino nell’ambito della vigilanza sui mercati. C) «In caso di gravi irregolarità nella gestione dei mercati» ovvero nell’amministrazione della società di gestione, e comunque in ogni caso in cui lo richieda la tutela degli investitori, il Ministero dell’Economia e delle Finanze, su proposta della Consob, dispone lo scioglimento degli organi amministrativi e di controllo della società di gestione e provvede alla nomina di un commissario al quale vengono attribuiti i poteri dell’organo amministrativo sciolto (cfr. art. 64-quinquies, 2° comma, T.U. n. 58 del 1998) (mentre non viene nominato un organo di controllo). Il commissario dura in carica fino alla ricostituzione degli organi della società ed opera secondo le direttive e sotto il controllo della Consob. Lo scioglimento degli organi gestori e di controllo della società di gestione e la nomina del commissario non incidono dunque sulla sorte del mercato, riducendosi a vicenda interna alla società. D) Allo scioglimento degli organi sociali può tuttavia seguire la revoca dell’autorizzazione alla gestione del mercato da parte della Consob (art. 64-quinquies, 1° comma, T.U. n. 58 del 1998); questa può revocare tale autorizzazione anche quando: «a) l’autorizzazione è stata ottenuta presentando false dichiarazioni o con qualsiasi altro mezzo irregolare; b) non sono più soddisfatte le condizioni cui è subordinata l’autorizzazione; c) sono state violate in modo grave e sistematico le disposizioni del presente titolo relative al mercato regolamentato o al gestore del mercato; d) abbia cessato di funzionare da più di sei mesi o rinunci epsressamente all’autorizzazione». Sia nell’ipotesi di scioglimento degli organi sia, e a maggior ragione, in caso di revoca dell’autorizzazione, la Consob può «disporre il trasferimento temporaneo della gestione del mercato ad altro gestore», promuovendo altresì «gli accordi necessari ad assicurare la continuità delle negoziazioni». La società di gestione, ormai priva dell’autorizzazione a gestire il mer-
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cato deve provvedere, entro tre mesi dalla revoca, o alla modificazione del proprio oggetto sociale o a deliberare il proprio scioglimento; in mancanza è lo stesso Ministero che può disporre lo scioglimento della società e provvedere alla nomina dei liquidatori; liquidatori che potranno essere revocati soltanto dal Ministero stesso. E) La società di gestione di un mercato regolamentato è sottoposta alle procedure concorsuali di diritto comune, ma le «iniziative per la dichiarazione di fallimento o per l’ammissione alle procedure di concordato preventivo [o amministrazione controllata] e i relativi provvedimenti del tribunale sono comunicati entro tre giorni alla Consob» (cfr. art. 75, 6° comma, T.U. n. 58 del 1998). Il legislatore non ha ritenuto necessario sottoporre a liquidazione coatta la società di gestione perché la sua insolvenza non dovrebbe, in quanto tale, mettere in pericolo i diritti degli intermediari e, soprattutto, degli investitori. Agli uni e agli altri ciò che interessa è la continuità delle negoziazioni, ed è proprio per consentire il raggiungimento di tale obiettivo che le «iniziative» e i «provvedimenti» per l’avvio di una procedura concorsuale debbono essere tempestivamente comunicati alla Consob: per consentirle di promuovere il trasferimento della gestione del mercato.
6. Gli organismi di compensazione, liquidazione e garanzia delle operazioni A) Essenziali per il corretto funzionamento di un mercato regolamentato sono i servizi di compensazione e liquidazione delle operazioni, consistenti, il primo, nella compensazione, fra tutti gli operatori del mercato, delle posizioni che gli stessi hanno assunto, con riferimento ad un determinato titolo, nei confronti di tutti gli altri operatori e, il secondo nella esecuzione dei contratti stipulati, ossia nella consegna dei titoli venduti e nel pagamento del prezzo da parte del compratore. Inutile sottolineare l’importanza di tali servizi: il primo consente di ridurre drasticamente le operazioni materiali che sarebbero necessarie per «pareggiare» tutte le posizioni che ciascun negoziatore ha con ciascuno degli altri negoziatori per ogni titolo negoziato, il secondo consente di rendere uniformi le modalità di esecuzione dei contratti. I due servizi sono normalmente connessi, nel senso che la struttura che opera la compensazione delle varie operazioni provvede anche a determinare la posizione netta, positiva o negativa, in titoli o in danaro della
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quale ciascun operatore a seguito delle avvenute compensazioni risulta titolare nei confronti dell’insieme degli operatori. B) Ed è proprio con riferimento al debito, in titoli o in danaro, che rimanga a carico di un operatore a seguito delle operazioni di compensazione e liquidazione delle sue posizioni nei confronti dell’insieme degli operatori, che a tali sistemi si accompagna normalmente una struttura (sistema di garanzia) che assume l’obbligo di garantire il puntuale adempimento delle obbligazioni assunte dai negoziatori che a tale struttura aderiscono: adesione normalmente obbligatoria per coloro che intendono essere ammessi come negoziatori sui mercati regolamentati. C) Il Testo Unico detta alcune regole generali in tema sia di compensazione e liquidazione delle operazioni concluse sui mercati regolamentati sia di garanzia del buon esito delle stesse; norme dettate dagli artt. 68 e 69 ss. del Testo Unico e abrogate dal D.Lgs. 12 agosto 2016, n. 176, ma conservate in vigore transitoriamente dal Regolamento UE 23 luglio 2014, n. 909 fino al momento in cui la società di gestione accentrata non sarà riautorizzata in qualità di depositario accentrato ai sensi del predetto Regolamento UE. Queste regole si differenziano abbastanza nettamente a seconda che le operazioni abbiano ad oggetto strumenti finanziari non derivati o strumenti finanziari derivati. E tale differenza trova la propria ragionevole giustificazione nella natura degli strumenti finanziari oggetto della negoziazione e più esattamente nella maggior rischiosità dei prodotti derivati. C1) Nell’ambito delle operazioni aventi per oggetto gli strumenti finanziari non derivati è necessario distinguere la liquidazione su base lorda dalla compensazione e liquidazione delle operazioni su base netta. Nella prima ipotesi alla liquidazione non si accompagna alcuna compensazione: ogni operazione viene eseguita mediante consegna del danaro o dei titoli al contraente effettivo, nella seconda la liquidazione (o «regolamento») concerne solo i saldi netti, in strumenti finanziari o in contanti, che ciascuno operatore ammesso al sistema di compensazione e liquidazione risulta avere nei confronti di tutti gli altri operatori pure ammessi al sistema. Il Testo Unico stabilisce che «il funzionamento» sia del servizio di liquidazione su base lorda sia del servizio di compensazione e liquidazione su base netta sia disciplinato dalla Banca d’Italia «d’intesa con la Consob». E il provvedimento 8 settembre 2000 della Banca d’Italia ha individuato i soggetti che possono avere accesso al servizio (banche, imprese di in-
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vestimento che possono operare anche in nome di altri soggetti autorizzati ad esercitare i servizi di investimento, SGR limitatamente al servizio di gestione su base individuale) e le operazioni prodromiche alla liquidazione e alla compensazione (riscontri e rettifiche su base bilaterale, riscontri e rettifiche dei saldi finali, regolamento dei saldi finali in strumenti e in contante). Lo stesso provvedimento ha precisato che la Banca d’Italia è «il gestore del servizio», quanto meno per quanto concerne quello su base netta. Sul punto il Testo Unico tace ed è diffusa l’opinione che il legislatore abbia voluto riservare alla Banca d’Italia la titolarità del servizio di compensazione e liquidazione. Il legislatore, tuttavia, consente che la disciplina del servizio, rimessa, come si è visto, ad un provvedimento della Banca d’Italia, assunto d’intesa con la Consob, possa prevedere «che il servizio di compensazione e di liquidazione e il servizio di liquidazione su base lorda, esclusa la fase di regolamento finale del contante, siano gestiti da una società autorizzata dalla Banca d’Italia, d’intesa con la Consob» (art. 69, 1° comma, T.U. n. 58 del 1998); società che non può essere la stessa società di gestione del mercato (almeno secondo la disciplina dettata dalla Consob per le attività connesse di tale società), dalla quale, per altro, può essere partecipata. Nell’ipotesi in cui il servizio di compensazione e liquidazione sia affidato ad una società allo scopo autorizzata, quest’ultima non svolge il servizio per delega della Banca d’Italia; la disciplina che consente tale esercizio rompe anche il monopolio di quest’ultima. Anche in questa ipotesi, tuttavia, sembra certa la natura di pubblico servizio dell’attività, giustificabile con l’incidenza che l’attività di compensazione e di liquidazione può avere sulla stabilità complessiva del sistema finanziario. Banca d’Italia e Consob hanno dettato un’articolata disciplina dei servizi di liquidazione dei sistemi di garanzia e delle relative società di gestione con Regolamento 22 febbraio 2008, modificato con provvedimento 22 ottobre 2013. C2) Il Testo Unico detta poi norme in tema di sistemi diretti a garantire l’esatto adempimento dei contratti aventi ad oggetto strumenti finanziari non derivati (art. 68, 1° comma) e norme che si preoccupano di disciplinare sistemi diretti a garantire, non l’esatto adempimento dei singoli contratti in quanto tali, ma «il buon fine della compensazione e della liquidazione delle operazioni aventi ad oggetto strumenti finanziari» non derivati (ovviamente operanti solo nell’ipotesi in cui la liquidazione avvenga su base netta). Per quanto concerne la garanzia di puntuale esecuzione dei contratti, il Testo Unico prevede che la Banca d’Italia, d’intesa con la Consob, pos-
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sa «disciplinare l’istituzione e il funzionamento di sistemi finalizzati a garantire il buon fine delle operazioni aventi a oggetto strumenti finanziari non derivati effettuate nei mercati regolamentati»; precisa che tali norme possono concernere anche «la costituzione di fondi garanzia alimentati da versamenti effettuati dai relativi partecipanti» e detta poi una disciplina volta a sancire la separatezza di siffatti fondi nei confronti sia del patrimonio del gestore del fondo sia degli altri eventuali fondi (art. 68, 2° comma, T.U. n. 58 del 1998). Avremo modo di constatare che nel nostro sistema questa funzione è svolta dalla Cassa di compensazione e garanzia, che costituisce appunto uno dei possibili «sistemi finalizzati a garantire il buon fine dei contratti previsti dal Testo Unico». Ma come si accennava, il Testo Unico prevede anche che la Banca d’Italia, sentita la Consob, disciplini l’istituzione e il funzionamento di sistemi finalizzati a garantire il buon fine della compensazione e della liquidazione delle operazioni su strumenti finanziari, non derivati, anche emanando disposizioni concernenti la costituzione e l’amministrazione di fondi di garanzia alimentati da versamenti effettuati dai partecipanti; fondi dotati della stessa separatezza prevista per i fondi volti a garantire il buon esito dei contratti. Anche questa funzione, come vedremo, è oggi svolta nel nostro sistema finanziario dalla Cassa di compensazione e garanzia. L’evidente analogia delle previsioni normative appena descritte non deve far dimenticare la differenza fra sistemi di garanzia dei contratti e sistemi di garanzia del buon funzionamento della compensazione e della liquidazione. Nel primo caso il sistema garantisce la corretta esecuzione del singolo contratto, nel secondo caso viene garantito il buon fine dell’intero meccanismo di compensazione e di liquidazione delle operazioni; nel primo caso l’interesse tutelato è quello del singolo contraente, nel secondo è l’interesse della generalità degli aderenti al sistema di compensazione e liquidazione. E come vedremo questa diversità degli interessi protetti incide sulla disciplina dei due diversi sistemi anche nell’ambito della già ricordata Cassa di compensazione e garanzia. C3) Per quanto concerne le operazioni aventi ad oggetto strumenti derivati, il Testo Unico nella sua versione originaria stabiliva che «la Banca d’Italia, d’intesa con la Consob, può disciplinare il funzionamento di sistemi di compensazione e di garanzia», precisando che tali sistemi debbono prevedere «l’obbligo dei partecipanti al sistema di effettuare versamenti di margini di garanzia» e che «gli organismi che gestiscono» tali sistemi di compensazione e garanzia «assumono in proprio le posizioni contrattuali da regolare» (art. 70, 2° comma).
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Il D.Lgs. 21 maggio 2004, n. 170 ha stabilito che un siffatto sistema possa essere adottato, dalla Banca d’Italia d’intesa con la Consob, anche per strumenti finanziari diversi da quelli derivati, «prevedendo che i partecipanti al sistema effettuino versamenti di margini o altre prestazioni di garanzia dell’adempimento degli obblighi derivanti dalla partecipazione al sistema stesso». E oggi anche le posizioni relative a contratti aventi per oggetto strumenti finanziari non derivati vengono assunte in proprio dall’organismo che gestisce i sistemi di compensazione e garanzia (art. 70, 2° comma). Il Regolamento dell’Unione europea 4 luglio 2012, n. 648 ha ridisciplinato la materia ed ha trovato concreta applicazione nel nostro paese da parte dell’art. 33 della legge 6 agosto 2013, n. 97. Il provvedimento ha ridefinito lo status di controparte centrale per le operazioni in derivati negoziati al di fuori dei mercati regolamentati (over the counter) (OTC). In particolare ha individuato (art. 2, punto 1) la controparte centrale nella «persona giuridica che si interpone tra le controparti di contratti negoziati su uno o più mercati finanziari come acquirente nei confronti di ciascun venditore e come venditore nei confronti di ciascun acquirente». Nel momento in cui impone all’organismo di gestione del sistema di compensazione e di garanzia di assumere in proprio le posizioni contrattuali da regolare (probabilmente rendendosi cessionario delle posizioni contrattuali derivanti da ogni singola operazione) viene meno ogni distinzione fra garanzia dei contratti e garanzia del buon fine del sistema di compensazione e della liquidazione. La garanzia non viene affidata alla costituzione di fondi separati dal patrimonio del gestore ma alla stessa solvibilità del gestore, alla sua capacità di far fronte all’obbligo di consegna dei titoli e di pagamento del contante assunto nei confronti di tutti i partecipanti al sistema. E la capacità di far fronte a tali obblighi è assicurata dal versamento dei «margini di garanzia» o dalla prestazione delle garanzie convenute che ciascun operatore aderente al sistema deve effettuare nel momento in cui compie un’operazione. D) Gli organismi che gestiscono i sistemi di garanzia dei contratti su strumenti finanziari non derivati (art. 68 T.U.), quelli che gestiscono sistemi di garanzia del buon fine dei sistemi di compensazione e liquidazione delle operazioni sui medesimi, e ancora gli organismi che gestiscono il servizio di compensazione e garanzia con assunzione in proprio delle posizioni da regolare nonché le società eventualmente autorizzate a gestire il servizio di compensazione e liquidazione su base netta e quelli di liquidazione su base lorda sono sottoposti alla vigilanza della Banca d’Italia e della Consob e per l’esercizio di tale funzione entrambe le autori-
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tà «possono richiedere ai gestori dei sistemi, alle società e agli operatori» dati e notizie in ordine alla compensazione e alla liquidazione delle operazioni ed effettuare ispezioni. La vigilanza compete, dunque, sia alla Consob sia alla Banca d’Italia; la posizione di quest’ultima è, tuttavia, preminente con riferimento ai sistemi di garanzia del buon funzionamento dei sistemi di compensazione e liquidazione sia delle operazioni su strumenti non derivati sia delle operazioni su strumenti derivati (art. 69-bis) in considerazione della loro rilevanza per la stabilità del sistema finanziario. «In caso di necessità e urgenza», infatti, «la Banca d’Italia, adotta i provvedimenti idonei a consentire la tempestiva chiusura della liquidazione, anche sostituendosi ai gestori» dei predetti sistemi. E) Il Testo Unico del 1998 si era preoccupato di sottrarre i rapporti che nascono dalle operazioni «inserite» nei sistemi di compensazione, liquidazione e garanzia sottoposti a vigilanza pubblica dalla incertezza che potrebbe derivare dalla «eliminazione» da tali sistemi di uno o più dei rapporti negli stessi ricompresi. La «caduta» anche di uno soltanto di tali rapporti potrebbe determinare il crollo dell’intero sistema. E proprio per evitare tale rischio (art. 71) stabiliva che «la compensazione, la liquidazione e la garanzia delle operazioni effettuate con l’intervento dei sistemi disciplinati ai sensi degli artt. 69 e 70 sono definitive e non possono essere dichiarate inefficaci, con riferimento all’effetto retroattivo dell’apertura di procedura concorsuali, neppure nel caso in cui i partecipanti siano assoggettati alle procedure medesime». Questa norma è stata abrogata e sostituita da una più organica disciplina del D.Lgs. 12 aprile 2001, n. 210 che ha dato attuazione nel nostro paese alla direttiva comunitaria 19 maggio 1998, n. 26 in materia di definitività degli ordini immessi in un sistema di pagamento e di regolamento titoli sottoposto a vigilanza pubblica. La nuova disciplina ha sancito la definitività degli ordini di trasferimento, della compensazione e dei conseguenti pagamenti e trasferimenti, non solo fra le parti ma anche nei confronti dei terzi, in caso di apertura di una procedura di insolvenza se gli ordini a) sono stati immessi nel sistema prima del momento di apertura della procedura d’insolvenza; b) sono stati immessi nel sistema successivamente al momento di apertura della procedura d’insolvenza ed eseguiti il giorno stesso dell’apertura, qualora l’agente di regolamento o la controparte centrale o la stanza di compensazione provi che al momento dell’immissione non era a conoscenza dell’apertura della procedura di insolvenza, né avrebbe dovuto esserlo. Non solo, ma nessuna azione, compresa quella di nullità, può pregiu-
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dicare, nei confronti del sistema, la definitività degli ordini di trasferimento, della compensazione e dei conseguenti pagamenti e trasferimenti che presentino le caratteristiche sopra ricordate. Ancora, l’apertura di una procedura di insolvenza non ha effetto retroattivo sui diritti e sugli obblighi dei partecipanti connessi con la loro partecipazione a un sistema, sorti prima del momento di apertura della procedura stessa. Le notevoli deroghe così introdotte al diritto comune trovano una plausibile spiegazione nella necessità di assicurare certezza alle operazioni che avvengono sui mercati regolamentati e nell’ambito di sistemi di pagamento, anche in considerazione del fatto che le stesse intervengono fra soggetti inseriti in sistemi sottoposti a pubblico controllo e deputati alla esecuzione delle predette operazioni. F) Esigenze analoghe giustificano le regole previste per le cc.dd. insolvenze di mercato. Più esattamente, allo scopo di assicurare al contraente in bonis una tutela più rapida e soprattutto per evitare che l’insolvenza di un operatore metta in pericolo il buon funzionamento del mercato regolamentato o del sistema di compensazione e liquidazione, il Testo Unico, recependo un indirizzo da gran tempo adottato dal nostro ordinamento, prevede una particolare disciplina per l’ipotesi in cui uno dei soggetti ammessi alle negoziazioni in un mercato regolamentato o nei sistemi multilaterali di negoziazione o di un partecipante alle controparti centrali incorra in una «insolvenza di mercato»; nozione quest’ultima la cui individuazione è rimessa dal Testo Unico (art. 72, 2° comma) alla determinazione della Consob, d’intesa con la Banca d’Italia. E con il Regolamento congiunto 22 febbraio 2008, modificato da ultimo con deliberazione 24 febbraio 2015, Banca d’Italia e Consob hanno stabilito che «costituiscono presupposti per la dichiarazione di insolvenza di mercato dei soggetti ammessi alle negoziazioni nei mercati e dei partecipanti alle controparti centrali: a) l’apertura, da parte dell’autorità giudiziaria o amministrativa competente, di una procedura di liquidazione o di risanamento, come definite dall’articolo 1, comma 1, del D.Lgs. 21 maggio 2004, n. 170 e successive modificazioni; b) il mancato o parziale versamento, nei termini e nei modi previsti dalla relativa disciplina, dell’importo a debito risultante dal compimento delle procedure esecutive; c) il mancato o il parziale versamento delle somme dovute a titolo di margini o di ulteriori misure di controllo, gestione e copertura dei rischi,
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nonché il mancato o parziale regolamento finale per differenziale delle posizioni contrattualisu strumenti finanziari derivati, nei termini e nei modi previsti dalla relativa disciplina, nei confronti di una controparte centrale». L’accertamento dell’insolvenza di mercato, è rimesso alla Consob, d’intesa con la Banca d’Italia. «Il provvedimento di dichiarazione dell’insolvenza di mercato è comunicato tempestivamente ai gestori dei mercati e alle società di gestione». La Consob provvede altresì, d’intesa con la Banca d’Italia, alla nomina di uno o più commissari per la liquidazione delle insolvenze di mercato. Il commissario, il cui compenso è posto a carico della società di gestione del mercato nel quale l’insolvente ha operato, procede alla liquidazione delle operazioni dell’insolvente e, più esattamente, provvede all’accertamento delle posizioni debitorie dell’insolvente e alle sue eventuali posizioni creditorie e alla chiusura del procedimento di liquidazione, rilascia «agli aventi diritto, per i crediti residui, un certificato di credito», che costituisce titolo esecutivo nei confronti dell’insolvente, ai sensi dell’art. 474 del codice di procedura civile. E, come precisa il Regolamento congiunto di Banca d’Italia e Consob del 22 febbraio 2008, il certificato di credito viene emesso: 1) in favore del sistema di garanzia per un importo pari alle somme impiegate dal sistema stesso per l’intervento; 2) in favore delle controparti dell’insolvente per un importo pari alle differenze in euro a loro credito per ciascuna operazione eseguita.
7. La gestione accentrata degli strumenti finanziari Di evidente rilevanza per il funzionamento di un mercato, e in particolare di un mercato regolamentato, è la «gestione accentrata degli strumenti finanziari negoziati»; gestione accentrata che consenta di dare esecuzione alle negoziazioni senza il trasferimento materiale dei titoli e attraverso la semplice annotazione dei trasferimenti sulle scritture contabili del depositario centrale, presso il quale vengono conservati i titoli oggetto delle negoziazioni. Nel nostro ordinamento, come avremo modo di verificare più innanzi discorrendo dei mercati italiani, tale funzione fu affidata con la legge 19 giugno 1986, n. 289 alla «Monte Titoli S.p.A.», per i titoli diversi da quelli di Stato, e alla Banca d’Italia, per quanto concerne questi ultimi. Il Testo Unico del 1998 aveva dettato una disciplina generale per l’esercizio di tale servizio, ma le relative norme postulavano che gli strumenti finanziari oggetto della gestione accentrata fossero incorporati in un documento.
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Come è noto, il D.Lgs. 24 giugno 1998, n. 213 aveva introdotto nel nostro ordinamento la «dematerializzazione» dei titoli, dettando la relativa disciplina ed imponendo, tra l’altro, che gli strumenti finanziari negoziati su un mercato regolamentato dovessero necessariamente essere dematerializzati. Il D.Lgs. 27 gennaio 2010, n. 27, ha «trasportato», nell’ambito del Testo Unico, le norme relative alla dematerializzazione degli strumenti finanziari dettata dal D.Lgs. n. 213 del 2003, recependo, per altro, le regole generali previste dal Testo Unico del 1998 in materia di gestione accentrata, valide pertanto sia per i titoli non dematerializzati sia per quelli dematerializzati. Le norme degli artt. 80 ss. dettate dal Testo Unico per la disciplina delle società di gestione accentrata sono state abrogate dal D.Lgs. 12 agosto 2016, n. 176, ma le stesse sono state conservate in vigore dal Regolamento UE n. 909/2014 fino al momento in cui la gestione accentrata non sia riautorizzata in qualità di depositario centrale ai sensi del predetto Regolamento. Continueremo pertanto ad illustrare le norme conservate in vigore conservando anche la relativa numerazione (artt. 80-83-sexies). A) Il Testo Unico ha cura di precisare, per eliminare i dubbi che sul punto erano sorti con riferimento al monopolio attribuito in precedenza alla Monte Titoli S.p.A., che «l’attività di gestione accentrata di strumenti finanziari ha carattere di impresa ed è esercitata nella forma di società per azioni, anche senza scopo di lucro» (art. 80, 1° comma). La Consob, d’intesa con la Banca d’Italia, autorizza la società all’esercizio dell’attività di gestione accentrata quando ricorrono i presupposti richiesti dal Testo Unico e la cui determinazione è rimessa alla disciplina regolamentare emanata dalla stessa Consob, d’intesa con la Banca d’Italia (per quanto concerne la determinazione del capitale minimo della società e l’individuazione delle attività connesse e strumentali che la stessa può esercitare) e dal Ministro dell’Economia e delle Finanze (per quanto attiene ai requisiti di professionalità, indipendenza ed onorabilità degli esponenti aziendali e di onorabilità dei soci che detengono una partecipazione rilevante). La prestazione dei servizi di gestione accentrata avviene secondo le regole fissate dal Regolamento congiunto emanato dalla Banca d’Italia e dalla Consob con provvedimento 22 febbraio 2008 aggiornato dalle stesse con atto 24 febbraio 2015. Tale Regolamento individua gli strumenti finanziari (azioni e gli altri titoli rappresentativi del capitale di rischio, obbligazioni, e gli altri titoli di debito negoziabili sul mercato dei capitali, quote di fondi e ogni altro titolo normalmente negoziato, purché libe-
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ramente trasferibili) e i soggetti (banche, imprese di investimento, società di gestione del risparmio, gli agenti di cambio, la Banca d’Italia, le Poste Italiane, la Cassa Depositi e Prestiti) ammessi al sistema, il contenuto minimo dei contratti di deposito, le modalità per la immissione degli strumenti finanziari nel deposito accentrato, le forme e le modalità per la tenuta dei conti dei vari depositanti, rispettando il principio di separatezza fra i conti dei gestori e quelli relativi al servizio di deposito, le modalità per il rilascio delle certificazioni attestanti la quantità e i diritti del richiedente sui titoli immessi nella gestione accentrata. Sulla società di gestione insiste la vigilanza della Consob e della Banca d’Italia; della prima, per quanto concerne la trasparenza e la tutela degli investitori, della seconda, con riguardo alla stabilità e al contenimento «del rischio sistemico» (art. 82, 1° comma, T.U.); per assicurare l’effettivo conseguimento di tali obietti la Consob e la Banca d’Italia «possono richiedere alle società modificazioni della regolamentazione dei servizi idonee a eliminare le disfunzioni riscontrate». In caso di «accertate gravi irregolarità» il Ministero dell’Economia e delle Finanze può disporre lo scioglimento degli organi amministrativi della società di gestione accentrata e la loro sostituzione con uno o più commissari straordinari e in caso di insolvenza ne dispone la liquidazione coatta amministrativa. Il Testo Unico si preoccupa poi, ed altrettanto fa il Regolamento congiunto Banca d’Italia-Consob, di precisare le regole che disciplinano il contratto di deposito, l’esercizio dei diritti incorporati nei titoli immessi nel sistema, e l’apposizione di vincoli sugli stessi. Non è possibile in questa sede un esame analitico di questi punti; una sommaria descrizione delle relative discipline è tuttavia indispensabile per poter cogliere le caratteristiche e l’importanza del servizio di gestione accentrata. Gli strumenti finanziari vengono depositati presso uno dei soggetti ammessi al sistema (banche, imprese d’investimento, società di gestione del risparmio) con l’autorizzazione a subdepositare gli stessi presso la società di gestione accentrata e gli strumenti sono immessi nel sistema in regime di deposito regolare: gli strumenti immessi nel sistema non passano, quindi, in proprietà della società di gestione, anche se il deposito assumerà le caratteristiche del deposito alla rinfusa (con gli altri titoli con gli stessi fungibili) e quindi il diritto di proprietà del singolo depositante si trasforma in credito ad una frazione della massa dei titoli. Il subdeposito a favore della società di gestione da parte del primo depositario avviene per i titoli nominativi tramite girata, qualificata come girata ex D.Lgs. 24 febbraio 1999, n. 52. La società di gestione accentrata accende, per ogni emittente i cui titoli siano immessi nel sistema,
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un conto ed accende altresì per ogni intermediario ammesso al sistema un conto per i titoli di sua proprietà e per quelli di proprietà di terzi e depositati presso lo stesso. Il depositante, tramite il depositario, trasmette alla società di gestione accentrata le disposizioni per l’annotazione delle operazioni che lo stesso ha effettuato sui titoli immessi nel deposito. Così per quanto concerne gli atti di disposizione, il depositario deve trasferire la quantità di titoli compravenduti dal conto dell’alienante a quello dell’acquirente, che potrà essere sia un cliente delle stesso intermediario o anche cliente di un diverso intermediario. Analogamente i vincoli sugli strumenti finanziari si costituiscono e trasferiscono attraverso la relativa annotazione sul conto del depositante. La società di gestione accentrata dovrà poi rilasciare le certificazioni attestanti i diritti che il depositante vanta sui titoli immessi nel deposito accentrato: così ad es.: per quanto concerne la legittimazione ad intervenire in assemblea, non essendo possibile il deposito materiale del titolo, sarà necessario ottenere dalla società di gestione accentrata, tramite il depositario, la certificazione dei titoli azionari posseduti dal richiedente. Naturalmente il depositante può chiedere il ritiro degli strumenti finanziari dalla gestione accentrata e la società dovrà mettere a disposizione del richiedente i titoli dei quali è richiesto il ritiro. B) Come si è accennato, il Testo Unico ha previsto che per la gestione accentrata dei titoli di Stato venga adottata una disciplina almeno in parte diversa da quella appena illustrata. Più esattamente tale disciplina è rimessa in linea di principio ad un regolamento del Ministro dell’Economia e delle Finanze che deve indicare i criteri per lo svolgimento della relativa attività e «il soggetto responsabile» (art. 90). Anche alla gestione accentrata dei titoli di Stato si applicano, per altro, le norme, per la circolazione dei titoli e per l’esercizio dei diritti incorporati, dettate per le gestione accentrate della generalità degli strumenti finanziari rappresentati dai titoli e sopra illustrate. C) Abbiamo già ricordato che la disciplina generale dettata per la gestione accentrata degli strumenti finanziari vale anche per gli strumenti finanziari dematerializzati. Ma la «dematerializzazione», della quale non è possibile qui occuparsi compiutamente, incide profondamente anche sull’attività di gestione accentrata e sulle regole alle quali la stessa deve attenersi.
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Il D.Lgs. 24 giugno 1998, n. 213, emanato in attuazione della legge 17 dicembre 1997, n. 433 per l’introduzione dell’Euro nell’ordinamento nazionale, aveva disciplinato la «dematerializzazione» degli strumenti finanziari. Quelle regole, come si è accennato, sono state inserite nel T.U. (art. 83-bis-art. 83-duodecies) dal D.Lgs. n. 27 del 2010. Si è così ribadito (art. 83-bis): a) che gli «strumenti» finanziari negoziati o destinati alla negoziazione sui mercati regolamentati italiani non possono essere rappresentati da documenti; e disposizione identica è stata dettata per i titoli di Stato; b) che in funzione della loro diffusione tra il pubblico la Consob, con regolamento emanato d’intesa con la Banca d’Italia, può prevedere che siano sottoposti a dematerializzazione necessaria anche altri strumenti finanziari; c) che gli emittenti possono sottoporre a dematerializzazione volontaria gli strumenti finanziari dagli stessi emessi. Gli strumenti finanziari quotati non possono dunque essere mai rappresentati da «documenti» ed anzi quelli che incorporavano in precedenza strumenti finanziari quotati sono stati, già con l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 213 del 1998, annullati. Per ciascuna emissione di strumenti finanziari soggetti a dematerializzazione deve essere scelta un’unica società di gestione accentrata; presso la stessa ogni intermediario accende un conto; il trasferimento degli strumenti finanziari dematerializzati, avviene, ad opera dell’intermediario, attraverso il «trasferimento», presso l’intermediario dal conto dell’alienante a quello dell’acquirente, della annotazione dei titoli trasferiti. «Effettuata la registrazione il titolare del conto […] ha la legittimazione piena ed esclusiva all’esercizio dei diritti relativi agli strumenti finanziari in esso registrati, secondo la disciplina propria di ciascuno di essi. Il titolare può disporre degli strumenti finanziari registrati in conformità con quanto previsto dalle norme vigenti in materia» (art. 83-quinquies, 1° comma). L’intestazione del conto attribuisce, dunque, una posizione analoga a quella che compete al soggetto legittimato ad esercitare i diritti incorporati in un titolo di credito. Ed anche sotto il profilo dell’acquisto del diritto la disciplina dei titoli dematerializzati appronta uno strumento di tutela analogo a quello previsto per i titoli di credito quando stabilisce che «colui il quale ha ottenuto la registrazione in suo favore in base a titolo idoneo e in buona fede, non è soggetto a pretese o azioni da parte di precedenti titolari» (art. 83-quinquies, 2° comma). Ed ancora analoga a quella prevista per i titoli di credito è la regola dettata per le eccezioni opponibili al soggetto in favore del quale sia intervenuta la registrazione: allo stesso «l’emittente può opporre soltanto le eccezioni personali al soggetto stesso e quelle comuni a tutti gli altri titolari degli stessi diritti» (art. 83-septies). Il sistema di gestione accentrata incide anche
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sull’esercizio del diritto di voto dell’azionista (art. 83-sexsies), come avremo modo di verificare discorrendo del diritto di intervento e di voto nelle assemblee delle società quotate. Un ruolo centrale per il funzionamento del sistema e per la tutela dei diritti degli investitori, svolgono gli intermediari ammessi al sistema che rispondono della violazione dei propri obblighi nei confronti sia della società emittente sia del titolare del conto.
8. I sistemi di negoziazione diversi dai mercati regolamentati A) Mentre l’ordinamento vigente prima della riforma del 1996 non consentiva all’autonomia privata la creazione di mercati organizzati non regolamentati per la negoziazione degli strumenti finanziari, tale possibilità era stata esplicitamente prevista dal Testo Unico del 1998, il cui Capo II del Titolo I della Parte III, dedicato alla «disciplina dei mercati», si intitolava proprio ai «mercati non regolamentati». L’organizzazione e il funzionamento di tali mercati, che non godevano, per altro, del diritto al mutuo riconoscimento, erano integralmente rimessi all’autonomia privata. La preoccupazione, tuttavia, che gli stessi potessero mettere a repentaglio l’interesse degli investitori e il funzionamento in generale del mercato mobiliare, aveva indotto il legislatore ad attribuire alla Consob il potere di «richiedere agli organizzatori, agli emittenti e agli operatori» di tali mercati «dati, notizie e documenti sugli scambi organizzati di strumenti finanziari», e, soprattutto, il potere di «sospendere e, nei casi più gravi, vietare le negoziazioni quando ciò fosse stato necessario per evitare gravi pregiudizi alla tutela degli investitori» (art. 78, 2° comma, T.U. n. 58 del 1998). B) Il quadro delineato dal dettato originario del T.U. è stato profondamente modificato a seguito dell’attuazione nel nostro paese della direttiva MIFID. Il D.Lgs. 17 settembre 2007, n. 164 ha cancellato la nozione di «mercato non regolamentato» ed ha esplicitamente disciplinato due «sistemi di negoziazione diversi dai mercati regolamentati», ossia i «sistemi multilaterali di negoziazione» e gli «internalizzatori sistematici». Il D.Lgs. 3 agosto 2017, n. 129 in attuazione della MIFID 2 ha introdotto, come abbiamo già ricordato, un’ulteriore sede di negoziazione: il sistema organizzato di negoziazione (v. art. 1, comma 5°-octies del T.U.F.). Non è facile accertare se sia ancora consentito creare altri sistemi di negoziazione, diversi da quelli appena nominati, ma l’impressione è che
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questo spazio ulteriore non esista più e che, quindi, si sia in presenza di una tipizzazione esaustiva dei sistemi di negoziazione diversi dai mercati regolamentati almeno per quanto concerne gli strumenti finanziari quotati. Abbiamo già ricordato che la negoziazione multilaterale è ricompresa nel catalogo dei servizi di investimento, mentre l’internalizzazione è il risultato di un’offerta congiunta del servizio di negoziazione per proprio conto e del servizio di esecuzione di ordini per conto dei clienti. Il Testo Unico colloca la loro disciplina nel Titolo dedicato alla «disciplina dei mercati» in considerazione del fatto, già ricordato, che gli stessi costituiscono un’alternativa alla funzione di negoziazione svolta dai mercati regolamentati, che subiranno, pertanto, la concorrenza dei sistemi di negoziazione e degli internalizzatori.
8.1. Sistemi multilaterali di negoziazione Il T.U. (art. 1, comma 5°-octies, lett. a) definisce un «sistema multilaterale di negoziazione, un sistema multilaterale gestito da un’impresa di investimento o da un gestore del mercato che consente l’incontro, al suo interno e in base a regole non discrezionali, di interessi multipli di acquisto e di vendita di terzi relativi a strumenti finanziari, in modo da dare luogo a contratti conformemente alla parte II e alla parte III», ossia contratti disciplinati dalle norme dedicate agli intermediari e ai mercati. Al di là del linguaggio un po’ criptico adottato dal D.Lgs. 17 settembre 2007, n. 164 nel dare attuazione alla corrispondente previsione della direttiva MIFID, un «sistema multilaterale di negoziazioni» si sostanzia nella predisposizione di un servizio, da parte dell’intermediario, che consenta l’incontro di proposte di vendita e di acquisto, senza che l’intermediario diventi parte dei relativi contratti. Naturalmente l’accesso all’esercizio di un sistema multilaterale di negoziazione è subordinato all’autorizzazione della Consob, se concerne un’impresa di investimento o una società di gestione di un mercato regolamentato, e della Banca d’Italia, se riguarda una banca, ossia secondo le regole che disciplinano, in generale, l’accesso all’esercizio dei servizi di investimento. E troveranno, in linea di massima, applicazione anche i principi generali ai quali deve conformarsi il relativo esercizio. Il Testo Unico detta, tuttavia, una disciplina particolare per questo servizio di investimento; disciplina rimessa in gran parte al potere normativo della Consob e che concerne essenzialmente l’organizzazione del servizio e la trasparenza delle negoziazioni che si svolgono nell’ambito del sistema.
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Sotto il primo profilo il Regolamento Mercati stabilisce (art. 19) che i soggetti che gestiscono «un sistema multilaterale di negoziazione predispongono e mantengono: a) regole e procedure trasparenti e non discrezionali atte a garantire un processo di negoziazione equo ed ordinato nonché criteri obiettivi per un’esecuzione efficace degli ordini; b) regole trasparenti concernenti i criteri per la selezione degli strumenti finanziari che possono essere negoziati nell’ambito dei propri sistemi; c) regole trasparenti, basate su criteri oggettivi, che disciplinano l’accesso al sistema [da parte dei negoziatori]; d) dispositivi e procedure, efficaci per controllare regolarmente l’ottemperanza alle proprie regole da parte degli utenti; e) misure necessarie per favorire il regolamento efficiente delle operazioni concluse nell’ambito del sistema multilaterale di negoziazione». Gli stessi debbono trasmettere alla Consob, al momento della richiesta dell’autorizzazione, l’elenco degli strumenti e degli operatori ammessi alle negoziazioni, nonché un documento che illustri le regole di funzionamento del sistema e le procedure adottate per assicurare l’integrità del sistema e l’ordinato svolgimento delle negoziazioni. La Consob esercita sul sistema una vigilanza ispettiva e informativa e può escludere o sospendere gli strumenti finanziari dalla negoziazione. Di grande rilievo sono gli obblighi di trasparenza imposti al gestore di un sistema multilaterale di negoziazione; è evidente infatti che la significatività dei prezzi che si formano sui mercati regolamentati rischia di essere frustrata se rimangono ignoti i prezzi che si formano, su uno stesso strumento finanziario, nelle negoziazioni che si svolgono su un sistema multilaterale, e quindi al di fuori del mercato regolamentato. La direttiva MIFID prevedeva un’adeguata trasparenza delle negoziazioni che si svolgono in un sistema multilaterale solo per le azioni ammesse a negoziazione nei mercati regolamentati; il D.Lgs. n. 164 del 2007, pur dettando regole di trasparenza solo per tali azioni, prevedeva che la Consob «quando ciò si renda necessario per assicurare l’ordinato svolgimento delle negoziazione e la tutela dell’investitore, può estendere, in tutto o in parte, il regime di trasparenza pre-negoziazione e post-negoziazione applicabile alle operazioni aventi ad oggetto strumenti finanziari diversi dalle azioni ammesse a negoziazione nei mercati regolamentati». Ed in effetti, il Regolamento Mercati prevede (art. 32) che «i soggetti che gestiscono un sistema multilaterale di negoziazione stabiliscono e mantengono nel proprio regolamento adeguati regimi di trasparenza pre e post negozia-
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zione aventi ad oggetto strumenti finanziari diversi dalle azioni e ammessi alle negoziazioni nell’ambito dei sistemi gestiti, tenendo conto delle caratteristiche strutturali del mercato, del tipo di strumento finanziario negoziato, delle dimensioni delle operazioni e del tipo di operatori, con particolare riguardo alla quota di partecipazione al mercato degli investitori al dettaglio». L’imposizione di regole di trasparenza per le negoziazioni che, su strumenti finanziari quotati in mercati regolamentati, si svolgono nell’ambito di un sistema multilaterale di negoziazione, ha lo scopo «di garantire l’effettiva integrazione dei mercati e il rafforzamento dell’efficacia del processo di formazione dei prezzi», come si legge nell’incipit della norma che attribuisce alla Consob il compito di stabilire «il regime di trasparenza pre-negoziazione e post-negoziazione per le operazioni aventi ad oggetto azioni ammesse alla negoziazione nei mercati regolamentati, nei sistemi multilaterali di negoziazione e dagli internalizzatori sistematici». Così, per quanto concerne l’informazione pre-negoziazione, il Regolamento Mercati (art. 25) impone di fornire «quantomeno» le notizie richieste dal Regolamento della Commissione dell’Unione europea 1287/2006 del 10 aprile 2006, ossia quelle relative al sistema di negoziazione e, per ciascuna modalità, quelle relative alla situazione delle proposte. Così, nella negoziazione ad asta continua il gestore deve pubblicare in modo continuo durante il normale orario di contrattazione per ciascuna azione, il numero aggregato degli ordini per ciascun livello di prezzo «per almeno i cinque migliori prezzi di acquisto e di vendita». E, per quanto concerne la trasparenza post-negoziazione, il Regolamento Mercati (art. 29) impone di rendere pubbliche le informazioni, relative alle negoziazioni aventi ad oggetto le azioni, richieste dall’art. 27 del Regolamento comunitario n. 1287 del 2006 e tra queste, il giorno e l’ora in cui l’operazione è stata eseguita, il prezzo al quale l’operazione è stata eseguita, le quantità negoziate. Sia le informazioni pre-negoziazione sia quelle post-negoziazione sono rese pubbliche «a condizioni commerciali ragionevoli ed in modo da essere facilmente accessibili». Borsa Italiana S.p.A. ha organizzato e gestisce il Mercato Alternativo del Capitale (MAC), che costituisce un sistema multilaterale di negoziazione destinato alla negoziazione dei titoli di rischio delle piccole e medie imprese, nonché l’AIM (Alternative Investment Market) Italia, un sistema multilaterale di negoziazione pure destinato alle piccole e medie imprese e modellato sull’analogo mercato inglese. Sintomatico della crescente importanza dei sistemi multilaterali di negoziazione, è il fatto che la società TLX S.p.a., che gestiva un mercato regolamentato, abbia, dopo l’approvazione della MIFID e a decorrere dal
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1° gennaio 2010, concentrato la propria attività sulla organizzazione di un sistema multilaterale di negoziazione, «trasformandosi» da società di gestione di un mercato a società dedicata allo svolgimento del nuovo servizio di investimento, assumendo veste di Sim (Euro TLX Sim S.p.a.).
8.2. Sistemi organizzati di negoziazione A norma dell’art. 1, comma 5-octies, lett. b) del T.U.F., per sistema organizzato di negoziazione si intende «un sistema multilaterale diverso da un mercato regolamentato o da un sistema multilaterale di negoziazione che consente l’interazione tra interessi multipli di acquisto e di vendita di terzi relativi a obbligazioni, strumenti finanziari strutturati, quote di emissioni e strumenti derivati, in modo da dare luogo a contratti conformemente alla parte II e alla parte III», ossia secondo le norme dettate per gli intermediari e per i mercati. I sistemi organizzati di negoziazione si distinguono dai sistemi multilaterali di negoziazione essenzialmente per l’oggetto delle negoziazioni che vi si effetuano: nei secondi si negoziano tutti gli strumenti finanziari, nei primi alcune categorie di strumenti finanziari (obbligazioni, strumenti finanziari strutturati, quote di emissione e strumenti derivati). Un tratto distintivo importante fra i due sistemi è rappresentato dal fatto che mentre nel sistema multilaterale di negoziazione l’incontro fra le proposte avviene sulla base di regole non discrezionali, nel sistema organizzato di negoziazione «l’esecuzione degli ordini è svolta su base discrezionale» (art. 65-quater, 1° comma del T.U.F.). «Il gestore di un sistema organizzato di negoziazione esercita la propria discrezionalità quando decide di a) collocare o ritirare un ordine sul proprio sistema o b) non abbinare lo specifico ordine di un cliente con gli altri ordini disponibili nel sistema, e quando può decidere se, quando e in che misura, abbinare due o più ordini all’interno del sistema». Egli però non può operare anche come internalizzatore sistematico (art. 65-quater, comma 2 del T.U.F.) e deve stabilire «meccanismi volti a impedire che siano eseguiti ordini di clienti nel sistema in contropartita diretta con se stesso»
8.3. Gli internalizzatori sistematici Un altro canale alternativo ai mercati regolamentati è quello rappresentato dagli «internalizzatori sistematici»; canale fortemente voluto dai
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grandi intermediari anglosassoni e che potrà rappresentare un fortissimo concorrente per i mercati regolamentati, soprattutto nei paesi, come l’Italia, che non sono dotati di grandi gruppi bancari capaci di svolgere in modo efficiente l’attività propria degli internalizzatori sistematici. Come abbiamo qui ricordato, per «internalizzatore sistematico», a norma nel T.U. (art. 1, 5°-ter comma) «si intende l’impresa di investimento che in modo organizzato, frequente, sistematico e sostanziale negozia per conto proprio eseguendo gli ordini dei clienti al di fuori di un mercato regolamentato, di un sistema multilaterale di negoziazione o di un sistema organizzato di negoziazione senza gestire un sistema multilaterale. Il modo frequente e sistematico si misura per numero di negoziazioni fuori listino (OTC) su strumenti finanziari effettuate per conto proprio eseguendo gli ordini dei clienti. Il modo sostanziale si misura per dimensioni delle negoziazioni OTC effettuate dal soggetto su uno specifico strumento finanziario in relazione al totale delle negoziazioni effettuate sullo strumento finanziario dal soggetto medesimo o all’intermo dell’Unione europea». Discorrendo dei servizi di investimento, abbiamo precisato che l’attività di internalizzazione sistematica non costituisce un nuovo servizio di investimento, ma la fusione di due servizi: quello di negoziazione per proprio conto e quello di esecuzione di ordini dei clienti. L’internalizzatore sistematico svolge la funzione di controparte del cliente: vendendo titoli propri a chi dà ordini di acquisto, comprando titoli da chi impartisce ordini di vendita. E, naturalmente, l’esecuzione dell’ordine ricevuto dal cliente verrà evaso per proprio conto dall’internalizzatore solo se e nei limiti in cui ritenga l’esecuzione conforme al proprio interesse. Non costituendo l’internalizzazione un nuovo servizio di investimento, ma la fusione della negoziazione per proprio conto e l’esecuzione di ordini, per l’accesso all’attività, non sarà richiesta una specifica autorizzazione essendo sufficiente l’autorizzazione ad esercitare i servizi dei quali la stessa si compone. Per intraprendere tale attività è tuttavia necessario, almeno 15 giorni prima dell’avvio dell’attività, darne comunicazione alla Consob (cfr. art. 21 del Regolamento Mercati), chiarendo che a) l’attività riveste un ruolo commerciale importante ed è condotta in base a regole e procedure non discrezionali e che b) è accessibile ai clienti su base regolare e continua. L’internalizzatore deve anche comunicare a Consob quali siano gli strumenti finanziari sui quali intende svolgere l’attività, distinguendo fra le azioni liquide, altre azioni e strumenti finanziari diversi dalle azioni; la data di avvio dell’attività per ciascuno strumento finanziario; gli investitori che possono accedere alle proprie quotazioni; il canale di diffusione delle informazioni utilizzato per la pubblicazione delle quotazioni e dei
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contratti conclusi nella sede di negoziazione gestita. E la Consob mantiene e pubblica un elenco degli internalizzatori sistematici sulle azioni ammesse alla negoziazione in un mercato regolamentato. Anche per quanto concerne gli internalizzatori, la direttiva imponeva regole di condotta ed obblighi di trasparenza solo per le azioni e non anche per gli altri strumenti ammessi alla negoziazione sui mercati regolamentati. Gli internalizzatori pubblicano quotazioni irrevocabili sulle azioni ammesse alla negoziazione su un mercato regolamentato, quando a) esiste un mercato liquido delle stesse; b) le azioni sono ricomprese fra quelle per le quali è prevista la negoziazione da parte dell’internalizzatore e c) l’operazione è di dimensioni pari o inferiore alla dimensione standard del mercato. Se non ricorrono queste condizioni, gli internalizzatori «comunicano le loro quotazioni alla clientela su richiesta» della medesima (cfr. art. 27 del Regolamento Mercati). Gli internalizzatori decidono la quantità dei titoli che quotano ed eseguono gli ordini che ricevono dai proprio clienti ai prezzi quotati al momento in cui ricevono l’ordine. Nella fase post-negoziazione l’internalizzatore mette a disposizione del pubblico tutte le informazioni relative all’operazione compiuta e, in particolare, le quantità e i prezzi ai quali le stesse sono state concluse.
8.4. I sistemi multilaterali di scambio di depositi A) Il T.U. (art. 62-septies) prevede una disciplina speciale per i sistemi multilaterali di scambio di depositi in euro; sistema che sottopone alla vigilanza della Banca d’Italia e non della Consob e alla cui attività non si applicano le norme generalmente applicabili ai sistemi multilaterali di negoziazione sopra illustrate. Le finalità che la Banca d’Italia deve perseguire attraverso l’esercizio dei poteri di informazione e di ispezione che il Testo Unico alla stessa attribuisce sono «l’efficienza e il buon funzionamento» del sistema multilaterale; finalità legate anche alle esigenze della politica monetaria e del sistema dei pagamenti. B) Nel nostro paese operano, sottoposti alla Vigilanza della Banca d’Italia ai sensi dell’art. 79 del T.U. n. 58 del 1998, un «Mercato Telematico di negoziazione di depositi monetari multivalute» (e-MID) e un «Mercato telematico internazionale di negoziazione di strumenti finanziari derivati multivalute» in euro (e-MIDER), entrambi gestiti da una società (e-MID
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S.p.A.) partecipata da 29 soci, la cui partecipazione – per evitare conflitti di interessi nella gestione del mercato – non può superare il 5 per cento del capitale sociale. Il mercato e-MID consta di quattro comparti sui quali vengono negoziati contratti aventi ad oggetto il trasferimento di fondi rispettivamente denominati in euro, dollari americani, sterline e zloty polacchi e i comparti si distinguono in «anonimi» e «palesi» a seconda delle modalità di inserimento delle proposte. I contratti negoziati sui vari comparti sono i seguenti: a) contratti aventi ad oggetto un trasferimento iniziale di fondi da effettuare nella stessa giornata di negoziazione e la loro restituzione nella giornata lavorativa immediatamente successiva (overnight); b) contratti aventi ad oggetto un trasferimento iniziale di fondi da effettuare nella seconda giornata lavorativa successiva a quella di negoziazione e la loro restituzione nella seconda giornata lavorativa successiva a quella di negoziazione (tomorrow next); c) contratti aventi ad oggetto un trasferimento iniziale di fondi da effettuare nella seconda giornata lavorativa successiva a quella di negoziazione e la loro restituzione nella terza giornata lavorativa successiva a quella di negoziazione (spot next); d) contratti aventi ad oggetto un trasferimento iniziale di fondi da effettuare nella seconda giornata lavorativa successiva a quella di negoziazione e la loro restituzione ad una scadenza predeterminata – comunque superiore ad una giornata lavorativa – tra quelle stabilite nelle Disposizioni del regolamento (depositi a tempo); e) contratti con valuta iniziale e valuta finale liberamente concordate tra i contraenti senza vincoli di standardizzazione purché entrambe le valute non coincidano con quelle indicate per i contratti appartenenti alle tipologie sopra indicate e tra le due valute non intercorra un periodo superiore ad un anno solare (depositi broken date).
9. I mercati regolamentati italiani I mercati regolamentati italiani oggi esistenti sono: a) la Borsa; b) il Mercato di borsa per la negoziazione dei contratti futures e dei contratti di opzione (IDEM, Italian derivatives market); c) il Mercato all’ingrosso dei titoli di Stato (MTS);
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d) il Mercato Bondvision per la negoziazione via internet all’ingrosso di titoli di Stato; e) il Mercato all’ingrosso delle obbligazioni non governative e dei titoli emessi da organismi internazionali partecipati da Stati. I primi due sono gestiti dalla Borsa italiana S.p.A., i successivi tre da una stessa società di gestione (MTS S.p.A.). Alcuni di questi mercati (Borsa, IDEM, MTS), preesistevano alla riforma introdotta nel 1996 e recepita dal Testo Unico del 1998 ed avevano strutture diverse ma tutte delineate secondo il modello del mercato pubblico: si è resa quindi necessaria una loro «trasformazione», capace di uniformarne l’organizzazione e il funzionamento al modello del mercato-impresa. Per cogliere il senso del mutamento intervenuto è forse opportuno offrire un quadro, sia pure sintetico, della precedente fisionomia di tali mercati e del processo che gli stessi hanno attraversato per assumere l’attuale configurazione.
9.1. La «trasformazione» dei mercati regolamentati italiani A) L’organizzazione e il funzionamento del mercato ufficiale di Borsa erano affidati, nell’ordinamento previgente, al Consiglio di Borsa e alla Consob. Il Consiglio di Borsa aveva natura pubblica ed era dotato di personalità giuridica (cfr. art. 24, legge n. 1 del 1991); i suoi componenti, nominati dal Ministro dell’Economia e delle Finanze, dovevano essere scelti fra soggetti designati, per la maggior parte, dagli intermediari (banche e Sim), nonché dalla Banca d’Italia, dalla Consob e dagli emittenti i valori mobiliari negoziati in borsa. Il Consiglio di Borsa aveva funzioni proprie e funzioni allo stesso delegate dalla Consob, e costituiva il centro vero dell’organizzazione del mercato; provvedeva all’erogazione dei servizi di negoziazione e, in particolare, di quelli telematici, anche se tale erogazione non veniva effettuata direttamente dal Consiglio ma da una società consortile privata (il Ced-Borsa) sulla base di un rapporto concessorio. Ma anche la Consob svolgeva funzioni di organizzazione e gestione attiva del mercato di Borsa. Così essa non si limitava a stabilire i requisiti per l’ammissione a quotazione di un titolo o le ipotesi in cui quest’ultima poteva essere sospesa o revocata, ma assumeva, in concreto, i provvedimenti (amministrativi) di ammissione, sospensione e revoca; poteri che il Testo Unico rimette alla società di gestione del mercato.
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Anche per quanto concerne l’informazione societaria, ossia le informazioni che le società emittenti debbono trasmettere al mercato, la Consob non aveva soltanto un potere regolamentare, ma ne effettuava il controllo e ne disponeva la diffusione, anche se nella concreta attuazione di quest’ultima un ruolo importante era svolto dal Consiglio di Borsa. Questa commistione di funzioni, regolamentari, di vigilanza e di gestione, in capo alla Consob è cessata nel nuovo ordinamento nel quale alla Consob vengono conservate funzioni normative e di vigilanza, mentre quelle di organizzazione e di gestione del mercato vengono attribuite alla società di gestione, alla quale, per altro, vengono affidate anche funzioni di regolamentazione (privata) e di vigilanza sul corretto funzionamento del mercato. Nel sistema previgente, dunque, la Borsa valori non era un soggetto, ma un insieme di attività esercitate dal Consiglio di Borsa (anche tramite il Ced-Borsa) e dalla Consob; anzi, come già sappiamo, una serie di servizi, che solo da un punto di vista formale possono essere considerati complementari al funzionamento del mercato, erano forniti da altri soggetti: più esattamente la liquidazione e la compensazione delle operazioni erano affidate al Servizio delle stanze di compensazione della Banca d’Italia, mentre la funzione di garanzia del buon esito delle operazioni era fornita dalla Cassa di compensazione e garanzia, e il deposito accentrato dei titoli negoziati avveniva presso la Monte Titoli S.p.A. B) La struttura organizzativa del Mercato ristretto, che si differenziava dal Mercato di borsa soprattutto per le condizioni, meno rigorose, per l’ammissione a quotazione e per le modalità di negoziazione, era del tutto simile a quella della Borsa e faceva perno sugli stessi organi. In un primo tempo a ciascuno dei mercati ristretti istituiti presso le varie Borse Valori erano preposti particolari «Comitati dei mercati ristretti» con funzioni proprie e funzioni delegate da Consob, ma con l’istituzione del Consiglio di Borsa, a seguito della legge n. 1 del 1991, i predetti Comitati furono soppressi e i loro compiti trasferiti al Consiglio di Borsa. C) Con deliberazione 11 ottobre 1994 la Consob autorizzava, nell’ambito della Borsa Valori, la negoziazione di contratti uniformi a termine su indici azionari e più esattamente sull’indice MIB 30, ossia un indice costruito su 30 titoli azionari quotati alla Borsa Valori: contratto denominato FIB 30. Successivamente, con delibera 3 ottobre 1995, la stessa Consob autorizzava la negoziazione di contratti di opzione sullo stesso indice di Borsa MIB 30, denominati anche MIB0 30.
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Si creava così un mercato italiano di prodotti derivati (IDEM). L’organizzazione preposta al funzionamento del mercato italiano dei derivati era la stessa prevista per il mercato primario di Borsa; vedeva al centro dell’organizzazione il Consiglio di Borsa, conservava funzioni di gestione anche alla Consob, che, per altro, le delegava al primo e si avvaleva, per la negoziazione, del sistema telematico assicurato dal Ced-Borsa, concessionario del servizio. Anche le complementari funzioni di compensazione e di garanzia erano attribuite rispettivamente al Servizio stanze di compensazione della Banca d’Italia e alla Cassa di compensazione e garanzia, che per questi contratti si rendeva controparte del negoziatore. D) Il legislatore del 1996 descrisse puntualmente le tappe attraverso le quali il Mercato di Borsa, quello Ristretto e quello dei prodotti derivati sarebbero passati dal modello organizzativo pubblico a quello del mercato privato regolamentato, con l’attribuzione ad una o più società per azioni della relativa gestione. I protagonisti del processo di trasformazione, furono individuati nel Consiglio di Borsa, nella Consob e nel Ministero dell’Economia e delle Finanze. Il Consiglio di Borsa doveva presentare alla Consob «un progetto concernente la costituzione di una o più società per azioni aventi per oggetto la gestione della Borsa valori, del Mercato ristretto» e del mercato dei derivati (cfr. art. 56, 1° comma). E il Consiglio di Borsa decise di costituire una sola società denominata «Borsa italiana S.p.A.», con scopo di lucro e destinata a gestire tutti e tre i mercati, ossia la Borsa Valori, il ristretto e il mercato dei prodotti derivati. Una volta intervenuta l’approvazione della Consob, lo stesso Consiglio di Borsa «costituì con atto unilaterale la società indicata nel progetto», amministrata da un commissario provvisorio che provvide ad un successivo aumento del capitale sociale che il Consiglio sottoscrisse e liberò con il conferimento «dei beni e dei rapporti giuridici funzionali all’organizzazione e alla gestione del mercato». Successivamente, e secondo le modalità fissate dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, il Consiglio di borsa «promosse la vendita delle azioni relative all’intero capitale di ciascuna delle società costituite» «riservandone una quota pari ad almeno il cinquantuno per cento del capitale con diritto di voto agli intermediari che possono negoziare sui mercati regolamentati», ossia le banche e le imprese di investimento. Norma, quest’ultima, che nel momento in cui riservava il controllo della società di gestione della borsa, del ristretto e del mercato dei derivati, agli intermediari esprimeva il convincimento che gli stessi potessero più efficacemente di altri gestire un mercato rego-
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lamentato. La «Borsa italiana S.p.A.», così privatizzata, ha poi deliberato il regolamento dei mercati di Borsa, ristretto e degli strumenti derivati (IDEM), ritenuto dalla Consob «idoneo ad assicurare trasparenza del mercato, l’ordinato svolgimento delle negoziazioni e la tutela degli investitori» (con delibera 12 dicembre 1997, n. 11091). E) Profondamente diversa dai «mercati di Borsa» era la struttura dei due mercati speciali creati per la negoziazione all’ingrosso dei titoli di Stato (MTS) e per la negoziazione dei contratti a termine sugli stessi (MIF). Istituiti entrambi con decreti 24 febbraio 1994 del Ministro del Tesoro, e per ragioni strettamente connesse alla politica monetaria e finanziaria della Banca d’Italia e del Tesoro, avevano un’organizzazione che faceva capo agli intermediari ammessi alle negoziazioni. Più esattamente, questi ultimi sulla base di una Convenzione, dagli stessi stipulata e approvata dal Ministro del Tesoro, davano vita ad una organizzazione di tipo consortile articolata sulla base di un’assemblea generale degli aderenti e di un Comitato di gestione eletto dalla prima e competente per l’organizzazione e la gestione dei mercati. Tale organizzazione teneva conto, nella composizione degli organi, del fatto che gli intermediari che operavano sul mercato all’ingrosso, non erano gli stessi che negoziavano sul mercato dei contratti derivati. Si trattava in definitiva di strutture espresse dagli intermediari e sotto questo profilo già informate ai principi del mercato-impresa, nonostante il pervasivo controllo che sugli stessi esercitavano la Banca d’Italia ed il Tesoro (mentre marginale era la presenza della Consob). Tutto ciò rese molto più semplice, di quanto non lo fosse per i mercati di Borsa, la trasformazione che gli stessi dovevano affrontare per adeguarsi al nuovo ordinamento dei mercati regolamentati; trasformazione avvenuta sotto la regia del Ministero del Tesoro, e non della Consob, come abbiamo visto accadere per la trasformazione dei mercati di Borsa. E, d’altro canto, abbiamo constatato che anche nel nuovo ordinamento i mercati all’ingrosso dei titoli di stato e quello dei contratti derivati sugli stessi vedono nella Banca d’Italia e nel Ministro dell’Economia, e non nella Consob, i punti nei quali si coagula il potere regolamentare e di vigilanza. Anche con riferimento a questi mercati, il processo di trasformazione ha preso avvio da un progetto dell’organo di gestione del mercato (Comitato di gestione) che ha previsto la costituzione di una società di gestione per ognuno dei due mercati; intervenuta l’approvazione del progetto da parte del Tesoro, il Comitato di gestione ha proceduto alla costituzione delle società per azioni alle quali sono stati trasferiti i beni e i rap-
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porti inerenti all’organizzazione di ciascuno dei due mercati e delle quali sono risultati azionisti gli operatori che aderivano alla Convenzione che costituiva la base della precedente organizzazione. Le due società hanno provveduto a deliberare il regolamento dei rispettivi mercati. Ma mentre l’approvazione del regolamento del mercato all’ingrosso era rimessa al Ministero del Tesoro, che ha autorizzato anche l’avvio dello stesso, quella del mercato dei derivati veniva attribuita alla Consob, che ha provveduto, sentita la Banca d’Italia, anche all’autorizzazione del mercato. E il ruolo della Consob, come tutore degli interessi degli investitori, si spiega quando si tenga presente che il mercato dei derivati sui titoli di Stato non era un mercato all’ingrosso ma al dettaglio, al quale accedeva, attraverso gli intermediari ammessi alle negoziazioni, la generalità degli investitori e che, pertanto, richiedeva condizioni di trasparenza delle quali non necessitano operatori professionali come quelli che operano su un mercato all’ingrosso. F) Successivamente (maggio 1998) la Borsa italiana S.p.A. ha acquistato la totalità delle azioni della società MIF S.p.A. e, con decorrenza 31 dicembre 2002, ha deliberato la chiusura del MIF. Tutti i contratti derivati sono oggi negoziati sul mercato IDEM gestito da Borsa italiana S.p.A.
9.2. Le società di gestione dei mercati regolamentati italiani Come abbiamo già ricordato, la Borsa italiana S.p.A. gestisce due mercati regolamentati (la Borsa e il Mercato degli strumenti derivati: IDEM). La MTS S.p.A. gestisce il mercato all’ingrosso dei titoli di Stato e, fino al 1° gennaio 2010, TLX S.p.A. gestiva il mercato TLX ma, come si è già ricordato, la stessa si è trasformata in Sim ed ora gestisce esclusivamente un sistema multilaterale di negoziazione. A Borsa italiana S.p.A., così come a MTS S.p.A., si applicano le norme, a suo tempo illustrate, dettate dal Testo Unico e dalle autorità di vigilanza per le società di gestione dei mercati. Gli statuti, tuttavia, delle stesse, si preoccupano di assicurare che le regole di governo della società siano funzionali al miglior svolgimento della particolare attività esercitata. A) La privatizzazione della Borsa aveva riservato agli intermediari un ruolo preminente nell’acquisizione delle azioni di Borsa italiana S.p.A., in un’ottica in qualche misura consortile, anche se calata nell’ambito di una società che perseguiva uno scopo di lucro; un’ottica che, almeno ten-
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denzialmente, precludeva il formarsi, sulla stessa, di un controllo troppo concentrato e come tale potenzialmente pregiudizievole dell’interesse della generalità degli intermediari nonché degli emittenti e, in definitiva, del buon funzionamento del mercato. In questa prospettiva si collocava la norma statutaria che poneva un tetto al diritto di voto dei partecipanti (art. 9, 4° comma: nessun soggetto titolare di diritto di voto, intervenuto o rappresentato in assemblea, può esercitare in proprio tali diritti in misura superiore al 10 per cento del capitale avente diritto di voto). Ancora tendeva ad evitare un’eccessiva concentrazione del potere l’adozione del voto di lista proporzionale per la nomina del consiglio di amministrazione; sistema di votazione che consentiva anche alle minoranze (consistenti) di esservi rappresentate. L’accordo, intervenuto nel 2007, con il London Stock Exchange che ha attribuito la partecipazione di controllo di Borsa Italiana S.p.A. ad una holding partecipata dai soci di Borsa Italiana S.p.A. e dal London Stock Exchange, ha reso inevitabile la eliminazione di queste clausole di sapore consortile. Sono state invece conservate le norme che tendono a prevenire i possibili conflitti di interessi fra la società di gestione (e l’interesse generale al buon funzionamento del mercato), da un lato, e i singoli intermediari soci della medesima, dall’altro, nonché le norme che stabiliscono l’incompatibilità fra le cariche di amministratore delegato e di direttore generale della società con «qualsiasi posizione di amministratore o di dirigente, ovvero con la titolarità di partecipazioni di controllo in imprese di investimento, banche abilitate all’esercizio professionale di servizi di investimento, società di gestione di mercati regolamentati o strutture di gestione di scambi organizzati di strumenti finanziari nonché società emittenti e, comunque, società o enti del settore creditizio, assicurativo o finanziario» (art. 18, 3° comma dello statuto). Allo scopo di assicurare maggiore aderenza delle scelte imprenditoriali di Borsa italiana S.p.A. alle esigenze del buon funzionamento dei mercati gestiti, lo statuto sociale prevede poi la costituzione di un «comitato di consultazione» «composto da sei membri che esprimano le esigenze dei soggetti interessati al funzionamento dei mercati, in particolare emittenti, intermediari e investitori istituzionali» (art. 20, 1° comma dello statuto), con funzioni di consulenza e di proposta nei confronti del consiglio di amministrazione; e impone l’adozione di un codice di comportamento per disciplinare «situazioni di conflitto di interesse e prevenire e sanzionare comportamenti contrari alla trasparenza del mercato, alla tutela degli investitori ed all’ordinato svolgimento delle negoziazioni» (art. 22).
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B) La «Società per il mercato dei titoli di Stato S.p.A.» («MTS S.p.A.»), partecipata, almeno originariamente, soprattutto da banche, ha come oggetto particolare «l’organizzazione e la gestione» del Mercato telematico all’ingrosso dei titoli di Stato e garantiti dallo Stato, autorizzato dal Ministro dell’Economia e delle Finanze con decreto 30 giugno 1998 e del Mercato telematico all’ingrosso delle obbligazioni non governative e dei titoli emessi da organismi internazionali partecipati da Stati, autorizzato dalla Consob, sentita la Banca d’Italia, con delibera n. 12202 del 19 novembre 1999. Lo statuto originario, rimasto in vigore fino al 2004, prevedeva un limite massimo alla partecipazione sociale detenibile da un solo socio («tanto un singolo socio quanto più soci appartenenti allo stesso gruppo societario possono detenere nel complesso un numero di azioni della società non superiore al 5 per cento del capitale sociale»), e imponeva il voto di lista nella nomina degli amministratori, ma con premio consistente (4/5 dei nominati) alla lista che avesse ricevuto più voti. Lo statuto oggi vigente, in considerazione della mutata struttura proprietaria (non più diffusa ma concentrata, con una partecipazione di controllo (pari al 60%) detenuta da una holding partecipata al 49% da Borsa Italiana e per il 51% da Euronext) è profondamente diverso. È stato eliminato il tetto alla partecipazione ed è stato soppresso il voto di lista, ma si prevede (art. 6) che il trasferimento del controllo debba ricevere il «preventivo gradimento» del Ministero dell’Economia e delle Finanze; gradimento che, per altro, può essere negato soltanto quando ricorrano circostanze, con riferimento al potenziale acquirente, che possano pregiudicare il corretto svolgimento dell’attività di gestione del mercato. A seguito della riforma del diritto societario del 2003 la società aveva in un primo tempo adottato per l’amministrazione e il controllo il modello dualistico, con un consiglio di sorveglianza e un consiglio di gestione; modello successivamente abbandonato con ritorno a quello tradizionale.
9.3. I mercati gestiti da Borsa italiana S.p.A. I due mercati gestiti dalla Borsa italiana S.p.A. (Borsa, e IDEM) trovano la propria disciplina nel «Regolamento dei mercati organizzati e gestiti dalla Borsa italiana S.p.A.» deliberato originariamente dall’assemblea ordinaria di quest’ultima l’11 dicembre 1997 e «approvato» dalla Consob con deliberazione 12 dicembre 1997, e successivamente modificato più volte e da ultimo con delibera del Consiglio di amministrazione del 20 luglio 2017 (approvata dalla Consob con delibera 15 novembre 2017, n. 20188).
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9.3.1. Le regole comuni per la Borsa e l’IDEM Come si accennava, il Regolamento detta norme comuni al Mercato di Borsa, e al Mercato IDEM, nonché norme speciale per ogni singolo mercato e per i singoli comparti nei quali gli stessi si articolano. Queste le principali regole comuni. A) L’ammissione alla quotazione avviene su domanda dell’emittente. Il regolamento prevede condizioni di ammissione riferite sia al tipo di strumento finanziario, per il quale si chiede l’ammissione alla negoziazione (azioni, obbligazioni, warrant, certificati di fondi chiusi, titoli di stato), sia all’emittente. In generale, per altro, il Regolamento precisa (art. 2.1.2) che «la Borsa italiana può respingere la domanda di ammissione alla quotazione, con provvedimento motivato e comunicato tempestivamente all’interessato», tra l’altro, «se le caratteristiche dello strumento finanziario siano tali da far ritenere che non possa aver luogo la formazione di un mercato regolare» e «se la situazione dell’emittente sia tale da rendere l’ammissione contraria all’interesse degli investitori. A tal fine la Borsa italiana farà prevalentemente riferimento ai seguenti elementi: la presenza di gravi squilibri nella struttura finanziaria, un critico posizionamento competitivo nei principali settori di attività, l’evidenza di importanti fattori di incoerenza nel piano industriale e la carenza di elementi di riscontro delle ipotesi contenute nel piano medesimo». E ancora aggiunge che «la Borsa italiana può subordinare, nel solo interesse della tutela degli investitori, l’ammissione alla quotazione a qualsiasi condizione particolare che ritenga opportuna e che sia esplicitamente comunicata al richiedente». Dunque, non esiste un diritto alla quotazione di uno strumento finanziario, anche se il potere di mercato del quale gode la società di gestione della Borsa è difficilmente conciliabile con un rifiuto non giustificato dalla mancanza dei requisiti previsti dal Regolamento. E per essere ammessi alla quotazione (cfr. art. 2.1.3) «gli strumenti finanziari devono essere emessi nel rispetto delle leggi, dei regolamenti e di ogni altra disposizione applicabile» (il che implica una valutazione di legittimità da parte della società di gestione), ma devono anche essere idonei ad essere oggetto del servizio di liquidazione e compensazione e «liberamente negoziabili» (il che esclude la possibilità di quotare titoli la cui circolazione sia sottoposta a clausole di gradimento o di prelazione, mentre non preclude la quotazione di titoli il cui emittente preveda un tetto massimo alla partecipazione sociale detenuta da un singolo socio).
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Il Regolamento (art. 2.2.2) indica poi condizioni di ammissioni per ciascuna categoria di titoli. Così, ad es.: per le azioni richiede a) che la capitalizzazione di mercato prevedibile sia pari almeno a 40 milioni di euro e b) che vi sia una sufficiente diffusione delle azioni; diffusione che si presume realizzata quando le stesse siano ripartite tra il pubblico per una frazione almeno pari al 25 per cento del capitale rappresentato dalla categoria di azioni delle quali si chiede la quotazione. Non si consente la quotazione di azioni prive del diritto di voto nelle assemblee ordinarie, se non sono già stati quotati titoli dotati di tale diritto emessi dallo stesso emittente (con l’eccezione delle banche popolari e delle società cooperative autorizzate all’esercizio dell’assicurazione). Le obbligazioni possono essere quotate se sono emesse a fronte di un prestito il cui ammontare residuo sia di almeno 15 milioni di euro o, nel caso di obbligazioni convertibili, di almeno 5 milioni di euro; e se sono diffuse tra il pubblico o presso investitori professionali in misura ritenuta adeguata dalla Borsa italiana per soddisfare l’esigenza di un regolare funzionamento del mercato. Può ben succedere che un emittente chieda l’ammissione alla quotazione di strumenti non sufficientemente diffusi fra il pubblico: per realizzare il flottante richiesto l’emittente può effettuare una sollecitazione del pubblico risparmio funzionale al raggiungimento di tale obiettivo. In tale caso dovrà, contestualmente alla domanda di ammissione alla quotazione, rivolgere alla Consob domanda di autorizzazione alla pubblicazione del prospetto di quotazione (v. art. 52 del Regolamento Emittenti) ed il prospetto autorizzato deve essere pubblicato prima dell’inizio della negoziazione nel mercato di Borsa. Come abbiamo già rilevato, il prospetto di quotazione ha, nella sostanza, lo stesso contenuto del prospetto informativo previsto per ogni altra sollecitazione del pubblico risparmio. Il Regolamento di Borsa prevede anche che l’emittente, che non ha altri titoli quotati al mercato ufficiale di Borsa e che chiede l’ammissione alla quotazione di azioni, warrant o quote di fondi chiusi, sia assistito da uno sponsor (banca, impresa di investimento) al quale viene richiesta una serie di attestazioni relative alla qualità dell’emittente e dello strumento finanziario di cui si chiede l’ammissione a quotazione; non solo, ma in alcune ipotesi (es.: segmento STAR) si chiede che venga nominato uno specialista, ossia un soggetto che si impegna, tra l’altro, ad esporre continuativamente proposte di acquisto e di vendita del titolo, contenute entro soglie predeterminate.
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Anche i requisiti che debbono presentare gli emittenti variano con il variare del titolo del quale si chiede l’ammissione a quotazione. Così, ad esempio: per la quotazione delle azioni l’emittente deve aver pubblicato i bilanci, anche consolidati, degli ultimi tre esercizi di cui almeno uno sottoposto al giudizio della società di revisione e «deve esercitare, direttamente o attraverso le proprie controllate e in condizioni di autonomia gestionale, un’attività capace di generare ricavi» e «l’attivo di bilancio ovvero i ricavi dell’emittente non devono essere rappresentati in misura preponderante dall’investimento o dai risultati dell’investimento in una società le cui azioni sono ammesse alle negoziazioni in un mercato regolamentato» (divieto di quotare le cc.dd. scatole cinesi) (art. 2.2.1). B) L’ammissione alle negoziazioni può poi essere sospesa o revocata. La società di gestione può sospendere un titolo dalla quotazione «se la regolarità del mercato dello strumento stesso non è temporaneamente garantita o rischia di non esserlo, ovvero se lo richieda la tutela degli investitori»; e può disporre la revoca «in caso di prolungata carenza di negoziazione» ovvero quando non sia possibile mantenere un mercato «normale o regolare» del titolo (art. 2.5.1). Come abbiamo già ricordato, la legge n. 262 del 2005 ha attribuito alla Consob il potere di revocare la decisione di sospensione degli strumenti finanziari e degli operatori dalle negoziazioni e chiedere alla società di gestione di assumere tali provvedimenti. L’esclusione dalle negoziazioni può avvenire anche su richiesta dell’emittente (delisting); la stessa, per altro, non è incondizionata ma risulta subordinata al ricorrere di circostanze che consentano l’assenza o quanto meno la minimizzazione dei pregiudizi che potrebbero derivarne per gli investitori. C) Il regolamento di un mercato può prevedere una serie di obblighi a carico degli emittenti dei titoli quotati; obblighi che si aggiungono a quelli fissati dalla legge e dai regolamenti della Consob. Così il Regolamento della Borsa impone agli emittenti di portare a conoscenza della Borsa italiana, almeno quindici minuti prima dell’invio alle agenzie di stampa, qualsiasi comunicato concernente notizie idonee, se rese pubbliche, ad influenzare sensibilmente il prezzo degli strumenti finanziari quotati, che l’emittente intenda diramare durante l’orario di svolgimento delle contrattazioni in borsa; di trasmettere senza indugio alla Borsa italiana le comunicazioni delle partecipazioni rilevanti ricevute dai soci del medesimo emittente; di inviare alla Borsa italiana copia dei comunicati inerenti strumenti finanziari quotati per i quali le vigenti leggi o
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le delibere emanate dalla Consob prevedono la pubblicazione su quotidiani; di comunicare alla Borsa italiana ogni variazione dell’ammontare e della composizione del proprio capitale sociale e, più in generale, di comunicare tutte le informazioni che la stessa «ritenga utili, di volta in volta o in via generale, al fine del buon funzionamento del mercato» (art. 2.6.1). Non solo, ma il Regolamento prevede anche «sanzioni private»: agli emittenti, che non osservano i doveri di comportamento cui sono tenuti, la Borsa italiana S.p.A., «tenuto conto della gravità della violazione e dell’eventuale recidiva», può inviare o un «richiamo scritto in forma privata» o un «richiamo scritto in forma pubblica» o comminare «una sanzione pecuniaria da 5.000 euro a 500.000 euro, la cui destinazione è stabilita in via generale dalla stessa Borsa italiana S.p.A. D) Il Regolamento (titolo 3.1) disciplina poi le condizioni di ammissione degli operatori (Sim, banche, imprese di investimento comunitarie ed extracomunitarie, Poste Italiane S.p.A.) autorizzati allo svolgimento delle attività di negoziazione per conto proprio o per conto terzi. In particolare, stabilisce (art. 3.1.3) che l’ammissione degli operatori alle negoziazione è subordinata a un accertamento, effettuato dalla Borsa italiana, della loro capacità di svolgere la loro attività assicurando il regolare funzionamento del mercato. A tal fine la Borsa italiana accerterà se il numero di addetti sia sufficiente per il regolare svolgimento delle funzioni di negoziazione, liquidazione e controllo delle medesime, in relazione alla tipologia di attività svolte, e ancora, se la qualificazione professionale dei negoziatori sia adeguata, nonché «l’adeguatezza dei sistemi tecnologici utilizzati per lo svolgimento della negoziazione e delle attività alla stessa connesse». Anche sugli operatori incombono particolari doveri di comportamento. Più esattamente gli operatori debbono mantenere «una condotta improntata a principi di correttezza, diligenza e professionalità nei rapporti con le controparti di mercato, negli adempimenti verso la Borsa italiana e nell’utilizzo dei sistemi di negoziazione» e astenersi «dal compiere atti che possano pregiudicare l’integrità dei mercati». Essi, tra l’altro non possono compiere atti che possano creare impressioni false o ingannevoli negli altri partecipanti ai mercati, porre in essere operazioni fittizie non finalizzate al trasferimento della proprietà degli strumenti finanziari negoziati, porre in essere, anche per interposta persona, operazioni che siano effettuate in esecuzione di un accordo preliminare avente a oggetto lo storno, mediante compensazione, delle operazioni stesse; negoziare o far negoziare strumenti finanziari nei confronti dei quali la Borsa italiana abbia adottato provvedimenti di sospensione dalle contrattazioni,
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senza preventiva autorizzazione della Borsa stessa (cfr. art. 3.1. del Regolamento). E anche nei confronti degli operatori che non osservino i doveri loro imposti dal Regolamento, la Borsa italiana S.p.A. può assumere provvedimenti sanzionatori: che vanno dal richiamo alla irrogazione di una sanzione pecuniaria, alla sospensione e alla revoca dalle negoziazioni. E) Il Regolamento fissa poi le modalità di negoziazione e di rilevazione dei prezzi; modalità che variano nei vari comparti. Qui ricordiamo solo che le negoziazioni debbono concernere sempre un quantitativo minimo e che, pertanto, gli ordini possono «lasciare sul campo» delle «spezzature». La loro negoziazione ha dato luogo, in origine, al mercato delle «spezzature» (MPS), assorbito poi nei vari mercati. 9.3.2. Il Mercato ufficiale di Borsa Il Mercato ufficiale di Borsa, si articola in sei comparti: a) il Mercato Telematico Azionario (MTA), sul quale si negoziano azioni, obbligazioni convertibili, diritti di opzione warrant e nell’ambito del quale è stato individuato il «segmento STAR», riservato alle azioni di società di media capitalizzazione e dotato di un sistema di governo particolarmente qualificato, e il «segmento Blue chips», ossia società con una capitalizzazione di borsa particolarmente elevata; b) il Mercato Telematico delle obbligazioni e dei titoli di Stato (MOT) che ha per oggetto la negoziazione di obbligazioni diverse da quelle convertibili, titoli di Stato, euro-obbligazioni, obbligazioni di emittenti esteri, assed baked securities (ABS), ossia strumenti finanziari emessi a fronte di operazioni di cartolarizzazione, e altri titoli di debito; c) Mercato Telematico degli OICR aperti ed ETC (Etfplus) sul quale si negoziano quote o azioni di OICR aperti e di Exchange traded commodities, ossia strumenti finanziari emessi a fronte dell’investimento in merci «per le quali esiste un mercato di riferimento caratterizzato dalla disponibilità di informazioni continue e aggiornate sui prezzi delle attività negoziate»; d) Mercato telematico degli investment vehicles (MIV) sul quale si negoziano azioni di Investment Companies (società che hanno come oggetto sociale l’investimento in partecipazioni) e di Real Estate Investment Companies (società che svolgono in via prevalente attività di investimento immobiliare), obbligazioni convertibili, warrant e diritti di opzione emessi da tali società, nonché quote di fondi chiusi.
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Ai vari comparti del Mercato di Borsa si applicano tutte le norme ricordate al paragrafo precedente. Per ciascuno di essi vigono poi norme particolari, ad es. per quanto concerne le modalità di negoziazione e di rilevazione dei prezzi. Per il comparto MTA il Regolamento prevede che le negoziazioni possano avvenire secondo due modalità: ossia «l’asta di apertura», che serve per determinare il prezzo di apertura della seduta del mercato, seguita dalla «negoziazione continua» oppure esclusivamente secondo questa seconda modalità che caratterizza il prosieguo della seduta e che consiste «nell’abbinamento automatico di proposte di acquisto e di vendita presenti sul mercato e ordinate secondo il criterio della priorità temporale». Le operazioni di compravendita di azioni concluse sul mercato telematico azionario sono oggetto di «riscontro», ossia di verifica della loro materiale conclusione, da parte della Borsa italiana S.p.A. e «liquidate», ossia eseguite, entro il terzo giorno di borsa aperta successivo alla stipulazione. Per quanto concerne la rilevazione dei prezzi il Regolamento distingue fra il prezzo ufficiale giornaliero e il prezzo di riferimento della giornata e individua il primo nel prezzo medio ponderato dell’intera quantità di titoli negoziati sul mercato durante la seduta e il secondo nel prezzo medio ponderato relativo ad un particolare intervallo di tempo. Le modalità di negoziazione nel MOT non sono sostanzialmente diverse da quelle appena ricordate per il comparto MTA, ma il prezzo ufficiale è il prezzo medio ponderato di sottoscrizione e non si determina alcun prezzo di riferimento. 9.3.3. Il Mercato degli strumenti derivati (IDEM) Nel mercato degli strumenti derivati «possono essere negoziati contratti futures e contratti di opzione aventi come attività sottostante strumenti finanziari, tassi di interesse, valute, merci e relativi indici»; attività che «deve soddisfare caratteristiche di liquidità, continuità delle negoziazioni, disponibilità o reperibilità di tutte le informazioni rilevanti, disponibilità di prezzi ufficiali o comunque significativi» (art. 5.1 del Regolamento). Oggetto delle negoziazioni possono essere anche indici di borsa e abbiamo già ricordato l’indice MIB 30 e i contratti futures (FIB 30) e option (MIB0 30) basati sul primo. Quell’indice era costruito ricomprendendovi le società con più alta capitalizzazione e maggiore liquidità. Gli operatori possono operare sull’IDEM sia come brokers sia come dealers ed anche come market makers, i quali si impegnano ad acquistare o vendere a prezzi predeterminati quantitativi, pure predeterminati, di contratti derivati.
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Le negoziazioni su questo mercato avvengono nella forma dell’asta e della negoziazione continua, che si svolge in una unica fase durante la quale si incrociano le varie proposte contrattuali che vengono ordinate in base al prezzo (decrescente per le proposte di acquisto e crescente per quelle di vendita) e, a parità di prezzo, in base alla priorità temporale. Come si ricorderà, l’organismo di compensazione e garanzia (ossia, come vedremo, la Cassa di Compensazione e garanzia) assume le posizioni contrattuali delle parti ed è lo stesso organismo che determina il prezzo ufficiale di ciascuno degli strumenti derivati; prezzo ufficiale individuato nel prezzo di chiusura giornaliero (e non quindi nel prezzo medio ponderato).
9.4. Il Mercato all’ingrosso dei titoli di Stato (MTS) Sul Mercato all’ingrosso dei titoli di Stato (MTS) sono negoziabili i titoli emessi dallo Stato italiano e da Stati esteri. È un mercato all’ingrosso: gli strumenti finanziari sono negoziati per quantitativi minimi fissati nelle disposizioni di attuazione dalla società di gestione; detti quantitativi minimi sono determinati tenendo conto delle caratteristiche all’ingrosso del mercato, dell’ammontare emesso degli strumenti finanziari, nonché della liquidità del mercato e potranno essere differenziati per singole specie o categorie di strumenti finanziari. Piuttosto selettiva è l’ammissione degli intermediari: le banche e le imprese di investimento possono essere ammesse solo se autorizzate all’esercizio del servizio di negoziazione per conto proprio, se dotate di una struttura organizzativa che consenta loro una corretta operatività sul mercato, e in possesso di un patrimonio netto di almeno dieci milioni di euro. Sono altresì ammessi di diritto ad operare sull’MTS il Ministero dell’Economia e delle Finanze e la Banca d’Italia. Nell’ambito poi degli operatori ammessi si prevede la categoria dei market makers (che debbono avere un patrimonio di almeno 40 milioni di euro e una struttura adeguata per il corretto adempimento degli obblighi che fanno loro carico), i quali assumono l’impegno di formulare, mediante il sistema telematico, in via continuativa, nell’orario e con le modalità stabilite [dalla società di gestione], proposte di acquisto e di vendita in ordine alle specie di strumenti finanziari che verranno assegnate a ciascun operatore principale dalla società di gestione (art. 30 del Regolamento del mercato); impegno che serve a dare spessore e liquidità al mercato. Le negoziazioni avvengono secondo il metodo della negoziazione con-
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tinua, che si protrae per l’intera giornata; i contratti vengono stipulati dagli operatori in nome e per conto proprio (dealers) e sono contratti di compravendita, a pronti e a termine, di «pronto contro termine» e contratti «differenziali».
9.5. Il Mercato Bondvision Sul Mercato Bondvision gestito da MTS S.p.A. si negoziano, soltanto via internet, titoli dello Stato italiano o di Stati esteri. È un mercato all’ingrosso, per la cui organizzazione valgono regole analoghe a quelle dettate per il mercato non telematico avente ad oggetto gli stessi titoli pubblici. Nell’ambito degli operatori ammessi a negoziare, si individuano gli operatori principali che debbono essere dotati di un’organizzazione «che consenta il pieno adempimento degli obblighi che fanno loro carico e, in particolare, quelli di «rispondere» alla richiesta di prezzo effettuata dagli altri operatori e contribuire alla formazione di un prezzo indicativo anonimo».
9.6. Il Mercato all’ingrosso delle obbligazioni non governative La società MTS gestisce anche un altro mercato all’ingrosso quello delle «obbligazioni non governative e dei titoli emessi da organismi internazionali partecipati da stati». È un mercato all’ingrosso, strutturato in modo sostanzialmente analogo a quello dei titoli di Stato, alle cui negoziazioni i titoli sono ammessi soltanto quando gli stessi «siano stati emessi e diffusi in misura tale da poterne sostenere un mercato all’ingrosso» e tale misura viene indicativamente determinato in 850 milioni di euro. Alle negoziazioni sono ammessi gli stessi operatori che possono operare sul mercato all’ingrosso dei titoli di Stato e nell’ambito degli stessi vengono individuati gli «operatori principali» con il ruolo di market makers. Anche i contratti negoziabili sono quelli già consentiti sul mercato dei titoli di Stato.
9.7. Gli organismi di compensazione, liquidazione e garanzia Nell’esaminare l’articolazione degli organismi che nel nostro sistema si occupano della compensazione, della liquidazione e della garanzia delle
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negoziazioni che si svolgono sui mercati regolamentati, è necessario tenere presente che la distinzione fra le operazioni su strumenti finanziari non derivati e quella su strumenti derivati si è appannata e, per quanto concerne la liquidazione, ossia il regolamento delle operazioni, è necessario distinguere fra le prestazioni che hanno ad oggetto la consegna di strumenti e quelle che si risolvono in una dazione di danaro. A) Prodromica all’analisi delle norme che regolano l’attività di compensazione e liquidazione delle operazioni aventi ad oggetto lo scambio materiale di titoli o comunque il loro effettivo trasferimento, è l’individuazione degli organismi di gestione accentrata degli strumenti finanziari. È necessario in proposito ricordare che per i titoli di Stato il Testo Unico prevedeva una disciplina diversa da quella generalmente applicabile alla gestione accentrata; più esattamente, prevedeva il potere del Ministro dell’Economia e delle Finanze di dettare, con regolamento, le norme per la loro «gestione accentrata», anche in parziale deroga delle norme generalmente applicabili alla gestione accentrata degli altri strumenti finanziari. E fino al 2000 in effetti, mentre la gestione accentrata della generalità degli strumenti finanziari era affidata a Monte Titoli S.p.A., quella dei titoli di Stato era svolta dal Servizio di gestione centralizzata dei titoli di Stato della Banca d’Italia. Con decreto 17 aprile 2000, n. 143, il Ministro dell’Economia ha stabilito che la gestione dei titoli di Stato sarebbe stata affidata, sulla base di una specifica convenzione ad una società di gestione accentrata; società individuata poi nella Monte Titoli S.p.A. Quest’ultima svolge dunque oggi tale servizio per tutti gli strumenti finanziari di diritto italiano. Come abbiamo già ricordato, la Monte Titoli S.p.A. è una società per azioni che ha per oggetto (cfr. art. 1, legge 19 gennaio 1986, n. 289) esclusivo «lo svolgimento di servizi intesi a razionalizzare la custodia e la negoziazione dei valori mobiliari, in particolare attraverso la gestione dei sistemi di amministrazione accentrata in base al criterio di fungibilità dei valori stessi». Dal momento dell’introduzione delle norme sulla dematerializzazione necessaria degli strumenti finanziari negoziati sui mercati regolamentati, la gestione accentrata non ha più implicato la custodia materiale dei titoli. Per espressa disposizione del legislatore, i titoli detenuti da Monte Titoli non potevano, anzi, più essere ritirati dai proprietari e furono annullati e restituiti all’emittente (cfr. art. 37, D.Lgs. 24 giugno 1998, n. 213). La Monte Titoli S.p.A., svolge oggi la propria funzione di gestore accentrato degli strumenti finanziari dematerializzati secondo le regole fissate
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dal Testo Unico e a suo tempo illustrate e imperniate sulla tenuta dei conti che registrano per ogni intermediario depositario le operazioni relative ai vari titoli negoziati sul mercato regolamentato. Sulla Monte Titoli S.p.A., la cui proprietà è pressoché integralmente detenuta da Borsa italiana S.p.A., insiste la vigilanza che il Testo Unico prevede in generale per tutti gli organismi che svolgono tale attività. Naturalmente Monte Titoli S.p.A., dopo l’entrata in vigore del Testo Unico, non ha più il monopolio della gestione accentrata, pur essendo di fatto l’unico soggetto che la svolge per la generalità degli strumenti finanziari. Come si accennava, gli organismi di gestione accentrata costituiscono un momento essenziale del funzionamento del mercato e, in particolare, del regolamento, o liquidazione, delle negoziazioni ed è, pertanto, naturale il constatare che condizione necessaria per consentire ad un intermediario di operare su un mercato regolamentato è la sua ammissione al sistema di gestione accentrata degli strumenti oggetto di negoziazione. B) La liquidazione delle operazioni su strumenti finanziari non derivati, avviene attraverso compensazione: tutte le posizioni creditorie e debitorie in strumenti finanziari e somme di danaro, delle quali ogni intermediario si ritrova titolare per effetto dei contratti stipulati, sono oggetto di compensazione. Nel nostro sistema i servizi di liquidazione per gli strumenti non derivati vengono svolti, come si è già detto, da Monte Titoli S.p.A. Per effetto della compensazione di tutte le situazioni attive esistenti nei confronti di tutti gli altri operatori, ciascun intermediario risulterà titolare di un saldo, attivo o passivo, nei confronti dell’insieme degli altri operatori, in danaro e/o in titoli. I saldi, passivi o attivi, in strumenti finanziari vengono imputati ai conti che ciascun intermediario intrattiene; e ciascun intermediario deve consegnare a ciascuno degli altri operatori i titoli dei quali risulti debitore. Ogni intermediario risulterà anche creditore o debitore di una somma di danaro e il relativo saldo, attivo o passivo, gli verrà addebitato o accreditato tramite una banca partecipante al sistema dei pagamenti interbancari. Diverso è il sistema di liquidazione delle operazioni aventi per oggetto strumenti finanziari derivati; come vedremo fra un attimo le posizioni contrattuali degli operatori vengono assunte in proprio dall’organismo di garanzia («Cassa di compensazione e garanzia S.p.A.») e quindi anche il riscontro, la compensazione e la liquidazione delle operazioni vengono effettuate da quest’ultimo. Forse non è inutile ricordare, anche in questa sede, che in forza di
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quanto previsto dal D.Lgs. 12 aprile 2001, n. 210 attuativo della direttiva 98/26/CE, «le operazioni da regolare sono irrevocabili dal momento del «time stamp di riscontro», ossia dal timbro elettronico apposto dai servizi di riscontro del Monte e acquisiscono la definitività prevista dall’art. 2 del predetto decreto legislativo dal «time stamp» di definitività che riporta «il giorno, l’ora, il minuto e il secondo dell’immissione dell’ordine di trasferimento nel sistema di liquidazione». C) L’adempimento puntuale delle obbligazioni, in titoli o in danaro, una volta effettuate le operazioni di compensazione e liquidazione appena descritte, costituisce, come è ovvio, condizione necessaria del buon funzionamento di un mercato regolamentato. Nel nostro sistema questa funzione è svolta dalla «Cassa di compensazione e garanzia S.p.A.» (il cui controllo è detenuto da Borsa italiana S.p.A.); essa, tuttavia, non gode più del monopolio che, di tale funzione, sembrava attribuirle la legge n. 1 del 1991; legge sulla base della quale venne costituita nel 1992. La Cassa di compensazione e garanzia è una società per azioni che svolge una funzione nella sostanza di natura consortile, dal momento che gli intermediari realizzano, attraverso la Cassa, un sistema di mutua garanzia che facilita, con la sicurezza dell’adempimento delle obbligazioni dei singoli operatori, lo svolgimento della loro attività. Due sono i modelli di garanzia adottati dalla Cassa di compensazione e garanzia: a) la costituzione e gestione da parte della Cassa di un fondo di garanzia, di natura mutualistica, costituito con gli apporti degli intermediari e b) l’assunzione da parte della Cassa del ruolo di controparte, nei singoli rapporti, di ciascuno degli intermediari con sostituzione della stessa nelle posizioni «debitorie» nei loro confronti. Il primo modello può essere adottato solo per le operazioni in strumenti finanziari non derivati, il secondo può essere adottato anche per questi (cfr. provv. Banca d’Italia 22 ottobre 2002) ed è l’unico consentito per le operazioni in strumenti finanziari derivati. C1) Nell’attuazione del primo modello, la Cassa di compensazione e garanzia si limita a gestire le risorse dei «Fondi di garanzia dei contratti», che garantiscono il buon fine della esecuzione dei contratti in caso di insolvenza di controparte. I Fondi, alimentati dai versamenti effettuati dai partecipanti alle negoziazioni, nella misura stabilita dalla società di gestione del mercato, costituiscono altrettanti patrimoni separati nei confronti del patrimonio di quest’ultima e sono gestiti dalla Cassa di compensazione e garanzia in condizione di separatezza patrimoniale. La Cassa non risponde nei confronti dei creditori dell’operatore insol-
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vente, ma effettua il pagamento degli importi indicati sui certificati di credito rilasciati a conclusione del procedimento di accertamento dell’insolvenza di mercato, utilizzando in primo luogo il margine versato dall’insolvente e, in caso di insufficienza di questo, i margini versati dagli altri partecipanti alle negoziazioni in misura proporzionale alla quota percentuale del margine versato da ciascuno sul complessivo ammontare del Fondo. Qualora tali margini risultassero complessivamente insufficienti, la Cassa provvede a richiedere ai partecipanti alle negoziazioni, diversi dall’insolvente, una quota di contribuzione determinata per ciascuno di essi in misura proporzionale alla media giornaliera dei contratti conclusi negli ultimi due mesi, a partire dal giorno in cui si è verificata l’insolvenza, e per un ammontare tale da consentire l’integrale corresponsione degli importi dei certificati di credito. La Cassa si surroga al Fondo nei diritti della controparte dell’insolvente fino alla concorrenza del pagamento effettuato a suo favore con mezzi eccedenti l’ammontare del margine versato dall’insolvente medesimo. C2) Radicalmente diversi sono i sistemi di liquidazione e garanzia per i contratti su strumenti derivati, per i quali la liquidazione si risolve normalmente senza il trasferimento di strumenti finanziari e con la dazione di una somma di danaro; sistema, come si accennava, utilizzabile – e di fatto oggi utilizzato – anche per gli strumenti non derivati. Per questi contratti la Cassa di compensazione e garanzia diventa controparte di ciascuno dei contraenti del contratto uniforme su strumenti finanziari negoziati sui mercati dei derivati, esonerando così ogni parte di questi contratti dal rischio di insolvenza di controparte. La stipulazione di un contratto con la Cassa di compensazione che preveda la suddetta cessione dei contratti, è condizione necessaria per poter essere ammessi a negoziare su un mercato dei derivati e il versamento dei margini è condizione necessaria per poter concretamente operare sul mercato: più esattamente l’operatore (aderente diretto) deve versare presso la Cassa il «margine iniziale» prima dell’apertura delle negoziazioni del giorno successivo a quello nel quale sono stati conclusi i contratti, in misura correlata alle operazioni concluse nella giornata precedente e deve, altresì, versare i margini di variazione e aggiunti che si rendano necessari in funzione dell’avvenuto accrescimento del rischio dovuto a mutamenti non favorevoli dei prezzi. In caso di inadempimento all’obbligo di versamento dei margini, la Cassa di compensazione può sospendere l’operatore dalle negoziazioni ed esercita nei confronti dell’aderente inadempiente i diritti che competevano alla sua controparte originaria e dei quali ha acquistato la titolarità.
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10. Informazione societaria, insider trading e manipolazione nei mercati regolamentati A) L’ampiezza e la qualità delle informazioni fornite agli operatori e il divieto di utilizzazione, nelle negoziazioni, di informazioni riservate costituiscono presupposti necessari per il buon funzionamento dei mercati regolamentati e dei sistemi multilaterali di negoziazione e per l’allocazione ottima del risparmio agli stessi affidato. Di qui l’importanza delle norme che impongono alle società «quotate» di rendere pubbliche tutte le notizie rilevanti per una corretta valutazione dei titoli dalle stesse emessi e il divieto, per coloro che detengano informazioni rilevanti e non ancora pubbliche, di avvalersi di tali informazioni per l’acquisto o la vendita di titoli negoziati sui mercati regolamentati o nei sistemi multilaterali. E si tratta di due profili strettamente connessi, nel senso che il pericolo di insider trading diminuisce con l’intensificarsi degli obblighi di informazione che incombono sugli emittenti e, simmetricamente, aumenta con l’entità o la qualità delle notizie destinate a rimanere riservate. E non a caso gli obblighi di informazione al mercato (che si aggiungono a quelli che impongono di trasmettere alla Consob le notizie necessarie per l’esercizio della funzione di vigilanza) furono introdotti nel nostro ordinamento dalla stessa legge (17 maggio 1991, n. 157) che reprimeva l’insider trading. Nella stessa logica si muove la disciplina dettata dalla legge n. 262 del 2005 e ancor prima dalla legge 18 aprile 2005, n. 62, che ha dato attuazione in Italia alla direttiva comunitaria 2003/6 del 28 gennaio 2003 «relativa all’abuso di informazioni privilegiate e alla manipolazione del mercato – abusi di mercato», abrogata dal Regolamento UE 16 aprile 2014, n. 596, che ha dettato una più articolata disciplina degli abusi di mercato, introducendo un nuovo titolo nel T.U. n. 58 del 1998 (Titolo I-bis della parte V artt. 180-187-quaterdecies) e rafforzando la tutela dell’integrità del mercato. B) L’art. 114 del T.U., così come modificato dalla legge di attuazione della direttiva sul market abuse, stabilisce che «gli emittenti quotati comunicano al pubblico, senza indugio le informazioni privilegiate di cui all’art. 181 che riguardano direttamente detti emittenti e le società controllate» e a norma del richiamato 181 del medesimo Testo Unico «per informazione privilegiata si intende un’informazione di carattere preciso, che non è stata resa pubblica, concernente direttamente o indirettamente,
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uno o più emittenti strumenti finanziari o uno o più strumenti finanziari, che, se resa pubblica, potrebbe influire in modo sensibile sui prezzi di tali strumenti finanziari». Un’informazione, poi, si ritiene di carattere preciso se «a) si riferisce ad un complesso di circostanze esistente o che si possa ragionevolmente prevedere che verrà ad esistenza o ad un evento verificatosi o che si possa ragionevolmente prevedere che si verificherà; b) è sufficientemente specifica da consentire di trarre conclusioni sul possibile effetto del complesso di circostanze o dell’evento di cui alla lettera a) sui prezzi degli strumenti finanziari». Mentre per informazione che, se resa pubblica, potrebbe influire in modo sensibile sui prezzi di strumenti finanziari si intende un’informazione che presumibilmente un investitore ragionevole utilizzerebbe come uno degli elementi su cui fondare le proprie decisioni di investimento. L’obbligo di comunicazione delle informazioni privilegiate si aggiunge all’obbligo di informazione su tutta un’altra serie di eventi, riguardanti l’emittente quotato che costituiscono l’informazione societaria ordinaria. Così il Regolamento Emittenti ha cura di considerare, comunque, «eventi rilevanti», e quindi da rendere pubblici, le deliberazioni del consiglio di amministrazione che approvano il progetto di bilancio, la proposta di distribuzione del dividendo, il bilancio consolidato e la relazione semestrale e trimestrale; la presentazione di istanze e l’emanazione di provvedimenti di assoggettamento a procedure concorsuali; le decisioni degli organi sociali aventi per oggetto le operazioni sul capitale, la emissione di obbligazioni, la fusione e la scissione, l’acquisto e la vendita di partecipazioni di rilievo o di rami d’azienda, l’autorizzazione ad effettuare operazioni sulle proprie azioni, la modificazione dei diritti delle categorie speciali di azioni e, naturalmente, lo scioglimento della società nonché le operazioni con parti correlate. Ma possono essere rilevanti anche eventi diversi da quelli indicati dal Regolamento della Consob. Le informazioni sono rese pubbliche attraverso un comunicato dell’emittente a) trasmesso alla società di gestione del mercato, che deve metterlo immediatamente a disposizione del pubblico; b) inviato a cura dello stesso emittente ad almeno due agenzie di stampa e c) contemporaneamente trasmesso alla Consob. La società di gestione del mercato può stabilire il contenuto minimo dei comunicati e modalità particolari per la diffusione dei comunicati al mercato. Il comunicato, in ogni caso, deve contenere gli elementi essenziali del fatto in forma idonea a consentire una valutazione completa e corretta degli effetti che esso può produrre sul prezzo degli strumenti finanziari.
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A tal fine la Consob può imporre il contenuto del comunicato destinato al pubblico. Gli amministratori della società emittente possono, tuttavia, «opporsi» alla divulgazione di notizie relative a qualcuno degli eventi rilevanti, assumendo che tale divulgazione arreca «grave danno alla società»; l’opposizione comporta l’automatica sospensione della comunicazione dell’informazione al pubblico e la Consob, entro sette giorni può escludere «anche parzialmente o temporaneamente» la divulgazione dell’informazione stessa, «sempre che ciò non possa indurre in errore il pubblico su fatti e circostanze essenziali» (cfr. art. 114, 6° comma, T.U. n. 58 del 1998). Inoltre «gli emittenti quotati possono, sotto la propria responsabilità, ritardare la comunicazione al pubblico delle informazioni privilegiate, al fine di non pregiudicare i loro legittimi interessi, nelle ipotesi e alle condizioni stabilite dalla Consob con regolamento, sempre che ciò non possa indurre in errore il pubblico su fatti e circostanze essenziali e che gli stessi soggetti siano in grado di garantirne la riservatezza» (art. 114, 3° comma, T.U.). Come si vede, l’interesse sociale cede all’interesse generale rappresentato dalla necessità di evitare che il pubblico cada in errore «su fatti e circostanze essenziali». Il Testo Unico (art. 114, 6°comma) attribuisce alla Consob il compito di stabilire «in quali casi e con quali modalità devono essere fornite informazioni al pubblico sugli studi e sulle statistiche concernenti gli emittenti quotati» e il Regolamento Emittenti ha dettato una disciplina analitica di tale attività, diretta soprattutto ad evitare che restino occulti i conflitti di interesse che possono inquinare analisi diffuse fra il pubblico con il marchio dell’obiettività. C) Il legislatore, nello stesso momento in cui impone alla società emittente di rendere pubblica ogni informazione privilegiata, punisce «con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro ventimila a euro tre milioni chiunque, essendo in possesso di informazioni privilegiate in ragione della sua qualità di membro di organi di amministrazione, direzione o controllo dell’emittente, della partecipazione al capitale dell’emittente, ovvero dell’esercizio di un’attività lavorativa, di una professione o di una funzione, anche pubblica, o di un ufficio: a) acquista, vende o compie altre operazioni, direttamente o indirettamente, per conto proprio o per conto di terzi, su strumenti finanziari utilizzando le informazioni medesime; b) comunica tali informazione ad altri, al di fuori del normale esercizio del lavoro, della professione, della funzione o dell’ufficio;
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c) raccomanda o induce altri, sulla base di esse, al compimento di taluna delle operazioni indicate nella lettera a)» (art. 184, 1° comma). E il D.Lgs. 17 luglio 2009, n. 101 ha ricompreso nella nozione di strumenti finanziari possibili oggetto della condotta così sanzionata, oltre agli strumenti finanziaria negoziati su un mercato regolamentato, anche quelli ammessi alla negoziazione in un sistema multilaterale di negoziazione «per i quali l’ammissione è stata richiesta o autorizzata dall’emittente». Questo è il fenomeno che viene correntemente definito come insider trading, fenomeno generalmente represso dagli ordinamenti dei mercati mobiliari non attraverso la sanzione civile, tra l’altro di pressoché impossibile applicazione a transazioni anonime come quelle che avvengono sul mercato mobiliare e per di più bisognose di stabilità, ma ricorrendo alla sanzione penale; insider trading generalmente punito, anche se le ragioni del giudizio di riprovevolezza sono quanto mai incerte. Ma prima di interrogarci su questo punto, cerchiamo di esaminare più da vicino la disciplina dettata da legislatore italiano e della quale abbiamo sopra tracciato i lineamenti generali. C1) Destinatari del divieto di insider trading sono coloro che siano entrati in possesso di una informazione privilegiata o grazie alla loro condizione di soci o grazie ad un rapporto fiduciario con la società (incarico di consulenza) o di un rapporto organico con la stessa (amministratori, sindaci, liquidatori, direttori generali e dirigenti, per i quali è raddoppiata la sanzione) o in forza di un rapporto negoziale (l’impresa di investimento incaricata di una particolare operazione finanziaria dalla società) o di un rapporto che consenta ad un organo pubblico (esempio, la Consob) o ad una struttura privata (esempio, le società di gestione del mercato) di entrare in possesso delle predette informazioni. Coloro che siano entrati in possesso di una informazione privilegiata non possono né acquistare né vendere i titoli ai quali tale informazione si riferisce, utilizzando l’informazione in questione. Il che non significa, ovviamente, che siano autorizzati o tanto meno tenuti a rendere pubblica la notizia della quale sono entrati in possesso. Ma, come si è accennato, il divieto concerne anche la comunicazione a terzi (tipping) della notizia, a meno che tale comunicazione non sia dovuta o comunque giustificata (esempio, il revisore che rende edotto il sindaco dell’evento ancora ignoto), ed anche al tippee è vietato effettuare acquisiti o vendite o comunicare a terzi l’informazione privilegiata, ma i suoi comportamenti sono puniti solo se compiuti con la consapevolezza del fatto che l’origine della notizia riservata va rintracciata nello svolgi-
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mento di un incarico fiduciario da parte del suo informatore; e non costituiscono più un reato, come prima della legge n. 62 del 2005, ma un illecito colpito da sanzione amministrativa (art. 187-bis del T.U. n. 58 del 1998). E conclusioni analoghe valgono per l’ipotesi in cui l’insider consigli a terzi, sulla base dell’informazione riservata, il compimento di una delle operazioni vietate all’insider medesimo. C2) L’informazione, il cui possesso fa nascere l’obbligo di astenersi, deve essere un’informazione «di carattere preciso», non essendo tali le voci (rumors) che spesso corrono nei mercati (e che in presenza di variazioni delle quotazioni impongono all’emittente di diffondere un comunicato circa la veridicità delle stesse); può concernere sia l’emittente sia i titoli e non deve necessariamente riguardare le condizioni economiche e finanziarie, potendo interessare una qualsiasi circostanza, anche relativa alle persone dei soci o degli amministratori, destinata ad essere resa pubblica e, quindi, ad essere conosciuta ma solo in un momento successivo; ciò che importa è che sia «price sensitive», ossia che, se resa pubblica, sarebbe idonea a influenzare «in modo sensibile» il prezzo dei titoli. C3) L’insider è punito indipendentemente dal fatto che le operazioni vietate, e dallo stesso compiute, abbiano effettivamente inciso sul prezzo dei titoli; siamo infatti in presenza di un reato di pericolo, sanzionato indipendentemente dal fatto che il comportamento abbia effettivamente determinato una concreta modificazione dei corsi; modificazione che potrebbe essere stata impedita da eventi di segno contrario a quelli sulla base del quale l’insider ha effettuato le proprie operazioni. Il comportamento è, quindi, punito indipendentemente dal fatto che qualche altro soggetto abbia subito pregiudizi dalle operazioni effettuate dall’insider. C4) Le disposizioni dettate in materia di insider trading non si applicano alle negoziazioni di azioni, obbligazioni e altri strumenti finanziari propri quotati, effettuate nell’ambito di programmi di riacquisto, da parte dell’emittente o di società controllate o collegate, ed alle operazioni di stabilizzazione di strumenti finanziari (cfr. art. 5 del Regolamento UE n. 596 del 2014). C5) L’analisi della disciplina positiva consente di riflettere sulle ragioni che sorreggono il divieto di insider trading; divieto previsto in numerosi ordinamenti, come si accennava, anche se non manca qualche isolata opinione secondo la quale tale divieto sarebbe ingiustificato, dal momen-
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to che l’attività di insider trading, da un lato, consentirebbe agli amministratori di società quotate di ottenere una più adeguata remunerazione per il proprio lavoro e, dall’altro, permetterebbe al mercato di ricevere più rapidamente informazioni importanti sui titoli negoziati. Oggetto di discussione e fonte di incertezza sono le ragioni che spingono la massima parte degli ordinamenti a vietare l’uso di informazioni privilegiate. Si è sostenuto che l’acquisto o la vendita di titoli da parte dell’insider provocherebbe un danno al soggetto con il quale lo stesso conclude l’operazione, ma una simile impostazione, oltre ad essere difficilmente compatibile con l’anonimato della massima parte delle contrattazioni che avvengono sul mercato, è smentita dal fatto che l’insider trading è punito anche se lo stesso non ha avuto un’effettiva incidenza sui prezzi. Si è anche sostenuto che la norma protegge la società emittente i titoli, ma anche questa tesi non trova riscontro nella disciplina vigente, dal momento che il pregiudizio della stessa non costituisce presupposto per la punibilità del comportamento dell’insider, e non basterebbe il consenso della società per esonerare quest’ultimo dalla sanzione. Né si può dire che il divieto miri a garantire una maggior trasparenza del mercato, dal momento che nessuna norma impone all’insider di rendere pubblica l’informazione riservata della quale sia entrato in possesso; circostanza, quest’ultima, che basta per respingere anche l’opinione secondo la quale l’interesse tutelato sarebbe rappresentato dalla volontà di garantire a tutti i risparmiatori parità di accesso all’informazione; obiettivo da ritenersi in ogni caso impossibile «in natura». Ancora, non si può pensare al divieto di insider trading come ad uno strumento di tutela del contraente debole, non assicurando, tale divieto, alcuna ulteriore informazione al soggetto che si trovi privo delle notizie delle quali è in possesso l’insider. Né si può ritenere che l’attività dell’insider mini la funzionalità del mercato, sotto il profilo della capacità di quest’ultimo di recepire nei prezzi le informazioni relative ai titoli; anzi, sotto questo profilo, si può convenire con coloro che sottolineano il ruolo dell’insider trading nell’accelerare i tempi di recepimento delle informazioni da parte dei prezzi che si formano sul mercato. Quest’ultima opinione può essere, tuttavia, accettata nella misura in cui indica nel mercato e nella sua efficienza il bene protetto. Ma non perché l’insider trading ne pregiudichi la funzionalità, ma perché ne mette in pericolo la credibilità presso il pubblico dei risparmiatori. Questi debbono poter credere che le contrattazioni sul mercato regolamentato avvengono «lealmente», senza posizioni di privilegio per coloro che sono investiti di funzioni fiduciarie nell’ambito dello stesso e senza permette-
10. Informazione societaria, insider trading e manipolazione nei mercati regolamentati 289
re a questi ultimi di profittare scorrettamente di informazioni non conquistate «con fatica», come sono invece quelle degli analisti finanziari, che posseggono tali informazioni grazie ad attività costose che gli stessi svolgono. E sotto questo profilo la norma protegge un interesse indisponibile, quello appunto alla credibilità del mercato regolamentato, a sua volta indispensabile per far sì che il risparmio imbocchi anche questo canale dell’intermediazione finanziaria. Si può aggiungere che questa norma, che proclama la correttezza delle contrattazioni che avvengono sul mercato, trova raramente applicazione, essendo estremamente difficile individuare, in concreto, ipotesi di insider trading, anche se le sanzioni irrogate nei pochi casi di applicazione della disciplina sono particolarmente dure almeno nell’esperienza dei paesi anglosassoni; come si conviene per le condanne «esemplari». D) Il Testo Unico dopo aver precisato gli obblighi di informazione al mercato e il divieto di utilizzazione, da parte degli insider, di informazioni riservate, si preoccupava di proteggere la funzionalità del mercato regolamentato e il corretto ed ordinato svolgimento della negoziazione sanzionando penalmente la c.d. manipolazione del mercato («aggiotaggio su strumenti finanziari»). Più esattamente, nel dettato originario, il T.U. stabiliva che «chiunque [avesse divulgato] notizie false esagerate o tendenziose, ovvero [avesse posto] in essere operazioni simulate od altri artifici idonei a provocare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari o l’apparenza di un mercato attivo dei medesimi, [fosse] punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa da uno a cinquanta milioni di lire» (art. 181, T.U. n. 58 del 1998). Questa norma era stata abrogata dal D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 61 che aveva dettato (art. 2637) una disciplina generale per l’aggiotaggio del seguente tenore «Chiunque diffonde notizie false, ovvero pone in essere operazioni simulate o altri artifici concretamente idonei a provocare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari, quotati o non quotati, ovvero ad incidere in modo significativo sull’affidamento che il pubblico ripone nella stabilità patrimoniale di banche o di gruppi bancari, è punito con la pena della reclusione da uno a cinque anni». Successivamente questa disciplina generale è stata integrata dalla legge n. 62 del 2005 che ne ha limitato l’applicazione agli strumenti finanziari «non quotati e per i quali non è stata presentata una richiesta di ammissione alle negoziazioni in un mercato regolamentato». La stessa legge, per gli strumenti quotati, ha dettato una disciplina speciale (art. 185 del T.U. n. 58 del 1998) ridefinendo il reato come «manipolazione del mercato» e stabilendo che «chiunque diffonde notizie false o pone in essere
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operazioni simulate o altri artifizi concretamente idonei a provocare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro ventimila a euro cinque milioni». E nella nozione di strumento finanziario in relazione al quale è configurabile il reato di manipolazione rientrano anche i titoli negoziati su un sistema multilaterale di negoziazione. Pur non essendo di poco conto le modificazioni così apportate alla disciplina prima vigente (con riferimento alle condotte sanzionate e all’entità della pena), lo scopo perseguito, punendo l’aggiotaggio, è rimasto inalterato. La manipolazione del mercato è un’operazione in qualche misura speculare a quella che compie l’insider, dal momento che la stessa non consiste nell’utilizzazione di una informazione vera ma riservata, bensì nella divulgazione di una informazione falsa e comunque nella fittizia «movimentazione» del mercato; fittizia «movimentazione» che può compromettere l’efficienza del mercato. Ed è un comportamento punito, come quello dell’insider, indipendentemente dal fatto che lo stesso abbia effettivamente inciso sul prezzo dei titoli, eventualità quest’ultima che comporta soltanto un inasprimento della sanzione; a differenza, per altro, di quanto si prevede per l’insider, la manipolazione può essere posta in essere anche da soggetti diversi dagli insider, potendo, tuttavia, comportare questa qualità soltanto un aggravamento della pena. Come emerge dall’art. 185, 2° comma, «il giudice può aumentare la multa fino al triplo o fino al maggiore importo di dieci volte il prodotto o il profitto conseguito dal reato quando, per la rilevante offensività del fatto, per le qualità personali del colpevole o per l’entità del prodotto o del profitto conseguito dal reato, essa appare inadeguata anche se applicata nel massimo». E) A norma dell’art. 187-undecies «la Consob può costituirsi parte civile [nel processo penale] e richiedere a titolo di riparazione dei danni cagionati dal reato all’integrità del mercato, una somma determinata dal giudice, anche in via equitativa, tenendo conto dell’offensività del fatto, delle qualità personali del colpevole e dell’entità del prodotto o del profitto conseguito dal reato». Della norma è invalsa un’interpretazione, da parte della magistratura, secondo la quale, per definizione, la commissione del reato di insider o di manipolazione comprometterebbe l’integrità del mercato. Ma si tratta di una interpretazione che sembra contrastare con il dettato della norma che pare pretendere la prova che il reato abbia in concreto pregiudicato l’integrità del mercato.
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Capitolo VII
La disciplina delle società con azioni quotate SOMMARIO: 1. Le linee di politica legislativa. – 2. La trasparenza degli assetti proprietari. – 3. La disciplina delle partecipazioni reciproche. – 4. I patti parasociali. – 4.1. La fattispecie. – 4.2. La disciplina. – 5. La struttura finanziaria: azioni, azioni di risparmio, obbligazioni. – 5.1. Le azioni. – 5.2. Le azioni di risparmio. – 5.3. Le obbligazioni. – 6. Il governo delle società quotate. – 6.1. Introduzione. – 6.2. L’assemblea. – 6.2.1. Il voto per corrispondenza. – 6.2.2. Le deleghe di voto. – 6.3. Amministrazione e controllo interno. – 6.3.1. Il modello tradizionale: l’amministrazione. – 6.3.1.1. Il collegio sindacale. – 6.3.2. I modelli alternativi. – 6.4. Il dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili. – 6.5. Il controllo giudiziario. – 6.6. La revisione legale dei conti. – 6.6.1. Le regole generali. – 6.6.2. Le disposizioni speciali per le società quotate. – 6.7. Le «relazioni finanziarie». – 6.8. Il controllo della Consob. – 7. Il delisting. – 8. Gli emittenti di strumenti finanziari diffusi ma non quotati. – 9. Le società cooperative emittenti di strumenti finanziari quotati o diffusi.
1. Le linee di politica legislativa A) Abbiamo già ricordato che, a partire dalla legge n. 216 del 1974, il legislatore ha dettato una serie di norme per le società quotate sui mercati regolamentati che hanno progressivamente ed in misura sempre più accentuata inciso sulla disciplina comune delle società per azioni, contribuendo a costituire per le stesse uno statuto del tutto peculiare. E alcune tracce di questo statuto sono già state menzionate nei capitoli precedenti (dagli obblighi di informazione alla dematerializzazione necessaria dei titoli). Il Testo Unico si era messo su questa stessa strada, dettando ulteriori norme speciali per le società quotate (ed anzi aveva previsto una disciplina particolare, sia pure limitata al profilo dell’informazione, anche per le società che, pur non quotate, avessero emesso strumenti finanziari diffusi tra il pubblico: cfr. art. 116) e in questa stessa prospettiva si muovono le modificazioni al Testo Unico introdotte con la legge 28 dicembre 2005, n. 262.
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Questa tendenza non è stata contraddetta dalla riforma del diritto societario per le società per azioni che fanno ricorso al mercato dei capitali, intendendosi per tali «le società per azioni con azioni quotate in mercati regolamentati o diffuse fra il pubblico in misura rilevante» (art. 2325-bis, 1° comma). La riforma ha altresì precisato che le norme dettate per la generalità delle società per azioni e per quelle che «fanno ricorso al mercato dei capitali» si applicano «alle società emittenti di azioni quotate in mercati regolamentati in quanto non sia diversamente disposto da altre norme [del codice] o da leggi speciali». Tutto ciò non basta per affermare che il nostro ordinamento individua nella «società quotata» un nuovo tipo di società (che si aggiunge a quelli elencati nell’art. 2249 c.c.), anche se la norma (art. 2437-quinquies c.c.) che consente ai soci di recedere dalla società quotata, «quando non hanno concorso alla deliberazione che comporta l’esclusione dalla quotazione», offre un notevole indizio in tal senso. È, comunque, corretto ritenere che, nell’ambito del tipo società per azioni, esista una «categoria» di società (quelle con azioni quotate) che presenta una propria specifica fisionomia e alla cui disciplina concorrono sia norme societarie sia norme dettate per la disciplina dei mercati. E non è un caso che la fisionomia delle società quotate sia stata disegnata, per la prima volta in termini abbastanza compiuti, da un testo normativo (il Testo Unico sulla finanza) che ha come oggetto principale la disciplina del mercato mobiliare. Nella disciplina delle società quotate si intersecano norme proprie dell’ordinamento del mercato e norme di diritto societario, e spesso è difficile distinguere le une dalle altre. E non si tratta di una distinzione priva di rilevanza pratica, soprattutto nell’ambito dell’ordinamento comunitario che garantisce la libertà di circolazione dei servizi e degli strumenti finanziari, ma che presenta ancora una pluralità di ordinamenti societari fra loro non integralmente armonizzati. Infatti, se una norma verrà considerata di mercato, la stessa dovrà trovare applicazione anche nei confronti delle imprese estere (si applicherà in altri termini la norma del paese ospitante), mentre le norme di diritto societario, che concorrono quindi a disciplinare il soggetto emittente, non dovrebbero, almeno in linea di principio, trovare applicazione nei confronti delle imprese straniere (si dovrebbe applicare l’ordinamento del paese d’origine). Ma non sarà facile, ad es., stabilire se le norme sull’OPA obbligatoria siano norme di mercato o piuttosto di diritto societario, anche se il Testo Unico sembra decisamente accogliere questa seconda tesi nel momento in cui ne limita l’applicazione alle società italiane quotate nei mercati
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regolamentati italiani, con esclusione quindi delle società straniere quotate sui mercati italiani. Ma, al di là di questi risvolti pratici della qualificazione di una norma, come norma di mercato o norma di diritto societario, è opportuno avere presenti le connessioni che si sono storicamente determinate, nel nostro ordinamento, fra le une e le altre per il miglior governo delle società quotate. Sia le norme di mercato (e in particolare del mercato della proprietà, dei diritti proprietari) sia le norme societarie dovrebbero tendere ad un unico obiettivo: quello di favorire gestioni le più efficienti possibili delle attività imprenditoriali. Le norme di mercato, consentendo la circolazione dei diritti proprietari in modo da assicurarne la titolarità ai soggetti che meglio sanno esercitarli, le norme societarie, individuando il contenuto di quei diritti e utilizzando strumenti di intervento sulla gestione diversi dalla sostituzione dei gestori conseguente al trasferimento dei diritti. Le norme di mercato dovrebbero facilitare la contendibilità del controllo, le norme societarie incidere sulle modalità con le quali quel controllo viene esercitato. In entrambe le prospettive l’obiettivo è la gestione più efficiente possibile dell’impresa. Ed è convincimento oggi diffuso e radicato nella esperienza quello secondo il quale nessun ordinamento affida la corporate governance soltanto o ai controlli di mercato o ai controlli interni. Entrambe le specie di strumenti, al di là della diversità degli accenti posti sull’una piuttosto che sull’altra, con la conseguente presunta contrapposizione di modelli, sono considerate necessarie per favorire l’efficienza della gestione. Non solo, ma fra le stesse esiste un rapporto di strumentalità generalmente riconosciuto, nel senso che il rafforzamento dell’una favorisce l’efficacia dell’altra. Negli ultimi trent’anni anche nel nostro ordinamento l’accento è stato variamente posto sull’uno o sull’altro profilo del governo societario. Il filone riformatore che si è sviluppato nel corso degli anni Sessanta, faceva soprattutto perno sugli strumenti di controllo interno, sulla tutela delle minoranze, riconoscendo poteri di governance, per quanto concerne il mercato, quasi esclusivamente alla disciplina antitrust e non attribuendo alcun ruolo, nella stessa prospettiva, alla disciplina del mercato mobiliare e degli intermediari finanziari. L’unico mercato mobiliare era quello di borsa, asfittico e considerato alla stregua di un pubblico servizio. Non esistevano intermediari mobiliari o investitori istituzionali. L’idea che gli intermediari e il mercato mobiliare potessero costituire strumenti di controllo della gestione dell’impresa avrebbe faticato ad affermarsi.
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L’esperienza, per altro, dimostrava la difficoltà di rendere effettiva la partecipazione dei risparmiatori-azionisti di minoranza al controllo societario delle grandi imprese; tant’è che maturò l’idea di una categoria di azionisti senza poteri (azionisti di risparmio) e si pensò di istituire un organo pubblico cui affidare il controllo esterno sulle società quotate. A metà degli anni Settanta, con la nascita della Consob e con una limitata riforma della borsa e delle società nella stessa quotate, l’opinione più diffusa considerava ormai superati gli strumenti di controllo interno, di fatto rimasti inattivi, e affidava la tutela dell’azionista di minoranza e l’efficienza della gestione delle imprese al controllo del mercato. L’azionista di minoranza era ridotto a risparmiatore: la sua tutela era quella offerta al risparmiatore in quanto tale, ossia la tutela del mercato; tutela rappresentata soprattutto dalla possibilità per l’azionista insoddisfatto dei gestori di vendere sul mercato le proprie azioni. Il quadro del mercato era, per altro, scoraggiante: solo nel 1983 nascono i fondi comuni, solo nel ’91 si consente la nascita di intermediari mobiliari polifunzionali e solo negli stessi anni Novanta si disciplina la nascita degli altri investitori istituzionali e si introducono nuove regole, che garantiscano la lealtà delle contrattazioni (insider trading e aggiotaggio) e che assicurino la distribuzione anche alle minoranze del premio di controllo (legge sull’OPA). Ma anche il nuovo ordinamento dei mercati non viene ritenuto sufficiente per assicurare una corretta gestione delle imprese. Ci si convince che sia opportuno operare anche sul lato interno della corporate governance e, quindi, sotto il profilo dei controlli interni. Nel frattempo si era consolidata la presenza di investitori istituzionali o comunque di gestori capaci, almeno in astratto, di esercitare i poteri di controllo attribuiti ai soci di minoranza; e tale presenza consentiva di rivalutare il ruolo delle minoranze e di superare le obiezioni connesse con la incapacità e la non convenienza per gli azionisti risparmiatori di esercitare effettivamente i poteri loro riconosciuti dalla legge. Stava maturando il tempo di interventi riformatori della disciplina prevista per l’organizzazione interna della società e in particolare dei controlli sui gestori. Un dato di fatto ha poi accelerato questo processo: la privatizzazione delle imprese pubbliche e la riduzione dei tassi di interesse hanno favorito un fortissimo spostamento del risparmio dai titoli di stato e dai depositi ai titoli azionari, affluiti soprattutto nel portafoglio dei gestori, individuali e collettivi. L’esigenza di interventi a tutela di quel risparmio si faceva più forte e, ad un tempo, la riforma dei mercati li richiedeva e li facilitava.
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Questo è il contesto economico e istituzionale nel quale è maturata la riforma delle società quotate realizzata dal T.U. n. 58 del 1998. E, come si accennava, la prospettiva nella quale la stessa si colloca è esattamente opposta a quella degli anni Settanta: la tutela delle minoranze e il rafforzamento dei controlli interni non solo non vengono più considerati superflui, dato il rafforzamento dei controlli di mercato, ma vengono ritenuti indispensabili, anche per rendere efficienti i controlli esercitati dal mercato. B) Prima di passare ad esaminare le scelte adottate dal Testo Unico nel riformare le società quotate, è opportuno precisare i limiti che lo stesso aveva incontrato nella propria opera. La delega autorizzava il governo a ridisciplinare alcuni momenti soltanto dell’ordinamento delle società quotate: il collegio sindacale, i patti parasociali, i poteri della minoranza e i gruppi di società. E questa indicazione delle materie ricomprese nella delega impediva, da un lato, di prendere in esame momenti della disciplina diversi da quelli elencati (e in primo luogo la disciplina del consiglio di amministrazione) e, dall’altro, di cancellare dal nostro ordinamento istituti che il legislatore intendeva ridisciplinare (ed il riferimento evidente è al collegio sindacale che, ad avviso di alcuni, doveva essere eliminato). Queste scelte del legislatore delegante ponevano, da un lato, il problema dell’innesto di questa nuova disciplina nel corpo delle società quotate e, dall’altro, differenziavano ulteriormente la disciplina delle società quotate da quella delle non quotate. Ma, soprattutto, l’inserimento di questo corpo normativo sollecitava una revisione della disciplina delle società non quotate e in particolare delle società di capitali, con una rimeditazione soprattutto delle differenze fra società per azioni quotate, società per azioni non quotate ma con azioni diffuse fra il pubblico e società per azioni chiuse, ossia che non fanno ricorso al mercato dei capitali. E su questi punti ha inciso, come vedremo, la riforma societaria. Prima di affrontare questo profilo, che in definitiva concerne l’ordinamento delle società quotate oggi vigente, è forse opportuno indugiare ancora un attimo sulle scelte di fondo del Testo Unico; scelte strategiche che costituiscono ancora l’asse portante della disciplina vigente delle società per azioni quotate. C) Le linee di politica legislativa adottate dal Testo Unico nel ridefinire alcuni momenti della disciplina delle società quotate fanno perno su due tipi di strumenti: quelli propri del mercato (favorendo la circolazio-
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ne dei diritti proprietari) e quelli propri del diritto societario (rafforzando la tutela delle minoranze). Li studieremo analiticamente nelle pagine che seguono. Qui vorremmo ricordare che esiste un profilo della riforma comune ad entrambe queste due specie di strumenti ed è l’informazione, ossia la necessità di rendere le più trasparenti possibili la struttura proprietaria e la gestione della società, allo scopo di consentire al mercato e agli «organi» (soci, collegio sindacale, assemblea) interni una valutazione, la più possibile corretta, della gestione e dei risultati della stessa. E il Testo Unico ha reso più trasparenti sia la struttura proprietaria sia la gestione delle società quotate. Numerose sono le disposizioni della nuova disciplina che si preoccupano di rendere più trasparenti le società quotate. I relativi flussi informativi hanno come destinatari: a) il mercato (informazione continua al mercato (art. 114) e prospetto di quotazione che deve essere autorizzato da Consob prima dell’ammissione alle negoziazioni se si accompagna ad un’offerta pubblica (art. 113); b) la Consob (art. 115), nonché c) la società partecipata (l’obbligo di comunicazione delle partecipazioni rilevanti da parte dei soci della stessa) e d) le minoranze, il collegio sindacale, l’assemblea dei soci (così l’art. 150 impone doveri di informazione degli amministratori nei confronti del collegio sindacale; l’art. 153 rafforza i doveri di informazione del collegio sindacale nei confronti dell’assemblea) e la società di revisione (con obbligo, da parte di quest’ultima e del collegio sindacale, di riferire i rilievi alla Consob). Fra le norme che rendono più trasparente la struttura proprietaria e l’assetto di potere assume particolare rilievo quella che impone la pubblicità dei patti parasociali, ossia dei sindacati di voto, di blocco e di consultazione nelle società quotate e nelle società che le controllano. E la pubblicità si realizza non solo attraverso la comunicazione alla Consob e la pubblicazione per estratto sulla stampa, ma anche mediante il deposito del testo integrale del patto presso il registro delle imprese (riducendo ulteriormente ma non annullando la differenza normativa fra accordi parasociali e statuto sociale). La legge n. 262 del 2005 ha ricompreso nell’ambito delle informazioni che debbono essere fornite al mercato anche quelle relative all’adesione a codici di comportamento promossi da società di gestione del mercato e da associazioni di categoria degli operatori e all’osservanza degli impegni dagli stessi previsti, «motivando le ragioni dell’eventuale mancata ade-
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sione ad una o più disposizioni»; e secondo il dettato originario di quella legge, la Consob avrebbe dovuto vigilare sulla veridicità delle informazioni riguardanti l’adempimento di tali impegni (artt. 124-bis e 126-ter del T.U.) e «irrogare le sanzioni in caso di violazione», ma il decreto correttivo (D.Lgs. n. 303 del 2006) ha soppresso tali disposizioni. La norma cercava di porre rimedio al convincimento, in verità diffuso ma errato, secondo il quale le regole dei codici di comportamento avrebbero carattere di «norma sociale» priva di rilevanza giuridica. Il potere sanzionatorio di Consob avrebbe ulteriormente smentito un siffatto convincimento. La stessa legge ha esteso l’obbligo di trasparenza ad un profilo, non esclusivamente economico patrimoniale, che è venuto acquisendo importanza crescente. Le società, la dottrina, le istituzioni sottolineano l’importanza di tener conto, nella gestione delle imprese, dei profili «etici» delle proprie scelte e degli interessi degli stakeholders (dipendenti, consumatori, collettività) diversi dagli azionisti (responsabilità sociale dell’impresa). E sono sempre più diffuse le dichiarazioni delle imprese dirette a sostenere che i loro «prodotti» sono «etici» e che esse stesse sono imprese socialmente responsabili. Il legislatore del 2005 ha cercato di assicurare un minimo di credibilità a questi assunti, stabilendo che «la Consob, previa consultazione con tutti i soggetti interessati e sentite le Autorità di vigilanza competenti, determina con proprio regolamento gli specifici obblighi di informazione e di rendicontazione cui sono tenuti i soggetti abilitati e le imprese di assicurazione che promuovono prodotti e servizi qualificati come etici o socialmente responsabili» (cfr. art. 117-ter del T.U.F.). E il Regolamento Intermediari (artt. 89 e 90) ha precisato che tali enti debbono fornire informazioni a) sugli obiettivi e le caratteristiche in relazione ai quali il prodotto è qualificato come etico o socialmente responsabile; b) i criteri generali di selezione degli strumenti finanziari; c) le politiche perseguite nell’esercizio dei diritti di voto. Debbono inoltre fornire il rendiconto annuale delle attività di gestione svolte per il conseguimento dei risultati etici o socialmente responsabili annunciati. Ma, come è facile immaginare, un ruolo eminente nell’ambito degli obblighi di informazione che incombono sulle società quotate è ricoperto da quelli che attengono alle informazioni finanziarie, delle quali, per altro, ci occuperemo in seguito. D) Tra le scelte più significative operate dal Testo Unico rientra sicuramente quella adottata in materia di gruppi. Nonostante la delega considerasse i rapporti di gruppo alla stregua di un istituto da sottoporre a nuova disciplina, il Testo Unico, recependo una opinione largamente se-
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guita nella nostra dottrina e successivamente adottata anche dalla riforma societaria del 2003 (v. artt. 2497 ss. c.c.), ha ritenuto non opportuno dedicare una specifica disciplina ai gruppi in quanto tali; preferendo affrontare i problemi che la presenza di rapporti di controllo poneva con riferimento alle singole materie disciplinate. E questo è stato fatto sia per quanto concerne le imprese di investimento e i mercati sia per quanto riguarda le società quotate. I più significativi momenti della disciplina per i quali vengono presi in considerazione i rapporti di gruppo sono i seguenti: a) per quanto riguarda l’informazione societaria, si prevede (art. 114) che la stessa concerna anche il gruppo cui appartiene la società quotata e soprattutto si attribuisce alla quotata controllante il potere di chiedere alle società controllate tutte le informazioni necessarie per consentirle di informare il pubblico sul gruppo nel suo complesso (e alle stesse si estende il potere ispettivo Consob: art. 115); b) per le partecipazioni reciproche si ricomprendono nel divieto anche le partecipazioni detenute attraverso società controllate (art. 121); c) per i patti parasociali si applica l’intera disciplina anche a quelli stipulati fra i soci della società che controlla la quotata (art. 122); d) con riferimento al collegio sindacale, si prevede il controllo dei sindaci sull’adeguatezza delle disposizioni impartite alle controllate per adempiere ai doveri di informazione (art. 149, 1° comma, lett. d)) e si impone agli amministratori di fornire ai sindaci informazioni sui rapporti interni al gruppo e sulle operazioni delle società controllate, finendo così con l’allargare all’intero gruppo l’attenzione del collegio che pur rimane concentrata sulla emittente; e) la revisione legale dei conti deve avere per oggetto anche le società controllate dalla società quotata, anche se, ovviamente, la nomina e la revoca dell’incarico riguardano solo la controllante quotata, così come rimane applicabile soltanto a quest’ultima il regime previsto per l’impugnativa del bilancio che abbia ottenuto un giudizio senza rilievi o con rilievi (art. 157). Nelle controllate i controlli contabili sono riservati alla società di revisione e sottratti quindi al collegio sindacale, anche se si tratta di società non quotate; al collegio rimangono tutte le altre funzioni previste dal Codice Civile e attribuite alla società di revisione per le sole quotate; f) con riferimento alle offerte pubbliche di acquisto obbligatorie, i rapporti di gruppo emergono con riguardo ai trasferimenti intragruppo (art. 106, 5° comma) e ai trasferimenti relativi a società «marsupi» (art. 106, 5° comma), con attribuzione della disciplina di entrambi i punti al potere regolamentare della Consob; e all’acquisto di concerto, presumendosi
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lo stesso quando gli acquisti vengano effettuati da società appartenenti allo stesso gruppo; g) il rapporto di gruppo è stato analiticamente disciplinato dalla legge per la tutela del risparmio (legge n. 262 del 2005) con riferimento alle ipotesi in cui una società quotata o una società emittente strumenti finanziari diffusi controlli, sia controllata o collegata con società «aventi sede legale in Stati i cui ordinamenti non garantiscono la trasparenza della costituzione, della situazione patrimoniale e finanziaria e della gestione della società»; stati individuati da un decreto del Ministro della Giustizia, di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze sulla base, tra gli altri, dei seguenti criteri: mancanza di forme di pubblicità per la costituzione della società, mancanza di norme che tutelino l’integrità del capitale sociale, mancanza di un organo di controllo distinto da quello di gestione, mancanza di regole che assicurino la chiarezza, la verità e la pubblicità del bilancio d’esercizio (art. 165-ter del T.U.). I rapporti di controllo e di collegamento con società aventi sede legale in tali stati determinano particolari doveri in capo alla società quotata o «diffusa» italiana: così la società italiana controllante deve allegare al proprio bilancio d’esercizio «il bilancio della società estera controllata redatto secondo i principi e le regole applicabili ai bilanci delle società italiane o secondo i principi contabili internazionalmente riconosciuti» (art. 165-quater), sottoscritto dagli organi di amministrazione, dal direttore generale e dal dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili di quest’ultima, «che attestano la veridicità e la correttezza della rappresentazione della situazione patrimoniale e finanziaria e del risultato economico dell’esercizio». E analoghe cautele sono previste per l’ipotesi in cui la società estera con sede in un paradiso «civilistico» (e non necessariamente anche fiscale), sia la controllante o la collegata di una società italiana quotata o «diffusa». E) Noi abbiamo intitolato questo capitolo alle società con azioni quotate, intendendo indicare con tale espressione le società italiane i cui titoli sono ammessi alla negoziazione su un mercato regolamentato italiano. E alla disciplina di questa categoria di società sono essenzialmente dedicate le pagine che seguono. È bene, tuttavia, tener presente che il T.U. distingue varie categorie di emittenti quotati; del che è necessario avere conoscenza per individuare l’ambito di applicazione delle norme che illustreremo. Il Testo Unico definisce «emittenti quotati» «i soggetti italiani o esteri
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inclusi i trust che emettono strumenti finanziari quotati in un mercato regolamentato italiano» (art. 1, 1° comma, lett. w), T.U.). Come si può notare, questo insieme di soggetti viene individuato con esclusivo riferimento al mercato nel quale sono quotati e a nulla rileva lo stato di origine dell’emittente: a questo insieme si applicheranno tutte le norme di mercato, alle quali potranno aggiungersi le norme la cui applicazione è stabilita dal paese d’origine. Il T.U. (art. 1, 1° comma, lett. w-quater)) contempla poi una seconda categoria di soggetti ossia «gli emittenti quotati aventi l’Italia come Stato membro d’origine» e a questa categoria di soggetti appartengono: «1. gli emittenti azioni ammesse alle negoziazioni in mercati regolamentati italiani o di altro Stato membro dell’Unione Europea, aventi sede in Italia; 2. gli emittenti titoli di debito di valore nominale unitario inferiore ad euro mille, o valore corrispondente in valuta diversa, ammessi alle negoziazioni in mercati regolamentati italiani o di altro Stato membro della Comunità europea, aventi sede in Italia». Vengono ricompresi nell’ambito degli emittenti aventi l’Italia come stato membro d’origine anche gli emittenti, diversi da quelli aventi sede in Italia e appena ricordati, «aventi sede in uno Stato non appartenente all’Unione europea, o che hanno scelto l’Italia come Stato membro d’origine». Incontreremo perciò norme che si applicano solo alle società italiane quotate in un mercato regolamentato italiano, come quelle che disciplinano le offerte pubbliche di acquisto obbligatorie, quelle relative all’impugnativa, da parte della Consob, dei bilanci oggetto del giudizio della società di revisione (art. 157, 3° comma), nonché quelle che prevedono il dovere di comunicazione del collegio sindacale nei confronti della Consob (art. 149, 4° comma), non essendo sufficiente, a tal fine, la quotazione in un mercato regolamentato in un altro stato dell’Unione europea. Ma non mancano neppure le norme che si applicano alle società italiane non quotate su un mercato regolamentato italiano, ma soltanto in un mercato regolamentato di altro Stato membro (es.: la passivity rule disciplinata dall’art. 104 del T.U.). E le norme applicabili agli «emittenti quotati aventi l’Italia come Stato membro di origine» sono norme per le quali, talvolta, è indifferente se gli emittenti siano quotati in un mercato regolamento italiano o di altro Stato membro (es.: passivity rule), mentre, talaltra, si postula l’ammissione alla quotazione su un mercato regolamento italiano (OPA obbligatoria). F) Il Testo Unico dettava una disciplina per le società quotate notevol-
1. Le linee di politica legislativa
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mente diversa da quella applicabile alla generalità delle società per azioni e anche da quella prevista per le società a capitale diffuso ma non quotate (art. 116 T.U.). Negli anni successivi all’entrata in vigore del Testo Unico lo statuto delle società per azioni quotate si è allontanato ulteriormente dal diritto comune delle società per azioni anche per la diffusa adozione da parte delle quotate del Codice di autodisciplina predisposto nel 1999 da Borsa italiana S.p.A. e rivisto prima nel 2002 e, da ultimo, nel 2011. Questo Codice, la cui adozione è obbligatoria per la quotazione delle azioni su almeno un segmento (quello STAR) del Mercato di Borsa, prevede una disciplina del consiglio di amministrazione che a) ne accentua il ruolo strategico nell’ambito della governance societaria e b) ne favorisce la capacità di perseguire l’interesse della società attraverso l’imposizione di un certo numero di amministratori indipendenti e obblighi stringenti di informazione da parte degli amministratori delegati; c) ne rafforza il potere di controllo sulla gestione attraverso la costituzione di comitati (di amministratori) per il controllo interno (audit committee) e e) cerca di contenere l’ambito dei conflitti di interesse attraverso norme specifiche per le operazioni con parti correlate. L’adozione del codice ha contributo ad imporre nelle quotate il rispetto di best practices sconosciute alle società non quotate. G) La riforma del diritto societario realizzata nel 2003 non è univoca per quanto concerne i rapporti fra statuto delle società quotate e statuto delle società non quotate. Per alcuni profili civilistici la riforma ha avvicinato lo statuto delle non quotate a quello delle quotate, favorendo il ricorso al mercato dei capitali anche delle prime ed estendendo alle stesse alcuni istituti (come la possibilità di emettere azioni di contenuto analogo a quelle di risparmio o l’esperibilità dell’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori su iniziativa della minoranza) che il Testo Unico aveva previsto per le quotate o rendendo applicabili alle non quotate regole che quest’ultimo aveva riservato alle quotate (come le norme sul controllo contabile e sui poteri del collegio sindacale). Ma, di contro, la riforma del diritto penale societario, sia pure nell’ambito di un generale depotenziamento della sanzione penale, ha dettato, ad es.: per il falso in bilancio, una disciplina molto meno severa, se non del tutto inoffensiva per le non quotate (cfr. artt. 2621 e 2622 così come riscritti già dall’art. 1, D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 61 e successivamente riformulati dalla legge n. 262 del 2005) e reso così più profondo il solco fra i due statuti, in tal modo disincentivando la propensione alla quotazione. H) Come si è già ricordato, gli scandali finanziari dei primi anni Due-
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mila avevano messo in luce una serie di comportamenti, da parte degli organi di gestione e di controllo delle società quotate, lesivi delle più elementari regole del buon governo societario, oltre che dei principi cui dovrebbero attenersi gli intermediari di mercato; la legge n. 262 del 2005 ha cercato di contrastare quei comportamenti attraverso l’introduzione di nuove regole per l’organizzazione delle società quotate. Sotto questo profilo ha ulteriormente allontanato lo statuto delle società quotate da quello delle non quotate ma a capitale diffuso, dal momento che, appunto, la nuova legge trascura questa seconda categoria di società aperte, se non per alcuni particolari aspetti (es.: art. 2629-bis in materia di omessa comunicazione del conflitto di interessi; art. 114-bis, sui piani di stock options, art. 165-ter per i rapporti con società estere aventi sede in particolari stati). Per quanto concerne le società quotate, e al di là di talune scelte «singolari» (aveva reso ad es.: obbligatorio il voto segreto per la «elezione alle cariche sociali», norma poi soppressa dal D.Lgs. n. 303 del 2006), la legge n. 262 non mi pare che si muova lungo una linea di politica legislativa diversa da quella del Testo Unico: a) cerca di rafforzare il potere delle minoranze (prevedendo il voto di lista nella nomina degli amministratori); b) potenzia il controllo del collegio sindacale e pone un limite al cumulo degli incarichi che possono essere ricoperti dai sindaci; c) attribuisce ai soci il potere di integrare l’ordine del giorno dell’assemblea; d) introduce norme che favoriscano il concreto rispetto dei codici di comportamento ai quali la società dichiari di aderire; e) impone vincoli di trasparenza ai gruppi che abbiano società controllate in «paradisi civilistici»; f) impone la nomina del dirigente «responsabile della redazione dei documenti contabili», il che dovrebbe contribuire alla credibilità delle informazioni contabili che la società offre al mercato. I) Come abbiamo a suo tempo ricordato, il D.Lgs. 27 gennaio 2010, n. 27, dando attuazione alla direttiva 2007/36 «relativa all’esercizio di alcuni diritti degli azionisti di società quotate», ha introdotto nel Testo Unico importanti modificazioni, dirette a rafforzare la capacità degli azionisti di incidere sui lavori dell’assemblea, integrando, sotto questo profilo, le scelte di politica legislativa adottate dalla legge n. 262 del 2005. L) Notevole importanza nella configurazione della fisionomia delle società quotate ha avuto il D.Lgs. 24 giugno 2014, n. 91, convertito con modificazioni dalla legge n. 116 dell’11 agosto 2014: esso ha introdotto una nuova disciplina delle offerte pubbliche obbligatorie, prevedendo, tra l’altro, una disciplina speciale per le PMI quotate; ha consentito alle società
2. La trasparenza degli assetti proprietari
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quotate la maggiorazione del diritto di voto per le azioni detenute per un certo periodo (art. 127-quinquies), mentre ha negato alle società quotate la possibilità di emettere azioni a voto plurimo, nel momento in cui ne consentiva la emissione alle società non quotate, modificando l’art. 2351, 4° comma c.c. e permettendo, alle quotate, soltanto la conservazione delle azioni a voto plurimo emesse prima della quotazione.
2. La trasparenza degli assetti proprietari A) Il Testo Unico impone una compiuta trasparenza degli assetti proprietari degli «emittenti azioni quotate aventi l’Italia come stato membro di origine», ossia, essenzialmente, delle società aventi sede in Italia con azioni ammesse alla negoziazione nei mercati regolamentati italiani o di altro stato membro della Comunità europea; trasparenza non solo nei confronti della società quotata partecipata, ma anche nei confronti della Consob e del mercato. L’obbligo di trasparenza non concerne, per altro, una qualsiasi partecipazione ma soltanto quelle che possono avere una incidenza significativa sul potere di gestione della società. Essenziale, per cogliere il significato della relativa disciplina, è la nozione di «partecipazione». Nel sistema originario del Testo Unico tale nozione non sollevava problemi, coincidendo con le azioni dotate del diritto di voto, anche soltanto nelle assemblee straordinarie. Come è noto, la riforma societaria ha riconosciuto diritti amministrativi anche a strumenti finanziari diversi dalle azioni ed il T.U. è stato, pertanto, costretto a tener conto di questa circostanza nel determinare la nozione di partecipazione. L’art. 1, comma 6°-bis, T.U. n. 58 del 1998, introdotto con il D.Lgs. n. 37 del 2004, stabilisce, infatti, che per «partecipazioni» si intendono «le azioni, le quote e gli altri strumenti finanziari che attribuiscono diritti amministrativi o comunque quelli previsti dall’art. 2351, ultimo comma del codice civile»; norma, quest’ultima che, a sua volta, consente agli statuti di dotare gli strumenti finanziari «del diritto di voto su argomenti specificamente indicati» e, in particolare, «di riservare ai loro possessori la nomina di un componente indipendente del consiglio di amministrazione o del consiglio di sorveglianza o di un sindaco». Questo è, dunque, il nuovo concetto di «partecipazione» che dovrebbe essere utilizzato anche nella ricostruzione della disciplina che regola gli obblighi di comunicazione delle partecipazioni sociali dettata dall’art. 120, T.U. n. 58 del 1998. Questa norma stabilisce, per altro, che «coloro
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che partecipano in [una società con azioni quotate] in misura superiore al tre per cento del capitale sociale ne danno comunicazione alla società partecipata e alla Consob» (art. 120, 2° comma), intendendosi per capitale sociale «quello rappresentato da azioni con diritto di voto» (art. 120, 1° comma), mentre nelle società i cui statuti consentono la maggiorazione del diritto di voto, per capitale si intende il numero complessivo dei diritti di voto. La soglia del 3% è elevata al 5% per le PMI (art. 120, 2° comma). Il coordinamento fra il dettato di questa norma e la nuova nozione di partecipazione, con riferimenti all’ipotesi in cui esistano strumenti finanziari dotati di diritti amministrativi, potrebbe sollevare qualche problema. Questi infatti non sono mai rappresentativi di frazione del capitale sociale e si potrebbe quindi essere tentati di ritenere che gli stessi non possano essere confrontati con il capitale sociale rappresentato da azioni con diritto di voto, come pretende il 1° comma della norma in esame, al fine di determinare la soglia superata la quale sorge l’obbligo di comunicazione. Sembra, tuttavia, preferibile, per assicurare la trasparenza dei rapporti di potere voluta dal legislatore, ritenere che la soglia del 3% vada determinata ponendo al numeratore sia le azioni con diritto di voto sia gli strumenti finanziari dotati di diritti amministrativi e al denominatore solo il capitale sociale rappresentato da azioni con diritto di voto. Come abbiamo a suo tempo ricordato, l’art. 7 della legge 9 aprile 2009, n. 33 ha stabilito che «la Consob può, con provvedimento motivato da esigenze di tutela degli investitori nonché di efficienza e trasparenza del mercato del controllo societario e del mercato dei capitali, prevedere, per un limitato periodo di tempo, soglie inferiori a quella indicata nel 2° comma per società ad elevato valore corrente di mercato e ad azionariato particolarmente diffuso» (art. 120, comma 2°-bis, T.U.). Il Testo Unico ha affidato alla Consob il compito di fissare «i criteri per il calcolo delle partecipazioni avendo riguardo anche alle partecipazioni indirettamente detenute e alle ipotesi in cui il diritto di voto spetta o è attribuito a soggetto diverso dal socio», e la stessa ha stabilito (art. 118 Regolamento Emittenti) che: «Ai fini degli obblighi di comunicazione disciplinati dall’articolo 120 … del Testo Unico, sono considerate partecipazioni le azioni delle quali un soggetto è titolare, anche se il diritto di voto spetta o è attribuito a terzi ovvero è sospeso. Sono, altresì, considerate partecipazioni le azioni in relazione alle quali spetta o è attribuito ad un soggetto il diritto di voto ove ricorra uno dei seguenti casi o una combinazione degli stessi:
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a) il diritto di voto spetti in qualità di creditore pignoratizio o di usufruttuario; b) il diritto di voto spetti in qualità di depositario o intestatario conto terzi, purché tale diritto possa essere esercitato discrezionalmente; c) il diritto di voto spetti in virtù di delega, purché tale diritto possa essere esercitato discrezionalmente in assenza di specifiche istruzioni da parte del delegante; d) il diritto di voto spetti in base ad un accordo che prevede il trasferimento provvisorio e retribuito del medesimo». Il legislatore ha ritenuto importante imporre trasparenza anche alle variazioni delle partecipazioni rilevanti, sia in aumento sia in diminuzione, demandando, per altro, alla Consob l’individuazione delle variazioni che comportano l’obbligo di comunicazione. E il Regolamento Emittenti ha stabilito che debbano essere comunicati alla società quotata e alla stessa Consob l’avvenuto superamento delle soglie percentuali del 2, 5, 10, 15, 20, 25, 30 fino al 50% (e, quindi, 66,6%; 90%; 95%), nonché la riduzione della partecipazione entro le medesime soglie. Il Regolamento Consob impone obblighi di comunicazione anche con riferimento alle «partecipazioni potenziali», che il Regolamento individua nelle «azioni che costituiscono il sottostante di strumenti finanziari derivati elencati dall’articolo 1, 3° comma, del Testo Unico, nonché di ogni altro strumento finanziario o contratto, che, in virtù di un accordo giuridicamente vincolante, attribuiscono al titolare, su iniziativa esclusiva dello stesso, il diritto incondizionato di acquistare, tramite consegna fisica, le azioni sottostanti, ovvero la discrezionalità di acquistare, tramite consegna fisica, le azioni sottostanti». Per le partecipazioni potenziali il Regolamento fissa soglie analoghe a quelle previste per le «partecipazioni effettive», ma separate. La comunicazione delle partecipazioni, anche potenziali, è effettuata «senza indugio e comunque entro cinque giorni decorrenti dall’operazione idonea a determinare il sorgere dell’obbligo». Come si accennava, la comunicazione delle partecipazioni rilevanti e delle relative variazioni, non viene effettuata soltanto nei confronti della società quotata e della Consob, ma, sia ad opera della prima sia tramite quest’ultima, viene diffusa al mercato. Più precisamente (cfr. art. 122 Regolamento Emittenti), la Consob «pubblica, in luogo degli emittenti azioni quotate, le informazioni acquisite entro i tre giorni di negoziazione successivi al ricevimento della comunicazione», tramite strumenti anche informatici di diffusione delle informazioni e trasmette la medesima informazione alla società di gestione del mercato che provvede a renderla pubblica.
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Il legislatore ha poi previsto, in caso di omessa comunicazione, oltre ad una sanzione amministrativa (cfr. art. 193), anche una sanzione civile, ossia la sospensione del diritto di voto «inerente alle azioni quotate o agli altri strumenti finanziari per i quali sono state omesse le comunicazioni», ossia per la soglia iniziale (del 3% o del 5% per le PMI) e il superamento delle soglie di incremento; la sanzione colpisce soltanto le azioni o gli strumenti finanziari eccedenti la soglia e non l’intera partecipazione o l’insieme degli strumenti finanziari, mentre per le variazioni in diminuzione dovrebbe colpire solo i titoli che hanno determinato il superamento della soglia che imponeva l’obbligo della comunicazione. E, secondo un modello legislativo ormai consueto, il legislatore stabilisce l’annullabilità delle deliberazioni assunte con il «voto» determinante delle azioni o degli strumenti finanziari per i quali l’esercizio del relativo diritto non poteva essere esercitato. Annullabilità che può essere fatta valere anche dalla Consob, entro 6 mesi dalla data della deliberazione o della sua iscrizione nel registro delle imprese. B) Il D.Lgs. n. 229 del 2007, dando attuazione alla direttiva OPA, ha introdotto nel T.U. l’art. 123-bis che impone una più accurata informazione sugli assetti proprietari delle «società quotate», prevedendo che la relazione sulla gestione degli amministratori fornisca «informazioni dettagliate» sui seguenti profili della struttura proprietaria: «a) la struttura del capitale sociale, compresi i titoli che non sono negoziati su un mercato regolamento di uno Stato comunitario, con l’indicazione delle varie categorie di azioni e, per ogni categoria di azioni, i diritti e gli obblighi connessi nonché la percentuale del capitale sociale che esse rappresentano; b) qualsiasi restrizione al trasferimento di titoli, quali ad esempio limiti al possesso di titoli o la necessità di ottenere il gradimento da parte della società o di altri possessori di titoli; c) le partecipazioni rilevanti nel capitale, dirette o indirette, ad esempio tramite strutture piramidali o di partecipazione incrociata, secondo quanto risulta dalle comunicazioni effettuate ai sensi dell’art. 120; d) se noti, i possessori di ogni titolo che conferisce diritti speciali di controllo e una descrizione di questi diritti; e) il meccanismo di esercizio dei diritti di voto previsto in un eventuale sistema di partecipazione dei dipendenti, quando il diritto di voto non è esercitato direttamente da questi ultimi; f) qualsiasi restrizione al diritto di voto, ad esempio limitazioni dei diritti di voto ad una determinata percentuale o ad un certo numero di
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voti, termini imposti per l’esercizio del diritto di voto o sistemi in cui, con la cooperazione della società, i diritti finanziari connessi ai titoli sono separati dal possesso di titoli; g) gli accordi che sono noti alla società ai sensi dell’art. 122; h) gli accordi significativi dei quali la società o sue controllate siano parti e che acquistano efficacia, sono modificati o si estinguono in caso di cambiamento di controllo della società, e i loro effetti, tranne quando sono di natura tale per cui la loro divulgazione arrecherebbe grave pregiudizio alla società; tale deroga non si applica quando la società ha l’obbligo specifico di divulgare tali informazioni sulla base di altre disposizioni di legge; i) gli accordi tra la società e gli amministratori, i componenti del consiglio di gestione o di sorveglianza, che prevedono indennità in caso di dimissioni o licenziamento senza giusta causa o se il loro rapporto di lavoro cessa a seguito di un’offerta pubblica di acquisto; l) le norme applicabili alla nomina e alla sostituzione degli amministratori e dei componenti del consiglio di gestione e di sorveglianza nonché alla modifica dello statuto, se diverse da quelle legislative e regolamentari applicabili in via suppletiva; m) l’esistenza di deleghe per gli aumenti di capitale ai sensi dell’art. 2443 c.c. ovvero del potere in capo agli amministratori o ai componenti del consiglio di gestione di emettere strumenti finanziari partecipativi nonché di autorizzazioni all’acquisto di azioni proprie». C) Allo scopo di rendere note al mercato le linee di politica societaria da parte del socio che abbia acquistato una partecipazione che consente di condizionare le decisioni della società, l’art. 4-bis del T.U., introdotto con l’art. 13 del D.Lgs. 16 ottobre 2017, n. 148, stabilisce che «in occasione dell’acquisto di una partecipazione in emittenti quotati pari o superiore alle soglie del 10 per cento, 20 per cento e 25 per cento del relativo capitale, salvo quanto previsto dall’articolo 106, comma 1-bis, il soggetto che effettua le comunicazioni di cui ai commi 2 e seguenti del presente articolo deve dichiarare gli obiettivi che ha intenzione di perseguire nel corso dei sei mesi successivi. Nella dichiarazione sono indicati sotto la responsabilità del dichiarante: a) i modi di finanziamenti dell’acquisizione; b) se agisce solo o in concerto; c) se intende fermare i suoi acquisti o proseguirli nonché se intende acquisire il controllo dell’emittente o comunque esercitare un’influenza sulla gestione della società e, in tali casi, la strategia che intende adottare e le operazioni per metterla in opera;
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d) le sue intenzioni per quanto riguarda eventuali accordi e patti parasociali di cui è parte; e) se intende proporre l’integrazione o la revoca degli organi amministrativi o di controllo dell’emittente». La dichiarazione è trasmessa alla società partecipata e alla Consob entro dieci giorni dall’acquisizione e la mancata dichiarazione impedisce l’esercizio del diritto di voto per le azioni il cui acquisto avrebbe dovuto essere dichiarato. D) Concorre alla trasparenza della struttura proprietaria la previsione statutaria che consente all’emittente quotato di chiedere all’intermediario i dati identificativi degli azionisti che non abbiano espressamente vietato la comunicazione con l’indicazione del numero delle azioni registrate a loro nome (art. 83-duodecies); richiesta che diventa dovuta per la società emittente quando venga effettuata da tanti soci che rappresentino la metà della quota minima necessaria per la presentazione di una lista di candidati alla nomina nel consiglio di amministrazione.
3. La disciplina delle partecipazioni reciproche A) Le norme di diritto comune non pongono limiti alla partecipazione reciproca fra due società, se non nell’ipotesi in cui vi sia fra le stesse un rapporto di controllo: in tal caso, infatti, l’art. 2359-bis c.c. impedisce, alla società controllata, di acquisire una partecipazione superiore al venti per cento nel capitale della controllante, impone che tale acquisto avvenga comunque nei limiti stabiliti per l’acquisto delle azioni proprie e inibisce alla controllata l’esercizio del diritto di voto nell’assemblea della controllante. Il legislatore sottopone, invece, a vincoli l’acquisizione di partecipazioni reciproche quando le società coinvolte siano società aventi l’Italia come stato membro d’origine con azioni quotate in un mercato regolamentato italiano o di altro Stato membro della Comunità europea («società quotata») e, nello stesso tempo, tiene ferma la disposizione dell’art. 2359-bis quando fra le due società sussista già un rapporto di controllo. La ragione di questo diverso atteggiamento del legislatore, a seconda che non sia o sia interessata una società quotata, va ricercata nella necessità, in questa seconda ipotesi, di assicurare una sufficiente circolazione dei diritti proprietari delle società che si rivolgono al pubblico ri-
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sparmio, impedendo che il loro governo, attraverso il ricorso a partecipazioni reciproche, sia sottratto al mercato e rimesso alla «mutua» cooptazione fra i gruppi di controllo e i gestori delle società coinvolte. I vincoli che il legislatore pone all’assunzione reciproca di partecipazioni trovano, dunque, la loro giustificazione non in ragioni connesse con la tutela del patrimonio sociale, nel qual caso basterebbe imporre, come per l’acquisto di azioni proprie, che le acquisizioni non intacchino il patrimonio indisponibile, ma nella necessità di evitare la cooptazione reciproca fra i gruppi di comando delle società. Esigenza che, evidentemente, non è stata considerata altrettanto urgente nelle ipotesi in cui l’assunzione reciproca di partecipazioni coinvolga esclusivamente società non quotate. B) Il legislatore vieta le «partecipazioni» (definite nei termini illustrati nel paragrafo precedente) reciproche, che coinvolgono almeno una «società quotata», quando superino, da entrambi i lati, la soglia prevista per l’obbligo di comunicazione sopra illustrato: più esattamente: una società quotata non può partecipare in un’altra società quotata in misura superiore al tre, o al cinque per cento se si tratta di PMI, del capitale rappresentato da azioni con diritto di voto se, a sua volta, è partecipata da quest’ultima in misura superiore alla stessa soglia. La norma, come si accennava non si applica nell’ipotesi in cui una delle due società coinvolte abbia già il controllo dell’altra, trovando in tal caso applicazione esclusivamente l’art. 2359-bis c.c. La disposizione non sembra poi trovare applicazione nell’ipotesi in cui una delle società quotate non abbia l’Italia come Stato membro d’origine («società quotata italiana»), dal momento che la norma sembra indirizzata esclusivamente alle società quotate italiane. Il che non pare facilmente giustificabile. Ed in effetti la Consob ha ritenuto che il divieto si applichi anche alla società estera quotata che assuma una partecipazione superiore alla soglia del due per cento in una società quotata italiana. C) Nell’ipotesi di partecipazioni reciproche superiori alla soglia sopra indicata «la società che ha superato il limite successivamente non può esercitare il diritto di voto inerente alle azioni eccedenti, e deve alienarle entro dodici mesi dalla data in cui ha superato il limite» e, in caso di mancata alienazione entro tale termine, «la sospensione del diritto di voto si estende all’intera partecipazione» (art. 121, 1° comma, T.U. n. 58 del 1998). La società che ha acquisito «per seconda» la partecipazione dovrà, dunque, ridurre la stessa al di sotto del tre per cento, o del cinque per cento se
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PMI, se si tratta di una partecipazione «illegittimamente» assunta in una società quotata. E, come è ovvio, per stabilire quale dei due acquisti debba considerarsi precedente o successivo si dovrà far riferimento al momento del trasferimento delle azioni; momento che non sarà sempre individuabile con facilità, tenuto conto della natura di contrattazione di massa propria delle negoziazioni che si svolgono sul mercato mobiliare. Quando si abbia, tuttavia, presente che la norma intende incidere soprattutto sul diritto di voto, sembra plausibile in ogni caso escludere ogni rilevanza alla iscrizione nel libro dei soci, non essendo la stessa necessaria per l’esercizio del diritto di voto. Il legislatore ha, tuttavia, previsto che «se non è possibile accertare quale delle due società ha superato il limite successivamente, la sospensione del diritto di voto e l’obbligo di alienazione si applicano a entrambe, salvo loro diverso accordo» (art. 121, 1° comma). Quest’ultimo inciso lascia intravedere la possibilità che le parti si accordino per disciplinare la sospensione del diritto di voto anche in ipotesi diverse da quella in cui non si possa accertare quale sia l’acquisto successivo, non trovando sufficiente giustificazione la preclusione di un accordo del genere per il solo fatto che sia possibile accertare quale dei due acquisti sia precedente e quale successivo. Ciò che interessa al legislatore è evitare che l’esercizio contemporaneo del diritto di voto in entrambe le società reciprocamente partecipate comporti un inquinamento della volontà assembleare delle stesse; e tale obiettivo è raggiunto anche nell’ipotesi in cui, per accordo fra le parti, la sospensione del voto colpisca la società che per prima ha effettuato l’acquisto. Si tratta, per altro, di un patto di voto che dovrà essere sottoposto alla disciplina dei patti parasociali. D) Gli incroci azionari non sono soltanto uno strumento utilizzato dai gruppi di comando per proteggersi reciprocamente nei confronti di potenziali attacchi che al loro potere potessero derivare dal mercato, ma sono spesso un modo per dare maggiore efficienza a possibili aggregazioni industriali. Tra l’altro, tutti gli ordinamenti degli Stati membri della Unione europea consentono che le partecipazioni reciproche raggiungano soglie superiori a quella prevista dal legislatore italiano e sopra illustrata. E proprio in considerazione di questa circostanza il Testo Unico ha sentito il bisogno di ammettere che le partecipazioni reciproche, fra società quotate, possano salire fino al cinque per cento del capitale, e fino al dieci per cento se si tratta di PMI, purché tale superamento «abbia luogo a seguito di un accordo preventivamente autorizzato dall’assemblea ordinaria delle società interessate» (cfr. art. 121, 2° comma, T.U. n. 58 del 1998).
3. La disciplina delle partecipazioni reciproche
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L’esistenza di un accordo autorizzato dell’assemblea dei soci dovrebbe evitare che la partecipazione reciproca sia acquisita dai gruppi di comando, se non dagli amministratori, solo per consolidare il proprio potere, e dovrebbe consentire ai soci di verificare se l’incrocio azionario risponda effettivamente al loro interesse. E) I limiti all’assunzione di partecipazioni reciproche potrebbero essere facilmente aggirati se gli stessi concernessero soltanto le acquisizioni dirette di una società in un’altra. E, per evitare tale elusione, non bastava neppure prevedere, come dispone l’art. 121, 4° comma, T.U., che nel calcolo della partecipazione detenuta si debba tener conto di quelle possedute tramite società controllate o per interposta persona o società fiduciarie e dei diritti di voto dei quali un soggetto dispone (con norme del tutto identiche a quelle previste per determinare l’obbligo di comunicazione delle partecipazioni rilevanti). Allo scopo era necessario anche prendere in considerazione le partecipazioni reciproche realizzate attraverso rapporti di gruppo. E il Testo Unico ha, infatti, stabilito che «se un soggetto detiene una partecipazione superiore al tre per cento del capitale, o al cinque per cento se si tratta di una PMI, di una società per azioni quotata, questa o il soggetto che la controlla non possono acquisire una partecipazione superiore a tale limite in una società quotata controllata dal primo» (art. 121, 3° comma). Si vuole così evitare che attraverso i rapporti di gruppo si realizzino partecipazioni reciproche capaci di condizionare gli assetti di potere in misura sostanzialmente equivalente a quella che si accompagna alle partecipazioni reciproche, dirette o indirette. Ed anche in questa ipotesi la sanzione è rappresentata dalla sospensione del diritto di voto relativo ai titoli eccedenti il limite del tre per cento, o del cinque per cento se si tratta di una PMI, mentre non è previsto l’obbligo di alienazione stabilito per le partecipazioni reciproche dirette e indirette. F) Il limite all’assunzione di partecipazioni reciproche potrebbe rappresentare, ed ha rappresentato in passato, una formidabile arma antiscalata: la società che temeva di essere scalata acquistava una partecipazione superiore a tale limite nel capitale del potenziale scalatore ed impediva, perciò stesso, a quest’ultimo di acquisire una partecipazione superiore alla soglia del limite previsto dall’art. 120 nel capitale di essa società target. Proprio per evitare questo ostacolo alla circolazione dei diritti proprietari, il Testo Unico ha stabilito che le norme che prevedono limiti all’assunzione di partecipazioni reciproche non si applicano quando i predetti limiti siano superati «a seguito di un’offerta pubblica di acquisto o
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di scambio diretta a conseguire almeno il sessanta per cento delle azioni ordinarie» (art. 121, 5° comma). E, naturalmente, l’esonero si avrà anche se le adesioni all’offerta risultino inferiore a tale soglia. G) Secondo un modello più volte illustrato, il legislatore prevede che, nell’ipotesi in cui venga esercitato il voto per i titoli per i quali tale esercizio fosse sospeso e il voto si riveli determinante, per l’assunzione della deliberazione assembleare, la stessa è annullabile; l’impugnazione può essere proposta anche dalla Consob nel consueto termine di 6 mesi dalla deliberazione o dalla iscrizione della stessa nel registro delle imprese.
4. I patti parasociali L’esistenza di un patto parasociale può incidere profondamente sull’assetto dei diritti proprietari sotto il profilo sia della loro circolazione (sindacati di blocco) sia della loro effettiva rilevanza nella gestione (sindacati di voto). Il Testo Unico, nel momento in cui ribadisce la compatibilità, in linea di principio, di tali patti con i principi generali sia del diritto societario sia dell’ordinamento dei mercati regolamentati, ritiene necessario, da un lato, rendere palesi le relative convenzioni e, dall’altro, porre vincoli anche al loro contenuto, allo scopo di evitare che costituiscano un ostacolo eccessivo alla circolazione dei diritti proprietari e ad un libero esercizio degli stessi.
4.1. La fattispecie Il Testo Unico prende in considerazione i patti, in qualunque forma stipulati, «aventi per oggetto l’esercizio del diritto di voto nelle società quotate e nelle società che le controllano» (art. 122, 1° comma) nonché quelli: «a) che istituiscono obblighi di preventiva consultazione per l’esercizio del diritto di voto nelle società con azioni quotate e nelle società che le controllano; b) che pongono limiti al trasferimento delle relative azioni o di strumenti finanziari che attribuiscono diritti di acquisto o di sottoscrizione delle stesse; c) che prevedono l’acquisto delle azioni o degli strumenti finanziari previsti dalla lettera b);
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d) aventi per oggetto o per effetto l’esercizio anche congiunto di un’influenza dominante su tali società; d-bis) volti a favorire o a contrastare il conseguimento degli obiettivi di un’offerta pubblica di acquisto o di scambio, ivi inclusi gli impegni a non aderire ad un’offerta» (art. 122, 5° comma). Questi patti assumono rilevanza solo se riguardano le società con azioni quotate e le società che le controllano. Sotto quest’ultimo profilo è facile notare che non rientrano nell’ambito di applicazione della norma le convenzioni che riguardano le società quotate soltanto su un mercato extracomunitario, dal momento che per «società con azioni quotate» deve intendersi, come già sappiamo, la società italiana con azioni quotate in mercati regolamentati italiani o di altri paesi dell’Unione europea (cfr. art. 119 del T.U.). Il che consente, da un lato, di rilevare che la norma non si applica alle società aventi sede in altri paesi dell’Unione anche quando siano quotate in Italia e, dall’altro, di sottolineare che la disciplina dei patti parasociali non viene considerata dal Testo Unico come un momento della disciplina del mercato, nel qual caso la stessa dovrebbe trovare applicazione anche per le società straniere. Il Testo Unico estende, per altro, la disciplina prevista per i patti parasociali relativi alle «società con azioni quotate» anche alle società che controllano tali società ed il controllo sussiste nelle ipotesi previste dall’art. 93 del medesimo T.U.; norma quest’ultima che sembra accogliere una nozione di controllo «solitario» anche indiretto (e non congiunto), pur potendo lo stesso fondarsi anche su un accordo parasociale. La società controllante potrà, dunque, non essere una società per azioni e potrà ovviamente non essere quotata, ma dovrà detenere il controllo solitario della società quotata. Maggiore difficoltà suscita l’analisi dei patti parasociali rilevanti. E sul punto si rende necessario qualche chiarimento, tenendo, per altro, presente che il Testo Unico disciplina nello stesso identico modo tutti i patti parasociali sopra indicati e che, pertanto, l’elencazione che di tali patti effettua il legislatore ha lo scopo non tanto di valutare in quale di quei patti «tipizzati» rientri una particolare convenzione, quanto quello di rendere più facile la delimitazione dell’insieme dei patti presi in considerazione e, soprattutto, di individuare i patti che dall’applicazione della relativa disciplina restano esclusi. Operazione quest’ultima che non può fare affidamento su una definizione generale di patto parasociale «rilevante», ma che deve estrapolare dal catalogo dei patti presi in esame gli elementi necessari per decidere se ad una determinata convenzione si applichi o non si applichi la disciplina dettata dal Testo Unico. Il che è
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reso più difficile dalla eterogeneità dei patti nominati dal Testo Unico, anche se tutti si rivelano capaci di incidere sulla titolarità dei diritti proprietari e sull’esercizio degli stessi. Preliminarmente è necessario ricordare che i patti erano stati presi in considerazione dal Testo Unico indipendentemente dalla dimensione delle partecipazioni coinvolte; in altri termini non trovavano qui applicazione le soglie previste per la comunicazione delle partecipazioni (allora due per cento del capitale con diritto di voto). E la scelta del legislatore poteva trovare un’adeguata giustificazione nella preoccupazione di non lasciare nell’ombra patti che, anche se relativi a partecipazioni complessivamente contenute, potevano incidere sulla gestione della società. Questa impostazione è stata abbandonata dal D.Lgs. 25 settembre 2009, n. 146, a norma del quale gli obblighi di comunicazione previsti per i patti parasociali non si applicano a quelli aventi ad oggetto “partecipazioni complessivamente inferiori” alla soglia del tre, o del cinque se si tratta di una PMI, per cento del capitale rappresentato da azioni con diritto di voto (art. 122, comma 5°-ter, T.U.). E ancora, i patti in questione rilevano indipendentemente dal fatto che siano intervenuti solo fra soci, o fra soci e terzi o anche soltanto fra non soci. Ma vediamo più da vicino i singoli patti parasociali. A) Nella nozione di «patti aventi oggetto l’esercizio del diritto di voto» (sindacati di voto) dovrebbero rientrare, al di là del tenore letterale della norma, tutte e soltanto le convenzioni che abbiano per oggetto il diritto di voto, indipendentemente dal fatto che il diritto sia incorporato in un’azione o in un altro strumento finanziario, e che introducano una qualsiasi deroga a quanto previsto dalla legge o dallo statuto in ordine sia alla sua titolarità sia alle modalità del suo esercizio. Il che significa che non vi rientrano, anzitutto, le convenzioni che abbiano per oggetto il trasferimento dell’azione o la costituzione di diritti reali sulla stessa, dal momento che in queste ipotesi le modificazioni della titolarità o delle regole di esercizio del voto non sono che la conseguenza, legislativamente prevista, della modificazione di altre situazioni giuridiche afferenti l’azione in quanto tale. E questa conclusione deve rimanere ferma anche quando lo scopo ultimo di coloro che trasferiscono la titolarità delle azioni o creano diritti reali sulle medesime sia, soprattutto, quello di dare un assetto giuridico più stabile ad una convenzione di voto. Non bisogna, infatti, dimenticare che la disciplina in esame si pone, come vedremo, soprattutto due obiettivi: rendere palesi le convenzioni di voto ed impedire che le stesse determinino una separazione troppo netta tra il diritto di voto e il
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rischio connesso con la titolarità dell’azione. E nel caso di trasferimento delle azioni, ad es.: ad una holding, la trasparenza della situazione proprietaria e di potere è in re ipsa e la connessione potere-responsabilità è certamente assicurata. B) Nell’ambito dei patti di voto rilevanti rientrano, invece, sia i patti che vincolano ad esercitare il diritto di voto secondo modalità diverse da quelle previste dalla legge o dallo statuto sia quelli che trasferiscono la titolarità del diritto di voto a soggetti diversi da quelli cui la legge, evidentemente con norma derogabile, o lo statuto, lo attribuiscono. Questa conclusione può trovare ragionevole giustificazione quando si tenga presente che una convenzione sulla titolarità introduce una modificazione dello statuto legale del diritto di voto e che il Testo Unico impone per queste modificazioni forme di pubblicità e limiti all’autonomia dei privati. Pertanto, anche ammesso che la norma avesse esplicitamente preso in considerazione solo le convenzioni relative all’esercizio, la stessa dovrebbe trovare applicazione, sulla base di un normale ragionamento a fortiori, anche per le convenzioni sulla titolarità; e non in via analogica, ma in forza di una semplice interpretazione estensiva. In definitiva, dovranno essere rese pubbliche e incontreranno i limiti fissati dal Testo Unico anche le convenzioni (previste dall’art. 2352 c.c.) che attribuiscono al proprietario, anziché all’usufruttuario o al creditore pignoratizio, il diritto di voto sulle azioni oggetto di pegno e di usufrutto. Naturalmente non rientrano nelle convenzioni relative all’esercizio del diritto di voto prese in considerazione dalla norma i negozi di conferimento della rappresentanza per l’esercizio del voto; non sono patti di voto né le deleghe conferite ai sensi dell’art. 2372 c.c., né quelle conferite ai sensi della disciplina dettata dal Testo Unico per la loro sollecitazione e la loro raccolta. C) Le norme del Testo Unico in materia di patti parasociali si applicano anche a patti di consultazione, ossia ai patti che prevedono «obblighi di preventiva consultazione per l’esercizio del diritto di voto», ma che non impongono alcun vincolo all’esercizio del diritto di voto in assemblea. Dal novero di tali patti restano esclusi quelli che prevedono una facoltà di consultazione, ma non fanno di quest’ultima l’oggetto di un comportamento dovuto. D) Sono poi rilevanti, ai fini della disciplina in esame, i cc.dd. sindacati di blocco, che prevedono limiti alla circolazione delle azioni o degli strumenti finanziari (es. warrants o obbligazioni convertibili) che diano
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diritto all’acquisto o alla sottoscrizione delle medesime. Rientrano nell’ambito di questa categoria i patti che prevedono la intrasferibilità assoluta delle azioni (nei limiti in cui la stessa può essere convenuta sia pure con efficacia meramente obbligatoria), le clausole di prelazione o di gradimento, nonché le clausole che subordinino il diritto di una delle parti di vendere le proprie azioni al fatto che anche le altre parti siano poste in condizione di vendere le proprie azioni, o che vincolino la facoltà di costituire sulle azioni diritti reali limitati. E, ancora, sono sottoposti alla disciplina in esame, i patti che «prevedono l’acquisto» delle azioni di società quotate o degli strumenti finanziari che danno diritto all’acquisto o alla sottoscrizione delle stesse, ossia i patti che attribuiscono ad una delle parti o il diritto di vendere (alle altre) o di comprare (dalle altre) (opzioni put e opzioni call) le predette azioni e i predetti strumenti finanziari. E) Sono assoggettati a tale disciplina i patti che hanno per oggetto o per effetto l’esercizio anche congiunto di un’influenza dominante su una società quotata o sulla società che la controlla, ossia quei patti che, pur non costituendo né un sindacato di voto né un patto di consultazione, attribuiscano alle parti (o ad alcune di esse) un’influenza dominante, anche congiunta su tali società, e tale influenza dominante può essere sia l’oggetto della previsione contrattuale sia anche un effetto oggettivo di quest’ultima. F) Il D.Lgs. n. 146 del 2009 ha inserito nel catalogo dei patti un’ulteriore ipotesi, in qualche misura «d’occasione». Nell’ambito di un’offerta pubblica di acquisto svoltasi a metà degli anni Duemila, alcuni soggetti si erano impegnati con l’offerente a non «portare» le proprie azioni ad altri offerenti e si era discusso se si fosse in presenza di un patto parasociale. Il D.Lgs. n. 146 del 2009 ha dato una risposta positiva al quesito.
4.2. La disciplina La disciplina dei patti parasociali dettata dal Testo Unico non è stata toccata dalla riforma del diritto societario del 2003, che pure si è occupato dei patti parasociali per le società per azioni non quotate; le relative norme (artt. 2341-bis e 2341-ter) non si applicano, infatti, per espressa disposizione introdotta dal D.Lgs. n. 37 del 2004 (cfr. art. 122, comma 5°-bis) ai patti parasociali relativi alle società quotate.
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Come si accennava, la disciplina prevista dal Testo Unico per i patti parasociali appena illustrati, si muove lungo due distinti filoni: prevede, da un lato, obblighi di trasparenza e pone, dall’altro, vincoli all’autonomia delle parti. A) Più esattamente il Testo Unico (art. 122, 1° comma) prevede che i predetti patti siano, entro cinque giorni dalla stipulazione, a) comunicati alla Consob; b) pubblicati per estratto sulla stampa quotidiana; c) depositati presso il registro delle imprese del luogo ove la società ha sede legale; d) comunicati alle società con azioni quotate. È rimessa alla potestà regolamentare della Consob la determinazione delle modalità e dei contenuti della comunicazione dell’estratto e della pubblicazione (art. 122, 2° comma, T.U. n. 58 del 1998). E la Consob ha precisato (artt. 127-131, Regolamento Emittenti) che tutti gli aderenti ad un patto sono solidamente obbligati a darne comunicazione entro cinque giorni dalla stipulazione alla stessa Consob, mediante la trasmissione di una copia integrale del patto e dell’estratto da pubblicare, con indicazione del quotidiano sul quale lo stesso deve apparire, nonché le informazioni concernenti gli aderenti al patto e la data del deposito presso il registro delle imprese. Entro cinque giorni dal loro perfezionamento devono poi essere comunicate le modifiche del patto, le variazioni delle azioni e degli strumenti finanziari che attribuiscono diritti di acquisto o di sottoscrizione di azioni complessivamente o singolarmente apportate al patto e la notizia del rinnovo, anche tacito, e dello scioglimento del patto medesimo. «L’estratto», deve contenere tutte «le informazioni necessarie per una compiuta valutazione» del patto e deve essere pubblicato su un quotidiano a diffusione nazionale e contestualmente deve essere inviato alla società i cui strumenti finanziari sono oggetto del patto e, per la diffusione al pubblico, alla società di gestione del mercato. Gli elementi essenziali del patto debbono essere pubblicati anche sul sito internet dell’emittente (art. 130 del Regolamento Emittenti). Ma la norma più innovativa concerne il deposito integrale del patto presso il registro delle imprese; deposito che rende meno distanti, sotto questo profilo, lo statuto ed il patto parasociale e che, pur non attribuendo efficacia reale alle relative previsioni (si pensi al diritto di prelazione), dovrebbe quanto meno rendere opponibile ai terzi il contenuto del patto (non limitandosi l’effetto alla mera pubblicità notizia) e, in ogni
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caso, consente alla generalità dei terzi di conoscere il contenuto integrale della convenzione parasociale. B) Due sono i tipi di sanzione civile che il Testo Unico prevede per il mancato adempimento anche di uno soltanto dei predetti obblighi di pubblicità: la nullità del patto e la sospensione del diritto di voto «inerente alle azioni quotate per le quali non sono stati adempiuti» i predetti obblighi, con la conseguente annullabilità delle deliberazioni assembleari assunte con il voto determinante delle relative azioni; annullabilità che può essere fatta valere anche dalla Consob. Mentre questa seconda sanzione non solleva particolari problemi, se non per i profili connessi con la prima e sui quali torneremo fra un attimo (e per quanto concerne l’esercizio del diritto di voto nel periodo che va dalla stipulazione del contratto alla scadenza del quinto giorno entro il quale il patto deve essere comunicato alla Consob, pubblicato e depositato), notevoli discussioni ha sollevato il fatto che il Testo Unico abbia ricollegato alla mancata pubblicità la nullità e non la inefficacia del patto, ritenendosi, da alcuni, che si sarebbe dovuto stabilire che quest’ultima poteva essere sanata attraverso l’adempimento, sia pure tardivo, dell’obbligo e, da altri, che si sarebbe dovuto prevedere l’inefficacia del patto, escludendo, per altro, che la stessa potesse essere rimossa attraverso una pubblicazione tardiva. Il Testo Unico ha ritenuto preferibile ricollegare alla mancata pubblicazione tempestiva la nullità e la ragione di questa scelta sta nel convincimento che la nullità costituisca uno strumento più efficace al fine di incentivare la pubblicazione dell’atto: nell’ipotesi in cui la mancata pubblicazione comporti, nei rapporti fra le parti, la mera inefficacia del patto, le parti stesse non provvederanno a pubblicarlo se non nell’ipotesi in cui sorga una qualche controversia in ordine al contenuto e all’esecuzione della convenzione. Il che è soprattutto vero quando non si ponga all’obbligo di rendere pubblico il patto un termine ultimo, scaduto il quale la pubblicazione tardiva non sia più in grado di renderlo efficace. La consapevolezza che la mancata pubblicazione tempestiva renderà per sempre nullo il patto parasociale non può non sollecitare tutti i contraenti al puntuale adempimento del relativo obbligo. Si è anche rilevato che esisterebbe una contraddizione logica fra la norma che sancisce la nullità del patto non tempestivamente pubblicato e la sospensione del voto relativo alle azioni allo stesso conferite. In realtà nulla vieta all’ordinamento di attribuire rilevanza, come elemento costitutivo di una particolare fattispecie, ad un patto che altra norma abbia dichiarato nullo.
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E in ogni caso la stessa censura dovrebbe essere rivolta alla tesi che vorrebbe ricollegare alla mancata pubblicazione l’inefficacia del patto, dal momento che ad un patto inefficace (fra le parti) si attribuirebbe la capacità di determinare la sospensione del diritto di voto. Piuttosto ci si deve chiedere come possa essere rimossa la sospensione del voto conseguente alla mancata pubblicazione del patto. Sotto questo profilo è necessario ricordare che l’ammissione al voto è un atto della società e, per essa, del presidente dell’assemblea. I contraenti potranno perciò comunicare alla società che avevano stipulato una convenzione di voto, che la stessa non era stata tempestivamente pubblicata, che la medesima deve, perciò, considerarsi ormai nulla e che, pertanto, non esiste fra gli stessi alcun vincolo parasociale. La società dovrà perciò ammettere al voto gli azionisti che si sono così liberati dalle conseguenze che il legislatore ricollega ad un patto parasociale non pubblicato. Naturalmente quegli azionisti potranno «rinnovare» il patto e procedere ai relativi adempimenti pubblicitari, ma a riattribuire loro la legittimazione al voto non sarà il nuovo patto ma l’«estinzione» del precedente. C) Ma, come si accennava, il Testo Unico (art. 123) ha posto alcuni limiti all’autonomia privata in materia di durata dei patti e di diritto di recesso dagli stessi. Per quanto concerne la durata il Testo Unico ha previsto che i patti possano essere sia a tempo indeterminato sia a tempo determinato. Nella prima ipotesi «ciascun contraente ha diritto di recedere dal patto con un preavviso di sei mesi» (art. 123, 2° comma), nella seconda la durata massima consentita è di tre anni e il patto si intende stipulato «per tale durata anche se le parti hanno previsto un termine maggiore» (art. 123, 1° comma). La previsione di un limite massimo di durata tende ad impedire che il patto renda irreversibile per un tempo eccessivamente lungo l’assetto del potere societario: il termine triennale cerca di individuare il punto di equilibrio fra questa esigenza e quella, opposta, dell’autonomia privata di dare stabilità ad una particolare organizzazione del potere imprenditoriale. Il Testo Unico, dopo aver fissato un limite massimo alla durata delle convenzioni, ha sentito il bisogno di precisare che «i patti sono rinnovabili alla scadenza». In verità non pare che di questa possibilità si sarebbe potuto dubitare in assenza di tale disposizione. Il punto sul quale è forse opportuno fermare l’attenzione, per evitare che la rinnovabilità del patto si trasformi in elusione della norma che fissa per gli stessi il termine massimo di durata, è quello delle modalità del rinnovo. L’ipotesi prevista dal Testo Unico non integra una mera modificazione del rapporto. Il Te-
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sto Unico impone la cessazione del rapporto allo scadere del termine massimo consentito ed esclude, pertanto, tutti i meccanismi di rinnovo che sono propri delle tecniche di modificazione dei rapporti contrattuali. Così non potranno ammettersi né il rinnovo totale tacito (es.: si rinnova per tre anni se non ne chiede lo scioglimento una parte predeterminata dei soci), né il rinnovo parziale, ossia per una parte dei soci (es.: per tutti coloro che non hanno dichiarato di voler recedere dal rapporto). Il rapporto si estingue, e necessariamente, per tutti i contraenti. Questi, tuttavia, potranno stipulare una nuova convenzione di voto; e questa nuova convenzione potrebbe esser stipulata anche prima della scadenza se preceduta dallo scioglimento anticipato del patto medesimo; ciò che interessa al legislatore è che il vincolo che obbliga i soci nel futuro esercizio dei propri diritti non si protragga per un periodo superiore a tre anni. Ma il Testo Unico prevede un’ipotesi di recesso anche dai patti stipulati a tempo determinato. Gli azionisti che intendono aderire ad un’offerta pubblica di acquisto o di scambio promossa ai sensi degli artt. 106 e 107, T.U. n. 58 del 1998 possono recedere senza preavviso dal patto parasociale (anche soltanto di voto e di consultazione oltreché da quelli che disciplinano la circolazione delle azioni). Nonostante l’incertezza del dettato legislativo («gli azionisti che intendano aderire a un’offerta pubblica di acquisto o di scambio promossa ai sensi degli artt. 106 e 107 possono recedere»), il diritto di recesso non compete solo agli azionisti che vogliono aderire a un’offerta preventiva che presenti le caratteristiche indicate nell’art. 107, ma anche a chi intenda aderire ad un’offerta preventiva totalitaria, promossa ai sensi dell’art. 102 (offerta in verità menzionata anche dall’art. 106, 4° comma). Non vi è, infatti, alcuna ragione per discriminare fra offerta totalitaria preventiva e offerta totalitaria successiva e, ancor meno, fra preventiva totalitaria e preventiva parziale, promossa ai sensi dell’art. 107; e, d’altro canto, se la ratio del diritto di recesso sta nel non frapporre ostacoli alla circolazione dei diritti proprietari quando l’offerta sia seria, quella ratio sicuramente ricorre nell’ipotesi in cui l’offerta sia totalitaria, anche se non obbligatoria. E quel diritto sussiste anche se l’offerta concerne le azioni della società non quotata che controlla una società quotata. Naturalmente il recesso produce lo scioglimento del vincolo solo se, a seguito dell’adesione all’OPA, è avvenuto il trasferimento della proprietà dell’azione. E sarà affidata alle norme generali sul contratto la individuazione delle conseguenze che sulla sopravvivenza delle convenzione determinerà il fatto che soltanto una parte delle azioni sindacate sia stata trasferita a seguito dell’adesione all’offerta.
5. La struttura finanziaria: azioni, azioni di risparmio, obbligazioni
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5. La struttura finanziaria: azioni, azioni di risparmio, obbligazioni Lo status di società quotata incide sulla disciplina degli strumenti finanziari che la società può emettere e attraverso i quali raccogliere risorse finanziarie sul mercato dei capitali. In particolare, la quotazione comporta deroghe alla disciplina generale delle azioni e delle obbligazioni e consente la emissione di una categoria di titoli (le cc.dd. azioni di risparmio) preclusa alle società non quotate. La riforma societaria ha, da un lato, contribuito a definire i concetti di azione e di obbligazione e, dall’altro, ha consentito alle società per azioni di emettere strumenti finanziari «diversi» sia dalle azioni sia dalle obbligazioni sia, infine, dalle cc.dd. azioni di risparmio. Un cenno a queste «categorie», prima di scendere ad esaminare le modificazioni che per le relative discipline comporta la quotazione dell’emittente, sembra opportuno anche in questa sede. A cominciare dalle nozioni di azione e di obbligazione. Nel nostro ordinamento le azioni si caratterizzano per il solo fatto che i relativi apporti sono imputati a capitale (essendo irrilevanti i diritti amministrativi, compreso il diritto di voto) con la conseguente applicazione della disciplina prevista per il capitale sociale e con esposizione integrale (anche se modulabile) al rischio dell’investimento (capitale di rischio). Le obbligazioni, per essere tali (si veda art. 2411, 1° e 2° comma) debbono attribuire il diritto alla restituzione del capitale, sia pure subordinato al soddisfacimento di altri creditori, essendo compatibile con tale nozione solo l’esposizione, al rischio d’impresa, dell’entità e dei tempi di pagamento degli interessi (capitale di debito). La riforma del 2003 ha canonizzato l’esistenza di strumenti finanziari diversi dalle azioni e dalle obbligazioni, ma riconducibili rispettivamente al capitale di rischio e al capitale di debito e alle discipline dettate dall’art. 2346, 6° comma e all’art. 2411, ultimo comma. Più esattamente, ha consentito che la società per azioni possa emettere, «a seguito dell’apporto da parte di soci o di terzi anche di opere o servizi», strumenti finanziari forniti di diritti patrimoniali o anche diritti amministrativi, escluso il voto nell’assemblea generale (art. 2346, 6° comma) ed ha altresì stabilito che la disciplina dettata per le obbligazioni «si applica inoltre agli strumenti finanziari, comunque denominati, che condizionano i tempi e l’entità del rimborso del capitale all’andamento economico della società (art. 2411, 3° comma)». Nell’ambito, dunque, degli strumenti finanziari «diversi» dalle azioni
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e dalle obbligazioni il legislatore sembra distinguere gli strumenti finanziari (partecipativi) rappresentativi di capitale di rischio, che trovano il proprio statuto generale nell’art. 2346, 6° comma, e gli strumenti finanziari (non partecipativi) che consentono la raccolta di capitale di debito e che trovano la propria disciplina di riferimento nelle norme dettate per le obbligazioni. Naturalmente le società quotate potranno emettere quegli strumenti finanziari «diversi» dalle azioni e dalle obbligazioni, anche se la loro tendenziale atipicità non ne faciliterà la quotazione sui mercati regolamentati. Di questo problema si fa carico l’art. 95, 4° comma, T.U. quando stabilisce che la Consob «determina quali strumenti o prodotti finanziari, quotati in mercati regolamentati ovvero diffusi fra il pubblico ai sensi dell’articolo 116 e individuati attraverso una particolare denominazione o sulla base di specifici criteri qualificativi, devono avere un contenuto tipico determinato»: norma utile per assicurare un mercato secondario per siffatti titoli e che trova un precedente nell’art. 117, 8° comma, T.U.B., che attribuisce alla Banca d’Italia un analogo potere di tipizzazione dei contratti e dei titoli emessi dalle banche, stabilendo, altresì, che «i contratti e i titoli difformi sono nulli»; previsione che manca nel caso in esame. La atipicità degli strumenti finanziari «diversi» non consente di approfondire, in questa sede, le modificazioni che la loro disciplina potrebbe subire a seguito della quotazione. Limiteremo, pertanto, l’analisi di questo profilo alle azioni e alle obbligazioni.
5.1. Le azioni Le azioni delle società quotate sono sottoposte a disciplina speciale già in forza delle norme dettate per i mercati regolamentati. Abbiamo già constatato che le azioni di società quotate debbono necessariamente essere dematerializzate e che la loro gestione è necessariamente accentrata, con la conseguente sostituzione del certificato azionario con la certificazione dell’intermediario in tutte le ipotesi in cui la legittimazione all’esercizio di un diritto sia, dall’ordinamento di diritto comune, subordinata al deposito del primo (es.: intervento in assemblea). L’esame dei regolamenti dei mercati regolamentati italiani ci ha consentito di rilevare che condizione per la quotazione è l’integrale liberazione delle azioni e l’assenza di vincoli alla loro circolazione (assenza quindi di clausole di gradimento o di prelazione), potendosi, per altro, prevedere un limite massimo alla entità della partecipazione complessiva.
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La quotazione incide sia sui diritti patrimoniali sia sui diritti amministrativi dell’azionista. A) Particolare rilevanza ad es. ha sulla disciplina del diritto di opzione. Importanti sono le norme che consentono di escludere il diritto di opzione. L’art. 2441, 4° comma, c.c. prevede, infatti, che «nelle società con azioni quotate in mercati regolamentati lo statuto può … escludere il diritto di opzione nei limiti del dieci per cento del capitale sociale preesistente, a condizione che il prezzo di emissione corrisponda al valore di mercato delle azioni e ciò sia confermato in apposita relazione da un revisore legale o da una società di revisione legale». Norma che, da un lato, affida al mercato la tutela dell’interesse patrimoniale normalmente assicurato ai soci dal diritto di opzione e che attribuisce, dall’altro, agli azionisti un potere di manovra che quest’ultimo non assicura. La riforma del diritto societario ha invece eliminato una peculiarità introdotta dal Testo Unico nel momento in cui consentiva di escludere il diritto di opzione, ai sensi dell’art. 2441, 8° comma, per gli aumenti di capitale offerti in sottoscrizione anche ai dipendenti delle società controllanti e controllate dalla società deliberante: norma oggi diventata di diritto comune per tutte le società per azioni. Infine, la sorte dei diritti di opzione non esercitati è disciplinata in modo particolare per le società quotate. Stabilisce infatti l’art. 2441, 3° comma che «se le azioni sono quotate in mercati regolamentati, i diritti di opzione non esercitati devono essere offerti nel mercato regolamentato dagli amministratori, per conto della società», per almeno cinque riunioni, entro il mese successivo alla scadenza del termine stabilito per il relativo esercizio e il ricavato affluisce nelle casse della società. B) La quotazione impone l’applicazione di un particolare criterio per la valutazione della quota da liquidare al socio receduto. Stabilisce l’art. 2437-ter che tale valutazione non deve far riferimento, come avviene per le società non quotate, al patrimonio della società, ma deve avvenire «facendo riferimento alla media aritmetica dei prezzi di chiusura nei sei mesi che precedono la pubblicazione ovvero ricezione dell’avviso di convocazione dell’assemblea le cui deliberazioni legittimano il recesso». C) Peculiari sono anche le modalità che debbono essere adottate per l’acquisto di azioni proprie (possibile secondo le regole e nei limiti fissati per tutte le società per azioni dagli artt. 2357 e 2357-bis). A norma dell’art. 132, T.U. n. 58 del 1998 tale acquisto deve avvenire in modo da assicurare la parità di trattamento tra gli azionisti. E l’esigenza di assicu-
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rare quest’ultimo obiettivo consente di ritenere che queste modalità debbano essere adottate anche quando l’acquisto avvenga in vista di una riduzione del capitale sociale (e quindi anche senza i limiti fissati dall’art. 2357); mentre se ne può prescindere nell’ipotesi in cui l’acquisto avvenga in vista della liquidazione della quota al socio receduto. D) La riforma societaria ha consentito alla società per azioni di emettere azioni senza valore nominale e azioni fornite di diritti patrimoniali correlati ai risultati dell’attività sociale in un determinato settore (art. 2346): non mi pare che sussistano ragioni per escludere che anche le società quotate possano emetterle. E) L’art. 127-quater del T.U.F. prevede poi la possibilità che lo statuto della società quotata preveda una maggiorazione non superiore al 10 per cento del dividendo per le azioni detenute dal medesimo azionista per un periodo continuativo, statutariamente determinato, e comunque non inferiore all’anno, o al minor periodo intercorrente tra due date consecutive di pagamento del dividendo annuale, purché lo stesso azionista non detenga una partecipazione superiore allo 0,5 per cento del capitale della società o la minor percentuale indicata nello statuto. La norma ha cura di precisare che le azioni che godono di tale maggiorazione non costituiscono una categoria speciale di azioni, ai sensi dell’art. 2348 c.c. F) La quotazione incide profondamente anche sui diritti amministrativi dei soci. In particolare per quanto concerne il diritto di voto relativo alle azioni dematerializzate, il D.Lgs. 27 gennaio 2010, n. 27 ha introdotto nel T.U. una norma (art. 83-sexies) che attribuisce il diritto di intervento in assemblea, e quindi il diritto di voto, ai soggetti che risultino legittimati «al termine della giornata contabile del settimo giorno di mercato aperto precedente la data fissata per l’assemblea», essendo irrilevanti gli atti di disposizione delle azioni successive a tale data. Ma sul punto torneremo parlando della disciplina dell’assemblea. G) Una forte incidenza sulla disciplina del diritto di voto ha avuto il D.Lgs. 24 giugno 2014, n. 91 anche in forza delle modifiche subite in sede di conversione. Più esattamente, il decreto aveva introdotto nel Testo Unico della finanza un nuovo art. 127-quinquies che prevedeva la maggiorazione del diritto di voto per le sole società quotate; in sede di conversione si è, da un lato, conservata quest’ultima disciplina ma, dall’altro, è stato modificato il codice civile, attraverso la sostituzione dei commi 3 e 4 dell’art. 2351, che vietavano rispettivamente per le società che fanno
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ricorso al mercato di capitale di rischio l’introduzione del voto scalare o limitato e per tutte le società il voto plurimo. In sede di conversione del decreto n. 91 del 2014 si è consentito a tutte le società, e quindi anche alle quotate, di prevedere nei propri statuti che «in relazione alla quantità delle azioni possedute da uno stesso soggetto, il diritto di voto sia limitato a una misura massima o disporne scaglionamenti» (art. 2351, 3° comma) e ha permesso, ma facendo salvo quanto previsto dalle leggi speciali, a tutte le società per azioni di prevedere nei propri statuti «la creazione di azioni con diritto di voto plurimo», precisando che ciascuna azione a voto plurimo può avere fino a un massimo di tre voti (art. 2351, 4° comma), mentre ha vietato la emissione di azioni a voto plurimo alle società quotate, pur prevedendo qualche limitata eccezione a tale divieto (art. 127-sexies T.U.). Divieto di non facile comprensione. In definitiva, le società quotate non possono emettere azioni a voto plurimo, mentre possono prevedere sia limiti al diritto di voto, come tutte le società per azioni, e possono introdurre negli statuti meccanismi di maggiorazione del voto, preclusi alle società per azioni non quotate. Questo il meccanismo della «maggiorazione del voto» (art. 127-quinquies T.U.). Lo statuto può attribuire una maggiorazione del diritto di voto, fino ad un massimo di due voti alle azioni detenute da uno stesso soggetto per un periodo continuativo di due anni. Le azioni con voto maggiorato non costituiscono una categoria di azioni ai sensi dell’art. 2348 e la loro introduzione non dà diritto di recedere ai soggetti che non abbiano approvato la relativa delibera, mentre la maggiorazione del voto si computa per la determinazione sia dei quorum costitutivi sia di quelli deliberativi, ma non si computa nella determinazione delle frazioni del capitale sociale richieste per l’esercizio di diritti diversi dal diritto di voto (es.: denuncia ex art. 2409).
5.2. Le azioni di risparmio A) Abbiamo già ricordato che la legge n. 216 del 1974, nel momento in cui dettava una nuova disciplina per la Borsa e le società nella stessa quotate, sottoponendole al controllo di un organo pubblico (la Consob), consentiva alle società quotate di emettere azioni, al portatore, prive del diritto di voto ma privilegiate sul piano patrimoniale. Quella legge istituzionalizzava così la distinzione fra i soci interessati alla gestione e i soci unicamente preoccupati di percepire un dividendo. La stessa disci-
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plinava analiticamente il privilegio, sia per quanto concerneva il diritto agli utili (art. 15 «gli utili netti risultanti dal bilancio regolarmente approvato, dedotta la quota di riserva legale, devono essere distribuiti alle azioni di risparmio fino alla concorrenza del cinque per cento del valore nominale dell’azione. Gli utili che residuano dopo l’assegnazione alle azioni di risparmio del dividendo privilegiato stabilito nel 1° comma, di cui l’assemblea deliberi la distribuzione, sono ripartiti fra tutte le azioni in modo che alle azioni di risparmio spetti un dividendo complessivo maggiorato, rispetto a quello delle azioni ordinarie, in misura pari al due per cento del valore nominale dell’azione») sia per quanto riguarda il diritto alla quota di liquidazione («allo scioglimento della società le azioni di risparmio hanno prelazione nel rimborso del capitale per l’intero valore nominale»). Ad avviso dei più le azioni di risparmio previste dalla legge n. 216 del 1974 non hanno avuto grande successo e le ragioni sono state spesso addebitate alla pochezza dei privilegi fissati da quella legge; privilegi incapaci di compensare la mancanza del diritto di voto, nonostante l’anonimato assicurato dal fatto di essere azioni al portatore. Il Testo Unico ha conservato in vita le azioni di risparmio, ma non ha ritenuto di favorirne una più adeguata accoglienza da parte degli emittenti e dei risparmiatori attraverso previsioni legislative che ne rafforzassero i privilegi patrimoniali; ha preferito rimettere all’autonoma statutaria la determinazione di questi ultimi, in modo da consentire alla società e ai risparmiatori di individuare il tipo di privilegio che di volta in volta fosse in grado di conciliare le rispettive esigenze. Così, mentre ha stabilito (art. 145, 1° comma) che «le società italiane con azioni quotate in mercati regolamentati italiani o di altri paesi dell’Unione europea possono emettere azioni prive del diritto di voto, dotate di particolari diritti di natura patrimoniale», ha anche precisato (art. 145, 2° comma) che «l’atto costitutivo determina il contenuto del privilegio, le condizioni, i limiti, le modalità e i termini per il suo esercizio; stabilisce altresì i diritti spettanti agli azionisti di risparmio in caso di esclusione dalle negoziazioni delle azioni ordinarie o di risparmio». B) Come si può notare anche il Testo Unico continua a prevedere che soltanto le società con azioni ordinarie quotate in un mercato regolamentato (e non solo in Borsa come previsto dalla legge n. 216 del 1974) possano emettere azioni di risparmio. Si tratta di una scelta di politica legislativa di non immediata evidenza: non si può infatti pensare, come pure si è sostenuto, che la previa quotazione delle azioni ordinarie sia imposta per consentire ai possessori delle azioni di risparmio di acqui-
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stare un’azione ordinaria con diritto di voto e far così sentire la propria voce, non potendosi ammettere una specie di «elusione a fin di bene» della norma che priva le azioni di risparmio del diritto di voto; difficile sembra anche accettare l’idea che la previa quotazione delle azioni ordinarie sia richiesta per individuare un parametro per una più puntuale valutazione delle azioni di risparmio, dal momento che l’apprezzamento di queste ultime dovrebbe essere possibile indipendentemente dall’esistenza di un prezzo di borsa per le prime. La ragione potrebbe essere ricercata nel proposito del legislatore di consentire l’emissione di titoli che espongono il risparmiatore al rischio d’impresa senza attribuire allo stesso alcun potere amministrativo soltanto alle società sottoposte al controllo pubblico, come sono le società quotate. Questo obiettivo, per altro, avrebbe potuto essere raggiunto anche quando la società, che intende emettere azioni di risparmio, avesse quotato azioni diverse da quelle ordinarie e ancora imponendo alla società che emettono azioni di risparmio controlli coincidenti con quelli che insistono sulle società quotate. Ma anche questa motivazione sembra cadere alla stregua del nuovo diritto societario che consente la emissione di titoli di capitale di rischio privi di diritti amministrativi. È certo, comunque, che la possibilità di emettere azioni di risparmio è condizionata dalla previa quotazione delle azioni ordinarie della società emittente: non altrettanto certo è che la successiva esclusione dalle negoziazioni delle azioni ordinarie comporti anche la esclusione delle azioni di risparmio. Il legislatore non impone una siffatta conclusione; la stessa, per altro, potrà essere prevista dal regolamento del mercato regolamentato. Il legislatore richiede, tuttavia, che lo statuto stabilisca, anche con riferimento alle emissioni precedenti l’entrata in vigore del Testo Unico, quali diritti (ad es.: la conversione in azioni ordinarie o privilegiate) spettino ai portatori delle azioni di risparmio sia nell’ipotesi in cui siano escluse dalle negoziazioni le sole azioni ordinarie sia per l’ipotesi in cui ne siano escluse le sole azioni di risparmio. C) Pur rimettendo allo statuto la individuazione dei privilegi di natura patrimoniale delle azioni di risparmio, il Testo Unico si preoccupa di fissare alcune regole inderogabili relative alle caratteristiche, alla circolazione e al quantitativo complessivo massimo delle medesime. Così stabilisce che i certificati (ma se quotate anche le azioni di risparmio dovrebbero dematerializzarsi) rappresentativi delle azioni portino «l’indicazione dei privilegi che le assistono»; che, pur potendo essere emesse al portatore, le azioni di risparmio dovranno essere necessa-
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riamente nominative non solo quando non siano interamente liberate (cfr. art. 2355, 2° comma), ma anche quando «appartengano» agli amministratori, ai sindaci e ai direttori generali» della società; norma quest’ultima che tende a rendere manifeste eventuali situazioni di conflitto di interessi nelle quali gli «esponenti» aziendali possano trovarsi. Le azioni di risparmio, dopo la riforma societaria, potranno anche essere emesse senza valore nominale. Il Testo Unico poneva, inoltre, in termini non dissimili da quelli già adottati dalla legislazione precedente, un limite all’ammontare complessivo delle azioni di risparmio in relazione al capitale sociale complessivo, stabilendo (art. 145, 4° comma) che «il valore nominale complessivo delle azioni di risparmio, in concorso con quello delle azioni con voto limitato emesse ai sensi dell’art. 2351 c.c., non può superare la metà del capitale sociale». Questa norma è stata abrogata dalla riforma societaria in quanto assorbita dal nuovo art. 2351, 2° comma, a norma del quale il valore complessivo delle «azioni senza diritto di voto, con diritto di voto limitato e con diritto di voto subordinato al verificarsi di particolari condizioni» non può superare la metà del capitale sociale. Questo vincolo trova la propria ragion d’essere nella necessità di evitare che si crei una eccessiva sproporzione fra il potere di gestione e il rischio di impresa, attribuendo il primo a soggetti esposti in misura eccessivamente limitata al secondo. E questo rapporto tra rischio e potere, ossia tra azioni ordinarie, da un lato, e azioni di risparmio e privilegiate prive di voto o a voto limitato, dall’altro, deve rimanere anche in caso di riduzione del capitale per perdite. Più esattamente, se in conseguenza della riduzione del capitale per perdite, l’ammontare delle azioni di risparmio e delle azioni a voto limitato supera la metà del capitale sociale, il rapporto suddetto deve essere ristabilito entro due anni mediante emissione di azioni ordinarie da attribuire in opzione ai possessori di azioni ordinarie. Tuttavia, se la parte di capitale rappresentata da azioni ordinarie si è ridotta al di sotto del quarto del capitale sociale, deve essere riportata almeno al quarto entro sei mesi. La società si scioglie se il rapporto tra azioni ordinarie e azioni di risparmio e con voto limitato non è ristabilito entro i termini predetti. Carattere parzialmente suppletivo ha, invece, la norma che disciplina il diritto di opzione per possessori di azioni di risparmio in sede di aumento a pagamento del capitale sociale. Essi hanno diritto di opzione anzitutto su azioni di risparmio della stessa categoria ovvero, in mancanza o per la differenza, nell’ordine su azioni di risparmio di altra categoria, su azioni privilegiate e, infine, su azioni ordinarie. Lo statuto può, tuttavia, discipli-
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nare diversamente il diritto di opzione delle azioni di risparmio; di tale diritto queste ultime non potranno, tuttavia, essere private, pur potendo l’assemblea escluderlo o limitarlo nei limiti previsti dall’art. 2441 c.c. D) Il Testo Unico non contiene una disposizione specificamente dedicata ai cc.dd. diritti amministrativi dei portatori delle azioni di risparmio, a differenza della precedente disciplina la quale aveva cura di precisare (art. 14, 4° comma, legge n. 216 del 1974) che «le azioni di risparmio, salvo quanto stabilito [dalla disciplina specificamente alle stesse dedicata] attribuiscono gli stessi diritti delle azioni ordinarie». Sul punto il Testo Unico si limita a fornire qualche indizio nel momento in cui precisa (art. 145, 6° comma) che «della parte del capitale sociale rappresentata da azioni di risparmio non si tiene conto ai fini della costituzione dell’assemblea e della validità delle deliberazioni né per il calcolo delle aliquote stabilite» dagli artt. 2367 (convocazione dell’assemblea su richiesta della minoranza), 2393, 5° e 6° comma (revoca dell’amministratore a seguito di deliberazione di esercitare l’azione sociale di responsabilità e rinuncia e transazione relative alla stessa), 2393-bis (azione sociale di responsabilità esercitata da soci), 2408, 2° comma (denuncia al collegio sindacale) e 2409, 1° comma (denuncia al tribunale) c.c. Da queste ultime disposizioni sembra ragionevole ricavare la conclusione che ai portatori delle azioni di risparmio non competono i poteri dalle stesse norme contemplati, apparendo contraddittorio attribuire loro la possibilità di utilizzare strumenti di tutela riservati a minoranze nel computo delle quali non si tiene conto della parte di capitale rappresentata da azioni di risparmio. Ulteriori elementi di giudizio possono essere tratti dalla disciplina dei poteri attribuiti all’organizzazione degli azionisti di risparmio e, in particolare, al loro rappresentante comune, potendosi ragionevolmente escludere che i singoli portatori di azioni di risparmio possano esercitare poteri che il legislatore riserva al rappresentante comune. E dal riconoscimento a quest’ultimo del diritto ad assistere alle assemblee della società e di impugnarne le deliberazioni sembra potersi ricavare che analoghi poteri non competono ai singoli azionisti di risparmio. Ma al di fuori di queste «privazioni», indirettamente desumibili dalla disciplina specificamente dettata per le azioni di risparmio, l’azionista di risparmio è un azionista che gode di tutti i diritti amministrativi attribuiti alla generalità degli azionisti ordinari. Allo stesso spetta anche il diritto di recesso nelle ipotesi previste dal Codice e dal Testo Unico.
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E) Il Testo Unico prevede un’organizzazione degli azionisti di risparmio articolata in una «assemblea speciale» (art. 146) e in un «rappresentante comune». «L’assemblea speciale dei possessori di azioni di risparmio delibera: a) sulla nomina e sulla revoca del rappresentante comune e sull’azione di responsabilità nei suoi confronti; b) sull’approvazione delle deliberazioni dell’assemblea della società che pregiudicano i diritti della categoria, con il voto favorevole di tante azioni che rappresentino almeno il venti per cento delle azioni della categoria; c) sulla costituzione di un fondo per le spese necessarie alla tutela dei comuni interessi e sul rendiconto relativo; il fondo è anticipato dalla società che può rivalersi sugli utili spettanti agli azionisti di risparmio in eccedenza al minimo eventualmente garantito; d) sulla transazione delle controversie con la società, con il voto favorevole di tante azioni che rappresentino almeno il venti per cento delle azioni della categoria; e) sugli altri oggetti d’interesse comune» (art. 146, 1° comma, T.U. n. 58 del 1998). Il Testo Unico, consapevole delle difficoltà che potrebbero incontrare, per l’assenteismo degli azionisti disinteressati, la stessa riunione dell’assemblea e l’assunzione delle relative deliberazioni ha introdotto norme dirette a facilitare sia l’una sia l’altra. Più esattamente, ha previsto che l’assemblea sia convocata «dal rappresentante comune degli azionisti di risparmio, ovvero dal consiglio di amministrazione o dal consiglio di gestione entro sessanta giorni dall’emissione o dalla conversione delle azioni e quando lo ritengano necessario o ne sia fatta richiesta da tanti possessori di azioni di risparmio che rappresentino almeno l’uno per cento delle azioni di risparmio della categoria» (art. 146, 2° comma). Le deliberazioni, inoltre e in deroga a quanto previsto dall’art. 2376 c.c., sono assunte, al di fuori delle ipotesi indicate sopra e che prevedono maggioranze speciali, «in prima e in seconda convocazione col voto favorevole di tante azioni che rappresentino rispettivamente almeno il venti e il dieci per cento delle azioni in circolazione; in terza o unica convocazione l’assemblea delibera a maggioranza dei presenti, qualunque sia la parte di capitale rappresentata dai soci intervenuti» (cfr. art. 146, 3° comma, T.U.). F) La disciplina del rappresentante comune degli azionisti di rispar-
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mio è modellata su quella vigente per il rappresentante comune degli obbligazionisti (artt. 2417 e 2418 c.c.). Egli è nominato dall’assemblea degli azionisti di risparmio e, se questa non provvede, dal Presidente del Tribunale. Può essere anche una persona giuridica autorizzata all’esercizio dei servizi di investimento o una società fiduciaria (art. 2417, 1° comma, c.c.); dura in carica per un periodo massimo di tre anni. Deve curare, in generale, gli interessi comuni dei possessori delle azioni di risparmio, provvedere all’esecuzione delle deliberazioni assunte dalla loro assemblea; può assistere alle assemblee dei soci e impugnarne le deliberazioni. G) Il Testo Unico, dopo aver indicato i poteri dell’assemblea e i poteri-doveri minimi del rappresentante comune, consente che l’atto costitutivo attribuisca loro «ulteriori poteri a tutela dei possessori di azioni di risparmio» e stabilisce che, in ogni caso, lo stesso «deve prevedere le modalità per assicurare un’adeguata informazione al rappresentante comune sulle operazioni societarie che possano influenzare l’andamento delle quotazioni delle azioni della categoria» (art. 147, 4° comma, T.U. n. 58 del 1998). H) Si sarebbe potuto ipotizzare che la riforma societaria del 2003, nel momento in cui ha riconosciuto alla società per azioni una grande libertà nella modulazione del contenuto dei titoli azionari e ha, per di più, consentito la emissione di titoli rappresentativi di capitale di rischio diversi dalle azioni, avrebbe finito per abrogare la disciplina delle azioni di risparmio. Così non è stato; la stessa riforma e il D.Lgs. n. 37 del 2004 (che ha introdotto le norme di raccordo fra la riforma societaria e il T.U. n. 58 del 1998) dettano disposizioni che postulano la sopravvivenza delle azioni di risparmio; d’altro canto, la disciplina del Testo Unico è una disciplina speciale non abrogata dalle norme della riforma, ma anzi esplicitamente fatta salva da quest’ultima (art. 2325-bis, 2° comma).
5.3. Le obbligazioni L’ordinamento consente alle società quotate maggior libertà nella emissione di obbligazioni di quella concessa alla generalità delle società per azioni. In particolare, l’art. 2412 stabilisce che a) la società non può emettere obbligazioni per un importo complessivo superiore al doppio dell’ammontare del capitale sociale, della riserva legale e delle riserve disponibili risultanti dall’ultimo bilancio (1° comma) e b) che tale limite può esse-
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re superato se le obbligazioni emesse in eccedenza sono riservate alla sottoscrizione di investitori professionali soggetti a vigilanza prudenziale, che rispondono, per altro, della solvenza della società nei confronti dei successivi acquirenti che non siano investitori professionali (2° comma). Il legislatore esonera dal rispetto di quel limite e dall’applicazione di questa condizione per poterlo superare, le società con azioni quotate in mercati regolamentati, limitatamente alle obbligazioni destinate ad essere quotate negli stessi o in sistemi multilaterali di negoziazione (art. 2412, 5° comma). Il legislatore ritiene, evidentemente, che i controlli sulle società quotate, e quelli che insistono sui mercati nei quali le obbligazioni sono destinate ad essere negoziate, assicurino ai sottoscrittori una tutela di mercato capace di sostituire quella rappresentata dai fondi propri della società emittente e dalla garanzia della solvenza offerta dagli investitori professionali; garanzia che rimane, perciò, soltanto per le ipotesi in cui le obbligazioni non siano quotate su un mercato regolamentato o su un sistema multilaterale di negoziazione.
6. Il governo delle società quotate 6.1. Introduzione Nel descrivere il sistema di governo delle società quotate è necessario considerare, congiuntamente, le norme dettate, nel 1998, dal Testo Unico della Finanza, modificate dalla legge 28 dicembre 2005, n. 262 e, più recentemente, dal D.Lgs. 27 gennaio 2010, n. 27 e quelle introdotte, nel 2003, dalla riforma del diritto societario. Come abbiamo già ricordato, le nuove norme codicistiche si applicano alle società quotate in quanto la disciplina prevista dal Testo Unico non «disponga diversamente». È bene, per altro, aggiungere subito che il D.Lgs. 6 febbraio 2004, n. 37 nel dettare norme di «integrazione e di modificazione» di quest’ultimo Testo Unico rese necessarie dalla riforma del diritto societario, ha modificato ed abrogato numerose norme che il Testo Unico prevedeva per il governo delle società quotate. In altri termini, la riforma ha inciso sulla disciplina delle società quotate non solo perché ha modificato il diritto comune delle società, ma anche perché ha modificato alcune delle regole che il Testo Unico aveva creduto necessario introdurre per il buon governo delle società quotate.
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Sembra a questo punto opportuno, prima di passare ad esaminare la disciplina che oggi regola il governo delle società quotate che, come si è appena accennato, risulta dalla applicazione di due corpi normativi (quello dettato dal codice civile e quello dettato dal Testo Unico, così come modificato nel 2005 e nel 2010), fare un cenno alle scelte effettuate nel 1998 dal Testo Unico e poi modificate, conservate o recepite dal diritto comune della riforma societaria e dalle scelte compiute rispettivamente dalla legge n. 262 del 2005 e dal D.Lgs. n. 27 del 2010. A) Le norme del Testo Unico 1998 tendevano ad assicurare un buon governo delle società quotate, sotto il profilo dell’organizzazione interna delle società, muovendosi essenzialmente in due direzioni: a) cercavano di rafforzare il controllo sui gestori, senza, per altro, comprometterne l’autonomia delle scelte imprenditoriali, allo scopo di incentivarne l’efficienza nell’interesse della generalità degli azionisti e b) miravano ad impedire che la «maggioranza» che detiene il potere di gestione (e che, normalmente, è una minoranza dell’intero azionariato) perseguisse propri interessi in conflitto con quello della generalità degli azionisti. La prima esigenza era ed è particolarmente sentita nelle società con azionariato molto diffuso e che presentano, quindi, una proprietà debole e manager forti; la seconda emerge soprattutto là dove esiste una proprietà concentrata che rende i gestori deboli, con notevoli probabilità che il gruppo di controllo abusi del proprio potere con pregiudizio dell’interesse della società. In considerazione anche dei vincoli posti dalla legge di delega, il Testo Unico aveva perseguito tali obiettivi intervenendo su alcuni soltanto dei momenti dell’organizzazione della società. Aveva così dettato norme a «tutela delle minoranze» (artt. 125-135), aveva disciplinato le deleghe di voto (artt. 136-144), aveva previsto norme dirette a rafforzare la capacità di controllo del collegio sindacale (artt. 148-154), aveva dettato una compiuta disciplina della revisione contabile (artt. 155-165). In particolare, considerando la tutela delle minoranze uno strumento di buon governo della società, aveva abbassato le percentuali del capitale sociale necessarie per provocare la convocazione dell’assemblea (art. 125), per le denunce al collegio sindacale e al Tribunale (art. 129), aveva previsto una minoranza di blocco per le assemblee straordinarie (art. 126), aveva introdotto l’azione sociale di responsabilità della minoranza (art. 129) e aveva previsto la rappresentanza della minoranza nel collegio sindacale (art. 148). Nel riconoscere alle minoranze poteri più incisivi di quelli loro attribuiti dal diritto comune, il Testo Unico aveva, tuttavia, immaginato che tali poteri potessero essere esercitati da «frazioni» del capitale sociale che,
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tenuto conto delle dimensioni delle società quotate, rappresentassero pur sempre azionisti di notevolissime dimensioni. In altri termini, il Testo Unico ha immaginato che le relative frazioni del capitale sociale siano per lo più detenute da investitori istituzionali, con quasi certa esclusione, quindi, dei singoli azionisti risparmiatori. La tutela di questi ultimi è solo indiretta: è affidata alla diligenza e alla correttezza dei gestori del risparmio. Il che può rappresentare un limite all’efficienza dei controlli (potendosi immaginare che gli investitori istituzionali non operino nell’esclusivo interesse dei risparmiatori), ma dovrebbe consentire anche di escludere un’utilizzazione degli strumenti di tutela delle minoranze volta soltanto ad ostacolare l’opera dei gestori o le scelte della maggioranza con pregiudizio dell’interesse della generalità degli azionisti. Il Testo Unico imponeva poi, a tutela della generalità dei soci, il rispetto del principio di parità di trattamento. Più esattamente, a norma dell’art. 92 T.U., «gli emittenti quotati assicurano il medesimo trattamento a tutti i portatori degli strumenti finanziari quotati che si trovino in identiche condizioni». Veniva così fissato un principio, tuttora in vigore, che costituisce un vincolo all’autonomia privata e che non trova riscontro sicuro nell’ordinamento generale delle società per azioni. Questo principio è stato specificato ed arricchito dal D.Lgs. n. 195 del 2007, attuativo della direttiva «transparency». Il nuovo dettato dell’art. 92, 1° comma stabilisce che il principio di parità di trattamento si applica a tutti gli «emittenti quotati», ossia anche ai soggetti esteri che emettono strumenti finanziari quotati nei mercati regolamentati italiani, oltre che alle società italiane con titoli quotati nei mercati regolamentati sia italiani sia di un altro Stato membro. La prima norma sottolinea che il principio di parità di trattamento è una regola di mercato, tant’è che si applica anche agli emittenti esteri, ma anche un principio di diritto societario, tant’è che si applica alle società italiane anche quando le loro azioni non siano quotate in un mercato italiano e lo siano soltanto su un mercato regolamentato di un altro Stato membro. Lo stesso D.Lgs. n. 195 del 2007 ha arricchito il principio di parità di trattamento stabilendo (art. 92, 2° comma) che «gli emittenti quotati e gli emittenti quotati aventi l’Italia come Stato membro d’origine garantiscono a tutti i portatori degli strumenti finanziari quotati gli strumenti e le informazioni necessari per l’esercizio dei loro diritti» e affidando alla Consob il compito di dettare norme di attuazione di questo principio, «prevedendo anche la possibilità dell’utilizzo di mezzi elettronici per la trasmissione delle informazioni».
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B) Dovremmo ora verificare in quale misura la riforma del diritto societario del 2003, la legge sulla tutela del risparmio del 2005 e le norme del D.Lgs. n. 27 del 2010 relative all’esercizio di alcuni diritti degli azionisti abbiano modificato le scelte originarie del Testo Unico del 1998 in materia di governo delle società quotate. Un giudizio sul punto postula, tuttavia, un esame analitico delle norme che disciplinano i poteri dei diversi organi della società e degli azionisti e sarà, quindi, possibile solo dopo aver completato tale esame. Qui sia sufficiente sottolineare che: a) la riforma del diritto societario ha enfatizzato il potere del consiglio di amministrazione escludendo l’assemblea ed allontanando i soci dalla gestione; b) la legge n. 262 del 2005 ha accentuato i poteri di controllo del collegio sindacale e delle minoranze azionarie e c) il D.Lgs. n. 27 del 2010 ha rafforzato il potere dei soci di incidere sul funzionamento dell’assemblea.
6.2. L’assemblea A) Il Testo Unico ravvisava e ravvisa nella riunione dei soci in assemblea l’occasione e la sede nelle quali le «minoranze», e in particolare gli investitori istituzionali, possono far sentire la propria voce e svolgere una positiva azione di controllo sulle scelte gestionali. Si collocano in questa prospettiva sia le norme che introducono l’obbligo per l’organo di controllo di riferire all’assemblea su vicende particolarmente rilevanti ai fini del controllo sulla gestione sia quelle che riservano all’assemblea il potere di deliberare su atti che rientrano nell’ambito della gestione sociale. Così il Testo Unico impone ai sindaci, al consiglio di sorveglianza e al comitato di controllo, di riferire all’assemblea «sulle omissioni e sui fatti censurabili rilevati» e, più in generale, «sull’attività di vigilanza svolta» (art. 153, 1° comma), pretende che gli atti di gestione, che possono contrastare il conseguimento di un’offerta pubblica, siano sottoposti all’autorizzazione dell’assemblea dei soci (art. 104, 1° comma), subordina all’autorizzazione assembleare l’assunzione di partecipazioni reciproche oltre la soglia del tre per cento del capitale sociale, o del cinque per cento per le PMI (art. 121, 2° comma), e, ancora, pretende una delibera dell’assemblea straordinaria per chiedere l’esclusione dalla quotazione (art. 133, 1° comma) su un mercato regolamentato. La riforma del diritto societario, pur avendo in linea generale ridimensionato il ruolo dell’assemblea, soprattutto per quanto concerne la gestione, ha conservato alla competenza assembleare le materie appena ricordate, anche nell’ambito dei modelli alternativi di amministrazione e con-
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trollo. Sotto questo profilo dunque la riforma si è mossa sulla stessa linea già adottata dal Testo Unico, anche se la compressione, in generale, dei poteri assembleari non potrà non avere effetti sul governo delle società quotate. B) Coerentemente con l’enfasi posta sul ruolo dell’assemblea il Testo Unico aveva introdotto norme che a) facilitano la convocazione dell’assemblea; b) arricchiscono l’informazione fornita ai soci; c) consentono l’esercizio del voto per corrispondenza; d) assicurano un regime trasparente alla raccolta delle deleghe di voto; e) favoriscono i raggruppamenti fra azionisti, f) attribuiscono alle minoranze che partecipano alla riunione assembleare la capacità di condizionare l’assunzione di una deliberazione assembleare. Alcune di queste discipline, come quelle relative alle deleghe di voto (art. 136 ss.), al voto per corrispondenza (art. 127) e all’informazione dei soci (art. 130), non sono state interessate dalla riforma e continuano a differenziare la disciplina delle società quotate da quella delle società per azioni non quotate. Altre sono state invece abrogate, come quella che facilitava la convocazione dell’assemblea da parte della minoranza (art. 125), ma il loro contenuto è stato, sia pure con qualche modificazione, recepito dalla corrispondente norma di diritto comune (art. 2367). Non si può perciò dire che la riforma imponga modalità organizzative e di funzionamento dell’assemblea più limitative; ma si deve ricordare, tuttavia, che è stata drasticamente ridimensionata la possibilità per i soci di far valere l’invalidità delle deliberazioni assembleari e, quindi, anche sotto questo aspetto l’importanza dell’assemblea, anche nelle quotate, non potrà che risultare ridimensionata nei confronti del modello che aveva presupposto il Testo Unico della finanza. La legge n. 262 del 2005, pur non modificando l’assetto delle competenze degli organi sociali e, quindi, senza riattribuire all’assemblea il ruolo che la stessa aveva prima della riforma societaria del 2003, ha tuttavia introdotto, fra gli strumenti di tutela delle minoranze, il diritto di queste di chiedere l’integrazione dell’ordine del giorno dell’assemblea, consentendo così all’assemblea di diventare luogo di discussione di argomenti ritenuti importanti dalla minoranza dei soci, sia pure nei limiti che indicheremo fra un attimo. Il D.Lgs. n. 27 del 2010 ha profondamente inciso sulla disciplina dell’assemblea nelle società quotate introducendo, per le assemblee convocate dopo il 31 ottobre 2010, norme che riguardano la convocazione, l’integrazione dell’ordine del giorno, le deleghe di voto, il diritto di interven-
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to alle riunioni assembleari; norme che tendono, per lo più, ad incentivare la partecipazione consapevole dei soci ai lavori assembleari. Rinviando ai paragrafi successivi l’analisi della disciplina dettata per il voto per corrispondenza e per la raccolta delle deleghe, esaminiamo qui le altre norme che caratterizzano l’assemblea delle società quotate. C) L’assemblea deve essere convocata «mediante avviso sul sito internet nonché con le altre modalità previste dalla Consob» «entro il trentesimo giorno precedente l’assemblea» (art. 125-bis); termine «anticipato» al quarantesimo giorno precedente la data dell’assemblea per le riunioni assembleari convocate per l’elezione mediante voto di lista dei componenti degli organi di amministrazione e controllo e «posticipato» al ventunesimo giorno per le assemblee previste dagli artt. 2446, 2447 (operazioni sul capitale per perdite) e 2487 (nomina e revoca dei liquidatori). Vengono così fissati termini e modalità diversi da quelli previsti dal diritto comune delle società per azioni (art. 2366). In particolare, l’allungamento del termine previsto per la generalità delle società per azioni (quindici giorni), allungamento già disposto dal decreto del Ministro di Grazia e Giustizia 5 novembre 1998, n. 437 e ribadito dal D.Lgs. n. 27 del 2010, si giustifica con l’intento del legislatore di evitare sorprese da parte del gruppo di comando ed anche per consentire che la sollecitazione e la raccolta delle deleghe di voto avvengano in tempi «fisiologici». D) L’assemblea dei soci, nelle società quotate, può essere convocata anche dal collegio sindacale, o da almeno due membri del collegio, previa comunicazione al presidente del consiglio di amministrazione (art. 151, T.U. n. 58 del 1998); potere che, sconosciuto al diritto comune, al di fuori dell’ipotesi prevista dall’art. 2408, 2° comma, c.c. e introdotto dal Testo Unico del 1998, è stato conservato dalla riforma del 2003. E) Molto analitica è la disciplina del contenuto dell’avviso di convocazione. Mentre secondo il diritto comune l’avviso di convocazione può limitarsi ad indicare il giorno, l’ora, il luogo dell’adunanza e l’elenco delle materie da trattare (art. 2366, 2° comma), l’avviso di convocazione dell’assemblea delle quotate deve (art. 125-bis) contenere, oltre a tali elementi, anche: «b) una descrizione chiara e precisa delle procedure da rispettare per poter partecipare e votare in assemblea, ivi comprese le informazioni riguardanti:
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1) i termini per l’esercizio del diritto di porre domande prima dell’assemblea e del diritto di integrare l’ordine del giorno o di presentare ulteriori proposte su materie già all’ordine del giorno, nonché anche mediante riferimento al sito Internet della società, le eventuali ulteriori modalità per l’esercizio di tali diritti; 2) la procedura per l’esercizio del voto per delega e, in particolare, le modalità per il reperimento dei moduli utilizzabili in via facoltativa per il voto per delega nonché le modalità per l’eventuale notifica, anche elettronica, delle deleghe di voto; 3) la procedura per il conferimento delle deleghe al soggetto eventualmente designato dalla società ai sensi dell’art. 135-undecies, con la precisazione che la delega non ha effetto con riguardo alle proposte per le quali non siano state conferite istruzioni di voto; 4) le procedure di voto per corrispondenza o con mezzi elettronici, se previsto dallo statuto; c) la data indicata nell’art. 83-sexies, 2° comma, con la precisazione che coloro che diventeranno titolari delle azioni solo successivamente a tale data non avranno il diritto di intervenire e votare in assemblea; d) le modalità e i termini di reperibilità del testo integrale delle proposte di deliberazione, unitamente alle relazioni illustrative, e dei documenti che saranno sottoposti all’assemblea; d-bis) le modalità e i termini di presentazione delle liste per l’elezione dei componenti del consiglio di amministrazione e del componente di minoranza del collegio sindacale o del consiglio di sorveglianza». È evidente lo scopo perseguito attraverso l’imposizione di un contenuto così diffuso per l’avviso di convocazione: evitare al socio una qualsiasi «sorpresa», non solo sull’oggetto della possibile deliberazione, ma anche sulle modalità di funzionamento dei lavori preassembleare e assembleari. F) Il diritto di «informazione» preassembleare dei soci trova alimento, oltre che nel contenuto dell’avviso di convocazione, anche nell’obbligo degli amministratori di mettere «a disposizione del pubblico presso la sede sociale, sul sito Internet e con le altre modalità previste dalla Consob» «una relazione su ciascuna delle materie all’ordine del giorno» (art. 125ter, 1° comma) e nel loro diritto di «prendere visione di tutti gli atti depositati presso la sede sociale per assemblee già convocate e di ottenerne copia a proprie spese (art. 130)». In realtà, quest’ultima norma disciplina il diritto di ispezione dei soci e risolve i dubbi che sollevava ad es. l’art. 2429 c.c., che consentiva ai soci di prendere visione dei documenti presentati in vista dell’assemblea di
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bilancio (compresi anche quelli non necessari), ma nulla diceva in ordine alla possibilità di ottenerne copia. Il legislatore riconosce ora, in generale, tale diritto, esercitabile anche per rappresentanza, addossando, per altro, al socio l’onere finanziario relativo; onere che, forse, dovrà essere sopportato, per le società quotate, anche con riferimento alle ipotesi nelle quali il diritto comune prevedeva che i soci potessero ottenere «gratuitamente» copia dei documenti depositati (così per l’ipotesi di fusione l’art. 2501-septies, ultimo comma). Entrambe le norme vanno collocate nell’ambito della più generale disciplina dell’informazione societaria, ossia delle informazioni che la società quotata deve fornire non solo ai soci ma al pubblico in occasione delle proprie deliberazioni assembleari, e che si attua anche attraverso il deposito della documentazione richiesta per le varie deliberazioni presso la sede sociale (oltre che presso la società di gestione del mercato) e rendendo tale documentazione consultabile anche da parte del pubblico (che non ha, per altro, diritto di ottenerne copia, diritto riconosciuto solo ai soci). Così, ad es., per le deliberazioni di fusione e scissione dovranno essere depositati presso la sede sociale i documenti previsti dall’art. 2501septies, c.c. almeno trenta giorni prima di quello fissato per la riunione assembleare (cfr. art. 70 Regolamento Emittenti) e dell’avvenuto deposito deve essere data notizia mediante un comunicato destinato al pubblico; comunicato nel quale deve essere precisato «che i soci hanno la facoltà di ottenere copia della documentazione». Così strumenti di informazione del pubblico e strumenti di informazione dei soci si integrano, e, a dire il vero, anche il contenuto del diritto dei soci si appiattisce su quello del pubblico. G) L’informazione del pubblico e dei soci si avvale anche dell’uso di Internet con riferimento sia all’informazione preassembleare sia a quella successiva ai lavori assembleari. A norma, infatti, dell’art. 125-quater del T.U.F. (introdotto dal D.Lgs. n. 27 del 2010) «entro il termine di pubblicazione dell’avviso di convocazione» sono messi a disposizione sul sito Internet della società: a) i documenti che saranno sottoposti all’assemblea; b) i moduli che gli azionisti hanno la facoltà di utilizzare per il voto per delega e, qualora previsto dallo statuto, per il voto per corrispondenza; c) informazioni sull’ammontare del capitale sociale con l’indicazione del numero e delle categorie di azioni in cui è suddiviso; inoltre «un rendiconto sintetico delle votazioni contenente il numero di azioni rappresentate in assemblea e delle azioni per le quali è stato espresso il voto, la
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percentuale di capitale che tali azioni rappresentano, nonché il numero di voti favorevoli e contrari alla delibera e il numero di astensioni, è reso disponibile sul sito Internet della società entro cinque giorni dalla data dell’assemblea. Il verbale dell’assemblea di cui all’articolo 2375 del codice civile è comunque reso disponibile sul sito Internet entro trenta giorni dalla data dell’assemblea». H) Già la legge n. 262 del 2005 aveva riconosciuto ad una minoranza di soci il diritto all’integrazione dell’ordine del giorno. Tale diritto è stato ridisciplinato dal D.Lgs. n. 27 del 2010 e, a norma dell’art. 126-bis ora vigente, «i soci che, anche congiuntamente rappresentino almeno un quarantesimo del capitale sociale possono chiedere, … l’integrazione dell’elenco delle materie da trattare, indicando nella domanda gli ulteriori argomenti da essi proposti ovvero presentare proposte di deliberazione su materie già all’ordine del giorno». L’integrazione, che dovrà essere effettuata dal consiglio di amministrazione e resa pubblica almeno quindici giorni prima della riunione assembleare, non sarà, tuttavia, consentita se si tratta di argomenti «sui quali l’assemblea delibera, a norma di legge, su proposta dell’organo di amministrazione o sulla base di un progetto o di una relazione da essi predisposta», a meno che gli amministratori non facciano propria l’integrazione e presentino all’assemblea la proposta o il progetto ad essi riservati. Nell’ipotesi in cui gli amministratori non integrino l’ordine del giorno, l’integrazione potrà avvenire ad opera del collegio sindacale e, forse, nel caso di inerzia anche dei sindaci, da parte del tribunale, in forza dell’applicazione dell’art. 126-bis del T.U.F. Non è previsto alcun potere degli amministratori di sindacare la domanda di integrazione dell’ordine del giorno; tale potere potrebbe, per altro, discendere dall’applicazione del dovere di diligenza e di tutela dell’interesse sociale che incombe sugli amministratori. E probabilmente potrà trovare applicazione analogica anche il 2° comma dell’art. 2367 nella parte in cui attribuisce agli amministratori il potere di valutare se sussistano ragioni che giustifichino il rifiuto della convocazione. I soci che richiedono l’integrazione dell’ordine del giorno predispongono una relazione sulle materie di cui essi propongono la trattazione. La relazione è consegnata all’organo di amministrazione entro il termine ultimo per la presentazione della richiesta di integrazione. L’organo di amministrazione mette a disposizione del pubblico la relazione, accompagnata dalle proprie eventuali valutazioni, contestualmente alla pubblicazione della notizia dell’integrazione (art. 126-bis, 4° comma).
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Inutile sottolineare l’importanza che può assumere il dibattito preassembleare che accompagna la richiesta di integrazione dell’ordine del giorno. I) Il dibattito preassembleare può essere alimentato anche dal diritto dei soci, previsto dall’art. 127-ter T.U.F., di porre domande «sulle materie all’ordine del giorno anche prima dell’assemblea»; domande alle quali può essere data risposta anche prima dei lavori assembleari e «al più tardi» durante l’assemblea. L) Profonde innovazioni ha introdotto il D.Lgs. n. 27 del 2010 per quanto concerne il diritto di intervento all’assemblea. Il Testo Unico non aveva dettato norme particolari per il diritto di intervento nelle assemblee delle società quotate (lo stesso doveva essere esercitato nel rispetto degli adempimenti previsti dalla gestione accentrata e imposti dalla dematerializzazione delle azioni). Doveva inoltre essere osservato il disposto dell’art. 2370 c.c. che consente allo statuto di tutte le società e, quindi, anche a quello delle società quotate, di fissare «il termine entro il quale debbono essere depositate le azioni o la certificazione dell’intermediario ed eventualmente di prevedere che le stesse «non possano essere ritirate prima che l’assemblea abbia luogo», precisando, per altro, che tale termine per le società che fanno ricorso al mercato dei capitali non poteva essere superiore a due giorni e questo limite valeva anche per le quotate. D’altra parte, come sappiamo, le azioni delle quotate sono necessariamente dematerializzate e in gestione accentrata, per esse, quindi, valeva la norma dell’ultimo periodo dell’art. 2370, 2° comma: il deposito è sostituito da una comunicazione dell’intermediario che tiene i conti. Il socio doveva legittimarsi attraverso il possesso della certificazione e, nell’ipotesi in cui lo statuto avesse previsto il «deposito» preventivo, lo stesso doveva essere accompagnato dalla comunicazione dell’intermediario all’emittente attestante il diritto sostanziale dell’interessato (socio, creditore pignoratizio) e il numero delle azioni per le quali il relativo diritto di voto poteva essere esercitato. La nuova disciplina del diritto di intervento (art. 83-sexies, 1° comma, T.U.) ribadisce che «la legittimazione all’intervento in assemblea e all’esercizio del diritto di voto è attestata da una comunicazione all’emittente, effettuata dall’intermediario, in conformità alle proprie scritture contabili, in favore del soggetto a cui spetta il diritto di voto». Ma, soprattutto, individua il momento in cui tale legittimazione deve essere accertata, stabilendo che nelle società italiane con strumenti fi-
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nanziari ammessi alla negoziazione nei mercati regolamentati o nei sistemi multilaterali di negoziazione italiani o di altri paesi dell’Unione europea con il consenso dell’emittente, «la comunicazione prevista nel comma 1 è effettuata dall’intermediario sulla base delle evidenze dei conti indicati nell’art. 83-quater, 3° comma relative al termine della giornata contabile del settimo giorno di mercato aperto precedente la data fissata per l’assemblea in prima convocazione [purché le date delle eventuali convocazioni successive siano indicate nell’unico avviso di convocazione]; in caso contrario si ha riguardo alla data di ciascuna convocazione». «Le registrazioni in accredito e in addebito compiute sui conti successivamente a tale termine non rilevano ai fini della legittimazione all’esercizio del diritto di voto nell’assemblea. Il giorno fissato per accertare la legittimazione (record date) è il settimo precedente: dopo quel momento colui che risulti legittimato potrà intervenire in assemblea anche se nel frattempo ha venduto le azioni, mentre non potranno intervenire alla stessa coloro che abbiano acquistato la qualità di socio dopo quel settimo giorno. Un non socio potrà esercitare il diritto di voto, mentre un socio non potrà esercitarlo. Anche se, a norma del nuovo art. 127-bis T.U.F., e al fine di stabilire la legittimazione ad impugnare le deliberazioni assembleari «colui a cui favore sia effettuata la registrazione delle azioni successivamente [al settimo giorno precedente l’assemblea]» e «prima dell’apertura dei lavori dell’assemblea è considerato assente all’assemblea» e lo stesso al fine di accertare il diritto di recesso, «è considerato non aver concorso all’approvazione delle deliberazioni» (art. 127-bis, 2° comma, T.U.F.), anche se il suo dante causa legittimato all’intervento abbia votato a favore della deliberazione impugnata o che legittima il recesso. M) Non sono previste particolari modalità di svolgimento dei lavori assembleari. Anche se il Testo Unico ha imposto al Presidente dell’assemblea di accertare le eventuali cause di sospensione dall’esercizio del diritto di voto (artt. 120, 5° comma; 121, 6° comma e 122, 4° comma) e di tener conto degli adempimenti connessi con il voto per corrispondenza e con le deleghe di voto. N) Non è prevista neppure una disciplina speciale per i quorum costitutivi e deliberativi dell’assemblea ordinaria delle società quotate: troveranno, quindi, applicazione le norme dettate dal codice civile (artt. 2638, 1° comma e 2369, 3° e 4° comma, c.c.) per la generalità delle società per azioni. Il Testo Unico (art. 126) aveva invece dettato una disciplina speciale
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nei confronti del diritto comune allora vigente e di particolare rilevanza politica per le assemblee straordinarie delle società quotate; la riforma societaria ha abrogato quasi integralmente la norma speciale del Testo Unico, ma ha esteso alla generalità delle società per azioni che fanno ricorso al mercato dei capitali il modello di disciplina previsto dal Testo Unico, sia pure con qualche modificazione. Val la spesa ricordare le soluzioni adottate dal Testo Unico prima di descrivere la disciplina vigente. Nella disciplina codicistica allora vigente per le deliberazioni dell’assemblea straordinaria delle società per azioni, i quorum costitutivi coincidevano con quelli deliberativi. Il Codice civile, infatti, stabiliva che le deliberazioni dell’assemblea straordinaria dovevano essere assunte, in prima convocazione, «con il voto favorevole di tanti soci che rappresentino più della metà del capitale sociale» (art. 2368, 2° comma), in seconda convocazione, «con il voto favorevole di tanti soci che rappresentino più del terzo del capitale sociale» (art. 2369, 3° comma) e con il voto favorevole di più della metà del capitale sociale per alcune deliberazioni particolarmente importanti (cambiamento dell’oggetto sociale, trasformazione della società, scioglimento anticipato, trasferimento della sede all’estero). E per la terza convocazione, consentita solo nelle quotate, si prevedeva che le deliberazioni fossero assunte «con il voto favorevole di tanti soci che rappresentino più di un quinto del capitale sociale» o di un terzo per le particolari deliberazioni appena ricordate (art. 2369-bis, 2° comma). Il Testo Unico, distingueva fra quorum costitutivi e quorum deliberativi, e mentre stabiliva che i primi dovevano coincidere con quelli, ad un tempo deliberativi e costitutivi, previsti dal codice, identificava i quorum deliberativi con riferimento non più al capitale sociale in assoluto, ma alla quota dello stesso rappresentata in assemblea. A norma, infatti, dell’art. 126, 4° comma, «l’assemblea straordinaria [doveva deliberare], in prima, seconda e terza convocazione, con il voto di almeno i due terzi del capitale rappresentato in assemblea» e «l’atto costitutivo [poteva] richiedere una maggioranza più elevata». La norma rendeva così decisive per l’assunzione della deliberazione anche quelle quote di capitale che non lo sarebbero state se le deliberazioni avessero potuto essere adottate con la semplice maggioranza assoluta del capitale presente che avesse rappresentato anche la quota richiesta come quorum costitutivo. Così, chi avesse detenuto un quinto del capitale sociale avrebbe potuto, da solo, determinare il quorum costitutivo dell’assemblea straordinaria di terza convocazione e avrebbe potuto far adottare (maggioranza assoluta del capitale presente) la relativa deliberazione con i soli suoi voti ogni qual volta la frazione «portata» dagli altri soci fosse stata inferiore.
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La nuova disciplina poteva rendere decisiva la partecipazione anche di queste minoranze, ogni qualvolta il loro voto fosse risultato necessario per il raggiungimento del quorum deliberativo rafforzato e calcolato sul capitale rappresentato. In questo sistema soltanto il possesso dei due terzi dell’intero capitale assicura a priori il quorum deliberativo nelle assemblee straordinarie delle società quotate. Nel momento in cui ancorava i quorum deliberativi al capitale rappresentato in assemblea piuttosto che all’ammontare complessivo dello stesso, il Testo Unico finiva, per altro, anche per consentire che le deliberazioni dell’assemblea delle società quotate potessero essere assunte con il consenso di una frazione del capitale sociale inferiore a quella che sarebbe stata necessaria in precedenza. È ben possibile che, ad es., in prima convocazione i due terzi del capitale rappresentato in assemblea siano inferiori alla metà del capitale sociale, così come, in seconda convocazione, siano inferiori ad un terzo del capitale sociale complessivo. E sotto questo profilo si può anche ritenere che le minoranze che sarebbero state decisive per raggiungere un quorum deliberativo configurato sul capitale sociale complessivo (e coincidente con i quorum deliberativi) si rivelassero, alla stregua di queste nuove norme, irrilevanti. La disciplina introdotta dal Testo Unico può, dunque, essere pensata come uno strumento che tende, ad un tempo, a facilitare l’assunzione di deliberazioni e a premiare le minoranze «attive», che prendono parte ai lavori assembleari, e che non si preoccupa eccessivamente delle minoranze assenti (che sono favorite da norme che determinano i quorum deliberativi sul capitale sociale complessivo, anziché su quello presente in assemblea). La riforma del diritto societario, come si accennava, ha abrogato la disciplina dettata dal Testo Unico, ma ha finito per recepire la logica di quel modello per la generalità delle società per azioni o, quanto meno, per quelle che fanno ricorso al mercato dei capitali e, quindi, anche delle società quotate. Queste le relative disposizioni. «In prima convocazione l’assemblea straordinaria è regolarmente costituita quando è rappresentata almeno la metà del capitale sociale o la maggiore percentuale prevista dallo statuto e delibera con il voto favorevole di almeno i due terzi del capitale rappresentato in assemblea» (art. 2368, 2° comma). Per la seconda convocazione dell’assemblea straordinaria la riforma detta una norma applicabile a tutte le società per azioni, stabilendo che l’assemblea «è regolarmente costituita con la partecipazione di oltre un terzo del capitale sociale e delibera con il voto favorevole di almeno i due terzi del capitale rappresentato in assemblea». Ma poi aggiunge che «nel-
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le società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio è necessario, anche in seconda convocazione, il voto favorevole di tanti soci che rappresentino più di un terzo del capitale sociale per le deliberazioni concernenti il cambiamento dell’oggetto sociale, la trasformazione della società, lo scioglimento anticipato, la proroga della società, la revoca dello stato di liquidazione, il trasferimento della sede sociale all’estero e l’emissione delle azioni di cui al secondo comma dell’art. 2351». Come è evidente, la norma esclude, a contrario, che lo statuto delle società quotate possa introdurre norme che deroghino alla regola secondo la quale in questa categoria di società tutte le deliberazioni dell’assemblea straordinaria devono essere adottate con il voto favorevole dei due terzi del capitale rappresentato in assemblea. La riforma consente, a tutte le società per azioni, di prevedere, nei propri statuti, «eventuali ulteriori convocazioni» per le quali, per altro, troveranno applicazione gli stessi quorum costitutivi e deliberativi previsti per la seconda convocazione. Per le società quotate, come per le altre società che fanno ricorso al mercato dei capitali, l’assemblea straordinaria è regolarmente costituita, nelle convocazioni successive alla seconda, quando è rappresentato almeno un quinto del capitale sociale, salvo che lo statuto richieda una quota di capitale più elevata (art. 2369, 7° comma), mentre non si modifica il quorum deliberativo. Norma, quest’ultima, che vuole consentire la possibilità di deliberare a società con un azionariato molto diffuso e fortemente assenteista. Tende ad eliminare i costi connessi con le assemblee in prima convocazione «andate deserte» la norma, introdotta nell’art. 2369 c.c., secondo la quale «salvo che lo statuto disponga diversamente, le assemblee delle società, diverse dalle società cooperative, che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, si tengono in unica convocazione alla quale si applicano» per l’assemblea ordinaria i quorum previsti per la seconda convocazione e per l’assemblea straordinaria quelli previsti per le convocazioni successive alla seconda. O) La nuova disciplina dei quorum costitutivi e deliberativi dell’assemblea straordinaria delle società quotate non si applica alle società cooperative le cui azioni siano negoziate su un mercato regolamentato. Il Testo Unico lo aveva esplicitamente stabilito nell’art. 126, 5° comma, prendendo atto che l’applicazione di quella disciplina avrebbe reso impossibile assumere una qualsiasi deliberazione nelle società cooperative quotate (ossia, in concreto, nelle banche popolari) per la grande dispersione delle compa-
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gini sociali; del che è consapevole anche il codice civile nel momento in cui ha riconosciuto allo statuto delle società cooperative la piena disponibilità dei quorum assembleari (cfr. art. 2538, 5° comma, c.c.). P) Qualche peculiarità presenta la disciplina dettata per le quotate anche con riferimento alla invalidità delle deliberazioni assembleari, delle quali si cerca di assicurare la stabilità in termini più intensi di quanto si preveda per la generalità delle società per azioni. Così la legittimazione ad impugnare le deliberazioni assembleari delle società quotate (ma più in generale delle società che fanno ricorso al mercato dei capitali), spetta soltanto ai soci che rappresentino almeno l’1 per mille del capitale sociale (art. 2377, 3° comma) e, inoltre, l’invalidità delle deliberazioni di aumento del capitale sociale non può essere pronunciata dopo che, a norma dell’art. 2444, sia stata iscritta nel registro delle imprese l’attestazione che l’aumento è stato anche parzialmente eseguito; l’invalidità della deliberazione di riduzione del capitale, ai sensi dell’art. 2445, e della deliberazione di emissione delle obbligazioni non può essere pronunciata dopo che la deliberazione sia stata anche parzialmente eseguita (art. 2379-ter, 2° comma). 6.2.1. Il voto per corrispondenza Allo scopo di consentire che all’assunzione delle deliberazioni assembleari concorrano anche i soci che non ritengono di intervenire alla relativa riunione, il Testo Unico del 1998 aveva previsto che il diritto di voto potesse essere esercitato anche per corrispondenza. Più esattamente aveva stabilito (art. 127) che «l’atto costitutivo [potesse] prevedere che il voto in assemblea [fosse] esercitato anche per corrispondenza», demandando al potere regolamentare della Consob la determinazione delle «modalità di esercizio del voto e di svolgimento dell’assemblea». La riforma del 2003 ha consentito allo statuto di tutte le società per azioni di ammettere il voto per corrispondenza o in via elettronica (art. 2370, 4° comma). La residua specificità della disciplina dell’istituto, per le quotate, sta nella esistenza della normativa secondaria emanata dalla Consob. Pur prevedendo questa disciplina secondaria, il Testo Unico ha rimesso all’autonomia statutaria la possibilità, per i soci, di esercitare il voto per corrispondenza, o in via elettronica, adottando così una scelta identica a quella prevista per le SICAV, per le quali, come abbiamo constatato, la possibilità di esercitare il voto per corrispondenza è pure rimessa all’atto costitutivo, e diversa da quella in precedenza stabilita per le società privatizzate (dall’art. 5, legge 30 luglio 1974, n. 474 abrogato
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dall’art. 214 T.U. n. 58 del 1998) per le quali era obbligatorio prevedere tale modalità di esercizio del voto. Come è noto, il voto per corrispondenza costituisce un’evidente disapplicazione del metodo collegiale, almeno per quanto concerne il momento dello stesso rappresentato dalla effettiva partecipazione simultanea dei soci alla riunione assembleare. Tale disapplicazione, tuttavia, è giustificata dalla volontà legislativa di estendere la possibilità di concorrere all’assunzione della deliberazione ad azionisti che non avrebbero comunque partecipato alla riunione assembleare e di rendere così più facile il raggiungimento di quorum costitutivi eventualmente previsti, ed è compensata da un ampliamento della informazione assembleare che l’adozione del voto per corrispondenza impone (ad es. preventiva indicazione della proposta che viene sottoposta ai soci); e non si potrebbe neppure escludere una qualche influenza dei soci che hanno votato per corrispondenza sulla direzione del voto degli altri soci, se i voti espressi per corrispondenza potessero essere resi noti in assemblea, come qualche autore ritiene, nel momento in cui viene posto in votazione, il partito di delibera. Come si accennava, il Regolamento Emittenti della Consob (art. 140 ss.) ha stabilito le modalità che debbono essere seguite per l’esercizio del diritto di voto per corrispondenza e nello svolgimento dei lavori assembleari delle società quotate. L’avviso di convocazione dovrà contenere l’avvertenza che il voto può essere esercitato anche per corrispondenza, le modalità e i soggetti presso cui richiedere la scheda e il termine entro il quale quest’ultima deve pervenire al destinatario; copia dell’avviso deve essere inviata dalla società emittente alla società di gestione accentrata; questa ne informa i depositari che, a loro volta, ne danno comunicazione agli azionisti. L’informazione degli azionisti sul loro diritto di esercitare il voto per corrispondenza è affidata anche, se non soprattutto, al comportamento della società di gestione accentrata e degli intermediari depositari. Documento cardine per l’esercizio del diritto di voto è la «scheda di voto», che l’emittente, anche tramite i depositari, deve consegnare a chiunque, legittimato a partecipare all’assemblea (legittimazione attestata dalla certificazione della società di gestione accentrata rilasciata dall’intermediario), ne faccia richiesta. La scheda di voto è predisposta in modo da garantire la segretezza del voto fino all’inizio dello scrutinio e contiene l’indicazione della società emittente, degli estremi della riunione assembleare, delle generalità del titolare del diritto di voto con la specificazione del numero di azioni possedute, delle proposte di deliberazione, l’espressione del voto, la data e la sottoscrizione.
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La scheda di voto deve, comunque, contenere sempre la proposta di deliberazione (e nel caso in cui la convocazione avvenga ad opera del collegio sindacale e della minoranza compete loro il diritto e l’onere di formularla), deve permettere l’espressione del voto (favorevole, contrario o astenuto) consentita, per altro, solo al titolare del relativo diritto (e non anche a un delegato dal medesimo). Il socio può, tuttavia, rispedire la scheda «in bianco», nel quale caso lo stesso si intende astenuto. La scheda deve pervenire alla società emittente, anche tramite i depositari, «entro il giorno precedente l’assemblea» (art. 141, 2° comma, Regolamento Emittenti) e fino al giorno precedente il voto espresso per corrispondenza può essere revocato, ponendolo così nel nulla. I voti espressi per corrispondenza sono computati al fine della determinazione dell’eventuale quorum costitutivo e debbono restare segreti (nella custodia del collegio sindacale) fino «all’inizio dello scrutinio», ossia, almeno secondo i più, a partire dalla chiusura della discussione assembleare. A differenza di quanto prevedeva il regolamento dettato per le società privatizzate, in assemblea può essere sottoposta a votazione una proposta di delibera diversa da quella sulla quale il socio ha espresso il proprio voto per corrispondenza. La potestà deliberativa dell’assemblea non viene più coartata dal fatto che ai soci è stata trasmessa una particolare proposta. Tale eventualità deve, tuttavia, essere contemplata nella scheda di voto e il socio può, già in quella sede, esprimere la propria volontà scegliendo fra «a) la conferma del voto già espresso; b) la modifica del voto già espresso o l’esercizio del voto indicando l’astensione, il voto contrario o il voto favorevole alle proposte di deliberazione espresse da un organo amministrativo o da altro azionista; c) la revoca del voto già espresso con gli effetti previsti dall’articolo 138, comma 6. In assenza di una manifestazione di volontà, si intende confermato il voto già espresso». Le regole del metodo collegiale risultano derogate in misura anche più accentuata dall’utilizzo dei mezzi elettronici per l’esercizio del diritto di voto. A norma infatti dell’art. 143-bis del Regolamento Emittenti «lo statuto può prevedere l’utilizzo di mezzi elettronici al fine di consentire una o più delle seguenti forme di partecipazione all’assemblea: a) la trasmissione in tempo reale dell’assemblea; b) l’intervento in assemblea da altra località mediante sistemi di comunicazione in tempo reale a due vie;
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c) l’esercizio del diritto di voto prima dell’assemblea o durante il suo svolgimento, senza che sia necessario designare un rappresentante fisicamente presente alla stessa». 6.2.2. Le deleghe di voto A) Il Testo Unico del 1998 aveva operato due interventi importanti in materia di deleghe di voto, ossia in materia di «conferimento della rappresentanza per l’esercizio del diritto di voto nelle assemblee», secondo la definizione che della delega di voto dà tuttora lo stesso Testo Unico (cfr. art. 136, 1° comma, lett. a)). Il primo, comune alle società non quotate e che qui viene ricordato solo per memoria, consistette nella eliminazione della norma, introdotta dalla legge n. 216 del 1974 nell’art. 2372, 4° comma, c.c. allora vigente, che vietava alle banche di essere delegate ad esercitare il diritto di voto: una concezione meno rigida del rapporto banca-impresa, una disciplina delle deleghe capace di porre fine alla connivenza fra amministratori e banche nell’esercizio del diritto di voto e la massiccia presenza delle banche nella gestione del risparmio e nella prestazione dei servizi di investimento hanno suggerito di eliminare un divieto ritenuto non più giustificato. Ma il più importante intervento concerneva la «sollecitazione» e la «raccolta» delle deleghe; materie sulle quali è intervenuto il D.Lgs. n. 27 del 2010 ed è su queste che concentreremo l’attenzione. Per sollecitazione delle deleghe si intende la «richiesta di conferimento di deleghe di voto rivolta a più di duecento azionisti su specifiche proposte di voto ovvero accompagnate da raccomandazioni, dichiarazioni o altri indicazioni idonee a influenzare il voto» (art. 136, 1° comma, lett. b)) da parte di un «promotore», ossia da parte di un soggetto o di più soggetti che congiuntamente «promuovono la sollecitazione» (art. 136, 1° comma, lett. c)), mentre per «raccolta di deleghe» si intende la richiesta di conferimento di deleghe di voto accompagnata da raccomandazioni, dichiarazioni o altre indicazioni idonee a influenzare il voto rivolta ai propri associati dalle associazioni di azionisti (art. 141, 1° comma, T.U.). L’analisi delle rispettive discipline consentirà di cogliere meglio la differenza fra «sollecitazione» delle deleghe e «raccolta» delle deleghe, per altro disciplinate per larga parte negli stessi termini. Qui vorremmo solo sottolineare che, mentre la sollecitazione tende ad acquisire adesioni ad una proposta di delibera formulata dal promotore (normalmente un socio titolare di una partecipazione consistente), la raccolta tende piuttosto a rendere possibile ai piccoli azionisti di concorrere alla formazione della volontà assembleare indipendentemente
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dal fatto che gli stessi siano contrari o favorevoli ad una determinata proposta: come chiarisce il fatto che l’associazione non cerca consensi su una proposta, ma sollecita la delega, rimanendo gli azionisti liberi di esprimersi a favore o contro l’approvazione di una particolare deliberazione e con l’obbligo, per l’associazione, di attenersi alle decisioni espresse dal socio nella delega di voto. B) Il D.Lgs. n. 27 del 2010 ha ampliato l’ambito dei possibili rappresentanti in deroga a quanto previsto dal diritto comune: l’art. 2372, 5° comma, c.c. stabilisce che «la rappresentanza non può essere conferita né ai membri degli organi amministrativi o di controllo o ai dipendenti della società, né alle società da esse controllate o ai membri degli organi amministrativi o di controllo o ai dipendenti di queste». Il nuovo art. 135-decies ha eliminato tale divieto nell’ambito di una più generale valutazione del conflitto di interessi fra rappresentato e rappresentante. Più esattamente, la nuova norma stabilisce che «il conferimento di una delega ad un rappresentante in conflitto di interessi è consentito purché il rappresentante comunichi per iscritto al socio le circostanze da cui deriva tale conflitto e purché vi siano specifiche istruzioni di voto per ciascuna delibera in relazione alla quale il rappresentante dovrà votare per conto del socio. Spetta al rappresentante l’onere della prova di aver comunicato al socio le circostanze che danno luogo al conflitto d’interessi». E la stessa norma tipizza alcuni casi di conflitto di interessi indicando che ricorre tale conflitto, tra l’altro, quando il rappresentante: a) controlli, anche congiuntamente, la società o ne sia controllato, anche congiuntamente, ovvero sia sottoposto a comune controllo con la società; b) sia collegato alla società o eserciti un’influenza notevole su di essa ovvero quest’ultima eserciti sul rappresentante un’influenza notevole; c) sia un componente dell’organo di amministrazione o di controllo della società o dei soggetti indicati alle lett. a) e b); d) sia un dipendente o un revisore della società o dei soggetti indicati alla lett. a). C) La «sollecitazione» e la «raccolta» di deleghe perseguono scopi che, al di là della loro intrinseca diversità, vengono considerati dal legislatore importanti per il governo delle società quotate: la sollecitazione può costituire uno strumento per rafforzare il consenso attorno ad una scelta imprenditoriale, la raccolta può comunque rendere significativo il
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ruolo di azionisti altrimenti esclusi dal procedimento di formazione della volontà assembleare. Il Testo Unico ha ritenuto che quegli obiettivi rappresentino un vincolo per l’autonomia privata nel momento in cui ha stabilito che «le clausole statutarie che limitano in qualsiasi modo la rappresentanza nelle assemblee non si applicano alle deleghe di voto conferite» a seguito di una sollecitazione. Mentre gli eventuali vincoli statutari (ad es. un limite massimo alle procure conferibili ad un solo socio o addirittura il divieto di delega) si applicheranno anche nelle società quotate quando le deleghe vengano conferite al di fuori di una «sollecitazione» o di una «raccolta». D) Il Testo Unico del 1998 prevedeva che lo statuto potesse contenere «disposizioni dirette a facilitare la raccolta delle deleghe di voto presso gli azionisti dipendenti» (art. 137, 3° comma); la norma non trovava applicazione, dunque, per la sollecitazione delle deleghe ma solo per la raccolta fra gli appartenenti alle associazioni di azionisti. Il D.Lgs. n. 27 del 2010 ha esteso questa possibilità anche alla sollecitazione delle deleghe, stabilendo (art. 137, 3° comma) che «lo statuto può prevedere disposizioni dirette a facilitare l’espressione di voto tramite deleghe da parte degli azionisti dipendenti». E) Il legislatore ha ritenuto che le norme sulla sollecitazione e sulla raccolta delle deleghe nelle società quotate non si applichino alle società cooperative i cui titoli siano quotati in un mercato regolamentato, per le quali, quindi, continueranno a trovare applicazione le norme codicistiche (art. 2534) e i vincoli statutari. L’esonero (che di fatto riguarda esclusivamente le banche popolari) trova la propria probabile giustificazione nella necessità di evitare che attraverso la sollecitazione e la raccolta delle deleghe si formino concentrazioni di potere incompatibili con il carattere diffuso che il voto pro capite dovrebbe presentare. F) Ma vediamo più da vicino le norme che il Testo Unico (artt. 136-144) e la Consob (artt. 132-138 Regolamento Emittenti) hanno dettato rispettivamente per la «sollecitazione» e per la «raccolta» delle deleghe di voto. La «sollecitazione» è effettuata da un «promotore» mediante la diffusione di un prospetto e di un modulo di delega (così l’art. 138, 1° comma, T.U.). Il Testo Unico del 1998 prevedeva che vi fosse un soggetto (il committente) che assumeva l’iniziativa di promuovere una sollecitazione di deleghe di voto e un intermediario che effettuava, in concreto, la sollecita-
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zione delle deleghe presso la generalità dei soci «su incarico del primo». E imponeva requisiti per l’assunzione sia del ruolo di committente sia della funzione di intermediario. Il committente doveva «possedere azioni che gli consentissero l’esercizio del diritto di voto nell’assemblea per la quale è richiesta la delega in misura almeno pari all’uno per cento del capitale sociale rappresentato da azioni con diritto di voto nella stessa» e la Consob doveva «stabilire per società a elevata capitalizzazione e ad azionariato particolarmente diffuso percentuali di capitale inferiori» (art. 139, 1° comma, T.U.). Inoltre il committente, secondo il dettato originario del Testo Unico, doveva «risultare iscritto da almeno sei mesi nel libro dei soci per la medesima quantità di azioni». Il committente non poteva essere dunque un non socio come in altri sistemi, ma anzi doveva essere un socio «consistente» e, per di più, «non occasionale», ossia diventato tale soprattutto allo scopo di incidere sulla deliberazione assembleare in questione. Il D.Lgs. n. 303 del 2006 aveva eliminato quest’ultima condizione e, quindi, il committente doveva pur sempre essere un socio «consistente», ma poteva essere anche un socio «occasionale». Il D.Lgs. n. 27 del 2010 ha liberalizzato sul punto questo sistema sotto due aspetti: a) non è più necessario l’inserimento di un intermediario e la sollecitazione può essere direttamente effettuata dal promotore e b) quest’ultimo può essere sia un socio sia un soggetto non socio sia lo stesso emittente. Può assumere il ruolo di promotore anche una pluralità di soci che operino «congiuntamente» (v. art. 136, 1° comma, lett. c), T.U.); e il previo accordo sulla proposta da sottoporre ai soci non integra un patto parasociale soggetto alle norme previste dal Testo Unico, data la «transitorietà» dell’accordo. Potranno esserlo anche gli amministratori e i sindaci o i dipendenti della società. La liberalizzazione della sollecitazione delle deleghe non pare intervenuta sotto un diverso profilo. Era convincimento comune, prima delle modificazioni introdotte dal D.Lgs. n. 27 del 2010, che la sollecitazione tendesse a raccogliere le deleghe di voto su un particolare partito di delibera. Si è dubitato che tale caratteristica sia stata mantenuta dal D.Lgs. n. 27 del 2010, potendosi ritenere che la sollecitazione possa avvenire anche senza indicare la proposta di voto, consentendo al delegato di votare sia a favore sia contro o astenersi su un determinato partito di delibera, ma questa possibilità sembra esclusa dall’art. 136, T.U.F. nel momento in cui definisce la sollecitazione «la richiesta di conferimento di deleghe … su specifiche proposte di voto».
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La sollecitazione prende, dunque, avvio attraverso la diffusione di un prospetto, redatto secondo il modello previsto dalla Consob; prospetto che deve identificare il promotore, l’emittente, la data di convocazione dell’assemblea, gli argomenti all’ordine del giorno, le proposte di voto per le quali si sollecitano le deleghe di voto e la data a partire dalla quale gli azionisti possono ritirare il modulo di delega, anch’esso redatto, in conformità con il modello previsto dalla Consob. Per il conferimento della delega l’azionista trasmette il modulo di delega insieme con la certificazione (della società di gestione accentrata) attestante il diritto dello stesso ad esercitare il diritto di voto nell’assemblea per la quale è richiesta la delega. La delega di voto è revocabile (con dichiarazione portata a conoscenza almeno il giorno precedente l’assemblea), può essere conferita solo per singole assemblee già convocate, con effetto per altro per le eventuali successive convocazioni; non può essere rilasciata in bianco e deve indicare la data di conferimento della rappresentanza, il nome del delegato e le istruzioni di voto. Come si è ricordato, nella sollecitazione è offerta all’azionista soltanto la possibilità di aderire alla proposta di voto formulata dal promotore e, quindi, non si pongono i problemi, di tutela dell’azionista delegante nei confronti dell’uso spregiudicato del voto, che si pongono negli ordinamenti che consentono all’azionista sollecitato anche la possibilità di astensione e di voto contrario. Gli unici problemi concernono l’ipotesi in cui la sollecitazione sia avvenuta soltanto su alcuni argomenti dell’ordine del giorno (nel qual caso l’azionista può esprimere nel modulo di delega il proprio voto anche sugli argomenti per i quali non è stata sollecitata la delega) e l’ipotesi in cui venga sottoposta all’assemblea, come è pur possibile, una delibera diversa da quella per la quale il socio ha conferito delega (per tale eventualità il modulo di voto deve consentire al socio di dichiarare la propria volontà di astenersi o di votare secondo le proposte o del consiglio di amministrazione o di altro azionista). Il diritto di voto in assemblea viene esercitato dal promotore in nome e per conto dei deleganti. Il promotore non avrà soltanto il diritto di esercitare il diritto di voto relativo alle azioni per le quali ha ricevuto delega, ma anche il dovere di farlo in quanto mandatario dei deleganti e, come si accennava, dovrà farlo secondo le istruzioni ricevute anche per gli argomenti dell’ordine del giorno non oggetto della sollecitazione. G) La raccolta delle deleghe di voto è consentita, come si è già accennato, alle «associazioni di azionisti» che
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«a) sono costituite con scrittura privata autenticata; b) non esercitano attività di impresa, salvo quelle direttamente strumentali al raggiungimento dello scopo associativo; c) siano composte da almeno cinquanta persone fisiche ciascuna delle quali è proprietaria di un quantitativo di azioni non superiore allo 0,1 per cento del capitale sociale rappresentato da azioni con diritto di voto» (cfr. art. 141, 1° comma, T.U. n. 58 del 1998). La norma tende a facilitare il concorso dei piccoli azionisti alla formazione delle deliberazioni dell’assemblea, riducendo i costi connessi con tale concorso attraverso la creazione di un punto di riferimento organizzativo che non deve, per altro, incidere sulla libertà del socio di determinare come meglio ritiene il proprio voto. Il legislatore pretende che la composizione dell’associazione sia certa (la costituzione, ben possibile anche per atto pubblico, deve essere documentata attraverso una scrittura privata autenticata con individuazione sicura degli azionisti associati); che l’associazione non svolga, oltre alla attività di raccolta delle deleghe e alla rappresentanza in assemblea dei propri associati e all’esercizio di altri loro diritti sulla base del diritto comune, attività d’impresa diverse da quelle strumentali alle prime (come ad es.: la diffusione di notizie inerenti alla società o la consulenza ed assistenza ai soci e, più in generale, attività, non d’impresa, di informazione economica); che la stessa non costituisca uno strumento al servizio dei grandi azionisti (ed è infatti riservata agli azionisti la cui partecipazione non superi l’uno per mille delle azioni con diritto di voto) e che abbia una sufficiente rappresentatività (deve essere composta da almeno cinquanta soci, soltanto persone fisiche). Il Regolamento Emittenti impose in un primo tempo alle associazioni regole di trasparenza, per alcuni aspetti analoghe a quelle previste per i patti parasociali (pubblicazione su un quotidiano a diffusione nazionale e comunicazione alla società emittente di un «estratto» con le seguenti informazioni: a) società i cui azionisti aderiscono all’associazione; b) numero degli associati e percentuale di capitale rappresentata dalle azioni dagli stessi complessivamente possedute; c) scopo, modalità di funzionamento e durata dell’associazione; d) requisiti e modalità per aderire all’associazione), ma la mancata osservanza di tali forme di pubblicità non comportava né la nullità dell’atto costitutivo né la sospensione del diritto di voto, come per i patti parasociali. Il che, tuttavia, è vero solo se il rapporto associativo non integra una della fattispecie di patti parasociali previsti dal Testo Unico. L’associazione di azionisti doveva inoltre comunicare, entro sette giorni dalla data di convocazione dell’assemblea di bilancio, alla società un
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elenco contenente l’indicazione aggiornata delle generalità degli associati e del numero delle azioni dagli stessi possedute (cfr. art. 132 Regolamento Emittenti). E analoga comunicazione doveva indirizzare alla società di gestione del mercato, «che ne cura la diffusione». Tutte queste norme regolamentari sono state abrogate da Consob con delibera n. 17592 del 14 dicembre 2010 e non è evidente la ragione di tale abrogazione. L’associazione che intenda promuovere una raccolta di deleghe nei confronti dei propri associati deve darne notizia con comunicato stampa e deve informarne la Consob, la società emittente e la società di gestione del mercato. La raccolta viene effettuata direttamente dall’associazione e senza la pubblicazione di alcun prospetto, come previsto per la sollecitazione, ma attraverso la consegna agli associati della documentazione predisposta dall’emittente in vista dell’assemblea e del modulo di delega. A differenza di quanto previsto per la sollecitazione, gli associati potranno esprimere sia un voto favorevole sia un voto contrario alla proposta sulla quale viene chiamata a deliberare l’assemblea sia astenersi sulla stessa, fermo restando anche il diritto dell’azionista di non conferire alcuna delega. Il Testo Unico del 1998 precisava che la delega doveva venire rilasciata «ai legali rappresentanti dell’associazione» (art. 141, 3° comma, T.U. n. 58 del 1998) e che questi avrebbero potuto votare, senza incontrare i vincoli quantitativi previsti dall’art. 2372 c.c., «anche in modo divergente, in conformità delle indicazioni espresse da ciascun associato nel modulo di delega» (art. 141, 4° comma, T.U. n. 58 del 1998). Il decreto ha abrogato tali norme, evidentemente ritenendole superflue. H) II Testo Unico detta poi alcune norme che specificano i doveri che incombono sul promotore nella sollecitazione di deleghe e prevede un particolare regime probatorio per il relativo giudizio. Così, dopo aver stabilito che «le informazioni contenute nel prospetto o nel modulo di delega e quelle eventualmente diffuse nel corso della sollecitazione devono essere idonee a consentire all’azionista di assumere una decisione consapevole» (art. 143, 1° comma, T.U. n. 58 del 1998), precisa che di tale idoneità risponde il promotore. Come è ovvio, il Testo Unico disciplina un’ipotesi particolare di responsabilità (quella derivante dall’obbligo di corretta informazione degli azionisti) e alla stessa si potranno aggiungere le ipotesi in cui la responsabilità può derivare dal diritto comune: così si potrà profilare una responsabilità contrattuale per un esercizio infedele del diritto di voto da parte del promotore o dei legali rappresentanti dell’associazione.
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Ma è soltanto per i giudizi relativi alla violazione delle regole fissate dal Testo Unico per la sollecitazione e non anche per i giudizi aventi ad oggetto la violazione di obblighi che derivano dal diritto comune che il Testo Unico prevede un particolare regime degli oneri probatori. Lo stesso stabilisce, infatti (art. 143, 3° comma), che «nei giudizi di risarcimento dei danni derivanti da violazione delle disposizioni della presente sezione e delle relative norme regolamentari spetta al promotore l’onere della prova di avere agito con la diligenza richiesta». L’azionista dovrà, quindi, provare il danno subito, il nesso di causalità fra lo stesso e la condotta del promotore, nonché la violazione da parte del medesimo di una delle regole fissate dal Testo Unico o dalle norme regolamentari, e non anche che la violazione era addebitabile a sua colpa o dolo; il promotore potrà liberarsi solo provando di aver agito con la diligenza richiesta. La norma è analoga a quella dettata a proposito della responsabilità delle imprese di investimento e delle banche nello svolgimento dei servizi di investimento (art. 23, 6° comma, T.U. n. 58 del 1998). La responsabilità per la violazione delle norme che impongano completezza e idoneità dell’informazione che deve essere fornita agli azionisti nei confronti dei quali sia stata promossa la sollecitazione, sembra possa essere qualificata, almeno nella massima parte delle ipotesi, come responsabilità precontrattuale, sorgendo nella fase prodromica al conferimento della delega. E in queste ipotesi non si può dire che la norma in esame abbia rovesciato l’onere della prova: già sulla base della disciplina prevista dal diritto comune, sarebbe stato onere del «debitore» provare che l’inadempimento non era imputabile a sua colpa o dolo. Il rovesciamento dell’onere probatorio sussiste, invece, per le ipotesi di responsabilità extracontrattuale, dal momento che le norme di diritto comune avrebbero addossato all’azionista l’onere di provare «la colpa o il dolo nell’autore dell’illecito». I) Il D.Lgs. n. 27 del 2010 ha previsto che la delega all’esercizio del diritto di voto possa essere attribuita anche al «rappresentante designato dalla società con azioni quotate». Più esattamente, l’art. 135-undecies stabilisce che se «lo statuto non dispone diversamente «le società con azioni quotate designano per ciascuna assemblea un soggetto al quale i soci possono conferire, entro la fine del secondo giorno di mercato aperto precedente la data fissata per l’assemblea anche in una convocazione successiva alla prima, una delega con istruzioni di voto su tutte o alcune delle proposte all’ordine del giorno. La delega ha effetto per le sole proposte in relazione alle quali siano conferite istruzioni di voto».
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È dunque un servizio che la società quotata offre ai propri azionisti, servizio fornito gratuitamente («il conferimento della delega non comporta spese per il socio»), ma che può nascondere anche pericoli di manipolazione da parte della società e possibili conflitti di interesse nei quali può trovarsi il rappresentante. Per far fronte a questi pericoli il T.U.F. prevede che la delega venga conferita «mediante sottoscrizione di un modulo il cui contenuto è disciplinato dalla Consob» e impone al rappresentante doveri di trasparenza e di correttezza: egli infatti «è tenuto a comunicare eventuali interessi che per conto proprio o di terzi abbia rispetto alle proposte di delibera all’ordine del giorno» e «mantiene altresì la riservatezza sul contenuto delle istruzioni di voto ricevute fino all’inizio dello scrutinio, salva la possibilità di comunicare tali informazioni ai propri dipendenti e ausiliari, i quali sono soggetti al medesimo dovere di riservatezza».
6.3. Amministrazione e controllo interno La riforma del diritto societario del 2003 ha, come è noto, previsto tre modelli per l’amministrazione ed il controllo interno delle società per azioni: quello tradizionale, quello monistico e quello dualistico. Il D.Lgs. n. 37 del 2004 ha stabilito che le società quotate possono adottare, accanto al modello tradizionale, anche quelli alternativi, dettando alcune disposizioni che ne consentissero la concreta applicazione senza compromettere le scelte di fondo effettuate dal Testo Unico. Anche per le società quotate, come per tutte le società per azioni, la scelta dell’uno o dell’altro modello comporta una distribuzione diversa delle funzioni di amministrazione e di controllo; per le quotate la stessa non incide invece sul controllo legale dei conti, comunque riservato ad una società di revisione «esterna». La riforma del 2003 non ha dettato per il controllo e per l’amministrazione delle società quotate norme molto diverse da quelle di diritto comune. Interventi piuttosto consistenti sul sistema di amministrazione e di controllo delle società quotate sono stati effettuati dalla c.d. legge di tutela del risparmio (legge n. 262 del 2005) che ha cercato, in verità in modo talvolta molto maldestro, di contenere il rischio di comportamenti di «malgoverno» come quelli emersi nell’ambito dei crolli finanziari dei primi anni Duemila. Questi interventi hanno interessato: a) il consiglio di amministrazione e il collegio sindacale del modello tradizionale e i cor-
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rispondenti organi dei modelli alternativi; b) il controllo legale dei conti e c) la redazione dei documenti contabili societari. Le linee alle quali, sia pure in termini talvolta contraddittori, sembrano ispirarsi questi interventi, possono così essere riassunte: a) si vuole consentire che anche le minoranze possano essere rappresentate negli organi gestori; b) si impongono vincoli ai piani di remunerazioni in azioni degli amministratori; c) si cerca di rendere più efficiente e più indipendente il controllo dei sindaci; d) si introducono norme dirette ad evitare che il controllo della società di revisione sia inficiato da possibili conflitti di interesse; e) si estende la responsabilità per la corretta redazione dei documenti contabili alla tecnostruttura societaria che provvede alla loro effettiva formazione. 6.3.1. Il modello tradizionale: l’amministrazione Il modello tradizionale (consiglio di amministrazione e collegio sindacale) era l’unico modello disponibile per le società per azioni nel momento in cui fu emanato il Testo Unico del 1998. A) La delega sulla base della quale fu emanato il Testo Unico, prevedeva un intervento sulla struttura e sulle funzioni del collegio sindacale, ma non ricomprendeva fra le materie sulle quali il governo era delegato a legiferare quella degli amministratori. Naturalmente molte norme del Testo Unico coinvolgevano gli amministratori (ad es.: con riferimento alla norma sulla convocazione dell’assemblea da parte della minoranza), imponendo doveri ignoti agli amministratori delle società non quotate (ad es.: in termini di informazione al mercato e alla Consob o al collegio sindacale). Ma si trattava di norme che non incidevano, se non indirettamente, sull’organizzazione dell’organo amministrativo. L’unica norma di grande rilievo, considerata come strumento di tutela della minoranza, dedicata agli amministratori era quella che introduceva anche nel nostro ordinamento «l’azione sociale di responsabilità» da parte di una minoranza di soci. Ciononostante, negli anni successivi alla emanazione del Testo Unico la disciplina delle società quotate, anche per quanto concerne gli organi amministrativi, si era venuta differenziando da quella di diritto comune soprattutto per gli interventi del Codice di autodisciplina e per le indicazioni della Consob. Il Codice di autodisciplina delle società quotate, predisposto nel 1999 dalla Borsa italiana S.p.A., sulla scia di numerose ed importanti esperienze di altri paesi, aveva indicato le linee alle quali le società quotate avreb-
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bero dovuto attenersi nel disciplinare la struttura e le funzioni dell’organo amministrativo. In particolare il Codice, dopo avere sottolineato che è compito del consiglio di amministrazione la individuazione delle linee strategiche dell’impresa, suggeriva che lo stesso fosse composto sia da amministratori esecutivi (amministratore delegato e comitato esecutivo) sia da amministratori non esecutivi e che questi ultimi dovessero essere «per numero e autorevolezza tali da garantire che il loro giudizio possa avere un peso significativo nell’assunzione delle decisioni consiliari»; avrebbe poi dovuto esservi un numero adeguato di amministratori non esecutivi indipendenti, ossia non legati significativamente al gruppo di controllo e non titolari di rilevanti partecipazioni nella società amministrata; si considerava, infine, opportuna la creazione, all’interno del consiglio, di comitati per la determinazione dei compensi degli organi delegati e per la supervisione del controllo interno e delle relazioni con le società di revisione (audit committee). Anche la Consob, ha contribuito a disegnare la disciplina degli organi amministrativi delle società quotate in termini più articolati di quelli previsti dal diritto comune. Il che è avvenuto soprattutto per quanto concerne i rapporti fra organi delegati e consiglio di amministrazione e tra quest’ultimo e il collegio sindacale, in materia di operazioni compiute dagli amministratori sui titoli delle società amministrate (internal dealing) e le operazioni con parti correlate, ossia con soggetti che potrebbero trovarsi in una posizione di conflitto di interessi con la società (comunicazione 30 settembre 2002, n. 2064231). Ma, come si accennava, il tratto più significativo della disciplina degli amministratori delle società quotate introdotto dal Testo Unico era rappresentato dalla norma che consentiva ad una minoranza di soci di esercitare nei confronti degli amministratori l’azione sociale di responsabilità. L’art. 129, 1° comma, T.U. stabiliva, infatti, che «tanti soci, iscritti da almeno sei mesi nel libro dei soci, che rappresenta[ssero] almeno il cinque per cento del capitale sociale o la minore percentuale stabilita nell’atto costitutivo, [potevano] esercitare l’azione sociale di responsabilità contro gli amministratori, i sindaci e i direttori generali, anche se la società [fosse stata] in liquidazione». Il Testo Unico voleva così impedire che le norme sulla responsabilità degli amministratori e, in particolare, la loro capacità deterrente nei confronti di comportamenti non attenti all’interesse della società restassero lettera morta; il che succede, come è ben noto, quando la deliberazione di promuovere l’azione di responsabilità sia subordinata ad una decisione in tal senso della maggioranza, ossia degli stessi soci che hanno nominato gli amministratori, nei confronti dei quali l’azione dovrebbe es-
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sere promossa. La previsione in esame avrebbe dovuto consentire anche alla minoranza di agire per ottenere la condanna di amministratori, sindaci e direttori generali della società al risarcimento, a favore di quest’ultima, del danno che la stessa avesse subìto da comportamenti illegittimi dei medesimi; possibilità allora negata alla minoranza nelle società per azioni non quotate. La riforma societaria ha abrogato la norma speciale dettata dal Testo Unico recependo, per altro, il suo contenuto nel codice civile (art. 2393bis), in termini sostanzialmente identici per tutte le società che fanno ricorso al mercato dei capitali e, quindi, anche per le quotate e con la introduzione di qualche cautela in più per le non quotate. È necessario ricordare che la legge n. 262 del 2005 ha inserito nell’art. 2393 c.c. una norma, applicabile anche alle quotate, che riconosce al collegio sindacale il potere di deliberare, con il consenso dei due terzi dei sindaci, la promozione dell’azione sociale di responsabilità nei confronti degli amministratori. B) Le norme dettate dalle riforme del diritto societario rilevanti per l’amministrazione delle società quotate che abbiano adottato il modello tradizionale sono marginali. Ciò non toglie che alcune norme di diritto comune trovino proprio nelle società quotate il loro naturale, se non privilegiato, campo di applicazione. Così, per quanto concerne i requisiti per l’assunzione della carica di amministratore, sarà soprattutto nelle quotate che potrà assumere qualche rilevanza la norma (art. 2387) che consente allo statuto di «subordinare l’assunzione della carica di amministratore al possesso di speciali requisiti di onorabilità, professionalità ed indipendenza, anche con riferimento ai requisiti al riguardo previsti da codici di comportamento redatti da associazioni di categoria o da società di gestione di mercati regolamentati». Così come avrà modo di trovare applicazione soprattutto nelle società quotate la netta distinzione di funzioni e di responsabilità fra organi delegati e consiglieri non delegati fissata dall’art. 2381, 5° comma, c.c. Questa norma stabilisce infatti che «gli organi delegati curano che l’assetto organizzativo, amministrativo e contabile sia adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa e riferiscono al consiglio di amministrazione e al collegio sindacale, con la periodicità fissata dallo statuto e in ogni caso almeno ogni sei mesi, sul generale andamento della gestione e sulla sua prevedibile evoluzione nonché sulle operazioni di maggior rilievo, per le loro dimensioni o caratteristiche, effettuate dalla società e dalle sue controllate».
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Mentre il consiglio «sulla base delle informazioni ricevute valuta l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società; quando elaborati, esamina i piani strategici, industriali e finanziari delle società; valuta, sulla base della relazione degli organi delegati, il generale andamento della gestione». Ma si tratta, come è evidente, di peculiarità che vengono imposte dalla realtà economica ancor prima che dall’ordinamento. C) Una disciplina che ha come destinatari tutte le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, ma che avrà modo di trovare una naturale e compiuta applicazione soprattutto con riferimento alle società quotate è quella relativa alle «operazioni con parti correlate». A norma dell’art. 2391-bis, 1° comma, c.c., «gli organi di amministrazione delle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio adottano, secondo principi generali indicati dalla Consob, regole che assicurano la trasparenza e la correttezza sostanziale e procedurale delle operazioni con parti correlate e li rendono noti nella relazione sulla gestione». La Consob, con delibera 17221 del 12 marzo 2010, ha dettato un’articolata disciplina regolamentare delle operazioni correlate. Queste le linee di fondo di questa disciplina, che tende a contenere i conflitti di interesse, soprattutto all’interno dei gruppi di società. Il Regolamento operazioni con parte correlate della Consob fissa, anzitutto, le nozioni di «parti correlate» e di «operazioni con parti correlate». «Un soggetto» è considerato «parte correlata a una società se (a) direttamente, o indirettamente, anche attraverso società controllate, fiduciari o interposte persone: (i) controlla la società, ne è controllato, o è sottoposto a comune controllo; (ii) detiene una partecipazione nella società tale da poter esercitare un’influenza notevole su quest’ultima; (iii) esercita il controllo sulla società congiuntamente con altri soggetti; (b) è una società collegata della società; (c) è una joint venture in cui la società è una partecipante; (d) è uno dei dirigenti con responsabilità strategiche della società o della sua controllante; (e) è uno stretto familiare di uno dei soggetti di cui alle lettere (a) o (d); (f) è un’entità nella quale uno dei soggetti di cui alle lettere (d) o (e) esercita il controllo, il controllo congiunto o l’influenza notevole o detie-
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ne, direttamente o indirettamente, una quota significativa, comunque non inferiore al 20%, dei diritti di voto; (g) è un fondo pensionistico complementare, collettivo od individuale, italiano od estero, costituito a favore dei dipendenti della società, o di una qualsiasi altra entità ad essa correlata». E «per operazione con una parte correlata, si intende qualunque trasferimento di risorse, servizi o obbligazioni fra parti correlate, indipendentemente dal fatto che sia stato pattuito un corrispettivo. Si considerano comunque incluse: – le operazioni di fusione, di scissione per incorporazione o di scissione in senso stretto non proporzionale, ove realizzate con parti correlate; – ogni decisione relativa all’assegnazione di remunerazioni e benefici economici, sotto qualsiasi forma, ai componenti degli organi di amministrazione e controllo e ai dirigenti con responsabilità strategiche». Nell’ambito delle operazioni con parti correlate il Regolamento Consob prevede la distinzione fra «operazioni di maggior rilevanza» e «operazioni di minor rilevanza», dettando poi discipline diverse per le due categorie di operazioni. La distinzione fra le operazioni, rispettivamente di maggiore e minore rilevanza, è rimessa, in linea di principio alla decisione del consiglio di amministrazione, imponendosi, per altro, la qualificazione di maggior rilevanza quando risulti superiore alla soglia del 5 per cento almeno uno dei seguenti indici di rilevanza: a) indice di rilevanza del controvalore, dato dal rapporto fra il controvalore dell’operazione e il patrimonio netto della società; b) indice di rilevanza dell’attivo, dato dal rapporto tra «il totale attivo dell’operazione» e il «il totale attivo della società» e c) l’indice di rilevanza delle passività, dato dal rapporto fra il totale delle passività dell’entità acquisita e il totale attivo della società. Come si accennava, le regole dettate da Consob per le operazioni con parti correlate, sono diverse a seconda che l’operazione sia di maggiore o di minore rilevanza. In entrambe le discipline giocano un ruolo importante gli amministratori «indipendenti». E il Regolamento Consob si preoccupa di indicare quali amministratori possano essere definiti indipendenti, ritenendo essenzialmente tali: a) gli amministratori in possesso dei requisiti previsti dall’art. 148, 3° comma per i sindaci e b) gli amministratori che vengano considerati tali dai codici di comportamento promossi dalle società di gestione dei mercati o da associazioni di categorie ai quali la società dichiari di attenersi (e per le società quotate italiane trova applicazione il codice di autodisciplina elaborato da Borsa italiana e più volte richiamato).
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Sia per le operazioni di maggior rilevanza sia per quelle di minor rilevanza, si prevede l’intervento degli amministratori indipendenti, ma il loro ruolo muta profondamente nelle due ipotesi. Per le operazioni di minor rilevanza, si impone che «prima dell’approvazione dell’operazione, un comitato, anche appositamente costituito, composto esclusivamente da amministratori non esecutivi e non correlati [ossia diversi dalla controparte in una determinata operazione e dalle sue parti correlate], in maggioranza indipendenti, esprima un motivato parere non vincolante sull’interesse della società al compimento dell’operazione nonché sulla convenienza e sulla correttezza sostanziale delle relative condizioni». Molto più incisivo il ruolo degli amministratori indipendenti per le operazioni di maggiore rilevanza. Per queste, riservate al consiglio di amministrazione, si prevede che gli amministratori indipendenti «siano coinvolti nella fase delle trattative e nella fase istruttoria attraverso la ricezione di un flusso informativo completo e tempestivo e con la facoltà di richiedere informazioni e di formulare osservazioni agli organi delegati e ai soggetti incaricati della conduzione delle trattative o dell’istruttoria». Il consiglio può approvare l’operazione «previo motivato parere favorevole» del comitato degli amministratori indipendenti. Le procedure che la società deve darsi in materia di operazioni correlate possono tuttavia prevedere «che il consiglio di amministrazione possa approvare le operazioni di maggiore rilevanza nonostante l’avviso contrario degli amministratori indipendenti, purché il compimento di tali operazioni sia autorizzato, ai sensi dell’articolo 2364, comma 1, numero 5), del codice civile, dall’assemblea». In questa assemblea, tuttavia, possono votare solo «i soci non correlati», ossia i soci diversi dalla controparte correlata e dai soggetti alla stessa correlati, ma le suddette procedure devono prevedere che l’operazione possa essere impedita solo se la deliberazione che la impedisce sia assunta da tanti soci che rappresentino una determinata quota del capitale sociale, quota che le procedure medesime non possono prevedere in misura superiore al dieci per cento. Nell’ipotesi in cui il consiglio di amministrazione decida di effettuare l’operazione nonostante il parere contrario degli amministratori indipendenti è necessario mettere a disposizione del pubblico un documento «contenente l’indicazione della controparte, dell’oggetto e del corrispettivo delle operazioni approvate nel trimestre di riferimento in presenza di un parere negativo … nonché delle ragioni per le quali si è ritenuto di non condividere tale parere. Nel medesimo termine il parere è messo a
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disposizioni del pubblico in allegato al documento informativo o sul sito internet della società». D) Importanti sono le norme dettate per il consiglio di amministrazione delle società quotate dalla legge n. 262 del 2005 che ha inserito nel T.U.F. gli artt. 147-ter, 147-quater e 147-quinquies. L’art. 147-ter impone agli statuti delle società quotate di prevedere «che i componenti del consiglio di amministrazione siano eletti sulla base di liste di candidati» e di determinare «la quota minima di partecipazione richiesta per la presentazione di esse, in misura non superiore a un quarantesimo del capitale sociale o alla diversa misura stabilita dalla Consob con regolamento tenendo conto della capitalizzazione, del flottante e degli assetti proprietari delle società quotate». E la Consob (art. 144quater del Regolamento Emittenti) ha così fissato le quote minime per la presentazione delle liste: «1. Salva la minore percentuale prevista nello statuto, la quota di partecipazione richiesta per la presentazione delle liste dei candidati per l’elezione del consiglio di amministrazione ai sensi dell’articolo 147-ter del Testo Unico: a) è pari allo 0,5% del capitale sociale per le società la cui capitalizzazione di mercato e maggiore di euro quindici miliardi; b) è pari all’1% del capitale sociale per le società la cui capitalizzazione di mercato è maggiore di euro un miliardo e inferiore o uguale a euro quindici miliardi; c) è pari al 2,5% del capitale sociale per le società la cui capitalizzazione di mercato è inferiore o uguale ad euro un miliardo. 2. Salva la minore percentuale prevista nello statuto, la quota di partecipazione è pari al 4,5% del capitale sociale per le società la cui capitalizzazione di mercato è inferiore o uguale a euro trecentosettantacinque milioni ove, alla data di chiusura dell’esercizio, ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni: il flottante sia superiore al 25% e non vi sia un socio o più soci aderenti ad un patto parasociale previsto dall’articolo 122 del Testo Unico che dispongano della maggioranza dei diritti di voto esercitabili nelle deliberazioni assembleari che hanno ad oggetto la nomina dei componenti degli organi di amministrazione. Ove non ricorrano le suddette condizioni, salva la minore percentuale prevista nello statuto, la quota di partecipazione è pari al 2,5% del capitale sociale». Per le società cooperative la quota di partecipazione è pari allo 0,5% del capitale sociale. L’art. 147-ter, 3° comma del T.U.F., aggiunge che «almeno uno dei
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componenti del consiglio di amministrazione è espresso dalla lista di minoranza, che abbia ottenuto il maggior numero di voti e non sia collegata in alcun modo, neppure indirettamente, con i soci che hanno presentato o votato la lista risultata prima per numero di voti». Si è così introdotto un sistema che consente alle minoranze di esprimere, oltre che una parte dei sindaci, anche uno o più componenti del consiglio di amministrazione. La norma pretende che la minoranza, per poter nominare un amministratore, sia «consistente»; il che evita certamente che una minoranza «infima» e di disturbo acquisisca tale potere. È bene, per altro, sottolineare che quando la minoranza «consistente» è rappresentata dal mercato (ossia dai gestori del risparmio diffuso) la tutela dell’interesse generale degli azionisti pare più efficace di quanto lo possa essere se la minoranza è rappresentata da un azionista o da un gruppo soltanto di soci, magari uniti da un patto parasociale. Lo stesso art. 147-ter stabilisce poi che almeno uno dei componenti del Consiglio di amministrazione ovvero due se il Consiglio di amministrazione sia composto da più di sette componenti devono possedere i requisiti di indipendenza [previsti per i sindaci]», nonché, se lo statuto lo prevede, «gli ulteriori requisiti previsti da codici di comportamento redatti da società di gestione di mercati regolamentati o da associazioni di categoria». Appare qui evidente la non coincidenza fra le nozioni di amministratore nominato dalla minoranza e amministratore indipendente, essendo l’indipendenza una qualità, legislativamente o convenzionalmente fissata, che può essere posseduta anche dagli amministratori nominati dal socio di maggioranza. Infine, a norma dell’art. 147-quinquies, gli amministratori devono possedere i requisiti di onorabilità stabiliti per i sindaci. Le norme appena illustrate pongono in evidenza l’intento del legislatore di favorire una gestione delle società quotate possibilmente attenta all’interesse della massima parte, se non di tutti gli azionisti. Ma la legge n. 262 del 2005 che ha operato tali, tutto sommato positivi, interventi, aveva dettato anche una norma che rischiava di vanificare lo scopo con gli stessi perseguito, ma soprattutto di rendere opaca, anche sotto molti altri profili, la conduzione della società. Essa, infatti, aveva stabilito che «per le elezioni alle cariche sociali le votazioni [avrebbero dovuto] sempre svolgersi con scrutinio segreto». Sono ben note le ragioni che hanno da sempre spinto dottrina e giurisprudenza a considerare con molto sospetto, quando non le hanno ritenute nulle, le clausole che prevedono il voto segreto, anche con riferimento alla nomina dei componenti gli organi di amministrazione e di controllo.
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La necessaria segretezza del voto, sostenuta sull’assunto che solo la stessa consentirebbe la libertà di espressione della volontà dei soci, era in aperto contrasto con le norme che disciplinano il conflitto d’interesse in cui versi il socio, la legittimazione ad impugnare le deliberazioni assembleari, la necessaria trasparenza dei patti parasociali ed anche l’adozione del voto di lista previsto dalla stessa legge n. 262 del 2005. Qualche escamotage per evitare gli effetti devastanti di questa norma era stato suggerito (come le dichiarazioni in assemblea e la conservazione dei risultati dello scrutinio presso un terzo indipendente e la loro utilizzazione in caso di controversie), ma parve subito che l’unica soluzione trasparente e sicura fosse costituita dall’abrogazione della norma, considerata da tutti «un incidente di percorso». Ed effettivamente il D.Lgs. n. 303 del 2006, «correttivo» della legge n. 262 del 2005, ha provveduto alla sua abrogazione. E) A norma del comma 1°-ter dell’art. 147-ter lo statuto delle società quotate deve, inoltre, prevedere «che il riparto degli amministratori da eleggere sia effettuato in base a un criterio che assicuri l’equilibrio tra i generi. Il genere meno rappresentato deve ottenere almeno un terzo degli amministratori eletti». Di fatto, come è noto, la norma garantisce la presenza della «quota rosa» nei consigli di amministrazione delle società quotate. F) La legge n. 262 del 2005 ha imposto «obblighi di informazione al mercato in materia di attribuzioni di strumenti finanziari a esponenti aziendali, dipendenti o collaboratori», come recita la rubrica del nuovo art. 114-bis T.U. Il legislatore ha così affrontato il problema delle «stock option» che costituiscono una parte molto importante della remunerazione degli organi delegati e dei vertici della tecnostruttura delle società quotate o comunque diffuse. I piani di stock option (che differiscono dalle stock grant costituite da una forma di pura e semplice remunerazione monetaria ancorata al valore delle azioni) consentono, ricorrendo certi presupposti, normalmente ancorati ai risultati aziendali e alle quotazioni raggiunte sul mercato regolamentato, ai vertici della società di acquistare le azioni ad un prezzo predeterminato, imponendo alla società di procurarle agli aventi diritto. A norma del nuovo art. 114-bis «i piani di compensi basati su strumenti finanziari a favore di componenti del consiglio di amministrazione ovvero del consiglio di gestione, di dipendenti o di collaboratori non legati alla società da rapporti di lavoro subordinato, ovvero di compo-
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nenti del consiglio di amministrazione ovvero del consiglio di gestione, di dipendenti o di collaboratori di altre società controllanti o controllate sono approvati dall’assemblea ordinaria dei soci». E, almeno quindici giorni prima della loro «esecuzione», i «piani» di stock option debbono essere comunicati alla Consob e alla società di gestione del mercato che li mette a disposizione del pubblico. L’art. 16 della legge n. 262 del 2005 aveva attribuito alla Consob il compito non solo di fissare le regole di trasparenza alle quali debbono uniformarsi i predetti piani, ma anche di stabilire «cautele volte ad evitare che [gli stessi] inducano comportamenti contrastanti con l’interesse della società, anche disciplinando i criteri per la fissazione del prezzo delle azioni e degli altri strumenti finanziari, le modalità e i termini per l’esercizio dei diritti che essi attribuiscono, i limiti alla loro circolazione». Disposizione, quest’ultima, che fotografava i pericoli insiti nella prassi delle stock option; prassi che non solo può assicurare remunerazioni non giustificabili ma anche, e soprattutto, può indurre gli amministratori a scelte imprenditoriali lesive degli interessi degli azionisti ma indispensabili per raggiungere ad es.: in un certo momento le quotazioni di mercato delle azioni dell’emittente che consentono l’esercizio dell’opzione. Ed è al «gioco» delle stock option che viene addebitata, almeno in parte, la c.d. «miopia» che caratterizzerebbe i mercati americani. Quella norma è stata abrogata dal D.Lgs. n. 303 del 2006 che l’ha sostituito con due disposizioni importanti: una relativa all’organo della società che deve approvare i piani dei compensi e l’altra che concerne la pubblicità cui gli stessi sono sottoposti. L’art. 114-bis, 1° comma del T.U.F. stabilisce che «i piani di compensi basati su strumenti finanziari a favore di componenti del consiglio di amministrazione ovvero del consiglio di gestione, di dipendenti o di collaboratori non legati alla società da rapporti di lavoro subordinato, ovvero di componenti del consiglio di amministrazione ovvero del consiglio di gestione, di dipendenti o di collaboratori di altre società controllanti o controllate sono approvati dall’assemblea ordinaria dei soci». E, a norma dello stesso art. 114-bis, l’emittente mette a disposizione del pubblico una relazione nella quale si illustrano le ragioni che motivano il piano, i soggetti che beneficiano del piano, le modalità di attuazione del piano, i vincoli sulle azioni e i criteri per la determinazione del prezzo per la loro sottoscrizione.
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6.3.1.1. Il collegio sindacale La riforma del diritto societario non ha modificato il ruolo che il Testo Unico aveva attribuito al collegio sindacale e, in particolare, ha conservato in vigore le norme che quest’ultimo aveva dettato allo scopo di rafforzarne la capacità di «costringere» gli amministratori, le strutture aziendali e, in definitiva, anche l’assemblea dei soci a tenere comportamenti esclusivamente ed efficacemente proiettati al perseguimento dell’interesse sociale. Il ruolo del collegio sindacale nelle società quotate è, quindi, delineato tuttora in termini, almeno formalmente, diversi da quelli nei quali viene definito dal diritto comune. E la «specialità» della disciplina del collegio sindacale delle società quotate è stata conservata ed anzi accentuata dalla legge n. 262 del 2005, che ha introdotto alcune modificazioni ed integrazioni del T.U. allo scopo di rafforzare l’indipendenza dei sindaci e i loro poteri di intervento sulla gestione. È bene, per altro, aggiungere che le norme del Testo Unico, sia nel dettato originario sia in quello introdotto dalla legge n. 262 del 2005, non attribuivano e non attribuiscono al collegio sindacale un controllo di opportunità sulla gestione, non ne facevano e non ne fanno un organo in qualche modo assimilabile al consiglio di sorveglianza previsto dall’ordinamento tedesco. Né le sue funzioni erano sovrapponibili con quelle della vigilanza «sul generale andamento della gestione» che incombeva sugli amministratori, ai sensi dell’art. 2392 c.c. nel testo vigente prima della riforma. Il collegio sindacale, anche nelle società quotate, svolge, se si vuol continuare ad utilizzare una terminologia tanto invalsa quanto equivoca, un controllo di legittimità e non un controllo di merito. Si potrebbe anche dire che, in fondo, sotto il profilo delle funzioni, il Testo Unico non aveva fatto altro che rendere esplicito ciò che già prevedeva la norma di diritto comune: vigilare sull’osservanza della legge e dello statuto (art. 2403 c.c.). Conclusione, questa, non posta in dubbio dalla legge n. 262 del 2005, che modificando l’art. 2393 c.c., ha attribuito al collegio sindacale, previa delibera «assunta con la maggioranza dei due terzi dei suoi componenti», la legittimazione a promuovere l’azione sociale di responsabilità nei confronti degli amministratori; azione di responsabilità la cui promozione postula il convincimento che gli amministratori abbiano tenuto comportamenti illegittimi. Il collegio sindacale continua così ad essere un organo che opera nell’interesse dei soci e, sotto questo profilo, lo stesso è custode del rispetto dell’interesse sociale da parte, soprattutto, degli amministratori. Il che rimane vero anche se il collegio deve comunicare senza indugio alla Con-
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sob le irregolarità riscontrate nell’attività di vigilanza: questo dovere non fa del collegio sindacale un organo deputato a perseguire gli interessi propri dell’attività di vigilanza della Consob e, tanto meno, un soggetto incaricato, da quest’ultima, di svolgere una frazione di tale attività. A suo carico esiste soltanto un dovere di informazione nei confronti dell’autorità di vigilanza. Le linee di politica legislativa seguite dal Testo Unico nella riforma del collegio sindacale possono così riassumersi. Il legislatore: a) ha cercato di favorirne l’indipendenza, nei confronti dei gruppi di controllo, e l’efficienza operativa; b) ne ha esplicitato le funzioni attraverso una puntuale indicazione dei doveri; c) ne ha notevolmente rafforzato i poteri di informazione nei confronti degli altri organi sociali e nei confronti della struttura aziendale, nonché di convocazione dei predetti organi e di avvio del controllo giudiziario; d) nel contempo lo ha liberato dall’obbligo, previsto dal codice civile, del controllo contabile e di assicurare la corrispondenza del bilancio alle scritture contabili; controllo definitivamente e compiutamente attribuito alle società di revisione. A) Il Testo Unico, già nel dettato del 1998, aveva modificato la disciplina di diritto comune dettata dal codice civile per la composizione del collegio sindacale ed aveva, in particolare, attribuito un ruolo decisivo all’autonomia statutaria. Questo il tenore letterale dell’art. 148, allora adottato: «l’atto costitutivo della società stabilisce per il collegio sindacale: a) il numero, non inferiore a tre, dei membri effettivi; b) il numero, non inferiore a due, dei membri supplenti; c) criteri e modalità per la nomina del presidente; d) limiti al cumulo degli incarichi» e, a norma del 2° comma dello stesso articolo, «l’atto costitutivo contiene le clausole necessarie ad assicurare che un membro effettivo sia eletto dalla minoranza. Se il collegio è formato da più di tre membri, il numero dei membri effettivi eletti dalla minoranza non può essere inferiore a due». Come si può notare, il Testo Unico rimetteva allo statuto la determinazione del numero dei sindaci, limitandosi a fissarne uno minimo, mentre il codice civile fissava in tre o cinque il loro numero (art. 2397 c.c.); rimetteva allo statuto anche il criterio di nomina del presidente del collegio che il codice civile riservava all’assemblea (art. 2398 c.c.); imponeva allo statuto di fissare il limite al cumulo degli incarichi, introducendo una norma sconosciuta al diritto comune, così come era sconosciuta la necessaria previsione statutaria
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di un meccanismo che assicurasse alle minoranze il potere di eleggere almeno un sindaco (se i componenti del collegio erano tre) e almeno due sindaci (se il collegio era formato da più di tre membri). Il Testo Unico aveva così consentito alle società di modulare, nel rispetto di alcuni vincoli inderogabili, sia il numero dei sindaci sia i criteri di nomina del presidente, secondo le caratteristiche della società, ma nello stesso tempo aveva imposto di adottare norme statutarie che consentissero al collegio una maggiore indipendenza attraverso la elezione di una parte dei componenti ad opera della minoranza. Pare che l’esperienza avesse dimostrato che, in particolare per quanto concerne la nomina dei sindaci da parte della minoranza e il limite al cumulo degli incarichi, l’autonomia statutaria non avesse raggiunto gli obiettivi perseguiti dal legislatore e così la riforma del 2005 (legge 28 dicembre 2005, n. 262) ha introdotto norme inderogabili su alcuni di questi momenti (attribuendo alla Consob un «singolare» potere di ingerirsi nell’organizzazione della società). Così, mentre ha conservato allo statuto l’individuazione del numero dei sindaci (un numero non inferiore a tre), ha attribuito alla Consob il potere di stabilire «con regolamento le modalità per l’elezione di un membro effettivo del collegio sindacale da parte dei soci di minoranza» (art. 148, 2° comma) ed ha stabilito (art. 148, comma 2°-bis) che «il presidente del collegio sindacale è nominato dall’assemblea tra i sindaci eletti dalla minoranza», vincolando così il potere dell’assemblea e, in particolare, vanificandolo quando le minoranze eleggono un solo componente del collegio sindacale. Anche in materia di limiti al cumulo degli incarichi all’autonomia statutaria è stato sostituito il potere regolamentare della Consob. A norma, infatti, del nuovo art. 148-bis del T.U. n. 58 del 1998, la Consob «con regolamento» stabilisce limiti al cumulo degli incarichi di amministrazione e di controllo che i componenti del collegio sindacale possono assumere e li stabilisce «avendo riguardo all’onerosità e alla complessità di ciascun tipo di incarico, anche in rapporto alla dimensione della società, al numero e alla dimensione delle imprese incluse nel consolidamento, nonché all’estensione e all’articolazione della sua struttura organizzativa». Inutile sottolineare l’opportunità di porre un limite al cumulo degli incarichi, ma altrettanto ovvio rilevare la delicatezza del compito così affidato a Consob, chiamata ad esprimere valutazioni sicuramente opinabili. Il Regolamento Emittenti (artt. 144-terdecies) ha individuato una serie di criteri, per fissare il «peso» complessivo che può essere sopportato dai componenti del Collegio sindacale; criteri ancorati alla delicatezza e all’impegno presumibilmente attribuibili alle varie funzioni (amministrato-
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re, componente del collegio sindacale, amministratore delegato) e anche alla dimensione dell’emittente. In particolare, ha stabilito che «non possono assumere la carica di componente dell’organo di controllo [di una società quotata] coloro i quali ricoprono la medesima carica in cinque [altre società quotate]». Il Testo Unico (art. 148, 3° comma) ha poi precisato che «non possono essere eletti sindaci e, se eletti, decadono dall’ufficio: a) coloro che si trovano nelle condizioni previste dall’art. 2382 c.c.; b) il coniuge, i parenti e gli affini entro il quarto grado degli amministratori della società, gli amministratori, il coniuge, i parenti e gli affini entro il quarto grado degli amministratori delle società da questa controllate, delle società che la controllano e di quelle sottoposte a comune controllo; c) coloro che sono legati alla società od alle società da questa controllate od alle società che la controllano od a quelle sottoposte a comune controllo ovvero agli amministratori della società e ai soggetti di cui alla lett. b), da rapporti di lavoro autonomo o subordinato ovvero da altri rapporti di natura patrimoniale o professionale che ne compromettano l’indipendenza». Anche per quanto concerne i requisiti che debbono essere posseduti dai componenti il collegio sindacale il Testo Unico ha modificato il diritto comune: quest’ultimo prevede che i sindaci debbano essere scelti tra gli iscritti nel registro dei revisori contabili istituito presso il Ministero di Grazia e Giustizia» (art. 2397 c.c.). Il Testo Unico stabilisce, invece, che i «requisiti di onorabilità e professionalità dei membri del collegio» sono fissati con Regolamento del Ministro di Grazia e Giustizia, di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze, sentite la Consob, la Banca e l’IVASS (art. 148, 4° comma); regolamento che potrà in particolare individuare i requisiti di professionalità senza identificarli con l’iscrizione nel registro dei revisori dei conti, anche in considerazione del fatto che dalle competenze del collegio sono state quasi interamente eliminate quelle di controllo della contabilità (si veda D.M. 30 marzo 2000, n. 162). La nomina e la revoca dei componenti il collegio sindacale delle società quotate continueranno ad essere disciplinate dall’art. 2400 c.c., così come l’art. 2401 continuerà a disciplinare la loro sostituzione, non essendo state quelle norme dichiarate inapplicabili dal Testo Unico. B) «Il collegio sindacale vigila: a) sull’osservanza della legge e dell’atto costitutivo; b) sul rispetto dei principi di corretta amministrazione;
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c) sull’adeguatezza della struttura organizzativa della società per gli aspetti di competenza, del sistema di controllo interno e del sistema amministrativo-contabile nonché sull’affidabilità di quest’ultimo nel rappresentare correttamente i fatti di gestione; c-bis) sulle modalità di concreta attuazione delle regole di governo societario previste da codici di comportamento redatti da società di gestione di mercati regolamentati o da associazioni di categoria, cui la società, mediante informativa al pubblico, dichiara di attenersi; d) sull’adeguatezza delle disposizioni impartite dalla società alle società controllate ai sensi dell’art. 114, comma 2» (art. 149, 1° comma, T.U. n. 58 del 1998). Il Testo Unico ha così individuato i doveri principali del collegio sindacale e, come si accennava, le funzioni allo stesso attribuite non debordano dalla nozione di controllo di legittimità, anche se il loro concreto svolgimento richiede, come è ovvio, indagini sulle circostanze di fatto la cui conoscenza e valutazione sono necessarie per espletare quel tipo di controllo. Ma sulle funzioni del collegio sindacale analiticamente indicate dal Testo Unico è forse necessaria qualche ulteriore considerazione. Non pone problemi interpretativi la norma che attribuisce, come fa il codice civile per la generalità delle società per azioni, al collegio sindacale il compito di vigilare «sull’osservanza della legge e dello statuto». Qualche problema pongono, invece, le norme che individuano le altre funzioni fondamentali del collegio. Il controllo sul rispetto dei principi di «corretta amministrazione» concerne il dovere degli amministratori di attenersi ad uno scrupoloso perseguimento dell’interesse sociale e dovrà, pertanto, mirare a verificare che gli amministratori non si lascino condizionare da interessi in conflitto con quello della società. Questo tipo di controllo postula una valutazione delle circostanze concrete nelle quali operano gli amministratori, ma l’analisi dei fatti mira ad una valutazione non della convenienza di un’operazione, bensì e soltanto, della sua legittimità. Il collegio deve anche verificare «l’adeguatezza della struttura organizzativa della società», ossia la coerenza fra l’articolazione della funzione amministrativa e della struttura aziendale con l’attività dell’impresa sociale. Ma questo controllo dovrà limitarsi agli «aspetti di competenza», ossia a verificare se le scelte organizzative siano quelle che la diligenza e la perizia dei gestori debbono approntare per l’esercizio di una particolare attività. Ancora una volta il controllo del collegio passa attraverso «l’esame di merito» della struttura d’impresa, ma tale esame non tende ad indicare quale fra le diverse strutture aziendali sia la più opportuna ma, più
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semplicemente, deve verificare se quella adottata sia adeguata alla stregua dei doveri di diligenza ai quali devono informare il loro comportamento i gestori. Ed è sulla base di questo criterio distintivo che si porranno i rapporti, di divisione del lavoro e di cooperazione, con gli eventuali comitati di controllo (audit committees) costituiti in seno al consiglio di amministrazione e deputati a svolgere attività istruttoria per consentire al consiglio di adottare, nell’ambito di una pluralità di organizzazioni aziendali tutte adeguate, quella ritenuta più opportuna. Di notevole importanza poi la vigilanza sul «sistema di controllo interno», ossia sull’attività della struttura aziendale che deve assicurare il rispetto delle regole dettate dal consiglio di amministrazione per l’attività d’impresa; un controllo del collegio che non transita attraverso il consiglio di amministrazione, ma che ha per oggetto direttamente l’attività della struttura aziendale. Ed anzi il Testo Unico si preoccupa di stabilire che «coloro che sono preposti al controllo interno riferiscono anche al collegio sindacale di propria iniziativa o su richiesta anche di uno solo dei sindaci» (art. 150, 4° comma, T.U. n. 58 del 1998). Si instaura così un rapporto diretto fra struttura aziendale e collegio sindacale. Il collegio sindacale ha anche il compito di valutare l’adeguatezza del sistema amministrativo contabile con particolare riguardo all’affidabilità dello stesso e alla sua capacità di rappresentare correttamente i fatti di gestione. È questo il punto di contatto più importante fra il controllo sulla contabilità affidato alle società di revisione e quello del collegio sindacale. Quest’ultimo non deve più verificare, a posteriori, la correttezza delle rilevazioni effettuate, ma deve accertare, ex ante, se un particolare assetto amministrativo contabile (ad es.: le procedure adottate) sia in grado di assicurare una corretta rappresentazione dei fatti di gestione: è ancora un giudizio sulla conformità delle scelte degli amministratori al canone di diligenza al quale gli stessi sono tenuti. Anche se l’esame delle «registrazioni» effettivamente operate e degli eventuali difetti delle stesse possono offrire importanti elementi di giudizio per la valutazione di competenza del collegio. Il che giustifica il dovere di reciproca informazione fra collegio sindacale e società di revisione; informazione necessaria anche in considerazione del potere-dovere, del collegio sindacale, di «fare proposte all’assemblea in ordine al bilancio e alla sua approvazione» (art. 153, 2° comma, T.U. n. 58 del 1998). E sul punto il Testo Unico ha, infatti, sentito il bisogno di stabilire che il «collegio sindacale e il revisore legale o la società di revisione legale si scambiano tempestivamente i dati e le informazioni rilevanti per l’espletamento dei rispettivi compiti» (art. 150, 3° comma).
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Di particolare rilievo sistematico è il dovere, introdotto dalla legge n. 262 del 2005, del collegio sindacale di vigilare sulle modalità di concreta attuazione delle regole di governo previste da codici di comportamento redatti da società di gestione di mercati cui la società ha dichiarato di attenersi. La violazione delle relative norme può comportare la sospensione o la esclusione dalla quotazione e può giustificare azioni risarcitorie da parte di soggetti che sul rispetto di quelle regole abbiano fatto affidamento. Le norme dei codici di comportamento assumono, quindi, un sicuro rilievo giuridico e coerente con questa premessa è l’obbligo dell’organo di controllo di vigilare